Le ragioni della filosofia. Filosofia moderna [2] 9788800204859


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Table of contents :
Autori
INDICE
PARTE PRIMA. La nascita della filosofia moderna
INTRODUZIONE. La nascita della filosofia moderna
1 La critica della tradizione
2 Ruolo della ragione e collocazione dell’uomo
Unità 1
Umanesimo
e Rinascimento
1. I caratteri dell’Umanesimo
2. Dall’Italia all’Europa: diffusione dell’Umanesimo e riforma religiosa
3. Il nuovo platonismo del Rinascimento
4. La filosofia della natura
fra magia e scienza
5. L’uomo nell’infinito: Bruno
6. La riflessione politica
Unità 2
La rivoluzione
scientifica
1. Che cos’è la rivoluzione
scientifica
2. La rivoluzione
copernicana
La rivoluzione
copernicana
3. Il compromesso
di Tycho Brahe
4. Keplero: verso una
moderna fisica dei cieli
5. Galileo e la nascita
della scienza moderna
6. Bacone e il metodo
scientifico
Unità 3
Cartesio e la nascita
della filosofia
moderna
1. «La libertà di giudicare da sé»
2. In cammino nell’Europa del Seicento
3. Un pensatore su molti fronti e l’unità del sapere
4. Costruire il mondo (e l’uomo): fisica e fisiologia
5. Idee come rappresentazioni
6. Ritrovare il fondamento
Unità 4
L’età cartesiana
1. Razionalismo cartesiano
e sapere erudito
2. In dialogo con Cartesio:
Gassendi e Arnauld
3. L’ordine metafisico:
Malebranche
4. L’ordine del cuore: Pascal
5. Critica della tradizione
e teodicea: Bayle
Unità 5
Il soggetto
e il mondo:
Spinoza
e Leibniz
1. Spinoza
2. Leibniz
Unità 6
Il soggetto
e l’esperienza:
Hobbes, Locke,
Berkeley
1. Hobbes
2. Locke
3. Berkeley
Unità 7
Il soggetto
e lo Stato:
il giusnaturalismo
moderno
e il contrattualismo
1. L’officina della modernità
2. Hobbes e la teoria
dello Stato assoluto
3. Locke e la dottrina liberale
4. L’anomalia di Spinoza
Unità 8
Newton
1. Il completamento della «rivoluzione scientifica»
2. Newton, un personaggio complesso
3. Le premesse fondamentali della scienza newtoniana
4. I Principia
Unità 9
Vico
1. L’importanza di Vico
2. Un personaggio isolato
3. Contro Cartesio
PARTE SECONDA. Il secolo dei lumi
INTRODUZIONE. L’età dei lumi
1. Una periodizzazione
2. L’ascesa della borghesia
3. La nuova diffusione della cultura
4. La scienza e la divulgazione
5. I temi filosofici
Unità 10
Hume
e l’Illuminismo in
Inghilterra e Scozia
1. La critica della religione e la scienza
della natura umana
2. Hume: limiti della ragione e scetticismo
3. La scienza della natura umana
4. La conoscenza
5. La morale
6. La critica della religione
7. Adam Smith: sentimenti morali e dinamica economica
8. Bentham e la nascita dell’utilitarismo
Unità 11
L’Illuminismo
in Francia
1. Atteggiamento critico
e diffusione dei «lumi»
2. Montesquieu
3. Voltaire
4. L’Enciclopedia: Diderot
e d’Alembert
5. Sensismo e materialismo
1. Condillac e il sensismo
2. Il materialismo: La Mettrie, Helvétius e d’Holbach
6. L’idea di progresso
Unità 12
Rousseau
1. Filosofia e autobiografia
2. Un’esistenza tormentata
3. La critica della civiltà
4. Il contratto sociale
5. Educazione, morale e religione
Unità 13
L’Illuminismo
in Italia
e in Germania
1. L’Illuminismo in Italia
2. L’Illuminismo in Germania
Unità 14 (Claudio La Rocca)
Kant
1. Kant e il suo tempo Kant e il suo tempo
2. La conoscenza e
la metafisica: la ragion pura
3. L’azione e la libertà: la ragion pratica
4. Gli scopi della natura:
la facoltà di giudizio
PARTE TERZA. L’idealismo
INTRODUZIONE. L’idealismo
1. La «terza età d’oro del pensiero occidentale»
2. Idealismo come filosofia della libertà
3. Verso il sistema
Unità 15
Fichte e la dottrina
della scienza
1. Evoluzione e ricezione della dottrina della scienza
2. L’ascesa e il declino di un ‘astro filosofico’
3. Il dibattito sul criticismo
4. Significato e caratteri della dottrina della scienza
5. Dottrina dei principi e metafisica del soggetto
6. La conoscenza
7. Etica e intersoggettività
8. La dottrina della scienza come metafisica dell’Assoluto
9. Politica e storia
Unità 16
Il Romanticismo
e Schelling
1. L'età di Goethe e il pensiero romantico
2. Schelling
Unità 17
Hegel
1. La filosofia come sistema della comprensione razionale
2. Un professore e le sue lezioni
3. Religione e filosofia: gli scritti giovanili
4. Gli scritti critici di Jena
5. La Fenomenologia dello spirito
6. Dalla fenomenologia alla logica
7. Il sistema: la logica
8. Il sistema: la filosofia della natura
9. Il sistema: la filosofia dello spirito
10. La filosofia dello spirito: lo spirito oggettivo
11. La filosofia dello spirito: lo spirito assoluto
Laboratorio sul lessico
NATURA / NATURALE (Luca Fonnesu)
DIRITTO (Sergio Filippo Magni)
DOVERE (Luca Fonnesu)
COSCIENZA / AUTOCOSCIENZA / IO (Claudio La Rocca)
Percorso tematico
Che rapporto c’è tra anima e corpo?
Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male?
Il dibattito su «teodicea» e «ottimismo» tra XVII e XVIII secolo
Che cos’è un’idea?
È legittimo resistere al potere politico?
Meccanicismo o teleologia?
Tesi a confronto
Spinoza ateo o «ebbro di Dio»: chi è il Dio di Spinoza?
In Kant la realtà è indipendente dalla mente?
Hegel: reazionario difensore dell’esistente o lucido analista dei problemi del proprio tempo?
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Le ragioni della filosofia. Filosofia moderna [2]
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29-03-2011

14:06

Q UESTO

Pagina 1

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Le Unità: il profilo di storia della filosofia con i testi da leggere I Laboratori di lettura I Percorsi tematici I Laboratori sul lessico. Filosofia e vita quotidiana Le Tesi a confronto Configurazione dell’opera 1. Filosofia antica e medievale 2. Filosofia moderna 3. Filosofia contemporanea

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LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA

Le ragioni della filosofia

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Luca Fonnesu | Mario Vegetti Elena Castellani | Claudio La Rocca | S. Filippo Magni Roberta Picardi | Elisabetta Scapparone

LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA 2 - Filosofia moderna

0 I-II Vegetti-Filosofia 2

24-01-2008

10:30

Pagina 1

Luca Fonnesu - Mario Vegetti Elena Castellani - Claudio La Rocca - S. Filippo Magni Roberta Picardi - Elisabetta Scapparone

LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA 2 Filosofia moderna

© 2008 by Mondadori Education S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati © 2008 by Mondadori Education S.p.A., Milano www.mondadorieducation.it Tutti i diritti riservati www.mondadorieducation.it

Prima edizione : febbraio 2008

Il Sistema Qualità di Mondadori Education S.p.A. è certificato da Bureau Veritas Italia S.p.A. secondo la Norma UNI EN ISO 9001:2008 per le attività di: progettazione, realizzazione di testi scolastici e universitari, stru6 5 4 menti didattici multimediali e dizionari. Il Sistema Qualità di Mondadori Education S.p.A. è certificato da Bureau Veritas Italia S.p.A. secondo la Norma UNI EN ISO 9001:2008 per le attiviEdizioni 2014 2015 2013 2012 2011 di: progettazione, realizzazione testi scolastici e universitari, struLetà fotocopie per uso personale del lettoredipossono essere effettuate nei limiti del 15% 10 9 8 7materiale 6 protetto 5 da4copyright e non può esseredicopiato, menti multimediali e dizionari. ciascundidattici volume/fascicolo ditrasferito, periodico dietro pagamento allanoleggiato, SIAE del compenso preQuesto ebook contiene riprodotto, distribuito, licenvistodi dall’art. 68, commi 4 e 5,specificamente della legge 22 aprile autorizzato 1941 n. 633. Le riproduzioni diverziato o2012 utilizzato2011 in alcun altro modo ad eccezione quanto è stato dall’editore, 2015 o trasmesso 2014 in pubblico, 2013 se da quelle sopraindicate (per uso non personale – cioè, a titolo esemplificativo, comQuesto volume è stampato Le fotocopie per uso personale dellegge lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% ai termini e alle condizioni alleda: quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla applicabile. Qualsiasi distribulimite del 15%) potranno avvenire solo merciale, economico o professionale – e/o oltre ilpagamento di ciascun volume/fascicoloelettroniche di periodico dietro alla SIAE del compenso preLTV - oLafruizione Tipografica Varese S.p.A, Varesetesto così come l’alterazione delle zione non autorizzata di questo informazioni suldaregime dei costituia seguito di specifica autorizzazione rilasciata AIDRO, Corso didiritti Porta Romana 108, visto dall’art. 68,penalmente commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941previsto n. 633. Le riproduzioni diversce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente secondo quanto dalla Legge Stampato in Italia - Printed in Italy Milano 20122,ee-mail [email protected] e sito web www.aidro.org. se da quelle sopraindicate (per uso non personale – cioè, a titolo esemplificativo, comQuesto volume è stampato da: 633/1941 e successive modifiche. merciale, economico o professionale – e/o oltre il limite del 15%) potranno avvenire solo

Edizioni Prima 2008 1 0 edizione 9 : febbraio 8 7

LTV - La Tipografica Varese S.p.A, Varese

a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana 108,

Questo non potrà ininalcun prestito, acquisto o altrimenti diffuso Stampatoebook in Italia - Printed Italy modo essere oggetto di scambio, commercio, Milano 20122, e-mailrivendita, [email protected] e sitorateale web www.aidro.org. senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

L’opera è frutto della collaborazione fra gli autori. In particolare: Luca Fonnesu, oltre alle Introduzioni alle tre parti del volume, ha curato le Unità 4 L’età cartesiana, 9 Vico, 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia, 11 L’Illuminismo in Francia, 12 Rousseau, 13 L’Illuminismo in Italia e in Germania, L’opera è frutto della collaborazione fra gli autori. In particolare: 17 Hegel, i Percorsi tematici Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male?, Che cos’è un’idea? e i Laboratori Luca Fonnesu, oltre alle Introduzioni alle tre parti del volume, ha curato le Unità 4 L’età cartesiana, 9 Vico, 10 Hume sul lessico Natura / naturale, Dovere e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia, 11 L’Illuminismo in Francia, 12 Rousseau, 13 L’Illuminismo in Italia e in Germania, Elisabetta Scapparone ha curato l’Unità 1 Umanesimo e Rinascimento 17 Hegel, i Percorsi tematici Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male?, Che cos’è un’idea? e i Laboratori Elena Castellani ha curato le Unità 2 La rivoluzione scientifica (tranne Bacone e il metodo scientifico), 8 Newton sul lessico Natura / naturale, Dovere Claudio La Rocca ha curato le Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna, 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza Elisabetta Scapparone ha curato l’Unità 1 Umanesimo e Rinascimento e Leibniz (la parte su Leibniz), 14 Kant e il Laboratorio sul lessico Coscienza / autocoscienza / io Elena Castellani ha curato le Unità 2 La rivoluzione scientifica (tranne Bacone e il metodo scientifico), 8 Newton Roberta Picardi ha curato le Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz (la parte su Spinoza), 6 Il soggetto Claudio La Rocca ha curato le Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna, 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley, 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo, e Leibniz (la parte su Leibniz), 14 Kant e il Laboratorio sul lessico Coscienza / autocoscienza / io 15 Fichte e la dottrina della scienza, 16 Il Romanticismo e Schelling e i Percorsi tematici Che rapporto c’è tra anima Roberta Picardi ha curato le Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz (la parte su Spinoza), 6 Il soggetto e corpo?, È legittimo resistere al potere politico?, Meccanicismo o teleologia? e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley, 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo, S. Filippo Magni ha curato l’Unità 2 La rivoluzione scientifica (la parte su Bacone e il metodo scientifico) e il Laboratorio 15 Fichte e la dottrina della scienza, 16 Il Romanticismo e Schelling e i Percorsi tematici Che rapporto c’è tra anima sul lessico Diritto e corpo?, È legittimo resistere al potere politico?, Meccanicismo o teleologia? S. Filippo Magni ha curato l’Unità 2 La rivoluzione scientifica (la parte su Bacone e il metodo scientifico) e il Laboratorio Redazione Andrea Bencini, Elisabetta Zappia, Polaris Studio redazionale (Firenze) sul lessico Diritto Impaginazione Polaris Studio redazionale (Firenze) Progetto grafico Alfredo La Posta Redazione Andrea Bencini, Elisabetta Zappia, Polaris Studio redazionale (Firenze) Copertina Walter Sardonini/SocialDesign (Firenze) Impaginazione Polaris Studio redazionale (Firenze) Ricerca iconografica Alberto Mori Progetto grafico Alfredo La Posta In copertina Piero Francesca, Madonna del Duca Federico (particolare) Copertina Walterdella Sardonini/SocialDesign (Firenze) Milano, Pinacoteca di Brera - © 1990 Foto Scala (Firenze). Ricerca iconografica Alberto Mori Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali In copertina Piero della Francesca, Madonna del Duca Federico (particolare) Milano, Pinacoteca di Brera - © 1990 Foto Scala (Firenze). Revisione testi Su concessione del Annalia MinisteroCelli, per Luciana i Beni e Ceri, le Attività Culturali e apparati didattici Alessandro Becchi, Francesco Cirri Revisione testi e apparati didattici

Alessandro Becchi, Annalia Celli, Luciana Ceri, Francesco Cirri Per eventuali e comunque non volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità.

Per informazioni e segnalazioni: Per eventuali e comunque volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità. Servizio Clienti Mondadorinon Education e-mail [email protected] Per informazioni numero verde 800e segnalazioni: 123 931 Servizio Clienti Mondadori Education e-mail [email protected] numero verde 800 123 931

000 romane vol 2 18_01_08

22-01-2008

10:08

Pagina III

Indice 5. L’uomo nell’infinito: Bruno

Parte prima

La nascita della filosofia moderna

T9 L’uomo nell’infinito (p. 49); T10 La ‘rivelazione’ dell’universo infinito (p. 49)

La nascita della filosofia moderna . . . . . . . . . .

5

2. L’ontologia: materia, anima, vicissitudine . . . . . . . 3. L’etica: la critica dell’ozio e l’esperienza del furore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1. La critica della tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Ruolo della ragione e collocazione dell’uomo . . .

6 7

T11 Divina magia degli egizi, stolta idolatria dei cristiani (p. 53); T12 Caratteri del «furore eroico» (p. 54)

La parola al critico: I caratteri della filosofia moderna secondo Cassirer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

9

4. La religione: dalla «nova filosofia» alla riforma del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Introduzione



46 47

......................

1. La cosmologia: universo infinito e infiniti mondi . .

49 52

55

6. La riflessione politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Unità 1

Umanesimo e Rinascimento . . . . . . . . . . . . . . . . .

13

1. I caratteri dell’Umanesimo

14 14 15

......................

1. Il ritorno degli antichi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Una nuova figura di intellettuale . . . . . . . . . . . . . . . 3. Impegno civile e dignità dell’uomo: Pico della Mirandola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

16

T1 La natura dell’uomo è la libertà (p. 17)

2. Dall’Italia all’Europa: diffusione dell’Umanesimo e riforma religiosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Filosofia cristiana e umori critici: Erasmo . . . . . . .

18 19

2. La politica fra «discrezione» e analisi del «particulare»: Guicciardini . . . . . . . . . . . . . . . .

60

T15 Il potere della fortuna (p. 61); T16 L’arte della discrezione (p. 61); T17 Complessità della nozione di interesse proprio (p. 61)

62

Sommario (p. 66), Parole chiave (p. 67), Questionario (p. 68)

Unità 2 20 25

T3 Montaigne si presenta ai suoi lettori (p. 25); T4 Diversità e varietà della natura (p. 26); T5 La barbarie degli europei (p. 27) ...........

1. Platone e Aristotele dopo il Medioevo . . . . . . . . . . 2. Fra Ermete e Platone: la «teologia platonica» di Ficino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Fra Platone e Aristotele: la pax philosophica di Pico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Fra neoplatonismo e tradizione mistica: la «dotta ignoranza» di Cusano . . . . . . . . . . . . . . . .

4. La filosofia della natura fra magia e scienza

La rivoluzione scientifica

....................

69

1. Che cos’è la rivoluzione scientifica . . . . . . . . . . . . . . 2. La rivoluzione copernicana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

70 72 73

1. Il moto della Terra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28 28

T1 L’ipotesi del moto della Terra è coerente con i dati osservativi (p. 73)

29

2. Il sistema tolemaico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Il sistema copernicano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

31

T2 Contro l’uso degli eccentrici (p. 77); T3 Il Sole al centro (p. 78); T4 Tesi principali della teoria di Copernico (p. 78)

33

T6 Intelletto e verità (p. 34); T7 Origine e caratteri delle congetture (p. 35); T8 L’uomo come microcosmo (p. 37)

1. 2. 3. 4.

T13 La fortuna varia con il tempo (p. 58); T14 Verità effettuale della politica (p. 59)

3. Il reale e l’immaginario: le ‘città ideali’ di Moro e Campanella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

T2 La follia della croce (p. 19)

2. La crisi religiosa: Riforma protestante e Controriforma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Una ragione non dogmatica: Montaigne . . . . . . . . .

3. Il nuovo platonismo del Rinascimento

56 1. La lezione degli antichi e l’esperienza dei moderni: Machiavelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57

4. La disputa sul De revolutionibus . . . . . . . . . . . . . . .

......

38 38 40 42 45

78

T5 Le ragioni di Copernico (p. 79)

3. Il compromesso di Tycho Brahe

Il naturalismo aristotelico: Pomponazzi . . . . . . . . . Il naturalismo antiaristotelico: Telesio . . . . . . . . . . Un nuovo sistema filosofico: Campanella . . . . . . . . La magia e la scienza moderna . . . . . . . . . . . . . . . .

74 77

81

.................

T6 L’osservazione delle comete contro la realtà delle sfere celesti (p. 82); T7 Il moto dei pianeti intorno al Sole (p. 85)

4. Keplero: verso una moderna fisica dei cieli . . . . . . .

86 86

1. Il Mysterium cosmographicum . . . . . . . . . . . . . . . . . T8 Sei cieli per cinque solidi regolari (p. 88)

III

000 romane vol 2 18_01_08

22-01-2008

10:08

Pagina IV

Indice

2. La «nuova astronomia» e le prime due leggi . . . . .

90

3. L’«Armonia del mondo» e la terza legge . . . . . . . . 4. La fortuna di Keplero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

5. Galileo e la nascita della scienza moderna

.......

1. Il Sidereus Nuncius . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

T1 Cercare da solo le ragioni degli altri (p. 137)

2. In cammino nell’Europa del Seicento . . . . . . . . . . . 139 3. Un pensatore su molti fronti e l’unità del sapere . . 141

T9 Dalle orbite circolari alle orbite ellittiche (p. 90); T10 La «facoltà magnetica» è la causa fisica del moto dei pianeti (p. 91)

91 93 94 94

T2 L’albero della conoscenza (p. 142); T3 Rapporti e proporzioni (p. 144); T4 Una logica generale della conoscenza (p. 145); T5 L’unità del metodo (p. 145); T6 Il dominio sulla natura (p. 146)

4. Costruire il mondo (e l’uomo): fisica e fisiologia . . 146

T11 L’esperienza sensibile dei corpi celesti (p. 95); T12 L’osservazione sostiene la teoria copernicana (p. 96)

2. Lo studio sperimentale e matematico dei moti terreni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 3. La teoria della conoscenza del Saggiatore . . . . . . . 100 T13 Distinzione tra le qualità oggettive e le qualità soggettive (p. 101); T14 L’Universo è un libro scritto in caratteri matematici (p. 102)

T7 L’origine del mondo (p. 147); T8 L’uomo come sistema meccanico (p. 151)

5. Idee come rappresentazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 T9 Il meccanismo della rappresentazione (p. 154); T10 La distinzione tra idee e immagini mentali (p. 155)

6. Ritrovare il fondamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 156

4. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, la condanna, l’abiura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103 T15 Contro il principio dell’autorità (p. 104); T16 L’abiura di Galileo (p. 105)

6. Bacone e il metodo scientifico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 106 1. Gli errori della tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 T17 La magia tradisce l’esperienza (p. 107); T18 Accusa alla filosofia contemplativa (p. 108)

T11 Certezza e verità assoluta (p. 156); T12 La chiarezza e la distinzione (p. 159); T13 Ricominciare dalle fondamenta (p. 160); T14 Dal dubbio alla certezza di esistere (p. 161); T15 Scienza e conoscenza interiore (p. 163); T16 Il cogito e l’evidenza (p. 163); T17 La prova ontologica (p. 166); T18 Io e il mio corpo (p. 170); T19 L’azione del corpo sull’anima (p. 171); T20 Non esiste un luogo dell’anima (p. 172); T21 Il controllo delle passioni (p. 174) Sommario (p. 177), Parole chiave (p. 178), Questionario (p. 179)

2. La teoria degli «idoli» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108 T19 Gli «idoli» condizionano anche chi ha accesso alla verità (p. 109); T20 I quattro tipi di «idoli» (p. 109)

3. Il metodo della scienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111 T21 Critica dell’uso del sillogismo (p. 111); T22 L’enumerazione semplice (p. 111); T23 I tre passaggi del metodo induttivo (p. 112); T24 La tavola della presenza (p. 113); T25 Interpretare per andare oltre le tre tavole (p. 113); T26 L’esperimento cruciale (p. 114)

Laboratorio di lettura: Le Meditazioni metafisiche . . . . . . 180 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185 Percorso tematico • Che rapporto c’è tra anima e corpo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187 Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 199

Unità 4

L’età cartesiana

4. La conoscenza delle forme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 T27 Api, ragni e formiche: la scienza oltre l’empirismo e il dogmatismo (p. 114); T28 Conoscenza della causa formale e principi della trasformazione dei corpi (p. 116)

5. Scienza e tecnica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116 T29 Il rapporto dell’uomo con la natura e l’importanza degli strumenti (p. 117); T30 Gli strumenti tecnici immaginati da Bacone (p. 117)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201

1. Razionalismo cartesiano e sapere erudito

. . . . . . . . 202 1. Il dibattito sulla filosofia cartesiana . . . . . . . . . . . . 202 2. L’erudizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203 3. Gli antichi, i moderni, la tradizione . . . . . . . . . . . . 205

2. In dialogo con Cartesio: Gassendi e Arnauld

. . . . . 206 1. Gassendi: atomismo ed empirismo . . . . . . . . . . . . . 206 2. Arnauld: razionalismo e difesa della religione . . . 208

T1 Il dubbio e la certezza in Agostino (p. 209)

Sommario (p. 119), Parole chiave (p. 120), Questionario (p. 121)

3. L’ordine metafisico: Malebranche

Laboratorio di lettura: Galileo, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 122 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129

. . . . . . . . . . . . . . . . 210 1. La teoria delle idee e l’occasionalismo . . . . . . . . . . 211 2. La critica dell’erudizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212

T2 La superiorità di Cartesio su Aristotele (p. 212)

3. Il rapporto tra fede e ragione . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212

LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Natura / naturale . . . 131 Esercitiamoci sulla natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 134

4. L’ordine del cuore: Pascal . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 214

Unità 3

Cartesio e la nascita della filosofia moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1. Pascal e la scienza moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215 2. I limiti della ragione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 216 135

1. «La libertà di giudicare da sé» . . . . . . . . . . . . . . . . 136

IV

T3 La fede e l’evidenza razionale (p. 212)

4. L’agire divino: la metafisica dell’ordine e la semplicità delle vie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 213 5. Il problema del male . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 213

T4 L’amor proprio (p. 217)

3. La ragione e il cuore: geometria e finezza . . . . . . . 217

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4. La duplicità dell’uomo: grandezza e miseria . . . . . 218 T5 L’uomo è una canna che pensa (p. 218); T6 La morte e il divertimento (p. 219)

5. Il dio nascosto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 6. La scommessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 220 7. La morale e la polemica con i gesuiti . . . . . . . . . . . 220

5. Critica della tradizione e teodicea: Bayle . . . . . . . . . 222 1. La critica della superstizione e dell’idolatria . . . . 223 T7 L’ateo superiore all’idolatra (p. 223); T8 I costumi di una società senza religione (p. 224)

2. La tolleranza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224 3. Il problema del male e la critica della teodicea . . 225 T9 La realtà del male (p. 225)

5. Sostanza e mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285 T33 La sostanza come essere completo (p. 286); T34 La sostanza come specchio dell’universo (p. 287); T35 La forza (p. 288); T36 I punti metafisici di sostanza (p. 289); T37 Un principio vitale (p. 290); T38 L’animale come struttura complessa (p. 290); T39 L’autonomia della spiegazione meccanicistica (p. 292)

6. Il finalismo, Dio e i possibili, la libertà . . . . . . . . . 294 T40 Il limite della spiegazione meccanicistica (p. 294); T41 Progetto e strumenti (p. 295); T42 La scelta di Dio (p. 296); T43 L’origine del male metafisico (p. 298)

Sommario (p. 228), Parole chiave (p. 229), Questionario (p. 230)

Unità 5

Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

T27 Le idee nell’intelletto divino (p. 277); T28 I caratteri e il calcolo (p. 279); T29 I benefici della caratteristica universale (p. 280); T30 Verità di ragione e verità di fatto (p. 282); T31 L’individuo racchiude infiniti fatti (p. 283); T32 Nulla è senza una ragione (p. 284)

Sommario (p. 302), Parole chiave (p. 303), Questionario (p. 304)

231

Laboratorio di lettura: Spinoza, Etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 305 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 312

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 232 1. Lo ‘scandalo’ dello spinozismo . . . . . . . . . . . . . . . . . 232 2. Una vita ‘per la verità’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 233

Tesi a confronto Spinoza ateo o «ebbro di Dio»: chi è il Dio di Spinoza? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 313

1. Spinoza

T1 La libera ricerca come valore supremo (p. 235)

3. Il Dio-Natura dimostrato con «metodo geometrico» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 235 T2 Le definizioni di sostanza, attributo, modo (p. 236); T3 Legge necessaria della natura divina (p. 239); T4 La libertà vera e la libertà fittizia (p. 239); T5 La libera potenza di Dio (p. 240); T6 L’ordine necessario delle cose (p. 241); T7 L’equivocità del nostro parlare di Dio (p. 243)

4. Antropologia e morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243 T8 Il carattere illusorio della libertà di scelta (p. 245); T9 La natura necessaria di tutti gli affetti (p. 248); T10 La regola di vita del saggio (p. 250); T11 La conquista della serenità (p. 252); T12 «Nulla è più utile all’uomo degli altri uomini» (p. 253)

5. La teoria della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 254 T13 Le forme della conoscenza (p. 254); T14 La conoscenza immaginativa è in sé positiva (p. 257)

6. La critica della religione rivelata . . . . . . . . . . . . . . 259 T15 La difficile via della saggezza (p. 259); T16 La credulità umana è figlia della paura (p. 259); T17 L’origine delle lotte di religione (p. 260); T18 Lo scontro sulla interpretazione delle Scritture (p. 261); T19 Studio della Scrittura e studio della natura (p. 262); T20 La fede e la libertà di filosofare (p. 263); T21 Elogio dell’uomo virtuoso e saggio (p. 265); T22 Il miracolo nasce dall’ignoranza delle leggi naturali (p. 265)

2. Leibniz

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267 1. L’ultima armonia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267 2. Un genio universale tra teoria e prassi . . . . . . . . . . 268

T23 Il progresso dell’umanità (p. 270)

3. Anime come specchi: la rappresentazione del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271 T24 Il mulino (p. 271); T25 L’espressione (p. 273); T26 Segni come gettoni in luogo di denaro (p. 276)

4. La logica e i suoi presupposti metafisici . . . . . . . . 276

Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 320

Percorso tematico • Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male?

. . . . . . . . . . . . . 321

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 333

Unità 6

Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

335

1. Hobbes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 336 1. Dalla nuova scienza a una nuova politica . . . . . . . 336 2. L’umanista, il filosofo e l’eretico . . . . . . . . . . . . . . . 337 3. Il monismo materialistico hobbesiano . . . . . . . . . . 339 T1 Corpi in movimento l’unica realtà (p. 340); T2 Il corpo è l’unica sostanza (p. 341); T3 La negazione della sostanza pensante (p. 342); T4 La corporeità di Dio (p. 343)

4. La teoria della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 345 T5 Le cause della sensazione (p. 345); T6 I limiti della conoscenza sensibile (p. 347); T7 Non vi è nulla di universale al di fuori dei nomi (p. 348); T8 I nomi nascono dall’arbitrio (p. 349); T9 Ragionare è calcolare (p. 350); T10 Dimostrazioni a priori e dimostrazioni a posteriori (p. 353)

5. Antropologia e morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 354 T11 La genesi dell’appetito e dell’avversione (p. 354); T12 L’uomo desidera senza sosta (p. 354); T13 La critica della libertà di scelta (p. 355); T14 Bene e male: concetti relativi (p. 357); T15 La diversità di giudizi etici causa conflitti (p. 357)

2. Locke

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 358 1. Tra empirismo e razionalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . 358

T16 La genesi del Saggio sull’intelletto umano (p. 359)

2. Un filosofo nel mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 359 3. La teoria delle idee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 362 T17 L’innatismo come ostacolo al libero uso della ragione (p.

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362); T18 Nessun principio ottiene un assenso universale effettivo (p. 364); T19 Sensazione e riflessione sono la fonte di tutte le idee (p. 365); T20 Le idee di sostanza sono oscure e confuse (p. 369); T21 I confini dei nostri pensieri (p. 371); T22 Gli universali riguardano solo idee e parole (p. 372)

T7 L’erede di Adamo è sconosciuto (p. 431)

2. Privilegi e difetti dello stato di natura . . . . . . . . . . 432 T8 Lo stato di natura non coincide con lo stato di guerra (p. 433)

3. La genesi del potere politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . 434

4. Le forme del sapere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 373 T23 Il problema della realtà della conoscenza (p. 375); T24 I limiti angusti della conoscenza certa (p. 376); T25 Il crepuscolo del probabile e la sua utilità (p. 377); T26 La fede non può essere contraria alla ragione (p. 379)

4. I tratti distintivi della dottrina liberale . . . . . . . . . . 437 T11 La critica dell’assolutismo (p. 438); T12 La gerarchia dei poteri dello Stato e il diritto di resistenza (p. 439)

5. Religione e tolleranza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 379 T27 La legge di natura e i precetti morali del Vangelo (p. 380); T28 La fede opera attraverso l’amore, non con la forza (p. 381); T29 La controversia tra le Chiese è irresolubile (p. 381); T30 La coazione non può produrre una conversione interiore (p. 382); T31 La cura delle anime non spetta allo Stato (p. 382); T32 Non è lecito colpire i beni civili per motivi religiosi (p. 383)

3. Berkeley

...................................... 1. Un illuminismo cristiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Un ecclesiastico attivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Immaterialismo e antiastrattismo . . . . . . . . . . . . . . .

T14 Il patto non può avere alcuna forza se non per la sua utilità (p. 443)

384 384 384 386

T37 Le cose che esistono in natura non sono chimere (p. 394)

5. L’apologia della tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 395 Sommario (p. 398), Parole chiave (p. 399), Questionario (p. 400) . . . . . . . . . . . . . 401

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 411

Unità 7 413

1. L’officina della modernità

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 414 1. Lo stato di natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 415

2. Hobbes e la teoria dello Stato assoluto

. . . . . . . . . . . 418 1. L’ideale di una scienza politica dimostrativa . . . . . 418

T1 I dogmi biformi dei filosofi morali (p. 419)

2. Lo stato di natura come «guerra di tutti contro tutti» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 419 T2 L’uomo non è un animale sociale (p. 421); T3 Alcune differenze tra gli uomini e le formiche (p. 421)

3. Il diritto di natura e le leggi di natura . . . . . . . . . . 422 T4 Il rapporto tra diritto naturale e leggi di natura (p. 423)

4. Il patto d’unione e la rappresentanza politica . . . . 425 T5 La generazione dello Stato (p. 426)

5. La sovranità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 427 T6 Il sovrano è il vicereggente di Dio sulla terra (p. 429)

3. Locke e la dottrina liberale

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 430 1. Contro il diritto divino: il Primo trattato sul governo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 431

VI

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 440 1. Diritto naturale e potenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 441

2. Assolutezza e limiti del potere politico . . . . . . . . . 442

4. Chimere, cose reali e mente divina . . . . . . . . . . . . . 393

Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo . . . . . . . . . . . . . . .

4. L’anomalia di Spinoza

T13 Il diritto naturale di ogni individuo coincide con la sua potenza (p. 442)

T33 La soluzione berkeleiana del problema di Molyneux (p. 387); T34 L’uomo è privo della facoltà di formare idee astratte (p. 389); T35 L’universalità deriva solo dalla relazione (p. 390); T36 L’essere consiste nell’essere percepito (p. 391)

Percorso tematico • Che cos’è un’idea?

T9 Il contratto originario e il potere della maggioranza (p. 435); T10 Potere costituente e popolo (p. 436)

3. Democrazia e libertà di espressione . . . . . . . . . . . . 445 T15 I vantaggi della democrazia (p. 445) Sommario (p. 447), Parole chiave (p. 448), Questionario (p. 449)

Laboratorio di lettura: Hobbes, Leviatano . . . . . . . . . . . . . . 450 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 457 LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Diritto . . . . . . . . . . . . . 459 Esercitiamoci sul diritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 462

Unità 8

Newton

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 463

1. Il completamento della «rivoluzione scientifica» . . 464 T1 Non invento ipotesi (p. 466); T2 Le quattro regole del filosofare (p. 466)

2. Newton, un personaggio complesso . . . . . . . . . . . . . 467 3. Le premesse fondamentali della scienza newtoniana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 469 T3 1665-1666: due anni straordinari (p. 469)

4. I Principia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 475 T4 Spiegare i moti planetari (p. 476); T5 Il ruolo di Dio nel mondo fisico (p. 477); T6 L’etere universale (p. 477); T7 Tempo e spazio, assoluti e relativi (p. 478); T8 L’esperimento del secchio ruotante (p. 479); T9 Le tre leggi newtoniane del moto (p. 481) Sommario (p. 484), Parole chiave (p. 485), Questionario (p. 486)

Unità 9

Vico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

487

1. L’importanza di Vico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 488 T1 L’errore nel giudicare il passato (p. 488)

2. Un personaggio isolato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 489 3. Contro Cartesio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 491 T2 Il vero e il fatto (p. 493); T3 La conoscenza del mondo civile (p. 494)

4. Storia sacra e storia profana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 494

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T4 La provvidenza (p. 496); T5 Il diritto naturale (p. 497); T6 La teologia civile (p. 497)

5. Il corso della storia delle nazioni . . . . . . . . . . . . . . 498

T1 Lo studio delle società umane (p. 559); T2 Lo spirito generale (p. 559); T3 Le leggi e lo spirito delle leggi (p. 560)

T7 La storia ideale eterna (p. 499); T8 La provvidenza dà unità alla storia (p. 501)

2. Le forme di governo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 560 3. La divisione dei poteri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 561

Sommario (p. 503), Parole chiave (p. 504), Questionario (p. 504)

3. Voltaire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 562 1. Il patriarca dell’Illuminismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 562 2. Il modello inglese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 563 T4 Elogio di Locke (p. 563)

Parte seconda

3. Il deismo e la critica dell’ottimismo . . . . . . . . . . . . 564 4. La difesa della borghesia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 564

Il secolo dei lumi

T5 Il commerciante e il nobile (p. 564)

5. La tolleranza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 565

Introduzione

T6 La convivenza tra le religioni (p. 565)

L’età dei lumi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. 2. 3. 4. 5. ◆

Una periodizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’ascesa della borghesia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La nuova diffusione della cultura . . . . . . . . . . . . . . La scienza e la divulgazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I temi filosofici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

509 510 510 511 511 512

La parola al critico: Belaval legge l’Illuminismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 514

Unità 10

Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

6. La polemica verso l’ateismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 565 7. Le opere storiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 566

4. L’Enciclopedia: Diderot e d’Alembert

. . . . . . . . . . . . 567 1. L’Enciclopedia, un grande successo editoriale . . . 568

T7 La critica dei sistemi metafisici (p. 569)

2. Il progetto di una nuova cultura . . . . . . . . . . . . . . . 569

5. Sensismo e materialismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 570 1. Condillac e il sensismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 570 2. Il materialismo: La Mettrie, Helvétius e d’Holbach . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 571 T8 L’uomo è una macchina (p. 573)

519

1. La critica della religione e la scienza della natura umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 520 2. Hume: limiti della ragione e scetticismo . . . . . . . . 523 3. La scienza della natura umana . . . . . . . . . . . . . . . . 524 T1 La scienza dell’uomo (p. 525); T2 L’anatomista e il pittore della natura umana (p. 526)

4. La conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 527 T3 Impressioni e idee (p. 527); T4 Relazioni di idee e materia di fatto (p. 529); T5 La mente non è una sostanza (p. 531)

5. La morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 532 T6 La legge di Hume (p. 534); T7 Il senso morale (p. 535)

6. La critica della religione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 537 T8 La miseria del mondo (p. 538)

7. Adam Smith: sentimenti morali e dinamica economica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 539 8. Bentham e la nascita dell’utilitarismo . . . . . . . . . . 541 T9 Il piacere e il dolore (p. 542); T10 Il principio di utilità (p. 543) Sommario (p. 545), Parole chiave (p. 546), Questionario (p. 547)

Laboratorio di lettura: La Ricerca sull’intelletto umano . . 548 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 553

6. L’idea di progresso

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 575 1. Turgot . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 576 2. Condorcet . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 577

Sommario (p. 580), Parole chiave (p. 581), Questionario (p. 582)

Unità 12

Rousseau . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

583

1. Filosofia e autobiografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 584 2. Un’esistenza tormentata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 586 T1 L’affermazione della propria unicità (p. 587)

3. La critica della civiltà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 587 T2 La funzione mistificante delle scienze e delle arti (p. 588); T3 Tutto dipende dalla politica (p. 589); T4 La pietà dello stato di natura (p. 590); T5 L’errore di Hobbes (p. 591); T6 L’origine della proprietà privata (p. 592)

4. Il contratto sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 593 T7 Il problema fondamentale (p. 593); T8 L’alienazione totale di ciascuno alla comunità (p. 594); T9 La volontà generale (p. 595); T10 Il rifiuto della rappresentanza (p. 596)

5. Educazione, morale e religione . . . . . . . . . . . . . . . . 597 T11 Robinson Crusoe (p. 598) Sommario (p. 601), Parole chiave (p. 602), Questionario (p. 602)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 555

Laboratorio di lettura: Discorso sull’origine della disuguaglianza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 603 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 610

1. Atteggiamento critico e diffusione dei «lumi» . . . . 556 2. Montesquieu . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 557

Percorso tematico • È legittimo resistere al potere politico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 611

1. Le società umane e le leggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 558

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 622

Unità 11

L’Illuminismo in Francia

VII

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Pagina VIII

Indice

Unità 13

L’Illuminismo in Italia e in Germania

. . . . . 623

1. L’Illuminismo in Italia

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 624 1. Napoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 624 2. Milano: Pietro Verri e Cesare Beccaria . . . . . . . . . 625

T1 Il fine delle pene (p. 626)

2. L’Illuminismo in Germania . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 627 1. I caratteri dell’Illuminismo tedesco . . . . . . . . . . . . 627 2. Thomasius: critica alla tradizione scolastica e primato della volontà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 628 T2 Il primato della volontà (p. 629)

3. Wolff: il metodo matematico in filosofia . . . . . . . . . 630 T3 Identità del metodo filosofico e matematico (p. 630)

4. Wolffiani e antiwolffiani. Crusius . . . . . . . . . . . . . . . 632 T4 Causalità e moralità (p. 633)

5. La «filosofia popolare» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 634 6. Il rinnovamento della teologia. Lessing . . . . . . . . . 635 T5 Religioni positive e storia umana (p. 636); T6 Il nuovo Vangelo eterno (p. 637) Sommario (p. 639), Parole chiave (p. 640), Questionario (p. 640)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 641

1. Kant e il suo tempo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 642

T1 La ragione e la critica (p. 642)

1. L’età della critica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 642 2. Un filosofo cosmopolita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 643 T2 Il conoscere e i diritti dell’umanità (p. 644)

3. Il «sonno dogmatico» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 646

2. La conoscenza e la metafisica: la ragion pura . . . . . 649 1. Il progetto di una nuova organizzazione del sapere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 649 T3 Due concetti di filosofia (p. 649); T4 Scienze empiriche, filosofia, critica, saggezza (p. 650); T5 Il compimento di ogni cultura della ragione umana (p. 651)

2. La metafisica come problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . 652 3. La domanda critica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 654 T6 L’inevitabile interesse per la metafisica (p. 655); T7 Nessuna domanda senza risposta nella ragione pura (p. 655)

4. Gli strumenti concettuali dell’indagine critica. La catena delle questioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 656 T8 Giudizi sintetici e giudizi analitici (p. 657); T9 Intuizioni e concetti, sensibilità e intelletto (p. 659); T10 I concetti empirici (p. 660)

5. Alla ricerca della conoscenza pura: l’indagine critica e la sua articolazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 661 T11 La conoscenza trascendentale (p. 662)

6. Le forme a priori della sensibilità: l’Estetica trascendentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 663 T12 Materia e forma della sensazione (p. 665); T13 Risultato dell’Estetica trascendentale (p. 666)

7. Il concetto di fenomeno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 666

VIII

8. Le forme a priori dell’intelletto: l’Analitica trascendentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 670 T18 L’a priori e l’esperienza (p. 672); T19 L’io penso e le rappresentazioni (p. 677); T20 Il principio supremo della conoscenza umana (p. 677)

9. La ragione in senso stretto: la Dialettica trascendentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 679 T21 L’uso logico della ragione e l’incondizionato (p. 679); T22 L’essere non è un predicato reale (p. 683)

10. Oltre i fenomeni: l’orizzonte della ragion pratica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 686 T23 Uno spazio vuoto da riempire (p. 687); T24 Lo scopo ultimo della ragione (p. 687); T25 Il dovere e la ragion pratica (p. 688)

3. L’azione e la libertà: la ragion pratica

. . . . . . . . . . . . 689 1. Gli strumenti concettuali della critica della ragion pratica: regole pratiche e imperativi . . . . . . . . . . . . 689

T26 Gli imperativi (p. 691)

2. L’oggetto autentico della valutazione morale . . . . . 692 T27 Conforme al dovere e per dovere (p. 692); T28 La volontà (p. 693)

Unità 14

Kant

T14 Trasformazione dell’ontologia (p. 667); T15 La rivoluzione copernicana in filosofia (p. 667); T16 Fenomeni come rapporti (p. 669); T17 La materia (p. 669)

3. Alla ricerca di un imperativo categorico . . . . . . . . 694 T29 La metafisica dei costumi (p. 694); T30 La critica della ragion pratica (p. 695); T31 La forma di una legislazione universale (p. 696); T32 L’imperativo categorico (p. 696)

4. Libertà e autonomia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 698 T33 L’idea della libertà (p. 699); T34 La legge e il mondo intelligibile (p. 699); T35 Il sentimento di rispetto per la legge (p. 700)

5. Virtù e felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 701 T36 I postulati della ragion pratica (p. 702); T37 Giobbe e la fede (p. 704)

4. Gli scopi della natura: la facoltà di giudizio

. . . . . . 704 1. Un nuovo principio, una facoltà ripensata: la Critica della facoltà di giudizio . . . . . . . . . . . . . . 705 2. La facoltà di giudizio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 707

T38 Facoltà di giudizio determinante e riflettente (p. 708); T39 Difficoltà per il principio della facoltà di giudizio (p. 709); T40 Il ruolo del gusto nella critica della facoltà di giudizio (p. 709); T41 Il principio di conformità a scopi (p. 710)

3. Il piacere e le sue forme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 712 T42 Il piacere come percezione del libero gioco delle facoltà conoscitive (p. 714); T43 Due forme del sublime (p. 717)

4. La conformità a scopi nella natura organica . . . . . 718 T44 L’organismo come «scopo naturale» (p. 719); T45 Due sensi del principio di conformità a scopi (p. 720)

5. Gli scopi oltre la natura. Cultura e storia . . . . . . . . 721 T46 L’uomo come scopo ultimo condizionato della natura (p. 722); T47 Società civile e tutto cosmopolitico come condizioni dello scopo ultimo (p. 724) Sommario (p. 727), Parole chiave (p. 728), Questionario (p. 730)

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Indice

Laboratorio di lettura: Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 731 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 742 Tesi a confronto In Kant la realtà è indipendente dalla mente? . . . . . . . . . . . . . . . . . 743 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 751

Percorso tematico • Meccanicismo o teleologia?

. . . . . 753

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 764

LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Dovere . . . . . . . . . . . . . 765 Esercitiamoci sul dovere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 768

LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Coscienza / autocoscienza / io . . . . . . . . . . . . . . . . . . 833 Esercitiamoci sulla coscienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 838

Unità 16

Il Romanticismo e Schelling

. . . . . . . . . . . . . . . . 839

1. L’età di Goethe e il pensiero romantico

. . . . . . . . . . 840 1. Classicismo e ‘filosofia del Romanticismo’ . . . . . . 840 2. Arte e verità: Schiller e Schlegel . . . . . . . . . . . . . . . 843

3. La natura vivente: Goethe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 845 T2 Contro il metodo sperimentale (p. 846)

L’idealismo

4. Fede e religione: Schleiermacher . . . . . . . . . . . . . . 847 T3 La religione: intuizione e sentimento (p. 848)

Introduzione 775

1. La «terza età d’oro del pensiero occidentale» . . . . 776 2. Idealismo come filosofia della libertà . . . . . . . . . . . 776 3. Verso il sistema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 777 ◆

Laboratorio di lettura: La destinazione del dotto . . . . . . . . 825 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 832

T1 Ironia, filosofia e poesia (p. 844)

Parte terza

L’idealismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Sommario (p. 822), Parole chiave (p. 823), Questionario (p. 824)

La parola al critico: Cesa legge le origini dell’idealismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 779

5. La riscoperta delle origini: Herder . . . . . . . . . . . . . 849 6. Il pensiero politico romantico . . . . . . . . . . . . . . . . . 851

2. Schelling

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 852 1. Schelling: un filosofo in continua evoluzione . . . . 852 2. La filosofia della natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 854

T4 ll nesso organico come rapporto oggettivo (p. 856); T5 L’armonia prestabilita tra spirito e natura (p. 857)

3. Il Sistema dell’idealismo trascendentale . . . . . . . . . 859

Unità 15

Fichte e la dottrina della scienza . . . . . . . . . . .

785

1. Evoluzione e ricezione della dottrina della scienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. L’ascesa e il declino di un ‘astro filosofico’ . . . . . . 3. Il dibattito sul criticismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Significato e caratteri della dottrina della scienza .

786 787 789 791

T1 La soggettività come opposto della sostanza (p. 793); T2 La scelta della filosofia riflette la propria personalità (p. 794)

5. Dottrina dei principi e metafisica del soggetto . . . 796 6. La conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 800 T3 La parte pratica ha per oggetto il «conosciuto» (p. 801); T4 Lo Streben come termine medio tra infinitezza e finitezza (p. 801); T5 L’Io sviluppa da se stesso il materiale della conoscenza (p. 803); T6 La dottrina della scienza come «idealrealismo» (p. 805)

7. Etica e intersoggettività . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 806 T7 Causalità naturale e causalità per libertà (p. 808)

8. La dottrina della scienza come metafisica dell’Assoluto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 810 T8 Contro il misticismo (p. 811); T9 Teoria della verità e teoria dell’apparire (p. 812); T10 Punto di vista della legalità e morale inferiore (p. 814)

9. Politica e storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 815 T11 La negazione del ‘diritto naturale’ (p. 816); T12 La nazione come «natura spirituale» (p. 820)

T6 Libertà e legge nella storia (p. 861); T7 L’arte come supremo organo della filosofia (p. 864)

4. La filosofia dell’identità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 865 T8 La Ragione assoluta e la filosofia come scienza delle cose in sé (p. 866)

5. La filosofia della libertà: Dio, l’uomo e il male . . . 867 T9 Il punto più difficile della dottrina della libertà (p. 868)

6. Filosofia negativa e filosofia positiva . . . . . . . . . . . . 870 Sommario (p. 873), Parole chiave (p. 874), Questionario (p. 875)

Unità 17

Hegel

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 877

1. La filosofia come sistema della comprensione razionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 878 T1 Il sistema come scienza dell’Idea (p. 879); T2 La filosofia come nottola di Minerva (p. 881)

2. Un professore e le sue lezioni . . . . . . . . . . . . . . . . . 882 3. Religione e filosofia: gli scritti giovanili . . . . . . . . . 884 4. Gli scritti critici di Jena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 886 T3 La genesi della filosofia (p. 887); T4 La ragione e l’Assoluto (p. 888); T5 L’importanza di una distinzione terminologica (p. 890)

5. La Fenomenologia dello spirito . . . . . . . . . . . . . . . . 891 T6 La negazione determinata (p. 893); T7 La lotta per il riconoscimento (p. 896)

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Indice

6. Dalla fenomenologia alla logica . . . . . . . . . . . . . . . . 900 T8 La struttura del sistema (p. 901)

7. Il sistema: la logica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 902 T9 Il contenuto della logica (p. 903); T10 L’identità di pensiero ed essere (p. 904); T11 La dialettica (p. 904); T12 La contraddizione (p. 905); T13 Le forme logiche e la realtà (p. 907)

8. Il sistema: la filosofia della natura . . . . . . . . . . . . . . 909 T14 La natura (p. 909); T15 Contro la divinizzazione della natura (p. 910)

9. Il sistema: la filosofia dello spirito . . . . . . . . . . . . . . 911 T16 La conoscenza dello spirito (p. 911)

10. La filosofia dello spirito: lo spirito oggettivo . . . . . 913 T17 Realtà e razionalità (p. 914); T18 Non tutto ciò che esi-

X

ste è razionale (p. 914); T19 Socrate come fondatore della morale (p. 918); T20 I doveri e i diritti (p. 919); T21 Il cittadino come bourgeois (p. 920); T22 Stato e società civile non vanno confusi (p. 921); T23 Gli individui «cosmico-storici» (p. 923)

11. La filosofia dello spirito: lo spirito assoluto . . . . . . 924 Sommario (p. 928), Parole chiave (p. 929), Questionario (p. 930)

Laboratorio di lettura: Lezioni sulla filosofia della storia . 931 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 938 Tesi a confronto Hegel: reazionario difensore dell’esistente o lucido analista dei problemi del proprio tempo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 939 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 945

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Indice delle opere antologizzate L’indice fa riferimento ai testi presenti nelle Unità e nei «Percorsi tematici» ALEMBERT J. - LE ROND B. D’ Discorso preliminare, in Enciclopedia: 569 ARNAULD A. - P. NICOLE La logica, o l’arte di pensare: 209 BACONE F. Il parto maschio del tempo: 107, 108; La grande Instaurazione: 111; Nuova Atlantide: 117; Nuovo Organo: 109, 112, 113, 114, 116, 117 BAYLE P. Dizionario storico-critico: 225, 323, 325; Pensieri sulla cometa: 223, 224 BECCARIA C. Dei delitti e delle pene: 626 BENTHAM J. Introduzione ai principi della morale e della legislazione: 542, 543 BERKELEY G. Saggio per una nuova teoria della visione: 387; Trattato sui principi della conoscenza umana: 389, 390, 391, 394 BRAHE T. De mundi aetherei recentioribus phaenomenis: 85; Lettera di T. Brahe a J. Keplero: 82 BRUNO G. Cena de le Ceneri: 49; De gli eroici furori: 54; De la causa, principio et uno: 49; Spaccio de la bestia trionfante: 53 CARTESIO Discorso sul metodo: 144, 146, 147, 151, 163; I principi della filosofia: 142, 159; Le passioni dell’anima: 171, 172, 174; L’uomo: 154, 155; Meditazioni metafisiche: 156, 160, 161, 163, 166, 170, 403; Regole per la guida dell’intelligenza: 137, 145; Risposte alle quinte obiezioni: 189 COPERNICO N. Commentariolus: 78; De revolutionibus orbium caelestium libri sex: 73, 77, 78, 79 CRUSIUS C.A. Sull’uso e i limiti del principio di ragione determinante: 633 CUSANO N. De coniecturis: 35; La dotta ignoranza: 34, 37 ERASMO 19

DA

ROTTERDAM Elogio della follia:

FICHTE J.G. Discorsi alla nazione tedesca: 820; Dottrina della scienza 1804/II: 812; Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza: 816; Fondamento dell’intera dottrina della scienza: 801, 803, 805; L’avviamento alla vita beata: 811, 814; Prima introduzione alla dottrina della scienza: 793, 794; Sistema di etica secondo i principi della dottrina della scienza: 808 GALILEI G. Dialogo sopra i due massimi sistemi: 104, 755; Il Saggiatore: 101, 102; L’atto di abiura: 105; Lettera di G. Galilei a Giuliano dei Medici: 96; Sidereus Nuncius: 95 GOETHE W. Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister: 846 GUICCIARDINI F. Ricordi: 61

HEGEL G.W.F. Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling: 887; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1817: 901; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1827-1830: 879, 907, 909, 910, 911, 914; Fede e sapere: 888; Fenomenologia dello spirito: 893, 896; Filosofia della storia: 918, 923; Le diverse maniere di trattare scientificamente il diritto naturale: 890; Lineamenti di filosofia del diritto: 881, 914, 919, 920, 921; Scienza della logica: 903, 904, 905 HOBBES T. Critique du «De Mundo» de Thomas White: 757; De cive: 357, 419, 421; De corpore: 345, 349, 350; De homine: 353; Della libertà e necessità: 355; Elementi di legge naturale e politica: 340, 347, 348, 354, 357; Leviatano: 341, 354, 421, 423, 426, 429, 615, 618; Risposta a Bramhall: 343; Terze obiezioni e risposte alle Meditazioni metafisiche: 342 HOLBACH P.T. D’ Il buon senso: 332 HUME D. Dialoghi sulla religione naturale: 331, 538; Estratto del trattato sulla natura umana: 531; Lettera a Francis Hutcheson del 17 settembre 1739: 526; Ricerca sull’intelletto umano: 529; Trattato sulla natura umana: 525, 527, 534, 535 KANT I. Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime: 644; Critica della facoltà di giudizio: 708, 709, 710, 714, 717, 719, 720, 722, 724, 763; Critica della ragion pratica: 695, 696, 702; Critica della ragion pura: 642, 649, 650, 651, 655, 657, 659, 660, 662, 665, 666, 667, 669, 672, 677, 679, 683, 687, 688; Fondazione della metafisica dei costumi: 691, 692, 693, 694, 699, 700; Sul detto comune: 617; Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea: 704 KEPLERO J. Astronomia nova: 90, 91; Mysterium cosmographicum: 88 LA METTRIE J.O. DE L’uomo macchina: 192, 573 LEIBNIZ G.W. Che cos’è un’idea: 273; Chiarimenti sulle difficoltà che il sign. Bayle ha trovato nel «Nuovo sistema dell’unione dell’anima e del corpo»: 197; Discorso di metafisica: 286, 287, 288, 292, 294, 295; Dissertazione sull’arte combinatoria: 282; Lettera ad Arnauld: 290; Lettera a De Volder: 290; Monadologia: 271; Nuovi saggi sull’intelletto umano: 270, 277, 409; Nuovo sistema della natura: 289; Nuovo sistema per spiegare la natura delle sostanze: 759; Pensieri senza pretese intorno all’uso e al miglioramento della lingua tedesca: 276; Prefazione alla scienza generale: 279; Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità:

283; Saggi di teodicea: 284, 296, 298, 326, 327; Storia ed elogio della lingua caratteristica universale: 280 LESSING G.E. L’educazione del genere umano: 636, 637 LOCKE J. Fede e ragione: 379; La ragionevolezza del cristianesimo: 380; Lettera sulla tolleranza: 381, 382, 383; Primo trattato sul governo: 431; Saggio sull’intelletto umano: 198, 359, 362, 364, 365, 369, 371, 372, 375, 376, 377, 406, 407; Secondo trattato sul governo: 433, 435, 436, 438, 439, 621, 622 MACHIAVELLI N. Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: 58; Il principe: 59 MALEBRANCHE N. La ricerca della verità: 212, 405 MONTAIGNE M. DE Saggi: 25, 26, 27 MONTESQUIEU Lo spirito delle leggi: 559, 560 NEWTON I. Principi matematici della filosofia naturale: 466, 476, 477, 478, 479, 481 PASCAL B. Pensieri: 217, 218, 219 PICO DELLA MIRANDOLA G. Oratio de hominis dignitate: 17 POPE A. Saggio sull’uomo: 328 ROUSSEAU J.-J. Confessioni: 587, 589; Del contratto sociale: 593, 594, 595, 596; Discorso sulle scienze e sulle arti: 588; Discorso sull’origine della disuguaglianza: 590, 591, 592; Emilio: 598; Lettera di J.J. Rousseau a Voltaire: 330 SCHELLING F.W.J. Esposizione del mio sistema filosofico: 866; Idee per una filosofia della natura come introduzione allo studio di questa scienza: 856, 857; Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana: 868; Sistema dell’idealismo trascendentale: 861, 864 SCHLEGEL F. Lyceum der schönen Künste: 844 SCHLEIERMACHER F.D.E. Discorsi sulla religione: 848 SPINOZA B. Epistolario: 235, 239; Etica: 194, 236, 239, 240, 241, 243, 245, 248, 250, 252, 253, 254, 257, 259; Trattato teologico-politico: 259, 260, 261, 262, 263, 265, 442, 443, 445; Trattato politico: 619 THOMASIUS C. Fondamenti del diritto di natura e delle genti: 629 VICO G.B. L’antichissima sapienza degli italici: 493; Principi di scienza nuova: 488, 494, 496, 497, 499, 501 VOLTAIRE Dizionario filosofico: 329; Lettere inglesi: 563, 564, 565 WOLFF C. Filosofia razionale o Logica: 630

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Indice delle parole chiave Abitudine, 546 Accelerazione, 120 Affetto, 303 Alienazione / Estraniazione, 602, 929 Antiastrattismo, 399 Appercezione, 303 Appetito / Avversione, 303, 399 Armonia, 303; Armonia prestabilita, 874 Arte, 874 Arti meccaniche, 581 Associazione delle idee, 546 Assolutismo, 448 Assoluto, 823 Astrazione, 120 Ateismo, 229 Attributo, 303 Aufklärung, 640 Azioni / Passioni, 303 Barbarie, 67 Base osservativa, 120 Boria dei dotti / Boria delle nazioni, 504 Buon senso, 581 Categorie, 728 Cinematica, 485 Civiltà, 602 Clima, 581 Comandi / Imperativi, 728 Conato, 399, 504 Conatus, 303 Concetto, 728, 929; Concetto / Essere completo, 303 Consenso universale, 399 Contraddizione, 929 Contrattualismo, 448 Corpo, 399 Corpuscolo, 178 Coscienza, 178 , 929 Credenza, 546 Cuore, 229 Cupiditas, 303 Degnità, 504 Deismo, 399 Destinazione, 823 Dialettica, 929 Diffusione della cultura, 581 Dignità dell’uomo, 67 Dinamica, 485 Diritto di resistenza, 448; Diritto naturale / Diritto positivo, 448 Discrezione, 67 Dispotismo, 581; Dispotismo illuminato, 640 Divertissement, 229 Divisione dei poteri, 581 Dotta ignoranza, 67 Dottrina della scienza, 823; Dottrina dell’intersoggettività, 823 Dualismo, 178 Dubbio, 178 Eliocentrico, 120 Empirismo, 399 Enciclopedia, 581 Erudizione, 229 Espressione, 303 Estensione, 178 Etere / Sostanza eterea, 485 Evidenza, 178 Facoltà di giudizio, 728 Fantasma, 399 Felicità, 546, 581 Fenomeno / Cosa in sé, 728 Fenomenologia, 929 Fideismo, 229 Figura, 929 Filologia, 504

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Filosofia critica o criticismo, 729; Filosofia della storia, 581; Filosofia negativa / Filosofia positiva, 874; Filosofia trascendentale / Idealismo trascendentale, 874 Finito / Infinito, 929 Fluente / Flussione, 485 Follia, 67 Forma originaria, 874; Forma sistematica, 823 Forme dell’intuizione, 729 Furore eroico, 67 Generosità limitata, 546 Geocentrico, 120 Giansenismo, 229 Giudizio, 399, 729 Giusnaturalismo, 448 Giustificazione, 67 Gravità / Gravitazione / Attrazione gravitazionale, 485 Grazia sufficiente / Grazia efficace, 229 Guerra / Pace, 448 Gusto, 729 Idea, 178, 546, 729, 929; Idea di progresso, 581 Idealismo / Dogmatismo, 823 Identità, 874 Idolatria, 229 Immaginazione, 546, 729; Immaginazione produttiva, 823 Immanenza / Immanentismo, 874 Immaterialismo, 399 Impressioni, 546 Inconscio, 874 Induzione, 120 Inerzia, 485 Intelletto, 399, 729 Intersoggettivo, 120 Intuizione, 729, 874 Io assoluto / empirico / pratico, 823; Io oggettivo, 874; Io penso o appercezione trascendentale, 729 Ironia, 874 Laetitia (gioia) / Tristitia (tristezza), 303 Legge (fisica), 120; Legge di gravitazione universale, 485; Legge di Hume, 546; Legge di natura, 448 Legittimità, 448 Letteratura clandestina, 229 Liberalismo, 448 Libertà civile, 602; Libertà d’azione, 399; Libertà naturale, 602 Libertinismo, 229 Magia, 67 Manicheismo, 229 Massime / Leggi, 729 Materialismo / Idealismo, 399 Mathesis universalis, 178 Meccanica, 485 Meccanicismo, 178 Metafisica del soggetto, 823 Metafisica razionalistica (razionalismo), 229 Metodo, 178; Metodo matematico, 640 Microcosmo, 67 Modi, 303 Monade o punto metafisico, 303 Mondo celeste, 120; Mondo possibile, 303; Mondo terrestre (o sublunare), 120 Moto naturale, 120; Moto o movimento, 399; Moto violento, 120 Natura, 546, 602, 874; Natura / Spirito, 929 Non-io, 823 Obbligazione politica, 448 Occasionalismo, 229 Opposizione, 929 Organicismo, 874 Ottimismo, 581

Panteismo / Panenteismo, 874 Passione, 178 Patto, 448 Pena, 640 Pensiero, 178 Percezione, 546; Percezioni insensibili, 303 Pia philosophia, 67 Pietismo, 640 Poliedri platonici, 120 Popolo, 823 Potenza, 874 Potere politico, 448 Primalità, 67 Principi dell’intelletto, 729 Principio di causalità, 546; Principio di maggioranza, 448; Principio di utilità, 546; Principio positivo / Principio negativo, 874 Problema mente-corpo, 178 Progresso, 602 Proprietà privata, 602 Prudenza, 399 Qualità oggettive, 120; Qualità soggettive, 120 Ragione, 729 Rappresentanza, 448 Rappresentazione, 303 Razionalismo, 399 Relatività (principio galieiano di), 120 Religione positiva, 640 Res cogitans / Res extensa, 178 Ricorsi, 504 Rinascimento, 67 Riscontro, 67 «Salvare i fenomeni», 120 Sapienza poetica, 504 Scienza nuova, 504 Scommessa, 229 Scuola fisiocratica, 581 Sensibilità, 729 Sensismo, 581 Senso comune, 504 Sentimento, 823, 874; Sentimento morale, 546 Simpatia, 546 Sistema, 929; Sistema tolemaico / Astronomia tolemaica / Cosmologia tolemaica, 120 Società civile, 929 Soggettività / Egoità, 823 Sovranità, 448 Spazio assoluto e Tempo assoluto, 485 Spettatore imparziale, 546 Spiriti animali, 178 Spirito di geometria / Spirito di finezza, 229; Spirito generale, 581 Stati o ceti, 929 Stato, 448, 929; Stato di natura, 448 Storia ideale eterna, 504 Streben, 823 Studio della società, 581 Sub specie aeternitatis, 303 Teleologia, 729 Teologia civile, 504; Teologia della Croce, 67 Tolleranza, 399 Totalità, 929 Trascendentale, 729 Umanesimo, 67 Unione mente-corpo, 178 Uomo-macchina, 581 Utilitarismo, 546 Utopia, 67 Verità de fide, 120; Verità de rerum natura, 120; Verità di ragione / Verità di fatto, 303 Vicissitudine, 67 Vortice, 178

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

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Dublino Thomastown

C Derby

Cloyne

Oxford Devonshire

Cambridge

Rost Leida L'Aia

Hannover Amsterdam Rotterdam Malmesbury Anversa Ypres Eisleben Lovanio Francoforte Jena Clemont e Clarat Turi Cues Meaux Magonza Londra

Parigi Strasburgo

Heidelberg Neuburg Tubinga

Basilea

Ingo

La Haye Ginevra

Zurigo

Lione

Trento Milano Mantova

Montpellier Champtercier Pisa

Verona V Padov Ferrar Bologn Firenze

Urb Alcalà de Henares

Rom

Valencia

Nap

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Stoccolma

Copenaghen

Introduzione

Rostock Toru (Pomerania)

annover m

Berlino Wittenberg Lipsia / Leipzig Chemniz

Eisleben

Jena Turingia Magonza Erfurt

Heidelberg Neuburg ga

Praga

Ratisbona / Regensburg

Ingolstadt

Linz Vienna

Danzica

Frombork La nascita della filosofia moderna

Unità 1 Umanesimo e Rinascimento Unità 2 La rivoluzione scientifica Laboratorio sul lessico Natura / naturale Cracovia Unità 3

Cartesio e la nascita della filosofia moderna Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo? Unità 4 L’età cartesiana

go Trento

Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Verona Venezia Padova Ferrara Bologna Firenze

Percorso tematico Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male? Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley Percorso tematico Che cos’è un’idea?

Urbino

Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

Roma Nola

Laboratorio sul lessico Diritto

Napoli

Cosenza Stilo

Unità 8 Newton Unità 9 Vico

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Introduzione La nascita della filosofia moderna

1. La critica della tradizione 2. Ruolo della ragione e collocazione dell’uomo

♦ La parola al critico: I caratteri della filosofia moderna secondo Cassirer

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

1 Rottura con il passato

La reazione della Chiesa

Una nuova concezione della natura ➥ La parola al critico, p. 9

Critica della tradizione

Nuovi luoghi e strumenti di diffusione delle idee

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La critica della tradizione Con l’età umanistica e rinascimentale si comincia ad affermare in Europa l’esigenza di un profondo rinnovamento della società, delle istituzioni e del sapere. Uno dei segni di questa rottura con il passato, con l’età di mezzo – medio evo –, è la Riforma protestante, che vede nell’età di mezzo l’epoca della corruzione del cristianesimo originario che dovrebbe essere ristabilito. L’atteggiamento polemico verso il Medioevo e la sua identificazione con un’età ‘buia’ comincia infatti proprio a ridosso della sua conclusione: se per Lutero (1483-1546) esso rappresenta la corruzione del cristianesimo, per gli umanisti e per il Rinascimento esso costituisce la perdita del contatto diretto con il mondo classico, greco e latino, che solo in questi decenni verrebbe ripreso e potrebbe quindi ‘rinascere’, appunto. La Chiesa cattolica non manca di prendere le sue contromisure, con la Controriforma e il Concilio di Trento (1545-1563): la reazione alla Riforma protestante lascia un segno pesante sulla vita culturale europea, colpendo i fermenti intellettuali che in essa proliferano. Finita l’emergenza protestante, i rischi per la religione vengono infatti individuati proprio nelle nuove idee che cominciano a circolare, a partire dalla tesi eliocentrica di Niccolò Copernico (1473-1543), che costituisce non solo una rivoluzione di concezioni astronomiche, ma un radicale mutamento della visione del mondo e dell’uomo. L’Italia, sede della Chiesa di Roma, è la prima a fare le spese del nuovo corso ecclesiastico, come testimoniano le drammatiche vicende di Giordano Bruno (1548-1600) e di Tommaso Campanella (1568-1639). Per una caratterizzazione davvero ‘moderna’ della filosofia, però, si dovranno aspettare, sulla scia della rivoluzione scientifica, coloro che ad essa si ispirano per un rinnovamento radicale degli strumenti concettuali, a partire da Cartesio (1596-1650). La rottura non riguarda allora soltanto il Medioevo e la scolastica, ma anche l’immagine vivente e dinamica della natura presente nella cultura rinascimentale: anche a questa viene contrapposto il meccanicismo fondato sulle leggi della matematica e della geometria. Certo è che la critica della tradizione e delle istituzioni tradizionali, anche di quelle educative, segna con forza gli anni tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Seicento. Si tratta di un elemento costante, che accomuna personaggi anche molto diversi. Contro la cultura tradizionale, ritenuta libresca e inutile, tuona Montaigne (15331592), e Francesco Bacone (1561-1626) ha parole di disprezzo per autori della grandezza di Platone, con le sue pretese di possedere e promuovere un sapere che va al di là dell’esperienza e non proviene da essa. Cartesio ha molte cautele, ma non manca di rilevare come l’insegnamento tradizionale sia insufficiente per un reale avanzamento del sapere, a partire dalla logica scolastica e aristotelica: è urgente, invece, un nuovo metodo della conoscenza. Se si eccettua la Germania – dove la Riforma luterana, con l’opera di Melantone (1497-1560), aveva promosso una riforma degli studi universitari –, le università non costituiscono più, in Europa, il centro del dibattito intellettuale e scientifico. Altri sono i luoghi e i mezzi per la circolazione delle idee: è significativo che lo stesso Galileo Galilei (1564-1642) insegni a Padova secondo il sistema geocentrico di Tolomeo (vissuto nel II secolo d.C.), pur se è già un sostenitore delle

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Introduzione La nascita della filosofia moderna

tesi copernicane, e non è un caso se finirà per abbandonare l’università diventando il «matematico e filosofo» del granduca di Toscana. Il ruolo degli epistolari Nel corso del Seicento diventano ricorrenti le riunioni tra gli intellettuali del tempo per discutere dei problemi più diversi, e una vera novità del secolo è costituita dagli epistolari, vero strumento di circolazione delle idee che coinvolge tutti i grandi filosofi dell’epoca, da Cartesio a Leibniz (1646-1716). Anche personaggi minori, come il frate Mersenne (1588-1648), passano così alla storia: è da lui, in place Royal a Parigi, che ci si ritrova per discutere, ed è ancora lui che intrattiene scambi di lettere con i grandi pensatori contemporanei. Per non dire che Mersenne è anche il peculiare redattore di quello che può essere visto come uno dei più importanti epistolari della storia della filosofia: le obiezioni e le risposte alle Meditazioni metafisiche di Cartesio, per le quali Mersenne funge da mediatore. Nascita di accademie Fuori dalle università, nascono in tutta Europa, nel corso del Seicento, le mage riviste giori società scientifiche, come l’Accademia del Cimento in Italia (1657) o la Royal Society in Inghilterra (1662). Verso la fine del secolo, poi, cominciano a uscire, a partire dal 1665, le riviste «Journal des Savants», «Philosophical Transactions», «Mémoires de Trevoux» (l’influente rivista dei gesuiti, dal 1682), «Acta Eruditorum» (1683). Anche per il primo emergere di una nuova, attiva classe sociale, la borghesia, cambiano nel Seicento le forme di organizzazione e comunicazione del sapere, un processo che avrà una più compiuta realizzazione nel secolo successivo.

2 Una nuova concezione di Dio

L’indagine sulla ragione umana ➥ Percorso tematico, p. 401

Critica razionale della religione

Ruolo della ragione e collocazione dell’uomo Nella nuova atmosfera successiva a Riforma protestante, Controriforma e guerre di religione, la religione ha sicuramente un ruolo centrale, e non solo per gli avvenimenti storici e storico-culturali, ma anche per quanto riguarda il contenuto delle teorie filosofiche. Una nuova figura di Dio, costruita secondo i canoni della nuova scienza, gioca per tutto il Seicento un ruolo da protagonista nei grandi sistemi filosofici: come garante dell’evidenza della verità in Cartesio, come espressione dell’ordine geometrico in Baruch Spinoza (1632-1677), come massimo esempio delle capacità del calcolo matematico in Leibniz – un calcolo che, non potendo che essere perfetto, ha prodotto il migliore dei mondi possibili. L’altra protagonista è la ragione, innanzitutto come ragione umana che diventa, con Cartesio, una mente il cui contenuto è fatto di idee: queste non sono più i modelli della realtà della tradizione platonica, poi per Agostino modelli della mente di Dio, ma contenuti della mente umana che ne esprimono le capacità conoscitive. Dio è il punto di riferimento, ma il punto di partenza è la ragione umana. È il grande, nuovo tema del soggetto moderno che investiga le proprie capacità analizzando la propria mente, un’indagine che troverà per più versi un punto di arrivo, e l’inizio di una nuova storia, solo con la Critica della ragion pura di Immanuel Kant (1724-1804), ma che comincia proprio con le Meditazioni cartesiane: si tratta appunto di «meditazioni», nelle quali l’accento cade sul modo di conoscere del soggetto della conoscenza, l’uomo. All’esame della ragione non può sottrarsi nemmeno la tradizione religiosa, che come ogni tradizione deve essere sottoposta a critica. Di qui lo studio accurato dei testi sacri, che corre il rischio di diventare pericoloso per la Chiesa soprat7

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La scienza diventa fondamento della filosofia

Riflessione sui problemi morali e politici

tutto quando mostri le difficoltà, di fronte all’esame critico, dei tanti racconti di miracoli contenuti nelle Scritture. Ma non solo: l’esame accurato di queste ultime mostra, quando lo si confronti con altre fonti di informazione e con altre civiltà che non sono più, dopo le scoperte geografiche, del tutto ignote, quanto le misure del tempo possano essere diverse da quelle fornite dalla Bibbia. Nel Seicento si scatena infatti il dibattito sulla cronologia: il libro della religione cristiana non può essere preso alla lettera, a meno di non rassegnarsi a una ottusa ignoranza; la storia degli uomini è in realtà ben più antica di quella del popolo ebraico, come dimostrano tutte le testimonianze che i cristiani incontrano al di fuori del loro libro sacro, ovvero le notizie sugli egiziani, sui caldei, sui cinesi. È dall’intersecarsi di razionalismo e di erudizione che nascono i libertini (vedi Unità 4, p. 204), il massimo pericolo per la religione, ed è a questo orizzonte problematico che appartiene l’anticartesiano (e antimoderno) Giambattista Vico (1668-1744), pur se la sua Scienza nuova apparirà a Settecento inoltrato (nel 1725). La scienza moderna, fondata sulla matematica e sulla geometria, costituisce ben più che lo sfondo della nuova prospettiva filosofica: essa ne costituisce piuttosto lo scheletro. Ma non si tratta soltanto di astrazioni matematiche; è cominciata, infatti, la progressiva riabilitazione delle arti meccaniche che proseguirà nel secolo successivo: la polemica verso il sapere tradizionale è anche polemica verso la sua inutilità, mentre il XVII secolo procura, sulla base delle acquisizioni scientifiche, strumenti che realizzano l’auspicio baconiano di un sapere utile, come la macchina calcolatrice di Blaise Pascal (1623-1662) e di Leibniz o il cannocchiale di Galileo. Questa scienza non offre, però, soltanto trionfi: essa celebra sì la ragione umana, ma alla tranquilla collocazione della Terra al centro dell’universo offerta dal sistema tolemaico sostituisce una concezione che sembra togliere all’uomo almeno parte della sua grandezza, con la rivoluzione copernicana. Né mancano coloro che, come Bruno e Fontenelle (1657-1757), parlano della Terra soltanto come di un mondo tra altri, che potrebbero essere infiniti. E così nascono le perplessità, lo scetticismo e la travagliata meditazione di Pascal su grandezza e miseria dell’uomo, erede dello scetticismo di Montaigne. La ragione umana non può, infine, trascurare le questioni morali e politiche, come dimostra il giusnaturalismo moderno, che, avviato nel Seicento soprattutto con Thomas Hobbes (1588-1679), Spinoza e John Locke (1632-1704), dominerà la discussione filosofico-politica fino a Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), che ne sarà, invece, un aspro critico. È dal calcolo razionale e intelligente degli individui, infatti, attenti al proprio interesse e alla difesa di se stessi, che nasce e riceve legittimità lo Stato, frutto di un contratto tra individui, in linea di principio, uguali: si tratta della stessa uguaglianza che diventerà nel secolo successivo la parola d’ordine di una borghesia sempre più affermata contro i privilegi del clero e della nobiltà.

Suggerimenti bibliografici In generale, sulla genesi della filosofia moderna vedi P. Rossi - C.A. Viano (a cura di), Storia della filosofia, 3. Dal Quattrocento al Seicento, Laterza, Roma-Bari 1995. Per la storia dello scetticismo nella prima età moderna vedi R. Popkin, Storia dello scetticismo da Erasmo a Spinoza, Anabasi, Milano 1995. Sulla figura dell’intellettuale nel Seicento e sul suo rapporto con le istituzioni vedi l’antologia di L. Mannarino, La condizione dell’intellettuale nel Seicento, Loescher, Torino 1980.

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Introduzione La nascita della filosofia moderna

La parola al critico I caratteri della filosofia moderna secondo Cassirer Il filosofo Ernst Cassirer (1874-1945) delinea, nel brano che segue, la nascita della filosofia moderna. Essenziale è il confronto con la scienza esatta, che promuove il rinnovamento metodologico e logico prima che la filosofia vi rifletta in modo compiuto. La centralità della questione del metodo emerge già nel Rinascimento ed è ben presente nella riflessione di Galileo, ma solo con Cartesio diventa il principio ispiratore di un’indagine sul soggetto conoscente e segna l’inizio di una nuova epoca nella storia del pensiero filosofico.

Il problema non risolto della conoscenza da E. Cassirer, Storia della filosofia moderna. Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza

Con Cartesio riemerge il problema della conoscenza

Galileo non formula una teoria sistematica della conoscenza

Partiti come siamo dal principio generale che la concezione che ogni epoca ha della natura e della realtà delle cose è solo l’espressione e il riflesso del suo ideale di conoscenza, dobbiamo ormai cercare di chiarirci nei particolari le condizioni attraverso le quali ha preso forma il concetto moderno e il sistema moderno della conoscenza. […] La storia delle teorie della conoscenza non ci dà un quadro completo e sufficiente dello sviluppo interno del concetto di conoscenza. Nella ricerca empirica di un periodo, nei mutamenti delle sue concezioni concrete del mondo e della vita dobbiamo seguire la trasformazione delle sue categorie logiche. Le teorie sulla nascita e l’origine della conoscenza riassumono il risultato, ma non ci rivelano le fonti e gli impulsi più lontani. In tal modo vediamo come la rinascita vera e propria del problema della conoscenza sia preparata dai più diversi lati, – dalla scienza naturale come dalla storiografia umanistica, dalla critica dell’aristotelismo come dalla interna trasformazione immanentistica delle dottrine peripatetiche nell’epoca moderna, – prima che essa giunga a maturazione e a conclusione provvisoria nella filosofia di Cartesio. Le produzioni logiche che non riescono a raggiungere né un esplicito riconoscimento né una particolare formulazione astratta non sono le meno importanti e le meno feconde. La storia del pensiero moderno non conosce forse scoperta logica altrettanto importante e decisiva quanto la fondazione della scienza esatta della natura da parte di Galileo; ma i singoli punti di vista che in essa avevano valore direttivo e che lo scopritore stesso vedeva nella loro piena chiarezza concettuale, non sono giunti in alcun modo a una sintesi teoretica e a una esposizione sistematica indipendente. Se noi volessimo perciò desumere la nostra misura unicamente dalla considerazione della successione

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Importanza del rapporto tra filosofia e scienza

Solo la scienza dà unità al concetto di conoscenza

L’esperienza viene sostituita alla logica

La scienza ha bisogno di un metodo

Oggetto della filosofia è il modo di conoscere

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storica delle «teorie della conoscenza», Galileo dovrebbe allora star dietro a un contemporaneo come il Campanella, al quale è incomparabilmente superiore non solo come scienziato, ma anche per la produttività e la profondità del suo pensiero puramente filosofico. […] Il rapporto tra filosofia e scienza è colto e descritto solo esteriormente, finché si parla di uno scambievole «influsso» che ambedue esercitano l’una sull’altra. […] Per ciò che il concetto moderno di conoscenza significa, Galileo e Keplero, Newton e Euler sono testimoni altrettanto importanti e pienamente validi di Cartesio e Leibniz. L’intero sviluppo ci apparirebbe saltuario e lacunoso se noi volessimo rinunciare a considerare questo importantissimo anello di congiunzione. Solo in esso e in virtù del suo rapporto con esso, infatti, il pensiero filosofico conserva la sua vera continuità interna. Che ci sia conoscenza come rigoroso e univoco concetto logico, viene dimostrato solo qui completamente. Anche gli altri campi dell’attività spirituale, anche il diritto e la lingua, l’arte e la religione, portano un particolare contributo al problema generale della conoscenza. Ma poiché essi si avvicinano a questo problema dai più svariati punti di vista, non è possibile accertare se e quanto lo intendano in un senso veramente unitario. Anche in essi ci si presenta una serie di caratteristiche prese di posizione di fronte all’«io» e alla «realtà», ma spesso è discutibile che in questa abbondanza di motivi si possa distinguere e fissare una tendenza fondamentale comune. Soltanto nella scienza esatta, nel suo progresso continuo, malgrado tutte le oscillazioni, l’unità del concetto di conoscenza, che in tutti gli altri campi rimane solo un’esigenza, ha il suo vero compimento e la sua conferma. […] Se si vuol mettere in rilievo nelle varie correnti e tendenze di pensiero che cooperano alla formazione della filosofia moderna un aspetto fondamentale comune, si presenta in prima linea, come caratteristica distintiva, il rapporto in cui esse stanno con la concezione medievale della logica. Nel rifiuto della dialettica e del sillogismo come mezzi fondamentali della conoscenza si incontrano scepsi e scienza sperimentale, umanesimo e filosofia della natura. Per qualche tempo poté sembrare che con questa negazione fosse stata detta l’ultima parola, che l’osservazione immediata delle cose dovesse respingere e sostituire la riflessione sull’essenza del concetto e sulle leggi della sua struttura. Lo spirito non ha più bisogno della scuola e della guida della dialettica: esso si pone immediatamente di fronte all’esperienza interna ed esterna, nella quale gli si offre una fonte di conoscenza più ricca e più sicura. Tuttavia nella storia dell’origine e della formazione della scienza moderna abbiamo riconosciuto, come caratteristica peculiare di questa, che pur nel suo abbandono alla materia della conoscenza le si offre quasi da sé una nuova metodica della ricerca. Anche questa coscienza si esprime sempre più chiaramente man mano che si procede nel suo sviluppo, e l’idea di un «nuovo organo» assume un’importanza sempre più centrale. Non è solo Bacone a sostenere quest’esigenza; anche nella filosofia speculativa della natura [del Rinascimento], che conformemente alla sua idea fondamentale cerca di comprendere lo spirito come un oggetto tra gli oggetti, si rivela a poco a poco un mutamento d’indirizzo nell’indagine. Nel Campanella, la cui filosofia non fa che continuare e portare a compimento la dottrina del Telesio, è già presente tuttavia il piano di una scienza

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Introduzione La nascita della filosofia moderna

Riflessioni diverse sull’importanza del metodo

La svolta cartesiana: il metodo come fondamento di ogni sapere

Galileo elabora un nuovo concetto di natura, dominata dalla necessità

Problema dell’origine della necessità

sua propria, che non deve più avere per oggetto la natura delle cose, ma il modo della nostra conoscenza; «rerum naturas cognoscere difficile quidem est, at modum cognoscendi longe difficilius» («Conoscere la natura è difficile, ma ben più difficile è il modo della conoscenza»). E in Bruno, se si considera il complesso della sua produzione letteraria, gli scritti «metodologici» sono più numerosi delle sue opere sulla riforma della cosmologia e dell’intuizione della natura. Ma proprio questo esempio mostra chiaramente che il significato del problema, in tutti questi tentativi, non è compreso e definito univocamente. In Bacone il metodo, per quanto apparentemente gli sia assegnato il compito di raccogliere e di vagliare il materiale empirico, deve servire in ultima analisi a scoprire le «forme» delle cose in senso scolastico: in Bruno esso diventa lo strumento dell’arte lulliana, in virtù della quale il contenuto infinito della conoscenza deve essere costretto nella fitta rete di determinate formule simboliche e tenuto in serbo per la memoria. Così in tutti questi esempi il metodo è soltanto una parola d’ordine, che nasconde contenuti molto diversi e che in se stessa non significa e non garantisce ancora un rinnovamento basilare dell’ideale di conoscenza. Anche là dove esso è compreso e applicato nel senso più autentico non costituisce il principio fondamentale, ma una istanza accessoria, che sostiene e controlla l’acquisizione del sapere. Esso conduce alle fonti da cui proviene la conoscenza; ma in sé non ne è né la causa prima né il fondamento. Cartesio è considerato il fondatore della filosofia moderna non perché mette in prima linea l’idea del metodo, ma perché vi coglie un nuovo compito. Non soltanto la struttura formale, ma anche l’intero contenuto della conoscenza «pura» deve venir ricavato e dedotto da una concatenazione ininterrotta, da un originario principio metodico. Lo stesso Cartesio ha considerato e definito tutte le sue varie produzioni scientifiche come altrettanti sviluppi e ramificazioni di quest’unico nucleo fondamentale. La geometria analitica, che è all’inizio delle sue scoperte e che di tutte costituisce la premessa costante, non è altro per lui che «il frutto spontaneo del principio innato del metodo». Rendersi conto di questa relazione e seguirla fino nei suoi sviluppi concreti nella fondazione della meccanica e della fisica speciale è l’esigenza fondamentale per la comprensione del sistema filosofico di Cartesio. Questa metodica è storicamente legata al nuovo concetto della natura e della conoscenza della natura sorto nel frattempo. A prima vista la sua caratteristica principale sembra essere il rivolgersi all’esperienza interna, all’analisi dei soli processi della coscienza. Ma un’indagine più precisa mostra che qui si tratta di un singolo momento, subordinato a un compito più generale. […] Galileo contrappone alla concezione della natura della sua epoca l’idea della necessità. La necessità è per lui, com’era stata per Leonardo da Vinci, l’«inventrice della natura» e la sua maestra e tutrice. Galileo resta fermo a essa, che è fondata sulle regole universali della geometria e della matematica. Non è necessario spiegare ulteriormente il suo significato: lo comprende chiunque abbia capito veramente anche una sola volta un principio matematico e abbia «gustato» in esso com’è fatto il sapere. È tipico della mentalità di Cartesio e dell’indirizzo della sua ricerca che egli non si appaghi di questa forma di giustificazione. Non si tratta solo di sperimentare internamente che cosa sia la necessità, ma anche di com-

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Dalla necessità del pensiero alla necessità dell’essere

La conoscenza e la realtà

Kant pone nuovi problemi all’indagine sulla conoscenza

prendere donde essa derivi. Infatti nel trasportare questo concetto sulla «natura», sull’essere delle cose concrete, sono già insiti un duplice significato e una difficoltà interna. Secondo il suo senso originario vero e proprio, la necessità non si riferisce a cose o processi determinati, ma unicamente a conoscenze determinate. È una caratteristica riguardante i giudizi e la diversa validità di classi di giudizi. La concezione matematica della natura, che Cartesio scopre indipendentemente e parallelamente a Galileo, applica questo termine del pensiero direttamente all’essere. Come si spiega questo passaggio e come lo si può giustificare? Così il risultato del lavoro intellettuale dell’indagine moderna diventa nuovamente un problema. Il filosofo analista comincia la sua opera proprio al punto a cui doveva arrestarsi la scienza esatta. L’armonia tra la conoscenza e la realtà, che stava alla base di essa come una premessa implicita, viene ora annullata dal dubbio critico, e sorge il compito di ricomporlo per altra via. […] Il compito analitico posto al pensiero moderno trova la sua conclusione logica nel sistema di Kant. Qui viene fatto l’ultimo passo decisivo, poiché il conoscere viene posto completamente su se stesso e non è più anteposto alla sua propria normatività nel campo dell’essere e della coscienza. Ma proprio per il fatto di aver compiuto questa svolta, Kant non porta tanto a compimento la speculazione precedente quanto piuttosto crea nuovi problemi che arrivano direttamente fino alla speculazione attuale. (Einaudi, Torino 1978, 1, pp. 22-25, 30, 483-485, trad. di A. Pasquinelli)

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento 1. I caratteri dell’Umanesimo 1. Il ritorno degli antichi 2. Una nuova figura di intellettuale 3. Impegno civile e dignità dell’uomo: Pico della Mirandola

2. Dall’Italia all’Europa: diffusione dell’Umanesimo e riforma religiosa 1. Filosofia cristiana e umori critici: Erasmo 2. La crisi religiosa: Riforma protestante e Controriforma 3. Una ragione non dogmatica: Montaigne

2. Il naturalismo antiaristotelico: Telesio 3. Un nuovo sistema filosofico: Campanella 4. La magia e la scienza moderna

5. L’uomo nell’infinito: Bruno 1. La cosmologia: universo infinito e infiniti mondi 2. L’ontologia: materia, anima, vicissitudine 3. L’etica: la critica dell’ozio e l’esperienza del furore 4. La religione: dalla «nova filosofia» alla riforma del mondo

6. La riflessione politica 3. Il nuovo platonismo del Rinascimento 1. Platone e Aristotele dopo il Medioevo 2. Fra Ermete e Platone: la «teologia platonica» di Ficino 3. Fra Platone e Aristotele: la pax philosophica di Pico 4. Fra neoplatonismo e tradizione mistica: la «dotta ignoranza» di Cusano

1. La lezione degli antichi e l’esperienza dei moderni: Machiavelli 2. La politica fra «discrezione» e analisi del «particulare»: Guicciardini 3. Il reale e l’immaginario: le ‘città ideali’ di Moro e Campanella

4. La filosofia della natura fra magia e scienza 1. Il naturalismo aristotelico: Pomponazzi

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

I caratteri dell’Umanesimo

1 I testi

G. Pico della Mirandola Oratio de hominis dignitate: La natura dell’uomo è la libertà, T1

Categorie storiografiche discusse

Un programma di rinnovamento della cultura

Il mito degli antichi

1 Ricerca e trascrizione di manoscritti di opere ‘perdute’

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Cercare di tracciare, in forma sintetica, le linee di forza della cultura filosofica dell’età dell’Umanesimo e del Rinascimento è operazione complessa. E lo è non solo per la presenza in questa stagione culturale di componenti molteplici e talvolta contraddittorie. Ma anche perché un’operazione del genere richiederebbe la discussione preliminare delle stesse categorie di «Umanesimo» e «Rinascimento» e del loro rapporto, da un lato, con il Medioevo, dall’altro, con la modernità: un problema storiografico ormai classico, lungamente dibattuto, e tuttavia decisivo per l’interpretazione di questa età. Limitiamoci quindi a ricordare un dato indiscutibile: in Europa, a partire dalla seconda metà del Trecento e per quasi tre secoli, si afferma una cultura il cui obiettivo è quello di realizzare un programma complessivo di rinnovamento del sapere ispirato a ideali conoscitivi e a una scala di valori sensibilmente diversi da quelli privilegiati nei secoli immediatamente precedenti. Si tratta, anzi, di una cultura che orgogliosamente si presenta e si autodefinisce in polemica, consapevole antitesi con l’‘età di mezzo’. Come è noto, sono infatti gli umanisti a elaborare per primi il mito – poi ripreso con forza dagli illuministi e in particolare da Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783)– della rinascita, di un ritorno alla luminosa cultura greco-romana messo in atto per liberare gli uomini dalle tenebre del barbaro e ignorante Medioevo, tutto orientato verso la dimensione trascendente e incurante delle esigenze effettive degli uomini.

Il ritorno degli antichi Il ritorno degli antichi, la riscoperta dei classici costituisce dunque l’origine e la nota dominante di questa cultura. A partire dalla fine del Trecento, gli umanisti si dedicano a un’intensa attività di ricerca e trascrizione di manoscritti antichi, secondo due linee di esplorazione convergenti: i testi latini vengono individuati attraverso una capillare ricognizione delle biblioteche monastiche italiane ed europee; per i testi greci si guarda invece al mondo del mercato librario di Costantinopoli. Nel giro di pochi anni viene così rimessa in circolazione una notevole quantità di opere letterarie, filosofiche, scientifiche, enciclopediche delle quali il Medioevo aveva perduto memoria, o aveva avuto una conoscenza frammentata, sommaria, imprecisa. E alla riscoperta si accompagna un’intensa opera di correzione, emendazione e quindi traduzione, ispirata a criteri di chiarezza ed ele-

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

La filologia: prospettiva storica e rapporto critico con i testi

Nuovi fondamenti epistemologici e recupero di autori antichi

2 Nuovi ceti intellettuali laici e cittadini

Trasformazione delle università

Nuovi centri di ricerca e di insegnamento

ganza ancora una volta contrapposti alla rozzezza, alla letteralità e all’oscurità delle versioni medievali. Questo processo ha un significato che va ben al di là del mero dato quantitativo, pure imponente. Come ci ha insegnato uno dei maggiori studiosi di questo periodo, Eugenio Garin, quel che conta sono le forme dell’approccio, gli interessi e le domande del presente a cui questa riscoperta risponde. Diversamente dai pensatori medievali – che pure avevano assimilato, anche se in forme ‘cristianizzate’, aspetti del sapere antico –, gli umanisti si accostano alle opere della classicità con la consapevolezza del fatto che si tratta di una cultura straordinaria sì, ma diversa e irriducibile alla propria. Verso il passato l’Umanesimo assume, per la prima volta, un’autentica prospettiva storica. Con i testi si stabilisce così un rapporto critico, che trova la propria espressione emblematica in una disciplina allora nascente: la filologia, che è, appunto, analisi rigorosamente storica delle opere, indagate nella loro costituzione testuale e nella loro espressione linguistica. Nel corso di questo processo di rifondazione del sapere, le singole discipline – dalla storia alla politica, dalla medicina alla filosofia – vengono, da un lato, discusse nei loro fondamenti epistemologici; dall’altro, rese autonome dallo schema enciclopedico scolastico, dominato dalla teologia e dalla metafisica. Ma la cultura umanistica incrina i fondamenti della tradizione costituita anche moltiplicando le voci del dialogo culturale, attraverso una serie di auctoritates assai più nutrita e articolata rispetto al Medioevo. Così, alla voce di Aristotele, egemone nei secoli precedenti, se ne affiancano progressivamente altre, a cominciare da quella di Platone, fino a reintegrare nel dibattito culturale – grazie anche alla diffusione delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio – correnti di pensiero trascurate o sottovalutate, come lo stoicismo, o addirittura rifiutate, come l’epicureismo.

Una nuova figura di intellettuale Lo sviluppo della nuova cultura umanistica porta con sé un sensibile mutamento anche nella geografia dei tradizionali luoghi di elaborazione, trasmissione e applicazione del sapere. A partire dal tardo Trecento, protagonisti di questo rinnovamento sono i nuovi ceti intellettuali cittadini, estranei al mondo universitario, e provenienti da studi giuridici o dall’insegnamento grammaticale e retorico. Notai, segretari, maestri condividono il distacco dalla tradizione scolastica, dal suo linguaggio altamente formalizzato, dai suoi tecnicismi, dalla sua astrazione. In una società e in una cultura in rapida evoluzione gli umanisti contribuiscono così, da un lato, a mettere in discussione le gerarchie costituite del sapere; dall’altro, a proporre alternative alle professioni intellettuali consuete. I luoghi tradizionali del sapere – le università – si aprono abbastanza presto ad accogliere alcuni aspetti del rinnovamento umanistico, a partire dalla scelta di leggere gli auctores, compreso lo stesso Aristotele, o nella loro lingua originaria o in traduzioni e commenti umanistici. Tuttavia, in questi decenni, le università non possono più essere considerate le uniche (e neanche le più importanti) istituzioni dove si producono e circolano la cultura e la filosofia. Accanto ad esse – e talvolta contro di esse – si formano nuovi centri di ricerca e di insegnamento: da semplici circoli umanistici a vere e proprie accademie; dalle nuove biblioteche, anche pubbliche (rapidamente incrementate grazie ai ritmi 15

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

di produzione dei libri resi possibili dalla recente invenzione della stampa), alle cancellerie politiche, allo spazio istituzionale privilegiato per l’intellettuale di questi secoli: la corte signorile, che garantisce protezione, mecenatismo e tranquillità negli studi, anche se talvolta a prezzo di condizionamenti ideologici tutt’altro che irrilevanti. Nuove figure Va inoltre sottolineata la feconda circolazione di idee che si realizza, a partire dal di intellettuali Quattrocento, tra filosofi naturali, artisti e tecnici, superando in parte la classica contrapposizione tra lavoro manuale e attività intellettuale. E comincia a delinearsi il profilo di uomini di cultura pronti a coniugare – come faranno ai livelli più alti Filippo Brunelleschi (1377-1446) o Leon Battista Alberti (1406-1472) – competenze intellettuali e abilità manuali, riflessione morale e pratica di ingegneria o di architettura.

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Impegno civile e dignità dell’uomo: Pico della Mirandola

L’educazione imperniata sugli studi umanistici si collega anche a un nuovo concetto di cittadino. Questo concetto – che interpreta la politica della città come terreno in cui le potenzialità umane si esercitano nel modo più compiuto – si sviluppa in modo particolare nell’Umanesimo fiorentino, dove le strutture politiche – fino alla metà del Quattrocento ancora repubblicane – favoriscono la formazione di una figura del tutto nuova: l’umanista-cancelliere, insieme politico attivo e uomo di cultura. I rappresentanti più tipici e noti di questo atteggiamento politico-culturale, che va sotto il nome di «Umanesimo civile», sono Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1374-1444). La riflessione Ma al centro della filosofia morale quattrocentesca è certo la riflessione sulla disulla dignità dell’uomo gnità dell’uomo e la sua nobiltà. Il tema è modulato in forme diverse, soprattutto nell’ambito della cultura fiorentina: costituisce, per esempio, il nucleo dell’opera di Giannozzo Manetti, intitolata appunto De dignitate et excellentia hominis, e composta intorno al 1452. Ma esso trova il suo vertice nella Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola, scritta alla fine del 1486 come introduzione alla grande disputa destinata a mostrare la convergenza e l’accordo fra le diverse tradizioni e filosofie (vedi p. 32). L’Umanesimo civile

La vita e le opere Giovanni Pico nacque il 24 febbraio 1463 nel feudo di Mirandola e Concordia, fra Modena e Ferrara, figlio di un uomo d’armi, Giovan Francesco I, e di Giulia Boiardo, zia dell’autore dell’Orlando innamorato. Dopo aver studiato diritto canonico a Bologna, passò alla corte estense di Ferrara. Fra il 1480 e il 1483 fu a Padova, centro dell’aristotelismo, dove studiò sotto la guida del celebre maestro Nicoletto Vernia e conobbe Elia del Medigo, che lo introdusse alla lettura dei commentatori arabi di Aristotele. Per approfondire la conoscenza della teologia scolastica, nel 1485 si recò a Parigi, alla Sorbona. Nello stesso anno, da Firenze, dove aveva intanto intrecciato rapporti con il circolo radunato attorno a sé da Lorenzo de’ Medici, indirizzò a Ermolao Barbaro la let-

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tera De genere dicendi philosophorum («Il genere del discorso filosofico»), in cui rivendicava la profondità di pensiero dei filosofi medievali, criticando la possibile degenerazione retorica dell’Umanesimo. Ritornato in Italia nel 1486, intraprese lo studio dell’arabo e dell’ebraico con Flavio Mitridate, che tradusse per lui alcuni testi cabbalistici. Nel dicembre 1486 giunse a Roma per un incontro dei dotti progettato per il 6 gennaio 1487, e in vista del quale erano state redatte sia le Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae («Conclusioni filosofiche, cabbalistiche e teologiche») che la Oratio de hominis dignitate («Orazione sulla dignità dell’uomo»). La discussione venne bloccata per intervento del papa Innocenzo VIII, il quale condannò alcune tesi nell’agosto del 1487; negli stessi mesi, Pico le

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

difese in un’Apologia. Costretto a rifugiarsi in Francia, venne arrestato nel 1488 e imprigionato nel carcere di Vincennes, a Parigi. Liberato per intercessione di Lorenzo de’ Medici, ma profondamente segnato dalla vicenda, tornò a vivere a Firenze, dove frequentò assiduamente Girolamo Savonarola e Angelo Poliziano. Qui pubblicò nel 1488 l’Heptaplus, un commento in stile cabbalistico dei primi versetti della Genesi, e nel 1491 il De ente et uno («L’ente e l’uno»), per dimostrare la conLa riflessione sull’essenza dell’uomo

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La natura dell’uomo è la libertà

G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate

cordanza tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele. Negli ultimi anni di vita lavorò a un commento ai Salmi, rimasto incompiuto, e alla stesura di un’opera contro l’astrologia, le Disputationes adversus astrologiam divinatricem («Dissertazioni contro l’astrologia divinatrice»), in dodici libri, pubblicata postuma nel 1496. Morì, ancora giovane, il 17 novembre 1494, forse per veleno, chiedendo di essere sepolto con il saio dei domenicani, l’ordine religioso di Savonarola.

L’Oratio de hominis dignitate è davvero notissima, e ha avuto un suo rilievo e una sua fortuna anche nella filosofia successiva. Intrecciando temi della tradizione cristiana, platonica ed ermetica (va ricordato, a questo proposito, che l’Oratio si apre con la battuta del trattato ermetico Asclepius: «Grande miracolo, o Asclepio, è l’uomo», vedi sotto p. 29), Pico svolge un ragionamento il cui nucleo centrale si può riassumere così: la natura dell’uomo si identifica con la più totale, assoluta libertà. All’inizio di questo testo Pico presenta una scena in cui Dio stesso, dopo aver creato le essenze di tutte le cose, dalle intelligenze angeliche all’ultimo degli animali, si rivolge direttamente all’uomo per annunciargli che a lui non verrà donata un’essenza definita e stabile, uno statuto ontologico preciso. […] stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine».

È Dio stesso, dunque, che ha voluto immettere nella natura dell’uomo il dono dell’assoluta libertà. Posto al centro del mondo, egli può contemplarlo tutto, ammirandone la bellezza e afferrandone la più profonda ragione di essere. E può, di volta in volta e nel corso della stessa vita, aderire a questa o quella parte di mondo, scegliere scale dissimili di valori e forme diverse di esistenza, innalzandosi – come un angelo – verso Dio e il mondo celeste, oppure abbassandosi – come un bruto – verso la bestialità. L’uomo Vale la pena di insistere ancora sull’immagine di uomo che affiora dalle pagine è un «camaleonte» dell’Oratio: quella di un «camaleonte», pronto ad assumere tutti i colori; oppure di un Proteo, la divinità marina dai mille volti, «per l’aspetto cangiante e la natura mutevole»; quella, insomma di un essere disponibile a ogni tipo di metamorfosi, come del resto, secondo Pico, concordemente insegnano le molte fonti ➥ Sommario, p. 66 antiche che riecheggiano e si intrecciano in questo testo.

La libertà come dono di Dio all’uomo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Dall’Italia all’Europa: diffusione dell’Umanesimo e riforma religiosa

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I testi E. da Rotterdam Elogio della follia: La follia della croce, T2

Una diffusione omogenea ma asimmetrica

Una società internazionale di dotti uniti dal latino

Erasmo e Montaigne: i maggiori protagonisti dell’Umanesimo europeo

L’evoluzione dell’esperienza dell’Umanesimo

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M. de Montaigne Saggi: Montaigne si presenta ai suoi lettori, T3; Diversità e varietà della natura, T4; La barbarie degli europei, T5

Nella sua prima fase, l’Umanesimo si caratterizza come fenomeno in prevalenza italiano. A partire dalla fine del Quattrocento, al processo di formazione degli umanisti come ceto autonomo si accompagna la diffusione di questa nuova cultura dall’Italia agli altri Paesi d’Europa – dalla Francia ai Paesi Bassi, dall’Inghilterra alla Germania, alla Spagna. Si tratta di un processo che, pur presentando una linea di evoluzione omogenea, si sviluppa secondo tempi asimmetrici e in forme diverse da Paese a Paese. In Francia, per esempio, la prima ricezione della cultura umanistica si configura nei termini di una notevole diffusione del platonismo ficiniano (vedi sotto p. 29), spesso in combinazione con tradizioni esoteriche di pensiero. In altri Paesi le istanze umanistiche si intrecciano invece in maniera privilegiata con le esigenze di rinnovamento religioso o con la riflessione politica. Altro aspetto significativo della diffusione dell’Umanesimo è l’emergere di una società internazionale di dotti, unificata dall’uso del latino come lingua comune, che intreccia un dialogo fitto e costante, testimoniato dagli epistolari. E alcune di queste raccolte, per esempio quella – straordinaria – di Erasmo, ci consentono di tracciare una vera e propria mappa del sapere europeo del tempo. I due grandi protagonisti della cultura filosofica umanistico-rinascimentale presi in esame in queste pagine – Erasmo e Montaigne – incarnano in forma addirittura paradigmatica il mutamento complessivo che investe, nell’arco di due generazioni, la figura stessa dell’intellettuale. Se Erasmo è il rappresentante più celebre del sogno umanistico di tolleranza e di pace coltivato, in forme diverse, per tutto il Quattrocento, Montaigne vive invece la realtà drammatica degli odi confessionali e delle guerre di religione che insanguineranno l’Europa per più di un secolo. L’orgogliosa indipendenza di Erasmo è destinata così a lasciare il posto alla sorte ben più drammatica di tanti pensatori del secondo Cinquecento o del primo Seicento, posti di fronte a un’alternativa davvero amarissima: affrontare lo scontro con il potere politico o religioso, con gli esiti spesso tragici testimoniati dalle vicende di Giordano Bruno e Tommaso Campanella; oppure, di fronte al divampare dei conflitti e al dissolversi di ogni certezza, ritirarsi nella propria interiorità nutrita della lezione dei classici e di scetticismo, come nel caso dello stesso Montaigne.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

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Filosofia cristiana e umori critici: Erasmo Rinascita delle buone lettere e aspirazione al rinnovamento della vita religiosa sono i due assi fondamentali intorno ai quali ruota il pensiero del grande filologo e studioso olandese Erasmo da Rotterdam.

La vita e le opere Desiderio Erasmo nacque a Rotterdam nel 1466 o 1469. Dopo aver frequentato a Deventer la scuola dei Fratelli della vita comune, si avvicinò alla vita monastica nel convento agostiniano di Steyn, presso Gouda. Una volta ordinato sacerdote, abbandonò ben presto il convento per viaggi di studio che lo portarono prima a Parigi, quindi, a più riprese, in Inghilterra (dove strinse una duratura amicizia con Thomas More), e poi in Svizzera, in Germania, in Italia. La sua fama di grande umanista si diffuse così in tutta Europa, come testimonia la ricchissima corrispondenza (il suo epistolario comprende più di tremila lettere) che egli intrattenne con i maggiori dotti contemporanei. Nel 1522 si stabilì a Basilea dove, fatta eccezione per un soggiorno a Friburgo durato alcuni anni (1529-1535), visse fino alla morte, avvenuta nel 1536. Tra le sue opere principali vanno ricordati: l’Enchiridion I modelli classici

La critica del cristianesimo contemporaneo

Ritorno a un linguaggio universale e cristiano: la follia positiva

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La follia della croce

E. da Rotterdam, Elogio della follia

militis christiani («Il manuale del soldato cristiano»), del 1503, che presenta le linee del suo progetto di riforma della cristianità; L’elogio della follia, del 1511, un testo aspramente satirico, in cui Erasmo svolge una critica serrata del rovesciamento di ogni valore tipico del proprio tempo; l’Institutio principis Christiani («L’educazione del principe cristiano»), del 1516, manifesto del suo pacifismo e cosmopolitismo; l’antiluterana De libero arbitrio diatribe («Discussione sul libero arbitrio»), del 1524, cui vanno aggiunte le raccolte degli Adagia («Proverbi») e dei Colloquia («Conversazioni»). Fondamentali sono inoltre i frutti della sua intensa attività di filologo: l’edizione critica del Nuovo Testamento (accompagnata dalla traduzione latina e da importanti annotazioni), pubblicata in più edizioni a partire dal 1516, e l’edizione critica delle opere di molti Padri della Chiesa. Dopo la sua morte, nel 1559, le sue opere furono messe all’Indice dall’Inquisizione.

L’opera più nota e celebrata di Erasmo è L’elogio della follia. Dal punto di vista letterario, l’operetta si ispira a modelli classici: in quanto elogio ironico di ciò che è assurdo e irragionevole, essa rimanda infatti alla satira greca, e in particolar modo a Luciano di Samosata (120-190 ca.). Del tutto aderenti all’attualità sono invece i contenuti. Nell’Elogio la corrosiva critica erasmiana investe tutti gli aspetti dell’esperienza cristiana contemporanea, dominata da un formalismo astratto e sterile e da un conformismo che sono la vera causa della sua profonda decadenza e corruzione. Egli critica le pratiche di culto ridotte a pura messinscena o assimilabili a rituali superstiziosi e la vita dissoluta di monaci ed ecclesiastici. E ancora: il dogmatismo dei teologi, che hanno ridotto il genuino linguaggio apostolico a un insieme di formule incomprensibili e controverse; la divaricazione tra professione di fede e comportamenti effettivi; la mondanizzazione della corte papale, dove ora, al posto della semplicità e povertà autenticamente cristiane, regnano i principi e i costumi della politica più concreta e spregiudicata. Se questa follia negativa ha trasformato la spiritualità del cristianesimo in una pratica superficiale e vana, occorre superare lo schermo delle apparenze per ricostituire un linguaggio davvero universale e cristiano. Per far questo, bisogna mettere al centro un altro tipo di «follia», stavolta di segno positivo: l’imitazione di Cristo, la «follia della croce», di cui ha parlato Paolo di Tarso (più avanti indicato solo come Paolo) nella seconda Lettera ai Corinzi. Questa sorta di raptus conoscitivo e amoroso è in grado di liberare l’uomo dalle false ambizioni e di ricondurlo a Dio. Questa è la parte della follia che il passaggio da una vita all’altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto parteciparne – pochissimi invero – sono colti da un turbamento che alla follia è vicinissimo; fanno discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi all’improvviso mutano completamente d’espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora ridono, ora 19

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sospirano; insomma sono davvero del tutto fuori di sé. Appena poi rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati, se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati; di non sapere che cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare attraverso il velame della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine quando erano in quello stato. Il ritorno al messaggio originario del cristianesimo si intreccia saldamente in Erasmo con un altro motivo profondo della sua riflessione: il richiamo al valore supremo della pace. Il messaggio di Cristo rigenera infatti la vita di ognuno solo nella misura in cui è compenetrazione di teoria e pratica, all’insegna di una concordia che va prima praticata individualmente, quindi proiettata anche sull’orizzonte della comunità politica. Se il fondamento della pace è nel Vangelo, per recuperarlo è necessario ripristinare e rendere di nuovo disponibile il messaggio cristiano, oscurato da secoli di false interpretazioni, dispute e contrasti. Recupero filologico Da qui, il richiamo erasmiano all’insegnamento dei Padri della Chiesa – in primo dei testi cristiani luogo Girolamo – e l’esigenza di approntare un’edizione filologicamente attendibile e una buona traduzione del Nuovo Testamento, affinché esso torni a essere patrimonio condiviso dei fedeli e non mero appannaggio dei teologi. La nuova edizione del testo greco del Nuovo Testamento vedrà la luce per la prima volta nel 1516, accompagnata dalla traduzione latina e da un corposo apparato di note. Cristianesimo ed eticità Una volta liberata dalle interpolazioni e dagli irrigidimenti dottrinali, la parola di Dio trasmette all’uomo un messaggio che Erasmo definisce philosophia Christi. Si tratta di un cristianesimo fortemente connotato in senso etico, di un progetto – in cui Cristo è guida e maestro – che investe a un tempo mente e cuore, cultura classica e condotta di vita, saggezza profana e prassi evangelica. Il valore della pace

Erasmo

Erasmo: critica alla Chiesa e rinnovamento del cristianesimo

2 La questione cristiana nell’Europa del Cinquecento

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Critiche alla Chiesa – Rifiuto del formalismo e del conformismo religiosi – Condanna delle pratiche di culto – Contrapposizione tra fede e comportamenti – Opposizione alla mondanizzazione e alla ricerca del potere politico e temporale nella corte papale Proposte per il rinnovamento del cristianesimo – Imitazione di Cristo e «follia della croce» – Esaltazione della pace – Traduzione e recupero filologico dei testi cristiani – Cristianesimo fortemente connotato in senso etico – Conciliazione tra cristianesimo e cultura classica

La crisi religiosa: Riforma protestante e Controriforma Attraverso la propria riflessione Erasmo esprime un sentimento diffuso nella cultura del tempo: l’insoddisfazione per l’atteggiamento della Chiesa, sempre più coinvolta nelle questioni di potere e impegnata nel ruolo politico e sempre meno fedele alla tradizione dottrinale e all’impegno pastorale. La reazione erasmiana a questi problemi, intrisa di cultura umanistica, non è

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però l’unica: dall’interno stesso della Chiesa sorge infatti un vasto movimento che si pone inizialmente come un tentativo di correzione e di riforma, ma che con il tempo, anche a causa del sommarsi di una serie di fattori non solo teologici, ma politici, sociali e culturali, genera una radicale frattura nell’unità religiosa dell’Europa cristiana. L’iniziatore e il principale protagonista di questo movimento è un monaco agostiniano tedesco: Martin Lutero.

La grazia, la fede, la Scrittura: Lutero Il nucleo centrale della teologia di Martin Lutero si può sinteticamente racchiudere in una serie di formule: sola gratia, sola fide, sola Scriptura. Proviamo ad analizzarle più da vicino. La teologia di Lutero apre fra Dio e uomo un abisso incolmabile, fondato sulla netta contrapposizione fra carne e spirito, peccato e redenzione. Il peccato originale, secondo Lutero, ha infatti precipitato l’uomo in una condizione di corruzione assoluta, facendone una creatura segnata dal peso della carnalità e da una tendenza connaturata a operare il male. Salvezza e grazia Da questa condizione, l’uomo non è in grado in nessun modo di riemergere con le proprie forze, riscattandosi agli occhi di Dio attraverso la pratica delle buone azioni o l’osservanza della legge morale. Profondamente angosciato dalla prospettiva di non potersi salvare e rendere giusto di fronte a Dio, Lutero individua una soluzione nelle parole di Paolo nella Lettera ai Romani: «L’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge». La salvezza non rimanda dunque allo sforzo dell’uomo di acquistare meriti agli occhi della divinità: sono la bontà e la misericordia di Dio a salvarci, attraverso l’opera esclusiva e imperscrutabile della grazia.

La frattura tra uomo e Dio operata dal peccato originale

La vita e le opere Martin Lutero nacque nel 1483 a Eisleben, in Sassonia, da una famiglia di origini assai modeste. Compì gli studi accademici a Erfurt. Diventato magister artium, si dedicò allo studio del diritto, ma nel luglio 1505, in seguito a una crisi spirituale, entrò nel monastero degli agostiniani osservanti della stessa città. Prese i voti l’anno successivo e venne ordinato sacerdote nel 1507; nel 1512 conseguì il dottorato in teologia e cominciò a insegnare teologia biblica all’università di Wittenberg. In anni di studio intenso e di severa vita ascetica, Lutero elaborò, fra dolorosi conflitti interiori, quel nuovo modo di interpretare il cristianesimo che presenterà a Wittenberg nel 1517, pubblicando novantacinque tesi, in cui criticava indulgenze, voti, pellegrinaggi, digiuni, opere devote, poiché tali manifestazioni pretendevano di riuscire gradite a Dio per efficacia propria. Al contrario, secondo Lutero – che sviluppò questi temi soprattutto nel Commento alla Lettera ai Romani di Paolo –, la salvezza non è legata alle buone opere o all’osservanza della legge, ma discende dalla grazia che Dio concede per sua libera iniziativa all’uomo peccatore. Nel 1518 Lutero venne dichiarato eretico; nel 1520 fu condannato dal papa e tre anni più tardi scomunicato. Rifiutando di ritrattare le sue opinioni, egli dichiarò guerra aperta al papa (identificato con l’Anticristo) e all’intero sistema ecclesiastico. In questi anni, il suo aperto distac-

co dalla Chiesa di Roma fu scandito da azioni spettacolari (il rogo della bolla papale di condanna), ma anche dalla composizione di tre importanti opere: Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, De captivitate Babylonica Ecclesiae («Della cattività babilonese della Chiesa»), De libertate christiana («La libertà del cristiano»). Grazie alla protezione dell’elettore di Sassonia, Lutero sfuggì all’incarcerazione, rifugiandosi nel castello di Wartburg, dove si dedicò alla traduzione in tedesco del Nuovo Testamento, condotta sul testo greco di Erasmo e pubblicata nel 1522; nel 1534 tradusse anche l’Antico Testamento, rendendo così accessibile il testo sacro a vasti strati di popolazione. Tornato a Wittenberg nel 1522, riprese la guida del movimento della Riforma, affidando sempre più la difesa dell’ordinamento delle nuove comunità religiose alla protezione dei principi protestanti (e schierandosi addirittura con loro nella repressione delle sommosse contadine del 1525, guidate dal teologo Thomas Müntzer). Fra il 1524 e il 1525, con la polemica con Erasmo sul libero arbitrio per la quale scrisse il De servo arbitrio («Il servo arbitrio»), si consumò anche la rottura tra la Riforma e una parte del mondo umanistico, che considerava la concezione della dignità dell’uomo inconciliabile con la severa antropologia luterana. Turbato negli ultimi anni dalle differenze dottrinali e dalle tensioni politiche esplose in nome della libertà evangelica, Lutero morì a Eisleben nel 1546.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La giustificazione attraverso la fede

La fede come unica ‘opera buona’

Imperscrutabilità del disegno divino

La teologia della Croce

Il rapporto tra credente e parola di Dio, senza la mediazione della Chiesa

Siamo al concetto centrale della teologia di Lutero: quello della giustificazione, ossia dell’intervento di Dio che redime dal peccato, in virtù della sola fede. La giustizia di Dio può essere infatti intesa in due modi: il primo corrisponde all’accezione comune, umana di giustizia, secondo la quale essa premia o punisce gli uomini a seconda dei loro comportamenti. Ma è considerando la giustizia secondo un’accezione del tutto diversa che l’uomo può sperare nella salvezza per dono di Dio. È per sola, univoca iniziativa della sua volontà impenetrabile che Dio libera gli uomini dalle loro colpe, anche se non dal loro peccato. La grazia non cancella il peccato, ma non ne attribuisce la colpa all’uomo (nel lessico teologico, non lo imputa all’uomo), se egli si impegna concretamente a resistere all’inclinazione della sua natura. Condizione essenziale perché tale processo si compia, è la fede: l’uomo peccatore può ricevere la giustizia che Dio gli promette, solo a condizione che egli abbia fede in questa promessa. Per Lutero, l’unica vera ‘opera buona’ è quindi la fede, alla cui luce ogni azione diventa giusta, perché segno di una natura umana illuminata dalla grazia. Il disegno divino che trasforma alcuni uomini da condannati in ‘giustificati’ ed eletti è misterioso e insondabile. Ma non è lecito pretendere di valutare con criteri razionali la giustizia del comportamento di Dio, che resta irriducibile a ogni misura umana. La fede giustifica l’uomo, infatti, per mezzo del sacrificio di Cristo. Il processo di salvezza ha così il suo culmine nella «teologia della Croce», vale a dire nella figura drammatica del Cristo crocifisso che accetta liberamente di salvare l’uomo dal peccato per mezzo della sua sofferenza. Altro punto importante è il rapporto fra credente e parola di Dio, fra sentimento religioso ed esame della Scrittura. Per Lutero, la Scrittura è fonte esclusiva della fede e norma infallibile di verità. Né fra uomo e Dio appare in alcun modo necessario il tradizionale rapporto di mediazione esercitato dalla Chiesa, con le sue regole, rituali e apparati, fondati sulla partecipazione, sulla condivisione, sull’obbedienza. Se il rapporto fra Dio e uomo è fondato su principi irriducibili alla giustizia umana e ai suoi criteri remunerativi, le espressioni esteriori di religiosità risultano destituite di ogni valore, così come le gerarchie ecclesiastiche (ogni cristiano è sacerdote e ministro di Dio) e ogni altro consueto elemento di intercessione o garanzia di un corretto rapporto fra Dio e i suoi fedeli – dal meccanismo delle indulgenze ai sacramenti (che Lutero intende riportare ai tre fondamentali: battesimo, penitenza, eucarestia).

La Riforma oltre Lutero: Zwingli e Calvino Il movimento riformatore non si esaurisce nella figura di Lutero. Negli stessi anni in cui il monaco di Wittenberg inizia la sua battaglia, Huldrych Zwingli (1484-1513) vive un’esperienza analoga a Zurigo, città della cui cattedrale diviene parroco nel 1518. Influenzato dalla lettura di Paolo e di Agostino, egli si distacca dal cristianesimo critico ed etico di Erasmo, a cui aveva aderito durante la sua formazione teologica, e raggiunge una propria visione teologica fondata: 1) sulla salvezza, come opera della grazia e non ottenuta attraverso le opere;

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2) sulla fede nella misericordia divina; 3) sulla Scrittura, come unico riferimento per l’agire religioso e morale. Sulla base di questi principi Zwingli, sostenuto anche dalle autorità di Zurigo, elimina dal culto cittadino tutte le pratiche liturgiche legate alla superstizione e prive di un fondamento nella Scrittura: le processioni, il culto di Maria e dei santi, i digiuni, le immagini sacre, il celibato dei sacerdoti e gli ordini monastici, i sacramenti, esclusi il battesimo e l’eucarestia. Nel 1525 Zwingli pubblica il De vera et falsa religione commentarius («Commentario sulla vera e sulla falsa religione») in cui espone in maniera organica le proprie concezioni teologiche. Divenuto la massima autorità non

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solo religiosa, ma anche politica nella sua città, Zwingli si confronta sia con i cattolici che con il nascente movimento luterano: nel 1529 incontra Lutero a Marburgo per trovare una posizione comune, ma l’accordo è reso impossibile dalle divergenze riguardo il valore della celebrazione eucaristica. Per Zwingli essa è semplicemente una commemorazione dell’Ultima cena, in cui pane e vino sono solo simboli della presenza di Cristo, mentre Lutero, pur rifiutando la teoria cattolica, crede nella presenza reale del sangue e del corpo di Cristo nel pane e nel vino. Lo scontro con i cattolici invece si conclude con una battaglia a Kappel nel 1531 fra i cantoni che aderiscono alla riforma di Zwingli e quelli fedeli a Roma, durante la quale il riformatore svizzero muore. Ben presto però il movimento zwingliano viene soppiantato in Svizzera dal calvinismo, la cui influenza all’interno della Riforma è pari, e forse superiore, al luteranesimo. L’iniziatore, Giovanni Calvino (1509-1564), è di origine francese e, dopo una formazione umanistica e giuridica, a causa del suo impegno per il rinnovamento della Chiesa, è costretto a lasciare la capitale, prima, e la Francia, poi. Giunto in Svizzera, inizialmente si rifugia a Basilea dove nel 1536 pubblica la sua opera fondamentale Christianae religionis institutio («Istituzione della religione cristiana»): opera che amplia nel 1545,

1550, 1559 e in cui si trovano i principi della sua teologia, destinati a influenzare tutte le Chiese riformate che si richiamano alla sua visione religiosa. Il tratto dominante del calvinismo, che condivide con gli altri movimenti riformatori il richiamo alla Scrittura come fondamento della teologia e della fede, è la concezione di Dio come un sovrano assoluto e un giudice inappellabile da cui deriva una teoria della predestinazione radicale. Secondo Calvino, l’elezione alla salvezza deve manifestarsi in ogni aspetto della vita, compresi il lavoro (il successo è un segno visibile del decreto divino che segna il destino di ognuno), il comportamento pubblico etico e politico, la sobrietà dei costumi e la rinuncia a tutto ciò che è superfluo. Chiamato a Ginevra, dopo vari contrasti che lo costringono ad abbandonare la città, Calvino vi si stabilisce definitivamente nel 1541 e modella la città sulla base dei propri principi teologici, etici e politici. Il governo è affidato a un concistoro che comprende dodici anziani e i pastori e una disciplina dura e intransigente viene imposta in ogni aspetto della quotidianità: abolizione del lusso, degli spettacoli, delle feste ecc. Durissimo è anche il trattamento che ricevono dissidenti o eretici. Nel 1559 a Ginevra viene fondata l’Accademia per la formazione teologica dei pastori, che fa della città uno dei centri del protestantesimo internazionale.

La risposta di Roma La Controriforma e il Concilio di Trento

Il libero arbitrio

L’importanza delle opere e il rifiuto della predestinazione

Alla sfida dottrinale e pastorale lanciata da Lutero e dagli altri riformatori la Chiesa di Roma risponde con quel moto di repressione, ma pure – per certi versi ed entro certi limiti – di rinnovamento, che va sotto il nome di «Controriforma». Espressione storica e normativa della Controriforma è il Concilio di Trento, tenutosi fra 1545 e 1563. Il Concilio si pone in primo luogo l’obiettivo di ribadire i punti fondamentali dell’ortodossia a proposito dei temi più scottanti discussi in quegli anni: le fonti della fede e il libero esame della Scrittura, i meccanismi della giustificazione e della salvezza, la predestinazione divina, la natura e la funzione dei sacramenti. A proposito del punto cruciale del libero arbitrio, il Concilio dichiara che la colpa di Adamo è stata trasmessa universalmente a tutti gli uomini, ma – a differenza di quanto proclamano i riformatori – essa ha solo attenuato e indebolito il libero arbitrio, senza corrompere integralmente la natura umana e la sua possibilità di compiere azioni morali. Sul piano della dottrina della salvezza, il Concilio sottolinea che la grazia e la liberazione dal peccato sono doni assolutamente gratuiti di Dio, ma respinge con fermezza il principio della giustificazione per sola fede. L’azione di Dio è solo il punto di partenza di un processo che, nell’uomo, non deve risolversi in pura passività, ma al contrario, in una libera adesione e cooperazione che si manifesta attraverso le scelte e le opere. Anche la dottrina della predestinazione – elaborata in modo particolare nella teologia di Calvino – viene condannata dal Concilio. 23

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In questo quadro teologico, viene ribadita anche l’importanza e l’efficacia dei sacramenti. Per quanto riguarda il rapporto dei fedeli con il testo sacro, il Concilio condanna la possibilità del libero esame (vale a dire, della meditazione individuale e privata) della Scrittura da parte del singolo credente: solo la Chiesa ha la competenza e l’autorità per giudicare del vero senso e della corretta interpretazione della parola di Dio. Repressione La preoccupazione di restaurare la disciplina in una comunità cristiana lacerata e attività missionaria e disorientata dal violento strappo di Lutero è alla base dell’istituzione o (come nel caso del Tribunale dell’Inquisizione) del potenziamento di un apparato di censura e repressione che opera sia attraverso un controllo capillare della stampa che tramite atti pubblici di sottomissione, processi e condanne di necessità esemplari e perciò terribili. Ma alla repressione e al disciplinamento delle coscienze si accompagna in questi decenni anche un’azione missionaria, volta a una sorta di vera e propria nuova cristianizzazione di ceti sociali rimasti ancora largamente ignoranti dei fondamenti della dottrina cristiana; ed è a questo scopo che la Chiesa si adopera nella formazione di un clero ben preparato e attento nella cura pastorale.

Sacramenti e rapporto con la Scrittura attraverso la mediazione della Chiesa

Erasmo e la Riforma Il rapporto di Erasmo con la Riforma è molto intenso e tormentato. Siamo in grado di ricostruirlo, da un lato, attraverso il carteggio intercorso con Lutero e con Melantone; dall’altro, attraverso una serie di opuscoli, fra i quali spicca la De libero arbitrio diatribe del 1524. Elementi comuni Testimone nel 1517 della violenta ribellione di Lutero alla Chiesa di Roma, Erae differenze con Lutero smo, pur condividendone alcuni presupposti (la battaglia contro la corruzione ecclesiastica e l’incultura scolastica; il richiamo prioritario alla parola di Dio consegnata alla Scrittura), sceglierà di difendere l’unità dei cristiani, ritagliandosi un ruolo difficilissimo di mediazione e compromesso, che finirà per scontentare entrambe le parti. La condanna di Roma Così, se Lutero (e non sarà il solo) lo accuserà di debolezza, ambiguità e scetticismo («lo Spirito Santo non è scettico», scriverà, con durezza, nel De servo arbitrio), la Chiesa di Roma finirà per considerarlo uno dei suoi avversari più pericolosi, accomunandolo agli eretici nella condanna integrale delle sue opere, inserite nell’Indice dei libri proibiti emanato nel 1559 da papa Paolo IV. Così, scrive lo storico Adriano Prosperi:

Un rapporto tormentato

Erasmo scomparve dalle letture degli italiani in un modo che non trova riscontro altrove […]. Allora, per una cultura italiana nel suo momento di egemonia europea, fu una pesante amputazione. Censure e roghi colpirono in Erasmo l’idea stessa di una cultura che, attingendo alle fonti della sapienza antica e del patrimonio cristiano, […] poneva gli strumenti della ragione critica […] al servizio dell’autonomia morale dell’individuo.

Ma indagini sistematiche hanno mostrato come, nonostante la repressione messa in atto dalla Controriforma, nell’Italia del Cinquecento Erasmo abbia trovato lettori appassionati e convinti di vedere nei suoi scritti – spesso interpretati con un radicalismo a lui ignoto – la conferma delle loro speranze di rinnovamento religioso. 24

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Montaigne si presenta ai suoi lettori M. de Montaigne, Saggi, 1

I temi dei Saggi

Una ragione non dogmatica: Montaigne Questo, lettore, è un libro sincero. Ti avverte fin dall’inizio che non mi sono proposto, con esso, alcun fine, se non domestico e privato. Non ho tenuto in alcuna considerazione né il tuo vantaggio né la mia gloria. […] Se lo avessi scritto per procacciarmi il favore della gente, mi sarei adornato meglio e mi presenterei con atteggiamento studiato. Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere, semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me l’ha permesso il rispetto pubblico. Che se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive leggi della natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per intero, e tutto nudo. Così, lettore, sono io stesso la materia del mio libro. Con queste battute si apre uno dei capolavori della filosofia (e della letteratura) del Rinascimento: i Saggi di Michel de Montaigne, pubblicati tra 1580 e 1588. Nel breve spazio di una pagina, l’autore concentra alcuni temi centrali della sua riflessione, destinati a trovare poi ampia trattazione nelle riflessioni libere e ‘vagabonde’ che costituiscono la trama di questo testo affascinante e ricchissimo: il motivo dell’autobiografia come ricerca, e non semplice descrizione del sé; l’idea della filosofia come meditazione, riflessione, e non sapere oggettivo e normativo; la mediocrità come carattere costitutivo dell’uomo; e perfino lo sguardo attento e partecipe gettato sui «selvaggi» d’America, così vicini alla condizione di semplicità naturale ormai preclusa all’uomo europeo, soffocato dagli artifici e dalle disarmonie della civiltà.

La vita e le opere Michel Eyquem nacque nel 1533 nel castello di famiglia, a Montaigne, vicino Bordeaux. Ricevette un’educazione umanistica, sostanziata da una profonda conoscenza degli autori classici, prima sotto la guida di un precettore, poi al Collège de Guyenne. Dopo essersi dedicato anche allo studio del diritto, partecipò attivamente alla vita politica, come consigliere del Parlamento di Bordeaux. A partire dal 1571, in una Francia sconvolta dalle guerre di religione, si ritirò nel suo castello per dedicarsi alla stesura dell’opera di tutta una vita, i Saggi, pubblicati in una prima edizione in due libri nel 1580. Dopo un breve ritorno alla vita pubblica come

sindaco di Bordeaux (1581-1585), negli anni successivi continuò a rivedere e ampliare questo scritto, fino all’edizione in tre libri del 1588. La morte, nel 1592, lo colse nella sua casa ancora impegnato nella revisione dell’opera: e una nuova edizione dei Saggi sarà fatta stampare a Lione nel 1595 da Marie de Gournay, una sua giovane ammiratrice. Oltre che dei Saggi, Montaigne è autore di un Journal de voyage en Italie («Diario di un viaggio in Italia», pubblicato nel 1774) e della traduzione della Theologia naturalis sive Liber creaturarum («Teologia naturale o Libro delle creature») del teologo catalano Raymond Sebond, pubblicata a Parigi nel 1569.

È l’indagine sul sé a conferire compattezza e organicità alla materia dei Saggi, non certo l’organizzazione interna del testo: i saggi obbediscono infatti, almeno in apparenza, agli argomenti più diversi. Il gusto del frammento non obbedisce tuttavia solo a una scelta stilistica, ma corrisponde alla natura composita e sfuggente dell’oggetto da indagare, e riveste per questo un valore filosofico preciso. Proviamo a comprenderne i motivi. Un’ontologia qualitativa Montaigne aderisce a un’ontologia qualitativa, fondata sull’individuazione della fondata sulla differenza varietà, della differenza, della dissomiglianza come caratteri fondamentali dell’essere. Il mondo che ci circonda è, a suo parere, dominato da una diversità e da Unità d’indagine, varietà dell’oggetto

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una molteplicità tali da impedirci di individuare, una volta per tutte, quale sia il nucleo centrale della nostra vita e della nostra conoscenza. Si tratta di una posizione che egli illustra con chiarezza all’inizio del saggio intitolato Dell’esperienza.

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Diversità e varietà della natura M. de Montaigne, Saggi, 2

I limiti della conoscenza umana

Inafferrabilità dell’io

Osservare se stessi per capire la condizione umana

L’attacco all’antropocentrismo e l’attenzione al mondo animale

Varietà del mondo umano e relativismo morale

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La ragione ha tante forme che non sappiamo a quale appigliarci; l’esperienza non ne ha meno. La conseguenza che vogliamo trarre dalla somiglianza degli avvenimenti è mal sicura, poiché essi sono sempre dissimili: in quest’immagine delle cose non c’è alcuna qualità così universale come la diversità e la varietà. […] La somiglianza non rende tanto uguale quanto la differenza rende diverso. La natura si è obbligata a non far due cose che non fossero dissimili. L’uomo – creatura tutt’altro che privilegiata all’interno del mondo naturale – è costretto a muoversi entro un limite ontologico e conoscitivo assai angusto: «Io temo che la nostra conoscenza sia debole in ogni senso; noi non vediamo né molto lontano né molto indietro». Prigioniero del suo limitato orizzonte conoscitivo, l’uomo non può arrivare, né attraverso i sensi né attraverso la ragione, a conoscere la divinità o i meccanismi e i destini del mondo naturale. Ma non basta: perché nessuno può possedere mai, in maniera definitiva, neppure se stesso: «Il mio io di adesso e il mio io di fra poco, siamo certo due; ma quale sia migliore non posso davvero dirlo. Sarebbe bello esser vecchi se non procedessimo che verso il miglioramento. È un andamento da ubriaco, titubante, preso dalle vertigini, informe o di giunchi che il vento fa muovere a caso, a suo piacere». Eppure, per Montaigne, questa consapevolezza, se riconosciuta e accettata per se stessa, da limite ontologico insormontabile può rovesciarsi in norma di vita. Se non riusciamo a possedere il nostro io, possiamo però descriverlo, cogliendo momento per momento il cambiamento e la varietà che questo io sperimenta, sondandolo «fin nell’interno», spiandolo «più da vicino», ricercandolo «fin nelle viscere», per «penetrare le profondità opache delle sue pieghe interne». Mettendo a nudo se stesso, Montaigne attinge così una dimensione in qualche modo universale: l’io privato non costituisce una misura o un modello, ma un punto di vista particolare, che aiuta a verificare empiricamente cosa davvero sia la condizione umana: «Io studio me stesso più di ogni altro soggetto: è la mia metafisica, è la mia fisica. […] So meglio cos’è un uomo di quanto sappia che cosa sia animale, o mortale, o ragionevole». La critica all’arroganza della ragione sottesa a queste posizioni rientra poi in un attacco più generale alla prospettiva dell’antropocentrismo. Recuperando motivi propri della tradizione scettica, Montaigne denuncia così la vanità della pretesa umana di dominare gli altri esseri naturali, mettendo in discussione lo stesso presupposto di una differenza ontologica fra uomini e animali. È poi attraverso un uso sapiente delle fonti stoiche ed epicuree che egli presenta il suo ideale di misura e di saggezza: la saggezza consiste, da un lato, nell’imparare ad accettare gli eventi negativi e la stessa infelicità come segno del carattere contingente dell’esperienza umana; dall’altro, nel cercare di vivere in armonia con la natura, accettando – come fanno gli uomini più semplici e gli stessi animali – di prenderla per guida. L’atteggiamento di fondo di Montaigne emerge anche nella sua riflessione morale: se i caratteri universali del mondo naturale sono destinati a sfuggirci, questo sarà ancora più vero per quanto riguarda i valori supremi del bene e del male. Alla convinzione che Dio abbia iscritto leggi univoche ed eterne nella natura stessa dell’uomo, Montaigne oppone ancora una volta la considerazione della va-

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rietà che connota il mondo umano. Popoli diversi obbediscono infatti a precetti morali diversi, a seconda della loro storia, delle loro condizioni, della loro mentalità. E serrata è la sua critica all’abitudine a giudicare come «barbarie» tutto ciò che si discosta dal nostro costume. Lo dimostra in maniera esemplare il saggio Dei cannibali, dove il paragone certo inconsueto fra la pratica dell’antropofagia e gli orrori delle guerre civili appare funzionale a rovesciare sugli stessi europei l’accusa di «barbarie».

T5

La barbarie degli europei M. de Montaigne, Saggi, 1

Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. […] Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto.

La morale ha dunque un fondamento storico, non naturale: è qualcosa di appreso, è un insieme di regole condivise dalla società che l’individuo impara. Del resto, «c’è poco rapporto fra le nostre azioni, che sono in perpetuo mutamento, e le leggi fisse e immobili». E tuttavia le consuetudini sociali hanno una straordinaria forza di costrizione; così, «quello che è fuori dei cardini della consuetudine, lo si giudica fuori dei cardini della ragione». Sul piano teorico, dunque, Montaigne critica con la consueta lucidità gli automatismi che ci portano a giudicare i nostri simili in base ai criteri dell’abitudine, del conformismo, del pregiudizio. Sul piano pratico, tuttavia, egli è consapevole, con altrettanta lucidità, del carattere complicato e instabile delle società, che si fonda necessariamente sulla forza dei costumi ereditati e di una prassi giuridica collaudata. Il saggio tra A suo parere, è perciò necessario evitare con cura la tentazione – irrazionale e pela propria interiorità ricolosa – di opporre alle norme generali e condivise le scelte ispirate a una sage la morale comune gezza individuale e privata. Il saggio si adeguerà allora esteriormente agli usi e ai valori della sua comunità, senza pretendere di giudicarli, pur conoscendone il valore limitato, particolare, relativo. Solo all’interno di sé, nella sua libera coscienza, egli saprà trovare il suo equilibrio e la sua autonomia di fronte all’agitarsi delle passioni, in quella dialettica fra rispetto per l’ordine costituito e tutela della ➥ Sommario, p. 66 propria interiorità che rappresenta una delle cifre distintive della sua riflessione. Assunzione critica della storicità della morale

La filosofia di Montaigne Montaigne

Ontologia: fondata sulle differenze qualitative delle cose Gnoseologia: – limiti della conoscenza – inafferrabilità dell’io – studio della natura umana attraverso l’autosservazione Etica: – relativismo morale – storicità della morale – revisione della nozione di «barbarie» – distinzione tra morale del saggio e morale comune

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il nuovo platonismo del Rinascimento

3 I testi

N. Cusano La dotta ignoranza: Intelletto e verità, T6; L’uomo come microcosmo, T8

Ritorno agli antichi e rinnovamento filosofico

1 Il Platone perduto

Le nuove traduzioni alla base della riscoperta platonica La traduzione neoplatonizzante di Ficino

La missione del filosofo

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De coniecturis: Origine e caratteri delle congetture, T7

L’Umanesimo nasce come ricerca e recupero dei testi antichi ‘perduti’ e attraverso un nuovo sforzo interpretativo genera non solo una conoscenza più chiara e approfondita della cultura classica, ma anche sviluppi filosofici nuovi e originali. Erasmo e Montaigne, l’uno con la sua proposta di una filosofia che concilia Umanesimo e cristianesimo, l’altro con la sua analisi della natura umana e dei limiti della conoscenza e con la riflessione sulla varietà e la complessità del mondo morale, sono, come abbiamo visto, i due personaggi più rappresentativi di questo rinnovamento filosofico che ha le sue radici nella cultura umanista. Accanto a loro però incontriamo alcuni pensatori che vogliono rinnovare una delle più grandi tradizioni filosofiche occidentali: il platonismo.

Platone e Aristotele dopo il Medioevo Sul piano filosofico, l’Umanesimo risulta caratterizzato, soprattutto nella sua prima fase, da un forte richiamo a Platone, pensatore che, a differenza di Aristotele, era rimasto in larga parte sconosciuto al mondo latino. Per quanto riguarda la conoscenza diretta dei testi, nel Medioevo la ‘biblioteca’ platonica è infatti limitatissima. Essa si riduce al Menone, al Fedone e alla prima parte del Timeo nella traduzione latina e con il commento di Calcidio (IV secolo d.C.). Ignoti restano gli altri dialoghi platonici e testi fondamentali della tradizione neoplatonica, a cominciare dalle Enneadi di Plotino. Questa biblioteca si accresce nella prima metà del Quattrocento con le versioni di Leonardo Bruni. Fra 1404 e 1435 egli traduce infatti il Fedone, il Gorgia, l’Apologia di Socrate, il Critone, il Fedro, le Epistole e parte del Simposio. Ma è la traduzione integrale del corpus platonico di Marsilio Ficino, pubblicata a Firenze nel 1484, a dare finalmente accesso all’altro grande maestro dell’antichità. Con la sua opera di traduzione e commento, Ficino impone peraltro a Platone un timbro preciso e una chiave di lettura assai diversa da quella – civile, politica, socratica – prospettata da Leonardo Bruni, interpretandone i testi secondo un’ottica fortemente orientata in senso neoplatonico e antiaristotelico. Il Platone di Ficino porta in primo piano i temi del cosmo come unità vivente e animata, dell’armonia universale, dell’amore. Centrale, nella sua speculazione, è anche l’ideale della missione sacerdotale e riformatrice del filosofo, espressione di una tradizione filosofico-religiosa unita-

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

Gli opuscoli ermetici

Una teoria della salvezza ‘precristiana’

L’aristotelismo rinascimentale: l’attenzione per la natura e per l’anima

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ria, dalle origini remote, giunta infine a compimento con la rivelazione cristiana. Il platonismo si pone così, da un lato, accanto alla religione cristiana, come una sua premessa originaria e imperfetta; dall’altro, accanto alla tradizione ermetica, della quale, secondo Ficino, lo stesso Platone è uno dei rappresentanti. Gli opuscoli ermetici – tradotti anch’essi da Ficino nel 1463, per volontà di Cosimo de’ Medici, lavorando su un manoscritto appena arrivato dalla Macedonia – sono testi di argomento filosofico-teologico e magico-astrologico-teurgico (intendendo per «teurgia» la capacità da parte di individui eccezionali di controllare le divinità incarnate all’interno di oggetti o statue) composti da autori diversi a partire dal II-III secolo d.C. e conosciuti come Corpus hermeticum. Ma in età rinascimentale questi testi vengono attribuiti a un unico, mitico autore: il leggendario Ermete Trismegisto («tre volte grande»), una figura immaginaria nata da una sorta di sovrapposizione fra il dio greco Ermete e quello egiziano Thoth. I trattati del Corpus hermeticum, scritti in greco, e l’Asclepius, un testo latino dal contenuto affine, vengono perciò ritenuti antichissimi e fonti della originaria rivelazione precristiana, poi sviluppatasi nel platonismo antico. Al centro dei testi ermetici di argomento filosofico-teologico c’è in effetti una gnosi, una dottrina della salvezza, inserita in una prospettiva cosmologica che ha al centro l’idea di una profonda armonia fra macrocosmo e microcosmo e un’immagine dell’uomo come creatura di origine celeste. Con il peccato e la caduta nel mondo materiale l’uomo ha perso consapevolezza della sua natura divina, ma è in grado di riconquistarla attraverso una vita di ascesi e di conoscenza. In Italia, per tutto il Rinascimento, l’aristotelismo continua comunque a dominare nelle università. Soprattutto negli studi più prestigiosi, e in primo luogo a Padova, la tradizione peripatetica viene però progressivamente distaccandosi dalle problematiche metafisiche e teologiche tipicamente medievali, per indirizzarsi, da un lato, verso questioni di ordine fisico e logico, dall’altro, soprattutto a partire dalla seconda metà del Quattrocento, verso la discussione delle difficoltà e dei problemi suscitati dalla dottrina aristotelica dell’anima.

Fra Ermete e Platone: la «teologia platonica» di Ficino

Marsilio Ficino è uno dei più significativi rappresentanti della cultura filosofica italiana ed europea della seconda metà del Quattrocento. Pensatore innovativo e originale, egli è, in primo luogo, attraverso il suo eccezionale impegno di traduttore e interprete della tradizione platonica e neoplatonica, il creatore di una ‘biblioteca’, capace di incidere a fondo sulla vita culturale e filosofica dell’Europa almeno fino alla fine del Seicento. Le sue traduzioni includono non solo tutti i dialoghi di Platone e i trattati ermetici, ma anche le Enneadi di Plotino e le opere dello Pseudo Dionigi Areopagita, di Giamblico, di Proclo, di Porfirio, dello storico e filosofo bizantino Michele Psello (1018-1078) e di altri ancora. Ripristino dell’unione All’origine della monumentale impresa di Ficino c’è la volontà di contribuire a di filosofia e teologia: ripristinare l’antica unione di filosofia e religione, ridisegnando i contorni di la pia philosophia quella pia philosophia che era la caratteristica originale della tradizione ermetico-platonica, e che è ormai andata perduta. Il tema cruciale dell’unione fra filosofia e teologia è sviluppato da Ficino soprattutto nel De christiana religione, pubblicato, sia in latino che in volgare, nel 1474. L’opera di traduttore di Ficino

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La vita e le opere Marsilio Ficino nacque a Figline Valdarno nel 1433. Nel 1454 seguì il padre Dietifeci, nominato medico di fiducia di Cosimo de’ Medici, a Firenze: qui trascorse quasi tutta la sua vita, tra la città e la villa suburbana di Careggi, donatagli da Cosimo per farne la sede dell’Accademia platonica, cenacolo intellettuale da cui Ficino esercitò un’influenza profonda sulla cultura, non solo fiorentina, del tempo. Dopo gli studi di filosofia sotto la guida dell’aristotelico Niccolò Tignosi e un iniziale avvicinamento all’epicureismo, Ficino si appassionò alle tematiche platoniche, riuscendo presto a studiarle direttamente sulle fonti, grazie all’acquisita conoscenza del greco. A partire dal 1462 intraprese le sue traduzioni dal greco in latino, col programma di restituire al dibattito filosofico i testi – platonici, neoplatonici, ermetici – di quella che considerava un’antichissima tradizione filosofico-religiosa di pensiero.

Degenerazione paganizzante del cristianesimo aristotelico

Valore religioso ed etico della tradizione ermetico-platonica

Platone come teologo precristiano

Cristo come autorivelazione di Dio e mediatore con l’uomo

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Ordinato sacerdote nel 1473, nel 1487 diventò canonico della cattedrale di Firenze. Morì a Careggi nel 1499. Il corpus delle sue traduzioni è davvero imponente: oltre a tutti i dialoghi di Platone (pubblicati a Firenze nel 1484), tradusse le Enneadi di Plotino (pubblicate nel 1492), ma anche Proclo, Porfirio, Giamblico, Psello, lo pseudo-Dionigi Areopagita e soprattutto i trattati ermetici (pubblicati a Treviso nel 1471). Al lavoro di traduzione e commento Ficino intrecciò la composizione di opere originali, fra le quali spiccano il De christiana religione («La religione cristiana», 1474), la Theologia platonica de immortalitate animorum («Teologia platonica sull’immortalità dell’anima», 1482), il De triplici vita («La triplice vita», 1489). Notevole pure l’Epistolario, in dodici libri (pubblicato nel 1495), che testimonia di un fecondo scambio intellettuale con i maggiori umanisti d’Europa.

Ficino è certo che, nel corso degli ultimi secoli, si sia compiuta una frattura dolorosa e pericolosa fra verità divina e sapienza umana, fra religione e filosofia. Preda di sacerdoti rozzi e ignoranti, la religione si è trasformata in pratica esteriore o in mera superstizione, mentre la filosofia, contaminata dalle varianti più nocive e irreligiose della tradizione aristotelica – l’alessandrinismo e l’averroismo – è diventata luogo di empietà e incredulità. Per annullare gli effetti della involuzione superstiziosa subita dal cristianesimo e della parallela paganizzazione della filosofia, la strada da battere è una sola: ritornare alle antiche fonti della verità. Secondo Ficino, gli insegnamenti della tradizione ermetico-platonica tramandano una verità razionale concessa in ogni tempo da Dio all’uomo, e, insieme, un vero e proprio programma di liberazione filosofica: una teoria della felicità e della salvezza che coincide, al fondo, con la contemplazione intellettuale del divino. Si tratta di una dottrina che stringe insieme esigenze di conoscenza e di purificazione etica: una philosophia intimamente pia, perché incentrata sul motivo della natura immortale dell’anima, sul riconoscimento di un cosmo pervaso da ragioni divine, sull’appassionata difesa della dimensione soprasensibile. In questo senso la tradizione filosofica degli antichi teologi ha avvicinato pensatori ancora pagani alla comprensione dell’Uno-bene, alla nozione di trinità, di incarnazione, di redenzione. Tuttavia, se Platone può essere considerato a pieno titolo un teologo precristiano, del tutto compatibile, nei suoi punti essenziali, con la dottrina espressa da Mosè nella Scrittura, è vero che per Ficino il vertice della connessione fra religione e sapienza si ha solo con il cristianesimo. Cristo ha illuminato il valore dell’antica filosofia, liberandolo dalle ombre, dalle favole e dalle allegorie necessarie per preservare una verità connotata, fin dalle sue origini, da un tratto esoterico. Per operare la necessaria mediazione tra il creatore e l’intera creazione, il Figlio-Logos – parola divina incarnata e, a un tempo, autorivelazione e immagine perfetta di Dio – ha scelto come strumento la natura umana. Una natura che rappresenta – in un’ottica decisamente umanistica – il centro di tutta la creazione e tutta la comprende in sé. Ma non basta: perché la discesa da parte del Cristo-Verbo nella natura umana ha un significato che rimanda a un processo speculare e ascendente: la scelta del figlio di Dio di farsi uomo mostra, nella forma più estrema e significativa, come l’uomo possa a sua volta farsi figlio di Dio.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento La dottrina platonica dell’amore

L’anima razionale come luogo di mediazione universale

Grande influenza dell’opera di Ficino

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È un tema su cui Ficino non si stanca di insistere: il recupero dell’eccellenza umana è possibile solo fuggendo dalla seduzione dei corpi, secondo il percorso già delineato da Platone nell’illuminante paradigma della sua dottrina d’amore, espressa nel Simposio – dove attraverso le parole di Diotima viene descritto il processo attraverso cui si passa dall’amore delle cose belle alla contemplazione della bellezza in sé –, tentando la via di una rinascita tutta interiore, di un’ascesa che la divinità stessa rende possibile e favorisce. Questi temi sono svolti soprattutto nell’opera principale di Ficino, la Theologia platonica de immortalitate animorum. Qui il filosofo riconosce la funzione privilegiata svolta nell’economia del creato dall’anima razionale, destinata, grazie ai suoi caratteri peculiari, a giocare un ruolo determinante di mediazione fra finito e infinito, tempo ed eternità, mondo sensibile e mondo intelligibile. In modo particolare, il compito dell’uomo si identifica per Ficino con il tentativo di risalire dall’ombra della dimensione corporea alla luce divina attraverso la pratica di una concentrazione interiore e di una purificazione dell’anima, che risultano garantite da una lettura dell’universo come organismo ordinato e comunicante, pervaso anch’esso da un principio animato (l’«anima del mondo»). All’interno di questa visione dell’universo si inseriscono limpidamente la fiducia nelle conoscenze astrologiche e l’attenta valorizzazione della magia naturale, affidata in modo particolare ai libri De triplici vita. Fondamentale per tutto il Rinascimento europeo, l’opera di Ficino continuerà a essere ristampata in numerosissime edizioni. Particolarmente fortunato è il suo De amore – un commento al Simposio di Platone composto negli anni sessanta sia in latino che in volgare, destinato a inaugurare un vero e proprio genere letterario. Ma anche la sua concezione del cristianesimo come sintesi e perfezionamento di ogni verità filosofica e religiosa avrà importanza decisiva, almeno fino alla Riforma.

Fra Platone e Aristotele: la pax philosophica di Pico

Ancora più originale, complessa e sfaccettata è la posizione dell’altro grande protagonista della cultura filosofica della Firenze laurenziana: Giovanni Pico della Mirandola. Personalità geniale ed eclettica, Pico va ricordato, oltre che per le riflessioni sulla libertà come essenza della natura umana (vedi p. 16 ss.), per il proprio ideale di ricerca della pace e di concordia fra le diverse dottrine e filosofie. Il suo progetto di conciliazione raggiunge livelli significativi di mediazione culturale, oltrepassando l’orizzonte delineato da Ficino, per aprirsi ad ambienti e tradizioni rimasti estranei alla catena sapienziale ermetico-platonica. La cabbala Un esempio su tutti: l’apertura alla cultura ebraica, e in modo particolare alla tracome chiave dizione cabbalistica, considerata come chiave per penetrare i segreti dei testi sainterpretativa cri e della realtà naturale. La cabbala (dall’ebraico qabbalah, «ricezione» e per estensione «tradizione») è un insieme di dottrine della cultura ebraica esoteriche e mistiche: una tradizione millenaria condensata in una enorme mole di scritti, sia pubblicati che manoscritti, ai quali si affiancano molti materiali orali. In essa troviamo perciò una grande varietà di scuole e di metodi influenzati da molte correnti filosofiche e religiose (platoniche e neoplatoniche, gnostiche e cristiane, aristoteliche ecc.) ma caratterizzati da due elementi costanti: 1) una sapienza originaria (tradizione) presente alle creature prima del peccato;

L’opera di mediazione culturale di Pico

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’influenza dell’aristotelismo medievale

Molte filosofie, un’unica verità

La preparazione dell’incontro di Roma

La continua ricerca della concordia filosofica

L’interpretazione cabbalistica della Genesi

L’influenza di Savonarola

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2) l’ispirazione, raggiunta grazie alla comunicazione diretta di Dio, che consente una visione profetica sulla natura di Dio e sul suo rapporto con il cosmo e le creature. Colui che raggiunge questa ispirazione lo fa attraverso un potenziamento di tutte le sue facoltà, fisiche, psichiche e intellettuali. Della tradizione fanno parte anche alcune tecniche esegetiche che permettono di cogliere il significato mistico della Bibbia, andando al di là del senso letterale, grazie alla conversione delle lettere dell’alfabeto ebraico in simboli o numeri. Ma fondamentale per la formazione di Pico è anche la profonda conoscenza dell’aristotelismo medievale, nelle sue diverse articolazioni e varianti. E Pico difenderà sempre – per esempio nella celebre lettera del giugno 1485 all’umanista veneziano Ermolao Barbaro sul rapporto tra la filosofia e la sua espressione linguistica – la forza e la profondità speculativa dei filosofi medievali, lontani da ogni ricerca di eleganza formale, eppure decisivi per la crescita e la trasmissione del sapere. Pico è portavoce di una concezione della filosofia secondo la quale tutte le scuole e tutti i pensatori hanno espresso un aspetto – necessariamente limitato e parziale – di una conoscenza e di una verità che è, di per se stessa, unica. Chi intende veramente fare filosofia, da un lato, deve comprendere la dinamica della comparsa progressiva delle varie scuole, il loro apporto originale, il loro stile di pensiero; dall’altro individuare e attuare il legame segreto che esse celano. Questa presa di posizione ispira anche il progetto di un incontro di pacificazione universale (pax philosophica), una grande disputa pubblica fra i dotti da tenersi a Roma il giorno dell’epifania del 1487: di questo incontro, la Oratio de hominis dignitate avrebbe dovuto costituire l’introduzione. Come base per la discussione, Pico raccoglie novecento tesi – le Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae, pubblicate il 7 dicembre 1486 –, un insieme di affermazioni di carattere fisico, metafisico, teologico, in cui – accanto ad ampi prestiti dalla tradizione ermetica, pitagorica, cabbalistica, magica – grande spazio è dato alla filosofia e teologia scolastica e ai più significativi rappresentanti della tradizione arabo-ebraica, da Averroè a Mosè Maimonide. La discussione pubblica a Roma viene impedita dall’intervento del papa Innocenzo VIII. Ma nonostante la successiva condanna papale di tredici conclusiones, l’ideale della concordia filosofica continua a guidare Pico in tutti i suoi lavori successivi. Così, nel De ente et uno (1491) il punto di verifica del sostanziale accordo fra Platone e Aristotele viene individuato – a partire dall’interpretazione del Parmenide platonico come mero esercizio dialettico – nell’interpretazione di Dio come pienezza dell’essere, al di sopra e al di là degli enti. Nell’Heptaplus (1488), un commento filosofico dei versetti della Genesi relativi alla creazione del mondo, le tecniche esegetiche mutuate dalla qabbalah permettono di dimostrare come Mosè nella Genesi abbia esposto in forma cifrata le più alte verità cosmologiche e filosofiche, «in modo che parole, contesto, ordine, convengano pienamente a raffigurare i segreti di tutti i mondi e di tutta la natura». Un’affinità profonda lega fra loro le parole e le cose in ogni parte dell’universo e, una volta stabilite le analogie fra mondo angelico, celeste, elementare (terrestre), risulta poi evidente come sia il quarto mondo – l’uomo – a rispecchiare nel modo più evidente questa armonia e a esprimerla in modo mirabile. Gli ultimi anni di vita di Pico sono profondamente influenzati dalla predicazione e dal carisma del frate domenicano Girolamo Savonarola (1452-1498). Così, egli si dedica a una meditazione sempre più intensa della Scrittura, allo studio dei Salmi e a un vasto progetto in difesa della religione cristiana contro la superstizione.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento La critica dell’astrologia e la difesa dell’astronomia

4 La formazione di Niccolò Cusano

All’interno di quest’ultimo progetto si collocano le Disputationes adversus astrologiam divinatricem, rimaste inedite e pubblicate, a cura del nipote Giovan Francesco, nel 1496. L’opera è una dura critica dell’astrologia divinatrice (ossia la disciplina che ritiene di poter prevedere, «divinare», il futuro sulla base della posizione degli astri) in difesa, da un lato, del corretto rapporto dell’uomo con la dimensione del trascendente; dall’altro, della libertà della volontà umana, superiore agli astri e per nulla condizionata dagli influssi celesti. L’assoluta inconsistenza teorica di una disciplina come l’astrologia riposa su un formidabile errore di fondo: gli astrologi non sanno distinguere tra gli influssi celesti – che sono cause universali, generalissime – e la varietà dei fenomeni sublunari, i quali si realizzano a seconda delle condizioni (sempre specifiche e diverse) della materia delle cose inferiori. Differente è invece il caso dell’astronomia matematica, che studia il movimento dei corpi celesti e la loro indiscutibile e uniforme azione causale nel mondo sublunare, attraverso il movimento, la luce e il calore.

Fra neoplatonismo e tradizione mistica: la «dotta ignoranza» di Cusano La formazione di Niccolò Cusano si svolge a partire da problemi e dottrine diversi da quelli degli umanisti e risulta legata, piuttosto, a motivi della tradizione neoplatonica tardoantica e medievale e a correnti di pensiero mistico, ancora vive negli ambienti tedeschi e fiamminghi. Nella sua biblioteca, messa insieme anche per impulso degli amici italiani conosciuti nello Studio di Padova, spiccano infatti, oltre a una raccolta di testi matematici e astronomici, gli scritti di Proclo e dello Pseudo Dionigi con i commenti di Alberto Magno, le opere di Giovanni Scoto Eriugena, dei pensatori della Scuola di Chartres e di Meister Eckhart, oltre a un significativo numero di scritti del filosofo e teologo spagnolo Raimondo Lullo (1235-1315).

La vita e le opere Nikolaus Krebs (italianizzato in Niccolò Cusano, dal suo luogo di nascita) nacque a Cues (Cusa), vicino Treviri, nel 1401. Fra il 1416 e il 1425 studiò nelle università di Heidelberg, Padova e Colonia, maturando presto, accanto all’attenzione per gli aspetti matematici e scientifici del sapere, spiccati interessi teologici e religiosi. Ordinato sacerdote nel 1432, partecipò ai lavori del Concilio di Basilea, dove strinse amicizia con alcuni umanisti italiani, fra i quali Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II. Schierato in un primo tempo a favore della supremazia del Concilio, Cusano aderì poi alla parte del papa Eugenio IV, facendosi strenuo difensore della supremazia del pontefice. Nel 1437 divenne membro della delegazione inviata dal papa presso il patriarca di Costantinopoli per perseguire il progetto dell’unione fra Chiesa latina e Chiesa ortodossa. Diventato cardinale nel 1448, compì numerosi viaggi in Germania, in Boemia e nei Paesi Bassi, in qualità di visitatore apostolico. Nel 1450 fu nominato principe-vescovo di

Bressanone. All’indomani della caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi (maggio 1453), che sancì la fine dell’Impero romano d’Oriente, compose il De pace fidei («La pace della fede»), cui affidò una visione ecumenica e tollerante della fede religiosa, capace di oltrepassare la diversità esteriore delle cerimonie e dei riti, tutti legittimi, ma tutti ugualmente parziali e lontani dall’esprimere e rappresentare compiutamente un Dio inconoscibile e ineffabile. Richiamato a Roma da Pio II, morì a Todi nel 1464, durante un viaggio verso Ancona, dove si stava recando per dirigere i preparativi per la crociata contro i turchi indetta dal papa. Fra le sue opere vanno ricordate il De concordantia catholica («La concordanza cattolica», 1432), La dotta ignoranza e il De coniecturis («Le congetture», 1440), il De visione Dei («La visione di Dio», 1453), il De possest («Il poter essere», 1455), il De non aliud («Il non-altro», 1462), il De venatione sapientiae («La caccia della sapienza», 1463).

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Parte prima La nascita della filosofia moderna L’approccio gnoseologico al problema Uno-molti La via ‘negativa’ come metodo della conoscenza

Dio non può essere colto dalla ragione discorsiva

Il «Dio nascosto»

Dio come unità assoluta e «coincidenza degli opposti»

La «dotta ignoranza» come ammissione dei limiti umani

T6

Intelletto e verità

N. Cusano, La dotta ignoranza

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Al centro della filosofia di Cusano emerge un motivo classico della tradizione neoplatonica: il problema del rapporto fra unità e molteplicità, fra Dio e mondo. Se il problema è antico, merito di Cusano è quello di averlo tradotto in termini moderni, dandone una lettura in chiave eminentemente gnoseologica. Fino dalle sue prime opere, La dotta ignoranza e il De coniecturis, egli insiste sui limiti strutturali della conoscenza umana. Muovendo da un’idea della tradizione mistica – non può darsi discorso positivo su Dio e alla sua idea possiamo accostarci solo in via negationis («attraverso definizioni negative»), dicendo di lui quello che non è –, Cusano estende questo criterio all’intero campo della conoscenza filosofica. Per sviluppare il suo ragionamento, egli parte da un presupposto preciso: la conoscenza umana procede sempre in maniera discorsiva e comparativa. La ragione mette in relazione e confronta i dati della realtà, cercando di comprendere i rapporti logici che collegano fra loro gli enti finiti attraverso una catena di proporzioni, paragoni e collegamenti tra quello che è noto e quello che è ignoto, quello che è certo e quello che è incerto. «Ma l’infinito, in quanto infinito, poiché si sottrae a ogni proporzione, ci è sconosciuto». Questo procedimento proporzionale e comparativo, dunque, non riuscirà mai a farci cogliere Dio, che è il fondamento ontologico dell’intera realtà e l’infinito in atto, vale a dire l’essere in cui tutte le possibili proprietà sono realizzate nella forma più piena e completa. In quanto tale, Dio si sottrae a ogni sforzo conoscitivo dell’uomo e rimane indecifrabile, impenetrabile alla sua ragione. Egli è per noi un «Dio nascosto» – titolo di un dialogo cusaniano –, inaccessibile proprio in quanto incommensurabile e sottratto a ogni forma di correlazione e riduzione alla logica umana, che opera nel finito e si fonda sul principio di non contraddizione. Nessun concetto riesce a definire, a ‘catturare’ l’essenza di Dio, perché egli non esclude nulla, ma concentra tutto in sé e dà origine a ogni cosa. In lui le cose esistono nella sua unità semplicissima e senza alcuna opposizione tra loro. Dio è l’unità assoluta, anteriore a ogni forma di distinzione: egli è, insieme, massimo assoluto (in quanto non può darsi nulla di superiore a lui) e minimo assoluto (in quanto unità non ulteriormente divisibile). La mente umana, quindi, di fronte all’idea di Dio, può solo intuire (grazie alla potenzialità dell’intelletto, in grado, per alcuni aspetti, di intravedere e oltrepassare i limiti della ragione), senza poter comprendere, che in lui si realizza quella composizione dei contrari, quella coincidentia oppositorum («coincidenza degli opposti») che la logica classica tradizionalmente esclude e la mente umana non riesce neppure a pensare. L’uomo, di fronte all’inattingibile infinità di Dio, deve consapevolmente rifugiarsi nella «dotta ignoranza», ossia in una consapevole ammissione di insufficienza e di inadeguatezza dei suoi strumenti concettuali. Ma Cusano estende e applica il concetto di «dotta ignoranza» dalla teologia a tutti gli ambiti della conoscenza umana. Se non riusciamo a cogliere fino in fondo Dio, che è il fondamento ontologico del reale, a maggior ragione non potremo mai avere conoscenza vera delle cose del mondo, penetrarne l’essenza più profonda. La verità, nella sua precisione, rimane preclusa agli uomini, necessariamente legati a un sapere ipotetico, che si approssima progressivamente al suo oggetto, senza tuttavia mai riuscire ad attingerlo. L’intelletto finito non può intendere in modo preciso la verità delle cose procedendo per similitudini. La verità non è né di più né di meno: consiste in qualcosa di indivisibile e non può con precisione misurarla tutto ciò che non è il vero stesso: così come il non-circolo non può misurare il circolo, il cui essere consiste in qualcosa di indivisibile. L’intelletto, dunque, che non è la verità, non com-

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prende mai la verità in modo così preciso da non poterla comprendere più precisamente ancora all’infinito, perché sta alla verità come il poligono sta al cerchio. Quanti più angoli avrà il poligono inscritto, tanto più sarà simile al cerchio: tuttavia, non sarà mai uguale ad esso, anche se avremo moltiplicato i suoi angoli all’infinito, a meno che non si risolva nell’identità con il circolo. È evidente, dunque, per quanto riguarda il vero, che noi non sappiamo altro se non che esso non è comprensibile, in maniera precisa, nella sua realtà, perché la verità è come la necessità più assoluta, la quale non può essere né più né meno di quel che è, mentre il nostro intelletto è come la possibilità. L’essenza delle cose, che è la verità degli enti, è inattingibile nella sua purezza, cercata da tutti i filosofi, ma da nessuno trovata nella sua realtà in sé. E quanto più profondamente saremo dotti di questa ignoranza, tanto più ci avvicineremo alla verità. La «congettura» come conoscenza che partecipa della verità

T7

Origine e caratteri delle congetture N. Cusano, De coniecturis, 1,3

Concetti matematici e conoscenza vera

Tre concetti che esprimono i rapporti veri tra Dio e l’universo

Tuttavia, la consapevolezza del carattere limitato e provvisorio della conoscenza non comporta una svalutazione del sapere umano. Al contrario, Cusano dà al concetto di «congettura» (che è la conoscenza di cui l’uomo è capace) una connotazione positiva. Come qualsiasi prodotto delle facoltà umane, la congettura è conoscenza parziale, limitata, determinata, mai coincidente con la verità degli enti reali; eppure, si tratta di una conoscenza che in qualche modo partecipa della verità. Questo perché la verità assoluta rimane sempre trascendente e nascosta, ma si rivela in ognuna delle sue manifestazioni finite e parziali. La verità si frantuma nella molteplicità e nell’alterità: eppure, ogni frammento, ogni congettura riflette un aspetto o un momento della stessa verità. E anzi è proprio in quanto origine delle congetture che la mente umana si mostra in qualche modo partecipe dell’infinità creativa di Dio. Siccome […] la mente umana, nobile similitudine di Dio, partecipa, per quanto può, della fecondità della natura creatrice, essa trae da se stessa, come dall’immagine della forma onnipotente, degli enti di ragione, al fine di raffigurarsi quelli reali. Così la mente umana risulta forma del mondo congetturale, come quella divina lo è del reale. Per la qual ragione, come quella assoluta divina entità è tutto ciò che è reale in qualunque cosa sia, così anche l’unità della mente umana è l’entità delle sue proprie congetture. Questo è vero in modo particolare per i concetti e i simboli della matematica e le figure e nozioni della geometria, che più si avvicinano alla effettiva struttura dell’universo e al rapporto metafisico che lega Dio al mondo. Dio dà origine a tutti i molteplici enti finiti e comprende in sé, in forma unitaria, tutto l’universo, pur non identificandosi con esso e non risolvendosi in esso. Cusano spiega il complesso rapporto fra Dio e universo facendo ricorso ai concetti – già utilizzati nel XII secolo dai teologi della Scuola di Chartres – di complicatio, explicatio e contractio. 1) Dio contiene in sé tutte le cose: egli è dunque la complicatio, la coincidenza, la concentrazione del molteplice nell’unità, così come l’unità numerica ha già in sé tutti i numeri che ne deriveranno e il punto ha già in sé tutte le figure geometriche che si dispiegheranno nello spazio. 2) L’universo, per converso, manifesta e riflette l’unità e infinità divine in modo plurale e finito: è il dispiegarsi, il distinguersi, l’esplicarsi (explicatio) dell’unità di Dio nella dimensione del molteplice e del tempo. 3) Nell’universo, Dio è concentrato e ristretto nel molteplice: la realtà divina si determina, si spazializza, si contrae (contractio) nelle forme della pluralità. 35

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Comunicazione tra Dio e il mondo

Dio e mondo: due diverse nozioni di infinito

Universo indefinito e nuova cosmologia

Cristo come sintesi di Dio e universo

Dio, mondo e uomo nella filosofia di Cusano

Tra i due poli (Dio e l’universo) si dà un rapporto di comunicazione e di compenetrazione: Dio, partecipandosi ad altro da sé, si diffonde nel mondo, pur non risolvendosi in esso e restandone il fondamento trascendente; mentre l’universo, a sua volta, si configura come immagine del principio divino, in cui ogni ente è un microcosmo che riproduce e rispecchia l’essere dell’intero universo. Da questa concezione del rapporto fra Dio e mondo discendono anche prospettive cosmologiche assai moderne e innovative sviluppate nei capitoli finali del II libro della Dotta ignoranza. Se l’universo è esplicazione e manifestazione di Dio, esso dovrà essere a sua volta non circoscritto da limiti. Tuttavia, Cusano istituisce una differenza fra l’infinità di Dio e l’infinità dell’universo: Dio è infinito in atto, pienezza infinita dell’essere, e dunque la sua infinità va intesa come assenza di ogni limite alla sua perfezione; diversamente, l’universo non è infinito in atto e pienamente dispiegato, perché altrimenti coinciderebbe con Dio. Nel caso dell’universo, si tratta allora di un infinito (o meglio, di un indefinito, di un interminatum) che consiste nell’indeterminazione, nella mancanza di precisione e di punti di riferimento. L’universo non possiede così né un centro assoluto e immobile, né una circonferenza assoluta, sebbene il cielo delle stelle fisse si avvicini a essere circonferenza, così come la Terra si avvicina a essere centro. Per lo stesso motivo, viene meno l’idea di una perfetta circolarità delle orbite dei corpi celesti e di una uniformità della loro velocità di rivoluzione. Nella cosmologia di Cusano si dissolvono anche l’idea della perfetta sfericità della Terra, in quanto la perfezione geometrica delle figure non è data in natura; la distinzione tra la regione sublunare, soggetta alla generazione e corruzione, e la perfezione incorruttibile degli astri; la considerazione della Terra come solo mondo abitato da forme di vita. Nel III libro della Dotta ignoranza, dedicato a Cristo, quest’ultimo – la cui figura è analizzata da un punto di vista speculativo e non dottrinale – è presentato come il massimo contratto (contractio) e assoluto a un tempo, sintesi di Dio e dell’universo e, in questo senso, compimento e punto più alto della creazione. Questa coincidenza fra creatura e creatore si realizza in quella natura che – in quanto punto medio e nodo di congiunzione di tutta la realtà – rappresenta davvero un luogo di eccellenza e di elezione, l’unico degno di potersi congiungere con la natura divina. Questa natura intermedia è l’uomo. Uomo – Possiede solo una conoscenza discorsiva che non è applicabile a Dio – Deve accettare la propria «dotta ignoranza» rispetto all’essenza di Dio – Ha la capacità di fare «congetture» che gli permettono di raggiungere una forma di conoscenza vera. In quanto è capace di fare congetture la mente umana si avvicina all’infinità di Dio – Possiede dei concetti matematici che gli permettono di conoscere la struttura del mondo e i rapporti tra Dio e mondo Approccio gnoseologico al problema Uno / molti

Dio Dio è infinito in atto. Dio è per l’uomo «nascosto» e può essere colto solo come «coincidenza degli opposti»

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Rapporti tra Dio e il mondo – Dio contiene in sé tutte le cose: complicatio – L’universo è il dispiegarsi, il distinguersi, l’esplicarsi (explicatio) dell’unità di Dio nella dimensione del molteplice e del tempo – Nell’universo Dio si determina, si spazializza, si contrae (contractio) nelle forme della pluralità

Mondo Il mondo è indefinito e privo di centro o punti fissi

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

T8

L’uomo come microcosmo

N. Cusano, La dotta ignoranza

Influenza di Cusano sugli umanisti francesi e su Bruno

➥ Sommario, p. 66

Tradizioni e influenze nei platonici rinascimentali

Il massimo con il quale coincide il minimo deve comprendere una sola natura in modo tale da non escludere le altre, ma da abbracciarle tutte insieme. Perciò, la natura media, che è il mezzo della connessione tra la natura inferiore e quella superiore, è unicamente la potenza di Dio massimo infinito che può essere convenientemente elevata al massimo. […] la natura umana è quella che risulta elevata al di sopra di tutta l’opera di Dio ed è di poco inferiore alla natura angelica. Essa complica [unisce] la natura intellettuale e quella sensibile, racchiude in sé tutti gli universi e, per questo, gli antichi sapienti l’hanno chiamata giustamente «microcosmo», ossia piccolo mondo. Essa è la natura che costituirebbe la pienezza di tutte le perfezioni dell’universo e di ogni essere singolo, se fosse elevata all’unione con la massimità, sicché tutti gli esseri potrebbero raggiungere nell’umanità stessa il loro grado supremo. Per quanto riguarda la fortuna della speculazione di Cusano nella filosofia rinascimentale, vanno sottolineati due aspetti: l’influenza delle sue dottrine sui primi circoli umanisti francesi; e il rilievo decisivo che le sue posizioni rivestono per la genesi e lo sviluppo della filosofia di Giordano Bruno. Al «divino Cusano» Bruno riconosce infatti il merito di avere liberato dagli errori della tradizione aristotelica importanti verità metafisiche, cosmologiche e matematiche, delle quali egli si propone come l’erede e l’interprete più autentico. Tuttavia, all’elogio per aver superato molti errori si accompagna la critica per non aver compreso e sviluppato appieno le intuizioni di partenza. Così Bruno non manca di rilevare i limiti della filosofia cusaniana, individuandoli in primo luogo nell’insistenza sulla figura mediatrice di Cristo e nel mancato riconoscimento dell’universo come infinito in atto, immagine e «ritratto» davvero adeguato dell’infinità di Dio.

Ermetismo (Corpus hermeticum, tradotto da Ficino nel 1463)

Ficino Platonismo: nuove traduzioni dei testi platonici: – prima da parte di Bruni – poi Ficino traduce integralmente i testi di Platone (1484)

Tradizione cabbalistica Aristotelismo medievale Astronomia matematica

Pico della Mirandola Neoplatonismo: la tradizione neoplatonica antica e medievale. Ficino traduce le Enneadi di Plotino e le opere dello Pseudo Dionigi Areopagita, di Giamblico, Proclo, Porfirio, Psello

Influenza di Savonarola Pensiero mistico medievale (Eckhart e la mistica tedesca) Filosofia delle scuole (Eriugena, Scuola di Chartres) Cusano Pensiero matematico e geometrico Pensiero di Lullo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La filosofia della natura fra magia e scienza

4 Magia e scienza come forme di conoscenza della natura

➥ Laboratorio sul lessico, Natura / naturale, p. 131

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Nel corso della seconda metà del Cinquecento si determina un nuovo interesse per lo studio della natura. Comincia così a delinearsi un orientamento destinato a rivelarsi di grande importanza storica: anziché ricorrere a schemi astratti o a enti esterni alla natura, i filosofi preferiscono individuare principi, forze e meccanismi che consentano di spiegare gli eventi senza uscire dal mondo dell’esperienza. Nella filosofia rinascimentale della natura confluiscono tradizioni diverse, anche di carattere occulto e prescientifico (astrologia, magia, alchimia), che convivono con il progressivo emergere di un atteggiamento scientifico in senso moderno. Pur nelle insopprimibili differenze di carattere epistemologico e metodologico, è tuttavia comune sia alla magia che alla scienza l’idea che il mondo naturale possa essere conosciuto nelle leggi che lo regolano e, a partire da questa conoscenza, controllato e indirizzato verso comportamenti ed effetti precisi.

Il naturalismo aristotelico: Pomponazzi Il ruolo svolto dall’aristotelismo nel dibattito filosofico rinascimentale trova la sua espressione più efficace e articolata nell’opera di Pietro Pomponazzi.

La vita e le opere Pietro Pomponazzi nacque a Mantova nel 1462. Studiò all’università di Padova, laureandosi nel 1487. A partire dall’anno successivo, lo Studio padovano gli affidò l’insegnamento straordinario di filosofia e quindi il corso ordinario di filosofia naturale, con il compito di commentare, in modo particolare, le opere aristoteliche di fisica. Dopo la chiusura dello Studio in seguito alla disfatta subita da Venezia a opera della Lega di Cambrai (1509), Pomponazzi si trasferì a Ferrara – dove commentò il Sull’anima di Aristotele –, infine a Bologna, dove insegnò filosofia ordinaria e dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1525. Fra le opere edite in vita da Pomponazzi va ricordato soprattutto il De immortalitate animae («L’immortalità delCritica dell’aristotelismo cristiano

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l’anima»), pubblicato a Bologna nel 1516 e volto a negare la dimostrabilità dell’immortalità dell’anima, seguendo l’interpretazione di Aristotele data da Alessandro di Afrodisia. Al 1520 risale la stesura del De naturalium effectuum causis sive de incantationibus («Le cause degli effetti naturali o gli incantesimi») e del De fato, libero arbitrio, praedestinatione et providentia Dei («Il fato, il libero arbitrio, la predestinazione e la provvidenza divina»), che saranno però pubblicati solo postumi, a Basilea, rispettivamente nel 1556 e nel 1567, a cura del medico bergamasco riformato Guglielmo Gratarol, per evitare di suscitare nuove polemiche, dopo l’accusa di eresia seguita alla pubblicazione del De immortalitate animae.

All’interno di una riflessione complessiva sul pensiero di Aristotele e sulle sue interpretazioni antiche e contemporanee, Pomponazzi si sofferma soprattutto sull’analisi dell’interpretazione cristiana dello Stagirita. Dichiarata per un verso l’indiscutibilità del cristianesimo in quanto insieme di dottrine credute per fede, anche se non suffragate dall’evidenza razionale, Pomponazzi concentra la sua critica sul cristianesimo come sistema dotato di ambizioni filosofiche.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento L’immortalità dell’anima non è dimostrabile

La morale del saggio

La morale del volgo

Verità filosofica e verità religiosa Negazione degli eventi soprannaturali

Influsso degli astri sul mondo sublunare

Influssi astrali e sviluppo delle religioni

Nel De immortalitate animae, muovendosi fra le varie soluzioni del problema fornite dai commentatori del Sull’anima aristotelico – in primo luogo, Alessandro di Afrodisia e Tommaso d’Aquino –, egli nega che la ricerca filosofica, sulla base dei principi aristotelici, possa approdare alla dimostrazione dell’immortalità dell’anima. Il testo aristotelico, la ragione e l’esperienza mostrano concordemente che l’anima è mortale: il pensiero è infatti elaborazione di elementi provenienti dall’esperienza, e ha necessariamente bisogno del corpo come canale di accesso al mondo esterno e luogo di conservazione dei dati percettivi e delle immagini. Il carattere indecidibile del problema dell’immortalità non implica però alcuna ricaduta negativa sul piano della morale. Secondo Pomponazzi – che recupera motivi tipici dello stoicismo – la virtù non solo è autonoma da ogni riferimento a premi o punizioni ultraterrene, ma è anzi tanto più pura quanto più sa trovare in se stessa la propria ragione. Se questa è la morale – e la felicità – propria del sapiente, diversa è la questione per quanti non sanno regolare autonomamente la propria condotta e necessitano di un sistema di premi e punizioni. Se la norma morale è chiara solo per il sapiente, per chi sa far buon uso della ragione, ai legislatori religiosi – che hanno di mira non la perfezione individuale, ma lo sviluppo armonico del corpo politico e la convivenza civile – spetta il compito di condurre il volgo alla pratica della virtù attraverso il ricorso al consueto scenario ultraterreno (immortalità dell’anima, paradiso, inferno). Il problema dell’immortalità dell’anima dimostra che la verità filosofica è nettamente separata da quella religiosa, portando in primo piano il problema dei compiti pedagogici e civili della religione, e addirittura di un suo uso politico. Una prospettiva analoga attraversa anche il De incantationibus. In questo testo Pomponazzi riconduce a cause naturali quei fenomeni che apparentemente sembrano collocarsi al di sopra dell’ordine della natura: magia, operazioni straordinarie, miracoli. In realtà si tratta semplicemente di eventi che accadono raramente e che i profani, gli incolti considerano miracolosi, perché ne ignorano le cause effettive: le virtù occulte proprie di ogni ente; il potere dell’immaginazione; gli influssi astrali. Cercando di spiegare in termini aristotelici quei fenomeni naturali che la tradizione ficiniana aveva interpretato all’interno del quadro concettuale neoplatonico, Pomponazzi individua le cause universali e necessarie degli eventi nelle intelligenze motrici delle sfere celesti, che utilizzano gli astri come strumenti di mediazione e comunicazione con il mondo sublunare. Questo assetto metafisico perenne e autosufficiente ha una sua immediata ricaduta sul piano fisico, in quanto impone i suoi ritmi alla vicenda di generazione e corruzione che riguarda tutti gli enti del mondo sublunare. Al pari di ogni altro evento naturale, anche le religioni sono sottoposte a un ciclo di nascita, sviluppo e morte, e si susseguono le une alle altre secondo un ritmo sorretto dai cieli e stabilito astrologicamente. Così, i corpi celesti sono soliti produrre nel mondo inferiore eventi straordinari per facilitare il consolidarsi di una nuova religione, per poi dar luogo a influssi diversi, al fine di accreditare nuovi profeti e favorire il radicarsi di nuove leggi religiose. Sviluppando un tema che attraversa come un filo rosso tanta parte della riflessione filosofica cinquecentesca, Pomponazzi non manca di presentare anche lo stesso cristianesimo come una lex destinata a esaurirsi, e anzi prossima al suo tramonto. 39

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

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Il naturalismo antiaristotelico: Telesio

L’aristotelismo medievale, spogliato dagli elementi cristiani e da ogni traccia di eventi soprannaturali, diviene nel pensiero di Pomponazzi una forma di naturalismo in cui gli astri esercitano un influsso determinante sulla realtà terrena e umana. L’obiettivo dichiarato di Bernardino Telesio è, invece, quello di superare l’interpretazione aristotelica del mondo naturale. Aristotele ha infatti cercato di spiegare la realtà attraverso il ricorso a categorie puramente teoriche, a principi esterni e del tutto astratti (su tutti, i concetti di forma e materia, atto e potenza), sostituendo alla natura fisica e concreta una natura metafisica e fittizia. Ricerca dei veri principi Diversamente, Telesio rivendica un nuovo modo di porsi di fronte al mondo natudi intelligibilità rale, ben sintetizzato dal titolo della sua opera maggiore, De rerum natura iuxta della natura propria principia, che significa appunto «La natura spiegata a partire dai suoi stessi principi»: la natura possiede in se stessa non solo i fondamenti della propria struttura, ma anche quelli della propria intelligibilità. L’uomo, per comprenderli, deve ascoltare la natura, che comunica con lui attraverso la sensibilità.

La critica di Telesio alla filosofia della natura aristotelica

La vita e le opere Bernardino Telesio nacque a Cosenza nel 1509, dove ricevette la prima educazione dallo zio Antonio, poeta e umanista. Nel 1527 si recò a Padova, dove seguì corsi di medicina, filosofia e matematica. Dopo essersi laureato nel 1534, viaggiò per diverse città italiane – da Roma a Bologna, a Napoli – ritirandosi infine per diversi anni nel convento benedettino di Seminara in Calabria, per lavorare con maggiore tranquillità all’elaborazione della propria dottrina filosofica. Nel 1565 pubblicò a Roma, in due libri, i risultati del suo lavoro, con il titolo De natura iuxta propria principia («La natura spiegata a partire dai suoi stessi principi»). Dopo una revisione approfondita, pubblicò di nuovo l’opera nel 1570 con il titolo, ormai definitivo, di De rerum Due principi agenti (calore e freddo) e un sostrato passivo (materia)

Il calore come origine del moto e della varietà naturale

La natura animata

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natura iuxta propria principia, aggiungendovi tre opuscoli, dedicati ad argomenti particolari di filosofia della natura (De his quae in aere fiunt et de terraemotibus, «Le cose che accadono nell’atmosfera e i terremoti»; De mari, «Il mare»; De colorum generatione, «L’origine dei colori»). Nel 1586 fece stampare a Napoli un’edizione ulteriormente ampliata dell’opera, in nove libri. Nello stesso periodo Telesio compose numerosi opuscoli, dedicati, da un lato, alla confutazione di Aristotele e Galeno attraverso l’esame di specifiche questioni fisiche e mediche; dall’altro, alla difesa della sua filosofia. Due anni dopo la morte di Telesio, avvenuta a Cosenza nel 1588, alcuni di questi opuscoli furono pubblicati dal suo discepolo Antonio Persio, con il titolo Varii de rebus naturalibus libelli («Opuscoli vari sulla natura»).

L’indagine sulla costituzione del mondo naturale porta Telesio a individuare due principi agenti universali: il calore e il freddo. Queste forze hanno poi bisogno di un principio passivo su cui esercitare la propria azione. Tale principio è per Telesio il sostrato corporeo, la materia, la quale subisce modificazioni sotto l’azione opposta dei due principi agenti che pervadono il mondo naturale, in una perenne lotta per la sopravvivenza e il predominio. Il caldo è forza che illumina, riscalda, dilata, alleggerisce, espande la materia e la mette in movimento; mentre il freddo condensa, ispessisce, appesantisce e arresta il movimento. Il Sole e i cieli, in quanto costituiti di calore, sono dotati di un moto naturale che non necessita, per essere spiegato, del ricorso al primo motore della tradizione aristotelica; mentre la Terra, principio del freddo, rimane necessariamente immobile al centro dell’universo. La natura trae dal suo interno la spinta al divenire: il calore celeste agisce sulla Terra e dallo scontro fra queste forze si genera la molteplicità degli enti, la cui diversità è correlata alla diversa intensità dell’azione del Sole sulle parti terrestri. Nella natura telesiana ogni corpo è dotato di un certo grado di sensibilità. Nei corpi organici questa sensibilità si caratterizza come spiritus. Lo spiritus è una

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

Omogeneità e differenza tra uomo e natura

La teoria della conoscenza e il sensismo

L’etica e il ruolo delle sensazioni

L’influenza di Telesio

Pomponazzi e Telesio: due forme di naturalismo

sostanza materiale estremamente sottile e rarefatta, «simile e parente del cielo» (vale a dire generata dal principio del calore), capace di movimento, coestensiva ai corpi e quindi mortale. E su questi presupposti si fonda anche l’idea di una continuità e omogeneità fra natura e uomo. Tutto l’uomo è composto di materia, e anche l’anima non è altro che spirito vitale: diversamente, essa non potrebbe ricevere sensazioni a partire dal corpo, né agire su di esso. Preoccupato che in questo modo non risulti sufficientemente definita la specificità umana, Telesio introdurrà successivamente il concetto di una mens superaddita, vale a dire un’anima superiore infusa da Dio e immortale, che si pone all’origine dell’aspirazione dell’uomo a valori soprasensibili ed eterni, trascendenti la semplice dimensione della vita naturale. Dal punto di vista gnoseologico, ancora una volta in opposizione all’astrattezza dell’approccio aristotelico, Telesio delinea una dottrina della conoscenza tutta incentrata sulla conoscenza sensibile (sensismo). Il processo conoscitivo ha inizio dalla sensazione, e consiste nella percezione della modificazione subita dallo spiritus a opera delle cose stesse, sulla base di affinità e diversità. Da presupposti analoghi deriva anche l’etica di Telesio, fondata sulle sensazioni piacevoli o negative che lo spiritus prova in occasione del contatto sensibile con le cose. Il fine ultimo e il vero bene di ogni essere naturale è l’autoconservazione e l’accrescimento: così, ciascun essere percepisce con piacere (e tende a ricercare) eventi e fenomeni che lo favoriscono e lo conservano, mentre percepisce con dolore (e tende a rifuggire) quanto può danneggiarlo o distruggerlo. La filosofia di Telesio esercita un immediato, potente richiamo sui contemporanei, interpretando l’esigenza diffusa di un ritorno alla concretezza del mondo naturale. Se attraverso Francesco Patrizi (1529-1597) e Antonio Persio (1542-1612) le sue dottrine vengono inserite nel più generale dibattito rinascimentale sull’eleatismo, l’incontro con il De rerum natura ha per Campanella il carattere di una vera e propria rivelazione; mentre Bruno, pensatore mai prodigo di elogi, nel De la causa, principio et uno ricorda con parole di consenso l’«onorata guerra» combattuta contro Aristotele dal «giudiciosissimo Telesio consentino».

Pomponazzi

Telesio

Aristotelismo naturalistico

Naturalismo antiaristotelico

Indimostrabilità dell’immortalità dell’anima

L’intera realtà è animata, tutti i corpi possiedono spiritualità, ma l’uomo possiede anche un’anima superiore infusa da Dio e immortale

Fondazione autonoma della morale e distinzione tra morale del saggio e morale comune

Etica fondata sulle sensazioni piacevoli o spiacevoli. Fine ultimo e bene di ogni ente è l’autoconservazione

Spiegazione dei fenomeni attraverso la catena delle cause e rifiuto degli eventi soprannaturali. Le cause universali e necessarie degli eventi sono le intelligenze motrici delle sfere celesti

Rifiuto di principi metafisici (potenza / atto, forma / materia ecc.) per spiegare la natura: la conoscenza è fondata sulla sensibilità. Due principi agenti (calore e freddo) e un sostrato passivo (materia) formano gli enti

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

3 I presupposti della filosofia di Campanella

Un nuovo sistema filosofico: Campanella Insofferente della disciplina aristotelica appresa nei conventi domenicani di Calabria, Tommaso Campanella trova un’alternativa affascinante e persuasiva, da un lato, nel naturalismo di Telesio; dall’altro, nella magia e nella dottrina dell’animazione universale. A partire da questi presupposti, egli, nel corso della sua vita tormentata, elabora un nuovo sistema filosofico radicalmente alternativo alla filosofia aristotelica, considerata come la fonte di tutte le false dottrine del tempo.

La vita e le opere Tommaso Campanella nacque a Stilo, in Calabria, nel 1568 e venne battezzato con il nome di Giovan Domenico. Nel 1582 entrò nell’Ordine domenicano, assumendo il nome di Tommaso, e qui si dedicò al tradizionale studio della filosofia aristotelica e del tomismo, pur affiancando agli studi curriculari letture eterodosse. Un evento fondamentale per la formazione del suo pensiero fu l’incontro con la filosofia di Telesio (1588), nel cui sensismo egli individuò quell’alternativa all’aristotelismo di cui era alla ricerca, e alle cui teorie si ispirò per comporre la Philosophia sensibus demonstrata («Filosofia che ci è mostrata dai sensi»), pubblicata nel 1591. Negli anni seguenti – trascorsi a Napoli – di particolare importanza sono le discussioni con Giovan Battista Della Porta, all’origine del De sensu rerum et magia, opera poi riscritta in italiano nel 1604 con il titolo Il senso delle cose e la magia (in cui il termine «senso» allude alla sensibilità di cui sono dotati tutti gli enti). Accusato di pratiche magiche, per sottrarsi all’obbligo impostogli dai suoi superiori di far ritorno in Calabria, Campanella si mosse fra Roma, Firenze e Padova, dove rimase fino al 1594. Arrestato con l’accusa di professare dottrine eterodosse, venne trasferito a Roma, processato e condannato alla pubblica abiura. Riabilitato dal Sant’Uffizio alla fine del 1596, pochi mesi dopo, in seguito a una nuova denuncia, fu arrestato una seconda volta e costretto a far ritorno in Calabria. Nell’estate del 1598 giunse a Stilo, dove ben presto divenne l’ispiratore di una cospirazione antispagnola, fondata sulla convinzione che l’imminente passaggio a un nuovo secolo avrebbe reso possibile la realizzazione di un nuovo ordine anche sociale, fondato sull’uguaglianza e la I principi della filosofia della natura: attenzione alla natura e sensibilità degli enti

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giustizia. Smascherato e catturato dagli spagnoli, nel novembre 1599 fu processato a Napoli, con l’accusa di eresia e ribellione contro l’autorità. Duramente torturato, scampò alla pena capitale simulando la follia, ma rimase prigioniero nelle carceri napoletane per ventisette anni. Nel corso di questa lunghissima reclusione, il filosofo ebbe la possibilità, in alcuni periodi, di far filtrare la propria voce all’esterno, intervenendo con propri scritti su importanti questioni: in modo particolare, va ricordata la sua coraggiosa Apologia pro Galileo (1616), in difesa della libertà e dei diritti di ogni vero filosofo-scienziato, il cui primo compito è quello di leggere nel libro della natura, e non nei libri degli uomini. Agli anni del carcere appartengono anche la Città del Sole (1602) e l’imponente Metafisica (terminata nel 1623). Liberato nella primavera del 1626, a causa dell’antico processo per eresia fu costretto a scontare altri due anni di prigionia a Roma: rinchiuso nel palazzo dell’Inquisizione, poté godere tuttavia di condizioni di detenzione meno gravose, anche a causa della simpatia di papa Urbano VIII, fortemente interessato alle sue pratiche magico-astrologiche. Ottenuta infine la libertà nel 1629, nel 1634, in seguito all’accusa di aver nuovamente complottato contro la Spagna, fu costretto a lasciare Roma: si diresse allora a Parigi, dove ricevette buona accoglienza sia da parte del re Luigi XIII e della corte che degli ambienti accademici. In questi ultimi anni Campanella si dedicò all’edizione delle proprie opere, ma anche alla composizione di nuovi scritti politici, nei quali – all’interno della consueta prospettiva profetica – esaltò il ruolo egemone della monarchia francese. Morì a Parigi nel maggio 1639.

Sensismo telesiano e dottrine di matrice neoplatonica – legate a una interpretazione originale del concetto di «anima del mondo» – contribuiscono a determinare l’impianto della filosofia della natura campanelliana, esposta nella sua prima opera a stampa, la Philosophia sensibus demonstrata, e in seguito – in forma più definita – nel De sensu rerum et magia. Da Telesio Campanella trae due fondamentali opzioni: la convinzione che l’indagine filosofica debba volgersi al libro divino della natura, piuttosto che ai libri degli uomini; e l’idea che tutti gli enti siano dotati di sensibilità. Ogni cosa desidera infatti perseverare nel proprio stato, autoconservarsi, ed è quindi dotata, in modi diversi, di ‘senso’, vale a dire della capacità di distinguere quanto può giovare alla propria vita da quel che invece le nuoce o la distrugge.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento Vari gradi di sensibilità degli enti

La conoscenza e il ruolo della mente

L’attività del mago

L’enciclopedia del sapere Gli scritti poetici

I tre principi dell’essere e le loro manifestazioni negli enti

Dio e gli altri enti

Ontologia e religione

Alcuni enti (per esempio, gli astri) possiedono una forma di sensibilità estremamente raffinata e più pura di quella animale; altri (per esempio, i minerali), appesantiti dalla materia, sono dotati di un senso più ottuso e torpido. Negli organismi animali vita e conoscenza sono collegate all’attività dello spiritus – costituito di materia estremamente rarefatta e mobile, assottigliata dal calore solare. Entrando in contatto con la realtà esterna attraverso gli organi di senso, lo spiritus viene modificato in forme diverse, dando luogo a percezioni e passioni. Rispetto agli animali, l’uomo è dotato di uno spiritus più sottile e puro, che gli consente di elaborare ragionamenti più complessi; ma soprattutto possiede una mens incorporea di origine divina, che rappresenta la sua dimensione specifica, grazie alla quale può superare la mera prospettiva dell’autoconservazione per volgersi a obiettivi e beni più alti. Sulla capacità di sentire universalmente diffusa si fonda anche l’attività del mago che, conoscendo la specifica qualità del senso che inerisce a ogni ente, è in grado di utilizzarlo in modo conveniente, ed è capace di indurre sullo spiritus determinate alterazioni e passioni. Nei lunghi anni di carcere, Campanella si dedica a un’opera di rifondazione dell’enciclopedia del sapere, componendo opere in cui prende in esame teologia e medicina, astrologia e metafisica, filosofia universale e religione naturale. Da questo ripensamento complessivo derivano, in primo luogo, gli straordinari scritti poetici, in cui il dramma personale dell’autore viene reso generale e storico, proiettandolo sullo sfondo della ‘commedia universale’, e di acute riflessioni sul male, sulla giustizia, sulla dissimulazione, sul destino del giusto profeta, sempre perseguitato e messo a morte. D’altra parte, prende a concretizzarsi il progetto di un nuovo sistema filosofico, capace di porsi come completa e praticabile alternativa all’aristotelismo. L’opera in cui questo intento sistematico si fa più esplicito è la Metafisica: questa disciplina, secondo Campanella, ha il compito di considerare razionalmente la realtà nel suo complesso, dal punto di vista della totalità degli enti. La dottrina fondamentale esposta in questo scritto è quella secondo cui i principi dell’essere si specificano in tre primalità, di cui compartecipano sia Dio che le creature. Ogni ente, secondo Campanella, è costituito dal nesso di tre propensioni o intenzioni originarie: il poter essere, il saper essere, il voler essere (nel lessico campanelliano, «possanza, senno e amore»). Ogni primalità segue il criterio per cui ogni cosa si riferisce prima a se stessa, quindi alle altre. Ogni ente ha dunque prima potenza su di sé, poi sugli altri enti; ha autoconsapevolezza, sapere innato di sé (benché con gradi diversi di chiarezza), e poi del mondo; ama se stesso e perciò è capace di porsi in sintonia con gli altri enti. Solo in Dio, ente assoluto, potenza, sapienza e amore sono presenti in forma perfetta e illimitata. Al contrario, negli enti finiti, nelle creature, questi principi sono limitati dalle primalità opposte (impotenza, ignoranza, odio). Queste ultime rendono ragione, da un lato, della contingenza degli enti creati; dall’altro, dell’imperfezione e dell’irrazionalità che si riscontrano nell’universo. Se da una parte la dottrina delle primalità fonda l’idea dell’animazione universale, dall’altra essa rappresenta l’espressione filosofica (e dunque conoscibile dalla ragione) del dogma cristiano della Trinità. A questo proposito, occorre tenere presente un altro aspetto della teoria religiosa di Campanella: egli ritiene che Dio sia oggetto, da parte delle creature, di un sentimento innato d’amore (religione naturale), che la rivelazione cristiana ha reso consapevole e manifesto. 43

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Ciò non significa, però, che Campanella assimili il cristianesimo a tutti gli altri culti. All’opposto, egli lo considera superiore a ogni altra religione e massimo inveramento della stessa razionalità naturale. Da ciò, l’obbligo di combattere e respingere con forza tutte le filosofie che si pongano in contrasto con l’autentica dottrina cristiana (da non confondere con il sistema filosofico-teologico della Scolastica). D’altra parte, gli uomini che, pur non illuminati dalla rivelazione, si lasciano guidare dai principi e dalle leggi della ragione, vanno considerati, sia pure in forma mediata e inconsapevole, anch’essi cristiani. Gli abitanti della Città del Sole (vedi p. 63), per esempio, pur non toccati dalla rivelazione e privi del sigillo dei sacramenti, conducono secondo Campanella una vita assai vicina e affine a quella di una società autenticamente cristiana. Un rinnovamento Nelle opere di argomento dichiaratamente politico, Campanella suggerisce la via sociale all’insegna da percorrere per instaurare una società secondo ragione nell’Europa del suo del cristianesimo tempo. Da un lato, al pari di Bruno, egli indica come prioritaria l’esigenza di superare i contrasti religiosi; ma dall’altro, a differenza del Nolano, crede che questo superamento possa realizzarsi sotto il segno di un cattolicesimo rigenerato e rinnovato. Campanella assegna ai grandi monarchi europei il ruolo di ‘braccio armato’ di una teocrazia universale guidata dal papa. In un primo tempo egli affida questo compito alla monarchia asburgica; mentre l’orientamento filospagnolo del suo pensiero è destinato a modificarsi nei suoi ultimi anni, per ragioni sia storiche che contingenti: è in Francia, infatti, che Campanella sarà costretto a cercare rifugio al termine della vita. La superiorità del cristianesimo

La filosofia di Campanella

Filosofia della natura (Influenza di Telesio) – Indagine sulla natura a partire dai suoi principi interni – Tutti gli enti sono dotati di sensibilità

Campanella

Teoria della conoscenza – Ogni ente conosce attraverso lo spiritus (principio di animazione) – Ogni ente conosce attraverso percezioni e passioni – L’uomo oltre allo spiritus possiede una mente incorporea di origine divina

Mago: conosce lo spiritus più profondamente degli altri uomini e può operare sugli enti

Ontologia – Ci sono tre principi dell’essere (primalità): «possanza, senno e amore» (potenza, saggezza, amore) – In Dio sono tutti e tre in forma perfetta e illimitata – Negli enti finiti sono limitati dalle primalità opposte (impotenza, ignoranza, odio) Religione – Dio è oggetto, da parte delle creature, di un sentimento innato d’amore – La rivelazione cristiana ha reso consapevole e manifesto questo amore – Superiorità del cristianesimo Politica – Obiettivo di instaurare una società secondo ragione nell’Europa del suo tempo – Esigenza prioritaria di superare i contrasti religiosi; ma questo superamento deve realizzarsi sotto il segno di un cattolicesimo rigenerato e rinnovato – Modello di una società ideale nella Città del Sole Generi letterari – Enciclopedia del sapere (teologia, medicina, astrologia, metafisica, filosofia universale, religione naturale) – Opere poetiche – Opere politiche

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

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La magia e la scienza moderna

Se è vero che la magia ha, in varie forme, sempre accompagnato il sapere dell’umanità, nel Rinascimento essa si trova al centro di una complessa mediazione di diverse tradizioni culturali. E risulta assai difficile – oltre che sbagliato – sottovalutare, o liquidare con sufficienza, l’importanza della magia (così come, per altro verso, dell’astrologia) in una civiltà in cui, come ci ha insegnato il grande storico dell’arte e della cultura Aby Warburg (1866-1929), i rapporti fra Atene e Alessandria, i due centri della filosofia antica simboli rispettivamente della razionalità e dell’irrazionalità, sono così mobili, fluidi, complessi. Il filosofo-mago Come ha scritto lo storico della filosofia Eugenio Garin, in un saggio intitolato Il filosofo e il mago:

Il ruolo della magia nella filosofia del Rinascimento

La ‘rivoluzione culturale’ che aveva accompagnato il massiccio ritorno dei filosofi antichi non cambiava solo i rapporti fra le discipline […]. Disegnava un’immagine diversa del teorico, del ‘filosofo’, come di colui che riflette criticamente sulle proprie esperienze e che, oltre che teorizzare, opera.

Magia come conoscenza, prassi e forma di potere

Elementi comuni e differenze tra scienza e magia

Una nuova figura di sapiente

Tra magia e scienza un passaggio graduale

➥ Sommario, p. 66

E per insistere sui caratteri operativi di questa immagine del filosofo, ricordava, poco oltre, un’espressione di Ficino: «il filosofo esperto delle cose naturali e di quelle celesti, quel filosofo che noi propriamente siamo soliti chiamare mago». L’attenzione alle tematiche magiche presenti nel Rinascimento è dunque importante, perché consente, in primo luogo, di mettere a fuoco la dimensione ‘pratica’ della cultura rinascimentale e della concezione della natura che contribuisce a elaborare. Conoscenza, prassi: ma la magia è certamente anche potere. Catturare l’energia dell’universo attraverso forme diverse di attrazione e fascinazione, indirizzarne le forze nella direzione desiderata, plasmare la materia consente all’uomo un dominio sulla realtà degno della sua centralità cosmica. E proprio in questa identificazione della magia con un momento operativo in grado di arricchire e perfezionare il carattere puramente contemplativo della scienza aristotelica risiede, secondo gli studiosi, anche l’importanza della magia per la nascita della scienza moderna. Quest’ultima si costituisce come forma di sapere in grado di recuperare e perpetuare il desiderio di potenza incarnato dalla magia rinascimentale, ma trasformandone profondamente le modalità. Pur nel permanere di alcune dottrine (parallelismo macrocosmo-microcosmo; principio della simpatia universale), fra la seconda metà del Cinquecento e la prima del Seicento si definisce una nuova concezione del sapiente e del sapere, che sostituisce ai requisiti della segretezza, della eccezionalità, della illuminazione spirituale, propri delle scienze occulte, un’esigenza di pubblicità e comunicazione dei risultati, una chiarezza, un rigore – e soprattutto una lettura meccanicistica e quantitativa del mondo naturale – che queste non possedevano. Tuttavia, pur tenendo presenti i criteri in base ai quali una consolidata tradizione storiografica ha finora distinto il mago dallo scienziato, occorre sottolineare che una tale trasformazione non avvenne di colpo: e se la scienza si emancipò gradualmente dalla mentalità magica, ciò fu reso possibile anche dalla progressiva ‘naturalizzazione’ della magia nell’epoca moderna e dal suo parallelo, consapevole rifiuto della dimensione rituale, demonica, teurgica per ricercare piuttosto, come dirà Giordano Bruno, «la forma e teorica della scienza» magica, i suoi fondamenti dottrinali e speculativi. 45

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’uomo nell’infinito: Bruno

5 I testi

G. Bruno De la causa, principio et uno: L’uomo nell’infinito, T9 Cena de le Ceneri: La ‘rivelazione’ dell’universo infinito, T10

Importanza e modernità di Bruno

Ruolo personale di Bruno nel processo di riforma culturale e civile

La personalità filosofica di Giordano Bruno, così come la sua drammatica vicenda biografica, è notevolmente complessa. Nella storia della filosofia del Rinascimento, egli si caratterizza per una serie di posizioni di dirompente novità sul piano metafisico come su quello cosmologico, etico e religioso. La modernità di Bruno nasce, da un lato, dalla densità di una posizione filosofica profondamente radicata nel suo tempo, come dimostrano le importanti suggestioni che egli recupera dalle dottrine di Ficino e Cusano; dall’altro, da un confronto serrato e assai consapevole con la tradizione filosofica classica: i presocratici, Platone e il neoplatonismo, ma anche Aristotele, la tradizione peripatetica e Tommaso d’Aquino. Il programma di Bruno non solo investe tutti i campi della riflessione filosofica, ma propone una riforma complessiva del sapere e della vita civile. Inoltre, si tratta di una prospettiva filosofica segnata da una forte componente personale, autobiografica: teorico di una concezione vicissitudinale (per la nozione di «vicissitudine» vedi sotto, p. 51) del sapere, ossia di una visione ciclica della storia della conoscenza umana, al cui interno la verità è periodicamente soggetta a una lunga fase di oblio, dalla quale viene fatta rinascere grazie all’opera dei filosofi, Bruno pensa se stesso come il messaggero di una nuova età di giustizia e di pienezza, destinato dagli dèi a illuminare gli altri uomini, riportando in luce le dottrine dell’«antiqua vera filosofia», occultata e dimenticata soprattutto a opera di Aristotele e dei suoi interpreti e seguaci.

La vita e le opere Giordano Bruno nacque nel 1548 a Nola, in Campania, e venne battezzato con il nome di Filippo. Nel 1562 si trasferì a Napoli per continuare gli studi: qui seguì dapprima lezioni private di dialettica e di logica, quindi, nel 1565, entrò come novizio nel convento domenicano di San Domenico Maggiore, assumendo il nome di Giordano. Ordinato sacerdote nel 1572 e licenziato in teologia nel 1575, assunse presto atteggiamenti ribelli e posizioni difficilmente conciliabili con l’ortodossia cattolica, che portarono all’apertura di un procedimento disciplinare nel 1575 e quindi alla fuga a Roma l’anno successivo. Abbandonato l’abito domenicano, Bruno cominciò così una vita errabonda attraverso l’Europa, che durò fino alla morte, alla continua ricerca di una sistemazione che gli consentisse di proseguire liberamente i suoi studi e, allo stesso tempo, di trovare un ambiente capace di accogliere il messaggio di rinnovamento di

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Spaccio de la bestia trionfante: Divina magia degli egizi, stolta idolatria dei cristiani, T11 De gli eroici furori: Caratteri del «furore eroico», T12

cui si sentiva portatore. Dopo essersi fermato in numerose città dell’Italia settentrionale, nel maggio 1578 giunse a Ginevra, dove entrò ben presto in attrito con le locali autorità calviniste. Si recò a Tolosa e nel 1581 giunse a Parigi, dove riuscì a interessare alla sua arte della memoria il re Enrico III e a ottenere l’incarico di «lettore reale», ovvero di docente stipendiato dal re. Nel 1582 Bruno dedicò proprio al re il De umbris idearum («Le ombre delle idee»). Nell’aprile 1583 lasciò Parigi per l’Inghilterra, al seguito dell’ambasciatore francese Michel de Castelnau. Nei primi mesi del soggiorno inglese fu impegnato nel tentativo di affermarsi nell’ambiente accademico di Oxford. Le sue lezioni non incontrarono però il successo sperato, anzi suscitarono la violenta reazione dell’ambiente universitario, che giunse ad accusarlo di plagio. In Inghilterrà pubblicò la Cena de le Ceneri, il primo dialogo in italiano, nel 1584. A questo stesso periodo inglese appartengono anche gli al-

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

tri grandi dialoghi filosofici scritti in italiano, di argomento cosmologico-teologico (oltre alla Cena, il De l’infinito universo e mondi), ontologico (De la causa, principio et uno), politico-religioso (Spaccio de la bestia trionfante, Cabala del cavallo Pegaseo), antropologico-gnoseologico (De gli eroici furori). Tornato a Parigi nell’ottobre 1585, Bruno fu costretto ben presto a lasciare la città in seguito a un suo violento attacco pubblico contro gli aristotelici. Scelse allora di raggiungere la Germania: visse prima a Marburg, quindi a Wittenberg, dove insegnò per due anni, dal 1587 al 1588. Costretto a lasciare anche questa città per l’egemonia qui esercitata dai calvinisti, si rifugiò a Praga, presso la corte di Rodolfo II, poi a Helmstädt, dove nel 1589 lo colpì la scomunica anche da parte della Chiesa luterana. In questo periodo Bruno si impegnò nella composizione di una serie di trattati di argomento magico, destinati a rimanere inediti fino alla fine dell’Ottocento. Nel 1591, mentre era a Francoforte per stampare i suoi notevoli poemi latini di ispirazione lucreziana – De triplici minimo et mensura («I tre tipi di minimo e la misura»), De monade, numero et figura («La monade, il numero e la figura»), De immenso et innumerabilibus («L’immenso e gli innumerabili») – venne raggiunto dall’invito del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, che desiderava apprendere da lui i segreti dell’arte della memoria. Convinto che Venezia, per la sua lunga tradizione di tolleranza, potesse garantire la sicurezza anche di un pensatore come lui, così lontano dall’ortodossia, Bruno accettò di tornare in Italia. A partire dall’agosto-settembre 1591 visse per qualche mese tra Venezia e Padova e dall’aprile del 1592 si trasferì a Palazzo Mocenigo: ma il giovane patrizio, deluso dall’insegnamento mnemotecnico di Bruno, e insieme turbato dal contenuto eterodosso delle sue idee, lo denunciò all’Inquisizione.

1 I dialoghi italiani

I «dialoghi cosmologici»: innovazione cosmologica e ontologica

Il processo, che vide Bruno imputato di eresia, fu lungo, complesso e articolato in due principali fasi: quella veneta e quella romana. Nel corso del processo veneto Bruno da un lato sottolineò e difese la portata essenzialmente filosofica del suo insegnamento; dall’altra, si dichiarò disposto ad ammettere i suoi eventuali errori di carattere teologico e dottrinale. Ottenuta l’avocazione del processo da parte dell’Inquisizione romana, nel febbraio 1593 Bruno venne trasferito a Roma e rinchiuso nel carcere del Sant’Uffizio, dove passò i suoi ultimi anni di vita. Nel gennaio 1599, su istanza del cardinale Roberto Bellarmino, gli vennero sottoposte otto proposizioni eretiche, perché egli le abiurasse. Bruno, mantenendo la linea di autodifesa adottata a Venezia, si dichiarò disposto alla confessione. Tuttavia, continuò a formulare una serie di distinguo sulle proposizioni incriminate, finché il tribunale, irrigidendosi, gli intimò di riconoscere i suoi errori entro quaranta giorni. Il 21 dicembre 1599 Bruno, evidentemente non disponibile a rinnegare aspetti fondamentali del suo pensiero, abbandonò ogni ricerca di compromesso e rifiutò di ritrattare. Condannato come eretico «impenitente» e «pertinace», venne arso vivo in Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600. Nel 1891 sono stati editi per la prima volta un gruppo di scritti, composti e rielaborati durante la permanenza in Germania tra il 1587 e il 1591, indicati come ‘trattati magici’: De magia mathematica («La magia matematica»), De magia naturali («La magia naturale»), Theses de magia («Articoli sulla magia»), De vinculis in genere («I vincoli in generale»), De rerum principiis et elementis et causis («I principi, gli elementi e le cause delle cose»), Medicina Lulliana partim ex mathematicis partim ex physicis principiis educta («Medicina Lulliana, tratta in parte da principi matematici, in parte da principi fisici»), Lampas triginta statuarum («La lampada delle trenta statue»).

La cosmologia: universo infinito e infiniti mondi Autore di numerose e importanti opere latine, a Londra, in due anni di lavoro intensissimo, Bruno pubblica fra 1584 e 1585 i suoi dialoghi italiani, che costituiscono un vero e proprio concentrato delle sue posizioni filosofiche più qualificanti. Questi sei dialoghi vengono tradizionalmente distinti in due gruppi, in base ai temi affrontati: dialoghi cosmologici e dialoghi morali. I cosiddetti «dialoghi cosmologici» – la Cena de le Ceneri, il De l’infinito universo e mondi, il De la causa, principio et uno – sono tutti pubblicati nel 1584. Questi testi presentano – in una prospettiva fortemente critica sia dell’aristotelismo dominante che degli ambienti accademici inglesi, pervasi dalla rigidità, dal letteralismo, ossia dall’interpretazione letterale della Scrittura, e dalla diffidenza per le novità dei professori puritani (seguaci dell’ala più radicale del protestantesimo inglese) – una cosmologia e una ontologia profondamente innovative e, insieme, decisamente eversive sia sul piano fisico che su quello metafisico. 47

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La piena adesione al copernicanesimo eliocentrico

Copernico come segno della rinascita della verità

Il limite di Copernico: mancanza di prospettiva filosofica

Bruno abolisce l’immagine di un universo chiuso

Un universo attualmente infinito

Abolizione della distinzione tra sfera celeste e sfera terrestre

Un universo privo di distinzioni gerarchiche

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Nella Cena de le Ceneri, Bruno prende apertamente posizione a favore del sistema cosmologico eliocentrico presentato dall’astronomo polacco Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium («Le rivoluzioni – ossia i moti attorno a un centro gravitazionale – dei corpi celesti»), pubblicato nel 1543. Difendendo con energia tale dottrina dalle interpretazioni in chiave probabilistica (vedi Unità 2, p. 72 ss.), Bruno afferma la verità fisica e cosmologica dell’eliocentrismo. Agli occhi di Bruno, peraltro, Copernico non è un matematico come tanti, ma un momento importante della rinascita della verità dopo secoli di tenebre. Riproponendo e rinnovando l’antichissima concezione del moto della Terra – ormai disprezzata o addirittura dimenticata –, egli ha infatti aperto la strada alla liberazione dell’umanità dall’ignoranza e dall’impostura. Per definire il suo rapporto con Copernico, Bruno fa ricorso alla metafora del giorno: sotto questo profilo, l’astronomo rappresenta l’aurora, mentre Bruno incarna il sole della verità che torna nuovamente a illuminare gli uomini. Tuttavia, accanto a questo merito, Bruno riconosce anche il limite fondamentale di Copernico: egli ha svolto un discorso più «matematico» che «naturale», si è mosso da astronomo, non da filosofo. Rimanendo prigioniero delle osservazioni e dei calcoli, ma privo di prospettiva filosofica, non è riuscito a produrre, oltre che una nuova cosmologia, anche una nuova filosofia, che gli consentisse di «profondare», di calarsi in profondità dentro la struttura del mondo naturale. Bruno si assume il compito di portare alle estreme conseguenze la ‘scoperta’ di Copernico, oltrepassando ampiamente la sua prospettiva per sviluppare il modello eliocentrico in chiave infinitistica. Se nel De revolutionibus l’universo – finito e limitato dal cielo delle stelle fisse – mantiene come suo centro fisso e immobile il Sole, intorno al quale ruotano le orbite circolari dei pianeti, Bruno non si limita a sostituire alla posizione della Terra la nuova centralità del Sole, ma abolisce l’immagine di un universo chiuso e dissolve la nozione di centro assoluto. Infrangendo una tradizione secolare, egli afferma infatti che l’universo è attualmente (cioè, di fatto) infinito; in quanto infinito, è privo di centro e di circonferenza, ed è costituito da infiniti mondi, da infiniti sistemi solari. Esistono innumerevoli soli e innumerevoli terre, che girano loro intorno, mosse da un principio vitale interiore, da un’anima, ricevendone luce e calore. Soli, terre, mondi non si distinguono dal punto di vista della sostanza che li costituisce, che è unica e identica per tutte le cose. Si dissolve così un altro principio della cosmologia aristotelico-tolemaica: l’idea di una gerarchia del mondo naturale, suddiviso in una regione celeste incorruttibile e in una terrestre, dove si svolgono i processi di generazione e corruzione. Facendo coincidere materia del mondo sublunare e materia del mondo celeste, Bruno mostra l’inconsistenza della scala naturale, che, secondo i peripatetici, ordina tutti gli enti secondo gradi maggiori o minori di perfezione. Intrecciando adesione al copernicanesimo, motivi di ispirazione cusaniana ed elementi lucreziani, Bruno delinea così un modello di universo privo di distinzioni gerarchiche, infinito in estensione, composto da infiniti mondi di identica natura e tutti abitati da innumerevoli individui. La Terra, da centro dell’universo, si trasforma in uno degli infiniti mondi sparsi nel cosmo; l’uomo, concepito fino a quel momento come apice del creato, viene immesso nell’infinità, perdendo ogni primato e ogni centralità.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

T9

L’uomo nell’infinito

G. Bruno, De la causa, principio et uno

Alla proporzione, similitudine, unione et identità de l’infinito non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo: per che a quello essere non più ti avicini con esser sole, luna, che un uomo o una formica, e però nell’infinito queste cose sono indifferenti; e quello che dico di queste, intendo di tutte l’altre cose di sussistenza particulare. Profondamente convinto della radicale novità del suo pensiero, Bruno celebra la sua scoperta dell’infinito con toni accesi ed entusiasti, senza temere di istituire addirittura un paragone fra la sua ‘rivelazione’ e quella di Cristo.

T10

La ‘rivelazione’ dell’universo infinito G. Bruno, Cena de le Ceneri

L’universo infinito come immagine e manifestazione dell’infinità divina

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Or ecco quello ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime, et altre che vi s’avesser potute aggiongere sfere per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari. Cossì al cospetto d’ogni senso et raggione, co la chiave di solertissima inquisizione aperti que’ chiostri de la verità che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura: ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi che non possean fissar gli ochi e mirar l’imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s’opponeno. Sciolta la lingua a muti, che non sapeano et non ardivano esplicar gl’intricati sentimenti; risaldati i zoppi che non volean far quel progresso col spirto, che non può far l’ignobile e dissolubile composto: le rende non men presenti, che si fussero proprii abitatori del sole, de la luna et altri nomati astri. Nella Cena la polemica di Bruno si indirizza prevalentemente contro le premesse filosofiche del geocentrismo e le rigidità e le contraddizioni presenti nella fisica e nella cosmologia peripatetica. Diversamente, nel De l’infinito egli – come farà poi nel poema filosofico latino De immenso et innumerabilibus, pubblicato nel 1591 – sostiene la sua concezione dell’infinito anche sulla base di un argomento di natura metafisica e teologica. L’universo infinito è effetto, manifestazione e immagine di Dio, ed è legato a lui da un rapporto di specularità: negarne l’infinità comporterebbe quindi negare anche l’infinità della sua causa divina, con il risultato – inaccettabile – di porre un limite all’onnipotenza e alla perfezione stessa di Dio.

L’ontologia: materia, anima, vicissitudine

Nella Cena e nel De l’infinito il problema di determinare la sostanza che costituisce l’universo e dalla quale hanno origine gli individui e i mondi innumerevoli rimane sullo sfondo. Per illustrare i fondamenti ontologici che sono alla base della sua cosmologia, Bruno scrive il De la causa, principio et uno, il più denso, complesso e difficile dei dialoghi italiani. Qui il filosofo affronta in modo specifico la questione di quale sia il fondamento della vita di tutti gli enti, di quale sia la sostanza prima e universale. Una duplice strategia E lo fa seguendo una duplice strategia: definitoria 1) in primo luogo, lascia sfumare il problema tradizionale di Dio e della causa prima – estranei all’orizzonte speculativo dell’uomo –, per prendere invece in esame i caratteri dell’universo, interpretato come «ombra», ritratto, explicatio (in senso cusaniano) della divinità; La definizione della sostanza dell’universo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La materia come energia e vita

La critica dell’ontologia aristotelica

La materia come principio attivo, infinito, eterno e universale

La materia come madre

Coincidenza di materia e forma

Il rapporto tra Dio e l’universo

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2) in secondo luogo, questa analisi si sviluppa attraverso un confronto serrato con la tradizione, soprattutto aristotelica, facendo ricorso a termini come «materia» e «forma», «potenza» e «atto», «principio» e «causa», «sostanza» e «accidente», ma modificandone in profondità il significato, fino a trasfigurarlo. Se la tradizione filosofica aveva concordemente identificato la materia con la potenza pura e ‘nuda’, fondamento inerte e privo di qualsiasi caratterizzazione, quel che interessa a Bruno è ripensare in termini nuovi questo concetto, trasformando la materia da prope nihil, «quasi nulla», a principio inesauribile di energia e di vita. Questo significa, inevitabilmente, istituire una polemica frontale in primo luogo con l’ontologia di Aristotele. Secondo Bruno, Aristotele è colpevole di aver infranto la visione unitaria e vitale dell’essere propria dei filosofi presocratici e soprattutto di Parmenide, sovrapponendo ad essa, per spiegare la natura, un astratto apparato di categorie logiche, che hanno avuto il risultato di far perdere di vista l’unità fondamentale della sostanza. Aristotele e i suoi interpreti medievali non sono riusciti a pensare la sostanza come ente unico ed eterno, sfondo immobile e immutabile di ogni movimento e cambiamento, ma l’hanno identificata nei singoli individui, attribuendole quindi una dimensione inevitabilmente dissolubile e corruttibile, e perdendo di vista la fonte unica da cui scaturisce la vita universale. A fondamento di tutti gli infiniti enti – i mondi, le specie, gli individui – di cui l’universo è costituito, Bruno pone al contrario una sostanza unica, che è il principio del dinamismo della vita naturale. Questa sostanza è una materia infinita, eterna, universale, una materia che è infinita energia formatrice, perché possiede in sé la vita. A differenza di quanto pensava Aristotele, che individuava nella materia il substrato passivo e meramente potenziale cui solo le forme sostanziali possono attribuire atto, virtù e perfezione, per Bruno la materia è principio attivo. Le forme non trascendono, ma sono immanenti alla materia, che le produce continuamente dal suo grembo. Questo è possibile, perché il principio materiale è compenetrato dall’anima del mondo e possiede quindi in sé anche il principio formale. Possiamo dire che la materia è priva di forma – scrive Bruno nel De la causa, principio et uno – solo nello stesso senso in cui diciamo che una donna incinta è priva di prole, nel senso che non l’ha ancora partorita, ma la possiede già in sé: «[la materia] la dico privata de le forme e senza quelle, non come il ghiaccio è senza calore, il profondo è privato di luce: ma come la pregnante è senza la sua prole, la quale la manda e la riscuote da sé; e come in questo emispero la terra la notte è senza luce, la quale con il suo scuotersi è potente di racquistare.» Nella sostanza bruniana, dunque, forma e materia coincidono. Ma non basta, perché in essa coincidono anche atto e potenza, principio e causa. Ripensando in profondità il concetto di materia e sottraendolo – grazie alla ripresa di motivi tratti da Plotino – a una connotazione puramente corporea, Bruno individua infatti una materia unica che si pone come fondamento sia del mondo intelligibile che del mondo sensibile, mettendo in comunicazione piani diversi dell’essere. In quanto si identifica con la vita infinita che percorre l’universo, questa sostanza finisce per diventare «uno essere divino nelle cose», coincidendo, in ultima analisi, con Dio, anche se Dio mantiene un margine di trascendenza rispetto ad essa (vedi sotto, p. 51). Dall’infinito, scrive Bruno, «sempre nova copia di materia sottonasce». La potenza infinita della vita universale si produce infatti secondo un ritmo infinito, inesauribile, dominato dalla tensione fra contrari, dando continuamente origine a nuovi enti. Ed è sullo sfondo di questa materia che si stagliano le varie configurazioni e le infinite sorti dei composti, dei singoli enti.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento Gli enti accidentali come espressione temporanea dell’unico essere

Un universo in continuo mutamento

La «vicissitudine» come legge della natura

Le manifestazioni della «vicissitudine»

Necessità e inesauribilità del mutamento

Immanenza e trascendenza di Dio

L’uomo come ente uguale agli altri, sola natura

Il movimento, il cambiamento non incide sulla inalterabilità e immobilità della sostanza, ma coinvolge l’ente solo nei suoi aspetti accidentali, in quello che Bruno definisce il suo «volto». Gli individui che continuamente scaturiscono dalla sostanza sono soltanto forme accidentali della sua apparizione, realtà del tutto contingenti, espressioni temporanee, transitorie e corruttibili di questo unico essere. Una volta compiuto il proprio ciclo vitale, queste momentanee aggregazioni di parti si dissolvono, tornando nuovamente nella sostanza universale. A Bruno risultano, così, estranei sia il concetto di creazione che quelli di nascita e morte, a cui sostituisce quello di cambiamento, o meglio, di «mutazione». Il suo è un universo dominato dal tempo, dove non si dà nulla di perpetuo e stabile, ma tutto è in movimento. Questo movimento – va ribadito – investe solo gli accidenti e consente il continuo trasformarsi delle cose – il modificarsi del «volto» –, lasciando inalterata la sostanza. Per questo Bruno accoglie la tesi di Salomone, «che dice non esser cosa nova sotto il sole: ma quel che è, fu già prima». Su questo principio si fonda il concetto – fondamentale nella filosofia bruniana – di «vicissitudine». La vicissitudine è il principio che, all’interno della natura infinita, governa il movimento delle singole nature finite, sottoponendole a un continuo processo di mutazione e metamorfosi, di generazione e dissoluzione. La vicissitudine è la legge più generale e più profonda della natura. Essa è riscontrabile ovunque: nelle vicende della Terra e degli altri astri come nell’esistenza dell’uomo, sia sul piano individuale che su quello collettivo e storico. In quanto legge naturale e provvidenza divina, essa è lo strumento attraverso il quale l’universo raggiunge infine la sua perfezione: «la quale è che in diverse parti della materia tutte le forme abbiano attuale esistenza: nel quale fine tanto si deletta e si compiace l’intelletto [l’anima del mondo], che mai si stanca suscitando tutte sorte di forme da la materia». In effetti, se l’universo è necessariamente infinito in quanto explicatio della potenza e bontà coimplicate nell’unità di Dio, questo dispiegarsi non si dà solo sul piano spaziale, ma fa sì che in ogni parte dell’universo infinito diventino attuali, per quanto possibile, tutte le forme. Tuttavia, dato che la presenza di una forma esclude la simultanea presenza di altre, la materia può accettarle solo successivamente, sostituendo la forma precedente con una nuova. È questo processo che spiega la mutazione vicissitudinale del tutto: il succedersi delle forme al suo interno testimonia il desiderio inesausto della materia di farsi tutto e diventare tutto, per uguagliare l’infinità di Dio. Pur partecipando dei suoi attributi, l’universo non coincide infatti del tutto con Dio, che rispetto all’universo mantiene un complesso rapporto di immanenza e trascendenza, collocandosi contemporaneamente dentro e fuori di esso. Questa attualizzazione di tutto in tutto attraverso la vicissitudine esclude però la dimensione della ripetitività, il riproporsi degli stessi cicli: nell’infinito tutto si trasforma, in un movimento senza fine, ma niente torna mai uguale. Da qui la consapevolezza della transitorietà di ogni composizione, compreso l’uomo, che per Bruno è – non diversamente da tutti gli altri esseri – accidente finito tra infiniti accidenti finiti. La materia e l’anima che lo costituiscono sono le stesse di tutti gli altri esseri viventi, degli animali e perfino «delle cose stimate senz’anima». Ente fra gli enti, egli non possiede né uno statuto, né una dignità particolare. Bruno riduce l’uomo a sola natura, immergendo totalmente la sua esistenza nel flusso della vicissitudine ed eliminando ogni prospettiva di carattere trascendente. In tal modo, l’unione con la divinità è raggiungibile dall’uomo solo come contemplazione della natura infinita. 51

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Premesse

L’ontologia di Bruno

Non parte dalla nozione di Dio come causa prima

Prende in esame i caratteri dell’universo come «ombra» della divinità

Riprende i concetti aristotelici (potenza / atto, materia / forma ecc.) ma ne trasforma il significato

Ontologia

Materia = Sostanza unica – Principio attivo, eterno e universale – Energia infinita che ha in sé la vita – Compenetrata dall’anima del mondo, possiede il principio formale e ha in sé tutte le forme – È contemporaneamente potenza e atto, principio e causa

Dio e il mondo – Dio è immanente alla materia, pur mantenendo un margine di trascendenza rispetto alla realtà – Gli enti accidentali sono esseri transitori, forme temporanee assunte dall’unico essere che poi si dissolvono di nuovo nella materia – Tutto è in perenne «mutazione»

Vicissitudine – Principio interno alla natura che governa il mutamento perenne delle cose – Legge naturale ed espressione della provvidenza divina

Uomo – L’uomo è un ente come tutti gli altri e non ha nell’universo una posizione particolare, né maggiore dignità – Può unirsi alla divinità solo attraverso la contemplazione della natura infinita

3 Nuovi valori etici

Caratteri e virtù per il rinnovamento morale

L’operosità dell’uomo

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L’etica: la critica dell’ozio e l’esperienza del furore L’etica di Bruno, come abbiamo appena visto, è strettamente connessa al tema dell’infinito. Se la fondazione di un universo senza limiti e gerarchie dissolve radicalmente tutti i presupposti tradizionali, compresi quelli che definivano il ruolo, la dignità e la moralità dell’uomo, al tempo stesso pone le premesse per una riconfigurazione e per un rinnovamento dei valori. Questi temi trovano espressione nei cosiddetti «dialoghi morali»: lo Spaccio de la bestia trionfante, la Cabala del cavallo Pegaseo e De gli eroici furori. Lo Spaccio – costruito come il resoconto di un concilio degli dèi convocato da Giove per liberare il cielo dalle «bestie», cioè dai vizi – illustra i caratteri e le virtù che devono essere posti a base del rinnovamento morale, religioso e civile cui sono ormai chiamati gli uomini. Valorizzando concetti quali la Verità, la Sofia («Sapienza»), la Legge, e le virtù che sono a fondamento della convivenza umana, quali la Prudenza, la Fatica, la Sollecitudine, lo Studio, l’Industria, la Filantropia, la Magnanimità, Bruno sottolinea che l’uomo – pur sottoposto, come tutti gli altri enti, al ciclo infinito della vicissitudine – può tuttavia lasciare un segno della sua presenza nel mondo. E può farlo, grazie a un uso laborioso e consapevole degli organi che lo caratterizzano: l’intelletto e la mano. L’operosità consente all’uomo di farsi «dio de la terra», affiancandosi in certo modo a Dio nella trasformazione della natura. Se l’eccellenza dell’uomo scaturisce

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

La metempsicosi e il giudizio sulle azioni

Il rifiuto della dottrina luterana della giustificazione

Civiltà egizia come culla della vera giustizia

Armonia tra Dio, uomo e natura

T11

Divina magia degli egizi, stolta idolatria dei cristiani G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante

La critica radicale del cristianesimo

dalla sinergia fra azione e contemplazione, l’ozio e la passività ne costituiscono al contrario i vizi più gravi, e tali da assimilarlo a una condizione ferina. Questi sono i vizi che devono essere allontanati dal mondo, se è vero che la stessa legge divina guarda in primo luogo ai frutti delle azioni degli uomini. Per Bruno – che rielabora nello Spaccio la dottrina pitagorica della metempsicosi (trasmigrazione delle anime) –, il castigo di chi, vivendo oziosamente, ha rinnegato e mortificato la propria umanità è quello di vedersi imprigionato, nella successiva incarnazione, in un corpo inferiore e bestiale. In questo modo, il divenire della realtà, la vicissitudine delle infinite trasformazioni cui dà luogo l’esplicarsi della sostanza si configura anche come espressione di una provvidenza divina, trasformandosi da ciclo cieco e casuale a opera di giustizia, volta a ricompensare o punire ciascuno per quanto ha meritato nel corso dell’esistenza. Ogni tentativo di svincolare la giustizia dalla responsabilità e dal merito umano è destinato a produrre frutti perversi, come è accaduto con Lutero, che ha voluto ignorare i comportamenti dei singoli per proclamare l’uguaglianza uniforme di tutti gli uomini nel peccato. Ed è proprio a partire dal concetto di giustizia che Bruno nello Spaccio attacca con grande durezza la dottrina luterana della salvezza per sola fede, mettendone in discussione sia il valore teologico che la portata etica, e affermando con forza che «le giustizie interiori mai sono giustizie senza la prattica esterna». Lutero, presentando una religione che riconduce premi e punizioni ultraterrene al dono gratuito e casuale della grazia, ha infatti predicato una morale dell’ozio e dell’attesa passiva della salvezza divina, che è antitetica al ruolo proprio dell’uomo. Mostrando le radici teologiche e religiose della decadenza universale già denunciata, Bruno afferma dunque che la «vecchiaia» del mondo si è determinata quando la predicazione di Lutero ha affermato che non può esistere rapporto tra giustizia di Dio e giustizia degli uomini. Al contrario, nella civiltà dell’Egitto, reinterpretata anche sulla base dell’ermetismo, Bruno individua l’epoca della «giovinezza» del mondo, una stagione positiva e prospera della civiltà. Allora non regnava la falsa giustizia di Lutero, ma la giustizia vera, quella che nasce dalla corrispondenza e dalla concordia fra Dio, natura e uomo. Così, nell’ultima parte dello Spaccio, Bruno celebra le arti magiche dei sacerdoti egizi, i quali, da profondi conoscitori delle forze che agiscono nel mondo naturale, avevano elaborato un raffinato cerimoniale magico per comunicare con gli dèi. […] vedo come que’ sapienti con questi mezzi erano potenti a farsi familiari e domestici gli dèi che per voci che mandavano da le statue gli donavano consegli, dottrine, divinazioni et instituzioni sopraumane: onde con magici e divini riti per la medesima scala di natura salevano a l’alto della divinità, per la quale la divinità descende sino alle cose minime per la comunicazione di se stessa. Ma quel che mi par da deplorare, è che veggio alcuni insensati e stolti idolatri li quali, non più che l’ombra s’avicina alla nobilità del corpo, imitano l’eccellenza del culto de l’Egitto; e che cercano la divinità, di cui non hanno raggione alcuna, ne gli escrementi di cose morte et inanimate. Ma Bruno nella Cabala del cavallo Pegaseo – una delle sue opere più radicali – si spinge ancora oltre. Sottoponendo il cristianesimo a una critica e a una dissoluzione totale, egli afferma che la decadenza luterana non è che il frutto inevitabile dei germi di corruzione contenuti già all’origine nella predicazione di Cristo e di Paolo, tesa a esaltare come valori assoluti la passività e l’ignoranza, creando 53

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Una possibilità per l’uomo di raggiungere l’unità con l’essere infinito

«Furore eroico» come esperienza intellettuale

T12

Caratteri del «furore eroico»

G. Bruno, De gli eroici furori

«Furore» come affinamento interiore

Impossibilità per l’uomo di cogliere Dio

La visione dell’unità del reale

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così una società intimamente malata. Su questo punto si consuma anche il rapporto di Bruno con Erasmo: diversamente da quest’ultimo, Bruno non attribuisce al ritorno alle origini cristiane alcuna possibilità di rigenerazione e di riscatto. Il cristianesimo è fin dall’inizio una cattiva religione e un’etica della decadenza, perché non invita i propri fedeli all’amore per la conoscenza e a compiere imprese utili per il benessere della comunità civile, ma impone loro la disciplina ‘asinina’ della rassegnazione, dell’ascolto, dell’attesa della beatitudine ultraterrena. Se nello Spaccio vengono tracciate le linee-guida di una necessaria riforma dell’umanità, e oggetto privilegiato di riflessione è l’agire etico-civile, negli Eroici furori, l’ultima opera pubblicata da Bruno a Londra, l’eccellenza dell’uomo che, pur muovendo dalla sua insuperabile condizione di «accidente finito», riesce a entrare in contatto con la verità infinita, è esaltata in un’altra prospettiva. Il discorso si sposta ora sul piano esistenziale, per illustrare l’esperienza interiore attraverso la quale l’individuo può oltrepassare l’amore naturale – radicato nella bellezza ingannevole dei corpi – per protendersi verso l’oggetto supremo della conoscenza intellettuale: la bellezza divina, l’unità dell’essere infinito. Sul problema del rapporto tra finito e infinito Bruno si interroga fin dagli anni trascorsi a Napoli in convento e già da allora, aderendo a posizioni teologiche antitrinitarie, dimostra con chiarezza di non credere alla possibilità che finito e infinito possano entrare in relazione attraverso la figura mediatrice di Cristo. Intorno a questo problema cruciale continua però a interrogarsi in modo costante sia nelle opere latine che in quelle volgari, mantenendo fermo un punto, che per lui è irrinunciabile: la distanza incommensurabile tra finito e infinito non può essere colmata attraverso un ‘salto’ di tipo mistico. E anche il «furore eroico» è tutt’altro che un’esperienza irrazionale: anzi, potenzia in massimo grado le facoltà propriamente umane – in primo luogo, l’intelletto e la volontà. Questi furori de quali noi raggioniamo […] non sono oblio, ma una memoria; non sono negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e del buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno […]: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale del buono e bello che conosce, a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et investirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. L’itinerario del «furioso», per le difficoltà di cui è costellato, non può essere portato a termine da tutti, ma è un processo di affinamento interiore assai raro e impervio. E questo perché il «furioso», dal punto di vista dell’ontologia bruniana, tenta davvero l’impossibile: lo sforzo di arrivare a contemplare l’unità del reale implica infatti il tentativo di sottrarsi a ogni ordine e necessità della natura, fino al punto da incrinare, insieme, il ritmo della realtà e l’unità strutturale della sua persona. Ma c’è un altro motivo che spiega perché Bruno insista con tanta forza sui limiti che comunque circoscrivono la vicenda del «furioso»: l’uomo non può arrivare, in nessun modo, a cogliere direttamente l’unità superessenziale, a ‘vedere’ e a comprendere Dio. Come è impossibile che Dio si possa incarnare, così è altrettanto impossibile che la sostanza corruttibile del «furioso» riesca a identificarsi perfettamente nell’immutabile sostanza divina. E tuttavia il «furioso» consegue infine un risultato straordinario: al termine del suo percorso, egli, pur senza poter penetrare la verità assoluta, Dio, riesce a ve-

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dere di fronte a sé – proiettandosi per un brevissimo istante oltre la sua natura – tutta la realtà concentrata e risolta in unità, al di là di ogni successiva distinzione. Non vede, certo, la luce prima e assoluta, ma la sua «genitura», la sua «immagine», la sua «monade», che è la natura. E tuttavia, pur rimanendo creatura finita e «cosa dell’universo», si misura in qualche modo con l’infinito ponendosi dal punto di vista dell’intero universo.

4 Le false promesse di salvezza del cristianesimo

I ‘trattati magici’ e il progetto di riforma politica

«Buona magia» e rinascita dell’umanità

Riforma religiosa oltre che politica

➥ Sommario, p. 66

La religione: dalla «nova filosofia» alla riforma del mondo Negli ultimi anni, la critica ha molto lavorato sulla polemica anticristiana di Bruno, insistendo soprattutto sulla nettezza e la durezza del suo giudizio verso il sistema di valori filosofici ed etico-civili incarnati storicamente dal cristianesimo, con le sue false promesse di salvezza fondate sul rovesciamento del corretto rapporto Dio-natura-uomo. Il cristianesimo costituisce infatti il consapevole fraintendimento di quella comunione con la divinità che l’uomo può attingere solo attraverso il «vivo simulacro» di Dio: il mondo naturale, l’universo infinito. Cristo, cosciente di tutto questo, ha corrotto e stravolto in mera superstizione i tratti dell’antico linguaggio magico, cancellando di fatto la consapevolezza della legge naturale propria in passato dell’umanità, e ponendosi come unico intermediario fra uomo e Dio. Bruno è fermamente convinto che una società non possa vivere senza religione e senza legge: ma non è nel cristianesimo che è possibile individuare il fondamento del «ben vivere» civile. È in un’altra direzione che bisogna cercare: nel rapporto organico tra conoscenza del mondo naturale, operazioni magiche e «civile conversazione». E negli ultimi scritti del filosofo – quei trattati di carattere magico pubblicati soltanto alla fine dell’Ottocento – viene presentata una figura di mago come depositario di un sapere efficace e fecondo, anche sul piano politico. La magia correttamente compresa e applicata insegna infatti ad aprirsi all’altro, a rispecchiarsi in lui, per individuare, nel confronto degli affetti e delle passioni, gli elementi di continuità che consentono di mettere in comunicazione individui diversi, indirizzandoli alla reciprocità e alla vita comune. Questa «buona magia» costituisce, secondo Bruno, un possibile antidoto alla decadenza, uno strumento concreto e potente per riannodare i fili fra Dio e uomo spezzati dal cristianesimo, riformando l’umanità e guidandola fuori dalla crisi del «secolo infelice». La riforma cui guarda Bruno in questi anni contempla anche l’idea di un vincolo di carattere religioso, nel quale possano riconoscersi e coesistere tutte le confessioni cristiane, attraverso una riduzione, drastica fino a dissolverli nella semplice idea filosofica di Dio, dei principi della fede; ma che, di fatto, non può coincidere con nessuna confessione particolare, e nemmeno con quella cristiano-cattolica. Il nuovo modello etico-politico individuato da Bruno è fondato piuttosto sul primato della pace e del bene pubblico, sul consenso, sulla reciprocità del rapporto governante-governato; ed è direttamente contrapposto sia all’esperienza luterana che a quella controriformistica, entrambe radicate nel principio della forza come espressione di potere e pratica di governo. 55

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Etica individuale e riforma religiosa e politica in Bruno

Nuova etica radicata nella concezione dell’infinito: – affermazione di una realtà priva di gerarchie – abbandono dei presupposti tradizionali dell’uomo (antropocentrismo, moralità legata a premi e castighi)

Etica individuale

Riforma della società

Eccellenza dell’uomo nella sinergia tra azione e contemplazione dell’infinito

Nuove virtù poste alla base del rinnovamento sociale, religioso e politico (Verità, Saggezza ecc.)

Condanna dell’ozio e della passività

Cristianesimo come religione che ha in sé i germi dell’ozio e della passività

Azione del principio di vicissitudine nel destino dell’individuo

Azione del principio di vicissitudine nella storia del mondo

Metempsicosi come espressione della giustizia: ognuno nella nuova vita avrà il destino che si è meritato (influenza del pitagorismo)

Successione delle epoche del mondo, a partire dall’Egitto come culla della vera giustizia, armonia tra Dio, uomo e natura (influenza dell’ermetismo)

Rifiuto della teoria luterana della giustificazione

Luteranesimo come segno della decadenza finale del cristianesimo

Possibilità per l’uomo di raggiungere l’eccellenza attraverso la contemplazione dell’unità di finito e infinito

Cambiamento sociale, religioso e politico fondato sul primato della pace e del bene pubblico, sul consenso, sulla reciprocità tra governantegovernato, sulla conciliazione tra le religioni (comprese le varie Chiese cristiane)

«Furore eroico» come processo di affinamento interiore individuale, raro e difficile, intellettuale e non mistico

«Buona magia» come rapporto organico tra conoscenza del mondo naturale, operazioni magiche e «civile conversazione»

La riflessione politica

6 I testi

N. Machiavelli Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: La fortuna varia con il tempo, T13 Il principe: Verità effettuale della politica, T14

Verso lo Stato moderno

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F. Guicciardini Ricordi: Il potere della fortuna, T15; L’arte della discrezione, T16; Complessità della nozione di interesse proprio, T17

Il processo di formazione e consolidamento dello Stato moderno è accompagnato da un’intensa riflessione teorica. Il quadro dottrinale medievale – caratterizzato da una prospettiva universalistica e dal problema costante del rapporto fra potere politico e potere religioso – viene gradualmente abbandonato, per volgersi piuttosto alle grandi questioni della modernità: i meccanismi e i

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

principi dell’azione politica; i fondamenti e i limiti del potere; l’origine dei diritti. Mentre nell’Italia del Cinquecento l’auspicio di Machiavelli di un’unificazione territoriale e statale guidata da un «principe nuovo» di eccezionale personalità non riuscirà a farsi concreta opzione politica, nello stesso periodo, in Francia, dove l’unità nazionale è già un dato di fatto, si apre un intenso dibattito sulla fondazione della sovranità, reso più vivo dalla crisi delle guerre di religione. Jean Bodin (1530-1576), con la sua teorizzazione di uno Stato moderno fortemente centralizzato e ‘burocratizzato’, ne è uno dei protagonisti. La polemica contro Nella cultura della Controriforma, l’idea di una ratio, una giustificazione razionale teorie dell’autonomia le del potere dello Stato considerata come criterio fondamentale della prassi podel politico litica, al di fuori di ogni legittimazione trascendente, è destinata inevitabilmente a scontrarsi con un pensiero teso, al contrario, a riproporre il primato della dimensione religiosa su quella politica. Da qui la serrata polemica contro le posizioni di Bodin, ma soprattutto contro il ‘machiavellismo’ (spesso presentato in maniera distorta come prassi politica improntata a uno spregiudicato pragmatismo e alla più assoluta amoralità), che attraversa la seconda metà del Cinquecento. D’altra parte, una diversa risposta agli squilibri della società e alle devastazioni della guerra è fornita dai modelli di società ideali, improntate a equità e razionalità, ripresi sia dalla tradizione classica che dall’insegnamento erasmiano.

1 Un ingegno multiforme

La lezione degli antichi e l’esperienza dei moderni: Machiavelli Niccolò Machiavelli è uomo dai molteplici interessi. Storico, teorico della politica, letterato, egli fa interagire in maniera originale ‘antico’ e ‘moderno’, esperienza politica e diplomatica e lettura dei testi classici, in particolar modo di Livio. Né tralascia di prendere posizione anche su grandi temi della tradizione filosofica, a cominciare dalla questione cruciale dell’eternità del mondo, cui sono dedicate pagine importanti del II libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.

La vita e le opere Niccolò Machiavelli nacque a Firenze nel 1469, da una famiglia antica, ma di limitate fortune. Dopo una formazione umanistica, nel 1498 entrò al servizio della Repubblica fiorentina come segretario della Cancelleria. L’esperienza acquisita nell’esercizio di questo incarico fu alla base della sua successiva riflessione storica e teorica, quando, con la caduta della Repubblica e il ritorno dei Medici al potere (1512), egli venne escluso dalla vita pubblica. Costretto a ritirarsi in campagna, nella sua casa di San Casciano, nel 1513 compose Il principe, con l’intento, di natura etico-civile, di esortare un «principe

nuovo» a liberare le istituzioni politiche italiane dalla crisi e dalla decadenza. A questi anni risale anche la stesura dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, che saranno, come Il principe, pubblicati postumi (15311532). Nel 1520 riprese, sia pure in forme modeste, l’attività pubblica, al servizio dei Medici, e a causa di questa collaborazione venne messo da parte al momento della restaurazione della Repubblica (1527). Morì nel giugno dello stesso anno. A quest’ultimo periodo appartengono il trattato sull’Arte della guerra, pubblicato nel 1521, e le incompiute Istorie fiorentine, composte tra il 1520 e il 1525 e pubblicate nel 1532.

La varietà di interessi di Machiavelli risulta sostenuta da due cardini fortemente unitari: il primo, di carattere storico-politico; il secondo, di carattere antropologico: La crisi italiana 1) sul piano storico, tutto il suo lavoro testimonia di una riflessione costante e puntuale sulla crisi e la decadenza che attanaglia l’Italia fra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento – «sanza capo, sanza ordine, battuta, spo-

Due elementi unificanti

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La fissità della natura umana

Rapporto con gli antichi e concetto di «imitazione»

La ciclicità della storia illumina la natura umana

«Riscontro» tra individuo e storia

Il ruolo della «fortuna»

gliata, lacera, corsa [depredata]», preda delle mire espansionistiche dei sovrani stranieri e della violenza dei loro eserciti; 2) d’altra parte, la sua riflessione sulla natura e sulla storia (così come il progetto di una scienza della politica) poggia su una specifica antropologia: a suo modo di vedere, la natura umana è caratterizzata da una sorta di fissità. Gli uomini – al pari del cielo, del Sole, degli elementi –, lungo i secoli e la storia, sono stati sempre «a uno medesimo modo». Essi hanno sempre la stessa natura, e non è dato loro di poterla mutare, come accade invece all’uomo «camaleonte» e signore del proprio destino delineato da Pico nell’Oratio (vedi Unità 1, p. 16 s.). È su questa base che si innesta anche il rapporto istituito da Machiavelli con l’antichità, in particolare con gli storici, attraverso il concetto di «imitazione». A suo modo di vedere, sono le «storie operate da e regni e republiche antique» che hanno la capacità di mostrare l’effettivo fondamento della natura umana. Esse vanno quindi lette e conosciute non per trarne il «piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono», ma per la lezione che da esse è possibile ricavare. Lo studio delle storie antiche ci introduce direttamente dentro la natura dell’uomo, consentendoci di seguire i processi – e individuare i meccanismi – di un’indole che genera con costanza gli stessi desideri, le stesse passioni, gli stessi comportamenti. Attraverso la lezione delle storie – e in modo particolare della storia di Roma – riusciamo a comprendere la politica, gli Stati e le forme attraverso cui essi nascono, si sviluppano, decadono e inevitabilmente muoiono. Le istituzioni politiche, infatti, sono destinate a perire, in quanto sottoposte, come tutte le cose del mondo, a un destino ciclico. Si tratta di un processo che è possibile, in forme diverse, bilanciare o rallentare (e su questo punto, insistendo sul valore terapeutico del ‘ritorno ai principi’ e della mediazione dei conflitti, Machiavelli scriverà pagine fra le più note e importanti dei Discorsi), ma non fermare. Il problema è allora quello di individuare quali siano i cicli della politica, presupponendo che gli uomini operino con successo solo nel momento in cui si stabilisce un «riscontro» (altro termine fondamentale in Machiavelli) fra natura e storia, fra le caratteristiche del singolo individuo e il tempo storico in cui egli agisce. Cerchiamo di chiarire meglio questo punto fondamentale: ogni uomo, secondo Machiavelli, ha avuto dalla natura un carattere diverso dagli altri; ed è a partire da questo carattere, dalle sue qualità che egli si misura con il proprio tempo. Ma, mentre la natura di ognuno resta la medesima, il tempo muta, e con il tempo cambiano le situazioni storiche specifiche con cui l’uomo è chiamato a misurarsi. È dal «riscontro» con il tempo che dipende il successo o l’insuccesso di ogni azione umana. Se oggi un uomo può aver «fortuna», perché c’è corrispondenza e simmetria fra la sua natura e il tempo in cui egli vive e agisce, quello stesso uomo, in una situazione differente, è condannato allo scacco, perché non è in grado di assecondare il velocissimo mutare del tempo, elaborando una strategia alternativa.

N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due cose: l’una, che noi non ci possiamo opporre a quello che c’inclina la natura; l’altra che, avendo uno con uno modo di procedere prosperato assai, non è possibile persuadergli che possa fare bene a procedere altrimenti; donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi ed elli non varia i modi.

La fortuna e le repubbliche

È questa la radice del rapporto che l’uomo istituisce con la fortuna, con gli elementi che non è possibile prevedere. E se l’asimmetria fra la velocità del tempo e la len-

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La fortuna varia con il tempo

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tezza della natura umana conduce alla sconfitta l’individuo, nella possibilità di poter disporre di «diversi cittadini e diversi umori» riposa, per converso, la forza di una repubblica rispetto a un principato, secondo quanto leggiamo nei Discorsi: «Quinci nasce che una republica ha maggiore vita e ha più lungamente buona fortuna che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de’ tempi, per la diversità de cittadini che sono in quella, che non può uno principe». La passione politica Tuttavia, queste posizioni non devono essere interpretate come testimonianza di un atteggiamento radicalmente negativo nei confronti della realtà e di ogni sforzo inteso a modificarla. In Machiavelli, è stato sottolineato anche di recente, accanto al disincanto, c’è un elemento di insopprimibile passione politica. E ne è testimone il Principe in cui si pone il problema di come, in una situazione eccezionale, si possa conservare lo Stato, a costo di sacrificare la propria integrità morale.

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Verità effettuale della politica N. Machiavelli, Il principe

Sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati republiche e principati, che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero, perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua, perché uno omo che voglia fare in tutte le parte professione di buono conviene ruini fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità.

Nel Principe Machiavelli si concentra quindi sulla capacità di alcuni uomini di contrastare e frenare la fortuna. Questo obiettivo estremo e perfino innaturale può essere perseguito attraverso una «virtù» che, rinunciando a ogni connotazione tradizionale, si configura come consapevolezza storica, lucida razionalità e come sforzo di prevedere o assecondare tempestivamente il mutare delle circostanze, «acciò che, quando si muta la fortuna, lo truovi parato a resisterle». La religione Ma, come «virtù» e «fortuna», anche «forza» e «consenso» svolgono ruoli fra locome «vincolo» ro complementari. Senza il consenso, la forza delle armi, utile al momento della fondazione dello Stato, si rivela nel lungo periodo insufficiente. Machiavelli individua così nel concetto di «vincolo» il principio del consenso necessario per stabilire su basi solide una civiltà. Questo ruolo nei Discorsi è attribuito alla religione. Convinto che senza religione non possa darsi civiltà, Machiavelli ritiene che presso gli antichi romani la religione pagana abbia assolto una fondamentale funzione politica, mentre, al contrario, il cristianesimo ha indebolito le virtù civili.

La «virtù» del principe

Machiavelli

La filosofia politica di Machiavelli

Principi della teoria politica – Teoria della fissità della natura umana – Valore esemplare della riflessione dei classici, soprattutto degli storici («imitazione») – Teoria della ciclicità della storia – Concetto di «riscontro» tra individuo e storia – Ruolo della «fortuna» nelle vicende politiche individuali e collettive – Superiorità delle repubbliche perché governate da una maggior varietà di individui Analisi della crisi italiana e proposte di soluzione – Situazione di decadenza dell’Italia tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento – Necessità di un «principe» in grado di unificare lo Stato italiano – Le virtù necessarie al principe: capacità di sfruttare la «fortuna», forza, consenso ecc. – Capacità di sfruttare il «vincolo» religioso per ricavarne consenso

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2 Differenze tra Machiavelli e Guicciardini

La politica fra «discrezione» e analisi del «particulare»: Guicciardini L’incontro con gli scritti di Machiavelli è essenziale agli sviluppi e all’approfondimento della riflessione di Francesco Guicciardini. Sul rapporto, e sulle divergenze, fra i due grandi storici fiorentini gli studiosi hanno molto insistito, prendendo in esame in modo particolare le differenze fra i due autori sui seguenti punti: i caratteri della natura umana; il nesso fra «tempo», «occasione» e «fortuna»; le leggi che presiedono alla fondazione e alla decadenza degli Stati; il modello e il meccanismo istituzionale dello Stato migliore, del «buon governo».

La vita e le opere Francesco Guicciardini nacque a Firenze nel 1483, da un’antica e nobile famiglia. Dopo gli studi di giurisprudenza a Ferrara, a Padova e a Pisa, si dedicò alla professione di avvocato, ma anche a una parallela carriera diplomatica e politica svolta per conto dei Medici, che gli affidarono vari e significativi incarichi ufficiali. La sua riflessione storiografica prese avvio tra il 1508 e il 1511, con la composizione delle Storie fiorentine, rimaste incompiute e, come tutti gli altri scritti di Guicciardini, inedite finché egli visse. Dopo essere stato nominato governatore di Modena (1516), di Reggio Emilia (1517) e di Parma, nel 1521 papa Leone X lo nominò commissario generale dell’esercito pontificio e nel 1524 il nuovo papa Clemente VII lo designò come presidente della Romagna. I drammatici eventi del 1527 – il saccheggio di Roma da parte dei lanzichenecchi di Carlo V e la cacciata dei Medici da Firenze – segnarono per lui

Un’etica fondata sull’analisi della natura umana

Una saggezza lucida e disincantata

Gli uomini sono al buio «delle cose»

Una visione pessimistica dell’uomo

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una profonda sconfitta politica e personale. A questo periodo di distacco dalla vita pubblica risalgono le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli sulla prima deca di Tito Livio e la redazione definitiva dei Ricordi (1530), una raccolta di pensieri, massime, aforismi, di straordinario disincanto e modernità, che può essere considerata il codice dell’uomo «savio», fondato sulla conoscenza dei meccanismi e delle ambiguità della politica, ma anche della varietà della natura umana. Dopo un periodo trascorso a Roma, nel 1530, alla caduta della Repubblica, tornò a Firenze, dove sostenne il nuovo duca Alessandro de’ Medici. Messo bruscamente da parte dal suo successore, il granduca Cosimo, trascorse gli ultimi anni di vita dedicandosi, a partire dal 1537, alla composizione della Storia d’Italia: una grande opera, divisa in venti libri, che prende le mosse dalla morte di Lorenzo il Magnifico per arrivare a quella di Clemente VII. Morì a Firenze nel 1540.

Non meno di Machiavelli, Guicciardini ha consegnato alle sue opere storiche giudizi di straordinaria lucidità sugli eventi politici italiani. Ma, accanto all’impegno storiografico e all’analisi di temi politici, egli svolge una riflessione etica fondata su un’indagine sottile delle caratteristiche essenziali della natura umana, affidandola soprattutto alle pagine amare e disincantate dei Ricordi. I Ricordi non sono né un diario, né un’autobiografia, né una raccolta di memorie. Privilegiando una scrittura breve, frammentaria, quasi aforistica, Guicciardini consegna piuttosto a queste pagine una serie di riflessioni e precetti, che insistono su singoli spunti, ricercandone però un senso complessivo, una direttiva di vita ispirata a una saggezza lucida e disillusa, nella forte consapevolezza della fragilità della ragione e della labilità e mutevolezza delle «cose del mondo». Elaborata attraverso redazioni successive e in un lungo arco di tempo, la raccolta si confronta, da un lato, con la storia; dall’altro, con i rapporti familiari e sociali, fino a toccare i grandi temi della vita, della morte, della fede, pur rinunciando a ogni assunto di carattere metafisico: «E filosofi e e’ teologi e tutti gli altri che scrutano le cose sopra natura o che non si veggono, dicono mille pazzie: perché in effetto gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito e serve più a essercitare gli ingegni che a trovare la verità». Sui suoi simili Guicciardini getta uno sguardo assai aspro e pessimistico: gli uomini sono per la maggior parte fragili, «poco buoni», «poco prudenti», senza fe-

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de e non riescono mai ad approdare alla saggezza, nemmeno alla fine della vita. Pur di soddisfare il suo perenne desiderio di gratificazione e di potere, l’uomo combatte, giorno dopo giorno, una vera e propria battaglia con i suoi simili, nella quale i confini tra verità e menzogna si attenuano fino a scomparire. Ma c’è un limite, un elemento irrazionale e imprevedibile che sfugge all’incalzare di simulazioni e di inganni propri della vita umana: ed è la fortuna.

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Il potere della fortuna

F. Guicciardini, Ricordi

Chi considera bene, non può negare che nelle cose umane la fortuna ha grandissima potestà, perché si vede che a ognora ricevono grandissimi moti da accidenti fortuiti, e che non è in potestà degli uomini né a prevedergli né a schifargli: e benché lo accorgimento e sollicitudine degli uomini possa moderare molte cose, nondimeno sola non basta, ma gli bisogna ancora la buona fortuna.

A proposito della complessità degli eventi che dipendono dalla fortuna, Guicciardini – distaccandosi dal modello normativo ed esemplare del mondo classico proposto da Machiavelli – insiste nel sottolineare i tratti specifici, irripetibili di ogni situazione. A partire da questi presupposti, Guicciardini indica al politico che voglia governare con successo la via di un realismo consapevole, vigile e talora spregiudicato. Al di fuori di ogni astrattezza e di ogni generalizzazione, il politico deve sapersi muovere usando l’arma decisiva della «discrezione». Discrezione e prudenza Quello di «discrezione» è un concetto fondamentale nel pensiero di Guicciardini, e indica proprio quelle doti di perspicacia, acume, capacità di analisi dettagliata delle circostanze che possono aiutare l’uomo «savio» a muoversi con «prudenza» nella complessità della vita pratica, valutando e risolvendo le singole situazioni. Ogni situazione è irripetibile

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È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogni le insegni la discrezione.

L’importanza degli interessi personali

Cercare nei libri regole efficaci di comportamento, irrigidire l’esperienza del passato in un sistema chiuso di prescrizioni e direttive non aiuta perciò a comprendere un presente nel quale la politica si rivela sempre più come lo scontro di forze e interessi personali – «particulari», secondo il lessico di Guicciardini. A differenza di quanto ha fatto una intera tradizione storiografica – inaugurata nell’Ottocento dallo storico della letteratura Francesco De Sanctis –, l’insegnamento di Guicciardini non può tuttavia essere tradotto in una professione di opportunismo, riducendolo alla pura ricerca e salvaguardia del proprio «particulare», del proprio interesse. Al contrario, la testimonianza di Guicciardini va interpretata come resoconto di una terribile disillusione storica e di una dolorosa esperienza personale, che cercano di tradursi e condensarsi nei precetti di una difficile, non banale moralità.

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Quegli uomini conducono bene le cose loro in questo mondo, che hanno sempre innanzi agli occhi lo interesse proprio, e tutte le azioni sue misurano con questo fine. Ma la fallacia è in quegli che non conoscono bene quale sia lo interesse suo, cioè che reputano che sempre consista in qualche commodo pecuniario più che nell’onore, nel sapere mantenersi la riputazione e el buono nome.

L’arte della discrezione F. Guicciardini, Ricordi

Complessità della nozione di interesse proprio F. Guicciardini, Ricordi

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Parte prima La nascita della filosofia moderna I principi della morale di Guicciardini Guicciardini

Pessimismo sulla natura umana: gli uomini sono per la maggior parte fragili, poco prudenti, ignorano la verità delle cose, sono senza fede e non raggiungono mai la saggezza

Ruolo determinante della fortuna nel destino degli uomini e irripetibilità di ogni situazione

«Discrezione » e «prudenza» sono le massime virtù dell’uomo

Importanza della capacità di perseguire il «particulare», ossia il proprio interesse: onore, reputazione, buon nome

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Il reale e l’immaginario: le ‘città ideali’ di Moro e Campanella

Il recupero della cultura classica e la spinta verso l’«imitazione» durante l’età umanistica e rinascimentale non sono limitati alla letteratura, alla filosofia, alla storia e alla riflessione politica, ma coinvolgono anche il mondo dell’arte: pittura, scultura, architettura e urbanistica. Di questo sguardo al passato fa parte anche il tema della ‘città ideale’, che trova una duplice incarnazione sia sul piano dell’immaginario che su quello reale. Moro e l’isola Analogamente, accanto al realismo politico, impegnato a studiare scientificache non c’è mente i processi che sono alla base di nuove strutture di governo e nuovi rapporti di potere, nel Rinascimento gli intellettuali individuano anche un diverso modo di confrontarsi con l’attualità politica, i problemi che pone, le disuguaglianze e le sofferenze che genera. Se tuttora definiamo «utopia» ogni costruzione e proposta di assetti, valori, modelli normativi astratti, lo dobbiamo a un neologismo (dall’unione delle parole greche ou, «non», e tòpos, «luogo») coniato da Tommaso Moro: Utopia è l’isola che non si trova in nessun luogo. L’operetta che reca questo titolo – e che inaugura, insieme, un nuovo modo di pensare la politica e un fortunato genere letterario – viene pubblicata nel 1516.

Il tema della ‘città ideale’

La vita e le opere Thomas More (latinizzato in Tommaso Moro) nacque a Londra nel 1477. Dopo aver studiato latino, greco e filosofia a Oxford, si dedicò agli studi giuridici. Percorse poi una brillante carriera politica durante il regno di Enrico VIII, fino a diventare gran cancelliere del regno. Nonostante gli obblighi connessi al suo ruolo, non smise di coltivare gli studi umanistici e l’amicizia con Erasmo, grazie al quale pubblicò, a Lovanio, nel 1516, la sua opera maggiore, Utopia. Nel 1534 rifiutò di sottoscrivere l’Atto di Le due parti dell’opera di Moro

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supremazia, che sanciva lo scisma anglicano dalla Chiesa di Roma. Accusato per questo di alto tradimento, venne incarcerato nella torre di Londra e condannato alla decapitazione: salì sul patibolo nel luglio 1535. La sua vasta produzione letteraria è fortemente segnata dall’attenzione per la dimensione religiosa e spirituale, e spazia da pagine di ispirazione mistica alla traduzione della Vita di Giovanni Pico scritta dal nipote – il savonaroliano Giovan Francesco –, alla confutazione delle tesi di Lutero e di altri riformatori.

Nella prima parte di Utopia, Raffaele Itlodeo, un navigatore che ha visitato il paese di Utopia, parla con Moro della situazione politica inglese, criticando le ingiustizie prodotte – soprattutto nei confronti dei contadini – dalle nuove di-

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L’organizzazione politica di Utopia

La proposta politica di Campanella

L’organizzazione politica della Città del Sole

L’abolizione della proprietà e della famiglia

Un sapere immediatamente fruibile ➥ Sommario, p. 66

namiche economiche e sociali in atto nel Paese e dalla sete di profitto dei proprietari terrieri. Nella seconda parte il viaggiatore presenta, come modello alternativo e paradigma per una riforma dei mali del presente, la descrizione di un’isola immaginaria, organizzata socialmente secondo moduli assai diversi da quelli consueti – tipici di una società in crisi, ormai dimentica dei veri valori cristiani. La repubblica di Utopia vive nella pace, nell’abbondanza, nella giustizia sociale, perché il suo illuminato fondatore Utopo l’ha voluta libera da ogni forma di proprietà privata, prima causa della violenza e dell’ingiustizia. Soppresso è anche l’uso del denaro, e il lavoro è un dovere sociale per tutti. Le leggi sono poche e di immediata comprensione. Le cariche politiche sono elettive e a rotazione (fatta eccezione per il principe, eletto a vita) e le tentazioni tiranniche punite severamente. I rapporti con gli altri popoli risultano assolutamente pacifici, in quanto fondati sulla razionalità e sul legame naturale di fratellanza tra gli uomini. Non esiste una religione di Stato, ma tutti gli Utopiani convengono sulla fede in una divinità creatrice e provvidenziale; sull’immortalità dell’anima; sull’esistenza di premi e castighi eterni; sulla contemplazione della natura come forma di preghiera. In un contesto di estrema libertà e tolleranza religiosa, solo l’ateismo viene punito con l’emarginazione sociale e la privazione dei diritti. Nell’Italia della Controriforma, ispirandosi anche all’utopia politica di Moro, Campanella affida la sua proposta di rinnovamento civile alla sua opera certo più famosa, la Città del Sole, composta in carcere nel 1602 e pubblicata, in traduzione latina, nel 1623. Nella forma di un dialogo fra un marinaio genovese e un cavaliere di Malta, Campanella contrappone all’ingiustizia, all’infelicità, alla «follia» del suo tempo una società ideale, in quanto espressione della ragione dell’uomo e risultato di un rapporto armonico con la natura. L’organizzazione dello Stato riprende così la struttura metafisica dell’universo: i Solari vivono in una repubblica retta da un sacerdote-filosofo, il Metafisico, e da tre magistrati – Pon, Sin e Mor –, che simboleggiano le tre primalità dell’essere teorizzate nella Metafisica (vedi p. 43), e sovrintendono rispettivamente alle armi, al progresso del sapere e allo sviluppo demografico. La città è felice, in quanto costituisce un vero e proprio organismo, un «corpo di repubblica», in cui le singole membra, molteplici e diversificate per funzioni, si integrano e si coordinano in funzione del bene comune. In tale società il lavoro viene distribuito equamente, rispettando le inclinazioni naturali, e per i Solari – a differenza che nella prospettiva politica aristotelica – le attività manuali non sono considerate inferiori o vili. Essi conducono una vita «alla filosofica in comune», nella quale, per impedire lo scatenarsi degli egoismi e dei particolarismi e favorire il senso della collettività, sono abolite ogni forma di possesso e ogni struttura familiare. La stessa generazione dei figli, in vista dell’interesse collettivo, è retta da ritmi astrologici e norme eugenetiche; i bambini, che non conoscono i propri genitori, vivono in locali comuni e sono educati a cura dello Stato. Sul piano del sapere, le sette cerchia di mura della città non si limitano semplicemente a difendere i suoi abitanti, ma svolgono anche una funzione didattica e formativa, in quanto costituiscono le pagine di una vera e propria enciclopedia. Fin da piccolissimi i bambini possono percorrerne le pareti – istoriate con le immagini di tutte le arti e le scienze –, imparando rapidamente e senza sforzo. 63

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Luoghi e autori della filosofia del Rinascimento Luoghi in cui risiede Bruno nel suo periodo in Germania

Vi nasce e muore Moro Vi nasce Cusano

Vi soggiorna Bruno

Pico vi si reca per studiare ed è qui imprigionato nel 1486. Vi muore Campanella. Vi soggiorna per pochi anni Bruno

Vi nasce Erasmo

Oxford

Londra

Helmstädt

Rotterdam

Wittenberg Marburg

Cues

Vi muore Erasmo

Francoforte Praga

Parigi

Vi è imprigionato e processato Bruno

Basilea

Vi nasce e muore Montaigne Montaigne

Vi nasce Pomponazzi Vi nasce Pico

Centro dell’aristotelismo rinascimentale

Venezia Padova Mantova Mirandola e Bologna Figline Concordia Firenze Valdarno Todi

Vi nasce Ficino

Vi muore Pomponazzi Roma

Nola Napoli

Vi nasce Bruno

Cosenza

Sede dell’Accademia platonica. Vi muoiono Ficino e Pico. Centro della vita e dell’attività politica e diplomatica di Machiavelli e Guicciardini

Qui Bruno viene arso sul rogo Vi muore Cusano

Stilo

Vi nasce e muore Telesio Vi nasce Campanella

Campanella vi trascorre in carcere ventisette anni

Suggerimenti bibliografici Momenti, caratteri, protagonisti della cultura filosofica umanistico-rinascimentale sono illustrati analiticamente in Le filosofie del Rinascimento, a cura di C. Vasoli, B. Mondadori, Milano 2002. Fondamentali anche i lavori di E. Garin, fra i quali ricordiamo: Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Laterza, Roma-Bari 19612; La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 19792; Il ritorno dei filosofi antichi, Bibliopolis, Napoli 19942. Su magia, astrologia, ermetismo: A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, a cura di G. Bing, La Nuova Italia, Firenze 1966; F. Saxl, La fede negli astri. Dall’antichità al Rinascimento, a cura di S. Settis, Bollati Boringhieri, Torino 1985; E. Garin, Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 1976, 1996; E. Garin, Ermetismo del Rinascimento, Editori Riuniti, Roma 1988, ripr. anast., Edizioni della Normale, Pisa 2006; D.P. Walker, Magia spirituale e magia demonica da Ficino a Campanella, trad. it., Aragno, Torino 2002 (edizione originale Londra 1958).

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento Una biografia classica di Erasmo è quella di R.H. Bainton, Erasmo della cristianità, Sansoni, Firenze 1970, 1989 (edizione originale Londra 1969). Per la fortuna italiana, vedi S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Bollati Boringhieri, Torino 1987, 1990. Su Montaigne vedi R. Ragghianti, Introduzione a Montaigne, Laterza, Roma-Bari 2001. Su Ficino vedi P.O. Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Le Lettere, Firenze 19882 (edizione originale New York 1953); C. Vasoli, Quasi sit Deus. Studi su Marsilio Ficino, Conte, Lecce 1999. Per Telesio si può consultare R. Bondì, Introduzione a Telesio, Laterza, Roma-Bari 1997. Per una presentazione complessiva del pensiero di Campanella vedi G. Ernst, Tommaso Campanella. Il libro e il corpo della natura, Laterza, Roma-Bari 2002. Per conoscere meglio G. Bruno si può partire da M. Ciliberto, Introduzione a Giordano Bruno, Laterza, Bari 2003; oppure da Id., Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, Milano 2007. Assai interessante è anche la lettura degli atti del processo inquisitoriale subito dal filosofo: L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Salerno, Roma 1993.

I testi antologizzati sono tratti da: G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, a cura di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1942, ripr. anast., Aragno, Torino 2004. E. da Rotterdam, Elogio della follia, a cura di E. Garin, Mondadori, Milano 1992. M. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1996, voll. 1-2. N. Cusano, La dotta ignoranza, a cura di G. Federici Vescovini, Città Nuova, Roma 1998. Alla traduzione sono state apportate alcune modifiche. N. Cusano, De coniecturis, 1,3, in Grande antologia filosofica, Marzorati, Milano 1964, vol. 6. G. Bruno, De la causa, principio et uno, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Mondadori, Milano 2000. G. Bruno, Cena de le Ceneri, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit. G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit. G. Bruno, Eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, introduzione di G. Sasso, note di G. Inglese, BUR, Milano 1996. N. Machiavelli, Il principe, a cura di M. Martelli, corredo filologico a cura di N. Marcelli, Salerno, Roma 2006. F. Guicciardini, Ricordi, a cura di G. Masi, Mursia, Milano 1994. Il brano di A. Prosperi citato a p. 24 è tratto da A. Prosperi, Introduzione a Erasmo da Rotterdam, Colloquia, a cura di C. Asso, Einaudi, Torino 2002. Il brano di E. Garin citato a p. 45 è tratto da E. Garin, Il filosofo e il mago, in L’uomo del Rinascimento, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1988.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Sommario 1. I

CARATTERI DELL’UMANESIMO

L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento è caratterizzata dalla riscoperta, dallo studio filologico e dalla rielaborazione dei classici. La cultura umanistica si incarna in nuove figure intellettuali legate ai ceti cittadini emergenti e determina il rinnovamento delle università e la nascita di nuovi centri della vita culturale. [parr. 1 e 2] Inizialmente incontriamo un «umanesimo civile» la cui massima espressione è la nozione di dignità dell’uomo di Pico della Mirandola. [par. 3] 2. DALL’ITALIA

ALL’EUROPA: DIFFUSIONE

DELL’UMANESIMO E RIFORMA RELIGIOSA

L’Umanesimo diventa ben presto un fenomeno europeo, una società internazionale di dotti in continuo contatto reciproco. Erasmo da Rotterdam è il filosofo che più di ogni altro lo incarna attraverso la critica della «follia» negativa del cristianesimo contemporaneo e la proposta di un rinnovamento religioso e culturale. [par. 1] L’ansia di rinnovamento religioso è presente anche nella Riforma, il cui primo esponente è Martin Lutero, le cui tesi principali sono la giustificazione per fede, la centralità della teologia della Croce, il rapporto diretto con la Scrittura, il rifiuto della mediazione della Chiesa. La Chiesa cattolica reagisce con un movimento di Controriforma. [par. 2] La riflessione umanistico-rinascimentale sulla frattura morale e religiosa europea trova espressione nell’analisi delle diverse concezioni morali di Montaigne, in cui hanno un ruolo importante il concetto di barbarie, il rifiuto dell’antropocentrismo e il tema dell’inafferrabilità dell’io, per mostrare la varietà dei costumi, i limiti della conoscenza, il carattere relativo della morale. [par. 3] 3. IL

NUOVO PLATONISMO DEL

RINASCIMENTO

Il recupero del platonismo assume varie sfumature: in Ficino si orienta in senso neoplatonico e antiaristotelico, saldandosi con la tradizione ermetica, e difende una pia philosophia in cui Platone viene letto come teologo ‘precristiano’ e hanno un ruolo importante l’immagine dell’uomo come microcosmo, la teoria della salvezza, e la valorizzazione della magia naturale. [parr. 1 e 2] Pico si impegna in una vasta opera di mediazione culturale cercando di realizzare la concordia tra tutte le religioni. [par. 3] Cusano, attraverso la riflessione gnoseologica sul rapporto Uno-molti e sui limiti della conoscenza umana, enuncia la nozione di dotta ignoranza: di Dio si danno solo definizioni negative, ma si possono utilizzare concetti matematici e geometrici per esprimere il suo rapporto con l’universo. [par. 4] 4. LA

FILOSOFIA DELLA NATURA FRA MAGIA E SCIENZA

Al rinnovamento della filosofia della natura appartengono l’aristotelismo di Pomponazzi con la tesi dell’in-

66

dimostrabilità dell’immortalità dell’anima, la separazione tra filosofia e teologia e la negazione della magia; e il naturalismo antiaristotelico di Telesio che spiega i fenomeni naturali con l’azione di due principi, uno attivo e uno passivo, sulla materia, affermando che la natura è animata. Egli espone anche una teoria della conoscenza sensista e un’etica fondata sul piacere. [parr. 1 e 2]

La teoria sensista della conoscenza e quella dell’animazione universale sono fatte proprie anche da Campanella che elabora un sistema metafisico, per impulso del quale tutti gli enti agiscono in base a tre primalità, o principi: poter essere, saper essere e voler essere. Il sistema è il presupposto di una riforma religiosa e politica. [par. 3] Intanto la magia, come forma di conoscenza vera, prassi e capacità di dominio sulla natura, è un presupposto della nascita della scienza. [par. 4] 5. L’UOMO

NELL’INFINITO:

BRUNO

Bruno in cosmologia sostiene il copernicanesimo, aggiungendovi l’affermazione dell’infinità dello spazio e dei mondi e la negazione di ogni gerarchia interna. Anche sul piano ontologico egli afferma l’esistenza di una sostanza infinita, eterna, animata, in perenne mutamento sulla base del principio della vicissitudine, identica a Dio, che però mantiene un margine di trascendenza rispetto ad essa. [parr. 1 e 2] L’etica di Bruno è un umanesimo radicale, in cui l’uomo diviene artefice di un rinnovamento morale, fondato sull’azione e sulla contemplazione intellettuale dell’infinito e dell’unità del reale, la cui massima espressione è il furore eroico. [par. 3] Il rinnovamento deve però estendersi alla società, alla politica e alla religione attraverso una «buona magia» come apertura e comprensione dell’altro. [par. 4] 6. LA

RIFLESSIONE POLITICA

Un ultimo aspetto della filosofia umanistico-rinascimentale è la riflessione politica sullo Stato. Machiavelli elabora un’analisi della natura umana incentrata sulla nozione di riscontro tra individuo e storia e sul ruolo della fortuna, e un esame disincantato della crisi italiana. [par. 1] Sull’analisi della natura umana è incentrata anche la riflessione morale di Guicciardini, che vede come massima virtù la discrezione, ossia un comportamento prudente e adatto alla situazione. [par. 2] Oltre al realismo, il pensiero politico si arricchisce anche di importanti contributi nella costruzione di modelli astratti di Stato: l’utopia politica di Moro e di Campanella offre all’immaginario culturale dei contemporanei importante materiale di riflessione. [par. 3]

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

Parole chiave Barbarie. In Montaigne termine con cui ogni società definisce quello che si discosta dai propri costumi e consuetudini. Attraverso l’analisi di questo concetto egli esprime la sua concezione della storicità della morale. Dignità dell’uomo. Concetto con cui Pico indica la collocazione privilegiata dell’uomo che consiste nella sua libertà di essere artefice di se stesso. Discrezione. Nella riflessione morale di Guicciardini indica la suprema virtù dell’uomo, la sua capacità di comprendere, analizzare e decidere una linea di azione prudente, consapevole e adatta alle circostanze. Dotta ignoranza. In Cusano, definizione paradossale della doppia natura della conoscenza umana: il suo carattere inadeguato e la consapevolezza dei propri limiti. Follia. Soggetto dell’opera più importante di Erasmo: in essa egli distingue una follia negativa (il mondo cristiano contemporaneo) da abbandonare, e una follia positiva (il ritorno alle radici cristiane, l’imitazione di Cristo ecc.) da perseguire per ritrovare Dio. Furore eroico. Nel pensiero di Bruno l’esperienza razionale che permette all’uomo, attraverso un affinamento interiore, di contemplare l’unità del reale e la relazione tra finito e infinito. Giustificazione. Concetto teologico che esprime l’azione attraverso cui Dio redime l’uomo dal peccato originale. Correlato all’attributo divino della giustizia è interpretato in maniera diversa: nel cattolicesimo viene dato rilievo alle opere, mentre nel pensiero riformato il contributo umano è limitato alla fede ed è determinante il giudizio imperscrutabile (predestinazione) di Dio. Magia. Dal greco maghèia, «dottrina dei Magi persiani (sacerdoti astrologi)»; la capacità di dominare e manipolare la realtà attraverso pratiche spirituali, mentali e rituali. Nel pensiero rinascimentale Ficino, Pico, Campanella, Bruno la considerano una forma di conoscenza vera, mentre Pomponazzi le nega veridicità. Microcosmo. Termine greco composto da mikròs, «piccolo», e kòsmos, «mondo», che indica l’uomo attraverso un’analogia strutturale tra esso e il mondo nel suo complesso (il «macrocosmo», da makròs, «grande»). Utilizzata da molti filosofi antichi, passata poi nel sapere medico, nel neoplatonismo, nella gnosi e nella cabbala, e infine ai filosofi rinascimentali tra cui Ficino, Cusano, Bruno, questa analogia applica al cosmo concetti antropomorfi (anima, simpatia, fine ecc.) e viceversa ipotizza intime corrispondenze

tra parti del cosmo e parti del corpo umano (per esempio la corrispondenza tra i quattro elementi e gli umori corporei). Pia philosophia. Concezione che Ficino deriva dalla tradizione ermetico-platonica: esiste una sapienza originaria e antichissima, proveniente da Dio e rivelata da Ermete Trismegisto, in cui convergono verità filosofiche e teologiche (filosofia della natura, immortalità dell’anima, teoria della salvezza ecc.) che raggiungono la propria perfezione nel pensiero cristiano. Primalità. Nell’ontologia di Campanella i tre principi originari dell’essere, poter essere, saper essere e voler essere, che determinano l’agire di Dio e delle creature. Nel primo si esplicano in forma piena e perfetta, mentre nelle seconde la loro manifestazione incontra tre principi negativi: impotenza, ignoranza e odio. Rinascimento. Categoria storiografica che indica il periodo di rinascita letteraria e artistica compreso tra la seconda metà del Quattrocento e la seconda metà del Cinquecento; in filosofia comprende i nuovi platonismi, forme di naturalismo, i sistemi di Campanella e Bruno e il pensiero politico di Machiavelli. Riscontro. Termine della filosofia politica di Machiavelli che indica il rapporto tra indole e caratteristiche dell’individuo e realtà storica: se vi è corrispondenza tra questi due elementi, l’agire umano è destinato al successo («fortuna»), altrimenti al fallimento. Teologia della Croce. In Lutero indica la riflessione sulla figura di Cristo (cristologia) come rivelazione della misericordia divina: Cristo condivide il destino dell’uomo peccatore che culmina con l’esperienza della Croce, l’abbandono del Padre e la morte di Dio; proprio il simbolo dell’estrema sofferenza vissuta da Cristo per redimere gli uomini dal peccato, diviene però, secondo Lutero, il segno della misericordia del Padre. Umanesimo. Categoria storiografica che indica il periodo tra la seconda metà del Trecento e la fine del Quattrocento caratterizzato dallo studio dell’antichità, dalla riscoperta filologica dei testi classici e da una nuova concezione della centralità e della dignità dell’uomo. Utopia. Neologismo coniato da Moro (dal greco ou, «non», e tòpos, «luogo») per indicare il proprio modello politico immaginario e ideale; passato poi a definire ogni progetto politico, sociale, normativo astratto. Vicissitudine. In Bruno indica il principio che governa il mutamento perenne della sostanza infinita (materia) da cui si originano tutti gli enti finiti, le loro trasformazioni e il succedersi dei cicli storici. 67

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Questionario I

CARATTERI DELL’UMANESIMO

1

16

Qual è il ruolo della filologia all’interno dell’Umanesimo? (max 2 righe) LA

DALL’ITALIA

ALL’EUROPA: DIFFUSIONE DELL’UMANESIMO

RIFLESSIONE POLITICA

17

Qual è il ruolo della storia antica nella riflessione di Machiavelli? (max 2 righe)

Chiarisci in un massimo di 4 righe perché la riflessione di Erasmo può essere definita «filosofia cristiana».

18

Che rapporto esiste tra la discrezione e l’interesse proprio nella riflessione morale di Guicciardini? (max 3 righe)

Spiega in un massimo di 6 righe il significato delle seguenti espressioni che riassumono le tesi di Lutero: sola gratia, sola fide, sola Scriptura.

19

Qual è l’organizzazione della Città del Sole di Campanella? (max 8 righe)

E RIFORMA RELIGIOSA

2

3

4

IL

Come mai secondo Montaigne l’analisi interiore ha valore universale? (max 2 righe)

NUOVO PLATONISMO DEL

5

6

7

8

LA

RINASCIMENTO

Lavoriamo sui testi 20

Che cosa sono gli opuscoli ermetici e qual è il loro legame con la tradizione cristiana? (max 4 righe)

Quali sono gli unici attributi di Adamo secondo Pico in T1? (max 2 righe)

21

Quali sono i temi essenziali della pia philosophia di Ficino? (max 8 righe)

Secondo Montaigne in T3, qual è la materia dei suoi Saggi? (max 3 righe)

22

Qual è il giudizio di Pico sull’aristotelismo? (max 1 riga)

Che cosa si è obbligata a fare la natura secondo Montaigne in T4? (max 2 righe)

23

Qual è il rapporto tra Dio e il mondo secondo Cusano? (max 6 righe)

Qual è il rapporto tra intelletto e verità secondo Cusano in T6? (max 3 righe)

24

Cosa significa che la mente umana è, secondo Cusano, «forma del mondo congetturale» in T7? (max 1 riga)

25

Che cosa potrebbe permettere alla natura umana di costituire «la pienezza di tutte le perfezioni dell’universo», secondo Cusano in T8? (max 1 riga)

FILOSOFIA DELLA NATURA FRA MAGIA E SCIENZA

9

Spiega in un massimo di 6 righe la teoria dei cicli storici di Bruno.

Qual è la concezione della morale di Pomponazzi? (max 4 righe)

10

Qual è il principio del movimento nella filosofia della natura di Telesio? (max 2 righe)

11

Qual è il legame tra teoria dell’essere e animazione universale nel sistema di Campanella? (max 3 righe)

26

Secondo Bruno in T9, l’uomo è in grado di cogliere l’unità dell’infinito in maniera privilegiata rispetto agli altri enti? (max 2 righe)

12

Quali sono le somiglianze e le differenze tra pensiero magico e pensiero scientifico? (max 4 righe)

27

Qual è la chiave che permette di comprendere la «ricoperta e velata natura», secondo Bruno in T10? (max 1 riga)

28

Qual è l’errore che porta alla rovina il principe secondo Machiavelli in T14? (max 2 righe)

L’UOMO

NELL’INFINITO:

BRUNO

13

Quali sono le critiche di Bruno a Copernico? (max 4 righe)

14

Qual è il rapporto tra materia e forma nell’ontologia di Bruno? (max 2 righe)

15

Esponi in un massimo di 3 righe il rapporto tra vicissitudine e metempsicosi nella filosofia di Bruno.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

1. Che cos’è la rivoluzione scientifica 2. La rivoluzione copernicana 1. Il moto della Terra 2. Il sistema tolemaico

2. Lo studio sperimentale e matematico dei moti

terreni 3. La teoria della conoscenza del Saggiatore 4. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, la condanna, l’abiura

3. Il sistema copernicano 4. La disputa sul De revolutionibus

6. Bacone e il metodo scientifico 1. Gli errori della tradizione

3. Il compromesso di Tycho Brahe

2. La teoria degli «idoli» 3. Il metodo della scienza

4. Keplero: verso una moderna fisica dei cieli

4. La conoscenza delle forme 5. Scienza e tecnica

1. Il Mysterium cosmographicum 2. La «nuova astronomia» e le prime due leggi 3. L’«Armonia del mondo» e la terza legge 4. La fortuna di Keplero

5. Galileo e la nascita della scienza moderna 1. Il Sidereus Nuncius

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Galileo, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

1

Che cos’è la rivoluzione scientifica

Fra il Cinquecento e il Seicento avviene un cambiamento nel pensiero filosofico e scientifico europeo che è stato giudicato epocale e a proposito del quale gli storici della scienza si sono trovati d’accordo nel parlare di «rivoluzione scientifica». Tra la pubblicazione del De revolutionibus orbium caelestium di Copernico nel 1543 e la pubblicazione dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Newton nel 1687, si assiste non solo alla nascita della scienza moderna, ma anche a un mutamento radicale nell’immagine stessa della scienza e della figura ➥ Laboratorio sul lessico, del «filosofo naturale», cioè di colui che si occupa della conoscenza e del domiNatura / naturale, p. 131 nio del mondo naturale. I tratti caratteristici Attraverso i contributi di personaggi come Copernico, Tycho Brahe (1546-1601), della scienza moderna Keplero (1571-1630), Galileo e infine Isaac Newton (1642-1727), si verifica una vera e propria mutazione che porta all’immagine della scienza così descritta da Paolo Rossi: Una nuova immagine della scienza

Quella nuova immagine della scienza […] era l’atto di nascita di un nuovo tipo di sapere inteso come una costruzione perfettibile, che nasce dalla collaborazione degli ingegni, che necessita di un linguaggio specifico e rigoroso, che ha bisogno, per sopravvivere e crescere su se stesso, di proprie specifiche istituzioni: un tipo di sapere che tende a elaborare proposizioni «vere» e a formulare asserzioni «vere» intorno al mondo e che concepisce questa «verità» come qualcosa che va sottoposto alla prova degli esperimenti e al confronto con teorie alternative. Un tipo di sapere, ancora, che crede nella capacità di crescita della conoscenza, che non si fonda sul puro e semplice rifiuto delle teorie precedenti, ma sulla loro sostituzione con teorie più «larghe», che siano logicamente più «forti», che abbiano maggior potere esplicativo e predittivo, maggior contenuto di controllabilità. Una nuova figura dell’uomo di scienza

Cooperazione tra studiosi e moltiplicazione dei luoghi del sapere

70

Corrispondentemente, la figura dell’uomo di scienza diventa del tutto diversa da quella dell’antico sapiente. Colui che si occupa di scienza non è più solo il dotto detentore di un sapere indiscutibile, basato sull’autorità degli antichi e per pochi eletti, ma è invece il portatore di un sapere da sottoporre continuamente al giudizio dell’esperienza, da comunicare il più possibile e quindi formulare in un linguaggio comprensibile. La nuova scienza si costituisce come un’impresa comune, come un «sapere universale», dove più studiosi sono portati a collaborare e a interagire nello sforzo intersoggettivo di comprensione della natura. Il nuovo uomo di scienza può appartenere alle categorie più diverse e il nuovo processo culturale si svolge, in gran parte, al di fuori delle università e dei luoghi tradizionali del sapere. I protagonisti di questo processo sono infatti non solo insegnanti universitari, ma anche medici, viaggiatori, curiosi, farmacisti, o chiunque avesse una curiosità, anche dilettantesca, da far valere: a tutti è aperta l’appartenenza alle società scientifiche, senza che sia necessaria una caratteristica del dotto del tempo, la conoscenza del latino, o una cattedra universitaria.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica Nuove teorie e un nuovo mondo

Dall’ordine teleologico all’ordine causale

Relazioni causali e leggi matematiche

Primato della matematica

Oltre che a una nuova immagine della scienza e dell’uomo di scienza, le scoperte effettuate, le nuove teorie elaborate, i nuovi strumenti e metodi proposti in questo periodo rivoluzionario concorrono tutti all’affermarsi anche di una nuova immagine sia del mondo naturale sia della posizione che l’uomo assume in questo mondo. L’immagine tradizionale della natura era derivata dalla filosofia aristotelica, che era stata poi riletta in chiave cristiana nel Medioevo. La natura era concepita come ordinata da Dio in senso teleologico: ogni cosa era supposta avere un proprio fine a cui tendere, una propria causa finale, che ne indicava la propria natura essenziale. Con i risultati della nuova scienza questa immagine viene progressivamente messa in discussione: l’ordine della natura diventa, da teleologico, causale. Non è più tanto la causa finale lo strumento che consente di cogliere il funzionamento della natura quanto la causa efficiente: la struttura della natura è retta da relazioni di causa ed effetto, dove causa è l’evento il cui accadere comporta l’accadere dell’effetto. Come scrive Galileo, «quella […] si debba propriamente stimar causa, la qual, posta, segue sempre l’effetto, e rimossa si rimuove». Anche se non necessariamente indirizzata verso un fine, la natura, grazie a questo insieme di relazioni causali, conserva un proprio ordine. In essa possono essere rintracciate relazioni costanti che regolano il comportamento dei fenomeni. La natura è quindi retta da regole uniformi, che lo scienziato cerca di formulare in proposizioni di carattere generale, cioè in leggi, e possibilmente in linguaggio matematico. La matematica, che nell’antichità e nel Medioevo era considerata per lo più una costruzione intellettuale astratta, viene ora applicata allo studio della natura e diventa lo strumento principale che accompagna il sorgere della nuova scienza. Come aveva osservato già Leonardo da Vinci, che per alcuni aspetti può essere considerato un precursore della mentalità alla base della rivoluzione scientifica, «nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni».

Finalismo e causalità

Obiettivo della scienza Principio d’ordine della natura

L’uomo e la Terra non sono più al centro del mondo

Contrasti con la filosofia del tempo e le Sacre Scritture

Fisica medievale

Fisica moderna

Risalire alla causa finale del fenomeno

Individuare la causa efficiente del fenomeno

Ordine teleologico derivato dalla creazione divina

Regolarità della natura

leggi matematiche

Alla concezione tradizionale del mondo corrispondeva una determinata immagine della posizione dell’uomo: ogni cosa era concepita in funzione dell’uomo. L’uomo era il centro della Terra e la Terra il centro dell’universo. L’organizzazione del mondo era posta da Dio in relazione all’uomo, aveva influenza sul suo carattere e sul suo destino. Con la nuova scienza, la Terra perde la sua posizione centrale nell’universo e la natura viene progressivamente spersonalizzata. Questi risultati si pongono in forte contrasto con gli assunti della filosofia del tempo e con le Sacre Scritture, da cui era derivata l’immagine tradizionale del mondo. Per affermare la nuova immagine, la scienza dovrà mettere in discussione queste autorità, rendersi autonoma dalle dottrine dei filosofi del passato e dal71

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

➥ Sommario, p. 119

la lettera delle Scritture: «i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta», dirà Galileo. Si tratta di un processo lungo e travagliato, di cui illustreremo qui di seguito le tappe più significative.

La posizione dell’uomo nel mondo nella concezione tradizionale

Dio

Mondo Terra Uomo Fine della creazione

La rivoluzione copernicana

2 I testi

N. Copernico De revolutionibus orbium caelestium libri sex: L’ipotesi del moto della Terra è coerente con i dati osservativi, T1;

Copernico avvia la rivoluzione scientifica

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Contro l’uso degli eccentrici, T2; Il Sole al centro, T3; Le ragioni di Copernico, T5 Commentariolus: Tesi principali della teoria di Copernico, T4

Il processo di cambiamento scientifico e concettuale chiamato «rivoluzione scientifica», che nell’arco di circa un secolo e mezzo porta sia alla nascita della scienza moderna sia a una nuova visione del mondo e della posizione dell’uomo al suo interno, ha ufficialmente inizio con la pubblicazione nel 1543 a Norimberga del De revolutionibus orbium caelestium dell’astronomo polacco Niccolò Copernico.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

La vita e le opere Niklas Koppernigk (italianizzato in Niccolò Copernico) nacque in Polonia, a Torun (Pomerania), il 19 febbraio 1473. Restò presto orfano di entrambi i genitori e venne adottato dallo zio materno, futuro vescovo dell’Ermia. Studiò all’università di Cracovia dove conobbe l’astronomia e se ne appassionò; pochi anni dopo venne in Italia e studiò a Bologna diritto civile e diritto canonico. Lo zio che lo mantenne agli studi venne nominato vescovo e per il nipote, pensando a una sua futura carriera ecclesiastica, riuscì a ottenere la nomina a canonico della cattedrale di Frauenburg. Copernico tuttavia continuò a studiare nelle università italiane, a Roma e, dal 1501, dopo una breve parentesi di servizio a Frauenburg, a Padova e a Ferrara, dove si laureò in diritto canonico. In Italia si confermò e si ravvivò comunque la sua passione per l’astronomia e Copernico fece le sue prime osservazioni del cielo. Terminato il periodo di studi intorno al 1504 tornò a Frauenburg, dove si stabilì definitivamente. A Frauenburg lavorò come amministratore per il duca Alberto di Prussia, occupandosi sia di economia che di giustizia e lavorò anche, come diplomatico, per lo zio vescovo. Ma l’interesse più forte e l’occupazione principale di Copernico fu l’astronomia. Fin dal ritorno dall’Italia iniziò la lunga elaborazione, che durò oltre trent’anni, di una nuova cosmologia. La teoria di Copernico venne diffusa in varie versioni e

in stadi successivi di elaborazione. Dapprima Copernico fece circolare manoscritto il Commentariolus, dove formulò in modo molto chiaro le sue tesi centrali. Le idee di Copernico ricevettero subito accoglienza sfavorevole nel mondo protestante (Lutero, Melantone), per le implicazioni contrarie alla lettura del testo biblico allora corrente. L’astronomo polacco non cambiò idea e proseguì nel suo lavoro. Nonostante il grande interesse del mondo accademico, attese comunque con prudenza prima di pubblicare la sua teoria, consapevole dei contrasti a cui andava incontro. Dopo un lunghissimo lavoro affidò infine il manoscritto definitivo del De revolutionibus al giovane discepolo Rheticus (Georg Joachim Lauschen, 1516-1574), il quale, inviato a Frauenburg su sollecitazione di Melantone, divenne subito un entusiasta sostenitore della teoria copernicana di cui pubblicò un’esposizione nel 1540, anonima, la Narratio prima. L’anno successivo questo scritto venne ristampato, a Basilea, non più anonimo. Così la fama di Copernico si diffuse tra le persone colte del tempo e l’astronomo polacco venne ancora, da più parti, sollecitato a pubblicare il suo capolavoro. Il De revolutionibus venne dato alle stampe da Rheticus nel 1543, quando l’autore stava per morire, a cura del teologo luterano Andrea Osiander, che premise all’opera una celebre e controversa prefazione. La leggenda narra che il primo esemplare fosse giunto a Copernico il 24 maggio, il giorno della sua morte.

L’opera di Copernico segna propriamente l’avvio di quella che è stata denominata rivoluzione astronomica o anche rivoluzione copernicana: una trasformazione che inizialmente avviene solo nel campo dell’astronomia, ma che, per le conseguenze che ne risulteranno, si rivelerà una vera rivoluzione delle idee e una trasformazione del modo in cui l’uomo guarda all’universo e al suo rapporto con esso.

1 La tesi rivoluzionaria: la Terra si muove intorno al Sole

T1

L’ipotesi del moto della Terra è coerente con i dati osservativi N. Copernico, De revolutionibus orbium caelestium libri sex

Il moto della Terra In che cosa consiste, dunque, la rivoluzione astronomica a cui Copernico dà inizio con la sua opera, e in che senso il suo contributo ha un carattere rivoluzionario? Copernico compie di fatto un rivolgimento: sovverte le posizioni tradizionalmente assegnate alla Terra e al Sole nell’universo, attribuendo alla Terra un moto di rotazione intorno al Sole invece che l’inverso. Un rivolgimento che, sottolinea Copernico, è del tutto in accordo con i dati delle osservazioni compiute fino ad allora. La maggioranza degli autori considera pacifico che la Terra stia immobile al centro del mondo e stimerebbe inconcepibile, se non addirittura ridicola, la tesi contraria. […] Se si ammette che il cielo non sia affatto in movimento e che sia invece la Terra a girare da occidente a oriente, e se – accogliendo questa ipotesi – si esamina ciò che apparirebbe della nascita e del tramonto del Sole, della Luna e delle stelle, si troverà che queste cose si comporterebbero proprio come avviene nella realtà. 73

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il cielo contiene e abbraccia tutti gli astri, è il luogo comune di tutte le cose: perché non si deve attribuire il movimento al contenuto invece che al contenente, al locato piuttosto che al locante? L’astronomia del Cinquecento

2

Copernico non è certo il primo, nella storia del pensiero scientifico, a ipotizzare che la Terra si muova. Perché dunque il suo contributo assume un carattere così rivoluzionario? Per comprenderlo, occorre considerare chi era Copernico, il contesto nel quale s’inserisce la sua opera, e quindi il modo in cui egli usa la sua ipotesi del moto della Terra nella costruzione del proprio sistema astronomico. Copernico era uno specialista, un astronomo di grande fama, che si era dedicato in tutto il corso della sua vita professionale allo studio matematico dei moti planetari. Lavorò fino alla morte alla soluzione del problema della corretta descrizione dei moti dei pianeti: un problema che non era ancora stato risolto in modo soddisfacente. Il sistema del mondo dominante con cui si trovava a fare i conti era quello cosiddetto «tolemaico», nel quale convivono la fisica aristotelica, l’astronomia tolemaica, alcune correnti neoplatoniche, elementi di astrologia e una certa teologia cristiana.

Il sistema tolemaico

Il contesto scientifico in cui Copernico opera è dunque dominato, per la fisica, dall’aristotelismo, e per l’astronomia matematica – cioè quella disciplina che si occupava esclusivamente di ottenere un modello matematico adatto per la descrizione dei moti planetari, senza preoccuparsi degli aspetti ‘fisici’ come per esempio le ‘cause’ di questi moti – dalla teoria fondata sull’opera dell’astronomo alessandrino Claudio Tolomeo, vissuto nel II secolo d.C. La fisica aristotelica I capisaldi della fisica aristotelica (e della cosmologia tolemaica fondata su questa fisica), possono essere riassunti schematicamente nei seguenti punti: 1) la distinzione tra a) mondo terrestre, o mondo sublunare, che è il luogo dell’alterazione e del mutamento, dove i moti naturali dei corpi sono rettilinei, difformi e limitati temporalmente, e i corpi che lo compongono sono formati da combinazioni dei quattro elementi terra, acqua, aria e fuoco, e b) mondo celeste, dove tutto è inalterabile e perenne, gli unici moti ammessi sono quelli circolari (e, in quanto tali, perfetti) uniformi ed eterni, e i pianeti, le stelle e le sfere celesti che lo compongono sono formati da un quinto elemento, l’etere o quinta essentia, che è solido ma imponderabile e trasparente; 2) la distinzione tra a) moti naturali, che sono i moti dei corpi verso i loro luoghi naturali (i moti ‘verso il basso’ per i corpi pesanti, i moti ‘verso l’alto’ per i corpi leggeri), e b) moti violenti, che sono i moti dovuti all’azione di una forza esterna e quindi cessano quando cessa la forza (la causa); 3) la concezione cosmologica che vede l’universo come delimitato dalla sfera delle stelle fisse, il «primo mobile», il cui moto circolare si trasmette per contatto alle altre sfere fino a giungere alla sfera della Luna, che è il limite inferiore del mondo celeste. La Terra, che per la sua natura non celeste non può avere moto circolare, rimane ferma al centro dell’universo.

Due pilastri: fisica aristotelica e astronomia tolemaica

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Unità 2 La rivoluzione scientifica La struttura dell’universo secondo la fisica aristotelica Il divenire

Le tipologie dei movimenti La composizione dei corpi Estensione

Mondo celeste

I corpi sono permanenti e immutabili

Solo moto circolare uniforme

Un unico elemento = quinta essentia

Dal cielo delle stelle fisse (limite esterno) fino alla Luna

Mondo sublunare

Alterazione e mutamento continui

Movimenti naturali contro movimenti violenti

Quattro elementi = terra, aria, acqua, fuoco

Pianeta Terra

Il modello di Eudosso: le sfere omocentriche

Da Eudosso a Tolomeo: gli epicicli, gli eccentrici e gli equanti

La cosmologia tolemaico-aristotelica era una sorta di traduzione nella realtà del modello geometrico, del tutto astratto, proposto da Eudosso di Cnido nel IV secolo a.C. In questo modello, che spiega i fenomeni celesti con l’ausilio di 27 sfere omocentriche (poi portate a 33 dall’astronomo Callippo nella seconda metà del IV secolo, e successivamente a 55 da Aristotele), lo scopo principale consiste nel trovare una soluzione matematica al problema del moto anomalo dei pianeti che l’osservazione mostrava non essere né circolare né uniforme. A tal fine Eudosso aveva introdotto l’idea che a ogni pianeta corrispondesse un diverso sistema di sfere omocentriche, che ruotano di moto uniforme ma con velocità diverse e con diversa inclinazione le une rispetto alle altre. Non conta, in questa prospettiva, né la causa di queste rotazioni né se le sfere abbiano esistenza reale: le sfere di Eudosso sono cioè puri artifici matematici introdotti per spiegare il movimento dei pianeti. Con l’intento di offrire una migliore aderenza del sistema di calcolo ai fenomeni osservati, Apollonio di Perge e poi Ipparco di Nicea (nel II secolo a.C.) escogitano un nuovo tipo di descrizione basato sugli «epicicli» (vedi Figura 1) e sugli «eccentrici» (vedi Figura 2). Questa descrizione viene poi migliorata e codificata da Claudio Tolomeo nella sua Syntaxis, comunemente nota come Almagesto. E così nasce il sistema detto «tolemaico».

Figura 1

Teoria degli epicicli. Il disegno A mostra il movimento del pianeta come combinazione di due rotazioni: la rotazione del pianeta descrive un cerchio (epiciclo) intorno a un centro che a sua volta ruota lungo una traiettoria circolare (deferente). Il disegno B mostra l’orbita del pianeta risultante dalla combinazione dei due movimenti di rotazione.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Figura 2

Teoria degli eccentrici. È raffigurato il moto di un pianeta (indicato con P) intorno alla Terra (T). La Terra si trova in un punto intermedio tra il centro (C) e la circonferenza dell’orbita. Per questo il sistema che si viene a costituire è detto eccentrico. I due punti indicati come Perigeo e Apogeo, sono rispettivamente il punto di minima e di massima distanza del pianeta P dalla Terra.

Ferma restando l’ipotesi della Terra immobile al centro dell’universo e della rotazione intorno ad essa della sfera delle stelle fisse, il moto di ciascun pianeta viene ora spiegato ricorrendo al moto uniforme del pianeta lungo la circonferenza di un cerchio (l’epiciclo), il cui centro ruota, a sua volta uniformemente, lungo la circonferenza di un cerchio eccentrico rispetto al centro dell’universo (la Terra). La varietà dei moti è quindi rappresentabile introducendo un opportuno numero di epicicli, e facendo talvolta ricorso a un altro tipo di cerchi (gli equanti, vedi Figura 3), che non possono in alcun modo essere interpretati in senso fisico, ma che servono come ipotesi ad hoc per salvare il paradigma dell’uniformità dei moti celesti, ivi compresa la distanza variabile dei pianeti dalla Terra. Questa ricchezza e versatilità del sistema di calcolo dell’astronomia tolemaica spiega la sua tenuta e il suo successo per più di mille anni. Figura 3

Teoria degli equanti. Nel suo movimento intorno alla Terra il pianeta percorre l’epiciclo di centro C. Il movimento è eccentrico poiché il centro del deferente (D) non coincide con la posizione della Terra. Inoltre, C non si sposta uniformemente rispetto a D, ma rispetto al punto equante (E), collocato in posizione opposta alla Terra rispetto a D. Questa caratteristica del movimento del pianeta può essere descritta anche attraverso le linee VE e BD: con il movimento del pianeta la linea VE si sposta uniformemente (percorre angoli uguali in tempi uguali), mentre lo spostamento della linea BD non è uniforme.

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3 Critica del sistema di Tolomeo

T2

Contro l’uso degli eccentrici

N. Copernico, Dedica del De revolutionibus orbium caelestium libri sex

Gli influssi pitagorici e platonici

Il sistema copernicano Delle due anime rispettivamente fisica e matematica del sistema del mondo tolemaico, la fisica aristotelica e l’astronomia matematica basata sull’Almagesto di Tolomeo, è soprattutto la seconda a essere oggetto di critica da parte di Copernico. Che cosa disturba maggiormente Copernico nell’astronomia tolemaica? Non il fatto che non fosse in grado di rendere conto adeguatamente di tutti i fenomeni osservati: Copernico stesso non è un grande osservatore e, dal punto di vista del «salvare i fenomeni», la sua teoria astronomica non sarebbe molto superiore a quella precedente. A spingere Copernico a sostenere la centralità del Sole nell’universo, e la conseguente riduzione della Terra a un pianeta ruotante insieme agli altri pianeti attorno al Sole, sono piuttosto motivi di altra natura. Innanzitutto, la divergenza che egli avverte tra la fisica aristotelica (che sosteneva la perfetta circolarità dei moti celesti) e l’astronomia tolemaica (i moti planetari descritti nella teoria tolemaica non erano sempre circolari uniformi). Coloro poi che sono ricorsi agli eccentrici, per quanto sembri che per mezzo di essi abbiano risolto in gran parte i moti apparenti mediante calcoli corrispondenti alle previsioni, tuttavia hanno ammesso cose che per lo più sembrano essere contrarie ai primi principi circa l’uniformità del movimento. E la cosa più importante, cioè la forma del mondo e la esatta simmetria delle sue parti, non poterono trovarla o ricostruirla mediante il ricorso agli eccentrici. In secondo luogo, l’influsso sul suo pensiero del pitagorismo e del platonismo, ciò che lo porta ad attribuire un significato particolare sia alla presenza di perfette simmetrie e armonie nel suo sistema del mondo, sia al ruolo centrale del Sole, al quale assegna una dignità particolare, una natura ‘regale’.

Figura 4

Sistema copernicano. La sfera delle stelle fisse (I) è la parte più esterna del cosmo ed è immobile; al suo interno si trovano, concentriche, le orbite dei pianeti, nell’ordine: Saturno (II, compie una rivoluzione o rotazione completa ogni 30 anni), Giove (III, una rivoluzione ogni 12 anni), Marte (IV, una rivoluzione ogni 2 anni), la Terra (V, una rivoluzione ogni anno), circondata a sua volta dall’orbe lunare, quindi Venere (VI, una rivoluzione ogni 9 mesi), Mercurio (VII, una rivoluzione ogni 80 giorni). Al centro si trova il Sole.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

T3

Il Sole al centro N. Copernico, De revolutionibus orbium caelestium libri sex

Copernico costruisce una nuova teoria matematica dei moti celesti

T4

Tesi principali della teoria di Copernico N. Copernico, Commentariolus

L’elaborazione della teoria fino al De revolutionibus

4 La teoria di Copernico come ipotesi: il consiglio pragmatico di Osiander

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Al centro di tutti risiede il Sole. Chi infatti situerebbe in questo stupendo tempio una luce in altro o migliore luogo di questo, da cui illuminare ogni cosa simultaneamente? […] Così dunque il Sole, quasi come seduto sul soglio regale, governa la famiglia degli astri che gli girano intorno. […] Noi troviamo dunque in quest’ordine la mirabile armonia dell’universo e un nesso stabile tra il moto e la grandezza delle sfere, quale in altro modo non si può reperire. Copernico dunque rimuove la Terra (e con essa l’umanità) dal centro del mondo e ne fa un pianeta ruotante, insieme ad altri, intorno al Sole. Ma, a differenza di coloro che già nel passato avevano avanzato l’ipotesi del moto della Terra (come, nell’antichità, il pitagorico Filolao e Aristarco di Samo), sulla base di tale ipotesi Copernico costruisce un complesso sistema matematico, una vera e propria teoria. Le tesi centrali di questa costruzione, la completa elaborazione della quale è contenuta nel De revolutionibus, sono chiaramente formulate già nel testo De hypothesibus motuum coelestium commentariolus (che si suppone Copernico scriva tra il 1507 e il 1512) e sono le seguenti: 1. Non esiste un solo centro di tutti gli orbi celesti o sfere. 2. Il centro della Terra non è il centro dell’universo, ma solo della gravità e della sfera della Luna. 3. Tutte le sfere ruotano intorno al Sole come al loro punto centrale […]. 4. Il rapporto tra la distanza della Terra dal Sole e l’altezza del firmamento è tanto più piccolo del rapporto fra il raggio terrestre e la distanza Terra-Sole che la distanza della Terra dal Sole è impercettibile in confronto all’altezza del firmamento. 5. Qualunque moto appaia nel firmamento non deriva da un qualche moto del firmamento ma dal moto della Terra. Pertanto la Terra, con gli elementi a lei più vicini […] compie una completa rotazione sui suoi poli fissi in un moto diurno, mentre il firmamento e il più alto cielo rimangono immobili. 6. Ciò che ci appare come movimenti del Sole non deriva dal suo moto, ma dal moto della Terra e della nostra sfera con la quale ruotiamo attorno al Sole come ogni altro pianeta. La Terra ha pertanto più di un movimento. 7. L’apparente moto retrogrado e diretto dei pianeti non deriva dal loro moto, ma da quello della Terra. Il moto della sola Terra è pertanto sufficiente a spiegare tutte le disuguaglianze che appaiono nel cielo. Il testo del Commentariolus circola solo come manoscritto, e ha già una certa diffusione. Gli anni 1523-1532 sono, probabilmente, quelli in cui Copernico lavora alla stesura del De revolutionibus, che fu pubblicato solo nella primavera del 1543.

La disputa sul De revolutionibus Il De revolutionibus viene pubblicato dall’editore Petreio di Norimberga, sotto la cura del teologo luterano Andrea Osiander (1498-1552). Questi suggerisce a Copernico, in una lettera del 20 giugno 1541, di presentare la sua teoria come un’ipotesi puramente matematica: il moto della Terra, se interpretato come moto reale, andava contro la lettura corrente delle Sacre Scritture. Come già nel 1539 era

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stato sottolineato da Lutero, che in uno dei Discorsi a tavola stigmatizzava l’«astronomo da quattro soldi» che, affermando il moto della Terra, pretendeva sovvertire tutta l’astronomia contro la Scrittura, in accordo alla quale Giosuè ordinò al Sole, non alla Terra, di fermarsi. La convinzione Il suggerimento di Osiander viene rifiutato da Copernico, che nella Dedica al parealistica di Copernico pa Paolo III riconferma la propria convinzione realistica (il suo sistema non è uno dei tanti, ma quello vero), oltre a sottolineare – come aveva fatto già il suo discepolo Rheticus nella Narratio – la maggiore semplicità e armonia del suo sistema rispetto a quello tolemaico.

T5

Le ragioni di Copernico

N. Copernico, Dedica del De revolutionibus orbium caelestium libri sex

Forse la Santità Vostra non si stupirà del fatto che io abbia osato dare alla luce i frutti del mio lavoro – dopo aver speso tanta fatica nell’elaborarli – e decidere di far stampare i miei pensieri sul moto della Terra; quanto piuttosto si aspetterà di udire da me come mi sia venuto in mente di osare di immaginarmi un movimento della Terra, che è contrario all’opinione ormai accettata dai matematici e che contrasta col comune modo di considerare le cose. […] E così io, dopo aver considerato che la Terra si muovesse […], trovai infine, dopo una lunga e attenta indagine, che se si rapportano al circuito della Terra i movimenti degli altri astri erranti calcolati secondo la rivoluzione di ciascuna stella, non solo ne conseguono i loro movimenti e fasi, ma anche l’ordine e la grandezza delle stelle e di tutti gli orbi e lo stesso cielo diventa un tutto così collegato che in nessuna parte di esso si può spostare qualcosa senza crear confusione delle restanti parti di tutto l’insieme.

L’interpretazione di Osiander

Il rifiuto di Copernico di presentare il moto della Terra come mera ipotesi non impedisce tuttavia a Osiander (che inoltre muta arbitrariamente il titolo De revolutionibus in De revolutionibus orbium caelestium) di premettere una prefazione anonima alla prima edizione dell’opera, nella quale viene asserito il carattere puramente ipotetico non solo della teoria copernicana ma di qualsiasi teoria astronomica (Praefatio):

La concezione puramente ipotetica dell’astronomia copernicana

È compito dell’astronomo infatti comporre, mediante un’osservazione diligente e abile, la storia dei movimenti celesti e quindi di cercarne le cause ovvero, poiché in nessun modo è possibile cogliere quelle vere, di immaginare e inventare delle ipotesi qualsiasi sulla cui base questi movimenti, riguardo sia al futuro sia al passato, possano essere calcolati con esattezza conformemente ai principi della geometria. E questi due compiti l’autore di quest’opera li ha assolti egregiamente. Poiché infatti non è necessario che queste ipotesi siano vere e neppure verosimili, ma basta questo soltanto: che esse offrano dei calcoli conformi all’osservazioni.

Il nuovo sistema astronomico è utilizzato anche al di fuori della cerchia dei seguaci di Copernico

Questa interpretazione in chiave pragmatica di Osiander – non importa che le ipotesi siano vere, basta che «salvino i fenomeni» – trova terreno fertile presso chi voleva servirsi dei vantaggi indubbi dell’astronomia copernicana senza tuttavia impegnarsi sul fronte della realtà o meno delle sue tesi: molti astronomi si servono, per esempio, dei risultati del De revolutionibus pur non accettando che la Terra si muova. In particolare, tutti si servono delle nuove tavole planetarie note come «tavole pruteniche» (in quanto dedicate al duca di Prussia), compilate sulla base delle tecniche matematiche e dei risultati di Copernico da Erasmo Reinhold nel 1551. Lo stesso Reinhold, d’altronde, non si dichiarava seguace di Copernico. 79

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Ma la disputa sulle tesi copernicane non rimane certo limitata al mondo dell’astronomia, per quanto il De revolutionibus sia un’opera a carattere molto tecnico (contenente, in gran parte, formule matematiche, diagrammi e tavole) e rivolta essenzialmente a un pubblico di esperti. Come già accennato, la trasformazione dell’astronomia operata da Copernico apre le porte a radicali mutamenti anche in altri campi, dalla cosmologia e dalla fisica alla filosofia e alla religione. Alla rivoluzione astronomica messa in moto da Copernico si accompagna un processo di trasformazione più profondo che, come abbiamo visto, prende il nome di «rivoluzione scientifica», e in virtù del quale, per dirla con lo storico della scienza Alexandre Koyré, «l’uomo ha perso il suo posto nel mondo, o forse più correttamente ha perso il mondo stesso che formava il quadro del suo pensiero e l’oggetto della sua conoscenza, e ha dovuto trasformare e sostituire non solo le sue concezioni fondamentali, ma le strutture stesse del suo pensiero». Confronto tra il sistema copernicano e il sistema tolemaico

Sistema tolemaico Il Sole e i pianeti girano intorno alla Terra

Complicazioni teoriche ed eccezioni ad hoc per spiegare i movimenti apparenti dei cieli

L’uomo è al centro dell’Universo

Sistema copernicano La Terra gira intorno al Sole insieme agli altri pianeti

Maggiore semplicità della teoria e maggiore coerenza con i principi: i movimenti apparenti dei cieli sono spiegati dal movimento della Terra

L’uomo è in una posizione periferica, il suo pianeta sullo stesso piano degli altri

Posizione di Osiander I calcoli di Copernico sono ottimi e utilizzabili tecnicamente in astronomia, ma la verità resta quella suffragata dalle Scritture, secondo cui la Terra e l’uomo sono al centro

La posta in gioco è un intero sistema del mondo

La posta in gioco nella disputa circa il carattere ipotetico o realistico delle tesi di Copernico è quindi molto alta. Per gli oppositori di Copernico si tratta non tanto di difendere il precedente sistema astronomico, quanto di evitare la catena di conseguenze a cui l’accettazione della verità di quanto sosteneva Copernico può condurre. Come possano essere percepite le implicazioni del nuovo sistema del mondo è bene illustrato nei versi del poeta londinese John Donne (1572-1631):

Il vecchio mondo è dissolto

La nuova filosofia pone in dubbio ogni cosa, / l’elemento del fuoco è tutto spento; / il Sole è perduto, e la Terra, e in nessun uomo la mente può guidarlo per dove cercarla. / E apertamente gli uomini ammettono che questo mondo è finito, / quando nei pianeti e nel firmamento / cercano così tanti il nuovo; e poi vedono che questo / si polverizza ancora nei suoi atomi. / Tutto quanto a pezzi, ogni coesione scomparsa; / ogni giusta provvidenza, e ogni relazione: / principe, suddito, padre, figlio, son cose dimenticate, / poiché ogni uomo pensa d’essere riuscito, solo / a diventare una fenice, e che quindi non ci può essere / nessun altro della sua specie all’infuori di lui.

➥ Sommario, p. 119

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Il compromesso di Tycho Brahe

3 I testi

T. Brahe Lettera di T. Brahe a J. Keplero: L’osservazione delle comete contro la realtà delle sfere celesti, T6

Un eccezionale osservatore

La scoperta di una nuova stella: un cambiamento nei cieli

De mundi aetherei recentioribus phaenomenis: Il moto dei pianeti intorno al Sole, T7

Se a Copernico si deve la trasformazione della teoria astronomica, al danese Tyge (Tycho) Brahe, che nasce tre anni dopo la pubblicazione del De revolutionibus e sarà la figura dominante, in campo astronomico, degli ultimi decenni dell’astronomia cinquecentesca, si deve un contributo fondamentale all’innovazione delle tecniche e dei metodi dell’osservazione dei pianeti e delle stelle. Tycho Brahe è ritenuto il migliore degli osservatori a occhio nudo della storia dell’astronomia. Nel corso della sua vita, non solo esegue numerosissime osservazioni delle posizioni dei corpi celesti, procurandosi strumenti (come astrolabi, sestanti e quadranti) sempre più precisi – spesso disegnandoli, costruendoli e calibrandoli lui stesso –, ma dà anche una svolta all’osservazione dei moti planetari. Brahe promuove infatti la pratica di osservare i pianeti con regolarità durante tutto il loro moto orbitale, e non solo quando si presentano in una configurazione particolarmente favorevole, come invece si usava fare. Questa innovazione dà subito importanti risultati, come per esempio la scoperta di numerose anomalie nelle orbite dei pianeti rispetto a quanto ottenuto o previsto con i dati e con le teorie a disposizione fino ad allora. La sera dell’11 novembre del 1572 si verifica un evento che doveva renderlo famoso: osserva un nuovo corpo celeste, luminosissimo, nella costellazione di Cassiopea. La nuova stella osservata da Brahe (oggi sappiamo che si trattava dell’esplosione di una supernova), suscita subito un enorme interesse in tutta Europa e viene seguita con grande attenzione nei diciotto mesi in cui rimane visibile, perdendo via via luminosità fino a scomparire agli inizi del 1574. Grazie ai suoi strumenti sofisticati, Brahe riesce a stimarne con una discreta precisione la distanza dalla Terra.

La vita e le opere Tyge (Tycho) Brahe nacque a Knudstrup, in Danimarca, nel 1546. Di nobili origini (era figlio del governatore del castello di Helsingborg), si interessò presto di astronomia e di astrologia. Compì i suoi studi a Copenaghen e a Lipsia e visitò anche altre università, come quelle di Wittenberg e Basilea. Nel 1573 rese conto nello scritto De nova stella dei risultati delle sue osservazioni, culminate nella scoperta, l’11 novembre del 1572, di un nuovo luminosissimo corpo celeste. Nel 1576 si trasferì ad Hveen, un’isoletta donatagli dal re danese Federico II, dove costruì l’osservatorio di Uraniborg, a cui si aggiunse poi quello sotterraneo di Stjoerneborg. Vi rimase fino

al 1597, quando, in seguito a disaccordi sorti con il nuovo re di Danimarca Cristiano IV, lasciò l’isola, per andare due anni dopo a stabilirsi in un altro castello-osservatorio vicino a Praga, nel ruolo di matematico imperiale offertogli da Rodolfo II. I risultati degli studi di Brahe degli anni di Uraniborg, durante i quali condusse ricerche sistematiche sulle comete, furono raccolti nell’opera De mundi aetherei recentioribus phaenomenis liber secundus, («Sui fenomeni più recenti del mondo celeste»), pubblicata nel 1588. Nel 1600 Brahe incontrò Keplero, che fu suo assistente e lo sostituì, dopo la morte del maestro, sopraggiunta nel 1601, nel ruolo di matematico imperiale presso la corte boema.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Una cittadella in Danimarca per osservare le stelle

Le comete: altri mutamenti nelle regioni eteree

T6

L’osservazione delle comete contro la realtà delle sfere celesti T. Brahe, Lettera di T. Brahe a J. Keplero

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In base alle sue stime, di cui rende conto nello scritto De nova stella del 1573, la «nova» risulta posizionata ben al di là del sistema solare, in prossimità di quella che allora si chiamava la sfera delle stelle «fisse»: ciò dimostra che qualcosa di mutevole è quindi presente anche nei cieli ritenuti immutabili, contro la convinzione – fondata sulla cosmologia e sulla fisica aristoteliche – che la mutabilità sia propria solo del mondo sublunare. Nel 1576 il re danese Federico II offre in dono a Brahe l’isoletta di Hveen, insieme a una ricca dotazione annua, per convincerlo a svolgere le proprie ricerche in Danimarca (anziché a Basilea, dove Brahe aveva manifestato l’intenzione di stabilirsi). L’offerta viene accettata e Brahe fa costruire sull’isola una specie di cittadella dell’astronomia, il castello-osservatorio di Uraniborg (Città di Urano). Il castello, al quale viene aggiunto anche un secondo osservatorio sotterraneo chiamato Stjoerneborg o «Città delle stelle» (formato da nicchie scavate nel terreno per evitare i disturbi dovuti alle eventuali vibrazioni degli edifici), diventa presto il luogo privilegiato di formazione per molti giovani astronomi europei. Brahe vi resterà fino al 1597. Negli anni successivi al suo arrivo a Hveen, Tycho Brahe conduce una sistematica osservazione delle comete, a partire dallo studio della grande cometa avvistata nel 1577. Grazie alle sue precise misure, Brahe riesce a dimostrare in modo conclusivo come le comete osservate abbiano «parallassi» piccolissime e siano quindi, anch’esse (come la stella nuova del 1572), molto più lontane dalla Terra di quanto non lo sia l’orbita della Luna. La parallasse è il fenomeno per cui un oggetto (una stella) sembra spostarsi rispetto allo sfondo (la volta celeste) se si cambia il punto di osservazione (per esempio per effetto del moto della Terra), e che risulta tanto minore quanto l’oggetto è più lontano dal punto di osservazione (vedi Figura 5). In base alla dimostrazione di Brahe risulta dunque che le comete non si trovano nel mondo sublunare, come pensavano gli aristotelici, ma «nelle regioni eteree del mondo», e le loro orbite possono attraversare le sfere planetarie. Questo fatto mette decisamente in difficoltà la tesi aristotelica della realtà delle sfere celesti: come possono essere sfere solide di cristallo, se vengono attraversate dalle orbite di corpi celesti? A tale proposito, così scrive Brahe a Keplero: Secondo la mia opinione, la realtà di tutte le sfere – comunque possano essere concepite – deve essere esclusa dai cieli. Questo ho appreso da tutte le comete che sono apparse nei cieli, fino dalla stella nuova del 1572, e che sono, in verità, fenomeni celesti. Esse non seguono infatti le leggi di nessuna delle sfere, ma agiscono piuttosto in contraddizione con esse […]. È chiaramente provato dal moto delle comete che la macchina del cielo non è un corpo duro e impenetrabile composto di varie sfere reali, come fino ad ora è stato creduto da molti, ma è fluido e libero, aperto in tutte le direzioni, tale da non opporre assolutamente ostacolo alcuno alla libera corsa dei pianeti che è regolata, in accordo alla sapienza legislativa di Dio, senza alcun macchinario né alcun rotolamento di sfere reali […] In tal modo non viene ammessa alcuna reale e incoerente penetrazione delle sfere: esse non esistono realmente nei cieli, ma vengono ammesse solo a beneficio dell’insegnamento e dell’apprendimento.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica Figura 5

Parallasse lunare. Nel disegno in alto vediamo spiegato l’effetto di parallasse attraverso il confronto tra due casi di osservazione della Luna. L’osservatore nel punto A della superficie terrestre vede la Luna (L) guardando in direzione del punto L2 sulla sfera delle stelle fisse. L’osservatore nel punto B, invece, vede la Luna guardando in direzione di L1 e quindi come sfondo della Luna vede una diversa porzione della sfera delle stelle fisse. L’effetto cambia a seconda della posizione della Luna; nel disegno in basso vediamo i due casi estremi: quando la Luna è collocata allo Zenit (punto Z) l’effetto di parallasse è nullo, quando la Luna è collocata all’orizzonte (O) l’effetto è massimo.

Le orbite delle comete trasgrediscono il moto circolare

Il sistema ticonico del mondo a metà strada tra Tolomeo e Copernico

Lo studio delle orbite delle comete porta Brahe, oltre alla negazione del carattere materiale delle sfere orbitali, all’abbattimento di un altro dogma dell’astronomia a lui precedente, sia tolemaica sia copernicana: quello della perfetta circolarità dei moti celesti. In base ai dati osservativi che ha raccolto, egli arriva infatti a ipotizzare che l’orbita della cometa del 1577 abbia forma ovale invece che circolare. Si tratta della prima volta che, nella storia dell’astronomia, viene ipotizzato che un corpo celeste possa muoversi lungo un’orbita che non sia circolare. Sarà comunque solo con Keplero che un’ipotesi di tale natura assumerà concretezza (tanto da diventare, come vedremo, la base della prima delle tre leggi dei moti planetari da lui formulate). L’opera De mundi aetherei recentioribus phaenomenis liber secundus, stampata a Uraniborg nel 1588, in cui sono raccolti ed elaborati i risultati di questi studi di Brahe, è famosa anche per il nuovo sistema astronomico che vi viene proposto, noto come «sistema ticonico del mondo». Sulla base delle numerosissime osservazioni effettuate, Tycho Brahe giunge a elaborare un proprio sistema della disposizione dei pianeti e delle stelle, a carattere intermedio – o di compromesso – tra quello tolemaico e quello copernicano. Del sistema tolemaico Brahe mantiene la tesi fondamentale: l’immobilità della Terra e la sua centralità nell’universo. La Terra è al centro di un universo che è racchiuso dalla sfera delle stelle, la cui rotazione giornaliera spiega i moti stellari circolari: «Al di là di ogni dubbio, penso che si debba stabilire con gli antichi astronomi e i pareri ormai accettati dai fisici, con la ulteriore attestazione delle Sacre Scritture, che la Terra che noi abitiamo occupa il centro dell’universo e che non è mossa in cerchio da nessun moto annuo, come volle Copernico». 83

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Critica del sistema copernicano

Critica del sistema tolemaico

Il compromesso di Tycho Brahe: la Terra conserva solo in parte la sua centralità

Le motivazioni che spingono Brahe a rifiutare l’ipotesi copernicana del moto della Terra sono di vario tipo: attribuire movimento al «corpo grosso, pigro, e inabile a muoversi della Terra» urta «non solo contro i principi della fisica, ma anche contro l’autorità delle Sacre Scritture che confermano in vari passi la stabilità della Terra»; il fatto che non si osservi alcun effetto di parallasse stellare non si può spiegare, nel sistema copernicano, se non con l’‘inconveniente’ di dover porre una distanza immensa («un vastissimo spazio vuoto interposto») tra l’orbita di Saturno e la sfera delle stelle fisse; inoltre, se la Terra fosse in moto, una pietra lasciata cadere da una torre raggiungerebbe il suolo lontano dalla sua base (qui Brahe aderisce a quella che è la credenza comune), al contrario di quanto di fatto osservato. Ma anche il sistema tolemaico non va bene per Brahe. La «vecchia distribuzione tolemaica degli orbi celesti non era abbastanza coerente ed era superfluo il ricorso a tanto numerosi e sì grandi epicicli», mentre «la moderna innovazione introdotta dal grande Copernico» permetteva di evitare «tutto ciò che nella disposizione tolemaica risultava superfluo e incoerente, senza contravvenire ai principi della matematica». Qual è dunque la soluzione di Brahe, l’ipotesi che a suo giudizio consente il migliore compromesso tra i due sistemi precedenti, evitando le «non piccole assurdità» contenute in entrambi? Una ipotesi che «non fosse in contrasto né con la matematica né con la fisica, e che non dovesse sfuggire di nascosto alle censure teologiche e che, nello stesso tempo, soddisfacesse in modo completo alle apparenze celesti»? Il compromesso a cui arriva Tycho Brahe è il seguente: come nel sistema tolemaico, la Terra è al centro delle orbite del Sole e della Luna; ma – e qui inizia la differenza con il sistema tolemaico e la vicinanza con quello copernicano – è il Sole, non la Terra, a essere al centro delle orbite degli altri cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno; vedi Figura 6).

Figura 6

Sistema ticonico. Viene raffigurata la struttura del sistema del mondo di Tycho Brahe: la Terra è al centro delle orbite della Luna e del Sole, mentre i pianeti girano intorno al Sole; all’esterno si trova il firmamento delle stelle fisse.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

T7

Il moto dei pianeti intorno al Sole T. Brahe, De mundi aetherei recentioribus phaenomenis

La conciliazione tra le esigenze di calcolo e la difesa delle concezioni tradizionali

➥ Sommario, p. 119

Asserisco inoltre che i cinque pianeti restanti volgono i propri giri intorno al Sole come propria guida e re, e che sempre lo osservano quando si situa nello spazio intermedio delle loro rivoluzioni. Cosicché rispetto al circuito di esso anche i centri delle orbite che gli descrivono intorno compiono un giro annuale. Trovai infatti che ciò non aveva luogo soltanto in Venere e Mercurio per le minori digressioni di tali pianeti dal Sole, ma anche nei tre pianeti superiori [Mercurio, Giove e Saturno]. E in tal modo […] ogni apparente ineguaglianza di movimento che dagli antichi era spiegata con gli epicicli, per Copernico era dovuta al moto annuo della Terra, viene giustificata in modo convenientissimo mediante tale concomitanza del centro del’orbita dei pianeti stessi insieme all’annua rivoluzione del Sole […] ed esso governa tutta l’Armonia della schiera dei pianeti come Apollo (nome del quale veniva insignito dagli antichi) in mezzo alle Muse. Il sistema misto, in parte geocentrico e in parte eliocentrico, così proposto da Tycho Brahe ha il doppio vantaggio di essere, dal punto di vista dei calcoli delle posizioni dei pianeti, del tutto equivalente a quello copernicano, e dal punto di vista della religione e del senso comune, in accordo con le concezioni tradizionali. Viene quindi bene accolto da quanti vogliono conservare i vantaggi matematici del sistema copernicano ed evitare, allo stesso tempo, gli inconvenienti fisici, cosmologici e teologici che il moto della Terra sembra comportare.

Il sistema ticonico come teoria di compromesso Collocazione della Terra

Ferma al centro

= sistema tolemaico

Collocazione del Sole

Orbita attorno alla Terra

= sistema tolemaico

Le orbite dei pianeti

Hanno come centro il Sole

= sistema copernicano

Strutture ad hoc (epicicli)

Non ci sono (non sono necessarie)

= sistema copernicano

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Keplero: verso una moderna fisica dei cieli

4 I testi

J. Keplero Mysterium cosmographicum: Sei cieli per cinque solidi regolari, T8

Assistente di Tycho Brahe

Nell’ultimo periodo della sua vita, Tycho Brahe ha un assistente d’eccezione: Johannes Kepler. Del giovane astronomo, convinto assertore del sistema copernicano, Brahe aveva molto apprezzato l’opera prima, nota col titolo abbreviato di Mysterium cosmographicum. Dal febbraio del 1600 Keplero, su invito del grande astronomo danese, si trasferisce in Boemia, e lì rimane fino al 1612, sostituendo Brahe, dopo la morte di questi nell’ottobre del 1601, nel ruolo di Matematico imperiale. Keplero ha dunque la straordinaria opportunità di avere a disposizione il ricchissimo patrimonio di dati osservativi raccolti da Brahe. Su questo patrimonio, da lui definito «l’opera più importante di Tycho», egli si sentì chiamato a costruire l’edificio della vera teoria astronomica, l’architettura dell’universo. Come nell’antichità Tolomeo aveva edificato il suo sistema a partire dalle osservazioni dell’astronomo Ipparco, afferma Keplero in una lettera al suo maestro Michael Maestlin scritta poco dopo la morte di Brahe, così «questo Ipparco [Tycho] aveva bisogno di un Tolomeo [Keplero] che edificasse, su quella base [le osservazioni di Tycho], le teorie degli altri cinque pianeti».

La vita e le opere Johannes Kepler (o Keplero, dalla forma latinizzata Keplerus) nacque nel 1571 a Weil der Stadt, cittadina vicino a Stoccarda. Compì i suoi studi in Germania, all’università di Tubinga. Nel 1594 si trasferì in Austria, a Graz, con l’incarico di insegnante di matematica; qui concepì e pubblicò, nel 1596, la sua prima opera, il Mysterium cosmographicum, ristampato nel 1621. Nel 1600, su invito del grande astronomo danese, si trasferì in Boemia, a Praga, dove rimase fino al 1612, divenendo assistente di Brahe e sostituendo il maestro dopo la morte (1601) nell’incarico di Matematico imperiale. Gli an-

1 La ricerca delle ragioni della struttura del sistema planetario

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Astronomia nova: Dalle orbite circolari alle orbite ellittiche, T9; La «facoltà magnetica» è la causa fisica del moto dei pianeti, T10

ni boemi furono dedicati allo studio dell’orbita di Marte, i cui risultati furono pubblicati nel 1609 nella sua opera principale, Nuova astronomia delle cause, o Fisica dei cieli, conosciuta anche come Astronomia nova. Nel 1612 Keplero si trasferì a Linz, dove ricoprì la carica di Matematico del distretto; qui pubblicò le opere Dioptrica (1618) e Harmonices mundi libri quinque («Armonia del mondo»; 1619). Vi rimase per quattordici anni, fino al trasferimento a Ulm, dove pubblicò, nel 1617, su sollecitazione degli eredi di Brahe, le Tavole rudolfine, alle quali si era dedicato fin dagli anni in cui era assistente di Brahe a Praga. Morì a Ratisbona nel 1630.

Il Mysterium cosmographicum Trovare una soluzione definitiva al problema della struttura del sistema planetario, e in particolare svelare le ragioni di tale struttura, il perché del numero e dei moti dei pianeti e delle dimensioni delle loro orbite, costituisce l’obiettivo di tutta l’attività scientifica di Keplero.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica Le tre questioni fondamentali

Una formazione copernicana

La credenza nell’armonia del mondo e l’interesse per l’astrologia

L’armonia come nozione fondata sulla matematica

I poliedri platonici

L’architettura geometrica del cosmo

Come scrive nel Mysterium cosmographicum, la sua opera prima dedicata alla disposizione delle orbite dei pianeti, o «mistero cosmografico»: «Di tre questioni ero principalmente impegnato a ricercare la ragione per la quale esse sono così e non in altro modo: il numero, l’estensione e il periodo degli orbi [le orbite]». Perché i pianeti sono di quel dato numero, perché sono disposti precisamente a quelle date distanze dal Sole, e perché possiedono quelle determinate velocità nel loro moto orbitale sono dunque le domande fondamentali che si pone Keplero, e alle quali risponderà, a tappe progressive, fino al completamento della sua visione cosmologica con l’Harmonices mundi («Armonie del mondo») del 1619. Quando compone il Mysterium nel corso del 1595, Keplero non ha ancora a disposizione i dati osservativi di Brahe, ma conosce bene quelli utilizzati da Copernico e la teoria di quest’ultimo. Keplero era stato introdotto al sistema copernicano durante gli studi all’università di Tubinga dal suo «Maestro di Matematica» Michael Maestlin, che era un sostenitore di Copernico. Keplero viene subito talmente attratto dalla teoria copernicana da prenderne apertamente le difese, cercando al tempo stesso di svilupparla integrandone le «ragioni matematiche» con «ragioni fisiche e metafisiche». Una prima articolazione di queste ragioni è contenuta nel Mysterium, ed è fondata sulla profonda convinzione che dominerà tutta la vita sia personale sia scientifica di Keplero: quella dell’esistenza di un’«armonia del mondo» che, espressione della perfezione di Dio, si manifesta in tutti gli aspetti del creato, dal sistema solare alle relazioni umane (e li connette fra loro). Da questo punto di vista, risulta naturale l’interesse che Keplero nutre anche per l’astrologia, tanto da dedicare addirittura un’opera ai fondamenti di questa disciplina (considerata come un settore dell’astronomia). Un interesse che tra l’altro gli porta un certo successo quando, finiti gli studi, si trova a occupare, nel 1594, il doppio incarico di insegnante di matematica al seminario protestante di Graz, capitale della provincia austriaca della Stiria, e di «Mathematicus della provincia». Tra i compiti che quest’ultima carica comportava, c’è infatti anche quello di stilare un calendario annuale con l’oroscopo, e Keplero si distingue subito riuscendo ad azzeccare alcune previsioni, come quella della particolare ondata di freddo che si avvera l’anno dopo il suo arrivo e quella di un’invasione dei turchi in Europa. Parlando di «armonia» Keplero, influenzato dalle tradizioni pitagorica e neoplatonica, intende qualcosa di ben preciso, fondato sulla matematica, e cioè relazioni aritmetiche e figure geometriche. Mosso dalla persuasione che ci debba essere una ragione per tutto ciò che Dio ha creato e che questa ragione sia di natura matematica, è attraverso strumenti come le proporzioni e le figure regolari che Keplero cerca una soluzione al problema planetario. Tra le figure regolari, sono i cosiddetti «poliedri platonici» che forniscono la chiave di volta della costruzione cosmografica del Mysterium. Scrive Keplero nell’introdurre l’opera: «Mi sono proposto di dimostrare, con questa operetta, o lettore, che Dio Ottimo Massimo, nella costruzione del mondo e nella disposizione dei cieli, guardò ai cinque corpi solidi regolari che tanto sono stati celebrati fino dal tempo di Pitagora e Platone e che dispose numero, proporzioni e movimenti delle cose celesti secondo le proprietà di quei corpi». In che modo, per Keplero, Dio avrebbe usato i cinque solidi regolari nella costruzione del mondo? Disponendo le cose in accordo alla seguente archittettura: i pianeti si muovono su sfere tutte centrate sul Sole e ordinate in modo tale che 87

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

ognuno dei cinque poliedri si trovi incluso tra due sfere, secondo una precisa disposizione fondata su proporzioni numeriche. Procedendo dall’esterno verso l’interno (cioè verso il Sole), ai pianeti Saturno, Giove, Marte, Terra, Venere e Mercurio (i sei pianeti allora conosciuti) corrispondono sei sfere concentriche, separate l’una dall’altra, nell’ordine, da un cubo (esaedro), un tetraedro, un dodecaedro, un ottaedro, e un icosaedro (vedi Figura 7). Figura 7

I cinque poliedri platonici nella teoria di Keplero. Nel disegno A sono raffigurati i cinque poliedri regolari già utilizzati da Platone nel Timeo (rispettivamente cubo, tetraedro, dodecaedro, icosaedro e ottaedro). Nel disegno B, invece, si vede come essi sono utilizzati nel sistema planetario di Keplero: i cinque solidi sono inscritti, uno dopo l’altro, nelle sfere dei pianeti, seguendo l’ordine di cui al disegno A dalla sfera più esterna (quella di Saturno, in cui è inscritto un cubo) alla più interna (quella di Mercurio, in cui è inscritto un ottaedro).

Il perché del numero dei pianeti

T8

Sei cieli per cinque solidi regolari

J. Keplero, Mysterium cosmographicum

Le ragioni fisiche e metafisiche delle distanze nel sistema planetario

88

L’idea di utilizzare figure geometriche come i poliedri regolari nella descrizione del mondo fisico non è certo nuova nella storia della scienza (basti pensare al ruolo di questi poliedri nella dottrina degli elementi contenuta nel Timeo di Platone). Ma il modo in cui Keplero traduce quest’idea è del tutto inedito. Come racconta Keplero stesso, egli arriva alla sua particolare costruzione cosmografica sviluppando un’idea che gli era balenata in mente, nel corso di una lezione, mentre illustrava con un disegno un fenomeno relativo alle congiunzioni dei pianeti. Il giorno 19 dell’anno 1595, mentre davo una dimostrazione ai miei scolari […] pensai che se avessi voluto far uso nel mio tentativo di tutte le figure regolari, non sarei mai stato in grado di arrivare fino al sole, né avrei individuato il motivo per cui gli orbi sono sei invece che venti o cento. […] Ritenevo che il mio desiderio sarebbe stato soddisfatto se avessi potuto far corrispondere alla reciproca grandezza dei cieli (che Copernico stabilì essere sei) soltanto cinque figure fra tutte le infinite figure possibili, che avessero proprietà particolari che nessuna delle altre figure possiede. […] Se qualcuno […] venisse informato dell’esistenza di cinque solidi regolari, costui ricorderebbe subito il famoso scolio di Euclide […] nel quale si dimostra che non è possibile trovare o costruire più di cinque corpi regolari. I pianeti sono sei perché ci sono solo cinque solidi regolari possibili. Così Keplero risponde alla prima delle tre domande base che motivano la sua opera. La costruzione fondata sui poliedri platonici gli fornisce una risposta anche alla seconda domanda: quella relativa alle distanze dei pianeti dal Sole. Le ragioni che ad-

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Un salto di qualità: il confronto con i dati osservativi di Tycho Brahe

Le ragioni delle variazioni di velocità

duce per la sua teoria dei solidi regolari, cioè perché i solidi siano disposti proprio in quel modo tra le sfere planetarie, sono di natura fisica, matematica (come quella che giustifica il numero dei pianeti), ma anche metafisica, teologica e astrologica. Per esempio: distinguendosi i corpi regolari, in base alle proprietà matematiche, in due generi (il cubo, il tetraedro e il dodecaedro sono «corpi primari», l’ottaedro e l’icosaedro «corpi secondari»), la Terra, in quanto abitata dall’uomo che è il fine della creazione, è ‘degna’ d’essere posta tra i due generi di corpi; il cubo ha la posizione più esterna perché rappresenta il solido più importante (essendo, tra le altre cose, l’unico solido generato dalla propria base, l’unico a indicare con i suoi elementi le tre direzioni dello spazio, l’unico ad avere sei lati come nell’uomo sono sei le possibili orientazioni); il cubo, con i suoi angoli retti, si addice al carattere inesorabile e inflessibile di Saturno, l’ottaedro, per la sua mobilità, si addice alla versatilità e rapidità d’ingegno di Mercurio; e via dicendo. L’uso dei poliedri platonici, per quanto basato in larga parte su ragioni che non chiameremmo oggi scientifiche, non è frutto di mera speculazione per Keplero: la sua architettura planetaria deve rendere conto dei valori osservati per le dimensioni delle orbite e per i moti dei corpi celesti. È dunque con grande entusiasmo che Keplero si reca da Tycho Brahe in Boemia: finalmente avrà a disposizione dati osservativi in gran numero, e ben più precisi di quelli precedenti, per verificare l’accordo della sua teoria cosmografica con l’esperienza. Il confronto con i dati di Brahe spingerà Keplero a modificare, in parte, la sua teoria, ma non lo porterà mai ad abbandonare del tutto il suo uso dei cinque solidi regolari; tanto che, ancora nel 1621, curerà una ristampa del Mysterium. La teoria dei poliedri platonici fornisce una risposta alle prime due domande (relative, rispettivamente, al numero dei pianeti e alle loro distanze dal Sole), ma non alla terza domanda: rimane da spiegare perché i pianeti abbiano velocità che variano non solo da pianeta a pianeta (la velocità risulta tanto minore quanto più distante è il pianeta dal Sole) ma anche all’interno di ogni orbita. La soluzione che propone Keplero nel Mysterium è la seguente: il Sole viene visto come la causa fisica del moto dei pianeti, la loro «anima motrice»; questa virtus solare mette in moto i pianeti e, distribuendosi nello spazio, si indebolisce con la distanza. Anche in questo caso coesistono, nella descrizione di Keplero, ragioni di varia natura, in cui entrano in gioco, per il ruolo fisico del Sole, considerazioni relative anche alla sua ‘bellezza’ («il Sole è il corpo più bello, in qualche modo l’occhio del mondo»), alla sua luminosità (che «adorna, dipinge e abbellisce gli altri corpi del mondo»), al suo calore («il Sole è il focolare del mondo»), e così via.

Le domande di Keplero Numero dei pianeti

Estensione delle orbite dei pianeti

Periodo delle orbite dei pianeti

Domande

Risposte

Perché esattamente sei pianeti?

Perché ci sono solo cinque poliedri regolari

Perché esattamente alle distanze che hanno dal Sole?

Perché i cinque poliedri regolari hanno una determinata successione, spiegabile con ragioni matematiche, teologiche, astrologiche

Perché esattamente con le velocità e le durate delle orbite che hanno?

Perché la virtus motrice del Sole indebolisce la sua azione all’aumentare della distanza

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Un emblema dell’evoluzione della scienza

2 Le tavole «rudolfine»

L’Astronomia nova, il capolavoro di Keplero

L’orbita di Marte: la più eccentrica

T9

Dalle orbite circolari alle orbite ellittiche

J. Keplero, Astronomia nova

La prima legge

90

Questo intrecciarsi di geniali intuizioni fisiche e acute soluzioni matematiche con considerazioni di tutt’altro tipo è caratteristico dell’intera opera di Keplero. Per questa sua doppia natura, razionale e sperimentale da una parte, mistica e metafisica dall’altra, la figura di Keplero come scienziato è un emblema del processo evolutivo che avviene all’interno del sapere scientifico tra il Cinquecento e il Seicento.

La «nuova astronomia» e le prime due leggi Appena arrivato in Boemia, Keplero riceve subito l’incarico di occuparsi del problema dell’orbita di Marte, in vista della preparazione di nuove tavole astronomiche, dette «rudolfine», in onore dell’imperatore Rodolfo II. Queste tavole dovevano sostituire, sulla base dei nuovi dati osservativi raccolti da Brahe, quelle precedenti note come «pruteniche» (e che vedranno la luce, per opera di Keplero, solo nel 1627). Il moto orbitale di Marte era rimasto fino ad allora un mistero, per le numerose irregolarità che presentava e che nessuno dei sistemi astronomici esistenti permetteva di spiegare. Keplero impiegherà sei anni per venire a capo del problema, ma tutto il lavoro che compirà in questi anni è di capitale importanza in quanto gli permetterà di rivoluzionare la «fisica dei cieli». Il risultato di questa sua fatica è contenuto nella sua opera più importante, l’Astronomia nova (il titolo per intero è, in italiano, la Nuova astronomia delle cause, o Fisica dei cieli), che termina di scrivere nel 1606 ma non riesce a far pubblicare prima del 1609 (lo stesso anno in cui Galileo punterà il suo cannocchiale verso il cielo). Un lavoro a proposito del quale il grande astronomo e storico della scienza J.L. Dreyer ha affermato che «nella storia dell’astronomia ci sono solo altre due opere di pari importanza, il De revolutionibus di Copernico e i Principia di Newton». Che cosa ottiene dunque Keplero di così rilevante combattendo con le difficoltà collegate al moto di Marte? Marte è il pianeta più eccentrico, in quanto la sua orbita si discosta da una circonferenza più di quelle degli altri pianeti. Questo significa che, proprio perché è il pianeta che presenta maggiori irregolarità quando si cerchi di descriverlo per mezzo di un’orbita circolare, è anche il pianeta il cui studio più facilmente può suggerire la vera forma dell’orbita. E infatti è proprio studiando i problemi posti dall’orbita di Marte, alla luce dei dati di Brahe, che Keplero arriva alla rivoluzionaria conclusione che le orbite dei pianeti non sono circolari ma ellittiche. Scopo principale della presente opera è di correggere la dottrina astronomica (particolarmente per ciò che attiene al moto di Marte) […] di modo che i dati che calcoliamo dalle tavole corrispondano ai dati ricavabili dall’osservazione dei fenomeni celesti. Il che, fino a questo momento, non si è potuto fare in modo soddisfacente. […] Attraverso dimostrazioni molto laboriose e servendomi dei risultati di moltissime osservazioni, giunsi finalmente a stabilire che la traiettoria del pianeta in cielo non è circolare, ma è una traiettoria ovale perfettamente ellittica. Infrangendo una tradizione millenaria e attraverso un faticosissimo cammino che si protrarrà per diversi anni (durante i quali approfondisce anche altri argomenti, come l’ottica, per la rilevanza di questa disciplina ai fini delle osservazioni astronomiche) e di cui fornisce un dettagliato resoconto nella sua opera, Keplero arriva

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

dunque a stabilire che l’orbita di un pianeta ha la forma di un’ellisse di cui il Sole occupa uno dei fuochi. Questa conclusione è nota come prima legge di Keplero. La seconda legge Nel lungo percorso che lo porta alla scoperta della forma ellittica delle orbite planetarie, Keplero arriva anche a formulare, già nel 1602, quella che (nonostante sia la prima) è invece nota come seconda legge di Keplero: la linea che congiunge un pianeta con il Sole, o raggio vettore, descrive aree uguali in tempi uguali. Con questa legge Keplero riusciva a rendere conto di quanto risultava dai dati dell’osservazione, cioè della natura non uniforme del moto dei pianeti, e del modo in cui la loro velocità variava a seconda della distanza a cui si trovavano dal Sole lungo la propria traiettoria orbitale. Ma Keplero non si ferma a questa descrizione ‘geometrica’; cerca anche di chiarire la causa fisica della variazione di velocità dei moti orbitali e a tale scopo ricorre a «facoltà magnetiche», ispirandosi al De Magnete, pubblicato nel 1600 dall’inglese William Gilbert. Più precisamente Keplero attribuisce al Sole – che teorizza ruoti su se stesso portandosi dietro nel suo moto i pianeti come se li sferzasse – un’emanazione magnetica, che attrae i pianeti (immaginati come piccoli magneti) quando i poli opposti sono più vicini, e li respinge leggermente per il resto dell’orbita.

T10

La «facoltà magnetica» è la causa fisica del moto dei pianeti J. Keplero, Astronomia nova

La semplicità della teoria

3 Il completamento delle leggi dei moti planetari

Dalla geometria appresi che una tale traiettoria viene descritta se si assegna al motore proprio dei pianeti la funzione di far oscillare il corpo lungo la linea retta che termina nel Sole. […] La mia costruzione fu infine terminata con l’aggiunta del tetto quando dimostrai che questa oscillazione [librazione] deve essere prodotta da una facoltà magnetica corporea. I motori che sono propri dei pianeti appaiono in tal modo essere, con ogni probabilità, affezioni degli stessi corpi planetari, simili a quell’affezione che è nel magnete che tende verso il polo e attrae il ferro. In tal modo tutto il sistema dei movimenti celesti è governato da facoltà meramente corporee, ossia magnetiche. Fa eccezione solo la rotazione locale del corpo Sole, per spiegare la quale sembra sia necessaria la forza proveniente da un’anima. Grazie alla sostituzione delle orbite circolari di Tolomeo, Copernico e Brahe con le orbite ellittiche, e del moto uniforme dei pianeti attorno a un punto (posto al centro o vicino al centro) con la legge di uniformità della velocità areale (la seconda legge di Keplero), veniva dunque eliminata ogni necessità di ricorrere a espedienti come erano stati gli eccentrici, gli epicicli o gli equanti dell’astronomia precedente. Come ha osservato lo storico e filosofo della scienza Thomas Kuhn, «per la prima volta una singola curva geometrica, non combinata con altre curve, e una singola legge di moto bastano a prevedere la posizione dei pianeti, e per la prima volta queste previsioni sono in perfetto accordo con le osservazioni disponibili». In questo modo si raggiunge uno degli scopi principali di Keplero, e cioè la semplicità e l’unità della natura.

L’«Armonia del mondo» e la terza legge Il sistema di leggi planetarie di Keplero viene portato a compimento con l’aggiunta, vari anni più tardi, di una terza legge, nota appunto come terza legge di Keplero. Si tratta di una legge di natura differente dalle prime due, e apparentemente un po’ misteriosa: stabilisce che i quadrati dei periodi di rivoluzione di due 91

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il ritorno ai temi pitagorici e la teoria musicale del sistema planetario

La teoria della «proporzione sesquialtera»

L’assetto finale della teoria di Keplero

pianeti sono proporzionali ai cubi delle loro distanze medie dal Sole. Questa legge è contenuta nell’opera più singolare di Keplero, con la quale egli tenta di costruire una teoria coerente dell’universo interamente fondata su leggi armoniche: l’opera, che s’intitola Harmonices mundi libri quinque, viene terminata nel 1618 e pubblicata nel 1619 a Linz, dove Keplero si è trasferito da quando, nel 1612, ha dovuto lasciare Praga in seguito all’abdicazione di Rodolfo II. A Linz Keplero rimarrà per quattordici anni con la qualifica di «Matematico del Distretto», finché per motivi religiosi connessi alla Guerra dei trent’anni sarà costretto a spostarsi di nuovo, iniziando un vagabondaggio presso vari mecenati fino alla morte, che lo coglierà a Ratisbona nel 1630. Con l’Harmonices mundi Keplero intende portare a compimento l’opera intrapresa con il Mysterium cosmographicum: mostrare come l’intero creato sia governato da leggi armoniche, dando una ragione matematica di tutto ciò che concorre a formare l’«armonia del mondo». Dopo molti anni, con il bagaglio dei risultati astronomici e fisici da lui nel frattempo ottenuti, e di un accurato studio delle basi teoriche della musica, Keplero riprende dunque la tematica pitagorica del Mysterium e cerca una nuova legge che permetta di superare i limiti della descrizione precedente. Nella sua costruzione cosmografica basata sui solidi regolari si era infatti occupato solo della ‘struttura spaziale’ del sistema planetario, lasciando aperto il problema della ‘struttura temporale’: cioè il problema del rapporto, per i pianeti, tra la durata dei loro periodi di rivoluzione e la grandezza delle orbite. Alla ‘descrizione statica’ fondata sui cinque solidi regolari Keplero affianca ora una ‘descrizione dinamica’, per cui i moti orbitali vengono a essere collegati a una teoria musicale del sistema planetario, sulla base dell’associazione a ogni pianeta di un «tono» o «modo musicale». In questo contesto si comprende il valore capitale che assume per Keplero la scoperta della terza legge: il rapporto tra i cubi (l’esponente 3) e i quadrati (l’esponente 2) contenuto nella legge, rispecchia il ruolo fondante che ha la «proporzione sesquialtera» (cioè il rapporto 3/2, che produce, in musica, l’intervallo detto di ‘quinta’) nel sistema musicale pitagorico. Come scrive Keplero, la chiave di volta per «vincere le tenebre della mente» dopo «ventidue anni di attesa» dal Mysterium è data dal fatto «certissimo ed esattissimo» che «la proporzione che lega i tempi periodici di ciascuna coppia di pianeti sia precisamente la proporzione sesquialtera delle distanze medie» (la sua terza legge). Un risultato che, è importante sottolineare, Keplero mette subito a confronto con i dati sperimentali di Tycho Brahe, trovando un tale accordo tra questi e la sua teoria che «sulle prime pensa di sognare». Numero dei pianeti Teoria dei poliedri platonici Estensione delle orbite

92

Durata delle orbite

Virtus motrice del Sole

Rapporto tra durata ed estensione

Terza legge

}

Armonia universale

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

4

La fortuna di Keplero

Le tre leggi di Keplero, che ancora troviamo oggi, così denominate, nei manuali di fisica, emergono dunque da un contesto che avremmo difficoltà a qualificare come scientifico. Questo spiega la fortuna controversa che ebbero, tra i contemporanei di Keplero, le sue opere. Con il suo misticismo dei numeri e la sua metafisica delle armonie da una parte, la sua razionalità matematica e l’attenzione ai dati sperimentali dall’altra, Keplero rappresenta una figura di passaggio. La sua ‘antichità’ si esprime nei temi pitagorici e neoplatonici che ne permeano le opere e nel suo mescolare, nelle costruzioni teoriche, a ragioni di tipo fisico e matematico ragioni di tutt’altra natura; la sua ‘modernità’ si esprime nella ricerca sistematica di precise leggi matematiche che regolino i moti e le dimensioni orbitali dei pianeti, e di cause fisiche che ne spieghino le caratteristiche e le particolarità. Se nella prospettiva odierna è possibile avere una chiara visione di questa distinzione tra gli aspetti antichi e moderni di Keplero, questo non vale per i suoi contemporanei, per i quali non era certo facile discriminare tra quanto di davvero scientifico e quanto di arbitraria speculazione ci fosse nelle sue opere. Compreso appieno solo Galileo, in particolare, non comprenderà mai davvero la rilevanza dei risultati nella rivalutazione raggiunti da Keplero (con grande dispiacere di quest’ultimo, che di Galileo avepostuma va invece grandissima stima), giudicandolo molto distante dal proprio modo di essere scienziato (riterrà perfino che alcune tesi di Keplero fossero «più tosto a diminutione della dottrina di Copernico che a stabilimento»). Bacone lo ignorerà completamente, e Cartesio lo ricorderà soltanto per i contributi sull’ottica. In realtà è solo dopo gli anni sessanta del Seicento, quando Newton ne farà uso nella sua opera, che le leggi di Keplero acquisteranno finalmente piena credibilità ➥ Sommario, p. 119 nel mondo scientifico.

Una figura di passaggio verso la modernità

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Galileo e la nascita della scienza moderna

5 I testi

G. Galilei Sidereus Nuncius: L’esperienza sensibile dei corpi celesti, T11 Lettera di G. Galilei a Giuliano de’ Medici: L’osservazione sostiene la teoria copernicana, T12 Il Saggiatore: Distinzione tra le qualità oggettive e le

1

qualità soggettive, T13; L’universo è un libro scritto in caratteri matematici, T14 Dialogo sopra i due massimi sistemi: Contro il principio dell’autorità, T15 L’atto di abiura: L’abiura di Galileo, T16

Il Sidereus Nuncius

Nel 1609 il quarantacinquenne professore di matematica allo Studio di Padova Galileo Galilei punta un giorno verso il cielo il cannocchiale costruito con le proprie mani e comincia una serie di osservazioni: questa immagine ha assunto il significato simbolico della nascita della scienza moderna. Lo studioso che, non solo manifesta fiducia in uno strumento nato nell’ambiente degli artigiani e dei meccanici, solitamente disprezzati dalla scienza ufficiale, ma non esita ad agire egli stesso da artigiano, ricostruendo quello strumento per poi usarlo con metodo e spirito scientifico ai fini della conoscenza della natura, è l’emblema del ‘nuovo uomo di scienza’. La cultura tradizionale guarda in realtà con sospetto alle arti meccaniche e al lavoro manuale, né miglior sorte ce l’hanno gli strumenti pensati come aiuti per i sensi: in questa frattura, e nella convinzione della sua utilità e della sua necessità, troviamo tutta l’importanza del cannocchiale galileiano come nuovo strumento scientifico. Un nuovo modo Che cosa vede dunque Galileo con questo strumento che usa per osservare di vedere con sistematicità il cielo, per fare «centinaia e migliaia di esperienze in mille e mille oggetti, e vicini e lontani, e grandi e piccoli, e lucidi e oscuri»? Il vedere attraverso il cannocchiale è un nuovo modo di vedere, che permette innanzitutto di scoprire aspetti diversi di cose già viste. Come nel caso della Luna, la cui superficie vista da più vicino appare non più «liscia, uniforme e di sfericità esattissima, come di essa Luna e degli altri corpi celesti una numerosa schiera di filosofi ha ritenuto», ma simile a quella terrestre, con irregolarità dello stesso genere (contro la distinzione della tradizione aristotelica tra mondo celeste e mondo sublunare; vedi Figura 8); e come nel caso della Via Lattea e delle nebulose, che Galileo scopre essere, invece che semplici «nubi biancheggianti» di cui non si conosceva l’essenza, degli ammassi di miriadi di stelle.

L’importanza del cannocchiale come nuovo strumento di indagine scientifica

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

T11

L’esperienza sensibile dei corpi celesti G. Galilei, Sidereus Nuncius

Bellissima cosa e oltremodo a vedersi attraente è il poter rimirare il corpo lunare, da noi remoto quasi sessanta semidiametri terrestri, così da vicino, come se distasse di due soltanto di dette misure; […] e quindi con la certezza che è data dell’esperienza sensibile, si possa apprendere non essere affatto la Luna rivestita di superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e allo stesso modo della faccia della Terra, presentarsi ricoperta in ogni parte di grandi prominenze, di profonde valli e di anfratti. Di più, l’aver rimosse le controversie riguardo alla Galassia o Via Lattea, con l’aver manifestato al senso, oltre che all’intelletto, l’essenza sua, non è da ritenersi, mi pare, cosa di poco conto; come anche il mostrare direttamente essere la sostanza di quelle Stelle, che fin qui gli Astronomi hanno chiamato Nebulose, di gran lunga diversa da quel che fu creduto finora, sarà cosa molto bella e interessante.

Figura 8

La superficie della Luna. L’immagine della Luna visibile guardando attraverso il cannocchiale in due fasi diverse: si notano nei disegni le irregolarità della superficie del corpo celeste.

La vicinanza dei pianeti

L’osservazione attraverso il cannocchiale rivela anche una differenza sostanziale tra le stelle e i pianeti: le prime – punti luminosi circondati da «raggi brillanti» – «si mostrano di uguale figura all’occhio nudo e viste al cannocchiale» (sono dunque lontanissime); i secondi invece, cambiano notevolmente di grandezza, «presentano i loro globi esattamente rotondi e definiti e, come piccole lune luminose perfuse ovunque di luce, appaiono circolari». 95

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Anche Giove ha dei satelliti

Il Sidereus Nuncius e le scoperte fatte col cannocchiale

Nuove scoperte sui pianeti

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L’osservazione sostiene la teoria copernicana G. Galilei, Lettera di G. Galilei a Giuliano de’ Medici

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Ma vedere attraverso il cannocchiale porta anche, e soprattutto, a scoprire cose nuove, mai viste prima. Oltre all’improvviso popolarsi del cielo di innumerevoli stelle «invisibili alla vista naturale», come nel caso di quelle componenti la Via Lattea, Galileo fa una delle sue più importanti scoperte astronomiche: vede le quattro lune (o satelliti) di Giove. La Terra non è più l’unico pianeta ad avere una sua luna: «il senso mostra quattro stelle erranti attorno a Giove, così come la Luna attorno alla Terra». Il pisano Galileo le battezzerà «stelle medicee» in onore del granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici, che, offrendogli il posto di «Filosofo e matematico primario» a Firenze, gli permetterà di tornare nella regione d’origine dopo diciotto anni trascorsi a Padova. Al granduca Galileo dedica anche il volumetto dal titolo Sidereus Nuncius, pubblicato a Venezia nel marzo del 1610, nel quale annunciava le scoperte fatte con il cannocchiale e le conseguenze che ne derivavano per la filosofia naturale e la concezione del mondo. Galileo era da tempo un convinto sostenitore del sistema copernicano. Come aveva scritto nel 1597 a Keplero quando questi gli aveva mandato una copia del Mysterium cosmographicum, egli si era convertito da molti anni alla teoria di Copernico e aveva scritto «molte ragioni per preferirla e confutazioni agli argomenti contrari», ma senza aver osato pubblicare nulla. Nel 1604, quando si era di nuovo verificato un evento analogo a quello della «stella nova» studiata nel 1572 da Tycho Brahe – fenomeni che mettevano in difficoltà la tesi aristotelica dell’immutabilità dei cieli –, Galileo aveva cominciato a esporre pubblicamente il proprio pensiero, sia in conferenze sia nel Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova (1605), criticando la pretesa da parte di una certa filosofia di risolvere i problemi astronomici solo per mezzo di considerazioni metafisiche e non invece, come era opportuno, attraverso determinate misure. Le misure ottenute per mezzo del cannocchiale permisero a Galileo di aggiungere presto ai risultati esposti nel Sidereus Nuncius altre fondamentali scoperte astronomiche: da quella relativa alla particolare configurazione di Saturno, che gli risultava come formato da tre corpi sferici (Galileo non aveva uno strumento sufficientemente potente per visualizzare gli anelli di Saturno), alla scoperta delle fasi di Venere (vedi Figura 9). Il fatto (non spiegabile nel sistema tolemaico) che il pianeta Venere «va mutando le figure nell’istesso modo che fa la Luna» fornisce, per Galileo, un argomento decisivo a favore della teoria copernicana: Venere, nel suo moto intorno al Sole, doveva presentare fasi alterne di illuminazione come accadeva per la Luna. Dopo questi risultati Galileo lascia da parte ogni cautela: è ormai convinto di avere «sensate e certe dimostrazioni» delle due grandi questioni rimaste fino ad allora «dubbie tra’ maggiori ingegni del mondo»: cioè il fatto che i pianeti ruotino intorno al Sole e che siano corpi opachi, che brillano solo di luce riflessa. Come scrive nel gennaio del 1611 a Giuliano de’ Medici: Venere necessarissimamente si volge intorno al Sole, come anco Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da i Pitagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente provata, come ora in Venere e Mercurio. Avranno dunque il Sig. Keplero e gli altri Copernicani da gloriarsi di aver creduto e filosofato bene, sebbene ci è toccato e ci è per toccare ancora ad essere reputati dall’universalità dei filosofi in libris per poco intendenti e poco meni che stolti.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica Figura 9

Le fasi di Venere. Nel disegno A è raffigurata l’orbita di Venere intorno al Sole secondo il sistema copernicano e si vede come tale sistema si accordi con l’osservazione delle fasi del pianeta. Nel disegno B, invece, è raffigurata l’orbita di Venere intorno alla Terra (con epiciclo), secondo il sistema tolemaico, e si vede come non sia possibile osservare le fasi di Venere in un tale sistema, poiché il centro dell’epiciclo del pianeta è sempre sulla linea retta che congiunge la Terra al Sole.

La soluzione del problema delle macchie solari

Il colpo di grazia per questi «filosofi in libris», «il funerale o piuttosto l’estremo e ultimo giudizio della pseudofilosofia», è rappresentato per Galileo dalla soluzione del problema delle macchie solari alla quale egli arriva grazie alle accurate misure che gli permette l’uso del cannocchiale. Contro l’ipotesi che le macchie fossero causate da corpi in moto nello spazio tra Terra e Sole, Galileo dimostra che esse sono contigue alla superficie del Sole e che il loro moto indica, di conseguenza, un vero e proprio movimento del Sole. Galileo è persuaso che questo non possa creare alcuna difficoltà «agli ingegni specolativi e liberi, che ben intendono non essere mai stato con efficacia veruna dimostrato, né anco potersi dimostrare, che la parte del mondo fuori del concavo dell’orbe lunare non sia soggetta alle mutazioni e alle alterazioni», come scrive in una delle lettere raccolte e pubblicate con il titolo Istorie e dimostrazioni intorno alle macchie solari.

La vita e le opere Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564. La famiglia nel 1574 si trasferì a Firenze, dove Galilei compì i primi studi. Successivamente, per volere del padre, andò all’università di Pisa per studiare medicina, ma provò scarso interesse per la materia e presto tornò a Firenze, dove passò allo studio della matematica e compì le prime osservazioni di fenomeni fisici. Già nel 1583 ottenne i primi importanti risultati con i suoi studi sul moto di oscillazione del pendolo. Dopo una prima pubblicazione tecnico-scientifica, La bilancetta (1586), significativamente dedicata a esporre il suo progetto di uno strumento di misura (una bilancia idrostatica) e alcuni studi letterari, nel 1589 ottenne il suo primo incarico universitario, come lettore di matematica a Pisa. Vi restò per tre anni, durante i quali in-

traprese i primi studi sul moto, e in particolare sul moto di caduta dei gravi, e stese alcuni manoscritti sull’argomento (De motu). Nel 1592 si trasferì all’università di Padova, dove si inserì in un mondo culturale molto vivo e intraprese varie ricerche scientifiche. La prima opera di astronomia che pubblicò è un opuscolo in dialetto padovano, di cui non figura come autore, intitolato Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova (1605). Continuò e si approfondì l’interesse di Galilei per la fabbricazione e l’utilizzo nelle ricerche scientifiche di strumenti di osservazione e di misura. Così nel 1609, avuta notizia di un «occhiale» costruito in Olanda per poter osservare, ingranditi, gli oggetti lontani, egli realizzò un proprio strumento con cui compì le osservazioni poi descritte nel Sidereus Nuncius (1610).

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Nel 1610 tornò in Toscana per ricoprire il posto di «Filosofo e matematico primario» a Firenze. Galilei era pienamente coinvolto nel dibattito sul sistema planetario, punto focale della vita culturale dell’epoca e oggetto di aspre controversie. Nel 1613 venne pubblicata la raccolta di lettere Istorie e dimostrazioni intorno alle macchie solari. Inoltre Galilei iniziò a preoccuparsi del rapporto tra scienza e fede, come testimonia l’importante lettera a Benedetto Castelli (1613). Le preoccupazioni dello scienziato pisano erano fondate, tanto che nel 1615 venne denunciato al Sant’Uffizio dell’Inquisizione romana e nel 1616 arrivarono l’atto di censura e il celebre colloquio con il cardinale Bellarmino. L’oggetto principale del contendere era la teoria copernicana, condannata dalla Chiesa di Roma. Degli anni 1619-1623 è la polemica con il gesuita Orazio Grassi sulle comete; da essa avrà origine una delle opere principali di Galilei, Il Saggiatore (1623). Nello stesso periodo l’atteggiamento della Chiesa sembrò cambiare anche a causa della morte nel 1621 del cardinale Bellarmino e dell’elezione a papa nel 1623,

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con il nome Urbano VIII, del cardinale Maffeo Barberini, noto estimatore di Galileo. Lo scienziato pisano si dedicò allora all’elaborazione di una nuova e definitiva opera in difesa del sistema copernicano, che inizialmente pensò di intitolare Dialogo sopra il flusso e il riflusso delle maree e che sarà finalmente pubblicata nel 1632 con il titolo di Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. Ma la reazione della Chiesa fu di nuovo durissima: la pubblicazione venne confiscata e arrivarono per lo scienziato un nuovo processo davanti al Sant’Uffizio, la condanna al carcere e l’abiura. Lo scienziato ottenne di poter vivere ritirato in casa e si trasferì prima a Siena e poi nella sua villa di Arcetri, vicino a Firenze, dove restò fino alla morte, sopraggiunta nel 1642. Negli ultimi anni Galilei divenne progressivamente cieco, ma riuscì a terminare un’ultima grande opera, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali, pubblicata in Olanda, a Leida, nel 1638.

Lo studio sperimentale e matematico dei moti terreni

La polemica galileiana contro il sapere scientifico tradizionale non si esplica solo nell’ambito dell’astronomia. Un altro terreno su cui Galileo viene a scontrarsi con l’aristotelismo è quello della teoria fisica del moto dei corpi pesanti (o «gravi»), sia in caduta libera sia «proiettati» (cioè lanciati). Le ricerche sul moto occupano tutta la vita scientifica di Galileo: a cominciare dalle prime indagini svolte durante gli anni pisani che precedono il suo trasferimento a Padova nel 1592 (e durante i quali ricopre un posto di lettore di matematica allo Studio di Pisa), fino alla sua ultima grande opera, intitolata Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali, che raccoglie e organizza tutti i suoi risultati sulla fisica e matematica del moto e sulla resistenza dei materiali. La concezione Quando, tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento, Galileo cominaristotelica del moto cia a dedicarsi allo studio dei movimenti dei gravi, una teoria fisica del moto in senso moderno è ancora tutta da costruire. La fisica allora dominante era quella della tradizione aristotelica, le cui tesi principali si fondavano su generalizzazioni di osservazioni empiriche ricavate dall’esperienza quotidiana. Dominava l’idea, basata sul principio che tutto ciò che si muove è mosso (finché dura il movimento) da qualcosa, che ci fosse una distinzione fondamentale e qualitativa tra stato di quiete e stato di moto: l’esperienza comune suggerisce infatti che un carretto stia fermo se non riceve nessuna spinta, che si muova se viene spinto, che il suo moto cessi appena ne cessa la causa (la forza con cui è trascinato). Non esistevano nozioni precise di che cosa fossero la velocità e l’accelerazione (non si sapeva, per esempio, che la velocità media fosse uguale allo spazio percorso diviso per l’intervallo di tempo necessario a percorrerlo); nello studio dei movimenti, l’attenzione era concentrata sulla velocità piuttosto che sull’accelerazione, che si pensava fosse presente solo in una fase iniziale e transitoria del moto;

Le ricerche sulla caduta dei gravi

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La mancanza di una teoria moderna del moto e il ricorso all’astrazione

Un laboratorio per lo studio del moto dei gravi

I primi due risultati fondamentali

e si riteneva, infine, che la velocità del movimento fosse direttamente proporzionale alla forza applicata. Tutte queste supposizioni, apparentemente giustificate dall’immediata esperienza dei sensi, sono errate dal punto di vista della fisica moderna: il principio d’inerzia (la cosiddetta «prima legge di Newton»), secondo il quale ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, a meno che non sia costretto da forze impresse a mutare quello stato, ci dice che non c’è differenza qualitativa tra uno stato di quiete e uno stato di moto rettilineo uniforme, e che ci può dunque essere uno stato di moto senza che venga applicata una forza; la legge fondamentale della meccanica (nota come «seconda legge di Newton»), secondo cui il cambiamento di moto è proporzionale alla forza motrice impressa, stabilisce che è l’accelerazione a essere direttamente proporzionale alla forza applicata, non la velocità. Questo ci fa capire come, per l’uomo di scienza del Seicento, la via per arrivare a una formulazione moderna delle leggi del moto non era quella della semplice generalizzazione a partire da esperienze particolari; allo scienzato Galileo occorreva compiere un’operazione di astrazione dalle situazioni particolari e contingenti che erano oggetto di osservazione. In altre parole, occorreva la capacità di distinguere gli elementi costitutivi del fenomeno indagato da quelli puramente accidentali. Nei suoi studi sul moto dei gravi in caduta libera e dei «proietti» (ossia i corpi lanciati nell’aria), Galileo compie i primi fondamentali passi in questa direzione. Si rende progressivamente conto di come la resistenza del mezzo in cui avviene il moto sia solo un elemento accidentale e non costitutivo del moto, al contrario di quanto si era fin lì ritenuto, e cerca di realizzare esperimenti in condizioni tali da minimizzare l’azione perturbatrice del mezzo: sia con strumenti che riducano gli attriti, sia sperimentando su moti più lenti di quelli dei gravi in caduta libera, come i moti oscillatori dei pendoli e i moti su piani inclinati. Allo stesso tempo costruisce strumenti di misura, come il cronometro ad acqua per misurare gli intervalli di tempo, e ne affina via via la precisione, allestendo nella propria abitazione un vero e proprio laboratorio (anche con l’aiuto di un tecnico). Il cammino che Galileo percorre in questo modo verso una moderna fisica del moto passa attraverso i due seguenti fondamentali risultati, ottenuti rispettivamente nel 1604 e intorno al 1608: 1) la legge di caduta dei gravi: partendo dalla premessa errata che la velocità di un grave in caduta libera sia proporzionale allo spazio percorso (invece che al tempo trascorso, come sarebbe arrivato a concludere correttamente in seguito), Galileo arriva attraverso un ragionamento di natura geometrica alla giusta conclusione che gli spazi percorsi sono proporzionali ai quadrati dei tempi necessari per percorrerli; 2) la forma parabolica delle traiettorie dei proietti: Galileo giunge a questo risultato applicando allo studio dei moti di proietti, come quello descritto da una pallina tra l’istante in cui abbandona il piano inclinato e l’istante in cui colpisce il suolo, la pratica geometrica della composizione dei moti fino ad allora applicata solo ai moti celesti. La concezione tradizionale si fondava sulla distinzione aristotelica tra moto naturale (il moto con cui un corpo tende al proprio ‘luogo naturale’) e moto violento (il moto provocato dall’azione di una forza; vedi p. 74). Perciò il movimento del corpo lanciato nell’aria veniva visto come la successione di due movimenti distinti: prima il corpo è soggetto a un moto violento dovuto al lancio, poi, quando tale moto s’interrompe, riprende 99

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il suo moto naturale di caduta verso il basso. Galileo comprende che non c’è discontinuità tra i due moti (quello dovuto al lancio e quello di caduta), annullando così di fatto la distinzione tra moti naturali e violenti, e che la loro composizione geometrica dà come risultato una traiettoria parabolica. Galilei e il moto dei gravi

Approccio aristotelico

Approccio galileiano

Esperienza quotidiana

Esperienza in condizioni controllate (laboratorio)

Astrazione: vengono isolati gli elementi essenziali

Misure con appositi strumenti

Generalizzazioni di osservazioni quotidiane

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Teorie generali

La teoria della conoscenza del Saggiatore

Le posizioni di Galileo nettamente a favore del sistema copernicano e contro alcune tesi fondamentali della fisica aristotelica cominciarono presto a suscitare critiche e polemiche specialmente negli ambienti religiosi. Galileo, accusato da più parti di voler sovvertire, con i suoi argomenti, la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, comprese di doversi difendere e provò a farlo in una lettera inviata all’amico Benedetto Castelli nel dicembre del 1613, in modo che nell’ambiente della corte dei Medici si venisse a conoscenza di ciò che egli pensava del rapporto tra scienza e fede. La linea difensiva di Galileo si basava sulla distinzione tra verità delle Scritture (verità de fide) e verità della scienza (verità de rerum natura): le divine scritture sono assolutamente vere quando si occupano dei problemi de fide, ma per quanto riguarda i problemi de rerum natura si limitano a pochissimi riferimenti, tali che possano essere compresi da persone senza cultura. Spettava dunque al buon cristiano di interpretare con saggezza quei riferimenti, non fermandosi al senso letterale di quanto era spesso scritto in un linguaggio metaforico. Il tentativo di conciliazione tra teologia e astronomia copernicana operato da Galileo si rivela subito troppo debole e nel 1615 egli viene denunciato al Sant’Uffizio dell’Inquisizione romana per affermazioni «sospette e temerarie» contenute nella lettera al Castelli. La censura Nel febbraio del 1616 i teologi del Sant’Uffizio stendono l’atto di censura sulle del cardinale affermazioni che sostengono il moto della Terra intorno al Sole, e pochi giorni doBellarmino po Galileo viene convocato e ammonito dal cardinale Bellarmino: gli viene ordi-

Un primo tentativo di conciliazione tra scienza e fede

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L’antefatto del Saggiatore

Una polemica sulle comete

Una questione di realtà: qualità oggettive e soggettive dei corpi

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Distinzione tra le qualità oggettive e le qualità soggettive

G. Galilei, Il Saggiatore

nato di «abbandonare completamente detta opinione, non accoglierla, difenderla e insegnarla in alcun modo con parole e con scritti». Poco dopo usciva il decreto di condanna della Sacra Congregazione dell’Indice che proibiva tutti i libri che sostenevano la dottrina copernicana, a partire dal De revolutionibus stesso. A Galileo veniva così «serrata la bocca» e tale sarebbe rimasta fino a quando, nel 1623, non avrebbe dato alle stampe Il Saggiatore. L’occasione che si offre a Galileo per tornare pubblicamente in campo è la polemica con il gesuita Orazio Grassi, matematico presso il Collegio Romano, a proposito della teoria di questo sulle comete. Contro il Grassi, Galileo interviene in realtà già nel 1619, suggerendo all’amico Mario Guiducci il testo del Discorso sulle comete (uscito a nome del Guiducci). A questo testo il Grassi aveva risposto con uno scritto in chiave chiaramente antigalileiana, intitolato Libra astronomica et philosophica, che costituisce l’obiettivo polemico del Saggiatore. Qual era dunque il fulcro della polemica? Il Grassi, contro chi usava il fenomeno delle comete a favore della dottrina copernicana, sosteneva che queste compiono orbite circolari attorno al Sole, elaborando una tesi già difesa da Tycho Brahe, e sostenendola con misure di parallasse da cui deduceva che le comete non potevano muoversi al di sotto dell’orbita lunare. Il suo vero obiettivo, che non sfuggiva a Galileo, era di sostenere la superiorità del sistema ticonico rispetto a quello copernicano. Galileo non disponeva di una teoria sulla natura delle comete e sul loro moto. Ma ciò che lo preoccupava era soprattutto l’idea che si potesse far leva su una teoria delle comete per confutare il sistema copernicano. L’attacco di Galileo alle tesi di Grassi ha dunque come scopo quello di demolire la base osservativa su cui si regge la tesi del gesuita. Il punto che mette a fuoco la questione, per Galileo, diventa così quello della realtà o meno degli oggetti da sottoporre a misura: se quindi le comete siano oggetti reali (come sostengono Tycho Brahe e Grassi) o non lo siano, come egli vuole dimostrare. Il ragionamento sul quale si basa per raggiungere questo scopo è centrato sulla famosa distinzione che introduce tra le qualità oggettive dei corpi (come le configurazioni geometriche, le disposizioni nello spazio, gli stati di movimento e il numero delle parti costituenti i corpi), che esistono indipendentemente dal soggetto conoscente, e le qualità soggettive (come i colori, i sapori, gli odori, i suoni e il calore), cioè le qualità che si costituiscono solo nella relazione dell’oggetto naturale con la sensibilità del soggetto. Per tanto io vi dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba esser bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per sé stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto nel qual ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, siano levate e annichilate 101

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

tutte queste qualità […] Ma che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via le orecchie le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dall’animale vivente non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al naso. La riflessione di Galileo riguarda qui il tema del rapporto tra percezione e realtà, tra ciò che ci appare e ciò che esiste veramente. La conoscenza scientifica deve essere indipendente dalle particolarità del «corpo sensitivo», deve rivolgersi solo a ciò che realmente caratterizza il mondo esterno. Solo in questo modo, cioè riferendosi alle qualità oggettive, la conoscenza può progredire verso la verità. Galileo esprime chiaramente, in questo punto, la tesi del carattere oggettivo della scienza modernamente intesa (quella che, abbiamo visto, nasce con la rivoluzione scientifica): nella descrizione della natura dovevano essere eliminati tutti gli elementi soggettivi e qualitativi che non facevano parte dell’architettura oggettiva dell’universo, quegli elementi su cui invece si erano basate, per esempio, la magia e l’astrologia (fondate proprio sulla possibile influenza dell’uomo sulla natura e della natura sull’uomo). L’argomento di Galilei: Come utilizza dunque Galileo la sua teoria della conoscenza contro la tesi del le comete come Grassi sulle comete? L’argomento di Galileo è il seguente: le comete fanno parte illusioni ottiche del mondo delle apparenze, delle qualità soggettive, e quindi non sono oggetto di scienza. Non sono corpi reali ma illusioni ottiche: tolta la vista, esse svaniscono. Oggi sappiamo che Galileo era in errore nel considerare le comete come pure apparenze, ma la sua argomentazione deve essere giudicata inserendola nel contesto in cui egli opera. All’epoca, dal punto di vista scientifico non c’erano infatti argomenti validi per sostenere il carattere reale delle comete. L’atteggiamento di Galileo era quindi quello di un vero scienzato: i dati a disposizione non permettevano al Grassi di difendere la tesi ticonica delle comete. Il Grassi aveva così scelto in modo infondato il problema delle comete per difendere il sistema ticonico. Per questo Galileo gli rimprovera di essersi basato, nell’agire in tale maniera, più sull’autorità di Tycho Brahe che non su argomenti veri e controllabili. L’errore del Grassi, secondo Galileo, sta proprio nel modo di concepire la filosofia naturale, stimando che «la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo come l’Iliade e l’Orlando Furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero». La filosofia naturale è invece, secondo Galileo, qualcosa di molto diverso. Percezione e realtà: il carattere oggettivo della scienza

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L’universo è un libro scritto in caratteri matematici

G. Galilei, Il Saggiatore

Scopi e criteri di valutazione della scienza

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La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo) ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto. In questo passo diventato famosissimo e che ha fatto parlare di platonismo di Galileo, viene dunque ribadita la ferma convinzione galileiana della necessità di usare gli strumenti adeguati nell’esplorazione della natura: innanzitutto quelli ma-

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

tematici, solo attraverso i quali si può raggiungere la verità sulla struttura fisica oggettiva, e quindi quantitativa, del mondo. E le teorie sulla natura devono essere valutate in base alla verità o meno di quello che dicono, non in base a criteri di autorità. La scienza non si limita a formulare ipotesi per salvare i fenomeni (come sostenevano molti a proposito della teoria copernicana), ma ha lo scopo di svelare, attraverso gli strumenti adatti, come il mondo è veramente fatto. L’immagine della scienza nel Saggiatore

Soggetto

Qualità soggettive (sapore, colore ecc.)

Percezione

Oggetto

Qualità oggettive (caratteristiche misurabili)

Conoscenza scientifica = conoscenza oggettiva = indipendente dalle caratteristiche del soggetto

4 Un nuovo contesto politico, più tollerante

➥ Percorso tematico, p. 753

Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, la condanna, l’abiura Quando Galileo scrive Il Saggiatore la situazione politica era decisamente migliorata. Nel 1621 era morto il cardinale Bellarmino, e nel 1623 era stato eletto come nuovo papa, con il nome di Urbano VIII, il cardinale Maffeo Barberini, che aveva in più occasioni manifestato la sua stima per Galileo. Nel nuovo clima di maggiore tolleranza che si era instaurato, Galileo si sentì incoraggiato a proseguire la sua opera in difesa del copernicanesimo e in particolare a sviluppare il progetto della stesura di un Dialogo sopra il flusso e il riflusso delle maree, con il quale aveva l’intenzione di mettere definitivamente a tacere gli oppositori della dottrina del moto della Terra. Era infatti sua ferma convinzione che la spiegazione del fenomeno delle maree sulla base del moto della Terra costituisse l’argomento fisico decisivo a favore dell’ipotesi copernicana. Sotto tale rispetto egli era in errore, ma si può comprendere come, fedele al suo metodo scientifico, il ‘nuovo uomo di scienza’ Galileo non potesse accettare la spiegazione che si basava su non ben determinati «influssi» da parte della Luna, che all’epoca apparivano alquanto misteriosi e a Galileo sembravano dello stesso genere delle qualità occulte del sapere magico. Il testo sarà pronto agli inizi del 1630, ma Galileo dovrà aspettare il 1632 per ottenere l’autorizzazione alla stampa, e dovrà accettare di cambiare il titolo in Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. 103

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’opera è scritta in volgare, in quanto non è diretta ai ristretti ambienti accademici ma al pubblico ben più vasto della borghesia, del clero e delle corti. Da qui anche il tono colloquiale che è favorito dalla struttura del testo, che riproduce, sotto forma di dialogo, il dibattito fra tre protagonisti: Sagredo (ispirato al patrizio veneziano Giovan Francesco Sagredo, nel cui palazzo si immagina svolgersi la discussione), che raffigura l’intellettuale libero e senza pregiudizi; Salviati (ispirato al fiorentino Filippo Salviati) che impersona lo scienziato che argomenta in modo calmo e misurato a favore della dottrina copernicana; e Simplicio, l’unico personaggio fittizio, che rappresenta il difensore della tradizione aristotelica, e che pur non essendo uno sprovveduto teme ogni novità che vada contro il sapere costituito. Per esempio, a Salviati che argomenta contro la distinzione aristotelica tra il mondo celeste immutabile e incorruttibile e il mondo terreno soggetto al mutamento e alla corruzione, Simplicio risponde: «Questo modo di filosofare tende alla sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordinare e mettere in con quasso il cielo e la Terra e tutto l’universo. Ma io credo che i fondamenti de i Peripatetici sien tali, che non ci sia da temere che con la rovina loro si possano costruire nuove scienze». Simplicio e l’autorità Simplicio rappresenta tipicamente la mentalità che predilige il valore dell’autodi Aristotele rità rispetto alla lezione del ragionamento e dell’esperienza. Se si lascia l’autorità di Aristotele, chiede a un certo punto Simplicio, su quale altra autorità basarsi, «chi ne ha da essere scorta nella filosofia»? La risposta che Galileo dà per mezzo di Salviati è diventata il manifesto del suo pensiero. I personaggi del Dialogo

T15

Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si deva avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica più a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ’l sentir nelle pubbliche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili, uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo. […] Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotele, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.

La struttura del Dialogo in quattro giornate

L’intera discussione fra i tre personaggi è articolata in quattro giornate. La prima giornata è dedicata alla dimostrazione dell’insostenibilità della concezione del mondo secondo la tradizione aristotelica (basata appunto sulla distinzione tra mondo celeste e sublunare), alla quale Galileo contrappone, per mezzo delle argomentazioni del Salviati e del Sagredo, la tesi dell’unicità del mondo fisico, descrivibile da un’unica e medesima scienza. La seconda giornata prende in detta-

Contro il principio dell’autorità

G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi

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Unità 2 La rivoluzione scientifica ➥ Laboratorio di lettura, p. 122

Un impatto brusco

L’Inquisizione blocca la diffusione del Dialogo

➥ Sommario, p. 119

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L’abiura di Galileo

G. Galilei, L’atto di abiura

gliato esame tutti i tipici argomenti rivolti contro l’ipotesi del moto diurno della Terra (cioè della rotazione che la Terra compie in un giorno su se stessa): da quello della pietra lasciata cadere dall’alto di una torre, che dovrebbe toccare il suolo in un punto spostato verso occidente rispetto alla base della torre, a quello del vento che dovremmo sentire per effetto del moto della Terra, o degli effetti centrifughi che da tale moto dovrebbero risultare. A tutti questi argomenti Galileo risponde con quello che poi è stato chiamato il «principio di relatività galileiano»: cioè il principio per cui, in base alle osservazioni compiute all’interno di un determinato sistema di riferimento (per esempio, una nave), non è possibile stabilire se il sistema sia in quiete o in moto uniforme. Nella terza giornata è preso in considerazione il moto annuale della Terra (la rivoluzione che la Terra compie intorno al Sole). Infine nella quarta giornata viene discussa per esteso quella che Galileo ritiene la prova inconfutabile a favore del moto della Terra, cioè la sua teoria del fenomeno delle maree. Il Dialogo venne pubblicato nel febbraio e già nell’estate la reazione ostile contro le sue tesi era diventata così forte da suscitare una presa di posizione da parte dello stesso papa Urbano VIII. Galileo, consapevole della portata della sua opera, aveva cercato di moderarne l’impatto fingendo di aderire, nel proemio e nelle parole conclusive del libro, alla posizione che considerava l’astronomia copernicana alla stregua di pura ipotesi matematica, senza pretesa di descrizione della realtà. Ma questa sua adesione risultava ben poco credibile alla luce del resto dell’opera, e non poteva servire a salvare Galileo dal dramma che si stava preparando. Nel luglio del 1632 l’Inquisitore di Firenze diede l’ordine di sospendere la diffusione del Dialogo e di confiscare tutte le copie esistenti. Il testo fu mandato alla Congregazione del Sant’Uffizio e in ottobre fu intimato a Galileo di recarsi a Roma e mettersi a disposizione del Commissario dell’Inquisizione. Galileo riuscì a rimandare la partenza per qualche mese, ma nel gennaio del 1633 dovette alla fine mettersi in viaggio per presentarsi al Sant’Uffizio. La triste vicenda terminò con la sentenza di condanna emessa il 22 giugno del 1633. Nello stesso giorno Galileo fu costretto a leggere un pubblico atto d’abiura. Io Galileo, figliolo del q. Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, […] con cuore sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Bacone e il metodo scientifico

6 I testi

F. Bacone Il parto maschio del tempo: La magia tradisce l’esperienza, T17; Accusa alla filosofia contemplativa, T18 Nuovo Organo: Gli «idoli» condizionano anche chi ha accesso alla verità, T19; I quattro tipi di «idoli», T20; I tre passaggi del metodo induttivo, T23; La tavola della presenza, T24; Interpretare per andare oltre le tre tavole, T25; L’esperimento cruciale, T26; Api, ragni e formiche: la scienza oltre

Una carriera politica importante

Francis Bacon, o Francesco Bacone, è insieme con Galilei il grande pensatore grazie al quale il sapere scientifico acquisisce consapevolezza del proprio metodo e delle proprie potenzialità pratiche. Ma Bacone è anche una figura peculiare rispetto agli altri protagonisti della rivoluzione scientifica. Se essi, come abbiamo visto, hanno praticato direttamente la scienza, Bacone non fu uno scienziato ma principalmente un politico.

La vita e le opere Francis Bacon (italianizzato in Francesco Bacone), nacque a Londra il 22 gennaio 1561, figlio di sir Nicholas Bacon, per vent’anni Lord Guardasigilli della regina Elisabetta. Dopo gli studi di legge a Cambridge, al Trinity College, venne avviato alla carriera diplomatica; si recò in Francia al seguito dell’ambasciatore inglese. Alla morte del padre tornò in Inghilterra dove fece l’avvocato e avviò una brillante carriera politica che lo portò presto in parlamento. Con l’ascesa al trono di re Giacomo I la carriera di Bacone ebbe un’impennata tanto da giungere alle cariche di Lord Guardasigilli e poi di Lord Cancelliere e ai titoli di barone di Verulamio e di visconte di Sant’Albano. Già negli anni della più intensa attività politica, Bacone scrisse numerose opere filosofiche, tra le quali i primi due volumi della Instauratio magna («La grande Instaurazione», la raccolta delle sue opere principali): La dignità e il progresso del sapere divino e umano (1605) e, importantissimo, il Nuovo Organo (1620). Scrisse inoltre alcune opere di rilievo che saranno pubblicate postume, L’annuncio di una nuova cultura

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l’empirismo e il dogmatismo, T27; Conoscenza della causa formale e principi della trasformazione dei corpi, T28; Il rapporto dell’uomo con la natura e l’importanza degli strumenti, T29 La grande Instaurazione: Critica dell’uso del sillogismo, T21; L’enumerazione semplice, T22 Nuova Atlantide: Gli strumenti tecnici immaginati da Bacone, T30

tra le quali si ricordano Il parto maschio del tempo (terminato nel 1603) e La confutazione delle filosofie (1608). In politica Bacone si trovò al centro di molte controversie. Da sempre convinto lealista e sostenitore del potere monarchico, attirò l’ostilità di molti parlamentari. Nel 1621, accusato di corruzione nel momento in cui il re Giacomo I convocava il parlamento per l’imposizione di nuove tasse, ammise la sua colpevolezza ed evitò il carcere, ma subì l’interdizione dai pubblici uffici e si ritirò a vita privata. Si dedicò allora agli studi a tempo pieno, fino alla morte improvvisa nel 1626. Nell’ultimo periodo scrisse una rielaborazione del precedente volume La dignità e il progresso del sapere divino e umano, intitolata De dignitate et augmentis scientiarum («Sulla dignità e l’accrescimento delle scienze», 1623), e i due tomi del III volume della Instauratio magna, rispettivamente intitolati Historia naturalis et experimentalis («Storia naturale e sperimentale», 1622) e Silva silvarum («La selva della selve», pubblicato postumo nel 1627). Quest’ultimo testo reca in appendice la Nuova Atlantide, incompiuta.

Con Bacone si afferma la consapevolezza, di fronte alla nascente scienza della natura e alle numerose scoperte e invenzioni, della necessità di un nuovo modo di praticare la filosofia e più in generale di una nuova cultura. Secondo Bacone, questo rinnovamento del sapere avrebbe avuto grandi conseguenze pratiche e

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avrebbe condotto a un’epoca che si sarebbe differenziata da tutte le altre; di questo nuovo periodo della storia dell’umanità egli stesso si attribuì il ruolo di annunziatore e di iniziatore.

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Gli errori della tradizione

Per giungere a questo rinnovamento occorre, secondo Bacone, rifiutare nettamente la filosofia del passato. La critica alla tradizione è il passo indispensabile per costruire la filosofia della nuova epoca, sebbene nella sua opera, come si vedrà in seguito, siano ancora presenti temi della tradizione (della magia, dell’astrologia, dell’aristotelismo e del platonismo). Due sono i principali obiettivi polemici verso i quali, fin dai suoi primi lavori filosofici, Bacone indirizza la propria attenzione: il sapere della magia e il sapere della filosofia tradizionale, ai quali contrappone il sapere della scienza e la filosofia sperimentale che nasce dal contatto diretto con la natura e l’esperienza. Critica della magia Il sapere della magia è un sapere segreto e solo per iniziati, mentre il sapere dele contrapposizione la scienza è di carattere pubblico e intersoggettivo; il sapere della magia cerca con la scienza cause occulte, non controllabili empiricamente, mentre il sapere della scienza si basa sull’osservazione empirica e sulla ripetizione sperimentale. L’esperienza costituisce, per Bacone, la guida della filosofia. Nella sua prima e breve opera filosofica, Il parto maschio del tempo, il filosofo inglese si scaglia duramente contro le imposture dei maghi e contro Paracelso, il principale esponente delle correnti magiche e alchimistiche del Cinquecento.

Primo passo: la critica della tradizione

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Tu non soltanto, come i Sofisti, hai oscurato la luce della natura (il cui santissimo nome la tua impura bocca pronuncia tante volte), ma l’hai spenta addirittura. Essi disertano l’esperienza, tu l’hai tradita. L’evidenza che proviene dalle cose è ancora cruda e maschera la realtà, tu hai sottoposto quest’evidenza a un’interpretazione già preordinata. Invece del calcolo dei movimenti, hai cercato le trasformazioni delle sostanze e in tal modo hai tentato di corrompere le fonti della scienza e di spogliare la mente degli uomini. Alle difficoltà e alle oscurità degli esperimenti […] hai aggiunto ostacoli nuovi ed estranei. E dunque non è vero che tu abbia conosciuto o seguito la guida dell’esperienza! Hai fatto anzi tutto il possibile per accrescere l’ingordigia dei maghi.

La filosofia tradizionale è una filosofia di parole

Anche il sapere della filosofia della tradizione è stato cieco di fronte all’esperienza, e proprio per questo motivo è risultato oscuro e sterile: una filosofia delle parole senza contatto con la realtà, e perciò incapace di avere conseguenze pratiche, di dar luogo a invenzioni e scoperte. Fino dai tempi della Grecia classica, fino da Platone e Aristotele, secondo Bacone, la filosofia ha preferito le vie dell’astrazione all’analisi attenta della realtà. La filosofia greca ha poi tramandato questo carattere a quella successiva, fino alla filosofia a lui contemporanea. Tutto ciò non è stato solo il frutto di un errore filosofico, ma una vera e propria colpa morale dei filosofi del passato, che hanno peccato di superbia intellettuale, sostituendo al difficile lavoro di indagine della natura la speculazione astratta e la contemplazione interiore. Leggiamo nel brano che segue l’atto d’accusa che Bacone rivolge a Platone.

La magia tradisce l’esperienza

F. Bacone, Il parto maschio del tempo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

T18

Accusa alla filosofia contemplativa F. Bacone, Il parto maschio del tempo

Il rifiuto dell’autorità della tradizione

Magia, scienza e filosofia contemplativa

Quando asserisci falsamente che la verità è abitante nativo della mente umana e non viene dall’esterno, quando distogli le nostre menti dalle osservazioni della storia e delle cose, verso le quali invece non si è mai sufficientemente attenti ed obbedienti, quando ci insegni a volgere all’interno gli occhi della mente e ad umiliarci davanti ai nostri idoli ciechi e confusi sotto il nome di contemplazione, allora tu commetti una colpa capitale. Inoltre, come già Galileo, Bacone rimprovera alla filosofia della tradizione di aver preferito alla guida dell’esperienza l’autorità di pochi filosofi del passato. Essa si è accontentata delle loro dottrine, dedicandosi all’interpretazione dei testi, e non è progredita nello studio della natura. La conseguenza è che le scienze sono rimaste per duemila anni «nello stesso stato senza nessun progresso degno di nota», come scrive in un’opera composta nel 1608, La confutazione delle filosofie: «Dio non vi ha fatto dono di anime razionali perché portiate a degli uomini il tributo che dovete al vostro Autore (vale a dire la fede che è dovuta a Dio e alle cose divine), né vi ha accordato fermi e validi sensi per studiare gli scritti di pochi uomini, ma per studiare il cielo e la terra che sono opera di Dio».

Magia La verità è in interpretazioni preordinate rispetto all’esperienza

Scienza sperimentale L’interpretazione dell’esperienza deve essere ricavata dall’esperienza stessa

Filosofia contemplativa La verità è nella mente dell’uomo e quindi non si deve guardare all’esperienza

Mondo naturale

Non c’è sapere eterno

2 Errori che si frappongono tra l’intelletto e la realtà

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Al culto dell’autorità e alla sapienza degli antichi, Bacone obietta che non c’è un sapere che possa essere considerato indubitabile e la cui autorità sia eterna e si debba imporre a tutti. Come si esprime in un’altra opera di questo periodo, i Pensieri e conclusioni sull’interpretazione della natura o sulla scienza operativa: «per universale consenso la verità è figlia del tempo».

La teoria degli «idoli» Tutte queste errate concezioni della tradizione filosofica sono dovute al fatto che la mente umana soltanto con molta difficoltà riesce ad avere un accesso alla realtà diretto e scevro da pregiudizi. Nell’intelletto umano si radicano, infatti, tutta una serie di errori e false illusioni – «idoli» vengono chiamati da Bacone (idola, in latino): cioè forme vane di sapere – che risultano di ostaco-

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lo alla corretta comprensione della realtà. Da questi errori l’uomo si deve liberare se vuole approdare al raggiungimento della verità e alla conoscenza della natura. La teoria degli idoli è contenuta in un’opera pubblicata nel 1620, il Nuovo Organo, nella quale vengono fissate le tesi principali della filosofia di Bacone.

T19

Gli «idoli» condizionano anche chi ha accesso alla verità F. Bacone, Nuovo Organo

Prima tipologia: gli idoli della tribù

Seconda tipologia: gli idoli della spelonca

Terza tipologia: gli idoli del foro

Quarta tipologia: gli idoli del teatro

T20

I quattro tipi di «idoli»

F. Bacone, Nuovo Organo

Gli idoli e le false nozioni che sono penetrati nell’intelletto umano fissandosi in profondità dentro di esso, non solo assediano le menti in modo da rendere difficile l’accesso alla verità, ma addirittura (una volta che questo accesso sia dato e concesso) di nuovo risorgeranno e saranno causa di molestia anche nella stessa instaurazione delle scienze: almeno che gli uomini, preavvertiti, non si agguerriscano per quanto è possibile contro di essi. Gli errori da cui la mente umana può essere sviata sono, a seconda della loro origine, di quattro tipi: gli «idoli della tribù», gli «idoli della spelonca», gli «idoli del foro» e gli «idoli del teatro». Gli idoli della tribù (idola tribus) derivano dalla natura della specie umana, in particolare dalla tendenza naturale della mente a semplificare e a deformare le cose, e dalla naturale insufficienza dei sensi a cogliere gli aspetti più reconditi della natura. Proprio in quanto tendenze naturali, essi sono comuni a tutti gli uomini. Gli idoli della spelonca (idola specus) sono invece gli errori che hanno origine nella natura singolare di ogni individuo, la quale, a causa della sua propria e particolare costituzione, dell’educazione ricevuta, dell’influsso dell’ambiente e delle circostanze esterne, riflette sempre in modo diverso la luce della natura, così come – dice Bacone con un implicito riferimento al mito della caverna di Platone – in una spelonca viene riflessa la luce che viene dall’esterno. Gli altri due tipi di errori non derivano dalle caratteristiche generali o singolari della natura umana, ma direttamente dalla realtà esterna rispetto all’uomo. Gli idoli del foro (idola fori) hanno origine nelle caratteristiche dell’interazione e del consorzio tra gli uomini, e in particolare nel linguaggio usato in questa interazione, il quale, nascendo da un uso comune e volgare, porta con sé le tracce dell’ignoranza. Il foro, cioè la piazza e il mercato, è il luogo esemplare in cui avviene il contatto fra gli uomini e in cui nascono gli errori di questo tipo; la maggior parte di essi deriva da un uso confuso e ambiguo delle parole, oppure dall’uso delle parole per riferirsi a oggetti inesistenti. Gli idoli del teatro (idola theatri), sono invece gli errori che si possono imputare alle diverse teorie apparse sulla scena della filosofia: esse hanno creato false rappresentazioni della realtà e della natura, storie immaginarie analoghe a quelle che vengono recitate sul palcoscenico di un teatro. Di questo genere sono per esempio, secondo Bacone, la dottrina dei quattro elementi o la teoria del moto circolare dei pianeti. Gli idoli della tribù sono fondati sulla stessa natura umana e sulla stessa tribù o razza umana. Pertanto si asserisce falsamente che il senso è la misura delle cose. Al contrario, tutte le percezioni, sia del senso che della mente, derivano dall’analogia con l’uomo, non dall’analogia con l’universo. L’intelletto umano è simile a uno specchio che riflette irregolarmente i raggi delle cose, che mescola la sua propria natura a quella delle cose e le deforma e le travisa. […] 109

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Gli idoli della spelonca sono idoli dell’uomo in quanto individuo. Ciascuno infatti (oltre alle aberrazioni proprie della natura umana in generale) ha una specie di propria caverna o spelonca che rifrange e deforma la luce della natura: o a causa della natura propria e singolare di ciascuno, o a causa dell’educazione e della conversazione con gli altri, o della lettura di libri, e dell’autorità di coloro che vengono onorati e ammirati, o a causa delle diversità delle impressioni a seconda che siano accolte da un animo già condizionato e prevenuto oppure sgombro ed equilibrato. […] Vi sono poi gli idoli che derivano quasi da un contratto e dalle reciproche relazioni del genere umano: li chiamiamo idoli del foro a causa del commercio e del consorzio degli uomini. Gli uomini infatti si associano per mezzo dei discorsi ma i nomi vengono imposti secondo la comprensione del volgo e tale errata e inopportuna imposizione ingombra straordinariamente l’intelletto. […] Le parole fanno violenza all’intelletto e confondono ogni cosa e trascinano gli uomini a innumerevoli e vane controversie e finzioni. […] Vi sono infine gli idoli che sono penetrati nell’animo degli uomini dai vari sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni. Li chiamiamo idoli del teatro perché consideriamo tutte le filosofie che sono state accolte e create come altrettante favole presentate sulla scena e recitate, che hanno prodotto mondi fittizi da palcoscenico. Non parliamo soltanto dei sistemi filosofici attuali o delle antiche filosofie e delle antiche sette, perché è sempre possibile comporre e combinare molte altre favole dello stesso tipo. Interpretazione della natura contro anticipazione della natura

Anticipazione della natura e interpretazione della natura

Tutti questi idoli conducono a delle errate rappresentazioni della natura e della realtà. Ci sono, infatti, due modi di rappresentare la natura, uno errato e uno vero. Le rappresentazioni errate sono chiamate da Bacone «anticipazioni della natura»: esse sono errate perché prodotte frettolosamente dall’esame di pochi dati o dall’esame soltanto dei dati più abituali. Le rappresentazioni vere sono invece chiamate «interpretazioni della natura»: esse sono vere perché prodotte dall’esame di molti dati, inclusi quelli meno abituali. Le interpretazioni della natura, cioè, sono vere perché prodotte seguendo il corretto metodo di acquisizione della conoscenza: l’induzione, di cui si tratterà nel prossimo paragrafo. Gli errori della tradizione sono dunque anticipazioni e non interpretazioni della natura, ed essi sono destinati a essere scacciati qualora venga seguito il metodo corretto, attraverso il quale è possibile giungere a una rappresentazione non deformata della realtà: «ricavare i concetti e gli assiomi per mezzo dell’induzione vera: questo è senza dubbio il rimedio adatto per scacciare e rimuovere gli idoli».

Conoscenza erronea («idoli»)

Anticipazione della natura

Conoscenza scientifica

Interpretazione della natura

L’interpretazione della natura conseguita grazie al metodo scientifico è una rappresentazione corretta di essa perché evita gli idoli che si frappongono tra la mente umana e la conoscenza della natura e che distorcono le rappresentazioni tradizionali

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3 Un Nuovo Organo per superare la logica aristotelica

Il metodo della scienza Il metodo di acquisizione della conoscenza viene delineato da Bacone nel Nuovo Organo. Già dal titolo quest’opera si pone come la presentazione di una nuova logica, in grado di superare la vecchia logica contenuta nell’Organo aristotelico. Di questo metodo si sarebbe dovuta avvalere la scienza nella sua opera di conoscenza della realtà. Il primo passo compiuto da Bacone è quello di criticare la logica deduttiva di Aristotele come una logica sterile e inadatta alla scienza della natura. Il metodo sillogistico aristotelico deduce da alcuni assiomi generali delle conclusioni particolari attraverso delle assunzioni intermedie (come nel noto sillogismo: tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, allora Socrate è mortale). Il metodo sillogistico, sostiene Bacone, è formalmente ineccepibile, ma è sterile, perché le conclusioni non aggiungono niente a quanto già contenuto nelle premesse; ed è inadatto alla scienza, perché non dà garanzie che le premesse siano vere e ricavate in maniera corretta dalla realtà naturale.

T21

Noi respingiamo la dimostrazione per mezzo del sillogismo, perché essa non produce che confusione, e fa sì che la natura ci sfugga dalle mani. Quantunque infatti nessuno possa dubitare che due cose che si accordano con un termine medio, si accordino anche fra di loro (che è una specie di certezza matematica), tuttavia è qui nascosto un inganno: perché il sillogismo consta di proposizioni, le proposizioni di parole e le parole sono le etichette e i segni delle nozioni. Pertanto se le nozioni della mente (che sono come l’anima delle parole e le basi di tutta questa struttura e di questo edificio) sono vaghe, falsamente o arbitrariamente astratte dalle cose, non sufficientemente definite e delimitate, e infine in molti modi erronee, tutto l’edificio crolla. Respingiamo dunque il sillogismo, e non solo per ciò che concerne i principi (ai quali neppure i logici lo applicano), ma anche per quanto riguarda le proposizioni medie, che senza dubbio il sillogismo produce e partorisce, ma che sono sterili di opere, remote dalla pratica e prive di valore relativamente alla parte attiva delle scienze.

Critica della concezione aristotelica dell’induzione

Ma anche Aristotele non si era limitato al metodo sillogistico-deduttivo. Aveva affiancato ad esso un procedimento induttivo attraverso il quale, dall’esame dei casi particolari, si poteva passare a principi di carattere generale. Tuttavia, il modo aristotelico di concepire l’induzione è, secondo Bacone, scorretto: l’induzione di Aristotele si limita a trarre immediatamente dal particolare il generale, e in ciò consiste il suo errore. Essa si basa su quella che Bacone chiama «enumerazione semplice»: l’enumerazione di una serie di casi da cui immediatamente viene indotto il principio generale. Il passaggio dal caso particolare ai principi generali deve invece essere un passaggio graduale, che non trae il generale immediatamente dal particolare, come nel caso dell’induzione per enumerazione semplice, ma che «induce» dal particolare prima degli «assiomi medi», dai quali possono poi essere indotti gli «assiomi generali». L’induzione così concepita non è quindi mera generalizzazione, ma è una vera e propria «interpretazione» della realtà.

T22

Finora il procedimento era questo: dal senso e dai particolari si volava ai principi più generali come verso poli fissi intorno ai quali si svolgono le dispute; da questi principi poi si facevano derivare tutti gli altri mediante proposizioni medie. Metodo, questo, senza dubbio molto rapido, ma precipitoso, inadatto a con-

Critica dell’uso del sillogismo F. Bacone, La grande Instaurazione

L’enumerazione semplice F. Bacone, La grande Instaurazione

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

durci alla natura e invece adatto e favorevole alle dispute. Secondo noi invece gli assiomi devono ricavarsi insensibilmente e gradatamente in modo da giungere solo in ultimo ai principi generali. Questi principi, in tal modo, riescono non puramente ideali, ma ben determinati e tali che la natura li riconosca come suoi propri e più noti a sé ed essi ineriscano al midollo delle cose. Ma dobbiamo apportare grandissimi cambiamenti anche alla forma stessa dell’induzione e al giudizio che per mezzo di essa si compie. Infatti quell’induzione di cui parlano i dialettici, e che procede per semplice enumerazione, è qualcosa di puerile che conclude precariamente ed è esposta al pericolo di una istanza contraddittoria; essa coglie soltanto i fatti consueti e non perviene a una conclusione. Alle scienze è necessaria un’induzione di forma tale da risolvere e analizzare l’esperienza e concludere necessariamente mediante legittime esclusioni ed eliminazioni. Il metodo induttivo basato sull’esclusione

T23

I tre passaggi del metodo induttivo

F. Bacone, Nuovo Organo

Questa nuova induzione non si basa, quindi, sulla semplice enumerazione ma sull’esclusione. È solo dopo l’attenta scelta dei casi e delle conclusioni non essenziali che si giunge agli assiomi medi e da qui agli assiomi generali. Il procedimento ideato da Bacone prevede tre passaggi: come primo passo deve essere predisposto un attento lavoro di raccolta dei dati, che Bacone chiama «storia naturale e sperimentale»; questo lavoro da solo non è tuttavia sufficiente, in quanto i dati così raccolti mancano di ordine; come secondo passo devono quindi essere predisposte delle «tavole» in cui i dati sono registrati e ordinati; solo su questa base è possibile il terzo passo, costituito dall’induzione per eliminazione. In primo luogo bisogna infatti preparare una storia naturale e sperimentale sufficiente e buona: essa è il fondamento di tutto; e non si deve immaginare o escogitare, ma scoprire quello che la natura fa o produce. Ma la storia naturale e sperimentale, è tanto varia e sparsa da confondere e disgregare l’intelletto, se non venga fissata e disposta nell’ordine adatto. A questo scopo bisogna preparare tavole e coordinazioni delle istanze, strutturate in modo tale che l’intelletto possa agire su di esse. Ma, anche ciò fatto, l’intelletto abbandonato a sé e al suo spontaneo movimento è inadatto e incapace alla costruzione degli assiomi, se non venga guidato e aiutato. Così in terzo luogo si deve ricorrere alla induzione legittima e vera che è la chiave stessa dell’interpretazione.

I due tipi di induzione

Dati particolari dell’esperienza

Storia naturale (raccolta dei dati particolari)

Induzione tradizionale (scienza aristotelica)

Tavole e coordinazioni dei casi particolari

Enumerazione semplice

(Generalizzazione)

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Induzione per eliminazione

Teorie generali

(Interpretazione)

Induzione baconiana

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Unità 2 La rivoluzione scientifica Tre tipi di tavole per ordinare i dati

T24

La tavola della presenza

F. Bacone, Nuovo Organo

La tavola dell’assenza e la tavola dei gradi

La «prima vendemmia», prima ipotesi provvisoria di spiegazione

T25

Interpretare per andare oltre le tre tavole

F. Bacone, Nuovo Organo

Le tavole in cui vengono ordinati i dati dell’esperienza sono di tre tipi: «tavole della presenza», «tavole dell’assenza» e «tavole dei gradi». Nella tavola della presenza vengono riportati tutti casi in cui compare il fenomeno di cui si cerca la spiegazione; per esempio tutti i casi in cui si manifesta il fenomeno del calore: i raggi del sole, i vari tipi di fiamma, i fulmini e così via. […] sopra una natura data si deve fare un ordine di comparizione, di fronte all’intelletto, di tutte le istanze note che si trovano insieme in una stessa natura, anche se in materie oltremodo differenti. E quest’ordine di comparizione dev’essere fatto storicamente, senza far uso di speculazioni affrettate o di eccessive sottigliezze. Per esempio, nell’indagine della forma del caldo: Istanze che si trovano insieme nella natura del caldo 1. I raggi del sole, soprattutto d’estate e a mezzogiorno 2. I raggi del sole riflessi e condensati, come fra i monti o fra pareti e soprattutto negli specchi ustori 3. Le meteore infuocate 4. I fulmini ardenti 5. Le eruzioni di fiamme dalle viscere dei monti, ecc. […] Denominiamo questa tavola: Tavola dell’Essenza e della Presenza Nella tavola dell’assenza («Tavola della Deviazione o dell’Assenza in Prossimità») vengono riportati tutti i casi che sono prossimi e simili ai precedenti, ma nei quali il fenomeno che viene indagato è assente, per esempio i raggi della luna, i raggi delle comete, i fuochi fatui, i lampeggiamenti che fanno luce ma non bruciano ecc. Nella tavola dei gradi («Tavola dei gradi o comparativa»), infine, sono riportati i casi in cui il fenomeno è presente ma varia per gradi di intensità, «sia che la comparazione dell’aumento e della diminuzione venga fatta in uno stesso soggetto, sia che venga fatta in soggetti diversi». Attraverso una stesura esauriente delle tavole, si può giungere all’esclusione delle ipotesi non pertinenti (per esempio che la causa del calore risieda nella «luce», perché il calore è presente nei metalli riscaldati al di sotto dell’incandescenza, o che risieda nella «tenuità», perché anche un materiale denso come l’oro può essere facilmente riscaldato, e così via); e si può tentare una prima provvisoria ipotesi di spiegazione, che è detta da Bacone «prima vendemmia» (vindimiatio prima): per esempio che il calore sia una specie di moto, un moto che tende a dilatare il corpo, che tende verso l’alto, che non appartiene a tutto il corpo ma solo alle sue parti e che è molto rapido. Ma poiché la verità emerge più in fretta dall’errore che dalla confusione, riteniamo utile permettere all’intelletto, dopo aver fatto e soppesato le tre Tavole di prima citazione (così come le abbiamo poste) di accingersi a tentare l’opera di interpretazione della natura nell’affermazione, sia partendo dalle istanze comprese nelle Tavole, sia dalle altre che mano a mano si prestino. Siamo soliti chiamare questo tipo di tentativo, Permesso dell’intelletto, o Interpretazione iniziale, oppure Prima Vendemmia. […] Sulla base di questa Prima Vendemmia, la forma o definizione vera del calore (di quello che è in ordine all’universo e non relativo soltanto al senso) è, espressa in poche parole, la seguente: Il caldo è un moto espansivo, trattenuto, che opera mediante le parti minori del corpo. 113

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La conferma della «prima vendemmia»

T26

L’esperimento cruciale

F. Bacone, Nuovo Organo

4 Il bilanciamento tra esperienza e ragione

T27

Api, ragni e formiche: la scienza oltre l’empirismo e il dogmatismo

F. Bacone, Nuovo Organo

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L’ultimo passaggio per capire se il procedimento di induzione risulta corretto e se siamo quindi di fronte a una vera interpretazione della natura, è costituito dal sottoporre le ipotesi a cui si giunge dopo la prima vendemmia a numerosi esperimenti di conferma, chiamati «istanze prerogative». L’istanza più importante è il cosiddetto «esperimento cruciale» (instantia crucis), attraverso il quale si arriva a selezionare una sola spiegazione fra più ipotesi possibili, scartando le altre come errate, così come a un incrocio si sceglie quale strada seguire scartando tutte le altre. Tra le istanze prerogative metteremo al quattordicesimo posto le istanze cruciali, con termine preso in prestito alle croci che si mettono ai bivi delle strade ad indicare la biforcazione. […] Il loro scopo è questo: quando nell’indagine su una natura, l’intelletto è come in equilibrio, incerto se attribuire e assegnare a una tra due o più nature la causa della natura su cui indaga, dato il concorso frequente e ordinario di più nature, allora le istanze cruciali mostrano che l’unione di una sola di queste nature con la natura indagata è certa e indissolubile, mentre quella con le altre è varia e separabile. Sicché la questione è risolta, e la prima natura è accolta come causa, mentre l’altra è abbandonata e ripudiata. Queste istanze recano quindi moltissima luce, e hanno grande autorità, tanto che qualche volta il processo dell’interpretazione si arresta ad esse e da esse è concluso.

La conoscenza delle forme Il metodo induttivo così delineato si presenta come un procedimento in cui i dati raccolti dall’esperienza vengono bilanciati con le ipotesi e le congetture della ragione. Bacone stesso è consapevole dell’importanza di questo equilibrio fra esperienza e ragione, per evitare i difetti insiti nel privilegiare solo l’esperienza – è la posizione di coloro che chiama «empirici» – , oppure nel privilegiare solo la ragione – è la posizione di coloro che chiama «dogmatici» o «razionalisti». Utilizzando una similitudine che diverrà poi famosa, i primi sono paragonati alle formiche, che consumano direttamente il materiale da loro accumulato, i secondi ai ragni, che creano da sé la tela che darà loro nutrimento; la posizione corretta è quella che unisce le virtù di entrambe le posizioni: cioè quella delle api, che ricavano il nutrimento dall’esterno, ma lo trasformano secondo la propria natura. Coloro che trattarono le scienze furono o empirici o dogmatici. Gli empirici, come le formiche, accumulano e consumano. I razionalisti, come i ragni, ricavano da sé medesimi la loro tela. La via di mezzo è quella delle api, che ricavano la materia prima dai fiori dei giardini e dei campi, e la trasformano e digeriscono in virtù della loro propria capacità. Non dissimile è il lavoro della vera filosofia che non si deve servire soltanto o principalmente delle forze della mente; la materia prima che essa ricava dalla storia naturale e dagli esperimenti meccanici non deve essere conservata intatta nella memoria ma trasformata e lavorata dall’intelletto. Così la nostra speranza è riposta nell’unione sempre più stretta e più santa delle due facoltà, quella sperimentale e quella razionale, unione che non si è finora realizzata.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Il fine del procedimento induttivo è quello di giungere alla conoscenza della «forma» della cosa studiata, cioè di ciò che viene considerato l’essenza profonda e la vera natura della cosa; una conoscenza che Dio ha immediatamente ma che l’uomo può raggiungere solo attraverso il metodo induttivo. Delle quattro cause individuate da Aristotele – materiale, finale, efficiente e formale – Bacone scarta infatti le prime tre come inutili e sterili, e ritiene essenziale solo la causa formale, sforzandosi di dare a questa nozione un significato nuovo. Forma, schematismo La nozione di forma è connessa ad altri due concetti introdotti da Bacone, quellatente e processo lo di «schematismo latente» e quello di «processo latente»: lo schematismo lalatente tente è la struttura ultima e non percepibile di un particolare fenomeno; il processo latente è il processo di trasformazione, anch’esso non immediatamente visibile ai sensi, del fenomeno. Conoscere la forma è allora conoscere lo schematismo e il processo latente, la struttura essenziale e la legge che regola la trasformazione del fenomeno: «compito e scopo dell’umana scienza è trovare la forma di una natura data, ossia la differenza vera, o natura naturante o fonte di emanazione (questi sono i termini di cui disponiamo che più si avvicinano ad indicare la cosa). [A questo compito ne è subordinato un altro:] la scoperta in ogni generazione e movimento, del processo latente reso ininterrotto dal processo efficiente manifesto e dalla materia manifesta fino alla forma che è posta all’interno; e allo stesso modo la scoperta dello schematismo latente dei corpi che sono in quiete e non in movimento». La forma delle cose come oggetto della scienza

Il percorso della scienza nella ricerca della conoscenza delle forme

Una concezione ancora qualitativa della scienza

Da

a

Natura manifesta ai sensi (fenomeni)

Essenza nascosta dei fenomeni naturali (natura latente)

Processualità: generazione movimento

Processo latente

Corpi in quiete

Schematismo latente

Uno dei problemi maggiori nell’interpretazione del pensiero di Bacone è spiegare cosa egli intenda con la nozione di «forma»; ed è anche uno degli aspetti in cui è apparso più evidente il legame con la tradizione aristotelica e scolastica. Come quella tradizione, Bacone privilegia un’analisi qualitativa della realtà, lasciando fuori della sua attenzione quanto invece si era già affermato con Keplero e Galileo: la centralità della nozione di causa efficiente, a cui preferisce quella di causa formale, da una parte, l’uso della matematica ai fini della scienza dall’altra. La matematica è ancora considerata da Bacone come qualcosa di estraneo al procedimento scientifico, come uno strumento utile a rendere conto di un ordine metafisico di armonia universale, così come essa era stata concepita nella tradizione platonica. 115

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Parte prima La nascita della filosofia moderna L’alchimia e la trasformazione dei corpi

T28

Conoscenza della causa formale e principi della trasformazione dei corpi

F. Bacone, Nuovo Organo

Non solo, ma la conoscenza delle forme avrebbe per Bacone aperto alla scienza orizzonti sorprendenti, tanto da essere soddisfatte le stesse aspirazioni della magia e dell’alchimia. Bacone ritiene, come gli alchimisti, che una volta conosciute le nature semplici di un corpo, sia possibile separarle da esso; si possa per esempio separare una pietra dal suo colore, dal suo peso, dalla sua duttilità ecc., e introdurre tali nature in un altro corpo, tanto da poter trasformare una qualsiasi pietra in oro. Se uno conosce la causa di qualche natura (come della bianchezza o del colore) soltanto in alcuni soggetti particolari, la sua scienza è imperfetta; e se può indurre un effetto soltanto sopra alcune materie (tra quelle che ne sono suscettibili) egualmente la sua potenza è imperfetta. Se uno conosce soltanto la causa efficiente e quella materiale (che sono cause variabili e nient’altro che veicoli e cause che in alcuni casi trasportano la forma), può sì raggiungere nuove scoperte in materie abbastanza simili e predisposte, ma non penetrare più a fondo i termini fissi delle cose. Ma, chi conosce le forme, questi abbraccia l’unità della natura nelle materie più diverse. Può dunque scoprire e produrre cose che ancora non sono state realizzate: quali né gli accadimenti naturali, né le attività sperimentali, né il caso stesso hanno mai portato a compimento o sottoposto alla riflessione umana. Perciò dalla scoperta delle forme discende la contemplazione vera e l’operare libero. […] Il precetto o assioma della trasformazione dei corpi è di duplice genere. Il primo genere riguarda il corpo come un insieme di nature semplici. Così nell’oro si trovano insieme queste: è giallo; pesante di un determinato peso; malleabile e duttile sino a un certo grado di estensibilità; non si volatilizza né perde di quantità nel fuoco; fonde con un certo grado di fluidità; si separa e si scioglie in determinati modi; e così di seguito per altre nature che insieme sono presenti nell’oro. Questo assioma deduce dunque la cosa dalle forme delle nature semplici. Chi conosce infatti le forme e i modi di introdurre il giallo, il peso, la duttilità, la solidità, la fluidità, la solubilità e così via, nonché i loro gradi e modi, vedrà come far sì che queste cose possano congiungersi in un corpo, onde ne consegua la sua trasformazione in oro. Elementi moderni e pre-moderni convivono così nel pensiero di Bacone, come del resto, lo si è visto, in gran parte dei protagonisti della rivoluzione scientifica.

5 Un legame inscindibile

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Scienza e tecnica Il riconoscimento del legame della scienza con l’operare tecnico è uno degli aspetti di maggiore interesse e novità del pensiero di Bacone. Il ruolo pratico della scienza viene apprezzato in tutta la sua importanza: come viene sempre ripetuto, per Bacone «sapere è potere». Innanzitutto la tecnica è di aiuto nel perseguimento della conoscenza; senza uno stretto rapporto con il fare tecnico la scienza non sarebbe possibile, dato che affinché si abbia scienza è necessaria la costruzione di nuovi strumenti e l’elaborazione di complessi esperimenti. Così si apre il Libro Primo del Nuovo Organo:

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

T29

Il rapporto dell’uomo con la natura e l’importanza degli strumenti

F. Bacone, Nuovo Organo

I. L’uomo, ministro e interprete della natura, opera e intende solo per quanto, con la pratica o con la teoria, avrà appreso dell’ordine della natura: di più non sa né può. II. Né la nuda mano, né l’intelletto abbandonato a se stesso hanno potenza. I risultati si raggiungono con strumenti e con aiuti e di questi ha bisogno non meno l’intelletto che la mano. Come gli strumenti amplificano e reggono il moto della mano, così gli strumenti della mente guidano o trattengono l’intelletto. III. La scienza e la potenza umana coincidono perché l’ignoranza della causa fa mancare l’effetto. La natura infatti non si vince se non obbedendo ad essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa, nell’operazione ha valore di regola.

Inoltre, il perfezionamento della tecnica è conseguenza diretta della scienza. Grazie alla scienza l’uomo può accrescere la propria forza e il proprio dominio sulla realtà, viene messo in possesso di invenzioni e scoperte che diventano lo strumento di questo dominio. Compito della scienza è non solo conoscere, ma trasformare la realtà a vantaggio dell’uomo. L’utopia della Nuova Un mondo utopico in cui si realizza questo dominio della scienza e della tecnica Atlantide viene immaginato da Bacone in una delle sue ultime opere, rimasta incompiuta, la Nuova Atlantide. In essa viene descritta una società ideale, scoperta in un’isola immaginaria al largo del Perù, «Bensalem». Nell’isola trova attuazione una perfetta convivenza morale e civile fra gli uomini; gli scienziati detengono il potere politico e, dopo avere liberata la mente umana dalle illusioni e dai fantasmi, usano la scienza al servizio dei loro cittadini, per estenderne la potenza e il dominio sulla natura. Essi sono riuniti in una istituzione, la Casa di Salomone, la cui organizzazione, delineata nei dettagli da Bacone, ha costituito il prototipo delle prime accademie scientifiche d’Europa (in particolare della Royal Society di Londra, fondata nel 1662), nelle quali trovò realizzazione il modello di sapere pubblico e intersoggettivo praticato dalla nuova scienza naturale. Così Bacone descrive gli scopi della Casa di Salomone e alcuni dei suoi ritrovati tecnici (molti dei quali cesseranno di essere utopici con lo sviluppo del progresso scientifico):

Conoscere e dominare il mondo

T30

Gli strumenti tecnici immaginati da Bacone F. Bacone, Nuova Atlantide

Fine della nostra istituzione è la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose, allo scopo di allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo. I mezzi e gli strumenti sono i seguenti: abbiamo ampie caverne più o meno profonde, le più profonde delle quali si addentrano nella terra fino a seicento cubiti […]. Chiamiamo queste caverne «regioni inferiori» e ce ne serviamo per esperienze di coagulazione, indurimento, refrigerazione e conservazione dei corpi. Ne usiamo anche a imitazione delle miniere naturali, per la produzione di nuovi metalli artificiali, mediante la combinazione di vari materiali ivi giacenti da moltissimi anni […]. Abbiamo inoltre officine meccaniche dove fabbrichiamo macchine e strumenti per ogni genere di movimenti: qui facciamo esperimenti per realizzare moti più veloci di quelli che voi avete realizzato sia con le vostre bocche da fuoco sia con qualunque altra vostra macchina e per realizzare il movimento e moltiplicarlo, servendoci di deboli forze, mediante ingranaggi e altri sistemi e infine per rendere questi moti più forti e potenti dei vostri: superiori anche a quelli dei vostri più grandi cannoni e colubrine […]. Imitiamo il volo degli uccelli, e riusciamo entro certi limiti a librarci in aria. Abbiamo navi e imbarcazioni per navigare sott’acqua e per resistere alle tempeste marine, e cinture di sicurezza e congegni per reggersi a galla. 117

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Il progetto di un’enciclopedia universale delle scienze

➥ Sommario, p. 119

Il progetto di un sapere universale ispirato a questi ideali viene elaborato da Bacone in un’altra opera dell’ultimo periodo, Sulla dignità e l’accrescimento delle scienze. In quest’opera (che rielabora uno scritto del primo periodo, La dignità e il progresso del sapere divino e umano), è delineata l’esigenza di un’enciclopedia universale delle scienze, che segua, nella sua ripartizione, le facoltà della mente umana: la storia, corrispondente alla memoria, la poesia, corrispondente all’immaginazione, la filosofia (a sua volta distinta in teologia, scienza della natura e scienza dell’uomo), corrispondente alla ragione. Bacone non ebbe modo di portare a compimento l’imponente progetto, tuttavia esso ebbe grande fortuna, rappresentando il modello a cui si ispirarono, un secolo dopo, Diderot e d’Alembert per la realizzazione della Enciclopedia illuministica (vedi Unità 11, p. 567 ss.).

Suggerimenti bibliografici Per una ricostruzione storica complessiva vedi R.S. Westfall, La rivoluzione scientifica del XVII secolo, il Mulino, Bologna 1999. Un punto di vista alternativo a quello prevalente e più attento agli aspetti di continuità con il passato è quello di S. Shapin, La rivoluzione scientifica, Einaudi, Torino 2003. Segnaliamo anche uno studio interessante sull’importanza della tecnica e delle macchine per gli sviluppi della scienza moderna: P. Rossi, I filosofi e le macchine 1400-1700, Feltrinelli, Milano 2002. Un’ottima introduzione a Galilei è fornita dalla seguente monografia: S. Drake, Galileo, il Mulino, Bologna 1998. Per un’introduzione a Bacone con un particolare riguardo al problema del rapporto con il pensiero rinascimentale si può vedere il sempre attuale P. Rossi, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, il Mulino, Bologna 2005. I brani antologizzati sono tratti da: P. Rossi (a cura di), La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, Loescher, Torino 1973: p. 73 (T11), pp. 143-144 (T4), p. 148 (T2), pp. 149-150 (T5), p. 153 (T3), pp. 154-155 (T1), p. 115 (T6), pp. 157-159 (T7), pp. 160-161 (T8), p. 165 (T9), pp. 165-166 (T10); inoltre i brani citati a p. 70 (p. XIII), p. 79 (pp. 186-187) e p. 83 (p. 157). G. Galilei, Opere, Barbera, Firenze 1890-1909: vol. 6 (T13); p. 232 (T14); vol. 7, pp. 138-139 (T15); vol. 11, p. 12 (T12); vol. 19, p. 407 (T16); inoltre il brano citato a p. 104 (vol. 7, p. 62). F. Bacone, Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, UTET, Torino 1975: pp. 108-109 (T18), pp. 111112 (T17), pp. 533-534 (T21), pp. 534-535 (T22), pp. 551-552 (T29), p. 559 (T19), pp. 560-562 (T20), pp. 607-608 (T27), pp. 641-644 (T28), p. 650 (T23), pp. 650-652 (T24), pp. 681 e 687 (T25), p. 717 (T26), pp. 855-856, 862 (T30); inoltre il brano citato a p. 108 (p. 407). Il brano di A. Koyré citato a p. 80 è tratto da Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano 1970, p. 11. Il brano di J. Donne citato a p. 80 è tratto da Anatomy of the world, 1611.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Sommario 1. CHE

COS’È LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

Va sotto il nome di «rivoluzione scientifica» il cambiamento epocale avvenuto nel pensiero filosofico e scientifico europeo fra il XVI e il XVII secolo. Questo processo storico modifica radicalmente la natura della scienza, la figura dello scienziato e più in generale il rapporto dell’essere umano con la conoscenza e con l’universo. Si avviano mutamenti culturali e concettuali fondamentali: l’abbandono della concezione finalistica della natura, l’identificazione dell’obiettivo della scienza con la ricerca di leggi causali generali esprimibili in formule matematiche e l’abbandono dell’idea della centralità dell’essere umano e del pianeta Terra nell’universo. 2. LA

RIVOLUZIONE COPERNICANA

La rivoluzione scientifica parte nel XVI secolo con le ricerche astronomiche di Copernico e la pubblicazione del suo De revolutionibus. [par. 1] Egli sostiene che è la Terra a muoversi intorno al Sole e non viceversa, e su questa tesi costruisce un sistema astronomico alternativo a quello tolemaico, fondato sui capisaldi della fisica aristotelica come la distinzione tra mondo terrestre e mondo celeste e tra moti naturali e moti violenti. [parr. 2-3] La teoria di Copernico è ben sviluppata tecnicamente e gli astronomi iniziano a utilizzare le sue tavole, ma la sua descrizione del cosmo è in contrasto con la lettura corrente della Bibbia e con l’idea radicata che l’uomo e la Terra sono al centro dell’universo. Copernico non recede dalle sue convinzioni e rifiuta i compromessi, come quello suggerito da Osiander che vuole riconciliare scienza e fede dando alla teoria scientifica solo un valore ipotetico, senza pretese di verità. [par. 4] 3. IL

COMPROMESSO DI

TYCHO BRAHE

Brahe è uno dei maggiori protagonisti del dibattito astronomico del XVII secolo. Egli passa alla storia come il maggior osservatore del cielo a occhio nudo raccogliendo, anche grazie al suo grande osservatorio, un’enorme mole di dati sui fenomeni celesti, patrimonio prezioso anche per i suoi successori. Le osservazioni contraddicono il sistema tolemaico: per esempio le traiettorie delle comete passano attraverso le ipotetiche «sfere» trasparenti dei cieli e non sono circolari. Brahe tuttavia ha da obiettare anche contro il sistema copernicano e propone una sua originale ipotesi di compromesso tra i due, il cosiddetto «sistema ticonico». 4. KEPLERO:

VERSO UNA MODERNA FISICA DEI CIELI

Johannes Kepler (Keplero), grande studioso dei moti planetari, elabora una teoria astronomica innovativa, avvalendosi anche dei dati osservativi raccolti da Brahe, di cui è collaboratore e successore. [par. 1] Keplero afferma che le orbite planetarie sono ellittiche ed enuncia le tre leggi fisiche ancora oggi note come «leggi di Keplero». [parr. 2-3]

Keplero è una figura emblematica del suo tempo: da un lato è moderno perché formula le sue teorie in termini matematici e si attiene saldamente ai dati di osservazione, dall’altro resta legato alla tradizione pitagorica e platonica e certe sue tesi hanno ragioni mistico-metafisiche non meno che scientifiche. [par. 4] 5. GALILEO

E LA NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA

Con Galileo Galilei si compie la creazione di una nuova scienza e la sua figura riassume molti tratti dello scienziato moderno. Egli elabora un metodo sperimentale avanzato e fa cadere la barriera tradizionale tra scienza e tecnica con la costruzione e l’uso del cannocchiale per l’osservazione degli astri e di un laboratorio in cui ripetere le esperienze sulla caduta dei gravi in condizioni controllate. I risultati delle sue ricerche sono altrettanto rilevanti: porta nuove prove a sostegno della verità della teoria di Copernico, nega la distinzione tra moto naturale e moto violento e getta le basi per una teoria del moto in forma matematica. [parr. 1-2] Nel Saggiatore Galilei, introducendo la distinzione tra qualità oggettive e soggettive rivendica la capacità della scienza di conoscere la realtà oggettiva, indipendente dalle condizioni del soggetto conoscente, attraverso la misurazione e l’espressione matematica delle caratteristiche quantitative dei fenomeni. [par. 3] Il lungo e drammatico confronto con la Chiesa termina con la condanna del capolavoro di Galilei, il Dialogo sopra i due massimi sistemi e con l’abiura dello scienziato. [par. 4] 6. BACONE

E IL METODO SCIENTIFICO

Bacone è uno dei massimi metodologi e promotori della scienza moderna. In polemica con la filosofia contemplativa di matrice platonica e con la magia, afferma la necessità di un nuovo approccio alla conoscenza della natura. [par. 1] Nella sua teoria degli «idoli» Bacone classifica ed esamina i principali errori che viziano la conoscenza umana e nel Nuovo Organo elabora un metodo di induzione per avanzare progressivamente nella conoscenza della natura sottoponendo le ipotesi generali a conferma e a selezione sulla base dell’esperienza. [parr. 2-3] Accanto ad aspetti di grande modernità, nel pensiero di Bacone sopravvivono elementi tradizionali come la concezione qualitativa dell’oggetto della scienza (le forme) che rimanda da un lato all’aristotelismo e dall’altro all’alchimia. [par. 4] Infine un tratto tipicamente moderno della filosofia di Bacone è la valorizzazione del rapporto tra scienza e tecnologia: la tecnologia fornisce alla scienza strumenti per conoscere la natura, la teoria scientifica serve a perfezionare gli strumenti tecnologici e l’intreccio scienza-tecnologia serve – sapere è potere – a dominare la natura. [par. 5] 119

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Parole chiave Accelerazione. Variazione della velocità nell’unità di tempo. Questa grandezza, prima trascurata e mal definita, ha una parte importante nella nascita della scienza moderna, particolarmente in relazione alle ricerche di Galilei sul moto dei gravi. Astrazione. Generalizzazione operata escludendo gli elementi reputati accidentali e conservando solo quelli essenziali. Base osservativa. Il complesso dei dati delle osservazioni su cui si basa una teoria fisica. Eliocentrico. Detto del sistema teorico del cosmo che pone al centro il Sole. Geocentrico. Detto del sistema teorico del cosmo che pone al centro la Terra.

Moto violento. Nella fisica aristotelica, il movimento impresso a un corpo da un altro corpo; questo concetto viene contrapposto a quello di moto naturale. Poliedri platonici. I cinque solidi regolari ossia tetraedro, cubo, ottaedro, dodecaedro e icosaedro. Sono detti «platonici» per la funzione fondamentale che è stata loro attribuita nella genesi del cosmo nel Timeo di Platone. Qualità oggettive. In un processo conoscitivo, le caratteristiche dell’oggetto indipendenti dallo stato del soggetto; per via di tale indipendenza la loro conoscenza ha validità oggettiva. Nel Saggiatore Galilei identifica le qualità oggettive con le caratteristiche quantitative dei fenomeni, misurabili ed esprimibili in termini matematici.

Induzione. Ragionamento che procede dal particolare al generale; esso permette di costruire una teoria generale a partire dai dati dell’esperienza, che è sempre particolare.

Qualità soggettive. Le caratteristiche dell’oggetto, date nell’esperienza, che dipendono dallo stato del soggetto e per questo non hanno valore di conoscenza della realtà. Per Galilei (Saggiatore) colori e sapori sono esempi di qualità soggettive.

Intersoggettivo. Condiviso e/o condivisibile da una molteplicità di soggetti; l’intersoggettività della conoscenza ne rende possibile il controllo da parte di persone diverse e in circostanze diverse e, in epoca moderna, diventa un criterio importante di validità oggettiva.

Relatività (principio galieiano di). Principio enunciato da Galilei nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, secondo il quale non è possibile riconoscere se un sistema di riferimento è in quiete o in moto rettilineo uniforme in base a esperienze di meccanica compiute al suo interno.

Legge (fisica). Proposizione universale che descrive l’andamento di determinati fenomeni fisici, tipicamente formulata in termini matematici nella scienza moderna.

«Salvare i fenomeni». Espressione che si riferisce al rapporto tra teoria scientifica ed esperienza: una teoria «salva i fenomeni» quando è coerente con i dati osservativi. L’espressione è stata utilizzata dai sostenitori della concezione secondo la quale la scienza non può ambire alla conoscenza della realtà e quindi deve limitarsi a «salvare i fenomeni».

Mondo celeste. Concetto fondamentale della fisica aristotelica, che distingue nettamente il mondo celeste, in cui esistono solo movimenti perfettamente circolari e nessun altro mutamento, dal mondo terrestre o sublunare. Mondo terrestre (o sublunare). Il mondo del nostro pianeta; nella fisica aristotelica è contrapposto nettamente al mondo celeste e si caratterizza per essere soggetto a ogni sorta di mutamento, di generazione e di corruzione. Moto naturale. Nella fisica aristotelica, il movimento di ciascun corpo verso il luogo a cui tende per sua natura (luogo naturale), che può essere interrotto solo dal raggiungimento del luogo naturale o da un moto violento.

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Sistema tolemaico / Astronomia tolemaica / Cosmologia tolemaica. Denominazioni che si riferiscono alla concezione del cosmo codificata dall’astronomo Tolomeo nel II secolo d.C. e adottata con sviluppi e aggiustamenti successivi fino all’epoca di Copernico. Verità de fide. Espressione introdotta da Galilei in contrapposizione a «verità de rerum natura» per distinguere l’ambito delle verità della religione da quello delle verità scientifiche e tentare di conciliare scienza e fede. Verità de rerum natura. Termine introdotto da Galilei in contrapposizione a «verità de fide».

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Questionario CHE

COS’È LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

1

LA

RIVOLUZIONE COPERNICANA

2

3

IL

In che modo la nuova scienza legittima la sua pretesa di superare le autorità del sapere tradizionale come la filosofia antica e i testi biblici? (max 3 righe) Quali sono le due grandi dottrine che caratterizzano la concezione del cosmo prima di Copernico? (max 2 righe) In che cosa consiste l’incoerenza che Copernico attribuisce alla concezione tradizionale e in particolare all’uso degli «eccentrici»? (max 3 righe)

COMPROMESSO DI

4

5

In che modo Copernico nella sua teoria rende conto delle osservazioni del moto, almeno apparente, del Sole secondo T4? (max 3 righe)

12

Quali ragioni adduce Copernico in T5 per avvalorare la sua tesi del moto della Terra? (max 4 righe)

13

Per quali ragioni Tycho Brahe ritiene in T6 che le sue osservazioni delle comete smentiscano la teoria delle sfere celesti? (max 2 righe)

14

Con quale tipo di procedimento Keplero in T9 è arrivato a sostenere, contro la teoria precedentemente accettata, che le orbite planetarie hanno forma ellittica? (max 2 righe)

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Quale contributo nuovo rivendica Galilei in T12 alle sue ricerche, che fa compiere un passo avanti all’astronomia moderna, oltre Copernico e gli altri suoi predecessori? (max 2 righe)

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In che cosa consistono in realtà e dove risiedono, secondo Galilei in T13, le qualità soggettive? (max 4 righe)

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Qual è il rapporto corretto tra lo scienziato e l’autorità dei classici per Galilei in T15? (max 3 righe)

VERSO UNA MODERNA FISICA DEI CIELI

Da dove deriva e in quali termini è esprimibile l’armonia del mondo di cui parla Keplero? (max 4 righe)

GALILEO

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TYCHO BRAHE

Quali sono le motivazioni che portano Tycho Brahe a elaborare un terzo sistema astronomico, diverso da quello tolemaico e da quello copernicano? (max 5 righe)

KEPLERO:

Lavoriamo sui testi

E LA NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA

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A che cosa serve il cannocchiale a Galileo nello studio dell’astronomia? (max 3 righe)

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Quale esigenza conoscitiva fondamentale porta Galileo a costruire un laboratorio per lo studio del moto dei gravi? (max 3 righe)

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Qual è l’errore fondamentale della filosofia contemplativa secondo quanto dice Bacone in T18? (max 3 righe)

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Quale movimento planetario è l’oggetto del contendere nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e perché è così importante? (max 4 righe)

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Come si generano secondo Bacone in T20 gli idoli del foro e quali sono gli elementi che condizionano la conoscenza umana in questo caso? (max 3 righe)

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Perché Bacone respinge in T21 il sillogismo aristotelico, pur essendo consapevole che esso è un ragionamento logicamente valido? (max 3 righe)

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Qual è dal punto di vista di Bacone in T27 la chiave per il superamento dei limiti dell’empirismo e del dogmatismo da parte della scienza moderna? (max 4 righe)

BACONE 9

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E IL METODO SCIENTIFICO

Bacone ritiene che la scienza moderna debba rompere con la cultura tradizionale, che ostacola la conoscenza della natura: quali sono i due principali obiettivi polemici in questo senso? (max 2 righe) A che scopo Bacone auspica la collaborazione di scienza e tecnica? (max 2 righe)

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Laboratorio di lettura Galileo, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo Nella seconda giornata del Dialogo, pubblicato nel 1632 con l’intenzione di mettere definitivamente a tacere gli oppositori della dottrina copernicana, Galileo prende in esame gli argomenti tipicamente utilizzati contro l’ipotesi del moto diurno della Terra, cioè contro l’ipotesi secondo cui la Terra compie una rotazione completa su se stessa nell’arco di un giorno. A tali argomenti Galileo risponde, come si vede nel brano che segue (composto da estratti dal testo della seconda giornata del Dialogo), con ragionamenti basati su due principi: il principio della composizione dei moti e quello che è divenuto noto come principio della relatività galileiana (cioè il principio per cui, in base alle osservazioni compiute in un determinato sistema di riferimento, non è possibile stabilire se questo sia in uno stato di quiete o di moto rettilineo uniforme). I due personaggi che discutono sono il copernicano Salviati e l’aristotelico Simplicio.

Il moto della Terra Premessa: l’esame degli argomenti basati sui fenomeni terrestri

Commento e interpretazione

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SALVIATI – Gli argomenti che si producono in questa materia son di due generi: altri hanno riguardo a gli accidenti terrestri, senza relazione alcuna alle stelle, ed altri si cavano dalle apparenze ed osservazioni delle cose celesti. Gli argomenti di Aristotile son per lo più cavati dalle cose intorno a noi, e lascia gli altri alli astronomi; però sarà bene, se così vi pare, esami-

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A. Galileo si riferisce in queste righe agli argomenti utilizzati tradizionalmente contro l’ipotesi del moto della Terra, che sono di due tipi, a seconda che della Terra venga considerato il moto giornaliero di rotazione su se stessa o il moto annuale di rivoluzione intorno al Sole: gli argomenti del primo tipo, come la maggior parte di quelli discussi da Aristotele, sono basati su osservazioni che riguardano fatti che avvengono sulla Terra; gli argomenti del secondo tipo sono fondati sull’osservazione dei fenomeni celesti, cioè su osservazioni di natura astronomica. Nella seconda giornata Galileo, per bocca di Salviati, si concentra sugli argomenti basati su fatti terrestri, rimandando alla terza giornata la discussione di quelli di tipo astronomico. B. Oltre agli argomenti contro il moto della Terra di Aristotele, Galileo deve tener conto di tutti quelli addotti da numerosi altri astronomi (tra i quali innanzitutto Tolomeo e Tycho Brahe) e filosofi. Il suo metodo è di raggrupparli il più possibile, in modo da confutarli tutti insieme in una volta sola. C. L’argomento più forte («la più gagliarda ragione») rivolto contro l’ipotesi del moto di rotazione nell’arco di un giorno (la «conversion diurna») della Terra è quello basato sull’osservazione del moto di caduta libera verticale dei corpi pesanti («gravi»). Secondo coloro che negano la possibilità del moto terrestre, un sasso lasciato cadere dalla cima di una torre, per effetto dello spostamento verso oriente della Terra (che ruota in senso orario), dovrebbe toccare il suolo in un punto spostato verso occidente rispetto alla base della torre, che è solidale con il moto di rotazione («vertigine») della Terra. Questo argomento, considerato di validità indiscutibile («irrefragabile») dagli aristotelici, si fonda sull’assunzione (che poi Galileo dimostrerà non essere valida) che il sasso, una volta in

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Tesi da confutare: la caduta dei gravi e il moto di un proietto dimostrano l’immobilità della Terra

Confutazione dell’argomento: richiesta di una prova Risposta: la prova è nei sensi

nar questi presi dalle esperienze di Terra, e poi verremo all’altro genere. [A] […] E perché da Tolomeo, da Ticone e da altri astronomi e filosofi, oltre a gli argomenti d’Aristotile, presi, confermati e forticati da loro, ne son prodotti de gli altri, si potranno unir tutti insieme, per non aver poi a replicar le medesime o simili risposte due volte. […] [B] Per la più gagliarda ragione si produce da tutti quella de i corpi gravi, che cadendo da alto a basso, vengono per una linea retta e perpendicolare alla superficie della Terra; argomento stimato irrefragabile, che la Terra stia immobile: perché, quando ella avesse la conversion diurna, una torre dalla sommità della quale si lasciasse cadere un sasso, venendo portata dalla vertigine della Terra, nel tempo che ’l sasso consuma nel suo cadere, scorrerebbe molte centinaia di braccia verso oriente, e per tanto spazio dovrebbe il sasso percuotere in terra lontano dalla radice della torre. [C] […] Fortificasi tal argomento con l’esperienza d’un proietto tirato in alto per grandissima distanza, qual sarebbe una palla cacciata da una artiglieria drizzata a perpendicolo sopra l’orizzonte, la quale nella salita e nel ritorno consuma tanto tempo, che nel nostro parallelo l’artiglieria e noi insieme saremmo per molte miglia portati dalla Terra verso levante, talché la palla, cadendo, non potrebbe mai tornare appresso al pezzo, ma tanto lontana verso occidente quanto la Terra fosse scorsa avanti. [D] […] Ora, per cominciar a sviluppar questi nodi, domando al signor Simplicio, quando altri negasse a Tolomeo e ad Aristotile che i gravi nel cader liberamente da alto venissero per linea retta e perpendicolare, cioè diretta al centro, con qual mezo lo proverebbero. [E] SIMPLICIO – Col mezo del senso, il quale ci assicura che quella torre è diritta e perpendicolare, e ci mostra quella pietra nel cadere venirla radendo, senza piegar pur un capello da questa o da quella parte, e percuotere al piede giusto sotto ’l luogo donde fu lasciata. [F]

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aria, cominci a cadere da fermo (cioè come se non avesse più nessuna componente del moto di rotazione terrestre a cui ha partecipato fino al momento del distacco dalla torre). D. Un’altra osservazione che, per gli aristotelici, ‘rafforza’ l’argomento contro il moto della Terra è quella del moto di un corpo lanciato in aria o ‘proiettato’ in direzione verticale, per esempio una palla lanciata da un cannone puntato in direzione verticale verso l’alto. L’argomento dice: se la Terra si muovesse, il proiettile (dopo aver compiuto tutto il suo percorso in direzione verticale prima verso l’alto, e poi verso il basso nel suo moto di ricaduta) dovrebbe cadere, come succedeva al sasso caduto dalla torre, in un punto tanto distante dalla base del cannone quanto la Terra (e quindi il cannone solidale con essa) si fosse mossa verso levante durante il tempo del percorso del proiettile. Nel caso del proiettile l’effetto di spostamento del punto di caduta dovrebbe essere ancora più vistoso (e quindi l’argomento risultare ancora più forte) dato che il tempo durante il quale il proiettile rimane in aria può essere molto più lungo di quello di caduta del sasso (visto che il proiettile va prima verso l’alto e poi verso il basso). E. Galileo si appresta, per bocca di Salviati, a confutare gli argomenti degli aristotelici, seguendo un metodo ‘maieutico’: Simplicio viene condotto passo passo nel ragionamento fino ad arrivare a dedurre da sé quello che Salviati (Galileo) vuole dimostrare. In sostanza, viene messo in luce come Aristotele e i suoi seguaci incorrano nell’errore che proviene dal supporre la cosa stessa che si vuole dimostrare (per quanto nella supposizione essa venga mascherata sotto un’altra espressione). F. Simplicio non ha dubbi: è l’esperienza sensibile (il «senso») che ci mostra che la pietra cade radente e arriva proprio alla base della torre. 123

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Domanda ipotetica: e se a muoversi fosse la Terra? Risposta: due tipi di moto Interpretazione: quindi si tratta di un moto composto

Prima conseguenza: la prova proposta da Simplicio non vale

Obiezione di tipo logico: l’argomento presuppone ciò che vuole dimostrare L’argomento di Aristotele: la premessa è la negazione del moto composto

SALVIATI – Ma quando per fortuna il globo terrestre si movesse in giro, ed in conseguenza portasse seco la torre ancora, e che ad ogni modo si vedesse la pietra nel cadere venir radendo il filo della torre, qual bisognerebbe che fusse il suo movimento? [G] SIMPLICIO – Bisognerebbe in questo caso dir più tosto «i suoi movimenti», perché uno sarebbe quello col quale verrebbe da alto a basso, e un altro converrebbe ch’ella n’avesse per seguire il corso della torre. [H] SALVIATI – Sarebbe dunque il moto suo un composto di due, cioè di quello col quale ella misura la torre, e dell’altro col quale ella la segue: dal qual composto ne risulterebbe che il sasso descriverebbe non più quella semplice linea retta e perpendicolare, ma una trasversale, e forse non retta. [I] SIMPLICIO – Del non retta non lo so; ma intendo bene che di necessità sarebbe trasversale, e differente dall’altra retta perpendicolare, che ella descrisse stando la Terra immobile. SALVIATI – Adunque dal solamente vedere la pietra cadente rader la torre, voi non potete sicuramente affermare che ella descriva una linea retta e perpendicolare, se non supposto prima che la Terra stia ferma. [L] SIMPLICIO – Così è; perché quando la Terra si movesse, il moto della pietra sarebbe trasversale, e non a perpendicolo. SALVIATI – Ecco dunque il paralogismo d’Aristotile e di Tolomeo evidente e chiaro, e scoperto da voi medesimo, nel quale si suppon per noto quello che s’intende di dimostrare. [M] […] La difesa dunque d’Aristotile consiste nell’esser impossibile, o almeno nell’aver egli stimato impossibile, che ’l sasso potesse muoversi di un moto misto di retto e di circolare; perché quando e’ non avesse avuto per impossibile che la pietra potesse muoversi al centro e ’ntorno al centro unitamente, [N] egli avrebbe inteso che poteva accadere che ’l sasso cadente potesse venir radendo la torre tanto muovendosi ella quando stando ferma,

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G. Salviati spinge Simplicio a ragionare su quali sarebbero le conseguenze sul moto di caduta della pietra nel caso («quando per fortuna») che la Terra si muovesse. H. Simplicio cade nella ‘trappola’ e riconosce che, nel caso che la Terra si muova, la pietra ha due tipi di moto: quello conferitole dal movimento della Terra e quello di caduta verso il basso per effetto della gravità. I. Salviati fa vedere a Simplicio come quello che ha appena detto non sia altro che un caso di applicazione del principio galileiano di composizione dei moti. Uno dei moti è quello col quale la pietra percorre la torre dall’alto in basso (cioè il moto di caduta verso il centro della Terra dovuto alla gravità); l’altro è quello della torre (solidale con la Terra), al quale la pietra, in quanto lasciata cadere dalla cima della torre, partecipa. Il moto composto (da questi due moti) avrà una traiettoria «trasversale» che risulterà dalla composizione geometrica delle traiettorie corrispondenti ai due moti componenti. L. Salviati conduce Simplicio ad ammettere che il fatto che la pietra cada alla base della torre non è condizione sufficiente per l’immobilità della Terra: la pietra può cadere alla base della torre anche nel caso in cui la Terra si muova, perché la sua traiettoria non è più verticale (come quando la Terra sta ferma) ma «trasversale» per effetto della composizione del moto di caduta verticale con il moto di rotazione della Terra al quale partecipa anch’essa. M. L’argomento di Aristotele è dunque viziato nella forma («paralogismo»), perché presuppone («suppon per noto») ciò che vuole dimostrare (l’immobilità della Terra). N. Aristotele, se non avesse negato la possibilità che la pietra potesse muoversi sia verso il

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Seconda obiezione: la fisica aristotelica è incoerente

Risposta alla seconda obiezione: non c’è incoerenza, sono due casi diversi

Simplicio esprime la ragione alla base della sua posizione

Controreplica: Simplicio non comprende che il moto del sistema di riferimento si comunica a tutti i corpi nello stesso modo

e in conseguenza si sarebbe accorto che da questo radere non si poteva inferir niente attenente al moto o alla quiete della Terra. Ma questo non iscusa altramente Aristotile, perché […] Aristotile medesimo concede al fuoco l’andare in su naturalmente per linea retta e il muoversi in giro col moto diurno, participato dal cielo a tutto l’elemento del fuoco ed alla maggior parte dell’aria; se dunque e’ non ha per impossibile mescolare il retto in su col circolare, comunicato al fuoco ed all’aria dal concavo lunare, [O] assai meno dovrà reputare impossibile il retto in giù del sasso col circolare, che fusse naturale di tutto ’l globo terrestre, del quale il sasso è parte. SIMPLICIO – A me non par cotesta cosa, perché quando l’elemento del fuoco vadia in giro insieme con l’aria, facilissima anzi necessaria cosa è che una particella di fuoco, che da Terra sormonti in alto, nel passar per l’aria mobile riceva l’istesso movimento, essendo corpo così tenue e leggiero e agevolissimo ad esser mosso; ma che un sasso gravissimo […] che da alto venga a basso e sia già posto in sua balìa, si lasci trasportare né da aria né da altro, ha del tutto dell’inopinabile. [P] […] Io non resto capace, che l’aria possa imprimere in un grandissimo sasso […] il moto col quale essa medesima si muove e che per avventura ella comunica alle piume, alla neve ed altre cose leggierissime; anzi veggo che un peso di quella sorte, esposto a qualsivoglia più impetuoso vento, non vien pur mosso di luogo un sol dito: or pensate se l’aria lo porterà seco. SALVIATI – Gran disparità è tra la vostra esperienza e ’l nostro caso. Voi fate sopraggiugnere il vento a quel sasso posto in quiete; e noi esponghiamo nell’aria, che già si muove, il sasso, che pur si muove esso ancora con l’istessa velocità, talché l’aria non gli ha a conferire un nuovo moto, ma solo mantenerli, o per meglio dire non impedirli, il già concepito: [Q] voi volete cacciar il sasso d’un moto straniero [R] e fuor della sua natura; e noi conservarlo nel suo naturale. Se voi volevi produrre una più aggiustata esperienza, dovevi

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centro della Terra (per effetto della gravità), sia intorno al centro della Terra (nel moto solidale con quello di rotazione diurna della Terra), avrebbe compreso che il sasso può cadere alla base della torre anche nel caso in cui la Terra si muova, e che quindi questa osservazione non può essere usata come prova contro il moto della Terra. Ciò che nega Aristotele è dunque la possibilità di un moto «misto di retto e circolare», cioè la possibilità della composizione dei moti. Ma questo non giustifica tuttavia Aristotele, argomenta Salviati, perché nel caso del fuoco accetta la possibilità di un moto misto dello stesso tipo di quello che nega alla pietra. O. Il «concavo lunare» è la superficie interna concava della sfera celeste su cui ruota la Luna. P. La risposta di Simplicio contro l’argomento di Salviati si basa sull’idea che non si possano trattare allo stesso modo i comportamenti nell’aria di un corpo leggerissimo («così tenue e leggiero») come il fuoco e di un sasso pesantissimo («gravissimo»). Simplicio non è ‘capace’ di comprendere che il moto del sistema di riferimento si comunica a tutti i corpi nello stesso modo, indipendentemente da come essi sono fatti. Q. Salviati espone in queste righe il significato del concetto di sistema di riferimento, il cui moto, in quanto comune a tutto ciò che è in esso, non ha influenza sul comportamento (in esso) delle cose che contiene. Così l’aria non deve conferire un nuovo moto alla pietra, ma solo mantenere il moto ‘naturale’ che entrambe hanno, aria e pietra, in quanto solidali allo stesso sistema di riferimento. R. «Estraneo», non naturale.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Nuova difesa Seconda parte della confutazione: l’analogia tra nave e Terra

Concessione di Simplicio

Critica metodologica: l’esperienza contro la tradizione

dire che si osservasse, se non con l’occhio della fronte, almeno con quel della mente, [S] ciò che accaderebbe quando un’aquila portata dall’impeto del vento si lasciasse cader da gli artigli una pietra; la quale, perché già nel partirsi dalle branche volava al pari del vento, e dopo partita entra in un mezo mobile con egual velocità, ho grande opinione che non si vedrebbe cader giù a perpendicolo, ma che, seguendo il corso del vento ed aggiugnendovi quel della propria gravità, si moverebbe di un moto trasversale. SIMPLICIO – Bisognerebbe poterla fare una tale esperienza, e poi secondo l’evento giudicare […]. [T] SALVIATI – Or ditemi; se la pietra lasciata dalla cima dell’albero, quando la nave cammina con gran velocità, cadesse precisamente nel medesimo luogo della nave nel quale casca quando la nave sta ferma, qual servizio vi presterebber queste cadute circa l’assicurarvi se ’l vassello sta fermo o pur se cammina? [U] SIMPLICIO – Assolutamente nissuno: in quel modo che, per esempio, dal batter del polso non si può conoscere se altri dorme o è desto, poiché il polso batte nell’istesso modo ne’ dormienti che ne i vegghianti. [V] SALVIATI – Benissimo, avete voi fatta mai l’esperienza della nave? SIMPLICIO – Non l’ho fatta; ma ben credo che quelli autori che la producono, l’abbiano diligentemente osservata […] SALVIATI – Che possa esser che quelli autori la portino senza averla fatta, voi stesso ne sete buon testimonio, che senza averla fatta la recate per sicura e ve ne rimettete a buona fede [Z] al detto loro: sì come è poi non solo possibile, ma necessario, che abbiano fatto essi ancora, dico di rimettersi a i suoi antecessori, senza arrivar mai a uno che l’abbia fatta; perché chiunque la farà, troverà l’esperienza mostrar tutto ’l contrario di quel che

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S. Cioè con la ragione: molte supposizioni apparentemente giustificate dall’immediata esperienza dei sensi sono in realtà errate, come si arriva a comprendere con il ragionamento (sempre lasciando poi all’esperienza il ruolo di ultimo giudice del risultato così raggiunto). T. Con questa frase Simplicio offre il destro a Salviati perché questi possa ‘incastrarlo’ definitivamente: gli oppositori del moto della Terra basano spesso i loro argomenti su esperienze che non hanno mai fatto, prendendo per buono quanto detto da ‘autorità’ precedenti come Aristotele. U. Salviati usa qui l’analogia tra il sistema di riferimento rappresentato da una nave in moto uniforme e il sistema di riferimento rappresentato dalla Terra per ribadire il fatto che l’osservazione che una pietra cade alla base del supporto (l’albero della nave o la torre) dalla cui cima è lasciata andare non può dire nulla sulla questione se il sistema di riferimento sia in moto uniforme o fermo. Questa analogia è molto utile in quanto permette di immaginare una situazione in cui sia possibile sperimentare gli effetti (o meglio: l’assenza di effetti) del moto uniforme del sistema di riferimento sugli oggetti contenuti in esso. Quello che avviene sulla nave infatti si può sperimentare nei due casi in cui essa stia ferma o sia in moto uniforme (mentre non si può fermare la Terra per vedere l’eventuale differenza con il caso di moto uniforme). V. Simplicio deve riconoscere che dalla caduta della pietra alla base dell’albero non si può dedurre nulla sullo stato di moto della nave (se cammini di moto uniforme o stia ferma), come dal battere del polso non si può vedere una differenza tra coloro che dormono e coloro che sono svegli. Z. Salviati approfitta del fatto che Simplicio ammetta di non aver mai compiuto personalmente l’esperienza della caduta della pietra dalla cima dell’albero di una nave per criticare un modo diffuso di procedere dei filosofi, che è quello di basarsi su quanto detto

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Conseguenza: l’errore è pensare che la Terra stia ferma

Teoria alternativa: la Terra si muove e il moto dei corpi è composto Obiezione a Salviati: la sua teoria è contraria alla testimonianza dei sensi Conclusione di Salviati: l’inosservabilità del moto comune

Confutazione definitiva della tesi aristotelica: l’esperimento del «gran navilio»

viene scritto: cioè mostrerà che la pietra casca sempre nel medesimo luogo della nave, stia ella ferma o muovasi con qualsivoglia velocità. Onde, per esser la medesima ragione della Terra che della nave, dal cader la pietra sempre a perpendicolo al piè della torre non si può inferir nulla del moto o della quiete della Terra. […]. L’errore di Aristotile, di Tolomeo, di Ticone, vostro, e di tutti gli altri, ha radice in quella fisa e inveterata impressione [AA], che la Terra stia ferma, della quale non vi potete o sapete spogliare né anco quando volete filosofare di quel che seguirebbe, posto che la Terra si movesse; […]. Se la Terra sta ferma, il sasso si parte dalla quiete e scende perpendicolarmente; ma se la Terra si muove, la pietra altresì si muove con pari velocità, né si parte dalla quiete, ma dal moto eguale a quel della Terra, col quale mescola il sopravegnente in giù e ne compone un trasversale. SIMPLICIO – Ma, Dio buono, come, se ella si muove trasversalmente, la veggo io muoversi rettamente e perpendicolarmente? Questo è pure un negare il senso manifesto; e se non si deve credere al senso, per qual altra porta si deve entrare a filosofare? SALVIATI – Rispetto alla Terra, alla torre e a noi, che tutti di conserva ci moviamo, col moto diurno, insieme con la pietra, il moto diurno è come se non fusse, resta insensibile, resta impercettibile, è senza azione alcuna, e solo ci resta osservabile quel moto del quale noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo la torre. […] [BB] E qui, per ultimo sigillo della nullità di tutte le esperienze addotte, mi par tempo e luogo di mostrar il modo di sperimentarle tutte facilissimamente. Rinserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, [CC] e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili ani-

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da altre persone considerate ‘autorevoli’. Qui si manifesta tutta la polemica galileiana contro il ‘principio di autorità’: cioè il principio che detta il comportamento di gran parte degli avversari del copernicanesimo, che si basano, nelle argomentazioni, sull’autorità di qualcuno (primo fra tutti, Aristotele) invece che su fatti controllabili e, possibilmente, verificati di persona. AA. L’errore principale compiuto da Aristotele, Tolomeo, Tycho Brahe e tutti coloro che si oppongono al moto della Terra sta nell’opinione («impressione») fatta e irrigidita che la Terra sia ferma; per cui non riescono di fatto a liberarsi di questa opinione nemmeno quando cercano di ipotizzare che cosa succederebbe nel caso che la Terra si muovesse, cadendo appunto nel paralogismo messo in evidenza prima nel testo da Salviati. BB. Simplicio non riesce a comprendere il fatto che l’osservatore stesso fa parte del sistema di riferimento, e non può dunque accorgersi del moto comune a tutte le cose che stanno in esso. Come ribadisce Salviati, del moto «composto» della pietra, l’osservatore infatti può vedere solo la componente che riguarda il moto di caduta verso il basso (e quindi la vede «muoversi rettamente e perpendicolarmente», come dice Simplicio), non la componente dovuta al moto della Terra (cioè del sistema di riferimento), che è dunque «come se non fusse» e sfugge all’osservazione dei sensi («resta insensibile»). CC. Salviati a questo punto propone, come ultima e definitiva prova («sigillo») della nullità di tutti gli argomenti portati contro il moto della Terra, un esperimento che considera conclusivo. Si tratta del celebre argomento galileiano del «gran navilio», per cui, in base a osservazioni meccaniche compiute all’interno di una nave che si muove di moto uniforme, non è possibile «comprender se la nave cammina o pure sta ferma» (righe 158-159). L’argomento viene sempre preso a illustrazione di quello che è chiamato «principio di relatività galileiano»: cioè il principio per cui le leggi della meccanica non 127

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maletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottopposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno uguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succedere così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; [DD] ché (pur che il moto sia uniforme e non flutIl risultato atteso tuante in qua e in là) [EE] voi non riconoscerete una minima mutazione in dall’esperimento tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la naconfutatorio ve cammina o pure sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazi che prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggior salti verso la poppa che verso la prua, benché nel tempo che voi state in aria, il tavolato sottopostovi scorra verso la parte contraria al vostro salto; e gettando alcuna cosa al compagno, non con più forza bisognerà tirarla, per arrivarlo, se egli sarà verso la prua e voi verso poppa, che se voi

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variano nel passare da un sistema di riferimento a un altro che si muove, rispetto al primo, di moto rettilineo uniforme (il principio di relatività verrà poi esteso da Albert Einstein nel 1905 a tutte le leggi della fisica). In realtà, il principo che enuncia qui Galilei, illustrandolo con esempi molto suggestivi, è quello della non incidenza di un movimento uniforme comune sulle esperienze di meccanica: di fatto, Galilei non ha ancora chiaro che, perché valga davvero il principio di relatività, il moto deve essere non solo uniforme ma anche rettilineo. Il moto della Terra (e quindi della nave ad essa solidale) è uniforme ma circolare; comunque in prima approssimazione, se considerato solo localmente, anche il moto della Terra può essere visto come rettilineo e questo giustifica in qualche modo le ‘esperienze’ portate da Galileo.

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Conclusione: il moto del sistema di riferimento è comune a tutto ciò che in esso si muove

fuste situati per l’opposito; le gocciole cadranno come prima nel vaso inferiore, senza caderne pur una verso poppa, benché, mentre la gocciola è per aria, la nave scorra molti palmi; i pesci nella loro acqua non con più fatica noteranno verso la precedente che verso la sussequente parte del vaso, ma con pari agevolezza verranno al cibo posto su qualsivoglia luogo dell’orlo del vaso; e finalmente le farfalle e le mosche continueranno i lor voli indifferentemente verso tutte le parti, né mai accaderà che si riduchino verso la parete che riguarda la poppa, quasi che fussero stracche in tener dietro al veloce corso della nave, dalla quale per lungo tempo, trattenendosi per aria, saranno state separate; e se abbruciando alcuna lagrima d’incenso si farà un poco di fumo, vedrassi ascender in alto ed a guisa di nugoletta trattenervisi, e indifferentemente muoversi non più verso questa che quella parte. E di tutta questa corrispondenza d’effetti ne è cagione l’esser il moto della nave comune a tutte le cose contenute in essa ed all’aria ancora [corsivo nostro], che per ciò dissi io che si stesse sotto coverta; ché quando si stesse di sopra e nell’aria aperta e non seguace del corso del nave, differenze più e men notabili si vedrebbero in alcuni de gli effetti nominati […].

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(da G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Einaudi, Torino 1970)

DD. La nave, a differenza della Terra, permette appunto di sperimentare le due situazioni – quella in cui il sistema di riferimento si muove (di moto uniforme) e quella in cui il sistema di riferimento sta fermo (sempre rispetto alla Terra) – e quindi di osservare se ci sono differenze tra le esperienze di meccanica che si possono compiere all’interno della nave, nell’uno e nell’altro caso. La risposta di Galileo è appunto che non ci sono differenze (le gocce d’acqua cadono nel vaso esattamente nello stesso modo, i pesci nuotano nella loro vasca in una direzione o nell’altra esattamente con lo stesso sforzo, le farfalle e le mosche continuano a volare in tutte le direzioni senza nessuna differenza, e così via), per quanto («perché», riga 160) la nave si possa far muovere con grandissima velocità. EE. Qui si vede bene come Galilei parli solo di moto ‘uniforme’, non di moto uniforme e rettilineo.

Questionario sull’argomentazione 1

Nella sua confutazione delle teorie aristoteliche, Salviati pone a Simplicio una serie di domande. Qual è l’obiettivo di questo modo di procedere? (max 4 righe)

2

Che funzione ha nell’argomentazione di Salviati la scoperta del paralogismo nel ragionamento dei sostenitori dell’immobilità della Terra? (max 3 righe)

3

Quale innovazione introduce Salviati, rispetto alla teoria aristotelica, quando fa ricorso al principio di composizione dei moti? (max 4 righe)

4

Perché alla fine del brano citato Salviati utilizza l’analogia tra la Terra e la nave per illustrare il principio della relatività del movimento rispetto all’osservatore? (max 3 righe) 129

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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana NATURA / NATURALE Ambiguità del termine «natura»

Il significato più generale: «natura» come «mondo»

La contrapposizione tra «naturale» e «artificiale»

Un confine difficile da stabilire

Casi-limite tra natura e artificio

1. La natura e il mondo Poche parole, nel linguaggio comune e non solo in questo, sono così ambigue e così difficili da definire come «natura»: qualunque tentativo non può che essere un’approssimazione, quando si affrontano termini così generali. A voler fare un po’ di ironia, si potrebbe risolvere la questione dicendo che la natura è quella cosa di cui si occupano le scienze naturali, ma è evidente che in questo modo si sarebbe soltanto evitato, seppur senza fare errori, di avvicinarsi a una definizione. Un primo tentativo di definizione potrebbe allora prendere le mosse dal significato più generale del termine: la natura è l’insieme delle cose esistenti, tra le quali rientriamo anche noi. In questo modo, ci sono molte affinità tra la parola «natura» e la parola «mondo», e probabilmente molti punti di contatto o di intersezione tra esse; ma non sono identiche. Quando parliamo di «mondo», ci riferiamo di solito alla totalità degli oggetti e allo spazio in cui essi sono inclusi, ma quando parliamo di «natura» intendiamo di solito qualcosa di più specifico: ci riferiamo in questo caso sì agli oggetti, ma visti anche attraverso le loro caratteristiche principali e attraverso le leggi che ne regolano il funzionamento, o almeno le leggi attraverso le quali noi ne spieghiamo il funzionamento. Anche nel linguaggio quotidiano, infatti, si parla delle «leggi della natura», ma non delle «leggi del mondo». 2. Natura e artificio Qualcuno potrebbe obiettare che non tutti gli oggetti sono «natura», perché alcuni sono frutto dell’arte umana, nel senso generale di frutto dell’azione degli uomini: ciò che viene utilizzato, in questo caso, è un’antica contrapposizione tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale, o tra «natura» e «artificio». Ci sarebbero allora oggetti naturali diversi dagli oggetti artificiali: l’albero o la mela sono oggetti naturali, mentre un’automobile è artificiale. Intuitivamente, la distinzione tra natura e artificio ci sembra ovvia, ma non lo è poi così tanto. Un esempio della difficoltà di stabilire un confine tra natura e artificio può essere preso dall’attività umana naturale per eccellenza: l’agricoltura. Un albero da frutta è naturale? E fino a quando conserva questa sua caratteristica? E, soprattutto, può perderla? Se l’albero viene curato, potato, seguito dalla mano dell’uomo diventa qualcosa di «artificiale» o, forse, qualcosa di intermedio? Piante che non avrebbero lo stesso sviluppo senza l’intervento dell’uomo sono ancora naturali? Il confine è evidentemente difficile da stabilire. Ma le cose sono ancora più complicate. Non è infatti facile nemmeno stabilire con certezza il carattere di oggetti che, a prima vista, nessuno avrebbe dubbi nel definire artificiali. Pensiamo, per esempio, a una diga, e poniamo che una diga venga formata nel tempo dagli avvallamenti del terreno, o dalle eruzioni vulcaniche o dai terremoti (sempre che si possa in questo caso parlare di «dighe» e non di mari, o di laghi). Nessuno avrebbe dubbi nel considerare questi specchi d’acqua fenomeni naturali. 131

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Parte prima La nascita della filosofia moderna L’azione umana tra arte e natura

Il criterio della semplicità geometrica…

… e i suoi limiti

Natura come consuetudine e regolarità

L’insolito come non naturale

Fenomeni soprannaturali

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Poi prendiamo in considerazione una diga fatta dai castori: anche in questo caso, probabilmente, avremmo pochi dubbi sulla naturalità dell’evento e della «diga» formata dagli alacri animaletti. E fin qui va bene. Ma in base a quale criterio dovremmo rifiutare la stessa caratteristica della «naturalità» a una diga costruita dagli uomini, che sono anch’essi, certamente, parte della natura, anche se la loro natura biologica è diversa e si è evoluta in modo diverso dai castori? Il confine è, ancora una volta, labile; e si può – si può, non si deve – arrivare alla strana conclusione che la bellezza del tramonto non è diversa o più naturale della bellezza di un grattacielo o di un quadro fatti dagli uomini. Per tutti questi oggetti, infatti, valgono certi principi universali: sono le leggi «di natura», come quelle della fisica e della chimica, che hanno permesso tanto il sorgere del sole e la sua percezione da parte degli esseri umani quanto la costruzione di grattacieli da parte di questi ultimi. La situazione non cambierebbe molto se andassimo alla ricerca di criteri molto raffinati, come qualcuno ha cercato di fare. Un criterio di questo genere potrebbe essere l’individuazione della «artificialità» nella semplicità geometrica delle simmetrie e nella ripetizione delle forme, che sembrano segni certi della mano dell’uomo. In questo modo, effettivamente, potremmo classificare come naturali le montagne, i fiumi e i laghi, e come artificiali le macchine o gli edifici. Ma il criterio sarebbe, in realtà, del tutto insufficiente: in questo modo risulterebbero artificiali, per fare qualche esempio, gli alveari, le ragnatele e i cristalli che sono certo naturali, ma non solo: risulterebbero artificiali le costituenti prime della materia, e quindi anche della natura, come l’atomo e le particelle elementari studiati dalla fisica. Certo si tratta di un esito paradossale, ma se ci si fonda su argomenti e non semplicemente su affermazioni istintive e non meditate, scopriamo, approfondendo le nozioni di «natura» e di «artificio», che non abbiamo a disposizione molti criteri per distinguere ciò che appartiene al primo ambito e ciò che appartiene al secondo. 3. Natura e normalità Un significato estremamente diffuso del termine «natura» è quello di normale, consueto, abituale. La normalità, in questo senso, è ciò che rientra nella norma, non intesa come una prescrizione, ma come la regolarità e la prevedibilità di un carattere o di un evento. Si tratta di un significato del termine «natura» che va del tutto al di là della distinzione – vera o presunta – tra natura e artificio. In questa prospettiva, ciò che è naturale si contrappone a ciò che è insolito e raro, ma anche a ciò che è soprannaturale. Nel primo caso, ciò che è insolito o raro viene considerato anormale e quindi non facente parte della natura ordinaria delle cose, non perché sia davvero esterno alla natura – se questa è l’insieme di tutti gli oggetti esistenti – ma perché è qualcosa che avviene di rado, che normalmente non prevediamo, che ci sembra eccezionale (anche in senso negativo) rispetto alle nostre aspettative. L’anormalità viene vista allora come qualcosa che vìola un ordine, una regolarità. Tutto ciò non ha alcuna connotazione valutativa, positiva o negativa che sia: la morte è naturale quanto la vita, e la salute è naturale quanto la malattia. Un caso limite dell’uso del termine «natura» come normalità, regolarità prevedibile, è quando questo venga contrapposto a un’eccezionalità dovuta a forze soprannaturali, come nel caso dei fenomeni magici o dei miracoli che troviamo in molti tipi di superstizioni e di religioni. In questo caso, chi opera la magia o il miracolo si colloca di regola al di fuori della natura, ed è questa collocazione che

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Laboratorio sul lessico Natura / naturale

permette l’interruzione dell’ordine naturale attraverso poteri soprannaturali, ovvero poteri che non dipendono dalle leggi di natura e non sono limitati da esse, ma sono in grado di dominarle.

L’essenziale bontà della natura

La bontà del creatore della natura

Le limitazioni degli interventi sulla natura

Il fondamento del «diritto naturale»

La bontà intrinseca della natura

Natura e valore morale

Il piano dei fatti e quello dei valori

4. Natura e valore Un uso importante del termine «natura» e dell’aggettivo «naturale» è quello che dà a queste parole una connotazione di valore. Questo uso si fonda sostanzialmente sull’idea che la natura sia un modello da seguire nel comportamento, ovvero, detto in altre parole, che la natura sia buona e debba essere seguita anche dagli uomini – o almeno non contrastata – nella loro condotta. Questo tipo di atteggiamento può essere giustificato, o spiegato, sulla base di mentalità molto diverse, accomunate dall’idea della bontà della natura. In primo luogo, si può pensare che la natura sia buona perché è stata creata da un essere buono: è, questa, la prospettiva prevalente nella religione cristiana, che crede all’esistenza di un Dio creatore buono e onnipotente. La natura deve essere allora seguita perché in essa sono implicitamente contenuti anche i comandi di Dio: interrompere, o modificare sostanzialmente, i processi naturali è illegittimo, perché l’uomo non ha il diritto di intervenire su qualcosa di cui non è l’artefice. Questa mentalità può avere per conseguenza anche l’illegittimità di un intervento sulla propria vita, perché anche la nostra vita, come parte della natura, non è qualcosa che ci appartenga. Essa può però anche limitare in generale l’intervento dell’uomo sulla natura, per lo stesso motivo: se la scienza è in grado, per esempio, di compiere determinati interventi sulla natura che ne modifichino radicalmente la struttura, questa mentalità ne può contestare la legittimità proprio per un diritto limitato degli uomini sulla natura, che non appartiene loro in modo incondizionato, ma soltanto parzialmente. Su una prospettiva come quella appena descritta può fondarsi anche una certa idea del «diritto di natura». Il diritto di natura, in questa interpretazione, sarebbe un codice normativo fondato su un’autorità superiore che ha creato la natura, ed esso costituisce al tempo stesso il modello di legittimità di altri tipi di diritto, e in particolare del diritto umano, positivo, creato dagli uomini: c’è un diritto oggettivo e assoluto che non può essere violato dalle norme morali e giuridiche concretamente esistenti perché ha una radice superiore, soprannaturale. L’idea che la natura sia buona e debba essere un modello da seguire o comunque un universo da non violare non ha però necessariamente bisogno di una legittimazione soprannaturale. Si può pensare che la natura sia buona e che quindi debba essere seguita anche da un punto di vista non religioso, attribuendo sempre, implicitamente o esplicitamente, un’autorità superiore alla natura. Comunque li si giustifichi, è da questi tipi di atteggiamento che deriva l’uso della coppia «natura» / «contro natura» come una coppia di termini che hanno valore morale: è moralmente legittimo ciò che è conforme alla natura e alle sue indicazioni (che riteniamo di trarre dal suo funzionamento), mentre è moralmente illegittimo tutto ciò che sia contro natura, ovvero che vìoli l’andamento naturale delle cose. C’è chi contesta questa impostazione del rapporto tra l’uomo e la natura e non ritiene che le indicazioni della natura debbano diventare normative per il comportamento degli esseri umani: il piano della natura sarebbe allora il piano dei fatti, che non sono in sé moralmente significativi ma corrispondono soltanto a un certo funzionamento degli organismi naturali, mentre il piano dei valori e delle norme morali sarebbe un piano diverso, che non può essere derivato dall’osservazione della natura. 133

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Esercitiamoci sulla natura 1. Rifletti e completa

Vi sono diversi significati attribuiti al termine «NATURA»:

1. La NATURA è l’insieme di tutte le __________.

2. La NATURA è ciò che si contrappone agli __________.

3. La NATURA è ciò che rientra nella consuetudine.

4. La NATURA è espressione di una bontà divina o intrinseca.

Problema: la «natura» e il «________________» non sembrano coincidere.

Problema: il limite tra «naturale» e «artificiale» è ______________.

Problema: ciò che è «insolito» risulta «non ____________».

Problema: ogni ________________ sulla natura risulta illecito o immorale.

2. Spunti per il dibattito: io e… la natura 1

Dopo aver letto il testo e completato lo schema, rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – Quale delle accezioni del termine «natura» elencate nel testo è a tuo avviso quella prevalente nell’uso linguistico quotidiano? – Ti sembra che l’argomento contro la distinzione tra «natura» e «artefatti» presente nel testo sia convincente? È possibile a tuo avviso sostenere sensatamente questa distinzione? – Ritieni che la natura e tutto ciò che si dice «naturale» sia anche intrinsecamente buono? Se sì, su quali basi? – Pensi che qualcosa possa dirsi «naturale» per il semplice fatto che è «consueta» o «frequente»? Perché?

2

Immagina che lo sviluppo scientifico e tecnologico si evolva in modo tale da permettere la costruzione di computer che, al posto dei consueti componenti elettronici (microchip ecc.), facciano uso di materiali organici, come neuroni veri e propri o cellule di altro genere. Supponi inoltre che questi (potentissimi) ‘calcolatori organici’ vengano utilizzati per progettare e costruire delle macchine. – Che genere di oggetti sarebbero tali ‘calcolatori organici’? In particolare, sarebbero da considerarsi artefatti o parte del regno della natura? E perché? – Considera le macchine progettate da tali ‘calcolatori organici’: in che rapporto starebbero queste con tali computer da un lato e con gli esseri umani dall’altro?

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3

Immagina che in una data società venga attribuito alla natura, in ogni suo aspetto, un valore sacro, inviolabile. In altri termini, che ogni manifestazione e processo naturale sia considerato «buono» in se stesso, sia esso utile o dannoso alla sopravvivenza degli individui: la pioggia, il sole, una inondazione, un terremoto, un virus che attacca l’organismo, un animale innocuo, una belva feroce. Niente di ciò che è «naturale» deve essere ostacolato nel suo decorso. – Come pensi che possa strutturarsi una società che assuma questo atteggiamento di principio rispetto alla natura? – Credi che potrebbe svilupparsi qualcosa di analogo alla medicina in una società del genere? Se sì, che forma assumerebbe tale scienza?

4

Prova a fare l’ipotesi che l’intera umanità contragga in modo irreversibile un morbo che rende gli individui estremamente fotosensibili, al punto di non poter essere esposti alla luce del sole per più di qualche minuto. L’intera vita sociale sarebbe così stravolta e riorganizzata in modo da sfruttare le ore di luce per dormire o restare al chiuso e quelle di buio per uscire e svolgere le attività lavorative, ricreative, di studio ecc. – Ti sentiresti di poter affermare che in una tale situazione è «naturale» dormire di giorno e svolgere le consuete attività (lavorative ecc.) di notte? In che senso di «naturale»? – Come credi si modificherebbero l’aspetto fisico e i tratti psicologici dell’uomo costretto a un tale stile di vita rovesciato? Ti sentiresti di considerare «naturali» tali modificazioni?

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna 1. 2. 3. 4. 5. 6.

«La libertà di giudicare da sé» In cammino nell’Europa del Seicento Un pensatore su molti fronti e l’unità del sapere Costruire il mondo (e l’uomo): fisica e fisiologia Idee come rappresentazioni Ritrovare il fondamento

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Le Meditazioni metafisiche

I testi Regole per la guida dell’intelligenza: Cercare da solo le ragioni degli altri, T1; Una logica generale della conoscenza, T4; L’unità del metodo, T5 I principi della filosofia: L’albero della conoscenza, T2; La chiarezza e la distinzione, T12 Discorso sul metodo: Rapporti e proporzioni, T3; Il dominio sulla natura, T6; L’origine del mondo, T7; L’uomo come sistema meccanico, T8; Il cogito e l’evidenza, T16 L’uomo: Il meccanismo della rappresentazione, T9; La di-

stinzione tra idee e immagini mentali, T10 Meditazioni metafisiche: Certezza e verità assoluta, T11; Ricominciare dalle fondamenta, T13; Dal dubbio alla certezza di esistere, T14; Scienza e conoscenza interiore, T15; La prova ontologica, T17; Io e il mio corpo, T18 Le passioni dell’anima: L’azione del corpo sull’anima, T19; Non esiste un luogo dell’anima, T20; Il controllo delle passioni, T21

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

1 Ricerca filosofica come percorso di formazione

«La libertà di giudicare da sé» Spesso si abusa della nozione di «crisi» e dell’idea della «transizione» tra epoche, ma nel caso di Cartesio questi concetti colgono un’indubbia realtà. Egli non soltanto vive un periodo di profonde trasformazioni, ma soprattutto riesce a essere interprete dei problemi di fondo della sua cultura, contribuendo in modo decisivo alla nascita di nuove forme di organizzazione del sapere. Filosofo alla ricerca della certezza, ha saputo anzitutto dare ascolto alle incertezze del suo tempo, individuandone le ragioni profonde. La vita e il pensiero di Cartesio sono state un percorso di trasformazione, personale e culturale, che egli compie dando ordine, fondamento e senso a quanto avviene a lui e intorno a lui. Nel Discorso sul metodo (1637) – nel quale unisce la presentazione di una nuova concezione della conoscenza e l’autobiografia – descrive la sua storia personale come esemplare: in quelle pagine egli vuole rappresentare la propria «vita come in un quadro», che ognuno possa giudicare, ovvero come una «storia» o una «favola» dalla quale trarre esempi istruttivi. E molto istruttiva è, in effetti, la sua vicenda.

La crisi della cultura scolastica Una formazione tradizionale

Viaggiare attraverso culture e opinioni

Lo spaesamento e la perdita delle certezze

Nuova scienza e crisi del senso comune

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Dall’età di undici anni Cartesio è allievo del collegio di gesuiti di La Flèche, una delle più rinomate istituzioni educative in Francia. Fa esperienza così nel modo più intenso del sistema culturale che stava entrando in crisi, non soltanto per il peso dirompente che iniziava ad avere la moderna scienza matematica della natura, ma anche per la crescente sensazione di inaffidabilità delle fonti tradizionali di certezza, in campo scientifico come in campo religioso, morale e politico. La mente di Cartesio inizia a viaggiare, prima che, alla fine degli studi, egli si metta in cammino per l’Europa: la lettura, dirà poi, è come «una conversazione con gli uomini dei secoli passati» (allo studio umanistico, di lingue, filologia, storia, retorica venivano dedicati i primi sei anni di istruzione a La Flèche), e «in realtà conversare con gli autori degli altri secoli è quasi lo stesso che viaggiare». Cartesio si muove, nella sua prima formazione, anzitutto nel tempo, facendo già esperienza della pluralità disorientante delle opinioni, dei costumi, dei modi di vita; e così del fatto che non vi è necessariamente coincidenza tra ciò che si incontra o si riceve come un ‘dato’ attraverso l’educazione e ciò che è ragionevole: «è giusto avere qualche conoscenza dei costumi dei diversi popoli, per poter meglio giudicare dei nostri e per non ritenere che tutto ciò che non è conforme alle nostre usanze sia ridicolo e contrario alla ragione». L’esperienza del viaggiare, che poi diventerà reale e intensa per Cartesio dopo il suo baccalaureat in diritto a Poitiers nel 1616, se causa un salutare sommovimento delle convinzioni solo passivamente accolte, può condurre, però, anche allo spaesamento: attraversando epoche e luoghi si diventa «alla fine stranieri nel proprio paese». La straordinaria apertura che la crisi della cultura scolastica porta con sé ha il suo rovescio nella mancanza di un luogo proprio nel quale abitare, di un fondamento del sapere adeguato alla nuova epoca. Mentre Cartesio studia nel collegio dei gesuiti, Galilei si confronta con la possibilità di rendere compatibili le nuove visioni astronomiche con le verità della fe-

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

de, discute con Keplero del sistema copernicano, di un universo non ancora infinito ma sicuramente non più centrato sull’uomo. La scienza moderna mette in questione anche le certezze del senso comune: la percezione immediata (per esempio il Sole che gira intorno alla Terra) non corrisponde alla realtà mostrata dalla scienza (la Terra che gira intorno al Sole). La stessa inquietudine della cultura artistica del Seicento, in cui è centrale il tema del sogno, dell’illusione, dell’artificio, esprime anche il senso di incertezza che si va creando rispetto al rapporto con le cose del mondo. La perdita dell’unità Le guerre di religione, provvisoriamente fermate in Francia nel 1598 dall’editto religiosa e le guerre di Nantes, mostrano la virulenza dello scontro tra contrapposte credenze assoludi religione te, intaccando la solidità di fondamenti di fede che si pretendono indiscutibili. La Guerra dei trent’anni, tra potenze cattoliche e protestanti, che inizia nel 1618 e alla quale Cartesio partecipa a suo modo (cattolico, si arruola in un primo tempo, dato che in questa prima fase la Francia non partecipa alle ostilità, nei reggimenti di volontari francesi che servono sotto il principe protestante olandese di Nassau), conferma la lacerazione tra fedi diverse. La stessa idea di un fondamento divino del potere politico è posta in discussione da autori come Johannes ➥ Percorso tematico, p. 611 Althusius (1557-1638 ca.) o Ugo Grozio (1583-1645) che riconducono la legittimità del potere politico alla sovranità del popolo, oppure a principi derivanti dalla natura razionale umana.

Una nuova fondazione del sapere Salvaguardare l’autonomia del sapere

L’autonomia della ricerca razionale

Inventio contro memoria

T1

Cercare da solo le ragioni degli altri Regole per la guida dell’intelligenza, regola decima

Il riferimento all’autorità come origine della validità dei più disparati discorsi umani non è più soddisfacente, e in questo senso e solo in questo senso, Cartesio esprime addirittura fastidio per i libri: «che nella maggior parte, lette poche righe, guardate le figure, hanno rivelato tutto, perché il resto fu aggiunto per riempire la carta». Il problema filosofico centrale di Cartesio diventa allora quello di una nuova fondazione del sapere che ne salvaguardi l’autonomia da altre e diverse istanze. L’idea di una ragione propriamente umana e comune a ognuno che possa ricominciare radicalmente da capo, è la cifra di un problema filosofico e di un atteggiamento culturale, e quasi spirituale, che caratterizza la modernità – e giustamente Cartesio è stato visto come esponente fondamentale della filosofia moderna. L’epoca che, a un certo punto, ha definito se stessa con questo aggettivo, «non può e non vuole», secondo le parole del filosofo contemporaneo Jürgen Habermas (nato nel 1929), «prendere in prestito i suoi criteri di orientamento da modelli di altre epoche; essa deve trarre da se stessa la propria normatività». È sullo scoprire piuttosto che sull’accettare passivamente delle verità, sulla inventio opposta alla memoria, che Cartesio insiste anche nei ricordi dei suoi primi passi. Confesso di essere nato con una mente tale che ho sempre trovato il più grande piacere dello studio non nell’ascoltare le ragioni degli altri, ma nel trovarle industriandomi io stesso; e solo questo avendomi spinto, ancora giovane, a imparare le scienze, tutte le volte che un libro prometteva nel titolo qualcosa di nuovo, prima di leggere oltre, tentavo se per caso non ottenevo qualcosa di simile, grazie ad una certa sagacia congenita, e mi guardavo bene che una lettura prematura non mi togliesse questo innocente diletto. 137

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La ricerca di un sapere evidente

L’esame della ragione per legittimare il sapere

Il paradigma della modernità

➥ Sommario, p. 177 Cartesio e il suo tempo

Non è solo il ricordo di un’indole personale, ma un aspetto esemplare di una storia: traluce l’idea di un sapere valido soltanto perché tale di fronte alla sola ragione dell’individuo, legittimato rispetto a fondamenti razionali: un sapere che può essere, dirà poi Cartesio con un termine peculiare, «evidente». La conoscenza appresa, tramandata, non costituisce scientias, ma historias (anche Galilei, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, a coloro che privilegiavano i libri agli «occhi nella fronte e nella mente» dice: «deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria»). Così, dirà Cartesio, «le scienze depositate nei libri» non hanno nessun privilegio, ma anzi, «non si avvicinano tanto alla verità quanto invece vi si avvicinano i semplici ragionamenti che può fare naturalmente un uomo di buon senso intorno alle cose che gli si presentano». Davanti alla ragione, giudice di sé e di ogni sapere, le conoscenze dell’epoca si mostrano tutte inadeguate. Cartesio – pur prudente e rispettoso della Rivelazione – oserà sottoporre a critica razionale anche la teologia proveniente dal libro considerato più autorevole, la Bibbia. Richiamando la Lettera ai Romani di san Paolo sosterrà che «tutto quel che si può sapere di Dio lo si può dimostrare con argomenti che non si traggano se non dalla nostra mente stessa». L’insufficienza del sapere tramandato, racconta Cartesio, «mi faceva prendere la libertà di giudicare da me tutti gli altri». Non si tratta solo della libertà che il giovane Cartesio rivendica per sé, ma del diritto dell’individuo moderno di riconoscere solo ciò che il «lume naturale», la ragione di cui tutti sono partecipi, considera legittimo. Il compito che Cartesio assume – di rifondare il sapere in base a ciò che regge alla prova dell’autonoma ragione individuale – sarà, infine, anche il compito che un’intera epoca darà a se stessa. Nel modo ambiguo e complesso di ogni inizio, la filosofia di Cartesio è paradigmatica di un atteggiamento, proprio del pensiero e dell’uomo moderni, che ha avuto un notevole peso storico, ma non è mai stato fino a oggi un dato culturale comunemente accettato, un’acquisizione storica ineluttabile e irreversibile. L’idea di sottoporre tutto alla ragione autonoma, e alla sua forza universale, rappresenta un modo di comprendere il mondo che, proprio perché vuole avere in sé i propri fondamenti, ne è sempre alla ricerca, e può quindi esser posto in questione. Cartesio contribuisce ad avviare un progetto che è, secondo alcuni, ancora «incompiuto», secondo altri, già superato: per questi ultimi nella nostra epoca (che dagli anni ottanta del Novecento si è chiamata «postmoderna») l’ideale di una ragione autonoma e autofondata sarebbe tramontato e non avrebbe più senso. Crisi epocale

Tendenze personali

Nuova scienza e nuova cosmologia

Affermare l’autonomia della ricerca razionale

Crisi delle certezze del senso comune

Ricerca di un sapere evidente e autofondato

Fine dell’unità dei cristiani e guerre di religione

Curiosità e desiderio di scoprire da solo la verità

Messa in discussione di un fondamento divino del potere politico e del diritto

Spaesamento di fronte alla varietà di opinioni e al cadere delle vecchie certezze

Il problema filosofico centrale per Cartesio è una nuova fondazione del sapere

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

2 Approfondire le proprie conoscenze e cercare la pace

Coraggio intellettuale e cautela nella vita

Soldato e viaggiatore alla ricerca della propria missione

I sogni di Cartesio

Rifugio olandese e contatti con matematici e scienziati

I rapporti con i Rosacroce

In cammino nell’Europa del Seicento Si è accennato a quanto l’esperienza del viaggiare sia stata importante per Cartesio. In un suo sogno famoso, che egli ha raccontato, trova un libro sulla sua scrivania, lo apre e legge le parole del poeta latino Ausonio (310-395 d.C.): Quod vitae sectabor iter? «Quale cammino seguirò nella vita?». A un certo punto Cartesio crede di avere trovato la risposta: «dedicare tutta la mia vita a coltivare la ragione, e progredire quando potessi nella conoscenza della verità». Ma per seguire questo cammino nella sua vita, per perseguire questo scopo, di vie nell’Europa del Seicento Cartesio ne percorrerà moltissime, cercando allo stesso tempo di arricchire la sua conoscenza e di trovare le condizioni esterne per potere svolgere i suoi studi in tranquillità d’animo e senza rischi. La figura umana e di pensatore di Cartesio è segnata da tendenze almeno in apparenza contraddittorie: il coraggio della ricerca del nuovo, la curiosità inesauribile, la voglia di cercare la scienza «nel gran libro del mondo», e la cautela, la ricerca di quella pace che gli consentisse di attingere anche la scienza che poteva, invece, «trovare in se stesso». Trovare la pace non è facile nell’Europa del Seicento, e Cartesio in realtà, dopo la conclusione dei suoi studi, cerca piuttosto la guerra: trascorsi due anni a Parigi, dove tornerà in molte occasioni, decide nel 1618 di arruolarsi nell’esercito del principe protestante olandese Maurizio di Nassau, scegliendo la vita militare, dirà il suo primo biografo Adrien Baillet (1649-1706), come «passaporto per il mondo». Da quel momento, sempre accompagnato da un valletto e grazie anche alle consistenti fortune della sua famiglia, inizia un itinerario attraverso l’Europa, caratterizzato in questa fase soprattutto dalla volontà di nuove esperienze e dalla ricerca della sua missione nella vita. È un percorso quasi frenetico e certo avventuroso, se si pensa cosa significasse viaggiare in quell’epoca, e singolare, perché Cartesio trova il tempo di cominciare a coltivare i propri pensieri e di fare le sue prime scoperte. Nel paese di Neuburg sul Danubio, nella notte del 10 novembre 1619, Cartesio vive un’esperienza particolare, con tre sogni che sembrano indicargli la sua missione, e la scoperta dei fondamenti di una scientia mirabilis, una scienza meravigliosa, di cui non dice nei suoi appunti quale sia (per qualcuno si tratta della geometria analitica: e dunque questa data avrebbe cambiato la storia della matematica). Dopo molti altri viaggi, nel 1628 si stabilisce infine – ma il termine è abbastanza improprio, perché cambierà residenza molto spesso – in Olanda. Sarà questo il Paese, tollerante, ricco di stimoli, che Cartesio, dopo quasi dieci anni di peripezie per l’Europa, considererà il più adatto alla prosecuzione del suo cammino di pensiero. Il girovagare, che sarebbe poco definire irrequieto, è per Cartesio anche un modo per prendere contatto con matematici e scienziati dei Paesi che visita, e in questo modo comincerà già presto a farsi notare. La sua prima ‘opera’ compiuta – un trattato di musica, il Compendium musicae – non la pubblica, ma la dona alla fine del 1618 al dotto olandese Isaac Beeckman (1588-1637). Tra i suoi primi contatti vi è anche, a Ulm in Germania, il matematico Johann Faulhaber (1580-1635) membro della confraternita dei Rosacroce, una società segreta di alchimisti, matematici, mistici, e in genere scienziati, che vogliono trasformare il mondo attraverso il sapere. I Rosacroce sono contrari al potere ec139

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Le accuse di ateismo

La prudenza nel pubblicare

Curioso verso tutto ma ostile all’esoterismo

L’interesse per le discipline tecniche e la medicina

L’ultimo rifugio in Svezia

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clesiastico, e intendono promuovere una unità del genere umano che vada al di là dei confini nazionali – idee certo pericolose per quei tempi. Si è spesso discusso se Cartesio abbia non solo preso contatto, ma si sia persino affiliato alla Confraternita: alcune immagini dei suoi sogni famosi richiamano la simbologia Rosacroce. Certamente Cartesio ne condivide alcune idee, come l’unità del sapere o la critica alla scienza praticata nelle università. E anch’egli ha avuto rapporti difficili con la Chiesa. Cattolico quasi per caso – la sua famiglia proveniva dal Poitou, regione prevalentemente protestante – Cartesio resta, probabilmente con convinzione, nella religione in cui è stato allevato, ma teme a lungo l’Inquisizione e vive per molto tempo nell’Olanda protestante, cercandovi anche un ambiente più protetto in cose religiose. Ma gli attacchi più duri e le accuse di ateismo verranno paradossalmente da ambienti olandesi. Pubblicata nel 1637, anonima, l’opera che lo rende subito celebre, il Discorso sul metodo, Cartesio rinuncia a pubblicare un’altra opera preparata per quattro anni, Il Mondo o Trattato sulla luce (incompleto e pubblicato postumo), «per fare atto di completa obbedienza alla Chiesa», sperando sempre, al contempo, di potere ottenere un mutamento di opinione da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Oscilla spesso tra la volontà di rendere pubbliche le sue scoperte e la risoluzione di tenerle nascoste in attesa di tempi migliori. Pubblicare in quei tempi non è un atto indifferente. Il controllo della Chiesa e del suo Sant’Uffizio si estende o cerca di estendersi su tutta l’Europa. Nel 1619 un filosofo, Giulio Cesare Vanini (1585-1619), è morto sul rogo a Tolosa, con l’accusa di ateismo, la stessa che sarà mossa anche a Cartesio dai suoi avversari in Olanda. Molti dei suoi contatti col mondo intellettuale europeo Cartesio li tiene tramite padre Marin Mersenne, un frate parigino di grande cultura che è in comunicazione con le maggiori personalità dell’epoca. Studioso di numerose discipline, interessato a tutte, Cartesio si preoccupa sempre della ricaduta pratica del sapere; si accosta anche alle «scienze più curiose e rare», che comprendono la magia naturale (che nel Rinascimento includeva studio della natura e pratiche esoteriche), ancora non distinta chiaramente, nell’opera degli uomini colti del tempo di Cartesio, dallo studio della natura oggi riconosciuto come scientifico. Ma rifiuta presto la ricerca di chiavi misteriose e arcane di ogni sapere: come scrive una volta a Mersenne, gli «bastava vedere soltanto la parola arcanum in una proposizione, per cominciare ad averne subito un cattivo concetto». I viaggi servono a Cartesio anche per osservazioni di ogni genere: da quelle riguardanti le tecniche militari – si reca all’assedio di Larochelle del 1628 per studiare la costruzione di una grandiosa diga eretta per bloccare il porto –, alle osservazioni di fenomeni naturali (i temporali e il disgelo sulle Alpi, le inondazioni delle isole nel mar del Nord), alla conoscenza di usi e costumi, e di diverse lingue. Gli interessa moltissimo la medicina, con cui spera in un certo momento di prolungare anche la propria vita, e che considera tra le scienze più importanti: «La conservazione della salute è stata da sempre lo scopo principale dei miei studi, e sono sicuro che è possibile acquistare molte conoscenze in medicina che finora sono state ignorate». Frequenta a lungo anche le botteghe dei macellai, per dissezionare animali, e l’anfiteatro di anatomia dell’università di Leida. Divenuto famoso, Cartesio deve difendersi da attacchi sul piano teorico, ma anche da minacce molto più concrete: il rettore dell’università di Utrecht – il teo-

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➥ Sommario, p. 177

logo calvinista Gisbert Voet (1588-1676) – usa la risposta di Cartesio a un libello anticartesiano (in cui lo accusa tra l’altro di essere un Rosacroce) per citarlo per diffamazione e mobilitare anche la municipalità della sua città contro di lui. Forse questa vicenda è tra i motivi che inducono Cartesio ad accettare l’invito della regina di Svezia, Cristina, a recarsi a Stoccolma presso la sua corte. Dalla Svezia Cartesio non torna più: secondo alcuni per il clima rigido, secondo altri perché viene avvelenato (forse per il timore che favorisca la conversione della regina al cattolicesimo, cosa che qualche anno dopo la sua morte avviene effettivamente), muore l’11 febbraio 1650, all’età di cinquantatré anni.

La vita e le opere René Descartes («Cartesio» deriva da Cartesius, la latinizzazione del suo cognome) nacque il 31 marzo del 1596 a La Haye in Turenna, proveniente da un’agiata famiglia francese. Studiò dal 1606 al 1614 nel collegio di gesuiti di La Flèche. Nel 1616 ottenne il baccalaureato in diritto canonico e civile all’università di Poitiers. Trascorsi due anni a Parigi, dove tornerà in molte occasioni, decise nel 1618 di arruolarsi nell’esercito del principe protestante olandese Maurizio di Nassau. Dopo essere stato acquartierato a Breda con l’esercito, si mise in viaggio verso il Nord, andando ad Amsterdam, Copenaghen, poi a Danzica, e attraversando la Polonia, l’Ungheria, la Germania, fermandosi a Francoforte, dove assistette all’incoronazione dell’imperatore Ferdinando II (30 agosto 1619); si arruolò poi di nuovo in un esercito, questa volta quello di Massimiliano di Baviera, principe cattolico, che strinse d’assedio Praga e ne fece fuggire Federico di Boemia. Con la figlia di Federico, Elisabetta, molti anni dopo Cartesio intreccerà un intenso rapporto, anche epistolare, che stimolerà molte delle sue riflessioni. Nel novembre del 1619 ebbe un’esperienza particolare che gli fece intravedere i fondamenti di una «scienza meravigliosa». Ripresi i suoi viaggi, nel 1623 arrivò anche in Italia, dove non riuscì, come voleva, a incontrare Galilei. Tornato in Francia nel 1624, quattro anni dopo, infine, si stabilì in Olanda. Nel 1628 iniziò anche un trattato che rimase incompiuto, circolando però manoscritto, e venne pubblicato postumo: le Regole per la guida dell’intelligenza, in cui Cartesio esponeva per la

3 Una ricerca che intreccia scienza e filosofia

prima volta un metodo per garantire certezza assoluta alle proprie conclusioni. Dal 1630 al 1633 scrisse Il Mondo o Trattato sulla luce (postumo), che comprendeva anche una parte intitolata L’uomo; interruppe l’opera a causa della condanna di Galileo. Nel 1637 uscì anonimo a Leida il Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze più la Diottrica, le Meteore e la Geometria che sono saggi di questo metodo, l’opera che lo rese famoso e dette inizio alla diffusione del cartesianesimo. Il 19 novembre 1640 inviò a padre Mersenne il manoscritto delle Meditazioni metafisiche con le Prime obiezioni formulate dal teologo scolastico olandese Jan de Kater (Caterus); l’opera uscì nell’agosto del 1641 con in aggiunta le Seconde obiezioni di Mersenne; le Terze del filosofo inglese Thomas Hobbes; le Quarte di Antoine Arnauld, un teologo giansenista formatosi nella cerchia di Pascal; le Quinte di Pierre Gassendi (1592-1655), un filosofo francese autore di un modello di meccanicismo alternativo a quello cartesiano; le Seste di vari teologi e geometri; al testo erano state aggiunte anche le risposte di Cartesio a tutte le osservazioni rivoltegli. Nel gennaio del 1642 furono stampate a parte le Settime obiezioni, opera di un gesuita, con le risposte di Cartesio. Due anni dopo, nel 1644, furono pubblicati I principi della filosofia in cui egli presentava in maniera sistematica il proprio pensiero sul mondo e sull’uomo; nel 1649 uscì la sua ultima opera, Le passioni dell’anima, un’analisi delle emozioni in rapporto al corpo. Trasferitosi in Svezia su richiesta della regina Cristina, morì a Stoccolma nel 1650.

Un pensatore su molti fronti e l’unità del sapere Il ruolo storico principale di Cartesio è stato senz’altro quello di tentare una rifondazione generale del sapere sulla base di nuove premesse, ma questo compito centrale e propriamente filosofico non è stato il suo scopo esclusivo, né il suo unico ambito di azione. Se ha potuto svolgerlo è, invece, perché si è immerso nelle conoscenze dell’epoca, non soltanto attraversandole, ma praticandone molte, in modo nient’affatto marginale, contribuendo anzi al cambiamento dei modelli di sapere scientifico utilizzati. La filosofia era allora, ed è stata a lungo ancora dopo Cartesio, una disciplina intrecciata ad altre forme di conoscenza. Separare 141

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nettamente in questo contesto, per esempio, metafisica e fisica non risulterebbe facile: Cartesio stesso, per citare un solo punto, pensava di trattare delle verità eterne e del loro rapporto con Dio nella sua fisica. Nell’opera I principi della filosofia (1644), l’articolazione della filosofia stessa rende chiaro come essa non corrisponda a una riflessione solo metafisica o di tipo metascientifico (una riflessione sulla scienza).

T2

L’albero della conoscenza Lettera a Picot, in I principi della filosofia

L’impegno di tutta la vita per la ‘nuova scienza’

I saggi scientifici e il Discorso sul metodo

La Diottrica

Le Meteore

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[…] tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sortono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e perfetta morale, che, presupponendo un’intera conoscenza delle altre scienze, è l’ultimo grado della saggezza. Vedremo in conclusione come Cartesio riconduca le altre scienze alla saggezza, cioè alla «perfetta conoscenza di tutte le cose che l’uomo può sapere, tanto per la condotta della vita, quanto per la conservazione della sua salute e l’insieme di tutte le arti» (Lettera a Picot, cit.). Ora è importante sottolineare che, per quanto sia impropria e anacronistica per l’epoca di Cartesio una netta distinzione tra scienza e filosofia, e per quanto i suoi interessi da subito siano stati ad ampio raggio e molteplici, si può dire che egli si è occupato prima di scienze che di filosofia, e di queste ha continuato a occuparsi per tutta la vita: in particolare di matematica, fisica, ottica, meteorologia, fisiologia, medicina, embriologia, musica (studiata dal punto di vista matematico dei rapporti tonali), di macchine e problemi tecnici di diverso tipo. Cartesio non si limita dunque – per quanto grande sia questo compito – a fornire un nuovo quadro filosofico e metafisico che consenta di comprendere la scienza moderna della natura, ma opera in concreto per contribuire a farle prendere forma, per costituirla in quanto tale. Si ricorda raramente oggi che la sua opera forse più famosa, il Discorso sul metodo, cui abbiamo fatto già cenno, non è che la prefazione a un’opera più complessa, la prima che Cartesio pubblica, apparsa nel 1637 con il titolo Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze più la Diottrica, le Meteore e la Geometria che sono saggi di questo metodo. È un libro che comprende dunque la raccolta di un saggio di ottica (precisamente di teoria della rifrazione), uno di meteorologia e uno di geometria, saggi che devono realizzare ed esemplificare la teoria sul metodo esposta nel discorso introduttivo. Si tratta, secondo il filosofo e storico della scienza Alexandre Koyré (1892-1964) di «tre saggi scientifici di una novità sorprendente e di un interesse capitale». La Diottrica tratta della rifrazione, ma anche del telescopio e del cannocchiale, di strumenti cioè che hanno avuto un ruolo centrale per modificare la nostra visione del mondo fisico (vedi Galilei e il suo Sidereus Nuncius, p. 94 ss.); in questo saggio si parla, però, anche dell’occhio, e della natura della percezione sensibile, un tema di valore centrale per la teoria della conoscenza. Le Meteore si occupano, secondo una delimitazione dell’ambito di ricerca stabilita da Aristotele, dei cosiddetti fenomeni sublunari, ossia quelli che si producono sulla Terra e tra la Terra e la Luna – dunque in parte quelli oggetto dell’odierna meteorologia, ma anche fenomeni come quello inquietante e misterioso dei ‘pareli’, «l’apparizione di parecchi soli», ossia macchie luminose vicine al Sole dovute alla rifrazione della luce attraverso particelle di ghiaccio presenti nel-

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l’atmosfera. Cartesio, in particolare, dà in quest’ambito una spiegazione dell’arcobaleno che costituisce una straordinaria applicazione della matematica allo studio di fenomeni fisici e che egli stesso considerava tra i migliori esempi di messa in pratica del proprio metodo. Un nuovo modello Ma al di là dei contenuti e delle tesi particolari dei trattati cartesiani, in parte di spiegazione superati dallo sviluppo della scienza fisica, le opere scientifiche di Cartesio moscientifica strano un cambiamento radicale nel modo stesso di affrontare i fenomeni della natura. Se la meteorologia scolastica spiegava per esempio la brina e la rugiada ancora in riferimento a quella che Aristotele chiamava la loro «causa finale» (gli effetti benefici per le piante), per Cartesio ogni spiegazione è genetica, consiste cioè nell’indicazione delle condizioni del prodursi del fenomeno, e meccanicistica, nel senso che utilizza soltanto i parametri di estensione (la qualità della materia di occupare uno spazio in larghezza, lunghezza e profondità) e movimento, che possono essere trattati in modo matematico. In questo senso, la disciplina contenuta nel terzo trattato, la Geometria, costituisce un fondamento decisivo, e non solo un’applicazione particolare e accessoria, per la concezione cartesiana dello studio della natura: diventa l’inizio e la premessa costante per un progetto più ampio e ambizioso, quello della rifondazione del sapere su basi nuove e unitarie.

La geometria analitica La matematizzazione dello spazio fisico

I caratteri della geometria analitica

Riforma della matematica ed evoluzione della fisica

La matematica che Cartesio trova insegnata ai suoi tempi considera la geometria e l’algebra discipline nettamente separate. La geometria si occupa delle figure costruibili con riga e compasso, l’algebra di equazioni con simboli e numeri. Cartesio introduce il sistema poi noto come «coordinate cartesiane», ossia l’utilizzazione di un sistema di riferimento di assi ortogonali che consentono di ‘tradurre’ qualunque figura dello spazio in termini numerici e di costruire tramite equazioni anche figure che non risultano costruibili con rette e cerchi, ossia con il sistema tradizionale di riga e compasso (per esempio linee curve complesse). Con la geometria analitica, così escogitata, 1) si ottiene l’unificazione di due discipline matematiche, consentendo di trattare problemi geometrici in termini di equazioni, ma anche di rappresentare quantità attraverso segmenti e risolvere problemi algebrici con costruzioni di tipo geometrico; 2) si rende possibile la soluzione di problemi matematici prima insoluti; 3) ma soprattutto si svincola la geometria dai limiti dell’immaginazione, e si rende possibile la matematizzazione dello spazio fisico, con un sistema capace di trasformare linee in numeri e numeri in linee: una premessa indispensabile per la piena applicazione della matematica allo studio dei fenomeni naturali. La geometria, tra i primissimi oggetti di interesse di Cartesio, diventa allora una chiave di accesso che va di gran lunga al di là del suo pur significativo valore settoriale, e anche al di là del suo ruolo di premessa fondamentale per lo sviluppo della scienza. Cartesio nel riformare la matematica si rende conto anche del suo ruolo cruciale in rapporto a una nuova maniera di concepire le cose stesse della natura, i fenomeni, che la ‘nuova scienza’ – quella che oggi chiamiamo «newtoniana» – stava facendo emergere, e che sconvolgeva la stessa metafisica classica, il suo modo di intendere l’essenza delle cose. 143

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Dal sapere fondato sulle essenze alla ricerca di leggi e funzioni

Cartesio e la ‘nuova scienza’

Il mondo aristotelico è un mondo di sostanze, di cose compiute dotate di una loro natura interna, o essenza, in grado di determinare le proprietà che le cose manifestano. A questo corrisponde l’ideale di un ordine classificatorio, nel quale le diverse ‘qualità’ delle cose naturali vengono organizzate secondo le medesime relazioni ontologiche esistenti tra le forme o essenze che le determinano. I protagonisti della rivoluzione scientifica seicentesca, Keplero, Galilei, Newton, invece, si occupano ormai di leggi, funzioni, ossia di regole del prodursi dei fenomeni: sono soltanto le relazioni stesse ciò che può essere colto dalla scienza e che rende pienamente conto di ciò che accade, lo rende controllabile e prevedibile. Una logica che preveda solo le forme di inclusione tra classi – come era quella aristotelica – non è più in grado di corrispondere alla natura delle cose del mondo fisico, alla nuova ontologia che la scienza moderna prefigura e sottintende. Cartesio si rende conto che è necessario un nuovo e più potente strumento, e l’unificazione di algebra e geometria, e con esse di numero e spazio, che egli intravede precocemente gli sembra soltanto il segno di qualcosa di ulteriore e di più vasto.

Abbandono del finalismo e dell’essenzialismo aristotelici

Spiegazione genetica: trovare le condizioni del prodursi del fenomeno Utilizzazione solo dei parametri passibili di trattazione matematica, estensione e moto (meccanicismo) Matematizzazione dello spazio fisico attraverso la geometria analitica

Ricerca di leggi e funzioni

La matematica universale Nel Discorso sul metodo si narra della scoperta dell’unità di algebra e geometria alla luce di un principio più generale:

T3

Discorso sul metodo, 2

[…] osservando come tutte [le scienze particolari che comunemente sono chiamate matematiche] per quanto i loro oggetti siano diversi, son d’accordo a considerare questi soltanto dal lato dei rapporti e delle proporzioni, pensai che era meglio esaminare soltanto questi rapporti, o proporzioni, in generale, supponendoli in quegli oggetti che potevano facilitarmene la conoscenza, ma senza limitarli ad essi in nessun modo per poterli dopo applicare ugualmente bene a tutti gli altri oggetti a cui convenissero.

La ricerca di uno strumento universale di conoscenza: la mathesis universalis

L’unità di algebra e geometria, di numero e spazio, viene vista da subito dunque nel quadro di un compito più ampio: quello di individuare uno strumento universale, capace di conservare il meglio delle discipline – logica, algebra, geometria –, capace in altri termini di essere lo strumento di comprensione di un

Rapporti e proporzioni

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

mondo concepito secondo l’ordine delle relazioni. Nelle Regole per la guida dell’intelligenza (scritte prima del Discorso, in gran parte negli anni 1627-1628, mai pubblicate mentre Cartesio era in vita, ma circolate manoscritte) questo programma più vasto è espresso con grande chiarezza. Se quello che conta sono ordine e misura – relazioni matematizzabili – «non ha interesse se tale misura si debba cercare nei numeri, o nelle figure, o negli astri, o nei suoni, o in qualunque altro oggetto». E dunque è possibile quell’altra disciplina, ossia «una scienza generale che spieghi tutto ciò che si può chiedere circa l’ordine e la misura non riferite ad alcuna speciale materia». Cartesio pensa in questa fase di darle il nome di mathesis universalis, una matematica universale che in realtà costituisca la logica generale del sapere umano.

T4

Una logica generale della conoscenza Regole per la guida dell’intelligenza, regola quarta

L’unità del sapere

E per quanto io menzionerò qui molte cose relative a figure e numeri, perché non si possono prendere da nessun’altra disciplina esempi altrettanto evidenti e altrettanto certi, tuttavia chiunque avrà riflettuto attentamente sul mio punto di vista, si accorgerà facilmente che io qui non penso affatto alla matematica ordinaria, ma che espongo un’altra disciplina, della quale tali cose sono più maschere che parti. Essa deve contenere difatti i primi rudimenti della ragione umana, e deve estendersi fino a estrarre la verità da qualunque soggetto; e, per parlare liberamente, sono convinto che essa sia preferibile ad ogni altra conoscenza a noi umanamente trasmessa, in quanto fonte di tutte le altre. Mentre concepisce l’idea di una logica generale della conoscenza, Cartesio si persuade della essenziale unità di ogni sapere umano, contro la suddivisione in campi separati della conoscenza corrispondenti a diversi tipi di entità che caratterizzava l’impostazione aristotelico-scolastica.

T5

Poiché tutte le scienze non sono altro che sapere umano, che rimane uno e identico, per diversi che siano gli oggetti a cui viene applicato, né da essi acquisisce maggiori distinzioni di quante ne acquisisca la luce del sole dalla varietà delle cose che illumina, non è necessario costringere le menti entro alcun limite; infatti la conoscenza di una sola verità non ci allontana dal trovarne un’altra, come invece accade per la pratica di una sola arte, ma anzi ci è utile.

Il progetto di un sapere unitario necessita di un metodo

Chi riesca a possedere la ragione del prodursi delle cose – con la reductio rerum ad causas, la riconduzione delle cose alla loro causa – finisce per possedere la chiave di ogni conoscenza, se tutte le cose sono concatenate tra di loro secondo un unico ordine di nessi, di relazioni che costituiscono tutto ciò che delle cose è possibile conoscere. Come vedremo, Cartesio è anche consapevole del fatto che questo progetto, rispetto al preteso sapere delle essenze, comporta una certa ‘distanza’ da ciò che è conosciuto, dalla sua natura ultima. Ma comporta anche la possibilità di un dominio su di esse ben più potente di qualunque sapere che è in ultima analisi memoria. Lo strumento per ottenere una tale conoscenza è disporre dei principi per acquisirla, non di informazioni accumulate: e dunque il compito che si presenta è quello di stabilire una logica che indichi come raggiungere e possedere saldamente le verità. Si tratta di stabilire un metodo, ossia delle regole del procedere, che possano valere per qualunque conoscenza.

L’unità del metodo

Regole per la guida dell’intelligenza, regola prima

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Una filosofia pratica La filosofia deve produrre effetti positivi per l’uomo

Questo progetto metodologico, che vedremo da vicino nella sua parte teorica, Cartesio non si limita a concepirlo, lo porta avanti in pratica. In questo senso il suo pensiero non è una pura riflessione metodologica, filosofica, ma una complessiva riforma della conoscenza che unisce alla riflessione sul conoscere e sui suoi fondamenti il tentativo di produrre un sapere di tipo nuovo. Nel Discorso sul metodo, scritto maturo e consapevolmente programmatico, pubblicato dopo molti anni di studi e di riflessioni, Cartesio dichiara di volere impiegare il tempo che gli resta da vivere «nello studio della natura per acquistare qualche conoscenza da cui sia possibile ricavare regole per la medicina più sicure di quelle in uso oggi». Il sapere che viene maggiormente esaltato in queste pagine è quello di una filosofia «pratica» – opposta a quella «meramente speculativa che si insegna nelle scuole» – che possa produrre il bene degli uomini attraverso un tipo di conoscenza che renda possibile controllare la natura.

T6

[…] venendo a conoscere la forza e le azioni del fuoco, dell’acqua, dell’aria, degli astri, dei cieli e di tutti gli altri corpi che ci circondano, altrettanto distintamente di come conosciamo le tecniche impiegate dai nostri artigiani, possiamo egualmente applicarle a tutti gli usi che sono loro propri, diventando così quasi dominatori e padroni della natura.

Il dominio sulla natura

Discorso sul metodo, 6

Controllo della natura e nuova immagine del mondo

➥ Sommario, p. 177 Una nuova immagine del mondo

Unità di tutte le scienze

4 Lo studio dei fenomeni fisici

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Per ottenere tutto ciò è necessario cambiare il modo di conoscere: non cercare di giungere fino all’essenza nascosta delle cose, ma sviluppare una conoscenza adeguata allo spirito umano che renda conto, però, pienamente del prodursi dei fenomeni. Così per esempio non dovremo ricercare nel magnete qualche essenza peculiare e sconosciuta, da cogliere con l’intelletto: ma «tutto quello che a tale proposito può essere procurato dalla mente umana noi crederemo di averlo conseguito se percepiremo con la massima distinzione quella mescolanza di enti, o di nature, già noti, che produca gli stessi effetti che si manifestano nel magnete». L’idea di un dominio sulla natura attraverso il sapere, che ha in Bacone (vedi Unità 2, p. 108 ss.) un precursore, che, però, non trova la formulazione metodologica adeguata agli sviluppi della scienza fisico-matematica, si traduce in Cartesio nel programma di costruzione di un sapere basato su principi affidabili, che produca una diversa e più adeguata immagine del mondo intero.

Unità del metodo

Riconduzione delle cose alle loro cause

Conoscenza con fini pratici: controllo sulla natura

Costruire il mondo (e l’uomo): fisica e fisiologia Per molti anni, prima di dare alle stampe il Discorso con la Diottrica, le Meteore e la Geometria, Cartesio si occupa, come si diceva, di molte scienze diverse, ma anche di problemi metafisici. I suoi studi più intensi vanno in un primo tempo

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alla matematica, che a un certo punto – nel 1628 – ritiene di avere quasi «esaurito», dopo aver sviluppato l’unione di geometria e algebra. Si dedica poi a problemi di metafisica, ma si imbatte nel fenomeno dei pareli (vedi sopra p. 142), quello trattato nelle Meteore, che erano stati osservati nel marzo del 1629 vicino a Roma dal padre gesuita Schneiner, e questo lo conduce decisamente verso la fisica. Tale questione particolare, però, rimanda ad altre, e Cartesio, anche per la sua idea della fondamentale unità di tutto il sapere e dell’interconnessione di tutti i fenomeni, decide di trattare tutti i fenomeni sublunari, e poi la luce, e infine l’insieme del mondo fisico. Il proposito Così nel novembre 1629 scrive in una lettera: «anziché spiegare un solo fenodi una fisica generale: meno, mi sono risolto a spiegare tutti i fenomeni della natura». Il progetto, come Il Mondo si vede piuttosto ambizioso, subisce varie vicissitudini e sfocia poi nel piano, di vasto impianto ma limitato ai fenomeni più fondamentali, di un trattato intitolato Il Mondo o Trattato sulla luce, in cui il nesso con i problemi della diottrica, che intanto stava sviluppando, è dato dalla spiegazione preliminare del fondamentale problema della luce.

La favola del mondo Il Mondo o Trattato sulla luce non viene mai pubblicato durante la vita di Cartesio, perché nel 1633 Galileo viene condannato dal Sant’Uffizio per la sua difesa della concezione eliocentrica. Ancora, nel 1600 Giordano Bruno è stato bruciato sul rogo per aver sostenuto tra l’altro l’eternità dell’universo e l’infinità dei mondi. Cartesio, sempre estremamente prudente, rinuncia alla pubblicazione, anche perché non crede che la teoria del movimento della Terra possa facilmente essere omessa: «Tutte le cose che spiegavo nel mio trattato, tra cui c’era anche l’opinione del moto della Terra, dipendevano talmente le une dalle altre, che basta sapere che una è falsa per conoscere che tutte le ragioni su cui mi fondavo non hanno più alcuna forza». Il trattato viene pubblicato dopo la sua morte, in due volumi; il primo, contenente la parte finale sull’uomo, nel 1662 in latino (De Homine), il secondo, contenente le prime parti, nel 1664 in francese, col titolo Le Monde. Ma alcuni aspetti del trattato sul mondo saranno esposti da Cartesio nel Discorso sul metodo. L’espediente retorico: Cartesio non ha atteso, però, la condanna di Galileo per rendersi conto di come la teoria presentata le sue teorie sul mondo fisico siano pericolose e ha scelto un espediente retorico come ipotesi particolare con il quale proporre il suo modo di vedere. Nella sua esposizione, presentata come un’ipotesi, Dio si limita a creare la materia, a infonderle una certa quantità di movimento e a darle delle leggi che la governino. Dopo ciò, il mondo si evolve autonomamente e l’unica concessione di Cartesio alla teologia tradizionale è ammettere che Dio ‘concorre’ all’accadere dei fenomeni, limitandosi a conservare ciò che esiste senza turbare l’ordine naturale («concorso ordinario»). Così narra egli stesso la genesi del suo testo e il suo artificio espositivo: Il processo a Galileo e la rinuncia alla pubblicazione

T7

L’origine del mondo

Discorso sul metodo, 5

Il mio progetto era di raccogliervi tutto ciò che, prima di scriverlo, ritenevo di sapere sulla natura delle cose materiali. Ma proprio come i pittori che, non potendo egualmente bene rappresentare su di una superficie piana tutte le diverse facce di un corpo solido, ne scelgono una delle principali da metter in luce, e ombreggiando invece tutte le altre, le fanno apparire per quello che possono essere viste 147

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guardando la prima, così io, nel timore di non riuscire a fare rientrare nel mio discorso tutto quello che avevo in mente, presi la decisione di esporvi ampiamente solo quanto concepivo della luce; poi, sempre in relazione ad essa, di aggiungervi qualcosa sul sole e sulle stelle fisse, perché è da questi astri che proviene quasi tutta la luce; sui cieli, perché la trasmettono; sui pianeti, sulle comete e sulla terra perché la riflettono; e in particolare su tutti i corpi che si trovano sulla terra, perché sono colorati o trasparenti o luminosi; e infine sull’uomo, perché ne è lo spettatore. Anzi per lasciare un po’ in ombra tutti questi miei argomenti e poter dire più liberamente ciò che ne pensavo, senza essere costretto a seguire o a confutare le opinioni che sono comunemente accettate dai dotti, deliberai di lasciare tutto questo nostro mondo alle loro dispute e di parlare unicamente di ciò che accadrebbe in un mondo nuovo, se Dio creasse ora da qualche parte, negli spazi immaginari, sufficiente materia per comporlo, e agitasse in vario senso e senza ordine le diverse parti di tale materia in modo da formarne un caos tanto confuso quale possono fingerselo i poeti; e poi niente altro facesse che prestare il suo concorso ordinario alla natura, lasciandola agire secondo le leggi da lui stabilite. Scelta di prudenza, ma anche presentazione di un nuovo modello teorico

Svincolarsi dal peso della teologia

Tre elementi

Creazione della materia e leggi del moto

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Si tratta dunque di una costruzione ipotetica, fantastica, ambientata in quegli «spazi immaginari» che gli scolastici concepivano come spazi fittizi posti oltre i limiti del mondo e dunque dello spazio. Cartesio parla anche della sua «favola del Mondo», che sembra dunque quasi presentata come una sorta di fantascienza (fisico-teologica) ante litteram. Eppure questa favola ha ragioni profonde. Presentare tutto come la costruzione di un «mondo nuovo» non risponde solo a motivi di opportunità e prudenza, che non sarebbero comunque sufficienti dopo la condanna di Galileo (tant’è vero che Cartesio si guarda bene dal pubblicare il testo anche in questa forma). Certo, è per Cartesio «un espediente per mezzo del quale io possa dire la verità, senza colpire l’immaginazione di nessuno, né urtare le opinioni comunemente accolte». Ma la «favola del Mondo», la Descrizione di un mondo nuovo intende anche mostrare la costruzione di un mondo – del nostro mondo – a partire da alcuni elementi semplici e basilari e alcune leggi fondamentali: vuole mostrare non cosa il mondo sia, ma come si sia prodotto, in modo analogo a come un orologiaio è in grado di stabilire le regole di composizione di un meccanismo pur non avendolo costruito. Smontare e rimontare il mondo, partendo dal caos per ritrovare l’ordine: è questo il progetto di Cartesio, e la natura ‘ipotetica’ che egli sottintende alla sua costruzione non indica tanto la natura della sua certezza (che si trattasse appunto di ipotesi), ma la sua volontà di svincolare la conoscenza del mondo da conseguenze metafisiche troppo rigide. La favola del «mondo nuovo», la costruzione ipotetica del mondo consente a Cartesio di svincolarsi dalla teologia, che per lui era «talmente asservita ad Aristotele, che è quasi impossibile esplicare un’altra filosofia, senza che sembri subito contro la fede». Il Mondo procede dall’individuazione di tre elementi (fuoco, aria, terra), che non vengono, però, spiegati in riferimento alle ‘qualità’ (calore, freddo, umidità e secchezza), che a loro volta devono essere spiegate, ma in riferimento a movimento, grandezza, figura e disposizione delle parti. Sono forma e movimento delle particelle a spiegare in altri termini le proprietà diverse di fuoco, aria e terra. Ma la favola vera e propria – «attraverso la quale la verità non mancherà di manifestarsi a sufficienza» – prevede che Dio crei la materia (altrove Cartesio la definirà res extensa, «sostanza estesa»), la cui essenza o attributo essenziale, viene

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identificata con la sua proprietà di occupare un certo spazio, ossia con l’estensione, e crei anche delle leggi di natura, ossia delle regole che nella materia determinano il mutamento, derivato dal movimento originario impresso da Dio. Queste leggi sono tre: 1) ogni parte della materia rimane nello stesso stato finché il contatto con altre non la obblighi a cambiarlo; 2) la quantità di moto negli urti si conserva; 3) ogni corpo tende a continuare il proprio movimento in linea retta. Il primo avvio dato da Dio, la quantità originaria di moto, insieme alle leggi, fanno sì che poi l’universo faccia tutto da solo, che le parti «arrivino a districarsi da sole». L’infinità Dall’identificazione tra materia ed estensione risulta l’infinità della sostanza estedella sostanza estesa sa, perché: 1) infinito è lo spazio euclideo (lo spazio concepito secondo la geometria di Euclide, incentrata sul postulato secondo cui le rette parallele non si incontrano mai) con cui la sostanza coincide; 2) la divisibilità della sostanza è egualmente infinita: le particelle di materia sono chiamate da Cartesio «corpuscoli» e non hanno la caratteristica degli atomi che sono indivisibili: essi sono, invece, divisibili all’infinito; 3) la sostanza estesa è continua (non è pensabile il vuoto) e quindi non ha limiti. I vortici e i corpi celesti Le leggi del movimento fanno sì che si creino dei vortici attraverso i quali le particelle si muovono in diverse direzioni, costituendo dei sistemi di corpi al centro dei quali vi sono le particelle di fuoco, mentre quelle di terra finiscono per aggregarsi costituendo i pianeti. Vi saranno allora «tanti diversi cieli per quante stelle vi sono, – e poiché il loro numero è indefinito, lo sarà anche quello dei cieli». Il sistema solare – concepito dunque secondo l’ipotesi eliocentrica – è uno di questi vortici, costituito a sua volta da vortici, che spiegano l’attrazione gravitazionale e lo stesso moto dei pianeti (vedi Figura 1). È una teoria che non reggerà il confronto con quella di Newton, ma che cerca anch’essa di trovare una spiegazione unitaria della gravità e del moto dei pianeti. Figura 1

Immagine dei cieli dal Mondo: al centro di ogni vortice c’è il Sole o una stella (S, E, e, A); la materia compresa tra i punti F, F, G, G, F, F è la parte di cielo che gira intorno al Sole S; quella compresa tra H, G, G, H gira attorno a un’altra stella e. Le lettere L o K indicano delle possibili orbite intorno alla stella che delimitano il passaggio da un’area in cui la velocità delle particelle di materia è maggiore, a causa della forza centrifuga, a una in cui la velocità è minore poiché si allontana dal centro del vortice. Le linee del trapezio indicano il comporsi delle forze dei vari vortici. La linea punteggiata in alto, che somiglia a un fiume, rappresenta il tragitto di una cometa.

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Il rapporto tra fisica e metafisica Autonomia delle spiegazioni fisiche

Dio, fondamento di ogni verità

La «derealizzazione del mondo»

La fisica cartesiana

La fisica cartesiana ha un rapporto peculiare con la metafisica. Da un lato questa costruzione si svincola da conseguenze metafisiche: la fisica non ha bisogno di essere anche una metafisica, e il problema della conoscenza del mondo fisico può essere relativo solo al modo in cui l’uomo può conoscerlo. Il Mondo si apre con l’avvertenza antiscolastica, di cui riparleremo, sulla «differenza fra le nostre sensazioni e le cose che le producono». Cartesio insisterà sul fatto che si deve distinguere «l’intellezione che è conforme alla natura della nostra mente dal concetto adeguato delle cose, che nessuno ha non solo dell’infinito, ma neppure di alcuna cosa per quanto piccola». Dall’altro lato, tutte le verità, comprese le verità eterne che, secondo Cartesio, reggono le dimostrazioni dei matematici, hanno il loro fondamento in Dio: anche la stabilità delle tre leggi citate dipende esclusivamente dal fatto che Dio conserva ogni cosa mediante un’azione continua (concorso ordinario) e che la sua natura è immutabile. La favola del mondo per un verso libera la potenza della mente umana che immagina la genesi del tutto secondo le proprie forze; per un altro, come ha scritto un interprete novecentesco, Ferdinand Alquié (1906-1985), produce una «derealizzazione del mondo», una distanza di principio tra il sapere umano e le cose stesse che può essere recuperata – e questo sarà il progetto metafisico fondamentale di Cartesio – soltanto riconducendo la conoscenza umana non a verità assolute, ma a un’assoluta certezza, e legando quest’ultima, infine, alla veridicità di Dio.

Costruzione ipotetica che spiega non solo come il mondo è ma come si è prodotto Dio crea la materia, le infonde una quantità di moto, stabilisce delle leggi immutabili perché fondate sulla propria immutabilità La materia (res extensa) è suddivisa in tre elementi, diversi per dimensioni, forma ecc. dei corpuscoli, ed è infinita L’interazione di materia e leggi del moto forma il cosmo: vortici e assenza di vuoto

Autonomia del mondo fisico, ma ruolo di Dio, creatore e conservatore del mondo Il carattere ipotetico di questa ricostruzione produce una distanza tra sapere umano e cose stesse (derealizzazione)

L’uomo come macchina Il precoce superamento del modello fisico e fisiologico cartesiano

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La costruzione del mondo fisico di Cartesio è molto importante dal punto di vista metodologico, per la generale e coerente impostazione meccanicistica e la trasformazione delle forme sostanziali nei due unici fattori di estensione e movimento. Ma non resisterà nei suoi contenuti alla concorrenza dell’impostazione newtoniana, e teorie come quella dei vortici, che pure ebbe larga diffusione, saranno poi abban-

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Una coerente fisiologia meccanicistica

L’interesse di Cartesio per gli automi

L’ipotesi dell’uomo-macchina

Il dualismo cartesiano e l’unione mente-corpo

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L’uomo come sistema meccanico

Discorso sul metodo, 5

donate. Dal punto di vista dello sviluppo interno della scienza, dunque, il contributo di Cartesio fu significativo ma passeggero. Lo stesso vale, forse ancor di più, per le teorie fisiologiche, che pagano lo scotto alle limitate conoscenze del tempo. Tuttavia la ricostruzione interamente meccanica del corpo umano – fino alla soglia dell’anima razionale (o mente) – offre un modello influente e significativo per la comprensione dell’uomo, la cui portata si estende fino ai moderni progetti, scientifici e filosofici insieme, di comprensione della mente umana basati sulla sua riduzione a processi fisiologici (o comunque naturali), affiancati in ambito tecnologico da ricerche per la costruzione di enti artificiali umanoidi, robot pensanti, «coscienze artificiali». Cartesio si interessa dell’uomo-macchina (la sua teoria riguardo agli animali, e all’uomo fino al punto in cui con essi coincide, è che siano in realtà come macchine), e il naturale rovescio di questo interesse è quello per la macchina-uomo, ovvero per gli automi. Un aneddoto che circolava su Cartesio voleva che egli, negli ultimi anni della sua vita, viaggiasse con un automa meccanico che riproduceva una bambina. Sia vero o meno, il modello dell’ultima parte del Mondo, quella pubblicata prima col titolo De Homine (vedi p. 147), è quello della ricostruzione meccanica del corpo umano, con importanti risvolti, però, di teoria della conoscenza, in quanto questa ricostruzione doveva render conto anche dei sensi e del cervello. Cartesio presenta ancora la sua esposizione come una ‘favola’, come l’ipotesi di altri uomini che non siamo noi, ma sono del tutto analoghi a noi: «Come noi, questi uomini saranno formati di un’anima e di un corpo. E, a parte, prima di ogni altra cosa, è necessario che vi descriva il corpo; poi, essa pure a parte, l’anima; e infine che vi mostri come queste due nature devono essere congiunte e unite per formare uomini che ci rassomiglino». Come si vede, la posizione di Cartesio è il dualismo: due nature, due sostanze (che in altre opere definirà res extensa e res cogitans, sostanza estesa e sostanza pensante) che, però, sono «congiunte». La parte dove egli descrive l’unione mente-corpo manca nel testo che ci è pervenuto. Ma nel Discorso e nelle Meditazioni metafisiche (vedi p. 170 ss.) questa unione, mai spiegata fino in fondo, è indicata come non estrinseca, diversa da quella di un pilota e la sua nave: la mente è «congiunta e unita più strettamente» al corpo. Tuttavia l’anima «non può assolutamente essere tratta dalla potenza della natura», deve essere creata espressamente. La costruzione dell’uomo si arresta dunque a questo punto, ma ci conduce, però, fino all’ultimo passo verso questa soglia, ossia fino alla presentazione nel cervello, alla coscienza, di quelle che potremmo chiamare, con una espressione che Cartesio non usa, le ‘idee materiali’ (le tracce ultime di un sistema meccanico che ci rappresenta le cose esterne). Nel caso dell’uomo vi sono, però, difficoltà supplementari, così che la costruzione fittizia, la supposizione fantastica deve cominciare a uno stadio successivo. Ai problemi precedenti si aggiunge la difficoltà – scrive Cartesio nel Discorso sul metodo – che le conoscenze riguardanti animali e uomo non sono sufficienti. Poiché non ne avevo ancora una conoscenza sufficiente per parlarne con lo stesso metodo usato per le altre cose, e cioè dimostrando gli effetti mediante le cause e indicando da quali elementi e in qual modo la natura debba produrli, mi contentai di supporre che Dio formasse il corpo di un uomo del tutto simile a uno dei nostri sia nell’aspetto esteriore delle membra che nella conformazione interna dei suoi organi, e usando la stessa materia da me descritta. E che al principio non 151

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infondesse in lui nessun’anima ragionevole, né altro che gli servisse da anima vegetativa o sensitiva, ma solo gli accendesse nel cuore uno di quei fuochi senza luce che avevo già spiegato. È dunque la fisiologia e non la genesi – il funzionamento, non la costruzione – dell’uomo che Cartesio si sente di spiegare, di nuovo sulla base di un primo motore meccanico, che è qui il calore prodotto nel cuore. La funzione del cuore viene vista appunto come quella di produrre il calore necessario al movimento dell’organismo. La fisiologia cartesiana, esposta anche nel Discorso sul metodo, si basa su una concezione del corpo umano come sistema meccanico-idraulico. La moderna divisione funzionale tra sistema circolatorio e sistema nervoso è qui assente, mentre i due aspetti vengono visti invece in continuità l’uno con l’altro. Gli «spiriti animali» Un ruolo importante lo gioca l’ipotesi cartesiana dei cosiddetti «spiriti animali». A dispetto del nome, che per noi suona tra il mistico e il magico, si tratta di una ipotesi fisica che Cartesio propone per spiegare diversi fenomeni di funzionamento del corpo. Vi sono tre generi di spiriti: 1) quelli «naturali», particelle dissolte dalla digestione; 2) quelli «vitali», provenienti dalla rarefazione del sangue; 3) e quelli «animali», che possono sussistere allo stato puro, ossia separati dal sangue. Gli spiriti animali sarebbero «un certo vento sottilissimo, o meglio ancora una fiamma vivissima e purissima», che si produrrebbe a partire dal sangue nel cervello. Essi viaggiano anche attraverso i nervi, i quali – come si dice nel trattato Le passioni dell’anima pubblicato nel 1649 – sono dei piccoli filamenti o piccoli canaletti «pieni, come il cervello, di una certa aria o vento sottilissimo». Le funzioni degli spiriti La natura sottile degli spiriti animali, trasportati nel sangue, ne consente la trasmissione per tutto il corpo, in modo da garantire, tra le altre cose, la comunicazione del movimento ai muscoli a partire dal cervello, e consente poi loro di operare – allo stato puro, come si diceva – nel cervello. Sottilissimi, gli spiriti animali non incontrano resistenza e formano dunque una specie di perpetuum mobile («ente sempre in moto») che tiene in comunicazione cervello, nervi e resto del corpo. La ghiandola pineale Le particelle sottili giungono infine nella ghiandola pineale, che «deve venire immaginata come una fonte copiosissima, dalla quale esse scorrono, simultaneamente, in ogni direzione nella concavità del cervello». È nella ghiandola pineale (o Conarion, vedi Figura 2) che gli spiriti animali «perdono la forma del sangue», si separano cioè dalle altre particelle, restando allo stato puro. Il motore meccanico dell’organismo umano è il cuore

Figura 2

Il cervello e la ghiandola pineale, indicata con la lettera H, secondo Cartesio (da L’uomo). Cartesio la sceglie come luogo dell’unione tra mente e corpo perché ha una posizione centrale nel cervello e perché è l’unica sua parte semplice e non doppia.

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➥ Sommario, p. 177

5 La relazione rappresentativa tra cose e mondo

Le species intenzionali della tradizione

Nella tradizione: idea come essenza

In Cartesio: funzione rappresentativa delle idee

➥ Percorso tematico, p. 401 La formazione delle idee

La ghiandola pineale svolge un ruolo cruciale, in quanto è la sede in cui avviene il passaggio dalle figure materiali tracciate in essa dagli spiriti, in seguito alla percezione dei sensi, all’anima razionale, la mente immateriale: è «la sede principale dell’anima e il luogo dove si formano tutti i nostri pensieri». Cartesio la individua in base a ragioni puramente anatomiche: perché è l’unica parte del cervello che non sia doppia, per la sua posizione centrale. Ma l’aspetto più interessante è che egli cerca di dare una teoria delle rappresentazioni dei sensi che – fino a quando giungono al luogo adatto «per esservi considerate dall’anima» – è interamente fisiologica e meccanica. È da qui che parte la sua teoria della conoscenza.

Idee come rappresentazioni Il Mondo inizia con la tesi secondo cui tra le sensazioni e le cose che le producono non esiste un rapporto di somiglianza. Cartesio mette così radicalmente in questione l’idea della somiglianza come fondamento della relazione rappresentativa, e introduce, invece, una concezione secondo la quale le idee presenti nel nostro pensiero rappresentano le cose in modo analogo a come avviene con le parole, che «non hanno alcuna rassomiglianza con le cose che significano, ma non per questo sono meno in grado di farcele concepire». La tradizione da cui Cartesio muove interpretava la percezione come trasmissione di species intenzionali, ossia di qualità emesse dall’oggetto e ricevute nei sensi, concepite come una sorta di ‘immagini’ delle cose. Le species, cui la mente doveva assimilarsi, erano in qualche modo espressione della natura (la ‘forma’) della cosa. Per il modello di conoscenza che valeva ancora ai tempi di Cartesio, un’idea non è anzitutto una rappresentazione mentale, ma una certa natura o essenza eterna. Cartesio stesso ricorda che il termine «era consueto nel lessico filosofico per designare le forme delle percezioni nella mente divina», le essenze delle cose nell’intelletto di Dio. Una simile essenza può sussistere in diversi modi d’essere: o solo nella mente, oppure anche in re, ossia nella realtà. L’idea non è dunque un’immagine della cosa con cui essa vada collegata: è la cosa stessa (come la manifesta la sua natura essenziale), ma nel modo peculiare di ciò che è solo nell’intelletto. L’idea non può non ‘rappresentare’ la cosa perché è la cosa in uno dei suoi modi di essere, quel modo di essere che essa ha nell’intelletto. Anche per Cartesio idee in senso proprio sono quelle contenute nella mente immateriale (diversa dal cervello in cui si formano le tracce), ma in quella umana (non in quella divina). E alla loro base sta un sistema rappresentativo in cui non contano più le species («piccole immagini volteggianti per l’aria, che tanto affaticano l’immaginazione dei filosofi», ironizza Cartesio nella Diottrica), non vi è un passaggio di qualcosa di reale, che esprima la natura della cosa, ma un sistema di corrispondenze che sta per le cose percepite. Come si formano le idee? Cartesio parte dalla visione: i raggi luminosi, colpendo il fondo dell’occhio, muovono i filamenti del nervo ottico che giungono fino alla «superficie interna del cervello». Il cervello stesso è concepito da Cartesio come un tessuto di filamenti sottilissimi che danno luogo a pori, e dunque a tubicini che si rivolgono tutti in direzione della ghiandola pineale. I tubicini sono mobili e possono essere piegati dalla forza del movimento degli spiriti, mantenendo, «quasi fossero fatti di piombo o di cera», le ultime pieghe che hanno ricevuto (vedi Figura 3). 153

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I diversi punti dell’oggetto trasmettono raggi che comprimono il fondo dell’occhio, e, tirando i filamenti, accrescono le aperture dei pori. La compressione del fondo dell’occhio traccia, dice Cartesio, «una figura che si riferisce all’oggetto» e questa determina, attraverso il microsistema meccanico-idraulico dei filamenti-pori e degli spiriti animali, il fatto che quella stessa figura venga ‘disegnata’ sulla superficie interna del cervello. Ciò avviene attraverso una specie di calco in negativo: dal momento che gli spiriti animali sono in massima attività all’interno della ghiandola, e dunque è lì il vero principio attivo, è l’apertura dei tubi a far sì che gli spiriti fuoriescano più liberamente e velocemente nei punti corrispondenti: come le aperture dei tubicini tracciano la figura sulla superficie del cervello, così la fuoriuscita degli spiriti traccia la figura all’interno della ghiandola (vedi Figura 4). Le idee non sono È dunque un sistema di ‘figure’ che si trasmettono di piano in piano secondo il immagini principio della ‘traccia’ a dar luogo alle «idee». Il primo esempio di Cartesio è riferito alla visione, ma viene precisato subito che il modello non è soltanto ottico, e dunque le idee non sono immagini in senso letterale.

La traccia materiale nel cervello

T9

Il meccanismo della rappresentazione L’uomo, 5

E notate che, con queste figure, io non intendo qui riferirmi soltanto alle cose che rappresentano in qualche modo la posizione delle linee e delle superfici degli oggetti, ma anche a tutte quelle che, secondo quanto ho detto sopra, potranno dare all’anima l’occasione di sentire il movimento, la grandezza, la distanza, i colori, i suoni, gli odori, e altre simili qualità: e anche quelle cose che potranno far sentire il solleticamento, il dolore, la fame, la sete, la gioia, la tristezza e altre simili passioni.

Figura 3

L’immagine degli aghi attraverso la tela nel trattato L’uomo. Le particelle aprono i pori dei filamenti che costituiscono i nervi e questi pori rimangono poi dilatati, facilitando i passaggi successivi. Così Cartesio spiega il permanere nella memoria delle idee.

Figura 4

L’azione degli oggetti che colpiscono i sensi e il loro produrre «idee» nella ghiandola pineale (da L’uomo), attraverso un meccanismo che segue le leggi geometriche della rifrazione. I numeri dispari 1, 3, 5 indicano la traccia lasciata sul fondo dell’occhio, i numeri pari 2, 4, 6, che comunicano con ognuno dei precedenti attraverso un tubicino, indicano i punti in cui la traccia si forma sulla parete del cervello, le lettere minuscole a, b, c indicano i pori che si aprono sulla ghiandola.

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna Un sistema di corrispondenze

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La distinzione tra idee e immagini mentali L’uomo, 5

La formazione della memoria

Corrispondenza funzionale tra idea e cosa

Le idee materiali non appartengono alla mente

➥ Sommario, p. 177

Così nella Diottrica Cartesio utilizza l’immagine dei ciechi che tastano col bastone il terreno; la loro percezione può diventare così «perfetta ed esatta da poter dire che vedono con le mani». Quello descritto nel Mondo è dunque un complesso sistema rappresentativo di tracce delle cose corporee, con molteplici e anche multiformi corrispondenze nella vita mentale dell’uomo che stiamo immaginando. Di questo sistema di corrispondenze solo alcune tracce vengono identificate come idee. Fra tutte queste figure, solo quelle che vengono tracciate negli spiriti sulla superficie della ghiandola H [vedi Figura 2], dove è la sede dell’immaginazione e del senso comune, devono essere considerate come idee, cioè come le forme o immagini che l’anima razionale considererà immediatamente quando, essendo unita a questa macchina, essa immaginerà o sentirà qualche oggetto; dovranno invece esserne escluse quelle che si imprimono negli organi dei sensi esterni o sulla superficie interna del cervello. Sulla superficie interna del cervello si conservano, invece, senza la perfezione che possiedono nella ghiandola, figure che si riferiscono a quelle degli oggetti per il fatto che si mantengono aperti o tendono a riaprirsi più facilmente certi percorsi: si costituisce così la memoria (vedi Figura 3), che non è formata da rappresentazioni attuali, ma dalla possibilità di riattivarsi di tracce grazie alla via privilegiata, già aperta, che possono trovare le particelle. Soltanto il prodotto finale di un sistema di tracce con corrispondenze strutturali a catena costituisce l’idea (materiale) in senso proprio. L’idea è dunque un’immagine della cosa non perché vi somigli, ma in forza di quella che oggi chiameremmo una corrispondenza funzionale, ossia un insieme di relazioni, governate da una regola, tra due sistemi. A questa macchina fittizia – di cui si dirà, però, che non si è supposto alcun organo «di cui non ci si possa facilmente persuadere che ve ne siano di assolutamente simili in noi» – va poi aggiunta secondo Cartesio un’anima razionale, di cui si sarebbe data la descrizione. Per questo motivo si dice che le figure all’interno della ghiandola pineale saranno quelle che l’anima razionale «considererà immediatamente». Le idee in quanto tracce nel cervello (sulla ghiandola pineale) non appartengono in senso proprio alla mente – e non possono appartenervi, in effetti, stando alle premesse teoriche di Cartesio, in quanto come entità corporee hanno un’estensione, che non può essere propria invece della mente in quanto res cogitans. Come precisa Cartesio in una lettera: «Le formae sive species corporee che devono esistere nel cervello affinché noi ci immaginiamo qualcosa, non sono pensieri; un pensiero è piuttosto una attività della mente che si immagina qualcosa, cioè che si rivolge a queste species». La mente come res cogitans non è estesa, ma può rivolgersi a ciò che è esteso, e lo fa nella ghiandola pineale ‘osservando’ le tracce materiali. Come questo possa avvenire resta un problema di fondo del sistema cartesiano.

Le idee ‘materiali’ Res extensa: corpo

Uomo-macchina

Cervello e microsistema meccanico-idraulico

Idee ‘materiali’ come tracce nel cervello (nella ghiandola pineale)

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La distanza tra la conoscenza e la cosa

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Certezza e verità assoluta Risposte alle seconde obiezioni, in Meditazioni metafisiche

Il sapere fondato sulla certezza e la ricerca di un nuovo metodo

Ritrovare il fondamento Le tracce contemplate dalla coscienza per dar luogo a idee immateriali sono un sistema di corrispondenze funzionali che soltanto rappresentano il mondo, non ne esprimono la natura ultima. Anche nelle Regole per la guida dell’intelligenza Cartesio parla del rapporto tra idee preparate nei sensi corporei e loro conoscenza intellettuale e sostiene che «si dovranno presentare ai sensi non le cose stesse, ma piuttosto delle loro figure ridotte»: il mondo riportato a estensione e conosciuto attraverso una rete di relazioni fisico-matematiche sta per il mondo reale. La rappresentazione non è la cosa. Da questa distanza tra rappresentazione e cosa, che la teoria scolastica in linea di principio non contemplava, si può prescindere solo se ad essa fa da contrappeso la certezza del conoscere, la sua saldezza e la sua efficacia. Cartesio esprime bene questa situazione in un passo delle Risposte alle obiezioni di Mersenne: Non appena noi pensiamo di concepire chiaramente qualche verità, siamo naturalmente portati a crederla. E se questa credenza è così forte che non possiamo mai avere alcuna ragione per dubitare di quello in cui crediamo in tal modo, non vi è nulla da ricercare di più: noi abbiamo, riguardo a ciò, tutta la certezza che si può ragionevolmente desiderare. Che c’importa se qualcuno immagina che ciò stesso, della cui verità siamo fortemente persuasi, sembra falso agli occhi di Dio e degli angeli, e che, pertanto, assolutamente parlando, è falso? Perché dobbiamo angustiarci per questa falsità assoluta, poiché noi non vi crediamo e non ne abbiamo neppure il minimo sospetto? Il progetto cartesiano di rifondare il sapere sulla certezza deriva dalla generale instabilità e apparente inaffidabilità del sapere del tempo, ma anche dalla natura della nuova forma di conoscenza che Cartesio stesso cerca di promuovere, e dalla nuova ontologia che ne scaturisce. Cartesio mantiene una ontologia di essenze eterne, ma limitandola alle due uniche sostanze, pensiero ed estensione. Tra le ‘cose’ del mondo non vi sono invece sostanze, e neppure loro essenze assolute: per esempio non esiste la sostanza ‘cavallo’, né un’essenza come la ‘cavallinità’. Su questo sfondo va letta la ricerca di un nuovo metodo, esposta nel Discorso sul metodo, e la sua fondazione metafisica, approfondita soprattutto nelle Meditazioni metafisiche.

L’ontologia cartesiana

Due essenze eterne

Res extensa, sostanza estesa

Essenza o attributo essenziale: estensione

Modi della sostanza estesa: corpi

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Separazione ontologica tra sostanze

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Res cogitans, sostanza pensante

Essenza o attributo essenziale: pensiero

Modi della sostanza pensante: menti

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

Il Discorso sul metodo L’esposizione di alcuni aspetti del metodo

La struttura del Discorso

Narrazione autobiografica dell’insoddisfazione verso il sapere dell’epoca

Non una teoria, ma il risultato della propria esperienza

Il primo titolo che Cartesio sceglie per quello che diventerà il Discorso suonava, in modo più ambizioso ed enfatico: Il progetto di una Scienza universale, che possa innalzare la natura al suo più alto grado di perfezione. In più, la Diottrica, le Meteore e la Geometria, in cui le materie più curiose che l’autore ha potuto scegliere, per dar prova della Scienza Universale che propone, sono spiegate in modo tale, che anche quelli che non hanno studiato le possono intendere. Nel corso della realizzazione dell’opera il titolo cambia, e Cartesio spiega tale scelta sostenendo di non volere esporre in essa tutto il metodo che egli ha in mente, ma soltanto «dirne qualcosa», aggiungendo anche di aver rinunciato a titoli come Trattato del metodo «per mostrare che non mi propongo di insegnarlo, ma solo di parlarne». Le strategie retoriche di Cartesio sono sempre condizionate da cautele e da tecniche di persuasione particolari, ma in questo caso sono ben motivate poiché in definitiva il Discorso è tutto tranne che un trattato. Scritto in francese, con una scelta molto significativa per l’epoca, come i saggi ricordati che lo accompagnano, è diviso in sei parti. La prima è una sorta di breve storia di sé e del maturare delle proprie convinzioni; la seconda continua la storia, iniziando anche a esporre il nuovo metodo e le sue ragioni; la terza presenta quella che Cartesio definisce «morale provvisoria», da adottare, e da lui adottata, prima di trovare fondamenta solide, e descrive poi l’ulteriore percorso di ricerca della certezza; la quarta narra delle «prime meditazioni» su temi metafisici e illustra il principio «io penso dunque sono» e la dimostrazione dell’esistenza di Dio; la quinta espone gli elementi principali del Trattato sul mondo; la sesta infine narra dei motivi che lo hanno indotto a non pubblicare quel trattato, e di quelli che lo hanno spinto a scrivere i saggi scientifici e il Discorso stesso. Cartesio disegna un veloce quadro dei motivi di insoddisfazione trovati durante il suo studio nei riguardi di quasi tutte le discipline, fino ad affermare di essersi trovato tra tanti dubbi ed errori da avere nel suo cammino scoperto sempre di più la propria ignoranza. Le stesse scienze matematiche, privilegiate per «la certezza e l’evidenza» delle loro ragioni, gli risultano di uso incerto, non in grado di fare da fondamento a qualcosa «di più elevato». In generale, il suo percorso è quello di liberazione da ogni sapere tramandato, in favore di ciò che «poteva trovarsi in me stesso o nel gran libro del mondo»: la base di ogni sapere valido viene ricondotta al «lume naturale», o «buon senso», la facoltà di distinguere il vero dal falso presente in ogni uomo. Viene descritto un processo complesso, dove all’insoddisfazione verso le diverse forme di sapere si unisce la constatazione – attraverso l’esperienza dei viaggi – della variabilità dei costumi e delle opinioni nel tempo e nei diversi popoli, e il peso dell’abitudine e dell’esempio; ma l’esperienza del dubbio e dello spaesamento non diventa subito progetto di riforma, anzi: nella situazione dell’«uomo che cammina da solo e nelle tenebre» è necessario procedere lentamente e con circospezione. Cartesio non si presenta come riformatore (e anzi ha parole di riprovazione verso quelli che non fanno altro che progettare riforme), senz’altro per motivi di fondatissima prudenza: ma anche perché preferisce proporre un’esperienza piuttosto o prima che una teoria. 157

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La morale provvisoria e i principi del metodo Un progetto di conoscenza

Un codice di comportamento durante la ricerca: la morale provvisoria

Le regole

Morale provvisoria e autonomia della ragione

I quattro principi del metodo

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L’esperienza è quella di un uso autonomo della ragione, che, però, non si libera di tutto ciò che costituisce ostacolo ad esso senza prima avere delineato un nuovo progetto di conoscenza: «non volli neppure iniziare rifiutando radicalmente tutte le opinioni che tempo addietro si erano potute introdurre nel mio animo senza l’esame della ragione prima di aver meditato a lungo il progetto che mi accingevo a compiere». La ragione naturale ha dunque bisogno di un metodo per non procedere secondo una «curiosità cieca»; senza di esso (come diceva già la quarta delle Regole per la guida dell’intelligenza) il rischio è che «con studi disordinati e meditazioni oscure il lume naturale sia confuso e l’intelligenza accecata». Così all’esperienza del dubbio si unisce per molti anni – racconta Cartesio – una condotta che consente di cercare senza aver ancora trovato: «quasi nove anni trascorsero senza che io avessi preso posizione intorno alle difficoltà che maggiormente vengono discusse tra i dotti e senza che avessi incominciato a ricercare i fondamenti di una filosofia più certa di quella tradizionale». La morale provvisoria che Cartesio descrive è di nuovo il racconto di un’esperienza e di un metodo per poter ricercare nuove certezze senza muoversi nel vuoto: prima di cominciare a ricostruire la casa in cui si abita, bisogna sì abbatterla, ma averne intanto «un’altra dove poter soggiornare comodamente per tutto il tempo che durano i lavori». La morale provvisoria consiste di poche massime: 1) ubbidire alle leggi e ai costumi del proprio Paese, conservando la religione in cui si è stati educati – seguendo per il resto le opinioni più moderate generalmente accolte da coloro con cui si vive; 2) esser fermo e risoluto nelle proprie azioni, seguendo le opinioni che si è deciso di accogliere, senza oscillare e cambiare direzione; 3) cercare di vincere se stessi piuttosto che la fortuna e cambiare i desideri, anziché l’ordine del mondo. Non bisogna dimenticare che queste massime esprimono più una storia che una teoria, e che adottandole Cartesio mantiene al contempo il principio della libertà da vincoli che impediscano di perfezionare i giudizi, dunque la libertà di abbandonare qualunque opinione. La convinzione della presenza e prevalenza del «lume naturale» lo induceva infatti a non doversi «contentare, neppure per un istante delle opinioni altrui». Anzi, trattandosi di una razionalità intuitiva e condivisa, esso gli garantisce un fondamento abbastanza sicuro per le sue scelte e la possibilità di far appello a un identico «buon senso» degli altri. La morale provvisoria dunque non contrasta con la «libertà di giudicare da sé tutti gli altri». E le stesse regole della morale provvisoria sono rivedibili: si tratta «di non perdere alcuna occasione per trovarne delle migliori, nel caso che ve ne fossero». La morale provvisoria non sospende l’autonomia della ragione, la guida del lume naturale, ma ne è una provvisoria espressione. La ragione che cerca certezza sa muoversi in gradi diversi e provvisori di saldezza delle opinioni, riconoscendoli come tali. I principi del metodo che Cartesio espone nel Discorso, e che precedono il racconto della morale provvisoria in quanto sono principi euristici, di ricerca, non certezze acquisite (come sono quelle esposte nella quarta parte), vengono presentati come qualcosa che possiede i vantaggi di logica, geometria e algebra senza condividerne i difetti. Sono quattro: 1) non accogliere nulla che non sia conosciuto con evidenza, ossia con tale chiarezza e distinzione da non aver motivo di metterlo in dubbio;

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

2) suddividere ciascuna difficoltà in tutte le parti in cui è possibile e necessario dividerla; 3) condurre con ordine i pensieri muovendo dagli elementi semplici per salire progressivamente ai complessi; 4) fare enumerazioni complete e rassegne generali in modo da esser certi di non aver tralasciato nulla. Evidenza come Il primo principio contiene nozioni centrali del pensiero cartesiano: l’evidenza, chiarezza e distinzione intesa non come qualcosa di sensibile, ma come il presentarsi alla mente «pura e attenta» di qualcosa che non può esser messo in dubbio; e l’idea di chiarezza e distinzione, che con l’evidenza è strettamente interconnessa, in quanto ciò che si presenta con chiarezza e distinzione è appunto evidente. Nei Principi della filosofia Cartesio così definisce queste due qualità delle idee, che poi avranno una lunga storia nella filosofia del Seicento e del Settecento:

T12

La chiarezza e la distinzione

I principi della filosofia, parte prima, par. 45

Analisi e sintesi

La matrice matematica del metodo

L’uso limitato del sillogismo

Il metodo cartesiano

Chiamo chiara quella percezione che è presente e manifesta alla mente che vi presta attenzione: come noi diciamo di vedere chiaramente le cose che, per la loro presenza all’occhio che intuisce, lo muovono abbastanza fortemente e apertamente. E distinta, quella che, essendo chiara, è da tutte le altre così disgiunta e precisa, da non comprendere in sé se non ciò che è chiaro. Essendo chiaro e distinto solo ciò che si presenta a un unico atto della mente, la conoscenza deve individuare (analisi) le parti semplici che possono essere colte in tal modo. Con queste si deve operare una sintesi, seguendo un ordine che parta da quelle più fondamentali (che non ne presuppongono altre) per poi risalire a quelle che presuppongono solo le precedenti e così via. L’analisi e la sintesi possono svolgersi in modo corretto solo se gli elementi sono stati identificati esattamente e in modo completo. Questo controllo è richiesto dalla quarta regola. Ne scaturisce un’idea di conoscenza come risoluzione in elementi semplici, di cui si ha conoscenza certa, e ricomposizione sulla loro base del più complesso, fino a esaurire le condizioni di ciò che va conosciuto. La matrice matematica di questo metodo è palese e sottolineata da Cartesio stesso. Sono le «catene di ragionamenti, lunghe, eppure semplici e facili, di cui i geometri si servono per pervenire alle loro più difficili dimostrazioni», il modello per giungere a qualunque verità in ogni campo del sapere. Tuttavia non si tratta delle catene di deduzioni dei sillogismi, dove dal generale si deduce il particolare. Esteso oltre i confini delle discipline matematiche in senso stretto questo metodo diventa una più generale procedura euristica – ossia per trovare nuove verità – e di controllo. Invece, le tradizionali forme del sillogismo non possono per Cartesio servire a trovare verità di cui non si disponga già, e dunque, scrive nelle Regole, «la dialettica consueta è del tutto inutile a coloro che desiderano cercare la verità delle cose, e […] può invece giovare soltanto, talora, a esporre agli altri più facilmente delle ragioni già note, e […] pertanto deve essere trasferita dalla filosofia alla retorica». Accogliere solo ciò che è conosciuto con evidenza Metodo cartesiano: quattro principi euristici, di ricerca

Scomposizione in elementi semplici (analisi) Passare ordinatamente dal semplice al complesso (sintesi) Enumerazioni complete e rassegne generali (regola di controllo)

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il dubbio e il cogito La nuova fisica richiede un nuovo fondamento metafisico, e la nuova teoria della conoscenza, che con essa si sviluppa, richiede di ristabilire un rapporto solido con la realtà ‘rappresentata’. Nella Parte quarta del Discorso Cartesio fa vedere come il metodo di ricerca della verità venga applicato per rifondare, stavolta senza cautele, l’intero edificio della conoscenza. Tuttavia il percorso qui riassunto è svolto poi con maggiore ampiezza e soprattutto con notevole approfondimento nell’opera – questa volta scritta in latino – che Cartesio intitola Medita➥ Laboratorio di lettura, tiones de prima philosophia, oggi note come Meditazioni metafisiche, pubblicata p. 180 nel 1641. La radicalità Cartesio ha, però, fatto circolare il testo prima della stampa presso studiosi del delle Meditazioni suo tempo, per riceverne osservazioni, che pubblica e a cui risponde in appendice allo stesso volume, con il titolo Obiezioni e risposte. Nel Discorso Cartesio dice che le sue meditazioni «sono talmente metafisiche e così inconsuete che forse non a tutti saranno gradite». In realtà teme – rivolgendosi a un pubblico più vasto e scrivendo in francese – che l’influsso della parte distruttiva risulti troppo forte. Nelle Meditazioni latine procede invece in modo radicale. Il progetto di rifondazione della conoscenza

T13

È da tempo che mi sono reso conto di quanto di falso avevo preso per vero fin dall’infanzia e di come sia dubbio tutto quel che in seguito vi ho costruito sopra; ed è da allora che ho capito che, se aspiravo a stabilire nelle scienze qualcosa di solido, destinato a durare, avrei quindi avuto da buttare all’aria tutto quanto, per una volta nella vita, e ricominciare dalle fondamenta.

La distruzione generale

«Buttare all’aria tutto quanto, per una volta nella vita»: anche questo compito, se deve aver uno scopo, va svolto in modo metodico. Cartesio procede a una «distruzione generale» delle sue opinioni scegliendo non tanto di dimostrare che siano false (compito che può essere altrettanto difficile di una dimostrazione della verità) ma che vi sia almeno una ragione per mettere in dubbio ognuna di esse, o meglio le fondamenta generali di ogni opinione. In dubbio vengono poste in primo luogo le verità basate sui sensi. Alla tradizionale osservazione sul fatto che i sensi possono ingannare, si aggiunge la considerazione – che pone in dubbio anche sensazioni come quella dell’esistenza delle proprie mani, del proprio corpo – che tutto, ogni cosa che ci circonda, potrebbe essere nient’altro che un sogno. All’ipotesi del sogno sembrano resistere alcune qualità senza le quali non ci può essere neppure immaginazione, e dunque nemmeno sogno: colori, estensione, figura, quantità, luogo, tempo. Sembrano salvarsi allora aritmetica e geometria, le discipline che trattano di ciò che è «semplice e generale» e non si occupano del fatto se esista in natura o no. Qui Cartesio ricorre all’ipotesi che Dio possa ingannarlo, e poi, per consolidare per così dire il dubbio ed evitare problematiche teologiche, all’ipotesi di un «genio malvagio, che sommamente potente e astuto, ce la metta tutta per ingannarmi». A questo dubbio non resiste infine neanche la certezza matematica. Cartesio raggiunge così il suo scopo preliminare: mettere da parte ciò che può essere sottoposto anche al minimo dubbio. La situazione diventa come quella di chi, gettato «in un gorgo profondo», non riesca né a poggiare il piede sul fondo né a risalire in superficie. È necessario che questo diventi una vera esperienza.

Ricominciare dalle fondamenta

Prima meditazione, in Meditazioni metafisiche

I sensi e il sogno

Il dubbio colpisce le conoscenze matematiche

Un’esperienza spirituale vissuta in prima persona

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

Cartesio costruisce le sue Meditazioni sulla base del modello delle meditazioni religiose, degli esercizi spirituali, proponendo un percorso in prima persona, scandito temporalmente, descritto sempre al presente: narra della propria meditazione, più che proporre una teoria. Cartesio è consapevole del peso dei pregiudizi e della loro capacità di riproporsi laddove non si raggiunga un assenso profondo alle verità trovate. E questo problema è particolarmente grave in metafisica, dove le verità contraddicono i pregiudizi cui siamo abituati. La consapevolezza Cosa può fare l’io che è caduto in quel gorgo, che è riuscito a fare esperienza del di esistere fatto che non c’è niente di certo nel sapere soltanto ricevuto? Qui Cartesio introduce uno degli argomenti più celebri della storia della filosofia. È possibile che mi inganni su tutto, che qualunque contenuto della mia mente sia prodotto da me stesso. È possibile che esista un essere sovrumano (Dio o un genio maligno) che dedichi tutte le sue energie per ingannarmi sempre. Ma ora sorge una domanda che può capovolgere il dubbio: come posso io non essere nulla, se lui mi inganna? Quindi io sono qualcosa, io esisto.

T14

Dal dubbio alla certezza di esistere

Seconda meditazione, in Meditazioni metafisiche

Ma, allora, non sarò qualcosa almeno io? È a questo punto che rimango incerto, perché è vero che ho supposto di non avere affatto sensi né corpo, e tuttavia mi chiedo: sono forse io così legato al corpo e ai sensi da non poter esistere senza di essi? Mi sono bensì persuaso che non esiste proprio nulla al mondo, né cielo né terra né menti né corpi; ma per ciò anche che non esisto neppure io? No di certo! Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa! Ma se ci fosse un non so qual ingannatore, quanto mai potente ed astuto, che si dia da fare, ad ingannarmi sempre? Ebbene, nel caso che lui mi inganni, allora non c’è dubbio che esisto anch’io; e, mi inganni pure quanto ne è capace, non potrà però mai far sì che io non sia niente, fintantoché penserò di essere qualcosa. Così, una volta ben bene ponderato tutto quanto, alla fine si ha da stabilire che l’asserto io esisto è impossibile che non sia vero ogni qual volta io lo pronunci o concepisca mentalmente.

In queste pagine Cartesio non pronuncia il celebre cogito ergo sum («penso dunque sono»), che si trova invece nei Principi della filosofia e, in francese, nel Discorso. Ma ricava dal persuadersi, e dall’ingannarsi – che sono modi del cogitare – la certezza dell’esistenza dell’io che ‘pensa’. Molti interpreti parlano a questo proposito del «principio della filosofia moderna», della istituzione di un nuovo rapporto tra pensiero ed essere. Cartesio non dà una teoria della soggettività, ma pone le basi per una filosofia che svolga questo compito, sia offrendo una teoria nuova del cogitare, ossia delle rappresentazioni mentali, sia assegnando all’io un ruolo centrale in un sistema di fondazione. Il ruolo cruciale Locke, Leibniz, Kant, l’idealismo tedesco (Johann G. Fichte, 1762-1814; Friedell’autoriferimento drich W.J. Schelling, 1775-1854; Georg W.F. Hegel, 1770-1831), la fenomenologia (corrente della filosofia del Novecento fondata da Edmund Husserl (18591938), svilupperanno questo principio, e certamente tutto il pensiero successivo a Cartesio lo rilegge e si confronta con esso, fino alla contemporanea filosofia analitica, che ha riscoperto il ruolo cruciale dell’autoriferimento (del riferimento a sé del soggetto come condizione del riferimento a cose nel mondo). Ed è con la forza apparente o meno di questo principio che devono confrontarsi anche autori che cercano di sostituire un altro paradigma o modello di sapere filosofico a questo, incentrato sul primato della soggettività.

Il principio della filosofia moderna: un nuovo rapporto tra pensiero ed essere

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Natura argomentativa e originalità del cogito

Dalla consapevolezza di esistere alla certezza di essere una «cosa che pensa»

La tesi cartesiana cogito ergo sum è stata da subito oggetto di intensa discussione. Anzitutto si è discusso sulla sua natura argomentativa: se si tratti di una inferenza (ossia di una conclusione logica da premesse, come il ‘dunque’ suggerirebbe), di una intuizione immediata, o di altro (per esempio di un atto ‘performativo’, qualcosa di valido nel momento in cui viene compiuto – «vero ogni qual volta io lo pronunci o concepisca mentalmente», scrive Cartesio). Si è discusso parimenti sulla sua originalità, in quanto un pensiero assai simile è presente in Agostino, come già i contemporanei di Cartesio notano. Ma, come ogni proposizione filosofica, anche questa acquista il suo senso dalla sua funzione nel pensiero in cui si inserisce. Vediamo come Cartesio la utilizza. Se il dubbio portato all’estremo ha prodotto la certezza che «io esisto», si pone subito la questione di «che cosa mai io sia». Qui Cartesio applica di nuovo il principio di ammettere solo ciò che sfugge a ogni dubbio. Sono un uomo? ma non so cosa significhi davvero. Cosa pensavo di essere? qualcuno che aveva un volto, mani, insomma un corpo. Ma tutto questo è messo in dubbio dall’ipotesi del genio malvagio. Cos’è che appartiene inseparabilmente a quell’io che non può non esistere? Non il camminare e il nutrirsi, e nemmeno il sentire, perché queste cose non avvengono senza il corpo. E allora il pensare? «Qui ho trovato», dice Cartesio: il cogitare è l’unico atto che non posso separare dall’io che esiste, e dunque di me posso dire solo questo: sono una «cosa che pensa», una res cogitans.

Il cogito

Certezze eliminate dal dubbio: – verità dei sensi: i sensi possono ingannare – esistenza del mio corpo: potrei sognare – esistenza delle qualità e delle essenze matematiche: potrei essere ingannato

L’io dubita di tutto perché potrebbe esistere un genio maligno che lo inganna sempre

Se lui mi inganna, io sono qualcosa

Io esisto

Cogitare Che cos’è, però, a sua volta il pensiero? Bisogna fare attenzione a non identificare il cogitare con il pensiero inteso in un senso troppo ristretto, vicino al nostro uso consueto. Cartesio dice con molta chiarezza cosa intende: «Ma cos’è una cosa che pensa? Di certo una cosa che dubita, intende intellettualmente, afferma, nega, vuole, non vuole, e anche immagina e sente. Se tutto ciò mi appartiene, in verità non è poco» (Seconda meditazione). Il rapporto tra pensiero Come si vede, il cogitare comprende molte cose che forse non ci si aspetterebbe e autocoscienza pensando al significato comune di «pensare»: comprende per esempio il volere (e anche l’amare e l’odiare), e addirittura l’immaginazione e i sensi. Ma il sentire non era stato escluso perché legato al corpo? Qui Cartesio fa una precisazioll significato di cogitare

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ne importante: il sentire può ingannare, perché adesso credo di vedere, udire, o di avere caldo, e invece per esempio sto soltanto sognando. Ma «di certo mi sembra di vedere, udire, avere caldo; ed è questo che non può essere falso». Ciò che caratterizza propriamente il cogitare è questo «mi sembra di…», dunque una coscienza dei propri atti, una coscienza riflessiva che accompagna qualunque tipo di rappresentazione. È il fenomeno dell’autocoscienza che Cartesio, pur parlando ben poco, esplicitamente, di ‘coscienza’, finisce per mettere in rilievo, assegnandogli anzi un ruolo centrale. Ciò che caratterizza tutti gli atti cogitativi, quelli sopra elencati, è la cogitatio, dice anche Cartesio nelle sue Risposte alle seste obiezioni, ovvero la coscienza, intesa come qualcosa che è naturalmente noto a ogni essere pensante, pur non essendo vera e propria ‘scienza’.

T15

Scienza e conoscenza interiore

Risposte alle seste obiezioni, in Meditazioni metafisiche

La certezza si estende alle idee

È cosa certissima che nessuno può esser certo di pensare e di esistere, se, innanzi tutto, non conosce la natura del pensiero e dell’esistenza. Non che per ciò vi sia bisogno di una scienza riflessa o acquistata per mezzo di una dimostrazione e molto meno della scienza di questa scienza, per la quale si conosce che si sa, e, di nuovo, che si sa di sapere, e così all’infinito, essendo impossibile che si possa mai avere una tale scienza di qualsiasi cosa; ma basta sapere ciò per mezzo di quella specie di conoscenza interiore che precede sempre quella acquisita e che è tanto naturale a tutti gli uomini, per quanto riguarda il pensiero e l’esistenza, che, sebbene, forse, accecati da pregiudizi e più attenti al suono delle parole che al loro significato, noi possiamo fingere di non averla, è nondimeno impossibile che veramente non l’abbiamo. Ciò che appartiene alla res cogitans ha questa comune caratteristica, che la distingue da tutto ciò che appartiene ai corpi, la cui comune caratteristica è data, come si è visto, dall’estensione, e costituiscono dunque la res extensa. La dimensione della res cogitans – è questo il punto che per Cartesio diventa di importanza decisiva – è una dimensione in cui non vi è spazio per l’errore, in quanto costituisce la semplice presentazione – priva per così dire di elementi di disturbo – delle idee alla mente. La mente pura e attenta che contempla le idee dispone dunque dell’evidenza. Nel Discorso Cartesio presenta le cose in modo che sembra quasi aver ricavato il principio metodico e il modello dell’evidenza dall’esperienza del cogito (d’altra parte è, però, questo principio a spingere alla ricerca di una certezza quale quella offerta dal cogito):

T16

[…] avendo notato che nella proposizione io penso dunque sono non c’è assolutamente nulla che me ne assicuri la verità, se non che vedo nel modo più chiaro che per pensare si deve essere, giudicai che potevo assumere come regola generale che sono vere tutte quelle conoscenze che concepiamo in maniera chiarissima e distintissima.

La distinzione delle idee in base alle loro componenti

Dalla dimensione delle idee come ciò che si presenta in modo immediato alla mente può muovere l’ulteriore percorso di rifondazione del sapere. Cartesio organizza l’ambito dei «pensieri», delle cogitationes in questo modo: da un lato vi sono quei pensieri che hanno una natura rappresentativa, che sono in questo senso come immagini delle cose: «come per esempio quando penso un uomo, o una chimera, o un angelo, o Dio». Questi sono propriamente le «idee». Poi vi sono «forme ulteriori», che presuppongono un’idea, una rappresentazione di qualcosa, ma caratterizzano ulteriormente l’atto di pensiero: «per esempio voglio, o te-

Il cogito e l’evidenza

Discorso sul metodo, 4

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

mo, o affermo, oppure nego». Cartesio li chiama «volontà, affetti e giudizi». Il rapporto tra queste componenti può essere espresso in questo modo:

Pensieri

Componente ‘rappresentativa’

Componente ‘rappresentativa’ + altra forma

Idee

Volontà Affetti Giudizi

Ogni pensiero ha comunque una componente rappresentativa e può avere un’altra forma. Questa è la suddivisione e organizzazione che Cartesio dà ai «pensieri», ossia a tutti i contenuti della mente. Le idee, le componenti che rappresentano qualcosa, non possono in quanto tali essere ‘false’: che mi rappresenti una capra o una chimera non fa differenza. Ma il problema è la corrispondenza con qualcosa di esistente. La distinzione delle idee Distrutta la concezione di idea come modello delle cose nella mente di Dio, rein base all’origine sta la questione della conformità delle idee con cose fuori di me. In relazione all’origine del contenuto delle idee Cartesio propone un’altra distinzione: 1) idee innate (date dalla mia stessa natura: il comprendere cosa sia una cosa, il pensiero, la verità); 2) idee avventizie (originate da cose fuori di me: udire un rumore, vedere il sole, avvertire il calore); 3) idee fatte da me (sirene, ippogrifi, esseri fantastici). Questa suddivisione è, però, soltanto nominale, ossia esprime a questo punto dell’argomentazione solo definizioni alle quali non so se corrisponde qualcosa: potrebbe essere che tutte le idee siano solo un prodotto della mia mente, dalla quale non uscirei mai.

L’esistenza di Dio Il cogito ergo sum ha consentito di raggiungere una prima certezza. Non si tratta, però, della prima conoscenza certa: nella discussione sulle premesse di questo ragionamento si sottolineava che devo sapere per esempio che per pensare bisogna essere, devo sapere cosa sia esistenza, pensiero: presupposti che Cartesio ammette nei Principi della filosofia. Pensiero, essere, sono comunque tra le idee innate. Quella che riguarda l’esistenza dell’io è allora piuttosto la prima conoscenza certa di un’esistenza, la prima certezza con valore ontologico. Si tratta ora di trovare altre conoscenze con lo stesso peso, di riguadagnare la certezza dell’esistenza di «cose fuori di me». Questo percorso passa in Cartesio anzitutto dalla dimostrazione dell’esistenza di Dio, per giungere per questo tramite a quella dell’esistenza del mondo. Un’eredità scolastica: A questo punto Cartesio è più vicino al linguaggio e all’ontologia della scolastiidee e «gradi» di realtà ca. Considerate rispetto al loro contenuto, le idee contengono più o meno realitates, «realtà». Questa parola non ha, però, il senso odierno (qualcosa che c’è effettivamente, esistente), ma si riferisce a qualità di una cosa, a determinazioni dell’essere (che possono anche non esistere ma essere solo rappresentate). Le realitates possono anche essere ordinate in «gradi». Una sostanza per esempio ha più «realtà» dei suoi accidenti (o modi), in quanto le sue qualità non richiedono l’esistenza di altre. Esistenza dell’io come prima certezza ontologica

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Esaminando tutte le idee che trovo in me (sostanza pensante) rispetto al loro grado di «realtà», trovo che una non potrebbe derivare da me, in quanto ha per contenuto una realtà ontologicamente superiore a me, e la cui causa, perciò, non può che essere di livello ontologico superiore al mio: quella di Dio come sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, creatrice. Prima prova Questa idea, che io concepisco come massimamente chiara e distinta, non può dell’esistenza provenire da me stesso in quanto i suoi contenuti oltrepassano quanto in me può di Dio essere contenuto: come essere finito – il fatto che dubito, desidero ecc. è per Cartesio segno che «mi manca qualcosa» – non potrei avere in me l’idea di una sostanza infinita se questa non provenisse da un ente effettivamente infinito. L’idea di Dio

La prima prova dell’esistenza di Dio

Verità autoevidente: il grado di realtà delle idee equivale al grado di realtà delle loro cause Tra le mie idee c‘è quella di un Ente infinito, indipendente, sommamente potente, sommamente intelligente: Dio Io non posso esserne la causa perché non sono infinito, indipendente, sommamente potente ecc. Quindi deve essere causata da una realtà ontologicamente superiore a me e dotata di un grado di realtà superiore L’Ente infinito, indipendente, sommamente potente ecc. esiste necessariamente: Dio esiste

Seconda prova

La seconda prova dell’esistenza di Dio

A questa prova Cartesio ne aggiunge una seconda, che non procede dalla presenza di una certa idea in me, ma dalla mia stessa esistenza: non dal cogitare, ma dal sum. Da cosa deriva la mia esistenza? Non da me stesso, altrimenti non sarei imperfetto, ma mi sarei dato tutte le perfezioni; non da cause naturali (i miei genitori), perché in una causa ci dev’essere altrettanta realtà che nel suo effetto, e la causa di una «cosa pensante» che ha in sé l’idea di Dio dovrebbe avere anche questa «realtà», cosa che nessun elemento materiale può avere. Come si vede, pur procedendo questa prova dall’esistenza dell’io anche qui la presenza dell’idea di Dio ha un suo ruolo. Inoltre, l’identificazione dell’io con la sostanza pensante libera l’io-anima dal corpo: i miei genitori «si sarebbero limitati a immettere talune disposizioni in quella materia alla quale in passato ritenevo, appunto, di inerire io, e cioè quella mente che sola, invece, ora assumo come tutto me stesso». Resta infine solo Dio come possibile causa della mia esistenza. Io esisto, io sono una sostanza pensante e ho l’idea di Dio Da cosa deriva la mia esistenza? Non da me perché sono imperfetto Inoltre ho in me l’idea di Dio, che non può derivarmi da cause naturali, perché Dio è l’Ente perfetto, onnipotente ecc. Chi può aver dato origine a una sostanza pensante con l’idea di Dio? Verità autoevidente: in una causa ci deve essere almeno altrettanta realtà che nel suo effetto Solo l’Ente infinito, indipendente, sommamente potente ecc. può essere causa dell’esistenza di me come sostanza pensante con l’idea di Dio: Dio esiste necessariamente

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La semplice presenza in noi della idea di Dio si trasforma, attraverso queste prove, anche nella dimostrazione del suo essere un’idea innata: né fittizia, per tutti i motivi detti, e né ricavata dai sensi. Terza prova Una terza prova viene inserita da Cartesio nella Quinta meditazione, quasi incidentalmente durante la trattazione delle verità della matematica pura e delle essenze delle cose fisiche, ossia delle altre idee innate. Quasi incidentalmente, perché in realtà Cartesio tratta lì, come vedremo, del rapporto tra essenze (ciò che determina che cosa è un qualcosa) ed esistenze (il fatto che un qualcosa è), e la dimostrazione in questione, nota come prova ontologica, è un passaggio – l’unico possibile – dall’essenza all’esistenza, una derivazione della necessaria esistenza di Dio dall’idea della sua essenza presente in noi. Se dall’idea di una figura geometrica posso trarne tutte le proprietà, non sarà possibile procedere in modo simile, ma stavolta con un risultato ontologicamente rilevante, nel caso dell’idea di Dio?

T17

La prova ontologica

Quinta meditazione, in Meditazioni metafisiche

La terza prova: la prova ontologica

Orbene, se dal solo fatto che posso trarre dal mio pensiero l’idea di una cosa segue che a questa cosa appartiene veramente tutto ciò che io percepisco chiaramente e distintamente appartenerle, da ciò non si potrà derivare anche un argomento per provare l’esistenza di Dio? È certo, infatti, che l’idea di Dio, ossia di un ente sommamente perfetto, la trovo in me non meno dell’idea di qualsiasi figura o numero; e io non intendo meno chiaramente e distintamente che alla natura di Dio appartiene di esistere in ogni tempo di quanto intendo che alla natura di una figura o di un numero appartiene quel che io dimostri di essi; e pertanto – anche nel caso che non tutto fosse vero, quanto sostenuto nelle Meditazioni precedenti – dovrei esser certo dell’esistenza di Dio almeno altrettanto quanto finora lo sono sempre stato delle verità matematiche. Esistono delle idee, le essenze matematiche, a cui appartengono delle proprietà che io vedo distintamente e chiaramente In me c’è l’idea di un Ente perfetto Alla natura (essenza) dell’Ente perfetto appartiene chiaramente e distintamente la proprietà dell’esistenza necessaria = esistere in ogni tempo Come alle essenze matematiche appartengono necessariamente (sempre) le proprietà di quella figura o di quel numero Così l’esistenza di Dio è implicata dalla sua essenza

La prova ontologica come architrave del razionalismo

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Questo argomento, che ha un precedente soltanto analogo in quello di Anselmo d’Aosta già criticato da Tommaso d’Aquino, assume, con il ponte che crea tra la dimensione delle essenze e quella dell’esistenza, un ruolo cruciale che va ben oltre l’aspetto teologico e che ne farà, con importanti variazioni sul tema, un architrave delle ontologie razionalistiche, da Nicolas Malebranche (1638-1715) a Spinoza e a Leibniz, a Christian Wolff (1679-1754), ad Alexander G. Baumgarten (1714-1762). Non serve in altri termini soltanto alla dimo-

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

strazione dell’esistenza di Dio, ma a garantire una permeabilità tra due sfere – quella di ciò che può essere conosciuto e quella di ciò che esiste – che è alla base della possibilità di una conoscenza ‘trasparente’, senza residui, del mondo. L’argomento di Cartesio sarà oggetto di una critica molto efficace da parte di Kant (vedi Unità 14, p. 682 ss.), che colpirà in questo modo anche l’impianto delle ontologie citate.

L’errore, la veridicità di Dio, le essenze Dio come garante della verità

Origine dell’errore

La volontà e l’intelletto

Il giudizio errato come precipitazione

Il recupero delle certezze perdute: le verità matematiche o geometriche

Le dimostrazioni dell’esistenza di Dio non sono nelle Meditazioni fine a se stesse, ma rappresentano un passo per ritrovare un fondamento certo alla conoscenza del mondo esterno. Se Dio esiste ed è un essere perfetto, non potrà ingannarmi. Ma per arrivare da questa constatazione alla fiducia nella «certezza e verità di ogni scienza» è necessario proseguire il nostro percorso argomentativo. Dio non può ingannarmi. Ma allora da dove viene l’errore? Spiegare questo è necessario per tenere insieme la certezza nelle possibilità delle scienze con la consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana. La soluzione di Cartesio è nell’analisi del rapporto tra intelletto e volontà. L’uomo dispone di queste due fondamentali capacità, e pur essendo un ente imperfetto, non è ad esse (e dunque all’aver ricevuto da Dio qualcosa di non adeguato) che va ricondotto l’errore. La volontà, in quanto dotata di libero arbitrio, è in me così grande da non poterne concepire una più grande, ed è soprattutto per il fatto di avere una volontà assolutamente libera che siamo «immagine e somiglianza di Dio». L’intelletto è sì limitato e finito rispetto a quello divino, ma l’ho ricevuto da Dio e dunque «qualunque cosa intenda con l’intelletto, senza dubbio la intendo correttamente né può accadere che in ciò mi inganni». Dunque non da limiti intrinseci, ma da un uso imperfetto di queste facoltà scaturisce l’errore, che risiede nel loro scorretto rapporto. L’idea per Cartesio non è ancora giudizio, e non può esser falsa. Il giudizio dipende secondo il suo modo di vedere dalla volontà, che può affermare o negare, concedere il suo assenso a una rappresentazione, oppure sospendere il giudizio stesso. Se io non trattengo la volontà nei limiti di ciò che intendo, e precisamente in modo che non vada oltre quanto le è mostrato in modo chiaro e distinto dall’intelletto, cado in errore, per «precipitazione» del giudizio. «La percezione dell’intelletto deve precedere sempre la determinazione della volontà»: se seguo questa massima non sbaglierò, perché ogni rappresentazione chiara e distinta è vera. Ma ogni rappresentazione chiara e distinta è vera solo sul presupposto della veridicità di Dio. Sulla veridicità di Dio, conciliata nel modo detto con la fallibilità del giudizio umano, Cartesio costruisce la rifondazione di ogni sapere dopo l’esperienza del dubbio. E lo fa seguendo un ordine inverso rispetto a quello della loro distruzione metodica. In primo luogo si dedica alla rifondazione di quelle verità che rientrano tra le idee innate, definite in una lettera «certe nozioni primitive, che sono come gli originali sul cui modello noi formiamo tutte le altre conoscenze». Esse costituiscono, si dice nella Quinta meditazione, quelle «verità tanto palesi ed in accordo con la mia natura che, quando le scopro per la prima volta, ho l’impressione, più che di imparare qualcosa di nuovo, di ricordarmi di qualcosa che conoscevo già». C’è una chiara allusione qui al Menone platonico e alla sua dottrina della reminiscenza delle idee (la conoscenza è ricordo di idee contemplate dall’anima prima di incarnarsi nel corpo). 167

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Il platonismo delle essenze matematiche

Dalle verità matematiche alle proprietà matematizzabili delle cose

La vera struttura del mondo

Conosciamo veramente le strutture ideali, non i corpi

Veridicità divina come fondamento assoluto del sapere

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E infatti Cartesio ripropone una metafisica platonica di queste verità ideali, che corrispondono alla mathesis generale (vedi sopra, p. 144 s.), a quella che qui viene detta «matematica pura e astratta». Alcune delle idee che possono trovarsi in me non sono un «mero niente» neppure se ad esse non corrispondesse nulla fuori di me, perché esse riguardano comunque qualcosa che non è inventato da me: «una natura, o essenza, o forma, immutabile ed eterna». Le verità ‘matematiche’ – ma non in senso stretto, perché riguardano grandezze, figure, posizioni, movimenti, durate – hanno questo carattere, e di esse posso fidarmi. È da notare che Cartesio nel titolo della Quinta meditazione, quella in cui argomenta l’affidabilità delle verità matematiche, dice che parlerà dell’«essenza delle cose materiali». In realtà sullo sfondo di questa fondazione ontologica delle verità matematiche sta la questione della idealizzazione matematica del mondo fisico, della sua liberazione dalle «forme essenziali» della tradizione scolastica in favore di essenze di tipo nuovo, che corrispondono alle proprietà matematizzabili (estensione e movimento) che devono essere conoscibili con la scienza universale di tipo nuovo, e che fondano la moderna scienza fisico-matematica della natura. Così il filosofo francese sostiene in conclusione della Quinta meditazione che è possibile che mi siano «completamente note e certe un’infinità di cose», «anche di tutta quella natura corporea che fa da oggetto alla matematica pura». Gli oggetti della conoscenza basata sulla matematica pura non sono una mia costruzione e non sono un niente, ma neppure sono qualcosa di esistente: essi, però, possono esistere («l’esistenza possibile è una perfezione dell’idea di triangolo»), e dunque esprimono la struttura del mondo fisico. Le cose materiali sono oggetto della matematica pura soltanto riguardo alla loro possibilità: che esse siano possibili è garantito dal loro essere concepite con chiarezza e distinzione: «non c’è dubbio che Dio è in grado di far essere tutto quel che io sono capace di concepire in modo appunto chiaro e distinto». La discrepanza tra entità ideali ed entità fisiche – il fatto che per esempio non vi siano in natura linee, punti inestesi – non annulla la corrispondenza del conoscere con la sostanza (perché tale è solo la res extensa, mentre le figure geometriche – fatte di linee e punti – non sono considerate esse stesse come sostanze, ma come «i termini, sotto i quali è contenuta la sostanza»). Gli enti oggetto della matematica universale sono ‘essenze’ delle cose materiali, loro strutture ideali, anche se tali essenze non comportano di per sé anche l’esistenza effettiva. La veridicità di Dio non garantisce solo la loro verità quando si manifestano in modo pieno alla mente, ma anche la permanenza della loro acquisizione: la difficoltà ad avere sempre presenti le ragioni delle nostre conoscenze evidenti, le fonti di evidenza, potrebbe far vacillare la convinzione, se non si basasse sul principio che quanto percepito una volta con chiarezza e distinzione non può cessare di essere vero. Noi ci ricordiamo spesso delle conclusioni di certe premesse, non delle premesse stesse che ne costituivano la base evidente: del fatto che un ragionamento ci convinceva, non del perché ci convinceva. La memoria introdurrebbe allora un elemento di incertezza, che Cartesio vuole escludere. L’evidenza, sigillata dalla veridicità di Dio, serve anche a dare alle conoscenze che la possiedono una solidità diversa da tutte le altre: da quelle conoscenze che si reggono su molteplici ragioni, magari tutte plausibili, nessuna, però, fondata in modo assoluto. Quella che Cartesio in questo modo intende ritrovare è non solo una ragionevolezza, ma una stabilità assoluta dell’impianto del sapere.

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

Le cose materiali

Primo argomento: l’immaginazione come tramite tra mente e corpo

Secondo argomento: dai dubbi sulla conoscenza sensibile…

… alla dimostrazione dell’esistenza dei corpi

Ritrovato il fondamento delle verità matematiche, e dunque dell’essenza dei corpi, delle cose materiali, va ancora stabilito il punto più importante per superare il dubbio metodico, e cioè l’esistenza delle cose esterne alla mente. È il tema della Sesta meditazione. Il primo argomento di Cartesio a favore dell’esistenza delle cose esterne passa attraverso il ruolo dell’immaginazione. Questa facoltà «parrebbe non esser altro che un’applicazione della facoltà conoscitiva a un corpo che le sia presente intimamente». Ciò sembra risultare da queste constatazioni: 1) per immaginare sono necessari, rispetto al concepire le cose con l’intelletto, uno sforzo, una tensione particolari; 2) la facoltà di immaginare, pur essendo in me, sembra non essere essenziale alla mia esistenza: se non l’avessi rimarrei quello che sono. La sua funzione sembra allora dipendere dalla necessità da parte dell’anima di rivolgersi al corpo (è l’immaginazione che contempla le immagini corporee, le tracce nella ghiandola pineale). Questo, però, rende solo probabile che un corpo esista, non lo dimostra. Il secondo argomento si svolge in riferimento ai sensi. Cartesio ricapitola i motivi che portano a credere alla testimonianza dei sensi circa l’esistenza del mondo esterno: il fatto che le sensazioni si presentano senza il mio consenso; che sono più vivaci e chiare di quelle della memoria o della riflessione; che le idee intellettuali sembrano venire dopo e derivare dalle sensazioni stesse. Inoltre vi sono buoni motivi per ritenere mio il corpo che chiamo tale: non me ne sono mai separato, avverto in esso appetiti, affetti, stimolazioni dolorose o piacevoli. Tuttavia tutto ciò era stato messo in questione dal dubbio. I sensi esterni sbagliano spesso (per esempio nel valutare le dimensioni delle cose, o la loro forma: una torre che sembra tonda da vicino appare quadrata ecc.), e perfino sul dolore mi posso sbagliare. Cartesio richiama il fenomeno dell’‘arto fantasma’, ossia quello sperimentato da persone che, avendo perso un braccio o una gamba in seguito a un’amputazione, continuano a sentire dolore nella parte del corpo che non hanno più. E poi c’è l’ipotesi del sogno, che tutto sia un sogno, e quella radicale del genio ingannatore (vedi p. 160). Ma ora è possibile superare questi dubbi e ritornare alla verità dei sensi. Il ragionamento non è semplicissimo. Si presuppone che alla mente non appartenga altra natura che quella di essere una cosa che pensa. La possibilità di formare «idee di cose sensibili» non presuppone pensiero nel senso di intellezione, e «tali idee si producono in me senza che io vi collabori, e anzi spesso senza la mia volontà». Non resta che l’ipotesi che provengano da una sostanza diversa da quella pensante. Una tale sostanza o è corpo, o è Dio («o qualche creatura comunque più nobile del corpo», per esempio l’ipotetico genio maligno). Non v’è, però, alcun indizio che mi faccia propendere verso l’ipotesi che sia Dio direttamente a far sì che io abbia tali idee, e anzi vi sono indizi (quelli sopra ricordati) che mi spingono a credere che esse provengano dai corpi. Quindi, conclude Cartesio, se Dio non è ingannatore, allora, le cose corporee esistono veramente. 169

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Il percorso delle Meditazioni

Dubbio

Cogito = certezza di esistere

Io che esisto sono una cosa che pensa

Io in quanto cosa che pensa ho le idee

Tra le idee c’è quella di Dio: prime due prove dell’esistenza di Dio

Spiegazione dell’errore: dipende dalla mia volontà

Veridicità divina che garantisce la conoscenza certa (evidenza)

Essenze matematiche e terza prova

Conoscenza della struttura matematica del mondo

Esistenza delle cose esterne e unione mente-corpo

La mente, il corpo e le passioni Il problema del rapporto mente-corpo

➥ Percorso tematico, p. 187

T18

Io e il mio corpo

Sesta meditazione, in Meditazioni metafisiche

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Mente, o anima, e corpo, res cogitans e res extensa, sono ora entrambi, tramite la mediazione di Dio, assicurati nella loro indubitabile esistenza. Cartesio si trova, però, di fronte il problema di congiungere queste dimensioni, ossia di spiegare, una volta che abbia affermato che il mio corpo è «congiunto a me molto strettamente», in che modo questo avvenga, come questa unione sia possibile e pensabile. Il Mondo, abbiamo visto, si interrompe proprio a questo punto. Nella Sesta meditazione Cartesio cerca di dire qualcosa a questo proposito, e poi il tema tornerà centrale nel suo ultimo scritto, Le passioni dell’anima. Raggiunta per così dire l’affidabilità delle cose corporee e di ciò che esse testimoniano, è dall’esperienza di me e del mondo che si può partire per cercare di chiarire l’unione di mente e corpo. Non c’è dubbio che tutto ciò che mi è insegnato dalla natura abbia una qualche verità; ché per natura, in generale, ora non intendo che Dio stesso, ovvero l’ordine delle cose create stabilito da Dio, e per natura mia in particolare, l’insieme di tutto ciò che a me è stato dato da Dio. Ora, la natura, così intesa, nient’altro mi insegna tanto chiaramente quanto che ho un corpo che sta male quando io sento dolore, ha bisogno di cibo o bevande quando io soffro la fame o la sete; e così via; non devo quindi dubitare che in ciò ci sia qualcosa di vero. Poi, attra-

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verso queste stesse sensazioni di dolore, fame, sete, ecc., la natura mi insegna pure che io non sono meramente presente al mio corpo come un nocchiero lo è al suo vascello, bensì gli sono congiunto quanto mai strettamente e (per così dire) mescolato, in modo da comporre un’unità con esso. Altrimenti, infatti, quando il mio corpo è ferito non ne risentirei dolore, io che non sono che una cosa che pensa, ma percepirei tale ferita col puro intelletto, così come un nocchiero percepisce con la vista se qualcosa si rompa nel suo vascello; e, quando il corpo ha bisogno di cibo o bevande, ciò io lo intenderei intellettualmente in modo chiaro, senza avere sensazioni confuse di fame e sete, ché di sicuro queste sensazioni di sete, fame, dolore, ecc. non sono che modi confusi di pensare, derivanti dall’unione e (per così dire) commistione della mente col corpo. È come io vivo il mio corpo a testimoniarmi allora che il corpo è mio, ossia essenzialmente proprio di quell’anima, ad essa congiunto in modo non estrinseco. Allora la ‘natura’ qui da approfondire, precisa Cartesio, va intesa in un senso più stretto, è quella che mi è stata data da Dio «in quanto io sono composto di mente e corpo», non solo ‘pensiero’, e non solo leggi fisiche dei corpi, ma il rapporto tra il pensiero e i corpi: in questo senso la natura mi insegna che devo ricercare alcuni corpi e fuggirne altri; avrò percezioni gradite e sgradite, e allora posso capire che «il mio corpo, o meglio io tutt’intero» posso ricevere sia danni che vantaggi dall’incontro con gli altri corpi intorno a me. Comprendere l’unione Il trattato Le passioni dell’anima, che Cartesio scrive su sollecitazione della prinattraverso l’analisi cipessa Elisabetta di Boemia, con la quale aveva intrattenuto una intensa e intedelle passioni ressante corrispondenza su temi filosofici, ha al suo centro l’unione mente-corpo, che Cartesio intende affrontare in relazione al tema delle passioni. Passioni dell’anima, precisa Cartesio, che muove dal netto dualismo tra anima e corpo, e sottolinea che per conoscere le passioni dell’anima è necessario anzitutto distinguere le sue funzioni da quelle del corpo.

L’evidenza dell’unione tra mente e corpo

T19

L’azione del corpo sull’anima

Le passioni dell’anima, art. 2

Io considero anche che non v’è oggetto alcuno, a nostra conoscenza, che agisca più immediatamente sull’anima nostra del corpo a cui essa è unita; per cui noi dobbiamo pensare che quello che è in essa passione, è in genere azione nel corpo. Perciò non v’è strada migliore per giungere alla conoscenza delle nostre passioni di un esame della differenza fra l’anima e il corpo, per sapere a quale dei due sia da attribuirsi ognuna delle funzioni esistenti in noi.

L’azione e la passione sono, premetteva Cartesio, una medesima cosa con due nomi, a seconda che la si consideri in una prospettiva o in un’altra. E, abbiamo letto, c’è passione dell’anima quando c’è azione del corpo: per cui è facile vedere come le passioni dell’anima siano un fenomeno decisivo per la questione dell’unione tra mente e corpo. Unione che, come Cartesio scrive proprio in una lettera a Elisabetta, è una tra le idee innate, l’unica che riguardi l’anima e il corpo presi insieme, e «da cui dipende quella della forza con cui l’anima muove il corpo e il corpo agisce sull’anima causando i suoi sentimenti e le sue passioni». L’anima non è Cartesio sottrae all’anima la funzione di principio vivificante del corpo, di ciò che il principio vivificante vi infonde movimento, sostenuta dall’aristotelismo: per questo aspetto il corpo è del corpo una macchina del tutto autonoma, ed è il suo mancato funzionamento che costituisce la morte, a cui consegue l’abbandono dell’anima. Tutti i movimenti che facciamo senza la nostra volontà sono allora interamente da attribuire al movimento deL’unione come idea innata

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

I pensieri dell’anima

L’anima e la volontà

Delimitazione dell’analisi delle passioni

Definizione delle passioni in senso stretto (emozioni)

L’unione reale di anima e corpo come fondamento delle emozioni

T20

Non esiste un luogo dell’anima

Le passioni dell’anima, art. 30

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gli «spiriti», di cui abbiamo parlato (vedi p. 152), esattamente come il movimento di un orologio è prodotto dalla forza della sua carica e dal movimento degli ingranaggi. Il corpo nella misura in cui è corpo animale non è altro che una macchina. All’anima non può esser attribuito nient’altro che i pensieri (da ricordarsi che come abbiamo visto, Cartesio si riferisce alle cogitationes, ai contenuti della mente, non ai pensieri in senso stretto), che qui Cartesio suddivide in: 1) azioni, ossia gli atti volontari di cui sperimentiamo che vengono dall’anima direttamente e che solo da essa dipendono; 2) passioni, le percezioni di ogni genere che si trovano in noi che non è l’anima a rendere quali sono, ma che essa riceve dalla cose. Gli atti della volontà hanno termine o nell’anima stessa (quando sono rivolti a oggetti non materiali: amare Dio, per esempio), o nel corpo (la volontà di camminare, per esempio). Bisogna fare attenzione al fatto che Cartesio non sta parlando della volontà in senso stretto come facoltà, ma degli atti volontari, e dunque di ogni operazione mentale che la mente stessa controlla (è da ricordarsi che il giudizio per Cartesio, come abbiamo visto, dipende dalla volontà, e dunque ne dipende ogni atto conoscitivo, vedi p. 167). Tuttavia questa suddivisione viene superata poi in Cartesio da una più precisa, in quanto alcuni dei ‘pensieri’ che pur non dipendono dal controllo della volontà vengono esclusi dalle passioni intese in senso più ristretto, le passioni dell’anima: queste ultime vengono fatte coincidere con quelle che oggi noi chiamiamo emozioni, e che anche Cartesio decide di chiamare in questo modo. Prendendo in esame le «percezioni» involontarie, Cartesio esclude dalle passioni che intende studiare anzitutto gli atti involontari di immaginazione (il sogno, le fantasticherie a occhi aperti), che sono sì, secondo lui, dovuti al movimento degli spiriti nel cervello, ma non hanno una causa tanto determinata quanto le percezioni delle cose esterne, ricevute attraverso i nervi, di cui sono solo come «un’ombra e una copia». Esclude poi le percezioni riferite agli oggetti fuori di noi, e quelle riferite al nostro corpo (fame, sete, dolore, caldo), e identifica infine le passioni in senso stretto, o sentimenti o emozioni, con quelle «che riferiamo alla nostra anima», «i cui effetti si sentono come se fossero nell’anima stessa», e che hanno il carattere particolare che l’anima «non può sentirle senza che siano proprio come le avverte»: in questo caso, per le emozioni, non vale neppure la limitazione precedentemente detta che escludeva sogni e immaginazioni involontarie (fantasticherie), perché l’emozione sognata è un’emozione veramente provata. Le emozioni vengono così ‘filtrate’ accuratamente da tutto ciò che si può trovare nell’anima, e sembrano allora da identificare come ciò che di corporeo è più ‘vicino’ all’anima, come ciò che, tra tutte le cose che l’anima non deve a se stessa, più direttamente la investe in quanto tale. L’emozione è qualcosa di cui l’io non dispone e che tuttavia è in un senso molto forte «mia». Si vede allora come essa sia la dimensione decisiva per potere almeno avvicinarsi alla congiunzione di anima e corpo. Per intendere più compiutamente tutte queste cose, bisogna tuttavia sapere che l’anima è veramente congiunta a tutto il corpo, e che non si può dire in senso proprio che essa sia in qualcuna delle sue parti piuttosto che in altre, perché il corpo è uno e, in qualche modo, indivisibile, per via della disposizione dei suoi organi, talmente collegati gli uni agli altri che la perdita di uno di essi rende difettoso tutto il corpo; e perché l’anima è di tal natura che non ha rapporto né con

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

l’estensione, né con le dimensioni, né con le altre proprietà della materia di cui il corpo si compone, ma solamente con tutto l’insieme dei suoi organi, come si vede dalla possibilità di concepire la metà o il terzo dell’anima […]. Il meccanismo che unisce mente e corpo

Pur non avendo propriamente un luogo, perché inestesa, l’anima ha una «sede», ossia un rapporto privilegiato, come si è visto, con la ghiandola pineale. Attraverso di essa l’anima controlla il corpo. La ghiandola pineale (vedi p. 152 s.) veniva concepita infatti come un organo mobile, che assumeva diverse inclinazioni, tanto venendo influenzata dal movimento delle particelle (vedi Figura 5), quanto influenzandolo. La volontà è in grado infatti di agire direttamente sul movimento della ghiandola, controllando così il corpo.

Figura 5

La mobilità della ghiandola pineale è influenzata dal calore proveniente dal cuore attraverso le arterie che la sorreggono (vedi nell’immagine i filamenti posti sotto). Basta una minima percezione per farla oscillare. Nell’immagine la vediamo piegarsi verso destra e indirizzare su quel lato il flusso di spiriti, favorendo l’apertura dei pori a, b, c e il passaggio degli spiriti verso i punti 2, 4, 6. In questo modo dalla ghiandola parte l’impulso a muovere le parti del corpo collegate con i punti elencati sopra (da L’uomo).

Il movimento della ghiandola trasmette un movimento agli spiriti che lo trasmettono ai nervi e da questi ai muscoli. Da una unica rappresentazione contenuta nella ghiandola possono scaturire movimenti di più organi verso un oggetto (vedi Figura 6). Figura 6

Il coordinamento tra la percezione degli oggetti e il movimento delle membra (da L’uomo). Nell’immagine, oltre al meccanismo della visione che abbiamo già visto nella Figura 4 a p. 154, si distinguono i tubicini del sistema idraulico del corpo immaginato da Cartesio, che partono dal cervello e raggiungono i muscoli del braccio, facendolo muovere.

Il problema del potere dell’anima sulle passioni

Ma il problema centrale delle Passioni dell’anima non è solo di spiegare l’azione dell’anima sul corpo, dunque i suoi atti volontari, ma anche quello – importante per la vita morale dell’uomo – di quale potere abbia l’anima nei confronti delle passioni, visto che esse per definizione sono ciò che sfugge alla sua libertà. Le passioni hanno una particolare persistenza: non sono solo causate, come per esempio una sensazione, ma mantenute e rafforzate da un determinato movimento degli spiriti. 173

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Azione indiretta dell’anima sulle passioni attraverso l’abitudine

Analisi delle passioni e passioni «primitive»

Il primo esempio di indagine fisiologica dei processi mentali

Una morale dell’equilibrio tra passioni

T21

Il controllo delle passioni

Le passioni dell’anima, art. 212

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La soluzione che Cartesio intravede è quella di un controllo indiretto: non possiamo evocare o sopprimere volontariamente delle passioni, ma possiamo controllarle indirettamente, associandole a rappresentazioni. Il coraggio non ce lo si può dare, almeno d’un colpo: ma è possibile considerare le ragioni che persuadono che il pericolo non è grande, oppure che il rischio è maggiore a fuggire che a difendersi, che dalla lotta si avrà soddisfazione ecc. Le passioni possono interagire con le rappresentazioni razionali, e si svolgerà così una lotta per il movimento della ghiandola pineale, che, servendosi l’anima di un «artifizio» indiretto, potrà avere alterne vicende. Ma fondamentalmente per Cartesio ognuno può acquistare dominio sulle passioni, anche attraverso l’esercizio e l’istituzione di un’abitudine che associno diversamente rappresentazioni delle cose e movimenti ad esse congiunti che eccitano passioni, o separando le associazioni già esistenti. Cartesio approfondisce nel dettaglio la sua analisi delle passioni, che non possiamo qui ripercorrere. Segue anche qui, però, le regole del suo metodo scompositivo e compositivo (vedi p. 158 s.), individuando sei passioni «primitive», dalle quali tutte le altre risultano composte o di cui costituiscono sottospecie: ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza. Per esempio, dal desiderio può scaturire la speranza o il timore, a seconda che il suo oggetto sia considerato facilmente conseguibile o meno. Si cerca di costituire così una sorta di ‘grammatica delle emozioni’, con la quale si possa scrivere ogni enunciato della vita emotiva. Ogni passione viene collegata con aspetti fisiologici: soltanto la meraviglia – che precede ogni percezione sul senso positivo o negativo per noi dell’oggetto – è legata al solo cervello, mentre le altre sono connesse anche con cuore, milza, fegato ecc. Se Cartesio non risolve il problema mente-corpo (come lo si chiama oggi), sul quale del resto lavora ancora la filosofia contemporanea, dà, però, un esempio interessante e importante di trattazione unitaria di aspetti psicologici e fisiologici (di psicosomatica) che l’insistenza soltanto sul suo impianto dualistico di base fa spesso cadere nell’ombra. Dimenticando la sua profonda convinzione dell’unitarietà di mente e corpo non si nota così – con la fretta di incasellarlo nello schema del dualismo, che un filosofo contemporaneo come Daniel Dennett (nato nel 1942) ha spiritosamente assegnato al «secchio della spazzatura della storia» – che la sua trattazione offre un primo importante esempio di ciò che oggi si chiamano «neuroscienze», ossia di indagine fisiologica sui processi della mente basata sulla conoscenza delle funzioni cerebrali. La teoria cartesiana pone, infine, le basi per una morale dell’equilibrio tra le passioni (che egli valuta positivamente, considerandole per loro natura tutte buone, e ritenendo dannoso solo il loro cattivo uso o eccesso) e la ragione. Non è una morale della rinuncia alle passioni. Temperate dalla ragione, sono anzi le passioni la fonte di ogni bene o male nella vita, dirà Cartesio concludendo il suo trattato. Il saperle usare è allora la saggezza, che come avevamo visto quando si parlava dell’«albero della filosofia» (vedi p. 142), si esprime in una morale, non più provvisoria, che presuppone tutte le altre scienze che Cartesio ha cercato di abbozzare. L’anima può avere i propri piaceri a parte; ma quelli che ha in comune col corpo dipendono completamente dalle passioni. Perciò gli uomini che la passione può far vibrare di più, sono capaci di gustare in questa vita le maggiori dolcezze. È vero che possono anche trovarvi le maggiori amarezze, se della passione non sanno fare buon uso, e se hanno contraria la fortuna. Ma la saggezza proprio

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➥ Sommario, p. 177

in questo torna utile: nell’insegnare a rendersi talmente padroni delle passioni, a dirigerle con tale abilità, da far sì che esse cagionino soltanto mali molto sopportabili, e perfino tali che sia sempre possibile volgerli in gioia.

Pensieri, azioni e passioni che hanno termine nell’anima

amare Dio, applicare il pensiero a un oggetto non materiale

che hanno termine nel corpo

camminare ecc.

Azioni (atti volontari)

causate dall’anima

Pensieri

Passioni, percezioni o conoscenze che si trovano in noi (ricevute dalle cose rappresentate)

percezioni degli atti volontari, e di tutte le immaginazioni o altri pensieri che ne dipendono (anche: immaginazione di cose che non esistono, considerazione di cose intelligibili) immaginazioni involontarie (sogni, fantasie da svegli) riferite a oggetti esterni

vedere, udire ecc.

riferite al nostro corpo dolore, fame, sete ecc. causate dal corpo

che giungono attraverso i nervi riferite alla nostra anima

– quelle i cui effetti si sentono nell'anima stessa; – le principali sono sei: ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza; – sono l’oggetto principale delle Passioni dell’anima

Suggerimenti bibliografici Una biografia scritta da uno dei più grandi storici della filosofia italiani: E. Garin, Vita e opere di Cartesio, Laterza, Roma-Bari 1993. Una biografia, ricca di riferimenti alle lettere, incentrata sulle origini e sullo sviluppo del pensiero di Cartesio: G. Rodis-Lewis, Cartesio. Una biografia, Editori Riuniti, Roma 1997. Un’opera che affronta la questione del rapporto tra scienza e metafisica: F. Alquié, Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, ETS, Pisa 2005. Due guide preziose per affrontare il percorso argomentativo delle Meditazioni metafisiche: S. Di Bella, Le meditazioni metafisiche di Cartesio. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 1997. E. Scribano, Guida alla lettura delle «Meditazioni metafisiche» di Descartes, Laterza, Roma-Bari 2006.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Le lezioni di uno dei maggiori storici della scienza del Novecento: A. Koyré, Lezioni su Cartesio, Trachinda Editori, Milano 1990. Un testo complesso, che approfondisce alcuni dei punti più controversi della nozione cartesiana di mente: S. Landucci, La mente in Cartesio, Franco Angeli, Milano 2002. Un’opera appassionata che affronta la teoria cartesiana all’interno di una presentazione, complessa e originale, del tema delle passioni tra XVII e XVIII secolo: R. Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1991. I brani antologizzati sono tratti da: Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, Bompiani, Milano 2000. Cartesio, Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 19671. Cartesio, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1999. Cartesio, Le passioni dell’anima, Bompiani, Milano 2003. Descartes, Opere, a cura di G. Cantelli, Mondadori, Milano 1986. Descartes, Meditazioni metafisiche, a cura di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 1997.

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Sommario 1. «LA

LIBERTÀ DI GIUDICARE DA SÉ»

Cartesio occupa un ruolo fondamentale nella storia della filosofia perché ha saputo incarnarne uno dei passaggi epocali: quello segnato dalla fine della cultura medievale scolastica; dalla nascita della nuova cosmologia e della nuova scienza; dal vacillare delle verità religiose e di un fondamento divino del diritto e del potere. Pur avendo ricevuto una formazione scolastica, egli è stato capace di distaccarsi dalla tradizione viaggiando, in un primo tempo attraverso la cultura e le opinioni, grazie alle sue letture, e poi per dieci anni attraverso l’Europa. Il suo scopo, insieme personale ed epocale, è la rifondazione di un sapere razionale, autonomo e autogarantito. 2. IN

CAMMINO NELL’EUROPA DEL

SEICENTO

L’uomo e il filosofo sembrano attraversati da tendenze contraddittorie: un coraggio e una curiosità fuori dal comune e una grande prudenza, nell’esporre e, talvolta, nel pubblicare le proprie idee; la volontà di fare nuove esperienze, affrontando i rischi della vita militare e i continui viaggi, e la ricerca di un rifugio tranquillo dove poter lavorare e studiare, che trova prima in Olanda e poi, negli ultimi anni, in Svezia; l’interesse per ogni disciplina e conoscenza tecnica e il rifiuto della tradizione esoterica. 3. UN

PENSATORE SU MOLTI FRONTI

E L’UNITÀ DEL SAPERE

Cartesio ha avuto il ruolo storico di costruire una nuova unità del sapere anche per la sua capacità di essere, prima che un grande filosofo, uno scienziato di valore, impegnato in maniera non occasionale in molti ambiti. Il suo progetto prevede la costruzione di un edificio del sapere, che in un suo scritto egli paragona a un albero, comprendente metafisica, fisica, scienze e culminante con la saggezza, la conoscenza perfetta che le riassorbe tutte sotto di sé. Il suo massimo contributo alla scienza è rappresentato dai tre saggi pubblicati assieme al Discorso sul metodo: una teoria della rifrazione, Diottrica, una teoria dei fenomeni sublunari, Meteore, e la Geometria, che unifica l’algebra e la geometria euclidea. L’unità di discipline così diverse è data dal metodo fondato sulle nozioni di ordine e misura, relazioni matematizzabili, sulla spiegazione genetica (ricondurre le cose alle proprie cause) e sul meccanicismo, ossia la riduzione dei fenomeni fisici a descrizioni che non ricorrono alle essenze aristoteliche e scolastiche, ma alle nozioni di estensione e movimento. 4. COSTRUIRE

IL MONDO (E L’UOMO): FISICA

E FISIOLOGIA

Affrontando successivamente la fisica, Cartesio sceglie un artificio retorico: descrive sotto forma di ipotesi, una ‘favola’, l’origine del mondo, concentrandosi sul feno-

meno della luce. In questo modo può esporre il suo modello teorico svincolandosi dal peso della teologia e soffermandosi solo sugli aspetti meccanici dell’evoluzione del cosmo. La sua teoria ipotizza la creazione della materia (res extensa) da parte di Dio, che le infonde una certa quantità di moto e stabilisce tre leggi che ne guidano l’evoluzione. La sostanza estesa è infinita e formata da corpuscoli; successivamente il mondo si organizza in un sistema di vortici che escludono il vuoto. Un’analoga ipotesi meccanicistica descrive anche la fisiologia umana fermandosi alle soglie dell’anima o mente, costituita dalla res cogitans o sostanza pensante. I processi fisiologici cerebrali sono frutto dell’azione di una materia sottilissima e rarefatta, gli spiriti animali, che tracciano le ‘idee materiali’ sull’organo che funge da tramite tra il livello fisiologico e quello psicologico, la ghiandola pineale. 5. IDEE

COME RAPPRESENTAZIONI

Cartesio concepisce le idee come rappresentazioni che stanno per la cosa attraverso un complesso sistema di corrispondenze. Nel passaggio dalla visione alla formazione delle tracce materiali sul cervello, il meccanismo rappresentativo è guidato dalle leggi fisiche della rifrazione, che sono all’origine anche della memoria. Queste idee-tracce non appartengono alla mente. 6. RITROVARE

IL FONDAMENTO

La parte metafisica della riflessione cartesiana ha come scopo di rifondare la certezza del conoscere. Cartesio muove da una nuova ontologia: il dualismo di due sostanze identificate dagli attributi dell’estensione e del pensiero. Il processo di rifondazione assume la forma di presentazione della propria esperienza, che inizia con il rifiuto di tutte le conoscenze possedute attraverso il dubbio. Ma proprio la consapevolezza di poter essere ingannato permette a Cartesio di raggiungere la prima certezza ontologica, quella di essere qualcosa. Il successivo passaggio consiste nell’identificare se stesso con una sostanza pensante che possiede alcuni contenuti mentali, le idee. Attraverso un’analisi di esse Cartesio individua un’idea innata, quella di Dio, che attraverso tre prove, tra cui quella ontologica, gli permette di raggiungere la certezza dell’esistenza di un Dio perfetto e quindi verace. Sulla veridicità divina si fonda il criterio dell’evidenza come garanzia di certezza per le successive acquisizioni metafisiche: la validità delle verità matematiche, l’esistenza delle cose esterne, il dualismo delle sostanze e la soluzione del problema mente-corpo attraverso l’idea innata dell’unione reale. L’ultima fase della riflessione cartesiana sarà l’analisi delle passioni dell’anima, le emozioni provocate dall’azione del corpo sulla res cogitans, e la comprensione di come può l’anima assumere il controllo su di esse attraverso l’abitudine. 177

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Parole chiave Corpuscolo. La particella minima della materia, divisibile all’infinito: ne esistono tre tipi diversi per dimensioni, che formano i tre elementi del cosmo cartesiano, cioè terra, aria e fuoco. Coscienza. A partire da Cartesio (anche se egli vi accenna raramente) indica la consapevolezza, soggettiva e interiore, di sé e dei propri atti mentali, immediatamente autoevidente, che accompagna in modo riflessivo l’intera vita della mente. Dualismo. Ogni concezione (religiosa, psicologica, ontologica ecc.) che afferma l’esistenza di due principi autonomi e indipendenti l’uno dall’altro. Dubbio. Cartesio sceglie questo atteggiamento di critica razionale come primo momento del suo cammino di rifondazione del sapere: il dubbio gli permette di liberarsi da tutte le forme di credenza ingenua (fiducia nei sensi, esistenza dei corpi esterni e del proprio corpo) o acquisita (verità matematiche, tradizione filosofica e scientifica), ma gli fornisce anche il primo elemento su cui ricostruire le proprie certezze. Nelle Meditazioni l’esperienza del dubbio gli fa raggiungere la prima certezza ontologica, quella di essere qualcosa. Estensione. L’essenza, o attributo essenziale (extensio), della sostanza estesa che indica la proprietà di occupare una parte di spazio in larghezza, lunghezza e profondità. Evidenza. La forma di certezza più alta della teoria della verità cartesiana, intuitiva e immediata: i suoi contenuti si presentano con le proprietà di chiarezza (sono nitidi per la mente attenta) e distinzione (sono perfettamente distinguibili da ogni altro contenuto). Idea. Ogni contenuto della mente immateriale umana capace di rappresentare, nel senso di ‘stare per’, una cosa o res o un suo modo. In Cartesio esiste anche la nozione, che però egli non definisce, di ‘idea materiale’ ossia la traccia ultima di una cosa esterna che, attraverso un sistema meccanico di trasmissione, si forma sulla ghiandola pineale. Le idee si distinguono sulla base delle componenti (se hanno un altro elemento oltre quello rappresentativo sono volizioni, giudizi ecc.) e in base all’origine, in innate, fattizie e avventizie. Mathesis universalis. Letteralmente l’espressione significa «matematica universale» e indica la logica generale del sapere umano che accomuna ogni conoscenza e di cui Cartesio tratta nelle Regole per la guida dell’intelligenza. Meccanicismo. Una teoria fisica che riduce tutti i fenomeni a materia e movimento. 178

Metodo. L’insieme di prescrizioni che, per Cartesio, permettono di raggiungere la certezza in ogni ambito del sapere: ricercare l’evidenza, scomporre i problemi in elementi semplici, risalire dagli effetti alle cause, fare enumerazioni complete e ricostruire tutti i nessi e le relazioni tra gli oggetti indagati, siano essi mentali o materiali. Passione. Sostantivo derivato dal greco pàthos, indica una modificazione subita dall’anima (emozione) ad opera del corpo attraverso un meccanismo fisiologico che coinvolge il cervello. Cartesio individua sei passioni primitive, che si compongono variamente per produrre tutte le altre. Pensiero. Parola che Cartesio usa con due significati: il primo indica l’essenza, o attributo essenziale, della sostanza pensante, ossia l’attività mentale (cogitatio); il secondo indica tutti i contenuti mentali o cogitationes (idee, volizioni, giudizi ecc.), ossia gli oggetti di tale attività. Problema mente-corpo. Data la totale alterità tra le sostanze del mondo cartesiano, indica la questione di come possano interagire due realtà totalmente eterogenee e tra cui non esiste causalità reciproca. Cartesio lo risolve ipotizzando l’esistenza di un organo, la ghiandola pineale, che partecipa, separatamente, sia dei processi fisiologici che di quelli psicologici e funge da tramite tra i due piani ontologici. Res cogitans / Res extensa. La sostanza pensante e la sostanza estesa, le due realtà ontologiche che costituiscono il mondo cartesiano, definite attraverso la negazione reciproca: la res cogitans pensa e non è estesa, la res extensa è estesa e non pensa. Spiriti animali. Nozione che Cartesio desume dalla tradizione medica e indica una materia sottilissima, mobilissima ed estremamente pura ottenuta dal sangue attraverso la combustione. Si trovano nel cervello e scorrono nei nervi. Esistono altri due tipi di spiriti, inferiori per purezza: quelli della digestione, o naturali, e quelli ottenuti per rarefazione del sangue, o vitali. Unione mente-corpo. La reale unità di mente e di corpo nell’uomo, idea innata che possiamo cogliere intuitivamente e osservare attraverso i suoi effetti, i principali dei quali sono, rispettivamente, le passioni dell’anima e le azioni volontarie del corpo. Vortice. Modello di organizzazione del cosmo cartesiano: le leggi del moto formano queste entità al cui centro, grazie alla forza centrifuga, si addensano le particelle dell’elemento più pesante (terra) e si forma un corpo celeste. Gli altri due elementi sono spinti verso i margini esterni del vortice.

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Questionario «LA

LIBERTÀ DI GIUDICARE DA SÉ»

1

2

IN

UN

Quali sono gli elementi che denotano la crisi della cultura scolastica nel XVII secolo? (max 4 righe) Qual è la concezione della ragione di Cartesio? (max 3 righe)

CAMMINO NELL’EUROPA DEL

SEICENTO

3

Perché Cartesio decide di arruolarsi nell’esercito? (max 1 rigo)

4

Chi erano i Rosacroce e che rapporti ebbe con loro Cartesio? (max 4 righe)

PENSATORE SU MOLTI FRONTI E L’UNITÀ DEL SAPERE

5

Qual è il modello di spiegazione scientifica seguito da Cartesio? (max 2 righe)

6

Qual è la differenza fondamentale tra il modo aristotelico di concepire la realtà e quello della nuova scienza? (max 6 righe)

COSTRUIRE 7

8

IDEE

Lavoriamo sui testi 15

Qual è il contenuto della mathesis universalis secondo Cartesio in T4? (max 2 righe)

16

Con quale similitudine Cartesio descrive l’unità del sapere umano in T5? (max 1 rigo)

17

Qual è il ruolo nel mondo fisico del concorso ordinario di Dio di cui Cartesio parla in T7? (max 3 righe)

18

Per quale motivo Cartesio si accontenta di supporre la formazione di un corpo umano da parte di Dio in T8? (max 3 righe)

19

Che differenza sussiste tra idee e immagini mentali secondo Cartesio in T10? (max 3 righe)

20

Con quale argomento Cartesio si libera dell’ipotesi di una falsità assoluta della nostra certezza in T11? (max 2 righe)

21

Quali differenze esistono tra una percezione chiara e una distinta secondo Cartesio in T12? (max 3 righe)

22

Esponi i passaggi dell’argomento con cui Cartesio raggiunge la certezza di esistere in T14. (max 4 righe)

23

Attraverso quale mezzo conosciamo la natura del pensiero e dell’esistenza, secondo Cartesio in T15? (max 3 righe)

24

Quali sono le due nozioni di natura che Cartesio espone in T18? (max 4 righe)

25

Per quali motivi Cartesio afferma che l’anima è congiunta a tutto il corpo, ma non ha un luogo proprio in T20? (max 3 righe)

IL MONDO (E L’UOMO): FISICA E FISIOLOGIA

Per quali scopi Cartesio scrive la favola del mondo e quali sono i suoi contenuti? (max 4 righe) Quali aspetti dell’essere umano restano esclusi dal modello dell’uomo macchina? Qual è il presupposto ontologico di questa esclusione? (max 4 righe)

COME RAPPRESENTAZIONI

9

Qual è la differenza fondamentale tra la nozione antica e medievale di idea e quella cartesiana? (max 3 righe)

10

Descrivi in un massimo di 5 righe il meccanismo della rappresentazione attraverso le idee.

RITROVARE

IL FONDAMENTO

11

Di quante parti si compone il Discorso sul metodo e quali argomenti affronta? (max 8 righe)

12

Che cos’è la morale provvisoria e quali sono le sue regole? (max 6 righe)

13

Qual è la differenza tra analisi e sintesi nel processo conoscitivo? (max 2 righe)

14

Quali cose vengono revocate in dubbio nel percorso delle Meditazioni, e in quale ordine? E in quale ordine vengono recuperate? (max 8 righe) 179

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

LABORATORIO DI LETTURA Le Meditazioni metafisiche Analisi di un pezzo di cera Il brano che segue è tratto dalla seconda delle Meditazioni metafisiche. Cartesio ha dimostrato la necessità dell’esistenza della res cogitans, ma deve ancora vincere il pregiudizio del modo comune di pensare e acquisire una convinzione più chiara. Approfondisce allora la sua conoscenza della mente passando attraverso l’analisi dell’apparente certezza del senso comune: quella che riguarda l’esistenza di un oggetto percepito attraverso i sensi – in questo caso, di un pezzo di cera.

Premessa: la mente è ancora schiava dei pregiudizi

Tesi: è più certa la conoscenza della propria esistenza che quella sensibile del mondo esterno Metodo: assecondare la mente

Commento e interpretazione

180

Ora sì che comincio a conoscere un po’ meglio che cosa sono. E nondimeno ancora mi sembra (non ce la faccio proprio a non crederlo) che le cose corporee – si tratti solo di immagini formate col pensiero, oppure vengano anche colte con i sensi, qui non fa differenza – siano conosciute molto più distintamente di quel non so che, di me, che invece non cade sotto l’immaginazione. In verità, sarebbe ben strano se, delle cose che mi rendo conto che sono dubbie, ignote, estranee a me, io le comprendessi più distintamente di quel che conosco come vero, e cioè me stesso; ma ora capisco anche di che si tratta: alla mia mente piace di divagare, e non si adatta ancora ad essere costretta entro i confini della verità. [A] E sia pure, allora: consentiamole di andare a briglia sciolta, ancora per una volta; ma affinché, ritirandole poi subito la briglia ad arte, essa accetti più facilmente di venire guidata. [B]

1

5

10

A. Cartesio ha dimostrato che dal dubbio deriva almeno la certezza che io sono. E che ciò che sono è una «cosa che pensa» (res cogitans), cioè che «dubita, intende intellettualmente, afferma, nega, vuole, non vuole, e anche immagina e sente». Ma questa dimostrazione, per quanto solida, non riesce da sola a smuovere convinzioni radicate, come la sicurezza ingenua di conoscere meglio le cose esterne che «quel non so che, di me» di cui non posso avere un’immagine. In questo primo passo del brano viene in luce chiaramente il carattere particolare delle «meditazioni», il loro essere non una semplice trattazione argomentativa, logica, dei problemi, ma appunto anche una sorta di esercizio spirituale, di tipo quasi religioso: la mente «non ce la fa a non credere» a certe cose, è spesso portata fuori dalla concentrazione su una verità acquisita (le «piace di divagare»). La verità non va solo conosciuta, ma riconquistata sempre di nuovo, fatta propria in profondità, perché possa mostrarsi nella sua evidenza e avere un effettivo assenso da parte di chi pensa. B. Il percorso meditativo è allora qui quello di seguire la mente nelle sue credenze spontanee, ‘ingenue’ («andare a briglia sciolta»), per poi revocarle, metterle in questione una alla volta. Come vedremo, Cartesio fa giocare l’una contro l’altra due convinzioni comuni: che i sensi ci diano l’essere vero delle cose, e che una cosa – in questo caso il pezzo di cera – permanga la stessa pur subendo variazioni. C. Si prende in esame un corpo, non il concetto di corpo in generale; un corpo come si presenta ai sensi: attraverso sapore, odore, colore, figura e grandezza, resistenza al tatto, suono.

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna Analisi della conoscenza: come i sensi vedono le qualità di un corpo

Prima domanda: i sensi percepiscono ciò che permane al di là del mutamento?

Prima risposta: i sensi vedono solo le qualità mutevoli

Seconda domanda: è forse l’immaginazione a conoscere il corpo?

Di tutte le cose, consideriamo dunque quelle che comunemente si ritiene di comprendere più distintamente; e cioè i corpi, che tocchiamo e vediamo (e non i corpi considerati in generale, ché di solito siffatte concezioni generali sono assai più confuse, bensì proprio un determinato corpo particolare). Prendiamo, per esempio, questa cera che, appena tirata fuori dall’alveare, ancora non ha perso del tutto il sapore del miele e mantiene un po’ dell’odore dei fiori da cui è stata raccolta: il suo colore, la sua figura e la sua grandezza sono lì, tutti evidenti; la si può toccare senza problemi, e, se la si batte con un dito, emetterà un suono; insomma, si ha tutto quel che sembra necessario perché un corpo possa essere conosciuto il più distintamente possibile. [C] Ma ecco che, mentre io sto parlando, essa viene avvicinata al fuoco: scompare quanto le rimaneva di sapore, l’odore svanisce, il colore cambia, vien meno la figura, la grandezza cresce, e la cera si fa liquida, calda, a fatica la si può toccare, e, se la si batte, non emetterà più alcun suono. Ebbene: rimane ancora la stessa cera di prima? Lo rimane, certo; nessuno lo nega, nessuno ritiene che non lo rimanga. Ma che cos’era allora che in essa veniva compreso prima, tanto distintamente? [D] Di sicuro niente di quel che coglievo con i sensi, ché ora è mutato, appunto, tutto quanto cadeva sotto il gusto, l’odorato, la vista, il tatto, l’udito, e tuttavia la cera rimane la stessa di prima. Forse quel che prima veniva compreso tanto distintamente era quel che penso ora, e cioè neppure allora, in verità, la cera era quella dolcezza del miele, né quel profumo dei fiori né quella bianchezza, quella figura o quel suono, bensì un corpo che poco fa mi appariva in questi modi ed ora mi appare invece in modi differenti. [E] Che cosa è però, con precisione, quel che così immagino? Facciamo attenzione, per vedere quel che rimanga una volta messo da parte quanto non appartiene alla cera. Nient’altro, di certo, che di essere essa un qualcosa di esteso, flessibile, mutevole. [F] Ma che cos’è il suo essere flessi-

15

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25

30

35

40

D. Tutte quelle qualità prima evocate come ciò che identifica la cera possono mutare: non sono dunque i sensi a dirci cos’è la cera. Cos’è allora che garantisce veramente la nostra certezza che la cera, trasformandosi e presentandosi dunque in modo del tutto diverso ai sensi, sia la medesima, ossia una cera diversa, ma non un’altra cera? E. Se nessuna delle qualità sensibili ci dice cos’è la cera, forse la sua natura sta nell’esser un corpo che può assumere più modi di manifestarsi («modi» – o «accidenti» – erano termini scolastici che si opponevano a «sostanza», ciò che fa da sostrato stabile alle proprietà mutevoli di un ente). Se non sono i sensi a dire cos’è qualcosa, forse lo fa l’immaginazione: quella facoltà che si occupa di estensione, grandezza, figura, ossia delle qualità che sono comuni a più sensi che Cartesio sta per nominare (per questo l’immaginazione è identificata anche col «senso comune», la facoltà che per Aristotele coglieva appunto le qualità comuni a diversi sensi). Grandezza e figura sono modi dell’estensione, in quanto sostanza: ciò identifica il corpo appunto come res extensa. Queste qualità sono mutevoli, ma l’immaginazione sarebbe in grado di seguirne le trasformazioni e dunque di stabilire una continuità. F. Allora l’essenza di un corpo come la cera è di essere qualcosa di esteso che può mutare figura (questo vuol dire qui «flessibile») e grandezza (questo è inteso con «mutevole»)? Anche questa soluzione, dopo quella che attribuiva ai sensi la conoscenza distinta della cosa, viene da qui in poi messa in questione.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Seconda risposta: l’immaginazione non può comprendere le qualità essenziali dei corpi

Prima conclusione: solo la mente attenta percepisce e si rappresenta correttamente un corpo

bile e mutevole? [G] Forse questo, che io immagino che la cera può mutare figura, da rotonda in quadrata, da quadrata in triangolare, e così via? Niente affatto! Capisco infatti che la cera è suscettibile di infiniti mutamenti di questo genere, però io non sono in grado di percorrerli con l’immaginazione, in quanto infiniti; per cui il mio comprenderla come suscettibile appunto di infiniti mutamenti non è opera della facoltà immaginativa. [H] Che cos’è poi il suo essere estesa? In realtà, neppure l’estensione della cera io la conosco con l’immaginazione, ché, quando essa si liquefà, la sua estensione cresce, e di più se arriva a bollire ed ancora di più se il calore aumenta ancora; per cui, non giudicherei correttamente che cosa sia la cera, se non la ritenessi suscettibile di ben maggiori varietà di estensioni di quante io mai ne abbracci con l’immaginazione. [I] Non resta quindi se non concludere che io non lo immagino mai, che cosa sia questa cera, ma lo percepisco soltanto con la mente [L] (e dico questa cera in particolare, ché quanto alla cera in generale è ancor più chiaro). [M] Ma che cos’è questa cera che non è percepita se non dalla mente? Di certo la stessa che io vedo, tocco, immagino, insomma la stessa che fin dall’inizio ritenevo che esistesse; e tuttavia – si noti bene – la percezione di essa non è un vedere, un toccare, un immaginare, e non lo è stata mai, nonostante che prima mi sembrasse così, perché è invece una visione esclusivamente mentale, [N] la quale poi può essere o imperfetta e confusa, come era prima, oppure chiara e distinta, come è ora, a seconda

G.

H.

I.

L.

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Da notare che figura e grandezza sono «qualità primarie», da distinguere dalle «qualità secondarie» (sapore, colore, odore, suono) prima considerate. Cartesio accetta questa distinzione (già abbracciata da Galilei nel Saggiatore), e riconosce il primato delle qualità primarie, ma la sua intenzione non è qui di sottolineare questo punto. Bisogna notare che qui Cartesio procede un po’ velocemente: perché la capacità di avere una figura e una grandezza (questo vuol dire «flessibile» e «mutevole») dovrebbe appartenere alla cera più di quella di avere un colore o una certa resistenza? La ragione potrebbe stare nel fatto che queste qualità sono comuni a più sensi, ma qui Cartesio non lo dice. Sono comunque le qualità matematizzabili, trattabili in modo matematico. Cartesio sostiene in ogni caso che nulla appartiene al concetto di corpo se non che «è una cosa con lunghezza, larghezza, profondità, capace di diverse figure e movimenti». E che «grandezza, distanza, figura non sono percepite che dal ragionamento» (Seste obiezioni). L’esclusione esplicita di durezza, colore, pesantezza ecc. dalla natura dei corpi è svolta nei Principi della filosofia, 2,4,11. Essere flessibile e mutevole vuol dire potere assumere infinite figure e grandezze. L’immaginazione non è capace di rappresentare infiniti mutamenti come possibili, può solo rappresentarne un numero indefinito. Inoltre (Cartesio qui però non lo dice) l’immaginazione non è in grado di immaginare qualunque cosa l’intelletto concepisca. Nella sesta Meditazione si fa riferimento all’esempio del triangolo e del chiliagono (poligono di mille lati): mentre il primo posso immaginarlo, «non è che i mille lati li immagini, ossia li veda – allo stesso modo in cui invece ne vedo tre – come se fossero presenti». Concepisco però il chiliagono con l’intelletto altrettanto bene che il triangolo. Nella frase precedente Cartesio ha confutato la possibilità di abbracciare con l’immaginazione le infinite figure che un corpo può assumere. Qui, parlando di infinite «estensioni», intende in realtà più precisamente grandezze, ossia quantità determinate di estensione. Come si diceva, figura e grandezza sono le proprietà che un corpo esteso ha necessariamente. «Lo percepisco soltanto con la mente»: sola mente percipere. Il latino percipere non equivale in Cartesio all’odierno «percepire», che si riferisce per lo più alla percezione attraverso i

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

Digressione: i pregiudizi indotti dal linguaggio comune

Ripresa dell’argomento: la forma di conoscenza più vera è quella dell’intelletto

che io presti minore o maggiore attenzione a che cosa sia ciò di cui essa consta. [O] Per un momento mi fermo anche a considerare, tutto stupefatto, quanto la mia mente sia incline ad errare, rendendomi conto che, anche se rifletto tra me e me, senza parlare, tuttavia continuo a rimanere legato proprio alle parole e sono come ingannato dal modo in cui comunemente si parla. Se l’abbiamo di fronte, infatti, diciamo che vediamo la cera stessa, anziché che giudichiamo che essa è presente inferendolo dal colore o dalla figura; per cui ne concluderei subito che la cera la si conosce con una visione oculare e non con una visione esclusivamente mentale, se non mi fosse però accaduto di guardare da una finestra degli uomini per la strada, per esempio, e di dire che li vedevo, secondo il medesimo uso corrente per cui lo si dice della cera; ma, in un caso come questo, che cosa vedo in realtà se non dei cappelli e dei vestiti, sotto i quali potrebbero anche celarsi degli automi? Che sono uomini, in realtà, lo giudico; ma, allora, quel che ritenevo di vedere con gli occhi lo comprendo soltanto con la facoltà di giudicare di cui è dotata la mia mente. Comunque, chi aspiri ad essere superiore al volgo nel sapere dovrebbe vergognarsi di essere indotto in dubbio dai modi di parlare correnti [P]. Ma passiamo oltre, e, riprendendo il filo, consideriamo se, che cosa la cera sia, io lo percepivo meglio e con maggiore evidenza allorché la vedevo per la prima volta e credevo di conoscerla con i sensi esterni (o tutt’al più col «senso comune», come vien chiamato, vale a dire con la facoltà imma-

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sensi, ma è termine generico per tutti gli atti mentali, analogo all’odierno «rappresentare». M. Qui si pone un problema interpretativo. Cartesio sta sostenendo allora implicitamente, parlando di questo rappresentare con la «sola mente» dopo che ha escluso sensi e immaginazione, che la mente è in realtà intelletto (la facoltà che ora entra in gioco)? Secondo questa interpretazione, Cartesio sosterrebbe che il cogitare è in ultima analisi intendere con l’intelletto (intelligere), stabilendo una gerarchia tra i modi di cogitare. In questa direzione andrebbero alcune formulazioni, in altri luoghi delle Meditazioni, dove si afferma che sentire e immaginare «includono pur in qualche modo l’intellezione», mentre non avviene il contrario; e che «senza di queste [facoltà di sentire e immaginare] posso intendere con l’intelletto me stesso tutto intero, mentre viceversa non si possono intendere quelle due facoltà senza di me». Tuttavia Cartesio sostiene anche che cogitare significa, l’abbiamo visto, «dubitare, intendere intellettualmente, affermare, negare, volere, immaginare, sentire» (nella traduzione francese delle Meditazioni anche amare e odiare), e lo ripete in più luoghi. Cogitatio è, per i Principi della filosofia (1,45), «tutto quello che per noi, che siamo consci anche di noi stessi, avviene in noi, in quanto ne abbiamo in noi consapevolezza. E così non solo il conoscere, il volere, l’immaginare, ma anche il sentire sono qui quella stessa cosa che chiamiamo cogitare». N. mentis inspectio: uno «scorgere, esaminare con la mente» – opposta qui alla visione che si compie con gli occhi, la visio oculi di cui si parla poco più sotto. O. La rappresentazione della cera «non è stata mai» un sentire o immaginare, ma fin dall’inizio un intendere, che ora è diventato chiaro e distinto. La chiarezza e distinzione (criteri fondamentali per Cartesio della conoscenza vera) sono date, rispettivamente, dal manifestarsi a una menta attenta, e dalla precisione, ossia dal contenere solo «ciò che appare manifestamente», gli elementi essenziali di qualcosa (vedi I principi della filosofia, 1,45). P. Tutto questo capoverso mette in guardia contro l’inganno derivante dall’uso comune delle parole. Quella che viene chiamata «visione» è in realtà un giudizio, cosa resa più evidente dall’esempio degli uomini visti dalla finestra, che letteralmente non vedo quando dico di vederli, ma presumo (giudico) che ci siano.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Prima conseguenza: la conoscenza di qualcosa rafforza la mia certezza di esistere

ginativa), oppure lo concepisco meglio ora, invece, dopo che ho diligentemente ricercato tanto che cosa sia la cera quanto come la si conosca. [Q] Sarebbe davvero sciocco rimanere in dubbio. Che cosa c’era infatti di distinto in quella prima percezione? Che cosa, che non sembri che possa essere percepito anche da qualsiasi animale? Invece, allorché io distinguo la cera dalle sue forme esteriori – come se la considerassi, una volta toltele le vesti, nella sua nudità – non la posso percepire così; e cioè come essa è in verità (anche se può ben darsi che nel mio giudizio si trovi ancora qualche errore), se non con una mente umana. [R] E che dirò, allora, proprio di questa mente, e cioè di me stesso (dal momento che fino ad ora non ammetto che in me ci sia altro oltre alla mente), io che ho l’impressione di percepire tanto distintamente quella cera? Di certo, conosco me stesso non soltanto con tanto maggior verità e certezza, ma anche con tanto maggior distinzione ed evidenza. Infatti, se giudico che la cera esiste per il fatto che io la vedo, da questo stesso fatto, che io la vedo, di certo segue con molto maggiore evidenza che io ora esisto anch’io; ché può darsi che quella cera che vedo in verità non esista, può anche darsi che io non abbia neppure occhi con cui vedere alcunché, ma quel che sicuramente non può darsi è che, allorché io vedo, o penso di vedere, qualcosa (due cose, vedere e pensare di vedere, fra cui ora non faccio distinzione), [S] non esista proprio io che penso così. Allo stesso modo, se giudico che la cera esiste per il fatto che io la tocco, seguirà di nuovo la stessa conclusione, e cioè che

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Q. Cartesio «passa oltre», evidenziando così che il suo scopo argomentativo principale qui non è parlare della percezione della cera o della conoscenza della identità degli oggetti, ma esaminare in quale forma di conoscenza – dei sensi o intellettuale – vi sia maggiore certezza, con l’intento di mostrare che una certezza puramente intellettuale, come quella della mia esistenza, è senz’altro ben più salda e indubitabile. Così non si tratta di stabilire una gerarchia tra le diverse cogitationes, una priorità dell’intelligere (intendere intellettuale) sulle altre forme, ma una gerarchia tra la conoscenza della propria esistenza – data dal passaggio dal cogito al sum – e quella comunemente considerata affidabile, la conoscenza sensibile del mondo esterno. R. L’intelletto può sbagliare, ma è in ogni caso l’intelletto (proprio soltanto della mente dell’uomo) a cogliere la vera natura della cosa. Sensazione e immaginazione sono per Cartesio processi meccanici, dunque presenti anche negli animali (che sono, nella sua concezione, «macchine»). A questo Gassendi opporrà, nelle Quinte obiezioni (vedi p. 207 s.), che un cane riconosce il padrone sotto le vesti e anche in diverse posizioni, e riconosce una lepre come la stessa da viva e da scorticata. S. Qui non è in questione il vedere qualcosa, il vedere come modo di riferirsi a cose realmente esistenti, ma il vedere come tipo di atto mentale: rispetto a ciò, parlare di «vedere» o di «credere di vedere» non fa alcuna differenza. T. Nota che Cartesio sta qui articolando il cogito nelle sue diverse forme: abbiamo un video ergo sum («vedo quindi sono»), un tango ergo sum («tocco quindi sono»), un imagino ergo sum («immagino, raffiguro quindi sono»). Questo dimostra che il cogitare non è necessariamente intellettuale, un «pensare» in senso stretto. Intellettuale – e chiara e distinta – è la conoscenza della mia esistenza, come lo è in ultima analisi, abbiamo visto, quella dell’esistenza dei corpi. U. Non solo l’esistenza della mente, ma anche la sua natura è conosciuta con maggiore chiarezza e distinzione. Qui Cartesio va oltre la semplice certezza del cogito, affermando che posso sapere con evidenza molte cose della mente. Come osserverà rispondendo alle Quinte obiezioni di Gassendi (vedi p. 207 s.), ogni conoscenza di cose esterne rivela un

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

Seconda conseguenza: conosco distintamente la natura della mia mente

Seconda conclusione e dimostrazione della tesi iniziale: la mia percezione della mia mente è la conoscenza più certa ed evidente

io esisto. E seguirà altrettanto, anche se lo giudico a partire dal fatto che io immagino la cera, o da qualsivoglia altra premessa di questo genere. [T] Naturalmente, poi, questo, di cui mi rendo conto a proposito della cera, varrà anche per tutte quante le altre cose che io ritenga che si trovino fuori di me. Inoltre, se la percezione della cera è apparsa più distinta dopo che l’ho conosciuta non soltanto con la vista o il tatto, ma con ben altro ancora, quanto più distintamente – devo ammettere – conosco ora me stesso, dal momento che ogni considerazione che aiuti a percepire meglio la cera o qualsiasi altro corpo attesta altrettanto, ed anzi anche di più, quale sia la natura della mia mente! [U] Eppure nella mente stessa c’è ancora così tanto, con cui conoscerla più distintamente, che sembra appena il caso di considerare quel che si riverbera su di essa considerandola a partire dai corpi. Ed eccomi così arrivato alla conclusione a cui volevo arrivare: ora che so, infatti, che, a parlare propriamente, neppure i corpi vengono percepiti con i sensi o con la facoltà immaginativa, bensì soltanto con l’intelletto, ossia non già perché toccati o visti, bensì soltanto perché concepiti appunto con l’intelletto, conosco palesemente che niente può essere percepito da me con maggiore facilità ed evidenza che la mia mente. Poiché però non ci si riesce a liberare tanto presto dell’abitudine alla vecchia opinione contraria, è il caso che per oggi mi fermi qui, affinché questa scoperta io la possa imprimere più profondamente nella mia memoria, con un’assidua meditazione. [V]

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(da R. Descartes, Meditazioni metafisiche, trad. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 1977)

corrispondente potere della mente: «Come possiamo distinguere molti vari attributi nella cera: che essa è bianca, che è dura, che di dura diventa liquida, ecc.; così ve ne sono altrettanti nello spirito: che ha la facoltà di conoscere la bianchezza della cera; che ha la facoltà di conoscerne la durezza; che può conoscere il cambiamento di questa durezza o liquefazione, ecc.». Resta aperta la questione se questo possa davvero rappresentare una comprensione chiara e distinta della mente. Gassendi chiedeva una conoscenza che non fosse solo enumerazione di facoltà: «poiché si attende da voi, e voi ci promettete, una conoscenza di voi più esatta dell’ordinaria, senza dubbio vi rendete conto che non basta dirci come fate, che siete una cosa che pensa, che dubita, che intende, e così via, ma che dovete lavorare su di voi stesso, con una specie d’operazione chimica, in guisa tale che possiate scoprirci e farci conoscere l’interno della vostra sostanza». V. Di nuovo viene in luce il carattere delle meditazioni: un’acquisizione profonda di conoscenza, che non può limitarsi all’apprenderla, ma deve anche condurre a farla propria.

Questionario sull’argomentazione 1

Perché, secondo l’opinione comune, è più difficile conoscere la mente piuttosto che i corpi? (max 2 righe)

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Che cosa conosciamo di un corpo attraverso i sensi? (max 1 riga)

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Per quale motivo l’immaginazione non è in grado di comprendere tutti i mutamenti di un corpo? (max 2 righe)

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Quale facoltà adopero per dire che le figure che vedo attraverso la finestra sono uomini? (max 1 riga)

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Da quale fatto consegue che «niente può essere percepito da me con maggior facilità ed evidenza che la mia mente»? (max 2 righe)

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo?

I testi Cartesio Risposte alle quinte obiezioni: Il distacco dalla tradizione aristotelica, T1 J.O. de La Mettrie L’uomo macchina: La coscienza non distingue in maniera sostanziale uomini e animali, T2 B. Spinoza Etica: La simultaneità tra stati mentali e corporei, T3

G.W. Leibniz Chiarimenti sulle difficoltà che il sign. Bayle ha trovato nel «Nuovo sistema dell’unione dell’anima e del corpo»: Anima e corpo: due orologi ben costruiti, T4 J. Locke Saggio sull’intelletto umano: L’io non è una sostanza spirituale, T5

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Che rapporto c’è tra anima e corpo? 1

Rivoluzione scientifica e crisi dell’ilemorfismo

Nella filosofia moderna il rapporto tra anima e corpo assume un carattere fortemente problematico, che lo rende oggetto di un vivace dibattito, iniziato a cavallo tra Seicento e Settecento e non ancora concluso, come è testimoniato dalle diverse posizioni a confronto nell’ambito della «filosofia della mente», uno dei settori della filosofia contemporanea più coltivato, sia nei Paesi anglosassoni sia nel continente europeo. Alle origini di questo dibattito vi è la crisi della concezione aristotelica dell’anima come forma del corpo – impostasi nella Scolastica attraverso la mediazione di Tommaso –, nell’ambito della quale il rapporto tra i due termini non poneva particolari problemi. Esso risultava infatti analogo al rapporto che, in un tavolo, lega il legno di cui è fatto e la sua forma, ossia ciò che fa di esso un tavolo: secondo la dottrina di matrice aristotelica oggi chiamata «ilemorfismo» (da hy`le = materia e morphè = forma), infatti, come la forma di ogni oggetto è la sua funzione, allo stesso modo la forma del corpo, cioè l’anima, è ciò che lo rende tale, ossia ciò che conferisce ad esso vita, sensibilità e pensiero. Due alternative La progressiva sostituzione della fisica aristotelica con il meccanicismo, che si all’ilemorfismo verifica nel contesto della rivoluzione scientifica, è accompagnata dall’abbandono di questa concezione ilemorfica dell’anima, principalmente a favore di due ipotesi, tra loro alternative: da un lato, la riduzione materialistica dell’anima a semplice organo corporeo; dall’altro, una divaricazione sempre più netta tra il corpo – parte dell’universo fisico, regolato dalle leggi necessarie di causa-effetto – e l’anima, depurata da ogni materialità. Va da sé che, una volta accentuato il divario tra i due termini, risultasse più complicato spiegare il loro nesso.

Origini del dibattito sul rapporto tra anima e corpo: la crisi della concezione aristotelica

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Argomento di Cartesio a favore del dualismo di anima e corpo

Il pensiero è indipendente dal corpo

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Il dualismo cartesiano: due sostanze interagenti Il primo a porre su nuove basi – rispetto al pensiero antico e medievale – la questione del rapporto tra anima e corpo è Cartesio, che intende i due termini come due sostanze differenti e completamente eterogenee: la «cosa pensante» e la «cosa estesa» (vedi Unità 3, p. 170 ss.). Cartesio dimostra il dualismo sostanziale tra anima e corpo a partire dal celebre argomento del «cogito», secondo il quale se dubito di qualcosa e quindi penso, allora necessariamente esisto. Il dubbio metodico e l’ipotesi del genio maligno della prima meditazione mettono in crisi ogni forma di certezza – a partire da quella dell’esistenza delle cose corporee, percepite con i sensi –, salvo quella dell’esistenza di me stesso in quanto essere dubitante e, dunque, pensante. Se unicamente il fatto di essere pensante mi garantisce la mia esistenza, allora tutte le proprietà appartenenti alla natura corporea – come la facoltà nutritiva o quella motoria, concepite dalla tradizione aristotelica come funzioni dell’anima –

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo?

Anima e corpo sono sostanze distinte

Rifiuto della tradizione aristotelica

Due diverse concezioni dell’anima

Il termine «mente» è preferibile ad «anima»

T1

Il distacco dalla tradizione aristotelica Cartesio, Risposte alle quinte obiezioni

si rivelano invece come inessenziali al mio io: la sola proprietà che costituisce la mia essenza è il pensiero, inteso nel senso di coscienza, che rivela così la propria natura di sostanza sussistente attraverso se stessa, cioè indipendentemente dal corpo. Questa indipendenza è provata dal fatto che posso immaginare di non avere un corpo e tuttavia di continuare a esistere, mentre appena cesso di pensare io, in quanto consapevolezza di me, cesso di esistere. In sintesi, si può dire che, poiché grazie al «cogito» ho un’idea chiara e distinta di me come qualcosa alla quale solo il pensare – e non il corpo – è essenziale, allora si può dimostrare che l’anima e il corpo sono due sostanze separate e differenti: nella prospettiva cartesiana, infatti, la veracità divina ci garantisce che tutte le cose che concepiamo chiaramente e distintamente sono come le concepiamo. La posizione di Cartesio è in deliberata e consapevole rottura rispetto alla tradizione aristotelica, che considerava anima e corpo come forma e materia di un’unica sostanza. Da un lato, Cartesio innalza la materia e il corpo da mera «potenza» – ossia possibilità di accogliere forme – al rango di sostanza, governata in modo autonomo dalle leggi della fisica. Dall’altro, la definizione dell’anima come «cosa pensante» equivale a un netto rifiuto della tripartizione aristotelica dell’anima in facoltà nutritiva, sensitiva e razionale. Aristotele riconosceva nella facoltà razionale una prerogativa degli uomini; la presentava però come una funzione riassorbente in sé le funzioni inferiori, cioè quella nutritiva e quella sensitiva, proprie rispettivamente delle piante e degli animali. Di contro, Cartesio identifica l’anima esclusivamente con il «cogito», che, in quanto pensiero in atto che ha bisogno solo di sé per sussistere, è quanto di più lontano possa esservi dall’anima razionale della tradizione aristotelica. Per prendere le distanze da quest’ultima, Cartesio mette in discussione la stessa opportunità di continuare a utilizzare il termine aristotelico «anima». Ai suoi occhi questo termine è fuorviante e non consente di cogliere la differenza tra gli animali e gli uomini: nella prospettiva cartesiana – fondata sull’identificazione tra animo, pensiero e coscienza – gli animali, essendo privi di pensiero, non hanno nessuna anima e nessuna coscienza, bensì sono dei meccanismi inconsapevoli che, al pari degli orologi, non provano né dolore né piacere; l’uomo ha invece un’anima, o meglio l’unica cosa che meriti di essere chiamata con questo nome, cioè il pensiero o la coscienza. Per questo, per evitare confusioni con l’anima della tradizione aristotelica, Cartesio preferisce adoperare il termine «mente», o «spirito» – come viene detto esplicitamente nella risposta che il filosofo dà a uno dei suoi critici, Pierre Gassendi. IV. L’oscurità che voi [scilicet: Gassendi] trovate qui è fondata sull’equivoco della parola anima; ma io l’ho tante volte nettamente illuminata, che mi vergogno a tornarci su. Ecco perché dirò solamente che i nomi sono stati d’ordinario imposti da persone ignoranti, il che fa sì che essi non convengano sempre con molta precisione alle cose significate […]. Così, poiché, forse, i primi autori dei nomi non hanno distinto in noi quel principio, in forza del quale ci nutriamo, cresciamo e facciamo, senza il pensiero, tutte le altre funzioni che ci sono comuni con le bestie, da quello, in forza del quale pensiamo, essi han chiamato l’uno e l’altro col solo nome di anima; e vedendo dopo che il pensiero era differente dalla nutrizione, han chiamato con nome di spirito [mens] quella cosa che in noi ha la facoltà di pensare, ed hanno creduto che fosse la 189

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principale parte dell’anima. Ma io, osservando che il principio in forza del quale ci nutriamo, è interamente distinto da quello in forza del quale pensiamo, ho detto che il nome di anima, quando è preso insieme per l’uno e per l’altro, è equivoco e che, per prenderlo precisamente per «l’atto primitivo [actus primus]» o «forma principale dell’uomo [praecipua hominis forma]», dev’essere inteso solamente di quel principio, in forza del quale pensiamo: così l’ho il più delle volte chiamato col nome di spirito [mens] per togliere quell’equivoco di ambiguità. Poiché non considero lo spirito come una parte dell’anima ma come quell’anima tutta quanta che pensa. Interazione reciproca tra mente e corpo

Come spiegare l’interazione tra mente e corpo?

Il ruolo della ghiandola pineale

Dualismo cartesiano e libero arbitrio

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L’affermazione cartesiana di un dualismo sostanziale tra mente e corpo non equivale affatto, però, al disconoscimento dei reciproci rapporti tra le due dimensioni che contraddistinguono l’uomo: l’unico essere che nella prospettiva cartesiana è caratterizzato dalla compresenza di due sostanze così eterogenee. Cartesio concepisce sì il pensiero come una sostanza immateriale indipendente e in linea di principio separabile dalla dimensione corporea, ma al tempo stesso ammette come un fatto che ci si presenta quotidianamente «con certissima e evidentissima esperienza» l’unione che lega mente e corpo nell’uomo prima della morte, in un nesso di interazione reciproca: noi sperimentiamo continuamente la forza che la mente ha di muovere il corpo – la mia volontà di alzare un piede provoca, per esempio, il movimento del piede verso l’alto – e quella che il corpo ha di agire sulla mente, causando i suoi sentimenti e le sue sensazioni, come avviene nel caso in cui la mia mano si scotta e provo una sensazione di dolore. Questa interazione tra mente e corpo è per Cartesio espressione di un’unione più stretta di quella che esiste tra un pilota e la sua nave, per cui non è appropriato dire che la mente dirige il corpo come il primo guida la seconda: il pilota che vede una falla nella sua nave non ne è, infatti, consapevole in modo immediato e diretto come noi sappiamo, attraverso il dolore, che il nostro corpo è ferito. La spiegazione di questa interazione, ammessa da Cartesio come un fatto evidente e incontrovertibile, risulta però fortemente problematica, una volta presupposto il dualismo sostanziale di mente e corpo: se il corpo umano è res extensa – i cui movimenti sono spiegabili in termini meccanicistici, come pura azione e reazione –, come è possibile che un moto meccanico corporeo produca una modificazione o passione nella res cogitans, che non è sottoposta alle leggi meccaniche? E, viceversa, com’è possibile che un moto volontario della mente produca una modificazione nel corpo, sottostante in maniera necessaria alle leggi meccaniche? Cartesio torna più volte sulla questione, ritenendo di potere indicare una soluzione ricorrendo all’ipotesi della ghiandola pineale, cioè l’epifisi (situata nel cervello): attraverso quest’ultima gli «spiriti» – particelle sottili di materia, veicoli di movimento nei nervi – farebbero avvertire alla mente i moti corporei stimolando in essa le sensazioni corrispondenti, che solo la mente è capace di avere; sempre per mezzo della ghiandola pineale la mente metterebbe in movimento gli «spiriti» che producono i moti corporei. La soluzione cartesiana risultò poco soddisfacente già per molti contemporanei e indubbiamente la fisiologia cartesiana è oggi poco più che una curiosità storica. Nonostante ciò, il dualismo cartesiano presenta un indubbio vantaggio, che ne ha favorito la ripresa, anche in tempi recenti: il vantaggio di rendere possibile la fondazione del libero arbitrio. Si può, infatti, sostenere che gli uomini sono ca-

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo?

paci con i loro liberi atti di volontà di deviare in certi punti il corso del mondo – quale è determinato dalle leggi di natura – solo se si parte dal presupposto dualistico che la mente sia una sostanza immateriale distinta dal corpo e, in quanto tale, in grado di sottrarsi alle leggi della fisica. Dunque, prendendo radicalmente le distanze dalla concezione aristotelica dell’anima, Cartesio sostiene che l’anima (o, per usare un termine meno ambiguo, la mente) è una sostanza distinta dal corpo e autonoma rispetto ad esso. Questa tesi è, a suo avviso, del tutto compatibile con il fatto – evidente – che tra le due sostanze ci sono uno stretto legame e un’interazione reciproca.

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Risposte monistiche Monismo materialista

Hobbes nega che ci sia una sostanza incorporea

L’errore di Cartesio

Gli eventi mentali sono meccanismi fisici

Il dualismo cartesiano tra anima e corpo divise i contemporanei e i successori di Cartesio. Esso fu completamente rifiutato dai fautori di monismi di segno opposto – materialistico o spiritualistico –, che negarono rispettivamente l’esistenza di una «sostanza immateriale» o della «sostanza corporea». Espressione paradigmatica del monismo materialistico moderno – basato sulla nuova scienza della natura fondata da Galileo – è la filosofia di Hobbes. Muovendo dall’assunto che esistano solo corpi, Hobbes vede nella «sostanza immateriale» (qual è, secondo Cartesio, il pensiero) una contraddizione in termini: il riferimento a una sostanza incorporea è privo di senso, perché «sostanza» vuol dire «corpo» e, quindi, parlare di una sostanza immateriale o incorporea equivale all’assurdo di parlare di un «corpo incorporeo». Partendo da questi presupposti, nel primo gruppo delle Terze obiezioni alle Meditazioni metafisiche di Cartesio, Hobbes critica aspramente la pretesa cartesiana di dedurre dal «cogito» l’esistenza di una sostanza pensante sussistente in maniera indipendente e distinta rispetto alla sostanza corporea: dall’affermazione «io penso», ossia «io sono pensante» – egli argomenta –, si può certo dedurre che esisto, ma non che sono pensiero, nel senso cartesiano di «intelletto incorporeo». Non vi è, infatti, nessuna ragione logica per escludere che il soggetto di quell’atto del pensiero – soggetto che è distinto dall’atto che compie – sia qualcosa di corporeo, come sostiene Hobbes: a suo avviso, il pensare non è altro che una proprietà del mio corpo, e niente affatto una sostanza a sé stante (vedi Unità 6, p. 342, T3). Nella prospettiva hobbesiana, dunque, l’anima umana è materiale e tutti i suoi atti – dalle percezioni sensoriali sino alle rappresentazioni intellettuali e alle decisioni volontarie – non sono che movimenti, prodotti dai movimenti dei corpi esterni secondo le leggi del meccanicismo che regola l’intera natura. Anche Cartesio aveva descritto le sensazioni e le percezioni come un meccanismo regolato da leggi necessarie. A prescindere dal comune meccanicismo, tra i due pensatori vi è però una grande differenza nel modo di concepire il rapporto tra anima e corpo. Mentre nella teoria cartesiana – fondata sul presupposto del dualismo sostanziale tra res cogitans e res extensa – il meccanismo delle percezioni corporee è la causa, attraverso la ghiandola pineale, di un evento mentale che accade in 191

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La Mettrie: gli esseri umani sono semplici macchine

Anima e corpo hanno la stessa natura

T2

La coscienza non distingue in maniera sostanziale uomini e animali J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina

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una sostanza distinta e indipendente rispetto al corpo, per Hobbes l’evento mentale non è nulla di diverso dal meccanismo fisico, bensì si riduce ad esso. Per questo motivo, Hobbes può essere considerato come il primo sostenitore, nella storia del pensiero filosofico moderno, di quella che oggi viene chiamata «teoria dell’identità tra ‘mente e cervello’», alternativa rispetto al dualismo cartesiano. Il monismo materialistico giunge al suo esito più radicale ed estremo – secondo un percorso non lineare – in alcuni esponenti del pensiero illuministico, come d’Holbach (1723-1789) e La Mettrie (1709-1751). Nella sua celebre opera L’uomo macchina, pubblicata nel 1748, quest’ultimo estende all’uomo la dottrina cartesiana secondo la quale gli animali sono dei meccanismi privi di coscienza, giungendo così a conclusioni opposte rispetto al dualismo cartesiano. Cartesio aveva concepito sì il corpo umano come una macchina, alla quale però si aggiunge e si fonde la mente, intesa come sostanza immateriale e cosciente. Partendo dalla constatazione delle numerose somiglianze esistenti tra il comportamento degli animali – che sono semplici macchine – e quello degli uomini, La Mettrie sostiene invece che nulla ci autorizza a negare ad essi la coscienza: ma se si ammette – come La Mettrie – che delle macchine come gli animali possano essere coscienti, allora il fatto di essere pensante e cosciente non può più essere addotto, come aveva fatto Cartesio, a prova dell’esistenza, nell’uomo, di una sostanza irriducibile al meccanismo materiale. Certo, La Mettrie riconosce che negli esseri umani vi sono alcune funzioni – come il pensiero e la coscienza morale – assenti nelle creature animali; egli ritiene, però, che la loro presenza sia perfettamente spiegabile in virtù del maggiore grado di complessità dell’organizzazione della materia cerebrale: non è affatto necessario ricorrere all’ipotesi di una differenza sostanziale tra le rispettive nature e, più in generale, tra anima e corpo. Il pensiero non è che una modificazione della materia e l’affermazione che gli esseri umani sono macchine così come lo sono gli animali è del tutto compatibile con il riconoscimento della loro capacità di pensare e di distinguere ciò che, dal punto di vista morale, è bene da ciò che è male. È vero che quel celebre filosofo [scilicet: Descartes] ha commesso molti sbagli, e nessuno lo nega: ma in fin dei conti ha conosciuto la natura animale, e per primo ha dimostrato perfettamente che gli animali erano delle pure macchine. […] in fin dei conti, sebbene egli faccia della retorica intorno alla distinzione delle due sostanze, è evidente che non è che una furberia, un’astuzia stilistica, per far sorbire ai teologi un veleno nascosto all’ombra di un’analogia che colpisce tutti e che i soli teologi non vedono. Perché è essa, è tale forte analogia, che spinge tutti gli scienziati e i competenti ad ammettere che quegli esseri fieri e vani, che si distinguono più per la loro presunzione che per il nome di uomini, per quanto desiderio abbiano di innalzarsi, in fondo non sono altro che degli animali e delle macchine che si muovono stando in posizione verticale. Tutti hanno quel meraviglioso istinto che, una volta educato, produce l’intelligenza, la quale ha sempre sede nel cervello […]. Essere macchina, sentire, pensare, saper distinguere il bene dal male come il blu dal giallo, in una parola, essere nato con un’intelligenza e con un sicuro istinto morale, e tuttavia non essere che un animale, sono dunque cose fra le quali non c’è contraddizione maggiore che fra l’essere una scimmia o un pappagallo e saper godere di piacere.

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo? Berkeley: esistono solo sostanze spirituali

Sul versante opposto rispetto al monismo materialistico si colloca il monismo spiritualistico, la cui espressione più radicale è costituita, in epoca moderna, dal pensiero di George Berkeley (1685-1753), che sviluppa in maniera paradossale l’empirismo anti-metafisico di Locke, fino a giungere alla negazione di ogni realtà materiale extra-mentale. Immaterialismo radicale che implica la falsità non solo del suo opposto, cioè del materialismo, ma anche del dualismo cartesiano: per Berkeley, infatti, non esistono sostanze materiali accanto a quelle spirituali, ma solo sostanze spirituali.

Monismo neutrale e dualismo degli attributi in Spinoza

C’è una sola sostanza: il Dio-Natura

Mente e corpo sono modi finiti di due attributi di Dio

Tra corpo e mente non c’è interazione causale

Corrispondenza tra stati mentali e corporei

Un caso a parte è costituito dal monismo sostenuto da Spinoza, che si distingue sia da quello materialistico, sia da quello spiritualistico per il suo carattere neutrale. Secondo l’ontologia spinoziana, se per «Sostanza» si intende ciò che sussiste e può essere concepito indipendentemente da qualsiasi altra cosa, non può che esservi una sola Sostanza, cioè il Dio-Natura; soltanto quest’ultimo esiste unicamente in virtù della sua stessa essenza, mentre tutte le altre cose non sono che sue determinazioni particolari o, meglio, suoi «modi», che dipendono da Lui e sono in Lui. Quest’unica Sostanza non ha né carattere esclusivamente spirituale, né carattere esclusivamente corporeo: la sua essenza è costituita da infiniti attributi, tra i quali rientrano sia il pensiero, sia l’estensione (cioè lo spazio, coincidente con la materia della fisica cartesiana, data l’inesistenza del vuoto); essi sono gli unici attributi conoscibili dall’uomo, in quanto essere finito costituito da una mente e da un corpo, che sono modi finiti rispettivamente del pensiero e dell’estensione infinita di Dio. Pur negando, in esplicita polemica con Cartesio, un dualismo sostanziale tra res cogitans e res extensa – a favore di un monismo neutrale della sostanza –, Spinoza ammette, dunque, un dualismo degli attributi: estensione e pensiero sono due attributi differenti dell’unica Sostanza assolutamente infinita – cioè il Dio-Natura –, ciascuno dei quali esprime per intero l’essenza infinita di Dio stesso, mentre le menti e i corpi sono modi finiti dell’estensione e del pensiero. Partendo da queste premesse ontologiche, Spinoza concepisce il rapporto tra mente e corpo secondo la teoria della simultaneità e coincidenza tra «l’ordine delle azioni e passioni corporee» e «l’ordine delle azioni e passioni della mente». Da un lato, Spinoza rifiuta in maniera decisa tutte le dottrine che affermano la possibilità di un’influenza reciproca tra la mente e il corpo – e, in particolare, la teoria cartesiana della ghiandola pineale –, in quanto nega la possibilità di un’azione causale tra modi di attributi diversi quali sono il pensiero e l’estensione: a ciascuno degli attributi corrisponde una serie infinita di modi finiti, derivante da Dio secondo un ordine necessario retto dal principio di causalità, senza però che nessun termine di una delle due serie possa incidere su quelli dell’altra. Quindi non è possibile che la mente agisca sul corpo, né è possibile il contrario. Dall’altro lato, il monismo neutrale della Sostanza consente a Spinoza di affermare una corrispondenza necessaria tra l’ordine delle idee e l’ordine delle cose e, di conseguenza, tra stati mentali e modificazioni corporee: essendo il Dio193

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Natura sia la totalità delle idee sia la totalità delle cose, in Esso non può esistere un’idea che non sia idea di qualcosa, così come non può esistere un corpo senza che di questo vi sia un’idea. L’anima, o meglio la mente, per Spinoza non è appunto nient’altro che l’idea di un dato corpo, che in Dio deve necessariamente esistere, se vi è quel corpo: in virtù della corrispondenza necessaria tra ordine delle idee e ordine delle cose, ogniqualvolta avviene un mutamento in un corpo vi deve sempre essere anche un’idea del mutamento stesso, cioè una modificazione degli stati mentali. Simultaneità tra vita Pur non essendovi nessuna interazione causale tra mente e corpo, tutto ciò che mentale e vita corporea penso, percepisco o voglio va dunque di pari passo – o, meglio, procede in maniera simultanea – con ciò che accade nel mio corpo, secondo una sorta di parallelismo: e questo perché vita psichica e vita corporea sono espressioni di un’unica Sostanza, entrambe rette, al proprio interno, dalla legge di quest’ultima, cioè dal principio di determinazione causale. È in questo senso che per Spinoza le decisioni della mente e le determinazioni del corpo sono la stessa cosa, semplicemente considerata sotto due dimensioni diverse (pensiero ed estensione).

T3

La simultaneità tra stati mentali e corporei B. Spinoza, Etica, 3, prop. 2, Scolio

Spinoza non riduce la mente al corpo

Anima e corpo sono inseparabili

Il corpo ha la stessa dignità della mente

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[…] la mente e il corpo sono una sola e medesima cosa, che viene concepita ora sotto l’attributo del pensiero ora sotto l’attributo della estensione. Onde viene che l’ordine o concatenazione delle cose è lo stesso, sia che la natura venga concepita sotto questo aspetto sia sotto quell’attributo; e conseguentemente anche che l’ordine delle azioni e passioni del nostro corpo è per natura simultaneo all’ordine delle azioni e passioni della mente […]. La teoria spinoziana della simultaneità e coincidenza tra stati mentali e modificazioni corporee non va confusa con la riduzione materialistica dei primi alle seconde. Spinoza non ritiene affatto che la mente sia un semplice organo corporeo, come il cervello; affermando la coincidenza tra i due termini, egli vuole piuttosto dire che, in virtù del monismo neutrale della Sostanza, la mente occupa nella catena logica delle idee lo stesso posto che il corpo occupa nella catena causale dei modi dell’estensione. Tuttavia, anche la concezione spinoziana – non meno di quella materialistica – si pone in netta rottura rispetto alla tradizione di pensiero cristiana che, fino a Cartesio, aveva concepito l’anima come entità indipendente dal corpo e da esso separabile, in grado di dirigere e guidare i movimenti corporei. Per Spinoza l’anima non è né forma sostanziale (forma del corpo, come sostiene l’ilemorfismo), né sostanza (come afferma Cartesio), bensì semplicemente un modo di questa, al pari del corpo, dal quale è inseparabile – in quanto non è altro che «idea di un corpo» – e sul quale non può esercitare alcun dominio o influenza, in base a quanto si è detto. Oltre a negare come assurda e inspiegabile la possibilità dell’interazione tra anima e corpo – a favore della teoria della simultaneità e del parallelismo tra stati mentali e modificazioni corporee –, Spinoza rigetta ogni forma di subordinazione gerarchica del corpo rispetto all’anima, muovendo dal presupposto che il materiale e lo spirituale, in quanto espressioni dell’unica Sostanza (il Dio-Natura), abbiano pari dignità. Oltre alla rivalutazione della corporeità, il monismo materialistico e quello neutrale di Spinoza presentano ulteriori punti comuni.

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo? Il libero arbitrio è un’illusione

Ogni modo finito è determinato dalla legge di causalità

Tutti gli esseri viventi hanno una mente

L’anima non è principio di vita

Dio come unica sostanza e parallelismo tra anima e corpo

4 Teorie che negano l’interazione tra mente e corpo

In primo luogo, nell’ambito di entrambe le dottrine viene meno ogni spazio per il libero arbitrio (cioè per la libertà della volontà umana). Non a caso, sia Hobbes sia Spinoza criticano aspramente la concezione della libertà come arbitrio (cioè come facoltà di scelta), sia pure partendo da prospettive differenti. La riduzione materialistica degli eventi mentali a modificazioni corporee induce Hobbes a ritenere che la volontà umana non si sottragga affatto al determinismo universale (per cui ogni cosa e ogni evento hanno necessariamente una causa). Per Spinoza, il libero arbitrio – e soprattutto la convinzione di potere dirigere i propri movimenti corporei in base ad esso – è una mera illusione, derivante dall’ignoranza delle cause efficienti delle proprie azioni e decisioni: ogni modo finito – sia del pensiero, sia dell’estensione – esiste e agisce in quanto è determinato a esistere e ad agire in maniera necessaria da un altro modo finito secondo la legge di causalità; di conseguenza, nemmeno la mente, in quanto modo finito del pensiero, è libera. Al contrario, in ogni suo stato essa è determinata in maniera necessaria da quello precedente, secondo un regresso all’infinito. In secondo luogo, anche in Spinoza viene a ridursi sensibilmente la distanza tra gli uomini e gli altri esseri viventi, come si è visto accadere nel caso di La Mettrie. In quanto idea di un dato corpo, l’anima non è, infatti, neanche per Spinoza una prerogativa esclusivamente umana: in Dio c’è necessariamente un’idea di qualsiasi cosa; dato che il Dio-Natura spinoziano è immanente, e non una sostanza separata dal mondo, l’idea che è in Lui è anche nelle cose. Di conseguenza, in ogni cosa vi è un’idea del proprio corpo, cioè una «mente». Questa mente o anima che Spinoza attribuisce a tutti gli esseri viventi – in quanto modo finito del pensiero, determinato in maniera meccanica dal principio di causalità – è molto più vicina alla macchina del materialismo moderno che all’ineffabile e spontaneo principio di vita teorizzato dall’animismo rinascimentale (concezione secondo la quale l’intera natura è retta da forze vitali e spirituali, da un’anima): nell’ontologia spinoziana, l’anima non è, infatti, principio della vita più di quanto lo sia il corpo, dal momento che entrambi sono mossi dal conatus, cioè dalla tendenza all’autoconservazione. La posizione di Spinoza sul problema del rapporto tra anima (o mente) e corpo è, così, un’originale alternativa tanto al monismo materialistico di Hobbes e di La Mettrie, quanto al monismo spiritualistico di Berkeley: esiste un’unica sostanza – Dio –, che non è solo corporea, né solo spirituale. Spinoza sostiene inoltre che tra l’anima, o la mente, e il corpo non c’è un rapporto di interazione reciproca, come sosteneva Cartesio, ma di simultaneità; e pur rifiutando la riduzione (caratteristica del materialismo) della sfera mentale a quella corporea, è d’accordo con Hobbes nel sostenere che la volontà umana non è libera e con La Mettrie nel concepire l’anima come prerogativa non esclusivamente umana.

Dio, anima e corpo Nel corso del Seicento e del Settecento vengono elaborate diverse teorie che, essendo fondate sulla negazione della possibilità di interazione reciproca tra mente o anima e corpo, possono apparire vicine al parallelismo spinoziano, dal quale però sono profondamente distanti. Esse sono infatti basate sulla tradizionale concezione cristiana di Dio come puro spirito che di fatto, come si è appena vi195

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’occasionalismo e l’identità di causa e creazione

L’unica causa di tutto è Dio: le cause degli eventi sono «occasioni» del suo intervento

Tesi comune agli occasionalisti e a Leibniz

Leibniz rifiuta l’occasionalismo perché contraddice la perfezione di Dio

L’armonia prestabilita

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sto, Spinoza rifiuta, sostenendo un monismo neutrale della Sostanza: la Sostanza, cioè il Dio-Natura, non ha un carattere puramente spirituale (così come non è esclusivamente corporea). Tra queste teorie va ricordato innanzitutto l’orientamento chiamato «occasionalismo», che trova i suoi rappresentanti più significativi in Arnold Geulincx (16241669) e Malebranche (vedi Unità 4, p. 203 e 211). A prescindere dalle differenze, anche sensibili, tra i vari esponenti dell’occasionalismo, essi affrontano la questione del rapporto tra anima e corpo muovendo da un presupposto comune. Questo consiste nella negazione dell’efficacia causale delle cose create, perché solo Dio agisce veramente: secondo l’osservazione formulata per la prima volta da Geulincx – sulla base di spunti cartesiani –, è impossibile fare qualcosa senza sapere come la cosa in questione venga prodotta, e dunque solo Dio è causa vera di tutto ciò che accade, nella misura in cui solo Dio sa come un evento si produce; o più semplicemente, come argomenta Malebranche, causare equivale a creare, e la capacità di creare appartiene solo a Dio. Partendo dall’accettazione del dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa e dalla negazione dell’efficacia causale delle cause seconde, gli occasionalisti rifiutano la possibilità di un’azione causale tra mente e corpo e affermano piuttosto la radicale dipendenza dell’una e dell’altro da Dio: né il corpo agisce sull’anima, né questa sul corpo; la concomitanza di modificazioni nel corpo e nell’anima, che riscontriamo nella vita quotidiana, è spiegabile esclusivamente risalendo a Dio, vera «causa» di tutto. È Dio che, «in occasione» di un certo stato del mio corpo – come una lacerazione della pelle –, produce la sensazione corrispondente, che nell’esempio addotto è il dolore; o viceversa, in occasione di un mio atto di volontà, come l’intenzione di sollevare un piede, provoca nel corpo un movimento adeguato. Dunque, quelle che a noi sembrano cause di certi eventi sono, in realtà, «occasioni» dell’intervento di Dio. Leibniz condivide con gli occasionalisti il rifiuto dell’interazionismo cartesiano: nell’orizzonte della metafisica leibniziana, infatti, la monade, sostanza che costituisce gli «spiriti» o le «anime ragionevoli», e le monadi che appaiono come «corpo» – cioè quelle che hanno percezioni oscure – sono tra loro completamente indipendenti, così come ogni monade rispetto a tutte le altre. Scartata l’ipotesi cartesiana dell’interazione reciproca tra anima e corpo, anche Leibniz ritiene che la corrispondenza tra stati mentali e corporei debba essere ricondotta a Dio. Tuttavia, egli prende espressamente le distanze dalla soluzione elaborata dagli occasionalisti riguardo al rapporto tra spirito e corpo, che – nella versione che ebbe maggiore diffusione, cioè in quella di Malebranche – presuppone un continuo intervento di Dio per produrre, in occasione del movimento del corpo, un moto dell’anima, e viceversa: una simile spiegazione equivale per Leibniz all’ipotesi di un miracolo continuo. Tale ipotesi, oltre a essere assurda e antieconomica, contraddice la perfezione di Dio. Presumere che Dio debba intervenire in ogni istante per far concordare stati mentali e stati corporei equivale a ipotizzare che la sua creazione sia così imperfetta da richiedere di continuo aggiustamenti e riparazioni, ovvero degradare Dio al livello di un ‘abile operaio’ che, per far concordare due orologi cattivi, è costretto a regolarli in ogni momento. All’interazionismo e all’occasionalismo Leibniz contrappone una teoria che con-

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo?

sidera la corrispondenza tra stati mentali e stati corporei come caso particolare dell’universale armonia prestabilita, cioè dell’armonia voluta da Dio all’atto della creazione; essa fa sì che tutte le monadi, pur essendo atomi (o sostanze individuali) spirituali tra i quali non c’è alcuna interazione, possano costituire un mondo perfettamente coerente. Armonia tra vita Così intesa, la coincidenza tra le fasi dell’evoluzione dell’anima e quelle dell’ecorporea e vita psichica voluzione del corpo non risulta né frutto di un’azione reciproca, né effetto di un continuo intervento di Dio, bensì semplicemente la conseguenza di un ‘artificio divino preventivo’, in virtù del quale vita corporea e vita psichica sono state regolate originariamente e in anticipo – una volta per tutte – in modo da concordare per l’eternità. Dio abile orologiaio In questa spiegazione, che per Leibniz è l’unica degna della perfezione divina, Dio è dunque concepito come un abilissimo orologiaio, che abbia costruito due orologi in modo così perfetto che essi, funzionando ciascuno per proprio conto, segnino sempre e infallibilmente la stessa ora.

T4

Anima e corpo: due orologi ben costruiti

G.W. Leibniz, Chiarimenti sulle difficoltà che il sign. Bayle ha trovato nel «Nuovo sistema dell’unione dell’anima e del corpo»

Ho già detto che si possono ipotizzare tre sistemi per spiegare la relazione tra l’anima ed il corpo, e cioè: 1) il sistema dell’influsso dell’uno sull’altro, che è quello seguito nelle scuole e che, nel senso in cui comunemente viene inteso, io, come i cartesiani [gli occasionalisti], ritengo impossibile; 2) il sistema di un sorvegliante perpetuo che rappresenti nell’uno ciò che accade nell’altro, press’a poco come se un uomo fosse incaricato di accordare continuamente due orologi mal costruiti ed incapaci di accordarsi, e 3) il sistema dell’accordo naturale delle sostanze, quale sarebbe quello di due orologi ben costruiti: sistema che io ritengo possibile quanto quello del sorvegliante e più degno dell’Autore di queste sostanze, orologi ed automi. Si è dunque visto che se gli occasionalisti accettano la tesi cartesiana della distinzione tra anima o mente e corpo, negano però che ci sia tra essi un rapporto di interazione reciproca. Anche Leibniz lo nega, ma mette in discussione la spiegazione occasionalistica della relazione tra l’anima e il corpo e propone la teoria dell’armonia prestabilita, che considera migliore dell’occasionalismo dal punto di vista teorico e assai più adeguata alla perfezione divina.

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Verso una soluzione anti-metafisica

Al di là delle differenze illustrate, le soluzioni del problema del rapporto animacorpo finora prese in esame sono accomunate dall’impostazione metafisica, secondo la quale la questione può essere affrontata solo a partire da una definizione preliminare della natura ontologica dell’anima. In conclusione del presente percorso, occorre almeno accennare a un approccio completamente diverso, destinato ad avere molta fortuna nei secoli successivi: la soluzione anti-metafisica del problema anima-corpo alla quale approda John Locke, partendo dalla critica del concetto aristotelico di sostanza. Locke La tesi lockiana della inconoscibilità della sostanza – tesi fondata sull’assunto e l’inconoscibilità empiristico che gli uomini possano conoscere solo le proprietà degli oggetti riledella sostanza vabili attraverso i sensi – vale anche a proposito delle sostanze corporee e spiriUn nuovo modo di affrontare il problema anima-corpo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Delle sostanze possiamo dire solo che esistono

L’«io» non è una sostanza pensante

L’identità personale è conoscibile

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L’io non è una sostanza spirituale

J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 2,27, par. 12

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tuali: come l’idea di sostanza in generale non è altro che il frutto della supposizione, indimostrata e indimostrabile, che esistano sostegni dei gruppi di proprietà di cui osserviamo ripetutamente la compresenza, allo stesso modo l’idea di uno spirito è semplicemente l’idea di un sostrato comune alle attività mentali di una certa persona. Locke non pone in discussione l’esistenza né della sostanza corporea né di quella spirituale: al contrario, egli ritiene che mediante la sensazione possiamo inferire con certezza l’esistenza di corpi esterni che ne sono la causa, e mediante la riflessione possiamo concludere con altrettanta certezza di esistere come esseri pensanti. Dunque, esistono sia le sostanze corporee, sia quelle spirituali. Tuttavia, per Locke di queste sostanze non possiamo affermare nient’altro, se non che esistono: la loro costituzione interna o la loro maniera di agire ci è ignota ed è destinata a restare tale, in quanto il nostro intelletto può conoscere solo il materiale che gli è offerto dall’esperienza. Di conseguenza, non possiamo sapere se l’anima sia materiale o meno, a differenza di quanto sosteneva Cartesio: la nostra ignoranza in proposito è tale che non siamo neanche in grado né di negare né di affermare la compresenza di materia e di pensiero, cioè l’esistenza di una materia pensante (vedi Unità 6, T9, p. 332). Dichiarato insolubile il problema del rapporto metafisico tra anima e corpo, Locke imposta la questione in modo differente: se non ha senso interrogarsi sulla natura (spirituale o materiale) dell’anima – trattandosi di un interrogativo al quale è impossibile offrire una risposta –, occorre piuttosto indagare le leggi empiriche che regolano i meccanismi di associazione tra stati mentali. Una simile indagine è l’unica dalla quale il filosofo possa attendere qualche chiarimento a proposito del concetto di «io» o «persona», che Locke non concepisce più – alla maniera di Cartesio – come sostanza o cosa pensante, bensì, sia pure in modo embrionale, come relazione tra stati mentali. L’anima come sostanza spirituale è inconoscibile, ma questo non pregiudica la conoscenza dell’io o dell’identità personale. Ciò dipende dal fatto che, nella prospettiva lockiana, quest’ultima non consiste nel permanere di una identica sostanza spirituale – al di sotto dei cambiamenti dei miei stati mentali –, ma piuttosto nella continuità del flusso dei ricordi; «io» sono il legame tra tutte quelle azioni e tutti quei pensieri che, in virtù del ricordo e della coscienza (ossia della riflessione su me stesso), riconosco come miei. Ad avviso di Locke non ha importanza stabilire se ciò che fa sì che una persona rimanga la stessa persona nel corso del tempo sia una sola sostanza o sia, invece, una successione di sostanze diverse. Nel secondo caso come nel primo, infatti, l’identità della persona dipende dalla sua coscienza, che rimane la stessa. […] la domanda è: che cosa costituisce la stessa persona; non se si tratta della stessa identica sostanza che pensa sempre nella stessa persona, il che, in questo caso, non importa proprio niente. Infatti sostanze diverse sono unite da una medesima coscienza (là dove partecipano di essa) in una persona sola, come corpi diversi sono uniti da una medesima vita in un animale solo, la cui identità è conservata in quel cambiamento di sostanze dall’unità di una sola vita continua. Poiché è la stessa coscienza che fa sì che un uomo sia se stesso per se stesso, l’identità personale dipende proprio e solamente da questa, sia essa connessa a una sostanza individuale sia che possa continuarsi in una successione di varie sostanze. Infatti, nella misura in cui un essere intelligente può ripetere l’idea di

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo?

un’azione passata con la stessa coscienza che ne aveva in principio e con la stessa coscienza che ha adesso di qualsiasi azione presente, in questa misura si tratta dello stesso io personale. Giacché solo per mezzo della coscienza che ha dei propri pensieri e azioni presenti, l’io è ora un io per se stesso, e così sarà lo stesso finché la stessa coscienza può estendersi ad azioni passate o a venire. E la distanza di tempo e il cambiamento di sostanze non ne farebbero due persone più di quanto un uomo diventerebbe due uomini portando oggi vestiti diversi da quelli che portava ieri […]. Come si è visto nel corso di queste pagine, alla questione del rapporto tra anima e corpo sono state date risposte molto diverse. C’è però un elemento comune alle soluzioni proposte da Cartesio, dai sostenitori del monismo materialistico (tra cui Hobbes e La Mettrie), da Berkeley (che difende il monismo spiritualistico), da Spinoza (che sostiene una forma neutrale di monismo), dagli occasionalisti e da Leibniz: il problema viene affrontato sulla base di un’indagine sulla natura della sostanza. L’originalità della riflessione di Locke su questo tema non consiste nel tipo di soluzione che viene elaborata – soluzione che, ad avviso del filosofo inglese, non esiste –, ma, piuttosto, nel modo di affrontarlo.

I brani antologizzati sono tratti da: R. Cartesio, Risposte alle quinte obiezioni, 4, in Id., Meditazioni metafisiche, in Id., Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1992, vol. 2, p. 343. J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina, a cura di G. Preti, SE, Milano 1990, p. 64. B. Spinoza, Ethica, trad. di S. Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1992. G.W. Leibniz, Chiarimenti sulle difficoltà che il sign. Bayle ha trovato nel «Nuovo sistema dell’unione dell’anima e del corpo», in Id., Scritti filosofici, vol. 1, a cura di D.O. Bianca, UTET, Torino 1967, pp. 212-213. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, UTET, Torino 1971, libro 2, cap. 27, par. 12, pp. 395-396.

Questionario 1

Quale ruolo ha l’ipotesi della ghiandola pineale nella concezione cartesiana del rapporto tra anima e corpo? (max 4 righe)

3

Come viene argomentata da Spinoza la tesi secondo la quale tra la mente e il corpo non c’è interazione reciproca? (max 6 righe)

2

Perché Hobbes considera contraddittoria la nozione di sostanza immateriale? (max 3 righe)

4

Quali sono le ragioni dell’insoddisfazione di Leibniz nei confronti della spiegazione data dagli occasionalisti del rapporto tra anima e corpo? (max 7 righe) 199

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Unità 4 L’età cartesiana

1. Razionalismo cartesiano e sapere erudito 1. Il dibattito sulla filosofia cartesiana 2. L’erudizione 3. Gli antichi, i moderni, la tradizione

2. In dialogo con Cartesio: Gassendi e Arnauld 1. Gassendi: atomismo ed empirismo 2. Arnauld: razionalismo e difesa della religione

3. L’ordine metafisico: Malebranche 1. 2. 3. 4.

La teoria delle idee e l’occasionalismo La critica dell’erudizione Il rapporto tra fede e ragione L’agire divino: la metafisica dell’ordine e la semplicità delle vie 5. Il problema del male

4. L’ordine del cuore: Pascal 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Pascal e la scienza moderna I limiti della ragione La ragione e il cuore: geometria e finezza La duplicità dell’uomo: grandezza e miseria Il dio nascosto La scommessa La morale e la polemica con i gesuiti

5. Critica della tradizione e teodicea: Bayle 1. La critica della superstizione e dell’idolatria 2. La tolleranza 3. Il problema del male e la critica della teodicea

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Razionalismo cartesiano e sapere erudito

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Le due sfide dell’età cartesiana

1 Gli interlocutori di Cartesio nelle Meditazioni

Cartesiani e anticartesiani

Aristotelici e agostiniani di fronte a Cartesio

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La filosofia della seconda metà del XVII secolo si trova a dover rispondere a due sfide. Da un lato, si pone il problema dell’inevitabile confronto con la filosofia di Cartesio, ossia con una metafisica razionalistica che mette al centro del proprio orizzonte la conoscenza e il metodo razionale. Dall’altro lato, si sviluppa enormemente un sapere erudito che ha importanti riflessi nella cultura filosofica: è bene ricordare quest’aspetto, per non aderire con troppa facilità a un’immagine del pensiero del Seicento che lo identifichi come l’epoca della metafisica razionalistica. Razionalismo cartesiano ed erudizione costituiscono quindi i due grandi temi di questi decenni, con frequenti sovrapposizioni.

Il dibattito sulla filosofia cartesiana Il dialogo con Cartesio inizia prima dell’uscita delle sue Meditazioni metafisiche: è Cartesio stesso, infatti, che pubblica le obiezioni di alcuni importanti personaggi della cultura filosofica contemporanea, a cui è stato dato in lettura il manoscritto, seguite dalle proprie risposte. Oltre a filosofi di prima grandezza come Thomas Hobbes, tra gli interlocutori di Cartesio compaiono personaggi importanti della riflessione filosofica seicentesca come Pierre Gassendi (vedi p. 206 ss.), che si muove alla ricerca di un’impostazione propria per affrontare i grandi temi della scienza moderna e concepisce una teoria meccanicistica alternativa sia a quella di Cartesio sia a quella del filosofo inglese, e Antoine Arnauld (vedi p. 208 ss.), il protagonista più rappresentativo, con Blaise Pascal (vedi p. 214 ss.), della cultura sviluppata nell’abbazia di Port-Royal, e autore con Pierre Nicole (1625-1695) di una Logica che ha un’enorme influenza fino a tutto il Settecento. Lo scontro tra cartesiani e anticartesiani costituisce un aspetto centrale della filosofia del Seicento, con alleanze consapevoli e inconsapevoli di vario genere e con tentativi di mediazione differenti. Si tratta di schieramenti che si vanno intersecando, come ha notato lo storico della filosofia contemporanea Carlo Borghero, con le polemiche tra i diversi ordini religiosi. Le università e gli ordini più legati alla tradizione aristotelica (i gesuiti e i domenicani) assumono una posizione critica verso Cartesio, mentre chi rimanda a Platone e, soprattutto, ad Agostino (i giansenisti e i benedettini, oltre agli agostiniani), intende combattere la tradizione e trovare al cartesianesimo vie di accesso nella cultura scientifica e filosofica. Ciò avviene proprio a Port-Royal, nel cui ambito maturano le riflessioni di Arnauld, di Nicole, di Pascal: il cogito cartesiano viene accostato esplicitamente, in questa prospettiva, alle tesi di Agostino, che aveva dato ampio spazio all’introspezione.

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Unità 4 L’età cartesiana Il giansenismo e i suoi legami con l’agostinismo

L’occasionalismo di Malebranche

L’antropologia filosofica di Pascal

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Ad Agostino, infatti, era dedicata l’opera del vescovo di Ypres, Cornelius Jansen (latinizzato in Giansenio, 1585-1638), che sta all’origine del movimento che da lui prende il nome, il giansenismo, che ha a Port-Royal il centro della sua diffusione. Il giansenismo è caratterizzato dal rigore morale, dalla difesa della teoria agostiniana della grazia e della predestinazione e dalla proposta di una riforma della devozione cristiana, tutti tratti che contribuiscono al prestigio intellettuale e morale del movimento (condannato dalla Chiesa già nel 1653). I problemi nati nell’ambito della metafisica cartesiana conoscono durante il Seicento importanti sviluppi. I maggiori sono: 1) l’elaborata forma di occasionalismo proposta da Nicolas Malebranche (vedi p. 211), ossia la teoria metafisica secondo cui, una volta accettata l’impossibilità di una causalità reciproca tra corpi e menti, data la distinzione tra le due sostanze, tutti gli eventi materiali e mentali (cause efficienti, pensieri, volizioni ecc.) dipendono dall’agire divino. È Dio stesso, quindi, che in occasione di ogni evento interviene, ed è egli l’unico vero agente; 2) la critica del razionalismo e la riflessione sull’uomo di Pascal, il grande e originale pensatore che esprime la molteplicità delle questioni affrontate nel corso del secolo. Pascal è innanzitutto un grande scienziato consapevole delle novità della scienza moderna e del metodo razionale, ma rappresenta anche l’inquietudine per un essere umano non più garantito da un cosmo fatto a sua misura, con l’uomo al proprio centro, come avveniva nell’immagine tolemaica del mondo. Dal suo pensiero emerge la duplicità della condizione umana, la cui grandezza consiste nella capacità di pensare ma la cui miseria non è meno significativa per la sua piccolezza di fronte all’universo e alla distante e irraggiungibile grandezza divina.

L’erudizione

L’erudizione è il secondo tratto rilevante del dibattito filosofico seicentesco. Essa assume nel corso del secolo varie configurazioni, ma certo diventa uno strumento importantissimo per la critica razionalistica della religione. In questo senso, l’opera più importante è sicuramente il Trattato teologico-politico (1670) di Baruch Spinoza, teso a mettere in luce tutte le difficoltà e le contraddizioni dei libri sacri per la tradizione ebraico-cristiana. Storia sacra Oltretutto, contemporaneamente si diffondono studi che rivelano la scarsa affie storia profana dabilità della cronologia biblica, contrastante con le altre fonti disponibili, costituite sì dagli storici antichi come Erodoto, ma anche dalle fonti egizie, caldee, persiane e cinesi (queste ultime note attraverso i gesuiti). In questo modo, la storia viene progressivamente staccandosi dalla storia sacra per fare emergere la maggiore verosimiglianza di una storia «profana», cioè non fondata sul racconto della Bibbia.

Erudizione e critica della religione

La cronologia biblica Per molti secoli la Bibbia è stata letta non solo come una testimonianza di fede, ma anche come un testo storico: essa infatti, parallelamente alla narrazione dell’incontro con Dio e della rivelazione della sua parola attraverso i

patriarchi e i profeti, descrive anche le vicende del popolo ebraico dalle storie dei patriarchi alla prigionia in Egitto, al ritorno nella Terra promessa sotto la guida di Mosè, alla fondazione del regno ecc. Sulla base dei dati biblici, sia nella tradizione ebraica

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

che in quella cristiana viene delineata una cronologia che, con oscillazioni tra gli interpreti, stabilisce una data esatta a partire dalla creazione del mondo e per tutti i fatti successivi riportati nella Scrittura. I due calcoli più accreditati sono quello di Filone ebreo (20 ca. a.C.50 ca. d.C.) per il quale la creazione narrata nella Bibbia è avvenuta nel 3761 a.C. e quello del vescovo Eusebio di Cesarea (265 ca.-339 ca. d.C.) per il quale essa va retrodatata al 5202 a.C. Sulla base di questi due Il libertinismo erudito e la letteratura clandestina

La rinascita delle scuole filosofiche antiche

I maggiori esponenti del libertinismo

Un fenomeno importante è il libertinismo erudito, che dimostra quanto l’apologetica cristiana, timorosa dei possibili esiti sovversivi della ricerca storica, finisca per lasciare questo tipo di indagini nelle mani dei critici della religione. I libertini sviluppano infatti ampiamente e fino all’ateismo la critica della religione, anche attraverso una letteratura clandestina, ed esercitano una notevole influenza fino nel pensiero del XVIII secolo. Questa critica della religione è spesso sorretta, tra l’altro, dalla ripresa delle scuole filosofiche greche successive ad Aristotele, che conoscono un notevole successo nel corso del Seicento: 1) lo stoicismo propone una morale autosufficiente e svincolata dalla religione; 2) l’epicureismo presenta una concezione materialistica della realtà e dell’uomo; 3) lo scetticismo mette infine l’accento sui limiti delle possibilità di conoscere. Esempi significativi del pensiero libertino sono François La Mothe Le Vayer (1588-1672) e Gabriel Naudé (1600-1653). Destinato a una certa notorietà è poi Savinien de Cyrano de Bergerac, un personaggio che professa una forma di naturalismo panteistico e lo concilia con l’atomismo di Gassendi e che, autore di finzioni letterarie, diverrà famoso (nell’Ottocento) in seguito alla reinterpretazione romanzata e leggendaria della sua figura.

Cyrano de Bergerac: tra storia e finzione letteraria Nell’affrontare la figura di Cyrano de Bergerac bisogna distinguere tra due aspetti, entrambi interessanti ma da ottiche diverse. Dal punto di vista storico Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac (1619-1655) era un nobile parigino che, dopo aver fatto parte per alcuni anni dell’esercito e aver acquistato fama di grande spadaccino, si dedicò alla letteratura. Frequentò gli ambienti libertini e compose opere di genere diverso: la commedia in prosa Il pedante gabbato, 1654; la tragedia La morte di Agrippina, 1654; numerose Lettere (1654); e due romanzi in cui narrava viaggi fantastici, L’altro mondo o Gli stati e gli imperi della Luna, postumo (1657); e Gli stati e gli imperi del Sole, postumo (1662). Scrisse anche alcuni capitoli di un trattato di fisica. Nei suoi romanzi filosofici, che sono il primo esempio di questo genere letterario e precorrono i temi della fantascienza moderna, espone, con una prosa barocca ricca di

La difesa della religione

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calcoli, per esempio, nel 1650 il mondo avrebbe avuto o 5411 anni oppure 6852. I primi sviluppi delle scienze della Terra (geologia, paleontologia ecc.) e lo studio della storia dei popoli antichi mettono ben presto in crisi queste antiche certezze: come la rivoluzione scientifica ha reso infinito lo spazio, così la verifica critica della cronologia biblica allunga, in maniera sconcertante per gli uomini del Seicento, i tempi della storia.

iperboli, metafore, antitesi, teorie filosofiche e fisiche in linea con le acquisizioni della scienza moderna (il movimento della Terra, l’infinità dello spazio, l’eternità del mondo, l’atomismo ecc.) ma condannate dalla Chiesa. La scelta della fantascienza è stata perciò interpretata da alcuni come una strategia libertina, ossia un modo sottile di divulgare tesi pericolose facendole passare per creazioni fantastiche. Nonostante questi tratti interessanti, il valore storico-filosofico di Cyrano è stato dimenticato per molti anni ed è tornato alla notorietà con la commedia omonima che gli ha dedicato Edmond Rostand (1868-1918) nel 1897. Lo scrittore francese lo ha trasformato in un personaggio ironico e romantico al tempo stesso: uno spadaccino-poeta dall’animo vivace e bellissimo ma esteriormente molto brutto, afflitto da un naso sproporzionato. Nella commedia Cyrano è capace di conquistare a nome di un altro la donna che ama, ma, anche dopo la morte del suo amico-rivale, non è capace di rivelarle la sua devozione, salvo in punto di morte.

Qualche intelligente difensore della religione come Richard Simon (1638-1712) o Jean Le Clerc (1657-1736) cerca di attenuare con gli strumenti dell’erudizione i risultati ritenuti più pericolosi, con ammissioni parziali del nuovo stato del-

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Unità 4 L’età cartesiana

le discipline storiche ed erudite. Ma gran parte dell’apologetica rifiuta in linea di principio questa nuova situazione, cercando magari di tornare al principio di autorità, ossia ribadire la certezza che tutto quanto è scritto nella Bibbia deve essere ritenuto vero. È questa la direzione presa da Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704) nel suo Discorso sulla storia universale (1681), che delinea un quadro della storia le cui tappe seguono la cronologia della storia sacra e la cui evoluzione è retta dalla Provvidenza divina: tutti gli eventi del mondo sono indirizzati al compimento dei propositi di Dio.

3 La disputa tra antichi e moderni

Gli antichi, i moderni, la tradizione Nell’ambito del confronto con il passato rientra anche la cosiddetta Disputa sugli antichi e sui moderni, nata su problemi estetici e poi ampliata agli altri campi del sapere. Sviluppatasi nella seconda metà del Seicento, l’inizio del dibattito concerne la lingua e la letteratura: alcuni sostengono la supremazia della tradizione classica, mentre altri difendono i tentativi di abbandonare il classicismo e di favorire un rinnovamento di generi, stile e temi. Dall’ambito letterario il confronto si sposta su opposizioni di natura filosofica (autorità / ragione, pregiudizi / progresso ecc.). La filosofia dell’età cartesiana È una delle città in cui risiede Cartesio

Vi muore Hobbes

Scozia

Vi crea un circolo filosofico e vi muore Spinoza

Vi muore Cartesio Stoccolma

Edimburgo REGNO DI Vi si stabilisce, pubblicandovi le DANIMARCA sue opere, e vi muore Bayle E NORVEGIA PROVINCE INGHILTERRA UNITE Malmesbury È una delle città in cui riLondra Leida Amsterdam Brandeburgo L'Aia siede Cartesio. Vi nasce Rotterdam Hannover Spinoza Ypres Lipsia Varsavia PAESI BASSI IMPERO Clermont SPAGNOLI ROMANO Praga Meaux GERMANICO Vi nasce Leibniz Parigi Vienna La Haye FRANCA REGNO DI CONTEA FRANCIA SVIZZERA AUSTRIA Carlat REGNO Milano REP. DI Avignone D’UNGHERIA VENEZIA Vi lavora e muore Leibniz DUC. DI SAVOIA Champtercier GRANDUC. STATO DELLA DI TOSCANA CHIESA Corsica Roma REGNO IMPERO Napoli DI NAPOLI OTTOMANO Baleari Sardegna

IRLANDA

Vi nasce Hobbes

Cornelius Jansen (Giansenio) è vescovo in questa città dal 1636 al 1638 Vi nasce Pascal Vi nasce Cartesio Vi nasce Bayle Maggior centro filosofico seicentesco. Vi vivono Mersenne, Gassendi, Malebranche, Arnauld, Pascal e Fontenelle e i maggiori pensatori libertini, La Mothe Le Vayer, Gibilterra Naudé e Cyrano de Bergerac. Vicino a a Versailles, pochi chilometri fuori città, sorge Port-Royal, il centro del giansenismo. Vi passano lunghi periodi Hobbes e Leibniz

Hardwick Hall

Sede vescovile ricoperta da Bossuet nel periodo di maggior impegno apologetico

Vi nasce Gassendi

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Fontenelle: la difesa dei moderni

La storia come progresso e la pluralità dei mondi

Bayle: sintesi tra razionalismo ed erudizione

➥ Sommario, p. 228

L’intervento più rilevante, nella discussione filosofica è quello di Bernard Le Bovier de Fontenelle (1657-1757), con lo scritto Digressione sugli antichi e i moderni (1688). La valutazione di Fontenelle è tutta a favore dei moderni, che hanno accumulato una maggiore conoscenza soprattutto nello sviluppo delle scienze e che hanno visto in Cartesio un primo, decisivo passo avanti per quello che riguarda l’analisi del ragionamento e della dimostrazione. Si apre così, seppure limitatamente allo sviluppo del sapere, la possibilità di vedere la storia umana in termini di progresso. Allo stesso tempo, tra l’altro, lo stesso Fontenelle dimostra tutta l’importanza metafisica del copernicanesimo e le sue implicazioni. Egli pubblica infatti, nel 1686, i Dialoghi sulla pluralità dei mondi: tra le questioni che vengono poste, c’è anche quella, per molti versi inquietante, dell’esistenza di altri mondi abitati, oltre alla Terra. Una sorta di sintesi tra impostazione razionalistica ed erudizione è rappresentata, alla fine del secolo, dal Dizionario storico-critico (1697) di Pierre Bayle, una gigantesca critica della tradizione e degli errori in essa accumulati: Bayle getta così un ponte ideale dal Seicento verso gli sviluppi della filosofia del secolo successivo, il secolo dei lumi, che utilizzerà ampiamente gli argomenti del Dizionario. Di grande rilevanza, in questo senso, è l’acuta trattazione che Bayle fa del problema del male e di ciò che dopo Leibniz si chiamerà «teodicea», ovvero la giustificazione di Dio di fronte al problema dell’esistenza del male nel mondo.

In dialogo con Cartesio: Gassendi e Arnauld

2 I testi

A. Arnauld - P. Nicole La logica, o l’arte di pensare: Il dubbio e la certezza in Agostino, T1

Tra gli interlocutori principali di Cartesio vanno ricordati, come si è detto, Pierre Gassendi, a cui si deve la formulazione di una originale teoria meccanicistica, e Antoine Arnauld la cui opera principale, La logica, avrà grande influenza per tutto il Settecento.

1 Gassendi e le Meditazioni

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Gassendi: atomismo ed empirismo Gassendi, uno degli autori delle obiezioni alle Meditazioni cartesiane (le Quinte), interviene in modo significativo nel dibattito sulla metafisica e in generale sulla filosofia cartesiana, pubblicando lui stesso un volume contenente in ap-

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Unità 4 L’età cartesiana

pendice le Meditazioni, accompagnate però dalle proprie obiezioni, dalle risposte di Cartesio e da sue ulteriori osservazioni a queste risposte.

La vita e le opere Pierre Gassendi nacque a Champtercier in Provenza nel 1592 e studiò teologia, conseguendo il dottorato nel 1614, mentre due anni dopo prese gli ordini religiosi. Dal 1617 insegnò filosofia a Aix-en-Provence, ma dal 1626 si stabilì a Parigi entrando in contatto con il circolo di Mersenne e con i libertini La Mothe Le Vayer e Naudé. La sua prima opera Exercitationes paradoxicae adversus aristoteleos («Esercitazioni in forma di paradossi contro gli aristotelici», 1624) è una critica del modello aristotelicoscolastico di scienza. A partire dal 1630 si interessò della filosofia di Epicuro alla quale dedicò diverse opere, la Le critiche di Gassendi a Cartesio

Circolarità della nozione cartesiana di evidenza

Un modello di fisica alternativo: l’atomismo

più importante delle quali è il Syntagma philosophicum («Esposizione filosofica sistematica», postumo, 1658) in cui cercò di conciliare epicureismo e cristianesimo elaborando un sistema di filosofia della natura meccanicistico. Dal 1640 fu coinvolto da Mersenne nella discussione sulle Meditazioni di Cartesio, per le quali scrisse le Quinte obiezioni; nel 1644 pubblicò in un volume personale, Disquisitio metaphysica («Disquisizione metafisica») il testo delle proprie obiezioni con le risposte di Cartesio ampliato di nuove osservazioni e critiche al rivale. Dal 1645 al 1648 ricoprì la cattedra di astronomia al Collegio reale di Parigi. In questa città morì nel 1655.

Gassendi è un pensatore intensamente influenzato dallo scetticismo ed è profondamente critico nei confronti sia dell’aristotelismo sia del naturalismo rinascimentale, segnato secondo lui dalla magia. Ma di particolare rilevanza è il suo confronto con Cartesio. Le sue critiche riguardano: 1) il dualismo tra pensiero ed estensione, ossia la separazione ontologica tra sfera spirituale e sfera materiale e l’assenza di interazione causale tra di esse, che rende difficile a Cartesio dimostrare come Dio agisca sul mondo e come sia possibile l’unità tra mente e corpo (vedi Unità 3, p. 170 ss.); 2) la nozione di sostanza cartesiana che Gassendi ritiene inutilizzabile, e di natura metafisica. Cartesio identifica ogni sostanza con il suo attributo principale, pensiero o estensione, ed è convinto di descriverne pienamente l’essenza attraverso queste proprietà (vedi Unità 3, p. 148 s.). Gassendi ritiene invece che, pur conoscendone le manifestazioni esteriori (che siamo in grado di ricostruire attraverso l’osservazione e l’esperienza) la natura interna delle cose ci sfugga e che la sostanza sia inconoscibile perché solo Dio che l’ha prodotta la conosce veramente; 3) e, soprattutto, la concezione cartesiana dell’evidenza, ossia la tesi che esistano verità chiare e distinte che si possono cogliere attraverso l’intuizione (vedi Unità 3, p. 158 s.). Per quanto riguarda la teoria della verità, secondo Gassendi Cartesio non riesce a giustificare il proprio criterio dell’evidenza, o meglio, lo giustifica attraverso un ragionamento di tipo circolare. Andando alla ricerca di un criterio per verificare la chiarezza e distinzione delle idee, Cartesio si affida all’evidenza, della quale deve poi però trovare, a sua volta, un criterio infallibile. Questo criterio infallibile viene individuato nella veridicità divina e si fonda quindi sull’esistenza di Dio e sulla sua natura di Ente perfettissimo (buono, giusto, non ingannatore ecc.). Ma precedentemente l’esistenza di Dio è stata dimostrata utilizzando lo stesso criterio dell’evidenza (poiché la prima prova delle Meditazioni inizia dalla presenza in noi di un’idea chiara e distinta, ossia autoevidente, di Dio come di una sostanza infinita, indipendente ecc.), e quindi, afferma Gassendi, il ragionamento è circolare. Alla concezione metafisica cartesiana, che identifica la sostanza estesa con la materia e la pensa attraverso l’idealizzazione matematico-geometrica (come infinita, priva di vuoto, divisibile all’infinito ecc.), Gassendi contrappone l’ato207

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La teoria della conoscenza: empirismo, induzione, sperimentalismo

Etica e religione: epicureismo e fede in Dio

mismo di Epicuro, una teoria fisica che gli sembra priva delle elucubrazioni metafisiche di Cartesio. Oltretutto, l’atomismo è pienamente adeguato per spiegare la natura così come viene vista dalla scienza moderna, della quale Gassendi è un convinto sostenitore. In questo quadro, egli sostiene l’esistenza del vuoto, contrapponendosi alla tesi cartesiana della divisibilità infinita dell’estensione e, quindi, dell’inesistenza del vuoto. L’atomismo permette di spiegare da un lato la permanenza della materia, dall’altro i mutamenti che avvengono nel mondo fisico. Sul piano della teoria della conoscenza, Gassendi è un convinto empirista e sostiene quindi che il conoscere si fonda sull’esperienza. Rifacendosi alla teoria atomistica della materia, Gassendi pensa che alla base del processo conoscitivo ci sia la percezione, il cui meccanismo consiste nello staccarsi di atomi dall’oggetto conosciuto, che vanno a colpire i sensi del soggetto che conosce. È solo attraverso il ripetersi di esperienze empiriche che è possibile avere un’anticipazione, ovvero un processo di elaborazione delle percezioni che consente di trarre conclusioni generali a partire dalle singole esperienze (induzione) e di formulare ipotesi da sottoporre alla verifica sperimentale. Pur assumendo, sul piano etico, una posizione ispirata all’epicureismo, che vede l’uomo volto principalmente alla ricerca del piacere, sul piano religioso Gassendi si guarda bene dall’assumere posizioni eccentriche. Egli cerca piuttosto di rendere l’epicureismo compatibile con la dottrina cristiana, eliminandone il tratto materialistico: gli atomi sono creati da Dio e possono essere da Dio annientati. Se rifiuta le prove cartesiane dell’esistenza di Dio, Gassendi ritiene però che sulla base dell’ordine del mondo voluto da Dio, che lo ha creato, si possa risalire alla sua esistenza. E la fede ha un proprio ambito nel quale non ci può essere conflitto con la ragione.

La filosofia di Gassendi

Critiche a Cartesio: – rifiuto del dualismo ontologico – inconoscibilità della sostanza – circolarità dell’evidenza Gassendi

Sperimentalismo, empirismo e induzione Meccanicismo e atomismo Etica epicurea; Dio creatore degli atomi; conciliazione fede / ragione

2 Arnauld e la logica

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Arnauld: razionalismo e difesa della religione Antoine Arnauld, dopo Pascal, è il personaggio più importante della cultura giansenistica. Anch’egli, come Gassendi, autore di obiezioni alle Meditazioni di Cartesio (le Quarte), scrive con Pierre Nicole la Logica o l’arte di pensare, un testo di grande influenza storica che ha lasciato il segno, oltre che nella logica, anche negli sviluppi della linguistica (ossia nella scienza che studia i linguaggi) moderna e contemporanea.

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Unità 4 L’età cartesiana

La vita e le opere Antoine Arnauld nacque a Parigi nel 1612. Si laureò in teologia nel 1641 ma venne espulso dalla Sorbona nel 1656 a causa delle sue idee. Capo spirituale del movimento giansenista a partire dal 1643 e duramente attaccato dai gesuiti, ottenne un periodo di tregua nello scontro con le autorità ecclesiastiche negli anni tra il 1669 e il 1677. Oltre alla stesura delle Quarte obiezioni alle Meditazioni cartesiane (1640) e alla lunga amicizia e collaborazione con Pascal, condusse un vivace confron-

to su temi teologici e filosofici con Malebranche tra il 1683 e il 1685 ed ebbe un importante scambio epistolare con Leibniz tra il 1686 e il 1687. Morì a Bruxelles nel 1694. Le sue opere più importanti sono: Della comunione frequente (1643); Grammatica generale e ragionata (1660, scritta in collaborazione con C. Lancelot); La logica, o l’arte di pensare (1662, in collaborazione con P. Nicole); Trattato delle idee vere e false (1683); Riflessioni filosofiche e teologiche sulla natura e la grazia (1685-1686).

Accostamento del cogito cartesiano al pensiero di Agostino

La logica non è soltanto l’arte della dimostrazione, ma riguarda, con chiara ispirazione cartesiana, tutto il pensiero come l’attività più importante dello spirito. Nella Logica, Arnauld e Nicole cercano di conciliare la filosofia di Cartesio con la fede cristiana, accostando, anche nella polemica verso lo scetticismo, il cogito cartesiano al pensiero di Agostino e alla certezza dell’autocoscienza, della coscienza di sé, che in Agostino accompagna anche l’errore. La questione del dubbio, tramite la quale Cartesio tenta di fondare un metodo per giungere alla verità, era stata già affrontata da Agostino, con una soluzione che precorreva quella cartesiana. Il criterio della chiarezza che caratterizza la coscienza di sé dovrà allora essere il criterio per procedere nella ricerca della verità.

T1

Se si trovasse qualcuno che potesse dubitare di stare dormendo o esser folle o che potesse perfino credere che l’esistenza di tutte le cose esteriori è incerta, e che è dubbio che ci sia un sole, una luna, una materia, almeno nessuno potrebbe dubitare, come dice sant’Agostino, se pensa, è, vive. Infatti, sia che dorma, sia che vegli, sia che abbia lo spirito sano sia malato, sia che si inganni, sia che non si inganni, è certo almeno, poiché pensa, che egli è e vive, essendo impossibile separare l’essere e la vita dal pensiero, e credere che quel che pensa non è e non vive, e da questa conoscenza chiara, certa e indubbia egli può formare una regola per approvare come veri tutti i pensieri che troverà chiari, come quello gli appare.

Il dubbio e la certezza in Agostino

A. Arnauld - P. Nicole, La logica, o l’arte di pensare, 4,1

Limitazione dell’evidenza all’intendere

Il credere, sapere autentico accanto all’intendere

L’opinare, fonte dell’errore

Come fa notare Arnauld nelle sue obiezioni a Cartesio, però, il criterio razionale della chiarezza e distinzione deve essere per lui limitato a una sfera determinata dello spirito, che chiama, sulla scia di Agostino, quella dell’intendere, il sapere razionale che ha per oggetto le cose che riguardano le scienze e «che cadono sotto la nostra intelligenza», lasciando però fuori le cose «che riguardano la fede e le azioni della nostra vita». Oltre all’intendere, al sapere razionale, infatti, un’altra forma di sapere autentico è dato proprio dalla fede, cioè dal credere, che riguarda le questioni religiose e che è fondato non sulla chiarezza e distinzione ma sul peso e sul credito che vengono conferiti a qualche grave e potente autorità in ambiti nei quali l’uomo non è in grado di intendere razionalmente, come la fede. L’intendere razionale e il credere come forme di sapere autentico si contrappongono piuttosto all’opinare. L’opinare è la fonte dell’errore ed è una cosa vergognosa e indegna degli uomini per due motivi: innanzitutto, perché colui che crede di sapere qualcosa che in realtà ignora non è più capace di imparare, poi, perché la presunzione è un carattere negativo e segno di «poco giudizio». 209

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Limiti al razionalismo per difendere la religione

➥ Sommario, p. 228

Arnauld cerca quindi di riconoscere la novità e la validità del razionalismo cartesiano, ma vuole anche evitarne le possibili implicazioni pericolose per la religione, che egli intravede come utilizzabili dal pensiero scettico e libertino. Per far ciò, limita la portata del criterio razionalistico cartesiano della chiarezza e della distinzione, tenendone fuori la religione, come del resto dichiara esplicitamente, nel suo dialogo con Cartesio, avvertendolo che altrimenti quelli che tendono oggi alla «empietà» potrebbero servirsi degli argomenti cartesiani per combattere la fede.

Le forme del sapere in Arnauld Forme di sapere autentico Arnauld

Intendere, il sapere razionale che ha per oggetto le cose che riguardano le scienze, conosciute attraverso l’evidenza (idee chiare e distinte)

Credere, riguarda le questioni religiose ed è fondato sull’autorità

Sapere inautentico

Opinare, fonte dell’errore derivante dalla presunzione di sapere

L’ordine metafisico: Malebranche

3 I testi

N. Malebranche La ricerca della verità: La superiorità di Cartesio su Aristotele, T2; La fede e l’evidenza razionale, T3

Tra cartesianesimo e agostinismo

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Nicolas Malebranche è uno dei pensatori più originali e di maggior influenza dell’epoca, ben maggiore di quella che tendiamo oggi ad attribuirgli. Anch’egli, come Arnauld, testimonia l’incontro tra filosofia cartesiana e tradizione agostiniana, anche se su una questione centrale della teoria della conoscenza egli si distacca dalla posizione di Cartesio per assumere una posizione propria, polemizzando al riguardo proprio con Arnauld.

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Unità 4 L’età cartesiana

La vita e le opere Nicolas Malebranche, figlio di un segretario del re, nacque a Parigi nel 1638 e a ventidue anni divenne novizio nell’ordine dell’Oratorio, prendendo i voti nel 1664. In quello stesso anno conobbe la filosofia di Cartesio e l’occasionalismo e nel 1675 pubblicò la sua prima opera, La ricerca della verità, a cui quattro anni dopo aggiunse i Chiarimenti. Intervenne nella polemica tra gesuiti e giansenisti con il Trattato della natura e della grazia

1 Il rifiuto dell’innatismo cartesiano ➥ Percorso tematico, p. 401

Il platonismo cristiano

Dio come fonte della conoscenza

La dipendenza dell’uomo da Dio

Occasionalismo e legge di causalità

(1680) e iniziò un intenso confronto con Arnauld, al quale prese parte anche Bossuet e che terminò nel 1687. Ebbe anche profondi interessi matematici e scientifici sulla base dei quali pubblicò un trattato Sulla comunicazione dei moti (1692) e studiò il funzionamento degli organismi viventi. Morì a Parigi nel 1715. Le opere in cui sintetizzò il suo pensiero sono Meditazioni cristiane e metafisiche (1682), Trattato di morale (1684), Colloqui sulla metafisica e sulla religione (1688).

La teoria delle idee e l’occasionalismo L’opera principale di Malebranche è La ricerca della verità, che è anche una rassegna critica delle teorie disponibili per quanto riguarda le idee e il modo in cui, attraverso le idee, è possibile la conoscenza umana. Malebranche rifiuta la tesi cartesiana del carattere innato di alcune idee, e riformula in modo proprio, e diverso, la teoria di Cartesio secondo la quale tali idee sono modificazioni innate della mente la cui evidenza ci è garantita dalla veridicità divina. La teoria delle idee innate di origine platonica si è trasformata nel pensiero medievale a partire da Agostino, per il quale le idee sono essenze-archetipi delle cose poste nella mente divina, che gli uomini conoscono grazie all’intuizione intellettuale. Collocandosi in questa linea teorica, ma radicalizzandola per sottolineare la potenza divina (nell’occasionalismo solo Dio agisce), Malebranche interpreta le idee come essenze che noi vediamo direttamente in Dio, in un processo in cui ciò che emerge è la passività della mente umana: in occasione del fatto che i nostri sensi vengono colpiti da un oggetto esterno, Dio stesso suscita in noi l’idea di tale oggetto. In questo modo la conoscenza non si fonda affatto sull’impressione sensibile che arriva dall’esterno, e l’intelletto non è inteso come attivo ma come passivo, seppur come passivo nei confronti di Dio. Dio non è soltanto, come in Cartesio, il garante dell’evidenza delle conoscenze, ma il produttore della conoscenza stessa. La tesi della visione delle idee direttamente in Dio «supposto che Dio acconsenta» ha anche il fine di dimostrare agli uomini che essi non sono in grado di far nulla senza l’aiuto divino e quindi che essi sono in una «totale dipendenza da Dio, la più grande dipendenza possibile». In questo modo Malebranche difende la posizione occasionalistica diffusa in età cartesiana e sostenuta anche da altri filosofi (per esempio da Geulincx, l’iniziatore di questa corrente). Del resto, non solo la teoria delle idee rivela l’occasionalismo di Malebranche: una posizione analoga viene assunta dal filosofo anche riguardo alla legge di causalità, ovvero alla legge di natura che è il perno della scienza moderna. Il rapporto causale tra due palle da biliardo, tale che una colpendo l’altra è la causa del suo movimento, è anch’esso un rapporto che ci induce in errore, se ci spinge a pensare che il movimento della prima palla sia la causa del movimento della seconda: anche qui, il movimento della prima palla è soltanto l’occasione del movimento della seconda, che deve essere prodotto da Dio. Dio è quindi causa di tutte le cose e anche di qualunque movimento del mondo. 211

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

2 Con Cartesio, contro Aristotele

T2

La superiorità di Cartesio su Aristotele N. Malebranche, La ricerca della verità, 6,2

3 I rischi del dubitare

Tensione tra ragione e fede: necessità di divisione dei compiti

T3

La fede e l’evidenza razionale N. Malebranche, La ricerca della verità, 1,3,2

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La critica dell’erudizione Nonostante le notevoli deviazioni di rotta che impone al pensiero cartesiano, Malebranche è profondamente convinto della sua superiorità sulla tradizione aristotelica. I criteri cartesiani della chiarezza e dell’evidenza, che vengono ribaditi alla fine della Ricerca della verità, ne sono la prova più convincente. In chiusura del brano che segue, emerge anche la polemica di Malebranche verso l’erudizione, che anch’egli teme per le sue possibili implicazioni pericolose per la religione, come dimostrano le teorie dei libertini (vedi p. 204). Se si considera che Aristotele e i suoi seguaci non hanno osservato le regole – come si deve ritenere, sia per le prove che ne ho addotto, sia per la conoscenza delle opinioni dei più zelanti difensori del filosofo – forse si terrà in dispregio la sua dottrina nonostante tutte le prospettive favorevoli in cui ce la presentano coloro che si lasciano sbalordire da parole che non capiscono. Ma, se si guarda alla maniera di filosofare di Descartes, non si potrà dubitare della sua consistenza; perché ho dimostrato a sufficienza che ragiona solo su idee chiare ed evidenti e che comincia dalle cose più semplici per passare poi alle più complesse che ne dipendono Chi leggerà le opere di questo dotto si convincerà pienamente di ciò che dico di lui, purché le legga con tutta l’attenzione necessaria per capirle; e proverà una segreta gioia per essere nato in un secolo e in un paese tanto fortunato da risparmiarci la fatica di andare a cercare nei secoli passati, fra i pagani, e ai confini della terra, fra i barbari o fra gli stranieri, un dottore che ci istruisca sulla verità.

Il rapporto tra fede e ragione Lo stesso dubbio cartesiano è valutato da Malebranche ben diversamente quando si riferisca all’utilizzo che ne ha fatto Cartesio, ovvero il dubitare «correttamente» ai fini della ricerca della verità, oppure all’utilizzo che ne viene fatto dai critici della religione, o addirittura dagli atei, il cui dubbio è un dubbio tenebroso che non guida verso la luce ma «sempre ne allontana». Ciononostante, Malebranche è consapevole della tensione che può instaurarsi tra ragione e fede. Le idee della ragione ci sono state date da Dio soltanto per muoverci nell’ordine naturale delle cose, e in questo ambito ci dobbiamo affidare certamente al criterio dell’evidenza. Cosa diversa sono i misteri della fede, per i quali non può essere utilizzato lo stesso criterio. Il rapporto tra ragione e fede è quindi fondato su una netta divisione dei compiti: Malebranche sembra non vedere che il passo potrebbe essere breve per l’affermazione di un conflitto tra fede e ragione, un conflitto incomponibile che potrebbe concludersi con la vittoria della ragione. Bisogna dunque distinguere i misteri della fede dalle cose della natura. Bisogna sottomettersi ugualmente alla fede e alla evidenza, ma nelle cose di fede non si deve andare a cercare l’evidenza prima di crederle, come in quelle della natura non ci si deve fermare alla fede, ossia all’autorità dei filosofi. In una parola: per aver fede bisogna credere ciecamente, mentre per essere filosofi bisogna vedere evidentemente: infatti l’autorità divina è infallibile, mentre tutti gli uomini sono soggetti a sbagliare.

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Unità 4 L’età cartesiana

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Rifiuto del volontarismo teologico

L’agire divino è regolato da leggi generali e uniformi

La semplicità, criterio metafisico e fisico

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L’agire divino: la metafisica dell’ordine e la semplicità delle vie Malebranche affronta anche un problema che era emerso dalla riflessione cartesiana. Cartesio aveva infatti sostenuto, sia pure con formulazioni diverse e in modo non nettissimo, l’assoluta arbitrarietà della volontà divina e, di conseguenza, della creazione, includendo tra le cose create anche le verità eterne, ossia le essenze matematiche e le leggi logiche (per esempio il principio di non contraddizione). In esplicita polemica con tale teoria, Malebranche riprende la posizione agostiniana: le proposizioni razionali, come le verità eterne della metafisica e della matematica, non sono frutto dell’arbitrio, ma esprimono piuttosto la natura di Dio, del quale Malebranche sottolinea in quest’ambito piuttosto la saggezza che la potenza assoluta, arbitraria. L’intervento divino e la creazione stessa non possono essere per Malebranche né arbitrari né il frutto di interventi particolari: l’ordine che caratterizza l’universo è un ordine contrassegnato dalla semplicità delle leggi della natura e dalla generalità dei principi su cui si regge. L’intervento divino nel mondo, nell’occasionalismo di Malebranche, non si attua quindi in casi particolari, ma attraverso leggi generali che rispondono al criterio della massima perfezione e della semplicità. Oltretutto, la semplicità diventa un importante criterio anche sul piano fisico, e non solo sul piano metafisico dell’azione di Dio, perché costituisce una chiave per la comprensione della natura secondo la nuova scienza matematica che caratterizza la rivoluzione scientifica.

Il problema del male

Il rapporto tra le leggi generali volute da Dio e il problema dell’esistenza del male è oggetto dell’interesse di Malebranche in particolare nel Trattato della natura e della grazia, un testo del 1680 che l’autore rielabora continuamente negli anni successivi fino al 1712, poco prima della morte. Sulla base della semplicità delle vie divine e delle leggi generali della natura – che sarebbe segno di imperfezione, da parte di Dio, dover modificare intervenendo in qualche occasione particolare – Malebranche rifiuta, naturalmente, l’i➥ Percorso tematico, p. 321 dea che Dio possa essere responsabile del male del mondo, anche se il problema si pone davvero in tutta la sua complessità, se Dio è l’unico ente che agisce realmente nell’universo. La presunzione Per Malebranche è piuttosto l’uomo che giudica il mondo in modo errato e preantropocentrica suntuoso, pensando che il fine della creazione del mondo possa essere il benesdell’uomo sere degli uomini. Questo atteggiamento antropocentrico distorce la realtà della creazione e la grandezza divina, perché Dio non può aver creato che per la propria gloria, non certo in funzione dell’esistenza o del benessere degli uomini: Dio non può agire per altro che non sia la propria gloria. Agire altrimenti, infatti, sarebbe inde➥ Sommario, p. 228 gno di Dio. Dio non può essere responsabile del male

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La filosofia di Malebranche

Teoria della conoscenza: – rifiuto dell’innatismo cartesiano – teoria della visione delle idee in Dio – Dio come produttore della conoscenza

Fisica occasionalistica: Dio come unica causa efficiente

Critica dell’erudizione e dell’aristotelismo

Malebranche

Metafisica razionalistica: – rifiuto dell’arbitrarismo – scelte divine fondate su saggezza e immutabilità della natura di Dio – ordine del reale fondato su leggi generali, semplici e uniformi Soluzione del problema del male: l’uomo non è in grado di cogliere nella sua interezza l’ordine metafisico del reale

L’ordine del cuore: Pascal

4 I testi

B. Pascal Pensieri: L’amor proprio, T4; L’uomo è una canna che pensa, T5; La morte e il divertimento, T6

Originalità e grandezza del pensiero di Pascal

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Blaise Pascal esprime tutta la grandezza e tutta la tensione intellettuale ed esistenziale del secolo XVII. Grande scienziato, o meglio, vero e proprio prodigio fin da giovanissimo, Pascal è nella sua originalità, nella sua genialità e nella sua tormentata considerazione della condizione umana, grande e misera allo stesso tempo, uno degli intellettuali più significativi, e al tempo stesso più affascinanti, della sua epoca. Accanto alla sua opera maggiore soltanto abbozzata e progettata come un’ambiziosa apologia del cristianesimo, i Pensieri (che videro la luce dopo la sua morte precoce, avvenuta a trentanove anni), bisogna ricordare che Pascal è l’autore di uno dei primi capolavori della lingua francese, le Provinciali, scritto dopo la condanna dell’amico Arnauld come giansenista e in parte redatto in collaborazione con lui.

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La vita e le opere Blaise Pascal nacque a Clermont, in Alvernia, nel 1623. Il padre apparteneva alla piccola nobiltà e inizialmente fu lui a occuparsi della sua educazione. Nel 1635 la famiglia si trasferì a Parigi e, spinti da comuni interessi scientifici, padre e figlio frequentarono il circolo di Mersenne entrando in contatto con i due più famosi matematici del tempo, Girard Desargues (1591-1661) e Gilles de Roberval (1602-1675), e attraverso di loro con i maggiori protagonisti della rivoluzione scientifica, Galilei, Cartesio, Evangelista Torricelli, Pierre de Fermat. Nel 1640 Pascal pubblicò il Saggio sulle coniche e nel 1644 concepì il progetto di una macchina calcolatrice che brevettò cinque anni dopo. Nel 1646 entrò in contatto con il giansenismo e avvenne la sua «prima conversione», ma non abbandonò né gli studi (del 1647 sono i Nuovi esperimenti intorno al vuoto) né la vita mondana. Due eventi sconvolsero la sua vita: la morte del padre nel 1651 e l’anno successivo l’ingresso nel convento di Port-Royal della sorella, che portò a una rottura tra i due. Dopo un periodo di intensa attività scientifica e di frequentazioni di ambienti libertini, Pascal ebbe nel 1654 una profonda crisi spirituale, la «seconda conver-

sione», che ha narrato in un Memoriale, e aderì intimamente al giansenismo ritirandosi per un periodo a PortRoyal. Negli anni successivi alternò periodi di ritiro con la ripresa delle attività di studio, risolvendo il problema della roulette o cicloide, intervenendo in difesa di Arnauld con le Provinciali (diciotto lettere scritte tra il 1656 e il 1657) e progettando un’opera apologetica in difesa della religione cristiana. Alla sua morte, avvenuta nel 1662 a Parigi, rimanevano di quest’ultima una serie di piccoli fogli, privi di un ordine. Una prima edizione dei Pensieri uscì nel 1669 a opera di un gruppo di amici e parenti tra cui Arnauld e Nicole, ma molti frammenti erano stati espunti, altri rielaborati e si era scelto di raggrupparli in base ai temi affrontati. Nel 1711 un nipote di Pascal incollò gli originali su fogli bianchi raccolti in un album, probabilmente nell’ordine in cui si trovavano alla morte dell’autore. La prima edizione integrale ricavata da questo manoscritto è del 1844; fondamentali per gli studi su Pascal sono le due edizioni di Léon Brunschvicg, rispettivamente del 1897 e del 1904, che seguono un criterio logico e sistematico, e quelle di Jean Chevalier, del 1925 e del 1936, che cercano di ricostruire il suo progetto originale.

In Pascal si esprime tutto il disagio esistenziale che affonda le radici nella nuova considerazione dell’essere umano inserito in un universo che è diventato infinito: è un’infinitezza che rimpicciolisce l’essere umano di fronte al cosmo, e a Dio, anche se gli viene ancora riconosciuta una qualità che lo solleva decisamente al di sopra di tutto il creato, il pensiero. Nel pensiero Pascal rappresenta quindi la presa di coscienza dell’uomo copernicano, parte di la grandezza dell’uomo un mondo del quale non è più il centro astronomico, certo, mentre ne è ancora quello esistenziale e metafisico. La grandezza dell’uomo sta nel suo pensiero, quello stesso pensiero che ha compiuto la rivoluzione scientifica, fondata sulla matematica, e ha reso possibile la filosofia di Cartesio, verso la quale la posizione di Pascal non è però di incondizionata approvazione. Disagio esistenziale di fronte all’infinito

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Pascal e la scienza moderna

Pascal offre fin da bambino prove indubbie della sua incredibile intelligenza e del suo talento per le scienze. Almeno stando alle testimonianze della sorella, egli ricostruisce a dodici anni, nel 1635, alcune proposizioni degli Elementi di geometria di Euclide, senza averne mai letto il testo. A sedici anni, scrive e poi pubblica un Saggio sulle coniche, mentre pochi anni dopo concepisce un sistema meccanico per realizzare le operazioni di calcolo, ovvero una prima «macchina calcolatrice». Gli studi sul vuoto Al tempo stesso, Pascal si occupa del problema del vuoto (scrivendo una prefazione a un trattato sull’argomento), la cui esistenza viene negata da Cartesio e sostenuta negli stessi anni da Evangelista Torricelli (1608-1647); inoltre affronta la questione della dinamica dei liquidi, giungendo a formulare il principio detto appunto – anche oggi – di Pascal, per il quale la pressione esercitata da un liquido si trasmette con uguale intensità in tutte le direzioni. Per quanto poi riguarda

Gli studi scientifici e tecnici

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

il rapporto del mondo moderno con il mondo antico, Pascal ritiene che la scienza moderna sia superiore alla scienza antica, perché consiste in un cumulo di conoscenze molto maggiore.

I limiti della ragione

2 La critica del razionalismo cartesiano

La colpa di Cartesio

Gli inganni reciproci tra sensi e ragione

I limiti della conoscenza morale

Del tutto consapevole dell’attacco al sapere sferrato dalle correnti scettiche, e del rischio della polemica libertina verso la religione, con tutta la passione per la scienza Pascal ha ben presente il carattere limitato della ragione, che si manifesta nelle forme più diverse. La sopravvalutazione delle capacità intellettuali dell’uomo, che diventa una forma di intellettualismo presuntuoso, è uno dei limiti anche della riflessione di Cartesio, che costruisce su di esse tutto il suo sistema razionalistico senza però, secondo Pascal, cogliere la portata enorme della presenza di Dio, salvo farne il garante di un sistema fisico e metafisico fondato su se stesso attraverso il percorso razionale delle Meditazioni (vedi Unità 3, p. 160 ss.). Nel frammento n. 77 (numerazione Brunschvicg) dei Pensieri trova espressione tutta la diffidenza di Pascal verso la metafisica razionalistica di cui Cartesio è il massimo rappresentante: «Non posso perdonarla a Cartesio, il quale in tutta la sua filosofia avrebbe voluto poter fare a meno di Dio, ma non ha potuto evitare di far dare un colpetto al mondo per metterlo in moto; dopo di che non sa più che farne di Dio». Per Pascal, invece, la ragione umana è piuttosto limitata, e l’uomo è tanto più limitato, quanto più pensa di affidarsi alla sola capacità deduttiva di tipo matematico, argomentativo. In realtà l’uomo è un essere «pieno d’errore», e ha grandi limiti nella sua possibilità di conoscere la verità. Se i sensi ingannano la ragione attraverso false apparenze, la ragione si vendica: il risultato è una sorta di inganno reciproco tra le due possibili fonti di conoscenza, i sensi e la ragione. In questo atteggiamento si rivela la radice scettica o «pirroniana» (come ci si riferisce in questo secolo allo scetticismo, richiamando Pirrone, il filosofo greco del IV-III secolo a.C.) della critica pascaliana ai limiti della ragione umana. Questi limiti si mostrano anche nella possibilità di conoscenza della moralità, dei criteri del giusto e dell’ingiusto, che la più parte degli uomini sembra affidare agli usi e ai costumi dei popoli cui ciascuno appartiene: questo atteggiamento scettico e relativistico che si fonda sui diversi costumi dei diversi popoli, celebrato da Michel de Montaigne (vedi Unità 1, p. 25 ss.), non avrebbe in realtà luogo se l’uomo fosse in grado di conoscere davvero cos’è la giustizia.

I moralisti francesi Una delle caratteristiche della modernità, ossia dell’epoca del pensiero che inizia con la rivoluzione scientifica e il tentativo cartesiano di rifondare la filosofia con la sola forza della ragione, è la centralità che assume la riflessione sulla natura umana. È vero che l’uomo non è più il centro dell’universo, ma la perdita dei vincoli dettati dall’autorità politica e religiosa e il bisogno di sottoporre ogni cosa all’esame della ragione richiedono comunque una più attenta riflessione su se stessi, sul proprio posto nel mondo, su come ci si comporta e sulle motivazioni profon-

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de delle proprie scelte. Oltre che il secolo dei grandi sistemi metafisici, il Seicento è un secolo di moralisti, e un posto di rilievo tra questi lo hanno alcuni autori francesi. L’attenzione alla natura umana ha tra i suoi precursori l’umanista Montaigne, in cui compaiono vari temi morali, che troveranno un’eco sia nel XVII che nel XVIII secolo: il confronto con le culture extraeuropee e il tema dei «selvaggi»; il rifiuto di ogni concezione metafisica della natura umana; la consapevolezza dei limiti della conoscenza; la negazione di una differenza qualitativa tra natura animale e umana; il rifiuto della morale stoica

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e della grandezza e centralità dell’uomo nell’universo. Prendendo spunto da una moda letteraria in voga nei salotti e nella conversazione, François de La Rochefoucauld (1613-1680), uno dei protagonisti della vita politica francese, pubblica nel 1664 una raccolta di aforismi intitolata Massime, che il critico italiano Giovanni Macchia (1912-2001) definisce «piccoli lavori di oreficeria». Si tratta di brevi frasi lapidarie o riflessioni più articolate, intrise di un profondo pessimismo sulla natura umana, dominata dall’«amor di sé», ossia dall’egoismo: la raccolta si apre infatti, a partire dalla IV edizione, con

l’affermazione «Il più delle volte le nostre virtù sono soltanto vizi camuffati». Nel 1688 escono invece I caratteri di Teofrasto, tradotti dal greco con i caratteri o i costumi di questo secolo di Jean de La Bruyère (1645-1696), in cui, di seguito alla traduzione dell’opera dell’allievo di Aristotele, incontriamo brevi massime o ritratti (nell’ultima edizione se ne contano 1120) in cui l’autore analizza l’indole degli uomini, dividendoli in tipologie. Dietro molti di essi i contemporanei potevano riconoscere personaggi illustri dell’epoca rappresentati con amara ironia e acutezza.

Ipocrisia e autoinganno dell’uomo

L’uomo, afferma Pascal, non è in grado di conoscere se stesso. In questa critica della pretesa conoscenza di sé, che è anche e soprattutto critica dell’ipocrisia e dell’autoinganno dell’uomo, Pascal può essere accostato alla incisiva e pungente critica dell’ipocrisia che si sviluppa nelle riflessioni e nelle massime dei moralisti francesi del suo secolo sopra ricordati, come La Rochefoucauld. Se tutti gli uomini sapessero che cosa dicono l’uno dell’altro «non esisterebbero quattro amici al mondo». Gli uomini rifiutano di dirsi la verità e, ciò che è ancora più grave, di dire la verità a se stessi. Si rivela così l’amor proprio nel suo significato negativo di concentrazione benevola su di sé, che rifiuta di vedere in se stessi quegli stessi difetti che ritiene di individuare negli altri.

T4

La natura dell’amor proprio e di questo io umano consiste nel non amare che se stesso e non considerare altro che sé. Ma che farà? Non potrà certo impedire che questo oggetto da lui amato non sia pieno di difetti e miserie; vuole essere grande e si vede piccolo; vuole essere felice e si trova miserabile; vuole essere perfetto e si trova pieno di imperfezioni; vuole essere oggetto dell’amore e della stima degli uomini, e si accorge che i suoi difetti meritano la loro avversione e il loro disprezzo. Questo imbarazzo in cui si trova produce in lui la più ingiusta e criminale passione che sia possibile immaginare; infatti concepisce un odio mortale contro quella verità che lo riprende e lo convince dei suoi difetti. Desidererebbe annientarla e, non potendo distruggerla in se stessa, la distrugge, per quanto può, nella sua conoscenza e in quella degli altri, vale a dire mette tutto il suo impegno nel nascondere i suoi difetti agli altri e a se stesso e non può tollerare né che gli vengano mostrati né che lui li veda. È indubbiamente un male essere pieno di difetti; ma il male maggiore è esserne pieno e non volerlo riconoscere, poiché vi si aggiunge il male di un’illusione volontaria. Non vogliamo che gli altri ci ingannino; non troviamo giusto che gli altri vogliano essere stimati più di quel che meritano; dunque non è neppure giusto ingannarli e volere che ci stimino più di quel che meritiamo.

L’amor proprio B. Pascal, Pensieri, n. 100 (numerazione Brunschvicg)

3 Subordinazione della ragione alla fede

La ragione e il cuore: geometria e finezza Un aspetto particolare della consapevolezza pascaliana dei limiti della ragione umana lo si ritrova nella opposizione tra ragione e cuore. Pur segnato dal peccato originale, e quindi ormai incapace di conoscere l’infinito, l’uomo è, però, capace attraverso la sua ragione di conoscere le cose finite, grazie alla propria riflessione 217

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

e al metodo geometrico. Ma la conoscenza dei principi (esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri) è lasciata da Pascal a ciò che chiama «il cuore», che se da un lato permette di cogliere i principi, dall’altro è l’organo deputato a rilevare le verità più importanti ed essenziali, ovvero le verità della religione e della fede. Il riconoscimento dei limiti della ragione ha insomma per esito, in questo modo, la subordinazione della razionalità all’organo della fede. «Spirito di geometria» Una contrapposizione analoga e affine ha luogo, nel pensiero di Pascal, tra lo cartesiano e «spirito «spirito di geometria» e lo «spirito di finezza». Lo spirito di geometria è evidendi finezza» pascaliano temente legato alla ragione e alla capacità di argomentare rigorosamente, traendo le conclusioni logicamente corrette a partire da determinate premesse. Lo spirito di geometria riesce bene, come ha scritto il filosofo Giulio Preti (1911-1972), quando si tratta di affrontare materie semplici a partire da pochi e chiari assiomi. Lo spirito di finezza invece – la stessa denominazione è rivelatrice – è appunto più raffinato, è un principio di orientamento in materie complesse, che non possono essere risolte sulla base di pochi e semplici principi ma che prevedono il presentarsi contemporaneo di molti principi e quindi la necessità di utilizzare una sorta di istinto, di scelta intuitiva, di spirito fine. Si tratta di un atteggiamento particolarmente adatto per affrontare le questioni che riguardano l’uomo e la sua esistenza.

4 L’ambivalenza della condizione umana

Legame tra grandezza e miseria nell’uomo

Il pensiero e la consapevolezza caratteri distintivi dell’uomo

T5

L’uomo è una canna che pensa B. Pascal, Pensieri, n. 347

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La duplicità dell’uomo: grandezza e miseria Tutto il tono degli scritti di Pascal è improntato a sottolineare la strutturale duplicità dell’uomo, cioè la sua grandezza e, al tempo stesso, la sua miseria. Quella dell’uomo è del resto una grandezza che nasce anche dalla consapevolezza, o almeno dalla capacità di arrivare alla consapevolezza della propria miseria e piccolezza. La grandezza dell’uomo consiste infatti anche e soprattutto nella sua capacità di riconoscersi «miserabile», poiché un albero, per esempio, non sa di essere miserabile. La stessa duplicità della natura umana si esprime infatti nell’idea dell’uomo radicalmente segnato dal peccato e però, al tempo stesso, nella possibilità della salvezza per opera della grazia divina. Grandezza e miseria sono quindi due elementi che rimandano l’uno all’altro, e che devono costituire il principio del modo in cui l’uomo guarda a se stesso. L’infinità dell’universo e la forza della natura lo possono inghiottire «come un punto» e cancellare in un attimo la sua presenza fisica, e quindi non è certo in questa dimensione che andrà ricercata la grandezza dell’uomo. Anzi, l’uomo ha la stessa fragilità di una canna, esposta alle seppur minime variazioni delle condizioni naturali, mentre il pensiero, e la consapevolezza di tutto quello che accade a lui e intorno a lui, sono in grado di nobilitarlo, di dargli una dignità superiore a ogni altro essere naturale. L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta ad ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente.

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Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensar bene: questo è il principio della morale. In realtà, invece, l’uomo si distoglie continuamente dal pensare, e basta ben poco per distrarre la sua mente. Non c’è certo bisogno, dice ironicamente Pascal, di un rombo di cannone, ma è sufficiente il ronzio di una mosca vicino al suo orecchio, o il rumore di una ruota, perché egli diventi incapace di prendere la giusta decisione. È però ben più grave l’intenzionale e colpevole tentativo continuo di non riflettere su se stesso e sulla propria condizione. Il divertissement Riflettendo su questo atteggiamento di fuga dell’uomo, Pascal introduce il tema come distrazione del divertissement, del «divertimento», inteso, in senso letterale, come «distradella mente zione», ovvero come operazione della mente che tende a distogliere lo sguardo e la riflessione da ciò che è davvero importante (la miseria e la fragilità umane, il bisogno di Dio come autore e fine dell’esistenza). Una volta che non riesca a distrarsi, l’uomo infatti è assalito dalla noia che si trasforma spesso in disperazione e tristezza. È nei Pensieri dedicati a questo tema che compare la figura della morte: anche la vita apparentemente più appagata è in realtà una vita infelice, se non ci si può affidare al divertimento. La fragilità dell’attenzione dell’uomo

T6

La morte e il divertimento B. Pascal, Pensieri, n. 139

5

Immaginate un re circondato da tutte le soddisfazioni che possono appagarlo: se però è senza divertimento ed è lasciato a considerare e a riflettere quello che è, allora la sua malinconica felicità non lo sosterrà per nulla e sarà necessariamente vittima della visione di ciò che lo minaccia, delle rivolte che possono accadere e infine della morte e delle malattie che sono inevitabili; cosicché, se egli è privo di quel che si chiama divertimento, diventa infelice e più infelice dell’ultimo dei suoi sudditi, che gioca e si diverte.

Il dio nascosto

La prospettiva religiosa di Pascal è profondamente segnata dalla coscienza del peccato originale e della infinita e non colmabile – se non attraverso la grazia – distanza di Dio dal mondo, i tratti che insieme con il rigorismo morale rivelano nel modo più chiaro l’impronta giansenistica del pensiero di Pascal. Questa distanza di Dio, sostiene il filosofo, viene riconosciuta esplicitamente dal cristianesimo, e questo riconoscimento è il segno della sua superiorità rispetto alle altre religioni. Il Dio nascosto È Dio che chiarisce a chi vuole ciò che appare oscuro, attraverso la grazia: è soe il ruolo della grazia lo presunzione quella di coloro che vogliono spiegare attraverso la semplice razionalità l’oscurità della religione. È falsa la religione di coloro che negano questo carattere alla religione ed è incapace di istruire la religione che non ci dà una spiegazione delle oscurità, come il cristianesimo invece fa con la dottrina del peccato originale e della grazia: «Poiché Dio si è così nascosto, ogni religione che afferma che Dio non è nascosto non è vera; e ogni religione che non ne dà la spiegazione non istruisce. La nostra fa tutto questo: Vere tu es Deus absconditus», «veramente tu sei un Dio nascosto», come scrive Pascal citando il versetto biblico dal libro del profeta Isaia. La distanza di Dio dal mondo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

6 Un argomento razionale ma non una prova metafisica

L’appello al lume naturale

Scommettere sull’esistenza di Dio

La scommessa come argomentazione razionale

La scommessa All’interno dei Pensieri si trova, in una posizione abbastanza isolata, una delle tesi più spesso ricordate – e più vivacemente discusse – del pensiero di Pascal, l’argomento detto del pari, ovvero della scommessa, che è tanto suggestivo quanto enigmatico, perché Pascal è in realtà spesso polemico verso il raziocinare metafisico e verso le prove dell’esistenza di Dio, mentre in questa occasione la sua argomentazione è lucidamente razionale. Solo che, invece di fare appello a nozioni teologiche o metafisiche, il suo ragionamento prende le mosse da uno dei sentimenti più radicati nella natura umana: la ricerca del proprio utile. Pascal dichiara esplicitamente di volere utilizzare non la fede ma il solo lume naturale, ossia la ragione di cui tutti sono partecipi. La ragione non ci può dire nulla con assoluta certezza sull’esistenza di Dio, ma ciononostante essa deve prendere posizione, deve cioè scommettere su questa eventualità, come viene indotta a fare da un calcolo razionale che ha la funzione, in Pascal, di predisporre, di preparare alla fede: quest’ultima, infatti, può essere soltanto un dono di Dio. Pascal cerca di mostrare quanto sia vantaggioso scommettere sull’esistenza di Dio, rispetto alla sua non-esistenza, visti i vantaggi che sono in gioco nel caso Dio esista. Il problema è se sia conveniente rinunciare ai beni di questa vita in nome di qualcosa che la ragione non mi può mostrare per certo, ovvero la vita eterna come beatitudine: di fronte a una simile posta in palio, afferma Pascal, la scommessa non può che essere sull’esistenza di Dio. La vita eterna come beatitudine è infatti infinitamente superiore a qualunque altro bene, poiché è eterna e poiché si tratta di una gioia che qualitativamente non ha paragoni con nessun’altra. In ballo c’è un’eternità di vita e di felicità.

L’uomo cerca sempre il proprio utile

Vi sono due alternative: Dio esiste o Dio non esiste

Si deve scommettere su una delle due ipotesi

Se Dio non esiste e crediamo in lui, non perdiamo nulla; se Dio esiste e non crediamo in lui perdiamo la beatitudine eterna

Conviene scommettere sull’esistenza di Dio

7 In difesa del giansenismo

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La morale e la polemica con i gesuiti L’attacco ai giansenisti e in particolare ad Arnauld condotto dalla Chiesa con la condanna papale ufficiale (nel 1653, con la bolla Cum occasione), e contemporaneamente dai dottori della Sorbona, impone a Pascal una netta presa di posizione che riguarda prevalentemente la morale dei gesuiti, i principali avversari dei

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Unità 4 L’età cartesiana

Due concezioni della grazia a confronto

I gesuiti e la casistica

Pascal e la condanna della casistica

➥ Sommario, p. 228

giansenisti. È questo il contenuto delle Provinciali, una serie di scritti in forma di lettere pubblicate anonimamente da Pascal, con la collaborazione di Arnauld, ricchi d’ironia e di sarcasmo nei confronti dei gesuiti e diventati nei secoli successivi un modello di prosa per la lingua francese. L’oggetto del contendere è il tentativo dei gesuiti di costruire una morale più vicina all’uomo e nella quale la ragione gioca un ruolo importante: si confrontano due diverse concezioni della grazia, e due opposte valutazioni del peso del peccato originale e delle capacità umane. 1) Secondo i gesuiti, che seguono la teoria del loro confratello Luis de Molina (1536-1600), nonostante la colpa originaria che discende dal peccato di Adamo, la grazia sufficiente permette all’uomo di operare bene, e quindi gli si riconosce una capacità autonoma. 2) Invece, secondo la tradizione agostiniana, seguita dal giansenismo e da Pascal, la salvezza è operata in tutto e per tutto dalla grazia efficace, che viene direttamente da Dio e che dimostra l’impossibilità di una salvezza che venga conquistata dall’uomo, anche solo in parte, autonomamente. Per la loro posizione radicale su questo tema i giansenisti vengono giudicati dalla gerarchia ecclesiastica lontani dalla teologia ufficiale e vicini alla posizione delle Chiese riformate, e per questo condannati. Nel tentativo di rivalutare la ragione e il suo ruolo, i gesuiti danno largo spazio alla casistica, cioè all’esame accurato dei singoli casi che hanno significato morale, cercando in questo modo di attenuare il rigore della moralità cristiana, anche per motivi opportunistici: i principi generali sono di un certo tipo, ma l’analisi del caso particolare permette di concedere eccezioni e modi particolari di comportamento proprio nel passaggio dal principio generale al caso particolare. L’uso diffuso della casistica permette di adeguare la morale cristiana ai costumi e agli usi sociali, rendendola così più praticabile e, in sostanza, più attraente, ma spingendosi, per i suoi critici, fino al limite dell’ipocrisia. Pascal rifiuta decisamente questo atteggiamento sia nei Pensieri sia, ancor più, nelle Provinciali, e ad esso contrappone una ferma sottolineatura del peso del peccato originale e della necessità di un’interpretazione rigoristica della morale cristiana, sempre concepita come modello inflessibile di coerenza.

Temi della filosofia di Pascal

Interesse per la scienza e studi scientifici Limiti della metafisica razionalistica di Cartesio: – scetticismo: inganni reciproci tra sensi e ragione – l’uomo non è in grado di conoscere né la morale né se stesso – distinzione cuore / ragione – distinzione spirito di geometria / spirito di finezza

Pascal

Analisi esistenziale della condizione umana: – angoscia esistenziale, noia e divertissement – miseria e grandezza dell’uomo – la grandezza dell’uomo risiede nel pensiero Giansenismo e polemica con i gesuiti: – difesa di Arnauld – apologia del cristianesimo – rifiuto delle prove dell’esistenza di Dio e scommessa – concezione della grazia efficace e predestinazione – rigorismo morale e rifiuto della casistica

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Critica della tradizione e teodicea: Bayle

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I testi P. Bayle Pensieri sulla cometa: L’ateo superiore all’idolatra, T7; I

costumi di una società senza religione, T8 Dizionario storico-critico: La realtà del male, T9

È legittimo vedere in Pierre Bayle la conclusione del secolo cartesiano e razionalistico e, al tempo stesso, erudito e scettico. In Bayle, infatti, trovano compimento l’impostazione razionalistica, che viene portata alle sue estreme conseguenze e che costituisce il fondamento dell’analisi storica, e l’atteggiamento erudito e scettico che proviene dalla letteratura libertina. L’operazione di Bayle si compie, con grandiosità, nel Dizionario storico-critico del 1696, poi ampiamente integrato nelle edizioni successive: una seconda edizione ampliata e corretta, dopo alcune critiche, compare nel 1702, quando Bayle è ancora in vita; un’edizione definitiva viene pubblicata postuma ventiquattro anni dopo la sua morte, nel 1730. La rivalutazione La polemica verso la conoscenza storica caratterizza tanto la filosofia cartesiadella conoscenza na (si tratta di una conoscenza non chiara e distinta) quanto l’influentissima ristorica flessione di Malebranche, polemico verso l’erudizione anche per il timore dei suoi esiti antireligiosi. Bayle, da questo punto di vista, segue piuttosto i tentativi di rivalutare la conoscenza solo probabile delle discipline storiche che Arnauld ha riconosciuto nella Logica. Il generale atteggiamento scettico di Bayle vale anche nei confronti della storia, che oltretutto si presta a essere modificata e manipolata per interessi di parte; certamente però il Dizionario si confronta con la tradizione utilizzando il doppio registro della critica razionalistica e dell’indagine storica, e mostrando come le due prospettive possano fecondamente interagire.

Bayle come sintesi dei temi dell’età cartesiana

La vita e le opere Pierre Bayle nacque a Carlat, nell’Alvernia, nel 1647. La sua famiglia era protestante, ma egli si convertì al cattolicesimo nel 1669 mentre frequentava l’università di Tolosa, gestita dai gesuiti; tuttavia l’anno successivo ritornò al protestantesimo. Ricoprì l’incarico di professore di filosofia prima a Sedan, dal 1675, e poi a Rotterdam dal 1681 e in questi anni studiò la filosofia contemporanea: Malebranche, gli scolastici, i gassendisti, ma anche filosofi eterodossi come i libertini, Spinoza e Hobbes. Nel 1682 pubblicò i Pensieri sulla cometa e nel 1684 fondò la rivista «Nouvelles de la république des lettres», che

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divenne presto molto diffusa e influente e di cui fino al 1687 fu quasi redattore unico: sul periodico comparivano recensioni, annunci di pubblicazioni, segnalazioni riguardanti la vita culturale. Nel frattempo era avvenuta la sua rottura con il calvinismo rigorista e nel 1693 Bayle venne destituito dalla cattedra. Da questo momento si mantenne solo grazie alla sua attività di scrittore, pubblicando il Dizionario storico-critico, uscito inizialmente in due volumi nel 1696 e in seconda edizione nel 1702; le Aggiunte ai pensieri sulla cometa (1694, 1704) e la Risposta alle domande di un provinciale (1703-1706). Morì a Rotterdam nel 1706.

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Unità 4 L’età cartesiana

1 Il dibattito sulle comete

Contro l’argomento del consenso

Esame razionale di credenze e superstizioni

La critica della superstizione e dell’idolatria La critica della tradizione come critica della superstizione, che svolgerà un importante ruolo nel Dizionario, comincia a essere esercitata da Bayle nei Pensieri sulla cometa (pubblicati anonimi), che contestano una pretesa interpretazione miracolistica dei fenomeni astronomici, e in particolare delle comete, per la vita dell’uomo: è voce corrente e opinione diffusa, infatti, che le comete portino sciagure, ed è proprio questa tesi che viene negata da Bayle. Il fine razionalistico della critica della superstizione non è nuovo, ma in realtà Bayle intende mettere in discussione l’idea che un ampio consenso su un’opinione – come quella degli effetti soprannaturali delle comete – possa contribuire ad aumentare la verosimiglianza di quell’opinione: l’antichità e l’universalità di un’opinione, scrive Bayle, non sono un segno della sua verità (una critica analoga è presente in John Locke, vedi Unità 6, p. 363). Tutte le testimonianze e le credenze, quindi, devono essere esaminate con attenzione, a meno che non si voglia cadere nella superstizione e nell’idolatria, come nel caso della «invenzione» che il sole abbia offuscato la luce alla morte di Cesare, un evento pericolosamente simile, anche se Bayle si guarda bene dal metterlo in connessione diretta, all’oscuramento del sole alla morte di Cristo tramandato dal racconto evangelico.

La difesa dell’ateismo L’ateismo è preferibile all’idolatria

T7

L’ateo superiore all’idolatra P. Bayle, Pensieri sulla cometa, 119 P

Un tema di grande novità nella riflessione di Bayle è il modo di affrontare l’ateismo. Egli si contrappone infatti alle tesi tradizionali, secondo le quali l’ateismo sarebbe il massimo pericolo, inevitabilmente legato alla corruzione dei costumi e strutturalmente incompatibile con qualunque tipo di vita sociale. L’ateismo, insomma, ovvero una tesi religiosa, ha conseguenze devastanti anche sul piano morale, se si segue la tradizione. Ma è questa la tesi che Bayle, esplicitamente, nega. In realtà, il demonio preferisce l’idolatria all’ateismo: credere in falsi dèi rende più difficile la conversione, rispetto a una posizione genuinamente atea, perché lo zelo di un idolatra è una disposizione del cuore molto più radicata. […] lo zelo di un idolatra è una disposizione del cuore molto più pericolosa dell’indifferenza, perché, sempre generalmente parlando, un uomo bigotto e pervicacemente attaccato ai suoi falsi principi è più difficile che riconosca la verità di un uomo che non sa a che cosa credere. Per questo mi sembra preferibile essere atei.

Per quanto poi riguarda l’idea che l’ateismo conduca «necessariamente» alla corruzione dei costumi, ovvero alla corruzione morale, quest’idea è per Bayle il frutto della falsa convinzione che sia la razionalità a guidare la condotta umana, e che gli uomini seguano quegli stessi precetti che razionalmente riconoscono e ritengono migliori. Moventi non razionali In realtà il comportamento dell’uomo non è determinato dalle conoscenze genedelle azioni rali che egli ha di ciò che deve fare, ovvero dai suoi principi, ma piuttosto dalla passione, dalle inclinazioni o dalle abitudini. Per questo una società di atei Ateismo e condotta morale

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avrebbe le stesse possibilità di sopravvivere pacificamente di quante ne hanno le società pagane, che del resto vengono accostate in modo esplicito alla vita sociale del mondo cristiano contemporaneo. Valore sociale In tutti i tipi di società – e qui emerge il grande pessimismo di Bayle sulla natudella pena ra umana – ciò che permette la convivenza sono ben più le punizioni e quindi le leggi penali che le convinzioni religiose. Che è un modo come un altro per dire che non c’è, tra le diverse società umane, gran differenza per quanto riguarda la moralità, e se c’è non ha radice nella religione.

T8

Se, dopo tutte queste osservazioni, si vuole sapere come io immagini una società di atei, non avrò alcuna difficoltà a sostenere che essa sarebbe, a mio parere, nei costumi come nelle azioni civili, del tutto simile a una società di pagani. Sarebbero necessarie, è vero, leggi molto severe e scrupolosamente applicate per punire i criminali; ma leggi simili non sono necessarie ovunque? E noi stessi avremmo il coraggio di uscire dalle nostre case se il furto, l’assassinio e tutte le altre violenze fossero permesse dalle leggi emanate dal nostro sovrano? Non si deve forse esclusivamente al rinnovato vigore dato dal re alle leggi contro i malfattori, se per le vie di Parigi giorno e notte siamo protetti dai loro soprusi? Senza tali leggi non saremmo anche noi esposti alle stesse violenze che vengono perpetrate negli altri paesi, quantunque i predicatori e i confessori facciano oggi il loro dovere assai meglio di una volta? […] È proprio il caso di affermare, senza cadere nella retorica, che nella maggior parte delle persone la giustizia umana è la vera causa della virtù.

Superiorità dell’ateismo sul fanatismo religioso

Bayle sembra spingersi fino alla tesi contraria, rispetto alla tradizione: chi sembra davvero pericoloso dal punto di vista sociale è il fanatico della falsa religione, che però rischia di non potere essere più distinto dal fanatico della religione «vera», ossia cristiana. L’ateo non sembra soggetto, invece, a molte tentazioni che caratterizzano il credente, per cui Bayle finisce per dipingere una figura dell’ateo superiore a qualunque credente. La trattazione finisce per essere una sorta di apologia dell’ateismo come mai comparsa prima, appoggiandosi, qui e altrove, a figure di atei intese come modelli di «onestà», a partire dall’ateo che costituisce anche un modello di riflessione filosofica coerente, Spinoza.

I costumi di una società senza religione P. Bayle, Pensieri sulla cometa, 161

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La tolleranza

Alla convinzione dei rischi del fanatismo religioso si accosta in Bayle, ben presto, la preoccupazione per le sorti della convivenza di religioni diverse e di credenze diverse. Non è certo una preoccupazione fuori posto, questa di Bayle: il 15 ottobre del 1685, infatti, Luigi XIV revoca l’editto di Nantes con cui la Francia aveva permesso la libertà di religione quasi un secolo prima. E Bayle prende posizione anche in questa occasione, concentrando la propria attenzione sull’idea della coscienza del singolo come «voce di Dio»: è la sacralità della coscienza, anche quando fosse in errore, a diventare per Bayle il fondamento della tolleranza. Difesa della libertà La coscienza che sbaglia, o «errante», quando è in buona fede, ha gli stessi didi coscienza ritti della coscienza giusta, se non altro perché in materia di fede non ci sono prove certe e definitive che non rimandino da ultimo alla coscienza dei singoli.

Sacralità della coscienza in tema di religione

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Unità 4 L’età cartesiana Separazione tra moralità e religione

3 Il dibattito sul problema del male

➥ Percorso tematico, p. 321 L’attenzione alle tesi dei manichei

Agostino e la teoria del male come privazione

Radicalismo di Bayle

Razionalità del manicheismo

T9

La realtà del male

P. Bayle, Dizionario, art. Manichei, D

Dal pensiero di Bayle, quindi, sia quando affronta la questione degli atei, sia quando si occupa della coscienza «errante», ciò che sicuramente emerge è la necessità di separare la moralità dalla religione: la religione non è condizione di rettitudine morale, al contrario, sembra piuttosto essere spesso la causa della peggiore immoralità.

Il problema del male e la critica della teodicea L’incompatibilità tra fede e ragione, tratteggiata nelle varie opere minori di Bayle, è al centro del Dizionario storico-critico, e trova espressione nella spregiudicata analisi condotta da Bayle sul problema del male, che dal Dizionario si allunga fino a tutto il Settecento, dopo che Leibniz, proprio in replica a Bayle, conia il nuovo termine per il problema della giustizia divina di fronte al male del mondo, la «teodicea». Non è un caso che nel curioso impianto del Dizionario – dove si trovano occorrenze per personaggi semisconosciuti, e mancano personaggi di prima grandezza come, per esempio, Platone – due voci importanti siano quelle dedicate ai manichei e ai pauliciani (un altro nome della medesima setta manichea), che risolvevano il problema dell’esistenza del male del mondo in un modo incompatibile con il monoteismo cristiano, ovvero affermando l’esistenza di due principi indipendenti e contrapposti, il principio del bene e il principio del male. Al manicheismo si era opposto Agostino, che cerca di evitare le conseguenze dualistiche della tesi manichea ritenendo il male come semplice assenza di bene, come una semplice privazione, dovuta alla finitezza di tutto ciò che è creato, e non come qualcosa di positivo, dotato di una propria esistenza autonoma. La semplice privazione, il male che Agostino chiama metafisico, sarebbe all’origine del male fisico e del male morale che caratterizza la finitezza e quindi l’essere umano. Come fa anche per altri problemi in cui il contrasto tra fede e ragione appare insanabile – per esempio il dogma della trinità, o la transustanziazione nell’eucarestia –, Bayle rifiuta le soluzioni di compromesso, mettendo piuttosto direttamente il dito sulla piaga: il male non può essere visto come una semplice «assenza» o mancanza di perfezione, è piuttosto qualcosa di ben presente e di effettivo, che può essere osservato di continuo nella vita quotidiana degli uomini, sia per l’aspetto fisico, del dolore, sia per l’aspetto morale, della malvagità umana. Il contrasto tra la fede in un Dio buono e onnipotente e la presenza del male è dimostrato proprio dalla lucida sensatezza razionale della soluzione manichea, che dalla compresenza inspiegabile di male e di bene trae la conclusione dell’esistenza di due principi contrapposti. La posizione di questa setta non è contraria alla ragione, mentre lo è, se si rimane sul piano della razionalità, quella del Dio cristiano, che assomma in sé le qualità di essere unico, buono e onnipotente. L’uomo è cattivo e infelice: tutti lo sanno, osservando ciò che passa all’interno del proprio animo e le relazioni che sono costretti ad avere con il prossimo. È sufficiente vivere cinque o sei anni per convincersi perfettamente di questi due punti; coloro che vivono a lungo e sono ben addentro negli affari lo sanno ancora meglio. I viaggi costituiscono in proposito delle lezioni esemplari, perché fanno ve225

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dere ovunque le testimonianze della infelicità e della malvagità umane. Ovunque si vedono prigioni e ospedali, ovunque ladri e mendicanti […] La storia, propriamente parlando, non è altro che una raccolta dei delitti e delle disgrazie del genere umano; ma osserviamo che questi due mali, quello morale e quello fisico, non sono gli unici protagonisti di tutta la storia né esauriscono tutta l’esperienza dei singoli individui: vediamo che ovunque c’è sempre un po’ di bene morale o un po’ di bene fisico, alcuni esempi di virtù, alcuni esempi di felicità, ed è proprio in questo che risiede la difficoltà. Perché se non vi fossero che malvagi e disgraziati, non sarebbe affatto necessario ricorrere all’ipotesi dei due principi. Sul piano razionale le tesi manichee sono allora molto più coerenti e molto più capaci di spiegare l’esperienza, rispetto alle tesi cristiane. Bayle difende la sensatezza della vecchia domanda posta da Lattanzio attraverso il riferimento a Epicuro: Dio non sembra poter essere contemporaneamente buono, giusto e onnipotente, altrimenti il male non esisterebbe. Se Dio è in grado di evitare il male e non lo fa non è buono, e se non è in grado di evitarlo, non è onnipotente. Due soluzioni Fede e ragione si trovano in Bayle in una contrapposizione così radicale che non al conflitto restano molte soluzioni, una volta che si sia accertata la loro incompatibilità. Le ragione / fede scelte disponibili sono soltanto due: o un fideismo cieco, che si affida totalmente alla fede senza curarsi del responso della ragione, o un ateismo conseguente sul piano della razionalità. Bayle dichiara sempre la propria adesione alla prima soluzione, ma rimane una questione aperta se questa dichiarazione non sia altro che l’ennesimo modo di mascherare la propria più profonda convinzione, come ➥ Sommario, p. 228 fanno, in questi anni e negli anni successivi, molti altri pensatori.

Il dilemma sulla natura di Dio

Bayle e il problema del male

Il male è qualcosa di reale, non è semplice privazione Se accettiamo l’immagine teologica razionale di Dio, vi è una contraddizione tra la sua potenza e la sua bontà: se Dio è buono e onnipotente il male non dovrebbe esistere L’ipotesi manichea che esistano due principi contrapposti in perenne lotta tra loro è più razionale di quella della teologia cristiana

Suggerimenti bibliografici Per il libertinismo sono utili l’antologia curata da O. Pompeo Faracovi, Il pensiero libertino, Loescher, Torino 1977, e il classico studio di J. Spink, Il libero pensiero in Francia da Gassendi a Voltaire, Vallecchi, Firenze 1974. Più recente il volume di T. Gregory, Etica e religione nella critica libertina, Guida, Napoli 1986. Su Gassendi vedi T. Gregory, Scetticismo ed empirismo. Studio su Gassendi, Laterza, Bari 1961, e la monografia di M. Messeri, Causa e spiegazione. La fisica di Pierre Gassendi, Angeli, Milano 1985. Su Malebranche, soprattutto dal punto di vista della teoria della conoscenza: M. Priarolo, Visioni divine. La teoria della conoscenza di Malebranche tra Agostino e Descartes, ETS, Pisa 2004. Per Pascal, un’introduzione utile è A. Bausola, Introduzione a Pascal, Laterza, Roma-Bari 2003, con la classica monografia di P. Serini, Pascal, Einaudi, Torino 1952, più volte ristampato.

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Unità 4 L’età cartesiana Temi e autori dell’età cartesiana

Libertinismo erudito: La Mothe Le Vayer, Naudé, Cyrano de Bergerac

Erudizione: critica storica e recupero delle filosofie antiche

Tentativi di conciliare analisi storico-critica e religione: Simon e Le Clerc

Difesa della cronologia biblica: Bossuet

Disputa tra antichi e moderni: Fontenelle Gassendi: critiche a nozioni cartesiane, empirismo, ripresa dell’epicureismo conciliato con il cristianesimo

Diffusione del cartesianesimo e metafisica razionalista

Bayle: erudizione e razionalismo, analisi storico-critica, tolleranza e critica della teologia Malebranche: cartesianesimo occasionalista e agostinismo; critica dell’erudizione

Giansenismo: riproposizione dell’agostinismo e rigorismo morale

Arnauld: ripresa della nozione cartesiana di evidenza (intendere) e giansenismo; critiche alla teoria delle idee di Malebranche

Gesuiti: difesa dell’aristotelismo e casistica

Pascal: critiche al cartesianesimo; limiti della scienza e del razionalismo; spirito di geometria e spirito di finezza; apologetica cristiana e riflessione su miseria e grandezza dell’uomo; polemica con i gesuiti

Dibattito interno al mondo cattolico tra aristotelici e platonico-agostiniani

Per Bayle il testo introduttivo più importante è G. Mori, Introduzione a Bayle, Laterza, Roma-Bari 1996, ma vedi anche G. Cantelli, Teologia e ateismo. Saggio sul pensiero filosofico e religioso di Pierre Bayle, La Nuova Italia, Firenze 1969. Per tutta la questione della teodicea in età cartesiana, in generale, è fondamentale il libro di S. Landucci, La teodicea in età cartesiana, Bibliopolis, Napoli 1986; sulle discussioni seicentesche è da vedere anche E. Scribano, Da Descartes a Spinoza. Percorsi della teologia razionale nel Seicento, Angeli, Milano 1988. Per la questione della conoscenza storica è da vedere il libro di C. Borghero, La certezza e la storia. Cartesianesimo, pirronismo e conoscenza storica, Angeli, Milano 1983. I brani antologizzati sono tratti da: A. Arnauld - P. Nicole, La logica, o l’arte di pensare, parte 4, cap. 1, in Grammatica e logica di Port-Royal, a cura di R. Simone, Ubaldini, Roma 1969. N. Malebranche, La ricerca della verità, a cura di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1983. B. Pascal, Pensieri, a cura di G. Auletta, Mondadori, Milano 1994. P. Bayle, Pensieri sulla cometa, a cura di G. Cantelli, Laterza, Roma-Bari 1979. P. Bayle, Dizionario storico-critico, a cura di G. Cantelli, Laterza, Roma-Bari 1976.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Sommario 1. RAZIONALISMO

CARTESIANO E SAPERE ERUDITO

Nella filosofia della seconda metà del Seicento sono centrali la metafisica razionalistica di Cartesio e lo sviluppo dell’erudizione. Il dibattito sul cartesianesimo (iniziato con le Obiezioni e risposte alle Meditazioni metafisiche) e lo scontro tra cartesiani e anticartesiani si intrecciano con due correnti della teologia cristiana: una aristotelica e una platonico-agostiniana, rinnovata dal giansenismo. Dal punto di vista filosofico due importanti interlocutori di Cartesio sono Malebranche, con l’occasionalismo, e Pascal, con la sua critica del razionalismo e la riflessione sull’uomo. [par. 1] Gli esiti più importanti dell’erudizione sono: la critica della religione, che accompagna la consapevolezza della scarsa affidabilità della storia sacra e fornisce argomenti al libertinismo erudito, che si esprime attraverso una vasta letteratura clandestina e spesso approda all’ateismo; la rinascita della filosofia delle scuole antiche (epicureismo, stoicismo, scetticismo). [par. 2] Al rapporto con il mondo antico è collegata anche la disputa su antichi e moderni in cui ha un ruolo importante Fontenelle. [par. 3] 2. IN

DIALOGO CON

CARTESIO: GASSENDI

E

ARNAULD

Uno dei principali interlocutori di Cartesio è Gassendi, che critica la metafisica cartesiana mettendo in luce i problemi del dualismo, il carattere metafisico della nozione di sostanza e la circolarità dell’argomentazione delle Meditazioni a proposito dell’evidenza. Gassendi elabora anche un proprio sistema ispirato all’epicureismo in cui presenta una fisica meccanicista e atomista, una teoria della conoscenza empirista e un’etica del piacere. [par 1] Un altro critico di Cartesio è Arnauld, che sottolinea il legame del cartesianesimo con l’agostinismo e dal punto di vista della conoscenza limita il valore dell’evidenza all’intendere, affiancandogli un’altra forma di sapere autentico, il credere. [par. 2] 3. L’ORDINE

METAFISICO:

MALEBRANCHE

Malebranche è uno dei filosofi più influenti dell’età cartesiana e tenta di conciliare il pensiero cartesiano con quello di Agostino. La sua teoria delle idee riprende la tradizione del platonismo cristiano radicalizzandola in senso occasionalista: le idee sono essenze che vediamo direttamente in Dio; e anche il nesso causale tra eventi fisici dipende dall’azione divina. [par. 1] Malebranche consente con Cartesio nella critica dell’aristotelismo ma mette in guardia contro l’erudizione e l’esasperazione del dubbio scettico, che fa-

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voriscono le argomentazioni dei libertini. [parr. 2 e 3] Contro l’arbitrarismo cartesiano egli afferma l’immutabilità dei decreti divini fondati sulla saggezza del Creatore e la sua azione regolata da leggi generali, semplici e uniformi: soltanto cogliendo l’ordine metafisico del reale l’uomo diviene consapevole che Dio non è la causa del male. [parr. 4 e 5] 4. L’ORDINE

DEL CUORE:

PASCAL

Pascal è un grande scienziato che contribuisce allo sviluppo della matematica e della fisica, pur riconoscendo i limiti della scienza. [par. 1] Le sue critiche maggiori vanno alla pretesa cartesiana che la ragione sia l’unica fonte della conoscenza: esiste una forma di sapere fondata sul «cuore», ed esistono due atteggiamenti conoscitivi complementari, lo spirito di geometria e lo spirito di finezza, che incarnano rispettivamente l’ideale dimostrativo cartesiano e la conoscenza del gusto e della morale fondata sul senso comune e accessibile a tutti gli uomini. [parr. 2 e 3] Nonostante i propri limiti e la propria fragilità, l’uomo è il centro del creato perché possiede il pensiero ed è capace di nobilitarsi grazie ad esso, anche se spesso, angosciato dalla propria condizione e preda della noia, si rifugia nel divertissement, nella «distrazione». [par. 4] Per superare il vuoto dell’esistenza, però, l’unico vero aiuto è la fede in Dio, effetto della sua grazia e non raggiungibile per via razionale, anche se attraverso un’argomentazione persuasiva, la scommessa, è possibile convincersi dei vantaggi della fede. [parr. 5 e 6] Dal punto di vista teologico Pascal sostiene la teoria della grazia efficace contro quella della grazia sufficiente difesa dai gesuiti, dei quali condanna anche l’uso della casistica. [par. 7] 5. CRITICA

DELLA TRADIZIONE E TEODICEA:

BAYLE

Bayle, unendo erudizione e razionalismo, sottopone a un’acuta analisi storico-critica la superstizione e l’idolatria, mostrando la superiorità morale degli atei sui fanatici di ogni credo e la compatibilità tra ateismo e vita associata. [par. 1] Dalla condanna del fanatismo religioso Bayle trae argomenti a favore della tolleranza e della libertà di coscienza nelle scelte religiose. [par. 2] Fondamentale è infine la sua analisi del problema del male che mette in crisi la tradizionale visione teologica di Dio: dal punto di vista della ragione, Bayle respinge la definizione del male come privazione e argomenta la coerenza del manicheismo, affermando che le uniche due soluzioni al conflitto tra fede e ragione sono il fideismo o l’ateismo. [par. 3]

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Unità 4 L’età cartesiana

Parole chiave Ateismo. Teoria filosofica che nega l’esistenza di Dio e ritiene che l’idea di Dio sia un prodotto dell’uomo. Nel Seicento si danno due spiegazioni sull’origine di tale idea: la superstizione e l’ignoranza delle vere cause delle cose e la teoria dell’impostura, ossia la convinzione che tale nozione sia stata creata per motivi politici. Cuore. Termine con cui Pascal indica un meccanismo conoscitivo opposto alla ragione che procede attraverso l’intuizione ed è in grado di cogliere i principi primi (esistenza del tempo, dello spazio, dei numeri, del moto ecc.); in quanto capacità di «sentire» Dio, è il fondamento della fede. Divertissement. Atteggiamento psicologico che spinge l’uomo alla continua ricerca di distrazione, per colmare il vuoto della propria esistenza. Erudizione. Insieme approfondito di conoscenze delle lingue, dei testi, delle culture e delle filosofie antiche che nel Seicento diviene uno stimolo essenziale alla critica della religione, della superstizione e della tradizione storica e teologica fondata sulla Bibbia. Fideismo. Atteggiamento religioso proprio di chi, di fronte agli argomenti eruditi e razionali contro la teologia e le Scritture, decide di accettare le verità e gli insegnamenti delle Chiese sulla base della sola fede. Giansenismo. Movimento religioso (secoli XVIIXVIII) nato dalla dottrina del vescovo Cornelius Jansen e legato alla tradizione agostiniana, che sostiene una teoria della predestinazione e della grazia vicina al protestantesimo, una visione ascetica della vita e un rigorismo morale. Grazia sufficiente / Grazia efficace. Teorie opposte della grazia divina, ossia dell’atto gratuito con cui Dio concede la salvezza agli uomini: la prima indica un intervento divino sufficiente a rendere l’uomo capace di collaborare alla propria salvezza attraverso l’azione; la seconda un intervento di Dio, dettato dall’imperscrutabile decreto divino, che è l’unica fonte della salvezza. Idolatria. Venerazione di oggetti e/o immagini; termine usato come sinonimo di «religione pagana» e composto dal greco èidolon, «immagine», e lautrèuein, «servire». Letteratura clandestina. Testi prodotti e diffusi clandestinamente, spesso in forma manoscritta e anonima, o perché posti all’Indice o perché espongono e diffondono tesi filosofiche contrarie alla teologia, alla morale e alla politica tradizionali.

Libertinismo. Forma di pensiero (XVI-XVIII secolo) che afferma la libertà di riflessione e di critica in morale e in religione. Nel XVII secolo vi confluiscono vari elementi filosofici, che ogni autore dosa in modo diverso: 1) presenza di determinati autori antichi (Epicuro, Pirrone, Lucrezio ecc.) e moderni (Bruno, Hobbes, Spinoza ecc.); 2) filosofie naturalistiche e panteistiche antiche e rinascimentali; 3) critica della metafisica, scetticismo, relativismo conoscitivo ed etico; 4) critica della religione, spinta spesso fino all’ateismo; 5) erudizione. Manicheismo. Dottrina religiosa creata dal persiano Mani nel III secolo in cui si afferma l’esistenza di due principi, uno del Bene e l’altro del Male in perenne lotta. Molte sette cristiane si sono ispirate alle dottrine manichee (pauliciani, bogomili, catari) e tutte ritengono il nostro mondo una mescolanza dei due principi, spiegando così l’origine del male. Metafisica razionalistica (razionalismo). In Cartesio la scienza che si occupa di stabilire i fondamenti e i principi della conoscenza (gnoseologia) e le caratteristiche e le proprietà delle sostanze (ontologia) con il solo ausilio della ragione e dell’argomentazione razionale. Occasionalismo. La teoria metafisica formulata tra il 1660 e il 1670 tra i cartesiani, secondo cui, accettata l’impossibilità di una causalità reciproca tra corpi e menti, data la separazione ontologica tra le due sostanze stabilita da Cartesio, le cause seconde (siano esse cause efficienti o ragioni / moventi) sono solo apparentemente dipendenti da una catena materiale di eventi o dalle volizioni individuali, mentre in realtà è Dio, come causa prima, che agisce in occasione di esse. Scommessa. Argomentazione persuasiva elaborata da Pascal per indurre chi non crede ad aprirsi alla possibilità della fede in Dio facendo appello all’interesse e all’utile. Spirito di geometria / Spirito di finezza. Due atteggiamenti conoscitivi descritti da Pascal come opposti, ma di pari dignità e legittimità: il primo (cartesiano) procede per deduzioni e dimostrazioni ordinate e razionali, si applica alla scienza e individua principi evidenti ma lontani dall’uso comune; il secondo (pascaliano) procede attraverso il sentimento e il giudizio (il cuore), si applica al gusto e alla vita morale, individua principi sottili e numerosi percepiti attraverso il senso comune o lume naturale. 229

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Questionario RAZIONALISMO 1

2

IN

CARTESIANO E SAPERE ERUDITO

15

Con quale argomento Agostino supera il dubbio, secondo Arnauld in T1? (max 2 righe)

Che cos’è il libertinismo e qual è il suo rapporto con l’erudizione? (max 3 righe)

16

Per quale motivo non è possibile dubitare dei risultati della riflessione cartesiana, secondo Malebranche in T2? (max 1 riga)

17

Qual è il diverso fondamento della fede e della ragione, secondo Malebranche in T3? (max 2 righe)

18

Qual è il male maggiore dell’uomo secondo Pascal in T4? (max 1 riga)

19

Di cosa l’universo non è consapevole secondo Pascal in T5? (max 1 riga)

20

Qual è l’origine della malinconia dell’uomo, anche del più potente, secondo Pascal in T6? (max 1 riga)

21

Qual è, secondo Bayle in T8, la vera causa del comportamento corretto degli uomini? Cosa implica questo per una società di atei? (max 4 righe)

22

Qual è il motivo che spinge la ragione a ipotizzare l’esistenza di due principi, Bene e Male, secondo Bayle in T9? (max 2 righe)

DIALOGO CON

CARTESIO: GASSENDI

E

ARNAULD

3

Quali sono le critiche di Gassendi a Cartesio? (max 6 righe)

4

In un massimo di 3 righe sintetizza le forme di conoscenza definite da Arnauld.

L’ORDINE

METAFISICO:

MALEBRANCHE

5

Spiega in un massimo di 4 righe la tesi di Malebranche che solo Dio agisce, riferendoti sia alla teoria della conoscenza che alla fisica.

6

Che cos’è l’arbitrarismo cartesiano e perché Malebranche lo rifiuta? (max 5 righe)

7

Quali sono le caratteristiche delle leggi di natura stabilite da Dio secondo Malebranche? (max 1 riga)

L’ORDINE

DEL CUORE:

PASCAL

8

Quali sono secondo Pascal i casi in cui sono più evidenti i limiti della ragione? (max 4 righe)

9

Definisci la nozione pascaliana di cuore in un massimo di 2 righe.

10

Che cos’è il divertissement e da cosa è provocato? (max 3 righe)

11

Quali sono i motivi principali dello scontro tra Pascal e i gesuiti? (max 8 righe)

CRITICA

DELLA TRADIZIONE E TEODICEA:

BAYLE

12

Con quali argomenti Bayle difende la preferibilità dell’ateismo sul fanatismo? (max 4 righe)

13

Che cos’è la coscienza «errante» secondo Bayle? (max 1 riga)

14

Perché il manicheismo è più razionale della tradizionale teologia cristiana? (max 2 righe)

230

Lavoriamo sui testi

Quali temi collegano il giansenismo all’agostinismo? (max 2 righe)

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

1. Spinoza 1. Lo ‘scandalo’ dello spinozismo 2. Una vita ‘per la verità’ 3. Il Dio-Natura dimostrato con «metodo geometrico» 4. Antropologia e morale 5. La teoria della conoscenza 6. La critica della religione rivelata

2. Leibniz 1. L’ultima armonia 2. Un genio universale tra teoria e prassi

3. Anime come specchi: la rappresentazione del mondo 4. La logica e i suoi presupposti metafisici 5. Sostanza e mondo 6. Il finalismo, Dio e i possibili, la libertà

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Spinoza, Etica ♦ Tesi a confronto: Spinoza ateo o «ebbro di Dio»: chi è il Dio di Spinoza?

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

1

Spinoza I testi

B. Spinoza Epistolario: La libera ricerca come valore supremo, T1; La libertà vera e la libertà fittizia, T4 Etica: Le definizioni di sostanza, attributo, modo, T2; La legge necessaria della natura divina, T3; La libera potenza di Dio, T5; L’ordine necessario delle cose, T6; L’equivocità del nostro parlare di Dio, T7; Il carattere illusorio della libertà di scelta, T8; La natura necessaria di tutti gli affetti, T9; La regola di vita del saggio, T10; La conquista della serenità,

1

Bayle: Spinoza come ateo virtuoso

Spinoza è veramente ateo?

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T11; «Nulla è più utile all’uomo degli altri uomini», T12; Le forme della conoscenza, T13; La conoscenza immaginativa è in sé positiva, T14; La difficile via della saggezza, T15 Trattato teologico-politico: La credulità umana è figlia della paura, T16; L’origine delle lotte di religione, T17; Lo scontro sulla interpretazione delle Scritture, T18; Studio della Scrittura e studio della natura, T19; La fede e la libertà di filosofare, T20; Elogio dell’uomo virtuoso e saggio, T21; Il miracolo nasce dall’ignoranza delle leggi naturali, T22

Lo ‘scandalo’ dello spinozismo Per più di un secolo dal loro primo diffondersi, il complesso di idee che la tradizione storica ha individuato come proprie della filosofia di Spinoza – designate con il termine «spinozismo» – furono oggetto di polemiche violente. Su Spinoza caddero gli anatemi delle gerarchie ecclesiastiche di diverse religioni, ma non solo: anche filosofi di opposte correnti posero ogni cura nel prendere le distanze dal suo pensiero. Per quel che si riteneva di conoscerne, esso apparve, infatti, come uno scandalo, perché fu considerato ateo, determinista e materialista, nonostante fosse generalmente riconosciuta l’onestà di costumi dell’uomo Spinoza. Unione di ateismo e virtù che creava anch’essa scandalo, in quanto contraddiceva la convinzione comune del legame necessario tra religione e morale. Alla formazione e diffusione di quest’immagine dello spinozismo – dominante sino alla fine del Settecento – contribuì soprattutto l’articolo Spinoza del Dizionario storico-critico (1697) di Bayle, un’opera in cui le dottrine sia filosofiche che religiose non venivano solo esposte in brevi voci enciclopediche ma anche discusse criticamente. A Bayle si deve uno dei primi ritratti del pensatore olandese come «ateo virtuoso» e la definizione del suo pensiero come un ateismo «di sistema», svolto «secondo un metodo tutto nuovo», cioè una «dottrina coerente e concatenata alla maniera dei matematici». La fondatezza di quest’accusa di ateismo costituisce uno dei punti più controversi nella storia della ricezione dello spinozismo, sino ai nostri giorni: respinta dallo stesso Spinoza – anche se forse per motivi di mera prudenza – essa fu poi capovolta dai romantici (fine XVIII - prima metà XIX secolo), che aderirono entusiasticamente al pensiero spinoziano sulla base di un’interpretazione fortemente religiosa di esso. Anche nella storiografia spinoziana dell’ultimo secolo – contraddistinta da un maggiore distacco critico – vi è un filone interpretativo che non ha esitato a definire «gratuita» l’ipotesi dell’‘ateismo’ di Spinoza.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Le reazioni dei contemporanei e dei pensatori settecenteschi non possono, però, essere considerate come del tutto ingiustificate, o motivate da meri interessi politici e confessionali. Infatti, è indubbio che il Dio di Spinoza non è né il Dio dei teologi né quello dei filosofi: l’equiparazione spinoziana di Dio con la Natura – intesa come cosmo meccanicamente determinato da leggi necessarie – si presenta piuttosto come consapevole alternativa rispetto alla concezione giudaicocristiana di Dio come Ente personale trascendente. Di questa Spinoza offre una confutazione condotta con una coerenza sistematica assente nei pensatori precedenti, che pure si erano distaccati dalla tradizione. La salvezza attraverso Su questa nuova base, Spinoza pone sì al centro della propria indagine un prola saggezza blema classico della tradizione filosofica occidentale: il problema di quale sia la strategia adeguata per raggiungere la salvezza, ossia per sottrarre l’uomo – e i suoi beni – alla fragilità propria della finitezza. La soluzione che egli elabora non è più, però, la consolazione offerta dalla fede nella Provvidenza o nell’aldilà: per Spinoza la strada maestra per raggiungere la salvezza è piuttosto la saggezza intesa come «meditazione della vita», fondata su una comprensione naturalistica del mondo e degli «affetti umani».

Il Dio di Spinoza non è quello dei teologi

2

Una vita ‘per la verità’

L’eccentricità del pensiero spinoziano appena messa in rilievo non costituisce il frutto geniale di una meditazione solitaria, bensì piuttosto il risultato dell’originale confronto critico con suggestioni di natura molteplice: 1) da un lato, la tradizione religiosa, filosofica e mistica dell’ebraismo; 2) dall’altro, lo studio approfondito dei testi della nuova scienza della natura e di diverse correnti filosofiche – dalla Scolastica al naturalismo rinascimentale e alla filosofia cartesiana – reso possibile dal vivace ambiente culturale dell’Olanda del Seicento. L’ambiente olandese, Spinoza nasce e vive, infatti, in uno dei momenti di massimo splendore della stoliberale e tollerante ria d’Olanda che, godendo all’epoca della fama di patria della tolleranza, aveva attirato i principali spiriti liberi. Tuttavia, ciò non impedì a Spinoza di essere in più occasioni vittima di quell’«odio teologico» da lui stesso aspramente criticato: dall’espulsione dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam per sospetto di eterodossia, alle molteplici condanne del Trattato teologico-politico – uscito anonimo nel 1670 – da parte non solo delle autorità ecclesiastiche, ma anche dei poteri civili. Tra ebraismo e nuova scienza

La vita e le opere Baruch Spinoza nacque ad Amsterdam nel 1632. Proveniente da una famiglia ebraica di origini portoghesi, frequentò a partire dal 1639 la scuola ebraica, acquistando familiarità con la lingua e la tradizione religiosa dell’ebraismo (Antico Testamento e Talmud, l’insieme di scritti per l’interpretazione della legge ebraica). Dal 1652 studiò il latino, che gli permise di leggere i massimi autori della filosofia contemporanea. Nel 1656, a causa delle sue posizioni contrastanti con la rigida ortodossia religiosa, venne bandito dalla sinagoga. L’espulsione gli

impedì di continuare a lavorare nell’attività commerciale di famiglia: Spinoza scelse di vivere povero, lavorando come politore di lenti di cannocchiali e microscopi, e intanto venne a contatto con varie sette cristiane e continuò lo studio della filosofia e del latino. Tra il 1658 e il 1659 probabilmente scrisse in latino il Tractatus de intellectus emendatione («Trattato sull’emendazione dell’intelletto»), rimasto incompiuto. Nel 1660 scrisse in olandese il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, che fu riscoperto e pubblicato solo nel 1862 e che offre una prima versione del pensiero

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

spinoziano. Parte di esso venne riformulata secondo il metodo geometrico nel 1662 e costituisce la prima parte, su Dio, dell’Ethica more geometrico demonstrata («Etica dimostrata con metodo geometrico»), l’opera che occupò Spinoza per tutta la vita. Dal 1661 Spinoza si trasferì a Rijnsburg e nel 1663 pubblicò Renati Des Cartes principiorum philosophiae pars I e II («Principi della filosofia cartesiana») una sintesi della filosofia di Cartesio esposta «secondo il metodo geometrico» con in appendice i Cogitata metaphysica («Pensieri metafisici»), in cui Spinoza esprime le proprie riflessioni. Nel 1663 si trasferì vicino a L’Aja ed entrò in relazione con il segretario della Royal Society londinese Henry Oldenburg con cui scambiò negli anni molte delle numerose lettere che compongono il suo interessantissimo Epistolario. Conobbe in questo periodo anche Jan de Witt, il massimo esponente del partito liberale e democratico olandese, che gli assegnò una pensione annua. Nel 1670 pubblicò anonimo il Tractatus theologico-politicus («Trattato teologico-politico»), che difende la libertà di coscienza e sostiene il valore della tolleranza religiosa. Il liLa reticenza di Spinoza a pubblicare

Un atteggiamento prudente e strategico

Un forte spirito d’indipendenza e la passione per la verità

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bro fu ben presto inserito nell’Indice dei libri proibiti e condannato anche dai protestanti. In quell’anno Spinoza si trasferì in città, a L’Aja. Nel 1672 le vicende politiche olandesi portarono alla sconfitta del governo repubblicano e al feroce assassinio di Jan de Witt. Nel 1673 Spinoza rifiutò una cattedra all’università di Heidelberg. Nel 1675 pensò di pubblicare l’Etica ma rinunciò perché era sicuro che sarebbe stata accolta con odio. L’opera, ormai completa, si compone di cinque parti intitolate: «Dio»; «La natura e l’origine della mente»; «La natura e l’origine degli affetti»; «La schiavitù umana e la forza degli affetti»; «La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana». Negli ultimi anni Spinoza lavorò anche a un Tractatus politicus («Trattato politico»), che lasciò incompiuto. Morì nel 1677 e in quello stesso anno vennero pubblicate le Opere postume (comprendenti l’Etica, il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, l’Epistolario, il Trattato politico e una Grammatica della lingua ebraica in compendio) subito inserite nell’Indice e mai più pubblicate fino all’Ottocento.

Non sorprende, dunque, che Spinoza abbia esitato a dare alle stampe i suoi scritti: il suo capolavoro, l’Ethica more geometrico demonstrata, uscì nella raccolta di Opere postume – pubblicata l’anno stesso della sua morte, con le sole iniziali B.D.S., senza editore e senza luogo – insieme alle Lettere e ad altri scritti rimasti incompiuti, cioè il giovanile Trattato sull’emendazione dell’intelletto, il Trattato politico e la Grammatica della lingua ebraica in compendio; un altro scritto giovanile, cioè il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, fu scoperto e pubblicato unicamente nel corso dell’Ottocento. Non è un caso che l’unico libro che Spinoza pubblicò durante la propria vita siano i Principi della filosofia cartesiana – comprendenti in appendice i Pensieri metafisici – vale a dire un’opera in cui egli offre un’esposizione, condotta secondo il metodo geometrico, dei capisaldi non del proprio pensiero, bensì di quello cartesiano, che pure per molti aspetti non condivideva. La reticenza di Spinoza a rendere pubbliche le proprie idee – che peraltro non ne impedì la diffusione già durante la sua vita, grazie alla precoce formazione di un circolo spinoziano – è espressione di prudenza, ma non di mancanza di coraggio. Essa è da ricondurre piuttosto, oltre al sincero rispetto per le leggi e consuetudini del proprio Paese, soprattutto al desiderio di conservare le condizioni esterne necessarie per proseguire la ricerca della verità e «affermare in ogni modo la libertà di filosofare». La preoccupazione di salvaguardare la propria indipendenza caratterizza in maniera costante, infatti, il comportamento di Spinoza, come traspare da due atti pubblici particolarmente significativi, all’inizio e alla fine della sua vicenda intellettuale. Il primo è la scelta di non accettare la pensione che il comitato direttivo della comunità ebraico-portoghese di Amsterdam gli aveva offerto, a condizione di non manifestare il proprio dissenso: piuttosto che rinunciare alla libertà di esprimere le proprie convinzioni, Spinoza preferì affrontare le difficoltà economiche causate dalla scomunica – che lo costrinse a interrompere l’attività commerciale svolta sino a quel momento insieme al fratello – dedicandosi alla levigatura delle lenti per telescopio e microscopio, in cui raggiunse peraltro ben presto grande perizia e fama. Il secondo è il rifiuto di una cattedra alla prestigiosa università di Heidelberg, offer-

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

tagli nel 1673 dall’Elettore del Palatinato Carlo Luigi per tramite di J. Ludovicus Fabritius – professore della medesima università – con l’annotazione che lì avrebbe goduto della «più ampia libertà di filosofare», di cui però si aveva fiducia che non avrebbe abusato per turbare la religione pubblicamente professata. A tale invito Spinoza rispose esprimendo il desiderio di dedicarsi in maniera esclusiva e, soprattutto, senza limiti o imposizioni, alla ricerca della verità, per la quale nutriva forse la sola passione che lo abbia animato con intensità costante.

T1

La libera ricerca come valore supremo B. Spinoza, Epistola XLVIII

3

Il metodo geometrico come garanzia di rigore e certezza

Estensione del metodo all’ambito morale

Illustrissimo signore, […] non posso essere indotto ad afferrare questa splendida occasione, anche se ho ponderato a lungo fra me la cosa. Penso infatti innanzitutto che se volessi dedicarmi all’educazione dei giovani dovrei abbandonare la ricerca filosofica. Inoltre penso di non sapere entro quali limiti si debba contenere codesta libertà di filosofare, per non dare l’impressione di voler turbare la religione pubblicamente istituita: poiché gli scismi nascono non tanto da un ardente zelo religioso, quanto piuttosto dalla varietà delle passioni umane ovvero dallo spirito di contraddizione, per cui c’è l’abitudine di distorcere e condannare tutte le affermazioni, anche se giuste. E siccome ho già fatto esperienza di queste cose nel condurre vita privata e solitaria, avrò molto più da temerne una volta innalzato a quel grado di importanza. Vedete dunque, illustre signore, che se non mi muovo non è per la speranza di una migliore fortuna, ma per amore di quella tranquillità, che non credo di potere ottenere in altro modo se non con l’astenermi dal pubblico insegnamento.

Il Dio-Natura dimostrato con «metodo geometrico» Spinoza dedica alla trattazione del concetto di Dio la prima parte della sua Etica, in cui confluiscono le riflessioni sull’argomento già svolte negli scritti precedenti – in particolare nella prima sezione del Breve trattato giovanile e nel Trattato teologico-politico – rielaborate e soprattutto ordinate sistematicamente, secondo il «metodo geometrico» che dà il titolo all’opera. Quest’ultimo consiste in un procedimento argomentativo ed espositivo che, partendo da definizioni, assiomi e postulati, si svolge sinteticamente attraverso «proposizioni», spesso accompagnate da corollari e scolii, cioè commenti aggiunti a ulteriore chiarimento di un concetto. La scelta di adoperare tale procedimento – che Spinoza denomina «metodo geometrico», con chiaro riferimento agli Elementi del matematico greco Euclide (IV-III secolo a.C.) – è dettata innanzitutto dall’idea che le scienze matematiche costituiscano un modello di rigore e certezza. Si tratta di una convinzione che Spinoza condivide con la maggior parte dei principali pensatori dell’epoca, da Cartesio a Hobbes. Nell’Etica, però, egli allarga in modo peculiare l’ambito di applicazione del metodo geometrico, adoperandolo per la prima volta per trattare temi che vanno dalla metafisica alla psicologia sino alla morale: secondo i presupposti fondamentali dell’ontologia spinoziana, il metodo geometrico è, infatti, l’unico strumento appropriato per indagare ogni ambito della realtà, in quanto nel suo complesso quest’ultima non è altro che un intero geometricamente ordinato di cose concatenate in maniera necessaria, e dunque sistematicamente deducibili l’una dall’altra. 235

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’unicità della sostanza Seguendo questo metodo, nella prima parte dell’Etica Spinoza fa discendere da una serie di definizioni e assiomi tutto quanto concerne la natura di Dio, inteso quale sostanza dotata di infiniti attributi. La base di questa costruzione è costituita dalle definizioni di tre nozioni chiave della metafisica spinoziana, cioè quelle di «sostanza», «attributo» e «modo».

T2

Le definizioni di sostanza, attributo, modo

B. Spinoza, Etica, 1, def. 3, 4 e 5

La sostanza: autonomia ontologica e conoscitiva

I modi: dipendenza ontologica e conoscitiva

Gli attributi: qualità essenziali della sostanza

La sostanza è causa di se stessa, increata ed eterna

236

Per sostanza intendo ciò che è in sé e per sé si concepisce: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra da cui debba essere formato. Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per cui anche viene concepito. La definizione della sostanza è divisa in due parti. Nella prima parte, Spinoza afferma che essa è «ciò che è in sé», intendendo dire che la sostanza è ciò che ha in se stessa, e non in altro, la causa della propria esistenza. Nella seconda parte, egli si riferisce invece alla conoscibilità della sostanza, affermando che essa è ciò che «per sé si concepisce»: questa formulazione si comprende solo tenendo conto che per Spinoza la conoscenza vera è conoscenza genetica, cioè conoscenza della causa di una determinata cosa. Ora, la sostanza è ciò che «per sé si concepisce», proprio in quanto – essendo causa di se stessa – la sua conoscenza non presuppone il concetto o la conoscenza di nient’altro. La definizione di «modi» esprime una realtà opposta sia sul piano ontologico sia su quello della conoscenza. Questi sono, infatti, le molteplici forme (alterazioni, «affezioni») in cui la sostanza si esprime. In quanto tali, i modi di ogni specie non hanno la causa della propria esistenza in sé, bensì «in altro», cioè nella sostanza stessa, la quale viene così a essere anche la condizione necessaria della loro conoscibilità. Fra la sostanza e i modi nell’ontologia spinoziana si collocano gli attributi, ossia le qualità che costituiscono l’essenza della sostanza e le ineriscono in maniera necessaria. Tra gli attributi e la sostanza esiste un legame così stretto che possiamo separarli solo attraverso la ragione. Occorre dunque determinare i loro rapporti reciproci e distinguere le caratteristiche dell’una e degli altri. Da un lato, per Spinoza non possono esistere due sostanze del medesimo attributo: dal momento che l’attributo è un tratto distintivo della sostanza, infatti, due sostanze costituite dal medesimo attributo non si distinguerebbero in nulla e, dunque, di fatto sarebbero una sola e identica sostanza. Dall’altro lato, egli afferma che non vi è nulla di assurdo nel concepire una sostanza dotata di più attributi. A partire da queste premesse, Spinoza deduce le proprietà generali della sostanza. Le principali sono riconducibili, in ultima analisi, alla concezione di quest’ultima come «causa sui», ossia come «causa di se stessa». Secondo la definizione spinoziana, infatti, una cosa che è «causa di se stessa» è ciò la cui essenza implica necessariamente l’esistenza, ossia ciò che non può non esistere. Ma abbiamo già visto che la sostanza è per definizione ciò che è causa di sé in senso ontologico; identificandola con la causa sui affermiamo dunque che esiste anche in modo necessario. Tutto questo equivale a dire che essa è increata ed eterna.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Gli attributi sono infiniti nel loro genere

La sostanza è una: monismo

La sostanza è Dio

Non esistono sostanze create

Inoltre, per Spinoza la sostanza – in quanto causa di sé – esiste necessariamente come infinita, cioè come dotata di infiniti attributi: ciò che è causa di sé è, infatti, infinito, non essendo determinato e limitato da nient’altro nel darsi l’esistenza. In quanto costitutivi della sostanza divina, anche i singoli attributi sono infiniti, ma in maniera diversa rispetto alla sostanza. L’infinità che compete a ciascun attributo è, infatti, un’infinità relativa, che si riferisce cioè a un solo genere: per esempio, l’attributo del pensiero è infinito solo in quanto esprime tutta la realtà e perfezione di un aspetto dell’essenza della sostanza, cioè il pensiero, ma la sua infinitezza non riguarda in nessun modo altri aspetti della medesima essenza, come per esempio l’estensione (vedi sotto, p. 238). Quella che compete alla sostanza è invece un’infinità assoluta, che comprende al suo interno tutti gli attributi. Dall’affermazione dell’infinità assoluta della sostanza discende quella della sua unicità, che costituisce il tratto peculiare dell’ontologia spinoziana, per questo motivo correntemente definita come monistica. Come si è già detto, infatti, Spinoza esclude che in natura possano esistere due sostanze del medesimo attributo, ossia che abbiano in comune la medesima qualità essenziale. Si potrebbero allora ammettere due sostanze costituite da attributi diversi; ma anche questo è impossibile, una volta posto – come fa Spinoza – che la sostanza non può che esistere come infinita, cioè come dotata di infiniti attributi. Essendo infinita in senso assoluto, infatti, essa comprende nella sua essenza tutti i possibili aspetti del reale, sia quelli che noi conosciamo (pensiero ed estensione) che altri che non siamo in grado di concepire. Di qui la conclusione che «non esiste che una sola sostanza» infinita, che non è altro che Dio, dal momento che, come si è detto all’inizio di questo paragrafo, Spinoza concepisce Dio come sostanza dotata di infiniti attributi: «Oltre Dio non si può dare né concepire alcuna sostanza». Attraverso la dimostrazione di tale affermazione, Spinoza prende espressamente le distanze rispetto a quello che egli considera come uno dei principali equivoci della filosofia di Cartesio che – oltre alla «sostanza prima» e infinita di Dio – aveva ammesso anche, come «sostanze seconde» e «create», l’estensione (la res extensa) e il pensiero (la res cogitans), o meglio la pluralità delle sostanze pensanti (vedi Unità 3, p. 148 ss.). Per Spinoza, invece, come si è visto, non ha senso parlare di «sostanze create», dal momento che la sostanza è per definizione ciò che è causa di sé; di conseguenza, egli concepisce il pensiero e l’estensione non come «due diverse sostanze», bensì esclusivamente come due degli infiniti «attributi» che costituiscono l’essenza dell’unica sostanza increata e infinita, che è Dio.

L’ontologia di Spinoza

Sostanza

Infiniti attributi che non conosciamo

Distinzione reale: non ammette intercausalità

Essenza della sostanza

Attributo pensiero

Modi del pensiero: sono in altro e si concepiscono grazie ad altro

Distinzione reale: non ammette intercausalità

La sostanza è infinita

Attributo estensione

Modi dell’estensione: sono in altro e si concepiscono grazie ad altro

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il Dio-sostanza: liquidazione del Dio-persona e della «creatio ex nihilo» Dio è anche materia

Rottura con la tradizione e con Cartesio

➥ Percorso tematico, p. 753 La sostanza non è divisibile né passiva

Dio è immanente

Dio è causa immanente e continua

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Già dalle ultime osservazioni emerge in modo chiaro una delle innovazioni più radicali che il monismo spinoziano implica nel modo di concepire la divinità. Includere l’estensione tra gli attributi della sostanza significa, infatti, concepire Dio anche come materia, dato che l’estensione è, a partire da Cartesio, l’attributo essenziale della materia. Ciò rappresenta un’aperta e consapevole rottura con la concezione di Dio come «puro spirito», condivisa da una secolare tradizione religiosa e filosofica che arriva sino a Cartesio. Spinoza prende espressamente posizione contro coloro che «negano che Dio sia corporeo», adducendo innanzitutto gli argomenti generali appena esposti, il cui significato fondamentale è l’idea che l’infinità della sostanza non può esaurirsi in una sola forma dell’Essere: per questo Dio, oltre che pensiero, deve essere anche estensione. Coloro che «cercano di dimostrare che la sostanza corporea è indegna della natura divina, e non può appartenerle» si sono basati sull’assunto che la materia sia divisibile, e in quanto tale finita – si può, infatti, dividere solo ciò che è composto di parti finite – e passiva – perché ciò che viene diviso patisce su di sé un’azione – dunque incompatibile con la perfezione divina. Per Spinoza, la divisibilità e la passività riguardano la materia solo in quanto essa si particolarizza in modi finiti; come parte dell’essenza di Dio, invece, l’estensione non è divisibile, in quanto tutti gli attributi, come si è visto, sono infiniti nel loro genere, e di conseguenza non sono né divisibili né passivi. La portata innovativa del monismo spinoziano rispetto alla concezione tradizionale del divino non si esaurisce nella tesi della corporeità di Dio, bensì va ben oltre. In primo luogo, la corrispondenza biunivoca che Spinoza stabilisce tra Dio e la sostanza è alla radice del rifiuto della concezione di Dio come essere trascendente – cioè al di là e al di sopra del mondo – e a favore di una concezione immanentistica, secondo la quale «Tutto ciò che è, è in Dio, e niente può essere né essere concepito senza Dio». Nel sistema spinoziano, infatti, affermare che al di fuori di Dio non può esserci alcuna altra sostanza, equivale ad affermare che al di fuori di Dio non può esserci nulla, dal momento che, oltre alla sostanza, per Spinoza esistono solo i «modi» che, però, non sono altro che le molteplici forme, infinite e finite, in cui la sostanza stessa si esprime, attraverso la particolarizzazione dei suoi attributi. Precisamente, per Spinoza i modi sono interni alla sostanza – che ne è la causa – in quanto egli attribuisce a Dio una «causalità immanente», cioè una causalità consistente nel produrre effetti che non sono separati dalla causa, bensì continuano a sussistere in essa, mentre, reciprocamente, la causa continua a operare in loro. A differenza di quanto avviene nella creazione, che è invece un tipo di causalità transitiva, consistente nel produrre qualcosa che poi esiste separatamente dal creatore. La distanza della causalità del Dio spinoziano rispetto alla creazione del mondo dal nulla attribuita a Dio dalla tradizione religiosa e filosofica occidentale, risulta ancora più marcata, se si prendono in considerazione le proposizioni 16 e 17 della prima parte dell’Etica, che vale la pena citare per intero, pur omettendo le relative dimostrazioni.

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T3

La necessità della natura divina B. Spinoza, Etica, 1, prop. 16 e 17

Dalla necessità della divina natura devono seguire infinite cose in infiniti modi […]. Dio agisce per le sole leggi della sua natura e non costretto da alcuno.

La prima proposizione esprime la concezione dinamica ed espansiva dell’infinito caratteristica di Spinoza, in base alla quale una sostanza infinita, quale è Dio, non può che esplicare una causalità infinita, esprimendosi nelle infinite cose e negli infiniti modi che costituiscono la Natura. Ciò significa che la causalità del Dio spinoziano è caratterizzata da una ferrea necessità, che la distingue in maniera essenziale dalla creazione in quanto atto di libero arbitrio. Un Dio che non può che produrre infinite cause, infatti, non è libero nel senso di potere creare o non creare qualunque cosa voglia. Dio è libero Tuttavia, come viene messo in rilievo nella seconda proposizione, la necessità della causalità divina non elimina la libertà come la intende Spinoza. Per quest’ultimo, infatti, nel suo unico vero significato la libertà sta a indicare non la libertà d’indifferenza – cioè la facoltà di scelta priva di motivazione e completamente indifferente rispetto alle conseguenze (sulla critica di quest’ultima, vedi anche T8) – bensì l’autodeterminazione ad agire senza condizionamenti esterni, in base alla sola «necessità della propria natura».

La causalità divina è infinita e necessaria

T4

La libertà vera e la libertà fittizia

B. Spinoza, Epistola LVIII

Io dico che è libera quella cosa che esiste ed agisce per la sola necessità della sua natura: è invece costretta quella che è determinata ad esistere e a operare in un certo e determinato modo. Per esempio, Dio esiste liberamente anche se necessariamente, poiché esiste per la sola necessità della sua natura. Allo stesso modo Dio comprende se stesso e tutte le cose in modo assolutamente libero, poiché è conseguenza della sola necessità della sua natura che comprenda tutto. Vedete dunque che io metto la libertà non nella libera decisione, ma nella libera necessità. Ma scendiamo alle cose create, che sono tutte determinate a esistere e a operare in un certo e determinato modo. Per intendere questo con chiarezza pensiamo a una cosa semplicissima: una pietra, per esempio, riceve in base a una causa esterna una certa quantità di moto con la quale poi, cessato l’impulso della causa esterna, continuerà necessariamente a muoversi. Dunque questo continuare della pietra nel moto è coatto, non perché sia necessario, ma perché deve essere definito dall’impulso della causa esterna. E quel che dico qui della pietra si deve intendere di qualunque cosa singola, per quanto la si concepisca composta e atta a più cose: in altri termini, ciascuna cosa è necessariamente determinata da qualche causa esterna a esistere e a operare in un certo e determinato modo. Proviamo ora a pensare che la pietra, mentre comincia a muoversi, pensi, e sappia di sforzarsi, per quanto è in suo potere, di continuare il movimento. Essa a questo punto, in quanto puramente consapevole del proprio sforzo, che non le è indifferente, si crederà di essere perfettamente libera e di continuare nel suo moto per il semplice motivo che lo vuole. Così è fatta la famosa libertà umana, di cui tutti si vantano: consiste nel semplice fatto che gli uomini conoscono il proprio desiderio e ignorano le cause da cui sono determinati. Così il bambino crede di desiderare liberamente il latte, il ragazzo rissoso la vendetta, il pauroso la fuga; e l’ubriaco crede di dire per libera scelta cose che poi, da sobrio, vorrebbe avere taciuto; e ancora gli squilibrati, i chiacchieroni, e tanta gente del genere, 239

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credono di agire per libera scelta, e non di essere trascinati da impulsi. E trattandosi di un pregiudizio innato in tutti gli uomini non è facile liberarsene. Sebbene infatti l’esperienza mostri più che a sufficienza che gli uomini di nulla sono meno capaci che di controllare i propri istinti, e che spesso, combattuti da affetti contrari, vedono il meglio e si attengono al peggio, si credono tuttavia liberi. Il motivo è che alcune cose le desiderano debolmente e l’istinto verso di esse può essere facilmente represso ricorrendo alla memoria di un’altra cosa di cui spesso ci ricordiamo. Con ciò ho abbastanza spiegato, se non erro, il mio pensiero sulla necessità libera e coatta, e sulla fittizia libertà umana. Nel Dio-sostanza non c’è opposizione tra necessità e libertà

T5

La libera potenza di Dio B. Spinoza, Etica, 1, scolio alla prop. 17

La vera potenza di Dio è infinita e in atto

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Nella prospettiva di Spinoza, dunque, viene meno l’opposizione tra necessità e libertà, e il Dio-sostanza, pur essendo necessitato a produrre infiniti modi, risulta essere una causa sommamente libera: dal momento che al di fuori di esso non vi è nulla che possa costringerlo, la sua azione causale è determinata, infatti, in maniera esclusiva e necessaria dalle «leggi della sua natura». Su questo punto il distacco dalla tradizione è molto profondo, e Spinoza stesso avverte l’esigenza di segnalarlo, confutando le ragioni degli avversari. Altri credono che Dio sia causa libera, perché – secondo loro – può far sì che non avvengano o non siano prodotte da lui quelle cose che noi abbiamo detto procedere dalla sua natura, che sono cioè in suo potere. […] Dicono che se avesse creato tutte le cose che aveva nel suo intelletto, allora non avrebbe potuto creare di più, e credono che questo ripugni all’onnipotenza di Dio. Ma io ritengo di avere dimostrato abbastanza chiaramente che dalla somma potenza di Dio – ossia dalla sua infinita natura – infinite cose in infiniti modi sono derivate necessariamente, e seguono sempre per la stessa necessità: nel medesimo modo che dalla natura del triangolo – dall’eternità e per l’eternità – segue che i suoi tre angoli devono essere eguali a due retti. Dunque l’onnipotenza di Dio fu in atto dall’eternità e per l’eternità, e per l’eternità rimarrà nella stessa attualità. E in questo modo si stabilisce, a mio parere, una onnipotenza di Dio di gran lunga più perfetta. Pare anzi che gli avversari (sia lecito parlare apertamente) neghino l’onnipotenza di Dio. Sono infatti costretti ad ammettere che Dio intende infinite cose creabili, che tuttavia non potrà mai creare. Altrimenti, infatti, se cioè egli creasse tutto ciò che intende, secondo loro esaurirebbe la sua onnipotenza e si renderebbe imperfetto. Dunque, per affermare che Dio è perfetto, sono ridotti a dovere simultaneamente ammettere, che egli non può compiere tutte le cose, a cui la sua potenza si estende; e non vedo che cosa si possa immaginare di più assurdo di ciò, o di più ripugnante alla divina onnipotenza. Il principale obiettivo polemico di Spinoza è la dottrina dei filosofi scolastici che, per salvare la libertà della creazione, avevano affermato che Dio sceglie liberamente di portare all’esistenza ciò che vuole, tra le essenze – cioè gli archetipi delle cose – presenti attualmente nel suo intelletto. Per Spinoza tale dottrina limita e nega la perfezione divina, in quanto in realtà implica una riduzione inaccettabile della sua onnipotenza. In Dio – come causa di sé, la cui essenza implica necessariamente l’esistenza – non vi è differenza tra potenza (ciò che potrebbe accadere ma non è detto che accada) e atto (ciò che accade effettivamente), né in lui si possono distinguere l’intelletto dalla volontà, per cui è assurdo pen-

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sare che egli abbia la facoltà di non mettere in atto qualcosa che è in suo potere. Se Dio non avesse creato qualcosa che era nel suo intelletto, ciò potrebbe dunque dipendere solo da un limite della sua potenza, la cui ammissione costituirebbe, però, una negazione completa della tesi dell’onnipotenza divina. Se intendere quest’ultima come arbitrio sciolto da ogni legge – analogo a quello di un monarca assoluto – è contraddittorio, non resta che concepirla secondo il modello geometrico-matematico, cioè come una potenza infinita da cui tutte le cose esistenti derivano in maniera necessaria, così come le diverse proprietà del triangolo discendono dall’essenza del triangolo (la somma dei tre angoli interni è sempre uguale a due angoli retti).

Il determinismo e la confutazione del pregiudizio finalistico La concezione della causalità divina come causalità infinita, necessaria e immanente si ripercuote inevitabilmente anche sulla maniera di intendere il mondo, che da tale causalità è prodotto. In primo luogo, se il Dio-sostanza è causa di sé, che non può non esistere producendo in maniera necessaria le infinite cose che costituiscono l’universo, quest’ultimo risulterà, nel suo complesso, anch’esso infinito, increato ed eterno come Dio. Tesi che costituisce un ulteriore colpo inflitto alla tradizionale nozione di creazione come produzione del mondo dal nulla. La contingenza In secondo luogo, un Dio che esercita una causalità necessaria non può che pronon esiste durre un ordine necessario. Ciò significa che per Spinoza in natura «non vi è nulla di contingente», cioè nessuna cosa esistente che avrebbe potuto anche non essere, o essere diversamente da come è: tutto è e accade necessariamente, in quanto determinato a esistere e ad agire dalla necessità della natura divina; qualcosa ci appare contingente solo perché ignoriamo la causa che l’ha prodotta.

Il mondo è infinito, increato ed eterno

T6

L’ordine necessario delle cose

B. Spinoza, Etica, 1, prop. 33

Le cose non poterono essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera, né in un ordine diverso da come sono state prodotte. Dimostrazione: Tutte le cose, infatti, sono seguite necessariamente dalla data natura di Dio (per la proposizione 16), e sono state dalla necessità della natura di Dio determinate a esistere e a operare in un certo modo […]. Se dunque le cose fossero potute essere di un’altra natura, o essere in un altro modo determinate a operare, così che l’ordine della natura fosse diverso; allora anche la natura di Dio potrebbe essere diversa da quella che già è; perciò […] anch’essa dovrebbe esistere, e di conseguenza ci potrebbero essere due o più Dei; il che […] è assurdo. Quindi le cose in nessun’altra maniera, né in un ordine diverso, eccetera. Come dovevasi dimostrare.

La causalità necessaria di Dio si esplica in due diverse maniere, in quelli che Spinoza definisce rispettivamente i «modi infiniti» e i «modi finiti». Modi infiniti: eterni I primi sono le proprietà costitutive degli attributi, che – derivando direttamenma causati te o indirettamente da questi ultimi – ne condividono l’infinitezza: per esempio, modi «infiniti» immediati dell’attributo dell’estensione sono il moto e la quiete, in quanto tutti i corpi che esistono o sono in quiete o sono in movimento. I modi infiniti derivano dagli attributi di Dio dall’eternità, in base a un rapporto di derivazione causale che è dunque sovra-temporale. 241

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Parte prima La nascita della filosofia moderna I modi finiti sono singoli, limitati nel tempo e nello spazio, determinati da altro

Il Dio-sostanza è la Natura

Identità dinamica tra sostanza e modi: Natura madre e figlia di se stessa

Negazione del finalismo antropocentrico

La nascita del pregiudizio finalistico ➥ Laboratorio di lettura, p. 305

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I modi finiti sono, invece, le cose singole, cioè le concretizzazioni particolari degli attributi, limitate nello spazio e nel tempo: l’attributo dell’estensione si particolarizza, per esempio, in una pietra, nel corpo di un dato animale o di un dato uomo. Dal momento che da Dio e dai suoi attributi non possono seguire che effetti infiniti, Dio non può essere causa dei modi finiti in maniera immediata. Per questo motivo, Spinoza indica la causa immediata di ogni cosa singola in un’altra cosa singola, la quale a sua volta è determinata a esistere e ad agire da un’altra cosa singola, e così via in un regresso all’infinito di cause finite, regolato in maniera necessaria dalla legge di causa-effetto. Alla radice di tutto questo processo vi è, però, il Dio-sostanza, che si conferma dunque come la causa prima ed efficiente di tutte le cose, anche di quelle infime: non in quanto assoluto, bensì in quanto si articola e si esprime nella serie infinita delle cause finite, ciascuna delle quali non è altro che la sostanza stessa in uno dei suoi aspetti particolari. Alla luce di quanto detto, risulta in modo chiaro come il Dio-sostanza spinoziano non sia altro che la Natura, intesa non vitalisticamente come forza animata misteriosa e imprevedibile, bensì – nello spirito della scienza moderna – come ordine necessario ed eterno, meccanicisticamente determinato dalla legge di causa-effetto. Dio non è al di sopra della Natura e delle sue leggi, in quanto le leggi e la necessità dell’essenza divina altro non sono che leggi e necessità della Natura. Sulla base di queste premesse, Spinoza riprende la distinzione scolastica tra «Natura naturante» («Natura non creata e che crea») e «Natura naturata» («Natura creata»), caricandola però di un significato profondamente innovativo. Con il primo termine egli designa la sostanza e i suoi attributi in quanto causa libera, e con il secondo l’insieme dei modi visti come effetti; dal momento che questi ultimi, in quanto prodotti di una causalità immanente, sono interni alla stessa sostanza, è evidente che, nell’ontologia spinoziana, tale distinzione non sta a indicare una separazione, bensì piuttosto un rapporto di identità dinamica, in base alla quale la Natura è madre e figlia di se stessa. Dalla concezione della causalità divina come una causalità necessaria – e dalla conseguente affermazione del determinismo come principio universale – discende la negazione di ogni finalismo in natura e, in particolare, del finalismo antropocentrico, consistente nel considerare tutte le cose naturali come mezzi creati da Dio per l’utile dell’uomo. Una simile visione finalistica aveva dominato per secoli la metafisica e le tradizioni religiose occidentali – dai greci in poi – anche se, all’epoca di Spinoza, aveva già iniziato a mostrare i primi segni di crisi, sotto i colpi della rivoluzione copernicana e della rivoluzione scientifica: andavano in questa direzione il rifiuto del primato ontologico dell’uomo in Bruno (vedi Unità 1, p. 48 s.), o la negazione galileiana dell’interesse scientifico delle cause finali (vedi Unità 2, p. 100 ss.). Spinoza considera la concezione finalistica come un mero pregiudizio, o meglio come la radice di tutti i pregiudizi. Proprio per questo, nell’Etica egli non si limita a confutarla, ma – per rendere più credibile la propria critica – vuole anche rendere ragione della sua genesi e della forte capacità di attrazione che essa esercita. Quest’ultimo obiettivo è perseguito da Spinoza mediante un’analisi del comportamento comune degli uomini: secondo la sua spiegazione, il pregiudizio finalistico deriva, infatti, dal fatto che gli uomini nascono ignorando le cause efficienti di tutte le cose – anche dei loro stessi desideri – mentre sono immediatamente consapevoli del fine che si propongono, cioè la ricerca dell’utile. Questa condizione li induce a ritenere che il loro agire sia determinato non da cause effi-

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cienti, bensì da cause finali, cioè dall’utile che si pongono come scopo: proiettando la propria esperienza sulle cose naturali e sulla loro causa prima, essi giungono così a immaginare che tutto sia mosso da cause finali – e non da cause efficienti – e che il mondo sia stato creato per gli scopi degli uomini da un Dio mosso a sua volta dal fine di essere adorato dall’uomo. Il finalismo nasce In base alla genealogia appena illustrata, la concezione teleologica, o finalistica, dall’immaginazione risulta dunque essere un semplice frutto dell’immaginazione, la cui falsità è dimostrata da Spinoza innanzitutto attraverso il richiamo ai caratteri essenziali della causalità della sostanza: l’azione secondo un fine – oltre a essere incompatibile con la perfezione divina, dal momento che si persegue come scopo solo ciò di cui si è carenti – presuppone, infatti, un’intelligenza e una volontà. Il Diosostanza non ha invece né intelletto né volontà, a meno di non usare questi termini, solitamente riferiti ai modi, con un significato completamente diverso dal solito, come quando diamo il medesimo nome a un animale, il cane, e a una costellazione celeste, il Cane maggiore.

T7

L’equivocità del nostro parlare di Dio B. Spinoza, Etica, 1, scolio della prop. 17

[…] l’intelletto e la volontà, che costituirebbero l’essenza di Dio, dovrebbero differire toto caelo dal nostro intelletto e dalla nostra volontà, né potrebbero convenire in altro che nel nome; non altrimenti, cioè, di come convengono tra loro il cane, segno celeste, e il cane, animale latrante. La confutazione del finalismo non è altro, dunque, che il coronamento di una teoria della divinità che ha con sistematica coerenza smontato l’immagine troppo umana del Dio-persona forgiata dalla riflessione filosofica e teologica precedente, giungendo sino al punto di concepire, se non un universo senza Dio, senza dubbio un universo senza scopo.

4 Ordine delle cose e ordine delle idee

La causalità reciproca vale solo fra modi dello stesso genere

Distinzione reale e parallelismo tra spirito e materia

Antropologia e morale Come si è già detto, gli attributi della sostanza sono infiniti. Tuttavia, soltanto due di questi infiniti attributi sono accessibili alla conoscenza dell’uomo, in quanto essere finito costituito da una mente e da un corpo, entrambi modi finiti rispettivamente dell’attributo pensiero e dell’attributo estensione di Dio. Per Spinoza non solo la serie infinita dei corpi bensì anche quella delle idee deriva da Dio secondo un ordine necessario, regolato dal principio della determinazione causale: come una cosa c è determinata da una cosa b, a sua volta prodotta da una cosa a, allo stesso modo un’idea c non può che scaturire da un’idea b, a sua volta causata da un’idea a. Il principio della determinazione causale non vale, però, nel rapporto tra due modi di attributi diversi: ogni attributo della sostanza – esprimendo l’essenza di essa – non può essere stato prodotto da un altro attributo, bensì è in essa da sempre. Di conseguenza, tra la serie delle idee e la serie delle cose estese non vi può essere alcuna interazione causale: le idee non sono causate dalle cose percepite, così come esse a loro volta non possono esercitare alcuna influenza sui corpi. Questa negazione di ogni possibilità di causalità reciproca tra i due ordini costituisce una conseguenza immediata del monismo spinoziano, che da un lato rifiuta la distinzione sostanziale tra spirito e materia, ma dall’altro sostiene che un in243

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Al mutamento nell’ordine delle cose corrisponde un’idea del mutamento stesso

flusso causale è possibile solo tra modi che appartengono al medesimo genere o attributo. Per Spinoza, quindi, sia le singole idee sia le singole cose sono modi finiti di un’unica e medesima sostanza, considerata, però, sotto i due diversi attributi del pensiero e dell’estensione, tra i quali sussiste una distinzione reale. Tra idee e cose, dunque, non può esservi un rapporto di causalità, ma piuttosto un rapporto di perfetta coincidenza e identità su due piani paralleli e distinti: «l’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione delle cose». In parole più semplici, per Spinoza nessun termine di una delle due serie può incidere su quelli dell’altra, ma quando si ha un mutamento nell’ordine delle cose si ha sempre anche un’idea del mutamento stesso. Tale corrispondenza si verifica necessariamente, in quanto il Dio-Natura è sia la totalità delle idee sia la totalità delle cose: di conseguenza, in esso non può esistere una cosa senza che di questa vi sia un’idea, così come non può esistere un’idea che non sia idea di qualcosa.

La causalità in Spinoza

Causa di sé

Sostanza

Causa necessaria ed eterna Causa immanente e continua Causalità efficiente tra la sostanza e il mondo (immanenza)

Causa infinita Attributo

Causa unica Causa dei modi del proprio genere

Causalità reciproca tra modi dello stesso genere: a ➞ b ➞ c …

Modo

Causalità efficiente solo orizzontale tra modi

Il rapporto mente-corpo Sulla base di queste premesse ontologiche, Spinoza stabilisce un’unione strettissima tra il corpo e la mente: egli concepisce, infatti, quest’ultima come l’idea di un dato corpo, idea che in Dio deve necessariamente esistere, se vi è quel corpo. Dal principio dell’identità dell’ordine delle idee e dell’ordine delle cose, segue anche che nel corpo non può avvenire nulla, senza che di tale mutamento vi sia un’idea nella mente. Tutte le cose Ciò vale a proposito di tutte le cose, e non solo degli esseri umani; per questo mosono mente e corpo, tivo, Spinoza non considera la mente in generale come una prerogativa esclusiva ossia animate degli uomini. Di tutte le cose c’è un’idea in Dio, in quanto per ogni cosa o modo dell’estensione divina vi è un’idea o mente corrispondente nel pensiero divino: ora, siccome Dio è immanente, l’idea che è in Dio è nelle cose. Spinoza ripete dunque il pensiero rinascimentale secondo il quale «tutte le cose sono animate», ma attribuendogli un significato molto differente da quello che esso aveva, per esempio, nel pensiero di Bruno: per Spinoza, infatti, la mente non è l’ineffabile e Unione tra corpo e mente

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La specificità della mente umana: è modo inseparabile dal corpo umano

La mente non ha potere sulle passioni: simultaneità e coincidenza fra idee e passioni

La forza degli appetiti corporei

T8

Il carattere illusorio della libertà di scelta B. Spinoza, Etica, 3, scolio della prop. 2

spontaneo principio della vita, bensì – in quanto modo finito di uno degli attributi della sostanza – è rigidamente determinata in maniera meccanica dalla legge di causa-effetto. Così intesa, l’anima non è principio della vita più di quanto lo sia il corpo, dal momento che entrambi sono mossi da quello che Spinoza definisce il conatus, cioè la tendenza all’autoconservazione (vedi sotto, p. 248). La specificità della mente umana consiste, per Spinoza, unicamente nel fatto di essere idea di un corpo quale quello umano, che egli intende come un organismo composto da più individui di natura diversa (sulla base della fisica cartesiana, vedi Unità 3, p. 150 ss.), bisognoso, per la propria autoconservazione, di molti altri corpi (gli organi), sui quali a sua volta agisce. Questa concezione della mente ha anch’essa un significato profondamente innovativo rispetto alla tradizione di pensiero platonica e cristiana che, sino a Cartesio, aveva inteso l’anima quale sostanza indipendente dal corpo e da esso separabile, sede della spiritualità. Innanzitutto per Spinoza l’anima non è sostanza, bensì solo un modo di essa, come tutte le altre cose finite. In secondo luogo, in quanto idea di un corpo, la mente è inseparabile da quest’ultimo. Infine, tra mente e corpo non vi è alcuna gerarchia: Spinoza non ritiene il materiale come inferiore allo spirituale, bensì conferisce a essi pari dignità, concependo entrambi come uguali espressioni della sostanza, tra le quali tra l’altro non è possibile nessun rapporto causale. A partire da queste premesse, Spinoza nega la tesi stoica – ripresa anche da Cartesio – che la mente umana abbia per natura o possa conquistare, mediante l’esercizio, un «potere assoluto sulle passioni» del corpo. Tra gli argomenti solitamente addotti a sostegno del presunto «impero» della mente sul corpo, il principale è costituito dall’esperienza che gli uomini comuni fanno, riguardo alla capacità di seguire o meno – senza nessun motivo – una data passione corporea e di muovere o meno una data parte del corpo (per esempio, la lingua, quando decidono di parlare o tacere): in altri termini, la coscienza della cosiddetta libertà di scelta. A questo genere di argomenti, Spinoza contrappone la propria teoria della simultaneità e coincidenza tra «l’ordine delle azioni e passioni corporee» e «l’ordine delle azioni e passioni della mente». Innanzitutto, appellandosi alla stessa esperienza, Spinoza mostra come, a uno sguardo attento, coloro che credono di determinare il proprio corpo all’azione in virtù di «un libero decreto della mente», «sognano a occhi aperti», dal momento che in realtà non fanno altro che seguire il loro appetito corporeo più forte: così, per esempio, il pauroso non sceglie liberamente di determinare le proprie gambe alla fuga, bensì fugge in quanto determinato a tale gesto in maniera necessaria da quella che in quel momento è la sua passione più forte, cioè la paura; analogamente, la chiacchierona parla non perché abbia liberamente deciso di muovere la propria lingua, ma piuttosto in quanto la sua lingua è irrefrenabilmente mossa dall’impeto di parlare, che è evidentemente la passione più forte nel suo corpo. […] Certo le cose umane andrebbero assai meglio se fosse ugualmente in potere degli uomini tanto il tacere quanto il parlare. Ma l’esperienza insegna più che abbastanza, che nulla gli uomini hanno così poco in loro potere quanto la loro lingua, e che nulla sanno fare di meno che dominare i loro appetiti. Per questo i più credono che possiamo fare liberamente solo le cose che appetiamo moderatamente, poiché il desiderio di queste cose può essere facilmente imbrigliato col ricordo di un’altra cosa, di cui spesso ci rammentiamo; e invece non quelle che 245

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

desideriamo con un grande affetto, che non può essere placato dal ricordo di un’altra cosa. Insomma, se costoro non avessero sperimentato che facciamo molte cose, di cui poi ci pentiamo, e che spesso, quando cioè siamo combattuti da contrari affetti, vediamo il meglio e seguiamo il peggio, niente impedirebbe loro di credere che noi facciamo tutto liberamente. Così il bambino crede di desiderare liberamente il latte, e il fanciullo adirato di volere liberamente la vendetta, e il pauroso la fuga. Così, persino l’ubriaco crede di dire per libera decisione della mente quelle cose che, più sobrio, vorrebbe non aver dette; così il mentecatto, la chiacchierona, il ragazzo, e moltissima gente di questo tipo, credono di parlare per libera decisione della mente, quando invece semplicemente non possono contenere l’impeto che hanno di parlare; sicché la stessa esperienza non meno chiaramente della ragione insegna che gli uomini credono di essere liberi per questa sola causa, che sono consci delle loro azioni e ignari delle cause da cui vengono determinati, e che inoltre le decisioni della mente non sono nient’altro che gli stessi appetiti, e perciò variano secondo il variare delle disposizioni del corpo. Infatti ognuno regola tutto secondo il suo proprio affetto; quelli poi che sono combattuti da affetti contrari non sanno quello che vogliono, e quelli che non ne hanno nessuno con facilità sono mossi di qua e di là. Tutto ciò mostra certo chiaramente che tanto la decisione della mente quanto l’appetito e la determinazione del corpo sono per natura simultanei, o piuttosto una sola e medesima cosa che, considerata e spiegata mediante l’attributo del pensiero, diciamo decisione, e, quando invece è considerata sotto l’attributo dell’estensione e dedotta dalle leggi del moto e della quiete, diciamo determinazione. L’illusione della libertà

Parallelismo tra stati mentali e determinazioni corporee

Il rifiuto della teoria cartesiana dell’interazione tra sostanze

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La convinzione di potere dirigere in maniera assoluta il proprio corpo in base a delle libere decisioni della mente è per Spinoza una mera illusione, che nasce negli uomini per il fatto di ignorare le cause efficienti delle proprie azioni. Secondo il rigido determinismo che è alla base dell’ontologia spinoziana, infatti, ogni modo finito – sia del pensiero sia dell’estensione – esiste e agisce in quanto è determinato a esistere e ad agire da un altro modo finito: anche la mente, dunque, in quanto modo finito del pensiero, non è libera, ma è piuttosto determinata a volere questo o quello da una causa, che a sua volta è stata determinata da un’altra, secondo un regresso all’infinito. In base a quanto detto sopra, la causa che determina le decisioni della mente non è il corpo – così come del pari la mente non può determinare il corpo a muoversi – dal momento che tra due modi di attributi diversi non vi può essere alcun rapporto causale: piuttosto, ogni stato mentale è determinato dalla catena precedente di stati mentali, così come ogni movimento corporeo ha la sua causa nella serie antecedente di movimenti. Pur senza interferire, la vita psichica e quella corporea scorrono, però, in maniera simultanea e secondo un ordine che coincide in maniera necessaria, in quanto sono espressioni di un’unica sostanza, entrambe regolate dalle leggi di quest’ultima, cioè il principio di determinazione causale: in questo senso, dunque, le decisioni della mente e le determinazioni del corpo sono per Spinoza una sola e medesima cosa, semplicemente considerata sotto due dimensioni diverse. Il monismo consente dunque a Spinoza di risolvere uno dei problemi centrali della filosofia dualistica di Cartesio che – muovendo dal presupposto che res cogitans e res extensa fossero due sostanze distinte e completamente eterogenee – non aveva poi saputo spiegare la relazione tra l’anima e il corpo umani, se non

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

ricorrendo alla teoria della ghiandola pineale, ossia postulando che in un punto del corpo (l’epifisi posta nel centro del cervello) vi fosse il luogo dell’interazione reciproca, ma senza dire niente sulla natura di questa interazione. Questa tesi cartesiana nell’Etica è rigettata come «un’ipotesi più occulta di ogni occulta qualità», priva di ogni rigore scientifico. Corpi e menti in Spinoza

Attributo estensione

Corpi: tutti i modi dell’attributo estensione

Corpo umano: composto da più individui di natura diversa

Determinazioni corporee

Non influenzano le decisioni della mente

Distinzione reale e parallelismo: non c’è causalità reciproca né gerarchia tra gli attributi

Attributo pensiero

Poiché Dio è immanente la mente è anche nel corpo

La mente umana è inseparabile dal corpo

Menti: idee presenti nella mente divina

Mente umana: è diversa perché è l’idea di un corpo umano

Non possono determinare i moti del corpo

Stati mentali

La deduzione degli affetti La concezione deterministica della vita intellettuale e affettiva degli uomini imprime all’indagine etica di Spinoza un carattere peculiare. In primo luogo, essa lo induce a rifiutare la posizione privilegiata e di dominio che una lunga e consolidata tradizione di pensiero aveva attribuito all’uomo rispetto alla natura, in virtù della sua presunta capacità di governare in maniera assoluta le proprie passioni e di autodeterminarsi ad agire: dal momento che la mente umana non esercita alcun impero sul corpo, gli esseri umani non formano affatto un «Impero nell’Impero della natura», bensì sono piuttosto per Spinoza una semplice parte di questa, sottoposta, al pari delle altre, alle sue leggi, cioè al principio della determinazione causale. Non esistono affetti Questo presupposto è alla base dell’impostazione rigorosamente scientifica che o passioni buoni Spinoza adotta nell’indagine sugli affetti umani, in espressa polemica con quei fio cattivi in sé losofi e moralisti che – assumendo come parametro di giudizio una «natura umana che non esiste in nessun luogo» – avevano stigmatizzato alcuni affetti umani come vizi o debolezze. Nel determinismo universale dell’ontologia spinoziana, una simile condanna moralistica delle passioni risulta priva di senso, in quanto è imputabile come vizio dell’uomo solo ciò che è frutto di una libera scelta, e non il risultato dell’ordine necessario della natura. In quanto obbediscono alle medesime leggi della Natura-sostanza infinita di cui l’uomo è parte, gli affetti possono e devono, invece, essere studiati con il medesimo metodo geometrico utilizzato nell’indagine sulle altre cose generate dalla Natura, come Spinoza afferma nella Prefazione alla terza parte dell’Etica, intitolata Origine e natura degli affetti. L’uomo come parte della Natura

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T9

La natura necessaria di tutti gli affetti B. Spinoza, Etica, 3, Prefazione

L’affetto: intreccio di corporeità e consapevolezza

La tendenza universale all’autoconservazione: il conatus

Il desiderio come essenza dell’uomo

Affetti positivi e negativi: aumento o diminuzione della potenza

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Nella natura non c’è niente che si possa attribuire a suo vizio; la natura è infatti sempre la stessa, e la sua virtù e potenza di agire una e medesima dappertutto; cioè le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutte le cose divengono, e da certe forme si trasmutano in altre, sono dovunque e sempre le stesse, e perciò uno e medesimo deve essere anche il modo di intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, ossia mediante le universali leggi e regole della natura. Dunque gli affetti di odio, ira, invidia, eccetera, in sé considerati, conseguono dalla stessa virtù e necessità della natura, come le altre cose singole; e perciò ammettono certe cause mediante le quali vengono intesi, e hanno certe proprietà ugualmente degne della nostra conoscenza che quelle di qualsiasi altra cosa, della cui sola contemplazione ci dilettiamo. Perciò, tratterò della natura e delle forze degli affetti, e del potere della mente di dominarli, con lo stesso metodo con cui ho trattato, nelle parti precedenti, di Dio e della mente, e considererò le azioni umane e gli appetiti, come se fosse questione di linee, superfici o corpi. Per «affetto» Spinoza intende un’affezione del corpo che ne accresce o diminuisce la potenza di agire, unita all’idea di tale affezione: coerentemente con la concezione dell’uomo come unità indissolubile di mente e corpo, l’affetto è dunque concepito come il risultato di un intreccio altrettanto inscindibile tra una componente corporea – cioè la modificazione del corpo che determina l’affezione – e una componente mentale – che consiste nell’idea o consapevolezza di tale affezione. Prendendo le mosse da questa definizione, Spinoza deduce gli affetti umani a partire da una legge universale della Natura, cioè la legge in base alla quale ogni cosa si sforza e non può non sforzarsi, per quanto è in sé, di perseverare nel proprio essere: legge che altro non è che una traduzione in termini metafisici del principio fisico dell’inerzia, cioè la legge che afferma che un corpo mantiene la propria condizione di moto o di quiete a meno che non intervenga un altro corpo a modificarla. Questa tendenza all’autoconservazione (in latino conatus) – che è l’espressione della infinita potenza della sostanza – rappresenta per Spinoza l’essenza di ogni cosa singola. Di conseguenza, pur essendo generale per tutti gli enti, essa si esplica in maniera diversa nelle varie nature, con delle differenze che esprimono le differenze tra le essenze: secondo l’esempio addotto nell’Etica, il cavallo e l’uomo sono spinti entrambi dalla medesima tendenza ad autoconservarsi attraverso la procreazione, che si manifesta, però, nel primo sotto la forma di libidine equina, mentre nel secondo sotto la forma di libidine umana. Precisamente, il conatus che costituisce l’essenza dell’uomo si manifesta per Spinoza sotto la forma del desiderio (in latino cupiditas): termine con cui egli intende l’appetito accompagnato dalla coscienza, ovvero lo sforzo alla conservazione e al potenziamento di sé, riferito simultaneamente alla mente e al corpo. Se il desiderio costituisce la sua essenza, l’uomo non può non fare ciò che segue da esso. Così intesa, la cupiditas si configura come il fondamento di tutti gli affetti umani, sia quelli di segno positivo sia quelli di segno negativo: i primi sono il passaggio a una potenza e perfezione maggiore, che Spinoza definisce con il termine di laetitia o gioia; i secondi, denominati con il termine tristitia o tristezza, sono invece il passaggio inverso, cioè una diminuzione della potenza del proprio essere. Il desiderio, la gioia e la tristezza rappresentano gli «affetti primari», cioè gli affetti basilari, da cui per Spinoza è possibile derivare tutti gli altri per composizione: per esempio, attraverso la determinazione per effetto di ciò che produce gioia, il desiderio si trasforma in amore, e per effetto di ciò che produce tristezza in odio.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz La geometria degli affetti

Conatus: sforzo per autoconservarsi comune a tutte le cose

Cupiditas: appetito accompagnato dalla coscienza. Essenza dell’uomo

La cupiditas è il fondamento di tutti gli affetti umani Affetti primari o basilari Affetti positivi, tutti legati alla laetitia o gioia

Affetti negativi, tutti legati alla tristitia o tristezza

Aumento della potenza individuale

Diminuzione della potenza individuale

Da questi due affetti derivano l’amore, l’odio e tutti gli altri affetti

Un’etica della «laetitia» Bene e male come nozioni soggettive

Il principio dell’utile: aumentare la propria potenza

La condanna degli affetti collegati alla tristezza

Soltanto dopo avere indagato la struttura e la genesi degli affetti, Spinoza procede, nella quarta parte dell’Etica, a un esame di essi, volto a distinguere quelli buoni da quelli cattivi. Anche tale esame non poggia, però, su nessuna morale presupposta. Spinoza ritiene, infatti, che il bene e il male non siano comandamenti divini, né entità ontologiche assolute o qualità oggettive delle cose, bensì nozioni meramente soggettive, che formiamo perché paragoniamo le cose tra di loro. Queste nozioni sono dunque relative alla prospettiva di chi giudica e al momento in cui tale giudizio viene formulato: per esempio, la musica – che è buona per i malinconici e cattiva per gli afflitti – risulta invece indifferente per i sordi. Nella valutazione degli affetti, l’unico criterio di giudizio che secondo Spinoza è in linea di principio condivisibile da ognuno, al di sopra di ogni relativismo, è costituito dai dettami della ragione coincidenti con l’universale legge di natura, in base alla quale ciascuno deve cercare il proprio utile, ovvero deve sforzarsi di conservare e potenziare il proprio essere. Di conseguenza, per bene egli intende ciò che maggiormente incrementa la potenza – ed è dunque fonte di gioia – e per male ciò che invece la diminuisce, generando tristezza. Il risultato dell’esame degli affetti condotto sulla base di un simile criterio di giudizio è una ferma condanna di tutti gli affetti della tristezza: quest’ultima – essendo per definizione la discesa a una condizione di minore potenza e perfezione – è «direttamente cattiva». Alla tristezza Spinoza riconduce sia gli affetti correntemente considerati come negativi, dalla crudeltà all’invidia, sia alcuni affetti tradizionalmente additati come virtù dall’ethos cristiano, quali l’umiltà e il pentimento. Nell’antropologia spinoziana, l’umiltà è, infatti, definita come la tristezza che sorge dalla contemplazione della propria impotenza; il pentimento è invece descritto come la tristezza derivante da una qualche azione passata, che 249

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rende l’uomo doppiamente infelice e impotente, una volta perché è stato vinto da un desiderio smodato e un’altra volta perché se ne duole vanamente. Il valore dei piaceri Assumendo come unico parametro di valutazione e unica legge quella del conasemplici: gli affetti tus all’autorealizzazione – naturale e razionale al tempo stesso – Spinoza elabodi gioia ra così un’etica che è in netta rottura rispetto allo spirito di sacrificio tipico della morale cristiana, affermando esplicitamente che l’uomo saggio non disprezza i semplici piaceri della vita, anzi li accetta come buona regola di vita. Al contrario degli affetti di tristezza, infatti, gli affetti di gioia sono per Spinoza buoni in sé, in quanto fonti di arricchimento, utili alla conservazione e al potenziamento del nostro essere nella sua totalità, cioè sia nella dimensione corporea sia in quella mentale.

T10

La regola di vita del saggio B. Spinoza, Etica, 4, scolio della prop. 45

Soltanto una cupa e triste superstizione vieta di dilettarsi. Perché infatti sarebbe più lecito estinguere la fame e la sete piuttosto che cacciare la malinconia? Questa è la mia norma e di ciò sono convinto: che nessun nume, né un’altra persona, se non invidiosa, prova piacere alla mia impotenza e al mio danno, né può ritenere che siano una nostra virtù le lacrime, i singhiozzi, la paura e le altre cose simili, che sono segni di un animo impotente; ma, anzi, più grande è la letizia da cui siamo affetti, più grande la perfezione a cui passiamo, cioè tanto più è necessario che noi partecipiamo alla natura divina. Usare quindi delle cose e dilettarsene quanto è possibile (non certo fino alla nausea, che non è questo un dilettarsi), è dell’uomo saggio. Dico che è dell’uomo saggio rifocillarsi e ricrearsi con moderato e piacevole cibo e bevanda, come pure con gli odori, con l’amenità delle piante verdeggianti, il bel vestire, la musica, gli esercizi del corpo, gli spettacoli e le altre cose simili, di cui ognuno può usare senza alcun danno per gli altri. Infatti il corpo umano si compone di moltissime parti di diversa natura che abbisognano continuamente di alimento vario e nuovo perché il corpo tutto sia ugualmente atto a quelle cose che possono seguire dalla sua natura, e di conseguenza affinché la mente sia anch’essa ugualmente atta a intendere più cose assieme. Questa regola di vita, pertanto, conviene ottimamente sia con i nostri principi, sia con la pratica comune.

Dalla schiavitù alla libertà In questa cornice, può a prima vista apparire incomprensibile che gli uomini commettano consapevolmente il male, dal momento che questo consiste nella tristezza, mentre il bene coincide con la gioia, che dovrebbe naturalmente essere dotata di una capacità di attrazione superiore. Spinoza risolve questo problema, riconducendo il fatto che l’uomo spesso commette il male – pur vedendo il bene – a quella che egli definisce la «schiavitù umana», ovvero l’«impotenza a dominare» gli affetti, che sottrae l’individuo a se stesso gettandolo nelle mani della fortuna, cioè delle cause esterne. Il conflitto Secondo i presupposti dell’ontologia deterministica di Spinoza, infatti, l’impulso tra autodeterminazione di ogni individuo a conservare e a potenziare il proprio essere – che è anche ime cause esterne pulso ad affetti gioiosi – è una tendenza necessaria che, però, non si verifica mai allo stato perfetto, perché le cause esterne nel loro concorso combinato sono sempre più potenti della cosa singola. Di conseguenza, l’impulso umano all’autoconservazione e alla realizzazione di sé urta, per ciascuno, contro la preponderanza delle cause esterne. 250

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz La forza degli affetti immediati

La libertà come potere della mente sugli affetti

Affetti passivi e affetti attivi

Agire è divenire una causa adeguata, ossia consapevole

Comprensione dell’ordine necessario e controllo delle passioni

Di qui deriva il manifestarsi di una enorme quantità di comportamenti passionali dannosi all’individuo stesso, che pure li vive immaginando di perseguire il meglio per sé. L’uomo che cede per esempio al vizio del bere e arreca così danno a se stesso – comportandosi in contrasto con l’impulso di autoconservazione – lo fa perché è determinato ad agire da impulsi esterni che sollecitano alcune parti del suo corpo verso quel piacere immediato, con una forza superiore a quella del timore delle conseguenze nocive provocate, sul lungo periodo, dal suo gesto. E questo non per una sua debolezza o colpa particolari, ma semplicemente perché, nella geometria delle passioni costruita da Spinoza, un affetto immediato, cioè riferito a una cosa vicina nello spazio e nel tempo, è sempre di intensità superiore rispetto a un affetto mediato, riferito a qualcosa di assente o meramente possibile. Questo non significa che, per Spinoza, non vi siano vie di uscita dalla schiavitù, cioè dalla soggezione umana rispetto alle passioni. Certo, egli ritiene – in polemica con la tradizione stoica e con Cartesio – che l’uomo non possa mai raggiungere uno stato di completa immunità dalle passioni, in quanto esso è una parte della natura che non può sottrarsi all’influsso delle altre parti, di cui ha continuamente bisogno per conservarsi. Fermo restando questo assunto, Spinoza ammette, però, che l’uomo possa elevarsi a una condizione di libertà intesa non come libero arbitrio, bensì nel senso di potenza della mente sugli affetti: l’obiettivo fondamentale della sua etica è proprio quello di indicare i passaggi necessari in questa direzione. La peculiarità di essa consiste nel fatto che la strada dell’emancipazione non è concepita nei termini di una repressione razionale degli affetti, ma piuttosto come una strategia di trasformazione e conversione delle passioni, in grado di ridurre al minimo la componente di passività. Il presupposto di questa concezione etica è costituito dalla distinzione degli affetti in passivi e attivi: 1) passivi sono quegli affetti congiunti a un’affezione di cui siamo solo causa parziale, insieme ad altre concause esterne, di cui dunque patiamo l’influsso; 2) attivi sono definiti invece quegli affetti congiunti a un’affezione di cui noi stessi siamo la causa adeguata, cioè la causa esclusiva, attraverso le sole leggi della nostra natura. Per comprendere quest’ultima definizione, occorre chiarire come l’uomo possa essere causa di qualcosa solo attraverso se stesso, pur essendo una parte della natura dipendente da tutte le altre. Per Spinoza, ciò è possibile in quanto essere causa adeguata e attiva di qualcosa non significa uscire o deviare dalla necessaria catena di cause-effetti – di cui l’uomo non è che un anello – bensì equivale semplicemente ad avere un’idea adeguata delle cose, cioè un’idea non contaminata dalle nostre impressioni soggettive e dunque corrispondente alla reale natura delle cose. L’uomo in possesso di un’idea adeguata non potrà, infatti, che comportarsi in base a essa, cioè esclusivamente in base a una legge della sua natura. In questo modo, egli si sgancerà dall’influsso passivo delle cause esterne senza deviare dal meccanismo naturale, dal momento che, al contrario, formarsi un’idea adeguata delle cose significa proprio cogliere i necessari nessi causali di cui la realtà è intessuta. Questa comprensione dell’ordine necessario dell’universo ha tra l’altro di per sé l’effetto benefico di ridurre al minimo il potere delle passioni sul nostro animo, in quanto l’uomo che la acquisisce comprende che non ha senso desiderare di essere in una condizione diversa da quella in cui si trova. 251

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

T11

La conquista della serenità

B. Spinoza, Etica, 5, scolio della prop. 5

La passività risiede nell’inconsapevolezza

Capire è emanciparsi dalla schiavitù

Libertà è consapevolezza

Libertà è gioia

Libertà è sommo bene e conoscenza vera di Dio

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Quanto più questa conoscenza, secondo cui le cose sono necessarie, si esplica intorno alle cose singole, che più distintamente e vividamente immaginiamo, tanto è maggiore questa potenza della mente sugli affetti, cosa che la stessa esperienza attesta. Vediamo infatti che la tristezza derivante dalla perdita di qualche bene si mitiga, appena l’uomo, che ha subito la perdita, considera che in nessun modo avrebbe potuto conservarlo. Così anche vediamo che nessuno compiange un bambino per il fatto che non sa parlare, camminare, ragionare, e che vive tanti anni quasi inconsapevole di se stesso. Ma se gli uomini nascessero per la maggior parte adulti, e soltanto uno o due bambini, allora tutti compiangerebbero i bambini, perché allora non considererebbero l’infanzia come una cosa naturale e necessaria, ma come un vizio o peccato della natura. Di contro, l’uomo è causa parziale dei propri affetti – e dunque soggetto alle passioni – quando è in possesso unicamente di idee inadeguate delle cose, cioè di quelle idee che, sorte sulla base del fortuito incontro con la natura, in realtà rispecchiano più le modificazioni interne del nostro corpo che la natura delle cose stesse. L’uomo la cui conoscenza si ferma a questo punto, non si comporta secondo le proprie idee delle cose, ma è piuttosto passivamente determinato dalle cause esterne. Sulla base di queste premesse, Spinoza ammette la possibilità di convertire le passioni in affetti attivi, mediante l’acquisizione di una conoscenza chiara e distinta dell’affetto stesso. Una simile conversione è ai suoi occhi la via maestra per l’emancipazione dell’uomo dalla schiavitù delle passioni: pur non potendo mai ottenere un dominio assoluto sugli affetti, la mente umana può acquisire su di essi un potere che è tanto maggiore, quanto maggiore è la conoscenza che ne ha. In altri termini, per Spinoza la forza della ragione non è da sola sufficiente per contrastare la forza degli affetti. Di conseguenza, essa non deve agire sulle passioni direttamente, bensì indirettamente, attraverso un processo di chiarificazione degli affetti che – convertendo la gioia e il desiderio da passioni in azioni – li potenzia sino a renderli invincibili rispetto alle pulsioni distruttive e autodistruttive. Così intesa, l’emancipazione dalla schiavitù delle passioni non consiste, dunque, in una completa distruzione della vita emotiva, ma piuttosto nel conseguimento di una condizione di predominanza degli affetti attivi – cioè degli affetti rischiarati dalla ragione – che permette quel pieno dispiegamento dello sforzo alla conservazione e al potenziamento di sé, in cui Spinoza ripone sia la virtù sia la felicità. Schiavo è per Spinoza colui che, trascinato dalla forza cieca di passioni non illuminate dalla luce della ragione, commette gesti di cui non conosce le conseguenze, procurando spesso danno a se stesso oltre che agli altri. Libero è colui che, agendo sulla base di una conoscenza adeguata di se stesso e dei propri desideri, dirige i suoi sforzi verso la massima gioia, cioè verso il suo vero utile o bene, che è tale non solo per lui, ma anche per tutti gli uomini: infatti soltanto le passioni, che sono estremamente variabili, dividono gli uomini, spingendoli a considerare come beni oggetti diversi. Quando invece all’origine della gioia vi è un’idea adeguata, non si può che amare – cioè giudicare come bene – le medesime cose, ossia ciò che sappiamo con certezza aumentare la nostra potenza. Tale è innanzitutto la stessa conoscenza adeguata: in particolare, poiché ogni conoscenza adeguata implica l’idea di Dio, il sommo bene non potrà che consistere nella conoscenza di Dio. Oltre alla conoscenza, un ulteriore bene vero per l’uomo è, secondo Spinoza, l’unione con i

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

propri simili. Egli ritiene, infatti, che nulla sia più utile all’uomo della vita in società, che gli consente di aumentare la propria potenza e di procurarsi molto più facilmente ciò di cui ha bisogno, così come di contrastare con maggiori probabilità di successo i pericoli che incombono sulla sua autoconservazione.

T12

«Nulla è più utile all’uomo degli altri uomini» B. Spinoza, Etica, 4, coroll. 1 e scolio della prop. 35

Libertà dalle passioni è amore per la vita

L’etica spinoziana: dalla schiavitù alla libertà

Nessuna cosa singola si dà in natura, che sia all’uomo più utile dell’uomo che vive sotto la guida della ragione. Infatti, la cosa più utile all’uomo è quella che massimamente conviene con la sua natura […], cioè (come per sé noto) l’uomo. Ma l’uomo agisce assolutamente secondo le leggi della sua natura, quando vive sotto la guida della ragione […]. Ciò che abbiamo or ora dimostrato, attesta quotidianamente con tante e così chiare testimonianze, che quasi a tutti è in bocca il detto: per l’uomo l’uomo è Dio. Accade tuttavia raramente che gli uomini vivano sotto la guida della ragione; le cose, piuttosto, stanno in modo che essi per lo più sono invidiosi, e molesti gli uni agli altri. Ma, ciononostante, non riescono a sopportare la vita solitaria, sicché quella definizione, secondo cui l’uomo è un animale sociale, ha incontrato nella maggior parte larghi consensi. E in realtà le cose stanno in modo che dalla comune società degli uomini sorgono molti più vantaggi che danni. Irridano dunque quanto vogliono i satirici le cose umane, e le detestino i teologi, e lodino quanto possono i malinconici la vita incivile ed agreste, disprezzando gli uomini ed ammirando i bruti; gli uomini seguiteranno a sperimentare che con l’aiuto reciproco si procacciano ciò di cui hanno bisogno molto più facilmente, e che non possono evitare i pericoli che dovunque incombono, se non a forze unite. Per tacere, poi, che è molto più meritevole e più degno della nostra conoscenza contemplare le azioni degli uomini che non quelle dei bruti. Nella prospettiva spinoziana, la libertà dalle passioni è dunque quanto di più lontano possa esservi rispetto all’ideale ascetico di rinuncia a esse per paura di ciò che verrà dopo la morte. Per Spinoza, la libertà dalle passioni coincide piuttosto con una conoscenza razionale che ha per oggetto esclusivamente la vita, la sua conservazione e il suo potenziamento mediante l’unione con i propri simili: «l’uomo libero non pensa a niente meno che alla morte; e la sua sapienza è meditazione non della morte, ma della vita». La morte – in quanto negazione dell’impulso all’autoconservazione che costituisce l’essenza di tutti gli individui – non può che essere un evento passivamente subito. Questo la situa dunque al di fuori dell’orizzonte mentale di colui che è libero proprio in quanto, agendo sulla base del principio interno della propria conoscenza adeguata, ha ridotto al minimo l’influsso delle cause esterne su di sé. Ciò non significa che il sapiente possa sottrarsi alla morte, della cui necessità è al contrario pienamente consapevole, in quanto sa di essere un piccolo atomo nella totalità della Natura. Tuttavia, egli sceglie di agire nel mondo e di dedicarsi alla vita piuttosto che ripiegarsi su se stesso e sul proprio destino mortale.

Schiavitù L’uomo è inconsapevole dell’origine delle proprie passioni

Attraverso un’idea adeguata, chiara e distinta di sé, l’uomo vede chiaramente le cause delle passioni

Si comporta in modo conforme alle leggi della propria natura, ossia accetta la necessità divenendo causa adeguata

La consapevolezza raggiunta rende più efficace lo sforzo di autoconservazione e il potenziamento di sé

L’uomo si libera dalla schiavitù delle passioni e raggiunge la massima gioia Libertà

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

5 I tre generi di conoscenza

T13

Le forme della conoscenza B. Spinoza, Etica, 2, scolio 2 della prop. 40

Il problema degli universali

Conoscenza di primo tipo: esperienza vaga e idee mutile e confuse

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La teoria della conoscenza Come si è appena visto, Spinoza stabilisce una corrispondenza tra i livelli della vita affettiva ed etica dell’uomo – da un lato – e i diversi generi di conoscenza, istituendo un nesso indissolubile tra il possesso di idee adeguate e la possibilità dell’uomo di liberarsi dalla schiavitù delle passioni. Più precisamente, Spinoza distingue tre forme del conoscere, in tutte e tre le redazioni della teoria della conoscenza che ci ha tramandato, contenute nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, nel Breve trattato e nell’Etica. L’Etica contiene non solo la versione di dottrina della conoscenza più matura, ma offre anche la visione d’insieme più sintetica dei tre generi di conoscenza, che sono presentati e introdotti da Spinoza nel secondo scolio della proposizione 40 della seconda parte. Da quanto è stato detto sopra, appare chiaro che noi percepiamo molte cose e formiamo nozioni universali: in primo luogo, dalle cose singole rappresentateci dai sensi in maniera mutila e confusa e senza ordine per l’intelletto […]: e perciò sono solito chiamare tali percezioni conoscenza da esperienza vaga. In secondo luogo, da segni, per esempio dal fatto che, udite o lette certe parole, ci ricordiamo delle cose, e di esse formiamo certe idee simili a quelle mediante le quali immaginiamo le cose […]. In seguito chiamerò questi due modi di contemplare le cose conoscenza di primo genere, opinione o immaginazione. In terzo luogo, infine, dal fatto che abbiamo nozioni comuni e idee adeguate delle proprietà delle cose […]; e questo lo chiamerò ragione e conoscenza di secondo genere. Oltre questi due generi di conoscenza se ne dà un terzo, come in seguito dimostrerò, che chiameremo sapere intuitivo. E questo genere del conoscere procede dall’idea adeguata dell’essenza formale di certi attributi di Dio alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose. In primo luogo per Spinoza il problema centrale della conoscenza è costituito dal problema della formazione delle nozioni universali: ciascuno conosce, infatti, molte cose, ma nessuno attribuisce il valore di scienza alle sue conoscenze, se non è in grado di estenderle dal particolare al generale. Per esempio, un esperimento dà luogo a sapere scientifico soltanto se da esso si può ricavare una legge applicabile alla generalità dei fenomeni da esso interessati. Muovendo da questa visione della conoscenza, Spinoza ne distingue tre modi. 1) La prima è definita «conoscenza di primo genere, opinione o immaginazione», ed è a sua volta articolata in due tipi. Innanzitutto, è conoscenza di primo genere quella dell’uomo che forma «nozioni universali» – cioè trae conclusioni generali – a partire da quella che Spinoza denomina «esperienza vaga», intendendo con tale espressione le idee delle affezioni del nostro corpo. In altri termini, quelle idee che sono il corrispettivo mentale delle modificazioni subite dal nostro corpo in seguito al fortuito incontro con le cose esterne (percezioni di suoni, colori, odori ecc.). Tali idee sono prive di ordine e «mutile», in quanto non rispecchiano la totalità dei rapporti in cui ogni singola cosa è inserita, ordinati secondo la rigida legge di determinazione causale. Inoltre, esse sono confuse, in quanto sovrappongono alla cosa rappresentata le modificazioni del nostro corpo, e variano dunque inevitabilmente da soggetto a soggetto. Per que-

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Conoscenza di secondo tipo: nozioni «per sentito dire» Ragione come conoscenza discorsiva delle leggi naturali

Sapere intuitivo come conoscenza adeguata di Dio

L’errore è solo dell’immaginazione

Ragione e scienza intuitiva conoscono «sotto una specie di eternità»

sto motivo, le idee delle affezioni del nostro corpo in cui consiste l’immaginazione non possono fungere da base per la conoscenza scientifica. La seconda variante della conoscenza di primo genere è invece quella che Spinoza definisce conoscenza «per sentito dire», che ha luogo quando l’uomo forma le proprie idee delle cose accettando senza verifiche le conoscenze altrui, recepite in forma scritta o parlata. 2) Il secondo genere di conoscenza si chiama «ragione», e compendia le procedure del sapere scientifico dell’età galileiana e cartesiana. Con il termine «ragione» Spinoza designa, infatti, la conoscenza discorsiva, che forma leggi universalmente valide partendo non dalle idee delle affezioni corporee, bensì dalle «nozioni comuni», cioè dalle idee delle componenti geometrico-matematiche comuni al nostro corpo e al corpo che ci impressiona. A differenza delle idee delle affezioni del nostro corpo, le idee di ciò che è comune a tutti i corpi sono per Spinoza sempre «adeguate», cioè riflettono la struttura delle cose, identica per tutti gli uomini: una nozione comune è, per esempio, l’affermazione che tutti i corpi o si muovono o stanno fermi. Proprio in quanto sono «idee adeguate», le nozioni comuni ci permettono di raggiungere leggi universalmente valide in ogni scienza. Proprietà comuni a tutte le cose sono l’estensione, il moto e la quiete: nell’ontologia spinoziana, i corpi, infatti, in quanto modi finiti dell’estensione, devono tutti partecipare non solo di quest’ultima, ma anche dei suoi modi immediati e infiniti (vedi sopra, p. 236 s.), cioè il moto e la quiete. 3) La terza e più alta forma di conoscenza, che in questa pagina dell’Etica è chiamata «sapere intuitivo», si svolge in direzione inversa rispetto a quella razionale. Per scienza intuitiva Spinoza intende, infatti, quella conoscenza che, invece di procedere alla formulazione di leggi universali, muove immediatamente dalla conoscenza più universale possibile – l’idea dell’essenza di Dio in quanto estensione e pensiero – per dedurre, a partire da essa, l’essenza delle cose singole, ossia ciò che dall’eternità e per l’eternità le distingue le une dalle altre. Un simile procedimento è per Spinoza possibile, dato che secondo i presupposti della sua ontologia tutte le cose particolari sono in Dio – che è causa della loro essenza ed esistenza – e «sono concepite per mezzo di Dio», cioè possono essere adeguatamente conosciute solo attraverso la sostanza infinita, che ne è la causa prima. L’errore può per Spinoza derivare solo dal primo genere di conoscenza, mentre il secondo e il terzo non possono mai essere fonte di falsità. Inoltre, in quanto conoscenza inadeguata, frammentaria e parziale, la prima forma di conoscenza considera le cose come contingenti. Al contrario, la ragione e la scienza intuitiva, che sono una conoscenza adeguata e vera, considerano le cose come necessarie, cogliendo i rapporti e la struttura in cui esse sono inserite. Inoltre, cogliendo le cose nella loro genesi dalla necessità della natura divina, la ragione e la scienza intuitiva le percepiscono – afferma Spinoza – «sotto una certa specie di eternità» (sub specie aeternitatis). Tale affermazione può apparire contraddittoria, dal momento che sembra impossibile percepire come eterne le cose la cui esistenza ha una durata nel tempo. Tuttavia, l’apparente contraddizione viene meno, se si considera che le cose particolari non sono che modi della sostanza, la quale è eterna e infinita: l’essere totale di questa rimane identico così come anche le leggi che regolano la manifestazione della sua infinita potenza nella infinita pluralità dei modi, ciascuno dei quali muta nella forma, ma permane come momento della sostanza. 255

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L’ambivalenza dell’immaginazione Fonte del pregiudizio ma anche manifestazione necessaria della mente

Immaginazione e vita corporea

Immaginazione e cose esterne: un’utile risorsa

Immaginazione e memoria: all’origine di molti processi psichici

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L’immaginazione è per Spinoza il genere di conoscenza più basso, fonte di idee mutile e confuse, cioè di quelle idee inadeguate che, come si è visto sopra, pongono l’uomo in una condizione di passività rispetto alle cause esterne e in uno stato di schiavitù rispetto alle passioni. Conformemente a questo presupposto, Spinoza fa risalire all’immaginazione ogni forma di superstizione – come si vedrà meglio nell’esame della critica spinoziana della religione – e tutti i pregiudizi umani, compreso il pregiudizio dei pregiudizi, cioè quello finalistico. In realtà, però, l’immaginazione non è per Spinoza esclusivamente una fonte di errore, bensì costituisce piuttosto una manifestazione fisiologica e necessaria della mente umana, in quanto indissolubilmente legata al corpo di cui essa è idea. La rivalutazione della corporeità che, come si è visto, caratterizza la filosofia spinoziana rispetto alle teorie tradizionali non può non riverberarsi anche sulla sua teoria dell’immaginazione, conferendole dei tratti peculiari che vale la pena di mettere in risalto. A tale scopo, occorre innanzitutto ritornare sul nesso tra immaginazione e vita corporea: come la mente è l’idea del corpo, così le immagini con le quali le cose esterne ci si presentano – cioè le idee proprie dell’immaginazione – sono le idee delle modificazioni che avvengono nel nostro corpo sotto l’impulso delle cause esterne. Idee che si danno nella nostra mente in maniera necessaria, in virtù del parallelismo psico-fisico che si è illustrato sopra. Dal momento che le modificazioni corporee permangono anche una volta venute meno le cause che le hanno provocate, nella mente permangono anche le idee di esse: motivo per cui nella mente vi possono essere anche immagini di cose assenti. L’immaginazione non è altro che la rappresentazione meccanica e necessaria – cioè regolata da leggi – delle cose esterne come presenti, che può avere luogo sia quando le cose sono effettivamente presenti sia quando esse sono assenti o non esistenti. In entrambi i casi, l’immaginazione non è in sé una nociva fonte di errore, bensì può diventarlo solo sulla base di un suo uso distorto. Nel primo caso, cioè quando oggetti dell’immaginazione sono individui presenti, è vero, certo, che essa non ci fa conoscere l’essenza delle cose esterne: l’immaginazione ci offre, infatti, le idee delle affezioni del nostro corpo, facendoci così conoscere unicamente l’impatto che la cosa esterna ha su di noi. Tuttavia, ciò non vuol dire affatto che essa sia in sé difettosa o inutile: al contrario, informandoci sugli effetti che le cose esterne hanno sul nostro corpo, l’immaginazione ci offre delle risorse preziose per discernere ciò che è utile o dannoso alla conservazione e al potenziamento del nostro essere, in cui consiste il bene. Il difetto e l’errore si hanno solo se la mente di colui che immagina scambia gli effetti delle cose su di sé per la reale natura o essenza delle cose. Lo stesso discorso vale per il secondo caso, cioè quando gli oggetti che l’immaginazione rappresenta come presenti sono invece lontani nel tempo e nello spazio, o addirittura inesistenti. Tale espressione dell’immaginazione non equivale, di per sé, a una forma di delirio o alla produzione di sogni e allucinazioni. L’evocazione di ciò che è assente ha piuttosto, in sé considerata, una funzione fondamentale: essa è, infatti, l’elemento senza il quale non sarebbero possibili la comunicazione e le relazioni tra gli uomini, né ogni tipo di collegamento tra i fatti psichici. Senza di essa, non potremmo parlare con nessuno di un Paese lontano, o di un nostro caro che è morto, o di un amico che vive in un’altra città; anzi, qualora tale amico venisse a trovarci, non lo riconosceremmo.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz I rischi nell’uso dell’immaginazione

T14

La conoscenza immaginativa è in sé positiva B. Spinoza, Etica, 2, scolio della prop. 17

È lo stesso Spinoza a richiamare l’attenzione sul potenziale positivo dell’immaginazione. La raffigurazione di cose vicine o lontane come presenti – in cui consiste l’immaginazione – non è in sé un vizio della natura umana, ma piuttosto una virtù e una forza, a patto che l’evocazione non si sovrapponga tanto alla mente da far sì che uno creda effettivamente presente ciò che invece è assente. Soltanto in questo caso si tratterebbe di un delirio o di un’allucinazione, che è una chiara forma di patologia, mentre l’immaginazione è, nella normalità, un’espressione fisiologica della mente, ineliminabile e necessaria quanto le affezioni del corpo. […] Vorrei notaste che le immaginazioni della mente, in sé riguardate, non contengono nessun errore, ossia che la mente non erra per il fatto di immaginare, ma solo in quanto è considerata mancare dell’idea che escluda l’esistenza di quelle cose che immagina come a sé presenti. Perché se la mente, mentre immagina a sé presenti cose non esistenti, sapesse nello stesso tempo che quelle cose non esistono, certo attribuirebbe a virtù della sua natura e non a vizio questa potenza di immaginare; specie se questa facoltà di immaginare dipendesse dalla sua sola natura, cioè […] se questa facoltà di immaginare della mente fosse libera.

Scienza intuitiva, amore intellettuale di Dio e beatitudine Amore intellettuale di Dio: culmine della conoscenza e della virtù

Non è un ritorno al Dio-persona

Caratteri dell’amore intellettuale

Amore raggiunto attraverso l’idea di Dio

Il nesso tra vita intellettuale e vita etica vale anche per gli stadi superiori della conoscenza: come si è visto, infatti, il processo di emancipazione dalle passioni può compiersi solo attraverso l’acquisizione di quella «conoscenza adeguata» delle cose che, preclusa all’immaginazione-opinione, è prerogativa della ragione e della scienza intuitiva. In particolare, Spinoza indica il culmine del processo di liberazione dell’uomo e la suprema virtù nella pratica del terzo genere di conoscenza – cioè la scienza intuitiva – che egli concepisce come indissolubilmente legata all’affetto dell’«amore intellettuale di Dio», identificato con la «beatitudine». Le espressioni «beatitudine» e «amore di Dio» richiamano in modo inevitabile alla mente le religioni tradizionali: non a caso, la dottrina dell’amore intellettuale di Dio è stata in passato uno dei punti d’appoggio delle letture religiose e misticheggianti del pensiero di Spinoza e, ancora in tempi recenti, è stata indicata da alcuni studiosi come uno dei segni della permanenza del Dio-persona accanto al Dio-Natura. In realtà, però, nonostante le innegabili ambiguità e difficoltà dei passaggi che si riferiscono a questi concetti – tuttora oggetto di controversie – non occorre ricorrere al Dio-persona per spiegarne il significato. L’amore intellettuale di Dio non ha nulla a che vedere, infatti, con l’amore come sentimento reciproco che lega tra loro due soggetti, e che presupporrebbe necessariamente il riferimento a un Dio personale. Si tratta dunque di spiegare in che cosa esso invece consiste. L’amore in generale è, per Spinoza, l’affetto di gioia accompagnato dall’idea di una causa esterna, ove la gioia – come si è visto – è il passaggio a una perfezione superiore. L’uomo che raggiunge il terzo genere di conoscenza passa a una perfezione superiore rispetto a quando non possedeva tale conoscenza, e prova dunque un affetto di gioia. Questa gioia è amore di Dio, in quanto è accompagnata dall’idea di Dio come sua causa: come si è visto, infatti, l’idea di Dio – inteso non come Dio personale e 257

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Beatitudine come conoscenza di Dio attraverso le cose

Generi di conoscenza e gradi di certezza

trascendente, bensì come ordine geometrico dell’universo – è il punto di partenza della scienza intuitiva, che deduce l’essenza delle cose singole in quanto sono in Dio e derivano necessariamente da Dio. Infine, si tratta di un amore intellettuale, in quanto la gioia concomitante con l’acquisizione della scienza intuitiva esprime un incremento di perfezione nell’ambito del conoscere, che non riguarda il corpo. Solo la mente conosce in maniera perfetta la realtà, in quanto considera le cose non nel contesto di relazioni spazio-temporali contingenti con altre menti e altri corpi, bensì nel loro legame di derivazione necessaria ed eterna dalla natura divina. In sintesi, l’amore intellettuale di Dio può essere descritto – com’è stato detto – come la semplice gioia di cui godono lo scienziato e il filosofo, quando intendono l’ordine necessario ed eterno immanente nell’universo e comprendono le cose singole come elemento e manifestazione necessaria di tale ordine. Parimenti, la beatitudine che coincide con questo amore intellettuale di Dio è sì una forma di conoscenza di Dio – in quanto gioia che scaturisce dal terzo genere di conoscenza – ma non è in nessun modo la contemplazione ascetica di un Dio trascendente. Come si è visto, infatti, la scienza intuitiva è conoscenza di Dio solo e nella misura in cui è conoscenza dell’essenza delle cose singole, ove per Spinoza questa forma di conoscenza di Dio è la più elevata proprio in quanto, coerentemente con i presupposti della propria ontologia immanentistica, egli ritiene che «Quanto più intendiamo le cose singole, tanto più intendiamo Dio». Sulla base di questi presupposti, Spinoza capovolge completamente la concezione ascetica della beatitudine come risultato del distacco dal mondo e della repressione delle passioni: di contro, egli sostiene che l’uomo può frenare queste ultime solo in quanto gode della beatitudine, cioè solo una volta che abbia raggiunto la conoscenza adeguata, che gli consenta di ridurre al minimo la componente passiva dei propri affetti.

Generi di conoscenza

Grado di certezza

Immaginazione: 1° tipo

Oggetto Percezioni o conoscenza da esperienza vaga, cioè idee delle affezioni del corpo

Certezza soggettiva Immaginazione: 2° tipo

Certezza oggettiva e universalmente valida

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Conoscenza inadeguata, frammentaria e parziale, anche se utile Conoscenze «per sentito dire»

Ragione

Scienza intuitiva

Risultato

Nozioni comuni, ossia idee Conoscenza adeguata della natura e delle sue leggi delle componenti universali geometrico-matematiche dei corpi: estensione, moto, quiete Il Dio-sostanza e tutte le Conoscenza adeguata cose in quanto derivano da di Dio e delle cose singole: lui, permangono in lui, sono amore intellettuale di Dio concepibili attraverso di lui

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

6 La salvezza dei pochi saggi

T15

La difficile via della saggezza B. Spinoza, Etica, 5, scolio della prop. 42

È possibile la salvezza della moltitudine?

T16

La credulità umana è figlia della paura B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Prefazione

Paura e speranza: passioni impotenti e fonti di superstizione

La critica della religione rivelata Come si è appena visto, il messaggio fondamentale dell’Etica consiste nell’individuazione della «conoscenza adeguata» come la via maestra per raggiungere la libertà e la salvezza. Il saggio, in quanto consapevole dell’ordine necessario ed eterno nel quale è unito al Dio-Natura, non subisce turbamenti dall’esterno; egli è perciò libero e gode di una tranquillità dell’animo che non può essere scalfita da nulla. Spinoza è tuttavia conscio che questa strada della salvezza, insegnata dalla ragione, è una strada straordinariamente difficile, alla portata di pochi. Dalle cose dette risulta quanto più ricco e più forte sia il saggio dell’ignorante, che è spinto soltanto dalla libidine. Infatti l’ignorante, oltre ad essere agitato in molti modi da cause esterne e a non possedere mai un vero compiacimento dell’animo, vive inoltre quasi inconsapevole di sé, di Dio e delle cose; e appena cessa di patire, cessa anche di essere. Invece il saggio, in quanto è considerato tale, è difficilmente turbato nell’animo; ma, consapevole di sé, di Dio e delle cose secondo una certa necessità eterna, non cessa mai di essere, bensì possiede il vero compiacimento dell’animo. Se, ora, la via che come ho mostrato conduce a ciò, sembra estremamente difficile, può tuttavia essere trovata. E arduo, in verità, deve essere ciò che raramente si trova. Come infatti potrebbe avvenire, se la salvezza fosse sotto mano e potesse essere ottenuta senza molta fatica, che fosse negletta quasi da tutti? Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare. Il problema della salvezza dei più – cioè della moltitudine di coloro che, ignari di sé e del mondo, sono in balia delle proprie passioni fluttuanti e incontrollate – costituisce invece il problema centrale dell’altro scritto fondamentale del filosofo olandese, cioè il Trattato teologico-politico, che si apre proprio con la descrizione della condizione in cui si trova la maggior parte degli esseri umani vittime della propria ignoranza e del destino, combattuti tra paura e speranza, sempre pronti a rifugiarsi nella superstizione. Se gli uomini potessero dirigere tutte le loro cose con sagge e certe decisioni, oppure se la fortuna fosse loro sempre favorevole, non sarebbero soggetti ad alcuna superstizione. Ma, poiché spesso si trovano in difficoltà tali che non sanno prendere alcuna decisione, e poiché di solito, a causa degli incerti beni della fortuna che essi desiderano smoderatamente, fluttuano miseramente tra la speranza e la paura, il loro animo è quanto mai incline a credere qualsiasi cosa: quando è preso dal dubbio, esso è facilmente sospinto or qua or là, e tanto più quando esita agitato dalla speranza e dalla paura, mentre nei momenti di fiducia è pieno di vanità e presunzione. Spinoza sa che tutti gli uomini sono soggetti per natura alla superstizione, poiché tutti sono soggetti alle due passioni che la generano: la speranza e la paura, che non a caso nell’Etica sono presentate come due affetti che non possono essere di per sé buoni, in quanto segni di un animo impotente, cioè soggetto ed esposto alle alterne vicende della fortuna. Spinoza è inoltre persuaso che la teologia, in quanto sistema della superstizione, esalti in maniera strumentale il timore e la speranza, riferendoli rispettivamente a una punizione e a un premio eterni. 259

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Religione: la salvezza attraverso l’obbedienza

Mosso dalla convinzione che il potere della sola ragione sia di gran lunga inferiore a quello della superstizione, nel Trattato teologico-politico Spinoza si sforza dunque di individuare un percorso di salvezza alternativo, che non sia basato solo sulla ragione, bensì coinvolga anche l’immaginazione. In questa prospettiva, egli riconosce una funzione non solo legittima ma anche essenziale alla religione, in quanto strumento utile per indurre gli uomini al controllo parziale delle proprie passioni – cioè alla virtù – non mediante la conoscenza adeguata, bensì mediante l’obbedienza. Tuttavia, al tempo stesso Spinoza ritiene che tale importante funzione non possa essere assolta dalla religione insegnata e professata dalle diverse confessioni dell’Europa del Seicento che, per la reciproca rivalità, avevano insanguinato e continuavano a insanguinare il continente, generando quel clima di intolleranza di cui egli stesso era stato vittima.

T17

Mi sono spesso meravigliato che uomini, i quali si vantano di professare la religione cristiana, cioè l’amore, la gioia, la pace, la moderazione e la lealtà verso tutti, combattessero tra loro con tanta ostilità e nutrissero a vicenda, continuamente, un odio così feroce, da far riconoscere da queste cose, più facilmente che da quelle, la fede di ciascuno; le cose sono ormai arrivate al punto che quasi non si può riconoscere di che si tratti – cioè se di un cristiano o di un turco o di un ebreo o di un pagano – se non dal modo di vestire e dal culto, o dalla Chiesa che frequenta o, infine, dall’opinione che segue e dal maestro sulla cui parola è solito giurare. Per il resto conducono tutti la stessa vita. Cercando dunque la causa di questo male, non ho avuto dubbi che esso derivasse dall’opinione del volgo secondo cui è stata prerogativa della religione considerare i ministeri della Chiesa dignità e i suoi uffici benefici, nonché rendere i massimi onori ai pastori. Infatti, non appena incominciò nella Chiesa questo abuso, subito una grande brama di amministrare i sacri uffici si impossessò dei peggiori e lo zelo di diffondere la divina religione degenerò in una sordida avarizia e nell’ambizione, e lo stesso tempio degenerò in un teatro dove venivano ascoltati non dottori della Chiesa, ma oratori, il cui proposito non era di istruire il popolo, bensì di condurlo all’ammirazione nei loro confronti, di denigrare pubblicamente gli avversari e di insegnare soltanto cose nuove e insolite, che suscitassero la più grande ammirazione da parte del volgo; da tutto questo, evidentemente, non potevano sorgere che grandi contese, invidie e odio, che il passare del tempo non è riuscito a sedare. Non c’è dunque da meravigliarsi se dell’antica religione non sia rimasto altro che il culto esterno (col quale il volgo sembra adulare Dio più che adorarlo), e se la fede non sia ormai altro che la credulità e un insieme di pregiudizi: pregiudizi che trasformano gli uomini da esseri razionali in bestie – in quanto impediscono del tutto che ciascuno si serva liberamente della propria facoltà di giudicare e distingua il vero dal falso – , e che sembrano escogitati a bella posta per spegnere del tutto il lume dell’intelletto. La pietà e la religione, oh Dio immortale!, consistono in arcane assurdità, e coloro che disprezzano del tutto la ragione e che respingono e avversano l’intelletto in quanto corrotto per natura, proprio questi, per colmo di ingiustizia, sono creduti in possesso del lume divino. In verità, se anche avessero una scintilla del lume divino, non sarebbero così dissennati con tanta superbia, ma imparerebbero a rendere il culto a Dio con maggior saggezza, e si distinguerebbero dagli altri non già per l’odio, ma per l’amore; e non perseguiterebbero con tanta ostilità

L’origine delle lotte di religione

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Prefazione

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

quelli che dissentono da loro, ma (se davvero si preoccupassero della loro salvezza, e non del proprio successo) sarebbero misericordiosi nei loro confronti. Depurare la religione dalla superstizione

La funzione della religione

Sulla base di un’analisi molto pessimistica della condizione religiosa del proprio tempo, Spinoza ritiene che la religione possa esercitare l’importante compito di condurre alla salvezza la massa di coloro che non sono in grado di sollevarsi alla conoscenza adeguata soltanto se depurata dai pregiudizi teologici. Per questo motivo, egli dedica tutta la prima parte del Trattato teologico-politico alla confutazione sistematica dei pregiudizi religiosi, che presuppone e integra, calandola nella concretezza della storia, l’indagine su Dio e sulle passioni svolta nell’Etica. La seconda parte dell’opera ha invece per tema centrale la fondazione della libertà civile e politica, e verrà illustrata nel capitolo dedicato ai principali modelli teorici del giusnaturalismo moderno (vedi Unità 7, p. 440). Cosa insegna l’Etica

Cosa insegna la religione

La saggezza è la via maestra per raggiungere libertà e salvezza

L’obbedienza alle regole serve per il controllo delle passioni

Si serve della ragione e della scienza intuitiva

Si serve dell’immaginazione

Vale solo per pochi

Vale per la moltitudine

Un nuovo metodo d’interpretazione delle Scritture L’indagine critica delle fonti

T18

Lo scontro sulla interpretazione delle Scritture

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 7

Consapevole del fatto che la ragione non è tenuta in grande considerazione dai teologi, per criticare i principali pregiudizi di questi ultimi Spinoza non si serve solo di argomenti razionali. Decide piuttosto di scendere sul terreno dei suoi avversari, cercando di dimostrare la falsità delle loro posizioni a partire dalla fonte principale della conoscenza teologica occidentale, cioè le Sacre Scritture. Scelta che è dettata anche dalla constatazione che l’interpretazione di queste ultime costituiva da sempre – e in particolare dopo la Riforma protestante – il principale terreno di scontro tra le diverse correnti teologiche e confessioni religiose. È sulla bocca di tutti che la Sacra Scrittura è la parola di Dio che insegna agli uomini la vera beatitudine o la via della salvezza; ma nei fatti dimostrano tutt’altra cosa. Il volgo, infatti, di nulla sembra preoccuparsi di meno che di vivere secondo gli insegnamenti della Sacra Scrittura, e vediamo che quasi tutti spacciano per parola di Dio le loro invenzioni e non badano ad altro che a costringere gli altri, col pretesto della religione, ad essere del loro parere. Vediamo, dico, che i teologi si sono per lo più dati da fare per trovare il modo di estorcere alle Sacre Lettere e di accreditare con l’autorità divina le loro finzioni e i loro pareri, e che in nessuna cosa essi agiscano con minore scrupolo e con maggiore avventatezza quanto nell’intepretazione della Scrittura, cioè del pensiero dello Spirito Santo; 261

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

e se nel far ciò sono presi da qualche preoccupazione, questa non è il timore di attribuire allo Spirito Santo qualche errore e di deviare dalla via della salvezza, ma di essere colti in errore dagli altri. Per porre fine una volta per tutte a questo genere di controversie e per «liberare la mente dai pregiudizi dei teologi», Spinoza adopera un nuovo metodo di lettura dei Libri Sacri che si può definire storico-critico, in quanto è fondato sulla ricostruzione storica del testo mediante un’accurata indagine filologica, cioè mediante la ricerca dell’autentico significato storico delle parole. Alla base di un simile metodo vi è il rifiuto del presupposto basilare della interpretazione teologica tradizionale, cioè la tesi che le Sacre Scritture siano un’opera scritta da Dio stesso – concepito a immagine e somiglianza degli uomini – attraverso le mani dei profeti. Le Scritture come Per Spinoza, di contro, si tratta di libri che, al pari di ogni altro documento letdocumento letterario terario, possono e devono essere interpretati solo sulla base di un’accurata anae umano lisi filologica, in quanto i loro autori sono anch’essi semplici uomini. A loro Dio ha trasmesso un certo insegnamento etico-religioso non attraverso un rapporto personale e sovrannaturale, bensì attraverso la sua semplice idea, presente nella mente umana. La scelta di adoperare tale metodo costituisce anche una presa di distanza rispetto all’interpretazione delle Sacre Scritture mediante l’applicazione di principi filosofici. Per Spinoza, infatti, come la conoscenza della Natura va ricavata dalla sola Natura, così la conoscenza di ciò che è contenuto nella Scrittura va ricavato dalla sola Scrittura, senza contaminarla con le opinioni filosofiche dell’interprete e senza piegarla ai principi della conoscenza naturale.

Ricostruzione storica e indagine filologica

T19

Studio della Scrittura e studio della natura

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 7

Il metodo di interpretazione della Scrittura non differisce dal metodo di interpretazione della natura, ma concorda del tutto con questo. Infatti, come il metodo di interpretazione della natura consiste essenzialmente nell’apprestare la storia della natura, dalla quale, in quanto base di dati certi, traiamo le definizioni delle cose naturali, così per interpretare la Scrittura è necessario allestire la sua storia genuina e trarre da questa, come da dati certi e da principi, con passaggi legittimi, il pensiero degli autori della Scrittura: in questo modo chiunque (se, naturalmente, per interpretare la Scrittura e per discorrere delle cose in essa contenute, non ammetterà nessun altro dato e principio se non esclusivamente quelli che si ricavano dalla stessa Scrittura e dalla sua storia) procederà senza alcun pericolo di errare.

Conoscenza naturale e rivelazione Sulla base dei criteri appena illustrati, Spinoza mostra come le stesse Sacre Scritture, se correttamente interpretate, non offrano alcun appiglio, ma al contrario contraddicano i principali pregiudizi teologici. Il primo e più importante tra questi è per Spinoza l’affermazione del primato della conoscenza rivelata o profetica – in quanto veicolo di messaggi divini – rispetto a quella naturale. Pari valore Contro tale tesi, egli ricava, a partire dalle Sacre Scritture, una descrizione deltra rivelazione la natura e dei caratteri della profezia che gli consente di rivendicare l’autonoe conoscenza naturale mia e la pari dignità della scienza rispetto a essa. In primo luogo, partendo dalla definizione della profezia / rivelazione come la «conoscenza certa di qualcosa, Le stesse Scritture contraddicono i pregiudizi teologici

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

La rivelazione utilizza l’immaginazione

La rivelazione è conoscenza soggettiva fondata su una certezza morale

La rivelazione fornisce un sapere pratico

Distinzione e autonomia reciproca tra filosofia e teologia

T20

La fede e la libertà di filosofare

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 14

rivelata da Dio agli uomini», Spinoza può equiparare la conoscenza naturale a quella rivelata. Dal momento che – come si è visto – egli ritiene che la conoscenza di Dio sia fonte e causa della conoscenza naturale di tutte le cose, quest’ultima può essere considerata, a pari titolo di quella profetica, come conoscenza rivelata da Dio agli uomini. Le differenze tra la conoscenza profetica e quella naturale non consistono, dunque, nella fonte da cui derivano, ma sono invece di altra natura. Innanzitutto, mentre l’organo della scienza è la ragione, quello della conoscenza profetica è l’immaginazione: le Scritture mostrano, infatti, che Dio si è rivelato ai profeti esclusivamente mediante parole e immagini, cioè mediante due elementi che si collocano entrambi nel dominio dell’immaginazione. Come si è visto sopra, l’immaginazione è il genere più basso di conoscenza. Di conseguenza, la diversa origine della conoscenza scientifica e di quella religiosa implica anche una diversità nel tipo di certezza. Soltanto la prima – in quanto conoscenza razionale o di secondo genere – perviene a una certezza oggettiva, universalmente valida. Tramite la profezia o rivelazione, che dipende dalla sola immaginazione, il profeta perviene invece a conoscenze che portano il segno ineliminabile della sua soggettività individuale, cioè del suo temperamento e delle sue opinioni: il profeta malinconico profetizza eventi funesti, mentre quello allegro eventi lieti. La rivelazione è dunque priva della certezza oggettiva e matematica: l’unico tipo di certezza che Spinoza le riconosce è la certezza morale, cioè una forma di certezza fondata non sull’evidenza della cosa conosciuta, bensì prevalentemente sull’inclinazione dell’animo dei profeti al bene e alla giustizia. Ciò comporta una delimitazione del campo proprio della rivelazione e di quello della conoscenza naturale. Sulla base dei presupposti appena illustrati, Spinoza nega, infatti, che le Sacre Scritture contengano insegnamenti speculativi, utili alla conoscenza della realtà materiale e spirituale, attingibile solo mediante la conoscenza naturale. Agli insegnamenti della rivelazione egli riconosce un valore esclusivamente pratico, cioè quello di offrire norme di vita pratica adatte a tempi, luoghi e individui determinati, in grado di guidare alla virtù – attraverso lo strumento dell’obbedienza a Dio – gli uomini incapaci di seguire la strada della ragione. A questa distinzione tra rivelazione e conoscenza naturale corrisponde quella tra teologia e filosofia. In polemica con i sostenitori della subordinazione della seconda alla prima o viceversa, Spinoza nega che tra le due sia possibile qualsiasi forma di interferenza, presentandole come ambiti completamente diversi. Fondamento della fede o della teologia sono «i racconti e la lingua» e il suo scopo è solo l’obbedienza; essa non ha dunque alcun punto di contatto con la filosofia, il cui fondamento sono le nozioni comuni e il lume naturale della ragione, e il cui solo scopo è la verità. Tra la fede, ossia la teologia, e la filosofia non c’è alcuna relazione, ovvero affinità, cosa che chiunque conosca lo scopo e il fondamento di queste due facoltà non può ignorare. Lo scopo della filosofia, infatti, non è altro che la verità, mentre quello della fede, come abbiamo abbondantemente dimostrato, non è altro che l’ubbidienza e la pietà. Inoltre, i fondamenti della filosofia sono le nozioni comuni, sicché essa deve essere ricavata dalla sola natura. Quelli della fede, invece, sono le storie e la lingua, ed essa deve essere ricavata dalla sola Scrittura e rivelazione, come abbiamo mostrato nel capitolo VII. 263

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La fede, dunque, concede a ognuno la somma libertà di filosofare, in modo che tutti possano pensare ciò che vogliono su qualsiasi cosa senza empietà: essa condanna come eretici e scismatici soltanto coloro che insegnano opinioni per sostenere la ribellione, gli odi, le contese e l’ira e, al contrario, considera credenti coloro che, in proporzione alla forza della loro ragione e alle loro possibilità, sostengono la giustizia e la carità. Due concezioni di Dio: vera quella filosofica, solo utile quella religiosa

In base alla distinzione tra filosofia e teologia, risulta vera solo la conoscenza di Dio offerta dalla prima: la conoscenza intellettuale della natura divina quale è in sé, cioè non come Ente personale che comanda obbedienza, bensì come ordine necessario di cause ed effetti. Conoscenza che, come si è visto, per il saggio è anche condizione sufficiente della virtù. La conoscenza di Dio offerta dalla religione rivelata, che è una conoscenza immaginativa, non è invece vera: per venire incontro al bisogno degli uomini comuni di avere un modello di vita morale da imitare, la rivelazione fornisce, infatti, una rappresentazione antropomorfica della divinità. Nonostante ciò, essa è ammissibile e anzi utile e necessaria, nella misura in cui è funzionale a spingere alla virtù tramite l’obbedienza – e dunque a condurre alla salvezza – tutti coloro che non sono in grado di elevarsi alla conoscenza adeguata.

La critica dei dogmi, dei riti e dei miracoli Elementi essenziali e non essenziali della rivelazione

Non esiste un popolo eletto

La profezia appartiene a tutti i popoli

I riti e i dogmi non sono necessari alla salvezza

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La tesi che la religione rivelata abbia come scopo l’esortazione all’obbedienza costituisce anche un criterio per discernere quanto in essa è essenziale da ciò che invece è estrinseco e contingente, derivante dalla mentalità dei profeti o dall’esigenza di adattarsi alla mentalità dei destinatari. Secondo Spinoza, infatti, per inculcare la virtù tramite l’obbedienza è sufficiente una nozione di Dio molto semplice, quale Ente Supremo che esige di essere adorato tramite l’esercizio della giustizia e della carità. Tutte le altre notizie sulla natura divina – e in particolare i complicati dogmi speculativi su di essa, contenuti nelle Scritture o stabiliti dalla tradizione, spesso in contraddizione tra loro e all’origine delle divisioni tra le differenti religioni rivelate – non servono al fine di stimolare alla virtù mediante l’obbedienza. Di conseguenza, esse devono essere considerate come elementi inessenziali rispetto alla religione rivelata e rispetto al conseguimento della salvezza. Sulla base di questi presupposti, Spinoza finisce di fatto per negare l’assunto basilare di tutte le comunità religiose fondate sulla fede in una determinata rivelazione, e in particolare della religione ebraica, in quanto religione del ‘popolo eletto’. Egli nega cioè l’assunto che la salvezza costituisca la prerogativa esclusiva dei membri di una determinata confessione religiosa – in opposizione alle altre – e richieda come condizione necessaria la fede nei dogmi e nelle storie peculiari di quest’ultima, nonché la pratica delle cerimonie di culto da essa prescritte, presentate come comandamenti divini. Innanzitutto, Spinoza dimostra, a partire dalle stesse Scritture, che il dono della profezia è comune a tutti i popoli e a tutte le religioni. Di conseguenza, risulta infondata sia la pretesa degli ebrei di essere il popolo eletto da Dio – nel senso di unico popolo cui Dio avrebbe riservato tale dono – sia quella di qualsiasi altro popolo o religione di considerarsi depositari esclusivi della rivelazione profetica. In secondo luogo, egli nega che, in generale, le cerimonie di culto e la fede nel contenuto storico positivo delle diverse religioni rivelate costituiscano una condizione

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

necessaria per la salvezza. Le differenti narrazioni storiche delle diverse religioni rivelate sono solo degli strumenti per esortare alla virtù, tramite l’appello all’esperienza, coloro che non sono in grado di seguire una dimostrazione razionale. Dal momento che la virtù – che sola può dare salvezza e beatitudine – è una e universale, ne segue che la fede nelle storie narrate dalle rivelazioni non rende di per sé beati, ed è utile solo in rapporto agli insegnamenti morali che tali storie vogliono trasmettere.

T21

Elogio dell’uomo virtuoso e saggio B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 5

Origine psicologica della fede nei miracoli

L’indagine filosofica svela il miracolo

T22

Il miracolo nasce dall’ignoranza delle leggi naturali

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 6

La fede nei miracoli appartiene a un’epoca prescientifica

Sicché, se uno legge le storie della Sacra Scrittura e presta loro fede in tutto, ma non fa attenzione all’insegnamento contenuto in tali storie e non corregge la propria vita, è come se leggesse il Corano o i lavori teatrali dei poeti, o tutt’al più le comuni cronache, con quell’attenzione che è usuale nel volgo. Al contrario, come abbiamo detto, colui che ignora completamente quelle storie, e nondimeno ha opinioni salutari e segue il vero modo di vivere, questi è realmente beato e ha realmente in sé lo spirito di Cristo. Il principio di utilità vale anche per i riti del culto religioso, in cambio dei quali – argomenta Spinoza – la Scrittura promette esclusivamente benessere e piaceri materiali, lasciando dunque intendere che essi non giovano affatto alla beatitudine, bensì esclusivamente alla prosperità di un ordinamento sociale e politico. Infine, Spinoza sottopone a una critica sistematica quella componente delle religioni rivelate, che a suo avviso è la principale espressione del desiderio di ogni popolo di convincere e convincersi che il proprio Dio è il più potente di tutti gli dèi: la fede nei miracoli. In questo caso, Spinoza fonda la propria critica non solo sull’esame filologico delle Scritture – dal quale egli ricava la conclusione che in esse l’espressione «azione di Dio» si riferisce all’ordine della natura quale deriva da leggi eterne, e non a un intervento sovrannaturale in contrasto con tale ordine – ma anche e soprattutto sulla conoscenza naturale. La questione se si possa concedere che in natura accada qualcosa che sia contrario alle sue leggi è, infatti, un tema schiettamente filosofico, che può e deve essere indagato con un approccio razionale. Come si è visto, Spinoza nega che sia possibile una deviazione dal necessario ordine delle cause naturali, a partire dal presupposto che non vi è alcuna differenza tra la potenza di Dio e la potenza e la necessità naturali. Di conseguenza, egli considera il miracolo la semplice espressione di un difetto di conoscenza. […] da queste cose – cioè, in natura non accade niente che non segua dalle sue leggi; le sue leggi si estendono a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto di Dio; infine la natura conserva un ordine fisso e immutabile –, segue chiarissimamente che il nome «miracolo» non può essere inteso se non rispetto alle opinioni degli uomini, e non significa nient’altro che un fatto del quale non possiamo spiegare la causa naturale sull’esempio di un’altra causa consueta, o almeno non può spiegarla colui che scrive o racconta il miracolo. Con la propria definizione di miracolo, Spinoza colloca la possibilità di tale esperienza in un’epoca in cui non esisteva ancora la scienza esatta. Un’epoca di ignoranza, in cui le rappresentazioni erano dominate dall’immaginazione e dalle passioni, e gli uomini erano ben lontani dal possedere una conoscenza adeguata – cioè chiara e distinta – dei fenomeni; un’epoca in cui conoscere una cosa non significava dedurla in maniera necessaria dalla sua causa, ma semplicemente ren265

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La conoscenza ci libererà dalla credenza nei miracoli

Identità tra decreti divini e leggi universali della natura ➥ Sommario, p. 302

derla familiare, accostandola ai fatti abitualmente conosciuti; per cui tutto ciò che appariva come completamente nuovo non poteva che risultare miracoloso. All’esperienza del miracolo degli antichi egli contrappone la propria viva esperienza del progresso della conoscenza naturale, reso possibile dall’applicazione del metodo geometrico-matematico anche nel campo della fisica. Alla luce della consapevolezza delle possibilità illimitate di progresso dischiuse dalla nuova scienza, Spinoza afferma che ciò che sfugge alla nostra comprensione non appare come un miracolo – cioè come qualcosa che è in sé inspiegabile, in quanto al di sopra delle leggi naturali – bensì semplicemente come qualcosa che non è ancora stato compreso, ma potrà esserlo in futuro, grazie a ulteriori ricerche scientifiche. Alla teologia biblica, radicata nell’esperienza del miracolo quale intervento personale di Dio nel mondo, Spinoza contrappone dunque la propria teologia – fondata sull’identificazione tra Dio e l’ordine fisso e immutabile della natura – nella quale i decreti divini altro non sono che le stesse leggi universali della natura.

La critica della religione

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Critica della religione

Ricostruzione storica dei testi e indagine filologica

Pari valore tra conoscenza profetica e conoscenza naturale

Distinzione tra elementi essenziali e non essenziali delle Scritture

Indagine filosoficoscientifica sulla natura

Scritture come documento letterario e umano

Delimitazione reciproca di ambiti: due immagini di Dio

Negazione di alcune ‘verità di fede’ e dei riti

Rifiuto dei miracoli

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

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Leibniz I testi

G.W. Leibniz Nuovi saggi sull’intelletto umano: Il progresso dell’umanità, T23; Le idee nell’intelletto divino, T27 Monadologia: Il mulino, T24 Che cos’è un’idea: L’espressione, T25 Pensieri senza pretese intorno all’uso e al miglioramento della lingua tedesca: Segni come gettoni in luogo di denaro, T26 Prefazione alla scienza generale: I caratteri e il calcolo, T28 Storia ed elogio della lingua caratteristica universale: I benefici della caratteristica universale, T29 Dissertazione sull’arte combinatoria: Verità di ragione e verità di fatto, T30

1

Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità: L’individuo racchiude infiniti fatti, T31 Saggi di teodicea: Nulla è senza una ragione, T32; La scelta di Dio, T42; L’origine del male metafisico, T43 Discorso di metafisica: La sostanza come essere completo, T33; La sostanza come specchio dell’universo, T34; La forza, T35; L’autonomia della spiegazione meccanicistica, T39; Il limite della spiegazione meccanicistica, T40; Progetto e strumenti, T41 Nuovo sistema della natura: I punti metafisici di sostanza, T36 Lettera ad Arnauld: Un principio vitale, T37 Lettera a De Volder: L’animale come struttura complessa, T38

L’ultima armonia

L’opera di Leibniz, di enorme ricchezza e complessità, offre uno straordinario intreccio di tematiche e di linee di pensiero in cui si raccolgono motivi almeno in apparenza contraddittori, che tuttavia si coniugano in uno sforzo di sintesi e di mediazione teso a ricondurre a un’armonia complessiva i principali risultati della cultura della sua epoca e quelli che Leibniz stesso raggiunge. Leibniz è stato sempre convinto che verità che si presentano come contraddittorie possano trovare, attraverso uno scavo più profondo, una nascosta assonanza: ha creduto che, analogamente a ciò che egli stesso disse a proposito delle fedi religiose, molte asserzioni discrepanti del sapere umano si oppongano più in ciò che negano che in ciò che affermano. Prospettive molteplici e punti di vista differenti non si contraddicono se ripensati in una unità più vasta. Un progetto Da questa sua convinzione personale, dalla sua figura di «genio universale», cafilosoficamente unitario pace di innovazioni nei campi più diversi, e dal suo profondissimo talento speculativo è scaturito un progetto filosofico che cercava – forse per l’ultima volta – di tenere insieme e anzi di rafforzare reciprocamente istanze che già si presentavano in conflitto e che gli sviluppi successivi della cultura e del pensiero avrebbero tendenzialmente separato, o la cui contrapposizione sarebbe stata vissuta comunque in seguito in modo più drammatico: scienza moderna e metafisica, meccanicismo e cause finali, forme sostanziali e matematizzazione dei fenomeni, specializzazione del sapere e unità enciclopedica, azione scientifica e culturale e prassi politica, pensiero e tecnica, fede e ragione, libertà e necessità, male nel mondo e presenza di Dio. La ricerca di una nascosta assonanza

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Anche le filosofie che dopo Leibniz insisteranno sull’unità del sapere e sulla razionalità del reale non saranno in grado di prospettare in egual misura un’armonica convergenza di forme di sapere e di ambiti del reale che si presentino come inconciliabili. Al centro di questo progetto sta l’idea di una ragione in grado di rendere conto di ogni aspetto del mondo e di guidare il progressivo perfezionamento dell’uomo. Risultati Al tempo stesso, quello che è stato chiamato l’«eclettismo creativo» di Leibniz, la non sistematici sua capacità di assorbire e fare proprie le più diverse prospettive in campi dispadell’opera di Leibniz rati, con contributi innovativi, ha prodotto risultati e modelli concettuali che possono prescindere dalla sua complessiva visione armonizzante. La capacità di dialogare in molti campi e con posizioni diverse, il tentativo di rendere sempre più concreta l’armonia progettata, ha fatto sì che Leibniz non abbia mai dato una sistemazione davvero compiuta e definitiva al suo pensiero in una summa della sua prospettiva filosofica, ma si sia espresso in una miriade di opere diverse su temi anche particolari. Così che l’unità dello stesso sistema che teorizzava l’armonia del tutto è rimasta per certi versi un progetto non completamente definito. E la filosofia di Leibniz paradossalmente poche volte è stata recepita come un tutto.

L’idea di una ragione unificante

2 Uno degli ultimi eruditi universali

La formazione

Il primo incarico diplomatico a Parigi

Gli studi matematici e la disputa con Newton

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Un genio universale tra teoria e prassi La figura dell’erudito universale, dell’uomo di cultura che si occupa dei rami più disparati del sapere, diffusa in particolare a partire dal Rinascimento e ancora nel Seicento, si realizza nell’opera di Leibniz a livelli alti in molti campi, in una misura che in seguito non sarà più possibile conseguire. Anche in questo Leibniz segna un culmine significativo, perché sarà lo sviluppo del sapere e della cultura a rendere impossibile, prima ancora che una sintesi, quale quella tentata da Leibniz, anche solo una simile compresenza di competenze e attività diverse in una sola persona. Genio precoce – a otto anni leggeva gli autori latini, a dodici i greci, a tredici si occupava di logica – Leibniz si immerse subito in riflessioni ad ampio raggio, e si dedicò nel corso della sua vita non soltanto a discipline diverse, ma ad attività intellettuali non limitate all’ambito scientifico e teorico. Non fu un professore (rifiutò una cattedra all’università di Altdorf) né uno scienziato di professione, ma piuttosto giurista e diplomatico, e anche storico, al servizio di principi. Il suo primo incarico, a ventun anni, è quello di magistrato per conto del principe elettore e arcivescovo di Magonza; nel frattempo aveva già scritto di metafisica, diritto, matematica, e una Dissertazione sull’arte combinatoria,1666) in cui delinea un progetto di «logica inventiva» e di «scrittura universale» che continuerà a perseguire e a perfezionare in seguito. Su incarico di un suo amico e protettore, il barone Johann Christian von Boineburg, svolge nel 1672 il suo primo incarico diplomatico a Parigi, avendo così l’occasione di entrare in contatto con un mondo culturale aperto e innovatore, e di conoscere in particolare Christiaan Huygens (1629-1695), importante scienziato e matematico olandese, che lo spinge e lo indirizza nello studio della matematica più avanzata, tra cui quella di Cartesio. Pochi anni dopo, nel 1775, scopre il calcolo infinitesimale, un’acquisizione fondamentale della matematica moderna, che sarà oggetto successivamente di una

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Gli studi storici: linguistica e geologia

I viaggi e l’epistolario

I progetti pratici

Il tentativo di riunificazione delle Chiese cristiane

La fondazione dell’Accademia delle Scienze di Berlino

disputa con Newton circa la priorità della scoperta (è ormai chiaro che essa avvenne parallelamente e indipendentemente, con metodi diversi, da parte di entrambi gli autori). In seguito alla morte dell’elettore di Magonza, Leibniz passa, nel 1676, al servizio come consigliere del duca di Hannover Johann Friedrich von Braunschweig-Lünenburg. Alla corte dei duchi di Hannover, con i quali però i rapporti furono talvolta difficili, resterà legato fino alla sua morte, pur accettando incarichi da altri sovrani. A Hannover, presso l’Archivio Leibniz, sono ancora conservati i suoi manoscritti e le sue lettere: una massa di scritti non ancora tutti pubblicati. Accanto agli interessi matematici, giuridici, filosofici e fisici di cui si è detto, Leibniz coltiva studi di linguistica storica ed etimologia, studi in ambito geologico: redige una storia della Terra (la Protogaea), di cui pubblica un breve rendiconto nel 1693 – l’opera completa, come è accaduto per molti scritti di Leibniz, che ha pubblicato per lo più brevi testi programmatici o riassuntivi, o brevi saggi su temi specifici, verrà stampata solo dopo la sua morte. Svolge anche, su incarico della corte di Hannover, una lunga ricerca storica sulla casa di Braunschweig, nella quale applica metodi storiografici rigorosi, stabilendo nuovi standard scientifici nella ricerca storica. Dei suoi incarichi sia diplomatici che scientifici approfitta anche per compiere molti viaggi, che lo portano a Londra, in Olanda, in Italia, in Austria, oltre che, come si è detto, in Francia, e gli consentono contatti personali con studiosi in tutta Europa. L’epistolario scientifico di Leibniz, di mole impressionante, che conteneva contributi filosofici rilevantissimi, coinvolge autori come Hobbes, Spinoza, Malebranche, Newton, Samuel Clarke (1675-1729), Arnauld, e moltissimi altri studiosi del suo tempo. Nel corso della sua vita di studioso e di diplomatico Leibniz cerca di realizzare diversi progetti concreti. Progetta una macchina calcolatrice («calcolatrice a scatti»), basata su un ingranaggio cilindrico in grado di svolgere le quattro operazioni fondamentali, di cui presenta un prototipo alla Royal Society di Londra (ma sarà la definizione della numerazione binaria il suo maggiore contributo alla futura storia dei calcolatori); lavora a lungo alla costruzione di un sistema di drenaggio per le miniere dello Harz, basato sui mulini a vento. Nella sua azione diplomatica Leibniz svolge diversi incarichi, spesso mirati a favorire processi di pace. Concepisce un progetto di riunificazione delle Chiese cristiane, per il quale lavora anche su incarico del duca di Hannover. Di confessione protestante, rifiuta di convertirsi al cattolicesimo quando gli viene offerto l’incarico di custode della Biblioteca Vaticana soprattutto per conservare la libertà di ricerca scientifica che non vede riconosciuta dalla Chiesa cattolica; ma cerca appunto costantemente di promuovere il superamento delle divisioni tra i cristiani (i principi per cui lavorò erano cattolici), e almeno l’unità delle Chiese protestanti. Leibniz si rende conto presto che il suo progetto di una scienza universale, di una enciclopedia che offrisse una «Porta delle Cose», non è realizzabile senza una organizzazione del lavoro scientifico nei campi più diversi, senza lo sforzo congiunto di più persone. Concepisce allora l’idea di un’Accademia delle Scienze, che riesce a realizzare nel 1700 a Berlino, con l’appoggio del principe elettore di Brandeburgo Federico III. Nasce così l’Accademia prussiana delle Scienze, di cui diventa presidente, alla quale Leibniz intende dare finalità non solo scienti269

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

fiche. Nel proporla Leibniz scrive che l’Accademia «avrebbe dovuto unire la teoria alla pratica, con vantaggio non solo delle arti e delle scienze, ma anche del paese e dei suoi abitanti, attraverso la promozione dell’industria manifatturiera e del commercio». Il motto che sceglie per l’Accademia – Teoria cum praxi («Teoria e prassi») – esprime chiaramente questo intento. Una concezione attiva È in generale la sua visione dell’uomo come di un essere che ha il compito di dell’uomo di cultura perseguire un costante perfezionamento di se stesso a spingerlo verso una concezione attiva dell’operato dell’uomo di cultura. Concluderà i suoi Principi razionali della natura e della grazia, scritti nel 1714 (due anni prima della morte) per un principe, Eugenio di Savoia (generale dell’impero e raffinato umanista, 1663-1736), scrivendo: «la nostra felicità non consisterà mai e non deve affatto consistere in una gioia piena, in cui non ci sarebbe più nulla da desiderare – e che renderebbe ottuso il nostro spirito –, ma in una progressione continua di nuovi piaceri e di nuove perfezioni». Lo stesso progredire continuo, favorito dall’«alleanza della pratica con la teoria», deve essere possibile al genere umano. Dopo avere insistito sulla rivalutazione delle arti manuali, delle professioni e dei mestieri, così conclude i suoi Nuovi saggi sull’intelletto umano:

T23

Il progresso dell’umanità

G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano

Bisognerebbe però, per far questo, mutare in molte cose la situazione attuale della letteratura, e dell’educazione dei giovani, e di conseguenza la situazione politica. E quando considero quanto hanno progredito gli uomini in conoscenza da un secolo o due, e quanto sarebbe facile per loro procedere incomparabilmente più avanti per diventare più felici, non dispero che si possa pervenire a qualche miglioramento considerevole, in un tempo più tranquillo, sotto qualche gran principe che Dio potrà far sorgere per il bene del genere umano.

La vita e le opere Gottfried Wilhelm von Leibniz nacque nel 1646 a Lipsia, in Sassonia, dove si formò studiando le lingue classiche e la filosofia scolastica e dedicandosi, poi, alla filosofia moderna. Conobbe così le opere di Francesco Bacone, Tommaso Campanella, Giordano Bruno, Giovanni Keplero, Galileo Galilei e Cartesio e aderì al meccanicismo cartesiano. Nel 1663 si laureò in filosofia e tre anni dopo in diritto presso l’università di Altdorf, in Svizzera; in quello stesso anno uscì la sua prima opera Dissertatio de arte combinatoria («Dissertazione sull’arte combinatoria»), in cui presentò la sua teoria della logica come calcolo, rimasta inedita fino agli inizi del Novecento. Nel frattempo aveva intrapreso la carriera diplomatica presso l’arcivescovo di Magonza, per poi passare, nel 1676 al servizio del duca di Hannover, alla cui corte rimarrà fino alla morte, ricoprendo vari incarichi: bibliotecario, diplomatico, storiografo ufficiale. Tra il 1672 e il 1676 aveva anche soggiornato a Parigi, dove conobbe Nicolas Malebranche e Antoine Arnauld, e studiò con il matematico olandese Christiaan Huygens. Si recò in missione diplomatica anche in Inghilterra, nel 1673, dove pre-

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sentò alcuni suoi esperimenti alla Royal Society. Nel 1700 fondò l’Accademia prussiana delle scienze, a Berlino. In questi anni si dedicò a molte discipline (teologia, diritto costituzionale, matematica e meccanica) e nel 1675 formulò la sua teoria del calcolo infinitesimale, che rese pubblica nel 1684. Stabilitosi ad Hannover, elaborò molti scritti, prevalentemente in francese: Discorso di metafisica (1686), il Nuovo sistema della natura, della comunicazione tra le sostanze e dell’unione tra l’anima e il corpo (1695), i Nuovi saggi sull’intelletto umano (17041705), in cui criticava e commentava il Saggio sull’intelletto umano di John Locke, che non pubblicò per la sopravvenuta morte del filosofo inglese nel 1704 e che uscirono postumi nel 1765. I Saggi di teodicea (1710) furono la maggiore e la più sistematica tra le opere edite; mentre gli ultimi lavori furono i Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione e la Monadologia (1714), entrambi dedicati alla metafisica. Leibniz lasciò anche un’imponente mole di taccuini, articoli, note e un epistolario ricchissimo (circa quindicimila lettere) frutto dei contatti con più di mille corrispondenti. Morì nel 1716 e fu sepolto ad Hannover.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

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Anime come specchi: la rappresentazione del mondo Nella produzione di Leibniz non esiste un’opera sistematica di ampio respiro come le Meditazioni cartesiane o l’Etica di Spinoza. Per seguire l’indagine leibniziana sulla razionalità e sull’intima unità del reale il nostro cammino inizia dalla sua teoria della rappresentazione e quindi dalla sua teoria della conoscenza come fondamentale relazione unificante tra le sostanze.

Rappresentazione e sostanza spirituale L’universo come gioco di specchi

La sostanza intelligente

La percezione come espressione del molteplice in unità

T24

Il mulino

G.W. Leibniz, Monadologia, 17

L’intero universo è per Leibniz un sistema rappresentativo: non è soltanto la mente umana a essere capace di rappresentazione, ma ogni sostanza semplice è per lui «un perpetuo specchio vivente dell’universo». L’universo, si può dire, è un gioco di specchi, perché i rapporti reciproci di rappresentazione (o di «espressione», come dirà Leibniz) ne costituiscono la struttura profonda. Questa grandiosa e complessa teoria può svolgersi sulla base di una nozione di rappresentazione che appunto non è legata all’operare di una mente umana, e che pertanto deve prevedere una gradualità e una complessità tali da rendere conto dei diversi ordini di sostanze che possono partecipare a questo gioco di rappresentazione, fino alla sua forma più sviluppata costituita dalla sostanza intelligente, dall’anima umana. Se tutto è uno specchio, v’è tuttavia tra la sostanza intelligente e le altre, secondo Leibniz, una notevole differenza, «tanto grande quanto quella che c’è tra lo specchio e colui che vede». La «percezione», il termine più generale che Leibniz utilizza per quella che noi chiameremmo rappresentazione, inizia a esistere dove c’è l’espressione di una molteplicità in unità: dunque non vi è rappresentazione in una traccia materiale, per esempio in una traccia nel cervello, che abbia ragioni puramente meccaniche, ma solo dove vi è un processo di unificazione (e dunque una sostanza semplice, una unità in grado di attuarlo). Leibniz non ammette, di conseguenza, che la materia possa pensare. È quanto viene espresso nell’immagine del mulino, ossia nell’analogia del cervello con una macchina al cui interno, potendovi penetrare, mai si potrebbe trovare pensiero, rappresentazione. D’altra parte si deve riconoscere che la percezione, e quel che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni meccaniche, cioè mediante le figure e i movimenti. Immaginiamo una macchina strutturata in modo tale che sia capace di pensare, di sentire, di avere percezioni; supponiamola ora ingrandita, con le stesse proporzioni, in modo che vi si possa entrare come in un mulino. Fatto ciò, visitando la macchina al suo interno, troveremo sempre e soltanto pezzi che si spingono a vicenda, ma nulla che sia in grado di spiegare una percezione.

Rappresentazione e coscienza Contro Cartesio e Locke rifiuta l’identificazione tra pensiero e coscienza

C’è un grado basilare della rappresentazione che Leibniz riconosce, contro la visione cartesiana, cui si ricollegava in quegli anni anche Locke, con il quale egli si confronta direttamente nell’opera Nuovi saggi sull’intelletto umano (scritti ne271

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Le percezioni insensibili e le loro funzioni

Gusti e sensazioni inconsce

Moventi dell’agire

Legami tra un ente e il resto dell’universo

Dimensione nascosta del rappresentare

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gli anni 1704-1705, apparsi solo nel 1765). Leibniz sostiene la possibilità di rappresentazioni di cui il soggetto non è consapevole, che chiama «piccole percezioni» o «percezioni insensibili». In questo modo rompe l’identificazione tra pensiero e coscienza, ossia la tesi che ogni nostro atto mentale è sempre accompagnato dallo ‘sguardo interiore’ della coscienza (vedi p. 290 s.), aprendo la strada all’indagine sulle rappresentazioni inconsce che avrà in seguito un notevole sviluppo. Le piccole percezioni o percezioni insensibili vengono identificate con percezioni parziali che non siamo in grado di distinguere di per sé e che quindi non sono oggetto della nostra attenzione. Si tratta di «mutamenti nell’anima stessa che noi non appercepiamo» (di cui cioè non siamo consapevoli) «perché queste impressioni sono o troppo piccole, e in numero troppo elevato, o troppo unite, in modo che, separate, non hanno niente che le faccia distinguere, mentre aggiunte ad altre non mancano di avere il loro effetto e di farsi sentire, se non altro confusamente, nell’insieme». Leibniz fa l’esempio del rumore del mare: per udirlo è pur necessario, sostiene, sentire il rumore di ciascuna onda che ne fa parte, anche se ognuno di questi rumori non è percepibile isolatamente, ma lo è soltanto nell’insieme di cui fa parte. Questi singoli rumori che non percepiamo, però, non possono essere nulla, altrimenti anche il rumore di centomila onde sarebbe nulla: centomila nulla non riescono a produrre qualcosa. Una parte delle nostre rappresentazioni è dunque fuori dall’ambito di ciò di cui ci rendiamo conto. Le percezioni insensibili rivestono per Leibniz una grande importanza nel complesso del suo sistema: esse avrebbero nella teoria dell’anima lo stesso grande rilievo che i corpuscoli nella fisica. Costituiscono quel ‘non so che’ che spesso ci fa valutare la qualità delle cose, determina i nostri gusti; caratterizzano inoltre e costituiscono l’individuo stesso, che conserva delle tracce dei suoi stati precedenti collegandoli con quelli presenti, senza che questa operazione sia consapevole, e senza che se ne conservi memoria in senso proprio. Ma le rappresentazioni inconsapevoli sono anche quelle che ci muovono in molte occasioni, che possono guidare le nostre azioni e che danno anche corpo a quella «inquietudine» che costituisce per Leibniz un tono continuo del nostro desiderio e del nostro piacere, e che differisce dal dolore solo per la misura. Ma le piccole percezioni sono anche, infine, ciò che costituisce il legame che ogni essere ha con tutto il resto dell’universo: con l’eccezione dell’anima umana, il rispecchiamento del mondo è dato da queste percezioni non consapevoli: «si può anche dire che, in conseguenza di queste piccole percezioni, il presente è pieno dell’avvenire e carico del passato, che tutto è conspirante […], e che nella più piccola sostanza occhi penetranti come quelli di Dio potrebbero leggere tutto lo svolgimento delle cose dell’universo». La stessa armonia prestabilita tra mente e corpo, che costituisce un aspetto importante del pensiero leibniziano, è fondata sulle percezioni inconsapevoli (vedi p. 290). Individuare questa dimensione nascosta del rappresentare serve a Leibniz anche a sottolineare quella che egli chiama «l’immensa sottigliezza delle cose», che egli vede dispiegarsi nella natura graduale e progressiva dei processi rappresentativi. La conoscenza umana si colloca su una dimensione continua che procede da gradi bassi fino alle forme superiori di intelligenza.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Cos’è un’idea La scala delle idee

Idea cartesiana come entità mentale

➥ Percorso tematico, p. 401

Idea leibniziana come capacità

La nozione di rappresentazione come espressione

T25

L’espressione G.W. Leibniz, Che cos’è un’idea

In questa prospettiva si colloca la ridefinizione dei tipi di rappresentazione operata da Leibniz, e la differenziazione di distinti tipi di idee in una scala di sempre maggiore adeguatezza conoscitiva. Cartesio aveva posto le fondamenta per svincolare la nozione di idea dalle sue connotazioni ontologiche: l’idea non è più la cosa stessa in uno dei suoi modi di essere, quel modo di essere che ha nell’intelletto, e dunque l’essenza della cosa, ma un’entità mentale che deve rappresentare la cosa, riferirsi ad essa (vedi Unità 3, p. 153 ss.). Leibniz conserva questa caratteristica moderna dell’idea, la articola in una complessa tipologia di forme di rappresentazione, per recuperare però poi in un modo nuovo e particolare la sua valenza ontologica. In un breve scritto del 1678, Che cos’è un’idea, Leibniz intende per idea «qualcosa che è nella mente», dunque non le tracce che sono impresse nel cervello (la rappresentazione, come abbiamo visto con l’esempio del mulino, non è qualcosa di materiale e quindi la mente è qualcosa di distinto dal cervello). Egli sottolinea poi che l’idea non è un atto particolare del pensare (una singola rappresentazione nella mente), ma una facoltà, ossia la capacità di pensare una cosa. Abbiamo infatti un’idea di qualcosa anche quando non vi stiamo pensando: la nostra idea di cavallo non è l’immagine o il pensiero di un cavallo che abbiamo adesso, ma la possibilità di pensare questo animale in quanto tale. Questo pensare è sostanzialmente un esprimere: Leibniz dice nei Nuovi saggi sull’intelletto umano che l’idea è un «oggetto immediato interno» – qualcosa che si presenta immediatamente all’anima – ma questo oggetto è un’espressione della natura o delle qualità delle cose. Con la nozione di espressione Leibniz cerca di articolare il concetto di rappresentazione in modo da precisare in che cosa consista il nesso rappresentativo tra pensiero e cosa. Esso consiste sostanzialmente in un sistema di corrispondenze che consentono di risalire dalla proprietà di ciò che rappresenta alle proprietà di ciò che è rappresentato. Si dice che «esprime» qualcosa, ciò che ha disposizioni reciproche che corrispondono alle disposizioni reciproche della cosa da esprimere. Ma le espressioni sono diverse: il disegno di una macchina, ad esempio, «esprime» la macchina stessa, la rappresentazione scenografica di una cosa su un piano esprime il solido corrispondente, un discorso esprime pensieri e verità, i caratteri esprimono i numeri, una equazione algebrica esprime il cerchio o altra figura. È comune a tutte queste espressioni il fatto che dalla contemplazione delle disposizioni della cosa esprimente possiamo giungere alla conoscenza delle proprietà corrispondenti della cosa da esprimere. Da ciò è chiaro che non è necessario che ciò che esprime sia simile alla cosa espressa, purché sia conservata una certa analogia delle disposizioni reciproche. È anche chiaro che alcune espressioni hanno il loro fondamento in natura; altre, invece, almeno in parte, poggiano sull’arbitrio, come le espressioni che avvengono per mezzo di parole o di caratteri. Quelle che sono fondate in natura, o postulano una qualche somiglianza, qual è quella tra un circolo grande ed un circolo piccolo, o tra una regione e la sua carta geografica; o una certa connessione quale c’è tra il circolo e l’ellissi che lo rappresenta in proiezione, ciascun punto della quale corrisponde, secondo una legge determinata, ad un punto del circolo. In questo caso, in verità, un circolo sarebbe rappresentato male da un’altra fi273

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

gura più simile. Similmente, ogni effetto totale rappresenta l’intera sua causa, in quanto è sempre possibile dalla conoscenza dell’effetto passare alla conoscenza della sua causa. Così le azioni di una persona ne rappresentano l’animo e lo stesso mondo, in qualche modo, rappresenta Dio. Può anche accadere che le cose che si esprimono reciprocamente derivino dalla stessa causa, ad esempio, il gesto ed il discorso. Così i sordi capiscono coloro che parlano, non dal suono, ma dai movimenti della bocca. L’espressione si fonda su una legge costante di relazione

Una cosa esprime un’altra, dirà altrove Leibniz, «quando c’è un rapporto costante e regolato tra ciò che si può dire dell’una e dell’altra»: dove c’è una legge costante di relazione che consente di riferire elementi dell’una cosa a elementi dell’altra. La nozione di espressione ha un valore che oltrepassa quello della relazione tra una mente e le cose, ma viene utilizzata per rendere comprensibile questo rapporto, nella sua forma più generale: essa infatti non si limita a render conto della relazione tra qualcosa di «mentale» e il mondo «esterno», ma può valere per il rapporto tra qualunque genere di pensiero e il suo «oggetto», di qualunque natura esso sia – può valere tanto per la sensazione animale che per la conoscenza intellettuale. Con essa Leibniz intende superare l’idea della rappresentazione come somiglianza con l’oggetto rappresentato, che già Cartesio aveva criticato, ma che era stata ripresa per esempio da Locke riguardo alla formazione delle idee di qualità primarie dei corpi.

Tipi di rappresentazione e rapporti di espressione

Tipi di rappresentazione: – piccole percezioni: rappresentazioni inconsce – idee: oggetti immediati interni della mente. Non sono atti mentali, ma capacità di pensare una cosa – sensazioni: coscienza di oggetti esterni

La rappresentazione come espressione è una relazione unificante del reale Esempi di rapporti di espressione: – – – – –

disegno di una macchina macchina rappresentazione su due dimensioni solido discorso pensieri caratteri numeri equazione algebrica figura geometrica

Esprimono la cosa in generale per analogia delle disposizioni reciproche. In particolare possono esprimere: 1) per natura – attraverso somiglianza – attraverso proiezione – come l’effetto ‘rappresenta’ la causa – attraverso una causa comune 2) arbitrariamente – come i caratteri – come le parole

La scala delle idee Idee e tipi di conoscenza

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In uno scritto del 1684, le Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, Leibniz offre un’articolata classificazione di tipi diversi di conoscenza. L’idea come oggetto immediato interno viene distinta dalla sensazione come appercezione

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Idea chiara e oscura

Idee confuse e distinte

Idea adeguata e inadeguata Idea semplice e complessa

(coscienza) di un oggetto esterno. Ma soprattutto le idee vengono suddivise in diversi tipi. Anzitutto viene proposta la distinzione tra idee chiare e idee oscure. Un’idea è chiara quando è sufficiente a riconoscere una cosa e a distinguerla (se ho un’idea chiara di un abete, sarò in grado di riconoscerlo e di distinguerlo da altri tipi di albero). Quando questo non è possibile, allora sono sì in possesso di un’idea, ma questa va considerata oscura. Un’idea perfettamente chiara in relazione alle cose sensibili non esiste: non dispongo mai di un criterio di discriminazione assolutamente affidabile (un colore che ben conosciamo ha però sfumature che non potremmo mai distinguere; un tipo di pianta che sappiamo riconoscere potrebbe suddividersi in varietà che non sappiamo più discriminare). Le specie ultime – il tipo che non conosce ulteriori differenziazioni – non possono essere identificate nel mondo sensibile. Un’idea chiara può essere a sua volta confusa o distinta. Chiara e distinta una idea lo è quando non soltanto la si può distinguere dalle altre – Leibniz direbbe che in questo caso è piuttosto «distinguente» –, ma quando si è in grado di distinguere i suoi componenti, ciò che essa racchiude. In tal caso è possibile svolgere un’analisi e dare una definizione, mentre per un’idea chiara e confusa (come quelle del calore o di un colore) è indispensabile ricorrere a esempi: un colore non lo si può definire, ma può soltanto essere mostrato. Se sono in grado di distinguerlo, non sono però consapevole dei criteri che mi portano alla distinzione. Se a loro volta le note componenti un’idea vengono conosciute in modo distinto, l’idea è adeguata, altrimenti, se le note sono conosciute ma in modo confuso, l’idea è inadeguata. Un aspetto importante del pensiero di Leibniz è tuttavia la considerazione che la mente umana non è in grado di afferrare direttamente le idee, se non in misura limitata: cogliamo con un unico atto della mente le idee semplici (quelle da cui sono formate tutte le altre). In questo caso, e in genere quando possiamo pensare contemporaneamente le nozioni che rientrano in un’idea, si parla di conoscenza intuitiva. Invece non siamo in grado di rendere presenti alla mente tutti i tratti costituenti le idee complesse: per questo motivo la mente opera con segni, che costituiscono dunque uno strumento indispensabile per pensare. Questo tipo di conoscenza – l’unica possibile all’uomo per idee complesse – è chiamata da Leibniz «simbolica».

La classificazione delle idee in Leibniz

Oscura Confusa (le note non possono essere distinte; è indispensabile ricorrere a esempi) Idea (oggetto immediato interno)

Chiara (basta a riconoscere e a distinguere la cosa)

Distinta (si distinguono nell’oggetto i segni che lo fanno conoscere; è possibile un’analisi o una definizione)

Inadeguata (le note sono conosciute in modo confuso)

Adeguata (tutte le note sono a loro volta distinte)

Conoscenza simbolica (le note non sono colte in un unico atto) Conoscenza intuitiva (le note sono colte in un unico atto) Conoscenza simbolica (le note non sono colte in un unico atto) Conoscenza intuitiva (le note sono colte in un unico atto)

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Idee e linguaggio «Abbiamo le idee delle cose semplici, abbiamo solo i caratteri delle cose composte»: sulla base di questa assunzione, Leibniz attribuisce una importanza fondamentale al linguaggio come elemento indispensabile del pensiero umano, affermando anche che «se mancassero i caratteri, non potremmo mai pensare distintamente né ragionare di alcunché». Dal momento che la mente umana non è in grado di dominare, cioè di cogliere con un unico atto idee complesse o catene di ragionamenti, essa può riuscire a farlo solo attraverso segni che stiano per (che simboleggino) le idee. Linguaggio Non pensando l’idea nella sua complessità, ma solo il singolo segno che la simcome manipolazione boleggia, la mente può conservare memoria e attenzione nel ragionamento. Leibdi simboli e segni niz parla a questo proposito di «pensieri ciechi» (o anche di «pensieri sordi»), ossia di pensieri che si svolgono manipolando simboli, mantenendosi per così dire a distanza dalle idee, senza averle presenti alla mente in quanto tali, come avverrebbe in una conoscenza «adeguata e intuitiva», in cui potremmo pensare allo stesso tempo – per così dire in un colpo solo – tutte le nozioni che compongono un’idea complessa. Il linguaggio svolge così la funzione di una guida nell’immensa complessità del mondo immateriale dei pensieri, di un «filo sensibile» che consente alla mente umana di orientarsi nel labirinto dei pensieri. Leibniz usa anche l’immagine di gettoni che sostituiscono provvisoriamente il denaro contante. Linguaggio e idee complesse o catene di ragionamento

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Segni come gettoni in luogo di denaro G.W. Leibniz, Pensieri senza pretese

Il rifiuto del nominalismo

Verità come espressione di un’analogia strutturale

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Così come, nelle grandi città commerciali, o nel gioco o in altre circostanze, non sempre si paga in denaro, ma, in luogo di questo, ci si serve di foglietti o di gettoni fino all’ultimo regolamento di conti o pagamento, allo stesso modo si comporta l’intelletto con le immagini delle cose. Soprattutto quando ha molto da pensare, esso si serve di segni di esse, in modo da non avere necessità di considerare di nuovo la cosa, ogni volta che questa si presenta. Questa concezione non conduce però a conseguenze nominaliste, ossia alla visione secondo la quale – come pensava Hobbes – segni e linguaggio costituiscono una organizzazione arbitraria, sottoposta alla variabilità delle lingue, di rappresentazioni che non hanno un loro ordine in sé (vedi Unità 6, p. 348 s.). I segni possono essere arbitrari, ma non lo sono le idee cui si riferiscono, e soprattutto non lo sono le connessioni tra queste che essi sono in grado di esprimere: vi è «una qualche disposizione complessa, un ordine, che conviene alle cose». La verità per l’uomo è garantita da quest’ordine interno alle cose e dal rapporto – la «proporzione», dice Leibniz – che hanno tra di loro insiemi di caratteri che esprimono la stessa cosa: non l’identità di segni o parole, ma la loro analogia strutturale, che corrisponde a un medesimo rapporto con le cose. Noi possiamo, per esempio, operare con sistemi numerici diversi (come possono essere quello decimale o quello binario), ma in qualunque sistema numerico dai calcoli risulteranno le stesse proporzioni.

La logica e i suoi presupposti metafisici Definite le nozioni fondamentali della teoria della conoscenza di Leibniz (rappresentazione, idee e loro classificazione in base alle capacità di esprimere la co-

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noscenza, la natura del linguaggio), passiamo ora ad analizzare la sua logica e i rapporti di questa con il piano dell’essere, o l’ontologia, iniziando dall’origine delle idee.

Le idee nel «paese dei possibili» Verità e legami tra idee

La verità è fondata nel legame delle idee. Ma di che tipo è questo legame? Leibniz lo spiega in un brano in cui sostiene che esse sono fondate nell’intelletto divino, in una sostanza necessaria, ovvero uno spirito supremo che le pensa e così le fa esistere nella loro interconnessione. Queste idee sono il «prototipo», il modello di quelle presenti nelle anime umane.

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La verità non è che condizionale e dice che, nel caso che il soggetto esista, lo si troverà in quel certo modo. Ma si chiederà ancora in cosa è fondata una simile connessione, dal momento che in essa vi è della realtà che non trae in inganno. La risposta sarà che essa è fondata nella connessione delle idee. Ma si domanderà, replicando, dove sarebbero queste idee se non esistesse alcuno spirito, e cosa diverrebbe allora il fondamento reale di questa certezza delle verità eterne. Tutto questo ci conduce infine all’ultimo fondamento della verità, vale a dire a quello spirito supremo e universale che non può non esistere, il cui Intelletto a dire il vero è la regione delle verità eterne, come ha riconosciuto Sant’Agostino il quale esprime ciò in maniera assai vivida. E affinché non si pensi che non è necessario ricorrervi, bisogna considerare che queste verità necessarie contengono la ragione determinante e il principio regolativo delle esistenze stesse e, in una parola, le leggi dell’universo. Pertanto queste verità necessarie, essendo anteriori alle esistenze degli esseri contingenti, bisogna pure che siano fondate nell’esistenza di una sostanza necessaria. È qui che io trovo il prototipo delle idee e delle verità che sono impresse nelle nostre anime […].

Le idee nell’intelletto divino

G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, 4,11

Accanto e a fondamento della concezione delle idee come forme di rappresentazione nella mente umana, con la gradazione di modi in cui possono operare, v’è in Leibniz la ripresa della concezione tradizionale di stampo platonico delle idee come archetipi, modelli delle cose, indipendenti dal pensiero umano, alle quali anzi il pensiero umano deve poter pervenire o ritornare (con la modificazione, tipica del pensiero medievale, secondo la quale questi archetipi sono fondati nell’intelletto di Dio). La concezione Questa ossatura ontologica classica della nozione di idea si unisce, come vedredi Leibniz mo meglio, con la concezione della rappresentazione come espressione, corrispondenza di rapporti, per dare vita a una particolare metafisica in cui la relazione rappresentativa costituisce una struttura portante della realtà stessa. Dio e le essenze Le idee concepite dall’intelletto di Dio costituiscono una «regione delle verità eterne» che Leibniz chiama anche il «paese dei possibili», in quanto le idee come modelli delle cose contengono la possibilità dell’esistenza di queste ultime (che equivale alla loro realtà nella mente di Dio); in base a un atto della volontà divina queste pure possibilità possono essere poi tradotte in esistenze. Dio stesso è un ente perfettissimo in quanto è la congiunzione di tutte le «perfezioni» in un medesimo soggetto, ossia delle determinazioni positive che, in combinazioni differenti, possono dar luogo all’essenza delle cose del mondo.

Il platonismo medievale e le idee come archetipi

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In senso pieno Dio è autore delle esistenze, non delle idee in quanto archetipi delle cose, che costituiscono un universo dei possibili pensato da Dio – e in questo senso non da lui indipendente – e pertanto obiettivamente dato, immutabile ed eterno, ma che è non da lui scelto, voluto. Dio e le esistenze Un’unica esistenza precede il mondo delle possibilità, quella di Dio («senza Dio non solo non ci sarebbe niente di esistente, ma non ci sarebbe niente di possibile»), ma tutto il resto si impianta sulle idee-archetipi. Dio sceglie a quale «possibile» dare attuazione, e il «paese dei possibili» così precede tutte le altre realtà, che in esso hanno il loro fondamento. Un Dio che calcola Si può esprimere questa struttura ontologica anche dicendo che Dio non opera sulle idee, ma con le idee; il suo pensiero fa esistere le idee, ma la sua volontà non ne dispone: il suo operare è un combinare le idee tra di loro, un calcolare. Di qui una frase leibniziana divenuta celebre: Cum Deus calculat et cogitationes exercet fit mundus, «Quando Dio calcola e mette in atto i suoi pensieri il mondo sorge». Dio non sceglie le essenze

Il pensiero come calcolo e la caratteristica universale La logica come combinazione di idee

I progetti seicenteschi di una nuova logica

Leibniz e la logica matematica

L’atomismo concettuale come premessa della logica di Leibniz

Proposizioni complesse come connessioni di proposizioni semplici

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La scienza che si occupa della combinazione delle idee tra di loro, ossia della connessione tra i pensieri (inclusione o esclusione tra concetti, legami di derivazione tra proposizioni) è la logica. Già da quello che si è detto risulta evidente come in Leibniz logica e metafisica siano strettamente intrecciate: una scienza della connessione dei pensieri è allo stesso tempo una scienza di quel «paese dei possibili» in cui va visto il modello per tutto ciò che esiste. La logica tradizionale, di matrice aristotelica, non era stata concepita però come legata all’idea di calcolo: matematica e logica erano discipline del tutto distinte. Che il pensare fosse riconducibile al calcolare era stata un’idea avanzata da Hobbes, per il quale il ragionamento poteva esser identificato con operazioni di addizionare e sottrarre (vedi Unità 6, p. 350). Inoltre, già in Cartesio (vedi Unità 3, p. 144 s.) si era fatta avanti l’idea di una «matematica universale» come scienza delle relazioni, che doveva andare al di là della matematica tradizionale e riguardare semmai principi generali della ragione umana e un metodo per la conoscenza. Leibniz pone le basi per quella che sarà la futura logica matematica cercando di ricondurre le regole logiche (come quelle dei sillogismi) a relazioni numeriche, sulla base dell’operazione preliminare di utilizzare simboli come lettere e numeri per esprimere i concetti e le loro combinazioni, ossia le proposizioni. Sullo sfondo delle analisi e costruzioni logiche di Leibniz c’è un’idea relativa alla struttura sia del pensiero che della realtà che si può chiamare «atomismo concettuale»: la conoscenza razionale può essere ricondotta, attraverso l’analisi progressiva delle sue componenti, a elementi ultimi che costituiscono nozioni «primitive» semplici, ossia idee che non sono a loro volta composte da altre, e che corrispondono alle categorie più generali, ai generi sommi in cui possono essere ricompresi tutti gli enti. Attraverso il collegamento dei concetti primitivi, in ordini diversi di complessità, si formerebbe l’universo del conoscere razionale. Così ogni proposizione complessa non sarebbe che il risultato della connessione – svolta tramite due sole funzioni come negazione e congiunzione – di proposizioni elementari, alle quali la proposizione complessa potrebbe essere ricondotta, e parimenti ogni proposizione elementare potrebbe essere ricondotta a con-

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Il metodo dell’analisi

Verità come calcolo

Il superamento del linguaggio naturale: la «lingua esatta»

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I caratteri e il calcolo

G.W. Leibniz, Prefazione alla scienza generale

L’arte caratteristica universale

cetti primitivi, dai quali ogni verità potrebbe scaturire sulla base di quello che è per Leibniz il principio fondamentale di ogni relazione logica (ma che è anche più in generale un principio fondamentale della sua filosofia), ossia quello dell’inerenza del predicato nel soggetto. Secondo questo principio è vera la proposizione affermativa in cui il predicato esprime una nota, un concetto parziale contenuto nel concetto del soggetto. Così, la proposizione «l’uomo è un animale» è vera se il predicato «animale» inerisce al (è contenuto nel) concetto del soggetto, «uomo». Il giudizio «A è B» in realtà è formulato in base al principio di identità, ossia ha in fondo la forma «AB è B»: anche se la nota B (nel nostro esempio, l’animalità dell’uomo) è implicita o nascosta nel concetto A, e deve essere appunto esplicitata dall’analisi. Se qualunque verità è riconducibile alla fine a una combinatoria di nozioni primitive (per Leibniz anche le proposizioni ipotetiche, quelle della forma «se A allora B» sono riconducibili all’inerenza di un predicato nel soggetto), allora, una volta identificate queste nozioni, sarà possibile ricavarne ogni verità, e soprattutto farlo attraverso un calcolo, che garantisca la sicurezza e la possibilità di condividere, come in matematica, i risultati raggiunti. Per fare questo bisogna però superare le ambiguità presenti nelle lingue naturali, che non consentono di impiegarle per una procedura di controllo analoga al calcolo, «in maniera cioè che si possano scoprire gli errori di ragionamento risalendo alla formazione ed alla costruzione delle parole». Questo problema può essere risolto escogitando una lingua artificiale – Leibniz parla di una «lingua esatta», di una «scrittura veramente filosofica», o di «una sorta di alfabeto dei pensieri umani» – che indichi le nozioni primitive per mezzo di segni («caratteri») con i quali si possa poi operare attraverso le procedure univoche e meccaniche di un calcolo. È dunque chiaro che se riuscissimo a trovare dei caratteri o dei segni adatti ad esprimere tutti i nostri pensieri con la stessa esattezza e precisione con cui l’aritmetica esprime i numeri e l’analisi geometrica esprime le linee, potremmo realizzare in tutte le materie, nella misura in cui esse si basano sul ragionamento, tutto ciò che si può fare in aritmetica e in geometria. Tutte le indagini che dipendono dal ragionamento verrebbero infatti realizzate mediante la trasposizione di tali caratteri e attraverso una specie di calcolo. Ciò renderebbe molto facile la scoperta di belle cose, perché non occorrerebbe più rompersi la testa come ci tocca fare attualmente e tuttavia saremmo certi di poter fare tutto ciò che i dati disponibili ci permettono di fare. Inoltre saremmo in grado di convincere tutti delle nostre scoperte e conclusioni, poiché sarebbe facile verificare il calcolo o rifacendolo o cercando qualche prova simile a quella del nove in aritmetica. E se qualcuno dubitasse dei miei risultati gli direi: «calcoliamo, Signore» e, prendendo penna ed inchiostro, risolveremmo subito la questione. Questo disegno grandioso di una «lingua nuova» basata su caratteri è il progetto di un’arte caratteristica universale, che avrebbe dovuto costituire agli occhi di Leibniz «il più grande organo della ragione», ossia non soltanto un mezzo per raggiungere univocità e sicurezza nella conoscenza, ma anche una ars inveniendi, ossia una tecnica per trovare nuove verità. Essa costituisce l’obiettivo di molte riflessioni logico-metodologiche che cercano di superare i limiti della logica 279

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Il metodo dell’arte caratteristica

L’arte caratteristica universale come strumento di pace e progresso

aristotelica, vista appunto solo come un mezzo per ordinare conoscenze, ma non per trovarne di nuove. Per realizzare un simile progetto naturalmente non basta l’attribuzione di caratteri alle nozioni primitive (anche se alla scelta dei caratteri Leibniz dava una certa importanza), ma è necessario soprattutto identificare (per analisi) tali nozioni, e stabilire un metodo che consenta lungo il percorso inverso (per sintesi) di costruire le nozioni complesse, ricostruendo quelle già note, ma trovandone anche di nuove, non ancora conosciute. Il progetto di Leibniz non ha tuttavia soltanto intenti scientifici: egli lo inserisce in una visione più generale, propria del suo modo di pensare, che mira alla promozione del bene comune e alla realizzazione della pace tra gli uomini: in essa avevano un posto centrale la diffusione del sapere a cerchie sempre più ampie di persone, la comunicazione tra comunità di scienziati, la possibilità di basarsi sul discorso razionale. L’arte caratteristica universale era concepita come il più potente strumento volto a questo fine, quello «di avanzare con un progresso sicuro, per quanto è in nostro potere, e di servirci e di fruire, come mai è stato fatto, dei tesori già scoperti e dei benefici divini per la salute del corpo e la perfezione della mente».

T29

Una volta stabiliti i numeri caratteristici della maggior parte delle nozioni, l’umanità avrà un nuovo genere di organo, che aumenterà la potenza della mente assai più di quanto le lenti ottiche giovino alla vista, e di tanto superiore ai microscopi e ai telescopi di quanto la ragione sopravanza la vista. Né mai l’ago magnetico ha recato maggior vantaggio ai naviganti di quanto ne recherà questa stella polare a color che navigano il mare degli esperimenti. Quali altre conseguenze ne derivino è in mano al destino; tuttavia esse non potranno che essere grandi e buone. Poiché mentre da tutte le altre doti gli uomini possono esser resi peggiori, è la retta ragione soltanto che non può che essere salutare. Ma nessuno, infine, dubiterà che la ragione sia retta, quando essa risulterà in ogni caso egualmente chiara e certa come finora lo è stata nell’aritmetica.

Caratteristica universale come sapere universale e ordinato

Trattandosi non di una lingua autonoma rispetto alla natura delle cose, ma ancorata ad essa, la caratteristica universale diventa la chiave della comprensione di tutto e sfocia tendenzialmente in un sapere universale e ordinato: «chi imparerà la lingua imparerà al tempo stesso anche l’enciclopedia, che sarà la vera Porta delle Cose». Leibniz si renderà conto progressivamente della difficoltà non soltanto dell’impresa in generale, ma in particolare della individuazione di nozioni assolutamente primitive e univoche, che risultino fondate nell’essenza delle cose: «se però gli uomini siano mai in grado di condurre la perfetta analisi delle nozioni, ossia se si possano ricondurre i loro pensieri a primi possibili e alle nozioni irresolubili, vale a dire (ciò che è lo stesso) agli stessi attributi di Dio, cause prime e ragione ultima delle cose, non oserei ora affermarlo». Riterrà però, da un lato, che possa essere già un notevole risultato individuare nozioni che siano relativamente, ossia per noi, concetti primitivi, in rapporto alle analisi che siamo stati finora in grado di svolgere; e cercherà dall’altro lato di costruire intanto un sistema di calcolo logico come se le nozioni primitive fossero state individuate, compiendo così studi e passi avanti importanti nella elaborazione di una logica matematica come disciplina autonoma, che saranno poi riscoperti nel Novecento.

I benefici della caratteristica universale

G.W. Leibniz, Storia ed elogio della lingua caratteristica universale

Difficoltà irresistibili

Vantaggi certi: verso la logica matematica come disciplina autonoma

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz L’arte caratteristica universale Atomismo concettuale: la conoscenza può essere ridotta per analisi a idee semplici

Le proposizioni complesse sono connessioni di proposizioni semplici ottenute attraverso negazione e congiunzione

Principio dell’analisi: inerenza del predicato nel soggetto

Arte caratteristica universale come nuova lingua: combinatoria di nozioni primitive attraverso il calcolo

opera per analisi dal complesso al semplice e per sintesi dal semplice al complesso

favorisce la diffusione del sapere e la comunicazione

supera il linguaggio naturale

è un sapere universale e ordinato

presenta difficoltà di realizzazione, ma anticipa aspetti della logica formale novecentesca

Tipi di verità La garanzia metafisica della conoscenza

Verità delle cose dal punto di vista di Dio

Difficoltà nel conoscere le idee semplici

Dimostrazione e induzione

Parlare di verità – di qualunque verità – come di inerenza del predicato al soggetto, se per inerenza si intende l’essere incluso in una nozione, comporta una concezione delle idee come qualcosa di dato obiettivamente, che non è soltanto un contenuto della mente umana. Le idee infatti, abbiamo visto, si incardinano nella mente di Dio, e all’uomo spetta, in qualche modo, di riconoscerle. In questo senso tutto ciò che viene attribuito a un soggetto è già contenuto, in linea di principio, in esso (se il predicato non è contenuto espressamente nel soggetto, vi è contenuto virtualmente): l’intera realtà è traduzione in esistenza di un mondo dei possibili in cui le idee sono già fissate e prefigurano ciò che può esistere. Leibniz è, però, consapevole che questo sfondo ontologico valido in linea di principio, che costituisce la garanzia metafisica della conoscenza, è vero da un punto di vista assoluto, quello appunto rappresentato da Dio, ma non è colto come tale dalla conoscenza umana. Dal punto di vista della ragione umana per esempio è difficile concepire realmente la conoscenza di concetti primi, assolutamente semplici, in quanto ad essi non sarebbe applicabile la nozione di «espressione», che è basata sulla corrispondenza regolata tra relazioni, e presuppone dunque una complessità. Per questo motivo anche Leibniz sostiene che le idee sensibili, come quelle del colore oppure del calore, siano solo «semplici in apparenza» e possono essere trattate come semplici, ma non lo sono effettivamente. In uno scritto giovanile, confrontato con il problema, arriva a sostenere che l’unico concetto primitivo, che non può essere risolto in altri ma si manifesta attraverso se stesso, è la sostanza suprema, cioè Dio. In ogni caso, solo una parte delle verità – quelle fondate nelle essenze – è conoscibile per l’uomo attraverso dimostrazione, ossia in modo puramente razionale, e dunque ricostruibile per mezzo di una logica combinatoria. Altre verità, che si presentano all’uomo come non necessarie, devono essere conosciute a partire dall’esperienza (sono fondate nell’esistenza), per induzione, ossia partendo dal particolare dato per risalire al generale. 281

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

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Verità di ragione e verità di fatto G.W. Leibniz, Dissertazione sull’arte combinatoria

Verità e modalità

Verità di ragione e di fatto e metodo dell’analisi

Analisi umana e divina

Distinzione tra necessità assoluta e ipotetica

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Bisogna tener presente infine che quest’arte delle combinazioni si rivolge interamente ai teoremi, ossia alle proposizioni che appartengono alla verità eterna, ovvero che sono tali non per arbitrio di Dio ma in virtù della propria natura. In verità tutte le proposizioni singolari, per così dire storiche, come per esempio «Augusto fu imperatore dei Romani», oppure le osservazioni, vale a dire proposizioni universali, la verità delle quali è fondata non sull’essenza, ma sull’esistenza, sono tutte vere come per caso, cioè per arbitrio di Dio, come per esempio «Tutti gli uomini adulti in Europa hanno cognizione di Dio». Di queste non si dà dimostrazione, bensì induzione, sebbene talvolta si possa dimostrare un’osservazione mediante un’osservazione con l’aiuto di un teorema. La riflessione leibniziana sulla natura della verità, posta in relazione con i presupposti metafisici della sua concezione delle idee (come archetipi chiamati all’esistenza da Dio) sposta ora la sua analisi in un altro ambito della logica: la riflessione sulle modalità. La logica modale è quella che si occupa di distinguere – e utilizzare correttamente – le proposizioni che affermano una verità necessaria da quelle che esprimono una verità solo possibile, e infine, da quelle che descrivono una verità contingente, ossia vera solo a causa di una successione di possibilità realizzate. Leibniz afferma che: 1) le verità di ragione sono necessarie. Il loro opposto è impossibile: Leibniz dice anche che sono vere in tutti i mondi possibili; 2) le verità di fatto – egli parla anche di proposizioni esistenziali – sono contingenti. Il loro opposto è possibile, ossia avrebbe potuto realizzarsi se la successione dei fatti fosse stata diversa. Solo per le verità necessarie vale il metodo dell’analisi: «Quando una verità è necessaria, se ne può trovare la ragione mediante l’analisi, risolvendola in idee e in verità più semplici, fino a pervenire a quelle primitive». Va osservato però che anche le verità di fatto hanno il loro fondamento ultimo nel principio secondo cui la verità è inerenza del predicato nel soggetto: dunque in linea di principio anche un’azione storica, che conosciamo attraverso i fatti e che logicamente – ossia in base a pure relazioni tra concetti – avrebbe potuto essere altrimenti, ha tuttavia il suo fondamento nella natura del soggetto, ha una sua ragione interna. Questa però non può esser riconosciuta nella sua interezza dall’uomo, perché presuppone un’analisi infinita, che è possibile soltanto per Dio, che non solo concepisce tutti i possibili, ma penetra nelle ragioni delle esistenze, di quei possibili che sono realizzati. Vi è da un lato una necessità assoluta (detta anche «geometrica» o «metafisica»), appunto valida in tutti i mondi possibili, dall’altro una necessità ipotetica, derivabile dall’essenza di un individuo effettivamente esistente (quell’essenza che è diventata esistenza per un decreto di Dio), che all’uomo non è dato di conoscere nella sua interezza. Così, dall’essenza di Augusto si potrebbe derivare (Dio lo può fare) che diventerà imperatore dei romani, ma all’uomo è possibile saperlo soltanto attraverso i fatti, ossia tramite l’esperienza. La nozione di un individuo (essenza) è in linea di principio completa: contiene tutto ciò che di questo individuo si può dire in relazione a tutti i predicati possibili, e include pertanto in sé una infinità di fatti.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

T31

L’individuo racchiude infiniti fatti

G.W. Leibniz, Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità

Le verità miste

Tipi di verità in Leibniz

Tutte le proposizioni esistenziali sono certamente vere, ma non necessarie; infatti, non possono essere dimostrate se non con un procedimento all’infinito, ossia mediante la scomposizione fino a fatti infiniti; cioè non possono venir dimostrate se non in base ad una completa nozione dell’individuo, che implica infiniti esistenti. Così, se dico «Pietro rinnega», intendendo riferirmi ad un tempo determinato, si presuppone certo anche la natura di quel tempo, la quale implica certamente pure tutti gli esistenti in quel tempo. E se dico che Pietro rinnega all’infinito, astraendo dal tempo, allora, perché ciò sia vero – sia che Pietro abbia negato, sia che debba negare in futuro – si dovrà nondimeno almeno dimostrarlo in base alla nozione di Pietro: ma la nozione di Pietro è completa, e pertanto racchiude infiniti fatti; perciò non si può pervenire mai ad una perfetta dimostrazione. Tuttavia ci si avvicina sempre di più, in modo che la differenza risulti minore di una qualsiasi differenza data. La distinzione di principio tra verità di ragione e verità di fatto non esclude inoltre che in realtà vi siano verità «miste», come le chiama Leibniz, che vengono ottenute in parte da premesse ricavate dall’osservazione, dai sensi, in parte da premesse puramente razionali, dedotte a priori dall’intelletto. Molte verità della scienza della natura sono di questo tipo: «tali sono una quantità di conclusioni geografiche e astronomiche sul globo terrestre e sui corsi degli astri, che nascono dalla combinazione delle osservazioni dei viaggiatori e degli astronomi con i teoremi di geometria e di aritmetica». Le verità miste in ogni caso hanno il grado di certezza proprio della loro componente più «debole», ossia delle osservazioni, e da questo punto di vista hanno lo stesso valore di verità di fatto.

Sfondo ontologico Le idee sono contenute nella mente divina ed esistono da sempre

Principio logico di inerenza del predicato nel soggetto

Dio ha una conoscenza completa totale e immediata

L’uomo ha una conoscenza parziale, incompleta e ‘storica’

Dio conosce nel soggetto la totalità dei suoi predicati

L’uomo conosce attraverso l’esperienza i predicati che appartengono a un soggetto

Verità di ragione o eterne, conoscibili a priori

Verità di fatto o contingenti, conoscibili a posteriori

Dio riconosce nelle cose una necessità assoluta

L’uomo riconosce nelle cose una necessità ipotetica

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il principio di ragion sufficiente Ogni verità ha una ragione

T32

Nulla è senza una ragione G.W. Leibniz, Saggi di teodicea, 1,44

Relazione tra principio di ragion sufficiente e verità di fatto

Dalla ragion sufficiente all’esistenza di Dio

Ragion sufficiente e non contraddizione dipendono dal principio di analisi

Unità dei due principi e quindi di logica e ontologia

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Le verità di fatto sono contingenti in quanto il loro opposto non implica alcuna contraddizione, ma non sono senza ragione. Leibniz formula, infatti, un principio secondo il quale non si danno verità di cui non si possa rendere ragione, ovvero che non abbiano una loro ragione sufficiente o determinante. Bisogna considerare che vi sono due grandi principi dei nostri ragionamenti: l’uno è il principio di contraddizione, secondo il quale, di due proposizioni contraddittorie, l’una è vera e l’altra è falsa; l’altro principio è quello della ragione determinante, secondo il quale non accade mai niente senza che vi sia una causa, o almeno una ragione determinante, vale a dire qualcosa che possa servire a rendere ragione a priori del perché una data cosa è esistente piuttosto che non esistente e perché è così anziché in tutt’altro modo. Questo grande principio si applica a tutti gli eventi, e non se ne darà mai un esempio contrario; e nonostante che il più delle volte queste ragioni determinanti non ci siano note a sufficienza, intravediamo pur sempre che ve ne sono. Senza questo grande principio non potremmo mai provare l’esistenza di Dio, e dovremmo rinunciare a un’infinità di ragionamenti assai giusti e assai utili. Tale principio non conosce eccezioni, altrimenti la sua forza sarebbe indebolita. Il principio ha due aspetti: 1) uno logico, che afferma che di qualunque proposizione vera è possibile trovare una ragione che la rende tale; 2) uno ontologico, da cui risulta che nulla di ciò che esiste è privo di una ragione che lo fa essere. Questo principio si traduce, per esempio, nell’ambito dei fenomeni naturali nel principio di causa ed effetto, per il quale ogni evento ha una causa che lo determina. Il versante ontologico riguarda direttamente le verità di fatto perché le verità di ragione trovano il loro fondamento nel principio di contraddizione, ossia nella dimensione del possibile piuttosto che in quella delle esistenze. Nell’ambito invece di ciò che esiste di fatto il principio di contraddizione non può, come abbiamo visto, dare da solo ragione piena dell’esistenza, perché è richiesto qualcosa di più che deve risalire a un atto della volontà divina, che sceglie di realizzare alcuni dei possibili (un mondo). È per questo motivo che il principio di ragion sufficiente riconduce alla fine a Dio: in Dio coincidono essenza ed esistenza, e la ricerca delle ragioni sufficienti, risalendo all’indietro, non può non terminare in una ragione ultima, e dunque in un ente che ha questo carattere. Chiarita la differente natura modale dei due principi, Leibniz sostiene che, anche se il versante ontologico del principio di ragion sufficiente riguarda maggiormente le verità di fatto, esso scaturisce da un principio comune che lo ricomprende insieme al principio di contraddizione, ossia quello dell’inerenza del predicato nel soggetto. Leibniz parla a questo proposito di due principi che reggono i nostri ragionamenti, ossia di due principi logici della conoscenza, che però dal punto di vista ontologico si fondano entrambi sull’unità complessiva del tutto. Questa unità è generata dall’idea che se tutte le determinazioni ineriscono analiticamente al soggetto, allora le proprietà corrispondenti ineriscono ontologicamente e necessariamente alla sostanza che esso esprime. Il principio che nulla

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

accade senza ragione non è che un caso particolare di quello secondo cui nulla è senza ragione, ed entrambi riconducono a un ente: 1) in cui sia le cose che sono (verità eterne o di ragione) sia le cose che accadono (verità contingenti o di fatto) trovano il loro fondamento; 2) che, come abbiamo visto, ha in sé la propria ragione. Che nulla sia senza ragione può essere allora il principio che è a fondamento della metafisica, appunto conducendo a Dio, a fondamento della fisica, con la ricerca delle cause (vedi sotto, p. 287 ss.), a fondamento dell’etica, dove si ricercano le ragioni dell’azione che non coincidono con cause efficienti (vedi sotto, p. 299 ss.). Il principio di ragion sufficiente

Principio dell’inerenza del predicato nel soggetto

Principio di non contraddizione

Le proprietà appartengono necessariamente a un soggetto (verità di ragione)

Dio vede che tutto ciò che accade è necessario

Principio di ragion sufficiente

Aspetto ontologico: nulla di ciò che esiste è privo di una ragione che lo fa essere (verità di fatto)

L’uomo conclude dal principio di ragione che nulla accade o esiste senza una ragione determinante

Metafisica: attraverso il principio di ragion sufficiente si dimostra che esiste Dio

5 Piano ontologico e piano logico

Aspetto logico: per qualsiasi proposizione vera esiste una ragione che la rende tale

Fisica: dal principio di ragion sufficiente discende che ogni cosa ha una causa

Etica: dal principio di ragion sufficiente deriva che ogni azione ha una ragione

Sostanza e mondo Attraverso le distinzioni tra verità di ragione e verità di fatto, tra necessità assoluta e necessità ipotetica, tra sfera determinata dal principio di non contraddizione e sfera retta dal principio di ragion sufficiente Leibniz sfugge alla rigida identificazione tra piano ontologico e piano logico che caratterizzava il sistema spinoziano, pur mantenendo l’unità complessiva dei due ambiti, intrecciandoli e riconducendoli entrambi a Dio come garante dell’unità del mondo.

La sostanza individuale Il dibattito sulla conoscibilità della sostanza

Principi logici e principi ontologici sono in Leibniz dunque strettamente interconnessi, per quanto la prospettiva che vale in linea di principio (quella che vale per Dio) sia distinta da quella che vale per la conoscenza umana. Il punto di 285

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Locke: l’idea di sostanza come supposizione

Intreccio tra logica e ontologia nella nozione di sostanza

T33

La sostanza come essere completo

G.W. Leibniz, Discorso di metafisica, 8

Due punti di vista sulla sostanza individuale

286

congiunzione tra logica e ontologia è l’idea di sostanza individuale. Abbiamo visto che, per Leibniz, se ogni predicazione vera deve avere un fondamento nella natura delle cose, ad essa corrisponde una sostanza individuale che è la ragione di ogni predicato che possa essere attribuito a un soggetto. Una tesi diversa è sostenuta in quegli anni da Locke, che nel suo Saggio sull’intelletto umano argomenta contro la tradizionale nozione di sostanza, come un sostrato delle idee in cui esse sussistono e da cui risultano. Egli afferma che l’idea di sostanza è solo una supposizione, un’ipotesi di cui si può fare a meno perché non aggiunge niente alla nostra conoscenza (vedi Unità 6, p. 368 ss.). Leibniz replica che si ha ragione di pensare in tal modo perché «fin dall’inizio concepiamo più predicati di un medesimo soggetto e le parole metaforiche di sostegno o substratum significano appunto questo». Attribuendo un predicato con verità a un soggetto presupponiamo che il predicato sia già presente in esso, sia, in questo senso, parte del suo concetto (che Leibniz chiama con un termine preso dalla scolastica «ecceità» e che indica la descrizione completa ed esaustiva che di quell’individuo potrebbe dare Dio). Reciprocamente, il concetto è del soggetto perché determina dal principio ciò che è l’ente cui il soggetto si riferisce. Se vi è ‘qualcosa’ responsabile della verità di ciò che affermiamo a proposito di un soggetto non può essere che la sua sostanza individuale, l’individuo concreto che contiene in sé tutti i predicati che possono essergli con ragione attribuiti, che in questo senso è un essere completo. La natura di una sostanza individuale, ossia di un essere completo, è di avere un concetto così compiuto che sia sufficiente a comprendere, e a far sì che si deducano, tutti i predicati del soggetto a cui tale concetto è attribuito. L’«accidente», invece, è un essere il cui concetto non include affatto tutto ciò che si può predicare del soggetto al quale si attribuisce tale concetto. Così la qualità di re che appartiene ad Alessandro Magno, se astratta dal soggetto, non è sufficiente a determinare un individuo, e non include affatto le altre qualità dello stesso soggetto, né tutto ciò che è contenuto nel concetto di questo principe. Dio soltanto, in quanto vede il concetto individuale o «ecceità» di Alessandro, vede appunto in tale concetto il fondamento e a un tempo la ragione di tutti i predicati che gli si possono attribuire con verità – come, per esempio, che egli avrebbe vinto Dario e Poro –, fino a conoscervi a priori (non per esperienza) se egli sia morto di morte naturale o di veleno, cosa che noi possiamo sapere solo dalla storia. Così, se si considera bene la connessione delle cose, si può dire che nell’anima di Alessandro, in ogni momento, si trovano le impronte di tutto ciò che gli è accaduto e i segni di tutto ciò che gli accadrà, come pure le tracce di tutto ciò che accade nell’universo – sebbene sia una prerogativa esclusivamente divina il riconoscerle tutte. Dal punto di vista della conoscenza umana eventi non logicamente necessari sono conoscibili solo quando avvengono, dunque attraverso l’esperienza; da un punto di vista assoluto o di principio (il punto di vista di Dio) gli eventi sono, però, inscritti nel concetto completo dell’individuo e dunque conoscibili a priori (indipendentemente dall’esperienza). Questa dottrina, nei termini in cui viene enunciata, può essere coerentemente sostenibile soltanto se si comprende nel concetto di sostanza individuale assolutamente tutto ciò che ad essa è attribuibile, anche eventi come quelli che Leibniz cita a titolo di esempio.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz Connessione tra sostanze

T34

La sostanza come specchio dell’universo

G.W. Leibniz, Discorso di metafisica, 9

Espressione come chiave per capire l’interconnessione delle cose

Relazione di armonia tra sostanze

L’armonia prestabilita tra sostanze

Relazione mente-corpo

Ma se la morte per veleno o per cause naturali è inscritta nella sostanza individuale, non è solo l’individuo in un senso banale a esserne caratterizzato, ma l’individuo nei suoi rapporti con tutto ciò che lo determina nell’universo («se si considera bene la connessione delle cose»). Da questa teoria della sostanza individuale scaturisce una visione allo stesso tempo prospettica e unitaria dell’universo. Ogni sostanza è come un mondo intero e come uno specchio di Dio, ossia rispecchia tutto l’universo esprimendolo nel modo che le è peculiare – pressappoco come una medesima città è diversamente rappresentata secondo i differenti punti di vista di chi la guarda: così l’universo è in qualche modo moltiplicato tante volte quante sono le sostanze, e la gloria di Dio è anch’essa accresciuta dalle tante rappresentazioni della sua opera. È il concetto di espressione, che sta alla base della teoria leibniziana della rappresentazione, a fornire anche la chiave dell’interconnessione tra le cose: la sostanza rispecchia l’universo esprimendolo, ossia attraverso le corrispondenze, regolate da una legge costante di relazione (vedi sopra, p. 273 s.), con tutti gli eventi dell’universo. L’universo, dice anche Leibniz, «è tutto d’un pezzo, come un oceano: il minimo movimento vi estende il suo effetto a qualunque distanza». Il rispecchiamento dunque non va inteso come una conoscenza sul modello di quella della mente umana, anche se l’influsso reciproco tra le sostanze individuali non è di tipo fisico: si tratterebbe in questo caso di un rapporto estrinseco, di un interagire tra corpi e non di quella compenetrazione che Leibniz intende, e che è concepibile soltanto se le sostanze non sono, in ultima analisi, entità materiali. L’azione dell’una sull’altra consiste piuttosto nell’incremento di grado dell’«espressione» di quella che agisce a discapito di quella che patisce, nell’ambito di un obbligo reciproco che hanno però di accordarsi tra loro. Dal momento che ogni sostanza individuale contiene l’infinità delle sue determinazioni e dunque – in una certa prospettiva – tutto l’universo, essa, si può dire, è l’universo sotto un certo punto di vista. L’accordo cui le sostanze sono tenute non è dunque un influsso, l’effetto di cause esterne, ma, potremmo dire, una compenetrazione regolata di principi interni (le sostanze, per così dire, si ‘contengono’ reciprocamente) e dunque è l’armonia prestabilita (stabilita in origine da Dio) a determinare le relazioni reciproche tra le sostanze. Quest’accordo spiega anche la corrispondenza tra mente e corpo, che non è che un caso particolare di relazione tra sostanze, e che non va intesa appunto come un influsso reciproco, ma come la coincidenza tra due sistemi regolati originariamente (così come due orologi si corrispondono senza agire l’uno sull’altro per un rapporto stabilito in anticipo).

Le monadi come fondamento metafisico del mondo fisico Punti metafisici o monadi

Leibniz sviluppa la sua concezione delle sostanze individuali in una costruzione teorica estremamente complessa, che finisce per cogliere come costituenti ultimi di tutto ciò che esiste quelli che egli chiama «punti metafisici» e che in seguito indica anche come «monadi» (dal greco mònos, «unico»). Nella sua concezione confluiscono molte ragioni teoriche di tipo diverso, che cercano di tener conto di problemi emergenti dalla fisica come dalla matematica. 287

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Parte prima La nascita della filosofia moderna I problemi legati alla matematizzazione della fisica Corpi estesi

Relazioni

I corpi come aggregati

Concetto di forza

Soluzione metafisica del problema della forza: la potenza attiva

Leibniz si trova di fronte, non diversamente da Cartesio, alla necessità di concepire una natura fisica matematizzabile, e in cui i fenomeni sono concepiti essenzialmente come relazioni regolate, ma questo gli pone alcuni problemi cruciali. 1) In un mondo di relazioni, e in un mondo cui va applicata la nozione di continuo matematico – nozione necessaria se i corpi devono essere ‘letti’ attraverso gli strumenti della geometria come aveva imposto Cartesio con la riduzione dello spazio fisico a spazio geometrico (vedi Unità 3, p. 143) –, l’unità che deve essere alla base dei fenomeni sembra sfuggire. I corpi estesi rischiano di dissolversi in una «polvere composta, per così dire, di soli punti»: se la materia è – come la concepiva Cartesio – estensione (ossia è definita dalle qualità geometriche di larghezza, lunghezza e profondità) essa contiene in sé una divisibilità infinita, alla quale manca ogni principio di unità. 2) Simile è il discorso per le relazioni: una relazione (come «A è più lungo di B») sembra non poter sussistere senza un principio unificatore (per esempio qualcuno che stabilisca o riconosca la relazione). 3) L’unità di corpi che si presentano come aggregati di parti presenta problemi analoghi: «Gli enti per aggregazione, come un gregge o una vasca ripiena di pesci, una macchina, non sono che semi-enti, la cui realtà consiste nell’unione che fa la mente, ossia in una denominazione estrinseca, in una relazione». Ogni ente per aggregazione – come tali si presentano gli enti fisici – presuppone, per non risolversi in una polvere senza legame, un’unità, degli enti dotati di vera unità. Leibniz afferma radicalmente: «ciò che non è veramente un ente non è neppure veramente un ente». A questi problemi si aggiunge inoltre la considerazione che la materia non si lascia concepire soltanto come composta da quantità, forma e moto. Leibniz dimostra che il principio cartesiano della conservazione della quantità di moto è errato, perché ciò che si conserva è in realtà la forza motrice. Da questo deduce che per spiegare i fenomeni dei corpi bisogna ricorrere a qualcosa di distinto dall’estensione, appunto il concetto di forza, al quale egli attribuisce una natura metafisica, in quanto essa si manifesta nella natura ma non ne fa propriamente parte, come invece accade per figura, estensione e movimento (le categorie cartesiane), che nella natura sono ‘visibili’. Questa forza è concepita come potenza attiva – in riferimento all’«entelechia» aristotelica –, ossia come una «perfezione», ovvero una forma (essenza), che si sviluppa dalla potenza e si traduce in atto realizzando il proprio fine interno. E dunque è vista come «forma sostanziale», termine scolastico che Leibniz usa anche come sinonimo di «anima» per indicare il principio di attività interno che caratterizza in maniera univoca un individuo – o essenza individuale – e solo lui. In questo senso la «dinamica» (è Leibniz a dare questo nome a una branca della fisica) conduce alla metafisica.

G.W. Leibniz, Discorso di metafisica, 18

Ora, la forza qui in questione è qualcosa di diverso dalla grandezza, dalla figura e dal movimento, per cui si può ritenere che quanto si concepisce dei corpi non consiste unicamente nell’estensione nelle sue modificazioni, come sostengono i filosofi moderni. Ed è per questo che noi siamo costretti a ristabilire quegli esseri o forme che essi hanno bandito.

La ricerca di un ente semplice, unificante e attivo

Leibniz è portato da questi diversi ordini di considerazioni a concepire un ente semplice, che stia alla base di quanto si manifesta nel mondo fisico e ne risolva alcuni paradossi, avendo tra le sue proprietà principali quella di avere «perce-

T35

La forza

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

zione» e «appetizione», ossia un principio di unificazione (come si è detto percezione o rappresentazione è espressione della molteplicità in unità) e un impulso, una forza. Sono questi enti immateriali che fondano le realtà fisiche, le quali sono soltanto un modo di manifestarsi di ciò che è a loro fondamento e quindi appartengono a un livello ontologico inferiore rispetto alla sostanza: «La materia e il moto non sono tanto sostanze o cose, quanto fenomeni di coloro che percepiscono, la cui realtà risiede nell’armonia dei percipienti con se stessi (in rapporto ai diversi tempi) e con tutti gli altri percipienti». Il carattere semplice, invisibile di queste sostanze le fa definire anche come «atomi di sostanza» o, come si diceva, «punti metafisici».

T36

I punti metafisici di sostanza G.W. Leibniz, Nuovo sistema della natura

I livelli ontologici del reale

Punti metafisici, matematici e fisici

[…] gli atomi di materia ripugnano alla ragione perché, a loro volta, sono composti di parti e quand’anche la coesione d’una parte all’altra fosse invincibile […] ciò non distruggerebbe la loro diversità. Solo gli atomi di sostanza, cioè unità reali ed assolutamente prive di parti, sono le sorgenti delle azioni ed i primi principi assoluti della composizione della cosa e quasi gli elementi ultimi dell’analisi delle cose sostanziali. Potrebbero essere chiamati punti metafisici: essi hanno qualcosa di vitale ed una specie di percezione; i punti matematici sono i loro punti di vista per esprimere l’universo. Ma quando le sostanze corporee sono ravvicinate, tutti i loro organi connessi, rispetto a noi, costituiscono un punto fisico. Così i punti fisici non sono indivisibili che in apparenza: i punti matematici sono esatti, ma sono solo modalità; solo i punti metafisici di sostanza (costituiti dalle forme o dalle anime) sono esatti e reali; e senza di essi non vi sarebbe nulla di reale, perché senza le vere unità non vi sarebbe alcuna molteplicità. Punti fisici, punti matematici e punti metafisici stanno in un rapporto di progressiva ‘rarefazione’ rispetto al nostro mondo dei sensi, ma anche di progressiva fondatezza e di sempre maggior peso ontologico. Se i punti fisici sono approssimazioni, in realtà scomponibili, i punti matematici hanno un’effettiva indivisibilità ma sono solo modalità, ossia proprietà di una sostanza che non esistono indipendentemente da essa; piena realtà spetta solo ai punti metafisici, che sono ciò che costituisce ogni realtà fisica. Nell’opera I principi della filosofia, poi divenuta nota come Monadologia, composta nel 1714, Leibniz parla di «monadi» come entità semplici, immutabili, diverse ognuna da ogni altra, che non possono cominciare né finire senza l’intervento divino.

Ontologia

Conoscenza umana

Punti metafisici: sono il vero fondamento della realtà, ma sono immateriali

Leibniz deduce l'esistenza dei punti metafisici o monadi e le loro caratteristiche: ognuna è un ente semplice, attivo, immateriale, unificante

Punti matematici: sono modi della sostanza, sue proprietà

I punti matematici esprimono in qualche modo proprietà dei punti metafisici

Punti fisici: sono approssimazioni, li cogliamo come realtà frammentaria

La matematizzazione della fisica ci permette di coglierne le caratteristiche più importanti

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Anime e spiriti Ogni sostanza individuale o monade è dotata di percezione, e rispecchia in sé l’intero universo. Ma questo avviene per lo più in un modo oscuro e confuso. Leibniz indica una gradazione progressiva di sostanze basata sulla loro capacità di rispecchiare in modo sempre più perfetto l’universo. Qualunque sostanza ha percezione, che è uno stato transitorio che implica e rappresenta una molteplicità nell’unità, ma da essa va distinta già la sensazione, che si pone su un gradino superiore, in quanto richiede la percezione di qualcosa di distinto e soprattutto memoria, ossia una certa continuità nel percepire. Anime, animali Soltanto per quelle sostanze che sono in grado di conservare la percezione si e monadi ‘nude’ può parlare di anime. In questo senso posseggono un’anima gli animali, contro la visione cartesiana che li considerava come puri meccanismi. Leibniz conferisce un grande spazio a questo principio vitale, anche a livelli microscopici, arrivando a considerare vitale anche il livello delle monadi ‘nude’ o «entelechie primitive», che pure distingue dagli animali nel modo detto. Egli esprime in una lettera ad Arnauld la sua teoria della «vita» come presente in ogni parte di materia.

Gerarchia delle monadi e percezione

T37

Sono ben lontano dalla teoria che i corpi animati siano solo una piccola parte degli altri. Credo, piuttosto, che tutto è pieno di corpi animati […], io ritengo che il numero delle anime, o almeno, delle forme, è infinito e che essendo la materia divisibile all’infinito, non si può assegnare di essa nessuna parte così piccola che non abbia al suo interno corpi animati o almeno dotati d’una entelechia primitiva o (se mi permettete di servirmi così generalmente del termine «vita») di un principio vitale, cioè di sostanze corporee delle quali in generale si potrà dire che sono tutte viventi.

La monade dominante, principio di unificazione

Quella che Leibniz chiama sostanza corporea è una complessa organizzazione di monadi, che cooperano attraverso l’azione di una monade dominante, che finisce per costituirne il principio unificante, ciò che può fare di infinità di monadi un animale. Leibniz cerca di riassumere una volta in una lettera questa complessità, descrivendone i vari livelli.

T38

Dunque, io distinguo: (1) l’entelechia primitiva ossia l’anima; (2) la materia prima, ossia la potenza passiva primitiva; (3) la monade costituita da queste due; (4) la massa, ossia la materia seconda, ovvero la macchina organica, a formare la quale concorrono innumerevoli macchine subordinate; (5) l’animale, ossia la sostanza corporea, che la monade dominante nella macchina rende una.

Un principio vitale

G.W. Leibniz, Lettera ad Arnauld

L’animale come struttura complessa G.W. Leibniz, Lettera a De Volder

La monade comprende un lato attivo, la forza, e una potenza passiva (resistenza), che costituisce un primo livello di materia, che è in realtà un’astrazione, in quanto non è concepibile separatamente dalla monade, di cui è una componente; mentre un secondo livello di materia è dato dal corpo organico o appunto materia seconda, che è unificata dall’anima in senso stretto, caratterizzata dal fatto di avere qualcosa di più che la semplice percezione (che è nei livelli precedenti solo confusa, non consapevole), ossia la memoria. Memoria come attesa La memoria, che costituisce dunque la condizione per le anime in senso stretdi casi simili to, consente che vi sia nelle rappresentazioni «una specie di concatenazione»

I due livelli di materia

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

L’anima razionale

Armonia prestabilita tra anima e corpo

Le relazioni tra corpi

Autonomia e armonia tra anima e corpo

Appercezione e atti riflessivi

Le nozioni derivanti dagli atti riflessivi

L’anima intelligente

che produce qualcosa di analogo alla ragione: gli animali collegano a una percezione una percezione analoga avuta in passato e si aspettano ciò che con quella era connesso. Una parte della conoscenza umana – e, secondo Leibniz, tre quarti delle azioni degli uomini – si basa su questa aspettativa del ripetersi di casi simili. Ma gli uomini sono anche capaci di ragione, ossia della conoscenza chiara e distinta – che procede a priori – di verità eterne. La sostanza individuale che è capace di ciò è un’anima razionale o spirito. Tra l’anima razionale e il suo corpo non sussiste una relazione quale quella tra due sostanze (come era in Cartesio), dal momento che la prima non è che il principio organizzativo delle sostanze (monadi) che costituiscono – per livelli di sempre maggiore complessità, come si è visto – il corpo organico. Così il rapporto e l’unione dell’anima con il corpo non è una connessione tra due sostanze che si influenzano reciprocamente, ma è di nuovo regolata, come ogni relazione tra sostanze, dall’«armonia prestabilita». Lo stesso ricevere impressioni dagli altri corpi è concepito come lo svolgersi di relazioni pre-regolate di espressione tra corpi, tra tutti i corpi («tutti i corpi nell’universo simpatizzano», scrive Leibniz nel Discorso di metafisica), delle quali solo una piccola parte sono consapevoli. Le percezioni della sostanza individuale «nascono naturalmente le une dalle altre» e «rappresentano» in tal modo il proprio corpo, e attraverso questo l’universo intero. Questo tipo particolare di relazione consente anche un’autonomia tra due ordini di spiegazione (quella basata su cause efficienti utilizzata per descrivere i fenomeni fisici e quella basata su cause finali propria dell’agire delle sostanze) che – come vedremo – Leibniz vuole conciliare: l’armonia prestabilita infatti fa sì che i corpi agiscano come se non vi fossero anime, le anime agiscano come se non vi fossero corpi, e, ciò nonostante, che le une e gli altri agiscano come se si influenzassero a vicenda. Nelle anime razionali o spiriti alla percezione si aggiunge l’appercezione, ossia la coscienza di percepire, che Cartesio e i cartesiani hanno confuso secondo Leibniz con la percezione, negando così l’esistenza di monadi di grado inferiore capaci di rappresentazione e di anime nel senso leibniziano. L’appercezione – quella che verrà chiamata dopo Leibniz «autocoscienza» – consente anche gli atti riflessivi, ossia i pensieri rivolti a ciò che è in noi. Da questi è possibile ricavare non solo l’idea di un Io, ma concetti fondamentali che scaturiscono «pensando se stessi», come: 1) l’essere; 2) la sostanza; 3) il semplice; 4) il composto; 5) l’immateriale; 6) Dio. L’anima intelligente, inoltre, ha una sussistenza metafisica maggiore delle altre anime; riconoscendosi come Io costituisce l’identità personale e con essa anche la responsabilità morale. Conservando il «fondamento della conoscenza di ciò che sono» le anime intelligenti sono anche tenute a rendere conto delle loro azioni, ed entrano così in un ordine diverso, in cui castigo e ricompensa hanno un senso. 291

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La gerarchia delle monadi

Gerarchia dei gradi di conoscenza

Monadi nude o entelechie primitive: la sostanza semplice come centro di attività

Hanno percezioni insensibili

Anime: composizioni di monadi semplici; le hanno anche gli animali

Hanno percezioni distinte (sensazioni) e memoria, ossia una certa continuità nel percepire

Anime razionali o spiriti: sono composizioni di monadi unificate da una monade dominante

Oltre alla percezione, alla sensazione, alla memoria e alla conoscenza induttiva le anime razionali possono avere la conoscenza chiara e distinta, che procede a priori. Appercezione e atti riflessivi

Ogni forma di conoscenza superiore mantiene le caratteristiche di quella inferiore

Ogni ente superiore ha in sé le caratteristiche di quelli inferiori

Gerarchia ontologica

La conoscenza e il mondo dei fenomeni Autonomia della spiegazione scientifica rispetto alla metafisica

T39

L’autonomia della spiegazione meccanicistica G.W. Leibniz, Discorso di metafisica, 10

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La struttura razionale fondata sulle monadi sottesa, secondo Leibniz, al mondo fisico garantisce alla conoscenza un’unità e un fondamento nell’essenza delle cose che nei modelli concettuali della scienza moderna della natura sembra sfuggire. Leibniz lascia però l’ontologia sostanzialistica per così dire sullo sfondo, sviluppando una conoscenza del mondo fisico che si muove secondo le linee della fisica matematica. Il riferimento alle forme sostanziali non è necessario in un primo livello di considerazione del mondo fisico, ovvero non ha alcun ruolo nella spiegazione scientifica concreta. Come dice Leibniz, le forme sostanziali «non cambiano nulla nei fenomeni». Così, non si comprende cosa sia un orologio riferendosi alla qualità «orodittica», ossia al fatto che esso ha la capacità di indicare il tempo, ma è il suo modo di operare meccanico, la connessione funzionale e causale delle sue parti a spiegarne la natura. Io riconosco che la considerazione di queste forme [sostanziali] non serva a nulla nei dettagli della fisica: esse non vanno affatto impiegate nella spiegazione dei fenomeni particolari. Proprio in questo hanno sbagliato i filosofi scolastici. E con loro i medici del passato, poiché credevano di rendere ragione della proprietà dei corpi ricorrendo alle forme e alle qualità, ma senza curarsi di esaminare le modalità dell’operazione; come se, per esempio, riguardo ad un orologio potessimo ritenerci soddisfatti di rilevare che ha la qualità orodittica in virtù della sua forma, ma senza considerare in cosa ciò consista. Questo, in verità, può bastar a chi acquisti l’orologio, purché lasci che sia un altro a curarsene. […] Come un geometra non ha bisogno di ingombrarsi la mente con il famoso labirinto della composizione del continuo, e nessun filosofo morale, e ancor meno un giureconsulto o un politico, ha bisogno di preoccuparsi delle grandi difficoltà

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

che si incontrano nella conciliazione del libero arbitrio con la provvidenza divina – poiché il geometra può compiere tutte le sue dimostrazioni e il politico può portare a termine tutte le sue deliberazioni senza entrare in queste problematiche, che tuttavia non cessano di essere necessarie ed importanti in filosofia e in teologia –; allo stesso modo un fisico può rendere ragione delle sue esperienze, servendosi ora di esperimenti più semplici già effettuati ora di dimostrazioni geometriche e meccaniche, senza perdersi in riflessioni di ordine generale che appartengono a un’altra sfera. Natura come mondo dei fenomeni

Debolezza ontologica dei fenomeni

Conoscenza fenomenica come accordo tra le menti

Le cose corporee non sono sostanze

Spazio e tempo come relazioni d’ordine tra cose

Lo studio della natura conserva una sua autonomia epistemologica, e in esso le cose si presentano non tanto come sostanza, ma come «fenomeni bene fondati», ossia strutture invarianti regolate da leggi, che a loro volta spiegano il molteplice presentarsi delle cose (le «apparenze»). Questa dimensione ha un carattere ontologico diverso, in un certo senso più debole di quello delle sostanze. Leibniz dice anche che concetti basilari della fisica come grandezza, figura e movimento racchiudono «qualcosa di immaginario e di relativo alle nostre percezioni» per il quale si può dubitare – come avveniva secondo altri filosofi solo per qualità come colore o sapore, le cosiddette «qualità secondarie» – «se si trovino effettivamente nella natura delle cose fuori di noi». Rispetto alla conoscenza che si muove nella dimensione dei fenomeni non conta tanto il fondamento nella natura della cosa, ma l’accordo tra i soggetti conoscenti. Materia e moto non sono in sé sussistenti, ma modi di presentarsi delle sostanze alle menti, sono «fenomeni di coloro che percepiscono, la cui realtà risiede nell’armonia dei percipienti con se stessi (in tempi differenti) e con tutti gli altri percipienti». I corpi fisici in questo senso non si distinguono – né è necessario che si distinguano – da «sogni bene ordinati», che sono veri in quanto giudicati tali da tutti i soggetti secondo regolarità comuni, in tempi e luoghi diversi e che sono dunque «equivalenti, nella pratica, ai veri, grazie alla loro concordanza». È questo tessuto regolare del mondo dei fenomeni, questo legame dei fenomeni tra di loro a garantire la loro realtà e la verità delle nostre proposizioni (le verità di fatto) nella nostra conoscenza concreta del mondo fisico, senza che questo significhi dissolvere la natura materiale in una semplice apparenza. Essa ha uno status ontologico diverso da quello delle forme metafisiche: «è un aggregato, non substantia, sed substantiatum, come sarebbe un’armata o un gregge; e in quanto la si consideri come una cosa, è un fenomeno perfettamente vero in effetti, ma a cui la nostra concezione dà l’unità». Il carattere di sostanza viene negato da Leibniz non solo alle cose corporee, ma anche allo spazio (a cui Cartesio dava invece dignità di sostanza) e al tempo, che vengono ricondotti invece a relazioni: lo spazio è un ordine delle coesistenze possibili, mentre il tempo è un ordine delle successioni, ovvero delle possibilità incompatibili. Lo spazio è dunque il risultato di relazioni tra possibilità che possono coesistere simultaneamente in un unico sistema, in uno stesso mondo possibile; mentre il tempo ordina possibilità che possono presentarsi soltanto in successione, perché risultano tra di loro non compatibili. In questo modo Leibniz si oppone alla visione di Newton, che concepiva spazio e tempo come entità assolute, ossia in grado di sussistere in se stesse, indipendentemente dall’esistenza di enti in relazione tra loro (vedi Unità 8, p. 477 ss.). Spazio e tempo assumono invece il carattere di entità ideali, relazioni d’ordine tra cose (seppure fondate anch’esse, come ogni relazione tra idee, nell’intelletto divino). 293

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6 Importanza della nozione di sostanza individuale

Il finalismo, Dio e i possibili, la libertà La nozione di sostanza individuale come concetto completo non ha solo unificato e risolto il problema della connessione tra piano logico e piano ontologico, ma ha anche permesso a Leibniz di dare un fondamento metafisico alla sua fisica e di proporre una soluzione ad alcuni dei problemi legati alla matematizzazione della fisica e all’affermarsi del meccanicismo.

Il recupero del finalismo Nel momento in cui Leibniz riconosce l’autonomia della spiegazione meccanicistica del mondo dei fenomeni sottolinea, però, anche l’importanza fondamentale di una considerazione diversa, che tenga conto della prospettiva finalistica decisamente rifiutata da Cartesio e anche da Spinoza. Di questa sottolinea da un lato la compatibilità con la spiegazione meccanicistica, dall’altro la sua indispensabilità per una comprensione più profonda delle cose del mondo. La possibilità di conciliare le due prospettive è individuata nella distinzione tra progetto e strumenti. Meccanicismo La connessione meccanica tra le cose è da paragonare agli strumenti per rage strumenti giungere un certo fine: posso propormi di deviare un corso d’acqua per irrigare un campo, e a questo fine provocare una frana con un’esplosione. Tutto ciò che avviene da un certo punto in poi è uno strumento per il mio progetto, e procede attraverso una serie di cause meccaniche. Finalismo e progetto Una comprensione piena di ciò che è avvenuto è possibile tuttavia solo tenendo conto del progetto che vi stava dietro. Secondo l’esempio di Leibniz, uno storico non può comprendere la conquista di una fortezza se si limita ad analizzare la connessione degli eventi fisici; in modo simile non si comprende pienamente l’universo se non si fa riferimento a una intelligenza che conferisce ordine alle cose del mondo. L’insufficienza del meccanicismo

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[…] è insensato introdurre un’intelligenza sovrana ordinatrice delle cose e, invece di ricorrere a questo tipo di saggezza, servirsi poi unicamente delle proprietà della materia per la spiegazione dei fenomeni. – Come se, per rendere ragione di una conquista di un gran principe che ha occupato un’importante fortezza, uno storico volesse dire che ciò avvenne perché i corpuscoli della polvere da sparo, liberati dal contatto con la scintilla, si sono sprigionati a una velocità tale da spingere un corpo duro e pesante contro le mura della fortezza, mentre le diramazioni dei corpuscoli che compongono la canna del cannone erano così bene intrecciate da non staccarsi per effetto di tale velocità; invece di mostrare che è stata la previdenza del conquistatore a fargli scegliere il tempo e i mezzi più opportuni, e la sua potenza a fargli superare tutti gli ostacoli.

Armonia tra spiegazione meccanica e spiegazione finalistica

Se assumo la prospettiva degli strumenti, la spiegazione meccanica è adeguata o piuttosto indispensabile; ma una comprensione piena richiede la prospettiva del progetto. Compatibilità delle due chiavi di lettura e indispensabilità di quella finalistica emergono dunque insieme. L’autonomia della conoscenza dei fenomeni per via sperimentale e induttiva lascia spazio a (e anzi richiede) un fondamento metafisico che conferisca una base ontologica non arbitraria a ciò che viene conosciuto. Sulla ontologia soggiacente delle forme sostanziali (la nozione di sostanza come es-

Il limite della spiegazione meccanicistica

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sere completo) si può poi basare la prospettiva finalistica: le entelechie rispondono a un disegno divino, di cui la connessione causale nei fenomeni è solo espressione. La volontà di conciliare la via delle cause finali e quella delle cause efficienti è in Leibniz esplicita e programmatica: gli autori che utilizzano le diverse prospettive, sostiene, «non dovrebbero maltrattarsi a vicenda» o deridersi, ma considerarle come due aspetti, appunto come progetto (prefigurazione di un fine) e strumenti (meccanici) sono uniti senza contraddizione. Unire le due considerazioni sarebbe la cosa migliore. Perché, se è lecito servirsi di un umile paragone, io riconosco ed esalto l’abilità di un artigiano non solo mostrando quale progetto egli abbia avuto nel costruire i pezzi della sua macchina, ma anche spiegando gli strumenti di cui si è servito per fare ciascun pezzo, soprattutto nel caso questi strumenti sono semplici e ingegnosamente inventati. E Dio è un artigiano abbastanza abile per produrre una macchina ancora mille volte più ingegnosa di quella del corpo, servendosi solo di alcuni liquidi molto semplici, espressamente formati in modo che bastino soltanto le leggi ordinarie della natura per mescolarli come si deve al fine di produrre un effetto tanto meraviglioso; ma è anche vero che ciò non accadrebbe affatto, se Dio non fosse l’autore della natura.

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Progetto e strumenti

G.W. Leibniz, Discorso di metafisica, par. 22

Leibniz aggiunge però una ulteriore considerazione a favore della prospettiva finalistica, in cui questa non assume soltanto il ruolo di una considerazione parallela ed esterna a quella meccanicistica propria della scienza fisico-matematica della natura, ma rivendica un ruolo interno alla scienza stessa. Il ricorso alle cause finali può avere quella che oggi chiameremmo una funzione euristica, può cioè servire a trovare delle verità, orientando la ricerca verso soluzioni che difficilmente verrebbero intraviste per la via lunga della catena delle cause, ma che devono essere ‘prefigurate’. Il disegno della natura In questo senso, scrive Leibniz, «la via delle cause finali è più facile, e spesso serve ad intuire delle verità importanti ed utili che richiederebbero un tempo molto lungo di ricerca per l’altra via più fisica». Leibniz fa l’esempio dell’anatomia (dove la ricerca della funzione porta a scoprire verità «meccaniche»), ma anche delle leggi del movimento o delle leggi della rifrazione della luce, che vengono scoperte secondo lui usando il principio di cercare la via più semplice per condurre un raggio da un punto a un altro, e dunque supponendo un disegno della natura in favore di tale semplicità. Funzione euristica del finalismo

Il mondo fisico in Leibniz

Mondo fisico: livello ontologico inferiore rispetto alla sostanza individuale (monadi o punti metafisici) Realtà frammentata e difficile da concepire (problemi legati alla matematizzazione della fisica) Materia prima come resistenza alla forza (astrazione) Materia seconda come corpo organico che l’anima percepisce come unità (è un fenomeno, un’apparenza, non una sostanza) Corpo organico: – relazione con l’anima regolata dall’armonia prestabilita. Anima come principio unificante di una composizione di sostanza – relazione con gli altri corpi e con se stessi che sorge dall’interno, espressione dell’armonia tra tutti i corpi Materia e moto, spazio e tempo sono modi con cui le menti rappresentano ed esprimono le relazioni e le influenze tra corpi. Non sono sostanze ma soltanto fenomeni e non colgono la realtà ontologica profonda del mondo Il meccanicismo spiega la realtà come fenomeno, il finalismo spiega il progetto, il disegno che governa il mondo

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L’esistenza di Dio Dio come ragione delle cose ed ente necessario

La prova dell’esistenza a partire dalla contingenza

La prova dell’esistenza a partire dalle essenze

L’identificazione tra ente necessario ed ente perfettissimo

Aggiungere la prospettiva dei fini a quella delle cause meccaniche vuol dire anche chiedersi non soltanto che cosa sono le cose, domanda che può esaurirsi nella indicazione delle condizioni per la loro produzione (degli «strumenti», nel senso che si diceva), ma perché le cose sono. Qui diventa indispensabile non soltanto il ricorso alle forme sostanziali come realtà ontologica profonda dei fenomeni, ma a Dio stesso come ragione ultima di tutto. La necessità dell’esistenza di Dio risulta da due argomentazioni. Da un lato, le verità contingenti o fattuali (le esistenze) richiedono una ragione per esistere, e questa non può solo essere cercata nella serie delle cause, perché questa procede all’infinito: deve esistere pertanto un sostanza necessaria che sia fuori dalla catena delle cause, dei corpi contingenti, e questa è appunto Dio, in quanto ente sufficiente a se stesso, ovvero che ha in sé la ragione della propria esistenza. Ma anche le essenze come dimensione del possibile richiedono che vi sia qualcosa che le fonda. Questo qualcosa è, come abbiamo visto, l’intelletto di Dio, senza il quale nulla potrebbe neanche essere possibile, così come senza la sua volontà nulla esisterebbe. Se le essenze si fondano su un ente necessario, questo deve essere l’ente nel quale l’essenza implica l’esistenza. Un ente di questo tipo – una sostanza originaria – deve contenere in sé, senza limiti, tutte le qualità positive che sono presenti nelle sostanze derivate: deve contenere quelle che Leibniz chiama «perfezioni», e in particolare potenza, conoscenza e volontà perfette: la potenza desidera l’essere, l’intelletto il vero, la volontà il buono, tre componenti necessarie affinché un mondo sorga. L’ente necessario sarà dunque onnipotente, onnisciente, sommamente buono: in questo modo Leibniz riesce ad attribuire all’ente necessario le caratteristiche del Dio-persona della tradizione cristiana, senza instaurare, come Spinoza, un legame intrinseco tra Dio e il mondo.

Perché le cose sono: il migliore dei mondi possibili È l’esistenza di Dio che rende possibile una risposta alla prima domanda che secondo Leibniz il principio di ragion sufficiente ci consente di porre, e cioè alla domanda «perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?». Dio, i mondi possibili Con Dio sono dati originariamente i possibili, i modelli delle cose costituiti dale la scelta divina le idee. Essi esistono in quanto pensati da Dio, ma di essi Dio non dispone: il suo intelletto li contempla, non li crea. I possibili costituiscono però un campo infinito, quello di tutto ciò che è pensabile senza contraddizione, nel quale hanno spazio più mondi possibili. L’esistenza del mondo deve derivare pertanto, in quanto realizzazione di una possibilità tra molte, da una scelta divina, da un atto della sua volontà. Questa scelta, dati i caratteri di onniscienza e somma bontà di Dio, non può che essere dettata da una sorta di comparazione che Dio svolge tra tutti i mondi possibili per individuarne il migliore, da una saggezza che si spinge oltre la contemplazione per diventare creazione.

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La scelta di Dio G.W. Leibniz, Saggi di teodicea, 2,225

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La saggezza di Dio, non contenta di abbracciare tutti i possibili, li penetra, li confronta, li pesa gli uni con gli altri, per stimarne i gradi di perfezione o d’imperfezione, la forza e la debolezza, il bene e il male; essa si spinge addirittura al di là delle combinazioni finite e ne fa un’infinità di infinite – vale a dire un’infi-

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nità di serie possibili dell’universo, ciascuna delle quali contiene un’infinità di creature. Con questo mezzo, la saggezza divina distribuisce tutti i possibili che aveva già esaminato a parte, in altrettanti sistemi universali, che confronta ancora tra loro: il risultato di tutte queste comparazioni e riflessioni è la scelta del migliore tra tutti questi sistemi possibili, [scelta] che la saggezza compie per soddisfare pienamente alla propria bontà; e questo è esattamente il piano dell’universo attuale. Valutazione di compossibilità e bontà divina

Armonia come fattore determinante di scelta

Semplicità e varietà

Armonia come bellezza

Bisogna osservare che Leibniz intende conservare la libertà della volontà di Dio quando questa dà luogo all’esistenza: per questo motivo la comparazione che Dio svolge tra tutti i possibili per determinare il massimo di bene non ha il carattere di una dimostrazione: una dimostrazione costituirebbe una necessità, alla quale Dio non potrebbe non sottostare. Se l’intelletto di Dio è vincolato ai possibili, la sua volontà però non può esserlo. Per questo Leibniz si esprime dicendo che Dio «vede» quale mondo sia il migliore. Per farlo deve considerare la compossibilità, ossia quali cose (sostanze complete individuali) siano possibili insieme. È dalla limitazione reciproca dei possibili che scaturisce un universo. Ed è la bontà di Dio a far sì che crei il migliore, non una logica a costringerlo. Ma qual è il mondo migliore tra tutti i possibili? La risposta leibniziana è che è quello in cui si trova il grado massimo di armonia. Le cose ottime sono quelle massimamente armoniche, così che Leibniz arriverà a dire che «l’esistere non è altro che l’essere armonico». L’armonia è data dall’unione di due fattori: semplicità e varietà. La semplicità deve essere quella delle leggi che regolano il tutto: è più semplice un universo retto da un numero minore di leggi. Il massimo di varietà o molteplicità lo ha l’universo che, come dice Leibniz, è più ricco in fenomeni ovvero ha il massimo numero possibile di essenze in relazione reciproca: quello in cui si presenta una varietà di contenuto concettuale o fenomenico (le due cose in Leibniz si implicano, perché i fenomeni sono il frutto di relazioni matematiche e razionali tra le sostanze-concetti completi), potremmo dire una massima diffusione di ‘senso’. L’armonia è così anche l’essere aperte delle cose a una mente che le coglie, e dunque anche bellezza e fonte di piacere. Leibniz riassume una volta in modo sintetico il quasi vertiginoso confluire di concetti l’uno nell’altro che dà il senso della sua visione dell’universo creato da Dio: «L’unità nella molteplicità non è altro che la concordanza e dalla concordanza dell’uno con questo più che con quello deriva l’ordine, dal quale proviene ogni bellezza, che a sua volta suscita amore. Felicità, piacere, amore, perfezione, essenza, forza, libertà, coincidono; ordine e bellezza sono tra loro connessi».

La teodicea L’obiezione proveniente dalla realtà del male

➥ Percorso tematico, p. 321

Questa grandiosa visione armonica di Leibniz, costruita sulla base di complesse speculazioni concettuali, deve fare i conti con le cose del mondo. Se, come Leibniz stesso scrisse, «la felicità è per le persone ciò che la perfezione è per gli esseri», la perfetta armonia del cosmo si scontra con la questione della percezione della felicità nelle persone, con la realtà drammatica della presenza del male nel mondo. Fu in particolare un filosofo, Bayle, a presentare a Leibniz il conto rappresentato dalla infelicità e dal male nel mondo, sollevando tra molte 297

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questioni anche quella della possibilità, che lui negava, di conciliare fede e ragione in rapporto all’esistenza del male (vedi Unità 4, p. 225 s.). La teodicea: la difesa Leibniz affronta questa questione in modo ampio in quella che è stata vista come della giustizia di Dio la sua opera conclusiva, i Saggi di teodicea. Il termine «teodicea», coniato da Leibniz stesso, significa «giustizia di Dio» (dal greco theòs, «Dio», e dìke, «giustizia»), ma si riferisce in particolare alla giustificazione o difesa della giustizia di Dio in relazione al problema rappresentato dalla presenza del male nel mondo, che sembra mettere in questione o l’onnipotenza o la bontà di Dio. Perché Dio permette che nel mondo vi sia del male? Leibniz è consapevole del fatto che nel suo sistema la risposta a una simile domanda deve discendere da «ragioni ideali»: è nella regione delle verità eterne che si deve trovare l’origine del male. Le forme del male Leibniz distingue secondo la tradizione tra male fisico, male morale e male metafisico. Il male fisico è costituito dalle sofferenze, il male morale consiste nel peccato, il male metafisico nella imperfezione delle creature. La presenza del primo tipo di male, il male fisico, può essere concepita o come un castigo della colpa, oppure come un mezzo per un fine maggiore, il conseguire maggiori beni. Il male morale è da Dio soltanto permesso, ma soprattutto deriva dal male metafisico, ossia dalla limitatezza delle creature, rispetto al quale però l’intervento divino non è coinvolto direttamente: Dio è causa delle perfezioni nella natura e nelle azioni della creatura, mentre se nell’azione di questa vi sono dei difetti, questo è dovuto al fatto che gli esseri creati sono in quanto tali limitati.

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L’origine del male metafisico

G.W. Leibniz, Saggi di teodicea, 1,31

[…] Dio dà sempre alla creatura, e produce continuamente ciò che in essa vi è di positivo, di buono e di perfetto, ogni dono perfetto venendo dal padre dei lumi, mentre le imperfezioni e i difetti delle operazioni derivano dalla limitazione originale che la creatura non ha potuto non ricevere fin dal primo inizio del suo essere, in virtù delle ragioni ideali che la limitano. Dio infatti non poteva darle tutto senza farne un Dio; bisognava dunque che vi fossero gradi differenti nella perfezione delle cose, e che vi fossero anche limitazioni d’ogni sorta.

Il male ha essenzialmente una natura negativa o privativa (discende dai limiti delle creature), e in questo senso non è imputabile a Dio. Ma è soprattutto la visione del mondo come un tutto quella in cui Leibniz cerca, al di là dell’origine del male, il suo senso, ossia una ragione tale che consenta di conciliare la presenza del male nel mondo con l’idea che quello esistente sia comunque il migliore dei mondi possibili. La minimizzazione Le ragioni che Leibniz porta a sostegno della sua tesi sono essenzialmente due: del male 1) non soltanto è possibile che i mali a noi conosciuti siano quasi nulla in confronto a tutti i beni che si trovano nell’universo («può darsi che tutti gli altri soli non siano abitati che da persone felici»); 2) inoltre, a una prospettiva limitata può sfuggire l’essenziale non solo in relazione alla quantità, ma anche perché non può cogliere il senso che può assumere il male: se vediamo di un quadro un frammento privo di compiutezza non si è in grado di riconoscerne né il disegno né la bellezza. Così quando non si vede l’intera opera di Dio non c’è da stupirsi se non si manifesta l’ordine del tutto. Anche se il tutto sfugge per principio all’uomo, tuttavia ciò che gli è visibile, l’armonia che riesce a percepire nella parte che conosce, è «un importante precedente» che spinge a credere che essa verrebbe trovata anche altrove, se il tutto fosse conosciuto. Il senso del male nel mondo

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Leibniz dà dunque una giustificazione alla presenza del male del mondo basata su considerazioni metafisiche – su «ragioni ideali», come afferma – e quindi una specie di sua deduzione dall’alto, per così dire; ma essa non vuole essere (e in questo sfugge forse alla caricatura che ne darà Voltaire, 1694-1778, nel suo romanzo Candido) una compiuta giustificazione di ogni male, un far tornare comunque i conti. Dal punto di vista degli uomini, il calcolo di Dio da cui scaturisce il mondo resta senza soluzione. Salvare la possibilità Piuttosto, essenziale è che sia salvata la possibilità di un mondo ottimo. Leibniz di un mondo ottimo rimprovera a Bayle la sua pretesa «che gli si mostrasse per filo e per segno in che modo il male sia legato con il miglior progetto possibile dell’universo», sostenendo invece che «a noi basta far osservare che nulla impedisce che un certo male particolare sia legato con ciò che in generale è il meglio». Il grandioso progetto razionalistico di Leibniz trova qui una soglia su cui vuole arrestarsi. Si può esprimere questa situazione dicendo che è possibile in misura sufficiente sapere che il male trova un senso nella prospettiva del tutto, senza poterlo pienamente spiegare. Il male si ricompensa ampiamente nell’universo secondo la logica della scelta di Dio: «ma spiegare sempre la mirabile economia di questa scelta non è possibile finché siamo viaggiatori in questo mondo: è già abbastanza saperlo, senza comprenderlo». Giustificare il male, non tutti i mali

Dio e il male

Mondi possibili: insiemi di essenze compossibili presenti nella mente divina Dio non ha potere su di loro Sono ordinati gerarchicamente

Dio sceglie il mondo migliore per varietà e semplicità, cioè quello dove c’è maggiore armonia

Il male si giustifica: – perché i mali che noi conosciamo non tengono conto dei beni degli altri mondi – poiché abbiamo una visione limitata del reale: percepiamo qualcosa come male perché non cogliamo l’intero disegno di Dio – il male è solo privazione, deriva dai limiti delle creature

Il «Labirinto della libertà e della necessità» Qual è il ruolo dell’agire umano nell’universo così stabilito da Dio? È evidente che in un cosmo così unitario e così ordinato una libertà imprevedibile non può avere molto spazio. Leibniz risolve quello che chiama il «Labirinto della libertà e della necessità» operando una ridefinizione precisa del concetto stesso di libertà. Libertà nel senso possibile all’uomo – compatibile appunto con un universo retto da Dio e da lui in anticipo conosciuto e predeterminato – può significare l’unione di tre aspetti. La libertà presuppone Anzitutto la libertà presuppone l’esclusione della necessità logica o metafisica, la contingenza quella secondo la quale un’azione è necessaria se il suo opposto è contraddittorio, logicamente impossibile. Perché vi sia libertà deve esserci contingenza (che come abbiamo visto non esclude la ragione sufficiente, dunque la determinazione, ma questa riguarda solo il mondo attuale, non ogni mondo possibile).

Ridefinizione del concetto di libertà

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La scelta di Dio non elimina la contingenza

La libertà è spontaneità

Libertà come piena intelligenza del bene

Distinzione tra necessità e determinazione

Il paradosso della libertà

➥ Sommario, p. 302

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La stessa scelta di Dio per il mondo effettivamente esistente – sostiene Leibniz con una distinzione sottile – non va intesa come una causazione che metta in moto un meccanismo necessario, una catena necessitante, ma è un fiat che, pur determinandone l’esistenza, non cambia lo status ontologico delle cose: «non apporta alcun mutamento alla costituzione delle cose, e le lascia così com’erano allo stato di pure possibilità». In altri termini, non ne sopprime il carattere di contingenza, che soltanto una necessità concettuale assoluta (come quella che vige nel sistema spinoziano) potrebbe annullare. In secondo luogo, perché vi sia libertà deve esserci spontaneità, ossia la condizione che la volontà non sia determinata da nulla di estraneo ad essa. In altri termini, la volontà dell’uomo è libera quando l’agire è dettato da una volontà che sia la sua – ma questo non significa che l’uomo sia libero di volere la volontà che ha: questo sarebbe in qualche modo assurdo (dovrei allora poter volere di volere la volontà e così in un infinito regresso). Volendo, anche quando lo facciamo spontaneamente senza costrizioni, seguiamo sempre «il risultato di tutte le inclinazioni che provengono tanto dal lato delle ragioni quanto da quello delle passioni; e ciò avviene spesso senza un espresso giudizio dell’intelletto» (sulla base cioè delle piccole percezioni inconsapevoli). Tuttavia, perché un’azione si configuri come veramente libera è essenziale la terza condizione, che appunto molto spesso manca: una conoscenza non inconsapevole, ma invece distinta dell’oggetto della deliberazione, ossia quella che Leibniz chiama intelligenza. L’anima non soltanto deve autodeterminarsi e farlo in un contesto di assenza di necessità metafisica contraria (nel «paese dei possibili»), ma deve compiere la sua azione illuminata dalla piena comprensione del bene che rappresenta e persegue. Le prime due condizioni non sono che precondizioni di un agire che è libero quando, su quella base, l’intelletto concepisce distintamente il bene. Per questo motivo, per questo culminare della libertà nella comprensione intellettuale, Leibniz sostiene che «l’intelligenza è come l’anima della libertà, e il resto ne è come il corpo e la base». Così Leibniz cerca di riformulare il vocabolario con cui le questioni della libertà e della necessità venivano trattate. Il concetto rigoroso di necessità viene riservato al suo senso logico-metafisico, e ad essa Leibniz vuole sostituire il concetto di determinazione e di certezza: che qualcosa non sia necessario non significa che non sia determinato – l’azione libera è determinata da ragioni; e ciò che è conosciuto come determinato è certo. Così si può salvare, agli occhi di Leibniz, insieme la libertà umana, la predeterminazione dell’universo da parte di Dio, la presenza di una ragione in tutto ciò che avviene, fino al concetto apparentemente stridente di un automa spirituale: «tutto è dunque certo e determinato in anticipo nell’uomo, così come lo è qualsiasi altra cosa, e l’anima umana è una specie di automa spirituale, benché le azioni contingenti in generale e le azioni libere in particolare non siano per questo necessarie di una necessità assoluta». Questo filo che vorrebbe condurre fuori dal labirinto della libertà e della necessità acquista ulteriore problematicità quando investe non un disegno generale, che abbraccia l’universo, ma il destino dell’individuo in quanto tale. Anche qui il progetto di una ragione che tutto chiarisce si arresta, assunta la prospettiva umana, a una formulazione che, per il filosofo della necessità e della certezza, non può non suonare paradossale: «Ma è forse certo fin dall’eternità che io peccherò? Datevi da soli la risposta: “forse no”. E, senza pensare a ciò che voi non potreste mai conoscere e non può darvi nessun lume, agite secondo il vostro dovere, che conoscete».

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz Suggerimenti bibliografici Un’utilissima e completa esposizione della filosofia di Spinoza: E. Giancotti Boscherini, Spinoza e lo spinozismo, Editori Riuniti, Roma 1983. Un’introduzione a Spinoza che presenta cronologicamente le singole opere: F. Mignini, Introduzione a Spinoza, Laterza, Roma-Bari 1983. Un’introduzione costruita attorno a sette itinerari che attraversano l’opera: P. Cristofolini, Spinoza per tutti, Feltrinelli, Milano 1993. Sul rapporto fra Dio e natura: K. Löwith, Spinoza. Deus sive Natura, a cura di O. Franceschelli, Donzelli, Roma 1999. Una presentazione del pensiero spinoziano che ne esamina la componente razionalistica: F. Alquié, Il razionalismo di Spinoza, Mursia, Milano 1987. Una personale lettura del tema delle passioni che mette in luce l’atteggiamento critico di Spinoza verso i modelli etici antichi e moderni: R. Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1991. Sul pensiero teologico e religioso: L. Strauss, La critica della religione in Spinoza, a cura di R. Caporali, Laterza, Roma-Bari 2003. Per approfondire la conoscenza della filosofia di Leibniz segnaliamo le monografie di due specialisti: E.J. Aiton, Leibniz, Mondadori, Milano 1991 e M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino 2003. Molto utile, anche perché dedica ampio spazio al confronto con il sistema di Spinoza, è M.-T. Liske, Leibniz, il Mulino, Bologna 2007. Partendo da aspetti della teoria della conoscenza G. Tomasi, La bellezza e la fabbrica del mondo. Estetica e metafisica in G.W. Leibniz, Edizioni ETS, Pisa 2002, indaga sulle forme del bello. Alla teodicea è dedicato A. Poma, Impossibilità e necessità della teodicea. Gli «Essays» di Leibniz, Mursia, Milano 1995. Sui temi della memoria e della logica segnaliamo l’opera di uno dei maggiori storici della filosofia italiana: P. Rossi, Clavis universalis: arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, il Mulino, Bologna 2000. I brani antologizzati sono tratti da: B. Spinoza, Scelta di lettere in appendice al libro di P. Cristofolini, Spinoza per tutti, cit.: pp. 9798 (T4), p. 103 (T1). B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, trad. di S. Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1992: p. 5 (T2), pp. 19-20 (T3), pp. 20-21 (T5), p. 21 (T7), p. 31 (T6), p. 64 (T14), p. 78 (T13), p. 96 (T9), pp. 100-101 (T8), pp. 183-184 (T12), p. 194 (T10), p. 229 (T11), pp. 250-251 (T15). B. Spinoza, Trattato teologico-politico, a cura di A. Dini, Bompiani, Milano 2001: p. 39 (T16), pp. 47-49 (T17), p. 231 (T21), p. 243 (T22), p. 277 (T18), pp. 280-281 (T19), pp. 503-505 (T20). G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Id., Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai ed E. Pasini, voll. 1-3, UTET, Torino 2000. G.W. Leibniz, Monadologia, a cura di S. Cariati, Bompiani, Milano 2001. G.W. Leibniz, Che cos’è un’idea, in Id., Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, voll. 1-2, UTET, Torino 1988. G.W. Leibniz, Pensieri senza pretese intorno all’uso e al miglioramento della lingua tedesca, in Id., L’armonia delle lingue, a cura di S. Gensini, Laterza, Roma-Bari 1995. G.W. Leibniz, Prefazione alla scienza generale, in Id., L’armonia delle lingue, cit. G.W. Leibniz, Storia ed elogio della lingua caratteristica universale, in Id., Scritti di logica, a cura di F. Barone, Laterza, Roma-Bari 19922. G.W. Leibniz, Dissertazione sull’arte combinatoria, in Id., Scritti filosofici, Introduzione, a cura di M. Mugnai-E. Pasini, cit. G.W. Leibniz, Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità, in Id., Scritti di logica, cit. G.W. Leibniz, Saggi di teodicea, in Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai - E. Pasini, cit. G.W. Leibniz, Discorso di metafisica. Verità prime, a cura di S. Cariati, Rusconi, Milano 1999. G.W. Leibniz, Nuovo sistema della natura, in Id., Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, cit. G.W. Leibniz, Lettera ad Arnauld, 9 ottobre 1687, in Id., Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, cit. G.W. Leibniz, Lettera a De Volder, in M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, cit.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Sommario 1. SPINOZA

Nonostante gli attacchi violenti contro il suo sistema considerato da molti ateo, Spinoza incarna la figura dell’«ateo virtuoso»; pur vivendo in Olanda, il Paese più libero e tollerante del tempo, rimane chiuso all’interno di un circolo di pochi intimi, pubblica poco e solo in forma anonima e rifiuta ogni incarico pubblico. [parr. 1-2] Spinoza nella sua opera maggiore, l’Etica, sostiene, basandosi sul metodo geometrico, l’esistenza: 1) della sostanza, l’ente unico, identificato con Dio, che esiste necessariamente, ossia è causa di sé, eterno, increato, infinito e conoscibile solo a partire da sé; 2) degli attributi, ossia le qualità della sostanza, infiniti nel loro genere e infiniti di numero, tra i quali conosciamo solo il pensiero e l’estensione; 3) dei modi, ossia le cose singole, limitate nel tempo e nello spazio, dipendenti ontologicamente dalla sostanza e conoscibili solo a partire da essa. Il Dio-sostanza possiede un aspetto materiale, l’estensione, ed è immanente al mondo: in questo modo esercita una causalità necessaria e libera, ossia autodeterminata dalle leggi della propria natura, su tutta la realtà, rendendola infinita, priva di finalità, necessaria ed eterna. [par. 3] Il Dio-sostanza è unico, ma esiste in esso una distinzione reale tra i suoi attributi, che non possono interagire causalmente. I modi dell’estensione sono i corpi mentre i modi del pensiero sono le idee: ogni corpo ha una mente o idea corrispondente e parallela. La mente umana è inseparabile dal proprio corpo e subisce delle modificazioni interne parallelamente agli appetiti corporei: a ogni azione o passione corporea corrisponde un’azione o passione mentale. La mente umana non può dominare le passioni ma, spinta dal desiderio di autoconservazione comune a tutti gli enti (conatus), è capace di unire al desiderio la coscienza di esso (cupiditas). In questo modo realizza pienamente la propria natura umana, potenzia tutti i propri affetti positivi, legati alla laetitia o gioia, e controlla quelli negativi, legati alla tristitia o tristezza. Raggiungendo un’idea adeguata di sé, l’uomo raggiunge la libertà e la pienezza della vita. [par. 4] La liberazione dalle passioni avviene secondo Spinoza per mezzo della conoscenza, che è divisa in vari tipi e culmina con la scienza intuitiva, che corrisponde alla conoscenza adeguata e «sub specie aeternitatis» del Dio-sostanza e di tutto ciò che segue dalla sua natura infinita. Il massimo livello della vita cognitiva è anche il massimo della vita etica. [par. 5] La liberazione descritta nell’Etica è possibile solo per pochi sapienti, mentre la moltitudine si affida alla religione. Ma le lotte tra religioni hanno provocato la perdita di questo scopo: per recuperarlo si deve purificare la religione

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dai pregiudizi teologici; mostrare l’intima unione tra conoscenza naturale e conoscenza vera di Dio; comprendere come i riti e i dogmi non siano necessari alla salvezza e come anche i miracoli siano solo errori dell’immaginazione. [par. 6] 2. LEIBNIZ

Leibniz coltiva il progetto di ripensare in armonia il sapere umano attraverso la ragione, ma la sua opera non raggiunge i risultati sistematici che si propone, anche se i suoi interessi sono stati molto ampi e non limitati alla teoria, ma estesi alla prassi. [parr. 1-2] L’universo leibniziano trova un elemento unificante nella nozione di rappresentazione, come espressione unitaria di una molteplicità. Ogni sostanza è dotata della capacità rappresentativa, la cui forma più bassa sono le percezioni insensibili. Le rappresentazioni o idee sono oggetti immediati interni che costituiscono una scala progressiva, per chiarezza, distinzione e adeguatezza. Per esprimere e conoscere idee complesse o catene di ragionamento l’uomo crea il linguaggio, che si fonda su un’analogia strutturale tra pensiero e cose. [par. 3] All’origine di tutto ci sono le idee-archetipi presenti nella mente divina, i cui legami possono essere descritti attraverso la logica: componendo e scomponendo le idee e usando connessione e negazione, è possibile ‘calcolare’ proposizioni vere. Il nuovo linguaggio capace di esprimere questo sapere regolato e ordinato è l’arte caratteristica universale. La teoria leibniziana della verità distingue poi, grazie alla riflessione sulla modalità, le verità di ragione, proprie della conoscenza di Dio, dalle verità di fatto o contingenti, dipendenti rispettivamente dal principio di non contraddizione e dal principio di ragion sufficiente, entrambi riconducibili al principio di analisi. [par. 4] La teoria leibniziana della sostanza si incentra sulla nozione di concetto o essere completo, nella quale si uniscono il piano ontologico e quello logico. La sostanza del mondo sono le monadi o punti metafisici, enti immateriali, semplici, attivi ecc., che si compongono in gerarchie sempre più complesse al cui vertice c’è l’anima razionale. La sostanza corporea è invece solo una realtà fenomenica conoscibile attraverso la spiegazione meccanicistica della fisica moderna. [par. 5] Il meccanicismo deve però essere coniugato con il finalismo, che descrive il progetto di Dio sul mondo. Dio è l’ente necessario e perfetto, buono, saggio, giusto ecc., che crea il migliore dei mondi possibili. Nonostante il suo razionalismo, Leibniz ammette che il male e la libertà umana non sono giustificabili pienamente, ma salva la loro possibilità attraverso la sua teodicea e la nozione di libertà come spontaneità. [par. 6]

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Parole chiave Affetto. Termine derivante dal latino afficere, «provocare uno stato». In Spinoza indica un cambiamento che interessa, dato il parallelismo, sia il corpo che la mente dell’uomo; può essere positivo, con un accrescimento della potenza, o negativo, con una sua diminuzione. Appercezione. Sinonimo di «autocoscienza» o coscienza di percepire. Secondo Leibniz, appartiene solo all’anima razionale o spirito, e permette gli atti riflessivi (pensieri rivolti a ciò che è in noi) dai quali deriviamo nozioni complesse come l’Io, l’essere ecc. Appetito. Termine che deriva dal latino appetere, «desiderare intensamente qualcosa». In Spinoza, indica un intenso desiderio che richiede appagamento. Armonia. Nozione con cui Leibniz caratterizza l’unità e l’intima corrispondenza di ogni aspetto (logico, ontologico, gnoseologico, estetico ecc.) del reale. Attributo. In Spinoza, qualità della sostanza che fa parte della sua essenza, distinguibile da essa solo attraverso l’intelletto. Gli attributi sono distinti e non interagiscono causalmente. Noi ne conosciamo solo due: l’estensione (che rende Dio corporeo, ma infinito, non divisibile e non passivo) e il pensiero (l’unità di tutte le idee o menti). Azioni / Passioni. Secondo Spinoza, due tipi di affetti: rispettivamente un cambiamento di cui qualcuno è causa adeguata, ossia causa accompagnata da un’idea chiara e distinta di sé all’interno della catena necessaria delle cause; un cambiamento di cui qualcuno è causa parziale, ossia accompagnata da un’idea oscura e confusa delle cause esterne e interne che lo determinano. Conatus. Termine derivato dal latino conari, «tentare, sforzarsi». In Spinoza indica lo sforzo, o potenza individuale, per autoconservarsi, comune a tutti gli individui: in questo senso include appetiti, cupidità, volizioni ecc. Concetto / Essere completo. Termini che secondo Leibniz identificano rispettivamente l’aspetto logico (l’insieme di tutti i predicati possibili) e quello ontologico (l’insieme di tutte le proprietà possibili) di una sostanza individuale. Cupiditas. Termine derivato dal latino cupere, «desiderare». In Spinoza indica un affetto accompagnato dalla sua consapevolezza; la definisce anche l’«essenza dell’uomo», che lo differenzia da tutti gli altri esseri. Espressione. Termine che Leibniz usa per definire la capacità di una rappresentazione di esprimere in maniere diverse (per somiglianza, analogia, natura, arbi-

trio ecc.) una cosa. Essa si fonda su un sistema di corrispondenze regolare e costante. Laetitia (gioia) / Tristitia (tristezza). I due affetti fondamentali e originari per Spinoza, perché legati alla potenza individuale o conato, che rispettivamente fanno aumentare o diminuire. Da essi derivano tutti gli altri affetti. Modi. L’elemento più basso nell’ontologia spinoziana: tutte le modificazioni degli attributi limitate nello spazio e nel tempo da altre modificazioni e concepibili solo come dipendenti da altro e pensabili attraverso altro. Noi conosciamo solo i modi del pensiero o idee e i modi estesi o corpi. Esistono anche i modi infiniti, ossia le caratteristiche generali di tutti i modi appartenenti a un attributo: per il pensiero è l’intelletto infinito, ossia la totalità delle menti finite; per l’estensione sono il moto e la quiete. Monade o punto metafisico. Termine derivato dal greco mònos («unico») con cui Leibniz indica un ente dotato di un principio attivo, semplice, immutabile e immateriale che è il costituente ultimo di ogni sostanza individuale e che rispecchia l’intero universo. Le monadi sono organizzate in gerarchie e si strutturano in forme sempre più complesse; nelle sostanze corporee la cooperazione tra tutte è garantita da una monade dominante. Mondo possibile. Per Leibniz una totalità di essenze compossibili. Ognuno possiede proprie leggi e tutti insieme costituiscono una gerarchia continua al vertice della quale sta il migliore per semplicità e varietà. Percezioni insensibili. Per Leibniz sono le rappresentazioni che non raggiungono la coscienza, che costituiscono la maggior parte delle rappresentazioni delle monadi, presenti anche nell’uomo. Rappresentazione. Secondo Leibniz indica tutti gli oggetti mentali, consci e inconsci, che esprimono una conoscenza attraverso l’unificazione di una molteplicità di dati. Le rappresentazioni sono di vari gradi. Ogni sostanza possiede la rappresentazione della totalità dell’universo, ma solo in Dio è completa e adeguata. Sub specie aeternitatis. È una caratteristica della suprema forma di conoscenza secondo Spinoza: la capacità di vedere ogni cosa, anche i modi, gli affetti ecc. come necessaria. Verità di ragione / Verità di fatto. Secondo Leibniz le prime sono necessarie, vere in tutti i mondi possibili e conoscibili a priori; il loro opposto è impossibile; le seconde sono contingenti, vere solo in un mondo, conoscibili a posteriori; il loro opposto è possibile. 303

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Questionario Lavoriamo sui testi

SPINOZA 1

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Quali sono le caratteristiche principali della sostanza spinoziana? (max 6 righe) Cosa sono gli attributi? Qual è il loro rapporto con la sostanza? (max 4 righe)

3

Quale grado occupano i modi nell’ontologia spinoziana? Di quanti tipi possono essere? (max 4 righe)

4

Esprimi in un massimo di 6 righe le nozioni spinoziane di mente e corpo e la loro relazione reciproca.

5

Spiega in che modo l’uomo può liberarsi dalla schiavitù delle passioni secondo Spinoza. (max 5 righe)

6

Quando può verificarsi un errore nella conoscenza secondo Spinoza? (max 2 righe)

7

Qual è lo scopo della religione secondo Spinoza? (max 2 righe)

LEIBNIZ 8

Qual è la base del nesso rappresentativo tra una cosa e la sua idea secondo Leibniz? (max 2 righe)

9

Spiega in un massimo di 4 righe la nozione della logica come calcolo elaborata da Leibniz.

10

Che cosa sono le entelechie e quale ruolo svolgono nel mondo di Leibniz? (max 6 righe)

11

Definisci in un massimo di 2 righe la nozione di concetto completo. Qual è il suo rapporto con il principio di analisi? (max 2 righe)

12

Su cosa si fonda l’autonomia epistemologica della fisica secondo Leibniz? (max 3 righe)

13

Quali sono le due argomentazioni che portano ad affermare l’esistenza di Dio secondo Leibniz? (max 6 righe)

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14

Secondo Spinoza in T4 in cosa consiste quella che tutti definiscono libertà? Con quale esempio la descrive? (max 5 righe)

15

Spiega in un massimo di 5 righe qual è il rapporto tra decisione della mente e appetito descritto da Spinoza in T8.

16

Che cos’è che accresce la potenza della mente sugli affetti secondo Spinoza in T11? (max 1 riga)

17

Che cos’è che rende la facoltà di immaginare una virtù e non un vizio, secondo Spinoza in T14? (max 2 righe)

18

Quali sono i due presupposti che, secondo Spinoza, eliminerebbero la superstizione dalla vita degli uomini in T16? (max 4 righe)

19

Quali sono i tipi di espressione descritti da Leibniz in T25? (max 6 righe)

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Qual è il presupposto necessario del fatto che le «verità necessarie contengono la ragione determinante e il principio regolativo delle esistenze», secondo Leibniz in T27? (max 2 righe)

21

Con quale procedimento possono essere dimostrate le proposizioni esistenziali secondo Leibniz in T31? (max 1 riga)

22

Qual è la definizione di ragione determinante che Leibniz dà in T32? (max 3 righe)

23

In T39 Leibniz stabilisce un’analogia tra il mondo fisico e un orologio: spiegala in un massimo di 4 righe.

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Cosa sono i sistemi universali di cui Leibniz parla in T42? (max 3 righe)

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Laboratorio di lettura Spinoza, Etica Nelle pagine che seguono si riporta per intero l’Appendice conclusiva alla prima parte dell’Etica, che contiene l’analisi critica del pregiudizio finalistico – considerato come un pregiudizio teologico – e dei principali pregiudizi da esso derivati.

L’‘esame razionale’ del pregiudizio finalistico Prima premessa: conclusioni della prima parte dell’ Etica: causalità divina immanente e necessaria

Seconda premessa: chiarire definitivamente la natura dei pregiudizi

Terza premessa: il pregiudizio finalistico è il primo e fondamentale

Tre tesi da dimostrare: 1) sua genesi, 2) sua confutazione, 3) falsità dei giudizi di valore

Commento e interpretazione

Con ciò ho spiegato la natura di Dio e le sue proprietà: che esiste necessariamente; che è unico; che agisce per la sola necessità della sua natura; che è, e in qual maniera, causa libera di tutte le cose; che tutte le cose sono in lui e dipendono da lui, sicché senza di lui non possono né essere né essere concepite; e infine che tutte le cose sono state predeterminate da Dio, non già dalla libertà della volontà, ossia dall’assoluto beneplacito, bensì dalla natura assoluta, ossia dall’infinita potenza di Dio [A]. Inoltre, dovunque se n’è data l’occasione, ho curato di rimuovere i pregiudizi che potevano impedire che le mie dimostrazioni fossero comprese; ma poiché non pochi pregiudizi rimangono ancora, che del pari, anzi massimamente, potevano e possono impedire agli uomini di afferrare la concatenazione delle cose nel modo che l’ho spiegata, ho pensato che valesse la pena di sottometterli qui all’esame della ragione. E poiché tutti i pregiudizi che passo a indicare dipendono da questo soltanto, che cioè gli uomini comunemente suppongono che tutte le cose naturali, come essi stessi, agiscano per un fine, e anzi asseriscono come cosa certa che lo stesso Dio dirige a un certo fine tutte le cose – dicono infatti che Dio ha fatto tutte le cose per l’uomo, e l’uomo perché adorasse lui –, per questo considererò dapprima soltanto questo pregiudizio [B], cercando in primo luogo la causa per cui i più vi si adagino, e tutti, per natura, siano così propensi ad accoglierlo. Dimostrerò poi la sua falsità, e infine in qual modo da esso siano sorti i pregiudizi sul bene e sul male, sul merito e sul peccato, sulla lode e sul vituperio, sull’ordine e la confu-

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A. Spinoza richiama sinteticamente le tesi principali sostenute, per via dimostrativa, nella prima parte dell’Etica, e in particolare la propria dottrina della causalità divina come causalità immanente e necessaria, da cui segue un ordine di cose altrettanto necessario, cui non si può sottrarre alcuna realtà particolare. B. Spinoza esplicita lo scopo dell’Appendice e la strategia adottata per conseguirlo. Lo scopo è quello di completare la rimozione dei pregiudizi che ostacolano la comprensione razionale della natura divina e del modo in cui essa manifesta la sua potenza. La strategia adottata è quella di sottoporli all’esame della ragione, prendendo le mosse da un unico pregiudizio fondamentale, dal quale tutti gli altri derivano: il pregiudizio finalistico.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Metodo: deduzione razionale da un dato empirico universalmente riconosciuto

Argomentazione della prima tesi. Prima conseguenza: la credenza nella libertà Seconda conseguenza: proiezione del finalismo sugli altri

Terza conseguenza: estensione del finalismo alla natura (antropomorfismo) Quarta conseguenza: la creazione ha per fine l’uomo (antropocentrismo)

sione, sulla bellezza e la deformità, e su altre cose di questo genere [C]. Ma non è questo il luogo per dedurli dalla natura della mente umana. Qui basterà che io prenda a fondamento ciò che da tutti deve essere ammesso, e precisamente questo, che tutti gli uomini nascono ignari delle cause delle cose, e che tutti hanno l’appetito di cercare il loro utile, della qual cosa sono consci [D]. I. Da ciò segue, in primo luogo, che gli uomini si ritengono liberi, dato che sono consci delle proprie volizioni e del proprio appetito; mentre le cause, da cui sono disposti ad appetire e a volere, perché ne sono ignari, non se le sognano nemmeno. Segue, in secondo luogo, che gli uomini fanno tutto per un fine, cioè l’utile, che appetiscono; onde avviene che desiderano sempre sapere le cause finali delle cose passate, e che dopo averle udite, si acquietino; certo perché non hanno nessuna causa di dubitare ulteriormente. Se poi non possono udirle da qualcuno, non resta loro che volgersi a se stessi, e riflettere sui fini da cui essi stessi sogliono essere determinati a cose simili, e così, di necessità, giudicano l’indole altrui alla stregua della loro. Poi, trovando in sé e fuori di sé non pochi mezzi che giovano parecchio per conseguire il proprio utile, come per esempio gli occhi per vedere, i denti per masticare, erbe e animali per cibarsi, sole per illuminare, mare per allevare pesci, eccetera, è avvenuto che considerino tutte le cose naturali come mezzi per il loro utile [E]; e poiché sanno che quei mezzi sono stati da loro trovati ma non preparati, ne hanno tratto motivo per credere che esiste qualcun altro che ha preparato quei mezzi per loro uso. Infatti, dopo avere considerato le cose come mezzi, non poterono credere che esse si fossero fatte da sé; ma dai mezzi che essi stessi sogliono prepararsi, doverono concludere che ci fosse qualche o alcuni reggitori della natura, forniti di libertà umana, che si fossero curati di tutto per loro, e avessero fatto tutto per loro uso.

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C. È qui anticipata l’articolazione interna dell’Appendice: la prima sezione ha per oggetto la ricostruzione della genesi del pregiudizio finalistico; la seconda è dedicata alla sua confutazione; la terza riconduce al pregiudizio finalistico le principali categorie che sorreggono il nostro modo comune di vedere il mondo e di esprimere su di esso dei giudizi di valore. D. Spinoza chiarisce infine il metodo seguito in quest’Appendice. In queste pagine non è possibile dedurre i pregiudizi dalla natura della mente umana. Per una simile deduzione sarebbe necessaria una conoscenza preliminare dell’anima umana, cioè una spiegazione di questa a partire dalla sua causa, che non è altro che Dio; spiegazione che è svolta solo nella seconda parte dell’Etica, che si intitola appunto Natura e origine della mente. Di conseguenza, Spinoza è qui costretto a seguire una strada diversa da quella della semplice deduzione razionale, prendendo le mosse da un dato di fatto empirico generalmente riconosciuto: il fatto che gli uomini, in quanto esseri desideranti, sono originariamente consapevoli esclusivamente dello sforzo a conservare e aumentare la propria potenza, mentre ignorano le vere cause delle cose, cioè le cause efficienti. E. Dalla premessa appena illustrata, Spinoza prende le mosse per descrivere la genesi del pregiudizio finalista: in primo luogo, l’ignoranza delle cause efficienti provoca nell’uomo l’illusione di essere libero nel senso di potersi autodeterminare in maniera assoluta; la consapevolezza dello sforzo a ricercare il proprio utile fa sì invece che tutti gli uomini agiscano in vista di un fine. Le due cose, prese assieme, inducono l’uomo a cercare le

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz Quinta conseguenza: gli dèi agiscono per essere adorati; nascita dei riti

Conclusione: il pregiudizio finalistico porta degli effetti negativi:

1) concezione antropomorfa degli dèi

2) l’uomo avrebbe rinunciato alla verità, se non fosse stato per la matematica

Ma anche l’indole di questi, per non averne mai sentito dir nulla, doverono giudicare alla stregua della loro, e quindi stabilirono che gli dèi indirizzano tutto a uso degli uomini, per legarli a sé ed essere tenuti da loro in sommo onore; onde avvenne che tutti escogitassero diverse maniere di adorare Dio, secondo la loro indole, affinché Dio li preferisse agli altri, e dirigesse tutta la natura ad uso della loro cieca cupidità ed insaziabile avidità. E così questo pregiudizio si mutò in superstizione, e mise profonde radici nelle menti; e questa fu la causa per cui ognuno si studiò […] di capire e di spiegare le cause finali di tutte le cose. Ma mentre cercavano di dimostrare che la natura non fa niente invano (che cioè non sia ad uso degli uomini), sembrano che non abbiano dimostrato se non che la natura e gli dèi delirano proprio come gli uomini. Guarda dunque a che punto si è arrivati [F]! Tra tanti vantaggi della natura, hanno poi dovuto trovare non pochi svantaggi, come tempeste, terremoti, epidemie, eccetera, e hanno stabilito che queste cose avvengono per il fatto che gli dèi si adirano per le offese loro arrecate dagli uomini, ossia per i peccati commessi nel loro culto; e sebbene l’esperienza ogni giorno protestasse e mostrasse con infiniti casi che vantaggi e svantaggi capitano egualmente ai giusti e agli ingiusti senza distinzione, non per questo hanno abbandonato quell’inveterato pregiudizio. Infatti per loro è stato più agevole annoverare tali cose tra quelle di cui ignoravano l’uso, e ritenere così il loro stato presente e innato di ignoranza, anziché distruggere quella costruzione ed escogitarne una diversa. Onde hanno stabilito come cosa certa che i giudizi degli dèi superano di gran lunga la comprensione umana [G]; per questa unica causa certo la verità sarebbe rimasta in eterno celata agli uomini, se la matematica, che non si interessa di fini, ma di essenze e di proprietà delle figure, non avesse mostrato agli uomini una norma diversa della verità. Oltre la matematica si possono enumerare altre cause (che qui è superfluo indicare), per cui è potuto avvenire che gli uomini avvertissero questi pregiudizi comuni e fossero indotti alla vera conoscenza delle cause [H].

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‘cause finali’ delle cose, conferendo al concetto di fine – il quale esiste solo in rapporto ai loro desideri – una realtà oggettiva che esso in realtà non ha, sino a formarsi una visione del mondo interamente costruita sulla relazione mezzo-fine, in base alla quale tutte le cose naturali esisterebbero per un solo fine, cioè l’utile dell’uomo. F. Spinoza illustra la stretta connessione esistente tra il pregiudizio finalistico e la genesi della fede in una o più divinità, concepite antropomorficamente come persone dotate di intelletto e volontà. Il carattere inevitabilmente superstizioso di tale fede deriva dal fatto che gli uomini proiettano su tali agenti sovrannaturali la rappresentazione che essi hanno di sé e della propria libertà, concependo la divinità come un Ente che opera anch’esso in vista del proprio utile – cioè per essere adorato – e la cui benevolenza deve dunque essere conquistata attraverso atti di culto. G. Spinoza conclude il proprio quadro della genesi del pregiudizio finalistico e della sua trasformazione in una superstizione, mostrando come gli uomini si ostinino a tenere ferma tale rappresentazione del mondo nonostante essa sia continuamente smentita dai fatti quali le catastrofi naturali, che colpiscono a caso tutti gli individui, a prescindere dal loro comportamento verso gli dèi. Fatti che rivelano in maniera inequivocabile come l’universo non sia stato creato per gli esseri umani, che ne sono una parte piccola e insignificante. H. Spinoza riconosce alla matematica il ruolo fondamentale di avere riaperto l’orizzonte mentale degli uomini – sviato da vane speculazioni teologiche – nei confronti della co-

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Seconda tesi: la natura non ha fini Argomenti dell’ Etica a sostegno della tesi

Un nuovo argomento, il rovesciamento dell’ordine e tre dimostrazioni Prima dimostrazione: il finalismo nega Dio come causa immediata

Seconda dimostrazione: il finalismo distrugge la perfezione divina

II. Con questo ho spiegato abbastanza ciò che in primo luogo ho promesso. Ora non abbisogna molto per dimostrare che la natura non si è prefissa nessun fine, e che tutte le cause finali non sono che finzioni umane. Credo infatti che ciò consti già abbastanza, tanto dai fondamenti e dalle cause onde ho dimostrato che questo pregiudizio ha tratto la sua origine, quanto dalla proposizione 16 e dai corollari della proposizione 32, e inoltre da tutti i luoghi in cui ho dimostrato che ogni cosa procede per una certa eterna necessità di natura e secondo una somma perfezione [I]. Aggiungerò tuttavia ancora questo, che cioè codesta dottrina del fine rovescia completamente la natura. Considera infatti come effetto ciò che in realtà è causa. Poi rende posteriore ciò che per natura è precedente. Infine, rende imperfettissimo ciò che è supremo e perfettissimo. Infatti (omesse le prime due cose, che sono per sé chiare), come consta dalle proposizioni 21, 22 e 23, è perfettissimo quell’effetto che è prodotto immediatamente da Dio, e tanto più imperfetta è invece una cosa, quanto più sono le cause intermedie che occorrono perché sia prodotta. Ma se le cose, che sono state prodotte da Dio immediatamente, fossero state fatte perché Dio conseguisse il suo fine, allora le più importanti di tutte, per cui le prime furono fatte, sarebbero le ultime. Poi questa dottrina distrugge la perfezione di Dio. Se infatti Dio agisce per un fine, necessariamente appetisce qualcosa di cui manca. E, per quanto i teologi distinguano tra finis indigentiae e finis assimilationis, tuttavia confessano che Dio ha fatto tutto per sé e non per le cose da creare; poiché prima della creazione non possono, oltre Dio, assegnare niente per cui Dio agisse; e perciò sono costretti a concedere che Dio avrebbe mancato di quelle cose per cui avrebbe voluto preparare i mezzi, e che le avrebbe desiderate, come è chiaro per sé [L].

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noscenza razionale. Precisamente, con il termine «matematica» egli intende il sapere geometrico nel senso stretto del termine, cioè in quanto studio delle proprietà delle figure nello spazio. L’indagine sulla maniera in cui le proprietà seguono in maniera necessaria dalle figure – che non sono dati di esperienza, bensì entità ideali astratte – è un modello di conoscenza dimostrativa, analogo a quello che risale dagli effetti alle cause, o dai principi alle conseguenze: in altri termini, di quella conoscenza razionale, fondata sulle proprietà comuni delle cose, che Spinoza indica come il secondo genere di conoscenza. La vaga allusione alle altre cause che, oltre alla matematica, avrebbero indotto gli uomini a ritornare alla ricerca delle vere cause delle cose, è probabilmente un riferimento al terzo e più alto genere di conoscenza, cioè la scienza intuitiva. I. Ha qui inizio quella che Spinoza ha annunciato, nei passaggi introduttivi, come la seconda sezione, cioè la confutazione della concezione finalistica della natura, che prende l’avvio dal richiamo esplicito a due proposizioni della prima parte dell’Etica, che esprimono entrambe il carattere necessario della causalità divina: la sedicesima, in base alla quale dalla natura divina – in quanto infinita – devono necessariamente seguire infinite cose in infiniti modi; i corollari della trentaduesima, che negano che Dio possieda la libertà della volontà nel senso di facoltà d’indifferenza, cioè di scelta. L. Spinoza rafforza la propria confutazione del pregiudizio finalistico, adducendo tutta una serie di argomenti volti a mostrare come esso costituisca un completo rovesciamento dell’ordine delle cose. Il finalismo, sostituendo alla relazione causa-effetto quella mezzo-fine, inverte: a) il reale rapporto di causalità, in quanto considera come causa di una cosa il fine, che ne è invece l’effetto; b) l’ordine logico e cronologico, in quanto scambia il principio – cioè Dio – per la conseguenza; c) la gerarchia di perfezione tra le co-

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz Terza dimostrazione: il modo di argomentare dei finalisti è errato

Esempio dell’argomentare errato: l’idea teologica che tutto dipende dalla volontà divina

Conseguenza: l’odio teologico verso chi cerca la cause vere

Né qui va passato sotto silenzio che i seguaci di questa dottrina, che hanno voluto ostentare il loro talento nell’assegnare fini alle cose, per provare codesta loro dottrina hanno introdotto un nuovo modo di argomentare, col ridurre cioè non all’impossibile, ma all’ignoranza; il che dimostra che nessun altro mezzo aveva più questa dottrina per sostenersi. Infatti, se per esempio da un tetto cade una pietra in testa a qualcheduno e lo uccide dimostreranno che la pietra è caduta per uccidere l’uomo in questo modo: se non è caduta a tal fine, per volontà di Dio, come mai hanno potuto convergere per quel caso tante circostanze (giacché spesso ne concorrono appunto molte insieme)? Forse risponderai che soffiava il vento e l’uomo passava di là, e che perciò è avvenuto. Ma domanderanno: perché il vento soffiò là in quel momento? Perché in quel medesimo tempo l’uomo passava di là? Se rispondi ancora che il vento era sorto in quel momento per il fatto che il giorno precedente il mare, col tempo ancora tranquillo, aveva cominciato ad agitarsi; e per il fatto che l’uomo era stato invitato da un amico; chiederanno di nuovo – giacché non c’è fine al domandare – perché il mare era agitato, e perché l’uomo era stato invitato per quel giorno. E così via, non cesseranno di chiedere le cause delle cause, finché non ti sarai rifugiato nella volontà di Dio, cioè nell’asilo dell’ignoranza. Così anche, quando vedono la struttura del corpo umano, si stupiscono, e dal momento che ignorano le cause di una sì grande arte, concludono che essa non è dovuta a un’arte meccanica, ma divina o soprannaturale, e che è costituita in modo tale, che una parte non leda l’altra. E di qui viene che chi ricerca le vere cause dei miracoli, e chi si studia di capire da saggio le cose naturali e non di meravigliarsene come uno stolto, sia ritenuto e proclamato ora eretico e ora empio da quelli che il volgo adora come interpreti della natura e degli dèi. Essi sanno infatti che, tolta l’i-

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se, in quanto considera la perfezione come la conformità a dei fini esterni a Dio e non in base al grado di potenza divina che trova espressione in esse. A dimostrazione di questo terzo punto Spinoza ricorda che la realtà più perfetta risulta essere quella dei modi infiniti – oggetto delle proposizioni qui richiamate, 21, 22 e 23 – i quali, derivando direttamente dagli attributi divini o da una loro modificazione, sono immediatamente tutto ciò che possono essere, cioè sono immediatamente perfetti. Il punto c) costituisce il presupposto dell’ultimo e più importante argomento contro il finalismo, cioè la tesi secondo la quale il finalismo distrugge la perfezione divina, intesa come perfezione assoluta di un Essere completamente autosufficiente, che non ha bisogno di nient’altro per realizzare pienamente la sua potenza, in quanto è tutto ciò che deve essere. L’immagine di un Dio che crea il mondo in vista di un fine presuppone, infatti, che esso operi in vista di qualcosa di cui manca. Tale argomento è fatto valere da Spinoza sia contro quei teologi che avevano concepito il fine della creazione come finis indigentiae – cioè come uno scopo derivante da un bisogno – sia contro quelli che, come San Tommaso o sant’Agostino, lo avevano inteso, in maniera più raffinata, come finis assimilationis, cioè come lo scopo da parte di Dio di comunicare la propria perfezione alle cose che dipendono da lui, ritenuto come uno scopo compatibile con la perfezione divina, o meglio derivante da tale perfezione. Secondo Spinoza, anche la seconda concezione dello scopo della creazione si contraddice: 1) assumendo che prima della creazione vi fosse già un mondo a cui Dio volesse comunicare la propria perfezione; 2) ammettendo implicitamente che Dio avesse precedentemente deciso di creare quel mondo per bisogno, quindi per una sua mancanza.

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gnoranza, vien meno lo stupore, l’unico mezzo che abbiano di sostenere e difendere l’autorità [M]. Ma basta di ciò, e passo a trattare quello che ho detto che avrei trattato in terzo luogo. Argomentazione della terza tesi: i giudizi di valore sono fondati sul pregiudizio finalistico

Primo errore dell’uomo ignorante: si affida all’immaginazione e crede nell’antropocentrismo

Secondo errore: attribuisce la creazione di quest’ordine a Dio

Terzo errore: usa come unico metro di giudizio la propria conoscenza immaginativa

III. Dopo essersi persuasi che tutto ciò che avviene avviene per loro, gli uomini hanno dovuto giudicare principale in ciascuna cosa ciò che è più utile a loro stessi e stimare come le più eccellenti quelle cose da cui venivano affetti con maggiore beneficio. Quindi hanno dovuto formare queste nozioni per spiegare le cose naturali, cioè bene, male, ordine, confusione, caldo, freddo, bellezza e deformità. E dato che si ritengono liberi, sono poi sorte queste nozioni, cioè lode e vituperio, peccato e merito. Ma di queste ultime dirò più avanti, dopo che avrò trattato della natura umana; qui brevemente parlerò delle prime. Dunque, hanno chiamato bene tutto ciò che giova al culto di Dio e alla salute, e male invece ciò che è contrario a questo. E poiché quelli che non intendono la natura delle cose, ma solo la immaginano, in verità non affermano niente su di esse, e prendono per intelletto l’immaginazione, credono allora fermamente che ci sia un ordine nelle cose, ignari appunto delle cose e della propria natura. E così, quando sono disposte in modo che, rappresentate attraverso i sensi, le possiamo facilmente immaginare, e per conseguenza ce ne possiamo subito ricordare, le diciamo ben ordinate, se al contrario, male ordinate, ossia confuse. Dato anche che più delle altre ci sono grate quelle che possiamo facilmente immaginare, gli uomini preferiscono l’ordine alla confusione, quasi che l’ordine avesse in natura una realtà che non sia quella relativa alla nostra immaginazione. E dicono che Dio ha creato tutte le cose con ordine, e in questo modo, senza saperlo essi stessi, attribuiscono immaginazione a Dio, seppure non sostengono che Dio, prendendosi cura dell’umana immaginazione, abbia disposto tutte le cose in modo che potessero immaginarsi il più agevolmente possibile. Né li punge alcun dubbio nel trovare che infinite cose superano di gran lunga la nostra immaginazione, e tantissime la confondono addirittura, per la sua debolezza. Ma basta di ciò. Così anche le altre nozioni non sono niente di più che modi di immaginare, da cui viene variamente affetta l’immaginazione, e sono tuttavia considerate dagli ignoranti come precipui attributi delle cose; perché, come abbiamo già detto, essi credono che tutte le cose siano state fatte per loro, e

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M. Spinoza simula un dialogo fittizio con uno dei sostenitori della concezione finalista, allo scopo di mostrare con due esempi concreti quello che a suo avviso è il procedimento argomentativo a disposizione di questi ultimi: non il ragionamento per assurdo (o reductio ad absurdum) – consistente nel dimostrare la validità di una tesi indirettamente, attraverso la dimostrazione dell’impossibilità di quella opposta – bensì quella che egli definisce, sarcasticamente, come riduzione all’ignoranza, consistente nella pretesa di dimostrare una tesi semplicemente a partire da una lacuna nella conoscenza delle cause. N. La terza e ultima sezione è dedicata alla confutazione dei pregiudizi derivanti da quello finalistico, tra i quali Spinoza include tutte le coppie di opposti, che sono alla base dei nostri giudizi di valore sulla natura. Tali nozioni – nel loro segno positivo o negativo – non esprimono, infatti, nient’altro che la conformità o meno delle cose naturali rispetto al nostro sforzo di perseguire l’utile; è questo ciò che accomuna coppie categoriali apparentemente così distanti tra loro quali bene e male, da un lato, e caldo e freddo dall’altro. L’o-

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Conseguenze degli errori: nascono controversie sulla verità e lo scetticismo

Prima conclusione: bene, male ecc. sono solo nozioni immaginative

Seconda conclusione: tutto ciò che è, è perfetto

dicono buona o cattiva, sana o putrida e corrotta la natura di una cosa, secondo come sono affetti da essa. Se, per esempio, il movimento, che i nervi accolgono dagli oggetti rappresentati mediante gli occhi, giova alla salute, si dicono belli gli oggetti da cui è causato, e deformi quelli che eccitano un moto contrario. Chiamano poi odorosi o fetidi quelli che attraverso le narici muovono il senso, e dolci o amari, sapidi o insapidi, quelli che lo muovono per mezzo della lingua, etc. Molli o duri quelli che agiscono mediante il tatto, oppure aspri o lievi, eccetera. E quelli infine, che stimolano le orecchie, si dice che fanno strepito, suono o armonia, e di quest’ultima gli uomini sono talmente infatuati, da credere che anche Dio si diletti dell’armonia. Né mancano filosofi che hanno ritenuto fermamente che i moti celesti compongano un’armonia. Le quali cose mostrano tutte che ognuno ha giudicato secondo la disposizione del proprio cervello le cose, o piuttosto, che ha preso le cose per affezioni dell’immaginazione. Nessuna meraviglia quindi (per notare incidentalmente anche ciò), che siano sorte tra gli uomini le tante controversie, che possiamo osservare, e da esse infine lo scetticismo. Infatti i corpi umani, per quanto convengano in molte cose, si differenziano tuttavia nella maggior parte, e ciò al punto che una cosa, che a uno sembra bene, sembra male a un altro; a uno ordinata, a un altro confusa; a uno grata, a un altro ingrata; e lo stesso per tutte le altre, che qui trascuro, sia perché non è questo il luogo per trattarne ex professo, sia perché tutti ne sono abbastanza esperti. Tutti infatti ripetono: «tante teste, tanti pareri»; «ciascuno è contento del suo modo di pensare»; «le divergenze dei pareri non sono minori di quelle dei gusti»: tutti detti che mostrano abbastanza chiaramente, che gli uomini giudicano le cose secondo le strutture dei loro cervelli, e che piuttosto che intenderle le immaginano. E invero, se le intendessero, esse, come lo dimostra la matematica, come minimo li convincerebbero tutti, anche se non li attirassero. Vediamo dunque che tutte le nozioni, con cui il volgo suole spiegare la natura, sono soltanto modi dell’immaginare, e non indicano la natura di nessuna cosa, ma solo la costituzione dell’immaginazione; e dato che hanno nomi, quasi di enti esistenti al di fuori dell’immaginazione, li chiamo enti di immaginazione e non enti di ragione [N]; e così tutti gli argomenti che si appuntano contro di noi sulla base di simili nozioni, facilmente si possono respingere. Sono molti infatti quelli che sogliono argomentare così: se tutto è derivato dalla necessità della perfettissima natura di Dio, perché allora sono sorte

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biettivo di Spinoza è quello di negare a tali nozioni ogni validità oggettiva. A tale scopo – oltre alla ricostruzione della loro genesi – egli si serve essenzialmente della contrapposizione tra la conoscenza di primo genere, o immaginazione, e la conoscenza razionale. I valori non sono delle entità ideali dotate di realtà oggettiva – come per esempio le idee platoniche – bensì unicamente delle finzioni, cioè dei «modi dell’immaginare» o «enti d’immaginazione», ove l’immaginazione è per Spinoza il grado di conoscenza più basso che, come si è visto, forma immagini delle cose che non dicono nulla sulla loro essenza, bensì riflettono le modificazioni del nostro corpo provocate da esse. Tali modificazioni, e le immagini ad esse corrispondenti, variano da soggetto a soggetto, e dunque le nozioni fondate su di esse non possono avanzare alcuna pretesa di validità universale. A ciò Spinoza riconduce le infinite controversie sui valori, lo scetticismo e il relativismo delle opinioni; cosa che non significa che egli stesso sia un sostenitore del relativismo. Secondo lui infatti, a un livello più elevato – cioè quello della conoscenza razionale, che ha per fondamento le no311

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Terza conclusione: anche l’errore nell’uso della ragione è uno degli infiniti gradi del reale

tante imperfezioni nella natura? Cioè la corruzione delle cose sino al fetore, la deformità delle cose, tale da muovere nausea, la confusione, il male, il peccato, eccetera. Ma, come ho appena detto, vengono facilmente confutati. Infatti la perfezione delle cose bisogna misurarla dalla sola natura e potenza loro, perché esse non sono più o meno perfette per il fatto di dilettare i sensi degli uomini, o di offenderli, oppure per il fatto che si accordano o ripugnano all’umana natura. A coloro poi che chiedono, perché Dio non creò tutti gli uomini in modo che si regolassero con la sola guida della ragione, non rispondo altro se non che a lui non mancò la materia per creare tutte le cose, dal massimo al minimo grado di perfezione; o per parlare più propriamente, perché le leggi della natura di Dio furono così ampie, da bastare a produrre tutte le cose che possono essere concepite da un intelletto finito, come ho dimostrato nella proposizione 16 [O]. Questi sono i pregiudizi che qui ho voluto notare. Se ne restano ancora di simili a questi, potranno essere rettificati da ognuno, anche con lieve meditazione.

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(da B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, trad. di S. Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 35-41)

zioni comuni, cioè le proprietà comuni delle cose e non le nostre impressioni soggettive – è possibile sapere con certezza anche che cosa è il sommo bene per gli uomini. O. La negazione di ogni validità oggettiva alle nozioni di valore consente a Spinoza di replicare alle principali obiezioni mosse al suo sistema: l’accusa di far derivare direttamente dalla natura divina tutte le presunte imperfezioni esistenti in natura e quella di affermare che causa del male è Dio. Nel sistema spinoziano simili critiche – e con esse il problema classico della teodicea, cioè il problema di come giustificare Dio per la presenza del male nel mondo – perdono ogni significato. Per Spinoza, infatti, per ‘perfezione’ non bisogna intendere né la conformità di una cosa alla nostra struttura affettiva, né l’adeguatezza di essa a un modello dato, bensì semplicemente la compiutezza del suo essere determinato. Muovendo da tale presupposto, egli elabora un’ontologia rigorosamente egualitaria, in virtù della quale tutto ciò che è, è perfetto: il cavallo è perfetto nel suo essere determinato di un certo genere di equini, e non è tenuto a vivere secondo le leggi della natura umana, che non è la sua. In altri termini, ogni cosa è quello che è, e non avrebbe potuto essere diversamente, perché così è stata determinata a essere da certe cause, e non perché è stata così predisposta in vista del raggiungimento di un fine – quale l’utile umano – rispetto al quale potrebbe rivelarsi inadeguata (donde i concetti di bello o brutto, armonico o confuso ecc.). Nell’ordine necessario della natura solo una mente corrotta dal pregiudizio può dunque distinguere zone belle o brutte, eventi buoni o cattivi in assoluto: concetti che per Spinoza hanno un uso e un significato soltanto relativi.

Questionario sull’argomentazione 1

Quale posizione occupa, nella strategia dimostrativa dell’Etica, questa Appendice? Quale tema affronta? (max 3 righe)

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Spiega il significato dell’affermazione di Spinoza che i finalisti argomentano «col ridurre […] non all’impossibile, ma all’ignoranza». (max 4 righe)

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Che relazione esiste fra il pregiudizio finalistico e la concezione antropomorfa di Dio? (max 6 righe)

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Le nozioni di bene, male, ordine, confusione ecc. da quale forma di conoscenza derivano? Qual è l’uso errato che ne fanno gli uomini? (max 5 righe)

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Tesi a confronto Spinoza ateo o «ebbro di Dio»: chi è il Dio di Spinoza? Il ‘pericolo’ Spinoza

Bayle e il paradigma dell’«ateo virtuoso»

Lo Spinoza panteista dei romantici

Interpretazioni contrapposte nate dalla complessità della teologia di Spinoza

Alquié: tensione irrisolta tra razionalismo e teoria della salvezza

Ambivalenza del concetto spinoziano di Dio

Poche questioni sono state oggetto di valutazioni contrapposte – sia da parte dei contemporanei sia da parte dei posteri – come quella riguardante l’ateismo o la religiosità di Spinoza. La comunità ebraico-portoghese di Amsterdam lo bandì dalla sinagoga, per sospetto di eterodossia, e il Trattato teologico-politico – uscito anonimo nel 1670 – subì molteplici condanne da parte non solo delle autorità ecclesiastiche, ma anche dei poteri civili, concordi nel considerare il razionalismo spinoziano come un pericolo sia per la fede religiosa sia per l’obbedienza politica. Bayle nel suo Dizionario storico-critico dà la definizione classica dell’ateismo spinoziano come «ateismo di sistema», e adduce Spinoza come esempio paradigmatico di «ateo virtuoso», a riprova dell’ipotesi discussa all’epoca, se fosse concepibile una società di perfetti miscredenti, che conservasse tuttavia costumi virtuosi e l’obbedienza alle leggi civili, sul presupposto di una semplice etica naturale. Il Romanticismo rovescia questo giudizio, attribuendo al panteismo di Spinoza (tornato al centro del dibattito filosofico già nella seconda metà del Settecento, vedi Unità 16, p. 845) un significato profondamente religioso, tale da farne un filosofo «ebbro di Dio», come affermato dal pensatore e poeta romantico Novalis, soprattutto sulla base del riferimento alla nozione di «amor Dei intellectualis», in cui sembra culminare il processo dimostrativo dell’Etica. Alla radice di queste interpretazioni antitetiche vi è una concezione molto complessa della divinità, il cui contenuto continua tuttora a essere oggetto di una vivace discussione che, al di là dell’apparenza, non è una disputa accademica tra storici della filosofia o un mero agone di acribia filologica, ma ha in realtà alla sua radice posizioni antitetiche riguardo alla questione, ancora attuale, sull’adeguatezza o inadeguatezza del razionalismo per garantire agli uomini una felicità duratura, cioè quella che in termini religiosi si chiama «salvezza». Ferdinand Alquié – storico della filosofia francese, autore di una importante monografia sul pensiero spinoziano, Il razionalismo di Spinoza – muove dall’esplicito presupposto che la pretesa razionalistica di espungere completamente dal nostro orizzonte «l’inconoscibile e il mistero» non possa condurci né alla verità né alla felicità. Questo senso religioso dei limiti umani lo induce a cogliere una tensione irrisolta tra le due esigenze fondamentali del pensiero di Spinoza: da un lato, il desiderio di costruire un razionalismo conseguente e inattaccabile, e dall’altro l’esigenza di trovare una via per la felicità eterna, cioè la beatitudine. Questa tensione irrisolta si riflette sul concetto spinoziano di Dio, conferendogli una intrinseca ambivalenza: la preoccupazione di giungere alla «salvezza» indurrebbe, infatti, Spinoza a recuperare, in maniera implicita ed esplicita, alcuni tratti essenziali della concezione tradizionale della divinità – come la trascendenza, la spiritualità, la coscienza e l’amore – in contraddizione con l’equazione Dio-Natura e la negazione del Dio-persona, affermata nell’Etica. 313

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Prima risposta

Spinoza è un filosofo religioso: il suo Dio-natura conserva tratti del Dio-persona ebraico-cristiano da Ferdinand Alquié, Il razionalismo di Spinoza

Immanenza e trascendenza Implicita trascendenza di Dio rispetto alla natura

Il Dio-natura conserva tratti della tradizione teologica ebraicocristiana

[…] anche se il termine [trascendenza] non viene pronunciato, quest’idea è richiamata continuamente nel suo discorso. Dio consta di attributi molteplici e irreducibili, e tuttavia è uno. Possiamo pensare la sua unità senza far ricorso a una qualche forma di trascendenza? La sostanza divina supera il nostro pensiero, e tanto più lo supera in quanto noi conosciamo soltanto due degli attributi divini […]. In tal modo, l’intelligibilità universale affermata dal suo razionalismo resta un’intelligibilità soltanto promessa; ma questa promessa d’intelligibilità non fa sparire la trascendenza dell’Essere, che resta sempre al di là della nostra portata. È dunque grazie a simili ambiguità, a un simile continuo eppur mai esplicitato scorrere da un senso all’altro (che ci permette comunque di ritrovare sempre quelle nozioni che si vorrebbero escluse), che il Dio di Spinoza, per quanto sia detto «Natura» e proclamato inerente a tutte le cose, conserva la maggior parte dei caratteri propri del Dio della teologia. […] Possiamo […] ritenere che il Dio di Spinoza, se non è certo il Dio incomprensibile di Cartesio, né il Dio di Malebranche che crea il mondo per la sua gloria e in vista dell’incarnazione, né ancora il Dio leibniziano che calcola e sceglie il migliore dei mondi possibili, resti tuttavia in gran parte ciò che la tradizione giudaico-cristiana chiamava «il Dio nascosto».

Dio causa necessaria delle cose Le ambivalenze del Dio spinoziano

[…] Considerando inammissibile ogni rivolta contro il mondo, che è perfetto, rifiutando come assurda l’idea di una preghiera che chieda a Dio di modificare la sua volontà per cambiare il corso degli eventi, l’Etica ha lo scopo di persuaderci che le cose risultano da Dio come gli effetti fisici, che son cose fra le cose, risultano dalle leggi del movimento e della quiete. Solo la scienza moderna ci dà una giusta idea di Dio: in questo senso, Dio appare la causa cieca e necessaria del mondo. […] però, abbiamo spesso notato in Spinoza un ritorno implicito, che c’è in lui effettivamente malgrado il sistema, all’idea religiosa e tradizionale di Dio. Bisogna ora spingersi oltre e scoprire, nelle affermazioni esplicite dell’Etica, una concezione di Dio che ci permetta di comprendere come Spinoza abbia potuto sperare la vita eterna e la salvezza dal suo Dio.

Dio pensa se stesso Il parallelismo spinoziano

Indipendenza e identità tra attributi

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[…] Spinoza non ha mai […] esplicitamente proclamato la superiorità dell’attributo del Pensiero rispetto agli altri attributi. Agli occhi di Spinoza tutti gli attributi, esistendo per sé, appaiono uguali. Spinoza non è né idealista né spiritualista, ma parallelista (termine che, peraltro, non si trova nei suoi scritti): è affermando il parallelismo che Spinoza conserva l’idea di un Dio cosciente di se stesso e di tutto ciò che produce. Nel parallelismo spinoziano ritroviamo comunque l’ambiguità che continuiamo a incontrare sin dall’inizio di questo libro. La dottrina di Spinoza comprende infatti due affermazioni differenti, che non possono ve-

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Dall’aporia nel rapporto tra Dio e attributi al Dio pensante

Si torna al Dio come spirito?

nir conciliate se non modificando il concetto di Dio che apparentemente presuppongono. Secondo la prima di queste affermazioni, gli attributi sono del tutto indipendenti gli uni dagli altri; secondo l’altra, il loro ordine è identico. Ma quale mezzo l’Etica ci offre per pensare una tale identità? […] come può l’ordine di una successione materiale esser simile a quello di una deduzione operata dallo spirito? Si dirà forse che la loro identità risiede nella sostanza? Ciò avrebbe un senso soltanto nella misura in cui si attribuisse alla sostanza una qualche trascendenza rispetto ai suoi attributi; l’ordine comune non è però esterno rispetto agli attributi, è l’ordine degli attributi stessi. È dunque inevitabile, se vogliamo capire qualcosa leggendo gli enunciati spinoziani, che situiamo l’ordine di cui Spinoza parla all’interno dell’attributo del Pensiero. Così facendo il parallelismo, concepito per evitare la riduzione di Dio al solo pensiero, conduce fatalmente a fare di Dio un essere essenzialmente pensante. […] non si capisce bene per qual via comprendere ciò che Spinoza ci dice, senza tornare proprio alla concezione che egli esplicitamente respinge, una concezione religiosa e cartesiana secondo la quale Dio è spirito.

Dio pensa ciascuno di noi Il problema di pensare Dio come causa remota

Causa remota ma rapporto diretto tra uomo e Dio

Dio pensa ognuno di noi

Consideriamo dapprima le essenze; esse sono gli effetti necessari di Dio. […] Neppure i modi finiti, per quanto riguarda la loro esistenza, si sottraggono a una causalità pur differente da quella delle essenze. In entrambi i casi la causa è Dio solo. Nell’ambito delle esistenze, si può però dire che i modi sono causa gli uni degli altri […] Questo significa che Dio non può essere considerato se non come causa remota di ogni cosa particolare, e che l’esistenza di questa trova la sua vera ragion d’essere in un’altra cosa che la precede nel tempo? Se così fosse, bisognerebbe ammettere che il Dio di Spinoza non è più un Dio capace di salvarci. Ma lo scolio della proposizione 28 rimette le cose a posto, precisando: «Dio non può esser detto propriamente causa remota delle cose singolari, se non forse per distinguerle da quelle che egli ha prodotto immediatamente, o, piuttosto, che seguono dalla sua natura intesa in senso assoluto. Intendiamo infatti come remota una causa che non sia in alcun modo collegata coll’effetto. E tutto ciò che è, è in Dio, e dipende da Dio in modo tale da non poter essere né essere concepito senza di lui». Questo testo mostra chiaramente quale sia la preoccupazione di Spinoza. La nostra esistenza temporale dipende certo dalla concatenazione della totalità dei modi; non per questo noi non siamo legati a Dio da un rapporto diretto, rapporto che potremmo definire verticale. Come vedremo, l’uomo raggiungerà la salvezza proprio pensandosi come effetto di Dio. Questa salvezza ciascuno la otterrà proprio ricollegandosi all’idea che Dio ha del modo particolare che lo costituisce, di quel corpo particolare che è il suo. Infatti il Dio che salva è il Dio che pensa questo o quell’uomo, non il Dio che pensa il mondo nella sua totalità. […] Scrive Spinoza: «In Dio c’è necessariamente un’idea che esprime sotto specie di eternità l’essenza di questo o di quel (hujus et illius) corpo umano». Il Dio di Spinoza pensa ciascuno di noi. 315

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Dio ama se stesso e noi Il Dio-Natura non può essere amore

L’amore intellettuale di Dio: un elemento affettivo e passionale

Due ipotesi sull’amore intellettuale

Ipotesi entrambe vere

Giancotti: il rifiuto dell’interpretazione di Alquié

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A Dio manca ancora un tratto essenziale, per essere davvero un Dio di salvezza. Il Dio dei cristiani è amore e ha creato il mondo per amore; ma è chiaro che il Dio di Spinoza non ha fatto il mondo per amore. Spinoza tuttavia, mostrando una volta di più di non esitare nell’accordare al suo Dio caratteri difficilmente compatibili, ci parlerà dell’amore che Dio prova. Senza dubbio, pare ch’egli si opponga frontalmente alla speranza cristiana, quando afferma: «Chi ama Dio non può far nulla per ottenere che Dio lo ami a sua volta», e bisogna capire che tale affermazione gli è imposta dalla logica della sua dottrina. Secondo questa logica, e secondo la definizione dell’amore data da Spinoza stesso, Dio non può amare. L’amore non è altro – così si dice nella terza parte dell’Etica – che una gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna; poiché ora nulla è esterno a Dio, si vede già che egli non può provare un simile sentimento […]. Proseguendo la lettura della quinta parte dell’Etica, non si può quindi non rimanere sorpresi. Infatti, secondo la proposizione 35, «Dio ama se stesso di un amore intellettuale infinito». E la proposizione 36 precisa: «l’amore intellettuale dell’anima per Dio è lo stesso amore con cui Dio ama se stesso». Si noterà qui, senza dubbio, che alla parola «amore» Spinoza aggiunge il termine «intellettuale» […]; ma l’aggettivo «intellettuale» non sopprime il sostantivo «amore». Resta fermo che né la definizione che Spinoza ci ha dato dell’amore, né l’esperienza che possiamo avere di un tale sentimento, ci permettono di concepire l’amore senza comprendere in esso un elemento affettivo e passionale. Non diversamente pensa il cristianesimo, quando afferma che Dio è amore, o che il Padre ha mandato sulla terra il Figlio per amore degli uomini. Si tratterebbe allora di scegliere: o ciò che Spinoza chiama «intellettuale» non ha più nulla in comune con ciò che tutti gli uomini intendono per amore, o ciò che Spinoza chiama così conserva qualcosa di un simile sentimento. Nel primo caso, l’Etica […] usa un concetto impensabile (nel senso che dà Cartesio alla parola «pensare»). Nel secondo caso, essa reintroduce un elemento desunto dalla coscienza religiosa e totalmente estraneo alla sua dottrina. Secondo noi, tuttavia, non si tratta di scegliere fra queste due ipotesi: entrambe sono vere. Pensiamo infatti che Spinoza, in questo come in tanti altri casi, per riunire elementi inconciliabili abbia forgiato una nozione costruita logicamente, e pertanto integrabile nel sistema, ma non tale da rispondere ad alcuna esperienza intellettuale possibile alla coscienza umana […] Alla fine dell’Etica egli conserva, l’una accanto all’altra, l’idea di un Dio-Natura e quella di un Dio personale e capace di amare […] Completamente opposta è l’interpretazione proposta da Emilia Giancotti Boscherini, una delle principali studiose della filosofia di Spinoza in Italia. Nel contributo presentato al Congresso tenutosi in Italia in occasione del trecentocinquantesimo anniversario della nascita di Spinoza – del quale si riportano qui i passaggi principali – Giancotti polemizza esplicitamente con la tesi di Alquié, attraverso un esame dei caratteri fondamentali del Dio spinoziano volto a rimarcarne la netta e inequivocabile distanza rispetto alla concezione giudaico-

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

cristiana della divinità: al contrario di quanto sostenuto da Alquié, nel Dio spinoziano – che si identifica completamente con l’universo naturale – non sopravvive nulla del Dio-persona della tradizione religiosa.

Seconda risposta

Spinoza è un filosofo ateo: il suo Dio si identifica con le forme e le leggi dell’universo da Emilia Giancotti Boscherini, Il Dio di Spinoza

Il dibattito sull’ateismo di Spinoza

La prudenza di Spinoza

Concetti che mutano radicalmente l’immagine di Dio

La materia come parte dell’essenza di Dio: prima perdita di trascendenza

In un suo recente libro F. Alquié afferma che le ipotesi dell’ateismo di Spinoza sono gratuite e che basta leggere la prima parte dell’Ethica, intitolata De Deo, per sapere che Spinoza non è ateo. L’ipotesi di ateismo ha tuttavia una tradizione antica, che risale addirittura – come è noto – al primo diffondersi dei concetti dello spinozismo. La domanda cui vorrei tentare di dare qui uno schema di risposta è: cosa ha reso possibile tale ipotesi, quali sono gli elementi nel concetto spinoziano di Dio che hanno indotto non soltanto i contemporanei, mossi anche da interessi confessionali e politici, ma anche una parte degli interpreti successivi a postulare l’esistenza di una teoria della negazione di Dio dietro la facciata di un sistema che pone Dio quale fondamento e origine di tutte le cose esistenti? Alquié, sempre nel luogo che ho prima citato, esclude che Spinoza abbia voluto prendersi cura di dissimulare un pensiero che al contrario sarebbe stato il solo suo vero. Io credo, invece, che alcuni dati storici, a tutti noti, inducano a ritenere che Spinoza abbia avuto più di un motivo di cautela per attenuare in qualche modo la portata fortemente innovativa del suo concetto. Mi limiterò qui a indicare quei pezzi di teoria che, mutando radicalmente il concetto di Dio proprio della tradizione filosofica e teologica, pongono Spinoza in una posizione del tutto eccezionale rispetto agli altri esponenti della cultura filosofica del tempo: da Cartesio a Hobbes, a Geulincx, Malebranche, Leibniz. Voglio dire in una posizione tanto eccezionale da giustificare che si parli di ateismo. Metterò, poi, rapidamente a confronto questi elementi con quelli che sembrano ancora riferibili al campo della tradizione per tentare, infine, di stabilire da quale parte, in sostanza, penda la bilancia. […] Per la prima parte, tratterò dei concetti di estensione, creazione, intelletto, volontà e libertà divini, finalismo. Per la seconda dei concetti di: amor erga Deum [amore verso Dio], amor Dei intellectualis [amore intellettuale di Dio], beatitudo, amor intellectualis infinitus. Estensione. L’estensione è, a pari titolo del pensiero, uno degli infiniti attributi di Dio […]. Questa concezione è esclusivamente spinoziana. […] La novità consiste nel concepire l’estensione come materia e, in quanto tale, considerarla attributo di Dio, costitutivo della sua essenza. Questo equivale a dire, a mio giudizio […] che Dio è anche materia, ed equivale quindi a dire che i corpi, in quanto come tutte le cose particolari esprimono l’essenza di Dio in un modo certo e determinato sono […] Dio stesso sotto una delle forme del suo essere infinito. […] questo è il primo punto che di per sé sovverte la concezione di Dio come puro spirito, creatore della materia ma da essa separato, annullando la distanza infinita che la teologia occidentale ha sempre posto tra Dio e le sue creazioni e togliendo d’altra parte alla materia il marchio d’indegnità. […] 317

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Causalità immanente invece che creazione

Dio non è persona

L’intelletto non è parte dell’essenza di Dio

Volontà e libertà: concetti assorbiti dalla necessità

Antifinalismo: Dio non ha scopi

I concetti legati alla nozione di amore

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Creazione. Al concetto di creazione – legato ai concetti di contingenza, libero arbitrio, separazione ed eterogeneità tra creatore e creatura – Spinoza sostituisce il concetto di causalità immanente, come azione necessaria di una causa – la sostanza o Dio o Natura – che produce i suoi effetti producendo se stessa, come conseguenze necessarie della sua natura o essenza, modificazioni del suo proprio essere, dalle quali quindi non è separata pur non identificandosi mai completamente, nella sua infinità, con ciascuna o con una molteplicità, per quanto ampia si possa concepire, di esse. […] Il che significa che il concetto di creazione […] assume un significato completamente diverso da quello che ha nella tradizione cristiana occidentale e anche ebraica, dove resta ferma l’idea della spiritualità di Dio o, almeno, della sua separazione dal finito, sua creatura. Intelletto, volontà e libertà in Dio. Spinoza nega che intelletto e volontà appartengano all’essenza di Dio, nega dunque che Dio sia persona. Con questo vengono negate proprietà tradizionalmente riconosciute a Dio: l’intelligenza e la bontà. Il Dio di Spinoza non è né intelligente, né buono. L’intelletto, sia finito, sia infinito, fa parte della Natura naturata; l’intelletto infinito è un modo infinito come il movimento e la quiete, che sono modi infiniti dell’attributo dell’estensione, anch’essi nella natura naturata. […] Per intelletto infinito di Dio, infatti, Spinoza intende non l’intelletto creatore, bensì l’insieme delle menti umane in quanto conoscenza vera. Si tratta, dunque, di qualcosa che non fa parte dell’essenza di Dio, come invece l’attributo della cogitatio e che della cogitatio è un modo sia pure infinito, diverso dunque dal singolo intelletto umano, ma identificantesi con la somma delle umane conoscenze. È evidente che dell’intelletto creatore del Dio persona non vi è più traccia. Come l’intelletto, la volontà – che d’altra parte, come è noto, Spinoza identifica con l’intelletto intendendola come il momento dell’affermazione presente in ogni idea – ha con la natura di Dio lo stesso rapporto che il movimento e la quiete e tutte le cose naturali, che derivano tutte dalla necessità della natura divina e sono dalla stessa determinate in un certo modo ad esistere e ad agire. […] Privo di intelletto e volontà, il Dio di Spinoza non è libero di mutare l’ordine secondo il quale tutto ciò che è segue dalla sua essenza. La libertà divina – l’esatto contrario del libero arbitrio – si identifica con la necessità della sua natura o essenza. […] Il finalismo. La confutazione del finalismo è il coronamento di questa teoria della divinità, che ha con sistematica coerenza privato la nozione di Dio di tutte le attribuzioni conferitele dalla riflessione filosofica e teologica precedente. L’azione secondo un fine presuppone un’intelligenza e una volontà tesa alla realizzazione di uno scopo. Il Dio di Spinoza non ha né intelletto né volontà, pur essendo questa e quello – come tutte le cose naturali – effetti necessari della sua attività causale o – data l’identità di essere e agire in Dio – modi del suo essere. […] L’amore verso Dio e l’amore di Dio. Sembra, a tutta prima, impossibile inquadrare in questa concezione di Dio i concetti di amor erga Deum, amor Dei intellectualis e amor, quo Deus se ipsum amat [amore, attraverso il quale Dio ama se stesso], ricorrenti sia negli scritti giovanili, sia nelle opere della maturità. Si tratta di concetti che, senza dubbio, appaiono più direttamente riferibili al Dio persona. Alquié individua in essi uno degli ele-

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

L’amore è un affetto

Il legame dell’amore con la conoscenza

Distacco della mente dal corpo attraverso la conoscenza

L’amor Dei intellectualis: l’eternità di Dio

L’amore della mente come parte dell’amore di Dio verso se stesso

menti dell’ambiguità spinoziana e uno dei segni della permanenza del Dio persona accanto al Dio-Natura. In effetti, ci si trova dinnanzi a una serie di difficoltà. […] L’amore è un affetto, definito come gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna. […] Quale che sia, comunque, il suo oggetto, si tratta di un affetto. Quel che va chiarito è: per quanto riguarda l’amor erga Deum e l’amor Dei intellectualis, se il Dio di Spinoza possa essere oggetto di amore, o meglio cosa significa in questo caso amare Dio, e se vi sia o no differenza tra queste due specie di amori; per quanto riguarda l’amore con il quale Dio ama se stesso, cosa debba intendersi nel caso del Dio-Natura e in che rapporto stia con i primi due […] Spinoza introduce questi concetti nella V parte dell’Ethica, dove l’amore verso Dio viene fatto scaturire direttamente dalla intelligenza chiara e distinta di sé e dei propri affetti in quanto è in potere della mente riferire «tutte le affezioni del corpo, ossia le immagini delle cose all’idea di Dio», essendo tutto ciò che è in Dio e non potendo alcunché essere né essere concepito senza Dio. […] Questo significa che è a partire dalle affezioni del proprio corpo, di cui la mente è idea, che la mente attraverso la conoscenza chiara e distinta risale a Dio, l’amore verso il quale è, di quella conoscenza, una sorta di corollario necessario. […] Passa successivamente a trattare della mente senza relazione al corpo, ed è qui che introduce l’amor Dei intellectualis. Va subito detto che trattare della mente senza relazione al corpo non significa che la mente, che è idea del corpo, possa sussistere senza il suo oggetto, bensì che – essendo l’attualità delle cose di due tipi: in quanto riferite a un tempo e luogo determinati o in quanto contenute in Dio e derivanti dalla sua necessità – la mente, allorché conosce le cose secondo il terzo genere di conoscenza, le concepisce sotto una qual specie di eternità, e concepisce pertanto il proprio e gli altri corpi in quanto contenuti in Dio e da lui derivanti e non collocati in un luogo o tempo determinati. L’amore verso Dio […] riguarda la mente in quanto idea del corpo riferito a un tempo e luogo determinati, l’amor Dei intellectualis […] riguarda la mente in quanto idea del corpo contenuto in Dio e da Dio derivante […]. L’amore verso Dio, dunque, è l’amore della mente che nasce dalla conoscenza di sé e dei propri affetti – quindi idea del corpo attualmente esistente nel tempo e in un luogo […]. L’amor Dei intellectualis è rivolto a Dio in quanto eterno, nasce dalla conoscenza delle cose sub specie aeternitatis, e cioè considerate nel loro legame necessario di identità con Dio. […] Dopo aver introdotto il concetto dell’amore intellettuale infinito con il quale Dio ama se stesso, Spinoza precisa che di tale amore è parte l’amore intellettuale della mente verso Dio. Ossia, come le menti umane in quanto conoscono secondo il terzo genere di conoscenza costituiscono «tutte insieme» l’intelletto eterno e infinito di Dio, così l’unione degli amori che accompagnano tale forma di conoscenza costituisce l’amore intellettuale infinito di Dio. Infatti, benché si fosse detto che l’uomo non può far sì che Dio lo riami il corollario trae la conseguenza che «Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini, e quindi che l’amore di Dio per gli uomini e l’amore intellettuale della mente per Dio, sono una sola e medesima cosa». […] Tra l’amor Dei intellectualis e l’amor Dei intellectualis infinitus, […] 319

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Conclusione: l’amore come gioia di conoscere il Dio-Natura, l’universo nel suo ordine necessario

Il Dio di Spinoza non è né il Dio-persona né quello dei filosofi

La fine di «Dio»

c’è la stessa differenza che tra i singoli modi eterni di pensare (cioè le menti in quanto conoscenza vera) e l’intelletto infinito che, come abbiamo già visto, non è altro che l’insieme di queste menti, non come risultato ma processo conoscitivo in atto […] Cos’è, dunque, questo amore? Stando alla definizione, è la gioia concomitante con la conoscenza intuitiva delle singole cose in quanto sono in Dio e derivano da lui necessariamente. Se mi è consentita una interpretazione laica di tale definizione – la sola che a me sembri coerente con la concezione spinoziana della divinità – questo amore è semplicemente la gioia di cui gode lo scienziato quando intende le leggi necessarie immanenti nell’universo e le individua nelle cose in rapporto tra loro, cose di cui egli stesso è una, sottoposta alle stesse leggi. È questo amore compatibile col concetto del Dio-Natura? A me pare di sì, se questo dio è l’universo stesso con il suo ordine necessario. […] Infine, si può dire che Spinoza sia stato un ateo? Certamente sì, se per Dio si intende il Dio della tradizione giudaico-cristana, ma anche quello dei filosofi: della Scolastica, di Cartesio, di Malebranche, di Leibniz e così via. Certamente no, se per dio si intende un essere che è causa di sé e, nello stesso atto, di tutte le cose che sono, pertanto, dio stesso in quanto si esprime in forme certe e determinate, dalle quali non è separato, identificandosi invece pienamente con le infinite forme finite riscontrabili nell’universo. Ultima domanda: è qualcosa di diverso dall’universo stesso con le sue leggi necessarie? Se – come io credo – non lo è, appare più chiaro farne cadere anche il termine, non corrispondendovi più il concetto.

I brani antologizzati sono tratti da: F. Alquié, Il razionalismo di Spinoza, trad. a cura di M. Ravera, Mursia, Milano 1987, pp. 116129. E. Giancotti Boscherini, Il Dio di Spinoza, in Spinoza nel 350° anniversario della nascita. Atti del Congresso (Urbino 4-8 ottobre 1982), a cura di E. Giancotti Boscherini, Bibliopolis, Napoli 1985, pp. 35-50.

Per seguire il dibattito 1

2

3

Quali aspetti della teoria spinoziana degli attributi permettono a Dio di mantenere dei tratti di trascendenza rispetto alla natura, secondo Alquié? (max 2 righe)

4

Qual è, secondo Giancotti, la causa di alcune ambiguità della teologia spinoziana? (max 1 riga)

5

Quali sono, secondo Giancotti, i tratti del Dio di Spinoza che lo rendono completamente diverso dal Dio della tradizione ebraico-cristiana? (max 8 righe)

6

Definisci in un massimo di 5 righe che cos’è l’amor Dei intellectualis secondo Giancotti.

Qual è il rapporto di causalità che lega Dio agli uomini per Alquié? Quali caratteristiche lo differenziano da quello che lega Dio alla natura? (max 6 righe)

Che cos’è l’amor Dei intellectualis secondo Alquié? (max 5 righe) 320

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Percorso tematico Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male?

I testi P. Bayle Dizionario storico-critico: Bayle: le soluzioni tradizionali di teodicea sono penose, T1; La maggior razionalità dell’ipotesi manichea, T2 G.W. Leibniz Saggi di teodicea: Il mondo che esiste è certamente il migliore, T3; La scelta di Dio è necessariamente saggia e buona, T4 A. Pope Saggio sull’uomo: Mali parziali, bene universale, T5 Voltaire Dizionario filosofico: Il male è un abisso tragico e reale, T6

J.-J. Rousseau Lettera di J.-J. Rousseau a Voltaire, 18 agosto 1756: Il male morale dipende dalla civilizzazione, T7 D. Hume Dialoghi sulla religione naturale: La natura divina è incomprensibile per l’uomo, T8 P.T. d’Holbach Il buon senso: Il mondo non è governato da un Essere intelligente e provvidente, T9

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male? Il dibattito su «teodicea» e «ottimismo» tra XVII e XVIII secolo «Teodicea» e «ottimismo»: due neologismi del XVIII secolo

Termini nuovi per un vecchio problema

L’ottimismo come epilogo delle soluzioni razionali al problema di teodicea

Leibniz e l’ottimismo

L’ottimismo come risposta all’attacco di Bayle

322

I termini «teodicea» e «ottimismo» hanno due tratti comuni: il primo è quello di essere stati creati entrambi nel XVIII secolo, il secondo è di legare la propria origine al nome di Gottfried Wilhelm Leibniz. È Leibniz a coniare il termine «teodicea», (che letteralmente significa «giustizia di Dio», dal greco theòs, «dio» e dìke, «giustizia») con la sua opera del 1710 che così si intitola: il suo proposito è di ‘giustificare’ Dio per l’esistenza del male nel mondo, ossia di spiegare come tale presenza non sia in contrasto con la giustizia divina. Ed è proprio per descrivere – e condannare – la risposta leibniziana al problema della teodicea, che un padre gesuita, LouisBertrand Castel, conia nel 1737 sulle pagine dell’influente giornale dell’ordine, le «Mémoires de Trevoux», il termine «ottimismo» (che deriva dal superlativo assoluto latino optimus, «il migliore») per indicare la teoria che ritiene che il mondo esistente sia il migliore possibile, rispetto al bilancio complessivo di bene e di male. Naturalmente, il fatto che i due termini nascano nei primi decenni del Settecento non significa in alcun modo che i concetti o i problemi da essi denotati siano una novità di questo secolo, al contrario. Si tratta di problemi che segnano tutta la tradizione filosofica sin dal pensiero greco, pur se trovano nel XVIII secolo una trattazione che li prende esplicitamente a oggetto di indagine, talvolta trasformandone il significato originario. Il Settecento è il secolo in cui il termine «ottimismo» nasce e diventa addirittura una parola di moda, corrente in tutte le lingue europee, entrando nel linguaggio quotidiano, almeno a partire dal romanzo di Voltaire Candido, o l’ottimismo (1759). Il Settecento è, però, anche il secolo in cui il problema del male di fronte all’ipotesi del Dio cristiano giusto, onnipotente e buono, il problema cioè della teodicea, chiude un importante capitolo della propria storia: quello della ricerca di una soluzione che renda compatibili sul piano razionale – e non su quello di una fede che rinunci alla ragione, che è tutt’altro tema – il concetto del Dio cristiano, da un lato, e l’esistenza del male nelle sue diverse forme, almeno come male fisico (dolore, malattia ecc.) e male morale (il peccato), dall’altro. Quello di Leibniz è l’ultimo grande tentativo di soluzione razionale del problema del male, attraverso una peculiare mescolanza di argomenti tradizionali con la tesi estremamente nuova, e altrettanto forte, per cui il mondo che è stato creato da Dio sarebbe il mundus optimus, cioè il «migliore dei mondi possibili»: è questa la tesi che il padre Castel chiama polemicamente nel 1737, con esplicito sarcasmo sulle capacità matematiche di Leibniz, «ottimismo». La tesi del «migliore dei mondi possibili», ovvero dell’ottimismo, nasce consapevolmente dalla necessità di rispondere a un attacco di grande efficacia contro il tentativo di giustificare il male, che metteva in crisi la possibilità stessa di accordare fede e ragione: non è un caso che la Teodicea leibniziana sia preceduta

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Percorso tematico Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male?

da un Discorso preliminare sulla conformità della fede con la ragione. Si tratta dell’attacco sferrato alla fine del XVII secolo da Bayle, nel suo Dizionario storico-critico (1696). E proprio da questo dobbiamo partire, anche perché a Bayle si rifaranno, implicitamente o esplicitamente, tutti i grandi critici della teodicea, nel corso del Settecento, fino a segnarne il collasso.

1

Bayle: gli attributi del Dio cristiano non sono compatibili con l’esistenza del male

La strategia di Bayle (vedi Unità 4, p. 225 ss.) consiste nell’analizzare la compatibilità dei diversi attributi divini alla luce della presenza del male, mostrando così che dal punto di vista razionale il concetto del Dio cristiano è un concetto contraddittorio: Dio non può essere contemporaneamente buono, giusto e onnipotente altrimenti il male non esisterebbe. Il pensiero di Epicuro, riferito da Lattanzio, uno degli autori cristiani dei primi secoli (III-IV secolo d.C.), offre la possibilità a Bayle di avanzare le proprie tesi radicalmente critiche contro la teologia razionale cristiana e di rifiutare le soluzioni al problema di teodicea, soltanto apparenti e del tutto tradizionali, di Lattanzio stesso. Il testo che leggiamo: 1) inizia con una riflessione di Bayle che enuncia esplicitamente il problema centrale della teodicea; 2) prosegue con la lunga citazione di Lattanzio che presenta la tesi di Epicuro (una chiara formulazione del problema) e cerca di confutarla sostenendo che il male è stato permesso da Dio per alcuni scopi: perché l’uomo potesse comprendere, per confronto, la natura del bene; perché la comprensione del bene lo guidasse alla sapienza e alla vera felicità; perché grazie a entrambe egli potesse raggiungere l’immortalità ossia il sommo bene; perché il male alla pari del bene fa parte del piano divino che ha l’uomo al suo centro (antropocentrismo); La strategia di Bayle 3) termina con le riflessioni di Bayle sull’inconsistenza della risposta del pensatore cristiano a Epicuro. Anzi, dice Bayle fingendo di condividere le tesi della teologia tradizionale, la risposta di Lattanzio può addirittura essere considerata eretica, perché presuppone che Dio stesso abbia voluto il peccato (il male morale), e quindi sconfessa il dogma cristiano che sia stato l’uomo, con il suo libero arbitrio, a portare il male in una creazione altrimenti perfetta. Inoltre, prosegue Bayle, se le tesi di Lattanzio fossero esatte l’uomo che ha conosciuto il peccato sarebbe addirittura superiore agli angeli o ai beati, che non avendo fatta esperienza del male non potrebbero distinguere compiutamente il bene o essere perfettamente felici. Infine, conclude Bayle, la riflessione filosofica ci insegna che l’uomo riconosce il bene e il male anche senza confrontarli, o passare dall’uno all’altro. Lattanzio dà quindi una risposta sbagliata sia sul piano della ragione («lumi naturali») che su quello teologico («lumi teologici»).

La compatibilità tra gli attributi divini

T1

Bayle: le soluzioni tradizionali di teodicea sono penose

P. Bayle, Dizionario storicocritico, voce Pauliciani

[…] non solo è inesplicabile, ma addirittura incomprensibile come, sotto il dominio di un essere supremo, infinitamente buono, infinitamente santo, infinitamente potente, abbia potuto introdursi il male; e tutto ciò che si oppone alle ragioni per le quali questo essere ha permesso il male, è più conforme ai lumi naturali e alle idee dell’ordine, di quanto non lo siano tali ragioni. Esaminate attentamente questo passo di Lattanzio, che contiene una risposta a una obiezione di Epicuro: 323

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

«Dio – dice Epicuro – o vuole togliere i mali, ma non può; oppure può, ma non vuole; oppure non vuole e non può; oppure vuole e può. Se vuole, ma non può, è impotente; il che è inammissibile in Dio. Se può, ma non vuole, è invidioso; il che pure è alieno da Dio. Se non vuole e non può, allora è invidioso e impotente, e anche questo non può attribuirsi a Dio. Se vuole e può, il che soltanto conviene a Dio, allora da dove vengono i mali? O perché non li toglie? So che la maggior parte dei filosofi, che difendono la provvidenza, sono di solito imbarazzati da siffatto argomento, e che a malincuore sono quasi costretti ad ammettere che Dio non si preoccupa di nulla; ed è proprio questa l’ammissione che Epicuro vuole che si faccia. Ma noi, esaminata a fondo la questione, demoliamo senza alcuna difficoltà questo temibile argomento. Dio infatti può ciò che vuole, e in Dio non c’è né impotenza né invidia, può pertanto togliere i mali, ma non vuole; né tuttavia è invidioso. Infatti non li toglie perché, come ho già esposto, egli dà nello stesso tempo la sapienza, e c’è più bene e felicità nella sapienza che non molestia nei mali. La sapienza infatti ci fa conoscere Dio, e grazie a tale conoscenza conseguiamo l’immortalità, e questo è il sommo bene. Se quindi prima non conoscessimo il male, non potremmo neppure conoscere il bene. Ma proprio di questo non si accorse Epicuro, né alcun altro: se si tolgono i mali, si toglie pure la sapienza, né nell’uomo resterebbe alcuna traccia di virtù, la cui ragione di essere consiste nel sostenere e nel superare l’asprezza dei mali. Pertanto mancheremmo di un vero e proprio grandissimo bene, in cambio di un esiguo risparmio di mali tolti via. È pertanto evidente che tutte le cose, sia buone sia cattive, sono state poste per l’uomo (Lattanzio, De ira Dei, cap. XIII)». Non si poteva riferire con maggiore buona fede tutta la forza dell’obiezione. Epicuro stesso non l’avrebbe proposta con maggiore chiarezza e vigore [nota di Bayle: «Si noti che questa obiezione di Epicuro non riguarda il male morale. Se lo riguardasse, sarebbe ancora più imbarazzante»]. Ma la risposta di Lattanzio è penosa; non solo è debole, ma ricolma di errori e forse persino di eresie. Presuppone che Dio sia stato costretto a produrre il male, perché altrimenti non avrebbe potuto comunicarci la saggezza, la virtù e la cognizione del bene. C’è dottrina più mostruosa di questa? Non distrugge essa tutto ciò che ci dicono i teologi sulla felicità del paradiso e sullo stato di innocenza? […] Ben lungi dunque dal concludere che la virtù e la saggezza non possono convenire all’uomo senza il male fisico, come assicura Lattanzio, si deve sostenere, al contrario, che l’uomo è stato sottoposto a siffatto male, solo perché aveva rinunciato alla virtù e alla saggezza. Se la dottrina di Lattanzio fosse vera, sarebbe necessario supporre che gli angeli buoni siano soggetti a mille inconvenienti e che le anime dei beati passino alternativamente dalla gioia alla tristezza […] È inoltre vero che in buona filosofia non è affatto necessario che la nostra anima abbia sofferto qualche male per poter gustare il bene, o che essa passi successivamente dal piacere al dolore e dal dolore al piacere, perché possa essere in grado di discernere che il dolore è un male e il piacere è un bene. Lattanzio contraddice dunque sia ai lumi naturali sia ai lumi teologici. Il concetto cristiano di Dio è contraddittorio

324

E poco dopo Bayle porta un nuovo attacco alla concezione tradizionale degli attributi divini fingendosi costernato per il fatto che la tesi del manicheismo – che prevede due diversi principi in lotta, uno benigno e uno maligno, l’uno origine del bene e uno del male, e che era stato già attaccato con forza da Agostino – sembri razionalmente più coerente della tesi dei credenti cristiani.

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Percorso tematico Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male?

Infatti, se la spiegazione manichea di due distinti e contrapposti principi è più convincente sul piano razionale, ne consegue che il concetto (cristiano) di un Dio che includa in sé entrambi i principi è né più né meno che contraddittorio. E non serve a restituirgli autorevolezza l’elogio di facciata di Bayle per la supposizione di un primo principio «infinitamente buono e onnipotente». Nelle sue parole tale concezione è «giusta, necessaria e unicamente vera», ma il messaggio insinuante che il lettore riceve è esattamente l’opposto: l’ipotesi manichea spiega i fatti «cento volte meglio».

T2

La maggior razionalità dell’ipotesi manichea

P. Bayle, Dizionario storicocritico, voce Pauliciani

Chi non troverà strano e chi non lamenterà il destino riserbato alla nostra ragione? Vediamo infatti che i manichei, partendo da una ipotesi completamente assurda e contraddittoria, spiegano i fatti dell’esperienza cento volte meglio di quanto non riescano a farlo gli ortodossi, che partono invece dalla supposizione così giusta, così necessaria, così unicamente vera, di un primo principio infinitamente buono e onnipotente. Con la sua strategia Bayle apre, in verità, la strada per lo scetticismo e per l’ateismo, o nel migliore dei casi per un cieco fideismo, ossia per la posizione di coloro che accettano per fede la tradizionale immagine di Dio e rinunciano a conciliare tale credenza con la filosofia.

2 Leibniz: una strategia su più fronti

Gli argomenti tradizionali: 1) minimizzare il male

2) la felicità complessiva è maggiore del male

3) il male necessario

La replica a Bayle: Leibniz e il migliore dei mondi possibili Leibniz capisce benissimo la pericolosità e la radicalità dell’attacco portato da Bayle alla teologia cristiana, di fronte al quale sviluppa a sua volta una strategia su più piani, dove in realtà soltanto la tesi del migliore dei mondi possibili – ricavata dall’analisi a priori del rapporto tra intelletto e volontà divina – è davvero nuova (vedi Unità 5, p. 296 ss.). A parte ciò, Leibniz riesuma, magari riadattandoli, argomenti che erano già caduti sotto i colpi della critica di Bayle, per tentare di salvare una soluzione razionale del problema del male. Tra gli argomenti tradizionali usati da Leibniz c’è l’idea che in fondo i mali sia fisici, sia morali degli uomini vengano esagerati nelle trattazioni dei denigratori della natura e della vita umana come Bayle. È il tentativo, ricorrente tra Sei e Settecento tra i difensori della teodicea, di minimizzazione del male. Se Bayle aveva scritto che l’uomo è al tempo stesso malvagio (male morale) e infelice (male fisico), e che chiunque è consapevole a sufficienza di questa amara verità, Leibniz sostiene che è vero che i vizi umani sono più delle virtù, ma che questo non deve essere un argomento contro la Provvidenza. E per quanto riguarda l’esistenza, la maggior parte degli uomini sarebbe felice di vivere di nuovo, se gliene fosse offerta la possibilità; e se anche la vita umana non fosse così piacevole c’è sempre, sostiene curiosamente Leibniz (seguendo implicitamente le suggestioni di Fontenelle, che nei suoi Dialoghi sulla pluralità dei mondi, del 1686, ha formulato questa teoria sulla base delle nuove concezioni astronomiche) l’ipotesi di una felicità e di una gioia che potrebbero essere diffuse in altri pianeti. E ancora: un male particolare potrebbe essere necessario per raggiungere un bene più generale. 325

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Parte prima La nascita della filosofia moderna 4) il male è solo privazione

L’argomento nuovo di Leibniz fondato sul principio di ragione sufficiente

T3

Il mondo che esiste è certamente il migliore

G.W. Leibniz, Saggi di teodicea, 1,10

Ma soprattutto Leibniz riprende, e non è il solo in questi anni, l’antica tesi agostiniana (usata contro i manichei) del male come privazione, ovvero afferma l’esistenza del male metafisico, frutto dell’imperfezione originaria, cioè della finitezza degli uomini. Ma erano tutti temi già noti. In realtà il vero argomento forte di Leibniz non è un argomento a posteriori, come quelli che i difensori della teodicea riesumeranno nel corso del secolo, ma un argomento completamente a priori, fondato sul principio di ragion sufficiente (che recita «niente esiste, accade o può essere considerato vero senza una ragione sufficiente») e sul funzionamento della volontà divina. Il punto centrale dell’argomentazione di Leibniz è che c’è un mondo, e c’è proprio questo mondo, che è stato scelto da Dio, ed è questo il fatto dal quale non possiamo non partire. Non possiamo dimostrare a posteriori, analizzando tutti i mondi possibili e confrontandoli con il nostro, la bontà della scelta divina, perché non abbiamo l’estensione infinita della mente di Dio, capace di abbracciare in un solo sguardo non solo questo infinito universo ma anche tutti gli altri, migliori del nostro, che avrebbero potuto esistere e non sono. Possiamo solo dedurre che se un mondo esiste, e di fatto esiste, è perché è necessariamente il migliore. Certo, si possono immaginare mondi possibili liberi dal peccato e dalle miserie, e se ne potrebbero fare di simili a quelli che troviamo descritti nei romanzi delle Utopie e dei Severambi: ma anche questi mondi, peraltro, sarebbero, per quanto riguarda il bene, assai inferiori al nostro. Non sarei in grado di mostrarvelo nei particolari, perché, come potrei conoscere, mostrarvi e paragonare tra loro degli infiniti? Ma voi dovete giudicarlo con me ab effectu, poiché Dio ha scelto questo mondo così com’è.

Sia il tipo di scelta che Dio ha fatto, e non poteva non fare, sia il criterio in base al quale l’ha operata, sono due fatti derivanti dalla struttura della ragione sia umana sia divina, che agiscono entrambe esclusivamente sulla base del principio di ragion sufficiente. Naturalmente lo fanno con l’enorme differenza di proporzione, affine a quella che c’è tra una goccia d’acqua e l’oceano, ma senza differenze di tipo qualitativo. E che questo sia il migliore dei mondi possibili – e lo sia comunque – deriva dalla natura della volontà divina quale si concretizza nel suo scegliere una tra le infinite combinazioni – i mondi – che l’intelletto divino le presenta. Il ragionamento Il ragionamento di Leibniz, chiaramente illustrato nel brano che ci accingiamo a leibniziano leggere, è il seguente: 1) Dio sceglie sempre il meglio perché è saggio e buono; 2) Dio agisce solo in base al principio, valido anche nella matematica, di non fare nulla senza una ragione; 3) quindi se non ci fosse stato un mondo migliore di tutti gli altri non lo avrebbe creato, anzi non avrebbe creato nulla. A questo punto Leibniz introduce un dato di fatto: 4) il mondo, il nostro mondo, è tutto ciò che esiste (il mondo o universo è uno) anche ammettendo che sia infinito e contenga una pluralità di mondi presenti, passati o futuri. Poi torna ad argomentare in via ipotetica: 5) i mondi possibili invece sono infiniti, ossia sono concepibili infiniti mondi possibili, veri per noi solo ipoteticamente ma tutti rappresentati e presenti nell’intelletto di Dio;

La mente divina è guidata dalla razionalità

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6) tra essi Dio, al momento della creazione, ha necessariamente scelto il migliore poiché, come abbiamo visto, agisce sempre in base al principio di ragione.

T4

La scelta di Dio è necessariamente saggia e buona G.W. Leibniz, Saggi di teodicea, 1,8

Ora questa suprema saggezza, unita a una bontà non meno infinita, non ha potuto che scegliere il meglio. Infatti, come un minor male è una specie di bene, allo stesso modo un minor bene è una specie di male, se è di ostacolo ad un bene più grande; e vi sarebbe qualcosa da correggere nelle azioni di Dio, se egli avesse modo di far meglio. E come nelle matematiche, quando non c’è né un maximum né un minimum, cioè niente di distinto, si fa tutto allo stesso modo, o, quando ciò non sia possibile, non si fa assolutamente nulla; così, riguardo alla perfetta saggezza, che non è meno regolata delle matematiche, si può dire che, se non ci fosse il migliore (optimum) tra tutti i mondi possibili, Dio non ne avrebbe prodotto alcuno. Chiamo mondo la collezione e l’ordine di tutte le cose esistenti, affinché non si possa dire che più mondi avrebbero potuto esistere in tempi e in luoghi differenti; è necessario infatti contarli tutti insieme come un solo mondo, o, se preferite, come un universo. E quando si riempissero tutti i tempi e tutti i luoghi, resta pur sempre vero che si sarebbero potuti riempire in un’infinità di modi, e che vi sono un’infinità di mondi possibili, tra i quali è necessario che Dio abbia scelto il migliore, poiché egli non fa niente senza agire secondo la suprema ragione. L’argomento leibniziano diventa così sul piano argomentativo, logico, un argomento a priori, una dimostrazione in favore dell’esistenza di questo mondo e quindi dell’esistenza di qualcosa in generale: se Dio non avesse potuto scegliere di creare il migliore dei mondi possibili, infatti, non avrebbe avuto alcun motivo ossia alcuna ragione sufficiente per creare qualcosa, e non avrebbe creato nulla.

3

Pope e Voltaire: la discussione sull’ottimismo

La discussione sul migliore dei mondi possibili o sull’ottimismo domina in un certo senso il secolo XVIII, e vede intervenire molti partecipanti, degli orientamenti più diversi, in scritti di tipo anche molto vario: testi d’occasione, dissertazioni dotte, trattati sistematici o parti di questi (per esempio tra i seguaci di Leibniz e di Christian Wolff, che difendono a spada tratta la tesi del mundus optimus). Erronea identificazione In più, anche sulla base del fraintendimento della posizione di Leibniz, la sua tedi Leibniz con Pope si viene accostata a tesi genericamente ottimistiche che si fondano non sull’analisi teorica della scelta divina secondo il principio di ragion sufficiente, ma semplicemente sulla negazione o sulla minimizzazione del male e dei mali del mondo, sulla scia del filosofo inglese Anthony A. Cooper conte di Shaftesbury (16711713) e della tradizione neoplatonica. In questa direzione si muovono posizioni apologetiche anche di tipo letterario, come il famosissimo e molto letto Saggio sull’uomo del poeta inglese Alexander Pope (1688-1744). L’identificazione di Pope con Leibniz – entrambi seguaci dell’ottimismo – è tale che alla metà del secolo un organismo prestigioso come l’Accademia delle Scienze di Berlino indirà (nel 1753) uno dei suoi concorsi, con il non tanto segreto intento di screditare Leibniz, accostandolo all’ingenuo ottimismo di Pope. Quest’ultimo, nel suo poema, aveva Il dibattito settecentesco

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

presentato una descrizione di stampo neoplatonico dell’armonia del mondo, in cui ricorrono tutti gli argomenti tradizionali che abbiamo già incontrato: la necessità del male per riconoscere il bene, la felicità esaltata dalle difficoltà ecc.

T5

Mali parziali, bene universale

A. Pope, Saggio sull’uomo, I, vv. 281-294

L’ottimismo giovanile di Voltaire

Il terremoto di Lisbona e la svolta di Voltaire

L’amara ironia del Candido

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Smettila, dunque, non chiamare l’ordine imperfezione: La nostra felicità dipende da ciò che biasimiamo. Riconosci il tuo punto nello spazio: questo genere, questo dovuto grado Di cecità e debolezza il Cielo ti ha dato. Sottomettiti, in questa o qualsiasi altra sfera Sarai certo di avere felicità quanta puoi serbarne, Sicuro nelle mani del potere che tutto dispone, Nell’ora della nascita, nell’ora della morte. L’intera natura non è che arte a te sconosciuta; Ogni accadimento, direzione che non puoi vedere; Ogni discordia, armonia non compresa; Ogni male parziale, bene universale. E a dispetto dell’orgoglio, della errante ragione, Una verità è chiara; qualsiasi cosa sia, è giusta! Vale la pena di ricordare che anche il giovane Voltaire, destinato a diventare il più acerrimo, o almeno il più famoso, nemico dell’ottimismo, è inizialmente uno dei suoi più accesi sostenitori. I Discorsi in versi sull’uomo (1734-1738) e le Lettere inglesi (1734) sono scritti che rivelano il peso e l’influenza della prospettiva di Leibniz e Pope, ai quali del resto Voltaire rimanda esplicitamente. Nell’ultima delle Lettere inglesi, dedicata a Pascal, l’intento dichiarato è «prendere le parti dell’umanità contro questo sublime misantropo», assicurando che «noi non siamo né tanto bricconi né tanto infelici com’egli asserisce». Ma la posizione del filosofo cambierà rapidamente. La svolta personale di Voltaire contro l’ottimismo (vedi Unità 11, p. 564 ss.) è una svolta anche per la coscienza europea, segnata profondamente dal terremoto che il 1° novembre 1755 distrugge la città di Lisbona. In seguito a questo fatto si moltiplicano scritti di tutti i tipi che riguardano i terremoti: studi teologici, prese di posizione moraleggianti, lavori scientifici. Senza alcun dubbio, l’opera che meglio rappresenta il trauma collettivo della distruzione della città di Lisbona è proprio il poema di Voltaire sul «disastro di Lisbona» del 1756, ormai ben distante dalle precedenti, giovanili prese di posizione a favore dell’ottimismo, e che, con evidente richiamo autocritico, porta il titolo Poema sul disastro di Lisbona o esame del seguente assioma «tutto è bene». Lo sguardo disincantato del Voltaire maturo si pone sotto l’egida di Bayle, non più sotto quella di Leibniz o di Pope: è un’illusione che tutto vada bene, ciò che ci resta è al più la speranza che le cose vadano bene, o, almeno, meglio, in futuro. Il romanzo forse più famoso del secolo esce ancora dalla penna di Voltaire, nel 1759: è il Candido, o l’ottimismo, il cui fine esplicito è ridicolizzare la tesi del migliore dei mondi possibili sostenuta contro tutte le evidenze dal precettore del giovane Candido, Pangloss, che cela la figura di Christian Wolff, il maggiore rappresentante della filosofia leibniziana nella Germania del Settecento. Le disavventure del protagonista Candido e dei suoi amici sono tese a mostrare le insidie, i mali, i dolori del mondo, e la malvagità degli uomini, tutti elementi che, per quanto volti in chiave comica, non attenuano l’amarezza di fondo della condizione umana.

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Il contenuto filosofico del Candido lo si ritrova pochi anni dopo, nella voce Bene, tutto è bene del Dizionario filosofico (1764), dove di Bayle si sente ben più che l’eco. Di fronte al meccanismo impersonale e indifferente dell’universo fisico regolato da leggi immutabili volute da un Dio autore e ordinatore della natura ma non provvidente, il dolore e la sofferenza umani sono realtà comunque tangibili, che non possono certo essere superati sul piano astrattamente – e ingenuamente – teorico. E sulle pretese dell’ottimismo e degli ottimi fini di Dio Voltaire esercita tutto il suo feroce sarcasmo: volendo giustificare l’operato di Dio e attribuendogli caratteristiche umane i finalisti ottengono il risultato opposto e lo trasformano in un sovrano crudele e malvagio.

T6

L’origine del male è sempre stato un abisso di cui nessuno ha mai potuto scorgere il fondo. Proprio questo ridusse tanti antichi filosofi e legislatori a ricorrere a due principi: uno buono, l’altro cattivo […] Ma Bolingbroke, Shaftesbury e Pope […] non risolvono il problema meglio degli altri: il loro Tutto è bene significa soltanto che tutto è retto da leggi immutabili. E chi non lo sa? Non ci insegnate niente, quando osservate quello che hanno capito anche i bambini: che le mosche sono nate per essere divorate dai ragni, i ragni dalle rondini, le rondini dalle avèrle, le avèrle dalle aquile, le aquile per essere ammazzate dagli uomini, gli uomini per ammazzarsi fra loro e per venir divorati dai vermi, e poi dai diavoli, almeno mille su uno. Ecco un ordine preciso e costante fra gli animali di ogni ordine e specie. Dappertutto c’è ordine. Quando nella mia vescica si forma una pietra, si tratta di una meccanica ammirevole: umori calcarei entrano a poco a poco nel mio sangue, si infiltrano nei reni, passano per gli ureteri, si depositano nella mia vescica, vi si riuniscono in virtù di un’eccellente attrazione newtoniana; si forma una pietruzza, si ingrossa, io soffro mille mali peggiori della morte per il migliore assetto del mondo; un chirurgo, che ha perfezionato l’arte inventata da Tubalcain, viene a piantarmi un ferro acuto e tagliente nel perineo, afferra la mia pietra con le sue pinzette: quella si spezza sotto i suoi sforzi per un meccanismo necessario; e per lo stesso meccanismo io muoio fra atroci tormenti. Tutto ciò è bene, tutto ciò è l’evidente conseguenza di principi fisici inalterabili. Sono d’accordo, ma lo sapevo non meno di voi. Se fossimo insensibili, non ci sarebbe niente da dire su questa fisica. Ma non si tratta di questo: noi vi abbiamo chiesto se vi sono o no dei mali sensibili, e da dove provengano. «Non esistono mali – dice Pope nella quarta epistola del suo Tutto è bene – o, se ci sono dei mali particolari, essi compongono il bene generale». Ecco un singolare bene generale, composto dalla pietra, dalla gotta, da tutti i delitti, da tutte le sofferenze, dalla morte e dalla dannazione […] Questo sistema del Tutto è bene non rappresenta l’autore della natura se non come un re potente e malvagio, il quale non si preoccupa minimamente se debbano perire quattro o cinquecentomila uomini, e gli altri trascinino i loro giorni nella fame e nelle lacrime, purché possa venire a capo dei suoi progetti.

Il male è un abisso tragico e reale Voltaire, Dizionario filosofico

Due nuove alternative teoriche

Di fronte alla realtà del male, due saranno le strade principali del pensiero europeo: da un lato, con Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), si aprirà una strada nuova attraverso la critica della società, dall’altra, con filosofi scettici come David Hume o atei come Paul-Henri Thiry, barone d’Holbach, si porterà alle estreme conseguenze la riflessione sul male e sulla contraddittorietà non solo del Dio cristiano, ma della natura stessa. 329

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4

Rousseau contro Voltaire

Le radici storico-sociali del male

T7

Il male morale dipende dalla civilizzazione

J.-J. Rousseau, Lettera di J.-J. Rousseau a Voltaire, 18 agosto 1756

5

Rousseau: la difesa della provvidenza e la critica della società La nuova direzione sul problema del male viene presa da Rousseau (vedi Unità 12, p. 600), e nel complesso della sua opera e in particolare nella lettera del 18 agosto 1756 indirizzata a Voltaire e concernente proprio il poema su Lisbona di quest’ultimo. Apparentemente, Rousseau assume la difesa di Leibniz e Pope, i quali almeno possono consolare dai mali della vita, mentre il poema di Voltaire non fa che gonfiare «a tal punto il quadro delle nostre afflizioni da renderne più aspro il pensiero». In realtà, accanto agli argomenti tradizionali l’impostazione di Rousseau è ormai differente, e apre la strada per una diversa considerazione dell’uomo e della sua natura che sarà dominante nel corso dell’Ottocento. Il problema del male è ora un problema storico e sociale: esso affonda le radici nello sviluppo storico della società e nel suo ‘perfezionamento’. Chi critica la condizione umana, come Bayle o Voltaire e ne offre un quadro negativo, in realtà, ha in mente l’uomo civilizzato, e lo confonde con l’uomo ‘naturale’, che gode di una felicità e di una serenità semplici ma indubitabili. Da un lato c’è un sistema della natura che non si può curare della sorte dell’uomo, ma dall’altra, e soprattutto, la responsabilità del male e dell’entità del disastro di Lisbona la portano gli uomini con il processo di civilizzazione, che li ha portati a urbanizzarsi, e con la loro avidità, che ha impedito loro di mettersi in salvo abbandonando i propri beni. Non vedo come si possa ricercare l’origine del male morale se non nell’uomo libero, progredito e di conseguenza corrotto; e quanto ai mali fisici, se il concetto di materia sensibile e insieme impassibile è, a parer mio, una contraddizione, essi sono inevitabili in ogni sistema di cui l’uomo faccia parte […] Inoltre, credo di aver dimostrato che, eccetto la morte, che non è quasi un male se non per i preparativi con cui la si fa precedere, la maggior parte dei nostri mali fisici sono ancora opera nostra. Per restare nel vostro tema, e cioè Lisbona, dovete, ad esempio, convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato molto minore, e forse non vi sarebbe stato. Tutti sarebbero fuggiti alla prima scossa, e il giorno dopo li si sarebbe visti a venti leghe dalla città, perfettamente allegri come se nulla fosse successo. Invece, sono dovuti restare, abbarbicarsi alle macerie, esporsi a nuove scosse, poiché ciò che lasciavano valeva di più di quello che potevano portare via. Quanti infelici sono morti in quel disastro perché volevano afferrare i propri abiti, o i documenti, o il denaro? Si ignora forse che la vita di un individuo è diventata la sua parte meno importante, e che non vale quasi la pena di salvarla, quando tutto il resto è stato perduto?

Hume e d’Holbach: verso il collasso della teodicea I Dialoghi sulla religione naturale di Hume (vedi Unità 10, p. 538), un dibattito con tre protagonisti rappresentanti di tre correnti filosofiche uscito postumo nel

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1779, riprendono un tema suggerito da Bayle per quel che riguarda il rapporto tra fede e ragione: in questo senso, lo scettico Filone e il fideista Demea stanno dalla stessa parte contrapponendosi al razionalista difensore della teodicea Cleante e negando che fede e ragione possano essere compatibili. E proprio sul problema del male emergono con chiarezza le posizioni diverse. Il disordine e i mali della natura non sono affatto attenuati dall’intervento e dalla presenza dell’uomo; miseria morale e infelicità vengono affermate come evidenti fin dall’esperienza ordinaria, e il difensore della teodicea, Cleante, viene infine messo alle strette. La soluzione scettica Prima di tutto, se anche si potesse mostrare – ciò che non può essere accettato – di Hume che il corso della vita umana e animale contenga più piaceri che dolori, non si sarebbe addivenuti, dice lo scettico, a nulla: «Perché – chiede Filone –, benché minima, c’è sofferenza nel mondo?». Lo scettico Filone incalza allora Cleante con un tema estremamente pericoloso per la razionalità del cristianesimo: i criteri della divinità sono del tutto diversi dai criteri umani di giudizio, e Dio, e ancor più la sua giustizia, sono quindi, per la mente umana, del tutto incomprensibili. Le domande di Epicuro già evocate da Bayle sono ancora senza risposta e la pretesa antropocentrica dell’uomo è sconfessata dai fatti.

T8

La natura divina è incomprensibile per l’uomo D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale

L’abbandono di ogni forma di religione

È possibile Cleante, disse Filone, che dopo tutte queste riflessioni, ma infinite altre se ne potrebbero fare, possiate ancora perseverare nel nostro antropomorfismo, e asserire che gli attributi morali della divinità, giustizia, benevolenza, misericordia e rettitudine sono della stessa natura delle virtù presenti negli esseri umani? Riconosciamo il suo potere come infinito, ogni sua volontà si realizza, eppure nessun uomo, né altro animale, è felice: allora non vuole la loro felicità. La sua saggezza è infinita, non sbaglia mai nella scelta dei mezzi adeguati a un fine, eppure il corso della natura non tende alla felicità umana o animale: allora questa non è stata costituita per tale scopo. In tutto l’ambito della conoscenza umana non ci sono inferenze più certe e infallibili di queste. Per quale aspetto, quindi, la sua benevolenza e misericordia assomiglia alla benevolenza e misericordia degli uomini? Le vecchie domande di Epicuro sono ancora senza risposta. Vuole prevenire il male, ma non ne è capace? Allora è impotente. Ne è capace ma non vuole? Allora è malvagio. Ne è capace e lo vuole? E allora da dove proviene il male? Voi, Cleante, riferite alla natura (credo giustamente) uno scopo e una intenzione. Ma, vi prego, quale è l’obiettivo di quei singolari artifici e meccanismi di cui la natura fa sfoggio in tutti gli animali? Unicamente preservare gli individui e propagare la specie. Sembra sufficiente ai suoi scopi che tale serie di individui semplicemente si mantenga nell’universo, senza alcuna preoccupazione o interesse per la felicità dei membri che la compongono. Nessuna risorsa per questo scopo. Nessun meccanismo che dia semplicemente piacere o benessere. Nessuna provvista di pura gioia e pura contentezza. Nessuna gratificazione senza che questa sia accompagnata da bisogno o necessità. O almeno, i pochi fenomeni di questo tipo vengono controbilanciati da fenomeni di natura opposta, di peso ben maggiore. Hume si ferma sulla soglia della domanda sull’esistenza di Dio, ma la conclusione atea viene tirata da d’Holbach (vedi Unità 11, p. 574) in un testo pubblicato nel 1772 e che ha molte edizioni e una larghissima diffusione: Il buon sen331

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

so. E d’Holbach non attacca soltanto la religione tradizionale, ma anche le soluzioni che ritiene di compromesso, come quella, per esempio, di Voltaire e del deismo (il Dio ‘orologiaio’), o la nuova tesi rousseauiana sulla felicità dell’uomo selvaggio. Il concetto di Dio è un concetto del tutto indeterminato che i teologi caratterizzano in modo soltanto negativo, ovvero dicendo soprattutto cosa Dio non è. La fede religiosa implicherebbe il sacrificio della ragione, che d’Holbach dichiara di non volere immolare perché costituisce l’unico strumento capace di distinguere il bene dal male e il vero dal falso. E il male è l’argomento principale, secondo d’Holbach, per criticare qualunque forma di religione, e per dichiarare l’insensatezza dell’idea di una provvidenza benevola, un’insensatezza ampiamente dimostrata dall’esperienza di ciascuno.

T9

Il mondo non è governato da un Essere intelligente e provvidente P.T. d’Holbach, Il buon senso

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Si chiama «Provvidenza» la cura generosa che la Divinità dimostra provvedendo ai bisogni e vegliando per la felicità delle sue amate creature. Ma, appena si aprono gli occhi, si trova che Dio non provvede a nulla. La Provvidenza dorme riguardo alla parte più numerosa degli abitatori di questo mondo. Di contro a un piccolissimo numero di uomini che supponiamo felici, quale folla immensa di sventurati gemono sotto l’oppressione e languiscono nella miseria! Non vediamo interi popoli costretti a strapparsi il pane di bocca per alimentare le stravaganze di alcuni cupi tiranni, i quali non sono più felici degli schiavi che essi schiacciano? Nel momento stesso in cui i nostri maestri ci sciorinano con enfasi gli atti di bontà della Provvidenza, nel momento in cui ci esortano a riporre in lei la nostra fiducia, li udiamo proclamare, di fronte a catastrofi impreviste, che «la provvidenza si prende gioco dei vani progetti degli uomini», che manda all’aria i loro propositi, che si ride dei loro sforzi, che la sua profonda saggezza si compiace di sconcertare le menti dei mortali! Ma come riporre fiducia in una Provvidenza maligna che si beffa, che si prende gioco del genere umano? Come si pretende che io ammiri i procedimenti ignoti di una sapienza arcana, il cui modo d’agire è per me inesplicabile? «Giudicatela dai suoi effetti», direte: è proprio da quelli che io la giudico, e trovo che codesti effetti sono talvolta utili per me, talvolta dolorosi. Credono di giustificare la Provvidenza dicendo che in questo mondo ci sono più beni che mali per ciascuno degli individui della specie umana. Anche ammettendo che i beni che codesta Provvidenza ci fa godere siano agguagliabili a cento, e i mali a dieci, ne risulterà sempre che, di contro a cento gradi di bontà, la Provvidenza possiede un decimo di malvagità: il che è incompatibile con la perfezione che le si attribuisce. Tutti i libri son pieni degli elogi più lusinghieri della Provvidenza, della quale si vantano le premurose cure. Sembrerebbe che, per vivere felice quaggiù, l’uomo non avrebbe alcun bisogno di darsi da fare. Eppure, senza il proprio lavoro, l’uomo rimarrebbe in vita appena un giorno. Per vivere, lo vedo costretto a sudare, a lavorar la terra, a cacciare, pescare, affaccendarsi senza posa; senza queste cause seconde, le cause prime (almeno nella maggior parte dei paesi) non provvederebbero ad alcuno dei suoi bisogni. Se rivolgo lo sguardo a tutte le parti del nostro globo, vedo l’uomo selvaggio e l’uomo civile in lotta perpetua con la Provvidenza. L’uomo è costretto a parare i colpi che la Provvidenza gli sferra mediante gli uragani, le tempeste, il gelo, la grandine, le alluvioni, le siccità, i vari incidenti che rendono così spesso inutili tutti questi lavori. In una parola, vedo la razza umana continuamente all’opera per sal-

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varsi dai brutti tiri di questa Provvidenza che dicono impegnata nel prendersi cura della sua felicità. Un bigotto ammirava la divina Provvidenza per avere fatto passare saggiamente dei fiumi dovunque gli uomini hanno costruito grandi città. Il modo di ragionare di costui è altrettanto insensato quanto quello di tanti dotti che non cessano di parlarci di «cause finali», o pretendono di scorgere chiaramente i benèfici disegni di Dio nella formazione delle cose […] Tutto ciò che avviene nel mondo ci mostra, nel modo più chiaro, che esso non è governato da un essere intelligente.

I brani antologizzati sono tratti da: P. Bayle, Dizionario storico-critico, a cura di G. Cantelli, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 38-40, 43. G.W. Leibniz, Saggi di teodicea, a cura di G. Cantelli, Rizzoli, Milano 1993, p. 159. A. Pope, Saggio sull’uomo, a cura di A. Zanini, Liberilibri, Macerata 1994, p. 31. Voltaire, Dizionario filosofico, a cura di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 1995, pp. 63-67. J.-J. Rousseau, Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, pp. 125-126. D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, a cura di A. Attanasio, Einaudi, Torino 1997, pp. 195-197. P.T. d’Holbach, Il buon senso, a cura di S. Timpanaro, Garzanti, Milano 1985, pp. 40-43.

Questionario 1

Quali legami esistono tra i concetti di teodicea e ottimismo? (max 2 righe)

2

Dai una definizione di teodicea utilizzando come riferimento il brano di Bayle riportato in T1. (max 3 righe)

3

Esponi in maniera sintetica l’obiezione di Epicuro sulla compatibilità degli attributi divini riportata in T1 e in T8. (max 4 righe)

4

Qual è il giudizio di Bayle sulla concezione manichea? Rispondi in un massimo di 2 righe basandoti su T2.

5

Qual è, secondo Leibniz, il rapporto tra l’intelletto e la volontà di Dio al momento della scelta tra i mondi possibili? Rispondi in un massimo di 4 righe utilizzando T3 e T4.

6

Qual è l’argomento innovativo attraverso cui Leibniz dimostra in T4 che gli attributi divini sono compatibili? (max 6 righe)

7

Secondo Voltaire in T6 qual è il risultato della difesa di Dio dei finalisti? (max 2 righe)

8

Che cos’è il male morale e che cosa lo causa secondo Rousseau in T7? (max 3 righe)

9

In T8 qual è l’unico scopo chiaramente riconoscibile nell’opera della natura secondo Filone? (max 1 riga)

10

Quale definizione dà della Provvidenza d’Holbach in T9? (max 2 righe)

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: * Hobbes, Locke , Berkeley 1. Hobbes

3. Berkeley

1. Dalla nuova scienza a una nuova politica

1. 2. 3. 4. 5.

2. L’umanista, il filosofo e l’eretico 3. Il monismo materialistico hobbesiano 4. La teoria della conoscenza 5. Antropologia e morale

Un illuminismo cristiano Un ecclesiastico attivo Immaterialismo e antiastrattismo Chimere, cose reali e mente divina L’apologia della tradizione

2. Locke 1. Tra empirismo e razionalismo

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

2. Un filosofo nel mondo 3. La teoria delle idee 4. Le forme del sapere 5. Religione e tolleranza

* Per la filosofia politica di Hobbes e Locke vedi l’Unità 7

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Hobbes

1 I testi

T. Hobbes Elementi di legge naturale e politica: Corpi in movimento come unica realtà, T1; I limiti della conoscenza sensibile, T6; Non vi è nulla di universale al di fuori dei nomi, T7; L’uomo desidera senza sosta, T12; Bene e male: concetti relativi, T14 Leviatano: Il corpo è l’unica sostanza, T2; La genesi dell’appetito e dell’avversione, T11 Terze obiezioni e risposte alle Meditazioni metafisiche: La negazione della sostanza pensante, T3

1 Hobbes pensatore politico

L’importanza della filosofia della scienza

Una radicale alternativa al cartesianesimo

Il comune problema del rapporto tra concetti e realtà

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Risposta a Bramhall: La corporeità di Dio, T4 De corpore: Le cause della sensazione, T5; I nomi nascono dall’arbitrio, T8; Ragionare è calcolare, T9 De homine: Dimostrazioni a priori e dimostrazioni a posteriori, T10 Della libertà e necessità: La critica della libertà di scelta, T13 De cive. Elementi filosofici sul cittadino: La diversità di giudizi etici causa conflitti, T15

Dalla nuova scienza a una nuova politica La fama di Thomas Hobbes è legata soprattutto al pensiero politico: per motivi che verranno illustrati nel capitolo sul giusnaturalismo moderno (vedi Unità 7, p. 418 ss.), egli è infatti noto come il «grande e ineguagliato costruttore della prima teoria dello Stato moderno». Le radici lontane di questo topos storiografico possono essere rintracciate nell’opinione degli stessi contemporanei di Hobbes. L’interesse di questi ultimi appare, infatti, già sbilanciato a favore della produzione politica del filosofo inglese, considerata come l’equivalente – in politica – dell’opera di rifondazione svolta da Cartesio, sulla base di presupposti della nuova scienza, nel campo della metafisica, della fisica e della gnoseologia. L’accostamento tra Cartesio e Hobbes, così formulato, rischia però di mettere in ombra il contributo originale apportato dal secondo non solo in tema di filosofia politica, bensì anche alla discussione sul cosmo e sulla scienza innescata dalla rivoluzione scientifica: discussione all’interno della quale il pensatore inglese rappresenta una figura di primo piano. Hobbes dedica, infatti, gran parte del proprio tempo e delle proprie energie al tentativo di comprendere la scienza moderna – nel momento stesso in cui nasceva – e di elaborare una visione complessiva del cosmo ad essa conforme. Visione che merita di essere presa in considerazione, non solo in quanto costituisce il presupposto indispensabile per comprendere adeguatamente il pensiero politico hobbesiano, ma anche in quanto rappresenta forse la principale e più radicale alternativa alla filosofia di Cartesio elaborata nel corso del XVII secolo. Con Cartesio Hobbes condivide l’idea di mettere in discussione la verosimiglianza tra i concetti della mente e le cose esterne, per cui indica nei primi l’unico oggetto accessibile in maniera immediata alla conoscenza umana; a partire da questo presupposto, egli arriva, però, a conclusioni opposte rispetto a quelle cartesiane.

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Sotto il profilo ontologico, Hobbes sostiene, infatti, un monismo materialistico – secondo il quale l’unica cosa reale sono i corpi in movimento – diametralmente opposto rispetto alla metafisica cartesiana, fondata sull’autocoscienza del soggetto in quanto sostanza pensante e sull’idea di Dio. Ragione Negando la possibilità di una sostanza pensante separata dalla materia, Hobbes come procedura elabora inoltre una concezione della ragione come procedimento puramente formale di connessione di nomi e concetti, anch’essa completamente diversa rispetto alla concezione cartesiana della ragione: concezione che è alla base di una visione della scienza come costruzione convenzionale che, nonostante le aporie irrisolte, presenta tratti di forte originalità. Il monismo materialistico di Hobbes

2 Nato nella paura

Un umanista alle dipendenze dei nobili

Il primo viaggio in Italia e l’assimilazione della cultura umanistica

I contatti con i protagonisti della rivoluzione scientifica e il progetto di sistema

L’umanista, il filosofo e l’eretico Nella Vita carmine expressa («Vita narrata in poesia») Thomas Hobbes dice di sé di essere nato «gemello alla paura», riferendosi al terrore della madre, che pare fosse entrata in travaglio nell’udire le voci sull’armata spagnola che si avvicinava alle coste inglesi. E la paura – alimentata dal clima cruento delle guerre civili inglesi – costituisce uno degli elementi basilari per comprendere la costruzione politica hobbesiana. Dopo brillanti studi umanistico-rinascimentali, Hobbes trascorre tutto il corso della sua vita al servizio dei conti del Derbyshire, dei loro vicini e cugini conti di Newcastle e, per periodi brevi, presso altre famiglie nobili vicine. Lavora come segretario, istitutore, consulente finanziario e consigliere. La sua attività principale è, però, quella di viaggiare attraverso l’Europa nelle vesti di accompagnatore di uno dei suoi signori, usufruendo così dell’opportunità unica di incontrare politici e altri intellettuali di tutto il continente. Nel primo di questi viaggi, che ha luogo tra il 1610 e il 1615, il momento più significativo è il soggiorno a Venezia: la conoscenza dei principali scrittori dell’unica repubblica superstite in Italia, quali lo storico Paolo Sarpi (1552-1623) e il polemista satirico Traiano Boccalini (1556-1613), consente a Hobbes l’assimilazione più approfondita della cultura del moderno umanesimo, intriso di tacitismo, scetticismo e stoicismo. Sotto l’influsso di queste suggestioni culturali, Hobbes pubblica la sua prima opera, che è una traduzione della Storia della guerra del Peloponneso dello storico greco Tucidide, preceduta da una lunga introduzione. Di rilevanza ancora maggiore è il viaggio in Europa tra il 1634 e il 1636, che Hobbes intraprende al seguito del terzo conte del Devonshire: è infatti in questo periodo che egli prende coscienza della rivoluzione che stava accadendo nel campo della scienza e della filosofia. Ciò è dovuto soprattutto alla frequentazione del circolo di padre Mersenne, amico e collaboratore di Cartesio, che Hobbes in seguito descrive come «il polo intorno al quale girano tutte le stelle del mondo della scienza». Al termine di questo viaggio, nella primavera del 1636, Hobbes incontra personalmente Galilei, ad Arcetri. Non è un caso che nei tre anni immediatamente successivi a questo soggiorno Hobbes abbia concepito il proprio progetto di sistema, lavorando alla prima stesura di un’opera in latino che avrebbe dovuto recare il titolo Elementi di filosofia, articolata in tre sezioni: la prima riguardante i fondamenti della metafisica e della fisica, la seconda concernente 337

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La fuga dalla guerra civile

La prima esposizione del sistema

La lunga gestazione degli Elementi di filosofia

Il Leviatano

Le ultime opere contro le persecuzioni religiose

L’enigma dell’ateismo di Hobbes

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la percezione e diversi aspetti della natura umana, e la terza le implicazioni politiche di tali argomentazioni. L’attuazione di questo progetto viene interrotta dagli eventi politici: nel 1640, infatti, alla vigilia dell’inizio del cosiddetto «Parlamento Lungo», il timore di essere oggetto di future persecuzioni contro gli esponenti della corrente realista induce Hobbes a fuggire in Francia, dove rimane sino all’inverno del 1651-1652, per tutto il tempo delle amare traversie della guerra civile inglese. Prima di partire, Hobbes aveva però redatto un’opera in lingua inglese dal titolo Elementi di legge naturale e politica – pubblicata solo dieci anni dopo – che accorpava gli argomenti da trattare nelle sezioni seconda e terza dell’opera latina Elementi di filosofia, e che agli occhi di molti dei lettori dell’epoca e futuri rimane una delle migliori esposizioni della filosofia hobbesiana. Giunto in Francia, Hobbes decide di redigere e dare alle stampe quella che originariamente doveva essere l’ultima parte del sistema, cioè quella di argomento politico, nella convinzione che essa avrebbe trovato un maggiore interesse in ambiente francese: l’opera esce nel 1642, con il titolo Section Three of the Elements of Philosophy: The Citizen (De cive). Come il titolo chiaramente indica, egli aveva intenzione di far seguire dopo poco le sezioni prima e seconda, ma viene ostacolato sia dalla consapevolezza delle difficoltà teoriche del proprio sistema – maturata in seguito alla conoscenza più approfondita della fisica e metafisica moderne acquisita durante il nuovo soggiorno in Francia – sia dalle condizioni di povertà in cui viene a trovarsi durante l’esilio. La lunga gestazione della sua filosofia naturale si conclude dunque solo dopo il ritorno in Inghilterra: la prima sezione del sistema appare nel 1655, sotto il titolo Matter (De corpore), mentre la seconda sezione – intitolata Man (De homine) – esce nel 1658. Poco prima del rientro in patria, Hobbes aveva intanto pubblicato il suo capolavoro, cioè il Leviatano, considerato come la «prima grande opera filosofica in inglese». Il nucleo della teoria politica in esso sostenuta non differisce di molto dalle tesi degli Elementi di legge naturale e politica e del De cive; tuttavia, l’aperta critica della teologia ortodossa anglicana e le prese di posizione in materia di politica religiosa ed ecclesiastica – cui sono dedicati gli ultimi due libri dello scritto – attirano contro Hobbes le accuse di ateismo, di eresia e di tradimento della causa realista da parte dei suoi vecchi amici: accuse alimentate dal trattamento di favore di cui il filosofo effettivamente gode sotto il protettorato di Oliver Cromwell. La situazione cambia, però, notevolmente in seguito alla restaurazione monarchica (1660-1688): in particolare, dal 1666 sino alla sua morte Hobbes vive nuovamente nel timore – già provato alla vigilia dello scoppio della guerra civile – di essere o imprigionato o esiliato per le sue opinioni. Si trattava di un pericolo reale: basta qui ricordare che un membro del Corpus Christi College di Oxford fu privato di una borsa di studio, perché «accusato di essere un seguace di Hobbes e un ateo». In questo clima di paura e di intolleranza, non sorprende che il tema centrale delle ultime opere hobbesiane – come il Dialogo tra un filosofo ed uno studente del Common Law inglese e il Behemoth – sia costituito dall’eresia, o meglio dalla critica delle persecuzioni per eresia. Grazie alla protezione di personalità influenti, Hobbes riesce tuttavia a restare in Inghilterra senza subire alcuna sanzione. Si ammala e muore all’età di novantuno anni. Diverse furono le dicerie che circolarono sul suo stato mentale al momento della morte – sempre fonte di acuto interesse quando si trattava di un sospetto ateo. È certo che egli non incontra un prete né prende i sacramenti, cosa giustifi-

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cata dagli amici con la morte improvvisa. Il suo epitaffio, da lui stesso composto, suona orgogliosamente profano: «Questa è la tomba di un vero filosofo».

La vita e le opere Thomas Hobbes nacque a Malmesbury, il 5 aprile del 1588. Nel 1592 iniziò i suoi studi; nel 1602 la sua conoscenza delle lingue classiche era già così buona da poter tradurre in giambi latini la Medea di Euripide. Nel 1608 conseguì a Oxford il baccellierato delle Arti e si iscrisse all’università di Cambridge, che non frequentò perché iniziò a lavorare come precettore per i conti del Devonshire. Nel 1610 compì il suo primo viaggio sul continente, a cui ne seguirono altri come accompagnatore di giovani appartenenti alla nobiltà. Nel 1628 pubblicò la sua prima opera, una traduzione della Storia della guerra del Peloponneso di Tucidide. Nel 1640 fece circolare tra i suoi amici alcune copie manoscritte degli Elementi di legge naturale e politica, una sintetica, ma completa, esposizione del suo sistema, pubblicata solo nel 1689; in quello stesso anno si trasferì a Parigi dove rimase in esilio per undici anni. Qui nel 1641 scrisse, su invito di Mersenne, le Terze obiezioni alle Meditazioni metafisiche di Cartesio scontrandosi duramente con il filosofo francese. Nel 1642 uscì il De cive («Il cittadino»), la terza parte del suo sistema intitolato complessivamente Elementa philosophiae («Elementi di filosofia»); le altre due uscirono invece in Inghilterra, se-

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condo l’ordine di esposizione, e sono il De corpore («Il corpo»), del 1655, e il De homine («L’uomo»), del 1658. Nel frattempo, al suo ritorno in Inghilterra nel 1651, aveva pubblicato il Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, considerato universalmente il suo capolavoro. Nel 1654 permise l’uscita di un suo piccolo trattato intitolato Della libertà e necessità che era il frutto di un confronto con il vescovo John Bramhall, conosciuto a Parigi durante l’esilio. Hobbes si era impegnato a non pubblicarlo e la sua scorrettezza provocò una risposta aspramente critica dell’ecclesiastico; a cui Hobbes reagì con un’opera uscita postuma, nel 1682. Nel 1661 entrò in polemica anche con lo scienziato e filosofo Robert Boyle a causa della sua concezione del vuoto. A partire dal 1666 iniziò lo studio della giurisprudenza inglese per difendersi dalle accuse di eresia che gli vennero rivolte, e di questo suo impegno sono testimonianza varie opere, tra le quali il Dialogo tra un filosofo ed uno studente del Common Law inglese, uscito postumo nel 1681, e il Behemoth, scritto intorno al 1670 e uscito postumo tra il 1679 e il 1682. Hobbes morì nel 1679 in casa dei conti del Devonshire e fu seppellito nella cappella del loro castello.

Il monismo materialistico hobbesiano

L’itinerario di Hobbes è, come quello di Cartesio, un viaggio attraverso lo scetticismo e una liberazione da esso: egli condivide con il filosofo francese l’esigenza di sostituire allo scetticismo tardo-rinascimentale una filosofia ispirata alla visione galileiana, incorporando però all’interno della propria teoria gli argomenti classici usati dagli stessi scettici, come la critica dell’affidabilità dei sensi. Scetticismo riguardo Come Cartesio, infatti, Hobbes rigetta la convinzione dogmatica che esista un rapall’affidabilità dei sensi porto di verosimiglianza e una corrispondenza tra ciò che percepiamo attraverso i sensi e il mondo esterno. Egli sostiene che i sensi non ci fanno conoscere le essenze delle cose – cioè le cose come sono in sé – ma unicamente «sembianze e apparimenti», ovvero ciò che delle cose esterne ci appare. Per esempio, come risulta chiaramente dal caso dell’immagine del sole riflessa in un corso d’acqua, l’immagine di una cosa vista non sta nella cosa stessa, cioè non è una sua proprietà: il sole non si trova nel lago, in cui pure a volte vediamo la sua immagine; quest’ultima dunque non è nel sole, bensì piuttosto esclusivamente in colui che vede. Le immagini delle cose e il colore – così come pure il suono e le altre sensazioni – non sono, dunque, nulla di reale al di fuori di noi, bensì esprimono solo degli stati del soggetto senziente, il quale può sapere solo come gli oggetti gli appaiono nella percezione, ma non sa se quel che percepisce sia immaginario o meno. Corpi e moto Contro il dubbio cartesiano, Hobbes nutre, però, la convinzione che vi sia realmente qualcosa al di fuori di noi, e che questo qualcosa siano i «movimenti» dai quali le nostre sensazioni e i nostri concetti sono causati, assieme ai corpi sogScetticismo e filosofia galileiana

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getti di tali movimenti. Eccetto i corpi nello spazio, infatti, non vi è nulla che possa muoversi, dal momento che movimento significa un cambiamento nella posizione spaziale, e solo i corpi occupano lo spazio.

T1

Corpi in movimento unica realtà T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, 1,2,10

Una risposta materialistica al dubbio scettico

I concetti di spazio e tempo: fantasmi di corpi e moti

Meri costrutti mentali

Deduzione razionale delle nozioni di corpo e moto

Rapporto tra corpo e moto

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[…] qualunque sorta di accidenti o qualità i nostri sensi ci inducano a pensare che esistano al mondo, in realtà non vi si trovano, ma sono solo sembianze ed apparimenti. Le cose che realmente si trovano nel mondo esterno sono quei movimenti, dai quali quelle sembianze sono causate […] Assumendo i corpi e il moto come l’unica vera realtà – cioè come principi di spiegazione di tutto ciò che si presenta nella nostra mente, esistenti indipendentemente da questa – Hobbes elabora dunque una risposta allo scetticismo rigorosamente materialistica, che rappresenta un’alternativa radicale rispetto alla metafisica di Cartesio. La fondazione più matura della propria visione materialistica e meccanicistica della realtà Hobbes la offre nella seconda sezione del De corpore, cioè la Filosofia prima, avente per oggetto la deduzione e definizione dei principi fondamentali di ogni conoscenza. Il punto di partenza della deduzione è costituito dai concetti di spazio e tempo. A differenza di Cartesio – che concepisce lo spazio come estensione, e dunque come sostanza corporea (vedi Unità 3, p. 148 s.) – Hobbes ritiene che esso non sia un’entità reale, bensì qualcosa di semplicemente immaginato, cioè un mero concetto mentale. Nessuno può mai, infatti, fare un’esperienza diretta dello spazio in sé, che può invece essere pensato solo come qualcosa di occupato da un corpo: esso è dunque «il fantasma di una cosa che esiste in quanto esiste», cioè l’immagine di un corpo considerato esclusivamente nella sua esteriorità rispetto a noi. Allo stesso modo, il tempo è un «fantasma di moto»: possiamo avere un’esperienza diretta di oggetti in movimento in una determinata successione secondo un prima e un poi, ma non del ‘tempo’ in cui essi si muovono. Così intesi, spazio e tempo costituiscono per Hobbes i concetti più semplici che si presentano alla mente dell’uomo, vale a dire quelli che resterebbero in essa anche qualora tutte le cose che circondano l’uomo venissero distrutte, secondo la cosiddetta «ipotesi annichilatoria». Pur essendo due meri costrutti mentali, spazio e tempo consentono di ricavare dall’interno della mente due nozioni indipendenti dalla mente stessa, cioè rispettivamente quella di corpo e di moto. La presenza del concetto di spazio nella nostra mente si spiega, infatti, solo ammettendo l’esistenza di un corpo come qualcosa di reale e oggettivo, che sta al di là dell’immagine di spazio e al di fuori della nostra mente. Allo stesso modo, il tempo – in quanto è l’immagine del movimento secondo una successione cronologica – ci consente di ricavare per via razionale l’esistenza del moto al di fuori di noi. Il corpo e il movimento risultano dunque come l’unica realtà oggettiva, la cui esistenza non può mai essere esperita dall’uomo – il quale è rinchiuso nella cella della sua mente e nelle barriere invalicabili della sua soggettività – ma può tuttavia essere supposta attraverso una deduzione razionale fondata. Il rapporto tra corpo e moto è concepito da Hobbes nei termini del rapporto tra sostanza e accidente. Il corpo è la sostanza, in quanto è ciò che non dipende dal nostro pensiero e dalla nostra immaginazione, e permane a prescindere dalle alterazioni che subisce. Il moto è uno degli accidenti della sostanza-corpo, o meglio quello da cui dipendono tutti gli altri.

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T2

Il corpo è l’unica sostanza

T. Hobbes, Leviatano, 3,34

La parola corpo, nella sua accezione più generale, significa ciò che riempie o occupa un certo spazio o un luogo immaginato e non dipende dall’immaginazione, ma è una parte reale di ciò che chiamiamo l’universo. Infatti, essendo l’universo l’aggregato di tutti i corpi, non c’è parte reale di esso che non sia anche corpo […]. È chiamato anche, perché i corpi sono soggetti a cambiare, vale a dire, ad apparire in modo vario al senso delle creature viventi, sostanza, vale a dire soggetto a vari accidenti, talvolta ad essere mosso, talvolta a star fermo, e a sembrare ai nostri sensi, talvolta caldo, talvolta freddo, talvolta di un colore, odore, sapore o suono, talvolta di un altro. Attribuiamo questa diversità di sembianza (prodotta dalla diversità dell’operazione dei corpi sugli organi del nostro senso) alle alterazioni dei corpi che operano e le chiamiamo accidenti. Conformemente a questa accezione della parola, sostanza e corpo significano la stessa cosa […]

Nella visione hobbesiana, ogni cambiamento della realtà fisica ha alla sua base un contatto tra due corpi, in virtù del quale uno di essi trasmette movimento all’altro, causando in quest’ultimo l’assunzione di nuovi accidenti, o la perdita di alcuni di quelli precedentemente posseduti. Di conseguenza, il movimento costituisce per Hobbes l’unica «causa universale» di tutti i mutamenti che avvengono in natura. Il movimento è il principio di spiegazione anche dei cambiamenti delle nostre percezioni delle cose: le alterazioni che attribuiamo ai corpi esterni – quali le variazioni di temperatura – non sono altro, infatti, che movimenti negli organi del soggetto senziente, causati a loro volta da movimenti dei corpi esterni. Meccanicismo Sulla base di queste premesse, Hobbes fonda una interpretazione dell’universo e determinismo rigorosamente meccanicistica e deterministica, concependo la realtà come una necessaria successione di cause ed effetti, prodotti dal movimento dei corpi e dal➥ Percorso tematico, p. 753 la trasmissione del movimento stesso da un corpo all’altro. Il moto come «causa universale» del mutamento

Corpi e moto nel sistema di Hobbes

Dubbio sulla corrispondenza tra concetti della mente e realtà

Concetti che rimangono dopo l’ipotesi annichilatoria, ossia dopo che tutto è stato distrutto

Spazio come «fantasma di un corpo»

Tempo come «fantasma di un moto»

I concetti di corpo e moto sono indipendenti dalla nostra mente e possono essere stati causati solo da qualcosa di esterno

Dobbiamo supporre che i corpi esistano

Dobbiamo supporre che il moto esista

La negazione delle sostanze incorporee L’attacco al dualismo cartesiano

La totale identificazione che Hobbes stabilisce tra il concetto di sostanza e il concetto di corpo è alla radice di un monismo materialistico, che lo induce a negare l’esistenza di una sostanza pensante, e il conseguente dualismo cartesiano del341

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Validità del cogito

Erronea identificazione tra il soggetto e i suoi atti

T3

La negazione della sostanza pensante

T. Hobbes, Terze obiezioni e risposte alle Meditazioni metafisiche

le sostanze. Pur riconoscendo la validità della proposizione «penso, dunque sono», Hobbes ritiene, infatti, infondato il tentativo cartesiano di dedurre dal cogito l’esistenza di una sostanza pensante distinta dalla corporea. Nel primo gruppo delle Terze obiezioni alle Meditazioni metafisiche di Cartesio – redatte da Hobbes nell’inverno 1640-1641, raccolte da padre Mersenne assieme a quelle di altri autori e pubblicate in calce alla prima edizione dell’opera – egli sostiene che: 1) l’affermazione «penso dunque sono» è costruita correttamente perché il predicato è contenuto analiticamente nel soggetto: «io penso quindi sono una cosa pensante» è una tautologia che afferma solo l’esistenza di un soggetto capace di compiere quell’azione. Tanto è vero che il medesimo valore dimostrativo lo ha anche la proposizione «io passeggio quindi sono una cosa passeggiante»; 2) la proposizione «io penso, dunque sono pensiero», invece, non è altro che una connessione impropria di termini, altrettanto assurda quanto l’affermazione «passeggio, dunque sono una passeggiata». La x che pensa, cioè il soggetto di quell’atto che è il pensiero, potrebbe essere benissimo, infatti, qualcosa di corporeo e materiale. E in effetti proprio questa è la posizione di Hobbes, che ritiene inammissibile la scissione ontologica del pensiero dalla materia: l’anima umana è materiale, e non potrebbe non esserlo, dal momento che, secondo Hobbes, tutti i suoi atti – anche quelli intellettuali – non sono che movimenti, prodotti dai movimenti dei corpi esterni. L’insieme di tutti questi movimenti o proprietà (o attributi) è quello che Hobbes chiama «essenza», contrapponendola a ciò che è, ossia alla sostanza. Dal fatto che io sono pensante segue «che io sono», poiché quel che pensa non è un niente. Ma dove il nostro autore [Cartesio] aggiunge: «cioè uno spirito, un’anima, un intelletto, una ragione», là nasce un dubbio. Poiché non mi sembra un ragionamento ben dedotto dire: «io sono un pensante», dunque «io sono un pensiero»; oppure «io sono intelligente, dunque io sono un intelletto». Poiché nella stessa guisa potrei dire «io sono passeggiante», dunque «io sono una passeggiata». Il signor Descartes, dunque, prende la cosa intelligente, e l’intellezione che ne è l’atto, per una medesima cosa; o, almeno, dice che è lo stesso la cosa che intende, e l’intelletto che è una potenza o facoltà di una cosa intelligente. Nondimeno tutti i filosofi distinguono il soggetto dalle facoltà e dai suoi atti, cioè dalle sue proprietà e dalle sue essenze; poiché altro è la cosa stessa che è, ed altro la sua essenza. Può dunque darsi che una cosa che pensa sia il soggetto dello spirito, della ragione o dell’intelletto e, pertanto, che sia qualcosa di corporeo; ed il contrario di questa ipotesi è assunto, o postulato, ma non provato […]

Hobbes e il cogito

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Cartesio

Penso dunque sono (una cosa che pensa)

Penso dunque sono pensiero (una sostanza pensante)

Hobbes

Questa proposizione di Cartesio è esatta, perché afferma solamente che se qualcosa pensa, allora qualcosa esiste

Questa proposizione di Cartesio è sbagliata perché il fatto che una sostanza sia capace di un determinato atto non significa che quell’atto corrisponda alla sua essenza

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Più in generale, a partire dall’equazione tra sostanza e corpo, Hobbes nega come una contraddizione in termini la possibilità di ogni forma di sostanza incorporea. Nel Leviatano, questa posizione è fatta valere esplicitamente a proposito degli angeli e degli spiriti, che egli concepisce materialisticamente come «corpi sottili»: di contro, nella prospettiva hobbesiana dire che essi sono sostanze incorporee nel senso di «non corpi» equivale a dire che essi non esistono affatto, dal momento che per Hobbes nulla esiste al di fuori dei corpi. Nelle opere pubblicate in vita – fatta eccezione per l’Appendice all’edizione latina del Leviatano, uscita nel 1668 – Hobbes non osa applicare il medesimo ragionamento anche a proposito di Dio, probabilmente per ragioni di prudenza. Lo scontro Le conseguenze eversive della posizione hobbesiana rispetto alla tradizione teologicon Bramhall ca ortodossa non sfuggirono, però, ai suoi contemporanei: nello scritto La cattura del sulla natura di Dio Leviatano (1658), l’arcivescovo John Bramhall – ecclesiastico di spicco nella Chiesa anglicana – taccia espressamente di ateismo la negazione hobbesiana delle sostanze incorporee, indicando come un’inevitabile conseguenza di essa la negazione di Dio. La secolare tradizione teologica difesa da Bramhall concepisce infatti Dio come puro spirito, a partire dal presupposto che la corporeità sia incompatibile con la infinitezza divina: ciò che è corporeo è divisibile e dunque finito, in quanto – veniva argomentato – ciò che è composto di parti finite non può che essere finito:

Le sostanze incorporee sono «corpi sottili»

egli [Hobbes] distrugge il vero essere di Dio e non lascia nulla al suo posto se non un nome vuoto. Infatti cancellando tutte le sostanze incorporee, cancella Dio stesso. […] O Dio è incorporeo o è finito e consiste di parti, e di conseguenza non è Dio. Questa dottrina, che non esistono spiriti incorporei, è la principale radice dell’ateismo, dalla quale vengono ogni giorno germogliando tante minori ramificazioni.

Nello scritto di replica a queste critiche, Risposta al libro pubblicato dal dott. Bramhall, uscito postumo, Hobbes difende invece esplicitamente la tesi opposta – cioè la tesi della corporeità di Dio – e nega le implicazioni ateistiche di questa posizione, sulla base di due argomentazioni di ordine differente: 1) dal punto di vista filosofico, la tesi della incorporeità di Dio è una contraddizione in termini: a partire dal presupposto che il reale sia corporeo, e che nulla possa esistere se non è corpo, Hobbes sostiene, infatti, che affermare la natura incorporea di Dio equivalga a negare la sua esistenza; Il richiamo 2) dal punto di vista delle Sacre Scritture – che Hobbes considera come l’unica alla tradizione ebraica testimonianza attendibile del contenuto di fede originario della religione ebraico-cristiana – la tesi dell’incorporeità di Dio non ha ai suoi occhi nessuna conferma testuale. Secondo l’interpretazione hobbesiana, infatti, la cultura ebraica, quale si esprime nell’Antico Testamento, si muoveva all’interno di un orizzonte sostanzialmente materialistico, e neppure il Nuovo Testamento si sbilancia mai in affermazioni esplicite sul carattere spirituale della divinità. Soltanto la contaminazione della tradizione giudaico-cristiana con la filosofia platonica e aristotelica – alla radice della teologia scolastica – avrebbe introdotto la credenza nell’incorporeità di Dio. Anche Dio è corporeo

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La corporeità di Dio T. Hobbes, Risposta a Bramhall

[…] dire che Dio è una sostanza incorporea è come dire in effetti che non c’è affatto alcun Dio. Che cosa adduce egli [Bramhall] contro le mie tesi se non la teologia scolastica cui ho già risposto? Della Scrittura non può portare nulla, poiché nella Scrittura non c’è la parola incorporeo. […] Egli dice: Dio o è incorporeo o è 343

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finito. Egli sa che io nego entrambe le cose e affermo che è corporeo e infinito. Affermazione contro la quale egli non offre alcuna prova, ma che, secondo il suo consueto modo di disputare, si limita a definire come la radice dell’ateismo. Hobbes e il fideismo: Dio non è oggetto di scienza

Filosofia come conoscenza genetica

Una teologia personale ed eversiva fondata sulla tesi della corporeità di Dio

Contro Spinoza, Dio è infinito ma divisibile

L’atteggiamento di Hobbes nei confronti della teologia è ambiguo e complesso. Da un lato, alla teologia scolastica e più in generale a ogni forma di teologia, Hobbes contrappone una concezione fideistica della religione, vale a dire la convinzione che Dio non possa essere oggetto di scienza, bensì possa solo essere creduto, sulla base della testimonianza del dato rivelato. Quest’ultimo non ha alcun valore conoscitivo, bensì esclusivamente pratico: secondo la definizione del De corpore, infatti, la filosofia o scienza è la rigorosa conoscenza razionale degli effetti mediante le loro cause e mediante il loro processo genetico e, viceversa, delle «possibili generazioni» mediante la conoscenza dei loro effetti; Dio, in quanto ingenerato, non dovrebbe dunque rientrare tra i temi d’indagine della filosofia e della scienza, così intese. Dall’altro lato, però, pur dichiarando l’inconoscibilità di Dio in termini filosofici, lo stesso Hobbes non si limita a rimandare al dato rivelato – in cui credere o non credere – bensì ne offre un’elaborazione razionale, interpretandolo alla luce del proprio pensiero filosofico materialistico. In questo modo, Hobbes elabora, sia pure in forma non sistematica, una propria teologia fortemente eversiva, incardinata proprio sulla tesi della corporeità di Dio, che egli – come Spinoza – non considera indegna della divinità, sia pure sulla base di argomenti diversi da quelli del filosofo olandese. Spinoza sostiene, infatti, l’infinitezza e indivisibilità della stessa materia, se considerata come attributo di Dio, e non come modo finito (vedi Unità 5, p. 236 s.). Hobbes non nega, invece, che la materia sia divisibile, bensì ritiene che non vi sia contraddizione tra infinitezza e divisibilità, in quanto entrambe non sono proprietà oggettive, bensì semplici concetti mentali: l’aggettivo infinito non esprime nient’altro che la nostra incapacità di concepire i limiti dell’oggetto cui lo riferiamo, così come la divisibilità non sta a indicare una separazione o scomposizione reale, bensì semplicemente la considerazione intellettuale di una cosa secondo le sue parti. In questa prospettiva, non risulta contraddittorio affermare che Dio, pur essendo infinito, è corporeo e dunque divisibile: anche una grandezza infinita può, infatti, essere considerata nelle parti finite che la compongono, per quanto non sia possibile considerarla in tutte le sue parti, dal momento che, per Hobbes, infinito è ciò di cui non «sono concepibili delle parti così lontane, che non se ne possa ancora immaginare di più lontane».

La teologia di Hobbes Negazione della teologia

Concezione fideistica della religione: Dio non è oggetto di scienza

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I contenuti della Rivelazione hanno solo una finalità pratica: dicono agli uomini cosa fare

Teologia non ortodossa e fortemente eversiva

Corporeità di Dio

Divisibilità di Dio

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley

4 La sensazione come origine di ogni conoscenza

Il «fantasma» dell’oggetto

Il conato, l’infinitesimo del moto

T5

Le cause della sensazione T. Hobbes, De corpore

La teoria della conoscenza Tra la visione materialistica e meccanicistica appena illustrata e la concezione hobbesiana della conoscenza vi è un nesso strettissimo. Per Hobbes il punto di partenza di ogni conoscenza è costituito dai concetti della nostra mente, la cui fonte originaria consiste sempre nella sensazione; sensazione che egli concepisce meccanicisticamente come un movimento degli organi di senso, provocato da movimenti dei corpi esterni. Si è visto che il moto per Hobbes non può mai essere prodotto a distanza, ma solo per contatto diretto con un corpo contiguo: il moto all’origine della sensazione inizia dunque nella parte più esterna dell’organo senziente, che subisce la pressione di un altro corpo. Da qui il moto si comunica poi fino alla parte più interna dello stesso organo di senso, da cui deriva il «fantasma» o l’immagine che siamo soliti chiamare oggetto sentito. Hobbes spiega inoltre in termini altrettanto meccanicistici per quale motivo l’oggetto della sensazione appaia come esterno e indipendente da noi, pur essendo prodotto da una parte interna dell’organo senziente: ciò dipende ai suoi occhi dal fatto che il movimento che si propaga dal corpo esterno verso le parti più interne dell’organo senziente suscita necessariamente una reazione di quest’ultimo, cioè un movimento dell’organo stesso verso l’esterno – opposto alla pressione iniziale – che fa apparire ciò che è interno come esterno. Secondo Hobbes i movimenti che determinano il nostro rapporto con la realtà, sia quelli dall’esterno verso l’interno che quelli opposti, sono infinitesimali, e il termine con cui egli definisce l’unità minima, l’infinitesimo del moto, è conato. Questo moto impercettibile è presente nell’organo di senso: Hobbes argomenta la sua esistenza sottolineando che, se non esistesse questa autonoma capacità interna dell’organo di muoversi sotto la pressione di un mutamento esterno, l’organo non potrebbe restare uguale a se stesso, mantenendo ogni sua parte unita alle altre. Quindi il corpo del soggetto che sente deve necessariamente essere attivo, nonostante l’apparente passività della sensazione e la sensazione è un evento mentale, un concetto che nasce per reazione allo stimolo esterno. Se i fenomeni sono i principi di conoscenza di tutte le altre cose, si deve dire che la sensazione è il principio della conoscenza di quegli stessi principi e che ogni scienza deriva da essa […]. Prima di tutto, dunque, sono da ricercare le cause della sensazione, cioè le cause di quelle idee e di quei fantasmi che, noi che sentiamo, per esperienza avvertiamo che continuamente ci nascono dentro, e il modo in cui procede la loro generazione. Per questa ricerca è necessario, in primo luogo, osservare che i nostri fantasmi non sono sempre i medesimi, ma che dei nuovi nascono e subentrano in noi e che dei vecchi svaniscono, a seconda che gli organi della sensazione si rivolgano ora a un oggetto ora a un altro. Dunque, essi sono generati e periscono, dalla qual cosa si intende che essi sono un mutamento del corpo senziente. Ora, che ogni mutamento sia un moto o un conato (e anche il conato è moto), nelle parti interne del corpo che si muta, è stato dimostrato dal fatto che, fin quando le parti anche più piccole di un corpo conservano tra loro la medesima posizione, non gli capita niente di nuovo (se non fosse che possa muoversi nella sua interezza), anzi esso è e sembra che sia lo stesso che è ora e sembrava prima. La sensazione del senziente, dunque, non può essere altro che un moto di parti in345

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terne del senziente, e queste parti mosse sono parti degli organi con cui sentiamo. Infatti, le parti del corpo, attraverso le quali si ha una sensazione, sono quelle stesse che comunemente chiamiamo organi della sensazione. Abbiamo dunque, ora, il soggetto della sensazione, cioè quello in cui sono i fantasmi e, in parte, anche la sua natura, cioè sappiamo che cosa è un moto interno nel senziente. È stato dimostrato inoltre che un moto non può essere generato che da un corpo mosso e contiguo. Da ciò si intende che la causa immediata della sensazione è l’organo toccato e premuto. Se, infatti, si preme la parte più esterna dell’organo, cedendo essa, si premerà anche la parte interna che è la più vicina, e così continuamente, finché si giunge a ciò da cui, come dalla sua fonte, deriva lo stesso fantasma che si ha dalla sensazione. E questo, qualunque cosa sia, si vuole chiamare oggetto. Una sensazione, dunque, è un moto interno nel senziente, un moto generato da un moto interno delle parti dell’oggetto e propagato attraverso tutti i mezzi alla parte più interna dell’organo. E con queste parole si è quasi definito che cosa è la sensazione. Parimenti, si è dimostrato (cap. XV, art. 2) che ogni resistenza è un conato contrario a un altro conato, cioè una reazione. Poiché, dunque, al moto, dall’oggetto propagato attraverso tutti i mezzi alla parte più interna dell’organo, si ha una resistenza dell’intero organo o una reazione attraverso il moto naturale interno dello stesso organo, si ha per questo un conato dell’organo opposto al conato dell’oggetto; così che, quando quel conato verso l’interno è l’ultima azione nell’atto della sensazione, allora finalmente, da quella reazione, che dura per un pezzo, viene fuori lo stesso fantasma: e questo, poiché il conato è verso l’esterno, sembra sempre come qualcosa collocato fuori dall’organo. Dunque, proporremmo la definizione della sensazione, facendola consistere nella spiegazione delle sue cause e nell’ordine della sua generazione, così: la sensazione è un fantasma fatto per reazione dal conato verso l’esterno dell’organo della sensazione, generato da un conato verso l’interno dell’oggetto, un fantasma che rimane per un pezzo. Per Hobbes, la sensazione – cioè l’effetto dell’azione attuale e immediata di un oggetto esterno sui nostri organi sensoriali – costituisce il primo tipo di concetti che si presentano alla nostra mente. Il secondo tipo consiste nelle idee, che nella prospettiva hobbesiana non sono altro che immagini sensibili sfuocate. La genesi delle idee è spiegata sempre in termini meccanicistici, attraverso un efficace paragone: l’acqua di uno stagno, messa in moto dal lancio di una pietra, non cessa di muoversi appena la pietra affonda, bensì permane in un movimento che diventa via via più debole; allo stesso modo, l’effetto prodotto dall’oggetto sul cervello non viene meno nel momento stesso in cui cessa il rapporto tra oggetto e organo di senso, ma permane, seppure affievolito e oscuro. Questo concetto sbiadito che resta nella mente anche dopo l’atto del senso – per svanire a poco a poco – è ciò che Hobbes definisce immagine della cosa o idea. Il rifiuto dell’innatismo L’identificazione tra le immagini sensibili delle cose e le idee – e la conseguente riconduzione di tutti i concetti della nostra mente alla sensazione – ha per conseguenza la negazione delle idee innate. Nelle sue Obiezioni alle Meditazioni metafisiche, Hobbes critica esplicitamente la concezione cartesiana della nozione di Dio e di anima come ‘idee innate’, e questo proprio perché con il termine idea egli non intende, come Cartesio, un qualsiasi oggetto del pensiero, bensì esclusivamente le immagini delle cose derivate dalla sensazione: «Dov’egli [Cartesio] dice che l’idea di Dio e della nostra anima è innata in noi, io vorrei sapere se le Dalla sensazione alle idee

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anime di quelli che dormono profondamente e senza sogno alcuno pensano. Se non pensano, esse non hanno allora nessuna idea; e pertanto non v’è idea innata in noi, poiché ciò che ci è innato è sempre presente al nostro pensiero». Sensazioni e idee in Hobbes Oggetto esterno

La conoscenza originaria come ricordo dell’ordine delle sensazioni

Il nesso causale deriva dall’abitudine e dalla ripetizione

La conoscenza sensibile è «prudenza»

T6

I limiti della conoscenza sensibile T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, 1,4

Conato verso l’interno

Organo della sensazione: è la causa immediata della sensazione

Conato di reazione verso l’esterno

Un’immagine mentale (fantasma) o sensazione viene generata dalla reazione dell’organo senziente

Quando l’oggetto esterno scompare la sensazione si affievolisce e diventa un’idea

Le sensazioni e le idee, nell’accezione empiristica appena illustrata, sono il fondamento di quella che Hobbes definisce «conoscenza originaria» o conoscenza di fatto, consistente nel ricordo dell’ordine in cui si sono succedute le nostre sensazioni. La conoscenza originaria si forma esclusivamente sulla base di esigenze pratiche, che spingono gli uomini a ricordare le sensazioni esperite e a connettere tra loro più idee. Per esempio, è solo l’esigenza di individuare i mezzi più adatti per un determinato fine che induce l’uomo comune a connettere le proprie idee secondo il legame di causa ed effetto, formando congetture sul passato e previsioni del futuro, come quando alla vista di una nuvola siamo portati a supporre che pioverà. I nessi causali che il soggetto stabilisce sulla base della propria esperienza empirica non hanno, però, valore universale: essi non rispecchiano, infatti, un ordine oggettivo valido sempre e per tutti, in cui l’effetto sia in qualche modo implicito in una causa. Per Hobbes si tratta piuttosto di mere connessioni di idee, operate dal soggetto sulla base dell’abitudine a vedere che la sensazione di ciò che chiamiamo causa precede regolarmente la sensazione di ciò che chiamiamo effetto, in modo tale che, al presentarsi dell’idea della prima (per esempio: la nuvola), le si collega nella nostra mente l’idea del secondo (per esempio: la pioggia). Un legame del genere è garantito solo dalla più o meno numerosa ripetizione delle esperienze, in un progressivo accrescersi delle probabilità, che non consente però mai di raggiungere quella universalità e certezza, che sono i tratti distintivi della scienza. Per questo motivo, Hobbes definisce la conoscenza sensibile come semplice «prudenza» – cioè come una forma di sapere pratico di natura esclusivamente congetturale, acquisito principalmente sulla base della quantità di esperienze accumulate – allo scopo di metterne in rilievo la differenza rispetto alla scienza vera e propria, che egli identifica con la filosofia. 9. Quando si siano osservati uguali antecedenti seguiti da uguali conseguenti, così spesso che ogniqualvolta si vede l’antecedente ci si aspetta di nuovo il conseguente, o quando si vede il conseguente si fa conto che ci sia stato un uguale antecedente, allora, sia l’antecedente che il conseguente si chiamano segni l’uno dell’altro, come le nuvole sono un segno di pioggia futura, e la pioggia, di nuvole passate. 10. Questa assunzione di segni dall’esperienza è il modo in cui solitamente si 347

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pensa che consista la differenza tra uomo e uomo nella sapienza, con cui comunemente si intende l’intera capacità o potere conoscitivo dell’uomo. Ma questo è un errore; infatti, quei segni sono solo congetturali, e la loro certezza è maggiore o minore a seconda che essi abbiano deluso spesso o raramente, ma non è mai piena ed evidente; infatti, per quanto un uomo abbia sempre visto il dì e la notte susseguirsi l’uno all’altro fino ad ora, egli non può tuttavia concludere da questo che essi così faranno, e che così abbiano fatto eternamente. L’esperienza non giunge a conclusioni universali. Se i segni si ripresentano in venti casi contro uno, si può scommettere venti a uno un manifestarsi dell’evento, ma non si può concludervi con certezza assoluta. Ma con questo, è evidente che congettureranno meglio coloro che hanno maggiore esperienza, perché hanno a disposizione più segni sui quali congetturare; ed è questa la ragione per cui i vecchi sono più prudenti, cioè esprimono migliori congetture, ceteris paribus [posti in condizioni simili], dei giovani. Infatti, essendo più vecchi, ricordano di più e l’esperienza non è che ricordo. E gli uomini di pronta immaginazione, ceteris paribus, sono più prudenti di quelli di immaginazione lenta, perché osservano di più in minor tempo. E la prudenza non è altro che congettura basata sull’esperienza, o assunzione di segni dall’esperienza in modo avveduto […]

I nomi, la ragione e la scienza La conoscenza originaria o sensibile non consente all’uomo di pervenire a conclusioni universali, in quanto i concetti sensibili sono sempre concetti di cose individuali, la cui connessione non può mai produrre risultati universalmente validi. Hobbes rifiuta, infatti, sia la teoria aristotelica delle forme – secondo la quale gli universali sono entità reali immanenti nelle cose sensibili – sia la dottrina platonica delle idee, che li concepiva come entità altrettanto reali, esistenti nell’universo trascendente dell’iperuranio. Il nominalismo Di contro, Hobbes riprende e radicalizza, invece, il nominalismo sostenuto, neldi Hobbes l’ambito della disputa scolastica sugli universali, da Guglielmo di Ockham (1280 ca.-1347), secondo il quale l’universale non esiste nelle cose, ma soltanto nell’intelletto, essendo nient’altro che un segno mentale atto a raccogliere in una stessa classe una serie di individui con caratteristiche affini. Anche Hobbes ritiene, infatti, che «non vi è nulla di universale, tranne i “nomi” universali», cioè quei nomi come «uomo» che – a differenza dei nomi propri (come «Socrate») – servono per raggruppare un gran numero di idee simili.

Il problema degli universali

T7

Non vi è nulla di universale al di fuori dei nomi T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, 1,5

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5. […] Poiché da diverse cose riceviamo concetti simili, molte cose devono avere necessariamente lo stesso appellativo. Così, a tutte le cose che vediamo, diamo il medesimo nome di visibile; e a tutte le cose che vediamo in moto, diamo l’appellativo di mobile. E quei nomi che diamo a molti, si chiamano universali a tutti loro; come il nome uomo lo è ad ogni particolare dell’umanità: gli appellativi che diamo ad un’unica cosa si chiamano individuali o singolari; come Socrate, e altri nomi propri […]. 6. Questa universalità di un solo nome nei confronti di più cose, è stata la causa per cui gli uomini pensano che le cose stesse siano universali. E sostengono seriamente, che oltre a Pietro e Giovanni, e tutto il resto degli uomini che esistono, sono esistiti o esisteranno al mondo, vi è pure qualcos’altro che chiamiamo

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uomo, e cioè l’uomo in generale, ingannando se stessi col prendere l’universale, o appellativo generale, per la cosa che esso significa. Infatti, se uno chiede a un pittore di eseguirgli il ritratto di un uomo, che è quanto dire di un uomo in generale, egli non intende niente più di questo: che il pittore sceglierà quell’uomo che gli piaccia ritrarre, il quale deve necessariamente essere qualcuno di quelli che esistono, sono esistiti o possono esistere, nessuno dei quali è universale. Ma quando volesse fargli dipingere il ritratto del re, o di una data persona, egli limita il pittore a quella sola persona che egli stesso sceglie. È chiaro, quindi, che non vi è nulla di universale tranne i nomi […] I nomi sono convenzioni

T8

I nomi nascono dall’arbitrio T. Hobbes, De corpore, 1,2

Il linguaggio come caratteristica dell’uomo

Linguaggio e scienza

Le classificazioni della scienza sono convenzioni

Nel pensiero hobbesiano questa impostazione nominalistica è connessa a una concezione convenzionalistica del nome, contrapposta a quella naturalistica di matrice aristotelica, secondo la quale i nomi rispecchierebbero la natura stessa delle cose; per Hobbes, invece, i nomi non sono altro che semplici contrassegni sensibili imposti arbitrariamente dagli uomini ai concetti, per richiamarli alla mente e comunicarli agli altri, come è attestato dalla enorme varietà di nomi adoperati nelle diverse lingue per designare i medesimi concetti. 4. Il nome è una voce umana usata ad arbitrio dell’uomo, perché sia una nota con la quale possa suscitarsi nella mente un pensiero simile ad un pensiero passato e che, disposta nel discorso e profferita ad altri, sia per essi segno di quale pensiero si sia prima avuto o non avuto in colui stesso che parla. Che io abbia supposto che i nomi sono nati dall’arbitrio degli uomini, ho ritenuto per brevità cosa nient’affatto dubbia che potesse senz’altro essere assunta: infatti, chi vede ogni giorno nascere nuove parole, abolire le vecchie, parole diverse in uso presso diverse popolazioni, e vede infine che tra le cose e le parole non c’è nessuna similitudine e che nessun paragone può essere istituito, come può farsi venire in mente che le nature delle cose abbiano offerto a se stesse i propri nomi? Il ‘vantaggio dei nomi’ è ciò che differenzia l’uomo dalle bestie: gli animali, privi di strumenti per fissare la propria memoria, non possono trarre alcuna utilità dalle esperienze passate, in quanto non sono in grado di richiamarle alla mente nel momento in cui ne hanno bisogno; l’uomo può invece intervenire consapevolmente e volontariamente nell’organizzazione del processo conoscitivo, imponendo nomi ai propri concetti, in modo da potere disporre di essi secondo le proprie esigenze. Sulla base della riduzione degli universali a semplici nomi, Hobbes attribuisce inoltre a questi ultimi una funzione essenziale nella costituzione della scienza: il linguaggio è ciò che rende gli uomini capaci di scienza. Soltanto i nomi universali permettono, infatti, di sostituire alla serie di connessioni tra concetti singoli – che, per quante volte siano ripetute, non consentono di formulare conclusioni universalmente valide – un’unica connessione tra due termini universali. Anche il raggruppamento di certe idee singolari sotto un unico nome universale non rispecchia, però, un dato ordine ontologico, vale a dire un ordine delle cose realmente esistente, bensì è per Hobbes il frutto di una scelta arbitraria e di un implicito accordo tra i parlanti, che convengono di usare un determinato nome per designare un certo insieme di idee, e non un altro: per esempio, che il nome universale «cane» includa i «sanbernardo» ed escluda le «volpi» dipende dal fatto che i parlanti hanno tenuto in maggiore considerazione il rapporto domesti349

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co con l’uomo (sia il volpino sia il sanbernardo sono animali domestici, mentre la volpe è selvatica), piuttosto che la morfologia dell’animale, in virtù della quale la volpe, che ha dimensioni e aspetto più simili al cane volpino che non il sanbernardo, avrebbe dovuto essere classificata anch’essa come «cane». Il ragionamento Questo procedimento di composizione e scomposizione di nomi e concetti è ciò come tratto distintivo che Hobbes intende per «ragionamento», indicando in esso lo strumento princidella scienza pale e il tratto distintivo della filosofia, cioè della scienza in generale. A partire dal De corpore, egli identifica ogni possibile forma di ragionamento con un calcolo di addizione e sottrazione, affermando che il calcolo non si riferisce solo ai numeri, bensì a grandezze, corpi, moti, tempi, azioni, discorsi, nomi. La mente compone in una sola idea le immagini che le si manifestano, attraverso operazioni di somma e sottrazione che corrispondono a quelle con cui i nomi vengono combinati tra loro; per esempio, la mente forma il concetto di uomo sommando tra loro le idee denominate con i nomi «corpo», «animato» e «razionale».

T9

Ragionare è calcolare

T. Hobbes, De corpore, 1,1, 2-3

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[…] Per ragionamento, poi, intendo il calcolo. Calcolare è cogliere la somma di più cose l’una aggiunta all’altra, o conoscere il resto, sottratta una cosa all’altra. Ragionare, dunque, è la stessa cosa che addizionare e sottrarre; e, se qualcuno volesse aggiungervi il moltiplicare e il dividere, non avrei niente in contrario, poiché la moltiplicazione non è altro che l’addizione di termini uguali e la divisione la sottrazione di termini uguali tante volte quante è possibile. Si risolve, quindi, ogni ragionamento, in queste due operazioni della mente: l’addizione e la sottrazione. 3. In che modo, poi, noi, con la mente, senza parole, con tacita riflessione ragionando, siamo soliti addizionare o sottrarre, si deve mostrare con uno o due esempi. Se uno, dunque, da lontano vede qualcosa oscuramente, anche se non è stato imposto alcun vocabolo, ha tuttavia di quella cosa la stessa idea per la quale, imponendo ora dei nomi, dice che quella cosa è un corpo. Quando la cosa si è avvicinata ed egli in un determinato modo la vede ora in un luogo ora in un altro, avrà di essa un’idea nuova, per la quale chiama ora questa cosa animata. Da ultimo, quando, trovandosi in prossimità di quella cosa, ne vede la figura, ne ascolta la voce e coglie le altre cose che sono i segni di una mente razionale, si forma una terza idea, anche se finora non c’è stato un suo nome, la stessa, cioè, per la quale diciamo che qualcosa è razionale. Finalmente, quando, vista la cosa completamente e distintamente, la concepisce nella sua totalità come una, la sua idea è composta da quelle precedenti, e la mente compone le idee predette nello stesso ordine in cui nel discorso questi singoli nomi corpo, animale, razionale, sono composti in unico nome: corpo animato razionale o uomo. Allo stesso modo, dai concetti di quadrilatero, equilatero, rettangolo si compone il concetto di quadrato. Infatti, la mente può concepire il quadrilatero senza il concetto di equilatero e l’equilatero senza il concetto di rettangolo e questi singoli concetti può congiungere in un unico concetto o in un’unica idea, quella del quadrato. È chiaro, dunque, in che modo la mente compone i concetti. […] Non si deve, dunque, pensare che il calcolo, cioè il ragionamento, abbia luogo solo con i numeri, come se l’uomo si distinguesse dagli altri animali (ciò che si racconta pensasse Pitagora) unicamente per la facoltà di numerare. Infatti si possono aggiungere e sottrarre anche una grandezza ad una grandezza, un corpo ad un corpo, un moto ad un moto, un tempo ad un tempo, un grado di qualità ad un grado di qualità, un’azione ad un’azione, un concetto ad un concetto, una proporzione ad una proporzione, un discorso ad un discorso, un nome ad un nome: ed in questo consiste ogni genere di filosofia.

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley Il ragionamento secondo Hobbes

Assimilazione tra ragionare e calcolare

Il recupero della logica aristotelica all’interno di un sapere geometrico-matematico

La geometria come paradigma del convenzionalismo

Nomi: imposti per convenzione; anche il significato è deciso per convenzione: per esempio, includere o meno un certo individuo o un gruppo di individui in un universale

Per decidere viene utilizzato il ragionamento: esso opera sommando o sottraendo tra loro i nomi

corpo + animato = animale

corpo + animato + razionale = uomo

L’assimilazione tra ragionamento e calcolo esprime senza dubbio l’influsso esercitato sul pensiero hobbesiano dal «matematismo» tipico dell’epoca della rivoluzione scientifica, in cui il sapere geometrico-matematico si era imposto come modello di rigore scientifico. La convinzione che il metodo geometrico potesse e dovesse essere applicato a ogni sorta di oggetti è comune a diversi pensatori dell’epoca, da Cartesio a Spinoza. L’impostazione di Hobbes presenta, però, diversi caratteri peculiari, oltre all’interpretazione del metodo geometrico di analisi e sintesi in termini di sottrazione e addizione. In primo luogo, singolare è il tentativo hobbesiano di fondere il modello di sapere geometrico-matematico con l’impianto dimostrativo tradizionale della logica aristotelica. Per Hobbes, infatti, l’identificazione di ragionamento e calcolo trova la sua espressione migliore nelle operazioni di classificazione della realtà in generi e specie, che avviene attraverso gli strumenti tradizionali della logica aristotelica, cioè le proposizioni e i sillogismi. La proposizione «un uomo è un animale razionale» consiste nel sommare al genere animale la differenza specifica della specie uomo, cioè la razionalità. Allo stesso modo, per Hobbes il sillogismo «Se qualcosa è uomo, è anche animale; se qualcosa è animale, è anche corpo; dunque, se qualcosa è uomo, è anche corpo» non è che una somma di due addizioni, cioè quella dei termini «uomo» «animale» e dei termini «animale» e «corpo»: somma che ha come risultato generale l’addizione di «uomo» e «corpo». In secondo luogo, a differenza dei suoi contemporanei – come Cartesio e Galilei – Hobbes non assume la geometria come modello di scientificità in virtù della sua evidenza intuitiva, bensì per il suo carattere di costruzione convenzionale della ragione umana completa e perfetta. La geometria è ai suoi occhi una scienza esatta, perché fonda le sue dimostrazioni su una preliminare determinazione del significato univoco dei nomi, vale a dire su definizioni, che non lasciano spazio per fraintendimenti e approssimazioni; definizioni che egli intende sempre come il frutto di una convenzione arbitraria tra i membri della comunità scientifica. La confusione regnante negli altri rami della scienza dipende per Hobbes principalmente dal fatto che in essi non si è ancora proceduto a questo lavoro preliminare di definizione dei nomi usati.

Il rapporto problematico tra scienza ed esperienza Se la scienza è convenzione che rapporto ha con il mondo?

La teoria hobbesiana della conoscenza non è priva di tensioni e difficoltà. Si è visto, infatti, che Hobbes nega alla conoscenza empirica – derivante dalla sensazione – lo statuto di scientificità: di contro, egli concepisce la scienza come una costruzione interamente convenzionale della ragione umana, cioè come un calcolo su definizioni il cui contenuto non riflette l’ordine reale del mondo, bensì è 351

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La fisica è una delle scienze del movimento

Geometria come sapere deduttivo e certo perché costruito da noi

Fisica come sapere a posteriori e induttivo

Un sapere ipotetico

Fisica come scienza del moto

La fisica: «filosofia prima», sapere geometrico e verifica sperimentale

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il frutto di una convenzione umana. Così intesa, la scienza rischia, però, di smarrire ogni legame con il mondo, e di perdere ogni funzione in vista della conoscenza di quest’ultimo. Reciso ogni nesso con l’esperienza, la scienza si riduce, infatti, a un puro esercizio di analisi, consistente nel dedurre le conclusioni già implicite nelle definizioni – cioè nei nomi preliminarmente imposti ai concetti – e dunque incapace di allargare gli orizzonti del sapere umano. Hobbes appare consapevole di questo rischio e, per evitarlo, attribuisce uno statuto particolare alla scienza della natura. Da un lato, Hobbes si sforza di inserire la fisica galileiana in un sistema compatto di scienze, unificate dal fatto di avere tutte il medesimo oggetto d’indagine, vale a dire il movimento dei corpi, sia pure considerato sotto diversi aspetti: dalla geometria – intesa come la scienza che esamina le figure che si generano mediante il movimento di punti, linee e solidi – alla meccanica e alla fisica, che studiano gli effetti prodotti dal moto di un corpo su un altro corpo; sino alla morale e alla politica, concepite rispettivamente come scienza che studia i moti degli animi in generale, e in rapporto al costituirsi della società politica. Dall’altro lato, Hobbes si rende conto che nel campo della fisica non può valere l’ideale deduttivo del sapere geometrico e matematico. La geometria è una scienza che procede solo attraverso dimostrazioni a priori senza alcun ricorso all’esperienza – giungendo in questo modo a conclusioni necessarie – perché siamo noi stessi a creare i suoi principi, cioè le figure geometriche: possiamo conoscere le proprietà di queste ultime, deducendole a priori come effetti necessari dalle loro cause, che ci sono note, in quanto non sono altro che movimenti di punti e linee messi in atto da noi stessi. L’idea che l’uomo possa conoscere con verità solo ciò di cui è artefice sarà ripresa dal filosofo Giambattista Vico, che la esprimerà con la formula latina «verum ipsum factum» (vedi Unità 9, p. 492), che significa appunto che il vero coincide con ciò che è stato fatto da noi stessi, essendo la scienza conoscenza del modo in cui una cosa viene generata. Nello studio dei fenomeni naturali, invece, le cose stanno diversamente: le cause di essi non sono, infatti, in nostro potere, bensì nel potere del divino autore della natura. Di conseguenza, non possiamo dedurre a priori le proprietà di essi dalle loro cause, ma dobbiamo procedere in maniera opposta, attraverso una dimostrazione a posteriori, vale a dire una dimostrazione che va per induzione dagli effetti, esperiti attraverso i sensi, alle loro cause. Questo tipo di dimostrazione a posteriori non ha la stessa necessità di quella con cui il geometra dimostra i suoi teoremi: la causa cui possiamo risalire partendo dagli effetti è, infatti, solo una causa possibile, e la spiegazione scientifica dei fenomeni fisici è dunque inevitabilmente ipotetica. Ciò non significa che la fisica sia al di fuori del sistema delle scienze: la vera fisica non procede, infatti, in maniera puramente sperimentale, facendo completamente a meno delle dimostrazioni a priori. Le azioni dei corpi sui corpi che ne costituiscono l’oggetto appartengono sempre alla materia, e hanno come unica causa il moto; di conseguenza, anche nella fisica valgono i principi generali riguardanti il moto e la quantità, enucleati attraverso dimostrazioni a priori – a partire da definizioni convenzionali – in sede di geometria e di meccanica razionale. Questo significa che non può essere condotta nessuna dimostrazione a posteriori a partire dai fenomeni naturali, se le teorie ipotizzate per spiegarli non sono coerenti con il quadro teorico convenzionale istituito a priori dalla «filosofia prima», vale a dire la parte del sistema hobbesiano contenente le definizio-

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley

ni delle nozioni generali di cui fa uso la scienza, compresi i principi della geometria: in questo senso, la vera fisica si fonda per Hobbes sulla geometria. Tuttavia, l’indispensabile coerenza di tutte le possibili spiegazioni fisiche con tale quadro non è di per sé sufficiente a decidere quale sia l’ipotesi corretta, tra due o più ipotesi alternative capaci di spiegare in termini geometrico-meccanici un dato fenomeno; a tale scopo, è indispensabile procedere a una verifica sperimentale.

T10

Dimostrazioni a priori e dimostrazioni a posteriori

T. Hobbes, De homine, 10

4. […] quella scienza per la quale sappiamo che un teorema proposto è vero, è una cognizione derivata dalle cause o dalla generazione dell’oggetto, attraverso un retto ragionamento. Al contrario, la scienza, per la quale sappiamo solo che è possibile che un teorema sia vero, è una cognizione derivata, attraverso un ragionamento legittimo, dall’esperienza degli effetti. E tutte e due queste derivazioni si suole, in verità, chiamarle dimostrazioni: tuttavia, la prima è preferibile alla seconda, e questo giustamente, giacché giova più sapere in che modo possiamo nella maniera migliore servirci delle cause presenti che conoscere quale fu l’irrevocabile passato. Perciò agli uomini è stata concessa una scienza fondata su siffatta dimostrazione solo di quelle cose la cui generazione dipende dal suo stesso arbitrio. 5. Sono, dunque, dimostrabili moltissimi teoremi intorno alla quantità, la cui scienza si chiama geometria. Ed invero le cause della proprietà, che le singole figure posseggono, sono implicite in quelle linee che noi stessi tracciamo; e le generazioni delle stesse figure dipendono dal nostro arbitrio. Onde, per conoscere una qualunque proprietà di una figura, altro non è necessario che considerare tutto ciò che consegue alla costruzione che facciamo nel disegnare la figura. Proprio per il fatto che siamo noi stessi a creare le figure, avviene che c’è una geometria e che è dimostrabile. Al contrario, poiché le cause delle cose naturali non sono in nostro potere, bensì nella volontà divina, e poiché la massima parte di esse, come per l’appunto l’etere, è invisibile, noi, che non le vediamo, non possiamo dedurne le proprietà dalle cause. Tuttavia, dalle stesse proprietà che vediamo, deducendo le conseguenze fin dove è concesso procedere, possiamo dimostrare che le loro cause han potuto essere queste o quelle. Questa dimostrazione si dice a posteriori e la stessa scienza si dice fisica. E, poiché nelle cose naturali che nascono dal moto non è possibile procedere neppure con un ragionamento a posteriori, senza la cognizione di ciò che consegue ad una qualunque specie di moto, e non è possibile giungere alle conseguenze dei moti senza la cognizione della quantità, che è la geometria, non può accadere che certe cose non debbano essere dimostrate, con una dimostrazione a priori, anche dal fisico.

La fisica secondo Hobbes Fisica

È inserita in una gerarchia di scienze

Procede per dimostrazioni a posteriori: dagli effetti verso le cause

È un sapere ipotetico perché le cause sono solo possibili

Utilizza i principi generali e a priori della geometria e della meccanica razionale

Richiede anche una verifica sperimentale per scegliere tra le varie ipotesi possibili

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5

Antropologia e morale

Anche l’antropologia hobbesiana è sistematicamente inserita nel più ampio ambito di un cosmo meccanicisticamente inteso, di cui l’uomo è parte, senza differenziarsi per principi suoi dall’universale elemento di spiegazione, vale a dire il moto dei corpi. In questa cornice, Hobbes spiega in termini rigorosamente meccanicistici e materialistici le passioni umane. Per Hobbes lo stesso movimento alla radice della sensazione – vale a dire il movimento dei nostri organi interni provocato dal contatto con un corpo esterno – una volta propagatosi sino al cuore genera l’appetito o l’avversione. Appetito e avversione sono anch’essi nient’altro che movimenti, cioè l’inizio, sia pure impercettibile, del movimento animale rispettivamente per avvicinarsi all’oggetto che ne è la causa o per allontanarsene, a seconda che esso segua o ostacoli il nostro istinto all’autoconservazione. Appetito e piacere Hobbes identifica inoltre appetito e piacere, concependo il secondo come la semplice manifestazione esterna e visibile del primo (così come il dolore lo è per l’avversione).

Materialismo e meccanicismo determinano anche le passioni umane

T11

La genesi dell’appetito e dell’avversione

T. Hobbes, Leviatano, 1,6

Il piacere come continua ricerca

T12

L’uomo desidera senza sosta T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, 1,7

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Così, nel senso, quel che è realmente entro di noi, come ho detto prima, è solo movimento causato dall’azione degli oggetti esterni, ma in apparenza per la vista è luce e colore, per l’orecchio suono, per le narici odore, ecc.; così quando l’azione dello stesso oggetto si continua dagli occhi, dalle orecchie, dagli altri organi al cuore, l’effetto reale lì non è altro che movimento o sforzo [conato], consistente in un appetito verso l’oggetto movente o in un’avversione da esso. Ma l’apparenza o senso di quel movimento è ciò che chiamiamo Diletto oppure Disturbo della mente. Identificare appetito e piacere equivale a dire che il vero piacere non consiste nella cessazione del desiderio, che segue al raggiungimento di ciò cui si aspira, bensì nel procedere senza ostacoli, nei limiti del possibile, da un desiderio a un altro ancora maggiore: come è attestato dal fatto che la maggior parte degli uomini, una volta conseguito quanto desideravano – come ricchezze o onori – non sono soddisfatti, bensì continuano a profondere le loro energie per ottenere una quantità maggiore di ricchezze o un grado superiore di onori. In altri termini, l’uomo è per Hobbes incapace di trovare un appagamento definitivo, bensì è necessitato dalla sua natura a desiderare sempre più rispetto a quanto possiede o ha raggiunto. Nella prospettiva hobbesiana, uno scopo ultimo non esiste e non può esistere, perché la vita è continuo movimento, incessante desiderio; poiché l’appetito si accompagna alle sensazioni, l’uomo che non desiderasse nulla non sentirebbe nulla, e quindi non vivrebbe affatto. 7. Poiché ogni piacere è un appetito, e l’appetito presuppone un fine più lontano, non vi può essere contentezza se non nel continuarlo a desiderare: e quindi non dobbiamo meravigliarci, quando vediamo che quanto più gli uomini ottengono ricchezze, onori o altro potere, tanto più il loro appetito continuamente cresce; e quando essi sono giunti all’estremo grado di un tipo di potere, ne perseguono qualche altro, persistendo in un tipo, fino a che pensino di essere inferiori a qualcun altro. […] E gli uomini giustamente si dolgono, del fatto di non saper cosa fare. La felicità, quindi (con cui intendiamo un piacere continuo) consiste, non nell’aver prosperato, ma nel prosperare.

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley Le passioni si differenziano per il loro oggetto

Appetito e avversione sono per Hobbes le passioni più elementari. I nomi adoperati per designare le altre passioni non indicano, infatti, nient’altro che svariati tipi di appetiti e avversioni, i quali si differenziano principalmente in base all’oggetto desiderato o aborrito, e in base all’opinione che gli uomini hanno di raggiungere ciò che desiderano o di essere colpiti da ciò che avversano.

Deliberazione, volontà e azione Azioni deliberate e azioni impulsive

I limiti della capacità di deliberare

Negazione della libertà di scelta e concezione meccanicistica della volontà

Azioni e omissioni sono necessitate causalmente

Le azioni involontarie sono costrizioni

T13

La critica della libertà di scelta

T. Hobbes, Della libertà e necessità

Hobbes definisce deliberazione quello stato della mente che precede un’azione in nostro potere, in cui si alternano l’appetito – che ci indurrebbe ad agire – e il timore delle possibili conseguenze dell’azione in questione, che ci distoglie dal compierla. Non tutte le azioni sono precedute dalla deliberazione: quando ci comportiamo impulsivamente, l’azione segue, infatti, all’appetito in maniera immediata. Inoltre, va da sé che la deliberazione non può avere luogo nelle azioni involontarie, vale a dire quelle azioni che compiamo sotto la costrizione immediata di qualcuno o di qualcosa (come quando, per esempio, cadiamo e in conseguenza di ciò urtiamo un altro): possiamo deliberare, infatti, solo a proposito delle azioni che è in nostra facoltà compiere o non compiere. Questa facoltà di compiere o non compiere un’azione – e la deliberazione stessa – non va confusa con la libertà di scelta: libertà che Hobbes nega, sulla base della propria concezione meccanicistica della realtà, che investe anche le funzioni dell’animo, compresa la volontà. Per Hobbes, quest’ultima costituisce sì ciò che pone fine alla deliberazione, ma non in quanto autodeterminazione incondizionata del soggetto ad agire o a tralasciare l’azione, bensì in quanto rappresenta «l’ultimo appetito o l’ultimo timore» immediatamente prima dell’azione o della sua omissione; appetito o timore che hanno la loro causa necessaria nel movimento del corpo esterno che li ha provocati. In altri termini, quando il succedersi di desiderio e timore in cui consiste la deliberazione si conclude con un appetito, allora si dice che l’uomo ha volontà di fare; quando invece esso si conclude con un timore, si dice che l’uomo ha volontà di tralasciare quell’azione. Le azioni e omissioni corrispondenti sono per Hobbes azioni e omissioni volontarie, ma non per questo libere, bensì necessitate quanto quelle involontarie, sia pure in modo differente: dal momento che nel cosmo hobbesiano nulla si muove da sé, la volontà – che è la causa necessaria delle azioni volontarie – è essa stessa determinata, in quanto appetito, da una concatenazione meccanica di cause; si è visto, infatti, che l’appetito non è altro che un movimento interno provocato in maniera necessaria dal movimento di uno o più corpi esterni. L’unica differenza tra le azioni involontarie e volontarie consiste nel fatto che nelle prime è l’azione che viene direttamente necessitata, cioè deriva da una costrizione (per esempio, l’essere trascinato in prigione); quando si agisce volontariamente, invece, non è direttamente l’azione, bensì è la volontà a essere determinata in modo necessario dal complesso di cause esterne che l’hanno provocata. In sesto luogo, ritengo che nulla tragga origine da se stesso, bensì dall’azione di qualche altro agente immediato diverso da esso stesso. E che perciò, quando un uomo abbia appetito o volontà per qualcosa, per cui immediatamente prima non aveva né appetito né volontà, la causa della sua volontà non è la volontà stessa, ma qualcos’altro che non è in suo proprio potere. Cosicché, posto che è fuori di355

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scussione che la volontà è la causa necessaria delle azioni volontarie, e che, in base a quanto detto, è anche causata da altre cose di cui essa non ha la disponibilità, ne consegue che le azioni volontarie hanno, una per una, cause necessarie, e sono quindi necessitate. Libertà come assenza di costrizione

Volontà e libertà

Per Hobbes, dunque, non ha senso parlare di libertà di volere, ma solo di libertà di fare ciò che si vuole, secondo cause necessarie. Negata la libertà d’arbitrio, l’unica libertà che egli ammette è la libertà d’azione, cioè l’assenza di costrizioni esteriori che ci impediscano di compiere quanto vogliamo fare o ci impongano di fare quanto vogliamo omettere.

Deliberazione: lo stato in cui si alternano desiderio e timore e che precede solo le azioni volontarie

Volontà: è determinata da una concatenazione meccanica di cause

l’ultima causa è un desiderio

l’ultima causa è un timore

volontà di fare: azione

volontà di omettere: omissione

Libertà: fare ciò che si vuole, secondo cause necessarie

Bene e male Sulla base della propria antropologia materialistica e della propria concezione convenzionalistica del linguaggio, Hobbes ritiene di potere offrire un fondamento scientifico al relativismo etico proprio di quella corrente dell’umanesimo in voga durante la sua giovinezza, rappresentata soprattutto dalle figure di Montaigne e di Giusto Lipsio (1547-1606), i quali sostenevano l’impossibilità di trovare un principio morale universale, in mezzo alla pluralità delle convinzioni e dei costumi umani. La relatività Per Hobbes bene e male sono, infatti, due parole come tutte le altre, cui non dei valori morali corrisponde alcuna entità naturale o metafisica; si tratta semplicemente dei due termini di cui gli uomini hanno arbitrariamente scelto di servirsi, per designare rispettivamente l’oggetto del proprio piacere e quello della propria avversione. Ora, piacere e dispiacere esprimono esclusivamente le passioni e volizioni di colui che sente, che altro non sono che movimenti provocati dall’influsso di un corpo esterno; dal momento che questi movimenti variano in base alla costituzione fisica di ogni soggetto, non ha senso parlare di un bene o di un male assoluti, vale a dire di un bene e di un male che siano tali per tutti gli uomini, ma solo di un bene e di un male relativi.

L’adesione al relativismo etico

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T14

Bene e male: concetti relativi T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, 1,7,3

Ogni uomo, dal canto suo, chiama ciò che gli piace ed è per lui dilettevole, bene; e male ciò che gli dispiace; cosicché, dato che ognuno differisce da un altro nella costituzione fisica, così ci si differenzia l’uno dall’altro anche riguardo alla comune distinzione di bene e male. Né esiste una cosa come l’agatòn aplòs, vale a dire il bene assoluto […]

In altri termini, a partire dalla identificazione del «buono» con il «piacevole», Hobbes tratta i concetti morali nella stessa maniera in cui tratta quelli dei colori o dei suoni, cioè le sensazioni: anche se il senso comune può indurci a credere che qualcosa sia realmente rosso, il rosso non è invece nulla di reale, bensì un’immagine che esiste solo nella nostra mente. La sensazione di colore deve essere compresa come ciò che appare a noi sotto l’influsso di qualcosa che non è in se stesso colore, bensì un semplice movimento di luce che si imprime nei nostri occhi. Analogamente, per Hobbes bene e male non sono proprietà etiche oggettive, bensì immagini mentali soggettive, scaturenti dall’impatto di qualcosa di esterno sul nostro sistema di volizioni e passioni. La ricerca Hobbes non considera, però, la disparata molteplicità di giudizi etici come un di una morale comune dato immodificabile, da accettare con rassegnazione. Egli dedica piuttosto gran parte della propria riflessione filosofica al tentativo di porre un rimedio al relativismo etico; e questo perché ritiene che la discordanza di opinioni riguardo a ciò che è giusto o ingiusto costituisca una delle principali cause di conflitto tra gli uomini. Bene è ciò che piace: l’edonismo di Hobbes

T15

La diversità di giudizi etici causa conflitti T. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino, 1,3,31

La politica come unico possibile strumento di costruzione di un’etica comune

➥ Sommario, p. 398

Ma i desideri degli uomini sono diversi per la diversità dei loro temperamenti, consuetudini, opinioni: come possiamo vedere nelle cose percepite con i sensi, ad esempio il gusto, il tatto, l’olfatto: ma ancora di più nelle cose che si riferiscono alle azioni comuni della vita, dove quello che uno loda, cioè chiama buono, viene biasimato da un altro come cattivo, e anzi, spessissimo, uno stesso uomo loda e biasima la stessa cosa in tempi diversi: finché gli uomini fanno così, di necessità nascono discordie e lotte. La questione cruciale è dunque per Hobbes quella di indicare una strada per uscire dal relativismo etico, senza però ricadere nell’errore di considerare bene e male come proprietà oggettive. In vista di tale scopo, l’unica strada possibile risulta essere, nella prospettiva hobbesiana, la politica, cioè l’istituzione di un potere sovrano che, con l’imposizione delle leggi civili, stabilisca un criterio per distinguere il giusto dall’ingiusto, che sia valido per tutti, o meglio per tutti i sudditi di una data comunità politica. In altri termini, Hobbes concepisce la disparata molteplicità di giudizi etici unicamente come il tratto distintivo della condizione degli uomini che vivono senza un’organizzazione politica, vale a dire nello «stato di natura» (vedi Unità 7, p. 419 ss.): al di fuori dello Stato, bene e male variano a seconda della differente costituzione fisica e mentale degli individui, ai quali piacciono cose diverse. Nello Stato, invece, la determinazione di ciò che è bene e di ciò che è male dipende sempre dall’arbitrio, ma di un unico soggetto (individuale o collettivo), vale a dire dall’arbitrio del detentore del potere sovrano. Ciò significa che la fondamentale condizione di possibilità di una morale condivisa è rappresentata dalla formazione del potere sovrano e dello Stato: questo tema è, non a caso, al centro della filosofia politica hobbesiana, che è esaminata, come si è detto, nel capitolo sul giusnaturalismo moderno. 357

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Locke

2 I testi

J. Locke Saggio sull’intelletto umano: La genesi del Saggio sull’intelletto umano, T16; L’innatismo come ostacolo al libero uso della ragione, T17; Nessun principio ottiene un assenso universale effettivo, T18; Sensazione e riflessione sono la fonte di tutte le idee, T19; Le idee di sostanza sono oscure e confuse, T20; I confini dei nostri pensieri, T21; Gli universali riguardano solo idee e parole, T22; Il problema della realtà della conoscenza, T23; I limiti angusti della conoscenza certa, T24; Il crepuscolo del probabile e la sua utilità, T25

1 Locke padre dell’empirismo

Il progetto reale di Locke: riformare il razionalismo

Definire i limiti della conoscenza

L’insofferenza verso il razionalismo del primo Seicento

358

Fede e ragione: La fede non può essere contraria alla ragione, T26 La ragionevolezza del cristianesimo: La legge di natura e i precetti morali del Vangelo, T27 Lettera sulla tolleranza: La fede opera attraverso l’amore, non con la forza, T28; La controversia tra le Chiese è irresolubile, T29; La coazione non può produrre una conversione interiore, T30; La cura delle anime non spetta allo Stato, T31; Non è lecito colpire i beni civili per motivi religiosi, T32

Tra empirismo e razionalismo John Locke è stato a lungo considerato come il fondatore del cosiddetto empirismo inglese moderno, nettamente contrapposto al razionalismo di Cartesio, Spinoza e Leibniz. Questa immagine è il frutto di una consolidata tradizione interpretativa, risalente già a Kant che, nella Critica della ragion pura, presenta Locke come il principale esponente moderno dell’indirizzo di pensiero facente capo ad Aristotele, secondo il quale l’esperienza è la fonte di tutte le conoscenze della ragione. Indirizzo empiristico che Kant oppone a quello di quanti, da Platone a Leibniz, hanno affermato che la conoscenza umana derivi unicamente dalla ragione, indipendentemente dall’esperienza. In realtà, l’empirismo di Locke non si oppone al razionalismo, bensì si propone piuttosto di riformarlo, cercando di fondere esperienza e ragione. Alla base di questo tentativo vi è, certo, una concezione della ragione e della conoscenza profondamente diversa rispetto a quella di Cartesio. Si è visto che per quest’ultimo la ragione è una facoltà conoscitiva assoluta, fondata sull’elemento metafisico della res cogitans («sostanza pensante») e dunque al di sopra di ogni condizionamento empirico: così intesa, la ragione è ritenuta capace di attuare un processo conoscitivo interamente a priori e intuitivo-deduttivo. Per Locke, invece, la ragione è una funzione conoscitiva condizionata dall’esperienza, dalla quale deriva tutto il materiale su cui essa opera e da cui le possibilità conoscitive dell’uomo risultano strutturalmente limitate. Prendendo le mosse da questi presupposti, Locke pone al centro della propria indagine filosofica la questione di comprendere e definire in maniera rigorosa quale sia l’estensione della conoscenza umana: questione cui è dedicata la sua opera principale, il Saggio sull’intelletto umano. Questa riforma del razionalismo, attraverso lo studio dei limiti empirici delle nostre facoltà conoscitive, è dettata in parte dall’insofferenza – che Locke condivide con gli scienziati sperimentali della seconda metà del Seicento – nei confronti

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del razionalismo della prima metà del secolo. Affermando l’esistenza di verità eterne, necessarie e dunque immodificabili, il razionalismo finiva per rinchiudere la ricerca scientifica sperimentale entro confini soffocanti. Di qui l’esigenza di delimitare i campi in cui in realtà l’uomo non può raggiungere dei risultati certi, definitivi e indiscutibili, ma deve piuttosto accontentarsi di conoscenze provvisorie, suscettibili di essere continuamente modificate e arricchite. Una ricerca che nasce Il ruolo determinante nella genesi dell’indagine lockiana sui limiti dell’intelletda un’esigenza pratica to umano è giocato, però, soprattutto da esigenze di carattere pratico, ossia riguardanti l’agire concreto in campo morale e/o religioso. Nell’Epistola al lettore, Locke stesso indica l’occasione che lo avrebbe spinto a redigere il Saggio sull’intelletto umano nella difficoltà, incontrata da lui e da alcuni amici, a trovare un accordo riguardo a un «argomento assai remoto» rispetto ai problemi di teoria della conoscenza, trattati nell’opera. L’argomento cui egli allude sono proprio problemi di morale e di religione, come è documentato dalle annotazioni di uno dei partecipanti a tali discussioni.

T16

La genesi del Saggio sull’intelletto umano

J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, Epistola al lettore

Essere consapevoli dei limiti della conoscenza per fondare tolleranza e convivenza

2 Il rifiuto della scolastica e l’interesse per la scienza

Se fosse il caso di annoiarti con la storia di questo Saggio, potrei dirti che cinque o sei amici, riuniti nella mia stanza, che discorrevano di un argomento assai remoto da quello qui trattato, si trovarono presto ad un punto morto, a causa delle difficoltà che sorgevano da ogni lato. Dopo esserci scervellati un poco senza avvicinarci di più alla soluzione di quei dubbi che ci rendevano perplessi, mi accadde di pensare che eravamo su una strada sbagliata; e che, prima di iniziare indagini di quella natura, era necessario esaminare le nostre capacità, per vedere quali oggetti il nostro intelletto fosse o non fosse in grado di trattare. Il filo che collega l’indagine gnoseologica e l’indagine etico-religiosa di Locke è costituito dalla questione della tolleranza (vedi p. 380 ss.) e della possibilità di una convivenza pacifica tra uomini di diverse confessioni religiose e diverse visioni politiche. Locke riconduce, infatti, gran parte dell’odio settario sprigionatosi durante la guerra civile inglese – e ancora radicato in molti suoi contemporanei – alla presunzione di ritenersi possessori di verità indubitabili. Di conseguenza, per estirpare l’intolleranza, egli ritiene indispensabile eliminare questa forma di presunzione, attraverso un’analisi del funzionamento della mente umana, volta a dimostrare che su tutta una serie di questioni – come i dogmi religiosi – l’intelletto umano non può pervenire alla certezza alla quale si perviene in altri campi del sapere. Per Locke, l’acquisizione della consapevolezza del fatto che su alcuni problemi nessuno è in possesso di risposte definitive – né mai potrà esserlo – dovrebbe renderci più tolleranti nei confronti delle opinioni altrui.

Un filosofo nel mondo Locke sviluppa le proprie convinzioni in materia di filosofia politica (per la quale rimandiamo all’Unità 7, p. 430 ss.) e di teoria della conoscenza non tanto – o almeno non solo – attraverso la lettura e la meditazione solitaria delle opere degli altri filosofi, passati e presenti, quanto piuttosto attraverso la pratica diretta delle scienze naturali e della politica. 359

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Un pensiero politico nato dall’esperienza

Il soggiorno in Francia

L’esilio in Olanda

Il ritorno in Inghilterra e l’intensa attività filosofica

La posizione definitiva sulla tolleranza

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Deluso dal carattere mnemonico e ripetitivo dell’insegnamento universitario della filosofia impartitogli presso il prestigioso Church Christ College di Oxford – dominato dalla scolastica aristotelica –, negli anni della formazione Locke dedica, infatti, le proprie energie intellettuali soprattutto allo studio delle scienze naturali e della medicina. È in questo periodo che egli entra in contatto e lavora con i principali medici e cultori di scienza sperimentale dell’Inghilterra dell’epoca; collaborazione che avrà come esito il suo ingresso nella Royal Society, nel 1668. Per la genesi del pensiero politico lockiano è invece determinante l’incontro con lord Ashley Cooper (1621-1683) – uno dei più influenti uomini di Stato dell’Inghilterra del tempo, fautore di una politica di pacificazione generale dei protestanti –, che nel 1667 lo assume come segretario personale. Da questo momento in poi, la biografia di Locke è legata alle alterne fortune del suo protettore, al cui fianco egli vive le vicende conclusive della travagliata storia inglese del Seicento. Stabilitosi a Londra nella residenza dei Cooper – la Exeter House –, per alcuni anni si occupa soprattutto di questioni economiche e amministrative, a causa degli incarichi che lord Ashley gli procura. Dopo che quest’ultimo perde la carica di cancelliere (1674), Locke è costretto a trasferirsi a lungo in Francia: dapprima soggiorna nei pressi di Montpellier, alla ricerca di un clima mite, più adatto per le sue sofferenze di asma; poi a Parigi, dove approfondisce lo studio delle opere di Cartesio. Tornato in Inghilterra, Locke riprende la frequentazione della Exeter House; ma quando lord Ashley è definitivamente esiliato per avere cospirato contro il tentativo di restaurazione assolutistico-cattolica di Carlo II, egli si rifugia in Olanda, dove è costretto per lungo tempo a vivere nascosto e può quindi dedicarsi alla stesura delle sue opere principali. Durante il soggiorno olandese, Locke entra inoltre in contatto con i principali esponenti della teologia rimostrante o arminiana (movimento che si oppone alla rigida interpretazione calvinista della dottrina della predestinazione) e con l’ambiente liberale di Guglielmo d’Orange. Quando questi diventa re d’Inghilterra – a seguito della seconda o «gloriosa Rivoluzione» (1688) – anche Locke torna a Londra (1689), dove è accolto come il rappresentante intellettuale e il difensore teorico del nuovo regime liberale. Non sorprende dunque che proprio in questo momento cominci il periodo più intenso della sua attività letteraria. A Londra Locke pubblica, nel 1690, le sue opere principali, di argomento politico e teoretico: il Saggio sull’intelletto umano, che è il frutto di una lunga elaborazione teorica, iniziata venti anni prima e documentata dal I Abbozzo e dal II Abbozzo; i Due trattati sul governo, generalmente considerati come una delle pietre miliari del liberalismo moderno, in quanto pongono come origine e scopo dell’ordine politico la tutela delle libertà del soggetto (questo aspetto del pensiero lockiano è oggetto di una trattazione separata nell’Unità 7 sul giusnaturalismo moderno). L’anno precedente era uscita, a Gouda in Olanda, la Lettera sulla tolleranza, che esprime la posizione definitiva di Locke su questo tema, oggetto di riflessione già in diversi scritti precedenti, i giovanili Trattati sul magistrato civile (1660-1662) e il Saggio sulla tolleranza (1667), rimasti inediti. Per replicare ai suoi critici, Locke torna poi sull’argomento in altre due lettere, uscite rispettivamente nel 1690 e nel 1692.

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley

La malattia respiratoria e l’insoddisfazione per il nuovo governo lo spingono a ritirarsi nel castello di Oates nell’Essex, ospite della figlia del platonico di Cambridge Ralph Cudworth (1617-1688), lady Damaris Masham (1658-1708). Qui trascorre operosamente gli anni prima della morte (1704), redigendo: i Pensieri sull’educazione, che prospettano un ideale pedagogico che rispetti l’unità tra mente e corpo; La ragionevolezza del cristianesimo e la Guida dell’intelletto – pubblicata postuma – che assume probabilmente come modello il cartesiano Discorso sul metodo. Locke nel ‘ritratto Lady Masham, che ospita Locke e gli presta assistenza negli ultimi anni della morale’ di Lady sua vita, ne traccia alla morte un ‘ritratto morale’ in cui, come tratti principali Masham della sua personalità, emergono l’apertura verso ogni genere di persone e di attività, e il rifiuto netto dell’atteggiamento dogmatico e presuntuoso di quanti si spacciano per i detentori della verità. La sua testimonianza è una delle fonti a cui attinge il filosofo e letterato francese Jean Le Clerc (1642-1731) che scrive una fondamentale biografia di Locke uscita nel 1705, immediatamente dopo la sua morte.

Il ritiro dalla vita pubblica e le ultime opere

Era […] un profondo filosofo e nello stesso tempo un uomo capace di condurre a termine gli affari più importanti. Aveva una conoscenza profonda ed ampia delle lettere e modi pieni di cortesia, che conquistavano. Aveva una buona cultura generale e conosceva a fondo ciò che aveva studiato, ma egli era al di sopra di tutte queste conoscenze perché non mostrava di avere migliore opinione di sé in considerazione del suo sapere. Meno di chiunque altro egli prendeva l’aspetto di maestro e usava un tono dogmatico, e non si offendeva per nulla se non venivano condivise le sue opinioni. […] Sapeva adattarsi al livello di comprensione delle menti più limitate, e discutere con loro senza per nulla diminuire la forza degli argomenti che essi adducevano contro di lui, a motivo della loro non buona esposizione. Conversava con piacere con ogni genere di persone e cercava di trarne profitto; cosa che faceva non solo per la buona educazione che aveva ricevuto, ma per la convinzione che aveva che non esiste persona da cui non si possa ricevere qualcosa di buono.

La vita e le opere John Locke nacque nel 1632 da una famiglia puritana. Nel 1652 entrò al Christ Church College di Oxford dove studiò le lingue classiche e la filosofia scolastica, ma frequentò anche i corsi di medicina e di scienze naturali. Nel 1658 terminò gli studi, si dedicò all’insegnamento e seguì con particolare attenzione lo scontro religioso e politico che si era riacceso in Inghilterra dopo la morte di Oliver Cromwell, avvenuta in quell’anno. In questo periodo le sue posizioni politiche erano filoassolutiste. Dal 1667 al 1675 diventò collaboratore e segretario di lord Ashley Cooper, futuro conte di Shaftesbury e nonno del filosofo settecentesco, che lo influenzò con le proprie idee sulla tolleranza: nel 1667 scrisse, infatti, il Saggio sulla tolleranza, che segnò un netto distacco dalle posizioni precedenti ma rimase inedito. Nel 1668 diventò membro della Royal Society; nel frattempo era divenuto amico di molti scienziati sperimentali come Robert Boyle. Nel 1671 scrisse il I Abbozzo e il II Abbozzo del Saggio sull’intelletto umano, i cui primi appunti risalivano al

1661 e che avrebbe pubblicato nel 1690. Nel 1672 lord Ashley lasciò la carica di cancelliere e dal 1675 al 1679 Locke soggiornò in Francia, prima a Montpellier e poi a Parigi, afflitto da gravi problemi di asma. Nel 1679 tornò in Inghilterra su richiesta di lord Ashley, che ricoprì nuovamente incarichi a corte, e nel 1681 scrisse i Due trattati sul governo, che pubblicherà solo nel 1690. Nel 1682, dopo la nuova caduta, la prigionia e la fuga di Shaftesbury, preferì rifugiarsi in Olanda entrando in contatto con la teologia arminiana. Nel 1689 tornò in Inghilterra al seguito del nuovo sovrano Guglielmo d’Orange e in quell’anno pubblicò l’Epistula de tolerantia («Lettera sulla tolleranza»), la sua unica opera in latino. Ma il suo fisico non sopportava l’aria di Londra e anche il nuovo governo lo deluse: così dal 1691 Locke si rifugiò in campagna, a Oates nell’Essex, presso lady Damaris Cudworth Masham, dove scrisse i Pensieri sull’educazione (1693), La ragionevolezza del cristianesimo (1695) e la Guida dell’intelletto, uscita postuma. Qui visse fino alla morte, avvenuta nel 1704.

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3 L’innatismo e gli obiettivi polemici di Locke

La teoria delle idee Il punto di partenza dell’indagine di Locke sulle facoltà conoscitive dell’uomo è costituito dalla critica dell’innatismo, vale a dire la tesi che vi siano alcune nozioni comuni impresse nella mente dell’uomo sin dalla nascita, in grado di garantire validità universale sia alla scienza sia alla morale. Gli obiettivi polemici più diretti di questa critica sono: 1) in primo luogo, il pensiero di Cartesio, che aveva presentato come idee innate le idee delle essenze vere, immutabili ed eterne delle cose (vedi Unità 3, p. 153 ss.); 2) in secondo luogo, la cosiddetta «scuola platonica di Cambridge» (XVII secolo) che, ispirandosi al neoplatonismo rinascimentale, aveva sviluppato un orientamento razionalistico alternativo alla tendenza empiristica e al materialismo meccanicistico degli altri grandi sistemi di pensiero anglosassoni, cioè la filosofia di Bacone e quella di Hobbes.

La critica dell’innatismo A prescindere da questi obiettivi polemici, che tra l’altro non sono mai espressamente menzionati, la confutazione lockiana delle idee innate risponde all’intento più generale di combattere l’accettazione cieca dei principi, deleteria sia in quanto ostacolo allo sviluppo della scienza sperimentale, sia in quanto base di ➥ Percorso tematico, p. 401 tutte le forme di oppressione politica. Secondo Locke, infatti, l’innatismo avrebbe costituito un pretesto per sottrarre alcune idee, in quanto innate, a ogni possibile discussione, facendole passare per principi da assumere in maniera incondizionata, senza sottoporli ad alcuna verifica. Contro la pigrizia La fortuna incontrata dall’innatismo sarebbe poi da imputare principalmente aldegli uomini la pigrizia della maggior parte degli uomini, poco propensi a impegnarsi in un esame critico dei fondamenti della propria visione del mondo e della propria condotta. Pigrizia che per certi versi è un’inclinazione naturale, per altri versi è una conseguenza delle varie occupazioni da cui si è assorbiti, in modo tale che si finisce per ritenere ovvio e scontato ciò che è stato acquisito negli anni di formazione, attraverso l’educazione e la scuola. In questa prospettiva, la critica di Locke all’innatismo risulta dunque, innanzitutto, come una esortazione al libero uso della propria ragione e all’elaborazione autonoma delle proprie esperienze. Contro l’accettazione cieca di qualsiasi principio

T17

L’innatismo come ostacolo al libero uso della ragione J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 1,3,25

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Quando si sono trovate proposizioni generali che, appena comprese, non potevano essere messe in dubbio, il passo era breve e facile per concludere che fossero innate. Una volta ammesso ciò, i pigri venivano sollevati dalle fatiche della ricerca e ai dubbiosi si precludeva l’indagine su tutto ciò che si chiamava innato. E non era di poco vantaggio per coloro che si facevano passare per maestri o insegnanti, di stabilire quale principio dei principi che i principi non devono essere posti in questione. Giacché, una volta stabilito il canone che ci sono principi innati, ciò metteva i loro seguaci nella necessità di accogliere certe dottrine come tali; il che significava distoglierli dall’uso della loro ragione e del loro giudizio e incoraggiarli a credere a queste dottrine e ad accettarle sulla fiducia senza ulteriore esame. In questa posizione di cieca credulità, potevano essere più fa-

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cilmente governati e resi più utili a quella specie di uomini che hanno l’abilità e la veste per dar loro principi e per guidarli. Non è certo un potere da poco che un uomo acquista su un altro, quando ha l’autorità di essere il dittatore dei principi e il maestro delle verità indiscutibili, e di far inghiottire ad un uomo come principio innato ciò che può servire allo scopo di chi glielo insegna. Se invece avessero esaminato i modi in cui gli uomini giungono alla conoscenza di molte verità universali, avrebbero trovato che esse risultano nello spirito degli uomini dall’essere delle cose stesse quando sono debitamente considerate; e che vengono scoperte mediante l’applicazione di quelle facoltà che sono naturalmente atte a farci ricevere queste verità e a giudicare di esse, quando sono adoperate nella maniera dovuta. La critica al consenso universale

Per Locke esiste solo l’innatismo attuale

I principi logici sono appresi

I principi giuridicopolitici sono un prodotto sociale

Le regole di condotta sono relative

L’argomento con il quale Locke pensa di potere confutare alla radice ogni posizione innatistica è la critica al preteso consenso universale: ossia la tesi secondo cui tutti gli uomini consentirebbero naturalmente e immediatamente sulla validità di alcune proposizioni, non appena queste ultime vengano formulate. Egli parte, infatti, dal presupposto che un’idea esiste nella mente solo se viene percepita dal soggetto, mentre, se non se ne ha coscienza, essa non esiste. A partire da questo presupposto, Locke ritiene contraddittorio il cosiddetto «innatismo potenziale», vale a dire la posizione di quanti – da Platone a Cartesio – avevano concepito le idee innate come principi presenti nella nostra mente sin dalla nascita solo in maniera implicita, e dunque bisognosi di essere sollevati a coscienza. Di contro, Locke riduce ogni forma di innatismo all’innatismo attuale, cioè alla tesi che vi siano dei principi di cui tutti gli uomini dovrebbero essere consapevoli, a prescindere dalle differenze di età e di provenienza sociale e geografica: motivo per cui, se la teoria innatistica fosse fondata, si dovrebbe registrare, a proposito delle presunte idee innate, un accordo universale. Ora, Locke ha buon gioco nel mostrare che qualcosa del genere non ha luogo – sia in campo teorico sia in campo pratico – appellandosi all’esperienza. In campo speculativo, anche quei principi che sembrano godere di un consenso universale – come i principi logici di identità e di non-contraddizione – non sono in realtà accettati da tutti: essi sono del tutto sconosciuti ai bambini e agli idioti, e in generale sono ignorati da tutti coloro che non hanno avuto occasione di apprenderli. In campo pratico, anche i principi che sembrano essere riconosciuti da tutti – come la giustizia e l’osservanza dei contratti – in realtà non godono di un consenso universale effettivo. Tutti i membri di un dato gruppo li rispettano, in quanto essi costituiscono i presupposti necessari per tenere insieme una qualsiasi forma di società; ciò non significa, però, che li riconoscano come principi pratici universali, come è attestato dal fatto che non si fanno scrupolo a violarli in rapporto ai soggetti esterni a quella data società (emblematico è il caso dei banditi che, pur osservando tra loro regole di lealtà e giustizia, derubano e aggrediscono gli uomini onesti). Per quanto riguarda gli altri principi, Locke osserva che una conoscenza anche superficiale della storia del genere umano o dei resoconti dei viaggi nei nuovi continenti è sufficiente per rendersi conto che non vi è alcuna regola di condotta che non sia condannata da intere società di uomini, guidati da regole completamente opposte. 363

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T18

Nessun principio ottiene un assenso universale effettivo J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 1,2

1. Se le massime speculative, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, non ottengono da tutta l’umanità un assenso universale effettivo, come abbiamo provato, è ancora più evidente, per quanto riguarda i principi pratici, che essi sono ben lungi dall’essere accettati universalmente. E credo che sarà difficile trovare l’esempio di una regola morale che possa pretendere ad un assenso così pronto e generale come la massima «Ciò che è, è», o di essere una verità così manifesta come il principio «È impossibile che la stessa cosa sia e non sia». Da ciò risulta evidente che i principi morali hanno ancora meno titolo degli altri ad essere innati, e il dubbio che si tratti di impressioni originarie nello spirito è ancora più forte che nell’altro caso. […] 2. Per sapere se ci sono principi morali sui quali tutti gli uomini sono d’accordo, mi appello a chiunque abbia una pur modesta conoscenza della storia del genere umano e abbia guardato al di là del fumo del proprio camino. Dov’è quella verità pratica che è universalmente ricevuta, fuor di ogni dubbio o questione, come dovrebbe accadere se fosse innata? La giustizia e l’osservanza dei contratti è una cosa sulla quale la maggior parte degli uomini sembrano concordare. Questo è un principio che si pensa debba estendersi ai covi dei ladri e alle compagnie dei peggiori scellerati; e coloro che più si allontanano dalla stessa umanità osservano tra loro fedeltà e regole di giustizia. Riconosco che gli stessi banditi fanno così fra di loro, ma lo fanno senza riconoscere queste regole come leggi naturali innate. Essi le mettono in pratica come regole di convenienza all’interno della loro comunità; ma è impossibile concepire che abbracci la giustizia come principio pratico colui che agisce equamente con i suoi compagni di banda e allo stesso tempo deruba e uccide l’onest’uomo che incontra. […] 10. Colui che si darà la pena di esaminare la storia del genere umano e di guardare le varie tribù di uomini e considererà senza pregiudizi le loro azioni potrà rendersi conto che non c’è quasi principio della morale o regola della virtù su cui si possa pensare (ad eccezione solamente di quelli assolutamente necessari per tenere insieme una società e che sono comunemente trascurati tra diverse società) che non sia da qualche parte disprezzato o condannato dalla moda generale di intere società di uomini, governate da opinioni pratiche e da regole di vita completamente opposte ad altre.

Un’attenzione particolare è dedicata poi da Locke alla confutazione del carattere innato dell’idea di Dio, che egli considera come il fondamento di tutti i principi pratici, indicando in Dio la fonte delle leggi morali e dell’obbligazione pratica (vedi Unità 7, p. 431 s.). In proposito, Locke si richiama soprattutto ai resoconti di viaggi nei nuovi continenti e nell’Estremo Oriente, che dimostravano che alcuni popoli, più o meno civilizzati, non solo non avevano un’idea di Dio simile a quella della tradizione ebraico-cristiana e possedevano concezioni estremamente rozze, ma erano perfino atei. Ma Dio esiste Locke tiene, però, a precisare che negare il carattere innato dell’idea di Dio non equivale a negare la sua esistenza, così come il fatto che gran parte dell’umanità non abbia né la nozione di calamita né un nome per designarla non prova in nessuna maniera l’inesistenza di essa. Secondo Locke, infatti, l’esistenza di Dio può essere provata a posteriori basandosi sul principio causale «Ogni cosa che ha inizio deve avere una causa» (vedi sotto, p. 375). L’idea di Dio non è innata

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley Locke e l’innatismo

Innatismo Attuale

Potenziale

Logico

Secondo Locke è contraddittorio: un’idea di cui non si ha coscienza non esiste

Pratico

Per esempio i principi di identità e di non contraddizione

Per esempio la giustizia

Per esempio le regole di condotta

Sono ignorati da chi non li impara, dai bambini e dagli idioti

Vale solo tra i membri di una stessa società

Ogni società e cultura ha le proprie

Idee semplici e idee complesse L’origine delle idee

Le forme dell’esperienza: sensazione e riflessione

Il senso interno

T19

Sensazione e riflessione sono la fonte di tutte le idee J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 2,1

Liberato il campo dall’ipoteca dell’innatismo, Locke dedica il II libro del Saggio allo studio sull’origine delle idee: se la mente umana è priva di idee innate, in principio essa non può che essere come un foglio bianco, privo di ogni carattere. Si tratta dunque di indagare da dove provengano le idee che si presentano via via all’uomo. Come Cartesio, Locke utilizza il termine «idea» in un’accezione molto ampia, per designare tutti i contenuti della mente, dalle immagini sensibili ai concetti astratti. A differenza di Cartesio, Locke ritiene, però, che tutte le idee possano avere origine soltanto dall’esperienza, che egli distingue nelle due possibili forme di sensazione e riflessione. La sensazione è l’esperienza esterna, vale a dire la percezione causata dall’influsso degli oggetti esterni particolari sui nostri sensi, dal quale derivano le idee delle qualità sensibili, come il giallo, il freddo, il dolce, e così via. La riflessione è invece l’esperienza interna, cioè la percezione delle operazioni interne della nostra mente, dalla quale derivano idee come quelle del pensare, del volere e così via. Questa percezione interna è originata da una specie di senso, anch’esso interno, comune a tutti gli uomini, che è in grado di percepire e osservare («riflettere») la mente mentre compie le proprie operazioni: gli uomini hanno quindi un accesso privilegiato a tutti i propri atti mentali (volizioni, pensieri, credenze, memorie ecc.). 2. Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo verrà ad esserne fornito? Da dove proviene quel vasto deposito che la fantasia industriosa e illimitata dell’uomo vi ha tracciato con varietà quasi infinita? Da dove si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’ESPERIENZA. Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da essa in ultimo deriva. La nostra osservazione adoperata sia per gli oggetti esterni sensibili, sia per le operazioni interne del nostro spirito che percepiamo e sulle quali riflettiamo, è ciò che fornisce al nostro intelletto tutti i materiali del pensare. Queste sono le due 365

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fonti della conoscenza, dalle quali scaturiscono tutte le idee che abbiamo o possiamo avere naturalmente. 3. In primo luogo, quando i nostri sensi vengono in rapporto con oggetti sensibili particolari, trasmettono allo spirito molte percezioni distinte delle cose, secondo i vari modi in cui quegli oggetti agiscono sui nostri sensi. E così veniamo ad avere le idee del giallo, del bianco, del caldo, del freddo, del morbido, del duro, dell’amaro, del dolce e di tutte quelle che chiamiamo qualità sensibili. E quando dico che i sensi le trasmettono allo spirito intendo che dagli oggetti esterni essi trasmettono allo spirito ciò che vi produce queste percezioni. Chiamo questa grande fonte della maggior parte delle idee che abbiamo, che dipendono interamente dai nostri sensi dai quali l’intelletto le deriva, SENSAZIONE. 4. In secondo luogo, l’altra sorgente dalla quale l’esperienza trae le idee che fornisce all’intelletto è la percezione delle operazioni del nostro spirito in noi stessi, così com’è applicato alle idee che ha; operazioni che, quando l’anima ci riflette e le considera, forniscono all’intelletto un altro insieme di idee che non potrebbero essere ottenute dalle cose esterne. Tali sono il percepire, il pensare, il dubitare, il credere, il ragionare, il conoscere, il volere e tutte le diverse azioni del nostro spirito; e giacché ne siamo consapevoli e le osserviamo noi stessi, ne riceviamo nel nostro intelletto idee altrettanto distinte quanto quelle che ci provengono dai corpi che agiscono sui nostri sensi. Ogni uomo ha in sé questa fonte di idee; e sebbene non si tratti di un senso, poiché non ha nulla a che fare con gli oggetti esterni, tuttavia è molto simile ad esso e potrebbe propriamente essere chiamata senso interno. Ma così come chiamo l’altra sensazione, chiamo questa RIFLESSIONE, poiché le idee che essa ci dà sono soltanto quelle ottenute dallo spirito quando riflette in se stesso sulle proprie operazioni. […] 5. Non mi pare che l’intelletto abbia il minimo barlume di una idea che non le provenga dall’una o dall’altra di queste due fonti. Gli oggetti esterni forniscono allo spirito le idee delle qualità sensibili, che sono tutte quelle diverse percezioni che essi producono in noi; e lo spirito fornisce all’intelletto le idee delle proprie operazioni […] Le idee originarie o semplici

La distinzione tra qualità primarie e secondarie

La solidità come qualità primaria

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La percezione degli oggetti esterni e delle operazioni interne del nostro spirito offre all’intelletto tutto il materiale della nostra conoscenza, vale a dire le idee originarie, dalla cui composizione e scomposizione derivano tutte le altre possibili idee. Queste idee originarie sono definite da Locke idee semplici – rispettivamente di sensazione e riflessione – in quanto esse contengono una sola qualità sensibile, o un solo fatto psichico. Nei confronti di questo tipo di idee, lo spirito si comporta passivamente, cioè le recepisce come un dato: la nostra mente non può né sottrarsi all’idea semplice, né inventarne o crearne una. Non tutte le idee semplici di sensazione corrispondono, secondo Locke, a qualità proprie dei corpi. In accordo con il meccanicismo galileiano e cartesiano, egli distingue, infatti, tra le qualità primarie, inerenti agli oggetti – identificate con le proprietà geometrico-quantitative – e quelle secondarie o soggettive, vale a dire quelle qualità che non esprimono un carattere dell’oggetto, bensì esclusivamente la reazione del soggetto a stimolazioni di carattere meccanico e quantitativo. L’elemento originale della riflessione lockiana consiste nell’includere tra le qualità primarie – oltre all’estensione, il movimento, la quiete, la figura e il numero – anche la solidità, definita come «l’idea più essenziale e intimamente connessa

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Le idee complesse nascono da combinazione o comparazione

Le tre categorie di idee complesse

con il corpo». Il nesso che Locke stabilisce tra solidità e corporeità costituisce, infatti, una presa di posizione polemica nei confronti della identificazione di corporeità ed estensione affermata da Cartesio, secondo il quale l’essenza di un corpo consiste unicamente nel fatto di occupare uno spazio, cioè di avere un’estensione (vedi Unità 3, p. 148 ss.). Oltre alle idee semplici, Locke ammette un altro tipo di idee: le idee complesse, vale a dire quella grande varietà di idee derivanti dalla combinazione e comparazione delle idee semplici conservate nella memoria. Riguardo a questo tipo di idee, la mente umana non si comporta in maniera meramente passiva e recettiva: esse sono, infatti, il frutto dell’attività del nostro intelletto, che nella sua opera di composizione e comparazione ha come unico limite l’esperienza, fonte delle idee semplici. Le idee complesse, per quanto infinite di numero, si lasciano per Locke ricondurre a tre categorie fondamentali: 1) le idee di sostanza, vale a dire quelle combinazioni di idee semplici, che si ritiene rappresentino delle cose particolari singole e distinte, sussistenti per sé: è questo il caso, per esempio, dell’idea di uomo o di albero; 2) le idee di modo, che si riferiscono invece a quelle che sono ritenute mere determinazioni e maniere d’essere di una sostanza: per esempio, l’idea di spazio è un’idea di modo che si ottiene con la ripetizione e la composizione dell’idea semplice di distanza ma l’idea di distanza non può esistere autonomamente, deve essere legata alla presenza di una o più sostanze; così come scivolare o camminare sono idee complesse di modo ottenute dalla composizione di singole idee di moto, anch’esse sempre riferite a una sostanza; 3) le idee di relazione, cioè quelle idee di termini che si implicano reciprocamente, come per esempio l’idea di padre rimanda a quella di figlio e quella di causa rimanda all’idea di effetto.

Origine e classificazione delle idee in Locke

Fonti delle idee

Sensazione

Riflessione

Idee semplici di una qualità sensibile

Idee semplici di un fatto psichico

Qualità primarie

Qualità secondarie

Confronto, composizione, unione di idee semplici

Idee complesse

di sostanze

di modi

di relazione

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L’inconoscibilità della sostanza Analisi della nozione aristotelica di sostanza

La permanenza della concezione aristotelica

Per Locke il sostratoessenza è inconoscibile

Due tipi di sostanza: sostanza pura generale e sostanze particolari

L’origine dei due tipi

Primo tipo

Secondo tipo

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Nell’analisi delle idee complesse merita un’attenzione particolare la critica dell’idea di sostanza, che costituisce uno dei cardini della teoria della conoscenza lockiana. Locke ha di mira la tradizione di pensiero risalente ad Aristotele, che aveva utilizzato il termine «sostanza» in diverse accezioni, riconducibili però essenzialmente a tre significati: 1) in primo luogo, nel senso di «sostrato», vale a dire di soggetto che regge i diversi predicati dell’essere; 2) in secondo luogo, come sinonimo di «forma», cioè di essenza necessaria e universale, insita nelle cose sensibili e fondamento della possibilità della scienza, intesa come conoscenza certa e immutabile, sottratta all’ondeggiare dell’opinione; 3) infine, nel significato di «questo qui», vale a dire di sostanza individuale, che è unità inscindibile di forma e materia. Nella tradizione filosofica medievale il nesso tra la sostanza come sostrato e come essenza necessaria – già presente nel pensiero aristotelico – era stato ulteriormente rafforzato, comportando la divisione della realtà in due piani: da un lato, le manifestazioni esteriori, cangianti e accidentali della sostanza, in quanto immersa nell’esperienza; dall’altro, l’essenza o il sostrato delle cose, intesa come il fattore nascosto che spiega la compresenza necessaria degli attributi in un oggetto, rendendo possibile la conoscenza scientifica di esso. Nella stessa filosofia cartesiana, è riscontrabile un residuo di questo modo di pensare: per Cartesio, infatti, l’estensione rende ragione in modo necessario dei caratteri dell’esteriorità che noi percepiamo. Locke non nega che esista un sostrato-essenza necessario delle cose, ma ritiene che esso sia inconoscibile, almeno per gli uomini, che di un dato oggetto reale possono conoscere solo le proprietà rilevabili attraverso l’esperienza sensibile, senza riuscire a cogliere la ragione interna che le tiene unite. A questa conclusione Locke perviene attraverso un esame accurato della genesi e dei caratteri delle nostre idee di sostanza, che egli distingue in due tipi: 1) l’idea di sostanza pura generale, vale a dire l’idea di un sostrato generale di tutte le qualità che sono capaci di produrre in noi idee semplici, correntemente definite come accidenti; 2) le idee di specie particolari di sostanze, come l’idea di sostanza pensante e di sostanza corporea, o quelle di un cavallo o di una pietra, che non sono altro che la somma di due o più idee semplici. Nella formazione di entrambi i tipi di idee di sostanza, il punto di partenza è costituito per Locke dalla percezione di idee semplici, causate da qualità singole o singole operazioni dello spirito. Incapace di immaginare che queste qualità possano sussistere di per sé, l’uomo è portato a supporre che esista un sostegno che le sorregga e al tempo stesso le causi: di qui ha origine l’idea complessa di sostanza in generale. Le idee delle varie specie particolari di sostanza nascono invece dalla combinazione di diverse idee semplici, che la nostra mente compie in quanto le osserva costantemente assieme, ed è quindi portata ad attribuirle a un unico e medesimo soggetto, dal quale esse scaturirebbero: per esempio, dalla consuetudine di vedere che le idee di durezza, friabilità e potere di attrarre il ferro si presentano as-

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Entrambe idee ipotetiche

Criteri di conoscibilità delle idee: chiarezza e distinzione

L’oscurità e l’indistinzione di entrambe le idee di sostanza

T20

Le idee di sostanza sono oscure e confuse

J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 2,23

sieme, siamo indotti a pensare che tali proprietà appartengano a una cosa sola, che chiamiamo calamita. Così intese, sia l’idea della sostanza generale sia l’idea delle diverse specie di sostanze particolari per Locke non sono nient’altro che supposizioni, idee ipotetiche cui mancano la chiarezza e la distinzione, vale a dire i requisiti che un’idea deve necessariamente avere per potere offrire all’uomo la conoscenza di qualcosa. In generale, per Locke tutte le idee complesse sono più soggette a oscurità e confusione di quelle semplici. Queste ultime, infatti, in quanto frutto di una singola percezione, sono facilmente distinguibili dalle altre idee, che risultano da una diversa percezione. Inoltre, esse sono sempre chiare, se ci vengono presentate da una percezione ben ordinata: possono essere oscure, solo se vi è un difetto nei nostri organi sensoriali, o se l’impressione che le provoca è fugace e debole, o infine se la memoria non è capace di trattenerle nella forma originaria in cui le ha ricevute. Le idee complesse sono invece chiare e distinte solo se conosciamo tutte le idee semplici che le compongono, in un ordine e numero certo e determinato: se una sola di queste è incerta, l’idea complessa che la contiene risulta oscura e confusa. È questo il caso che si verifica, per Locke, sia nell’idea di sostanza pura generale sia nelle idee delle varie specie di sostanze particolari: entrambi i tipi di idea di sostanza non si esauriscono, infatti, nelle idee semplici delle qualità che le compongono, bensì contengono in sé anche l’idea confusa di qualcosa che è altro e ulteriore rispetto a tali qualità osservabili, cioè di qualcosa che sia al tempo stesso la fonte e il sostegno di esse. Per esempio, l’idea di sostanza corporea non è formata solo dalle idee semplici di estensione, figura e capacità di moto, bensì comprende anche l’idea di un elemento che è al di là o meglio al di sotto di queste qualità, e ne dovrebbe giustificare la coesistenza costante. Questo qualcosa possiamo solo supporlo, ma non lo possiamo percepire né attraverso i sensi né attraverso la riflessione, che sono le uniche fonti della nostra conoscenza; questo elemento è dunque sconosciuto e inconoscibile. Nel brano c’è una velata ironia contro i filosofi scolastici e la loro teoria delle forme sostanziali: di qualsiasi cosa parlino in realtà conoscono esattamente come noi, con gli stessi limiti. 2. […] L’idea quindi alla quale diamo il nome generale di sostanza, non è altro che il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti, che non possiamo immaginare sussistano sine re substante, senza qualcosa per sostenerle; e chiamiamo perciò quel sostegno substantia; il che, secondo il vero valore della parola, in inglese comune si dice star sotto o sostenere. 3. Avendo formato in tal modo un’idea oscura e relativa della sostanza in generale, giungiamo alle idee di particolari specie di sostanze, raccogliendo quelle combinazioni di idee semplici che l’esperienza e l’osservazione dei sensi umani ci ha fatto scorgere come esistenti insieme, e si suppongono quindi scaturire dalla particolare costituzione interna o dall’essenza sconosciuta di quella sostanza. Così giungiamo ad avere le idee di un uomo, un cavallo, l’oro, l’acqua, ecc.: e mi appello all’esperienza di ognuno per sapere se chiunque abbia un’idea chiara di tali sostanze al di fuori di certe idee semplici che coesistono. Sono le qualità ordinarie osservabili nel ferro, o in un diamante, messe assieme, che formano la vera idea complessa di quelle sostanze, che un fabbro o un gioielliere conosce co369

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munemente meglio di un filosofo; il quale, qualunque siano le forme sostanziali di cui parla, non ha altra idea di quelle sostanze se non quella formata da una collezione delle idee semplici che vi si trovano. Dobbiamo tuttavia stare attenti, perché le nostre idee complesse di sostanze, oltre a tutte le idee semplici di cui sono composte, hanno sempre l’idea confusa di qualcosa cui appartengono e in cui sussistono; perciò quando parliamo di qualsiasi specie di sostanza, diciamo che è una cosa con queste o quelle qualità; come un corpo è una cosa che ha estensione, figura e capacità di moto; lo spirito, una cosa capace di pensare; e così diciamo che la durezza, la friabilità e il potere di attrarre il ferro sono qualità che si trovano nella calamita. Questi e altri modi simili di parlare sembrano presupporre che la sostanza sia sempre qualcosa oltre l’estensione, la figura, la solidità, il movimento, il pensare o altre idee osservabili, sebbene non sappiamo che cosa sia. La critica alla nozione di sostanza

Dimostrazione a posteriori delle sostanze corporee e spirituali

Ignoriamo l’essenza delle sostanze corporee

Ignoriamo se esistono corpi pensanti

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Sostanza

Sostanza in generale: idea di un sostrato-essenza

Idee di sostanze particolari

La mente suppone che esista un sostegno che regge tutte le qualità degli oggetti

La mente suppone che esista un sostegno di più qualità osservate insieme

Locke: questo sostrato-essenza forse esiste ma è inconoscibile

Locke: conosciamo solo le idee semplici che la compongono (estensione, figura ecc.). E ipotizziamo che esista un soggetto che le unisce tutte, ma non lo possiamo conoscere

Locke ritiene anche che l’idea di sostanza corporea sia altrettanto oscura quanto quella di sostanza spirituale. L’esistenza di entrambi i tipi di sostanze è per Locke fuori discussione, e può essere dimostrata a partire dalla stessa esperienza, per quanto esse non siano osservabili empiricamente. A partire dalla sensazione, giungiamo infatti alla conclusione che ci devono essere sostanze estese solide che, agendo sul nostro corpo mediante i movimenti, producono in noi le idee semplici di sensazione. A partire dalla riflessione, perveniamo invece a stabilire l’esistenza di una sostanza pensante che, agendo sul nostro corpo mediante il pensiero, produce in noi le idee semplici di riflessione. Semplicemente, di queste sostanze non possiamo affermare nient’altro, se non che esistono: la loro costituzione interna o la loro maniera di agire, due aspetti che la tradizione include nell’essenza della sostanza, ci sono ignote e sono destinate a restare tali, in quanto non siamo dotati della facoltà per coglierle, dal momento che il nostro intelletto può conoscere solo il materiale che gli è offerto dall’esperienza. Addirittura, la nostra ignoranza in proposito è tale, che non siamo neanche in grado né di negare né di affermare la compresenza di materia e di pensiero, cioè l’esistenza di corpi pensanti. Se non possiamo in nessun modo giungere a conosce-

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re in maniera esaustiva le proprietà di una sostanza – dal momento che ci sfugge la ragione interna che le tiene assieme – allora nulla ci consente di escludere che una sostanza pensante non possa avere anche la proprietà dell’estensione, per quanto la nostra osservazione ci abbia sinora mostrato il contrario. Ripresa della critica Come già Hobbes, anche Locke mostra dunque di ritenere infondata la pretesa di Hobbes al cogito di Cartesio di dedurre dal fatto che pensiamo la conclusione che siamo sostanze cartesiano esclusivamente pensanti. Tuttavia, egli riprende l’obiezione hobbesiana in un contesto diverso, cioè non per affermare la tesi della corporeità dell’anima, bensì esclusivamente allo scopo di sottolineare i limiti della nostra conoscenza.

T21

I confini dei nostri pensieri

J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 2,23,29

Per concludere: la sensazione ci convince che ci sono sostanze estese solide e la riflessione, che ci sono sostanze pensanti; l’esperienza ci assicura dell’esistenza di tali enti, e che l’uno ha il potere di muovere un corpo mediante l’impulso, l’altro mediante il pensiero. Di ciò non possiamo dubitare. Come ho detto, l’esperienza ci fornisce ad ogni momento idee chiare sia dell’una sia dell’altra cosa. Ma al di là di queste idee, quali sono ricevute dalle loro fonti proprie, le nostre facoltà non vanno. Se vogliamo indagare più oltre sulla loro natura, le loro cause e la loro maniera, non percepiamo la natura dell’estensione più chiaramente di quella del pensare. […] Mi sembra quindi probabile che le idee semplici che riceviamo dalla sensazione e dalla riflessione siano i confini dei nostri pensieri, al di là dei quali lo spirito, per quanti sforzi faccia, non è in grado di avanzare di un passo; né può fare alcuna scoperta quando vuole sbirciare nella natura e nelle cause nascoste di quelle idee.

Idee astratte e termini generali Gli universali o termini generali

Origine delle idee astratte

Gli universali sono costruzioni convenzionali

Il discorso di Locke sulla conoscibilità della sostanza è strettamente connesso con l’analisi delle idee generali e dei termini corrispondenti, vale a dire i termini generali o universali che costituiscono la componente principale di tutte le lingue (come uomo, animale, e così via): analisi che costituisce il nucleo del III libro del Saggio sull’intelletto umano, dedicato al linguaggio. Per Locke, infatti, le nostre idee delle varie specie particolari di sostanza – come l’idea di uomo o di cavallo – sono idee generali, che lo spirito forma a partire da idee complesse di sostanze individuali, astraendo dalle circostanze determinate in cui queste gli si sono presentate e connettendo una serie di caratteri in cui esse concordano. Per esempio, l’idea di uomo è per Locke necessariamente preceduta, nella nostra mente, dall’idea di Pietro, Paolo, Marco ecc., vale a dire da idee complesse di individui che hanno una pluralità di caratteri, di cui alcuni comuni e altri differenti. Solo in un secondo momento, lo spirito forma l’idea di uomo, astraendo dai tratti peculiari di ciascun individuo (i capelli rossi di Marco o gli occhi verdi di Paolo) e connettendo invece quelli in cui essi concordano. Per Locke la mente può formare idee generali solo a partire da quelle particolari, in quanto nell’esperienza – che è l’unica fonte della nostra conoscenza – non si dà alcuna entità universale. Nella realtà che osserviamo esistono solamente cose particolari. Gli universali sono unicamente delle costruzioni convenzionali dell’intelletto umano, cioè le idee astratte e i termini generali che l’uomo adopera per designarle. 371

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Parole come segni convenzionali, sensibili ed esterni delle idee

Riprendendo la concezione convenzionalistica del linguaggio – avviata da Guglielmo di Ockham e continuata da Hobbes (vedi p. 348 ss.) – Locke ritiene, infatti, che tutte le parole non siano altro che segni sensibili esterni che gli uomini stabiliscono in maniera convenzionale per fissare, ricordare e comunicare le idee invisibili di cui sono composti i loro pensieri. Coerentemente con questi presupposti, egli concepisce i termini generali non come il riflesso naturale di entità universali reali – trascendenti o immanenti alle cose – bensì semplicemente come segni convenzionali per esprimere le idee astratte e generali. Queste ultime a loro volta non sono altro che segni, stabiliti liberamente dall’intelletto umano, per raggruppare idee di sostanze individuali con caratteristiche affini: nel formare le idee astratte, infatti, lo spirito prende sì le mosse dalle somiglianze riscontrate in natura, ma opera i raggruppamenti privilegiando in maniera autonoma alcuni caratteri piuttosto che altri.

T22

[…] da quanto si è detto è chiaro che il generale e l’universale non appartengono all’esistenza reale delle cose, ma sono invenzioni e creature dell’intelletto, fatte da esso per il suo uso, e riguardano solamente i segni, siano parole o idee. Come abbiamo detto, le parole sono generali quando sono adoperate come segni di idee generali e così possono essere applicate indifferentemente a molte cose particolari; le idee sono generali quando sono poste a rappresentare molte cose particolari. Ma l’universalità non appartiene alle cose stesse, le quali sono tutte particolari nella loro esistenza, comprese le parole e le idee che sono generali nel loro significato. Perciò, quando ci allontaniamo dai particolari ciò che rimane di generale è solo una creatura di nostra fabbricazione; infatti la sua natura generale non è che la capacità conferita dall’intelletto, di significare o rappresentare molti particolari. Il significato che ha è soltanto una relazione che lo spirito dell’uomo aggiunge a questi particolari.

Gli universali riguardano solo idee e parole J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 3,3,11

In base a quanto detto, risulta che nella prospettiva lockiana la nostra classificazione delle cose in generi e specie non rispecchia un ordine gerarchico oggettivo di essenze reali, fisse e stabili: le essenze reali – cioè la sostanza – sono per Locke inconoscibili. Egli ritiene, di contro, che i termini generali che adoperiamo per designare le specie esprimano solo le idee astratte, frutto di una creazione autonoma dell’intelletto, dunque suscettibili di variazioni. Le idee astratte di specie possono, infatti, cambiare sia da individuo a individuo – come dimostra il fatto che, per esempio, alcuni ritengono che il feto debba rientrare nella specie umana, mentre per altri il feto non è ancora un uomo (questione che è tuttora controversa) – sia, soprattutto, nel tempo, in seguito all’aumento della nostra conoscenza delle cose. Progresso e ricerca Il progresso scientifico e la ricerca sperimentale possono consentirci di scoprire possono mutare un carattere in più posseduto dai membri di una determinata specie. Questo cale nostre idee astratte rattere nuovamente acquisito può e deve essere incluso nella definizione di un’idea astratta, che può tranquillamente essere ampliata o corretta: per esempio, una pietra che possiede tutti i caratteri contenuti nella definizione dell’idea astratta di bronzo, può essere definita bronzo. Se ne possiede solo alcuni, non sarà possibile classificarla come bronzo; se ne possiede di più – ed è questo il caso di maggiore interesse – occorre o definire una nuova specie tra quelle del genere pietra o modificare la nostra idea di bronzo, aggiungendo alcuni caratteri alla sua definizione ed escludendo alcuni oggetti che prima rientravano nella specie del bronzo. Questa operazione di ampliamento e correzione non è invece possibile Le nostre categorie conoscitive non rispecchiano la realtà

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Fondamenti sperimentali ed empirici per la conoscenza della natura

partendo dalla concezione tradizionale della sostanza come essenza necessaria, cara alla tradizione: secondo tale teoria, un ente eterno e necessario non può, infatti, subire arricchimenti né variazioni. Da quanto detto, emerge in modo chiaro come la trattazione lockiana della sostanza non abbia un intento meramente critico, bensì anche e soprattutto un obiettivo positivo: quello di impostare su nuovi fondamenti – vale a dire i fondamenti della ricerca sperimentale empirica – la scienza della natura. Affermando l’inconoscibilità della sostanza, Locke ha di mira l’impostazione dei naturalisti tradizionali che, convinti di riflettere, con le loro classificazioni, un ordine gerarchico di essenze stabili e fisse, erano poco aperti ai dati dell’esperienza. Contro questa impostazione, egli valorizza i nuovi procedimenti scientifici – basati soprattutto sull’indagine sperimentale – sforzandosi di dimostrare come sia molto più opportuno elaborare definizioni che rimangano aderenti all’esperienza, piuttosto che pretendere di fissare per sempre quanto si nasconde al di là di essa.

Universali, linguaggio e scienza della natura Dall’osservazione di caratteri e qualità simili in più sostanze particolari si formano le idee astratte

4 La dottrina della conoscenza: un approccio razionalistico

Gli uomini danno un nome alle idee astratte: nascono i termini generali

Le idee astratte possono essere modificate; quindi le specie e i generi non sono eterni e immutabili

La scienza della natura è una scienza sperimentale e produce definizioni sempre rivedibili

Le forme del sapere La dottrina lockiana delle idee è un modello di empirismo radicale: si è visto, infatti, che nell’analisi e nella classificazione delle idee Locke è guidato principalmente dall’intento di mostrare che l’esperienza costituisce l’unica fonte delle nostre idee – anche di quelle complesse – fornendo dunque alla mente tutto il materiale della nostra conoscenza. Tuttavia, si è detto che nel pensiero di Locke l’empirismo non si oppone al razionalismo, bensì piuttosto si fonde con esso. Ciò risulta in modo chiaro se si considera la dottrina lockiana della conoscenza – esposta nel IV e ultimo libro del Saggio – in cui prevalgono gli accenti razionalistici.

La conoscenza certa Locke non identifica, infatti, conoscenza ed esperienza, poiché così ridurrebbe la prima alla mera percezione sensibile delle idee. Di contro, egli concepisce la conoscenza come la percezione dell’accordo o del disaccordo delle idee tra di loro, affermando che tale accordo può essere colto in maniera molto più adeguata attraverso le facoltà intuitivo-razionali piuttosto che attraverso i sensi. Tre possibili forme A questo risultato Locke giunge, prendendo le mosse dalla distinzione di tre posdi conoscenza sibili forme di conoscenza: 1) la conoscenza intuitiva, vale a dire la percezione immediata del nesso tra due idee direttamente confrontabili ‘per se stesse’, senza l’intervento di altre (per

Irriducibilità della conoscenza alla mera percezione

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Tre gradi di certezza

Intuizione: immediata e assoluta Dimostrazione: mediata e dipendente dalle intuizioni intermedie

Percezione: riferita alle esistenze particolari e di breve durata

esempio, si percepisce immediatamente che il giallo non è blu, o che il tutto è maggiore delle parti); 2) la conoscenza razionale o dimostrativa, che ha luogo quando la ragione collega due idee che non hanno un rapporto immediato, individuando dei termini intermedi che consentano di porle in relazione; 3) la percezione sensibile attuale delle idee semplici, considerata cioè nel momento stesso in cui avviene, prima che essa si depositi nella memoria. Intuizione, dimostrazione e percezione sensibile attuale esauriscono per Locke il campo della conoscenza certa, che egli definisce con il termine inglese knowledge. Esse posseggono, però, gradi di certezza diversi. Solo l’intuizione possiede una certezza immediata e assoluta, in quanto in essa l’accordo o disaccordo tra le idee è percepito in virtù delle stesse idee a confronto, senza introdurre altri elementi che potrebbero favorire l’errore. La dimostrazione è contraddistinta invece da una certezza mediata, che a ben guardare dipende dall’intuizione: come per Cartesio, infatti, anche per Locke una dimostrazione è corretta solo se i singoli passaggi del ragionamento hanno carattere intuitivo, cioè consistono in una percezione immediata dell’accordo o disaccordo delle idee intermedie. Cosa che, però, non può mai essere garantita: la conoscenza dimostrativa è dunque meno certa di quella intuitiva, in quanto dove esiste un certo numero di passaggi intermedi, c’è sempre anche la possibilità dell’errore. La conoscenza sensibile, infine, ha un grado di certezza inferiore sia rispetto all’intuizione sia rispetto alla dimostrazione: essa non riguarda, infatti, le verità generali, bensì semplicemente l’esistenza particolare di esseri finiti fuori di noi. Inoltre, dura per un periodo di tempo brevissimo, cioè solo per l’attimo in cui proviamo la percezione sensibile (per esempio, siamo certi dell’esistenza di una rosa solo nel momento in cui ne odoriamo il profumo e non quando pensiamo ad esso).

Conoscenza come percezione dell’accordo tra le idee Forme di conoscenza

Oggetti della conoscenza

Grado di certezza

Conoscenza intuitiva o intuizione

Due idee direttamente confrontabili

Immediato e assoluto

Conoscenza dimostrativa o dimostrazione

Due idee messe in relazione attraverso altre idee intermedie

Mediato e dipendente dall’intuizione in ogni singolo passaggio intermedio

Conoscenza sensibile o percezione

Idee semplici nel momento stesso in cui si presentano

Immediata, ma di breve durata e priva di valore universale

Ogni conoscenza riguarda solo le idee

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Ora, in base alla sua stessa definizione, la conoscenza per Locke non ha per oggetto direttamente le cose, bensì esclusivamente le idee. Ciò pone al centro della teoria gnoseologica lockiana il problema, già cartesiano, della realtà della nostra conoscenza: vale a dire la questione di come sia possibile dimostrare che le idee non sono enti puramente mentali, bensì corrispondono a oggetti realmente esistenti. In mancanza di questa garanzia, la conoscenza si ridurrebbe, infatti, a una costruzione mentale, la cui certezza sarebbe esclusivamente logico-argomentativa, e non toccherebbe il campo della realtà.

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T23

Il problema della realtà della conoscenza J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 4,4

1. Non dubito che a questo punto il lettore sarà incline a pensare che ho costruito finora solo un castello in aria; e sarà pronto a dirmi: A quale scopo darsi tanto da fare? La conoscenza, voi dite, è solo la percezione dell’accordo o disaccordo tra le nostre idee: ma chissà che cosa queste idee possono essere? C’è nulla di così stravagante come le immaginazioni del cervello umano? Dov’è una testa che non abbia chimere? O, se c’è un uomo sobrio e saggio, quale differenza ci sarà, in base alle vostre regole, fra la sua conoscenza e quella della più stravagante fantasia che c’è al mondo? Entrambi avranno le loro idee, e percepiranno l’accordo o il disaccordo dell’una con l’altra. Se fra essi c’è una differenza, il vantaggio sarà dalla parte dell’uomo che ha la testa calda, che avrà più idee e più vivaci. E così, in base alle vostre regole, egli conoscerà di più. Se è vero che tutta la conoscenza consiste solo nella percezione dell’accordo o disaccordo fra le nostre idee, le visioni di un entusiasta e i ragionamenti di un uomo sobrio saranno ugualmente certi. Non importa come stiano le cose; se un uomo osserva solo l’accordo delle sue immaginazioni, e parla in modo conforme, c’è tutta verità, tutta certezza. I castelli in aria saranno capisaldi della verità, come le dimostrazioni di Euclide. Che un’arpia non è un centauro è, per questa via, una conoscenza certa e una verità, esattamente come la proposizione che il quadrato non è un circolo. Ma quale utilità questa conoscenza esatta che gli uomini hanno delle proprie immaginazioni ha per chi indaga la realtà delle cose? Non importa quali siano le fantasie umane, è la conoscenza delle cose che deve essere apprezzata; questa sola dà un valore ai nostri ragionamenti e fa preferire la conoscenza dell’uno a quella dell’altro cioè la conoscenza delle cose quali realmente sono ai sogni e alle fantasie.

La soluzione di questa questione è indispensabile per evitare lo scetticismo e il relativismo. Per risolvere il problema della realtà della nostra conoscenza – che riguarda soprattutto le idee complesse, che derivano da un’attività di composizione propria del soggetto – Locke distingue tre ordini di esistenze, la cui realtà deve essere conosciuta con certezza, e stabilisce una corrispondenza tra queste e le tre forme della conoscenza: l’io 1) l’esistenza dell’io, che ci è data dall’intuizione: Locke riprende la tesi cartesiana, secondo la quale io sono certo di esistere per il solo fatto di pensare e dubitare; Dio 2) l’esistenza di Dio, che può essere colta mediante dimostrazioni: Locke rifiuta le dimostrazioni cartesiane dell’esistenza di Dio, in quanto tutte, anche quelle a posteriori, sono fondate sull’innatismo. Tuttavia, egli ritiene che di quest’ultima il nostro intelletto possa fornire una dimostrazione a posteriori che, prendendo le mosse dall’esistenza contingente e temporale dell’io – di cui abbiamo certezza intuitiva – risalga a quella di un Essere necessario ed eterno come sua causa e come fonte di ogni realtà; le cose esterne 3) l’esistenza delle cose esterne, attingibile attraverso la percezione sensibile attuale: secondo Locke, il ricevere una sensazione è sufficiente per darci la certezza, sia pure non assoluta, che esiste qualcosa fuori di noi che produce tale sensazione. Ciò è confermato, per esempio, dal fatto che le idee di sensazione si presentano alla nostra mente senza che possiamo evitarlo. Questo vuol dire che non sono prodotte da noi, bensì da una causa esterna.

Tre esistenze che possiamo affermare con certezza:

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Il problema della realtà della conoscenza Esistenza che possiamo affermare di conoscere

Come raggiungiamo questa certezza

Modo di conoscenza

Io

Io sono certo di esistere perché penso

Intuizione

Dio

Possiamo dimostrare a posteriori l’esistenza di un Ente necessario causa di tutte le cose

Dimostrazione

Cose esterne

Durante la sensazione siamo certi dell’esistenza degli oggetti

Percezione sensibile

L’opinione e il «crepuscolo del probabile» Il campo della nostra conoscenza certa ha per Locke dei limiti molto angusti: alcuni di essi sono accidentali – e dunque destinati a sparire o con lo sviluppo delle scienze o con un impegno maggiore – ma altri sono di carattere strutturale. La conoscenza non solo non abbraccia la totalità dell’essere, dal momento che è limitata esclusivamente al ristretto ambito delle idee, ma comprende in maniera parziale anche quest’ultimo. L’essenza delle cose L’intuizione, la dimostrazione e la percezione sensibile attuale non ci consentono, è inconoscibile infatti, né singolarmente prese né considerate assieme, di cogliere la concordanza o discordanza di tutte le nostre idee. Si è visto che il nostro intelletto non è in grado di comprendere qual è l’essenza che giustifica la coesistenza di determinate idee, e dunque di determinate proprietà di una sostanza; per questo motivo, la nostra conoscenza dei caratteri che contraddistinguono le cose è destinata a restare perennemente imprecisa e incompleta. Di conseguenza, anche quando due idee ci sembrano irrelate – come nel caso già citato sopra delle idee della materia e del pensiero o nell’impossibilità di dimostrare l’uguaglianza tra cerchio e quadrato – non possiamo invece escludere che esse siano tra loro collegate. I limiti della conoscenza

T24

I limiti angusti della conoscenza certa J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 4,3

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6. […] l’estensione della nostra conoscenza non solo è più ristretta della realtà delle cose, ma anche dell’estensione delle nostre idee. Sebbene la nostra conoscenza sia limitata alle nostre idee e non possa eccederle né in estensione né in perfezione; e sebbene questi siano limiti ristretti rispetto alla Totalità dell’essere e anche più ristretti di quelli che possiamo solo immaginare in intelletti anche essi creati ma non legati all’informazione povera e scarsa ricevuta da pochi e non molti acuti modi di percezione, quali sono i nostri sensi; sarebbe tuttavia un bene per noi se la nostra conoscenza avesse almeno l’ampiezza delle nostre idee e non ci fossero tanti dubbi e questioni sulle idee che abbiamo, dubbi e questioni che io credo non siamo e non saremo mai in grado di risolvere. Ciò non di meno, non metto in dubbio che la conoscenza umana, nella presente situazione del nostro essere e della nostra costituzione, può essere spinta molto più in là del punto finora raggiunto, se gli uomini sinceramente e con libertà di spirito useranno tutta la diligenza e il lavoro del pensiero per migliorare i mezzi di scoprire la verità invece che per obbedire o sostenere l’errore, e per difendere il sistema, l’interesse o il partito per cui sono impegnati. Ma dopo tutto penso di potere affermare, senza far torto alla perfezione umana, che la nostra conoscenza non otterrà

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mai tutto ciò che desideriamo conoscere intorno alle idee che abbiamo; né sarà capace di sormontare tutte le difficoltà e di risolvere tutte le questioni che possono sorgere intorno a esse. Noi abbiamo l’idea del quadrato, del circolo e dell’uguaglianza; eppure non saremo forse mai capaci di trovare un circolo uguale a un quadrato, e conoscerlo con certezza come tale. Abbiamo l’idea della materia e del pensiero; ma forse non saremo mai capaci di conoscere se un ente puramente materiale può pensare o no; è impossibile per noi, colla contemplazione delle nostre idee e senza la rivelazione, scoprire se l’Onnipotente ha concesso a qualche sistema materiale, adattamente disposto, il potere di percepire o pensare o non ha invece congiunto stabilmente a una materia così disposta una sostanza immateriale pensante. La conoscenza probabile e i suoi fondamenti

Distinzione tra conoscenza e giudizio

Inapplicabilità del modello geometrico-deduttivo alla fisica

Fisica come scienza a posteriori e conoscenza probabile

T25

Il crepuscolo del probabile e la sua utilità

J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 4,14

La chiarificazione dei limiti strutturali della conoscenza certa induce Locke a incentrare la propria attenzione anche sulla cosiddetta «conoscenza probabile», vale a dire quella parte del sapere umano che, pur essendo priva di certezza, è accettata e fatta passare per vera, sulla base di ragioni diverse dall’intuizione o dalla dimostrazione. Queste ragioni sono principalmente due: 1) la conformità di una cosa con la nostra conoscenza, osservazione ed esperienza; 2) la testimonianza dell’esperienza altrui. Da un lato, Locke mantiene l’impianto razionalistico dei suoi predecessori della prima metà del secolo che, da Cartesio a Hobbes, avevano escluso il probabile dal campo della conoscenza. Con il termine inglese knowledge – che significa conoscenza – egli intende, infatti, solo la conoscenza certa, intuitiva o dimostrativa, dalla quale distingue la conoscenza probabile in quanto dominio approssimativo del «giudizio» (judgement), in cui rientrano l’opinione, la credenza e l’assenso. Dall’altro lato, però, la scelta di dedicare un’ampia analisi a questa parte del sapere ha alla sua radice una netta rivalutazione della conoscenza probabile, derivante dalla consapevolezza che il modello geometrico e deduttivo di conoscenza che aveva dominato il razionalismo seicentesco era inapplicabile in molti campi, tra i quali anche la scienza della natura. Per Locke, infatti, l’ideale cartesiano di una fisica deduttiva e a priori, fondata sulla matematizzazione della natura e sulla traduzione di corpi e movimenti in semplici quantità, risulta irrealizzabile, a causa dell’inconoscibilità delle sostanze. Dal momento che l’intelletto umano non è in grado di cogliere l’essenza che tiene insieme le proprietà delle cose, la fisica non può che essere un sapere a posteriori, che fornisce solo una descrizione delle proprietà esteriori dei fenomeni, tra l’altro mai definitiva. Una simile forma di sapere manca sì della certezza intuitiva o dimostrativa, e rientra nel campo della conoscenza probabile; tuttavia, quest’ultima per Locke non è affatto da disprezzare, bensì merita rispetto e considerazione, in quanto senza di essa l’uomo sarebbe incapace di agire e di orientarsi nel mondo. 1. Poiché le facoltà intellettuali sono state date all’uomo non solo per la speculazione, ma anche per la condotta della vita, l’uomo sarebbe in grave difficoltà se non avesse per dirigerlo che ciò che ha la certezza della conoscenza vera. Giacché, essendo questa assai limitata e misera, come abbiamo visto, egli rimarrebbe spesso completamente all’oscuro e perfettamente immobilizzato nella maggior parte delle circostanze della sua vita se non avesse niente per guidarlo in assenza della conoscenza chiara e certa. Chi non mangiasse se non avesse la dimo377

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

strazione che il cibo lo nutrirà, chi stesse fermo se non conoscesse infallibilmente che l’affare che intraprende avrà successo, avrebbe poco da fare se non star fermo e perire. 2. Perciò, siccome Dio ha posto qualcosa in piena luce e ci ha dato qualche conoscenza certa, sebbene limitata a poche cose, probabilmente come un assaggio di ciò di cui le creature intellettuali sono capaci e per suscitare in noi il desiderio di uno stato migliore e lo sforzo per ottenerlo: così per la maggior parte di ciò che ci interessa ci ha concesso solo il crepuscolo, come si potrebbe dire, della probabilità: adatto, io presumo, allo stato di mediocrità e di noviziato in cui gli è piaciuto situarci: dove, per controllare la nostra superfiducia e presunzione, noi possiamo, dall’esperienza di ogni giorno, esser fatti accorti della nostra miopia e dell’essere esposti all’errore. Esser consci di questo può essere per noi il costante ammonimento di spendere i giorni di questo nostro pellegrinaggio in modo attivo e responsabile, nella ricerca e nel perseguimento di quella via che può condurci ad uno stato di perfezione maggiore.

Ragione e fede Distinzione di ambiti tra ragione e fede

Certezza della fede fondata su Dio

Verifica razionale della verità della rivelazione

Verità superiori ma non contrarie alla ragione

Fede e ragione, strade parallele

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La conoscenza certa e la conoscenza probabile costituiscono il dominio della ragione, fondato sulle idee che la mente riceve attraverso le facoltà naturali della sensazione e riflessione: dominio che è distinto da quello della fede, che consiste nell’assenso che gli uomini danno a determinate proposizioni non sulla base delle proprie facoltà naturali, bensì sulla base della rivelazione divina. Da un lato, Locke riconosce alla fede una dignità superiore a quella della conoscenza probabile e analoga a quella della conoscenza certa, presentandola come il più alto grado di assenso: dal momento che la rivelazione è la testimonianza di Dio – che «non può ingannare né essere ingannato» – l’assenso che le conferiamo è, infatti, privo di dubbi. Dall’altro lato, Locke ritiene indispensabile verificare che si tratti veramente di una rivelazione divina, e non piuttosto delle «fantasie infondate» degli «entusiasti», vale a dire di tutti coloro che per presunzione o ignoranza ritengono di essere in comunicazione diretta e immediata con Dio. Questa verifica può a suo avviso essere condotta solo mediante la ragione, che deve esaminare il contenuto della rivelazione valutando e soppesando i fondamenti della sua probabilità. Per Locke, infatti, le proposizioni della rivelazione non possono essere «contrarie a ragione», in quanto Dio non può contraddirsi: egli ha dato all’uomo la ragione e non può fornirgli attraverso la rivelazione indicazioni opposte a quelle della ragione. Di conseguenza, nemmeno la fede ci autorizza a prestare il nostro assenso a principi che contraddicono la nostra conoscenza certa. L’ambito specifico di competenza che Locke riconosce alla fede è solo quello delle verità «superiori alla ragione», vale a dire quelle verità che, pur non essendo derivabili dalla sensazione e dalla riflessione mediante la ragione, tuttavia non contrastano con quest’ultima (come per esempio il problema della resurrezione dopo la morte, che non è acquisibile come una verità certa – in quanto non cade sotto l’esperienza – ma non appare impossibile alla ragione). Sulla base di questi presupposti, Locke non concepisce fede e ragione in opposizione, bensì come strade parallele per l’accesso alla verità, che si completano

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley

e rafforzano a vicenda: la fede è un assenso fondato sulla ragione, e la ragione viene arricchita dalla fede con nuove scoperte di verità, che non la turbano né la offendono.

T26

La fede non può essere contraria alla ragione

J. Locke, Fede e ragione, Ms. Locke f 1, 25 agosto 1676

5 Ragione e fede

[…] non possiamo ritenere che provenga da Dio, il benefico creatore del nostro essere, ciò che, se lo credessimo vero, distruggerebbe tutti i nostri principi e fondamenti della conoscenza, renderebbe inutili tutte le nostre facoltà, distruggerebbe la più eccellente parte della sua opera, il nostro intelletto, e porrebbe l’uomo in una condizione in cui avrebbe meno luce, e una guida minore delle bestie che sono destinate a perire. Invero, in materie che sono sopra la nostra ragione, e ho già indicato quali esse siano, noi non solo dovremmo ammettere la rivelazione, ma ce ne troviamo in necessità, e là la fede deve dirigerci completamente. Questa però non distrugge i capisaldi della conoscenza, non scuote i fondamenti della ragione, bensì ci lascia il completo uso delle nostre facoltà. E se gli ambiti della fede e della ragione non sono tenuti distinti da questi confini, io credo che, in materie di religione, non ci si servirà più in nessun modo della ragione e questa non avrà più alcuno spazio; e quelle opinioni e cerimonie stravaganti che si trovano in numerose religioni del mondo non meriteranno di venir biasimate. A questa rivendicazione infatti della fede in opposizione alla ragione noi possiamo, credo, attribuire in buona parte quelle assurdità che riempiono quasi tutte le religioni e che dominano e dividono l’umanità.

Religione e tolleranza La concezione lockiana del rapporto tra ragione e fede è alla base dell’interpretazione della rivelazione cristiana, che trova espressione nell’opera La ragionevolezza del cristianesimo.

La ragionevolezza del cristianesimo Seguendo un orientamento avviato nel Seicento da Spinoza, Locke ritiene che la Bibbia debba essere letta e studiata filologicamente come un qualsiasi altro libro, attraverso un’interpretazione letterale, vale a dire un’interpretazione che si attenga alla lettera, senza cercare un presunto significato allegorico nascosto in essa. Gesù come Messia: Attraverso lo studio del Nuovo Testamento condotto secondo questi criteri interunico dogma essenziale pretativi, Locke perviene al risultato che il riconoscimento che Gesù è il Messia è l’unico dogma essenziale del cristianesimo, vale a dire l’unico articolo di fede richiesto necessariamente per la salvezza. Gesù è per Locke il redentore dell’umanità non semplicemente per la sua morte e resurrezione, bensì per la sua predicazione morale. Locke e il deismo Da un lato, Locke afferma la completa identità tra i precetti morali rivelati da Cristo e le leggi di natura, cioè le leggi cui si può pervenire mediante il solo uso della ragione. In questo modo, egli contribuisce a porre le basi del deismo (XVIII secolo), vale a dire la tendenza a ridurre la religione cristiana e tutte le altre religioni rivelate a un nucleo razionale comune, accessibile a tutti gli uomini. Studio filologico della Bibbia

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Dall’altro lato, Locke è ben lontano dalle posizioni radicali di alcuni deisti – come per esempio John Toland (1670-1722) – i quali rifiutavano ogni forma di religione rivelata, contrapponendo ad essa una religione naturale, cioè puramente razionale. Locke ritiene, infatti, non soltanto che ragione e rivelazione procedano di pari passo, ma anche che la ragione umana non assistita dalla rivelazione non sarebbe probabilmente stata in grado di fondare una dottrina morale completa ed evidente, quale quella contenuta nel Vangelo. Valore della rivelazione Ciò emerge in modo chiaro, per Locke, se si considera la storia: prima di Cristo, per la fondazione infatti, solo pochi filosofi pagani erano pervenuti a scoprire, tramite la strada deldella morale le deduzioni razionali, alcuni doveri morali, in modo peraltro molto frammentario. Questa conoscenza della morale «per semplice luce naturale» aveva ricevuto una scarsa diffusione tra il resto degli uomini, distratti dai loro bisogni e dalle loro passioni. Queste circostanze inducono Locke a rivendicare la necessità della rivelazione cristiana per «stabilire la morale in ogni sua parte sui suoi veri fondamenti» e dotarla di forza obbligante per tutti gli uomini: tesi che distingue la posizione lockiana rispetto a quella del deismo radicale.

T27

La legge di natura e i precetti morali del Vangelo

J. Locke, La ragionevolezza del cristianesimo

È vero, c’è una legge di natura: ma chi mai la pubblicò o intraprese a darcela tutta intera, come legge, senza aggiunte, mutilazioni, e con tutta la sua forza vincolante? Dove ci fu un codice tale che l’umanità potesse ricorrervi come a sua infallibile norma, prima della venuta del Salvatore? Se non ci fu, è chiaro che c’era bisogno di uno che ci desse tale etica; una legge tale che potesse essere la guida sicura di coloro che desideravano comportarsi rettamente; inoltre, se essi erano dotati di intelligenza, era necessario che non confondessero i loro doveri, ma potessero sapere con sicurezza quando li avevano adempiuti o quando erano venuti meno ad essi. Una tal legge morale Gesù Cristo ci ha dato nel Nuovo Testamento; ma attraverso la seconda ed ultima delle vie considerate, attraverso la rivelazione [la prima è la ragione]. Noi riceviamo da lui una piena e sufficiente norma di condotta, norma conforme a quella della ragione. Ma la verità e il vincolo di questi precetti traggono la loro forza e sono sottratti a ogni dubbio per noi dall’evidenza della sua missione. Egli fu mandato da Dio: i suoi miracoli mostrano ciò; e l’autorità di Dio, nei precetti che egli ci dà, non può essere posta in discussione. Qui la morale ha una norma sicura, che la rivelazione garantisce e la ragione non può contraddire né contestare, ma tutte e due insieme garantiscono che essa proviene da Dio, il grande legislatore.

La tolleranza religiosa L’indagine sul rapporto tra fede e ragione – in generale e in particolare nel cristianesimo – è collegata in maniera stretta e immediata alla riflessione lockiana sulla tolleranza religiosa; riflessione il cui documento più significativo è costituito dalla prima Lettera sulla tolleranza. In essa Locke offre una rigorosa giustificazione della libertà religiosa, che condensa argomentazioni di carattere etico, gnoseologico, teologico e giuridico-politico, in una formulazione molto efficace, destinata ad assurgere a modello imprescindibile per i difensori della tolleranza e a incidere in maniera determinante sulla formazione della mentalità occidentale. Centralità della carità 1) Argomento etico: Locke prende le mosse dall’affermazione della centralità e dell’amore dell’agire virtuoso per il conseguimento della salvezza, allo scopo di sma-

Rigorosa giustificazione della libertà religiosa e della tolleranza

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scherare la falsità di quanti torturano e perseguitano altri uomini in nome della religione: le virtù principali sono la carità e l’amore; chi si serve della forza non è dunque veramente cristiano e – essendo egli stesso lontano dalla salvezza – non può guidare nessuno verso di essa.

T28

La fede opera attraverso l’amore, non con la forza J. Locke, Lettera sulla tolleranza

La verità religiosa non è dimostrabile quindi un dogma non può prevalere sull’altro

T29

La controversia tra le Chiese è irresolubile J. Locke, Lettera sulla tolleranza

Chi trascura la propria salvezza difficilmente potrà dar a credere di essere eccezionalmente sollecito di quella altrui: non può dedicarsi con tutte le proprie forze al compito di condurre gli altri al cristianesimo, chi non ha ancora accolto nel suo animo la religione di Cristo. Se infatti dobbiamo dar retta al Vangelo e agli apostoli, nessuno può essere cristiano senza carità e senza la fede che opera attraverso l’amore, non con la forza. […] Se qualcuno sostiene che gli uomini debbono essere spinti con il ferro e con il fuoco ad abbracciare certi dogmi, che debbono essere costretti con la forza a praticare il culto esterno, che tuttavia non si devono sollevare contestazioni sui loro costumi, se qualcuno converte gli eterodossi alla fede costringendoli a professare ciò che non credono e permette loro di fare ciò che il Vangelo non permette ai cristiani né ciascun fedele a se stesso, non dubito che costui voglia un numeroso seguito di persone che professa le stesse cose che professa lui; ma chi potrà mai credere che egli voglia la Chiesa cristiana? 2) Argomento gnoseologico: sulla base della chiarificazione dei limiti strutturali della nostra conoscenza svolta nel Saggio sull’intelletto umano, Locke afferma inoltre che è impossibile distinguere in termini oggettivi qual è la verità religiosa ortodossa, tale da potersi arrogare il diritto di perseguitare e condannare le altre fedi come erronee. Si è visto, infatti, che la fede è ai suoi occhi un assenso incondizionato, ma privo di validità universale, in quanto verte su proposizioni che, essendo superiori alla ragione, non sono autoevidenti né dimostrabili. Ciò rende la controversia sui dogmi e sui culti irresolubile: nessuna Chiesa particolare dispone di argomentazioni razionali inconfutabili, tali da produrre sicura adesione in tutti gli uomini; di conseguenza, nessuna dovrebbe pretendere di essere l’unica vera e in possesso dell’intero patrimonio della rivelazione. Nel suo esempio Locke utilizza i nomi delle due correnti teologiche, rimostranti o arminiani e antirimostranti o gomaristi, che si confrontavano in quegli anni in Olanda sul tema della predestinazione. […] supponiamo che a Costantinopoli ci siano due Chiese, una di Rimostranti e l’altra di Antirimostranti. Si potrà dire che a una delle due Chiese spetti il diritto di privare i dissenzienti dell’altra Chiesa della libertà o dei beni (cosa che vediamo esser stata fatta altrove) o di punirli con l’esilio o con la pena capitale perché hanno credenze e riti diversi? E tutto ciò mentre frattanto i Turchi tacciono e ridono, vedendo dei cristiani che colpiscono altri cristiani con crudeltà sanguinaria? Ma se una di queste Chiese ha il potere di perseguitare l’altra, chiedo quale delle due ha questo potere e in base a quale diritto. Si risponderà senza dubbio che la Chiesa ortodossa ha questo diritto nei confronti di quella che erra, o che è eretica. Ma questo non è dir nulla con parole grandi e appariscenti. Ogni Chiesa è ortodossa per se stessa ed erronea o eretica per gli altri: ogni Chiesa crede che sia vero tutto ciò che essa crede, e condanna come errore ciò che è difforme da quello che crede. Pertanto la controversia tra quelle due Chiese [Rimostranti e Antirimostranti] sulla verità delle credenze e sulla correttezza del culto 381

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è irresolubile e non può essere composta dalla sentenza di un giudice, a Costantinopoli o in qualsiasi altro luogo della terra. La fede interiore non nasce dalla costrizione

T30

La coazione non può produrre una conversione interiore J. Locke, Lettera sulla tolleranza

3) Argomento teologico: nella Lettera sulla tolleranza, Locke adopera anche argomentazioni tipicamente teologiche, ispirate dalla frequentazione dei pensatori olandesi. A quest’ordine di argomentazioni appartiene, per esempio, l’insistenza sul fatto che l’adesione interiore della coscienza sia un fattore indispensabile per la salvezza. Ora, l’intimo convincimento della coscienza non può certo essere prodotto con la forza e con la coazione – che possono al più produrre un’adesione esteriore a riti e culti – bensì unicamente con la persuasione e con l’esempio. […] La religione vera e salutare consiste nella fede interna dell’anima, senza la quale nulla ha valore presso Dio. La natura dell’intelligenza umana è tale che non può essere costretta da nessuna forza esterna. Si confischino i beni, si tormenti il corpo con il carcere o la tortura; tutto sarà vano, se con questi supplizi si vuole mutare il giudizio della mente sulle cose. […] Se qualcuno vuole accogliere qualche dogma o praticare qualche culto per salvare la propria anima, deve credere con tutto il suo animo che quel dogma è vero e che il culto sarà gradito e accetto a Dio; ma nessuna pena è in nessun modo in grado di instillare nell’anima una convinzione di questo genere.

4) Argomento giuridico-politico: infine, l’argomento centrale e unanimemente riconosciuto come l’elemento più moderno della Lettera sulla tolleranza di Locke è costituito dall’affermazione della netta delimitazione dei confini tra Stato e Chiesa, per quanto riguarda le finalità, le funzioni e i poteri che ad essi rispettivamente competono. Stato e Chiesa Conformemente alla riflessione sull’origine e sulla natura del governo svolta nei hanno fini diversi due Trattati sul governo – ricostruita nell’Unità sul giusnaturalismo moderno (vedi Unità 7, p. 430 ss.) –, Locke concepisce lo Stato come un’associazione avente per scopo unicamente la conservazione e la promozione dei «beni civili», vale a dire la vita, la libertà e la proprietà. Esso non può dunque intervenire con la coazione – che pure gli compete in maniera essenziale per imporre il rispetto delle leggi – nelle questioni religiose, che non hanno nulla a che fare con la difesa dei beni terreni, bensì riguardano la salvezza ultraterrena.

Separazione tra Stato e Chiesa

T31

La cura delle anime non spetta allo Stato J. Locke, Lettera sulla tolleranza

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Mi sembra che lo Stato sia una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle cose esterne, come la terra, il denaro, le suppellettili ecc. È compito del magistrato civile conservare in buono stato a tutto il popolo, preso collettivamente, e a ciascuno, preso singolarmente, la giusta proprietà di queste cose, che concernono questa vita, con leggi imposte a tutti nello stesso modo. […] Quanto diremo dimostrerà, mi pare, che tutta la giurisdizione del magistrato concerne soltanto questi beni civili, e che tutto il diritto e la sovranità del potere civile sono limitati e circoscritti alla cura e promozione di questi soli beni; e che essi non devono né possono in alcun modo estendersi alla salvezza delle anime. I. La cura delle anime non è affidata al magistrato civile più che agli altri uomini. Non da Dio, perché non risulta in nessun luogo che Dio abbia concesso un’au-

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torità di questo genere a uomini su altri uomini, cioè ad alcuni l’autorità di costringere altri ad abbracciare la loro religione. Né gli uomini possono concedere al magistrato un potere di questo genere, perché nessuno può rinunciare a prendersi cura della propria salvezza eterna, al punto da accettare necessariamente il culto o la fede che un altro, principe o suddito, gli abbia imposto. La Chiesa non può usare la forza o le sanzioni amministrative

T32

Non è lecito colpire i beni civili per motivi religiosi J. Locke, Lettera sulla tolleranza

Argomenti a favore della tolleranza

Dal canto suo, la Chiesa – in quanto associazione mirante alla salvezza delle anime – non può in alcun modo e per nessuna ragione usare la forza, che appartiene solo al magistrato civile, né intervenire sui beni civili, che sono oggetto della giurisdizione dello Stato. Qualora uno dei suoi membri contraddica i suoi riti e i suoi dogmi, la Chiesa ha unicamente il diritto di espellerlo dal suo seno, mediante la scomunica: quest’ultima non può, però, essere accompagnata da nessun provvedimento coattivo, che colpisca i beni dello scomunicato, quali la confisca dei patrimoni o l’arresto. Il fine della società religiosa è (come è stato detto) il culto pubblico di Dio e, attraverso di esso, il conseguimento della vita eterna. A questo fine pertanto deve tendere tutta la disciplina; entro questo confine devono essere circoscritte tutte le leggi ecclesiastiche. In questa società non si fa nulla, né si può far nulla che concerna la proprietà di beni civili o terreni; in questa sede non si può mai fare ricorso alla forza per nessun motivo, dal momento che essa appartiene tutta al magistrato civile, e la proprietà e l’uso dei beni esterni sono sottoposti tutti al suo potere.

Argomento etico: l’amore e la carità sono le virtù principali dei cristiani

Argomento gnoseologico: non possiamo conoscere con certezza le verità religiose, quindi non è giusto perseguitare gli altri

Argomento teologico: non possiamo costringere qualcuno a credere

Argomento giuridicopolitico: è opportuno separare Stato e Chiesa

Perché hanno fini diversi

Alla Chiesa non spetta l’uso di sanzioni o pene

Tolleranza

Nel quadro di questa netta delimitazione delle competenze dello Stato e della Chiesa, Locke prevede, però, delle eccezioni, a favore del primo: egli afferma che l’intervento del magistrato civile su questioni religiose può essere giustificato se è in gioco la salvaguardia dell’utile pubblico, che costituisce l’essenza stessa dello Stato. Esclusi dalla tolleranza: Sulla base di quest’ultimo, Locke esclude dal diritto alla tolleranza due categocattolici e atei rie: in primo luogo, i cattolici, o meglio i papisti, che intendevano la comunità religiosa al servizio del papa, cioè un sovrano straniero e per di più intollerante; in secondo luogo, gli atei che, non ammettendo nulla di sacro, per Locke non possono dare alcuna garanzia sui patti e sui giuramenti, sui quali si fonda la sopravvivenza dello Stato. Si tratta certo di esclusioni che non sono di poco conto, ma che possono essere comprese, se si considerano le particolari condizioni sto➥ Sommario, p. 398 rico-politiche in cui Locke vive. Eccezioni alla tolleranza a favore dello Stato

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Berkeley

3 I testi

G. Berkeley Saggio per una nuova teoria della visione: La soluzione berkeleiana del problema di Molyneux, T33 Trattato sui principi della conoscenza umana: L’uomo

1 Una sintesi originale

Apologetica cristiana

Illuminare le menti

Nuovi strumenti concettuali

Unitarietà della riflessione di Berkeley

2 Un uomo di Chiesa molto attivo

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è privo della facoltà di formare idee astratte, T34; L’universalità deriva solo dalla relazione, T35; L’essere consiste nell’essere percepito, T36; Le cose che esistono in natura non sono chimere, T37

Un illuminismo cristiano Il pensiero di Berkeley costituisce una sintesi originale, e in qualche modo paradossale, di reazione e innovazione, che da alcuni interpreti è stata definita con la formula di «illuminismo cristiano». I due termini che compongono questa definizione riassumono infatti le due linee di sviluppo che si intrecciano nella riflessione berkeleiana: 1) da un lato, tutta la speculazione filosofica di Berkeley è ispirata dall’intento di difendere la religione e la morale tradizionali dagli attacchi dei deisti e dei liberi pensatori; 2) dall’altro, però, per perseguire questo intento apologetico Berkeley prende le mosse dallo stesso terreno sul quale erano germogliate le posizioni dei suoi avversari – e in particolare dalla filosofia lockiana – ossia si dà il compito di ‘illuminare’, ‘rischiarare’ i meccanismi della conoscenza, liberando la mente da false convinzioni, pregiudizi, presupposti teorici che, sottoposti a un’indagine più approfondita, si rivelano privi di fondamento (vedi p. 388 ss.). Perseguendo questo secondo scopo, Berkeley giunge a elaborare strumenti concettuali che, in sé considerati, presentano un valore innovativo: primo tra tutti, il principio dell’«esse est percipi», cioè la riduzione dell’esistenza delle cose al loro essere percepite, con la conseguente negazione dell’esistenza di ogni sostanza corporea extramentale. Due conclusioni che portano alle estreme conseguenze la svolta del pensiero moderno, iniziata con Cartesio. Tra la rivoluzione teorica dell’«esse est percipi» e il conservatorismo religioso e politico di Berkeley non vi è alcuna contraddizione: l’affermazione dell’identità di «essere» e «essere percepito» è direttamente funzionale, nelle intenzioni del filosofo irlandese, all’eliminazione della materia, considerata come il baluardo degli atei, dato che questi ultimi negano l’esistenza di ogni realtà spirituale (anima, Dio) e affermano un rigoroso materialismo.

Un ecclesiastico attivo Nato in Irlanda da una famiglia appartenente alla minoranza inglese di religione anglicana, Berkeley non è un filosofo puro, bensì piuttosto un attivissimo uomo

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Tre progetti teorico-utopici La difesa dell’immaterialismo

L’evangelizzazione degli indigeni americani

Le virtù dell’acqua di catrame

di Chiesa, che segue con interesse critico gli sviluppi della scienza contemporanea, preoccupandosi delle sue ricadute pratiche e morali. Formatosi al Trinity College di Dublino – dove l’insegnamento era improntato allo studio del pensiero di Robert Boyle, Isaac Newton e John Locke – Berkeley diventa un vescovo zelante, attento alle esigenze della propria diocesi e, in particolare, alle necessità dei poveri. La forte religiosità e la preoccupazione apologetica ispirano i tre grandi progetti teorico-utopici, cui Berkeley dedicò gran parte della propria vita: 1) in primo luogo, la crociata a favore dell’immaterialismo, che lo impegna negli anni dal 1706 al 1713, durante i quali redige i suoi principali scritti teorici, cioè il Saggio per una nuova teoria della visione e il Trattato sui principi della conoscenza umana, dedicato all’approfondimento del problema della conoscenza, analizzato a partire da un punto di vista prevalentemente empiristico; 2) in secondo luogo, il progetto di fondare un collegio nelle Bermude per evangelizzare gli indigeni americani, che spinge Berkeley – dopo essere riuscito a far votare al Parlamento un cospicuo contributo finanziario – a partire per il Nuovo Continente, dove trascorrerà tre anni, nell’inutile attesa delle sovvenzioni promesse: di questi anni sono i dialoghi dell’Alcifrone, nei quali la corrotta filosofia cittadina dei deisti è contrapposta a un ideale di vita semplice e religiosa, chiaramente ispirato dall’ammirazione per la purezza incontaminata delle popolazioni americane; 3) infine, la battaglia a favore delle virtù terapeutiche dell’acqua di catrame (tar water, un’infusione fredda in acqua di catrame – un morbido bitume naturale ottenuto dalla distillazione del legno – con proprietà antinfiammatorie, antipiretiche e disinfettanti, utilizzata dagli indigeni dell’America del Nord), che trova espressione nell’ultima opera, Siris. In essa Berkeley mescola osservazioni mediche a considerazioni metafisiche platoneggianti sull’«anima del mondo», e delinea un percorso di ascesi anch’esso di chiara ispirazione platonica.

La vita e le opere George Berkeley nacque nel 1685 a Thomastown, nella contea di Kilkenny, nel sud-est dell’Irlanda e studiò prima a Kilkenny e poi a Dublino, al Trinity College. Durante i suoi studi, tra il 1707 e il 1708, stese una serie di quaderni di appunti e riflessioni sull’opera dei maggiori filosofi moderni, pubblicati postumi nel 1871 con il titolo di Commentari filosofici. Laureatosi nel 1709 ricoprì nel college dove aveva studiato le cattedre di teologia, ebraico e greco; di quello stesso anno è il Saggio per una nuova teoria della visione. Nel 1710 divenne ministro della Chiesa anglicana e pubblicò il Trattato sui principi della conoscenza umana; due anni dopo compose il Discorso sull’obbedienza passiva o principi della legge di natura in cui esprimeva la sua posizione politica. Lasciò l’Irlanda nel 1713 e venne presentato a corte dal suo conterraneo, lo scrittore Jonathan Swift; in quell’anno scrisse i Tre dialoghi tra Hylas e Philonous. In seguito viaggiò in Spagna, in Francia e fu per

due volte in Italia, nel 1714 e nel 1716-1720, trascrivendo le sue impressioni nel Diario di viaggio (pubblicato postumo nel 1781). Al suo ritorno in Inghilterra, nel 1721, assunse la carica di decano presso la cattedrale di Derby (capoluogo di una delle contee dell’Inghilterra centrale) e si dedicò al progetto per la fondazione di un seminario alle Bermude per i figli dei coloni e per i nativi americani. Sposatosi nel 1728, partì l’anno successivo con la moglie per realizzare personalmente questo obiettivo ma, dopo una permanenza oltreoceano di tre anni, dovette abbandonarlo per mancanza di fondi. Al suo ritorno, nel 1731, assunse la carica di vescovo di Cloyne, nella contea di Cork, nell’Irlanda del Sud, e pubblicò l’Alcifrone (1732), che aveva elaborato durante il soggiorno americano. Tre anni dopo uscì l’Analista: discorso di un matematico infedele, e nel 1744 Siris. Rimase a Cloyne fino al 1752, quando si trasferì a Oxford, dove morì l’anno successivo.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

3 Analisi dell’esperienza e problema della realtà del mondo

Immaterialismo e antiastrattismo Uno degli elementi che accomunano Berkeley agli altri due grandi filosofi inglesi, Hobbes e Locke, che abbiamo presentato insieme a lui in questa Unità, è che tutti assumono come perno della loro riflessione l’analisi del rapporto tra soggetto ed esperienza. Accanto a questo aspetto comune bisogna anche sottolineare però che la posizione berkeleiana presenta fin dai suoi primi momenti una netta divergenza sia rispetto al materialismo di Hobbes che all’empirismo di Locke. L’esigenza di mettere adeguatamente in rilievo questo intreccio tra continuità e atteggiamento critico ha determinato la trattazione unitaria di questi tre filosofi, nonostante Berkeley sia cronologicamente un pensatore settecentesco. La nostra analisi prende inizio dall’esame del nodo cruciale della riflessione berkeleiana: la realtà del mondo.

La vista non testimonia l’esistenza della realtà esterna Negazione dell’esistenza della realtà esterna

Carattere esclusivamente soggettivo delle percezioni visive

Associazioni nate dall’abitudine

Le percezioni sono solo eventi psichici

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Nel Saggio per una nuova teoria della visione Berkeley elabora alcune argomentazioni decisive a supporto della propria tesi principale: la negazione dell’esistenza di una realtà esterna materiale, enunciata già nei Commentari filosofici. Polemizzando con le principali dottrine ottiche del tempo – fondate sul tentativo di ricondurre le percezioni visive della distanza e dell’estensione a leggi geometriche oggettive – Berkeley si propone, infatti, l’obiettivo di confutare una delle prove più temibili a favore dell’esistenza della materia: la visibilità di un oggetto esterno a un osservatore. Berkeley persegue questo scopo affermando l’origine e il carattere esclusivamente soggettivo di tutte le nostre percezioni visive. Nella prospettiva berkeleiana, tutte le immagini formate dal nostro occhio non sono la riproduzione immediata di un oggetto esterno, bensì sono rappresentazioni che la nostra mente associa a determinate sensazioni e impressioni soggettive, esclusivamente in base all’abitudine, cioè in base a un principio empirico, che non ha alcun fondamento oggettivo o razionale. La nostra mente associa, per esempio, la rappresentazione di una distanza maggiore o minore alla sensazione legata all’orientamento degli occhi; ciò non significa che tra rappresentazione e sensazione vi sia una relazione naturale e necessaria, come la relazione di causalità: per Berkeley si tratta piuttosto di un’associazione che ha alla sua radice esclusivamente un’abitudine nata dal fatto di avere ripetutamente sperimentato che certe impressioni sono legate alla rappresentazione di una maggiore o minore di distanza. Con questa teoria Berkeley spiega le nostre percezioni visive come il frutto di una sintesi di tipo psicologico – cioè che avviene all’interno della nostra mente – negando la necessità di ricorrere a un ente esterno che le abbia provocate. Ciò costituisce un argomento decisivo a favore dell’immaterialismo. Così intesa, la vista perde, infatti, la funzione di testimone più sicuro dell’esistenza di una realtà naturale oggettiva: essa ci offre semplicemente delle impressioni, che la nostra mente spontaneamente associa a delle rappresentazioni in base a principi non razionali, ma dovuti all’esperienza e all’abitudine. La conoscenza deve arrestarsi ai

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley

Eterogeneità tra percezioni visive e tattili

Molyneux e il problema dell’uomo cieco dalla nascita che torna a vedere

T33

La soluzione berkeleiana del problema di Molyneux

G. Berkeley, Saggio per una nuova teoria della visione

dati percettivi soggettivi della visione, senza postulare nessuna realtà esterna che ne sia la causa. Per supportare il proprio immaterialismo, inoltre, nel Saggio Berkeley nega anche la corrispondenza tra le idee visive e quelle tattili (per il rapporto tra idee e percezioni vedi sotto, p. 390 ss.), che sembra conferire maggiore oggettività alla visione della distanza e della grandezza. Berkeley afferma che le percezioni visive e quelle tattili sono percezioni assolutamente eterogenee, il cui legame non ha alcun fondamento oggettivo, in quanto non dipende né dalle cose esterne né dalla struttura dei nostri sensi: la loro corrispondenza è anch’essa il semplice risultato di una sintesi psicologica confortata dall’abitudine. Il quadrato che vedo non è lo stesso quadrato che tocco, ma si limita a suggerirlo e a rappresentarlo come una parola suggerisce la cosa designata. A riprova della propria teoria visiva Berkeley riprende in più occasioni il problema, divenuto celebre all’epoca, sottoposto dallo scienziato William Molyneux (1656-1698) a John Locke, riguardo a ciò che sarebbe in grado di vedere un uomo cieco dalla nascita cui sia ridata la vista con un’operazione chirurgica. Berkeley risolve la questione con un’impostazione radicalmente empiristica: a causa della mancanza di esperienze pregresse, il neovedente non sarebbe in grado di percepire immediatamente la distanza che lo separa dagli oggetti che vede per la prima volta, come dovrebbe invece avvenire se la distanza risultasse in maniera oggettiva dalle leggi geometriche della visione; egli continuerebbe, piuttosto, a considerare gli oggetti visti come entità mentali al pari delle immagini che aveva precedentemente, formandosi così una concezione che, nella prospettiva immaterialistica di Berkeley, è molto vicina alla verità. Allo stesso modo, un uomo cieco dalla nascita che riacquistasse la vista da adulto non sarebbe neanche capace di collegare immediatamente il dado che ora vede con quello precedentemente toccato, riferendoli entrambi a un unico ente: e questo perché per Berkeley i due sensi non hanno alcuna comunanza oggettiva. 41. È una palese conseguenza delle supposte premesse che un uomo nato cieco, cui fosse resa la vista, non otterrebbe, all’inizio, nessuna idea di distanza tramite questo senso; il Sole e le stelle, gli oggetti più lontani come quelli vicinissimi, gli sembrerebbero tutti nel suo occhio, o piuttosto nella sua mente. Gli oggetti introdotti dalla vista gli sembrerebbero (come in verità sono) nient’altro che un nuovo insieme di pensieri e sensazioni, ciascuno dei quali è tanto vicino a lui quanto le percezioni di dolore e di piacere, o le più intime passioni della sua anima. Infatti, quando giudichiamo a qualche distanza, o fuori della mente, gli oggetti percepiti con la vista, ciò accade unicamente per effetto dell’esperienza, della quale un uomo che si trovasse in quella condizione sarebbe ancora privo. 42. Altrimenti sarebbe giusta l’opinione comune, secondo la quale si giudica la distanza grazie all’angolo degli assi ottici, proprio come al buio, o come un cieco si serve dell’angolo compreso tra due bastoncini, che tiene uno per mano. Se questo fosse vero, ne seguirebbe che un cieco nato, cui fosse resa la vista, non avrebbe bisogno di nessuna nuova esperienza al fine di percepire la distanza per mezzo di quel senso. Ma che ciò sia falso è stato, credo, sufficientemente dimostrato. 387

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Parte prima La nascita della filosofia moderna L’immaterialismo di Berkeley

Tesi che Berkeley dimostra nel Saggio per una nuova teoria della visione Una realtà materiale esterna non esiste Primo argomento Negazione della visibilità di un oggetto esterno a un osservatore Elementi a sostegno del primo argomento: – carattere soggettivo della percezione – immagini delle cose: sono rappresentazioni associate a sensazioni per abitudine (esempio della distanza) Argomentazione di Berkeley

Secondo argomento Le percezioni sono solo eventi psichici Terzo argomento Eterogeneità tra percezioni visive e tattili Esempio a sostegno del terzo argomento Provato dall’analisi del problema di Molyneux

La critica delle idee astratte La teoria della conoscenza: idee come rappresentazioni ed esperienza come fonte

Rifiuto dell’astrattismo lockiano

Locke: idee astratte e termini generali

Berkeley: rifiuto dell’astrazione

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Nel Trattato sui principi della conoscenza umana Berkeley sviluppa ed espone la dottrina dell’immaterialismo nella cornice sistematica di un esame complessivo della conoscenza umana. La gnoseologia berkeleiana si riallaccia a quella di Locke, dalla quale riprende due punti fondamentali: 1) la tesi che oggetto della conoscenza umana siano esclusivamente le idee, intese – nel solco della filosofia lockiana, che aveva eliminato la contrapposizione tradizionale tra idea e sensazione – come sinonimo di rappresentazione mentale in genere, a prescindere dalla provenienza (sensazione o riflessione); 2) l’individuazione dell’esperienza come unica fonte delle idee. Berkeley prende, però, espressamente le distanze dalla filosofia lockiana rifiutando la dottrina delle «idee generali astratte» – esposta nel III libro del Saggio sull’intelletto umano – alla quale a suo avviso sono da ricondurre la maggior parte degli «errori e difficoltà in tutti i campi della conoscenza», compresa la convinzione dell’esistenza di una realtà materiale esterna indipendente dal soggetto percipiente. Locke aveva introdotto le idee generali astratte per offrire una spiegazione della genesi dei termini generali coerente con i propri presupposti empiristici, che rendevano inammissibile l’esistenza di entità universali reali di cui le parole generali – come «uomo», «cane» o «estensione» – sarebbero il riflesso: i nostri sensi, che sono l’unica fonte di tutto il materiale della conoscenza, ci offrono, infatti, solo dati e idee particolari. Esclusa la realtà ontologica degli universali, Locke aveva, però, attribuito all’intelletto la facoltà di formare nozioni universali astratte, separando da alcune idee complesse di individui le circostanze determinate in cui sono state percepite e selezionando i caratteri in cui queste concordano. Berkeley nega che il nostro intelletto possieda la facoltà d’astrazione necessaria per formare le idee generali astratte (antiastrattismo), vista da Locke come il trat-

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley

to distintivo degli esseri umani rispetto agli animali. Per Berkeley, l’uomo può sì unire e separare, attraverso l’immaginazione, le idee di cose particolari, ma non può in nessuna maniera astrarre dalle caratteristiche peculiari e determinate in cui i sensi le hanno percepite: per esempio, possiamo considerare separatamente le diverse parti del corpo umano – come un occhio o una mano – ma non siamo in grado di immaginare un occhio o una mano privi di una forma o di un colore particolare, così come non arriveremo mai a concepire la nozione di movimento indipendentemente dalla direzione o velocità peculiare di un corpo che si muove, percepito dai sensi. In altri termini, per Berkeley la mente non può separare tra loro qualità che sono connesse in modo stretto: di conseguenza, l’uomo non è in grado di formare nozioni astratte.

T34

L’uomo è privo della facoltà di formare idee astratte

G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Introduzione, par. 10

Se qualcuno possiede questa meravigliosa facoltà di formare idee per astrazione, nessuno potrà dirlo meglio di lui: per quanto mi riguarda, mi accorgo di possedere la facoltà di immaginare, o di rappresentarmi le idee delle cose particolari da me percepite, e di essere in grado di comporle e di separarle in vari modi. Posso immaginare un uomo con due teste, oppure il busto di un uomo unito al corpo di un cavallo; riesco anche a considerare la mano, l’occhio e il naso, ciascuno di per se stesso, astrattamente o separatamente dal resto del corpo. Ma qualsiasi mano o occhio io immagini, deve avere una forma e un colore particolari. Così, l’idea di uomo che mi formo deve essere quella di un uomo bianco o nero, bruno, eretto o curvo, alto, basso o di media statura; per quanti sforzi faccia, non riesco a concepire l’idea astratta sopra descritta. È egualmente impossibile per me formare l’idea astratta di movimento indipendentemente dal corpo che si muove – un movimento che non sia né rapido né lento, né curvilineo né rettilineo; lo stesso si può dire per qualunque idea astratta. […] Ci sono fondati motivi per ritenere che la maggior parte degli uomini ammetterà di trovarsi nelle mie stesse condizioni.

In secondo luogo, per Berkeley l’ammissione di idee generali astratte è in contraddizione con il nominalismo di Locke, secondo il quale gli universali non riguardano le cose, ma solo le parole e le idee, e anche queste ultime soltanto nella misura in cui l’intelletto umano attribuisce ad esse, in maniera convenzionale, un significato universale, utilizzandole come segni per indicare più idee particolari (vedi T23, p. 375). Radicalizzando il nominalismo lockiano, Berkeley sostiene che, se si parte dal presupposto che tutte le idee siano perfettamente individuali e determinate, non è possibile ammettere idee generali astratte, cioè rappresentazioni che mancano di qualunque riferimento al particolare e all’individuale. Idee generali come idee Ciò non significa escludere ogni traccia di universalità dai contenuti mentali: coparticolari con i tratti sa che equivarrebbe a negare la possibilità della scienza, dal momento che la vadistintivi in ombra lidità universale è un requisito essenziale della scientificità della conoscenza. Per questo motivo, anche Berkeley ammette la possibilità di «idee generali», distinguendole, però, in maniera rigorosa dalle «idee generali astratte»: non abbiamo idee generali astratte, ma solo idee che per loro natura sono particolari, e diventano generali esclusivamente in quanto poniamo momentaneamente in secondo piano i loro tratti distintivi e le adoperiamo per rappresentare idee particolari dello stesso genere. Per esempio, una linea retta particolare – come una linea tracciata a matita su un foglio di carta – diventa generale se è usata come segno per Radicalizzazione del nominalismo lockiano

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rappresentare tutte le linee particolari, come avviene quando è adoperata per condurre una dimostrazione geometrica valida per qualsiasi linea particolare. Possibilità di un uso Semplificando, si può dire che per Berkeley non esistono nozioni universali, ma generale di idee solo la possibilità di un uso generale di idee particolari: il carattere di universaparticolari lità che un’idea particolare può acquistare non deriva dalla sua natura, ma solo dal suo rapporto con altre idee particolari in luogo delle quali può stare; è dovuto quindi solo alla sua funzione di segno.

T35

L’universalità deriva solo dalla relazione G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Introduzione, par. 15

[…] so bene che si insiste molto sul fatto che tutta la conoscenza e le dimostrazioni concernono nozioni universali, e io concordo pienamente: ma non mi sembra che quelle nozioni si formino per astrazione nel modo suddetto. L’universalità, per quanto riesco a capire, non consiste nella natura o nella concezione assoluta e positiva di qualche cosa, ma nella relazione che intercorre tra quella cosa e le cose particolari che essa significa e rappresenta. In virtù di questa relazione le cose, i nomi e le nozioni – che per loro natura sarebbero particolari – vengono resi universali. Perciò, ogni volta che dimostro una proposizione sui triangoli, si deve supporre che io consideri l’idea universale di triangolo. Questo, però, non significa che sia possibile formare l’idea di un triangolo che non è né equilatero, né scaleno, né isoscele; vuol dire soltanto che il particolare triangolo considerato (non importa di che tipo sia) rappresenta ugualmente e sta per tutti i possibili triangoli retti, e in questo senso è universale.

Per Berkeley il motivo che ha indotto Locke a teorizzare la possibilità di formare idee astratte – in contrasto con i presupposti della propria stessa teoria – è un errore nella concezione del linguaggio: la convinzione che a ogni nome debba corrispondere un’idea che ne costituisca l’unico significato possibile; convinzione da cui discende la tesi che il significato delle parole generali non possa risiedere indifferentemente in diverse idee particolari, bensì in un’unica idea, che non poteva che essere un’idea astratta. Funzione pratica Per eliminare alla radice il pregiudizio sulle idee astratte, Berkeley rifiuta l’univodel linguaggio cità del significato dei termini, contraddetta in maniera evidente dal fatto che esistono diverse espressioni alle quali non corrisponde alcuna idea distinta, come le parole che suscitano emozioni: ciò gli consente di affermare che le parole generali, invece di designare una sola e precisa idea, esprimono piuttosto indifferentemente un gran numero di idee particolari. Questa posizione si colloca in una nuova concezione della finalità del linguaggio, che Berkeley individua non tanto e non solo nella comunicazione di idee, quanto nella funzione pratica di orientare l’agire umano.

Errore di Locke rispetto al nesso nome / idea

Esse est percipi Il rifiuto dei due capisaldi dell’oggettivismo

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La polemica contro le idee astratte funge in Berkeley da punto di partenza per confutare due capisaldi della tradizione oggettivistica che fino a quel momento aveva caratterizzato tanto la nuova scienza galileiana quanto la nuova filosofia, sia nel suo filone razionalistico sia in quello empiristico: 1) la distinzione tra qualità secondarie e qualità primarie, cioè tra qualità dipendenti esclusivamente dalla percezione soggettiva – come il colore, l’odore o il sapore – e qualità inerenti agli oggetti, suscettibili di misurazione matematica; 2) l’ammissione di una sostanza materiale extramentale.

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley Locke e il presupposto dell’esistenza della sostanza

I pregiudizi sulla natura dell’esperienza e il legame con l’astrattismo

Idee come collezioni di percezioni

L’idealismo radicale

Idealismo radicale e immaterialismo

T36

L’essere consiste nell’essere percepito G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, parte 1

Si tratta di due punti strettamente intrecciati: la distinzione tra qualità soggettive e oggettive presuppone, infatti, il riconoscimento di una realtà indipendente dalle modalità percettive e conoscitive dell’uomo, cui le qualità primarie siano inerenti. Entrambi questi assunti si ritrovano anche nella filosofia di Locke che, pur negando la conoscibilità della sostanza, non ne aveva però messo in discussione l’esistenza, fondando al contrario la propria gnoseologia sul presupposto realistico che le idee siano causate da sostanze materiali attive. Per Berkeley l’ammissione di una sostanza materiale esterna alla mente e la distinzione tra qualità primarie e secondarie sono semplici pregiudizi, entrambi riconducibili alla erronea credenza nella possibilità di formare idee astratte. Immaginare l’esistenza di un oggetto distinta da quanto percepiamo ha, infatti, alla sua radice un atto d’astrazione, che separa dalle qualità percepite – come il colore, l’odore, la forma e la grandezza di una mela – un sostrato indipendente da esse, non percepibile con i sensi e causa della loro coesistenza. Per Berkeley, però, un simile atto di astrazione è privo di fondamento e illegittimo. La nostra conoscenza consta, infatti, esclusivamente delle percezioni e delle idee che provengono dalla loro combinazione: ogni oggetto conosciuto non è altro che un’idea, risultante dalla collezione delle percezioni che ne abbiamo. Di conseguenza, il nostro potere di concepire o immaginare, cioè di separare o unire idee, non può andare al di là delle nostre possibilità di percepire: possiamo separare con il pensiero cose che forse non abbiamo mai percepito divise – come il busto di un uomo dai suoi arti – ma non possiamo concepire nulla che non abbiamo realmente percepito. Ne discende l’impossibilità di distinguere un qualsivoglia oggetto dal suo essere percepito, che è alla base del principio fondamentale della filosofia di Berkeley: la tesi secondo la quale l’esistenza delle cose si esaurisce nel loro essere percepite (esse est percipi) e quindi la realtà vera consiste nelle idee (idealismo). Questa tesi è strettamente congiunta alla negazione di ogni realtà materiale extramentale. Le idee – che costituiscono tutto il materiale della nostra conoscenza – possono esistere, infatti, esclusivamente in una mente che le percepisca, e non possono dunque in nessun modo essere riferite a una sostanza materiale, cioè non pensante. Nulla ci autorizza poi a presumere che le nostre idee siano copie di entità esterne alla mente, dal momento che noi possiamo confrontare e paragonare le idee solo con altre idee, e mai con sostanze extramentali, di cui non abbiamo nessuna percezione. 6. Ci sono verità così immediate e ovvie per la mente, che basta aprire gli occhi per vederle. Tra queste, ce n’è una importante: quella, cioè, secondo la quale il coro dei cieli, la terra e quanto essa contiene, insomma tutti i corpi che compongono l’importante struttura del mondo, non possono sussistere senza una mente: il loro essere consiste nell’essere percepiti o conosciuti. […] è assolutamente incomprensibile – e comporta tutte le assurdità proprie della dottrina dell’astrazione – attribuire a una qualsiasi parte dell’universo un’esistenza indipendente da ogni spirito. Per convincersi di questo, il lettore deve soltanto riflettere, e provare a separare nel pensiero l’essere di una cosa sensibile dal suo essere percepita. 7. Da quanto ho detto, segue che non vi è altra sostanza al di fuori dello spirito, o ciò che percepisce. […] è una contraddizione palese, per un’idea, esistere in una cosa non percipiente; infatti, avere un’idea è lo stesso che percepire: dunque, ciò in cui il colore, la figura e le altre qualità esistono, deve anche perce391

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pirli. È evidente, quindi, che una sostanza non pensante non può essere il substratum di quelle idee. 8. Ma, si dirà, anche se le idee non esistono al di fuori della mente, possono comunque esistere al di fuori della mente, in una sostanza non pensante, cose simili ad esse, delle quali le idee costituiscono le copie. Rispondo che un’idea non può assomigliare a nulla, tranne che a un’altra idea […]. Torno a chiedere se quei presunti originali o cose esterne – delle quali le nostre idee sarebbero immagini o rappresentazioni – siano o meno percepibili. Se lo sono, allora si tratta di idee, e ho dimostrato quello che volevo dimostrare; se invece non sono percepibili, sfido chiunque ad asserire sensatamente che un colore assomiglia a qualcosa di invisibile, il duro e il morbido a qualcosa di intangibile, e così via. Negazione della distinzione tra qualità primarie e secondarie

Questa impostazione implica il venir meno della distinzione tra qualità primarie e secondarie: negata l’esistenza di una realtà materiale extramentale non ha più senso parlare delle qualità ad essa inerenti, diverse da quelle dipendenti dal soggetto percipiente. Nella prospettiva berkeleiana, anche la dottrina delle qualità primarie ha alla sua radice una infondata fiducia nella illimitata facoltà d’astrazione dell’intelletto umano: per Berkeley, invece, nella percezione le presunte qualità primarie sono così strettamente unite a quelle secondarie, da non potere essere disgiunte nemmeno con il pensiero; essendo inconcepibili se astratte dalle altre qualità sensibili, esse perdono, dunque, ogni tratto distintivo rispetto a queste ultime e si rivelano come idee che esistono solo nella nostra mente.

Conoscenza, linguaggio e realtà in Berkeley

Trattato sui principi della conoscenza umana Espone le relazioni tra l’immaterialismo e la teoria della conoscenza

Tesi che riprende da Locke: – le idee sono l’unico oggetto della conoscenza – l’esperienza è l’unica fonte delle idee

Rifiuto della teoria lockiana dell’astrattismo Argomentazione di Berkeley

Teoria di Locke sulla formazione delle idee astratte: l’intelletto forma le idee generali per astrazione a partire dalle idee complesse di sostanza individuale, attraverso la selezione di caratteri comuni e l’eliminazione delle circostanze determinate in cui sono state percepite Obiezione di Berkeley: non si possono astrarre dall’idea di un corpo le qualità ad esso intimamente connesse

Conclusioni di Berkeley: – gnoseologia: antiastrattismo e uso generale delle idee particolari – teoria del linguaggio: • radicalizzazione del nominalismo (tutte le idee sono individuali e particolari, quindi anche ai nomi generali corrisponde un’idea individuale e particolare); • idee generali come idee particolari con i tratti distintivi che rimangono in ombra (per esempio della linea retta); • funzione pratica del linguaggio – ontologia: idealismo radicale (l’«essere» è l’«essere percepito») e immaterialismo (non esiste nessuna realtà materiale esterna e i soli oggetti dell’esperienza sono le idee) Conseguenze della dimostrazione di Berkeley Negazione della distinzione tra qualità primarie e secondarie (per esempio dell’estensione)

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley L’analisi dell’estensione

4 L’unica sostanza è lo spirito

Spiriti attivi e idee passive

Contro l’arbitrarismo soggettivistico, la distinzione tra chimere e cose reali

Definizioni di «chimera» e «cosa reale»

Dio come garante della realtà delle idee

Berkeley si sofferma in particolare sull’estensione, tradizionalmente annoverata tra le qualità primarie: ai suoi occhi, nessuno è in grado di concepire l’estensione in generale, ma solo un’estensione dotata delle determinate caratteristiche con cui la percepisce (una grandezza maggiore o minore, un colore peculiare ecc.). Partendo da questi presupposti, Berkeley rifiuta sia l’identificazione cartesiana di estensione e materia (vedi Unità 3, p. 148 ss.) – presentando piuttosto anche l’estensione come un semplice contenuto mentale – sia il concetto newtoniano di uno spazio assoluto, cioè indipendente dai suoi contenuti (vedi Unità 8, p. 477 ss.).

Chimere, cose reali e mente divina Rifiutata l’esistenza di una sostanza materiale extramentale, Berkeley ammette come unica sostanza lo «spirito», inteso nel senso di «mente percipiente»: il fatto stesso che l’uomo abbia idee dimostra, infatti, (con un argomento che richiama il cogito cartesiano, vedi Unità 3, p. 160 ss.) l’esistenza di uno spirito che le pensa, dal momento che – come si è appena visto – l’essere delle idee consiste nel loro essere percepite, e nulla può essere percepito se non vi è una mente percipiente. Sostanza non sono dunque i corpi, ma solo lo spirito, che è l’unico supporto nel quale possono esistere le idee. Per Berkeley, dunque, l’intera realtà è costituita solo da spiriti e idee, che egli intende come termini assolutamente eterogenei e contrapposti: gli spiriti sono esseri attivi, semplici e indivisibili, mentre le idee sono assolutamente passive, e dunque devono avere la loro causa in qualcos’altro, che non può che essere lo spirito. Questa concezione non equivale, però, a ridurre il mondo intero a una semplice creazione arbitraria del nostro spirito. Per evitare questo possibile fraintendimento della propria dottrina, Berkeley stesso richiama l’attenzione sul fatto che nel suo pensiero la distinzione tra le «chimere» e le «cose reali» mantiene intatta la sua validità, anche se assume un significato molto diverso da quello corrente. Nella prospettiva berkeleiana, infatti, sia le chimere sia le cose reali sono «idee», in quanto esistono solo all’interno di una mente e sono prive di pensiero e attività. Le prime sono, però, idee prodotte volontariamente dall’immaginazione appartenente a ogni spirito finito. Le «cose reali» sono invece le idee percepite con i sensi, che si presentano alla nostra mente in maniera involontaria. Berkeley fa a questo proposito l’esempio del momento in cui apriamo gli occhi in pieno giorno e vediamo la luce del sole: non possiamo scegliere se vederla o non vederla, ma questo evento mentale ci si impone, ed esempi analoghi si possono fare per ognuno dei sensi. Di conseguenza, le «cose reali» non possono essere ricondotte alla causalità del nostro spirito e attestano piuttosto l’esistenza di uno Spirito infinito al di fuori di noi – cioè la mente divina – che le abbia impresse nei nostri sensi. Dio acquista così la funzione di unico garante della realtà delle nostre idee: in una cornice teorica in cui viene meno il riferimento delle idee al mondo esterno, l’unico fondamento dell’oggettività della conoscenza è la sua congruità con lo Spirito infinito, che Berkeley intende come la fonte di tutte le nostre percezioni sensibili. Inoltre, la mente divina è l’unica che, pensando ininterrottamente, può garantire la sussistenza delle idee reali anche durante gli intervalli che separano le percezioni, necessariamente discontinue, delle menti finite. 393

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T37

Le cose che esistono in natura non sono chimere

G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, parte 1

La stabilità delle idee in Dio

Dipendenza degli spiriti da Dio

Esperienza e natura come linguaggio divino

Leggi di natura come processi di significazione

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33. Le idee impresse ai sensi dall’Autore della natura sono chiamate cose reali: quelle, invece, suscitate nell’immaginazione, essendo meno regolari, vivaci e costanti, vengono chiamate più propriamente idee o immagini delle cose che copiano o rappresentano. Ma anche le nostre sensazioni, per quanto siano vivaci e distinte, sono sempre idee, vale a dire che esistono nella mente, o sono da essa percepite, così come le idee formate dalla mente stessa. […] 34. […] si obietterà che, in base ai principi suesposti, tutto ciò che è reale e sostanziale viene bandito dal mondo, mentre un sistema chimerico di idee prende il suo posto. Tutte le cose che esistono, esistono solo nella mente, hanno cioè un’esistenza puramente nozionale. Che ne è dunque del sole, della luna e delle stelle? Cosa dobbiamo pensare delle case, dei fiumi, dei monti, degli alberi e delle pietre, anzi, dei nostri stessi corpi? Forse sono soltanto chimere e illusioni della fantasia? A questa, e a tutte le obiezioni dello stesso genere, rispondo che i principi che ho premesso non ci tolgono nulla di ciò che esiste in natura. Tutto quello che vediamo, sentiamo con il tatto, udiamo, o in qualsiasi modo concepiamo o comprendiamo, resta certo e reale come sempre. C’è una rerum natura, e la distinzione tra cose reali e chimere conserva tutta la sua forza. Questo risulta evidente dai paragrafi […], nei quali abbiamo mostrato cosa si deve intendere per cose reali, in contrapposizione alle chimere, o idee di nostra produzione; entrambe, però, esistono solo in una mente e in questo senso le une e le altre sono egualmente idee. Berkeley non contesta, dunque, l’esistenza di ciò che apprendiamo, ma solo la sua natura corporea. Il suo idealismo immaterialistico riconosce, infatti, agli oggetti (le idee) un’esistenza assoluta – cioè svincolata dal singolo soggetto pensante – facendoli dipendere non dagli spiriti finiti, bensì da uno spirito infinito: pensate in Dio, le idee acquistano la stessa stabilità e indipendenza, rispetto alle nostre menti, che il realismo attribuiva agli oggetti. Questa prospettiva, che conferisce un’esistenza stabile alle idee, comporta però una crescente dipendenza degli spiriti finiti da Dio. Berkeley intende, infatti, quest’ultimo come uno spirito intimamente presente in noi, che agisce imprimendo idee o sensazioni nelle nostre menti; idee o sensazioni delle quali si serve come «segni» per comunicare i messaggi che ci vuole trasmettere. In questa prospettiva, l’esperienza e la natura risultano essere nient’altro che linguaggio divino. Conformemente ai presupposti del proprio immaterialismo, Berkeley concepisce, infatti, la natura non come una realtà indipendente dalla percezione, bensì semplicemente come una serie ordinata di idee, la cui connessione costante e regolare dimostra la sapienza e benevolenza dell’autore divino. In questo modo, Berkeley assume una posizione molto distante dalla fisica meccanicistica del proprio tempo (per cui tutta la realtà consiste di materia e movimento e la legge fondamentale che la governa è la legge di causa-effetto), riducendo le leggi fisiche a semplici combinazioni di idee che non esprimono affatto un rapporto meccanico di causalità – le idee, in quanto passive, non possono causare altre idee – ma solo un processo di significazione, cioè la connessione tra un segno e la cosa designata secondo il linguaggio di Dio, autore della natura.

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley Dio e il mondo in Berkeley

Non esistono sostanze materiali extramentali

Esistono le idee, quindi deve esistere una mente che le percepisce Mente percipiente = spirito

La realtà si compone di spiriti attivi (menti) e idee passive (oggetti mentali)

Distinzione tra le idee: – «chimere» = idee prodotte volontariamente dall’immaginazione – «cose reali» = idee percepite con i sensi e involontariamente

Le idee di cose reali non possono essere causate da noi e sappiamo che non esistono entità extramentali

Deve esistere uno Spirito infinito che è causa delle idee

Lo Spirito infinito è Dio, fondamento della realtà e garante della stabilità delle nostre idee

Conseguenze derivanti dal ruolo di Dio rispetto al mondo: – dipendenza degli spiriti finiti dallo Spirito infinito – esperienza e natura come linguaggi di Dio – la fisica non è meccanicista (fondata su materia, moto e legge di causalità) e le leggi fisiche sono semplici combinazioni di idee

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L’attacco al deismo e la difesa del Dio delle religioni

Dio come fondamento della morale

L’apologia della tradizione Si è visto come la distruzione del realismo gnoseologico operata da Berkeley costituisca il presupposto di una concezione fisica che smaterializza la natura, per risolverla nella volontà divina che la fa esistere. Questa concezione è funzionale alla difesa di dottrine religiose, morali e politiche tradizionali, che Berkeley cerca in tutti i modi di tutelare dagli attacchi del deismo. Sotto il profilo strettamente religioso, al Dio remotissimo dei deisti – il Dio orologiaio, così distante da avere solo conferito l’impulso iniziale alla serie infinita delle cause naturali – Berkeley sostituisce un Dio sempre presente e operante, tanto vicino a noi da rivelare le sue leggi in ogni atto della percezione. Non si tratta, però, di un Dio al quale l’uomo possa pervenire con le sole proprie forze, ma del Dio delle religioni rivelate positive. Per Berkeley, infatti, solo il Dio delle religioni rivelate, oggetto di culto, può fondare la morale: l’azione umana non può essere né virtuosa, né socialmente regolata, se non si sottomette a una legge proveniente da un Ente superiore personale che, essendo dotato di volontà e intelletto, sia in grado di dispensare premi e punizioni. I deisti, che hanno cercato di sostituire al Dio personale delle religioni rivelate un principio astratto, sono rei di avere tentato di scardinare le norme 395

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della morale della vita associata e di degradare la specie umana al livello delle bestie selvagge. Affermando la stretta dipendenza della morale dalla religione, Berkeley polemizza, in particolare, con il suo contemporaneo il conte di Shaftesbury che, assimilando il sentimento morale al gusto estetico, aveva privato l’etica di ogni riferimento divino. Un rigido Sotto il profilo politico, questa impostazione si traduce in un rigido conservatoriconservatorismo smo. In polemica con il contrattualismo giusnaturalistico (ossia la teoria che vede all’origine del diritto universale un contratto tra i membri della società, vedi Unità 7) – e in particolare con quello lockiano – Berkeley riafferma energicamente il dovere di obbedienza degli uomini all’autorità politica costituita, a partire dal presupposto che le leggi emanate da quest’ultima siano il riflesso di quel➥ Sommario, p. 398 le naturali e divine, senza le quali è impossibile la felicità.

Suggerimenti bibliografici Un’agile e chiara esposizione del pensiero di Hobbes, opera del suo maggior studioso italiano, è A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza, Roma 1990. Sul rapporto tra materialismo e teoria del linguaggio: A. Minerbi Belgrado, Linguaggio e mondo in Hobbes, Editori Riuniti, Roma 1993. Una raccolta ricca di spunti critici e di articoli sui vari aspetti della filosofia di Hobbes è Hobbes oggi. Atti del convegno internazionale di studi promosso da A. Pacchi, a cura di A. Napoli, con la collaborazione di G. Canziani, Franco Angeli, Milano 1990. R. Tuck, Hobbes, il Mulino, Bologna 1989. Un’agile e completa presentazione della filosofia di Locke: M. Sina, Introduzione a Locke, sesta edizione aggiornata, Laterza, Bari 1999. Un’opera storiografica datata ma fondamentale per collocare storicamente la figura di Locke: C.A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, Einaudi, Torino 1960. Una penetrante analisi della maggiore opera lockiana: A. Pacchi, Introduzione alla lettura del «Saggio sull’intelletto umano» di Locke, a cura di F. Tomasoni, Ed. Unicopli, Milano 1997. Una monografia che contiene il testo di Locke sulla tolleranza: R. Cortese (a cura di), La «Lettera sulla tolleranza di Locke» e il problema della tolleranza nella filosofia del Seicento, Paravia, Torino 1990. Una presentazione generale del pensiero di Berkeley, come primo accesso a questo autore: M.M. Rossi, Introduzione a Berkeley, Laterza, Roma-Bari 1970 (più volte ristampato). Sulla teoria della conoscenza di Berkeley: S. Parigi, Il mondo visibile: George Berkeley e la perspectiva, Olschki, Firenze 1995. Sulla teoria della visione: P. Spinicci, La visione e il linguaggio: considerazioni sull’applicabilità del modello linguistico all’esperienza, Guerini studio, Milano 1992. Un’analisi della dottrina dei segni di Berkeley come elemento unificante della sua filosofia: F.P. Mugnai, Segno e linguaggio in George Berkeley, Ed. dell’Ateneo, Roma 1979.

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley I brani antologizzati sono tratti da: T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, trad. a cura di A. Pacchi, La Nuova Italia, Firenze 1968: pp. 18-19 (T1), 30-31 (T6), 35-36 (T7), 50-51 (T14), 52 (T12). T. Hobbes, Leviatano, trad. di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976: pp. 52-53 (T11), 386387 (T2). R. Descartes, Meditazioni metafisiche. Obiezioni e risposte, trad. di A. Tilgher, Laterza, Bari 1954, pp. 175 (T3). T. Hobbes, Risposta al libro pubblicato dal dott. Bramhall, ex vescovo di Derry, intitolato «La cattura del Leviatano» insieme ad una narrazione storica sull’eresia e sulla relativa pena, in Scritti teologici, introd. di A. Pacchi, trad. e note di G. Invernizzi e A. Lupoli, Franco Angeli, Milano 1988, p. 120. T. Hobbes, De corpore, in Elementi di filosofia. Il corpo - L’uomo, a cura di A. Negri, UTET, Torino 1986: pp. 71-72 (T9), 81-82 (T8), 378-380 (T5). T. Hobbes, De homine, in Elementi di filosofia. Il corpo - L’uomo, cit., pp. 589-591. T. Hobbes, Of liberty and necessity («Della libertà e necessità»), in Id., The English Works, a cura di sir W. Molesworth, Londra 1839-1945 (ristampa fototipica, Aalen 1961), vol. 4, p. 274, trad. it. di R. Picardi. T. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 53. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, UTET, Torino 1971: p. 48 (T16), pp. 88-89 e 95 (T18), p. 128 (T17), pp. 133-135 (T19), pp. 351-352 (T20), p. 368 (T21), p. 485 (T22), pp. 623-624 (T24), p. 646 (T23), p. 745 (T25). J. Locke, Fede e ragione, Ms. Locke f 1, 25 agosto 1676, in Id., Scritti etico-religiosi, a cura di M. Sina, UTET, Torino 2000, pp. 184-185. J. Locke, La ragionevolezza del cristianesimo, in Id., Scritti etico-religiosi, cit., p. 413. J. Locke, Lettera sulla tolleranza, a cura di C.A. Viano, Laterza, Roma-Bari 2005: pp. 5 e 7 (T28), pp. 8-9 (T31), pp. 10-11 (T30), p. 14 (T32), p. 17 (T29). Il brano citato a p. 361 è tratto da Elogio [storico] del defunto Signor Locke, in J. Locke, Scritti etico-religiosi, a cura di M. Sina, UTET, Torino 2000. G. Berkeley, Saggio per una nuova teoria della visione, in Opere filosofiche, a cura di S. Parigi, UTET, Torino 1996, pp. 107-108. G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Laterza, Roma-Bari 1984: p. 184 (T34), p. 189 (T35), p. 201 (T36), pp. 215-216 (T37). Il brano di J. Bramhall citato a p. 343 è tratto da T. Hobbes, Risposta al libro pubblicato dal dott. Bramhall, ex vescovo di Derry, intitolato «La cattura del Leviatano» insieme ad una narrazione storica sull’eresia e sulla relativa pena, in Scritti teologici, cit., p. 116.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Sommario 1. HOBBES

Thomas Hobbes parte dal medesimo problema di Cartesio, quello del rapporto tra concetti e realtà, ma il suo sistema rappresenta una risposta radicalmente alternativa: monistica, materialistica e convenzionalistica. Hobbes è un umanista ed è vissuto tutta la vita al servizio di famiglie nobili inglesi, in contatto con la parte più vivace della cultura europea. [parr. 1 e 2] Egli inizia la sua riflessione dal dubbio sull’affidabilità dei sensi, ma lo supera attraverso una deduzione razionale a partire dai concetti di spazio e di tempo: da questi «fantasmi» Hobbes deriva rispettivamente l’esistenza del corpo e del moto. Il corpo coincide con la sostanza, mentre il moto è origine delle qualità delle cose e «causa universale» di ogni trasformazione. [par. 3] La conoscenza inizia con la sensazione, il cui meccanismo è spiegato attraverso il movimento, la cui minima unità di misura è il conato. La sensazione lascia una copia sbiadita, l’idea; le sensazioni e le idee costituiscono la conoscenza originaria, che è governata dalla «prudenza». Sulla base di questa teoria della conoscenza Hobbes abbraccia il nominalismo. Analizza successivamente i fondamenti delle varie scienze, distinguendo tra quelle che utilizzano un procedimento deduttivo a priori e quelle che procedono a posteriori, come la fisica. [par. 4] Anche il mondo delle passioni, secondo Hobbes, è governato dal materialismo meccanicista. Le due passioni originarie sono l’appetito e l’avversione, da cui si generano tutte le altre a seconda dell’oggetto esterno che muove il desiderio. In lui le azioni sono determinate da una ferrea catena di cause e la libertà d’azione è identificata con l’assenza di costrizione e la capacità di seguire l’appetito o il timore che si presentano per ultimi. Hobbes afferma che i concetti di bene e di male sono relativi e che il bene si identifica con il piacere (edonismo). Per evitare i conflitti generati dal suo relativismo etico Hobbes delega allo Stato il compito di stabilire un’etica comune (per la sua teoria politica vedi Unità 7). [par. 5] 2. LOCKE

L’opera di Locke, considerato dalla storiografia filosofica il padre dell’empirismo inglese, è un tentativo di riforma del razionalismo. Lo scopo di Locke è definire i limiti dell’intelletto umano e distinguere le conoscenze certe da quelle solo probabili. La sua filosofia matura nel confronto non con la tradizione ma con la realtà scientifica e politica del suo tempo. [parr. 1 e 2] L’indagine gnoseologica di Locke parte dalla critica dell’innatismo, che vede come un ostacolo al libero uso della ragione: Locke riduce ogni forma di

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innatismo all’innatismo attuale e lo confuta mostrando che empiricamente non si dà consenso universale. Alla base della conoscenza Locke pone le idee, indicando con questo termine tutti i contenuti mentali. Le fonti delle idee sono due: sensazione e riflessione, ed esse si suddividono in semplici e complesse; queste ultime in idee di sostanze, di modi e di relazioni; infine vi sono le idee astratte, nate attraverso la comparazione di idee simili, alle quali attribuiamo un nome convenzionale, universale. [par. 3] La teoria lockiana distingue tre forme di conoscenza con gradi di certezza diversi che permettono di affermare l’esistenza dell’io, di Dio e delle cose esterne. Vi è poi la conoscenza probabile fondata sulla facoltà del giudizio e continuamente verificabile e modificabile, che è propria delle scienze naturali. La conoscenza riguarda comunque solo le idee: al di fuori di quest’ambito c’è la fede. [par. 4] Locke conclude che la verità del cristianesimo sta nella predicazione morale e che l’unico dogma è l’identificazione di Gesù come Messia. Assimila anche i precetti cristiani alle leggi naturali, conoscibili per mezzo della ragione e questa tesi fa di lui uno degli anticipatori del deismo o religione naturale. Un ruolo importante in tutta la sua riflessione lo occupa il tema della tolleranza religiosa a cui dedica molte opere (per la sua teoria politica vedi Unità 7). [par. 5] 3. BERKELEY

La definizione storiografica che meglio si adatta al pensiero di Berkeley è quella di «illuminista cristiano», che riassume sia il suo intento apologetico che quello di illuminare i meccanismi della conoscenza. Come ecclesiastico Berkeley profuse grande impegno nei suoi progetti utopici, tutti indirizzati alla difesa e al rinnovamento della fede. [parr. 1 e 2] Partendo dall’immaterialismo, ossia la negazione della realtà di entità extramentali, egli argomenta nei suoi libri più importanti che le percezioni sono solo eventi psichici e che le idee generali non sono il risultato di un processo di astrazione, affermando un rigoroso antiastrattismo. Queste posizioni convergono nei principi dell’idealismo di Berkeley: l’«essere» è identico all’«essere percepito», le idee e gli spiriti sono l’unica realtà, e Dio, autore dei due linguaggi, esperienza e natura, è l’unica garanzia della stabilità e della coerenza della conoscenza. [parr. 3 e 4] In ambito religioso, etico e politico egli combatte il deismo, difendendo le religioni rivelate tradizionali, fa di Dio il fondamento della morale e professa un rigido conservatorismo, polemizzando con il contrattualismo giusnaturalistico. [par. 5]

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Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley

Parole chiave Antiastrattismo. In Berkeley indica la negazione delle idee generali astratte, in polemica con l’ipotesi lockiana che le idee generali siano un’idea, ottenuta astraendo dai tratti particolari e raccogliendo quelli comuni a singoli individui. Per Berkeley ci sono solo idee particolari che diventano generali quando le usiamo come segni per indicare altre idee particolari. Appetito / Avversione. Secondo Hobbes sono le due passioni originarie, identificate rispettivamente con il desiderio di ciò che dà piacere e il timore di ciò che dà dolore. Conato. Termine derivato dal latino conatus, «sforzo, tentativo». Hobbes lo usa per indicare l’infinitesimo del moto, l’infinitesima parte in cui esso può essere suddiviso: «un moto che si ha in un istante o punto di tempo». Consenso universale. Dal latino consensus gentium («consenso dei popoli») antico principio risalente alla filosofia greca che afferma che tutti gli uomini consentono intuitivamente sulla validità di alcune proposizioni logiche, morali, teologiche. Corpo. Nell’ontologia di Hobbes il corpo è «ciò che esiste», la sostanza. La nozione viene dedotta a partire dalla nozione mentale di spazio. Deismo. Movimento filosofico nato alla fine del XVII secolo in Inghilterra e poi diffusosi in Francia e in Germania. Afferma l’esistenza di una religione naturale e razionale, che contrappone alle religioni storiche o positive, e il cui nucleo essenziale è costituito da poche verità che gli uomini conoscono attraverso la ragione: che Dio esiste, che è il creatore e l’ordinatore del mondo, che esiste l’anima ecc. Locke è considerato uno degli anticipatori del deismo perché afferma che i precetti morali tratti dal Vangelo sono identici alle leggi naturali che l’uomo può conoscere con il solo uso della ragione. Empirismo. Termine derivante dal greco empeirìa («esperienza»): indica la teoria secondo la quale l’esperienza è l’unica fonte della conoscenza certa. Locke sostiene una forma radicale di empirismo nella dottrina delle idee. Fantasma. Termine che traduce l’inglese fancy, «impressione», e indica l’immagine mentale, prodotta dall’organo senziente, che accompagna la sensazione e si identifica con essa. Giudizio. Termine che traduce l’inglese judgement con cui Locke indica la facoltà che permette all’uomo di raggiungere delle verità solo probabili, ma indispen-

sabili sia in campo scientifico (fisica) che in quello della vita di tutti i giorni (opinioni, credenze ecc.). Immaterialismo. La teoria di Berkeley che nega l’esistenza reale della materia. Intelletto. Termine con cui traduciamo il termine inglese understanding con il quale Locke indica la facoltà di conoscere, superiore alla semplice sensibilità, in cui si originano le idee e che è capace di combinarle e comporle; di produrre le idee astratte ecc. Libertà d’azione. Secondo Hobbes, libertà di agire in assenza di costrizioni o impedimenti fisici o mentali. I sostenitori di questa teoria della libertà ammettono l’esistenza di determinazioni causali all’agire o all’omettere di agire e negano che possa esistere la libertà come indifferenza alle cause esterne o a motivi determinanti. Materialismo / Idealismo. Due concezioni opposte accomunate dall’affermazione che la realtà è una, ma divergenti riguardo alla natura del suo principio, indicato rispettivamente nella materia o nelle idee. La prima è sostenuta da Hobbes, la seconda da Berkeley. Moto o movimento. Secondo Hobbes è il principio, razionalmente deducibile dalla nozione di tempo, che spiega l’organizzazione dell’intera realtà (a partire dalla sensazione, per arrivare alla fisica, all’antropologia, alla morale e alla politica). È quindi la «causa universale» di tutte le modificazioni e le trasformazioni del reale. Prudenza. Hobbes indica così il sapere pratico di natura esclusivamente congetturale, acquisito sulla base della quantità di esperienze accumulate. Il suo ruolo non si limita alla conoscenza ma, proprio per la sua origine pratica, si estende al mondo morale. Razionalismo. Ogni indirizzo di pensiero che ritiene che la realtà sia organizzata in base a un principio unico e razionalmente identificabile, come per esempio le idee platoniche. Nel pensiero moderno il razionalismo s’incarna nell’ideale geometrico-deduttivo che guida il progetto cartesiano di fondazione del sapere, ma anche la riflessione di Hobbes sulla morale o la metafisica di Spinoza. Tolleranza. In Locke, atteggiamento di rispetto verso la fede, le opinioni o i valori altrui anche quando divergono dai propri. Nella cultura europea questo tema diviene importante in relazione alla religione in seguito alla Riforma protestante e alla nascita di una pluralità di confessioni e di Chiese. 399

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Questionario Lavoriamo sui testi

HOBBES 1

2

3

Spiega in un massimo di 2 righe che cos’è il monismo materialistico.

15

Che cosa sono quelli che in T2 Hobbes chiama «accidenti»? (max 1 riga)

Che cosa sono lo spazio e il tempo secondo Hobbes? Che cosa si può dedurre da essi? (max 4 righe)

16

Quale conseguenza deriva dall’attribuire l’incorporeità a Dio, secondo Hobbes in T4? (max 1 riga)

Quali sono i principi fondamentali della realtà secondo Hobbes? Qual è la loro relazione reciproca? (max 3 righe)

17

I fantasmi, secondo Hobbes in T5, sono una realtà permanente o mutevole? (max 2 righe)

4

Che rapporto esiste tra la sensazione e le idee nella teoria della conoscenza di Hobbes? (max 2 righe)

18

Quale conclusione errata provoca l’universalità di un solo nome in rapporto a più cose secondo Hobbes in T7? (max 1 riga)

5

Che cosa sono i nomi, secondo Hobbes, e in quanti tipi si suddividono? (max 6 righe)

19

Quale rapporto esiste tra il ragionamento e la filosofia secondo Hobbes in T9? (max 3 righe)

6

Attraverso quali meccanismi si generano le passioni secondo Hobbes? Che cosa le differenzia? (max 4 righe)

20

Che cosa deriva dal fatto che siamo noi a creare le figure della geometria secondo Hobbes in T10? (max 2 righe)

21

Qual è la causa della volontà secondo Hobbes in T13? (max 1 riga)

22

Che cosa sono le «capacità» che Locke sceglie come oggetto della propria indagine in T16? (max 1 riga)

LOCKE 7

Qual è lo scopo principale della ricerca di Locke? (max 1 riga)

8

Che cosa intende Locke con il termine «idea»? (max 1 riga)

9

Quali sono le principali differenze tra le idee semplici e quelle complesse nella teoria di Locke? (max 6 righe)

23

In T20, a quale tipo di prova fa appello Locke per dimostrare che nessuno ha un’idea chiara di particolari specie di sostanze? (max 2 righe)

10

Qual è l’origine delle idee astratte e che rapporto hanno con gli universali? (max 2 righe)

24

In base a quale criterio si preferisce «la conoscenza delle cose quali realmente sono ai sogni e alle fantasie» in T23? (max 1 riga)

11

Qual è la differenza tra conoscenza certa e conoscenza probabile secondo Locke? (max 4 righe)

25

Perché è impossibile stabilire tra due Chiese in conflitto qual è quella ortodossa secondo T29? (max 3 righe)

12

Qual è il rapporto di Locke con il deismo? (max 3 righe)

26

Che cos’è che ci permette di giudicare la distanza secondo Berkeley in T33? (max 1 riga)

27

Basandosi su quali premesse Berkeley in T36 conclude che una sostanza non pensante non può essere il sostrato di idee? (max 3 righe)

BERKELEY 13

Con quali argomenti Berkeley dimostra che i sensi non testimoniano l’esistenza della realtà esterna? (max 6 righe)

14

In un massimo di 4 righe descrivi quali sono le entità che costituiscono la sfera dell’essere secondo Berkeley.

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Percorso tematico Che cos’è un’idea?

I testi Cartesio Meditazioni metafisiche: Le idee e la loro classificazione, T1

J. Locke Saggio sull’intelletto umano: Non ci sono principi speculativi innati, T3; Non ci sono principi pratici innati, T4

N. Malebranche La ricerca della verità: La visione delle idee in Dio, T2

G.W. Leibniz Nuovi saggi sull’intelletto umano: L’idea come disposizione, T5

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Che cos’è un’idea?

La concezione platonica delle idee

Idea come contenuto della mente divina e umana

1

Nel Seicento, con il nascere della filosofia moderna, un’importante nozione del lessico filosofico che ha una lunga storia dietro le spalle viene sottoposta a una modificazione profonda. Si tratta della nozione di «idea». Nata dalla radice del verbo greco «vedere», la nozione giocava un ruolo essenziale già in Platone: il termine greco èidos, o idèa, significa per Platone «forma», «figura» o «idea». Le idee costituiscono per Platone le realtà soprasensibili, atemporali e immutabili sulle quali si fonda il mondo sensibile e mutevole che di quelle idee è la copia. Esse sono il modello e l’archetipo della realtà in generale e della realtà sensibile in particolare. La nozione di «idea» attraversa tutta la tradizione filosofica antica e medievale e viene integrata nel linguaggio del neoplatonismo e della filosofia cristiana. Inserite in un orizzonte teologico, le idee diventano in Agostino i modelli o archetipi delle cose nell’intelligenza divina creatrice: prima di creare ogni cosa Dio ha nella propria mente l’idea di essa. Questo significato della «idea» in mente Dei, nella mente di Dio, non mancherà di ricomparire anche nella filosofia moderna successiva a Cartesio, ma ciò solo dopo che il grande filosofo avrà dato al termine una caratterizzazione ben diversa da quella tradizionale, coerentemente con il nuovo accento posto sul soggetto conoscente: l’idea diventa ora un contenuto della mente umana.

Cartesio: una nuova concezione delle idee

La rivoluzione concettuale per quel che riguarda la nozione di «idea» ha quindi luogo con Cartesio (vedi Unità 3, p. 153 ss.), che è consapevole di dare ad essa un nuovo significato – «tutto ciò che è concepito immediatamente dallo spirito» – e dichiara di servirsene perché è già presente nel lessico filosofico e perché non dispone di «un vocabolo più appropriato». Il significato tradizionale viene però trasformato profondamente e l’idea indica ora una nozione di tipo epistemologico (relativa, cioè, al processo della conoscenza), non ontologico (non indica, cioè, un’entità): riguarda il contenuto della mente umana, non di quella divina. L’idea indica infatti in Cartesio non il modello della creazione delle cose nella mente di un Dio creatore, ma qualsiasi contenuto della mente che rappresenti qualcosa. Nella terza Meditazione Cartesio introduce senza apparentemente darvi troppo peso questa nozione, che diventerà invece fondamentale sia in questa opera, sia in generale nella sua filosofia e nella tradizione successiva. Le idee sono Cartesio tiene a sottolineare il carattere fondamentalmente rappresentativo delle rappresentazioni idee: queste sono legate proprio al processo del rappresentare, del costituire l’immagine di qualcosa – qualsiasi cosa – dove per «cosa» non si deve intendere soltanto una cosa materiale, o un oggetto sensibile (altrimenti, dal punto di vista cartesiano, l’ambito di applicazione della nozione di idea sarebbe ben ristretto, poiché limitato appunto agli oggetti dei sensi), ma qualunque oggetto della mente, qualunque cosa pensata, sia questa sensibile, intellettuale o anche immaginaria. Carattere epistemologico della nozione di idea

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Percorso tematico Che cos’è un’idea?

Nessuna idea è in se stessa falsa

Tre tipi di idee: innate, avventizie, fittizie

Le idee innate

T1

Le idee e la loro classificazione Cartesio, Meditazioni metafisiche, terza Meditazione

Idee vere e proprie sono per Cartesio soltanto i contenuti mentali rappresentativi, che però non sono gli unici contenuti della mente: le idee sono le forme semplici dei contenuti mentali, ma esistono nella mente atti più complessi che, oltre alla rappresentazione – cioè all’idea –, contengono qualcosa di più, come quando si vuole qualcosa o si teme qualcosa o si pronunciano giudizi. Volontà, affetti (o passioni, come il timore) e giudizi sono, secondo Cartesio, pensieri meno semplici delle rappresentazioni. L’idea è un contenuto della mente che rappresenta qualcosa, e presa per sé – sottolinea Cartesio – non può essere né vera né falsa: se penso a un oggetto sensibile, a Dio o a una chimera, si tratta comunque di contenuti mentali che rappresentano qualcosa – anche se non necessariamente qualcosa di sensibile, né di esistente – e quindi di idee. La verità e la falsità riguardano le idee quando queste fanno parte di giudizi, quando faccio quindi affermazioni sulle idee asserendo, per esempio, che il cielo è azzurro, o che Dio esiste, e così via. Un’asserzione come «il cielo è azzurro» può essere vera oppure falsa; ma l’idea di cielo non è, in se stessa, qualcosa di cui si possa dire che è falso, così come non è falsa, in se stessa, l’idea di chimera. Indipendentemente dal fatto che ciò di cui un’idea è la rappresentazione esista o meno, è vero che ho quell’idea, che cioè mi rappresento una certa cosa. Nel brano della terza Meditazione che qui riportiamo Cartesio presenta l’importante distinzione tra idee fondata sulla loro origine. Le idee possono essere infatti innate, ovvero presenti in modo originario nella mente, avventizie, cioè provenienti dall’esterno, dall’esperienza (ne è un esempio l’idea di sole), e fittizie, cioè costruite da me attraverso l’immaginazione (è immaginaria, per esempio, l’idea di ippogrifo, cioè di cavallo alato). Non ci si faccia ingannare dal fatto che, in questo passo della terza Meditazione, Cartesio presenta questa classificazione come ancora ipotetica: lo svolgersi della sua argomentazione dimostrerà che proprio queste sono le diverse forme di idee contemplate dalla sua teoria. Un’importanza particolare, nella distinzione cartesiana tra diverse forme di idee, è posseduta dall’affermazione di idee innate della mente; questa affermazione, infatti, darà luogo a un’ampia discussione che coinvolge gran parte dei filosofi successivi a Cartesio, fino a Kant: la discussione sull’innatismo. Il problema dibattuto è se si possano concepire idee innate, nozioni presenti alla mente indipendentemente dall’esperienza, posto che, anche per Cartesio, ci sono certamente idee che provengono alla mente dall’esperienza. Innate sono per Cartesio, per esempio, l’idea di io e quella di Dio, ma anche quelle di res («cosa»), di verità e di pensiero. Ora, però, l’ordine dell’indagine richiede piuttosto che io cominci col distribuire tutti i miei pensieri in generi precisi, e che ricerchi in quali di questi sia pertinente ritrovare la verità oppure la falsità. Ebbene, alcuni dei miei pensieri sono paragonabili a immagini di cose, come, per esempio, quando penso un uomo, o una chimera, o il cielo, o un angelo, o Dio: e questi pensieri soltanto è appropriato chiamarli idee. Invece, altri pensieri hanno in più anche forme ulteriori: quando per esempio voglio, o temo, o affermo, oppure nego, io concepisco bensì sempre qualcosa come oggetto del mio pensiero, ma, oltre a questa rappresentazione di qualcosa, nel mio pensiero è compreso anche altro; e questi altri pensieri sono chiamati, rispettivamente, volontà, affetti e giudizi. 403

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Ma, per quanto riguarda le idee, se le si considerano in sé sole, senza riferirle ad altro, è impossibile che siano mai false, in senso proprio; ché, sia che io immagini una capra sia che immagini una chimera, non è meno vero che immagino questa di quanto lo è che immagino quella […]. Delle idee, poi, alcune mi sembrano innate, altre avventizie ed altre fatte da me. Infatti, di comprendere che cosa sia una cosa, che cosa la verità, che cosa il pensiero, e così via, mi sembra che non mi sia dato se non dalla mia natura stessa; ma, quanto all’udire ora un rumore, o vedere il Sole, o sentire il calore d’un fuoco, e così via, finora ho giudicato che ciò abbia origine da cose al di fuori di me; e infine, quanto a sirene, ippogrifi e così via, ritengo che siano finti da me stesso. Cartesio si allontana dunque dalla tradizione nel presentare le idee come contenuti della mente umana, come immagini di cose reali o puramente immaginarie – rappresentazioni nessuna delle quali, considerata in se stessa, è falsa. Particolare rilievo ha, nella teoria cartesiana e nella discussione filosofica successiva, la tesi secondo la quale alcune delle idee che abbiamo non derivano dall’esperienza né dalla nostra immaginazione, ma sono innate.

2 Polemica dei filosofi empiristi con l’innatismo

Chiarezza e semplicità del termine «idea»

Le idee sono create da Dio

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Il dibattito sulla filosofia cartesiana Già nel dibattito con Cartesio contenuto nelle Obiezioni alle Meditazioni alcuni filosofi di orientamento empiristico polemizzano con la tesi cartesiana dell’esistenza di idee innate della mente: è di questo genere, per esempio, la polemica condotta da Hobbes e da Gassendi, anche se, come vedremo, sarà Locke il rappresentante dell’empirismo che porterà l’attacco più serrato all’innatismo. Certo è che l’uso di «idea» per indicare i contenuti della mente umana, dopo Cartesio, viene sostanzialmente accettato da tutti, anche da chi non condivida altri aspetti della sua concezione delle idee. In ambito cartesiano è significativo che, dopo circa venti anni dalla pubblicazione delle Meditazioni metafisiche di Cartesio, la Logica di Port-Royal di Arnauld e Nicole consideri il termine «idea» un termine ovvio: «la parola idea – scrivono Arnauld e Nicole – è tra quelle tanto chiare che è impossibile spiegarle ricorrendo ad altre, in quanto non ce ne sono di più chiare e di più semplici». Questa ovvietà è pienamente corrispondente alla nuova impostazione cartesiana e all’interpretazione delle idee come contenuti mentali rappresentativi: quando si parla di idee ci si riferisce, infatti, «a tutto ciò che è nel nostro spirito, quando possiamo dire con verità di star concependo una cosa, quale che sia il modo in cui la concepiamo». La stessa Logica di Port-Royal vuole essere una teoria delle idee, che rifiuta un’interpretazione limitativa della logica come disciplina esclusivamente formale della dimostrazione, dell’inferenza e del sillogismo. Nel dibattito sulla filosofia cartesiana non manca però chi intende conservare anche il vecchio significato (ontologico) della tradizione platonico-agostiniana, accanto al nuovo significato cartesiano. È il caso di Malebranche (vedi Unità 4, p. 211): pur accettando la concezione delle idee come contenuti mentali, egli rifiuta l’innatismo di Cartesio e imposta in modo diverso il rapporto della mente uma-

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Percorso tematico Che cos’è un’idea?

na con la verità e con Dio, sottolineando l’assoluta dipendenza della mente umana da Dio anche sul piano conoscitivo. Dio non è più soltanto il garante della conoscenza in quanto garante dell’evidenza delle conoscenze dell’uomo (come per Cartesio): per Malebranche Dio è direttamente il produttore della conoscenza. Le idee non sono innate nella mente umana, ma questa vede le idee delle cose in Dio, vede cioè le idee delle cose create in Dio: Dio infatti non può non averle, proprio perché le ha create.

T2

La visione delle idee in Dio N. Malebranche, La ricerca della verità, 3.2.6

[…] bisogna ricordarsi di ciò che si è detto nel capitolo precedente, dell’assoluta necessità che Dio abbia in sé le idee di tutti gli esseri che ha creato, poiché altrimenti non avrebbe potuto produrli, e che così veda tutti questi esseri considerando le perfezioni in lui racchiuse con cui essi sono in rapporto. Bisogna inoltre sapere che Dio è molto strettamente unito alle nostre anime con la sua presenza, dimodoché si potrebbe dire che è il luogo degli spiriti, come gli spazi sono, in altro senso, il luogo dei corpi. Poste queste due cose, è certo che lo spirito può vedere in Dio le opere di Dio, supposto che Dio acconsenta a svelargli ciò che c’è in lui che le rappresenta. Pur accettando la concezione cartesiana delle idee come rappresentazioni della mente, Malebranche respinge la distinzione che Cartesio fa tra le idee sulla base della loro origine: unica fonte delle idee, sostiene Malebranche, è Dio. Di qui la conclusione che non ci sono idee innate.

3

Locke: empirismo e critica dell’innatismo

La filosofia di Locke costituisce una tappa fondamentale della discussione sulle idee e sulla loro origine (vedi Unità 6, p. 362 ss.): la teoria della conoscenza lockiana rappresenta infatti il più articolato attacco alla tesi per cui vi sono idee innate della mente indipendenti dall’esperienza. I suoi obiettivi polemici sono l’innatismo di Cartesio e le posizioni platoniche – anch’esse innatiste – diffuse in Inghilterra, e in particolare a Cambridge, nel corso del XVII secolo. La battaglia anti-innatistica di Locke ha anche un significato etico, poiché egli estende la critica dell’innatismo dal piano conoscitivo al piano etico, pratico: gli uomini devono cercare la verità per proprio conto e attraverso la libera discussione, e il connotare alcune idee e magari alcuni principi morali o religiosi come innati fa sì che questi vengano sottratti al libero esame della ragione. Accettare la teoria delle idee innate conduce, così, al fanatismo e all’intolleranza. Idea è tutto ciò che Per quanto riguarda il significato della nozione di «idea», Locke si colloca chiaè oggetto dell’intelletto ramente sulla scia della interpretazione cartesiana dell’idea come contenuto mentale rappresentativo, e ne riconosce tutta l’importanza. Il capolavoro lockiano, il Saggio sull’intelletto umano, contiene già nell’Introduzione l’affermazione che si farà un uso frequente del termine «idea»: «questo è il termine che serve meglio, credo, per rappresentare qualunque cosa che è l’oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa; l’ho quindi usato per esprimere tutto ciò che può essere inteso per immagine, nozione, specie o tutto ciò intorno a cui lo spirito può essere adoperato nel pensare; e non avrei potuto evitare di servirmene spesso». Due significati della critica lockiana dell’innatismo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’esistenza di idee innate conduce ad affermare che ci sono anche verità innate, sostiene Locke, e quindi queste proposizioni dovrebbero essere presenti alla mente di chiunque e ottenere un assenso universale. In realtà, però, non è così: non c’è nulla su cui tutti gli esseri umani si trovino d’accordo; non sono universalmente condivisi nemmeno principi come quello di contraddizione, per cui la stessa cosa non può allo stesso tempo essere e non essere. Ma se anche ci fossero verità sulle quali tutti concordano, ciò non dimostrerebbe che tali verità sono innate; Locke ritiene infatti che, posto che fosse possibile raggiungere l’accordo su di esse, si potrebbe dimostrare che ci sono altri modi per raggiungerlo. Perciò non è necessario ricorrere alla tesi delle verità (e delle idee) innate per spiegare il consenso universale. Falsità dell’argomento Inoltre, la mente umana arriva con altri mezzi alla conoscenza, attraverso le prodel consenso universale prie capacità (per esempio, conosciamo i colori per mezzo della vista); per spiegare la conoscenza, dunque, non occorre appellarsi alle idee innate. Infine – ed è, ad avviso di Locke, l’argomento decisivo contro l’innatismo –, anche se non ci fossero altre prove, è evidente che i bambini e i malati di mente non custodiscono nella loro mente le verità innate, e questa è una prova certa della loro inesistenza. Infatti, se nella mente umana fossero originariamente impresse certe verità, tutti dovrebbero conoscerle: dire che sono impresse in essa significa che la mente è in grado di percepirle. Quello del consenso universale, dunque, non è soltanto un argomento inutile ai fini della difesa dell’innatismo, ma è controproducente, poiché dimostra la falsità di questa teoria. Argomenti di Locke contro l’innatismo

T3

Non ci sono principi speculativi innati J. Locke, Saggio sull’intelletto umano

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1. È opinione diffusa che ci siano nell’intelletto certi principi innati, alcune nozioni primarie, koinonài ènnoiai, caratteri, per così dire, impressi nello spirito dell’uomo, che l’anima riceve fin dal primo momento della sua esistenza e porta con sé nel mondo. Sarebbe sufficiente, per convincere i lettori scevri da pregiudizi della falsità di questa supposizione il mostrare (come spero di fare nelle seguenti parti di questo discorso) come gli uomini, soltanto col semplice uso delle loro facoltà naturali, possono acquistare tutta la conoscenza che hanno senza il soccorso di alcuna impressione innata e raggiungere la certezza, senza tali nozioni originarie o principi. Infatti mi si concederà facilmente, credo, che sarebbe incongruo supporre che le idee dei colori siano innate in una creatura alla quale Dio ha dato la vista e il potere di riceverli con gli occhi dagli oggetti esterni; e non sarebbe meno irragionevole attribuire molte verità alle impressioni della natura o ai caratteri innati, quando possiamo osservare in noi stessi facoltà adatte per acquisire una conoscenza di esse altrettanto facile e certa come se fossero originariamente impresse nel nostro spirito […]. 2. Non v’è opinione più comunemente accettata di quella secondo la quale ci sono certi principi, sia speculativi che pratici (giacché ci si riferisce ad entrambi), sui quali l’umanità è universalmente concorde; questi principi, si dice, devono quindi necessariamente essere le impressioni costanti che l’anima degli uomini riceve con l’esistenza stessa e porta nel mondo con sé con altrettanta necessità e realtà delle loro facoltà inerenti. 3. Questo argomento, tratto dal consenso universale, presenta l’inconveniente che, se fosse vero in linea di fatto che ci sono verità sulle quali tutta l’umanità è d’accordo, ciò non proverebbe che sono innate, se c’è un’altra maniera qualsiasi per indicare come gli uomini giungono a quell’accordo universale nelle cose sulle quali consentono; il che presumo si possa fare.

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Percorso tematico Che cos’è un’idea?

4. Ma, e ciò che è peggio, quest’argomento del consenso universale di cui ci si serve per provare i principi innati, a me sembra una dimostrazione che non ce ne sono: giacché non ce n’è nessuno su cui tutta l’umanità dia un assenso universale. Comincerò dai principi speculativi [cioè: della conoscenza], e nella specie con quei celebri principi di dimostrazione: «Tutto ciò che è, è» e «È impossibile che la stessa cosa sia e non sia»; i quali, fra tutti gli altri, credo abbiano il titolo più riconosciuto all’innatezza. […] Ma mi permetto di dire che queste proposizioni sono tanto lontane dal ricevere un assenso universale, che da una gran parte dell’umanità non sono neppure conosciute. 5. Infatti, è evidente che i bambini e i deficienti non hanno la minima percezione o pensiero di queste proposizioni. E questa mancanza basta a distruggere quell’assenso universale che deve per forza essere la concomitante necessaria di tutte le verità innate; mi sembra quasi una contraddizione dire che ci sono verità impresse nell’anima che essa non percepisce o comprende: giacché l’impressione, se significa qualcosa, non può essere altro che il far sì che certe verità siano percepite. L’imprimere qualcosa nello spirito senza che lo spirito lo percepisca mi sembra infatti cosa difficilmente intelligibile […]. Non c’è accordo universale su alcun principio pratico

T4

Non ci sono principi pratici innati J. Locke, Saggio sull’intelletto umano

La critica di Locke all’innatismo si estende dai principi conoscitivi ai principi pratici (ossia ai principi morali), ancora una volta facendo riferimento alla mancanza di consenso e di accordo su qualsivoglia principio. Ancora più che per i principi conoscitivi, l’esperienza dei costumi di popoli diversi insegna che non c’è un accordo universale su principi che possano essere detti innati e dimostra, così, che l’innatismo è falso: se certi principi pratici fossero innati nell’uomo, essi dovrebbero essere comuni a tutti i popoli e a tutte le culture. Locke non intende negare che ci siano principi morali veri, ma sottolinea che la loro verità non è evidente: possiamo scoprirla solo attraverso un ragionamento. Chi sostiene che ci sono principi pratici sui quali gli uomini concordano universalmente e che, dunque, tali principi sono innati dovrebbe chiarire (cosa che solitamente non fa) quali sono. 1. Se le massime speculative, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, non ottengono da tutta l’umanità un assenso universale effettivo, come abbiamo provato, è ancora più evidente, per quanto riguarda i principi pratici, che essi sono ben lungi dall’essere accettati universalmente. E credo che sarà difficile trovare l’esempio di una regola morale che possa pretendere ad un assenso così pronto e generale come la massima «Ciò che è, è», o di essere una verità così manifesta come il principio «È impossibile che la stessa cosa sia e non sia». Da ciò risulta evidente che i principi morali hanno ancora meno titolo degli altri ad essere innati, e il dubbio che si tratti di impressioni originarie nello spirito è ancora più forte che nell’altro caso. Con ciò non si pone in questione la loro verità. Essi sono ugualmente veri, anche se non ugualmente evidenti. Le massime speculative portano con sé la propria evidenza; ma i principi morali esigono ragionamenti e discorsi e qualche esercizio dello spirito perché sia scoperta la certezza della loro verità. Essi non stanno aperti alla vista di tutti come caratteri naturali incisi nello spirito; i quali, se esistessero, dovrebbero necessariamente essere visibili di per sé ed essere certi e conosciuti da tutti mediante la loro propria luce […]. 2. Per sapere se ci sono principi morali sui quali tutti gli uomini sono d’accordo, mi appello a chiunque abbia una pur modesta conoscenza della storia del gene407

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

re umano e abbia guardato al di là del fumo del proprio camino. Dov’è quella verità pratica che è universalmente ricevuta, fuor di ogni dubbio o questione, come dovrebbe accadere se fosse innata? […] 14. La diversità che c’è fra gli uomini, per quanto riguarda i loro principi pratici, è così evidente che credo non sia necessario dirne di più per mettere in luce che sarà impossibile trovare una regola morale innata mediante il contrassegno dell’assenso generale; e ciò basterebbe per darci il sospetto che la supposizione di tali principi innati non è che un’opinione assunta ad arbitrio, giacché coloro che ne parlano così fiduciosamente sono tanto avari nel dirci quali essi siano. È ben questo che avremmo il diritto di attenderci da coloro che danno tanto rilievo a quest’opinione […]. La conoscenza è fondata sull’esperienza

4

La fonte delle idee e della conoscenza è piuttosto l’esperienza: la mente è una tabula rasa, un foglio bianco privo di caratteri e senza alcuna idea. Il materiale della conoscenza ci viene soltanto dall’esperienza, e cioè dalla sensazione e dalle operazioni che la mente compie sui dati empirici forniti dalla sensazione, ovvero dalla riflessione. La critica lockiana dell’innatismo, soprattutto sul piano conoscitivo, ha un’enorme influenza su tutto il pensiero settecentesco e poi sul pensiero empiristico contemporaneo. Il dibattito successivo sulla natura delle idee non potrà che prendere Locke come punto di riferimento, o con atteggiamento critico verso il suo empirismo (ma facendone tesoro) o sostenendolo in una forma ancora più radicale. Saranno questi gli esiti rappresentati da Leibniz e da Hume. Che la critica mossa da Locke alla teoria delle idee innate sia fondata sulla tesi per cui il fondamento della conoscenza è l’esperienza è dimostrato dal fatto che uno degli argomenti principali di cui il filosofo inglese si serve è quello relativo alla mancanza di consenso universale sui principi (tanto su quelli conoscitivi, quanto su quelli pratici): l’osservazione dei dati di fatto rivela che tra gli esseri umani non c’è accordo su nessun principio. La prova della falsità dell’innatismo è data precisamente dal palese contrasto fra questa teoria e l’esperienza comune.

Leibniz: epistemologia e metafisica

In un consapevole confronto con Cartesio e con Locke – sono un esplicito commento a quest’ultimo i Nuovi saggi sull’intelletto umano pubblicati postumi, nel 1765 – Leibniz presenta decisive novità nel dibattito sulle idee (vedi Unità 5, p. 273 ss.). Se con la critica della metafisica di Locke, secondo alcuni interpreti, si ha il passaggio dalla metafisica del Seicento alla teoria della conoscenza settecentesca (che egli condiziona sensibilmente), con Leibniz si ha una sorta di intersezione tra teoria della conoscenza e metafisica: la teoria delle idee assume infatti in Leibniz una nuova configurazione e una forma duplice, in cui elementi logici ed epistemologici si fondono con elementi metafisici. La mente Leibniz interviene nella discussione aperta da Cartesio sulla interpretazione delnon è una tabula rasa le idee come contenuti mentali, ma affronta la nozione di «idea» anche nel suo significato metafisico e logico ispirandosi, e dando una veste completamente nuova, alla tradizione platonico-agostiniana che era stata ripresa anche da MaleUna nuova teoria delle idee

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Percorso tematico Che cos’è un’idea?

Le disposizioni della mente

La mente ha un ruolo attivo nella conoscenza

T5

L’idea come disposizione

G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano

branche e che vedeva nelle idee gli archetipi e i modelli della creazione in mente Dei. Da qui deriva una duplicità nella sua trattazione delle idee. Seguendo Cartesio e Locke, Leibniz sostiene che l’idea è «qualcosa che è nella mente», «un oggetto immediato interno». Egli non accetta però la tesi lockiana della tabula rasa, della mente come foglio bianco su cui l’esperienza lascia le sue impressioni, e sviluppa delle indicazioni date già da Cartesio e presenti anche in Locke sulla possibilità che l’innatismo non riguardi tanto le idee, quanto le capacità di svilupparle, ossia delle disposizioni, delle attitudini. Questa è una tesi che Leibniz presenta attraverso la metafora di una statua di marmo che non sia del tutto intonsa, ma contenga piuttosto delle venature, delle disposizioni intese come potenzialità che possono essere rese attuali dal rapporto con il mondo esterno. In questo modo Leibniz vuole sottolineare il carattere attivo, e non soltanto passivo, della mente nel processo conoscitivo, senza cadere in forme di innatismo che andrebbero incontro alle difficoltà sottolineate da Locke. E Leibniz è consapevole di quanto la sua posizione abbia delle affinità con quella di Locke, tanto che cerca di presentare la propria teoria come vicina a quella del filosofo inglese utilizzando in modo peculiare la nozione lockiana di riflessione. L’immagine del blocco di marmo in cui sono impresse le venature viene allora preferita all’immagine lockiana della tabula rasa. In noi ci sono idee innate, quali quelle di sostanza, di durata o di piacere, e ci sono verità innate costantemente presenti alla nostra mente; per arrivare a conoscerle, però, è necessaria la riflessione – occorre cioè prestare attenzione ad esse. Le idee sono innate nel senso che la mente umana ha la disposizione originaria (del tutto indipendente dall’esperienza) ad acquisire conoscenza; e come occorre fare del lavoro per portare alla luce le venature di un blocco di marmo, così è necessaria la riflessione perché quella disposizione possa tradursi in conoscenza effettiva. Può darsi che il nostro valente autore [cioè: Locke] non si allontani interamente dalla mia opinione. Dopo avere impiegato infatti tutto il suo primo libro [del Saggio sull’intelletto umano] a confutare i principi innati presi in un certo senso, ammette poi, all’inizio del secondo e nel seguito, che le idee che non hanno origine nella sensazione provengono dalla riflessione. Ora, la riflessione non è altro che un’attenzione a ciò che è in noi, e i sensi non ci danno in alcun modo ciò che già portiamo con noi. Ma se le cose stanno così, si può forse negare che nel nostro spirito vi sia molto di innato, dal momento che siamo innati a noi stessi, per così dire, e che dunque ci sono in noi: essere, unità, sostanza, durata, mutamento, azione, percezione, piacere, e mille altri oggetti delle nostre azioni intellettuali? Ed essendo questi oggetti immediati e sempre presenti al nostro intelletto (benché non possano esser sempre appercepiti, a causa delle nostre distrazioni e dei nostri bisogni), perché stupirsi se diciamo che queste idee ci sono innate con tutto ciò che ne dipende? Mi sono servito anche del paragone di un blocco di marmo che abbia delle venature, piuttosto che di un blocco di marmo uniforme o di vuote tavolette, ovvero di ciò che i filosofi chiamano tabula rasa. Poiché se l’anima somigliasse a queste tavolette vuote, le verità sarebbero in noi come la figura d’Ercole in un blocco di marmo, quando il marmo è del tutto indifferente a ricevere questa figura o un’altra. Ma se ci fossero venature nel blocco che segnassero la figura d’Ercole a preferenza di altre figure, questo blocco sarebbe più disposto a riceverla ed Ercole vi sarebbe in certo modo innato, per quanto si rendesse necessario del lavoro per scoprire queste venature e per metterle in evidenza con la politura, togliendo via ciò che impedisce loro di mo409

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strarsi. È così che le idee e le verità sono innate in noi, alla stregua di inclinazioni, disposizioni, abitudini [da intendere come «attitudini»] o virtualità naturali […]. Ripresa dell’accezione ontologica di «idea»

5

Le idee – e qui interviene per Leibniz la seconda prospettiva, logico-metafisica – hanno però la loro radice nell’intelletto divino. Leibniz riprende infatti – come Malebranche – la tradizione platonico-agostiniana; e pur conservando e utilizzando il significato cartesiano del termine «idea» (quello di contenuto della mente umana), torna a utilizzare anche il significato precedente, di tipo ontologico (considera cioè l’idea anche come contenuto della mente divina). La connessione logica tra le cose che esistono, e quindi tra le idee, è infatti fondata nell’intelletto divino, che contiene tutte le possibilità e tutte le verità: Dio è così, in una forma nuova, il garante della corrispondenza tra le idee delle cose e le cose stesse ed è, quindi, il garante della verità della conoscenza. L’intelletto divino è ciò che contiene tutte le verità, anche le verità eventuali dei mondi possibili che non sono stati creati, e Dio, in questo senso, non ne dispone: si tratta di verità eterne e necessarie che sarebbero tali in qualunque mondo. Il mondo esistente è invece il frutto della scelta divina, e per questo è il migliore dei mondi possibili (è cioè il mondo, tra tutti quelli che Dio avrebbe potuto creare, nel quale è presente la minor quantità di male), è il migliore perché Dio lo ha scelto. Rielaborando la nozione lockiana di riflessione, Leibniz sostiene, così, una forma di innatismo originale rispetto alla tradizione: pur negando che la conoscenza abbia origine esclusivamente dai sensi, egli presenta le idee come disposizioni o attitudini e riconosce, dunque, alla mente umana un ruolo attivo nel processo della conoscenza.

Da Hume a Kant

Hume accetta in pieno la critica di Locke all’innatismo: la sua teoria della conoscenza si svolge infatti sul piano di un rigoroso empirismo (vedi Unità 10, p. 527). Le «idee» sono certamente, anch’esse, contenuti della mente umana, ma sono, rispetto alle impressioni, meno vivide, poiché sono semplicemente la traccia lasciata dall’esperienza empirica in senso stretto, attuale, quella che facciamo «quando udiamo, o vediamo, o sentiamo»: le percezioni più vivide della mente sono chiamate da Hume «impressioni»; esse costituiscono quindi la base delle idee (che delle impressioni sono, per così dire, copie sbiadite) e il loro contenuto. L’indagine sulla conoscenza, però, sfocia in un atteggiamento scettico che mostra i limiti della ragione umana nella sua capacità di giustificare la conoscenza, seppure quello di Hume è uno scetticismo moderato. Kant: distinzione Kant modifica a sua volta radicalmente, dopo Cartesio, il significato della noziotra concetti conoscitivi ne di «idea» (vedi Unità 14, p. 680 ss.). Questa modificazione è il risultato dele idee la sua indagine sui limiti della ragione umana e sulle sue possibilità di conoscere, che si trova in Locke e in Hume, ma anche della nuova impostazione del problema delle idee innate, contenuta nelle tesi di Leibniz per il quale esse sono disposizioni o virtualità della mente. Kant arriva così a distinguere i concetti conoscitivi dalle idee, che non sono strumento di conoscenza oggettiva. Hume: le idee sono fondate sulle impressioni

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Percorso tematico Che cos’è un’idea?

L’idea conserva per Kant il significato di contenuto della mente umana – l’unica che possa essere indagata –; viene però privata delle sue capacità conoscitive per diventare semplice principio regolativo della conoscenza e per assumere invece tutta la sua importanza in ambito morale. Funzione regolativa Le possibilità di conoscere della mente umana sono limitate all’esperienza, che delle idee viene conosciuta attraverso i concetti puri dell’intelletto: questi sono il segno del carattere attivo della mente nel processo conoscitivo. Per quanto riguarda le idee, queste sono qualcosa di diverso dai concetti della conoscenza empirica, l’unica conoscenza oggettiva possibile: le idee sono infatti puri concetti razionali, gli oggetti dei quali sorpassano la possibilità dell’esperienza, come l’anima, la libertà, il mondo o Dio. Sul piano conoscitivo, esse possono avere soltanto – come nel caso della idea di «mondo» – una funzione che Kant chiama regolativa: le idee servono a orientare la nostra indagine, indicano cioè un orizzonte. Per accostarsi più propriamente agli oggetti che sono al di là dell’esperienza, però, e quindi al mondo delle idee, bisogna assumere un punto di vista diverso da quello conoscitivo: è il punto di vista della moralità, che apre nuovi accessi alla ragione e quindi alla possibilità di affrontare oggetti diversi da quelli della conoscenza oggettiva, empirica. L’esperienza morale è ciò che dà un contenuto alle idee. Le idee non sono strumento di conoscenza

Riferimenti bibliografici R. Descartes, Meditazioni metafisiche, trad. e introd. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 2006. A. Arnauld - P. Nicole, La logica, o l’arte di pensare in Grammatica e logica di Port-Royal, a cura di R. Simone, Ubaldini, Roma 1969. N. Malebranche, La ricerca della verità, a cura di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1983. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, UTET, Torino 1982. G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, a cura di M. Mugnai, Editori Riuniti, Roma 1982. I brani antologizzati sono tratti da: R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., III Meditazione, pp. 61, 63. N. Malebranche, La ricerca della verità, cit., pp. 319-320. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, cit., pp. 69-71 (T3), pp. 88-89, 99 (T4). G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, cit., p. 47.

Questionario 1

Quale differenza c’è tra la concezione platonicoagostiniana delle idee e quella di Cartesio? (max 3 righe)

3

Qual è l’argomento con cui Locke dimostra che non sono innati né i principi conoscitivi, né i principi pratici secondo T3 e T4? (max 3 righe)

2

Quale argomento viene presentato in T1 da Malebranche contro la tesi secondo la quale ci sono idee innate? (max 4 righe)

4

Spiega in un massimo di 6 righe come viene usata in T5 da Leibniz la nozione di riflessione nella difesa dell’innatismo. 411

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo 1. L’officina della modernità 1. Lo stato di natura

2. Privilegi e difetti dello stato di natura 3. La genesi del potere politico 4. I tratti distintivi della dottrina liberale

2. Hobbes e la teoria dello Stato assoluto 1. L’ideale di una scienza politica dimostrativa

4. L’anomalia di Spinoza

2. Lo stato di natura come «guerra di tutti contro

1. Diritto naturale e potenza

tutti» 3. Il diritto di natura e le leggi di natura 4. Il patto d’unione e la rappresentanza politica 5. La sovranità

2. Assolutezza e limiti del potere politico 3. Democrazia e libertà di espressione

3. Locke e la dottrina liberale 1. Contro il diritto divino: il Primo trattato

sul governo

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Hobbes, Leviatano

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’officina della modernità

1 Premodernità: leggi naturali come leggi di Dio ➥ Laboratorio sul lessico, Diritto, p. 459

Modernità: giusnaturalismo come diritto razionale

Diritto soggettivo, ma universale

Grozio e la nascita del giusnaturalismo moderno

Autonomia del diritto e della morale

Con il termine giusnaturalismo – derivante dal latino ius («diritto») e natura – si intende la dottrina secondo la quale vi è un diritto naturale, cioè un sistema di norme universali ed eterne che regolano i rapporti umani, antecedente e superiore rispetto al diritto positivo, che consiste nelle norme diverse e mutevoli imposte dalle istituzioni politiche storicamente esistenti. Nell’antichità e nel Medioevo – in cui il giusnaturalismo fu sviluppato soprattutto dagli stoici, dalla patristica agostiniana e dalla scolastica tomistica – la ‘natura’ che è radice del diritto è l’ordine teologico e ontologico del mondo: diritto di natura e leggi di natura coincidono con il diritto e le leggi di Dio. Si è visto che nel corso del Seicento, con la rivoluzione scientifica e con la svolta inaugurata da Cartesio, viene messa in discussione la convinzione di poter identificare un ordine finalistico, immutabile e gerarchico dell’essere, da cui discendono naturalmente anche le forme della politica e della società, l’origine dell’autorità, la distinzione tra giusto e ingiusto ecc. Ciò si riflette anche sul diritto naturale, che assume una forma moderna, in cui il diritto non è più fondato sulla natura in generale, bensì sulla natura umana, cioè sulla ragione, che costituisce il tratto distintivo degli esseri umani. Il diritto di natura perde così il carattere metafisico-teologico – e quindi oggettivo, radicato nelle cose stesse – per diventare diritto razionale, e quindi soggettivo, nel senso di essere proprio solo del soggetto umano (e non nel senso di variare da individuo a individuo, dal momento che la ragione è unica). Emblematica sotto questo profilo è la posizione di Ugo Grozio (nome latinizzato di Huig van Groot), che è generalmente riconosciuto come una figura importante nella transizione dal giusnaturalismo classico al giusnaturalismo moderno. Nel De jure belli ac pacis (1625), che è la sua opera fondamentale, Grozio fonda, infatti, il diritto esclusivamente sulla ragione umana, pur non negandone l’origine divina: ciò che è conforme alla natura razionale dell’uomo è giusto e moralmente necessario; ciò che se ne discosta è necessariamente ingiusto e riprovevole. In questo modo, Grozio rende il diritto e la morale del tutto autonomi rispetto alla metafisica e alla teologia: con un’affermazione divenuta celebre, egli asserisce che il diritto naturale conserverebbe la sua validità anche se, per assurdo, Dio non esistesse.

La vita e le opere Huig van Groot (italianizzato in Ugo Grozio) nacque a Delft, in Olanda, nel 1583. Studiò e si laureò a Leida e nelle dispute olandesi tra teologi si schierò sulle posizioni più tolleranti e aperte e contro la rigida dottrina calvinista della predestinazione. Nel 1603 divenne storiografo ufficiale di quel Paese, ma dopo la sconfitta della corrente liberale al sinodo di Dordrecht nel 1618 venne incarcerato e condannato all’ergastolo.

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Riuscì a evadere due anni dopo e si rifugiò in Francia alla corte di Luigi XIII, dove ricevette una pensione e scrisse la sua opera più importante, il De jure belli ac pacis («Il diritto della guerra e della pace»). Nel 1634 abbandonò anche la Francia, per motivi religiosi, e accettò la carica di ambasciatore di Svezia. Morì a Rostock, in Germania, nel 1645. È considerato il fondatore del diritto pubblico moderno e del diritto internazionale.

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo Nasce la scienza politica

Tratto distintivo del giusnaturalismo moderno è anche il suo carattere scientifico, cioè l’ambizione di trasformare la politica in una scienza razionale e incontrovertibile, conforme al nuovo ideale geometrico-deduttivo di scienza e valida per tutti, al di là delle diverse concezioni del bene e del giusto. Non a caso, nel giro di poco tempo il giusnaturalismo moderno fa il suo ingresso nelle università come insegnamento specifico, con Samuel Pufendorf, al quale viene assegnata, a Heidelberg, la prima cattedra della nuova «scienza del diritto naturale».

La vita e le opere Samuel Pufendorf nacque a Chemnitz, in Sassonia, nel 1632. Avviato alla carriera ecclesiastica dal padre studiò teologia all’università di Leipzig ma la lasciò per Jena, dove conobbe le opere di Grozio, Hobbes e Cartesio. Nel 1658 divenne insegnante privato e due anni dopo pubblicò gli Elementa jurisprudentia universalis («Elementi di diritto universale»), dedicati all’elettore palatino Car-

lo Ludovico, che lo chiamò all’università di Heidelberg a ricoprire la prima cattedra di diritto naturale internazionale. Venne chiamato all’università di Lund, in Svezia, nel 1670 e dopo due anni uscì il De jure naturae et gentium («La legge di natura e delle genti»). Divenne storiografo reale a Stoccolma nel 1677; undici anni più tardi si trasferì nel Brandeburgo su richiesta di Federico Guglielmo I. Morì a Berlino nel 1694.

Il giusnaturalismo moderno è l’espressione di un profondo rinnovamento nel modo di concepire l’obbligazione politica, innescato dalla Riforma protestante che, incrinando l’unità del mondo cristiano, mette in crisi l’idea tradizionale dell’origine divina dell’autorità e avvia un processo irreversibile di laicizzazione della politica: venuto meno il fondamento divino dell’obbligazione politica, si tratta di trovarne uno nuovo – a partire dalla ragione – e di sopperire all’assenza di un ordine metafisico e naturale attraverso la costruzione di un ordine artificiale razionale. Le due categorie A questo scopo, il giusnaturalismo moderno elabora e utilizza due categorie fonfondamentali damentali: del giusnaturalismo 1) lo stato di natura – cioè la condizione degli uomini al di fuori delle istituzioni politiche – che è assunto come punto di partenza dell’analisi dell’origine e del fondamento dello Stato; 2) il contratto sociale, che è indicato come l’elemento indispensabile per attuare il passaggio dallo stato di natura allo stato politico e come il principio di legittimazione di quest’ultimo. La laicizzazione della politica

1

Lo stato di natura

Lo stato di natura è concepito da tutti i pensatori giusnaturalisti come uno stato composto principalmente da individui singoli non associati che, in quanto dotati di diritti naturali innati, sono liberi e uguali gli uni rispetto agli altri (seppure con variazioni rilevanti a seconda del significato che viene attribuito ai termini libertà e uguaglianza). Tra stato di natura e stato politico è stabilito di solito un rapporto di contrapposizione, più o meno forte: l’ingresso nello Stato è, infatti, presentato come il rimedio necessario per correggere o eliminare i difetti dello stato di natura. Il contratto come Proprio perché i due stati sono tra loro contrapposti, il passaggio dall’uno alfondamento dello Stato l’altro non è inteso come un passaggio naturale, che avviene necessariamente La condizione naturale prepolitica

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La sovranità, espressione razionale della volontà politica

Giusnaturalismo come alveo originario della politica moderna

Due modelli di giusnaturalismo

Locke e Hobbes divisi su due questioni fondamentali

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per la forza stessa delle cose, bensì come il frutto di un atto volontario, cioè di un contratto o, più precisamente, di un patto tra gli individui, dal quale nasce l’ordine politico artificiale e razionale, che solo rende efficaci diritti e leggi di natura. Nel contrattualismo razionalistico che contraddistingue il giusnaturalismo moderno, dunque, la natura non è fondamento dell’ordine politico in senso pieno, ma contiene in sé soltanto germi di ordine – cioè i diritti e le leggi di natura – che vanno tutelati nella dimensione politica, dove diventano diritti civili e politici. Il potere politico che nasce dal patto fra individui è la sovranità dello Stato, che è concepita come l’espressione della razionalità e della volontà politica di tutti. Oltre alla sua origine, anche il suo modo di funzionamento è razionale: la sovranità, infatti, produce la legge che è razionale in quanto non riflette i privilegi di questo o quel ceto, bensì regola indistintamente la vita di tutti i cittadini, uguali tra di loro. I principi appena illustrati sono gli elementi essenziali di quello che è stato definito il «modello giusnaturalistico», cioè uno schema di fondazione dell’ordine politico che – sia pure con diverse modificazioni – si ritrova in tutti i principali filosofi politici dell’età moderna, da Hobbes sino a Kant e ai kantiani. L’influenza di questo modello si estende però ben oltre la ristretta sfera del pensiero filosofico: l’idea che gli individui umani, in quanto esseri razionali, siano titolari dei diritti naturali innati di libertà e uguaglianza – la cui tutela costituisce il compito dell’ordine politico – ha infatti trovato una concreta espressione politica nelle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, che accompagneranno le costituzioni emanate alla fine del Settecento, cioè la Costituzione americana e quella della Francia rivoluzionaria. Lo stesso principio permea ancora la cultura e la prassi politica occidentale. È chiaro dunque che il giusnaturalismo non è una dottrina tra le altre, ma costituisce piuttosto l’alveo in cui nascono i concetti fondamentali della politica moderna, tuttora in uso. In questa Unità si esamineranno le due principali declinazioni che il giusnaturalismo contrattualistico riceve nel corso del Seicento: la teoria dello Stato assoluto sostenuta da Hobbes – che rappresenta il fondatore della nuova scienza del diritto naturale – e la dottrina dello Stato liberale, elaborata da Locke. Nel pensiero politico di entrambi gioca un ruolo centrale e costitutivo il nesso tra patto e sovranità razionale; le loro teorie politiche sono, però, contrapposte, per il modo in cui affrontano due questioni fondamentali: 1) la questione se la capacità politica che gli uomini manifestano nel contratto che origina lo Stato sia tutta destinata a costruire l’ordine politico rappresentativo, e a confluire in esso – come sostiene Hobbes – o se invece una parte resti presso gli individui anche dopo il patto, secondo la teoria di Locke; 2) la domanda se e come sia possibile limitare il potere dello Stato, che, nascendo dalla ragione di tutti, tende quindi a essere illimitato; il che pone problemi a quello stesso individuo dal quale e a favore del quale il potere è nato. A questa domanda risponde in modo negativo non solo Hobbes – teorico dello Stato assoluto – ma anche Rousseau, che è invece un teorico della democrazia; una risposta positiva è invece fornita da Locke e, dopo di lui, da Kant, che possono per questo essere considerati i due padri del liberalismo moderno.

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo Spinoza: un contrattualismo anomalo

Spinoza: il patto è in armonia con l’ordine ontologico della realtà

Un’alternativa ad assolutismo e liberalismo ➥ Sommario, p. 447

In conclusione di questa Unità verrà esaminata anche la dottrina politica di Spinoza (cronologicamente anteriore a quella di Locke), che occupa una posizione anomala all’interno della teoria contrattualistica. Pur utilizzando il lessico e le categorie contrattualistiche – soprattutto nel Trattato teologico-politico – Spinoza dichiara, infatti, di non avere motivo di dissentire dalla teoria opposta, cioè la teoria naturalistica della genesi della società, secondo la quale quest’ultima nasce in maniera naturale, e non attraverso l’artificio del contratto. Questa ambivalenza è espressione di una concezione del patto molto peculiare, dalla quale è assente ogni idea di artificialità. Per Spinoza, infatti, la funzione del patto non è quella di costruire un ordine politico razionale del tutto artificiale, in rottura sia con la natura sia con la storia: cosa che risulterebbe contraddittoria con i presupposti dell’ontologia spinoziana, secondo la quale non può accadere nulla che sia in contrasto con le leggi universali e necessarie della Natura-sostanza infinita. Il patto serve semplicemente a regolamentare una condizione nella quale di fatto gli uomini sono già ‘naturalmente’ consociati: la forma politica che da esso risulta non deve essere opposta allo stato di natura, bensì è tanto più perfetta quanto più si avvicina a quest’ultimo. Sulla base di questa concezione del patto, Spinoza elabora una teoria politica, che è parzialmente estranea all’alternativa tra assolutismo e liberalismo, in quanto non considera l’assolutezza del potere politico e le libertà individuali fondamentali – cioè la libertà di pensiero e di espressione – come termini contraddittori, bensì pone queste ultime a fondamento del potere assoluto dello Stato.

I caratteri del giusnaturalismo

Giusnaturalismo Esiste una legge di natura

Antico Legge fondata su un principio teologico o metafisico

Moderno Legge fondata sulla razionalità umana

La legge di natura coincide con la legge di Dio

La legge di natura è propria del soggetto umano

Origine divina dell’autorità: ordine oggettivo ed eterno

Laicizzazione della politica: costruzione di un ordine artificiale

Stato di natura come condizione prepolitica

Contratto sociale come mezzo per passare allo Stato e come legittimazione del potere

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Hobbes e la teoria dello Stato assoluto

2 I testi T. Hobbes

De cive: I dogmi biformi dei filosofi morali, T1; L’uomo non è un animale sociale, T2 Leviatano: Alcune differenze tra gli uomini e le formiche,

L’etica relativistica di Hobbes

Si è visto che per Hobbes la maggior causa di discordia tra gli uomini è costituita dalla divergenza di opinioni riguardo a ciò che è giusto e ingiusto: divergenza di opinioni che costituisce un dato di partenza inevitabile, dal momento che nella prospettiva hobbesiana non vi è un quadro di valori etici fisso e prestabilito, fondato su un ordine oggettivo (vedi Unità 6, p. 356 ss.). La comunanza di valori e la concordia sociale – che non esistono da sé, per natura – possono piuttosto per Hobbes essere solo il frutto di una costruzione razionale: a tale scopo è necessaria una scienza politica rigorosa, capace di elaborare una teoria valida per tutti, come la geometria.

La storia inglese e le opere politiche di Hobbes Nella prima metà del XVII secolo l’Inghilterra vive la contesa tra il monarca cattolico Carlo I Stuart e il parlamento: dal 1629 al 1640 il re scioglie d’autorità l’assemblea e governa in maniera assoluta; nel 1640 è costretto a convocare il parlamento ma lo scioglie quasi subito perché non viene esaudita la sua richiesta di imporre una nuova tassa per finanziare la sua lotta contro i rivoltosi scozzesi. L’assemblea viene poi convocata nuovamente e acquista sempre maggior potere, tanto che nel 1642, quando il re cerca di arrestarne i leader, scoppia la guerra civile, che termina con la sconfitta del sovrano e la sua decapitazione nel 1649. L’Inghilterra diviene una repubblica parlamentare. In quegli anni Hobbes scrive le sue opere politiche più importanti. La prima è il De cive («Il cittadino»), la terza parte degli Elementi di filosofia, scritta nel 1641 e uscita nel 1642, in poche copie, a Parigi dove il filosofo è in esi-

1 Aristotele: politica come scienza del probabile

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T3; Il rapporto tra diritto naturale e leggi di natura, T4; La generazione dello Stato, T5; Il sovrano è il vicereggente di Dio sulla terra, T6

lio. Nel 1647 ne viene stampata ad Amsterdam una versione ampliata con note esplicative che poi Hobbes traduce in inglese nel 1651, dopo il suo ritorno in patria. L’altra è il Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile uscito nel 1651 in inglese. Il De cive è strutturato in tre parti: origine dello Stato, struttura dello Stato e rapporti con la Chiesa; il Leviatano è diviso in quattro: l’uomo (descrizione della conoscenza umana, delle passioni, dello stato di natura e delle leggi naturali), lo Stato, lo Stato cristiano e il regno delle tenebre (dedicato a smascherare «il potere delle tenebre» che nasce da un’errata interpretazione della Scrittura). Il tema politico del rapporto Stato / Chiesa ha nel Leviatano un’ampiezza molto maggiore. Le due opere si rivolgono a pubblici diversi: la prima è indirizzata agli studiosi di ogni Paese; la seconda è dedicata principalmente ai concittadini di Hobbes, appena usciti dalla guerra civile, ed è ricca di riferimenti storici.

L’ideale di una scienza politica dimostrativa Con il proposito di fondare una scienza politica, Hobbes si contrappone ai filosofi morali che lo hanno preceduto, avendo di mira probabilmente soprattutto la tradizione di pensiero risalente ad Aristotele, che aveva concepito l’etica e la politica come la conoscenza non del certo ma del probabile, e le aveva dunque incluse nel dominio della retorica, e non in quello della logica.

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

Hobbes rimprovera, infatti, ai suoi predecessori di non avere mai neppure tentato di fare della scienza politica una scienza rigorosa, per ignoranza o più probabilmente per interesse: speculando in maniera arbitraria, i filosofi morali del passato non avrebbero fatto altro che rafforzare, con orpelli retorici, le opinioni accolte in maniera irriflessa dai sostenitori di opposti partiti. Nel De cive i principi etici affermati dalle diverse correnti filosofiche sono paragonati a «dogmi» dal duplice volto, simili in questo ai centauri, di natura in parte umana e in parte equina: essi suonano, infatti, come nobili e alti, ma in realtà alimentano conflitti e stragi, offrendo una giustificazione all’arroganza di quanti rivendicano il diritto di decidere privatamente su ciò che è giusto o ingiusto. Trovare la via Di contro, l’obiettivo della nuova scienza politica che Hobbes intende fondare è della pace quello di indicare la «via regia della pace», cioè la strada per superare il dissenso degli individui sul giusto e sull’ingiusto – fonte di guerre civili – mostrando che a tale scopo è necessaria la sottomissione di tutti all’unico soggetto, individuale o collettivo, cui spetta il potere di stabilire le leggi. Per esprimere la sua critica alle teorie politiche precedenti Hobbes narra il mito di Issione, re della Tessaglia, e del suo tentativo di sedurre Giunone, e lo interpreta come una metafora dell’atteggiamento più comune tra i filosofi morali.

Hobbes: politica come scienza rigorosa

T1

I dogmi biformi dei filosofi morali T. Hobbes, De cive, Prefazione ai lettori

[…] Raccontano infatti [gli antichi] che Issione, invitato a banchetto da Giove, si invaghì di Giunone e cercò di sedurla. Ma al posto della dea, gli si offrì una nuvola che aveva ricevuto il suo aspetto; e ne nacquero i centauri, di natura in parte umana ed in parte equina, una stirpe inquieta e pugnace. Mutati i nomi, è come se [gli antichi] avessero detto che i privati, chiamati a consiglio sulle supreme questioni della repubblica, desiderarono sottomettere al loro giudizio la giustizia, sorella e sposa del potere supremo, ma, abbracciando una sua immagine, falsa e vuota, come se fosse una nuvola, hanno generato i dogmi biformi dei filosofi morali, in parte retti e belli, in parte stolti e brutali, causa di ogni lotta e di ogni strage. Poiché simili opinioni nascono ogni giorno, se qualcuno disperdesse quelle nubi, e mostrasse, in base a ragioni fermissime, che non vi sono dottrine autentiche del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, eccetto le leggi istituite in ciascuno Stato; e che nessuno deve ricercare se un’azione sarà giusta o ingiusta, buona o cattiva, eccetto chi ha ricevuto dallo Stato l’incarico di interpretare le sue leggi; costui non solo indicherebbe la via regia della pace, ma anche i sentieri oscuri e tenebrosi della sedizione. E non si può immaginare nulla di più utile. Hobbes può dunque essere considerato il padre del razionalismo politico moderno, in quanto fa della politica una scienza, ed esclude che essa possa legittimarsi altrimenti che con la ragione, che possa cioè fondarsi su un Dio trascendente o sulla tradizione.

2 Gli uomini nello stato di natura

Lo stato di natura come «guerra di tutti contro tutti» Per procedere alla costruzione razionale dell’ordine sociale mediante la nuova scienza politica, Hobbes prende le mosse dall’analisi della condizione degli uomini al di fuori di ogni vincolo sociale e politico, ossia nel cosiddetto «stato di natura». 419

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Inesausto desiderio di potere

Stessa energia vitale

Conflittualità permanente: insicurezza e timore

Tre possibili cause di conflitto: competizione per il guadagno

diffidenza reciproca

vanagloria ➥ Laboratorio di lettura, p. 450

Stato di natura come ipotesi logico-argomentativa

420

Hobbes concepisce questa condizione originaria secondo due presupposti fondamentali della propria antropologia rigorosamente materialistica: 1) la concezione dell’uomo come essere necessitato dalla sua natura a desiderare sempre più rispetto a quanto possiede, e dunque contraddistinto da un inesausto desiderio di potere (vedi Unità 6, p. 354 s.): per Hobbes, infatti, il potere non è nient’altro che l’insieme dei mezzi necessari per perseguire quanto si desidera. 2) in secondo luogo, la tesi dell’uguaglianza naturale degli uomini: Hobbes rifiuta l’idea che esistano gerarchie prestabilite e fisse tra gli esseri umani, in virtù delle quali per natura alcuni sarebbero atti a governare e altri a essere governati (secondo quello che da alcuni studiosi è stato indicato come «il principio fondamentale della politica nei Greci, nel Medioevo e nella prima età moderna»). Di contro, egli afferma che tutti gli individui sono uguali, in quanto dotati di un’energia vitale all’incirca equivalente, rispetto alla quale le differenze, sia fisiche sia mentali, sono irrilevanti. Sulla base di questi due presupposti, Hobbes presenta lo stato di natura come una situazione di conflittualità generalizzata, che egli definisce con l’espressione iperbolica di «guerra di tutti contro tutti»: in una situazione in cui tutti sono uguali nella capacità di nuocersi, l’inesausto desiderio di potere che caratterizza ogni uomo non può, infatti, che generare una conflittualità che è universale e permanente, non nel senso che tutti combattono contro tutti in ogni momento, bensì nel senso che tutti vivono costantemente nel timore della morte violenta poiché non c’è un potere comune che li tuteli. La guerra non è, infatti, soltanto il conflitto aperto – argomenta Hobbes – ma anche la situazione di quiete precaria, segnata dalla minaccia incombente di essere aggrediti dagli altri. Nel Leviatano, Hobbes individua in particolare tre possibili cause scatenanti del conflitto, nello stato di natura: 1) la competizione per il guadagno di un bene: data la scarsità di beni presenti in natura, è molto facile che esseri perennemente desideranti come gli uomini entrino in conflitto per il possesso dello stesso bene, tanto più dal momento che tutti gli individui, in quanto uguali, possono aspirare a qualsiasi tipo di bene; 2) la diffidenza reciproca, che spinge gli uomini a combattere per la sicurezza: poiché la differenza di forza non è mai tale da rendere il più debole incapace di uccidere il più forte, nello stato di natura nessuno può mai sentirsi al sicuro, bensì ciascuno è sempre esposto al rischio di essere aggredito nei suoi beni e nella sua vita. La consapevolezza di questo rischio genera tra gli uomini una diffidenza reciproca, che è un’ulteriore causa di conflitto, in quanto fa apparire come unico mezzo per difendere la propria sicurezza quello di attaccare gli altri prima ancora di essere attaccati (cioè quella che, in termini moderni, si può definire «guerra preventiva»); 3) la vanagloria, che induce gli uomini a lottare per la reputazione: secondo Hobbes, infatti, tutti gli uomini sono inclini alla vanagloria, cioè desiderano sempre essere valutati dagli altri più di quanto questi siano disposti a fare, e sono pronti a usare la forza per estorcere una valutazione superiore. Lo stato di natura cui Hobbes fa riferimento non ha un significato storico, cioè non va inteso come la condizione che ha effettivamente preceduto la formazione dello Stato: esso ha piuttosto un significato metodologico, in quanto rappresenta un espediente logico – ricavato dall’astrazione rispetto ai rapporti sociali esistenti – che funge da punto di partenza per il percorso teorico necessario alla fondazione della politica come scienza rigorosa.

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo Un’ipotesi costruita per astrazione

Situazioni realmente osservate

L’antiaristotelismo di Hobbes

T2

L’uomo non è un animale sociale

T. Hobbes, De cive, 1,2

Le passioni come origine di conflitto

T3

Alcune differenze tra gli uomini e le formiche

T. Hobbes, Leviatano, 2,17

Tuttavia, è innegabile che l’immagine hobbesiana dello stato di natura abbia tratti fortemente realistici. Per confermare la propria visione dello stato di natura – che è ricavata da un’analisi razionale delle passioni umane – Hobbes stesso si appella in più occasioni all’esperienza di quelle situazioni in cui è assente il vincolo politico dello Stato. Le situazioni storicamente determinate cui Hobbes fa riferimento sono tre: in primo luogo, il caso della guerra civile inglese – da lui vissuta in prima persona (rimane in esilio a Parigi per undici anni data la sua ostilità al movimento parlamentare) – che si verifica quando uno Stato esistente si dissolve; in secondo luogo, l’esempio dei popoli che non hanno ancora istituito lo Stato, come gli indigeni dell’America; infine, i rapporti internazionali tra i diversi Stati dell’epoca che, non essendo regolati dalla soggezione a un potere comune, sono caratterizzati dalla continua minaccia di guerra, come era avvenuto durante il lungo conflitto che aveva insanguinato l’Europa (Guerra dei trent’anni, 1618-1648). In ogni caso, il punto da mettere in rilievo è il fatto che la concezione hobbesiana dello stato di natura come guerra di tutti contro tutti è diametralmente opposta alla raffigurazione dell’uomo come animale naturalmente socievole, risalente ad Aristotele. Questa tesi Hobbes la rifiuta in maniera esplicita, riprendendo il principio opposto formulato dal commediografo latino Plauto (259 / 251-184 ca. a.C.) nell’Asinaria, secondo il quale ogni uomo è un lupo per gli altri uomini (homo homini lupus). La massima parte di coloro che hanno trattato delle repubbliche, suppongono, o pretendono, o postulano, che l’uomo sia un animale atto per nascita alla società, i greci dicono zoon politikòn; e su questo fondamento edificano la dottrina civile, come se per conservare la pace e governare l’intero genere umano non occorresse altro che il consenso degli uomini riguardo a certi patti e condizioni, che chiamano senz’altro leggi. Questo assioma, sebbene accolto da molti, è falso; e l’errore è nato da una considerazione troppo superficiale della natura umana. Per Hobbes, la natura umana è animale ma, a differenza di quella di certi animali – come le api o le formiche – non è affatto incline alla socialità. Ben lungi dall’associare gli uomini, la natura li ha piuttosto dissociati, ponendoli in competizione per i beni e dotandoli di passioni e abilità generatrici di conflittualità, quali la vanagloria, la tendenza a godere solo della superiorità sugli altri, la diffidenza e l’arte della parola, cioè la retorica. È vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono fra di loro in società (e sono perciò annoverate da Aristotele tra le creature politiche) e tuttavia non hanno altra direzione che i loro giudizi e appetiti particolari, e non hanno la parola con la quale l’una possa significare all’altra che cosa sia vantaggioso per il beneficio comune; alcuni perciò possono forse desiderare di sapere perché il genere umano non può fare lo stesso. A ciò rispondo: Primo, che gli uomini sono continuamente in competizione per l’onore e per la dignità, cosa che non accade tra queste creature; per conseguenza tra gli uomini sorge, su quel fondamento, l’invidia e l’odio e, infine, la guerra; tra queste, invece, non è così. Secondo, che tra queste creature, il bene comune non differisce dal privato, ed essendo esse, per natura, inclini al loro bene privato, procurano con ciò il bene421

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

ficio comune. Ma l’uomo, la cui gioia consiste nel paragonarsi con gli altri uomini, non può gustare se non ciò che è eminente. Terzo, che queste creature, non avendo (come l’uomo) l’uso della ragione, non vedono, né pensano di vedere qualche colpa nell’amministrazione dei loro affari comuni, mentre tra gli uomini ve ne sono moltissimi che pensano di essere più saggi e più capaci di governare la cosa pubblica degli altri; questi si sforzano di riformare e di rinnovare, chi in un modo, chi in un altro, e portano alla divisione e alla guerra civile. Quarto, che queste creature, sebbene abbiano in qualche modo l’uso della voce per rendersi noti l’un l’altro i propri desideri e le altre affezioni, mancano tuttavia di quell’arte della parola, per la quale alcuni uomini possono rappresentare agli altri ciò che è bene sotto l’aspetto del male e ciò che è male sotto l’aspetto del bene, ed aumentare o diminuire l’apparente grandezza del bene e del male, scontentando gli uomini e turbando la loro pace a piacimento.

3 Il diritto naturale fondamentale è l’autoconservazione

Libertà illimitata come fonte di insicurezza

L’utile come movente per uscire dallo stato di natura

La ricerca della pace si fonda sulle passioni e sulla ragione

422

Il diritto di natura e le leggi di natura Nella conflittualità permanente e senza limiti che contraddistingue lo stato di natura, per Hobbes ciascun individuo ha il diritto di utilizzare ogni mezzo per tutelare i propri beni e la propria vita: questo diritto è ciò che egli definisce «diritto naturale», identificandolo con la libertà di ogni individuo di usare il proprio potere per la propria autoconservazione, nel modo che ritiene più opportuno. Proprio perché dipende dal giudizio privato di ciascuno, il diritto naturale è per Hobbes diritto a tutte le cose (jus in omnia): in assenza di un potere che stabilisca dei confini e dei criteri comuni, ognuno è, infatti, libero di ritenere come atto alla propria conservazione qualsiasi cosa, senza nessuna restrizione, compreso la vita e il corpo degli altri uomini. Il diritto naturale così inteso – nel senso di libertà illimitata di ciascun individuo di avanzare pretese su ogni cosa – costituisce, però, la radice principale di quell’ostilità universale e perpetua, che rende lo stato di natura una condizione misera e a lungo andare intollerabile, in cui l’uomo è sempre esposto al rischio del sommo male, che è per Hobbes il pericolo di morte violenta. Ne consegue che la prima condizione per uscire dallo stato di natura non potrà che essere la rinuncia di tutti al diritto naturale. Si tratta di comprendere che cosa possa spingere l’uomo in questa direzione, cioè a uscire dallo stato di natura e a deporre il proprio diritto naturale. Ciò non può avvenire sulla base di astratti valori morali: si è visto, infatti, che per Hobbes nello stato di natura bene e male non hanno alcun significato, se non quello di ciò che è piacevole o spiacevole, variabile da individuo a individuo (vedi Unità 6, p. 356 s.). L’uscita dallo stato di natura ha luogo piuttosto solo sulla base della ricerca dell’utile da parte di ciascun individuo. Già tra le stesse passioni ve ne sono, infatti, alcune che suggeriscono all’uomo che il vero interesse individuale è la pace: tra queste passioni che inclinano alla pace la più forte è il timore della morte, assieme alla speranza di una vita comoda. Inoltre, per natura l’uomo non è solo un essere passionale, bensì è anche dotato della ragione, che pure lo indirizza alla pace. In quanto facoltà di computare – e dunque anche di calcolare quali sono i mezzi più adeguati per raggiungere i fini

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

Leggi di natura come regole di prudenza

Le prime due leggi: cercare la pace e deporre il proprio diritto naturale

T4

Il rapporto tra diritto naturale e leggi di natura T. Hobbes, Leviatano, 1,14

voluti – la ragione prescrive delle regole dettate dalla prudenza (vedi Unità 6, p. 347) per conseguire lo scopo comune a tutti gli uomini, cioè l’autoconservazione. Hobbes definisce queste regole «leggi di natura», mettendo in guardia contro la confusione corrente tra diritto di natura e legge di natura, che ai suoi occhi sono ben distinti: il primo esprime una libertà illimitata di fare e non fare, mentre la legge obbliga a una delle due cose, a seconda che si tratti di azioni che salvaguardano o compromettono la nostra vita. Ora, dal momento che in guerra tutti corrono il rischio di perdere la vita, la prima e fondamentale legge di natura è quella di cercare in ogni modo la pace. Da essa discende – in base a quanto detto sopra sul nesso tra diritto naturale e guerra – la seconda legge di natura, che prescrive appunto di deporre il proprio diritto naturale su tutte le cose, a condizione che anche gli altri siano disposti a fare lo stesso. Quindi è la seconda legge che determina l’uscita dell’uomo dallo stato di natura. IL DIRITTO DI NATURA, che gli scrittori comunemente chiamano jus naturale, è la libertà che ogni uomo ha di usare il suo potere, come egli vuole, per la preservazione della propria natura, vale a dire, della propria vita, e per conseguenza di fare qualunque cosa nel suo giudizio egli concepirà essere il mezzo più atto a ciò. Per LIBERTÀ, si intende, secondo il significato proprio della parola, l’assenza di impedimenti esterni, i quali impedimenti possono spesso togliere parte del potere di un uomo di fare ciò che vorrebbe, ma non possono ostacolarlo nell’usare il potere che gli è rimasto, secondo ciò che il suo giudizio e la ragione gli detteranno. UNA LEGGE DI NATURA (lex naturalis) è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita o che gli toglie i mezzi per preservarla, e di omettere ciò con cui egli pensa possa essere meglio preservata. Benché infatti, coloro che parlino di questo soggetto, usino confondere jus e lex, diritto e legge, pure debbono essere distinti, perché il DIRITTO consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la LEGGE determina e vincola a una delle due cose; cosicché la legge e il diritto differiscono come l’obbligo e la libertà che sono incompatibili in una sola e medesima materia. E per il fatto che la condizione dell’uomo (come è stato dichiarato nel capitolo precedente) è una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, e, in questo caso, ognuno è governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso che non possa essergli di aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi nemici, ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo. Perciò, finché dura questo diritto naturale di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per alcuno (per quanto forte o saggio egli sia) di vivere per tutto il tempo che la natura ordinariamente concede agli uomini di vivere. Per conseguenza è un precetto o regola generale della ragione, che ogni uomo debba sforzarsi alla pace, per quanto abbia speranza di ottenerla, e quando non possa ottenerla, cerchi e usi tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra. La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura, che è, cercare la pace e conseguirla. La seconda, la somma del diritto di natura, che è, difendersi con tutti i mezzi possibili. Da questa fondamentale legge di natura che comanda agli uomini di sforzarsi alla pace, deriva questa seconda legge, che un uomo sia disposto, quando anche altri lo sono, per quanto egli penserà necessario per la propria pace e difesa, a deporre questo diritto a tutte le cose; e che si accontenti di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta egli ne concederebbe ad altri uomini contro di lui. Infatti, finché ogni uo423

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

mo ritiene questo diritto di fare ciò che gli piace, tutti gli uomini sono nella condizione di guerra. Ma se gli altri uomini non deporranno il loro diritto, come lui, allora non c’è ragione che uno solo si spogli del suo; ciò sarebbe infatti un esporsi alla preda (cosa a cui nessun uomo è vincolato) piuttosto che un disporsi alla pace. […] La terza legge: il rispetto dei patti

Perché la rinuncia di ciascuno a esercitare il proprio diritto naturale possa effettivamente garantire la pace, è necessario che nessuno violi l’accordo preso, di non servirsi del proprio diritto naturale a tutte le cose: per questo motivo, il rispetto dei patti costituisce il contenuto della terza legge naturale. Oltre a queste tre, la legge naturale generale – che prescrive all’uomo di fare quanto è necessario per la sua conservazione e di non fare quanto è dannoso per la sua vita – si specifica poi per Hobbes in altre sedici leggi (le leggi naturali sono dunque nel complesso diciannove). Queste sono tutte orientate a far sì che l’uomo trattenga le proprie passioni violente, allo scopo di evitare lo scoppio del conflitto.

Le leggi di natura in Hobbes

424

Leggi

Principio

I (legge fondamentale) II (uscita dallo stato di natura) III (la giustizia) IV (la gratitudine) V (la disponibilità) VI (la disposizione a perdonare) VII (il controllo della vendetta e delle pene) VIII (contro odio e disprezzo) IX (contro la superbia) X (contro l’arroganza) XI (l’equità dei magistrati) XII (uguaglianza nell’uso dei beni comuni) XIII (attribuzione in sorte) XIV (sorte convenzionale o primogenitura) XV (i mediatori di pace) XVI (l’istituzione degli arbitrati) XVII (sottomissione alla legge) XVIII (imparzialità di giudici e arbitri) XIX (l’uso di testimonianze)

Ciascuno deve cercare la pace ma, se non può ottenerla, può ricorrere alla guerra Per conseguire la pace, ciascuno può rinunciare al proprio diritto naturale e alla propria libertà illimitata se anche gli altri fanno altrettanto Gli uomini debbono mantenere i patti che hanno fatto Gli uomini devono mostrarsi grati verso coloro che li beneficiano Ognuno deve sforzarsi di adattarsi agli altri Gli uomini devono perdonare le offese se chi le ha recate si pente e se hanno sufficienti garanzie che questo non si ripeta Le punizioni non devono essere proporzionate al male ricevuto, ma cercare di correggere e prevenire altri mali futuri Non bisogna manifestare odio o disprezzo per gli altri con atti, parole o atteggiamenti Ognuno deve riconoscere gli altri come uguali a sé per natura Non bisogna pretendere nessun diritto superiore a quelli che rimangono a tutti (diritto al governo dei propri corpi, diritto all’aria, all’acqua ecc.) una volta abbandonata la libertà naturale Chi assume incarichi di giudice si deve comportare con equità Le cose comuni devono essere godute da tutti illimitatamente se è possibile, o divise equamente Le cose non divisibili o godibili in comune vanno assegnate in base alla sorte Si può ricorrere a un’attribuzione in sorte oppure accettare di riconoscere un possesso già acquisito perché trasmesso da altri Bisogna sempre rispettare i mediatori di pace Quando nascono conflitti ci si deve sottomettere agli arbitri o giudici riconosciuti Nessuno può essere giudice di se stesso Chi ha un interesse in una controversia non può esserne il giudice Nelle controversie bisogna ascoltare, oltre i contendenti, anche testimoni imparziali

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

4 Regole in vista di un fine

Il rispetto delle leggi naturali deve essere garantito

Stato come potere di garanzia

Stato come massima autorità e sede della sovranità

Patto d’unione e rappresentanza

Un’unità artificiale ma necessaria

Il patto d’unione e la rappresentanza politica Le prescrizioni della ragione che Hobbes chiama leggi di natura in realtà non sono vere e proprie leggi: si tratta semplicemente delle regole da seguire per raggiungere un fine, cioè quello della conservazione della vita. Esse sono universali – perché lo scopo dell’autoconservazione è comune a tutti gli uomini – ma non obbligano sempre e comunque, come i precetti morali e religiosi della tradizione, bensì solo se, osservandole, si è ben sicuri di raggiungere il fine voluto. Ora, il rispetto delle leggi naturali consente di conseguire lo scopo dell’autoconservazione solo se esse vengono osservate da tutti: un uomo che rispettasse l’accordo di non usare il proprio diritto naturale, pur non essendo sicuro che gli altri facciano altrettanto, avrebbe la stessa sorte di un agnello in un branco di lupi, cioè andrebbe incontro a morte certa. Di conseguenza, nessuno è tenuto a osservare le leggi naturali se non è certo che anche gli altri le osservino. Questa sicurezza non può mai avere luogo nello stato di natura, in cui non vi è nessuno talmente forte da costringere tutti a rispettarle: in esso, le leggi naturali esistono solo nella coscienza degli uomini, ma non hanno efficacia, cioè non vincolano i comportamenti esteriori. Ne consegue che per rendere efficaci le leggi naturali – e raggiungere gli scopi della pace, della sicurezza e dell’autoconservazione – è necessario che vi sia un potere tanto irresistibile da rendere svantaggiosa ogni azione contraria alle leggi naturali. Nella prospettiva hobbesiana, questo potere può nascere solo se una moltitudine di uomini riunisce le proprie forze attraverso un patto di tutti con tutti, il cui contenuto è la cessione del proprio diritto naturale a un terzo soggetto, esterno al patto e creato dal patto. Questo nuovo soggetto, assommando in sé il potere di tutti, diviene la più alta autorità concepibile sulla terra: lo Stato, che Hobbes definisce anche «Dio mortale» o Leviatano. Quest’ultimo è un mostro marino della tradizione biblica divoratore di uomini e diventa simbolo di un potere che ingloba completamente la vita degli individui che lo hanno costituito: nella copertina originale del libro era raffigurato come un gigante con il corpo composto da un’infinità di corpi più piccoli. Il detentore della massima autorità è il sovrano – che può essere sia un singolo uomo sia un’assemblea di uomini – rispetto al quale tutti gli altri sono sudditi. La nascita dello Stato non è dunque per Hobbes un fatto naturale, bensì piuttosto un prodotto artificiale, cioè il frutto di un patto, che è un atto di volontà compiuto secondo ragione. Hobbes lo definisce «patto d’unione»: si tratta, infatti, di un patto ‘orizzontale’, cioè di un patto tra individui uguali, da cui nasce la sottomissione a un terzo, generato dal patto stesso. A quest’ultimo il potere sovrano non spetta per una superiorità naturale o metafisica, bensì solo in virtù del patto, attraverso il quale i singoli autorizzano un attore che agisce per conto loro, come loro rappresentante. In quanto tale, il detentore della sovranità è attore di azioni di cui in realtà i sudditi stessi sono autori; obbedendo ad esso, i sudditi non fanno dunque altro che obbedire a loro stessi. Ciò che rende necessaria la rappresentanza è l’esigenza di ridurre a unità una moltitudine dispersa di individui che, prima di stipulare il patto, sono uguali solo nelle capacità, ma hanno per il resto differenze di interessi e volontà potenzialmente infinite. Per Hobbes è impensabile che una simile massa informe riesca a trovare l’unità – che è il presupposto indispensabile di ogni azione politica, oltre a essere la condizione della pace e della sicurezza – se ogni individuo 425

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

conserva il potere di decidere su ciò che è giusto o ingiusto. Di conseguenza, questa moltitudine di individui può diventare una solo attraverso l’unità artificiale di un rappresentante, cioè solo se tutti conferiscono il proprio potere a una terza persona giuridica, che lo eserciti in loro vece.

T5

La generazione dello Stato T. Hobbes, Leviatano, 2,17

Rappresentanza come espressione della volontà di tutti

L’origine del patto in Hobbes

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La sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di assicurarli in modo tale che con la propria industria e con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, ad una volontà sola; ciò è come dire designare un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona, e ognuno accettare e riconoscere se stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro persona, farà o di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comuni, e sottomettere in ciò ogni loro volontà alla volontà di lui, ed ogni loro giudizio al giudizio di lui. Questo è più del consenso e della concordia; è un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona, fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, come se ogni uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo o a quest’assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno STATO, in latino CIVITAS. Questa è la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello Stato, è tanta la potenza e la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso consiste l’essenza dello Stato che (se si vuole definirlo) è una persona dei cui atti ogni membro di una grande moltitudine, con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa. Chi regge la parte di questa persona viene chiamato SOVRANO e si dice che ha il potere sovrano; ogni altro è suo SUDDITO. La teoria hobbesiana del patto innova in modo radicale il modo di intendere l’istituto della rappresentanza. Nel Leviatano la rappresentanza non figura più, infatti, come rappresentanza di interessi particolari, quali quelli delle corporazioni o di entità territoriali – secondo la concezione medievale – bensì è presentata come lo strumento grazie al quale si costituisce efficacemente e trova espressione l’interesse universale di tutti e di ciascuno, cioè la volontà generale di vivere in pace. In questo modo, Hobbes pone le basi della logica della moderna rappresentanza politica, che ispira tuttora le democrazie occidentali.

Stato di natura: libertà illimitata e «guerra di tutti contro tutti»

Attraverso le leggi naturali l’uomo intraprende il cammino verso la pace

Patto di tutti con tutti (patto d’unione) e nascita di soggetto esterno che assomma il potere di tutti

Il potere ottenuto tramite il patto trasforma il sovrano nel rappresentante unico della moltitudine

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5 I caratteri della sovranità secondo Hobbes:

irrevocabilità

assolutezza

➥ Percorso tematico, p. 611

indivisibilità

Separazione dei poteri come fattore disgregante

La sovranità Nonostante l’apporto fondamentale che Hobbes ha offerto alla formazione del bagaglio concettuale ancora in uso nelle moderne democrazie – grazie alla propria teoria della rappresentanza politica – la teoria politica hobbesiana è correntemente nota come il modello più coerente e rigido di assolutismo. Ciò dipende dai tre caratteri fondamentali che Hobbes attribuisce alla sovranità, cioè l’irrevocabilità, l’assolutezza e l’indivisibilità: 1) in primo luogo, la sovranità è irrevocabile: non è possibile revocarla e non ci si può opporre al sovrano, dal momento che quest’ultimo non ha preso parte al patto – essendone il risultato – e dunque non potrà mai essere accusato di non averlo rispettato. Si è visto, infatti, che per Hobbes il patto da cui ha origine lo Stato non è un patto tra il popolo e il sovrano, ma un patto di sottomissione stipulato tra singoli individui; 2) in secondo luogo, la sovranità è assoluta, cioè sciolta da ogni limite e al di sopra di tutte le leggi. Il potere del sovrano non incontra alcun limite nei diritti dei sudditi: consiste infatti, per Hobbes, nel trasferimento non parziale, bensì quasi totale, del proprio diritto naturale al sovrano (l’unico diritto che l’individuo diventato suddito conserva è il diritto di resistere a una minaccia di morte, anche nel caso che provenga dal sovrano). Allo stesso modo, non esistono per Hobbes leggi tali da vincolare il sovrano e limitare il suo potere. Le leggi civili – cioè le leggi dello Stato – sono create dallo stesso sovrano, che non è vincolato ad esse, in quanto può sempre cambiarle a proprio piacimento. La questione è più complessa e controversa per quanto riguarda le leggi naturali: si è visto, infatti, che il potere sovrano viene istituito proprio allo scopo di garantire la possibilità di osservare le leggi naturali senza rimetterci; cosa che farebbe pensare che anche il sovrano sia sottoposto ad esse. Tuttavia, in molti passi Hobbes afferma che spetta soltanto al sovrano di determinare il contenuto delle leggi naturali, attraverso la promulgazione delle leggi civili: per esempio, la legge naturale comanda di non commettere omicidio; ma è poi soltanto la legge civile a stabilire quando l’uccisione di un altro uomo è da considerare come un omicidio e quando no (come nel caso della legittima difesa). Stando così le cose, il sovrano risulta essere al di sopra anche delle stesse leggi naturali; 3) infine, la sovranità è indivisibile: Hobbes esclude ogni possibilità di separazione dei poteri tra diversi organi, e conferisce al sovrano sia il potere legislativo, sia il potere esecutivo – compreso il diritto di dichiarare la guerra e comandare l’esercito – sia quello giudiziario. Il rifiuto della separazione dei poteri risponde all’esigenza centrale del pensiero politico hobbesiano, cioè quella di garantire unità e pace all’interno dello Stato, ed evitare quell’anarchia (così egli giudica le pretese di limitazione del potere sovrano) di cui egli era stato spettatore atterrito durante gli anni della guerra civile in Inghilterra. Per Hobbes, infatti, la divisione del potere sovrano rappresenta uno dei principali motivi di disgregazione dello Stato: ripartire la sovranità tra organi differenti significa porre le basi di un disaccordo che non può che sfociare in guerra civile, non essendovi nessuna istanza superiore alle parti in causa, cui rimettere la soluzione della controversia. 427

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Indivisibilità anche dei poteri spirituale e temporale

Pericolosità dell’autonomia del potere spirituale

Secondo Hobbes, teoria conforme alla Scrittura

Due fasi del regno di Dio

Il sovrano come unico interprete legittimo delle leggi naturali

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L’affermazione del carattere indivisibile della sovranità è alla base anche della posizione che Hobbes assume, riguardo al problema – all’epoca molto dibattuto – del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Per Hobbes, infatti, l’opinione diffusa secondo la quale le rispettive sfere di competenze dei due poteri sarebbero le sfere distinte e separate dei beni terreni e della salvezza eterna, costituisce la causa più grave di dissoluzione dello Stato. La guerra civile inglese – che era stata anche e soprattutto una guerra religiosa – aveva mostrato in modo chiaro le difficoltà che possono derivare per la sopravvivenza dello Stato dal fatto che gli uomini si sentano vincolati a leggi divine, promulgate da un’autorità diversa da quella del sovrano. Nel caso che i precetti religiosi siano in contrasto con le leggi civili, è infatti prevedibile che gli uomini obbediscano ai primi, dal momento che il pensiero di una punizione eterna è più temibile di qualsiasi punizione terrena. Questa difficoltà può essere risolta secondo Hobbes solo attraverso il completo inglobamento del potere spirituale in quello politico, cioè solo se il potere di decidere sulle questioni religiose – come il culto e le regole di una Chiesa – spetti alla medesima persona che detiene il potere di decidere sulle questioni civili, cioè il sovrano. Per difendere questa concezione del rapporto tra potere temporale e potere spirituale – in contrasto sia con quella dei cattolici sia con quella dei protestanti e dei calvinisti – Hobbes scende sullo stesso terreno dei teologi, cercando di dimostrare che essa è conforme alle Sacre Scritture, secondo l’interpretazione fortemente innovativa ed eterodossa che egli ne offre. Il cardine di questa interpretazione e dell’argomentazione teologico-politica hobbesiana è costituito dalla distinzione tra il «regno di Dio per patto» e il «regno di Dio per natura». Con la prima espressione, Hobbes intende il governo di Dio sugli uomini esercitato in maniera diretta, attraverso la promulgazione di leggi positive: questo tipo di governo divino avrebbe avuto luogo unicamente nel popolo ebraico, e solo in una determinata fase della sua storia, cioè sino al regno di Saul, istituito dagli ebrei per il desiderio di avere un re, come tutti gli altri popoli. Successivamente, Dio non avrebbe mai più retto gli uomini in maniera diretta, continuando però a regnare su di essi attraverso le leggi naturali, che la ragione detta a tutti: questa forma di governo indiretto è ciò che Hobbes definisce «regno di Dio per natura». A partire da questa identificazione tra leggi divine e leggi naturali razionali, Hobbes ha buon gioco a dimostrare che l’unico legittimo interprete della volontà divina non è il papa né tanto meno la coscienza dei singoli – secondo la dottrina rispettivamente dei cattolici e dei protestanti – bensì esclusivamente il detentore della sovranità. Infatti, per Hobbes il sovrano è l’unico interprete autorizzato delle leggi naturali, che sono anche comandamenti divini. L’interpretazione delle leggi naturali è prerogativa esclusiva del sovrano, in quanto questi è l’unico in grado di preservare la pace – prescritta dalla prima e fondamentale legge naturale e divina – nella fase della storia in cui Dio è assente, che va dal regno di Saul sino al ritorno di Cristo e al giudizio universale. In questo senso, il sovrano va considerato per Hobbes come il «vicereggente di Dio» – cioè colui che mantiene la pace in vece di Dio – e l’obbedienza ai suoi comandi come l’unica via per conseguire non solo la pace terrena, ma anche la salvezza eterna.

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Hobbes rifiuta dunque la tradizionale fondazione religiosa della politica, secondo la quale la legittimità del potere sovrano avrebbe il suo fondamento direttamente in Dio. Di contro, per Hobbes la sovranità trova la sua giustificazione e la sua ragione ultime nell’assenza di Dio dalla storia, e nella necessità di colmare questa assenza attraverso l’istituzione, tutta umana, di un potere che si avvicini quanto più è possibile all’onnipotenza divina (per questo motivo, la dottrina politica hobbesiana è stata anche definita come una «teologia politica»). Legittimità A partire da questi presupposti, Hobbes propone la politicizzazione della relidella religione di Stato gione, conferendo al sovrano il potere di istituire una religione pubblica e uniforme, sottratta agli individualismi e ai fanatismi protestanti. Questo controllo dello Stato sulla religione rappresenta ai suoi occhi l’unico modo efficace per evitare che la fede possa produrre effetti politici conflittuali.

La sovranità sopperisce all’assenza di Dio nella storia

T6

Il sovrano è il vicereggente di Dio sulla terra T. Hobbes, Leviatano, 3,36

[…] Ognuno perciò deve considerare chi è il profeta sovrano, vale a dire, chi è il vicereggente di Dio sulla terra ed ha, subito dopo Dio, l’autorità di governare i cristiani; e osservare come regola quella dottrina che egli, in nome di Dio, ha comandato che sia insegnata; e con essa esaminare e saggiare la verità di quelle dottrine che pretesi profeti, con miracoli o senza, avanzeranno in ogni tempo […]. Infatti, quando dei cristiani non prendono il loro sovrano cristiano come profeta di Dio, o devono prendere i loro sogni come la profezia dalla quale intendono essere governati, e il tumore dei loro cuori come lo spirito di Dio, o devono sopportare di essere guidati da qualche principe straniero o da qualcuno dei propri consudditi che possa ammaliarli, calunniando il governo, e portarli alla ribellione, senza altro miracolo, per confermare la sua vocazione, che, talvolta, uno straordinario successo e l’impunità. Con questo mezzo, distruggendo ogni legge, sia divina che umana, si riduce ogni ordine, governo o società al caos primigenio della violenza e della guerra civile.

La pace ordinata, la salvezza della vita e la fine delle guerre civili possono dunque essere ottenute, nella prospettiva hobbesiana, solo al prezzo di rinunciare alla libertà, almeno nella sua dimensione pubblica ed esteriore. Per costruire la sovranità rappresentativa è necessaria per Hobbes un’alienazione irreversibile e quasi completa del diritto naturale, cioè di tutta l’energia politica che ciascuno ha in natura; per garantire la stabilità del potere sovrano, i sudditi devono inoltre rinunciare anche alla libertà di professare pubblicamente la religione in cui credono. Per i sudditi solo libertà Le uniche libertà che ad essi restano – oltre a quella di difendere con ogni mezinteriore e privata zo la propria vita, anche contro gli ordini del sovrano – sono la libertà interiore e la libertà nella sfera privata. Per Hobbes, infatti, le leggi dello Stato riguardano solo i comportamenti esteriori e non toccano l’interiorità dell’uomo: ciascuno conserva sempre la libertà di credere o non credere, in cuor suo, nella religione pubblica. Inoltre, nella concezione hobbesiana la costruzione della sfera pubblica rappresentata dallo Stato-Leviatano serve a garantire quell’ordine necessario affinché ogni individuo possa esplicare la propria libertà – senza danneggiare gli altri e senza temere di essere a sua volta danneggiato – nella sfera privata, cioè nell’esercizio delle proprie attività e nel godimento dei pro➥ Sommario, p. 447 pri beni.

Alienazione della libertà naturale e illimitata per la pace

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Sovranità e sudditi nella filosofia di Hobbes

Sovranità

Irrevocabile

Assoluta

Indivisibile

I sudditi sono sottomessi al sovrano

Il sovrano diviene superiore anche alle leggi di natura

Tutti i poteri, anche quelli spirituali, sono concentrati nel sovrano

Assolutismo

Locke e la dottrina liberale

3 I testi

J. Locke Primo trattato sul governo: L’erede di Adamo è sconosciuto, T7 Secondo trattato sul governo: Lo stato di natura non

Potere politico fondato razionalmente

Anche Locke, come già Hobbes, concepisce la propria teoria politica partendo dal presupposto che l’epoca moderna è un’epoca contraddistinta dall’assenza di Dio, in cui dunque il potere politico non può più fondare la propria legittimità sulla pretesa origine divina, bensì esclusivamente sulla ragione umana.

La storia inglese e le opere politiche di Locke La repubblica parlamentare inglese uscita dalla guerra civile diviene ben presto una dittatura: nel 1653 Oliver Cromwell, il leader del partito puritano, viene eletto Lord Protettore e alla sua morte nel 1658 trasmette il potere al figlio Richard. Il malcontento diffuso favorisce il rientro degli Stuart: dal 1660 al 1685 regna Carlo II e dal 1685 al 1688 sale al trono suo fratello Giacomo II. Questi cerca di riammettere i cattolici nella vita politica e di riaffermare la supremazia del sovrano sul parlamento e sulle amministrazioni locali. Tutte le componenti parlamentari, conservatori e liberali, si coalizzano e compiono la «gloriosa rivoluzione»: chiedono l’aiuto di Guglielmo

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coincide con lo stato di guerra, T8; Il contratto originario e il potere della maggioranza, T9; Potere costituente e popolo, T10; La critica dell’assolutismo, T11; La gerarchia dei poteri dello Stato e il diritto di resistenza, T12

d’Orange, marito di Maria Stuart, una delle figlie di Giacomo. Essi sbarcano con un piccolo esercito in Inghilterra e raggiungono Londra, dove insieme vengono incoronati. L’Inghilterra diviene una monarchia parlamentare. I Trattati sul governo di Locke affrontano argomenti strettamente correlati allo scontro ideologico in atto: il Primo trattato si rivolge alla confutazione delle tesi di Robert Filmer, sostenitore di Carlo I durante la guerra civile, la cui opera viene pubblicata nel 1680 durante il nuovo conflitto tra Carlo II e il parlamento. Il Secondo trattato riprende inizialmente i temi del primo e poi espone una compiuta teoria dello Stato, che giustifica il diritto di resistenza contro l’arbitrio del potere, dando una fondazione teorica alle rivoluzioni del 1642-1649 e del 1688-1689.

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

1 La tradizionale teoria del diritto divino

Tre obiezioni di Locke a Filmer

Indimostrabilità dell’origine divina dell’autorità

T7

L’erede di Adamo è sconosciuto

J. Locke, Primo trattato sul governo, 10,125

Contro il diritto divino: il Primo trattato sul governo Locke dedica alla critica della tesi del diritto divino dei re – che era la base teorica e metafisica della monarchia assoluta degli Stuart – il Primo trattato sul governo. In esso egli procede alla confutazione puntuale e sistematica delle argomentazioni contenute nel Patriarca di Robert Filmer (1588-1653) – uscito postumo – in cui veniva sostenuto che l’autorità dei re non sarebbe altro che la prosecuzione naturale dell’autorità paterna e del pieno potere, conferiti da Dio ad Adamo rispettivamente sul resto del genere umano e su tutte le cose del mondo. Contro la teoria di Filmer, Locke procede innanzitutto a una rigorosa interpretazione delle Sacre Scritture, volta a dimostrare che Dio non diede ad Adamo alcuna autorità, né sugli uomini né sulle cose. In secondo luogo, Locke confuta la tesi dell’ereditarietà dell’autorità regale, cioè il cosiddetto «principio di legittimità». Questa regalità per grazia di Dio – ammesso che Adamo l’abbia ricevuta, cosa che in realtà non è accaduta – non sarebbe stata trasmissibile solo ad alcuni dei suoi eredi: ogni figlio di Adamo, cioè ogni uomo, avrebbe dovuto goderne, infatti, alla pari con i propri fratelli; a meno che Dio non abbia donato il potere assoluto a qualcuno, facendolo diventare re. Infine, dice, anche se la regalità fosse stata trasmessa da Adamo a uno solo dei suoi figli, la discendenza di Adamo non è ormai riconoscibile. Il nucleo della critica lockiana della tesi del diritto divino consiste dunque nella convinzione che non vi è alcuna comunicazione diretta e immediata tra Cielo e terra; o meglio che – se mai ve ne è stata alcuna – essa è ormai irrimediabilmente interrotta: chi pretende di fondare direttamente l’autorità regale sulla sua origine divina deve fare i conti con questo immodificabile dato di fatto. E perciò tutto quel gran da fare intorno alla paternità di Adamo, alla grandezza del suo potere e alla necessità di supporlo, non contribuisce per nulla a stabilire il potere di coloro che governano o a determinare l’obbedienza dei sudditi che debbono obbedire, se questi non sanno dire a chi debbano obbedire o se non si sa chi debba governare e chi obbedire. Il mondo, nella condizione in cui è attualmente, è irrimediabilmente ignaro di chi sia l’erede di Adamo. Questa paternità, questo potere monarchico di Adamo, trasmesso ai suoi eredi, non può servire al governo dei popoli più di quanto, a tacitare la coscienza degli uomini o a preservare la loro salute, servirebbe un’eventuale dichiarazione del nostro autore [Filmer] diretta ad affermare che Adamo ebbe il potere di rimettere i peccati o curare le malattie, potere che per divina istituzione si trasmettesse ai suoi eredi, e intanto fosse impossibile conoscere chi sia l’erede. E chi, in base a quest’affermazione del nostro autore, andasse a confessare i propri peccati aspettandone un’assoluzione valida, o prendesse una medicina sperandone la salute, per il fatto che uno qualunque si è attribuito da sé il nome di sacerdote o medico, o si prestasse a tali servizi dicendo: «Io mi sottometto al potere di assolvere che deriva da Adamo», oppure «Io mi faccio curare dal potere medicatorio che deriva da Adamo», non agirebbe meno irragionevolmente di chi dice: «Io mi sottometto e obbedisco al potere paterno che deriva da Adamo», una volta che si ammetta che tutti questi poteri non sono trasmessi che all’unico erede di Adamo, e questo erede è sconosciuto. 431

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

2 Il Secondo trattato sul governo

La condizione prepolitica nello stato di natura

Prima differenza da Hobbes: non-identità stato di guerra / stato di natura

Libertà come autonomia

Autoconservazione della specie

Differenze tra stato di guerra e stato di natura

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Privilegi e difetti dello stato di natura Confutata la teoria dell’origine divina dell’autorità regale, nel Secondo trattato sul governo Locke offre la propria spiegazione della genesi e della natura del potere politico. A tale scopo, egli ritiene necessario prendere le mosse – come aveva fatto Hobbes – dalla disamina della condizione dell’uomo prima e al di fuori delle istituzioni politiche, cioè dello stato di natura. Seguendo le orme di Hobbes, anche Locke descrive quest’ultimo come una situazione contraddistinta dalla piena libertà e dalla completa uguaglianza di tutti gli individui. Cosa che equivale a negare, sempre in polemica con Filmer, che in natura esistano dei vincoli immediati di subordinazione politica: di contro, per Locke in natura gli uomini vivono senza legami di potere né autorità comuni e riconosciute, in modo tale che ciascuno ha la piena libertà di ordinare le proprie azioni e disporre dei propri possessi senza dovere chiedere il permesso a nessuno. Lo stato di natura di Locke presenta, però, delle differenze significative rispetto a quello hobbesiano: in primo luogo, movendo da un’antropologia più moderata e meno negativa, Locke non identifica lo stato di natura con uno stato di guerra permanente e universale. Nella prospettiva lockiana, libertà e uguaglianza non sono di per sé cause di divisione e conflitto, che rendono gli uomini incapaci di intrattenere rapporti sociali. E questo perché Locke prende le mosse da una concezione della libertà differente da quella di Hobbes: in polemica con il determinismo hobbesiano (vedi p. 420), egli ritiene, infatti, che lo spirito umano sia in grado di rimandare la soddisfazione dei desideri. A partire da questa premessa, Locke non intende la libertà naturale come la licenza di compiere tutto ciò cui siamo spinti dai nostri desideri e impulsi. La libertà naturale consiste piuttosto ai suoi occhi nel non essere subordinati ad alcuna autorità esteriore – quale la volontà di un altro o un potere superiore – bensì esclusivamente al comando interiore delle leggi di natura, che sono le leggi dettate dalla nostra ragione. Questo significa che per Locke la libertà non è assenza di legge, ma risiede piuttosto nella «autonomia», cioè nella facoltà propria di ogni uomo, in quanto essere razionale, di dare leggi a se stesso (il termine deriva dal greco autònomos, composto di autòs, «stesso», e nòmos, «legge»). Come per Hobbes, anche per Locke la legge di natura fondamentale prescrive l’autoconservazione, e non solo quella individuale, ma anche quella dell’intero genere umano; a suo giudizio esse infatti non sono incompatibili, ma risultano, al contrario, complementari. Sulla base di questi presupposti, Locke nega espressamente – in polemica con Hobbes – che esista una perfetta coincidenza tra lo stato di natura e lo stato di guerra, vale a dire quello stato di inimicizia e violenza reciproche causato dall’impiego della forza senza diritto. Da un lato, dal momento che nello stato di natura gli uomini possono regolare i loro rapporti secondo le leggi di natura, già in esso è possibile una coesistenza pacifica tra gli uomini. Dall’altro, anche nello stato civile può avere luogo e ha effettivamente luogo lo stato di guerra, ogniqualvolta viene fatto uso della forza, senza che vi sia la possibilità di appellarsi a un’istanza superiore (come per esempio quando si è aggrediti e – non essendovi il tempo per ricorrere all’aiuto della legge – si uccide il proprio aggressore, per autodifesa).

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

T8

Lo stato di natura non coincide con lo stato di guerra

J. Locke, Secondo trattato sul governo, 3

Seconda differenza da Hobbes: il diritto di proprietà è un diritto naturale

Il lavoro come fondamento della proprietà

Ordine sociale naturale

Efficacia prepolitica delle leggi naturali

L’interesse individuale può generare conflitto

19. E qui abbiamo la chiara differenza tra lo stato di natura e lo stato di guerra, che per quanto taluni abbiano confuso, sono così distanti l’uno dall’altro quanto lo sono fra loro uno stato di pace, benevolenza, assistenza e conservazione reciproca e uno stato di inimicizia, malvagità, violenza e reciproca distruzione. Quando gli uomini vivono insieme secondo ragione, senza un superiore comune sulla terra, con l’autorità di giudicarsi tra loro, si ha propriamente lo stato di natura. Ma la forza, o una dichiarata intenzione di usarla sulla persona altrui, quando non vi sia sulla terra un superiore comune cui appellarsi per un aiuto, è lo stato di guerra; ed è proprio la mancanza di un tale appello che conferisce ad un uomo il diritto di guerra contro un aggressore, benché egli sia in società con lui e suo consuddito. Così ad esempio ad un ladro che mi ha derubato di tutto ciò che possiedo, non posso arrecare danno se non ricorrendo alla legge, ma posso ucciderlo se mi assale per rubarmi il cavallo o il mantello. Giacché se la legge, che fu fatta al fine della mia conservazione, non può intervenire per garantire la mia vita che una volta perduta non è suscettibile di riparazione, nel momento in cui la forza viene usata contro di me mi è permessa l’autodifesa e il diritto alla guerra, e cioè la libertà di uccidere l’aggressore, perché questi non mi concede il tempo di appellarmi per un rimedio né al nostro giudice comune, né alla risoluzione della legge, laddove il danno può essere irreparabile. La mancanza di un giudice comune dotato di autorità pone tutti gli uomini in uno stato di natura; la forza esercitata senza il diritto sopra la persona di un uomo instaura uno stato di guerra, vi sia o meno un giudice comune. In secondo luogo, a differenza di Hobbes, Locke include tra i diritti naturali, oltre alla libertà e alla vita, anche la proprietà. Pur riconoscendo che in origine la terra appartiene a tutta l’umanità, Locke ritiene, infatti, che il singolo uomo possa diventare, attraverso il lavoro, il proprietario unico di ciò che ha lavorato, già nello stato di natura: cosa che Hobbes escludeva, affermando che in tale condizione primitiva ognuno ha un diritto su tutte le cose, cioè può legittimamente usare tutto ciò che sia necessario per la conservazione della sua vita e la soddisfazione del suo desiderio. Per Locke, invece, il lavoro – fornendo un valore differente alle cose lavorate – costituisce un titolo sufficiente per la formazione della proprietà privata anche in natura. La nascita della proprietà privata modifica l’originaria uguaglianza tra gli uomini e introduce una disuguaglianza, derivante dalla diversa quantità di lavoro che ciascuno compie. Lo stato di natura lockiano è, dunque, già un ordine sociale: al suo interno gli uomini entrano in rapporti reciproci perseguendo intenzionalmente i loro scopi e rispettando delle regole generali, cioè le leggi naturali razionali. Inoltre, nella concezione lockiana, già prima dell’istituzione del corpo politico la legge di natura è non solo attiva nella coscienza degli uomini, ma anche efficace. Secondo Locke, infatti, nello stato di natura ciascuno ha il dovere e il diritto di rendere esecutiva la legge naturale fondamentale – che prescrive di perseguire la conservazione propria e del genere umano – non solo facendo tutto ciò che ritiene appropriato a tale scopo, ma anche punendo chiunque la trasgredisca, perché il colpevole è nemico di tutta l’umanità. Tuttavia, in realtà anche per Locke l’uomo non può restare nello stato di natura, ma deve uscire da esso e formare la società politica. Pur negando che tra stato di natura e stato di guerra vi sia una perfetta coincidenza, anche Locke riconosce, infatti, che il primo può facilmente trasformarsi nel secondo, non a causa della 433

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il conflitto mina libertà e proprietà

Tre difetti dello stato di natura

naturale aggressività e asocialità degli uomini – sostenuta da Hobbes – bensì a causa della parzialità di essi nel riconoscere ed eseguire la legge di natura: tutti gli individui, senza essere malvagi, tendono però a lasciarsi influenzare dai loro interessi, nel giudizio di ciò che le leggi naturali richiedono e consentono loro, e nell’applicazione di esse al loro caso particolare. Ciò costituisce un’occasione di conflitto che è sì accidentale – nel senso che potrebbe anche non avere luogo – ma che, una volta verificatasi, conduce a una incertezza generale nel godimento della libertà e dei possessi. Inoltre, Locke ammette anche che nello stato di natura i problemi posti dalla guerra sono più gravi di quelli che essa determina nella società politica: dal momento che in esso mancano leggi positive e un’autorità superiore cui rivolgersi per ottenere giustizia – a parte Dio che è nei cieli – lo stato di guerra, una volta iniziato, può protrarsi indefinitamente. Locke stesso riepiloga quanto appena detto, individuando tre difetti che rendono ‘sfavorevole’ lo stato di natura e spingono gli uomini ad abbandonarlo, rinunciando ai privilegi che lo caratterizzano, cioè la libertà e l’uguaglianza: 1) in esso non vi è legge certa, perché gli uomini interpretano la legge di natura in maniera soggettiva, lasciandosi condizionare dalle proprie passioni; 2) non vi è un giudice riconosciuto e imparziale, cioè al di sopra dei contendenti; 3) non vi è un potere in grado di far applicare la legge.

Lo stato di natura in Locke

Stato di natura Piena libertà e completa uguaglianza

Non è uguale allo stato di guerra

Esiste la proprietà dovuta al lavoro

Possiede un ordine sociale e ci sono rapporti tra gli uomini codificati dalle leggi razionali naturali

Ciascuno deve far rispettare le leggi di natura

Per la parzialità degli uomini nell’interpretazione della legge di natura è un ordine incerto e stabile

3

La genesi del potere politico

In base a quanto detto, pur negando la tesi hobbesiana della radicale asocialità degli uomini, anche Locke si distacca, però, dalla tradizionale concezione dell’uomo come animale sociale, e dalla conseguente visione dell’ordine politico come ordine naturale. Nello stato di natura lockiano gli uomini possono sì coesistere, ma in una condizione di forte incertezza e instabilità, in cui i diritti naturali del soggetto – cioè la libertà, la vita e la proprietà – sono esposti al rischio costante di essere violati. Il contratto come Da questa condizione non si esce per via naturale, bensì attraverso l’artificio del fondamento del potere contratto originario: non essendovi in natura alcuna divisione prestabilita tra gopolitico vernanti e governati, il potere politico – cioè il potere di fare leggi e di usare la L’ordine politico è artificiale

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

Patto di associazione e istituzione del governo

Dalla libertà naturale al potere della maggioranza

Il principio maggioritario fonda l’unità del corpo politico

La logica dell’autorizzazione

T9

Il contratto originario e il potere della maggioranza

J. Locke, Secondo trattato sul governo, 8

forza della comunità per renderle esecutive – può nascere solo sulla base del consenso, cioè solo se gli individui esprimono, mediante un contratto, il proprio consenso a riunirsi con altri e a sottomettersi a un’autorità e a norme comuni. Nella procedura che dà origine al potere politico, Locke distingue due fasi: la prima è il patto di associazione degli individui, attraverso il quale ciascuno depone il potere di cui dispone allo stato di natura nelle mani del corpo politico, o del popolo; il secondo momento è l’atto di istituzione del governo, cioè l’atto attraverso il quale il corpo politico nato dal patto di associazione affida il proprio potere al governo, che esso istituisce al di sopra di se stesso. Il patto di associazione è il contratto originario, cioè l’accordo che ha per oggetto l’incorporazione degli individui che vi prendono parte in un unico soggetto politico – cioè il popolo o la comunità – in cui la maggioranza ha il diritto di decidere per tutti. Il risultato del patto di associazione è dunque l’istituzione del potere della maggioranza: il contratto originario è necessariamente unanime, e chi non lo conclude resta nella libertà naturale; tuttavia, l’effetto di questo patto è che il requisito per le decisioni comuni non è più l’unanimità, bensì la maggioranza. Questo principio maggioritario costituisce, infatti, per Locke l’elemento indispensabile per risolvere il problema del rapporto uno / molti, cioè la questione – già centrale nel pensiero politico hobbesiano – di come una moltitudine di uomini possa trasformarsi in un sol corpo politico, che si muove in una sola direzione. Nella prospettiva lockiana, ciò che rende ‘una’ la moltitudine di individui indipendenti presenti nello stato di natura, non è l’unità del sovrano-rappresentante – come per Hobbes – bensì l’impegno dei singoli ad adeguarsi alle decisioni della maggioranza. La logica che Locke pone alla base di questa accettazione della volontà della maggioranza è, però, la stessa logica dell’autorizzazione, che è a fondamento del patto di unione hobbesiano: cedendo alla maggioranza il proprio diritto naturale, ogni singolo la autorizza ad agire in sua vece, secondo quanto richiede il pubblico bene. Ciascuno è dunque tenuto ad accettare le decisioni della maggioranza, come se si trattasse di sue proprie deliberazioni. 95. Essendo gli uomini, come si è detto, tutti per natura liberi, eguali e indipendenti, nessuno può essere tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. Il solo modo in cui un uomo si spoglia della sua libertà naturale e assume su di sé i vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per associarsi e unirsi in una comunità al fine di vivere gli uni con gli altri in comodità, sicurezza e pace, nel sicuro godimento della sua proprietà e con una maggiore protezione contro coloro che non vi appartengono. Questo può essere fatto da un gruppo di uomini perché non viola la libertà di tutti gli altri, i quali sono lasciati tali e quali nella libertà dello stato di natura. Quando un gruppo di uomini ha così consentito a costituire una comunità o governo, essi sono con ciò immediatamente associati e costituiscono un sol corpo politico in cui la maggioranza ha il diritto di deliberare e decidere per il resto. 96. Infatti, quando un gruppo di uomini ha, con il consenso di ciascun individuo, costituito una comunità, ha con ciò fatto di quella comunità un sol corpo, con il potere di agire come un sol corpo, cioè solo in base alla volontà e decisione della maggioranza. Infatti, essendo ciò che una comunità fa non altro che il consen435

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

so degli individui a essa appartenenti; ed essendo necessario che ciò che costituisce un sol corpo si muova in una sola direzione, è necessario che quel corpo si muova nella direzione in cui lo spinge la forza maggiore, e cioè il consenso della maggioranza. Altrimenti gli sarebbe impossibile deliberare o continuare a sussistere come un sol corpo, come una sola comunità, quale il consenso di ciascun individuo a esso consociato ha convenuto che fosse; e così ciascuno è tenuto da quel consenso a essere determinato dalla maggioranza. […] La nascita del governo

Il mandato del popolo al governo

Costituzione e legislazione

T10

Potere costituente e popolo

J. Locke, Secondo trattato sul governo, 11,141

L’istituzione del governo è invece l’atto originario del corpo politico nato dal patto, attraverso il quale questo, seguendo il principio di maggioranza, costituisce il potere supremo dello Stato – che è per Locke il potere di fare le leggi – e decide dove collocarlo, cioè se conservarlo nelle proprie mani o delegarlo a un’assemblea di pochi uomini scelti o a un solo uomo (dando luogo rispettivamente alla democrazia, all’aristocrazia o alla monarchia). Il rapporto tra popolo e governo non è un contratto, cioè un accordo reciproco: Locke lo concepisce piuttosto come un rapporto fiduciario, attraverso il quale il popolo affida al governo il proprio potere, ma solo a condizione che esso soddisfi le sue aspettative. Per definire questo tipo di rapporto, Locke utilizza il termine «mandato» (trust): il popolo è mandante, e il governo mandatario, cioè detiene un potere che il popolo gli ha delegato, esclusivamente per agire in vista dei propri fini. Il potere legislativo affidato al governo è, però, solo un potere legislativo costituito – cioè il potere di fare le leggi – che Locke distingue e subordina rispetto al potere legislativo costituente, consistente nel potere di decidere della forma e dei detentori del governo, e riservato esclusivamente al popolo. La legislazione ordinaria è subordinata rispetto alla costituzione. […] il legislativo non può trasferire in altre mani il potere di emanare leggi. Infatti, dal momento che non è che un potere delegato dal popolo, coloro che lo detengono non possono trasmetterlo ad altri. Soltanto il popolo può stabilire la forma dello Stato e lo fa costituendo il legislativo e decretando in quali mani affidarlo. E se il popolo ha dichiarato di volersi sottomettere a norme ed essere governato da leggi stabilite da certe persone e in certe forme, nessuno può dire che debbano essere altre persone a fare leggi per loro, né può il popolo essere vincolato da leggi diverse da quelle promulgate da coloro che esso ha scelto e autorizzato a fare leggi in sua vece.

La genesi dello Stato in Locke

436

Stato

Nasce da un patto di associazione

Il popolo affida al governo il potere supremo

Al popolo resta il potere costituente

Potere della maggioranza

Il popolo è mandante e il governo mandatario

Il governo ha il potere legislativo costituito: fa le leggi

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

4 La teoria del contratto in Locke

Differenze da Hobbes Alienazione parziale dei diritti naturali

Il popolo è l’unico titolare della sovranità

Limiti del potere politico

Critica alla teoria hobbesiana della sovranità assoluta

I tratti distintivi della dottrina liberale Partendo da una concezione dello stato di natura meno negativa rispetto a quella hobbesiana, Locke elabora una teoria contrattualistica molto diversa da quella di Hobbes: nella prospettiva lockiana, infatti, il contratto non deve azzerare lo stato di natura – che è già un ordine sociale – ma semplicemente migliorarlo, istituendo un ordine politico artificiale il cui unico scopo è quello di garantire meglio i diritti naturali dell’uomo. Per questo motivo, il contratto originario di Locke differisce dal patto d’unione hobbesiano sia sotto il profilo contenutistico sia sotto il profilo formale: 1) il contenuto del contratto è per Locke un’alienazione parziale dei diritti naturali, e non un’alienazione quasi completa, come nella teoria hobbesiana. Entrando in società l’uomo rinuncia in maniera irreversibile solo al diritto a giudicare e ad applicare la legge naturale, cioè al diritto di farsi giustizia da solo. Di contro, egli cede il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà, solo per vederseli restituiti, e garantiti dalla legge comune, cioè trasformati in diritti civili e politici. In particolare, la libertà di cui l’uomo gode nello stato di natura non viene meno nella società politica, bensì semplicemente si trasforma: dalla libertà naturale – di non essere soggetto a nessun altro vincolo al di fuori della legge di natura – alla libertà consistente nel non essere sottomesso ad altra legge, se non a quella emanata dal potere legislativo dello Stato, stabilito per comune consenso; 2) sotto il profilo formale, il patto d’associazione lockiano presenta a prima vista una struttura analoga al patto d’unione hobbesiano: anch’esso è, infatti, un patto di associazione tra individui eguali, che costituisce un’entità politica prima non esistente, al cui potere i contraenti si sottomettono; questa entità non è, però, immediatamente il sovrano-rappresentante – come per Hobbes – bensì il popolo o la comunità. Distinguendo i due momenti della genesi del potere politico, Locke introduce così una differenza fondamentale rispetto alla dottrina politica hobbesiana, in quanto concepisce il popolo come l’unico titolare della sovranità in senso proprio, capace di esistere e agire come corpo politico anche senza rappresentanza (cosa che per Hobbes non è possibile, vedi p. 425 s.), nel momento di istituzione della forma di governo e ogniqualvolta questa si dissolva. Questi due aspetti fondamentali della teoria contrattualistica lockiana concorrono a fondare un potere politico limitato, e non assoluto, cioè sciolto da ogni vincolo, come quello del Leviatano di Hobbes. In base a quanto detto, per Locke il potere politico della comunità nata dal patto – e da questa delegato al governo – ha un vincolo insuperabile nelle leggi di natura, e in quei diritti naturali, per la cui salvaguardia esso è nato. È inammissibile, infatti, che il contratto, stipulato per porre fine agli inconvenienti dello stato di natura, generi una condizione di gran lunga peggiore di quest’ultimo, in cui si è esposti alle angherie e ai torti del sovrano, senza avere più né il diritto di difendersi né la forza sufficiente per farlo. Se si muove dal presupposto che ogni regime politico può essere fondato solo sul consenso degli individui, è chiaro che nessun popolo può essere così stolto da darsi in pasto a un sovrano assoluto, che non è vincolato da alcuna legge. Pensare che gli individui escano volontariamente dallo stato di natura per istituire una sovranità assoluta 437

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

è per Locke altrettanto assurdo, quanto pensare che gli uomini siano così pazzi da avere cura di evitare i danni delle faine e delle volpi cercando però scampo nei leoni.

T11

La critica dell’assolutismo

J. Locke, Secondo trattato sul governo, 11,137

La divisione dei poteri

Tre funzioni

La separazione dei poteri permette il controllo reciproco

Diritto di resistenza contro abusi sia dell’esecutivo che del legislativo

➥ Percorso tematico, p. 611

438

[…] gli uomini non rinuncerebbero alla libertà dello stato di natura, né si sottometterebbero al governo, se non fosse per conservare la loro vita, la loro libertà e le loro fortune e assicurarsi la pace e la tranquillità con norme dichiarate che regolano il diritto e la proprietà. Non è lecito pensare che essi, avendo il potere di farlo, intendessero conferire a uno o a più un potere assoluto e arbitrario sulla loro persona e sui loro beni, e porre nelle mani dei magistrati una forza atta a esercitare arbitrariamente su di loro una volontà illimitata. Questo equivarrebbe a porsi in una condizione peggiore dello stato di natura, in cui essi avevano il diritto di difendere il loro diritto contro le offese altrui e si trovavano in pari condizioni di forza per sostenerlo, fosse violato da un solo uomo o da molti insieme associati. Supponendo invece il caso che abbiano consegnato se stessi all’assoluto potere arbitrario e alla volontà di un legislatore, essi avrebbero disarmato se stessi e armato lui, per rendersene preda ogniqualvolta quello lo ritenesse opportuno. Per perseguire quest’obiettivo fondamentale di limitazione del potere politico, Locke rifiuta la concezione hobbesiana della sovranità come unica e indivisibile, sostenendo di contro l’opportunità della divisione del potere in organi differenti. Egli muove dal presupposto che il potere politico si articoli in tre funzioni, cioè il potere legislativo, quello esecutivo – definito come il potere di applicare le leggi e punire i trasgressori – e il potere federativo, ossia la gestione della politica estera. Gli ultimi due poteri sono difficilmente separabili e devono quindi essere esercitati da un solo organo. È invece fortemente consigliabile, secondo Locke, che il legislativo e l’esecutivo siano esercitati da organi differenti, dei quali solo il secondo deve essere costantemente in attività, al fine di garantire l’esecuzione e il rispetto delle leggi. In questo modo, evitando che i detentori del potere legislativo siano sempre in attività – cosa che non è necessaria, dal momento che per fare le leggi occorre poco tempo – si riduce il rischio che essi formino una corporazione separata dal resto della società, con la tendenza a fare le leggi per i propri interessi privati. Al tempo stesso, la separazione dei poteri serve per Locke anche a prevenire e porre rimedio ai possibili abusi dell’esecutivo, che è subordinato al legislativo e responsabile verso di esso. Qualora questo sistema di contrappesi non funzioni e non basti, Locke ammette, a differenza di Hobbes, il diritto di resistenza del popolo nei confronti dei detentori del potere politico, in tutte le sue funzioni. Il popolo ha, innanzitutto, il diritto di utilizzare la forza contro l’esecutivo, ogniqualvolta quest’ultimo entra in conflitto con il legislativo e cerca di ostacolarne l’attività: come era accaduto nel caso del conflitto tra Giacomo II e il parlamento. Locke riconosce inoltre al popolo un diritto di resistenza anche nei confronti del legislativo, sia pure in casi eccezionali e in modo graduato: e questo perché – come si è visto – secondo la teoria contrattualistica lockiana è il popolo l’unico detentore vero e proprio della sovranità, che la delega agli organi del governo solo per agire in vista dei suoi fini. Di conseguenza, anche il potere legislativo, pur essendo il potere supremo dello Stato, non è però assoluto: ogniqualvolta esso non agisce rispettando le leg-

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

gi naturali e i diritti naturali degli associati – alla proprietà, alla libertà e alla vita – il popolo ha il diritto di revocare la propria delega e di sostituire i suoi rappresentanti, esercitando nuovamente il proprio potere costituente, che resta silente solo sino a quando il potere costituito è legittimo.

T12

La gerarchia dei poteri dello Stato e il diritto di resistenza

J. Locke, Secondo trattato sul governo, 13

Se necessario si può agire contro lo Stato

Libertà come dimensione privata

Uno stato neutrale su opinioni e fedi

149. Sebbene in uno Stato costituito che poggi sui propri fondamenti e agisca secondo la sua propria natura, cioè in vista della conservazione della comunità, non vi possa essere che un solo potere supremo, che è il legislativo, al quale tutti gli altri sono e devono essere subordinati; tuttavia, essendo il legislativo solo un potere fiduciario inteso a certi fini, resta sempre al popolo il potere supremo di destituire o mutare il legislativo quando ritiene che esso agisce in modo contrario alla fiducia in esso riposta. Infatti, ogni potere affidato in vista del conseguimento del fine, è limitato da quel fine; e quindi ogniqualvolta viene manifestamente trascurato o contrastato, la fiducia deve necessariamente venire meno e il potere ritornare nelle mani di coloro che l’hanno conferito, i quali possono di nuovo collocarlo dove giudicano meglio per la loro tutela e sicurezza. In tal modo la comunità conserva sempre il supremo potere di preservarsi dagli attentati e complotti di chiunque, anche dei legislatori, quando questi sono così stolti e malvagi da formulare e perseguire piani contrari alla libertà e alla proprietà dei sudditi. […] Così, per questo rispetto, si può dire che la comunità è il potere supremo, ma non in quanto considerata sotto una forma di governo, dal momento che questo potere del popolo non può esprimersi finché il governo non sia dissolto. 150. In ogni caso, finché il governo sussiste, il legislativo è il potere supremo. Infatti, ciò che può dare leggi ad altri deve di necessità essergli superiore, e poiché il legislativo non è tale rispetto alla società se non per il diritto che ha di far leggi per tutte le parti e per ciascun membro della società, prescrivendo norme alle loro azioni e conferendo il potere di renderle esecutive quando siano trasgredite, il legislativo deve necessariamente essere il potere supremo, e tutti gli altri poteri, in qualunque membro o parte della società si trovino, devono derivare da esso e essergli subordinati. Il liberalismo lockiano prevede dunque – a differenza della teoria assolutistica hobbesiana – una dimensione pubblica e politica che non è del tutto occupata dallo Stato: per Locke, infatti, gli uomini hanno una predisposizione alla vita sociale già nello stato di natura e, anche una volta usciti da questo, essi conservano, come società o popolo, una certa energia politica, da utilizzare contro lo Stato, nei casi in cui ciò sia necessario. Con una differenza fondamentale rispetto alla tradizione repubblicana, la dottrina liberale di Locke concepisce, però, la libertà essenzialmente come libertà privata, da esercitare all’interno dello spazio garantito dalle leggi, e non come partecipazione del cittadino alla politica: anche i momenti in cui è prevista l’espressione della libertà politica del popolo sovrano – cioè i momenti di resistenza e ribellione – hanno come obiettivo il ripristino della libertà intesa come libertà privata. Come ultimo tratto distintivo del liberalismo moderno, inaugurato da Locke, va infine menzionata l’idea della neutralità del potere politico rispetto alle opinioni dei cittadini, e in particolare rispetto alle loro convinzioni religiose. Lo Stato liberale ha l’ambizione di rivolgersi a tutti – indipendentemente da opinioni morali e religiose – in quanto si propone la salvaguardia dei diritti naturali, che hanno una validità universale. 439

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Tolleranza e libertà di culto fondate sulla netta separazione Stato / Chiesa

➥ Sommario, p. 447

Su queste basi, Locke affronta il problema del rapporto tra politica e religione in modo molto diverso da Hobbes che – come si è visto – indica come una delle principali condizioni della pace interna l’inglobamento del potere spirituale in quello del sovrano, e l’istituzione di un culto pubblico comune a tutti i sudditi, lasciando intatta solo la libertà interiore di credo. Di contro, Locke si preoccupa di individuare le condizioni che consentano la tolleranza e la pubblicità di culti diversi nello stesso Stato: condizioni tra le quali la principale è costituita dalla rigorosa separazione tra Chiesa e Stato (vedi Unità 6, p. 380 ss.).

Lo Stato liberale Stato liberale

Alienazione parziale dei diritti naturali da parte dei contraenti il patto

Il popolo è l’unico titolare della sovranità: potere politico limitato

Divisione del potere in organi differenti

Diritto di resistenza del popolo nei confronti del potere politico in tutte le sue funzioni

Neutralità dello Stato nei confronti delle opinioni e dei diversi credi religiosi

L’anomalia di Spinoza

4 I testi

B. Spinoza Trattato teologico-politico: Il diritto naturale di ogni individuo coincide con la sua potenza, T13; Il patto non può

Antropologia realistica e bisogno di sicurezza

440

avere alcuna forza se non per la sua utilità, T14; I vantaggi della democrazia, T15

Spinoza condivide con Hobbes l’esigenza di fondare la scienza politica su una visione realistica dell’uomo, in polemica con i filosofi morali tradizionali, avvezzi a lodare una natura umana inesistente e a deridere o biasimare quella realmente esistente. Spinoza è, infatti, consapevole che la maggior parte degli uomini che entrano in rapporto reciproco non seguono la via difficile indicata dalla ragione, bensì sono trascinati dalle passioni: di conseguenza, soltanto partendo da una comprensione realistica della comune natura umana – cioè dall’analisi geometrica degli affetti compiuta nell’Etica (vedi Unità 5, p. 247 ss.) – è possibile adempiere quello che egli considera l’obiettivo fondamentale della politica: garantire la sicurezza, a prescindere dalle virtù o vizi dei governanti e dei governati.

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

1 Hobbes: analisi pessimistica della natura umana

Spinoza: antropologia positiva e dinamica

Scopo della sicurezza: la libertà attraverso la ragione

Identità tra diritto naturale e potenza individuale

Diritto naturale commisurato alla potenza di ciascuno

Relatività di giusto e ingiusto

Diritto naturale a esistere e a operare secondo la propria natura

Diritto naturale e potenza Nonostante questi importanti punti di convergenza, la concezione spinoziana della politica presenta delle differenze fondamentali rispetto a quella di Hobbes, che sono riconducibili ai diversi presupposti dai quali i due autori prendono le mosse. Hobbes parte da un’analisi pessimistica della natura umana – considerata come immutabile – e dalla identificazione del sommo bene con la preservazione della vita dal pericolo di morte violenta. L’antropologia spinoziana, invece, pur essendo realistica e materialistica, è essenzialmente positiva e dinamica. Per Spinoza, infatti, la legge fondamentale della natura umana è la legge universale della Natura-Sostanza infinita di cui gli uomini sono parte: la legge in virtù della quale tutti gli individui tendono non solo alla conservazione, ma anche al perfezionamento del proprio essere, attraverso uno sforzo (conatus) che coincide con la loro potenza (vedi Unità 5, p. 248). Il culmine di questo processo di perfezionamento – cioè il sommo bene – è costituito dal raggiungimento della conoscenza razionale e della scienza intuitiva, che consentono di cogliere l’ordine necessario ed eterno dell’universo. La sicurezza che la politica ha il compito di garantire non è dunque, come per Hobbes, un fine in sé, bensì solo il presupposto indispensabile affinché il maggior numero possibile di uomini possa innalzarsi alla ragione, raggiungendo così la vera libertà. Questi presupposti ontologici e antropologici si riflettono innanzitutto sull’analisi della condizione pre-statuale degli uomini, da cui anche Spinoza prende le mosse – come Hobbes e Locke – per comprendere la genesi e i caratteri del potere politico. Essi sono, infatti, alla base dell’identificazione tra diritto naturale e potenza individuale, che contraddistingue lo stato di natura spinoziano. Il punto di partenza di questa identificazione è costituito dalla tesi che il Dio-Natura ha un diritto su tutte le cose, che coincide con la sua infinita potenza. Partecipando della potenza divina – di cui sono espressione – tutte le cose naturali partecipano anche del suo diritto, in misura proporzionata al grado di potenza posseduto: di conseguenza, ogni individuo ha il diritto di fare tutto ciò che può, cioè ha un diritto commisurato alla sua potenza. Questo diritto è ciò che Spinoza definisce diritto naturale: prima della nascita delle istituzioni politiche, esso non ha altri limiti oltre a quelli dati dalla quantità di potenza di ogni individuo, che non è vincolata al rispetto di alcuna altra norma. Negando ogni finalismo, anche Spinoza rifiuta – come Hobbes – l’assunto che nell’ordine naturale complessivo esistano regole prestabilite e oggettive del giusto o dell’ingiusto: nella prospettiva spinoziana, in natura vige unicamente il principio della conservazione dell’esistenza individuale, come espressione dell’infinita potenza della Sostanza. Di conseguenza, a questo livello l’uomo ha un diritto naturale anche ad azioni eticamente riprovevoli o politicamente dannose, se a esse è spinto dal suo «conato» – o meglio dalla sua cupiditas («desiderio, passione accompagnata dalla consapevolezza») – che, tra l’altro, lo determina ad agire in maniera necessaria: motivo per cui in natura non ha senso parlare di colpa o peccato. Ciò vale per gli uomini come per tutti gli altri esseri naturali: come il pesce più grande ha il pieno diritto naturale di mangiare quelli più piccoli, allo stesso modo in natura l’ignorante ha il diritto naturale di perseguire con tutti i mezzi ciò cui lo inclina la legge dell’istinto, e il saggio di vivere secondo i dettami della ragione. Il diritto naturale non proibisce, dunque, nient’altro se non ciò che nessuno desidera e nessuno può. 441

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

T13

Il diritto naturale di ogni individuo coincide con la sua potenza B. Spinoza, Trattato teologico-politico, 16

Per diritto e istituto di natura non intendo altro che le regole della natura di ciascun individuo, secondo le quali concepiamo qualunque cosa naturalmente determinata ad esistere e ad operare secondo un certo modo. Per esempio, i pesci sono determinati dalla natura a nuotare, i grandi a mangiare i più piccoli, e perciò i pesci per supremo diritto naturale si servono dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. È certo infatti che la natura, considerata in assoluto, ha il supremo diritto a tutte le cose che può, cioè che il diritto della natura si estende fin dove si estende la sua potenza, e la potenza della natura è la stessa potenza di Dio, il quale ha il supremo diritto a tutte le cose. Ma, poiché la potenza universale di tutta la natura non è altri che la potenza di tutti gli individui messi insieme, ne segue che ciascun individuo ha il supremo diritto a tutto ciò che può, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin dove si estende la sua determinata potenza. E, poiché la legge suprema della natura è che qualunque cosa si sforzi di perseverare per quanto è in lei nel proprio stato, e ciò non in ragione di un’altra cosa ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha il supremo diritto a ciò, ossia (come ho detto) a esistere e a operare a seconda di come è naturalmente determinato. E qui noi non conosciamo alcuna differenza tra gli uomini e gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra gli sciocchi, i pazzi e i sani. Infatti, tutto ciò che qualunque cosa fa secondo le leggi della sua natura, lo fa per supremo diritto, proprio perché agisce nel modo in cui è determinata dalla natura, e non può fare altro.

Il diritto naturale, così inteso, costituisce per Spinoza al tempo stesso la radice dell’uguaglianza tra gli uomini, e il motore di relazioni segnate dalla concreta possibilità della collisione tra i diversi diritti naturali, cioè della guerra. L’affermazione incontrollata del diritto di natura – che si verifica nella condizione prestatuale – produce, infatti, una situazione di conflittualità e insicurezza, fatta di «contese, odi, ira, inganni», analoga a quella dello stato di natura hobbesiano. Spontanea tendenza A differenza di Hobbes, però, Spinoza ritiene che anche in questo scenario conad associarsi flittuale agisca già una spontanea tendenza degli uomini ad associarsi, fondata sul fatto che nulla è più utile all’essere umano della vita in società, che gli consente di procurarsi molto più facilmente ciò di cui ha bisogno e di contrastare meglio i pericoli che le altre specie e la natura pongono alla sua autoconservazione (vedi Unità 5, p. 249 ss.). Sulla base di queste considerazioni, Spinoza rovescia polemicamente il principio «l’uomo per l’uomo è lupo» – che Hobbes aveva posto all’origine del processo di formazione dello Stato – nel principio opposto, secondo il quale l’uomo per l’uomo è Dio (vedi T12, Unità 5, p. 253).

Uguaglianza naturale e conflitto potenziale

2 Passaggio necessario dalla vita naturale a quella politica

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Assolutezza e limiti del potere politico In base a quanto detto, per Spinoza il perseguimento dell’utile – nella duplice forma di bisogno di sicurezza e ricerca di cooperazione – spinge gli uomini a passare dalla vita naturale alla vita politica: dal momento che ciascuno è spinto a ricercare l’utile dal conato alla conservazione e al potenziamento del proprio essere, nella prospettiva spinoziana questo passaggio non è una scelta tra le altre, bensì una necessità, cui gli uomini non possono sottrarsi, per sopravvivere e vivere bene.

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

L’uscita dallo stato di natura avviene attraverso un patto che gli uomini fanno tra loro e con il potere che essi costituiscono, in virtù del quale stabiliscono, per motivi di utilità, che il diritto naturale – che fino a quel momento ciascuno esercitava individualmente e illimitatamente – venga gestito dalla collettività. Non si tratta tanto di una cessione del proprio diritto naturale da parte del singolo, bensì piuttosto di una composizione o somma dei diritti naturali – cioè delle quantità di potenza – degli individui, da cui viene fuori una potenza-diritto collettiva superiore a tutte le altre, cioè la potestà suprema dello Stato. A partire dal patto, solo a quest’ultima spetta il diritto di stabilire cosa è utile o dannoso per tutti – cioè cosa è giusto o ingiusto – attraverso l’istituzione e l’interpretazione delle leggi civili, al cui rispetto lo Stato può costringere tutti anche con l’uso della forza. Potere sovrano assoluto Come per Hobbes, anche per Spinoza la suprema potestas che scaturisce dal patto è assoluta, nel senso che è al di sopra di ogni legge, in quanto nessuno ha la forza di vincolarla all’obbedienza, mentre invece tutti sono tenuti a ubbidire alle sue prescrizioni. Patto fondato sull’utile Tuttavia per Spinoza questo potere assoluto non compete allo Stato in modo dee revocabile finitivo, cioè una volta e per sempre. Spinoza stabilisce, infatti, un legame indissolubile tra il rispetto del patto e la sua utilità, che differenzia la sua concezione del patto dal contrattualismo giusnaturalistico, fondato sul principio dello ‘stare ai patti’ e quindi non impugnabile dai contraenti. Nella prospettiva spinoziana, di contro, un patto stipulato per ragioni di utilità può avere validità e stabilità solo sino a quando il rispetto di esso porta dei vantaggi: di conseguenza, se lo Sta➥ Percorso tematico, p. 611 to esercita il proprio potere in modo tale che il patto sociale stipulato dagli individui si riveli nocivo, questi possono romperlo. Il diritto naturale di perseguire il proprio utile, che legittima la rottura di un patto che risulti dannoso, conserva dunque per Spinoza intatta tutta la sua validità anche all’interno del corpo politico, segnando il limite al di là del quale le somme potestà non possono andare nell’esercizio del loro potere, se lo vogliono mantenere.

Il patto compone i diritti naturali di tutti

T14

Il patto non può avere alcuna forza se non per la sua utilità B. Spinoza, Trattato teologico-politico, 16

[…] è legge universale della natura umana che nessuno abbandoni qualcosa che giudica bene se non per la speranza di un bene maggiore o per la paura di un danno maggiore; e che non sopporti qualche male se non per evitare uno maggiore e per la speranza di un bene maggiore: ciascuno, cioè, tra due beni sceglie quello che ritiene maggiore e tra due mali quello che gli sembra minore. […] E questa legge è così fermamente scritta nella natura umana, che deve essere posta tra le verità eterne che nessuno può ignorare. Ora, da questa legge segue necessariamente che nessuno prometterà senza dolo di rinunciare al diritto che ha su tutte le cose, e che assolutamente nessuno manterrà le promesse, se non per la paura di un male maggiore o per la speranza di un bene maggiore. Per meglio intendere ciò, poniamo che un ladro mi costringa a promettergli di dargli tutti i miei beni quando lui lo voglia. Ora, siccome, come ho già mostrato, il mio diritto naturale è determinato soltanto dalla mia potenza, è certo che, se posso liberarmi da questo ladro con dolo, promettendogli tutto ciò che vuole, mi è lecito farlo per diritto di natura, cioè pattuire con dolo tutto ciò che vuole. […] Da queste cose concludiamo che il patto non può avere alcuna forza se non in ragione dell’utilità, tolta la quale anche il patto viene insieme tolto e non è più valido; e che scioccamente, perciò, uno esige la fedeltà di un altro nei suoi con443

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

fronti per sempre, se, insieme, non si sforza di far sì che dalla rottura del patto che deve essere stretto segua, a colui che lo rompe, più danno che utilità: e questo deve contare moltissimo nell’istituzione dello Stato. Controllo statale sulla religione e sul culto

L’interesse dei cittadini è il valore supremo

Stabilità del potere e dell’ordine politico e ricerca del consenso

Dalla potenza individuale allo Stato in Spinoza

In altri termini, per Spinoza il potere dello Stato è assoluto in quanto non è vincolato dalle leggi civili, che esso stesso istituisce – potendole variare in ogni momento – e che solo esso può fare rispettare. Inoltre, esso non è soggetto nemmeno al diritto divino e alle autorità religiose: sulla base dell’analisi di alcuni aspetti della storia ebraica, anche Spinoza ritiene – come Hobbes – che spetti alle autorità civili, e non a quelle ecclesiastiche, di regolare il culto esterno della religione e la pratica della pietà, in modo da adeguarli all’interesse dello Stato. Tesi che è dettata dalla preoccupazione di preservare l’unità dello Stato dal rischio di disgregazione in seguito ai conflitti religiosi. Il potere politico provoca, però, la ribellione dei cittadini e determina la sua propria rovina se agisce contro le leggi naturali e le regole della ragione, tra cui rientra innanzitutto il tener conto della natura e dell’utilità di coloro cui l’ordine è rivolto: come nessuno Stato ha il potere di fare sì che gli uomini volino, allo stesso modo nessuno Stato può far sì che essi rispettino ciò che suscita riso o disgusto, o non tengano conto di ciò che costituisce il principale stimolo della loro azione, cioè la ricerca dell’utile. Spinoza non è un sovversivo: anche nel suo pensiero politico, come in quello hobbesiano, è centrale, infatti, il problema della stabilità del potere e dell’ordine politico. Tuttavia, a differenza di Hobbes, Spinoza è convinto che la paura non sia, di per sé, sufficiente a sostenere nessun regime politico, nemmeno quello più dispotico. Per potere sopravvivere, lo Stato deve piuttosto preservare il consenso operando in maniera razionale, cioè garantendo che al suo interno gli individui possano esplicare al meglio il proprio sforzo all’autoconservazione e al perfezionamento. In questo modo, lo Stato aumenta anche la sua propria potenza, dal momento che quest’ultima non è che la somma delle potenze individuali. Legge universale della Sostanza Tutti gli enti tendono all’autoconservazione e al loro perfezionamento, in proporzione alla loro potenza

Il sommo bene per l’uomo è la conoscenza intuitiva

La politica è utile perché si viva in sicurezza e soprattutto si possa arrivare alla conoscenza

Ogni uomo è dotato di un diritto naturale pari alla propria potenza: conflitto potenziale tra tutti

L’uomo si associa per il proprio utile: patto che compone i diritti di tutti

Il potere sovrano è assoluto (come per Hobbes) ma può essere revocato quando non porta più vantaggi ai cittadini

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3 Democrazia come modello migliore di Stato

La democrazia è più vicina allo stato di natura

Ognuno mantiene l’uguaglianza originaria

Ognuno è libero di decidere su tutto

T15

I vantaggi della democrazia B. Spinoza, Trattato teologico-politico, 16

Garantite le libertà di pensiero, di parola, di opinione

Democrazia e libertà di espressione A partire dall’affermazione di un nesso essenziale tra assolutezza del potere politico e consenso, Spinoza indica la forma di Stato nella quale più che in ogni altra si realizza il suo modello politico nella democrazia, definita come l’unione di tutti gli uomini che ha collegialmente pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere. Posizione che è opposta rispetto a quella di Hobbes che, pur non legando l’assolutezza della sovranità a nessuna forma politica, considera però la monarchia come la sua espressione più perfetta. Se si considerano le ragioni che Spinoza adduce per giustificare la propria preferenza per il regime democratico, emerge in modo chiaro la differenza fondamentale della sua dottrina politica rispetto a quella hobbesiana e, più in generale, il suo carattere anomalo rispetto al contrattualismo giusnaturalistico: la democrazia è, infatti, ai suoi occhi la migliore forma di Stato in quanto è quella che maggiormente si avvicina allo stato di natura. Questa convinzione poggia su due considerazioni: 1) in primo luogo, la democrazia dà espressione politica all’uguaglianza che vi è tra gli individui, se considerati dal punto di vista della loro natura ontologica, di modi della Sostanza (enti che dipendono dalla Sostanza e che senza di essa non possono essere concepiti): nella democrazia, infatti, a differenza che nella monarchia e nell’aristocrazia, non vi è distinzione tra governanti e governati; il potere è nelle mani di tutti; 2) in secondo luogo, nella democrazia ciascuno conserva il proprio diritto naturale, cioè la propria libertà di decidere su tutto: in democrazia, infatti, nessuno obbedisce a un’autorità esterna, bensì tutti obbediscono solamente a se stessi, cioè alle leggi che essi stessi si sono dati, conformi ai dettami della ragione; è solo su questi ultimi, infatti, che gli uomini concordano, mentre sono tra loro in contrasto se trascinati dalle passioni (vedi Unità 5, p. 250 ss.). Con queste cose ritengo di avere mostrato abbastanza chiaramente i fondamenti del governo democratico, del quale ho voluto trattare a preferenza di altri, perché mi sembrava il più naturale e il più conforme alla libertà che la natura concede a ciascuno. In esso, infatti, nessuno trasferisce il proprio diritto naturale ad un altro in modo che in seguito non sia più consultato, ma lo trasferisce alla maggior parte della società della quale è membro; e in questo modo tutti rimangono uguali, come lo erano nello stato di natura. Anche nel regime democratico, gli uomini non hanno più il diritto naturale illimitato che avevano nello stato di natura, cioè la libertà di agire secondo il proprio convincimento: ognuno deve piuttosto agire sottostando alle decisioni che hanno ottenuto il maggior numero di voti, che soltanto hanno forza di leggi. Tuttavia, in democrazia ciascuno conserva quella che per Spinoza è la libertà fondamentale e insopprimibile, cioè la libertà di pensiero e di parola. Dando vita a un ordinamento democratico, gli uomini si impegnano sì ad agire in conformità ai decreti della maggioranza – consapevoli dell’impossibilità di una costante uniformità di opinioni – ma si riservano il diritto di giudicare con la propria testa e di esprimere i propri giudizi; diritto da cui deriva la possibilità continua 445

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La libertà di espressione garantisce la lealtà verso lo Stato

Nella libertà si sviluppano arti e scienze ➥ Sommario, p. 447

di migliorare l’ordine esistente. Questa idea dell’insopprimibilità della libertà di pensiero e di parola – alla cui difesa è dedicato l’intero Trattato teologico-politico – costituisce un’ulteriore differenza rispetto a Hobbes, che nega ogni libertà di espressione ai sudditi, presentandola come uno dei principali fattori di instabilità dello Stato, e dunque come un ostacolo al perseguimento di quello che ai suoi occhi è il bene supremo, cioè la conservazione della vita. Di contro, sulla base della propria concezione dinamica del potere politico, Spinoza ritiene che la libertà di opinione e di parola non solo non compromettano la pace interna e la sopravvivenza dello Stato, bensì al contrario ne costituiscano una condizione essenziale. Il tentativo di reprimerle non può che sortire degli effetti negativi: dal momento che è impossibile impedire agli uomini di pensare ciò che vogliono, il divieto di esprimere i propri pensieri finisce per istigare alla menzogna e all’ipocrisia, minando la lealtà – che è uno dei fondamenti dello Stato – e sollevando l’inevitabile indignazione e ribellione di tutti gli uomini onesti. La ragione e l’esperienza insegnano che leggi che pretendono di reprimere e controllare le opinioni impediscono lo sviluppo delle arti e delle scienze, privando lo Stato delle energie fondamentali dei cultori di queste ultime. Quindi, il miglior metodo di governo è quello che consenta la libertà di giudizio e renda possibile la convivenza pacifica anche di uomini che abbiano diverse e contrastanti opinioni.

I vantaggi della democrazia secondo Spinoza

Democrazia

Tutti mantengono l’uguaglianza originaria

Tutti conservano il diritto naturale, ossia la libertà di decidere su tutto

Tutti godono delle libertà individuali (di parola, di opinione, di giudizio ecc.)

La libertà di tutti favorisce lo sviluppo di arti e scienze

Suggerimenti bibliografici Per una presentazione sintetica ma completa della nozione di giusnaturalismo: G. Fassò, Giusnaturalismo, in N. Bobbio - N. Matteucci - G. Pasquino, Dizionario di politica, UTET, Torino 1976 (sempre ristampato). In generale sul modello giusnaturalistico seicentesco e, in particolare, sulla teoria politica di Hobbes: N. Bobbio, Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 1989. Sulla filosofia politica di Locke: C.A. Viano, Locke, Laterza, Roma 1997. Una lettura comparativa del pensiero politico di Hobbes e Spinoza: E. Giancotti, Studi su Hobbes e Spinoza, a cura di D. Bostrenghi e C. Santinelli, Bibliopolis, Napoli 1995. I brani antologizzati sono tratti da: T. Hobbes, De cive, trad. di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 1999: pp. 10-11 (T1), pp. 15-20 (T2). T. Hobbes, Leviatano, trad. di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976. J. Locke, Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 1960, Primo trattato, pp. 195-196. J. Locke, Il secondo trattato sul governo, a cura di T. Magri e A. Gialluca, Rizzoli, Milano 1998. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, a cura di A. Dini, Bompiani, Milano 2001.

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

Sommario 1. L’OFFICINA

DELLA MODERNITÀ

Uno dei più importanti elementi da cui ha origine la modernità è l’evoluzione del giusnaturalismo da teoria che pensa l’ordine giuridico-politico come dipendente da un principio teologico o metafisico a teoria che lo pensa come insieme di norme universali ed eterne fondate sulla ragione umana. Esso afferma infatti che gli individui umani, in quanto esseri razionali, sono titolari dei diritti naturali innati di libertà e uguaglianza, per tutelare i quali viene fondato lo Stato. All’origine di tale concezione ci sono Ugo Grozio, che per primo rende il diritto e la morale autonomi rispetto alla teologia e alla metafisica, e Samuel Pufendorf, il primo docente universitario di diritto naturale. Le categorie fondamentali del giusnaturalismo sono quella di stato di natura – la condizione pre-statuale – e il contrattualismo, ossia la tesi secondo la quale c’è un patto che fonda le istituzioni politiche. Attraverso il patto avviene la legittimazione del potere politico, cioè della sovranità. [par. 1] 2. HOBBES

E LA TEORIA DELLO

STATO

ASSOLUTO

Thomas Hobbes vuol fondare una scienza politica rigorosa in modo da superare le forme di dissenso tra individui su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. [par. 1] La sua teoria inizia con l’ipotesi logico-argomentativa che esista uno stato di natura in cui tutti sono in guerra con tutti e regnano l’insicurezza e il timore di essere aggrediti o addirittura uccisi. Questo perché gli uomini non sono per natura socievoli, ma dominati dalle passioni: soprattutto competono per il guadagno, sono diffidenti e lottano per la vanagloria. [par. 2] Ma essi rintracciano nella loro ragione alcune regole generali di prudenza, le leggi di natura: la prima dice loro di cercare la pace con ogni mezzo per autoconservarsi; la seconda consiglia di fare un patto d’unione per raggiungere questo scopo, con cui tutti trasferiscono poteri e diritti a un rappresentante: il sovrano o Leviatano. [parr. 3-4] Il potere politico che egli incarna è irrevocabile, assoluto e indivisibile (assolutismo); egli è l’unico legittimo interprete delle leggi naturali e controlla anche il potere spirituale. La libertà che rimane ai sudditi è solo interiore e privata. [par. 5] 3. LOCKE

E LA DOTTRINA LIBERALE

Anche per Locke l’origine del potere politico si trova nella ragione umana. Per difendere questa tesi contro quella dell’origine divina dell’autorità, che secondo Robert Filmer deriva ai sovrani attraverso la discendenza da Adamo, Locke scrive il suo primo Trattato. [par. 1]

Il secondo spiega la genesi e la natura dello Stato e inizia descrivendo la condizione prepolitica dello stato di natura, che però, secondo lui, non coincide con lo stato di guerra. Gli individui hanno diritto naturalmente alla libertà, alla vita e alla proprietà e la legge fondamentale, per Locke, prescrive di perseguire la conservazione propria e di tutto il genere umano; inoltre la validità delle leggi è garantita dalla razionalità comune ed esiste un ordine sociale elementare, che però è instabile e incerto. [par. 2] Tutto ciò rende necessario uscire dallo stato di natura attraverso il patto di associazione che affida le decisioni al potere della maggioranza e istituisce il corpo politico del popolo. Il mandato del popolo per governare non è assoluto, perché l’alienazione dei diritti naturali è solo parziale ed esso rimane l’unico titolare della sovranità in senso proprio. [par. 3] La concezione lockiana è detta liberalismo e prevede una divisione del potere tra le varie funzioni (esecutiva, legislativa e federativa, ossia riguardante la politica estera) e il diritto di resistenza dei sudditi. Lo Stato lockiano è tollerante, neutrale su opinioni e fede e tra esso e la Chiesa vige una rigorosa separazione. [par. 4] 4. L’ANOMALIA

DI

SPINOZA

Spinoza condivide con Hobbes la visione realistica dei rapporti conflittuali tra gli uomini, che seguono per lo più le passioni e non la ragione. Ma la sua antropologia non è statica bensì dinamica, in quanto si fonda sulla sua ontologia: il diritto naturale è commisurato alla potenza di ciascuno (che è un’emanazione della potenza della Sostanza-natura), per cui ognuno è spinto dal conato verso il perfezionamento. Nello stato di natura non esiste un comportamento giusto o ingiusto di per sé. [par. 1] Nonostante la tendenza naturale li spinga al conflitto, gli uomini hanno anche un impulso ad associarsi, per poter realizzare meglio i propri fini: autoconservarsi e ottenere un maggior utile. Quindi per Spinoza esiste un passaggio naturale dalla situazione prepolitica all’istituzione politica in cui, attraverso il patto, le potenze individuali si compongono in un potere superiore. La forza che tiene saldo il patto è l’utilità che esso ha per i contraenti e così lo Stato deve agire in modo razionale per assicurarsi il consenso dei cittadini. [par. 2] Per questo la democrazia è la miglior forma di governo perché garantisce l’uguaglianza e la libertà di tutti di decidere su tutto; tutti mantengono libertà di opinione, di pensiero, di religione, e scienza e arti progrediscono. [par. 3]

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Parole chiave Assolutismo. Termine derivante dal latino absolutus, «libero da qualsiasi vincolo». Indica la teoria politica in cui l’autorità sovrana è sciolta da ogni controllo o limitazione esterni.

Obbligazione politica. Principio in base al quale coloro che hanno ceduto i loro diritti naturali per costruire il patto politico sono tenuti a non ostacolare chi ha assunto (sia uno o molti) le funzioni del potere.

Contrattualismo. Teoria politica, giuridica e filosofica secondo cui la società e/o lo Stato si fondano su un accordo implicito o esplicito (consenso, patto, contratto) fra coloro che li costituiscono.

Patto. Accordo tra gli individui che nella teoria del contrattualismo è all’origine dello Stato. Secondo Hobbes è un patto d’unione con cui tutti trasferiscono per intero la propria energia politica a un unico individuo, il sovrano; secondo Locke è un patto d’associazione che non implica la rinuncia a tutti i diritti naturali e che conferisce la sovranità al popolo; secondo Spinoza è la somma dei diritti naturali dei singoli, da cui viene fuori la potestà suprema dello Stato.

Diritto di resistenza. Il diritto di una comunità o di un popolo di resistere al potere politico quando esso non ha più il proprio consenso. Diritto naturale / Diritto positivo. Nel mondo moderno il primo indica le norme eterne e universali presenti nella ragione e conoscibili dagli uomini; il secondo indica l’ordinamento stabilito (dal latino positum, «posto») da una comunità, un’assemblea o un sovrano. Giusnaturalismo. Termine derivante dal latino ius («diritto») e natura e indicante una teoria giuridica e politica che afferma l’esistenza di un diritto naturale preesistente a ogni ordinamento giuridico e valido autonomamente e universalmente. Quello antico si fondava su un principio teologico o metafisico, quello moderno sulla natura razionale dell’uomo. Guerra / Pace. La dicotomia fondamentale della vita pubblica secondo Hobbes: la guerra, termine che indica in generale una situazione di insicurezza e di timore, è la condizione degli uomini prima dell’istituzione dello Stato, e può tornare nel caso questo si disgreghi; la pace, ossia la sicurezza per sé e i propri beni, è la massima aspirazione dell’uomo, dettata dalla prima legge di natura. Legge di natura. Una legge fondata sulla natura: per gli antichi la sua garanzia risiedeva in un ordine metafisico o teologico stabile ed eterno; per i moderni è espressione della razionalità umana, quindi anche per loro è immutabile e universale. Legittimità. Il principio in base al quale un potere è riconosciuto come conforme al diritto. Liberalismo. La teoria giuridica e politica che ha come valori supremi la libertà dell’individuo (libertà d’opinione, di parola, di religione ecc.) e la tutela dei suoi diritti e dei suoi beni: compito primo dello Stato liberale è garantire entrambi.

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Potere politico. Potere di promulgare le leggi e di usare la forza della comunità per renderle esecutive. Principio di maggioranza. Secondo Locke il risultato del patto di associazione, in seguito al quale ogni scelta che riguarda la comunità o il popolo non viene più fatta all’unanimità ma a maggioranza. Rappresentanza. Meccanismo giuridico-politico attraverso il quale un soggetto diviene il legittimo rappresentante dei diritti e degli interessi di coloro che lo hanno designato e può legiferare, decidere, comandare ecc. in loro vece. Sovranità. Termine che indica la pienezza del potere: chi la possiede è indipendente sia giuridicamente che politicamente. Stato. Entità giurico-politica che ha la sovranità su un territorio e sulla popolazione che lo abita. Caratteri peculiari dello Stato moderno sono il monopolio della forza sul suo territorio; il possesso di un ordinamento giuridico; la funzione di garanzia e di controllo sulle altre forme di associazione e sulle comunità che si trovano sul suo territorio; una struttura burocratica e amministrativa. Stato di natura. La condizione in cui vivono gli uomini prima che si costituiscano le istituzioni politiche: in esso gli uomini sono tutti liberi e uguali. Secondo Hobbes è identificabile con uno stato di «guerra di tutti contro tutti»; secondo Locke esistono in esso delle forme di organizzazione sociale e la proprietà ottenuta per mezzo del lavoro; Spinoza vede una continuità tra stato di natura e società politica, poiché entrambi sono fondati sull’utile dei cittadini.

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

Questionario L’OFFICINA 1

2

3

HOBBES

Lavoriamo sui testi

DELLA MODERNITÀ

Qual è la differenza tra il giusnaturalismo antico e quello moderno? (max 4 righe)

16

Di che cosa è metafora la storia di Issione secondo Hobbes in T1? (max 3 righe)

Indica quali sono le due categorie fondamentali del giusnaturalismo e descrivile brevemente. (max 4 righe)

17

Su quale fondamento errato hanno costruito la loro dottrina civile i filosofi, secondo Hobbes in T2? (max 1 riga)

Chi sono i maggiori pensatori giusnaturalistici e su quali questioni fondamentali divergono? (max 6 righe)

18

Qual è la differenza tra legge e diritto secondo Hobbes in T4? (max 4 righe)

STATO

19

Elenca i motivi che determinano la generazione dello Stato secondo Hobbes in T5. (max 3 righe)

20

Quali sono le conseguenze se i cristiani non accettano il loro sovrano come profeta di Dio secondo Hobbes in T6? (max 5 righe)

21

In quale situazione e per quale ragione l’uomo può difendersi da solo secondo Locke in T8? (max 2 righe)

22

Quali sono le due premesse da cui discende la necessità che sia il principio della maggioranza a guidare il corpo politico, secondo Locke in T9? (max 4 righe)

23

Chi è il depositario del potere costituente secondo Locke in T10? (max 1 riga)

24

Qual è il potere supremo dello Stato secondo Locke in T12? (max 2 righe)

25

Da cosa è formata la «potenza universale» di tutta la natura secondo Spinoza in T13? (max 1 riga)

26

Su quale legge universale poggia la scelta di rinunciare al proprio diritto naturale su tutte le cose, secondo Spinoza in T14? (max 2 righe)

E LA TEORIA DELLO

ASSOLUTO

4

Che cos’è lo stato di natura secondo Hobbes? (max 1 riga)

5

Quali sono i caratteri dell’uomo nello stato di natura secondo Hobbes? (max 2 righe)

6

Perché gli uomini entrano tra loro in conflitto nello stato di natura, secondo Hobbes? (max 4 righe)

7

Che cosa sono le leggi di natura secondo Hobbes? Quali sono le principali? (max 6 righe)

8

Indica i caratteri della sovranità nella teoria hobbesiana. (max 2 righe)

LOCKE 9

10

11

12

E LA DOTTRINA LIBERALE

Quali sono i temi dei due Trattati sul governo di Locke? (max 2 righe) In cosa differisce da quella hobbesiana la concezione dello stato di natura in Locke? (max 4 righe) Di che natura è il patto che stipulano gli uomini secondo Locke? (max 3 righe) In un massimo di 5 righe definisci che cos’è il liberalismo.

L’ANOMALIA

DI

SPINOZA

13

Quali sono i tratti essenziali dell’antropologia di Spinoza? (max 2 righe)

14

Che cos’è che spinge gli uomini ad associarsi secondo Spinoza? (max 2 righe)

15

Perché, secondo Spinoza, la democrazia è la forma migliore di governo? (max 4 righe)

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Laboratorio di lettura Hobbes, Leviatano Nel XIII capitolo del Leviatano, intitolato «Della condizione naturale dell’umanità per quanto concerne la sua felicità e la sua miseria», Hobbes espone gli svantaggi che caratterizzano necessariamente la vita dell’uomo al di fuori delle istituzioni politiche – cioè nello stato di natura – partendo dai presupposti della propria antropologia meccanicistica e pessimistica. La descrizione dello stato di natura come guerra permanente di tutti contro tutti – che contraddice in maniera radicale la concezione aristotelica e scolastica dell’uomo come animale sociale e politico – offre una giustificazione razionale della creazione dello Stato come uomo artificiale.

Lo stato di natura secondo Hobbes Prima tesi, prima parte: uguaglianza naturale tra gli uomini rispetto alla forza

Commento e interpretazione

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Gli uomini sono uguali per natura. La NATURA ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, sebbene si trovi talvolta un uomo manifestamente più forte fisicamente o di mente più pronta di un altro, pure quando si calcola tutto insieme, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole, che un uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche beneficio che un altro non possa pretendere, tanto quanto lui. [A]

1

5

A. Hobbes prende le mosse dall’affermazione dell’‘uguaglianza’ degli uomini nello stato di natura, sia sotto il profilo fisico sia sotto il profilo mentale. In questo modo, egli rifiuta in modo netto le teorie che riconducevano la divisione tra governanti e governati o i differenti ruoli sociali all’esistenza di una gerarchia naturale fondata sulle differenze fisiche o intellettuali degli uomini. Per chiarire meglio il significato di rottura della posizione hobbesiana rispetto alla concezione tradizionale vale la pena riportare questi passaggi, tratti dal XV capitolo del Leviatano, in cui Hobbes polemizza esplicitamente con la pretesa aristotelica di fondare la divisione tra governanti e governati sulla differenza di ingegno tra gli uomini: «La questione di quale sia l’uomo migliore non ha luogo nella condizione di mera natura, in cui, come è stato mostrato prima, tutti gli uomini sono uguali. L’ineguaglianza presente è stata introdotta dalle leggi civili. So che Aristotele nel primo libro della sua Politica pone come fondamento della sua dottrina che gli uomini sono per natura, alcuni più disposti per comandare, volendo dire i più saggi (e tale egli stesso pensava di essere per la sua filosofia) altri per servire (volendo dire coloro che avevano il corpo forte, ma non erano filosofi come lui) come se i padroni e i servi non fossero stati introdotti dal consenso degli uomini, ma dalla differenza dell’ingegno, cosa che non è solo contro la ragione, ma anche contro l’esperienza. Ci sono infatti pochissimi così sciocchi da non preferire di governarsi da sé piuttosto che di essere governati da altri, e quando colui che è saggio, secondo il suo concetto, contende con la forza con coloro che non hanno fiducia nella sua saggezza, non ottiene vittoria né sempre né spesso, anzi, quasi mai» (da Leviatano, 1,15). B. Sotto il profilo fisico le differenze tra gli uomini sono irrilevanti, perché ogni uomo, anche il più debole, è capace di uccidere, tramite l’astuzia o alleandosi con gli altri. C. Anche sotto il profilo mentale, tutti gli uomini sono uguali. In questo campo, l’ineguaglianza apparente discende esclusivamente, secondo Hobbes, da un’illusione prospettica: ciascuno considera l’ingegno altrui inferiore al proprio, per il semplice fatto che il

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

Prima tesi, seconda parte: uguaglianza rispetto alle facoltà mentali

Obiezione alla seconda parte: ogni uomo si ritiene più saggio

Replica

Prima conseguenza della prima tesi: desiderio e conflitto

Infatti riguardo alla forza corporea, il più debole ha forza sufficiente per uccidere il più forte, o con segreta macchinazione o alleandosi con altri che sono con lui nello stesso pericolo. [B] E quanto alla facoltà della mente (lasciando da parte le arti fondate sulle parole, e specialmente quell’abilità di procedere sulla base di regole generali e infallibili, chiamata scienza, che molto pochi hanno e solo in poche cose, non essendo una facoltà naturale, nata con noi, né conseguita, come la prudenza, mentre ci si occupa di qualcos’altro) io trovo tra gli uomini una eguaglianza ancora più grande di quella della forza. Infatti la prudenza non è che esperienza, ed un tempo eguale la conferisce in egual misura a tutti gli uomini, in quelle cose in cui si applicano in egual misura. Ciò che può forse rendere incredibile una tale eguaglianza non è che un vano concetto della propria saggezza, che quasi tutti gli uomini pensano di avere in un grado maggiore del volgo, cioè di tutti gli uomini, tranne se stessi e pochi altri che approvano per la loro fama, o perché concordano con essi. Tale è infatti la natura degli uomini, che, per quanto possano riconoscere che molti altri sono più saggi o più eloquenti, o più dotti, pure difficilmente crederanno che ci siano molti saggi tanto quanto lo sono essi, poiché vedono il loro ingegno da vicino e quello degli altri uomini a distanza. Ma questo prova che gli uomini sono eguali in quel punto, piuttosto che diseguali. Infatti ordinariamente non c’è segno più grande di egual distribuzione di qualcosa, del fatto che ogni uomo è contento della propria parte. [C] Dall’eguaglianza procede la diffidenza. Da questa eguaglianza di abilità sorge l’eguaglianza nella speranza di conseguire i nostri fini. E perciò, se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla, diven-

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secondo, essendo più distante, gli appare più piccolo. In realtà, invece, gli uomini non solo nascono tutti con le medesime facoltà, ma fondamentalmente sono tutti ugualmente prudenti: per Hobbes, infatti, la «prudenza» non è altro che la conoscenza sensibile, che gli uomini possiedono sì in grado diverso, ma secondo differenze che dipendono esclusivamente dalla quantità di esperienze accumulate, ossia dal tempo di vita trascorso; uomini della medesima età sono dunque prudenti in ugual misura. Un discorso differente vale invece a proposito della «scienza», che Hobbes distingue accuratamente dalla prudenza. Quest’ultima è un sapere pratico che consente solo di formulare congetture, dotate di minore o maggiore probabilità, a seconda dell’esperienza di ciascuno, ma non permette mai di arrivare a conclusioni certe e universali; i concetti sensibili su cui si basa la prudenza sono, infatti, per Hobbes sempre concetti di cose individuali, la cui connessione non può mai produrre risultati universalmente validi. La scienza è invece la conoscenza di regole certe e universali, e rientra tra le «arti fondate sulla parola», in quanto nella sua formazione Hobbes – movendo da una concezione nominalistica degli universali – attribuisce un ruolo fondamentale al linguaggio, inteso come frutto di una convenzione (vedi Unità 6, p. 348 ss.). Questa differenza è chiaramente enunciata da Hobbes nel V capitolo del Leviatano: «la ragione non è nata con noi, come il senso e la memoria, né è acquisita solamente con l’esperienza, come la prudenza, ma è conseguita con l’industria, in primo luogo imponendo in modo adatto i nomi, e in secondo luogo con l’acquisire un metodo buono e ordinato nel procedere dagli elementi, che sono nomi, alle asserzioni che sono fatte mediante la reciproca connessione di essi, e poi ai sillogismi che sono la connessione di un’asserzione con l’altra, finché giungiamo alla conoscenza di tutte le conseguenze dei nomi che appartengono al soggetto in questione, ed è ciò che gli uomini chiamano SCIENZA. […] Perciò i fanciulli non sono affatto dotati di ragione, finché non hanno conseguito l’uso della parola, ma so451

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Seconda conseguenza: la diffidenza e il diritto di aggressione preventiva

Terza conseguenza: il timore reciproco e la passione della vanagloria

tano nemici, [D] e sulla via del loro fine (che è principalmente la loro propria conservazione, e talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro. Onde accade che dove un aggressore non ha più da temere che il potere singolo di un altro uomo, se uno pianta, se mina, costruisce o possiede un fondo conveniente, ci si può probabilmente aspettare che altri, preparatisi con forze riunite, vengano per spossessarlo e privarlo non solo del frutto della sua fatica, ma anche della sua vita o della libertà. E l’aggressore è di nuovo in un pericolo simile a quello in cui era l’altro. Dalla diffidenza la guerra. Da questa diffidenza dell’uno verso l’altro non c’è via così ragionevole per ciascun uomo di assicurarsi, come l’anticipazione, cioè il padroneggiare con la forza o con la furberia quante più persone è possibile, tanto a lungo, finché egli veda che nessun altro potere è abbastanza grande per danneggiarlo; e questo non è più di ciò che la propria conservazione richiede, ed è generalmente concesso. [E] Inoltre, per il fatto che ci sono alcuni che prendono piacere nel contemplare il proprio potere in atti di conquista, che essi spingono più lontano di quanto richieda la loro sicurezza, se gli altri, che diversamente sarebbero lieti di starsene quieti entro modesti limiti, non accrescessero con l’aggressione il loro potere, non sarebbero in grado, con lo stare solo sulla difensiva, di sussistere a lungo. Di conseguenza, tale aumento di dominio sugli uomini, essendo necessario per la conservazione dell’uomo, deve essergli concesso. Ancora, gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti. Ogni uomo infatti bada che il suo compagno lo valuti allo stesso grado in cui egli innalza se stesso; e ad ogni segno di disprezzo o di scarsa valutazione, naturalmente si sforza, per quanto osa (e ciò tra coloro che non hanno alcun potere comune che li tenga quieti, è di gran lunga sufficiente a far sì che si distruggano l’un l’altro) di estorcere una valutazione più grande, da quelli che lo disprezzano arrecando loro danno e dagli altri con l’esempio. [F]

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no chiamati creature ragionevoli, per l’apparente possibilità di avere l’uso della ragione in un tempo avvenire. E la maggior parte degli uomini, benché abbiano in piccola misura l’uso del ragionare, come nel numerare fino ad un certo grado, pure ciò non serve loro molto nella vita comune, in cui si governano alcuni meglio, altri peggio, secondo le loro differenze di esperienza, di prontezza della memoria, e le inclinazioni a diversi fini, ma specialmente, secondo la buona o cattiva fortuna e gli uni secondo gli errori degli altri. Infatti, per quanto concerne la scienza o regole certe delle loro azioni, sono così lontani da essa da non sapere cosa sia» (da Leviatano, 1,5). D. Viene qui enunciata quella che Hobbes indica come la prima possibile causa scatenante del conflitto permanente che contraddistingue lo stato di natura: la competizione per il guadagno di un bene. Questa fonte di conflittualità deriva principalmente da due condizioni oggettive, cioè indipendenti dalle passioni e dalla volontà umane: l’uguaglianza tra gli uomini, e la scarsità di beni in natura. Queste due condizioni oggettive, già prese di per sé, rendono molto probabile che tra gli uomini insorga la competizione per un medesimo bene. Cosa che risulta inevitabile, se a ciò si aggiunge che per Hobbes la passione soggettiva che accomuna gli uomini – distinguendoli dagli animali – è un desiderio inesauribile di potere e di beni sempre maggiori. E. La diffidenza, che scaturisce dalla consapevolezza del rischio di aggressione e morte violenta, è essa stessa a sua volta causa di guerra, nella misura in cui spinge gli uomini a attaccare gli altri prima ancora di essere attaccati, per difendere la propria sicurezza.

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo Conclusione: dalla natura umana al conflitto permanente

Seconda tesi: «guerra di ognuno contro ognuno»: continuo stato di precarietà (il suo opposto è la pace)

Prima conseguenza della seconda tesi: nello stato di natura la vita degli uomini è orribile

Cosicché nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la competizione, in secondo luogo la diffidenza, in terzo luogo la gloria. La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, e la terza per reputazione. Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle persone di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli, del loro bestiame; nel secondo caso per difenderli; nel terzo caso per delle inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, e qualunque altro segno di scarsa valutazione, o direttamente nei riguardi delle loro persone, o di riflesso nei riguardi della loro parentela, dei loro amici, della loro nazione, della loro professione o del loro nome. Fuori degli stati civili, c’è sempre la guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo. Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione contro ogni altro uomo che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. [G] La GUERRA, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell’atto del combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è sufficientemente conosciuta la volontà di contendere in battaglia; perciò la nozione del tempo va considerata nella natura della guerra, come lo è nella natura delle condizioni atmosferiche. Infatti, come la natura delle condizioni atmosferiche cattive non sta solo in un rovescio o due di pioggia, ma in una inclinazione a ciò di parecchi giorni insieme, così la natura della guerra non consiste nel combattimento effettivo ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario. [H] Ogni altro tempo è PACE. Gli inconvenienti di una tale guerra. Perciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni uomo è nemico ad ogni uomo, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro. In tale condizione

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F.

Hobbes rifiuta la concezione aristotelica dell’uomo come animale sociale e politico, cui contrappone l’idea che le passioni connaturate agli esseri umani siano passioni che li dispongono all’insocievolezza più che alla società. Tra le passioni generatrici di conflitto quella cui Hobbes dà maggiore risalto è la vanagloria, cioè la passione derivante dall’immaginare di possedere una qualche superiorità rispetto agli altri uomini, e dall’aspettarsi di essere trattati di conseguenza. La vanagloria è in generale nell’antropologia hobbesiana una passione fondamentale, in quanto ad essa possono essere ricondotti tutti i piaceri dell’animo distinti da quelli materiali. Il rilievo attribuito alla vanagloria tra le passioni generatrici di contesa dipende dal fatto che Hobbes la considera la manifestazione più visibile del desiderio di potere. G. «Guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo» è un’espressione iperbolica, che non va presa alla lettera. Con essa Hobbes non si riferisce, infatti, a una guerra universale, che coinvolga la totalità del genere umano, ma intende semplicemente dire che là dove si verifichino le condizioni che caratterizzano lo stato di natura – cioè l’assenza di un potere comune cui tutti siano sottomessi – insorge necessariamente uno stato di guerra tra tutti coloro che vivono in questa situazione. Una guerra universale si avrebbe dunque, in questa prospettiva, solo in presenza di uno stato di natura universale, la cui esistenza è, però, ritenuta molto improbabile da Hobbes (vedi sotto, nota P). H. La similitudine tra lo stato di guerra e le condizioni atmosferiche cattive serve a Hobbes per illustrare la propria tesi, secondo la quale lo stato di guerra non è solo una situazio-

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Tesi epistemologica: lo stato di natura è un’ipotesi razionale Primo argomento a favore della tesi epistemologica: l’analisi dell’animo umano

non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve. [I] Può sembrare strano a chi non abbia bene ponderato queste cose che la natura abbia così dissociato gli uomini e li abbia resi atti ad aggredirsi e distruggersi l’un l’altro e perciò, non fidandosi di questa inferenza, tratta dalle passioni, può desiderare forse che gli sia confermata dall’esperienza. [L] Perciò, consideri tra sé che, quando intraprende un viaggio, si arma e cerca di andare bene accompagnato; che quando va a dormire, chiude le porte; che anche quando è nella sua casa, chiude i forzieri e ciò quando sa che ci sono leggi e pubblici ufficiali armati per vendicare tutte le ingiurie che gli dovessero essere fatte; quale opinione egli ha dei suoi consudditi, quando cavalca armato; dei suoi concittadini, quando chiude le porte; dei suoi figli e dei suoi servitori, quando chiude i forzieri. Non accusa egli l’umanità con le sue azioni, come faccio io con le mie parole? [M] Ma nessuno di noi accusa in ciò la natura dell’uomo. I desideri e le altre passioni dell’uomo, in se stessi, non sono peccato. [N] Neppure lo sono le azioni che procedono da quelle passioni, finché non si conosce una legge che le vieta; [O] tali leggi, finché non si sono fatte, non possono essere conosciute, e non si può fare alcuna legge, finché non ci si è accordati sulla persona che la deve fare.

I.

L.

M.

N. O.

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ne di conflitto aperto e violento, ma anche quella in cui la quiete è precaria ed è assicurata esclusivamente dal timore reciproco. È partendo da una simile concezione che Hobbes può definire lo stato di natura come una condizione di guerra permanente. Le conseguenze di questa conflittualità diffusa e permanente sono gli svantaggi, che spingono a uscire dallo stato di natura: a causa dell’incertezza generale vengono trascurate le varie attività produttive e anche quelle culturali; soprattutto, ognuno è continuamente esposto al rischio di morte violenta, che per Hobbes costituisce il sommo male. Ciò rende la vita dell’uomo nello stato di natura solitaria, meschina, animalesca e breve. In questi passaggi è enunciato in modo molto chiaro qual è lo statuto epistemologico dello stato di natura hobbesiano: non si tratta della descrizione di una situazione realmente esistita, fondata sull’osservazione empirica, bensì di un’inferenza ricavata, in maniera puramente razionale, dall’analisi delle passioni umane. Hobbes ricorre all’esperienza solo in seconda battuta, per confermare il risultato della propria deduzione razionale. La prima esperienza cui Hobbes si richiama per offrire una prova empirica della validità della propria deduzione è la sfiducia nei confronti della natura umana che anche i più strenui difensori di quest’ultima rivelano, assumendo precauzioni di ogni sorta per salvaguardare la propria persona e i propri beni, pur vivendo nello stato politico, cioè sotto leggi comuni e sotto guardie pubbliche che teoricamente dovrebbero difenderli. I concetti di peccato, colpa e imputabilità presuppongono la libertà: desideri e passioni non sono, invece, liberi, nella misura in cui l’uomo non può non provarli. Nel quadro dell’antropologia meccanicistica hobbesiana, anche le azioni che procedono dai desideri – siano esse volontarie o involontarie – non sono il frutto di una libera scelta, bensì esclusivamente il risultato dell’istinto più forte. A prescindere da questo, simili azioni non possono essere bollate come ‘peccato’ nello stato di natura, in cui non esistono valori morali e norme comuni, la cui trasgressione possa essere definita come un ‘peccato’. Per Hobbes, infatti, bene e male nello stato di natura non sono nient’altro che

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Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo Secondo argomento: l’analisi delle culture primitive

Terzo argomento: la guerra civile

Quarto argomento: il comportamento dei sovrani e la guerra tra Stati

Ripresa della seconda tesi e seconda conseguenza: relativismo etico

Si può per avventura pensare che non vi sia mai stato un tempo né una condizione di guerra come questa, ed io credo non ci sia mai stata generalmente in tutto il mondo, ma ci sono parecchi luoghi ove attualmente si vive così. Infatti, in parecchi luoghi dell’America, i selvaggi, se si eccettua il governo di piccole famiglie la cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non hanno affatto un governo, e vivono, oggigiorno, in quella maniera brutale che ho detto prima. Comunque, si può percepire quale maniera di vita ci sarebbe ove non ci fosse il timore di un potere comune, dalla maniera di vita in cui sono usi degenerare gli uomini che già hanno vissuto sotto un governo pacifico, [la maniera di vita di] una guerra civile. Ma anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui i particolari fossero in condizione di guerra l’un contro l’altro, tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità sovrana, a causa della loro indipendenza, si trovano ad avere continue gelosie, e ad essere nello stato e nella posizione dei gladiatori che stanno con le armi puntate e gli occhi fissi l’uno sull’altro, cioè, con forti, guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e con spie continuamente nei territori che sono vicini a loro; ciò è una posizione di guerra. [P] Ma per il fatto che così essi sostengono l’industria dei loro sudditi, non segue da ciò quella miseria che accompagna la libertà dei particolari. [Q] In una tale guerra niente è ingiusto. A questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, consegue anche questo, che niente può essere ingiusto. Le nozioni di ciò che è retto e di ciò che è torto, della giustizia e dell’ingiustizia non hanno luogo qui. Dove non c’è potere comune, non c’è legge; dove non c’è legge, non c’è ingiustizia. La forza e la frode so-

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nomi per designare ciò che ciascuno desidera o avversa, e variano dunque a seconda della costituzione fisica di ogni individuo. P. Hobbes esclude esplicitamente l’ipotesi che l’umanità abbia mai conosciuto nella sua storia uno stato di natura universale (vedi anche sopra nota G) e, di conseguenza, una situazione di guerra altrettanto universale. Piuttosto, egli si richiama ad alcune situazioni storiche specifiche e delimitate nel tempo e nello spazio, per offrire un’ulteriore conferma empirica della veridicità della propria concezione dello stato di natura, dedotta per via puramente razionale. Il primo caso è la vita delle società primitive – come quelle degli indigeni del Nuovo Mondo – che si trovano in una situazione pre-statale, cioè anteriore all’istituzione dello Stato: si tratta di società che per Hobbes sono contraddistinte, nella maggior parte dei casi, da un’estrema brutalità. Il secondo caso è invece la condizione di miseria ed estremo pericolo che colpisce gli uomini in occasione delle guerre civili, che possono essere definite situazioni anti-statali, in quanto segnano la dissoluzione dello Stato esistente e una sorta di ricaduta e regresso dalla società civile all’anarchia. Infine, Hobbes si richiama all’esperienza dei rapporti tra Stati, che egli considera come un ulteriore esempio di conflittualità permanente analoga a quella dello stato di natura: i singoli Stati non hanno, infatti, alcun potere comune cui sottomettersi e cui affidare la risoluzione delle controversie, al pari degli individui nello stato di natura. Ciò fa sì che i rapporti inter-statali siano di fatto una guerra permanente, nel senso hobbesiano del termine, cioè nel senso di conflitto perennemente incombente e costante insicurezza (vedi nota G): che anche in assenza di guerre aperte gli Stati siano in continuo conflitto tra loro, è attestato per Hobbes dalla presenza di apparati militari e spionistici, che sono attivi anche in periodi di pace apparente. Q. Contrariamente a quanto accade nella guerra tra individui, la guerra permanente che contraddistingue i rapporti tra Stati secondo Hobbes non provoca miseria e altre conseguenze nocive, ma ha al contrario effetti benefici, in quanto protegge le attività economiche dei sudditi. 455

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Terza conseguenza: legalismo etico Conclusione generale e terza tesi: l’uomo esce dallo stato di natura per utile

no in guerra le due virtù cardinali. La giustizia e l’ingiustizia non sono facoltà né del corpo né della mente. Se lo fossero, potrebbero essere in un uomo che fosse solo al mondo, così come i suoi sensi e le sue passioni. Esse sono qualità che sono relative agli uomini in società, non in solitudine. [R] Consegue anche alla medesima condizione che non ci sia né proprietà né dominio, né un mio e un tuo distinti, ma che ogni uomo abbia solo quello che può prendersi e per tutto il tempo che può tenerselo. [S] E ciò basti per quel che riguarda la triste condizione in cui è effettivamente posto l’uomo dalla pura natura, benché egli abbia una possibilità di uscirne: essa si trova in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione. [T]

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R. È qui enunciato in modo chiaro il nesso che vi è, nella teoria hobbesiana, tra ‘relativismo’ e ‘legalismo’ etico. Da un lato, Hobbes rifiuta ogni forma di oggettivismo etico, cioè nega ai valori etici ogni fondamento oggettivo, sia in un ordine metafisico sia nella natura, esterna o interna all’uomo (vedi Unità 6, p. 356 s.). Ne consegue che nello stato di natura non vi può essere alcuna morale condivisa, cioè nessuna nozione comune e universale di giusto o ingiusto: in esso vige il più totale relativismo etico. A conferma di questa tesi, Hobbes si richiama all’esperienza, ricordando come in una situazione di conflittualità nessuno ritenga immorali l’uso della violenza e della frode: al contrario, in tempo di guerra queste sono correntemente considerate come le «virtù cardinali» (Hobbes, che è imbevuto di cultura umanistica, ha probabilmente in mente i due eroi omerici, cioè Achille e Ulisse); ciò accade proprio perché in guerra la forza bruta e la frode costituiscono i mezzi indispensabili e migliori per perseguire lo scopo dell’auto-conservazione. Dall’altro lato, però, Hobbes non considera il relativismo etico come un dato universale e immodificabile, bensì ne circoscrive la portata esclusivamente allo stato di natura. La disparità di opinioni in materia etica che caratterizza lo stato di natura – contribuendo in maniera determinante a innescare la conflittualità permanente ed endemica propria di quest’ultimo – deve essere superata: cosa che è possibile per Hobbes solo se i singoli individui di comune accordo rinunciano al diritto naturale di valutare secondo i propri arbitrii individuali i mezzi necessari alla propria auto-conservazione e al proprio piacere, cedendolo a un altro, cioè il detentore della sovranità, generato dal patto sociale. Il potere sovrano nato dal patto pone fine al relativismo etico dello stato di natura in quanto, con l’imposizione delle leggi civili, stabilisce un criterio per distinguere il giusto dall’ingiusto valido per tutti, o meglio per tutti i sudditi di una data comunità politica. Questa concezione, che identifica il giusto e l’ingiusto con quanto è rispettivamente consentito o vietato dalle leggi civili, può essere definita «legalismo etico». Per Hobbes si tratta dell’unica alternativa possibile al relativismo etico: dato che bene e male non sono proprietà oggettive, la concordanza di giudizi in materia etica non può derivare dall’adeguazione dei singoli a un ordine oggettivo – naturale o metafisico – bensì esclusivamente dalla scelta volontaria di uniformarsi all’arbitrio di uno solo, cioè il potere sovrano, in grado di ridurre a unità le loro diverse e contrastanti opinioni in tema di giusto e ingiusto. S. A differenza di Locke, Hobbes esclude che nello stato di natura vi sia la proprietà – cioè il diritto all’uso esclusivo di un bene – affermando al contrario che prima dell’istituzione del potere sovrano e dello Stato, ogni uomo ha un diritto naturale su tutte le cose (compresi i beni e addirittura il corpo altrui), cioè può legittimamente usare tutto ciò che ritenga necessario per la conservazione della sua vita e la soddisfazione del suo desiderio. T. Hobbes non può fondare l’uscita dallo stato di natura sui valori morali, di cui egli nega l’esistenza prima dell’istituzione della società politica. Di conseguenza, egli pone alla

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Le passioni che inclinano gli uomini alla pace. Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono il timore della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie per condurre una vita comoda e la speranza di ottenerle mediante la loro industria. [U] La ragione poi suggerisce convenienti articoli di pace su cui gli uomini possono essere tratti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono altrimenti chiamati leggi di natura; [V] di esse parlerò più particolarmente nei due capitoli seguenti. [Z]

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(da T. Hobbes, Leviatano, parte 1, cap. 13, trad. di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 117-123; p. 148 [brano citato nella nota A]; pp. 45-46 [brano citato nella nota C]; le glosse laterali originali sono riportate in corsivo all’inizio del capoverso)

base della decisione di abbandonare lo stato di natura la ricerca dell’utile, che l’uomo compie sia in virtù delle proprie passioni sia in quanto essere razionale. U. Accanto all’esistenza di passioni generatrici di conflitto, Hobbes riconosce come connaturate all’uomo anche passioni che inclinano alla pace, cioè la paura della morte e il desiderio di una vita comoda. V. In quanto facoltà di computare – e dunque anche di calcolare quali sono i mezzi più adeguati per raggiungere i fini voluti – la ragione inclina l’uomo alla pace, prescrivendo delle regole per conseguire lo scopo comune a tutti gli uomini, cioè l’auto-conservazione: la prima di queste è appunto quella di cercare la pace. Le leggi di natura, così come le intende Hobbes, non sono in realtà vere e proprie leggi, bensì delle semplici regole della prudenza, cioè regole prescritte dalla ragione per raggiungere il fine della conservazione della vita. Ciò significa che, pur essendo universali – perché lo scopo dell’autoconservazione è comune a tutti gli uomini – le leggi di natura hobbesiane non obbligano sempre e comunque, come i precetti morali e religiosi della tradizione, bensì solo se, osservandole, si è ben sicuri di raggiungere il fine voluto. Z. Si tratta dei capitoli XIV e XV, intitolati rispettivamente «Della prima e della seconda legge naturale», e «Delle altre leggi di natura».

Questionario sull’argomentazione 1

Qual è la motivazione psicologica che spinge gli uomini a ritenersi più saggi della maggior parte degli altri, ossia del volgo? (max 2 righe)

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Per quale motivo gli uomini nello stato di natura cercano di padroneggiare il più possibile altri individui? (max 2 righe)

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Qual è il giudizio di Hobbes sulle passioni e sui desideri degli uomini? (max 3 righe)

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Attraverso quali mezzi gli uomini possono uscire dallo «stato di guerra di ognuno contro ognuno»? (max 6 righe) 457

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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana DIRITTO L’uso corrente del termine

Riconoscimento di pretese e assunzione di doveri

Una relazione normativa tra soggetti

Soggetti individuali o collettivi

Diritto e dovere sono correlativi? La risposta affermativa

La risposta negativa

Il termine «diritto» ricorre spesso nella nostra conversazione quotidiana. Diciamo di avere determinati diritti, ne riconosciamo altri, oppure li rivendichiamo qualora essi non ci vengano riconosciuti: diciamo, per esempio, di avere il diritto di associazione, il diritto di parola, oppure il diritto alla vita, il diritto alla salute, il diritto al lavoro e così via. Ma cosa intendiamo precisamente quando diciamo di possedere un diritto, per esempio quando diciamo di avere diritto alla vita? Cosa significa avere un diritto di questo tipo? 1. Il diritto come relazione fra parti Significa che da parte degli altri componenti della società ci viene riconosciuta una particolare pretesa (o un particolare titolo), in questo caso la pretesa di condurre una vita di durata normale senza che qualcun altro ne minacci l’integrità, e questo comporta che gli altri componenti della società assumano per sé il dovere di rispettare questa pretesa e di non interferire con essa. In questo senso dunque il diritto è caratterizzabile come una relazione normativa che vige fra almeno due soggetti e che attribuisce a uno dei due soggetti una pretesa e all’altro un dovere di rispettare tale pretesa. Il diritto rimanda quindi sempre a un dovere e a una relazione fra più parti. Così, per utilizzare un altro esempio, attribuire il diritto di associazione a qualcuno significa riconoscere la sua pretesa di associarsi con altri senza impedimenti, e ciò comporta il dovere della società o dello Stato di non interferire con questa pretesa. Il soggetto a cui si attribuisce un diritto può essere sia un individuo, per esempio quando si attribuisce il diritto di voto alle elezioni politiche, sia un insieme di individui, per esempio quando si riconosce il diritto di manifestazione di un sindacato o di un partito politico, o il diritto di difesa di uno Stato. 2. La «correlatività» fra dovere e diritto Ma a questo punto si pone un problema: se il riconoscimento di un diritto rimanda sempre al riconoscimento di un dovere, vale anche la tesi contraria? Il riconoscimento di un dovere verso qualcuno comporta sempre anche un suo diritto? Alcuni sostengono di sì, affermando quindi la piena correlatività fra dovere e diritto: così come ogni diritto presuppone un dovere, ogni dovere rimanda a un diritto. Nell’attribuirci cioè un dovere verso qualcuno si riconosce a quel qualcuno anche un diritto nei nostri confronti; se ci attribuiamo, per esempio, il dovere di aiutare il prossimo, si riconosce a questi il diritto di essere aiutato. Questa tesi non è però condivisa da tutti: chi nega la correlatività fra dovere e diritto sottolinea come possano esserci doveri anche verso soggetti a cui non potrebbero normalmente essere riconosciuti dei diritti: si possono avere, per esempio, dei doveri verso le opere d’arte, verso l’ambiente o la natura, ma non si sarebbe disposti a parlare, in senso proprio, dei diritti di un quadro, o di una sta459

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tua, o di un albero. Non ogni dovere comporterebbe quindi il riconoscimento di un diritto. L’esistenza A questa tesi si è replicato che il dovere che ho verso cose come le opere d’arte, di doveri indiretti l’ambiente o la natura non è in realtà un dovere diretto verso di esse, ma verso altri esseri senzienti (umani o animali) che hanno il diritto di godere delle opere d’arte, dell’ambiente e della natura: è cioè un dovere indiretto. In questo modo, dovere e diritto rimarrebbero correlati.

Un esempio di diritto morale: il rispetto della promessa

Diritti di carattere morale e giuridico

Diritti specificamente giuridici

Gradi di importanza tra diritti

Il riconoscimento dei diritti umani

Carattere naturale o positivo dei diritti fondamentali

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3. Diritti morali e diritti giuridici Come si è detto, inoltre, possono essere riconosciuti diversi tipi di diritti. Una prima distinzione che può essere fatta è fra i diritti morali e i diritti giuridici. Consideriamo per esempio il mio diritto a che le promesse che mi sono state fatte vengano rispettate. Un diritto come questo presuppone una mia particolare pretesa, quella di vedere rispettate le promesse che mi sono fatte, e un particolare dovere da parte degli altri, il dovere di tutti coloro che mi hanno fatto una promessa di rispettarla. Questo dovere si presenta di solito come un dovere di carattere morale, che solo in certi casi può venire riconosciuto dalla legislazione giuridica: un diritto come questo si caratterizza dunque, solitamente, come un diritto innanzitutto morale. Ci sono però altri diritti che hanno insieme un carattere sia morale sia giuridico. Il diritto alla vita, per esempio, è sia un diritto morale, collegato al dovere morale degli altri di non attentare alla mia vita, sia un diritto giuridico tutelato dalle leggi, che considerano un reato penale l’aggressione o l’omicidio e così via. Ci sono infine diritti che possono avere un carattere solo giuridico. Si consideri per esempio il diritto di entrare e uscire da un garage attraverso un passo carrabile. Questo diritto comporta per gli altri il dovere di non interferire con la mia pretesa di parcheggiare nel garage, così come comporta il dovere delle istituzioni di difendere questo diritto con sanzioni verso chi non lo rispetta. Un diritto come questo si caratterizza come un diritto giuridico, riconosciuto dalla normativa che regolamenta il parcheggio, ed è collegato a un dovere di carattere giuridico, senza una precisa rilevanza morale. 4. Diritti umani e diritti di natura Oltre alla distinzione fra diritti giuridici e diritti morali, ci sono altre distinzioni che possono essere fatte per identificare le diverse tipologie di diritti. Una prima distinzione è quella relativa alla loro importanza. Si possono avere dei diritti di importanza fondamentale, il riconoscimento dei quali serve all’attribuzione di altri diritti non fondamentali, e diritti di importanza meno fondamentale, i quali possono essere derivati dagli altri. Il riconoscimento da parte delle legislazioni giuridiche contemporanee di un insieme di «diritti umani» inviolabili (il diritto all’integrità fisica, il diritto di espressione, di associazione e così via) può essere visto come il riconoscimento di una sfera di diritti fondamentali, a cui viene subordinato il riconoscimento degli altri diritti. Essi vengono solitamente intesi come diritti morali che devono essere riconosciuti dai legislatori anche come diritti giuridici. A seconda del tipo di giustificazione che venga attribuita ai diritti umani, essi possono poi essere interpretati come diritti di natura, diritti radicati nella natura umana, oppure come diritti semplicemente posti in una posizione di particolare importanza (e perciò detti diritti positivi). Si può cioè ritenere un particolare dirit-

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Laboratorio sul lessico Diritto

to un diritto umano, sia perché si ritiene che esso sia un diritto naturale, fondato sulla configurazione naturale delle cose, e quindi derivabile dalla natura; sia perché viene semplicemente posto dai legislatori, con una scelta consapevole, alla base degli altri diritti, senza alcun riferimento a un ordine «naturale». Una distinzione Anche se storicamente l’affermazione dei diritti umani è andata di pari passo al di principio riconoscimento dell’esistenza di diritti naturali, le due cose possono essere tenute distinte: si può cioè riconoscere l’esistenza di diritti umani anche senza far ricorso all’esistenza di diritti di natura.

Il contenuto del diritto come criterio di distinzione

La sfera dei «diritti civili»

La sfera dei «diritti politici»

La sfera dei «diritti sociali»

I «diritti di riconoscimento»

Il diritto come legislazione

Diritto «oggettivo» e «soggettivo» La distinzione in inglese

5. Le generazioni dei diritti Un altro modo di distinguere fra i differenti tipi di diritti è in riferimento al loro contenuto, a seconda cioè del tipo particolare di diritto che viene riconosciuto. La successione storica del riconoscimento giuridico delle varie tipologie di diritti nelle società occidentali nel corso dell’Ottocento e del Novecento ha portato a distinguere diverse generazioni di diritti. La prima generazione riguarda i «diritti civili», diritti cioè che tutelano il soggetto dagli interventi dello Stato e degli altri individui nelle sfere della vita e della proprietà privata, come il diritto alla vita e all’integrità fisica, il diritto di movimento, il diritto di proprietà e così via. La seconda generazione riguarda i «diritti politici», i diritti cioè che consentono al soggetto di partecipare alla vita politica della comunità, come per esempio il diritto di parola, il diritto di associazione partitica, il diritto di voto, il diritto di essere eletto. Le terza generazione riguarda i «diritti sociali», i diritti che consentono al soggetto di avere determinate tutele e opportunità sociali, come per esempio il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione, il diritto all’assistenza sanitaria, il diritto all’assistenza pensionistica. Alcuni si sono spinti a individuare anche una quarta generazione di diritti, i cosiddetti «diritti di riconoscimento»; essi nascono dal riconoscimento di particolari diritti (civili, politici o sociali) a soggetti che ne erano fino ad allora esclusi. Sono considerati diritti di quarta generazione i diritti delle donne, i diritti delle minoranze razziali e religiose, i diritti degli omosessuali e i diritti degli animali. 6. Il diritto oggettivo Fin qui si è parlato di cosa significa avere determinati tipi di diritto. Tuttavia, questo uso del termine «diritto» non è l’unico uso possibile. Il termine «diritto» viene impiegato anche per fare riferimento all’insieme della legislazione: si parla infatti del diritto di un determinato Stato, del diritto internazionale, del diritto privato e del diritto pubblico, della sfera del diritto come contrapposta alla sfera della morale e così via. In questo caso «diritto» viene usato in un senso molto generale, come sinonimo di «legge» o di «ordinamento giuridico». Nella terminologia tradizionale questo senso del termine «diritto» viene detto «diritto oggettivo», per distinguerlo dal senso a cui si è fatto riferimento sopra, cioè dal diritto posseduto da un soggetto, che viene detto «diritto soggettivo». L’italiano, come altre lingue europee, usa lo stesso termine per riferirsi a entrambi i sensi di diritto; l’inglese ha invece il vantaggio di distinguere i due sensi: usa il termine law per riferirsi al diritto nel senso di legge, oggettivo, e il termine right per riferirsi a un diritto soggettivo riconosciuto dalla legge. 461

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Esercitiamoci sul diritto 1. Rifletti e completa

Che cosa significa «avere un DIRITTO»?

(a) diritti morali (b) diritti _______________ (c) diritti giuridico-morali

DIRITTO SOGGETTIVO: quello posseduto da un soggetto (sia esso individuale o ___________)

(d) diritti fondamentali (e) diritti non _____________

Varie accezioni di «diritto»

(f) diritti per natura (g) diritti per ______________

L’attribuzione di un DIRITTO a x comporta:

DIRITTO OGGETTIVO:

(1) il ___________ di una pretesa di x; (2) l’assunzione di un ___________ verso x.

– ____________ complessiva; – diritto di un intero _______; – diritto «civile»; – _______ «penale»; […]

(h) diritti civili (i) diritti _______________ (l) diritti sociali (m) diritti di riconoscimento

[Correlatività tra diritto e dovere]

2. Spunti per il dibattito: io e… il diritto 1

Dopo aver letto il testo e completato lo schema, rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – Cosa comporta avere un diritto? – Cosa si intende esattamente per «correlatività» tra diritto e dovere? – Che cosa distingue un diritto di tipo «morale» da uno di tipo «giuridico»? – Che cos’è che rende un certo diritto un diritto «di natura»? – Qual è il significato, rispettivamente, delle espressioni «diritto soggettivo» e «diritto oggettivo»?

Rispondi adesso alle domande che seguono, motivando le tue risposte: – Cosa sono le varie generazioni dei diritti? – Quale fra i diritti delle varie generazioni ritieni essere più importante, e perché? 462

2

– Ritieni che ci possa essere un conflitto fra i diritti delle varie generazioni, e perché? 3

Immagina una società in cui la morale coincide con il diritto, ossia una società in cui non esistono norme morali al di fuori delle norme giuridiche. In tale contesto ogni «dovere» verso chiunque è fondato unicamente sul diritto, non su una morale condivisa distinta da questo. – Credi che la vita in una tale società si svolgerebbe in modo sostanzialmente diverso rispetto alla nostra? Per quale motivo? – Pensi che potrebbe continuare a esistere una qualche differenza tra l’idea di «azione cattiva» e quella di «azione vietata»? – Credi che in una tale società il concetto di «colpa» avrebbe ancora senso, oltre quello di «reato»? – In una tale società sarebbe possibile apportare delle modifiche al sistema legislativo?

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Unità 8 Newton

1. 2. 3. 4.

Il completamento della «rivoluzione scientifica» Newton, un personaggio complesso Le premesse fondamentali della scienza newtoniana I Principia

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

I testi Principi matematici della filosofia naturale: Non invento ipotesi, T1; Le quattro regole del filosofare, T2; Spiegare i moti planetari, T4; Il ruolo di Dio nel mondo fisico, T5; L’etere universale, T6; Tempo e spazio, assoluti e relativi, T7; L’e-

sperimento del secchio ruotante, T8; Le tre leggi newtoniane del moto, T9. 1665-1666: due anni straordinari, T3.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

1

Il completamento della «rivoluzione scientifica»

Nel dicembre 1642, a poco meno di un anno di distanza dalla morte di Galilei, nasce Isaac Newton. Una staffetta simbolica tra i due personaggi che segnano, con le proprie opere, la nascita della fisica moderna. Galileo compie la fondamentale impresa di porre le basi sia sperimentali sia matematiche della descrizione cinematica (cioè nei termini degli spostamenti, delle velocità e delle accelerazioni) dei moti dei corpi, e questo in un clima ancora dominato dall’influenza della tradizione aristotelica e dall’uso in chiave anticopernicana che di tale tradizione viene fatto dal potere ecclesiastico. A Newton, che vive in un mondo ormai copernicano e può usufruire delle conquiste scientifiche di «filosofi naturali» come Keplero, Galileo, Cartesio, Boyle e Huygens, si deve la formulazione di una completa teoria dinamica del moto (che comprende anche le forze), in cui sono stabilite le leggi fondamentali che regolano il movimento dei corpi sia terrestri sia celesti. Il coronamento Con la pubblicazione nel 1687 dei Principia di Newton (Philosophiae Naturalis della nuova Principia Mathematica) si arriva quindi al completamento della «rivoluzione immagine scientifica scientifica». La nuova immagine del mondo fisico e della scienza che emerge dal processo di cambiamento nel pensiero filosofico e scientifico europeo iniziato col De revolutionibus di Copernico (vedi Unità 2, p. 72 ss.) trova il suo coronamento ideale nel sistema fisico newtoniano. Dalla cinematica alla dinamica

La vita e le opere Isaac Newton nacque a Woolsthorpe, nel Lincolnshire (Inghilterra), nel dicembre 1642 (secondo il calendario giuliano allora in vigore in Inghilterra). Figlio di un piccolo proprietario terriero, si recò a studiare a Cambridge, al Trinity College. Negli anni 1665-1666, nei quali la peste imperversava in Inghilterra, l’università di Cambridge chiuse e Newton dovette fare temporaneamente ritorno alla casa natale a Woolsthorpe. Ma là egli era ormai un completo estraneo, rispetto all’ambiente da cui proveniva. Nell’assoluta solitudine in cui si venne così a trovare, si dedicò interamente alle sue ricerche, ottenendo dei risultati fondamentali nei campi dello studio matematico delle curve e dell’ottica, e iniziò a gettare le basi della teoria della gravitazione, ciò su cui in seguito svilupperà le sue teorie fisiche. Tornato al Trinity College di Cambridge trascorse, come studente e poi come docente, vent’anni di vita ritirata e dedita completamente allo studio e all’insegnamento, svolgendo un lavoro scientifico immenso che arriverà fino alla pubblicazione dei Principia (1687). In questo periodo ottenne la Cattedra Lucasiana di matematica (1669) e venne ammesso nella Royal Society (1672). La pubblicazione dei Principia cambiò del tutto la vita di Newton. Lo scienziato diventò un personaggio pubblico, e nel 1689 fu eletto deputato al parlamento inglese. Que-

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sto lo portò a recarsi spesso a Londra dove entrò in contatto diretto con altri grandi, come Locke e Huygens. Nel 1696 lasciò definitivamente Cambridge per trasferirsi nella capitale, dove gli fu offerto il posto di Guardiano della Zecca Reale, di cui diventò poi Direttore nel 1699. La sua carriera pubblica fu coronata dall’elezione nel 1703 alla presidenza della Royal Society e, nel 1705, dal conferimento del titolo di baronetto da parte della regina Anna. Che Newton fosse un personaggio di enorme rilievo è dimostrato dai funerali che gli vennero riservati: alla sua morte, nel 1727, venne infatti sepolto con tutti gli onori tributati ai grandi d’Inghilterra nella cattedrale di Westminster. Il capolavoro di Newton, l’opera che ne riassume tutta l’attività scientifica, sono i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica («Principi matematici della filosofia naturale») o, più brevemente, Principia (prima edizione 1687, seconda edizione riveduta e accresciuta 1713, terza edizione ulteriormente riveduta e accresciuta 1726). Sempre nell’ambito della fisica, importante è anche il trattato di ottica Opticks (1704). In ambiti completamente diversi, Newton ha lasciato un’ingente mole di scritti sull’alchimia e sull’interpretazione della Bibbia; testi non destinati alla circolazione e testimoni di un’attività di ricerca che l’autore volle tenere segreta per tutta la vita, che hanno cominciato a essere noti solo di recente.

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Il paradigma della fisica classica La meccanica di Newton è la meccanica classica

Teoria ed esperienza nella meccanica newtoniana

Unione di induzione e deduzione

L’edificio della teoria newtoniana

Quello raggiunto da Newton non è un risultato temporaneo. La teoria fisica esposta nei Principia costituirà per un lungo periodo il punto di riferimento principale per la descrizione della natura. La sistematizzazione newtoniana della dinamica rappresenta il paradigma della fisica classica, e ancora oggi, come insegnano i manuali di fisica, i fenomeni meccanici del mondo della nostra esperienza quotidiana sono descritti nei termini delle leggi di Newton. «Meccanici» perché l’ambito preso in considerazione da Newton nei Principia è appunto quello della meccanica: la scienza che si occupa della descrizione, spiegazione e previsione dei moti dei corpi materiali in base a forze di tipo meccanico esercitate su di essi. Come scrive Newton nella Prefazione all’opera, gli argomenti trattati sono «soprattutto quelle cose che riguardano la gravità, la leggerezza, la forza elastica, la resistenza dei fluidi e le forze di ogni genere sia attrattive che impulsive». La meccanica considerata da Newton non è dunque la «meccanica pratica», quella a cui «appartengono tutte le arti manuali e dalle quali, peraltro, la meccanica prese il nome», ma quella che egli chiama «meccanica razionale» e che caratterizza come «la scienza dei moti che risultano da forze qualsiasi, e delle forze richieste da moti qualsiasi, esattamente esposta e dimostrata». Si tratta quindi di una scienza sì empirica, in quanto riguarda i moti come fenomeni naturali, ma allo stesso tempo razionale, in quanto «esattamente esposta e dimostrata», cioè basata su principi matematici. La meccanica razionale di Newton unisce quindi induzione e deduzione. Essa si fonda sull’induzione, ossia sulla ricerca delle leggi dinamiche attraverso la generalizzazione dei dati ricavati dall’osservazione dei fenomeni. All’induzione segue la deduzione, ossia il momento della «dimostrazione» dei restanti fenomeni sulla base delle leggi trovate. Come scrive Newton: «per questa ragione proponiamo questi nostri principi matematici di filosofia. Sembra infatti che tutta la difficoltà della filosofia consista nell’investigare le forze della natura a partire dai fenomeni del moto e dopo nel dimostrare i restanti fenomeni a partire da queste forze».

Leggi generali (formule matematiche)

Induzione

Osservazione dei fenomeni

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La nuova metodologia scientifica

Matematica e filosofia naturale

L’induzione come fondamento delle leggi fisiche

T1

Non invento ipotesi

Principi matematici della filosofia naturale, Scolio Generale

Da quanto abbiamo visto possiamo capire perché i Principia forniscano anche un modello metodologico. La fisica di Newton non è né solo matematica né solo sperimentale, ma coniuga in modo paradigmatico i due aspetti. Come ribadisce Newton nell’Introduzione al terzo libro dei Principia, i principi della filosofia naturale sono «principi matematici», cioè espressi in linguaggio matematico (nei termini di definizioni, assiomi e teoremi), ma a partire da questi principi «si può discutere di cose filosofiche», che sono «le leggi e le condizioni dei moti e delle forze» e, infine, l’«ordinamento del sistema del mondo». Allo stesso tempo è «a partire dai fenomeni del moto» che si investigano «le forze della natura». La scienza dei Principia consiste dunque nella formulazione di leggi matematiche che siano giustificate da generalizzazioni induttive. Questa immagine della scienza viene ulteriormente precisata dalla regola che siano escluse, dall’ambito scientifico, le «ipotesi» non fondate, le «cause ultime» che non possono essere verificate sperimentalmente. «Non invento ipotesi», afferma Newton quando discute della causa ultima della gravità nello Scolio Generale posto a conclusione della seconda edizione dell’opera. In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi. Qualunque cosa non deducibile dai fenomeni va infatti chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche. In questa filosofia le proposizioni vengono dedotte dai fenomeni, e sono rese generali per induzione. Per evitare il ricorso a ipotesi non fondate, cioè non ricavate per induzione dai fenomeni, Newton indica esplicitamente (all’inizio del terzo libro dei Principia) un canone metodologico da seguire nella «filosofia sperimentale» fondata sull’induzione, enunciando le seguenti quattro «regole del filosofare»:

T2

Le quattro regole del filosofare

Principi matematici della filosofia naturale, Terzo libro

Regola I. Delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e bastano a spiegare i fenomeni. […] Regola II. Perciò, finché può essere fatto, le medesime cause vanno attribuite ad effetti naturali dello stesso genere. […] Regola III. Le qualità dei corpi che non possono essere aumentate e diminuite, e quelle che appartengono a tutti i corpi sui quali è possibile impiantare esperimenti, devono essere ritenute qualità di tutti i corpi. […] Regola IV. Nella filosofia sperimentale, le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni devono, nonostante le ipotesi contrarie, essere considerate vere o rigorosamente o quanto più possibile, finché non interverranno altri fenomeni, mediante i quali o sono rese più esatte o vengono assoggettate ad eccezioni.

La prima regola richiede che un’ipotesi (o teoria) fondata debba essere tale da spiegare i fenomeni osservati, e nel modo più semplice ed ‘economico’ possibile: «la natura non fa nulla invano, […] è semplice e non sovrabbonda in cause superflue delle cose». Seconda regola La seconda regola richiede che la teoria sia tale da ricondurre alla stessa causa Prima regola

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effetti simili: come «la respirazione nell’uomo e nell’animale», «la caduta delle pietre in Europa e in America», «la luce nel fuoco domestico e nel Sole» e «la riflessione della luce sulla terra e sui pianeti». Terza regola La terza regola ci dice, in sostanza, che una qualità che «spetta a tutte le cose sensibili» (come per esempio l’estensione dei corpi) e che «non si conosce altrimenti che per mezzo dei sensi», può essere «affermata di tutte le cose» (nel caso dell’estensione, possiamo dire che tutti i corpi sono estesi) anche se non possiamo sperimentarla in tutti gli infiniti casi possibili. Quarta regola La quarta regola, infine, ci dice che ipotesi alternative alle teorie «fondate» possono essere immaginate, ma non hanno nessun valore se non sono ottenute per induzione dai fenomeni: fino a quando non intervengano nuovi fatti sperimentali per farci decidere altrimenti, si devono considerare valide le ipotesi generali ri➥ Sommario, p. 484 cavate per induzione.

2

Newton, un personaggio complesso

Per l’immagine che dà, nella sua opera principale, di una scienza matematizzata e allo stesso tempo sempre fondata sull’esperienza, Newton è comunemente considerato il padre della moderna metodologia scientifica. In realtà il personaggio di Newton come scienziato è molto più complesso e meno ‘moderno’ di quanto una tale lettura dei Principia potrebbe far credere. La sua evoluzione di pensatore passa attraverso fasi e occupazioni anche molto differenti fra loro, in corrispondenza con periodi diversi della sua stessa vita personale. Gli anni creativi Negli anni che passa a Cambridge, prima come studente al Trinity College e poi, di Cambridge dal 1669, come titolare della Cattedra Lucasiana di matematica, Newton trascorre una vita ritirata e dedita completamente allo studio e all’insegnamento. Nella sua biografia ‘esteriore’ non accade nulla di significativo, a parte l’ammissione alla Royal Society nel gennaio del 1672. Questo periodo, che dal punto di vista delle sue ricerche è sicuramente il più creativo, dura più o meno fino a quando non escono i Principia.

Accademie e società scientifiche L’innovazione nel pensiero filosofico e scientifico del XVII secolo passa anche attraverso la creazione di nuove istituzioni, finalizzate allo sviluppo di nuove conoscenze più che alla trasmissione di un sapere già acquisito. Nascono le accademie scientifiche e le società scientifiche che resteranno per lungo tempo i luoghi privilegiati di esposizione, di confronto e di verifica delle nuove teorie e dei nuovi risultati sperimentali. Di questo nuovo fenomeno vanno sottolineati due aspetti fondamentali: 1) con la creazione di accademie e società gli scienziati esprimono il bisogno di condividere i loro risultati con i colleghi, di confrontarsi e di discutere apertamente con loro, sottoponendo a verifica le proprie teorie (buona parte delle attività delle accademie consisteva proprio nel passare al vaglio le ricerche dei membri);

2) riunendosi in gruppi strutturati gli scienziati si danno da sé le proprie regole – e anche questo è un punto di grande importanza, che testimonia il bisogno di indipendenza della ricerca scientifica. La scienza moderna si configura così come un’impresa collettiva e (almeno tendenzialmente) autonoma rispetto alle autorità politiche e religiose. Numerosi sono i gruppi formati da scienziati e filosofi; tra i più importanti possono essere menzionati: – la Royal Society in Gran Bretagna, fondata nel 1662 sotto il regno di Carlo II, priva di contributi statali e finanziata attraverso l’autotassazione dei membri, che furono numerosi e di diversa provenienza, tra cui Robert Boyle, Robert Hooke e lo stesso Isaac Newton che ne fu anche il presidente; – l’Académie Royale des Sciences in Francia, nata nel 1666 da un precedente gruppo, meno strutturato ma già di successo, che ebbe il supporto finanziario dallo

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Stato del Re Sole, con il coinvolgimento diretto del ministro Jean-Baptiste Colbert, e contò tra i suoi membri personalità di primo piano della scienza e della filosofia, non solo francesi ma anche straniere, tra cui Christiaan Huygens; – l’Accademia dei Lincei, non l’unica esperienza in questo senso realizzata in Italia, ma la più prestigiosa (ebbe tra i suoi membri anche Galilei), e la prima in ordine cronologico (la sua fondazione risale al 1603). Il rapporto delle nuove istituzioni con quelle già esistenti non è sempre facile. I riferimenti con il potere politico sono diversi caso per caso, e sono legati anche alle diverse modalità con cui le accademie e le società scientifiche si finanziano. Anche i rapporti con le autorità religiose cambiano in funzione del contesto; resta però costante la ricerca dell’indipendenza intellettuale, che è uno dei prin-

cipali valori di riferimento per tutte queste istituzioni. Ancora più centrale nella vita delle accademie e società scientifiche è il rapporto, spesso conflittuale, con le università. Nel mondo del sapere e della cultura i secoli XVIXVIII registrano dei cambiamenti epocali, sui quali le università tardano ad aggiornarsi, anche per la posizione ancora secondaria che avevano discipline come la fisica e la stessa matematica nei programmi di studio. In generale si può affermare che l’impulso alla creatività scientifica che caratterizza la ricerca moderna è stato sostenuto più dalle accademie scientifiche e dalle società scientifiche che dalle università. Sotto questo aspetto hanno pesato la maggiore propensione delle nuove istituzioni alla libertà di ricerca e alla creatività scientifica e la maggiore rapidità nel recepire le innovazioni e la creazione di nuove discipline e campi di studi.

Nella seconda fase della sua vita, quella della fama e degli onori seguiti alla pubblicazione dei Principia, degli incarichi e dei riconoscimenti pubblici, culminata con la presidenza della Royal Society e il titolo di baronetto, Newton è sicuramente meno creativo dal punto di vista della produzione scientifica: si dedica al completamento, alla pubblicazione, alla promulgazione e difesa dei risultati che ha già raggiunto e delle opere che ha già scritto piuttosto che non a nuove scoperte. Ma c’è un’attività parallela a quella dello scienziato che, iniziata alla fine degli anni sessanta, Newton conduce per tutto il resto della sua esistenza, per quanto in segreto. Un’attività che per Newton è altrettanto importante, come testimonia il tempo e la quantità di scritti che le dedica, e che nasce in relazione ai suoi interessi nel campo dell’alchimia e della teologia. Accanto a un Newton scienziato moderno troviamo infatti anche un Newton alchimista e cultore di un sapere per pochi eletti, che è quindi da tenere segreto una volta posseduto. Alchimia e conoscenza Gli studi di decifrazione dei testi alchemici ed ermetici, così come quelli di cronolodell’opera di Dio gia e di interpretazione della Bibbia che compie a partire dagli anni settanta, sono tutnel mondo ti finalizzati allo scopo di riportare alla luce un sapere ritenuto in possesso degli antichi e poi andato perduto. Attraverso l’alchimia, in particolare, Newton intravede la possibilità di arrivare a comprendere la traccia della continua azione finalizzante e ordinatrice di Dio nel mondo. A tal fine Newton compie anche varie esperienze sulla trasmutazione dei metalli nel laboratorio che si è costruito nel Trinity College, convinto che tali fenomeni rivelino la presenza dell’«agente vitale» che media l’intervento di Dio nell’organizzazione della natura. Di tutte queste attività, che Newton mantiene rigorosamente segrete fino alla morte e delle quali le sue opere scientifiche non fanno supporre l’esistenza, è comunque rimasta una mole ingente di materiale, ➥ Sommario, p. 484 anche se solo in tempi molto recenti è venuta in luce nelle sue intere proporzioni. Gli anni della maturità tra scienza e alchimia

I due Newton Newton pubblico

Newton segreto

Discipline

– Fisica – Matematica

– – – –

Oggetto della ricerca

Le cause fisiche (naturali) dei fenomeni fisici (naturali)

L’azione di Dio nel mondo (il soprannaturale)

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Alchimia Ermetismo Cronologia Studi biblici

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3 La leggenda della mela

Il fiore dell’età creativa

Tre conquiste scientifiche fondamentali

T3

1665-1666: due anni straordinari

Le premesse fondamentali della scienza newtoniana Una delle leggende più diffuse su Newton è quella della scoperta della legge di gravitazione universale a partire dall’osservazione della caduta di una mela. La leggenda narra che Newton, seduto sotto un albero di mele, nel ricevere in testa uno dei suoi frutti sarebbe stato indotto a riflettere sulla natura della gravità, e in particolare a mettere in rapporto la forza diretta verso il centro della Terra che causa la caduta della mela con la forza centripeta che tiene la Luna nella sua orbita, arrivando così a comprendere il carattere universale di tale forza attrattiva. L’avvenimento si sarebbe verificato nel periodo in cui Newton si trovava, per usare le sue parole, «nel fiore dell’età creativa». Si tratta dei due anni 1665 e 1666 nei quali, a causa della peste che imperversava in Inghilterra, egli viene costretto dalla temporanea chiusura dell’università a tornare alla casa natale a Woolsthorpe. Ma Newton è un completo estraneo nell’ambiente di piccoli proprietari terrieri da cui proviene. Nell’assoluta solitudine in cui si viene così a trovare, si dedica interamente alle sue ricerche. Mettendo a frutto gli studi di matematica e filosofia naturale che ha compiuto a Cambridge – più che altro da autodidatta, ma in parte anche sotto la guida del matematico Isaac Barrow (titolare della Cattedra Lucasiana di matematica, che passerà a Newton nel 1669) –, Newton raggiunge in poco tempo risultati di fondamentale importanza in ben tre settori: la matematica, l’ottica e la teoria della gravitazione. In una ricostruzione autobiografica di quasi cinquant’anni dopo, lo scienziato inglese riassume nel seguente modo le sue conquiste degli anni della peste: All’inizio dell’anno 1665 trovai il Metodo di approssimazione delle serie e la Regola per ridurre un qualunque esponente di un Binomio qualsiasi a tali serie. Lo stesso anno in maggio trovai il metodo delle tangenti […] e in novembre avevo il metodo diretto delle flussioni e l’anno successivo in gennaio la teoria dei colori e il maggio seguente possedevo il Metodo inverso delle flussioni. E nello stesso anno cominciai a pensare alla gravità che si estende all’orbita della Luna […]. Tutto ciò avvenne nei due anni della peste del 1665 e 1666, poiché in quei giorni ero nel fiore dell’età creativa e attendevo alla Matematica e alla Filosofia più di quanto abbia mai fatto in seguito.

La nascita del calcolo infinitesimale I risultati matematici a cui Newton perviene nei due anni che trascorre presso la casa natale – le «serie infinite», il teorema del «binomio», il metodo delle «tangenti» e quello delle «flussioni» – fanno parte di quello che oggi si chiama «calcolo infinitesimale». Quindi è Newton, di fatto, a porre le prime basi del calcolo infintesimale, tra il 1665 e il 1666, anche se non pubblica quasi nulla al riguardo fino al 1704, quando, in appendice al suo trattato di ottica (Opticks), figurerà la prima esposizione del suo «calcolo delle flussioni» (o «calcolo differenziale», nella terminologia introdotta da Leibniz e poi rimasta in uso). La contesa con Leibniz Il ritardo nella pubblicazione è uno dei fattori che renderà possibile l’insorgere di una contesa con Leibniz sulla paternità del calcolo. Leibniz, infatti, pur arrivan469

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Le basi di partenza

La serie binomiale

Il teorema fondamentale del calcolo

Gli infinitesimi e il modello meccanico

Un nuovo approccio allo studio delle curve

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do dopo Newton alla formulazione di un «calcolo differenziale e sommatorio» (poi chiamato «calcolo differenziale e integrale») che presenta molte analogie con quello newtoniano, si preoccupa di diffondere subito i propri risultati. È comunque in modo del tutto indipendente e seguendo un diverso approccio concettuale che Leibniz ottiene il suo «calcolo». Saranno quindi solo motivi pretestuosi, legati più alle diversità tra scuole di pensiero che non a fatti scientifici, a guidare la polemica sulla priorità nell’invenzione del calcolo, a cui darà inizio nel 1699 l’accusa di plagio rivolta a Leibniz da uno degli allievi di Newton. Ma che cosa scopre davvero il giovane Newton? I testi da cui parte per arrivare alle scoperte matematiche del suo «periodo più creativo» sono, essenzialmente, la Geometria di Cartesio, e l’Arithmetica infinitorum (l’«Aritmetica degli infiniti») di John Wallis. Cartesio aveva gettato un ponte tra il mondo del calcolo e il mondo della geometria creando un approccio algebrico allo studio delle curve (figure geometriche piane e dal contorno non rettilineo come un’ellisse, un’iperbole, o un cerchio). La tecnica delle «serie infinite» (cioè somme di infiniti addendi) era stata sviluppata successivamente per estendere l’analisi cartesiana ai casi che non potevano essere trattati in termini finiti. Relativamente a questi sviluppi, Newton scopre una serie particolarmente utile, la cosiddetta «serie binomiale» (poi nota come «binomio di Newton»), che permette di calcolare la potenza n-esima di un binomio qualsiasi – cioè la formula (a + b)n – esprimendola come una ben determinata serie. Questo nuovo strumento matematico si rivela particolarmente efficace per il calcolo dell’area sottesa alle curve, ciò che Newton chiama la «flussione inversa» della curva e che nella terminologia attuale è detta «integrale» della funzione matematica che descrive la curva. La scoperta della serie binomiale svolge quindi un ruolo di grande rilievo nel percorso che porta Newton a comprendere quello che è noto come «teorema fondamentale del calcolo». Si tratta del teorema che stabilisce che, nello studio delle curve, il calcolo delle tangenti alle curve e il calcolo delle aree sottese alle curve sono operazioni inverse; oppure, in termini moderni, che le operazioni di differenziazione («derivare» una funzione) e di integrazione («integrare» una funzione) sono l’una l’inversa dell’altra. Newton non arriva a questi risultati utilizzando, come sarà fatto in seguito, procedure rigorose fondate su concetti quali quelli di «convergenza», «continuità», «differenziabilità» e «limite». Al posto di una procedura di «passaggio al limite», per esempio, si serve della nozione di infinitesimo («quantità infinitamente piccola») e di una regola pratica per cancellare alla fine del calcolo gli infinitesimi introdotti inizialmente. E soprattutto si basa su una particolare mescolanza di nozioni matematiche e meccaniche, per cui concepisce le grandezze geometriche (le curve) come generate dal moto continuo o «fluire» di un punto. Da qui il nome di «fluenti» per le curve, e di «flussioni» per le tangenti alle curve nei loro diversi punti (tangenti che corrispondono alla velocità dei moti in quei punti). In questo modo Newton riconduce lo studio delle curve (e tra queste, ricordiamo, ci sono anche le curve ellittiche descritte dalle orbite dei pianeti) alla soluzione dei seguenti due problemi: a) «data la lunghezza dello spazio in modo continuo (e cioè, a ogni tempo), trovare la velocità del moto a un tempo qualsiasi» (cioè trovare la tangente o flussione); b) «data la velocità del moto in modo continuo, trovare la lunghezza dello spazio descritto a un tempo qualsiasi» (cioè trovare la fluente). Si tratta del teorema fondamentale del calcolo formulato nei termini della conce-

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zione cinematica newtoniana delle grandezze geometriche. Una formulazione che mette bene in evidenza le possibilità di applicazione del nuovo calcolo alla teoria del moto, per quanto Newton, come vedremo, non ne farà un uso esplicito nei Principia. Verso il calcolo infinitesimale

Il problema iniziale

Gli antecedenti del calcolo infinitesimale

La scoperta del calcolo infinitesimale

Sviluppi futuri

Come calcolare le dimensioni delle curve e delle aree sottese alle curve

Cartesio: studio delle curve con tecniche algebriche Wallis: aritmetica con operazioni infinite

Newton: calcolo dei fluenti e delle flussioni Leibniz: calcolo differenziale e sommatorio

– Introduzione del concetto di limite – Operazioni di passaggio al limite Nuovi modi di risolvere il problema

Prima soluzione del problema Inizialmente algebra e geometria sono due discipline separate e mancano gli strumenti per risolvere il problema dei calcoli relativi alle curve; a partire da Cartesio le due discipline vengono unificate, ma è solo con Newton e Leibniz che si individuano dei metodi per risolvere il problema, metodi che verranno poi superati con l’introduzione del concetto di limite.

La teoria dei colori Anche nel caso dello studio dei fenomeni ottici la fonte principale del giovane Newton è rappresentata da Cartesio. Newton è insoddisfatto della teoria esposta da Cartesio nei Principi della filosofia e nella Diottrica, la quale riconduce i fenomeni luminosi alla pressione esercitata da particelle piccolissime di etere (ed è quindi una teoria «corpuscolare», tipica del meccanicismo) e vede i colori come modificazioni della luce bianca (e per questo essa viene detta «teoria modificazionista» della luce). Più precisamente, secondo la concezione cartesiana la luce bianca risulta dal moto rettilineo delle particelle eteree, e i colori risultano dai moti rotatori addizionali che queste particelle acquistano quando la luce bianca viene riflessa o rifratta dalla materia. Newton conosce anche altre teorie della luce, come quella di Robert Hooke, che non concepisce la luce come un moto di corpuscoli ma come una vibrazione o «tremore» che si propaga in un mezzo. Anche la teoria di Hooke, come le altre teorie della luce note all’epoca di Newton, è comunque «modificazionista». Newton, a differenza dei suoi contemporanei, arriverà a respingere l’assunto modificazionista. Il prisma di Newton Nel periodo trascorso a Woolsthorpe tra il 1665 e il 1666 Newton compie una see lo spettro dei colori rie di esperimenti ottici con il prisma (poi noto come il «prisma di Newton») che lo portano alla seguente fondamentale scoperta: non è la luce bianca a essere semplice, ma i colori. I colori non sono quindi modificazioni della luce bianca ma le componenti di quest’ultima, e l’effetto del prisma è quello di scomporre la luce bianca nelle sue diverse componenti (in quanto ognuna di queste è caratterizzata da un differente angolo di rifrazione e viene di conseguenza deviata in modo diverso dal prisma), dando così luogo alla formazione dello spettro di colori che si osserva su uno schermo posto a sufficiente distanza. Gli antecedenti modificazionisti: Cartesio e Hooke

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Oltre a rivoluzionare la teoria dei colori della fisica del tempo, questa scoperta ha un risvolto pratico per Newton, che è anche un ottimo tecnico di laboratorio. Essa lo spinge infatti a progettare e costruire, nel 1668, un telescopio a riflessione, cioè un telescopio che sfrutta il fenomeno ottico della riflessione, invece del fenomeno della rifrazione su cui si erano basati tutti i telescopi costruiti fino ad allora. Newton pensa in questo modo di evitare il fenomeno dell’«aberrazione cromatica» delle lenti, cioè il fatto che una lente non focalizza nello stesso punto le diverse componenti di una sorgente puntiforme di luce bianca: tale fenomeno è un effetto della rifrazione, poiché è dovuto ai diversi angoli di rifrazione caratteristici dei raggi componenti della luce emessa dalla sorgente, e non è presente nel nuovo telescopio di Newton, poiché la riflessione non comporta lo stesso effetto. L’esperimento L’esperimento che Newton considera decisivo per provare la sua teoria dei colodei due prismi ri è quello «dei due prismi». L’esperimento funziona così: viene aggiunto a un primo prisma, che scompone la luce bianca nelle sue componenti di diversi colori, un altro prisma posto al di là di uno schermo opportunamente forato in modo da far passare un solo raggio di un determinato colore (vedi Figura 1). Con tale dispositivo Newton riesce a verificare il fatto che il raggio monocromatico che esce dallo schermo rimane inalterato nel colore anche dopo aver subito una rifrazione nel passare attraverso il secondo prisma. Questo risultato va contro quanto prevedevano le teorie modificazioniste della luce, secondo le quali il colore di un raggio monocromatico si sarebbe dovuto alterare per effetto di una rifrazione.

Nuovi strumenti ottici

Figura 1

L’esperimento dei due prismi. Il disegno illustra l'esperimento con cui Newton giunge a determinare che la luce bianca è composta da uno spettro di colori.

Esperimento cruciale contro la teoria modificazionista

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Per Newton si tratta dunque di un risultato decisivo per confutare la teoria della luce bianca come luce semplice; tanto che, nella prima pubblicazione che si cura di fare apparire su questi suoi studi – cioè la memoria sulla luce e i colori che presenta nel 1672 alla Royal Society appena dopo esserne diventato fellow –, egli conferisce all’esperimento dei due prismi il ruolo di experimentum crucis, in grado di determinare il prevalere della sua teoria su quella modificazionista. Newton intende qui «esperimento cruciale» proprio nello stesso senso in cui Bacone parlava, nel Nuovo Organo, di «instantia crucis»: un esperimento allestito in modo da risolvere definitivamente il confronto tra due teorie a favore dell’una o dell’altra (vedi Unità 2, p. 114).

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Unità 8 Newton Le teorie dei colori e la luce bianca Teorie modificazioniste (Cartesio, Hooke ecc.)

Teoria alternativa di Newton

Luce bianca

Semplice

Composta dalle luci di tutti i colori

Luce colorata

Derivata dalla luce bianca – ogni colore è una particolare modificazione del bianco

Semplice – ogni colore è un particolare componente del bianco

Le polemiche intorno all’esperimento

L’articolo di Newton suscita subito diverse critiche, sia in relazione all’interpretazione che l’autore dà del risultato sperimentale raggiunto, sia per la metodologia seguita, sia per l’assenza di una sua presa di posizione chiara sulla natura della luce. In particolare il filosofo della natura olandese Huygens, difensore di una teoria ondulatoria della luce, spinge Newton a chiarire il rilievo del suo risultato per sostenere l’ipotesi corpuscolare contro quella ondulatoria. Fino a quel momento Newton aveva preferito tenere distinti il piano metafisico delle ipotesi sulla natura della luce da quello fisico della scoperta di regolarità matematiche nei fenomeni – per quanto nel suo scritto utilizzi di fatto una concezione di tipo corpuscolare. La sua filosofia dichiarata è quella di ottenere «al posto di congetture e cose probabili, che si smerciano ovunque, una scienza della natura finalmente confermata con la più alta evidenza». Ma le polemiche suscitate lo spingono a precisare ulteriormente la sua teoria in un saggio che presenta alla Royal Society nel 1675, dal significativo titolo Un’ipotesi per spiegare le proprietà della luce. Convinto che il problema principale sia costituito dalle interazioni tra luce ed etere, Newton difende una posizione in qualche modo conciliatoria tra la teoria corpuscolare e quella ondulatoria, avanzando un’«ipotesi» che gli permette di salvare la concezione corpuscolare della luce e allo stesso tempo di fornire una spiegazione dei fenomeni che favoriscono la teoria ondulatoria. Newton sa infatti che alcuni fenomeni come quelli di interferenza, possono essere spiegati solo se alla luce vengono attribuite proprietà periodiche, come fa l’ipotesi ondulatoria. L’ipotesi newtoniana è la seguente: la luce è formata da un flusso di corpuscoli che, interagendo con l’etere, concepito come una sorta di fluido elastico che pervade tutto lo spazio, lo mettono in vibrazione; le vibrazioni dell’etere, a loro volta, si propagano producendo dilatazioni e contrazioni periodiche nel mezzo etereo che, in questo modo, può trasmettere ai corpuscoli della luce le proprietà periodiche opportune.

L’ipotesi sulla natura della luce: conciliazione tra teoria corpuscolare e teoria ondulatoria

La teoria della gravitazione Dall’etere all’attrazione gravitazionale

L’impostazione dei problemi dell’ottica nei termini delle interazioni dei corpuscoli di luce con il mezzo etereo permette a Newton di utilizzare, in relazione a questo campo d’indagine, metodi e concetti applicabili anche ad altri tipi di fenomeni d’interazione. In particolare, l’ipotesi che «vi sia, diffusa ovunque, una sostanza eterea, capace di contrarsi e dilatarsi, fortemente elastica e, in breve, del tutto simile all’aria da ogni punto di vista, pur essendo molto più sottile di essa» viene utilizzata da Newton, nel saggio del 1675, anche come possibile «causa» di fenomeni chimici, elettrici, magnetici e, infine, della stessa «attrazione gravitazionale della Terra». Ipotizzando che l’etere sia sempre meno denso scendendo dalla «cima dell’aria» fino al centro della Terra, Newton congettura infatti 473

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Moti terrestri e celesti: l’eredità galileiana

La teoria della gravitazione

che il comportamento di un corpo soggetto all’attrazione gravitazionale possa essere spiegato nei termini di tale variazione di densità dell’etere. Come abbiamo visto, Newton diventerà in seguito più cauto sulla «causa» della gravità, tanto da dichiarare, nello Scolio Generale, di astenersi dall’inventare ipotesi a riguardo. Della teoria della gravitazione Newton si occupa già negli anni della peste, compiendo anche in questo ambito scoperte decisive. Lasciando la mitologia da parte, è abbastanza certo che in quel periodo Newton cominci a pensare alla possibilità di collegare i risultati ottenuti da Galilei per i moti terrestri di corpi in caduta libera (come la mela che cade dall’albero) con le leggi di Keplero sui moti planetari, mettendo in rapporto la forza necessaria per «trattenere la Luna nella sua orbita» con «la forza di gravità alla superficie della Terra». È comunque importante ricordare che già Galilei aveva intuito che ciò che fa muovere i pianeti (la Luna intorno alla Terra, la Terra, Marte e Giove intorno al Sole) dovesse essere della stessa natura di ciò che fa muovere un corpo che cade sulla Terra, o nelle parole che usa nel Dialogo, di ciò che muove «le parti della Terra in giù». È comunque solo vent’anni dopo, nei Principia, che Newton pubblica in modo sistematico la sua teoria della gravitazione, fondata sulla legge di gravitazione universale. La legge stabilisce che tutti i corpi nell’universo si attraggono reciprocamente con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. In un linguaggio più formale, la forza di attrazione fra due corpi di massa rispettivamente m1 e m2, posti a una distanza r l’uno dall’altro, è espressa dalla relazione: F = G m1 m2 / r2

L’unificazione tra meccanica celeste e terrestre

Rispondenza della teoria alla Regola II

Il significato della forza di gravità

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dove G è la «costante di gravitazione universale» (un fattore di proporzionalità che ha un valore ben determinato e uguale per tutti i casi di attrazione gravitazionale). La scoperta della forza d’attrazione universale permette a Newton di trattare mediante un’unica legge una grande varietà di fenomeni osservabili – la caduta degli oggetti sulla Terra, i moti di rivoluzione della Luna intorno alla Terra (e, in generale, i moti delle diverse lune intorno ai vari pianeti), i moti di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, le maree, i moti delle comete – unificando in una sola teoria «meccanica» la fisica celeste e quella terrestre. Come Newton afferma nei Principia, «non v’è dubbio che la natura della gravità sui pianeti sia identica a quella della gravità sulla Terra». I pianeti si muovono intorno al Sole secondo le orbite ellittiche descritte da Keplero perché su ognuno di essi agisce una forza di attrazione gravitazionale diretta verso il centro del Sole, inversamente proporzionale al quadrato della sua distanza da esso e direttamente proporzionale al prodotto della sua massa con la massa del Sole; cioè una forza che è definita esattamente negli stessi termini della forza diretta verso il centro della Terra che agisce sui corpi in caduta libera. La teoria della gravitazione universale ottempera quindi perfettamente alla «regola del filosofare» che richiede che effetti simili siano ricondotti alla stessa causa (la seconda delle quattro regole che, come abbiamo visto alle pp. 466-467, Newton enuncia nei Principia): permette di ricondurre la caduta di una mela dall’albero e la «caduta» di un pianeta in orbita intorno al Sole alla stessa causa (l’attrazione gravitazionale). Con la sua teoria della gravitazione Newton riesce dunque a rivelare la natura fondamentale delle leggi di Keplero sui moti dei pianeti: come dimostrerà in dettaglio

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➥ Laboratorio di lettura, p. 122

nei Principia, le leggi di Keplero corrispondono ognuna a caratteristiche fondamentali della forza di attrazione che lega i pianeti al Sole (come il fatto che la forza sia diretta verso il centro di attrazione – nel caso dei pianeti, il Sole – e che decresca con il quadrato della distanza). Con la sua teoria, inoltre, Newton può finalmente conferire un significato «fisico» alla nozione di gravità che, prima di allora, era ancora solo un «nome». Come affermava infatti Salviati nel Dialogo galileiano (vedi Unità 2, p. 103 ss.): non è che realmente noi intendiamo più, che principio o che virtù sia quella che muove la pietra in giù, di quel che noi sappiamo chi la muova in su, separata dal proiciente, o chi muova la Luna in giro, eccettoché il nome, che più singulare e proprio gli abbiamo assegnato di gravità.

Il problema dell’azione a distanza

➥ Sommario, p. 484

La definizione newtoniana della forza di attrazione gravitazionale pone tuttavia un fondamentale problema interpretativo: la forza, così espressa, ha apparentemente tutte le caratteristiche di qualcosa che agisce a distanza, cioè che si comunica istantaneamente tra corpi in qualsivoglia misura lontani. È quindi naturale che, in un contesto fortemente influenzato dal meccanicismo cartesiano, la teoria della gravitazione di Newton susciti la viva opposizione di quanti vi vedono un ritorno a tentativi di spiegazione dei fenomeni naturali attraverso «cause occulte», «virtù attrattive», e cose simili. Newton è consapevole di questo rischio e, nonostante la sua dichiarata professione di non voler «inventare ipotesi», tenterà fino all’ultimo, e invano, di trovare una causa «materiale o immateriale» della gravitazione.

La gravità in cielo e in terra

Legge della gravitazione universale

Caduta dei gravi

4 Le tre edizioni dei Principia

Flussi delle maree

Orbite dei pianeti

Traiettorie delle comete

I Principia La prima edizione dei Principia esce nel luglio del 1687, sotto gli auspici della Royal Society e grazie al continuo interessamento e aiuto (anche finanziario) dell’astronomo Edmund Halley. Alla prima edizione dei Principia, che va subito esaurita, ne seguono altre due, rispettivamente del 1713 e del 1726. La seconda edizione presenta diverse aggiunte e correzioni ed è corredata da una lunga Prefazione del suo curatore, il matematico Roger Cotes, oltre che dallo Scolio Generale nel quale Newton espone la propria teologia naturale ed esprime la sua posizione metodologica in merito alla «causa ultima» della gravità (vedi T1, p. 466); la terza edizione, curata da Henry Pemberton, esce appena due anni prima della morte di Newton e contiene ulteriori precisazioni su risultati fisici e astronomici, come la resistenza dei mezzi, l’«argomento con cui viene provato che è la gravità a trattenere la Luna nella sua orbita», e le orbite di alcune comete. 475

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Un testo sistematico e strutturato per assiomi

T4

Spiegare i moti planetari Principi matematici della filosofia naturale

I Principia presentano la meccanica newtoniana come una struttura assiomatica: ai tre «libri» nei quali si articola l’opera, sono premesse le «Definizioni» dei concetti base della meccanica e gli «Assiomi o leggi del moto», da cui vengono quindi «dedotti» i «teoremi», «lemmi» e «corollari» nei termini dei quali è descritta la fisica newtoniana. I primi due libri contengono le «proposizioni generali» e «matematicamente dimostrate» relative ai moti dei corpi, considerati nel vuoto (nel primo libro), e nei mezzi resistenti come l’aria e l’acqua (nel secondo libro). Il fine del terzo libro è poi di «spiegare il sistema del mondo», sulla base dei risultati esposti nei primi due libri. Ivi [nel terzo libro dei Principia], infatti, dai fenomeni celesti, mediante le proposizioni dimostrate matematicamente nei libri precedenti, vengono derivate le forze della gravità, per effetto delle quali i corpi tendono verso il Sole e i singoli pianeti. In seguito da queste forze, sempre mediante proposizioni matematiche, vengono dedotti i moti dei pianeti, delle comete, della luna e del mare.

Contro Cartesio: il metodo sintetico Il rifiuto dell’analisi e il metodo degli antichi

Uso di figure geometriche invece che simboli algebrici

Il distacco dalle fonti moderne

I problemi teologici del meccanicismo

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L’impresa compiuta nei Principia è immensa, e ancora più sorprendente se consideriamo con quali strumenti matematici Newton riesce a portarla a termine. Tanto più che, in seguito a una svolta metodologica maturata nel corso degli anni settanta, lo scienziato inglese rifiuta, insieme al meccanicismo cartesiano, anche la «nuova analisi» che si sta affermando, e alla quale egli stesso aveva dato un contributo sviluppando il calcolo infinitesimale (vedi p. 469 ss.). Pertanto nei Principia Newton non utilizza, almeno non in modo esplicito, le tecniche simboliche che ha sviluppato nell’ambito del calcolo infinitesimale e formula la sua teoria del moto nel linguaggio della geometria, cioè usando figure geometriche invece che simboli algebrici, seguendo in questo modo il metodo della «sintesi» invece che dell’«analisi»: quello che chiama «il metodo degli Antichi», a suo giudizio «molto più elegante rispetto a quello cartesiano». Per Newton l’aritmetica e la geometria «non dovrebbero essere confuse», secondo l’esempio degli Antichi che «le tenevano distinte con tanta attenzione da non introdurre mai termini aritmetici in geometria»; mentre «i Moderni, confondendo l’una con l’altra, hanno perso la semplicità in cui consiste tutta l’eleganza della geometria». La critica di Newton contro il metodo analitico rientra di fatto in un suo generale atteggiamento di progressivo distacco dai «Moderni». Mentre negli anni giovanili Newton si era basato, per le sue ricerche, essenzialmente sulle opere più recenti (come erano appunto quelle di Cartesio), a partire dagli anni settanta si va sempre più distaccando dai suoi contemporanei per riferirsi maggiormente agli «Antichi», che vede come i detentori della vera sapienza, da recuperare o «riscoprire». In questa preferenza per gli Antichi gioca sicuramente un ruolo importante il rifiuto dell’allora dominante pensiero meccanicista cartesiano. Tale rifiuto ha anche delle motivazioni teologiche: d’altronde in quegli anni Newton si trova a Cambridge, nel cui ambiente culturale spiccano personaggi, come il filosofo Henry More (1614-1687), che si adoperano per mettere in guardia contro le possibili conseguenze teologiche del meccanicismo. Una filosofia come quella mec-

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Unità 8 Newton

canicista, in cui tutti i fenomeni naturali vengono spiegati nei termini di collisioni tra corpuscoli, può facilmente fare a meno dell’esistenza di Dio per il funzionamento della «Macchina del Mondo». Newton è invece profondamente convinto che la provvidenza divina si manifesti in ogni momento nel «Sistema del Mondo». Come afferma nello Scolio Generale:

T5

Il ruolo di Dio nel mondo fisico Principi matematici della filosofia naturale, Scolio Generale

L’agente vitale del mondo

T6

L’etere universale

Principi matematici della filosofia naturale, Scolio Generale

Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere senza il disegno e la potenza di un ente intelligente e potente. […] Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come signore dell’universo. […] Da una cieca necessità metafisica, che è assolutamente identica sempre e ovunque, non nasce alcuna varietà di cose. L’intera varietà delle cose create, per luoghi e per tempi, poté essere fatta nascere soltanto dalle idee e dalla volontà di un ente necessariamente esistente. La meccanica, per quanto fondamentale, non riesce a spiegare tutto per Newton. È sua profonda convinzione che ci sia un agente vitale (che chiama di volta in volta «spirito vegetativo», «spirito mercuriale» o «virtù fermentativa»), che media l’azione costante di Dio nel mondo, inducendo un ordine nelle cose naturali, viventi e non viventi. La ricerca delle modalità di azione di questa entità spirituale fornisce la chiave di lettura per quelle attività più «segrete» alle quali Newton dedica molto del suo tempo e che abbiamo ricordato a proposito della complessità del personaggio Newton. La fisica esposta nei Principia ha dunque dei limiti per Newton, ed è significativo che lo Scolio Generale posto a conclusione dell’opera si chiuda con le seguenti parole sullo «spirito sottilissimo» che pervade tutto, quello che altrove chiama anche «etere»: Ora sarebbe lecito aggiungere qualcosa circa quello spirito sottilissimo che pervade i grossi corpi e che in essi si nasconde; mediante la forza e le azioni del quale le particelle dei corpi a distanze minime si attraggono mutuamente e divenute contigue aderiscono intimamente; i corpi elettrici agiscono a distanze maggiori, tanto respingendo quanto attraendo i corpuscoli vicini; la luce viene emessa, riflessa, rifratta, inflessa, e riscalda i corpi; tutta la sensazione è eccitata e le membra degli animali si muovono a volontà, ossia, mediante le vibrazioni di questo spirito, si propaga, attraverso i filamenti solidi dei nervi, dagli organi esterni dei sensi al cervello e dal cervello ai muscoli. Ma queste cose non possono essere esposte in poche parole; né vi è sufficiente abbondanza di esperimenti, mediante i quali le leggi delle azioni di questo spirito possano essere accuratamente determinate e mostrate.

Il tempo, lo spazio e il moto Il punto di partenza: i concetti base della meccanica

I Principia si aprono con le «definizioni» dei concetti di base della meccanica: la «quantità di materia», la «quantità di moto», la «forza insita della materia», la «forza impressa», la «forza centripeta». Non vengono invece definiti i concetti di tempo, spazio e moto in quanto, secondo Newton, sono «notissimi a tutti». In relazione a questi concetti, tuttavia, Newton riconosce che possono nascere «vari pregiudizi», per il fatto che «comunemente si concepiscano queste quantità solo in relazione a cose sensibili». La sua soluzione per eliminare questi pregiudizi è 477

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

«distinguere le medesime quantità in assolute e relative, vere e apparenti, matematiche e volgari». A queste distinzioni Newton dedica lo Scolio che conclude la sezione delle definizioni, dove le nozioni di tempo, spazio e moto, rispettivamente assoluti e relativi, sono così caratterizzate:

T7

Tempo e spazio, assoluti e relativi Principi matematici della filosofia naturale, Definizioni

Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (esatta o inesatta) sensibile e esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l’ora, il giorno, l’anno. Lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre uguale e immobile; lo spazio relativo è una misura o dimensione mobile dello spazio assoluto, che i nostri sensi definiscono in relazione alla sua posizione rispetto ai corpi, ed è comunemente preso al posto dello spazio immobile […]

Una volta definiti il tempo e lo spazio rispettivamente assoluti e relativi, la definizione del moto, assoluto e relativo, viene di conseguenza, essendo il moto la variazione dello «spazio occupato da un corpo» (il luogo, che è assoluto o relativo a seconda che lo spazio sia assoluto o relativo) nel tempo: «Il moto assoluto è la traslazione di un corpo da un luogo assoluto in un luogo assoluto, il relativo, da un luogo relativo in un luogo relativo». L’esperienza sensibile Il «vero» tempo, il «vero» spazio e il «vero» moto, per Newton, sono dunque e le grandezze relative quelli «assoluti». Le nozioni relative, pur non essendo quelle «vere», sono quelle «comunemente usate», tanto che la meccanica newtoniana non ha bisogno di spazio, tempo e moto assoluti per essere formulata. Questo avviene perché, non potendo le «parti» dello spazio assoluto «essere viste e distinte fra loro mediante i nostri sensi», noi «usiamo in loro vece le loro misure sensibili». Così «invece dei luoghi e dei moti assoluti usiamo i relativi», ma per cogliere le nozioni vere «occorre astrarre dai sensi». Moto e luogo, assoluti e relativi

Il dibattito su grandezze assolute o relative e il secchio di Newton «Assoluto» è quindi inteso da Newton innanzitutto nel senso di «senza relazione ad alcunché di esterno»: questo vuol dire che il tempo e lo spazio assoluti esistono indipendentemente dall’esistenza dei corpi materiali. Non possono dunque essere direttamente osservati con i sensi, da cui la necessità di considerare, nella pratica, le loro «misure sensibili» che sono, rispettivamente, il tempo relativo e lo spazio relativo. Questa impossibilità di osservare direttamente il tempo e lo spazio assoluti è di fatto il punto davvero critico della concezione newtoniana: perché postulare l’esistenza di qualcosa che non si può osservare e che non ha apparentemente effetti sul mondo materiale? La motivazione Newton ha, da una parte, una motivazione di carattere teologico: tempo e spazio teologica sono la sede del continuo intervento di Dio nel mondo, e quindi devono avere un carattere di assolutezza (nel senso sia di immaterialità sia di immutabilità) che corrisponda alla natura eterna e immutabile dell’essere divino di cui sono un’emanazione. Ma dall’altra parte, dal punto di vista fisico, che argomenti può addurre a difesa della sua concezione?

Perché introdurre le grandezze assolute?

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Unità 8 Newton

Proprio su questo punto si contrappone alla concezione assolutista newtoniana quella che si caratterizza invece come concezione relazionale del tempo e dello spazio: cioè la concezione secondo la quale tempo e spazio possono essere concepiti solo in relazione all’esistenza dei corpi materiali. Per i «relazionisti», più precisamente, tempo e spazio consistono nelle relazioni, di natura rispettivamente temporale e spaziale, tra i corpi materiali che compongono il mondo. Questa è la concezione sostenuta eminentemente da Leibniz, in particolare nel carteggio che egli intrattiene negli anni 1715-1716 con il filosofo e teologo inglese Samuel Clarke, le cui argomentazioni a favore della natura assoluta dello spazio e del tempo sono invece rivolte a difendere la posizione newtoniana. L’osservazione Newton è ben consapevole dell’impossibilità di osservare direttamente lo spazio, e le grandezze assolute il tempo, e la velocità «assoluti». D’altronde lo spazio e il tempo assoluti sono secondo Newton i «contenitori» di tutte le cose sensibili; come scrive lo scienziato «tutte le cose sono collocate nel tempo quanto all’ordine della successione, nello spazio quanto all’ordine della posizione» (Principi matematici della filosofia naturale). Come possiamo osservare tali contenitori universali, se noi stessi siamo immersi nello spazio e nel tempo? Newton cerca allora un modo per rendere accessibile all’osservazione con i sensi la distinzione tra «assoluto» e «relativo», senza riferirsi ai concetti di spazio, tempo e velocità. Gli «effetti inerziali» Per rispondere a questa esigenza lo scienziato inglese esce dal campo della cinematica e si rivolge a effetti «dinamici», i cosiddetti «effetti inerziali», o effetti che derivano dalla presenza di forze che vincono l’inerzia dei corpi, cioè la loro tendenza a rimanere fermi o in uno stato di moto rettilineo uniforme se non sono soggetti a forze (come stabilisce la prima legge della dinamica che vedremo più avanti). Esiste infatti la possibilità, secondo Newton, di giustificare anche da un punto di vista fisico la necessità dell’esistenza di quantità assolute utilizzando effetti quali «le forze di allontanamento dall’asse del moto circolare». Queste forze permettono di «distinguere il moto relativo da quello assoluto». Si tratta degli effetti inerziali che Newton prende in considerazione discutendo su che cosa succede nel caso di moto circolare non uniforme illustrato nel suo celebre «esperimento del secchio ruotante». L’esperimento è descritto da Newton nel seguente modo:

Concezioni assolutiste e relazioniste del tempo e dello spazio

T8

L’esperimento del secchio ruotante

Principi matematici della filosofia naturale, Definizioni

Si sospenda un recipiente a un filo abbastanza lungo, e si agisca con moto circolare continuo fino a che il filo, a causa della torsione, si indurisca completamente. Si riempia il recipiente di acqua e lo si faccia riposare insieme con l’acqua; lo si muova, poi, con forza subitanea, in senso contrario, lungo un cerchio; allora, allentandosi il filo, continuerà a lungo in questo moto. All’inizio la superficie dell’acqua sarà piana, come prima del moto del vaso; e poiché il vaso, comunicata gradualmente la forza all’acqua, fa in modo che anche questa inizi più sensibilmente a ruotare, l’acqua comincerà a ritirarsi poco a poco dal centro e salirà verso i lati del vaso, formando una figura concava (come io stesso ho sperimentato) e, a causa del moto sempre più accelerato, salirà via via di più, finché compiendo le sue rivoluzioni insieme al vaso in tempi uguali, giacerà nel medesimo in quiete relativa. Tale ascesa indica lo sforzo di allontanamento dall’asse del moto, e attraverso tale sforzo si conosce e viene misurato il vero e assoluto moto circolare dell’acqua, che è completamente opposto al moto relativo. 479

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Analisi dell’esperimento

La conclusione di Newton

Cenni sugli sviluppi del dibattito tra assolutisti e relazionisti

Schematicamente, si susseguono tre tipi di situazioni diverse in cui si trovano a essere il secchio e l’acqua contenuta in esso: 1) sia il secchio sia l’acqua sono fermi (non c’è nessun moto relativo tra secchio e acqua); 2) il secchio comincia a ruotare, ma il moto ancora non si è comunicato all’acqua la cui superficie rimane dunque piana (c’è un moto relativo del secchio rispetto all’acqua); 3) il moto di rotazione si è del tutto comunicato all’acqua, la cui superficie s’incurva per effetto della forza centrifuga («lo sforzo di allontanamento dall’asse del moto»); sia il secchio, sia l’acqua ruotano dello stesso moto (quindi il loro moto relativo è di nuovo nullo). La conclusione che Newton trae dal confronto di queste situazioni è che il moto relativo dell’acqua rispetto al secchio non può giustificare l’effetto inerziale dell’incurvamento della superficie dell’acqua. Perché infatti s’incurva la superficie dell’acqua nella situazione (3)? La risposta è immediata: perché l’acqua sta ruotando. Ma ruotando rispetto a che cosa? La risposta di Newton è: non rispetto al secchio, perché per l’appunto nella situazione (3) il moto relativo dell’acqua rispetto al secchio è nullo. Dove il moto relativo dell’acqua rispetto al secchio è diverso da zero, cioè nella situazione (2), la superficie dell’acqua è piana. Quindi, conclude Newton, l’effetto inerziale che dà luogo all’incurvamento della superficie dell’acqua rivela un moto rispetto allo spazio assoluto, il «vero e assoluto moto circolare dell’acqua» (che è «opposto al moto relativo» dell’acqua rispetto al secchio perché nella situazione (2) in cui questo è presente la superficie dell’acqua è appunto piana). La differenza tra assoluto e relativo, nel caso del moto, non sfugge quindi completamente ai sensi secondo Newton. Il suo argomento del secchio pone effettivamente un problema ai relazionisti, e Leibniz non sarà in grado di rispondervi in modo efficace. Il dibattito tra concezioni assolute e relazionali dello spazio e del tempo (e, di conseguenza, anche del moto), che si apre con i Principia di Newton e il successivo carteggio tra Leibniz e Clarke, rimane vivo per tutti i secoli successivi e si può dire che ancora oggi non sia del tutto risolto. Ma sicuramente, attraverso i contributi di personaggi come per esempio Ernst Mach (1838-1916) e Albert Einstein (1879-1955), i termini del dibattito sono molto cambiati, e la questione principale è diventata la seguente: la descrizione fisica del mondo fa uso di sistemi di riferimento spazio-temporali privilegiati?

Spazio e tempo: assolutisti e relazionisti Assolutisti (Newton)

Relazionisti (Leibniz)

La natura di spazio e tempo Contenitori di tutti i corpi

Relazioni tra i corpi

Le misure di spazio e tempo Utili nella pratica, non colgono le grandezze ‘vere’ (assolute)

Colgono le grandezze ‘vere’ (relative)

Le leggi del moto Alle Definizioni dei concetti di base Newton fa seguire, nell’esposizione dei Principia, gli Assiomi della meccanica, cioè quelle leggi o «principi» che permettono di dedurre i teoremi, lemmi e corollari nei termini dei quali è descritta tutta la fi480

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Unità 8 Newton

sica newtoniana. Gli Assiomi comprendono le tre leggi newtoniane del moto, insieme a sei corollari di tipo più specifico (tra i quali, per esempio, quelli che spiegano come si compongono le forze). Le tre leggi, che sono il fondamento dell’edificio della fisica classica, sono le seguenti:

T9

Le tre leggi newtoniane del moto

Principi matematici della filosofia naturale, Assiomi

1) Ciascun corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, eccetto che sia costretto a mutare quello stato da forze impresse. […] 2) Il cambiamento di moto è proporzionale alla forza motrice impressa, e avviene lungo la linea retta secondo la quale la forza è stata impressa. […] 3) A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria: ossia le azioni di due corpi sono sempre uguali fra loro e dirette verso parti opposte.

La prima è quella nota come «legge d’inerzia» (o «principio d’inerzia»). Il primo esempio con cui Newton la illustra è quello del moto di proiettili in assenza di resistenza dell’aria e di gravità: i proiettili perseverano nei propri moti salvo che siano rallentati dalla resistenza dell’aria e siano attratti verso il basso dalla forza di gravità. Newton attribuisce (erroneamente) la paternità del principio d’inerzia a Galilei, ma la sua prima formulazione compare di fatto nei Principi della filosofia (1644) di Cartesio. La legge fondamentale La seconda legge è quella nota come «legge fondamentale della dinamica», ed è della dinamica solitamente conosciuta nella forma simbolica (che Newton non usa): La legge d’inerzia

F=ma dove il vettore F rappresenta la forza che agisce su un corpo di massa m (la «forza motrice impressa»), e il vettore a rappresenta l’accelerazione del corpo («il cambiamento di moto» in un intervallo di tempo infinitesimo). È questa la legge che permette, conoscendo il tipo di forza che agisce su un corpo, di ricavarne l’equazione di moto e quindi la traiettoria. Anche in questo caso Newton non si riconosce il merito della scoperta della legge. Nello Scolio che pone a conclusione della sezione dedicata agli Assiomi, sostiene significativamente: «Fin qui ho riferito i principi accolti dai matematici e confermati da numerosi esperimenti. Per mezzo delle prime due leggi e dei primi due corollari Galileo trovò che la caduta dei gravi è proporzionale al quadrato del tempo, e che il moto dei proiettili avviene secondo una parabola». Il principio di azione La terza legge è quella nota come «principio di azione e reazione». Newton la ile reazione lustra con esempi come i seguenti: «qualunque cosa pressi o tiri un’altra cosa, è pressata e tirata da essa nella stessa misura»; oppure, «se qualcuno preme una pietra col dito, anche il suo dito viene premuto dalla pietra». Questa legge, della cui novità Newton è invece consapevole, ha un ruolo fondamentale nella sua descrizione del «sistema del mondo». La legge infatti «si verifica anche nelle attrazioni», come dice Newton, e in particolare nell’attrazione che il Sole esercita sui pianeti. Alla forza esercitata dal Sole ne deve quindi corrispondere una uguale e contraria dei pianeti su di esso. Il Sole non è allora un corpo immobile, ma subisce anch’esso un’accelerazione causata dall’azione dei pianeti. Se può essere considerato approssimativamente immobile, ciò è dovuto solo al fatto che la sua massa è molto grande rispetto a quella dei pianeti. Le tre leggi di Newton formano l’ossatura della fisica classica. Ancora oggi, a distanza di più di tre secoli, sono le leggi che servono per descrivere i fenomeni meccanici del mondo fisico ordinario. 481

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il sistema del mondo L’applicazione della meccanica all’astronomia

Le maree, la forma della Terra, le comete

Una teoria universale con delle lacune

Le stelle fisse restano fisse?

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Nel terzo e ultimo libro dei Principia, intitolato il «Sistema del Mondo», Newton applica i principi matematici relativi ai moti dei corpi esposti nei primi due libri allo studio dell’«ordinamento del sistema del mondo». I corpi dei quali studia i moti sono ora quelli tradizionalmente considerati in ambito astronomico: i pianeti, la Luna, le comete, e i satelliti di Giove. L’obiettivo di Newton è di mostrare come, a partire dai valori conosciuti delle masse, distanze e velocità dei vari corpi astronomici, applicando la teoria esposta nei libri precedenti si possa dar ragione di tutti i fenomeni osservati, oltre a fare previsioni. Newton ha infatti a disposizione i dati osservativi ottenuti dagli astronomi, ai quali può applicare le sue leggi per descrivere con esattezza le orbite dei pianeti intorno al Sole, i moti dei satelliti intorno a Giove e il moto della Luna intorno alla Terra. In connessione con questi studi, Newton sviluppa anche un’articolata teoria delle maree, la causa delle quali viene individuata nell’attrazione gravitazionale esercitata sulla massa fluida del mare dalla Luna e dal Sole. Presenta inoltre una teoria sulla forma della Terra, basata sul suo moto di rotazione diurna, che lo porta a prevedere lo schiacciamento del pianeta ai poli (una previsione poi confermata in spedizioni geografiche condotte nel Settecento); ed elabora infine una teoria fisica delle comete, considerate come normali corpi astronomici e quindi soggette alle stesse leggi che regolano il comportamento degli altri corpi astronomici, tra cui, innanzitutto, la legge di gravitazione universale. Grazie alle leggi del moto e alla teoria della gravitazione universale, Newton riesce quindi a unificare in una singola teoria un insieme vastissimo di fenomeni. Questo è indubbiamente un enorme risultato, anche se molte delle conclusioni a cui giunge Newton non si dimostreranno definitive, e saranno soggette ad aggiustamenti o cambiamenti col progredire della scienza. Ci sono anche diversi dati osservativi che la teoria newtoniana non riesce a spiegare, come per esempio l’entità dello spostamento o «precessione» dell’apogeo lunare (cioè lo spostamento che subisce il punto in cui la Luna si trova a maggior distanza dalla Terra a ogni rivoluzione lunare), o l’entità dello spostamento del perielio (punto di maggior vicinanza al Sole) di Mercurio (noto come il problema della «precessione del perielio di Mercurio»). Mentre il problema dell’apogeo lunare troverà una soluzione intorno alla metà del Settecento sempre nel quadro della fisica newtoniana, il secondo problema verrà risolto solo con la teoria della relatività generale di Einstein, cioè al di fuori del contesto newtoniano. Un’altra questione che i Principia lasciano aperta e alla quale Newton non sarà mai in grado di trovare una risposta di natura fisica, è quella posta dalle cosiddette «stelle fisse». Newton, come la maggioranza dei suoi contemporanei, è profondamente convinto che le stelle siano immobili. Ciò contrasta tuttavia con la sua fisica celeste, basata sulla mutua interazione gravitazionale di tutti i corpi: le stelle sono corpi celesti e, in quanto tali, dovrebbero essere soggette anch’esse all’attrazione gravitazionale da parte degli altri corpi esistenti (un’attrazione che alla fine dovrebbe condurre tutte le stelle a cadere le une sulle altre, cioè a un vero e proprio ‘collasso gravitazionale’). Newton, messo in difficoltà su questo punto dalle domande del teologo Richard Bentley, con il quale intrattiene un nutrito carteggio, finisce con l’optare per una soluzione che esce dall’ambito fisico: si appella alla Provvidenza divina, attribuendole la ragione del fatto che le stelle rimangano di fatto ‘fisse’.

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Unità 8 Newton Gli esiti dei Principia Risultati acquisiti

Unificazione di fenomeni diversi sotto un unico sistema di leggi fisiche universali Spiegazioni di fenomeni già osservati e descritti

Lacune

Alcune osservazioni astronomiche restano inspiegate La tesi delle stelle fisse è in contrasto con la teoria della gravitazione universale

Un’impresa immensa che ha fatto epoca

➥ Sommario, p. 484

Nonostante le questioni che lascia irrisolte, Newton riesce sicuramente nell’immensa impresa di presentare un vero e proprio sistema scientifico del mondo, fondato su risultati osservativi e principi matematici. Questo gli fu immediatamente riconosciuto dai suoi contemporanei, dalla maggioranza dei quali Newton venne visto come colui che aveva svelato la vera struttura dell’universo e la vera natura delle forze che agiscono in esso e delle leggi che lo regolano. Non a caso gli fu dedicata dal poeta Alexander Pope la seguente parafrasi dei primi versetti del libro della Genesi: «La Natura e le Leggi della Natura erano nascoste nella Notte, Dio disse, sia Newton! E Tutto fu Luce».

Suggerimenti bibliografici Una presentazione generale della figura di Newton e della sua opera scientifica si trova in N. Guicciardini, Newton: un filosofo della natura e il sistema del mondo, in «I grandi della scienza» n. 2, aprile 1998, in Newton e la meccanica celeste, Universale Electa Gallimard, Torino 1995 e in M. Mamiani, Introduzione a Newton, Laterza, Bari 1990. Per maggiori approfondimenti filosofici si possono vedere: Voltaire, La filosofia di Newton, Laterza, Bari 1968; A. Koyré, Studi newtoniani, Einaudi, Torino 1972; P. Casini, Filosofia e fisica da Newton a Kant, Loescher, Torino 1980; I.B. Cohen, La rivoluzione newtoniana, Feltrinelli, Milano 1982, e il capitolo dedicato a Newton nel I volume della Storia della scienza moderna e contemporanea, UTET, Torino 1988, diretta da P. Rossi. I brani antologizzati sono tratti da: I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, trad. di A. Pala, UTET, Torino 1965: p. 57 (T4), p. 101 (T7), p. 109 (T8), pp. 113-115 (T9), pp. 603-607 (T2), pp. 792-795 (T5), pp. 795-796 (T1 e T6). A. Pala, Isaac Newton, scienza e filosofia, Einaudi, Torino 1969, p. 16 (T3). Il brano citato a p. 475 è tratto da G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Einaudi, Torino1970, p. 285.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Sommario 1. IL

COMPLETAMENTO DELLA

«RIVOLUZIONE

SCIENTIFICA»

L’opera di Newton rappresenta la maturità della scienza moderna e viene a completare i risultati delle ricerche precedenti, da Copernico a Galilei, approdando a una teoria dinamica universale dei movimenti dei corpi. Tale teoria può essere considerata il risultato compiuto della rivoluzione scientifica. La meccanica di Newton è un edificio solido e che sarà destinato a durare nel tempo – entro certi ambiti le sue leggi sono accettate ancora oggi. Si tratta di una «meccanica razionale» rigorosamente fondata sull’osservazione empirica, ma altrettanto rigorosamente strutturata in teorie matematiche. Il contributo di Newton è fondamentale anche sotto l’aspetto metodologico: il suo richiamo all’induzione come fonte di conoscenza della natura e il suo rifiuto delle ipotesi non fondate sull’osservazione sono state un modello per gli scienziati che sono venuti dopo di lui. 2. NEWTON,

UN PERSONAGGIO COMPLESSO

Il profilo di Newton non è completo se si guarda solo all’attività scientifica per cui è passato alla storia. Molti sono stati i suoi impegni istituzionali, dentro e fuori dal mondo scientifico, dopo che, con la pubblicazione dei Principia (1687), lo scienziato inglese era diventato un personaggio pubblico di primo piano. Inoltre Newton ha svolto per tutti gli anni della maturità un’attività parallela di ricerche alchimistiche e di interpretazione della Bibbia, allo scopo di conoscere Dio e l’azione di Dio nel mondo, motivato da genuini, sentiti interessi teologici. Pur non avendo in alcun modo pubblicizzato, né rivelato queste sue attività, è certo che ha dedicato ad esse molto del suo tempo e ne ha lasciato una vasta testimonianza scritta. 3. LE

PREMESSE FONDAMENTALI DELLA SCIENZA

NEWTONIANA

Alla radice delle teorie di Newton ci sono i fondamentali risultati da lui ottenuti negli anni giovanili in tre diverse e importanti aree: lo studio matematico delle curve, l’ottica e la teoria della gravitazione. Newton fonda il calcolo infinitesimale con il suo calcolo delle fluenti e delle flussioni, che permette già – pur non disponendo degli strumenti matematici attuali – di calcolare l’area sottesa a una curva data e la sua tangente. Egli dà inoltre una prima formulazione di quello che sarà poi chiamato il «teorema fondamentale del calcolo», secondo cui le due operazioni citate sono l’una l’inversa dell’altra.

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Nel campo dell’ottica lo scienziato inglese scopre lo spettro dei colori e prova che l’ipotesi cosiddetta «modificazionista», condivisa da tutte le teorie fisiche dei colori allora esistenti, non è valida: le luci colorate non sono modificazioni della luce bianca, ne sono invece le componenti. La maggiore delle conquiste di Newton è infine la teoria della gravitazione universale, che dopo un lungo lavoro verrà presentata nei Principia nella forma compiuta di una legge matematica, universalmente applicabile. Con essa Newton unifica la meccanica celeste con quella terrestre: la spiegazione delle orbite dei pianeti con la spiegazione dei moti di caduta dei ‘gravi’ sulla Terra. 4. I PRINCIPIA

I Principi matematici della filosofia naturale – il capolavoro di Newton – sono una sistematica descrizione dell’universo fisico in termini meccanici, alla luce delle scoperte sue e dei suoi predecessori. Egli non la ritiene comunque esaustiva, perché nella meccanica mancano Dio e la sua azione nel mondo. Newton, che si sente ora per certi aspetti più vicino agli antichi che ai moderni, respinge il meccanicismo e lo stesso metodo analitico, che tratta lo studio delle figure geometriche con le tecniche dell’algebra, rinunciando a usare in modo esplicito il calcolo infinitesimale di sua creazione. Il punto di partenza dei Principia sono le definizioni dei concetti base della meccanica, a cominciare dallo spazio e dal tempo. La caratteristica particolare della teoria di Newton è la distinzione tra spazio e tempo assoluti e relativi. Per Newton il vero spazio e il vero tempo sono quelli assoluti, ma non sono osservabili direttamente; tuttavia egli porta un argomento per operare in modo osservabile una distinzione tra assoluto e relativo (l’esperimento del secchio ruotante). Definiti i concetti base, Newton formula le sue tre leggi del moto (assiomi della meccanica): la legge d’inerzia, la legge fondamentale della dinamica e il principio di azione e reazione. Sulla base di queste leggi egli costruisce tutta la sua teoria fisica fino ad arrivare al sistema del mondo con l’applicazione dei principi della meccanica all’astronomia e l’unificazione tra meccanica celeste e meccanica terrestre in virtù della legge di gravitazione universale. Nonostante alcuni risultati non corretti e alcuni problemi lasciati irrisolti, l’impresa compiuta da Newton è monumentale e suscita già nei contemporanei l’impressione di un risultato acquisito e di una svolta epocale.

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Parole chiave Cinematica. Descrizione dei moti dei corpi in termini di spostamenti, di velocità e di accelerazione; sotto l’aspetto della cinematica nella fisica moderna risultano fondamentali i contributi di Galilei. Dinamica. Descrizione dei moti dei corpi che ai termini cinematici aggiunge le forze che causano i moti; sotto questo aspetto è stato Newton il primo a porre le basi delle moderne teorie fisiche. Etere / Sostanza eterea. Sostanza presente in tutto l’universo, elastica e soggetta a contrazione e dilatazione; è simile all’aria ma più sottile. Newton utilizzò questa entità per spiegare una serie di fenomeni, tra cui – in un’ipotesi del 1675 su cui in seguito non insisterà – l’attrazione gravitazionale. Fluente / Flussione. Nella particolare terminologia della forma di calcolo infinitesimale elaborata da Newton per lo studio matematico delle curve, la fluente è la curva, concepita come spazio percorso da un punto in movimento, mentre la flussione è la tangente alla curva, concepita come velocità istantanea del movimento di un punto. Il concetto di fluente ha quindi ruolo analogo a quello rivestito dalla derivata della funzione, nel successivo calcolo differenziale e integrale. Il concetto inverso, denominato «integrale della funzione» nella terminologia odierna, è chiamato da Newton «flussione inversa». Gravità / Gravitazione / Attrazione gravitazionale. Per gravità s’intende, prima di Newton, la forza che determina la caduta dei corpi sulla Terra, mentre la gravitazione è il moto determinato dalla gravità. Newton elabora una teoria in cui l’attrazione gravitazionale, cioè la forza che fa cadere un corpo su un altro, diviene una caratteristica di tutti i corpi, quantificata secondo una legge universale (la legge di gravitazione universale): la caduta dei corpi sulla Terra e la ‘caduta’ (gravitazione) dei pianeti lungo le loro orbite intor-

no al Sole, insieme a tanti altri fenomeni, vengono così unificati in una sola teoria. Inerzia. La tendenza dei corpi a rimanere fermi o in uno stato di moto rettilineo uniforme se non sono soggetti a forze; è oggetto della prima legge della dinamica, detta anche «legge d’inerzia». Legge di gravitazione universale. Legge che determina la forza di attrazione gravitazionale tra due corpi qualsiasi nell’universo; la sua formula è F = G m1 m2 / r2 La scoperta di questa legge fisica da parte di Newton è uno dei massimi contributi alla scienza moderna che si siano mai registrati; in particolare essa ha permesso di unificare in un’unica formula la descrizione di un’immensa varietà di fenomeni, terrestri e celesti. Meccanica. Branca della fisica che si occupa della descrizione, spiegazione e previsione dei moti dei corpi materiali, in base a forze di diverso tipo; Newton definisce la branca delle sue ricerche «meccanica razionale» per sottolineare il carattere rigorosamente scientifico che si manifesta con l’espressione delle teorie in formule matematiche. Spazio assoluto e Tempo assoluto. Grandezze che, nei Principia di Newton, definiscono un sistema di riferimento unico per l’intero mondo fisico. Sono dette assolute in quanto non sono in relazione con altro di esterno a se stesse, fungono da contenitori di tutti i fenomeni fisici. Sulla base di questi concetti Newton ha definito anche il luogo assoluto (la parte occupata da un corpo nello spazio assoluto) e il moto assoluto (traslazione di luogo nello spazio assoluto). Tali concetti assoluti di Newton sono stati oggetto di controversie per il loro carattere non empirico: come ammette lo stesso Newton, non è possibile osservare direttamente né il tempo né lo spazio assoluti.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Questionario IL

COMPLETAMENTO DELLA

1

SCIENTIFICA»

4

5

6

Da che cosa è motivato l’interesse di Newton per l’alchimia? (max 3 righe) In che modo le nozioni meccaniche entrano nella particolare forma di calcolo infinitesimale elaborata da Newton? (max 4 righe) Perché la rifrazione della luce nel prisma dimostra che le teorie modificazioniste della luce non sono valide? (max 4 righe) Quali sono le due grandi aree di ricerca degli scienziati suoi predecessori che Newton unifica con la teoria della gravitazione universale? (max 2 righe) Perché quello della forza di gravità è stato ritenuto un concetto problematico? (max 2 righe)

Lavoriamo sui testi 10

Che cos’è per Newton un’ipotesi secondo T1? (max 3 righe)

11

Quale delle quattro regole del filosofare di Newton in T2 ci aiuta meglio a capire l’importanza della teoria della gravitazione universale? (max 2 righe)

12

Come vengono contrapposte da Newton le leggi della meccanica e l’azione di Dio in T5? (max 3 righe)

13

Che cosa significa per Newton in T7 «assoluto» (in espressioni come «tempo assoluto» e «spazio assoluto»)? (max 2 righe)

14

Nell’esperimento del secchio ruotante esposto in T8, qual è l’effetto inerziale considerato? (max 2 righe)

15

Quali sono le implicazioni della terza legge di Newton in astronomia secondo T9? (max 3 righe)

I PRINCIPIA 7

8

486

Perché Newton incontra delle difficoltà a far quadrare la sua teoria fisica con la tesi tradizionale delle stelle fisse (che pure vuole mantenere)? (max 3 righe)

UN PERSONAGGIO COMPLESSO

LE PREMESSE FONDAMENTALI DELLA SCIENZA NEWTONIANA 3

9

Che rapporto c’è nella fisica newtoniana tra l’induzione e le leggi della natura? (max 3 righe)

NEWTON, 2

«RIVOLUZIONE

Che cosa intende Newton nei Principia per «metodo sintetico»? (max 2 righe) Perché Newton ha bisogno di escogitare un esperimento come quello del secchio ruotante, per dimostrare l’esistenza dello spazio assoluto? (max 2 righe)

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Unità 9 Vico

1. 2. 3. 4. 5.

L’importanza di Vico Un personaggio isolato Contro Cartesio Storia sacra e storia profana Il corso della storia delle nazioni

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

I testi Principi di scienza nuova: L’errore nel giudicare il passato, T1; La conoscenza del mondo civile, T3; La provvidenza, T4; Il diritto naturale, T5; La teologia civile, T6; La storia

ideale eterna, T7; La provvidenza dà unità alla storia, T8 L’antichissima sapienza degli italici: Il vero e il fatto, T2

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

1

Con Vico nasce la filosofia della storia

È un errore applicare al passato le categorie del presente

T1

L’errore nel giudicare il passato

Principi di scienza nuova

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L’importanza di Vico Il pensiero di Giambattista Vico segna un importante momento nella riflessione sul passato che è maturata nel corso del Seicento. Anche per lo sviluppo della cultura erudita, infatti, il confronto con il passato diventa un tema importante della discussione filosofica. Ma la peculiarità di Vico consiste nel particolare carattere che viene assunto dallo studio del passato. Se nel corso del XVII secolo si ha una nuova rilevanza dell’erudizione che coinvolge molti problemi, a partire dalle difficoltà poste dalla stessa scansione del tempo data dalle Sacre Scritture – la questione della cronologia (vedi Unità 4, p. 203 s.) –, con Vico il confronto con il passato diventa una questione esplicitamente filosofica e non più solo riguardante l’utilizzo e l’affidabilità dei dati storici. Con Vico la storia viene vista sulla base di presupposti filosofici e metafisici che cercano di dare un preciso significato allo scorrere del tempo. In questo senso, il pensiero vichiano è la prima filosofia della storia dell’età moderna. La considerazione filosofica della storia da parte di Vico ha un insieme di caratteri che ne fanno un pensatore non soltanto originale per la sua epoca, ma ricco di elementi che avranno una notevole importanza, e verranno ripresi, nei secoli a venire. Rientra sicuramente in questa prospettiva il modo che Vico ha di guardare alle epoche passate e in particolare alle epoche che hanno avuto tratti radicalmente diversi dall’epoca moderna. Vico, infatti, è deciso nel sottolineare quanto possa essere fallace una prospettiva che proietti sul passato le concezioni del presente, ovvero, e qui si deve rilevare davvero l’acutezza del suo sguardo, che utilizzi le categorie e i concetti del presente per giudicare il passato. Il significato di questa tesi vichiana consiste nella necessità di cercare di entrare in una concezione del mondo e delle cose radicalmente diversa quando si prendano in considerazione culture differenti, lontane nel tempo. Si tratta di uno dei primissimi assiomi della sua teoria (ossia delle proposizioni su cui essa è fondata e la cui verità è immediatamente evidente), quelli che egli chiama «degnità», e che in questo caso hanno per fine l’individuazione di un basilare errore, appunto, di prospettiva. Alcune nazioni hanno infatti giudicato il passato ritenendo di essere loro le più antiche per dare a se stesse una collocazione storica più nobile, mentre i dotti hanno proiettato all’indietro i loro concetti e il loro livello intellettuale. Questo errore di prospettiva deriva inoltre da una tendenza caratteristica della mente umana: la tendenza a giudicare ciò che è lontano nel tempo e sconosciuto sulla base di ciò che è presente e di cui si ha conoscenza. La raffinatezza e il carattere illuminato della cultura moderna vengono così proiettati sulle culture passate e sulle origini del genere umano, delle quali Vico afferma invece la rozzezza e l’oscurità. È altra propietà della mente umana ch’ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti. Questa degnità addita il fonte inesausto di tutti gli errori presi dall’intiere nazioni e da tutt’i dotti d’intorno a’ princìpi dell’umanità; perocché da’ loro tempi illuminati, colti e magnifici, ne’ quali cominciarono quelle [le nazioni] ad avvertirle, questi [i dotti] a ragionarle, hanno estimato l’origini dell’umanità, le quali dovettero per natura essere picciole, rozze, oscurissime.

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Unità 9 Vico

Il pensiero di Vico è quindi anche un grande tentativo di guardare in modo nuovo a civiltà e a mondi distanti, di esaminare le epoche storiche come un insieme coerente di istituzioni di tipo diverso da quelle presenti, di considerare il mondo della fantasia e del mito che caratterizza le epoche più remote come qualcosa che ha proprie regole e propri meccanismi. Ma ciò significa anche che la conoscenza storica ha regole diverse dalla conoscenza scientifica, e quindi che il metodo razionale che domina il secolo di Cartesio non può essere unilateralmente esteso a tutti i tipi di conoscenza. Specificità L’originalità del pensiero di Vico consiste quindi nel mettere in discussione sia della conoscenza l’atteggiamento verso le epoche e le civiltà del passato, sia la pretesa di applicastorica re il metodo razionale a tutte le sfere del sapere. Contro il primo Vico sostiene la necessità di entrare nella prospettiva di un’epoca o di una cultura per comprenderla; contro il razionalismo cartesiano, la critica del quale è un elemento ricorrente della riflessione di Vico, egli sottolinea la specificità e l’autonomia della co➥ Sommario, p. 503 noscenza storica rispetto a quella scientifica.

La conoscenza della storia ha regole proprie

La vita e le opere Giambattista Vico nacque a Napoli nel 1668. Di famiglia povera, ebbe una formazione prevalentemente da autodidatta. Oltre che a studi letterari e filosofici, si dedicò allo studio del diritto romano e canonico e nel 1686 entrò in uno studio legale; nello stesso anno discusse e vinse la sua prima (e forse unica) causa per difendere il padre, libraio, che era stato chiamato in giudizio da un altro libraio. Accettò poi l’incarico di precettore privato presso il castello di Vatolla, nel Cilento, dove rimase per nove anni. Nel 1692 compose la canzone Affetti di un disperato, di ispirazione lucreziana, che fu pubblicata l’anno seguente. Tornato a Napoli nel 1695, nel 1699 sposò Teresa Caterina Sestito, dalla quale avrebbe avuto otto figli, e venne nominato professore di eloquenza all’università; poiché però l’onorario della cattedra era scarso, fu costretto a dare lezioni private di eloquenza e lettere latine. Tra il 1699 e il 1706 pronunciò sei prolusioni agli anni accademici, le Orazioni inaugurali, e nel 1708 l’orazione De nostri temporis studiorum ratione («Il metodo degli studi del nostro tempo»). Nel 1710 uscì il De antiquissima Italorum sapientia ex latinae linguae originibus eruenda («L’antichissima sapienza degli italici»), a cui seguirono sul «Giornale de’ letterati d’Italia» due Risposte dell’autore alle obiezioni di un recensore dello scritto. Nel 1716 fu pubblicato il De rebus gestis Antonii Ca-

2 Polemica con la cultura contemporanea

raphaei («Le gesta di Antonio Carafa»), biografia del maresciallo Antonio Carafa. Tra il 1720 e il 1721 apparve Il diritto universale, che comprendeva il libro De universi iuris uno principio et fine uno («Dell’unico principio e unico fine del diritto universale») e il libro De constantia iurisprudentis («La coerenza del giurista»). In essi furono definiti i temi che Vico avrebbe trattato nella sua opera maggiore, i Principi di scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni. Nel corso di questi anni ebbe, oltre alle difficoltà finanziarie e a problemi familiari (uno dei figli fu incarcerato e una figlia fu a lungo affetta da una grave infermità), la delusione di non ottenere la cattedra di diritto romano all’università di Napoli, per la quale concorse nel 1723. Nel 1725 uscirono la prima edizione della Scienza nuova e l’Autobiografia. Nel 1728 fu pubblicata la Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo e nel 1730 la seconda edizione della Scienza nuova. Nel 1732 fu nominato storiografo regio da Carlo di Borbone; dieci anni dopo lasciò l’insegnamento universitario. L’ultimo periodo della sua vita fu segnato dall’aggravarsi dei problemi economici e da crisi depressive, delle quali aveva sofferto fin dall’infanzia. Morì a Napoli nel 1744. Nello stesso anno fu pubblicata, postuma, la terza edizione della Scienza nuova, che non presenta differenze significative rispetto alla precedente.

Un personaggio isolato L’eccentricità di Vico è il frutto di una serie di circostanze storiche – e personali – che ne fanno un personaggio peculiare e atipico anche, come molte volte gli interpreti hanno rilevato, per il suo isolamento. Vico rivendica esplicitamente, infatti, questo suo carattere, dichiarando addirittura con orgoglio di essersi deciso abbastanza presto a «non legger più libri», quasi a testimoniare con maggior forza il suo atteggiamento polemico verso la cultura contemporanea. 489

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Critica del razionalismo

Provvidenza divina come protagonista

Centralità della dimensione storica

La scienza nuova: integrazione tra filosofia e filologia

Peculiarità della ‘filologia’

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Il razionalismo cartesiano è il suo principale obiettivo polemico, e verso i maggiori autori della filosofia moderna – Cartesio, ma anche Spinoza e Locke – Vico assume un atteggiamento di rifiuto e sostanzialmente sprezzante. Negli stessi studi che più direttamente interessano il suo pensiero, gli studi storici ed eruditi, Vico sembra non curarsi delle novità che emergono all’orizzonte, e affidarsi piuttosto a notizie e a studi che sono per il suo tempo irrimediabilmente arretrati. La grande protagonista della concezione vichiana della storia è la provvidenza divina, che le menti più fertili della cultura seicentesca, e ancor più del secolo successivo (del quale Vico accompagna il nascere), cercano di relegare ai margini degli eventi storici e naturali. Non è un caso che egli polemizzi con tutti i tentativi di vedere nel diritto naturale qualcosa di costruito sulla sola base della ragione umana. Se questo è il lato ‘arretrato’ di Vico, egli ha però saputo vedere e analizzare una dimensione, quella della storicità, che lo rende uno dei grandi, o forse il più grande precursore di una riflessione sul mondo umano, storico e sociale, che solo dopo vari decenni riconoscerà l’importanza del pensiero vichiano. Ciò avverrà quando la storia diventerà un argomento centrale della riflessione filosofica, a partire dalla fine del Settecento, come dimostra la riscoperta di Vico, per esempio, da parte della cultura romantica. L’isolamento di Vico è testimoniato anche dagli autori ai quali egli si richiama, che non sono autori contemporanei: nella Vita scritta da se medesimo egli dà indicazioni precise su quali siano i suoi punti di riferimento. Innanzitutto menziona Platone e Tacito (54/55-120 ca.), il primo perché considera l’uomo come deve essere, mentre il secondo per il motivo opposto, perché considera l’uomo come è. Attraverso questi due autori – un filosofo e uno storico – Vico vuole anche indicare una caratteristica centrale della scienza nuova che egli propone, come si intitola la sua opera maggiore, e cioè l’integrazione tra la filosofia e la filologia, tra la filosofia come scienza del vero, che individua le cause dei fenomeni, e la filologia come scienza del certo, ossia di ciò che può essere accertato riguardo al passato. Quest’ultima non è da intendersi nel senso della disciplina oggi così chiamata (il cui oggetto è lo studio dei testi), ma piuttosto nel senso di una conoscenza di dati che riguardano le lingue, i costumi, le leggi, le guerre, i commerci. La scienza nuova, che è scienza della storia come scienza del mondo umano, storico e sociale, deve cioè giovarsi dei dati storici, della filologia, ma deve essere in grado di interpretare questi dati storici in una prospettiva filosofica, collocandoli in un orizzonte più ampio. Filosofia e filologia devono essere cioè complementari, mentre finora – sostiene Vico – ci si è limitati ad approfondire soltanto uno dei due aspetti. Accanto a Platone, reinterpretato ovviamente in chiave cristiana, e a Tacito, gli altri autori ai quali Vico fa esplicito riferimento sono Bacone, per l’idea di una riforma del sapere, per il suo empirismo e per la sua capacità di rappresentare, come politico e come filosofo, l’unità di teoria e prassi, di pensiero e azione, e il giusnaturalista Ugo Grozio, che riesce ad avere una visione del diritto e delle istituzioni tanto universale quanto storica e, dunque, attenta al particolare. La critica del razionalismo cartesiano, il ruolo attribuito alla provvidenza divina nella storia e il riferimento ad autori del passato sono i tre elementi che fanno di Vico un filosofo isolato, e originale, nella cultura del suo tempo. L’originalità del-

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la filosofia vichiana è mostrata, del resto, dal fatto stesso che egli proponga la propria teoria come scienza nuova, nella quale per la prima volta la filosofia e la filologia non operano separatamente, ma si integrano l’una con l’altra.

La scienza nuova

Scienza nuova = Scienza del mondo umano storico e sociale

Essa nasce dall’unione di due discipline che sono state sempre separate

3

Filosofia

Filologia

Scienza del vero

Scienza del certo

È in grado di cogliere le relazioni di causa ed effetto tra i fenomeni

È conoscenza dei fatti relativi alla vita dei popoli (lingua, costumi, leggi, commerci, guerre)

Contro Cartesio

Il pensiero di Vico può essere visto come un’estrema appendice della Disputa sugli antichi e sui moderni (vedi Unità 4, p. 205 s.), dove però il filosofo non accetta la superiorità dei moderni, dei quali pure riconosce i grandi progressi scientifici, al contrario. Se alcuni, come Fontenelle, avevano celebrato il progresso della scienza e della razionalità moderne riferendosi esplicitamente a Cartesio, altrettanto esplicitamente Vico intraprende la strada opposta, polemizzando vivacemente con Cartesio, con il suo metodo e con l’idea che esso possa essere esteso a tutte le discipline. La scienza della natura Il senso di questa riflessione consiste da un lato nella rivendicazione dell’imporcome conoscenza tanza dello studio della società, dell’uomo e della storia, dall’altro nell’osservaincerta zione di quanto questo studio sia trascurato a vantaggio degli studi di fisica e di matematica. La critica di Vico a Cartesio ha come suo fondamento proprio l’idea che matematica e fisica siano due realtà omogenee, e che attraverso la matematica sia possibile conoscere la natura con la stessa certezza. L’idea che la natura sia un libro scritto con caratteri geometrici, come aveva sostenuto Galileo, è un’idea per Vico non solo falsa, ma pericolosa per l’atteggiamento ambizioso che induce nei confronti della natura e di Dio. La conoscenza della natura è qualcosa di difficile e da conseguire faticosamente attraverso un metodo sperimentale ed empiristico, sulla scia di Bacone: si tratta di un conoscere incerto e ipotetico perché la natura è stata creata da Dio, e non è possibile decifrarla compiutamente. Vico è insomma violentemente polemico verso la scienza moderna e verso il suo massimo teorico, Cartesio: la critica di Cartesio coinvolge infatti sia l’epistemologia (ossia la teoria della conoscenza) cartesiana sia la concezione della scienza. Critica della scienza moderna

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Critica dell’argomento del cogito

Il principio del verum ipsum factum

Differenza tra matematica e fisica

Pessimismo sulle capacità conoscitive dell’uomo

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Innanzitutto, la pretesa di Cartesio di dare un fondamento al sapere attraverso il cogito è per Vico destinata a fallire: lo scettico, contro il quale sarebbe diretto l’argomento del cogito, non dubita di esistere e di avere coscienza di questa esistenza di cui il pensiero è un segno. Ciò che lo scettico nega è che questa coscienza sia un sapere, una scienza: pur essendo cosciente del proprio pensiero, infatti, egli non ne conosce le cause, né conosce il processo attraverso il quale esso si forma. Inoltre, matematica e fisica hanno uno statuto profondamente diverso, al contrario di quello che pensa Cartesio (e con lui molti altri), perché mentre la natura è stata creata, cioè fatta, da Dio, la matematica e le figure della geometria sono fatte dall’uomo, sono costruzioni convenzionali e astratte alle quali nulla corrisponde nella realtà. Per questo nel caso della matematica possiamo avere una conoscenza rigorosa e sicura, mentre ciò non è possibile nel caso della fisica, cioè della scienza della natura. In questa distinzione tra matematica e fisica è contenuto anche un principio fondamentale della filosofia vichiana, quello per cui verum et factum reciprocantur, il «vero» e il «fatto» hanno relazione reciproca, ovvero verum ipsum factum, il vero è la stessa cosa di ciò che è fatto. Vediamo cosa ciò significhi. Il criterio vichiano della verità come conoscenza certa coincide quindi con ciò che viene fatto: la matematica è scienza certa e rigorosa perché tutti gli enti matematici sono costruzioni artificiali degli uomini, sono convenzioni che gli uomini adottano secondo regole che loro stessi escogitano. L’uomo costruisce un mondo di forme geometriche e di numeri che non hanno nessuna corrispondenza nella realtà, non rispecchiano minimamente la struttura del mondo reale, empirico. Si tratta di una costruzione umana all’interno della quale si può parlare di verità proprio perché la verità ha una relazione reciproca con la creazione di qualcosa, con ciò che si è in grado di fare. Si è in grado di conoscere davvero soltanto ciò che si è capaci di fare, di costruire. La tesi vichiana sulla differenza tra matematica e fisica nasce dal pessimismo sulle possibilità conoscitive dell’uomo. L’uomo non è in grado di conoscere la natura delle cose perché ha capacità limitate, e allora utilizza questo ‘difetto’ della propria mente costruendo elementi astratti che hanno due punti di partenza: il punto, che può essere disegnato e che è all’origine della geometria, e l’uno, che può essere moltiplicato e che è all’origine dell’aritmetica. E Vico lo dice chiaramente: si tratta di due entità fittizie, anche se poi l’uomo si arroga il diritto di prolungare le linee all’infinito e di moltiplicare l’uno indefinitamente. Man mano che ci si allontana dalla matematica e si contamina il nostro sapere con elementi esterni che non abbiamo costruito noi, come nella meccanica (che studia le leggi dell’equilibrio e del moto dei corpi) e nella fisica, altrettanto diminuisce la certezza della verità. Il grado di certezza della meccanica è inferiore a quello della matematica, ma è superiore a quello della fisica; la meccanica, infatti, studia il mondo naturale servendosi di costruzioni umane (le macchine). La fisica è la disciplina che si occupa di una natura fatta da Dio, non dagli uomini (come i numeri), e per questo il suo sapere è un sapere provvisorio, basato sull’osservazione sperimentale e sui dati dell’esperienza: non è la matematica a darci la conoscenza dell’ordine della natura. E il criterio cartesiano della chiarezza e distinzione è un criterio fallace di verità: vero non è ciò che concepiamo in modo chiaro e distinto, ma solo ciò che facciamo. E poiché la mente non crea se stessa, nemmeno di essa è possibile avere una conoscenza certa.

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T2

Il vero e il fatto L’antichissima sapienza degli italici

Sapere matematico e scienza della natura

[…] il criterio e la regola del vero consiste nell’averlo fatto. Dunque l’idea chiara e distinta della nostra mente, nonché di tutti gli altri veri, non può essere criterio nemmeno della mente: poiché la mente, quando si conosce, non si fa; e poiché non si fa, non conosce il genere o modo del suo conoscersi. Ora, essendo la scienza umana fondata sull’astrazione, le scienze sono tanto meno certe, quanto più si immergono nella corposità della materia, così la meccanica è meno certa della geometria e dell’aritmetica, poiché si occupa del moto, ma con l’ausilio delle macchine; la fisica è meno certa della meccanica. Principio del verum ipsum factum = Il vero è identico a ciò che è fatto

Si può avere una conoscenza certa solo di ciò che si è in grado di fare

La matematica è una scienza certa, perché gli enti matematici sono costruzioni della mente umana

Rifiuto della concezione meccanicistica della realtà

La scienza della natura (fisica) non è una scienza certa, perché la natura è fatta da Dio

Soprattutto inizialmente, Vico non trascura questioni metafisiche generali, e interpreta la realtà come costituita da punti metafisici, centri di forza immateriali dotati di capacità di movimento, il conato (la «virtù indefinita di muovere»), provocato da Dio. Per quanto riguarda la scienza della natura Vico rifiuta, insieme con l’impostazione cartesiana, gran parte delle conquiste della «scienza moderna», come il meccanicismo (concezione che spiega la realtà esclusivamente in termini di materia e movimento), il principio d’inerzia e le leggi del moto.

Dalla natura alla storia

Il mondo storico è fatto dall’uomo quindi è da lui conoscibile

Oltre al sapere certo delle matematiche, frutto della nostra costruzione, e al sapere provvisorio e incerto della scienza della natura, Vico ritiene però che il principio del verum ipsum factum abbia un altro importante campo di applicazione, e sarà in questa direzione che svilupperà il suo pensiero e lascerà un duraturo segno nella storia della filosofia. Questo nuovo campo di applicazione è la storia: il mondo storico è, infatti, opera dell’uomo. La prima verità della nuova scienza è proprio che il mondo storico e sociale – il mondo civile, contrapposto al mondo naturale –, è stato fatto dagli uomini, e quindi gli uomini sono in possesso dei principi sulla base dei quali possono conoscerlo. In esplicita polemica verso i sostenitori della scienza moderna, Vico rivendica la necessità di porre piuttosto attenzione a questa conoscenza, rispetto a quella di una natura che solo Dio (essendone il creatore) può conoscere. Vico trova anzi sorprendente il fatto che i filosofi si siano impegnati nel tentativo, vano, di conoscere il mondo naturale anziché nel perseguimento di un fine raggiungibile qual è la conoscenza del mondo civile. 493

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

T3

La conoscenza del mondo civile

Principi di scienza nuova

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4

[…] questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. L’applicazione del principio del verum ipsum factum conduce dunque a due conclusioni. La prima ha un carattere negativo: data l’identità tra il vero e ciò che viene fatto, e poiché autore del mondo naturale non è l’uomo ma Dio, della natura non è possibile avere una conoscenza certa e infallibile. La seconda conclusione ha, invece, un carattere positivo: il mondo civile è fatto dagli uomini ed è quindi un oggetto possibile di scienza. Ed è al conseguimento di tale scienza che l’impegno dei filosofi dovrebbe essere rivolto.

Storia sacra e storia profana Il dibattito sulla cronologia

Due tesi contro l’affidabilità della Bibbia

I criteri della priorità cronologica del popolo ebraico

I preadamiti

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Nella seconda metà del Seicento uno dei frutti di un gigantesco lavoro di erudizione della cultura europea è lo svilupparsi di un ampio dibattito sulla cronologia e in particolare sull’attendibilità della cronologia biblica. È a questo dibattito che si deve guardare se si vuole capire l’impostazione data da Vico alla sua ricerca sulla storia. L’erudizione, per quanto riguarda la cronologia del mondo, produce almeno due posizioni che vengono ritenute particolarmente pericolose per l’ortodossia religiosa: la negazione del carattere originario del popolo ebraico rispetto alle altre civiltà e l’affermazione dell’esistenza di uomini che avrebbero popolato la terra prima di Adamo, i cosiddetti preadamiti. Entrambe le tesi, evidentemente, mettono radicalmente in discussione il racconto del genere umano contenuto nella Bibbia e quindi la stessa affidabilità del testo sacro della religione cristiana. Per quanto riguarda la priorità del popolo ebraico, il tema viene affrontato da due studiosi, John Marsham (1602-1685) e John Spencer (1630-1693), che contestano decisamente la priorità cronologica del popolo ebraico rispetto agli egizi, aggiungendo a questa affermazione anche la tesi di un maggiore grado di civiltà del popolo egizio rispetto al popolo ebraico: alla raffinatezza egiziana viene infatti contrapposta la rozzezza della popolazione nomade ebraica. Molte usanze e credenze ebraiche, perfino quella nell’immortalità dell’anima, e molti culti religiosi vengono visti nascere tra gli egizi, sostenendo una loro successiva trasmissione alla cultura ebraica. La scandalosa tesi dell’esistenza di uomini prima di Adamo – il primo uomo creato da Dio, secondo il rapporto biblico – viene sostenuta da Isaac de La Peyrère (1596-1676) in un’opera dedicata appunto ai preadamiti che viene pubblicata nel 1655.

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Unità 9 Vico Critica della religione

Uno dei caratteri del dibattito sulla cronologia è l’ampio utilizzo che ne viene fatto in chiave di critica della religione da parte del pensiero libertino (vedi Unità 4, p. 203 s.) e del deismo inglese, per esempio da John Toland e da Matthew Tindal (16561733), tanto che nel XVIII secolo il rifiuto del racconto biblico nel significato in cui è stato per secoli indiscusso, quello letterale, è un fenomeno ampiamente diffuso. Una direzione analoga prende un testo corrosivo come il Dizionario storico-critico di Bayle. Oltre a mettere in discussione, anche in nome dello scetticismo, la cronologia biblica, esso propone la tesi altrettanto scandalosa della possibilità di una società di atei, ovvero del carattere non indispensabile della religione per una convivenza pacifica degli uomini (vedi Unità 4, p. 222 ss.). Le tesi critiche nei confronti della veridicità del racconto biblico non lasciano indifferenti, naturalmente, le autorità religiose, che le condannano aspramente, condannando anche, in modo ufficiale, i libri dei gesuiti che sostengono, parallelamente alle indagini su egizi, caldei e fenici, la possibilità di una priorità cronologica della civiltà cinese rispetto al popolo ebraico.

La frattura tra storia sacra e profana

Soluzione al problema della cronologia biblica: separazione tra storia sacra e storia profana

Fonte degli errori storici è la boria dei popoli e dei dotti

Quello appena delineato è il retroterra che deve necessariamente essere tenuto presente nell’affrontare la Scienza nuova di Vico, perché il filosofo napoletano intende la propria opera anche come un decisivo intervento in questo dibattito e una replica alla pericolosa critica dell’ortodossia che si va diffondendo. La soluzione di Vico consiste nel separare nettamente la storia sacra del racconto biblico, e quindi del popolo ebraico, dalla storia profana delle altre nazioni, le nazioni gentili, ovvero pagane. Vico riprende e difende le tesi ortodosse sulla priorità del popolo ebraico, l’unico che dopo il diluvio universale non si è corrotto e ha invece conservato la vera religione (quella cristiana), ma al tempo stesso ne stacca recisamente le sorti rispetto alla storia degli altri popoli, che costituiscono il vero e proprio oggetto della Scienza nuova e della sua riflessione sulla storia. La storia del popolo ebraico non ha bisogno di essere ricostruita, perché è già contenuta, e vera, nel racconto biblico. Se in questo modo Vico difende l’ortodossia religiosa dalle critiche rivolte alla veridicità dei testi sacri, può però offrire una ricostruzione della storia delle nazioni gentili completamente autonoma dalla storia sacra. Né l’autorità della storia sacra, né la priorità del popolo ebraico possono per Vico essere messe in discussione. La storia sacra è la più antica «di tutte le più antiche profane che ci son pervenute» e il primo popolo è stato il popolo ebraico, «di cui fu principe Abramo, il quale fu creato dal vero Dio con la creazione del mondo». E Vico cerca di spiegare le ipotesi errate che si sono fatte sulla origine della storia con due diversi argomenti accomunati dall’uso della nozione di «boria». La boria delle nazioni spiega i tentativi di porre all’origine della storia singole nazioni che cercano di nobilitare boriosamente, appunto, la propria discendenza, risalendo all’indietro nel tempo, e cercando così di affermarsi a spese del popolo ebraico. È un tema, questo della vanagloria delle nazioni, corrente, al tempo di Vico, e ampiamente utilizzato per attaccare chi mettesse in discussione la cronologia biblica. La boria dei dotti, invece, è l’atteggiamento vanaglorioso da cui deriva l’errore di proiettare alle origini della storia una sapienza che o è leggendaria o si è potuta formare solo nel corso del tempo. 495

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Distinzione tra storia sacra e storia profana

Storia

Sacra = Storia del popolo ebraico

Profana = Storia dei popoli pagani

Non è necessario farne una ricostruzione, perché è già stata narrata dalla Bibbia

È possibile farne una ricostruzione

La verità del racconto biblico è indiscutibile

Questa ricostruzione è l’oggetto della scienza nuova di Vico

La provvidenza e il diritto naturale La storia è la realizzazione del disegno della provvidenza

T4

La provvidenza

Principi di scienza nuova

Il diritto naturale è fondato sul senso comune

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La protagonista della storia è la provvidenza tanto per quel che riguarda la storia sacra quanto per quel che riguarda la storia profana, ma mentre per quanto concerne la storia sacra, cioè la storia degli ebrei, la provvidenza agisce con interventi anche straordinari (i miracoli), per quanto concerne le nazioni gentili la provvidenza agisce in modo «ordinario», cioè servendosi della natura e della natura umana. La provvidenza che si manifesta e che risulta efficace nella Scienza nuova è però, naturalmente, quella che riguarda i popoli pagani o gentili: si tratta cioè di una provvidenza che ha ordinato e architettato il mondo, la natura e l’uomo, e quindi l’andamento della storia, non di una provvidenza che opera interventi straordinari. Quest’ultima appartiene infatti alla storia sacra del popolo ebraico. La provvidenza è un disegno complessivo e costante che realizza il proprio fine, anche utilizzando le azioni degli uomini e i loro fini particolari, andando al di là di questi. Sono gli uomini che agiscono, ma è un disegno superiore che si realizza nel corso della storia. I fini degli uomini sono mezzi dei quali la provvidenza si serve per realizzare il proprio disegno, che include la conservazione dell’umanità sulla terra. Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di questa Scienza, dappoiché disperammo di ritruovarla da’ filosofi e da’ filologi); ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra. In questa base provvidenziale ha le sue radici anche il senso comune, un sentire radicato nell’umanità che Vico definisce come il giudizio «senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il gener umano»: una sorta di fondamento comune di tutti i po-

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poli che va al di là delle differenze specifiche e che è in grado di spiegare il fatto che idee analoghe e processi analoghi si verifichino tra popoli che non sono mai entrati in contatto. È il senso comune che dà la possibilità di esistere a un diritto naturale «delle genti», quindi comune a tutte le nazioni gentili.

T5

Il diritto naturale

Principi di scienza nuova

[…] un gran principio, che stabilisce il senso comune del gener umano esser il criterio insegnato alle nazioni dalla provvedenza divina per diffinire il certo d’intorno al diritto natural delle genti, del quale le nazioni si accertano con l’intendere l’unità sostanziali di cotal diritto, nelle quali con diverse modificazioni tutte convengono. […] Il diritto natural delle genti è uscito [sorto] coi costumi delle nazioni, tra loro conformi in un senso comune umano, senza alcuna riflessione e senza prender essemplo l’una dall’altra.

Il diritto naturale non è quello dei filosofi, o almeno non è soltanto, né soprattutto, quello dei filosofi giusnaturalisti: il giusnaturalismo è una dottrina filosoficogiuridica che afferma l’esistenza di diritti naturali (per esempio alla vita, alla libertà o alla proprietà), anteriori alle leggi positive e da queste distinti; perché la tutela di questi diritti possa essere garantita sono tuttavia necessari l’abbandono dello stato di natura e l’istituzione di un potere che regoli la convivenza tra gli individui. Le teorie dei giusnaturalisti come Grozio o Pufendorf sono a parere di Vico soltanto un aspetto del diritto naturale, quello teorico e riflessivo, ma anche quello più tardo. Più rilevante è il diritto naturale delle genti, ovvero delle nazioni pagane, fondato sulle disposizioni ordinarie della provvidenza (sullo sfondo c’è il diritto naturale degli ebrei, basato anche sugli interventi straordinari della provvidenza, ma non è questo al centro dell’attenzione). La scienza nuova Anche per quel che riguarda il diritto naturale emerge la polemica vichiana verè una teologia civile so il razionalismo – in questo caso verso le costruzioni razionali dei giusnaturalisti –, al quale si contrappone il senso comune, ovvero il fattuale sussistere di elementi comuni alle diverse nazioni e il radicamento di questi elementi in un disegno provvidenziale. La natura socievole dell’uomo, affermata contro Hobbes e guidata dalla provvidenza attraverso il senso comune e il diritto naturale, fa della Scienza nuova una «teologia civile»: una scienza di Dio fondata sul mondo civile fatto dagli uomini e «ragionata», ossia frutto della ragione dei filosofi e dei filologi. Critica del giusnaturalismo

T6

La teologia civile Principi di scienza nuova

[…] quella che regola tutto il giusto degli uomini è la giustizia divina, la quale ci è ministrata dalla divina provvedenza per conservare l’umana società. Perciò questa Scienza, per uno de’ suoi principali aspetti, dev’essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina.

La religione L’indagine storica sulla religione nella Scienza nuova

Il ruolo centrale della provvidenza non è l’unico aspetto della filosofia di Vico in cui si fa sentire l’importanza della religione, e nella Scienza nuova non svolge un ruolo solo la religione «vera», ossia la religione cristiana. Vico infatti non co497

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

struisce una filosofia cristiana della storia, proprio perché la storia della vera religione che ha origine con il popolo ebraico è già stata narrata dalla Bibbia, ma offre una ricerca sul cammino dell’umanità e delle nazioni gentili, ovvero dei popoli pagani, ricca di elementi sociologici e antropologici. Si tratta di delineare il percorso attraverso il quale dallo stato di solitudine degli uomini primitivi dopo il diluvio universale, dispersi e ridotti in uno stato ferino, si è giunti al ricomporsi di forme di cultura e di organizzazione sociale fino alla fondazione delle città, attraverso il mutare di tutte le forme istituzionali e sociali come il diritto, il governo, la lingua e la scrittura. Il mondo civile ha inizio Il primo passo del processo di civilizzazione, sempre su una base provvidenziacon la religione le, è per Vico l’esistenza di una religione, di una qualsiasi religione, che è la condizione essenziale della vita sociale. La religione ha origine nel terrore che gli uomini provano di fronte ai fenomeni naturali e che genera in essi l’idea di una divinità; nascono così i primi riti, si forma la moralità e si stabiliscono i legami sociali. Insieme con i matrimoni e le sepolture (che conducono al pensiero dell’immortalità), la religione costituisce uno dei tre principi della Scienza nuova: si tratta di «umani costumi» posseduti da tutti i popoli. Critica di Bayle Se la religione, qualsiasi tipo di religione, anche quelle false e idolatriche, è la condizione indispensabile della vita sociale, la tesi di Bayle che sia possibile una società di atei è una tesi non solo pericolosa, ma anche falsa. Vico lo afferma esplicitamente, accusando Bayle di proporre una tesi paradossale (sostenuta per procurare «smaltimento a’lor libri con mostruosi ragguagli») e affermando decisamente che «’l mondo civile cominciò appo tutti i popoli con le religioni». La critica del razionalismo, di cui Vico respinge il modello geometrico-matematico di conoscenza della natura, torna così nella filosofia della storia elaborata nella Scienza nuova. Essa è concentrata esclusivamente sulla storia profana, dal momento che la storia sacra è già stata ricostruita nei testi biblici, la cui veridicità è per Vico indiscutibile. Anche nella storia dei popoli gentili il filosofo vede la realizzazione del disegno della provvidenza divina e considera la religione un fattore indispensabile per il costituirsi della società. Ciò spiega perché Vico presenti la scienza nuova – scienza della storia umana che è guidata dalla provvi➥ Sommario, p. 503 denza – come una teologia civile.

5

Il corso della storia delle nazioni La storia ideale eterna

Uniformità del processo storico delle nazioni

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Come esiste un senso comune a tutti gli uomini che mostra contenuti analoghi in popoli distanti e diversi, così lo stesso processo storico ha per Vico caratteri uniformi nelle diverse nazioni. La considerazione filosofica, fondandosi sui dati della filologia (nel senso vichiano) che non è in grado di ricostruire il complesso tessuto delle cause e degli effetti, è infatti capace di cogliere il disegno di una storia ideale eterna, cioè di un percorso comune dei popoli. La storia ideale eterna è una sorta di schema a cui è riconducibile la storia delle singole nazioni, al di là delle differenze che ci sono tra esse.

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Unità 9 Vico

T7

La storia ideale eterna

Principi di scienza nuova

[…] qui la filosofia si pone a esaminare la filologia (o sia la dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall’umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, de’ costumi e de’ fatti così della pace come della guerra de’ popoli), la quale, per la di lei deplorata oscurezza delle cagioni e quasi infinita varietà degli effetti, ha ella avuto quasi un orrore di ragionarne; e la riduce in forma di scienza, col discovrirvi il disegno di una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni.

Sviluppo dell’individuo e sviluppo storico Parallelismo tra sviluppo dell’individuo e storia dei popoli Senso, fantasia, ragione

La storia dei popoli pagani ha inizio nello stato di bestialità

E Vico si spinge oltre, accostando e mettendo in parallelo lo sviluppo dell’individuo e lo sviluppo delle nazioni: le età della storia – età degli dèi, età degli eroi, età degli uomini – corrispondono infatti alle età dell’individuo, e vengono caratterizzate da certi elementi dominanti che ritroviamo nell’infanzia, nella giovinezza e nella maturità dell’individuo e dei popoli. In queste diverse tappe della formazione dell’individuo così come dei popoli gli elementi dominanti sono il senso per l’infanzia, la fantasia per la giovinezza e la ragione per la maturità: «Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura». Senso, fantasia e ragione sono presenti in tutte le età e in tutte le epoche, ma il carattere dell’età e dell’epoca viene dato da quale tra essi sia dominante. Il vero punto di partenza vichiano, per i popoli pagani, è però lo stato della terra dopo il diluvio universale. Qui sta il principio della «storia universal gentilesca» (che esclude il popolo ebraico), che segna il vero punto di partenza: all’origine della storia non sta una sapienza nascosta, ma l’irrazionalità dei «bestioni», lo stato ferino dell’umanità primitiva dispersa. Per questo Vico scrive, contro la boria dei dotti (e l’idea di un’età dell’oro quale condizione originaria del genere umano), che le origini dell’umanità dovettero essere «picciole, rozze, oscurissime» (vedi T1, p. 488). L’uscita da questo stato di bestialità è legata all’emergere di una pur rudimentale coscienza religiosa – come timore della divinità sotto forma di fenomeni naturali come i fulmini – e, successivamente, del pudore e dei primi germi di un’unione matrimoniale. È solo ora che prende avvio la storia come storia dei popoli e delle nazioni, e quindi le tre età dell’uomo.

Le tre età dell’uomo

Età degli dèi: dominio del senso Età degli eroi: dominio della fantasia

La caratterizzazione delle diverse età è in Vico estremamente ricca: infatti, oltre a darne i caratteri generali attraverso i tre elementi del senso, della fantasia e della ragione, Vico ritiene di individuare volta per volta anche specifici aspetti sociali, istituzionali o culturali che connotano le diverse epoche: ciascuna epoca ha una corrispondente forma di governo, di diritto, di lingua e di scrittura. Nell’età degli dèi tutto è sentito come divino, ed è la prima età post-ferinità in cui sono già presenti le istituzioni o gli umani costumi che caratterizzano la storia di tutti i popoli, ovvero la religione, i matrimoni, le sepolture. L’età degli eroi è l’età dove al dominio del senso subentra la fantasia, ed è l’età dei poemi omerici e della Roma dei re: gli eroi, che si presentano come discen499

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

denti dagli dèi, sono i protagonisti di questa età, come mostrano le figure di Teseo e di Achille. Una particolare importanza, in questo contesto, la riceve l’indagine sui poemi omerici, anche come contributo all’annosa «questione omerica»: Vico dedica infatti al tema un intero libro della Scienza nuova. Egli propone anche la tesi – oggi non più accettata – che Omero non sia né un poeta singolo né un personaggio immaginario, ma che i poemi omerici siano frutto di un lavoro corale, collettivo, del popolo greco. Età degli uomini: Le prime due età, età degli dèi ed età degli eroi, hanno caratteri per Vico marcatadominio della ragione mente comuni, per un legame stretto tra dimensione del senso e dimensione fantae nascita della filosofia stica e favolosa. La contrapposizione maggiore si ha quindi tra le prime due età da un lato e l’età degli uomini, ovvero della razionalità dispiegata, dall’altro, che si realizza nella Grecia classica, nel mondo romano repubblicano e nel mondo moderno: è ormai il mondo della uguaglianza tra gli individui. È qui che nasce una disciplina razionale come la filosofia, ovvero una metafisica esplicitamente razionale. Ma non è certo il mondo degli uomini moderni e razionali l’oggetto più approfondito nell’indagine vichiana: lo è piuttosto l’universo della sapienza poetica che caratterizza e accomuna l’epoca degli dèi e l’epoca degli eroi. Le tre età degli individui e dei popoli

Sviluppo dell’individuo

Sviluppo dei popoli

Dominio del senso

Infanzia

Età degli dèi (successiva all’uscita dallo stato di bestialità)

Dominio della fantasia

Giovinezza

Età degli eroi (epoca dei poemi omerici e della Roma dei re)

Dominio della ragione

Maturità

Età degli uomini (epoca della Grecia classica, epoca della Roma repubblicana ed epoca moderna)

Mondo della sapienza poetica

Nascita della filosofia

La sapienza poetica La sapienza media il rapporto tra dèi e uomini

La poesia nelle età degli dèi e degli eroi e la nascita del linguaggio

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È significativo che il libro più lungo della Scienza nuova vichiana sia dedicato proprio alla sapienza poetica. Qui Vico sviluppa la grande indagine antropologica sulle civiltà pagane, ovvero sulle nazioni gentili, nei loro elementi originari. Per la sapienza in generale torna innanzitutto il riferimento alla religione, poiché la sapienza funge in un certo senso da mediazione tra la, o le, divinità e gli uomini: la vera sapienza deve infatti insegnare «la cognizione delle divine cose» perché vengano di conseguenza ben condotti gli affari umani. La sapienza poetica è una sapienza di tipo particolare che caratterizza certe epoche storiche: è la sapienza dei poeti teologi, ossia degli uomini che vivono nell’epoca degli dèi e nell’epoca degli eroi. È la poesia, infatti, l’elemento decisivo delle epoche segnate dal senso e soprattutto dalla fantasia, dalla quale nasce il linguaggio. La poesia, sostiene Vico, non è altro che imitazione, e ciò spiega perché il linguaggio degli uomini nelle prime due fasi della loro storia sia un linguaggio poetico, fatto di similitudini, comparazioni, metafore: «I fanciulli vagliono potentemente nell’imitare». La poesia è la prima forma espressiva dell’umanità che non sia più in uno stato animalesco – il «bestione» – e infatti Vico ci dice che la sapienza, tra i gentili, ha origine dalla musa.

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Uno dei motivi che fanno dell’indagine vichiana sulla sapienza poetica un segno importante dell’acutezza del suo pensiero è l’attitudine assunta nel confronto con un passato ormai molto remoto. Sottolineare il carattere poetico della sapienza arcaica deriva per Vico dall’identificazione della poesia con il mito e con il mondo primitivo: si tratta di un mondo che ha una logica propria e che trova espressione in una serie di fenomeni che hanno ampio spazio nell’esposizione vichiana. Il mito non è da considerarsi come occultamento in forma di favola di una verità di tipo razionale; esso è, piuttosto, l’espressione autentica dell’atteggiamento che l’uomo, nelle prime due età della sua storia (e soprattutto nella seconda), ha verso il mondo naturale: un atteggiamento nel quale è dominante la fantasia, non la razionalità. Il mondo della sapienza L’analisi delle epoche come insiemi di fenomeni istituzionali e culturali riceve poetica sfugge nell’indagine sulla sapienza poetica una particolare attenzione. Vale la pena di alla logica moderna elencare la lunga lista degli elementi presi in considerazione, dove troviamo una metafisica poetica, una logica poetica, una morale poetica, una «iconomica» poetica, una politica poetica, una storia poetica, una fisica poetica, una cosmografia poetica, un’astronomia poetica, una cronologia poetica e una geografia poetica. Il mondo della sapienza poetica è insomma un mondo complesso e ricco: esso possiede meccanismi propri che possono essere capiti e interpretati soltanto una volta che si entri in questa prospettiva, senza sovrapporre ad essa modelli che sono nati soltanto secoli dopo. Il mondo arcaico come mondo ormai distante dall’uomo moderno non può cioè essere interpretato con le regole della logica moderna, pena l’incomprensione di esso. Il ruolo del mito e il rapporto tra uomo e mondo naturale

Corso e ricorso Il corso della storia delle nazioni che segue il processo delle tre età non è per Vico qualcosa che sia stabilmente e definitivamente acquisito. Vari fattori – come lo svilupparsi della corruzione o l’abbandono eccessivo al lusso – possono fare ripiombare l’umanità nella condizione iniziale dell’infanzia, e quindi nella necessità di ricostituire un processo di sviluppo. Vico sottolinea in tal modo la precarietà della civiltà umana: la razionalità che caratterizza il mondo moderno non è una condizione definitiva. Un esempio di questo genere di ricadute, che Vico chiama ricorsi, è il Medioevo (la «barbarie ritornata»), che pure ha anche il suo Omero nella poesia di Dante. La provvidenza Vico riprende il tema stoico di un carattere ciclico delle epoche e del tempo, ma, riconduce all’unità contrariamente a quello che alcuni interpreti hanno sostenuto, non ne accetta il le vicende umane carattere necessario e ripetitivo: pur sostenendo la necessità del passaggio di ogni popolo attraverso le tre età (degli dèi, degli eroi e degli uomini), Vico respinge la tesi deterministica secondo la quale il corso della storia è inevitabilmente ciclico. E questo anche perché la scansione delle tre epoche e delle diverse partizioni della storia umana, insieme con i possibili ricorsi intesi come ricadute in una barbarie primitiva e arcaica, è costantemente riportata all’unità di un disegno guidato dalla provvidenza.

Ciclicità della storia: la dottrina dei ricorsi

T8

La provvidenza dà unità alla storia Principi di scienza nuova

Le quali tre speziali unità [cioè le tre età del mondo], con altre molte che con loro vanno di séguito e saranno in questo libro pur noverate, tutte mettono capo in una unità generale, ch’è l’unità della religione d’una divinità provvedente, la qual è l’unità dello spirito, che informa e dà vita a questo mondo di nazioni. 501

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La ricerca di un percorso comune dei popoli

➥ Sommario, p. 503

Nella scienza nuova l’attenzione alle caratteristiche specifiche delle varie nazioni e ai molteplici aspetti che caratterizzano le diverse epoche è unita alla ricerca di un percorso comune a tutti i popoli. Da un lato, infatti, Vico insiste sulla necessità di assumere la prospettiva di ciascun popolo per comprenderlo e, in particolare, sull’impossibilità di capire il mondo arcaico applicando ad esso le categorie e i concetti dell’età moderna. Dall’altro, egli individua nella provvidenza divina – la guida della storia – ciò che dà unità ai percorsi dei singoli popoli.

Ciclicità della storia e rifiuto del determinismo

Storia delle nazioni

Il corso della storia è suddiviso in tre fasi (età degli dèi, età degli eroi, età degli uomini)

Ricorsi = Ricadute dell’umanità nello stato primitivo di barbarie

Il passaggio di ogni popolo attraverso le tre età è necessario

I ricorsi sono possibili, ma non necessari

La provvidenza riporta all’unità le tre età della storia umana e i suoi possibili ricorsi

Suggerimenti bibliografici Un’introduzione generale è offerta da N. Badaloni, Introduzione a Vico, Laterza, Roma-Bari 1988. Un’utile guida alla lettura della Scienza nuova è quella di L. Amoroso, Lettura della Scienza nuova di Vico, UTET, Torino 1998; più complessa quella di P. Cristofolini, La ‘Scienza nuova’ di Vico. Introduzione alla lettura, NIS, Roma 1995. Una monografia importantissima, che è stata aggiornata di recente e che fa il punto anche sui dibattiti degli ultimi anni è quella di P. Rossi, Le sterminate antichità e nuovi saggi vichiani, La Nuova Italia, Firenze 1999. Vedi inoltre le monografie di J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi: la sematologia di Vico, Laterza, Roma-Bari 1996, e di A. Battistini, Vico tra antichi e moderni, il Mulino, Bologna 2004. Sulle varie questioni del tempo e della cronologia sono da vedere il libro di P. Rossi, I segni del tempo. Storia della terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Feltrinelli, Milano 1979 e, in relazione al dibattito sui primitivi e i selvaggi, il bel libro di S. Landucci, I filosofi e i selvaggi 15801780, Laterza, Roma-Bari 1972. Naturalmente va ricordato il libro di B. Croce, La filosofia di G.B. Vico, Laterza, Bari 1911. I brani antologizzati sono tratti da: G.B. Vico, Principi di scienza nuova, 1744, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1990: parr. 7 (T7), 122-123 (T1), 145 e 311 (T5), 331 (T3), 342 (T6), 915 (T8) 1108 (T4). G.B. Vico, L’antichissima sapienza degli italici, in Id., Opere filosofiche, trad. e note di P. Cristofolini, introd. di N. Badaloni, Sansoni, Firenze 1971, p. 68.

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Sommario 1. L’IMPORTANZA

DI

VICO

Con Vico la riflessione sul passato sviluppatasi nel Seicento acquista i caratteri di una filosofia della storia, la prima dell’età moderna, poiché è tesa a ricercare il significato dello scorrere del tempo. L’originalità di Vico consiste nell’aver sottolineato che è un errore interpretare il passato secondo le categorie del presente. L’errore deriva dal desiderio dei popoli di nobilitare le proprie origini e dal desiderio dei dotti di nobilitare le proprie dottrine. Secondo una delle degnità della teoria vichiana occorre invece esaminare le culture passate assumendo la loro prospettiva. Contro il razionalismo cartesiano Vico sostiene che la conoscenza storica è autonoma rispetto a quella scientifica. 2. UN

PERSONAGGIO ISOLATO

La critica del razionalismo, contro cui Vico rivendica il ruolo centrale della provvidenza divina nella storia, e il riferimento ad autori del passato (Platone e Tacito), fanno di Vico un pensatore isolato nella cultura del suo tempo. La scienza nuova vichiana nasce dall’integrazione tra filosofia e filologia, che fino ad allora erano state separate. La filologia è intesa nel senso ampio di conoscenza di dati storici.

Vico individua la causa degli errori contenuti nelle varie ipotesi sull’origine della storia nella boria delle nazioni e nella boria dei dotti: le une tentano di nobilitare la propria discendenza riportando le proprie origini a un tempo anteriore a quello del popolo ebraico, gli altri tentano di nobilitare le proprie dottrine riconducendole alle origini della storia umana. La storia è la realizzazione di un disegno della provvidenza, che nella storia sacra opera con interventi straordinari e nella storia profana attraverso la natura e gli uomini. Il senso comune di cui la provvidenza ha dotato tutti i popoli pagani rende possibile un diritto naturale comune e la conoscenza certa di esso. Contro il razionalismo dei giusnaturalisti Vico sostiene che il diritto naturale è fondato sulle disposizioni della provvidenza. La scienza nuova, scienza della storia umana che è guidata dalla provvidenza, è dunque una teologia civile. L’importanza della religione emerge nella filosofia vichiana sia dall’attribuzione alla provvidenza di un ruolo centrale nella storia, sia dall’affermazione che la religione è una condizione necessaria per la vita sociale, contro la tesi di Bayle sulla possibilità di una società di atei.

3. CONTRO CARTESIO

Contro il metodo cartesiano Vico sottolinea la diversità tra matematica e fisica e la difficoltà di conoscere la natura. Poiché la verità è identica a ciò che viene fatto (verum ipsum factum), e possiamo conoscere solo ciò che facciamo, la matematica è una scienza certa, al contrario della fisica; la prima è infatti una costruzione umana, mentre la natura è creata da Dio. Vico respinge il meccanicismo e sostiene che la realtà è costituita da punti metafisici capaci di movimento, il conato, provocato da Dio. Il principio del verum ipsum factum viene applicato anche alla storia: il mondo storico, civile, è fatto dall’uomo; perciò si può averne una conoscenza vera. 4. STORIA

SACRA E STORIA PROFANA

Nel Seicento sorge un vivace dibattito sull’attendibilità della cronologia biblica, dal quale emergono due tesi pericolose per l’ortodossia: la negazione della priorità del popolo ebraico e l’esistenza di altri uomini prima di Adamo. La soluzione di Vico al problema della cronologia consiste nel separare la storia sacra (del popolo ebraico) dalla storia profana (dei popoli pagani). La prima è già stata narrata nella Bibbia, la cui attendibilità è indiscutibile; la seconda è autonoma e ad essa è rivolto l’interesse di Vico.

5. IL

CORSO DELLA STORIA DELLE NAZIONI

Sulla base dei dati raccolti dalla filologia la filosofia è in grado di ricostruire il percorso comune a tutti i popoli, ossia la storia ideale eterna. Lo stato originario dei popoli pagani è uno stato di bestialità, l’uscita dal quale avviene grazie al formarsi della coscienza religiosa. Lo sviluppo dei popoli è, secondo la teoria di Vico, parallelo a quello degli individui e avviene in tre fasi: l’età degli dèi (infanzia, in cui domina il senso), l’età degli eroi (giovinezza, in cui domina la fantasia) e l’età degli uomini (maturità, nella quale è dominante la ragione). L’attenzione di Vico è rivolta alle prime due età, entrambe caratterizzate dalla sapienza poetica. Questo tipo di sapienza si esprime attraverso la poesia, che Vico identifica con il mito. Il mondo arcaico della sapienza poetica è governato da regole proprie, diverse da quelle della logica moderna, e solo assumendone la prospettiva lo si può comprendere. Il passaggio di ogni popolo attraverso le tre età è necessario e sono sempre possibili i ricorsi, ossia le ricadute dell’umanità nella barbarie primitiva. Vico respinge però la tesi deterministica secondo cui tali ricadute sono inevitabili: le tre fasi di sviluppo di ogni popolo e i possibili ricorsi sono ricondotti all’unità dal disegno della provvidenza.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Parole chiave Boria dei dotti / Boria delle nazioni. Vanagloria dei sapienti: proietta alle origini della storia umana una sapienza che è invece leggendaria o si è formata in tempi successivi; vanagloria dei popoli, proietta la propria origine in un’epoca antecedente al popolo ebraico, per nobilitare la propria discendenza. Conato. Capacità di movimento di cui sono dotati i punti metafisici, dai quali è costituita la realtà; il loro movimento è provocato da Dio. Degnità. Termine con cui Vico indica gli assiomi della scienza nuova, ossia le verità immediatamente evidenti sulle quali essa è fondata. Filologia. Termine che Vico intende in un senso più ampio rispetto a oggi: essa è scienza del certo, conoscenza di fatti e dati concernenti la vita dei popoli. Non individua le relazioni causali tra i fenomeni. Ricorsi. Le possibili ricadute dell’umanità nello stato di barbarie precedente la civiltà. Sapienza poetica. È un tipo particolare di sapienza che si esprime attraverso la poesia e caratterizza le epoche della storia umana dominate dal senso (età degli dèi) e dalla fantasia (età degli eroi). Del mondo della sapienza poetica Vico sottolinea la ricchezza e

la complessità, che rendono la logica moderna del tutto inadeguata a comprenderlo. Scienza nuova. È la scienza della storia e del mondo umano. Essa nasce dall’integrazione tra due discipline che fino all’epoca di Vico sono state separate, ossia la filologia e la filosofia: l’una, scienza del certo, fornisce i dati storici; l’altra, scienza del vero, dà un’interpretazione di essi ed è in grado di comprendere i rapporti causali tra i fenomeni. Senso comune. Nella teoria di Vico è una sorta di sentire comune, un giudizio non riflessivo che costituisce il fondamento del genere umano e spiega il fatto che ci siano elementi analoghi nella vita di popoli diversi. Il senso comune, di cui la provvidenza ha dotato tutti i popoli gentili, rende possibile il diritto naturale e la conoscenza certa di esso. Storia ideale eterna. È il percorso comune a tutti i popoli, che la filosofia (servendosi dei dati della filologia) è in grado di ricostruire. Essa è una sorta di schema a cui può essere ricondotta la storia dei singoli popoli, nonostante le differenze tra essi. Teologia civile. Con questa espressione Vico definisce la scienza nuova; essa è infatti scienza della storia umana, ossia del disegno della provvidenza divina.

Questionario L’IMPORTANZA 1

UN

DI

VICO

In cosa consiste l’originalità della riflessione di Vico sulla storia? (max 2 righe)

PERSONAGGIO ISOLATO

2

Spiega in un massimo di 5 righe quali aspetti del pensiero di Vico ne fanno un filosofo isolato nel dibattito seicentesco.

Lavoriamo sui testi 8

Quali differenze emergono da T3 tra il mondo naturale e il mondo civile? (max 4 righe)

9

Qual è in T4 il rapporto tra i fini dell’uomo e quelli della provvidenza? (max 2 righe)

10

Perché Vico definisce la scienza nuova «teologia civile ragionata della provvedenza divina» in T6? (max 2 righe)

11

Qual è il ruolo attribuito da Vico in T7 alla filosofia nella scoperta del disegno di una storia ideale eterna? (max 3 righe)

CONTRO CARTESIO 3

STORIA

IL

Qual è l’obiezione di Vico all’argomento cartesiano del cogito? (max 5 righe) SACRA E STORIA PROFANA

4

Spiega in un massimo di 5 righe la soluzione di Vico al problema della cronologia biblica.

5

Quali sono i principi della Scienza nuova? (max 1 riga)

CORSO DELLA STORIA DELLE NAZIONI

6

Qual è l’elemento comune alle prime due età della storia? (max 1 riga)

7

Quali sono le conseguenze dei ricorsi della storia? (max 2 righe)

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Strachan Kirkcaldy Glasgow Drumalig

Edimburgo

Oxford Bristol

Cambridge Londra

Leida L'Aia

Amsterdam Utrecht Dort

Ambu Brunswi Dessau

Ha

Marburgo

Saint Malo

Ermenonville Beaugency

La Flèche

Francoforte Ribemont Reims Castello di Cirey Parigi Heidesheim Bourg-La-Reine Monac Langres Basilea Zurigo Ginevra Lione

La Brède

Grenoble

Milano

Torino Parma Montpellier Firenze

Rom

Na

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San Pietroburgo

Mosca

Königsberg Amburgo Brunswick Berlino Potsdam Kamenz Halle

Varsavia

Dessau

o

Breslavia

ey desheim Monaco

Praga

Vienna

Introduzione L’età dei lumi Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia Unità 11 L’Illuminismo in Francia Unità 12 Rousseau

a

Percorso tematico È legittimo resistere al potere politico? Firenze

Roma

Napoli

Unità 13 L’Illuminismo in Italia e in Germania Unità 14 Kant Percorso tematico Meccanicismo o teleologia? Laboratorio sul lessico Dovere

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Introduzione L’età dei lumi

1. 2. 3. 4. 5.

Una periodizzazione L’ascesa della borghesia La nuova diffusione della cultura La scienza e la divulgazione I temi filosofici

♦ La parola al critico: Belaval legge l’Illuminismo

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Parte seconda Il secolo dei lumi

1 La filosofia del XVIII secolo

L’abbandono del latino nelle università

Stesso movimento, caratteristiche nazionali diverse

➥ La parola al critico, p. 514

2

Una periodizzazione L’età dell’Illuminismo tende a coincidere con il XVIII secolo e si conclude con la rivoluzione filosofica di Immanuel Kant (1724-1804), che segna un punto di svolta non soltanto del secolo, ma dell’intera tradizione filosofica moderna. Mentre è relativamente agevole individuare il termine della parabola illuministica nella fine del Settecento – la Critica della ragion pura di Kant viene pubblicata nel 1781 e di pochi anni dopo è il suo articolo Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, in cui egli pone esplicitamente in relazione il suo progetto filosofico con il movimento illuministico (vedi Unità 14, p. 644) – più difficile è indicarne l’inizio, che è diverso da Paese a Paese. In generale, si può indicare l’inizio del movimento illuministico europeo nell’ultimo quindicennio del Seicento: è nel 1687 che Christian Thomasius (16551728) comincia le sue lezioni in lingua tedesca – invece che in latino – presso l’università di Lipsia. L’inizio dell’Illuminismo, se si accetta questa data convenzionale, è significativamente segnato dall’uso di una lingua comune, il tedesco, in contrapposizione alla lingua esclusiva dei dotti, il latino: la cultura deve essere diffusa, insomma, non deve essere la prerogativa di una cerchia ristretta. Si tratta però di una data convenzionale che non tutti gli studiosi accettano, e che comunque non potrebbe essere estesa al di fuori della Germania, poiché i caratteri dell’Illuminismo tedesco non sono gli stessi di questo movimento in altri Paesi. Più che di Illuminismo si deve quindi parlare di Illuminismi, a meno di non vedere nella forma particolare assunta in un dato Paese l’Illuminismo più genuino, come si è fatto per lungo tempo, indicando nella Francia il Paese illuministico per eccellenza. Ma vediamo ora, di questo movimento, i tratti comuni, e più generali.

L’ascesa della borghesia

Lo sviluppo del movimento illuministico europeo è legato a fattori storici che devono essere rapidamente menzionati. L’età dei lumi, infatti, è l’età in cui la borghesia si propone come nuova classe dirigente: essa si avvia a diventare – o è già diventata, in qualche Paese – la protagonista dello sviluppo economico e culturale, pur, anche qui, con differenze nazionali estremamente marcate. Un filosofo nuovo, A questa modificazione della struttura sociale corrisponde la modificazione interessato alla prassi della figura stessa del filosofo, che in buona parte del continente europeo – in Inghilterra, in Francia e nei pochi focolai di Illuminismo italiano – è l’uomo colto, informato, che anche quando proviene dalla nobiltà condivide le aspirazioni della classe borghese e le promuove, sottolineando l’importanza delle attività produttive e delle arti, anche meccaniche (ossia le attività pratiche e tecniche), quando le si confronti con il carattere parassitario e inerte della nobiltà e delle corti. In Germania la situazione è un po’ diversa: i centri dell’Illuminismo sono le università, o tutt’al più una parte del clero protestante, sia per un’effettiva arretratezza della classe borghese tedesca sia per l’ignoranza culturale della nobiltà.

Borghesia e cambiamento sociale

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Introduzione L’età dei lumi

3 Nuovi compiti e strumenti per i ceti intellettuali

Traduzioni e formazione di un’opinione pubblica europea

La diffusione dei libri

4 La rivoluzione nelle scienze naturali

Linné e Buffon

Mutamenti sociologici legati alle scienze naturali

La nuova diffusione della cultura La produzione e la diffusione della cultura subiscono modificazioni notevoli che inducono un nuovo atteggiamento: uno dei caratteri principali dei «lumi» – in Francia più che altrove – consiste proprio nella nuova diffusione delle idee e nella convinzione che questa diffusione sia uno dei compiti dei ceti intellettuali. Si diffondono le sale di lettura, le società scientifiche e le accademie erudite, e si assiste al nascere e al moltiplicarsi di riviste di varia natura che promuovono – talvolta con grandi difficoltà – la comunicazione delle conoscenze e la loro diffusione. Inoltre, prendono sempre più piede in tutta Europa – un altro elemento significativo – le traduzioni di testi stranieri, che costituiscono un importante mezzo di circolazione del sapere al di là dei confini nazionali. Nel corso del Settecento si forma, insomma, una opinione pubblica, uno scambio di idee che avvengono in pubblico e tra il pubblico, e al quale gli interessati possono partecipare, come testimonia il grande incremento della vendita di libri, di riviste, di opuscoli e di giornali. Sono significativi anche i dati che a una prima occhiata sembrano soltanto esterni: ancora fino alla metà del secolo, nelle case si trovano, in generale, pochi libri, che magari vengono letti e riletti, mentre nella seconda metà si assiste a una vera «rivoluzione della lettura», che moltiplica il numero dei libri in circolazione, e all’estensione delle biblioteche private: circolano ormai numerosi i giornali, i romanzi, la letteratura per l’infanzia, i libri di viaggi e perfino i libri di storia naturale e di divulgazione scientifica.

La scienza e la divulgazione Il grande padrino scientifico del secolo è certamente Newton, al quale si riferiscono tutti i maggiori pensatori, ma si assiste a novità scientifiche che diventano rilevanti anche sul piano sociologico, anche perché si accompagnano a una notevole divulgazione. Un esempio significativo sono le scienze naturali. La classificazione delle specie da un lato e la storia naturale dall’altro – due discipline per certi versi opposte, l’una astorica e l’altra fondata sull’idea di sviluppo – hanno il loro inizio e una notevole diffusione nel corso del Settecento: Carl Linné (1707-1778) pubblica nel 1740 il suo Sistema della natura e crea un sistema di classificazione per le piante e gli animali, e Georges Louis Leclerc de Buffon (1707-1788) comincia a pubblicare nel 1749 la Storia naturale, dove emerge l’idea che anche la natura abbia una sua «storia» che risale molto indietro nel tempo, ben più indietro di quanto sembra affermare la Bibbia. Questa dilatazione dei tempi naturali si salda con le conclusioni del dibattito seicentesco sulla cronologia della storia umana (vedi Unità 4, p. 203 s.). Nel loro complesso, questi mutamenti nel modo di concepire la natura influenzano in maniera rilevante la percezione di sé e del proprio ruolo nel mondo da parte dell’uomo. Oltre a ciò, in questi anni – a Parigi proprio grazie a Buffon – il pubblico co511

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Parte seconda Il secolo dei lumi

mincia a essere ammesso nei giardini zoologici e botanici, e la botanica va incontro a un grande successo, tanto che si è parlato di una vera e propria moda, la «botanofilia del XVIII secolo»: è un filone che prende piede anche tra le donne, escluse da molte altre attività. Alla fine del secolo, i libri di divulgazione scientifica sono, con i romanzi, tra le letture più diffuse.

5 Con poche eccezioni, filosofi non originali

La ragione e i suoi limiti

La critica della metafisica

La questione della felicità e l’accento sull’antropologia

La critica alla religione ufficiale e il richiamo alla tolleranza

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I temi filosofici Visti alcuni elementi della società e della cultura settecentesca, prendiamone in esame i caratteri più specificamente filosofici. Al di là di molte differenze nazionali, è infatti possibile tracciare alcune linee essenziali che caratterizzano la filosofia dell’Illuminismo, a partire dal fatto che, salvo qualche eccezione – Hume e Rousseau e, sopra tutti, Kant – i filosofi illuministi non sono filosofi di grande originalità teorica, e sono in buona parte ispirati dalle grandi filosofie del secolo precedente. Un luogo comune – non necessariamente falso – vede nell’Illuminismo il trionfo della «ragione». Certo l’Illuminismo ha fiducia nella ragione umana e la pone al centro dell’orizzonte come facoltà critica che deve essere indipendente dall’autorità e dalla tradizione, ma non si tratta certo di una ragione onnipotente. Con pochissime eccezioni (una è Christian Wolff), tra i compiti che il pensiero illuministico affida alla ragione – e agli stessi «lumi» – c’è quello inaugurato da Locke e che giungerà fino a Kant: stabilire le capacità della ragione umana individuando anche quei limiti che essa non deve oltrepassare, come fa quando pretende di conoscere gli oggetti tradizionali della metafisica (come l’anima o Dio). La celebrazione della ragione coincide con l’indagine e con la sottolineatura dei suoi limiti, senza dimenticare che molti filosofi del Settecento rivalutano esplicitamente anche la natura «passionale» e «sentimentale» dell’uomo. Comune a gran parte dei filosofi illuministi, infatti, è proprio la polemica verso la metafisica, o almeno verso i grandi sistemi metafisici del passato: in modi diversi, attraverso il richiamo a forme di empirismo, alla necessità di un rinnovamento culturale e sociale o al significato pratico della riflessione filosofica, i filosofi illuministi sono insofferenti verso le costruzioni metafisiche astratte, ritenute lontane dalla vita concreta degli uomini. Tra i problemi della vita concreta degli uomini occupa un posto privilegiato la questione della felicità, magari interpretata in modi molto differenti. Non c’è dubbio, infatti, che la questione della condizione dell’uomo e della sua felicità sia un tema discusso da tutti i filosofi illuministi, molti dei quali vedono in essa il fine dell’esistenza: anche questo è il segno del passaggio all’antropologia, ovvero allo studio di una dimensione concretamente umana come caratteristica generale del XVIII secolo. L’analisi critica della religione è un altro grande tema dell’Illuminismo: in tutti i Paesi si criticano le varie forme di ortodossia e di potere ecclesiastico, con le quali gli illuministi entrano di frequente in conflitto. Al centro delle battaglie illuministiche c’è spesso l’idea di una religione naturale che non deve entrare in conflitto con la ragione e che accomuna uomini di diverse fedi. Da questa impostazione nasce il costante richiamo alla tolleranza e al riconoscimento del pluralismo religioso. La tolleranza è un valore condiviso da Locke e Hume, da Voltai-

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Introduzione L’età dei lumi

Il dispotismo illuminato e il paternalismo

Illuminismo e Illuminismi

re e Rousseau e da Moses Mendelssohn (1729-1786) e Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781). In alcuni casi – soprattutto in Francia – la critica della religione va però anche oltre, con esplicite posizioni materialistiche e atee, anche attraverso la circolazione di manoscritti clandestini. Sul piano politico, l’Illuminismo non è rivoluzionario, ma promuove un programma di rinnovamento e di riforme politiche, sociali e amministrative per realizzare le quali ci si affida spesso ai sovrani «illuminati». L’idea di un dispotismo illuminato che si occupi del benessere dei cittadini – con il paternalismo che questo comporta nei loro confronti – è teorizzata in Germania da Wolff, ma la collaborazione con i sovrani viene cercata anche da personaggi di prima grandezza come Voltaire (con Federico II di Prussia) o Diderot (con Caterina di Russia). Ci sono dunque condizioni storiche e temi filosofici comuni dell’Illuminismo europeo. Nonostante questo, i singoli Illuminismi dei diversi Paesi hanno tempi e contenuti diversi: in essi, i tratti generali assumono configurazioni specifiche.

Suggerimenti bibliografici Un libro classico che interpreta il passaggio tra Seicento e Settecento come una «crisi della coscienza europea» è quello di P. Hazard, La crisi della coscienza europea, Il saggiatore, Milano 1983. Un profilo generale e rapido, con molta attenzione per la «mentalità» illuministica è quello di D. Outram, L’Illuminismo, il Mulino, Bologna 2006. Utili anche F. Valjavec, Storia dell’Illuminismo, il Mulino, Bologna 1973; P. Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, il Mulino, Bologna 1987; N. Hampson, Storia e cultura dell’Illuminismo, Laterza, Bari 1969; L. Guerci, L’Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, UTET, Torino 1988. Per la storia delle interpretazioni vedi A. Santucci, Interpretazioni dell’Illuminismo, il Mulino, Bologna 1979. Per quanto riguarda in particolare gli aspetti filosofici, rimane un punto di riferimento il libro di E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, presentazione di R. Pettoello, Sansoni, Firenze 2004; ma vedi anche P. Casini, Introduzione all’Illuminismo. Da Newton a Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1973 e, dello stesso autore, Scienza, utopia e progresso. Profilo dell’Illuminismo, Laterza, RomaBari 1994. Sull’Illuminismo è disponibile anche un dizionario: L’Illuminismo. Dizionario storico, a cura di V. Ferrone e D. Roche, Laterza, Roma-Bari 1998.

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La parola al critico Belaval legge l’Illuminismo Un grande storico francese della filosofia, Yvon Belaval (1908-1988), tratteggia in questo brano i caratteri essenziali della filosofia del secolo dei lumi, mettendo in luce il suo profondo debito verso i filosofi classici del secolo precedente e al tempo stesso le sue novità: tra queste, la necessità di trovare una nuova collocazione per l’uomo, dopo la crisi della metafisica. I grandi esiti del secolo saranno la filosofia di Kant e la Rivoluzione francese.

I caratteri essenziali dell’Illuminismo da Y. Belaval, Le siècle des Lumières

Il filosofo come honnête homme

Fine della metafisica classica e razionalismo scettico

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Probabilmente il XVIII secolo si colloca tra il 1685 e il 1785, pressappoco tra Newton, Locke, Bayle, che aprono il secolo, e Kant, che ne risolve e supera, in gran parte, le difficoltà filosofiche […]. Ci si guardi, per prudenza, dal tradurre l’una con l’altra le parole Enlightenment, Lumières, Aufklärung: al contrario che nelle Lumières, lo Enlightenment non ha quasi da lottare contro l’intolleranza («un inglese, da uomo libero, va in cielo per la via che preferisce», osserva Voltaire), e la Aufklärung non ha una vocazione antireligiosa. […] La fisionomia del filosofo si trasforma: meno teologo […], meno dotto […], egli è sempre più lo honnête homme che si tiene al corrente del progresso delle scienze, prende posizione in tutte le dispute […], si appassiona per le questioni politiche nella teoria […] o con l’azione (Voltaire sempre sulla breccia) – e, soprattutto, diventa uomo di lettere: la filosofia, ormai, si esprime con i racconti, con il teatro (Voltaire, Diderot, Lessing), con i romanzi (Rousseau, Jacobi). Dappertutto si discute di estetica, della quale, con Baumgarten (1750), si sognerà di fare una scienza. Il tratto fondamentale del XVIII secolo è che si assiste alla fine della metafisica classica. […] Con Descartes, l’idea vera, divenuta immanente allo spirito umano, non doveva la sua verità che alla veracità divina che l’aveva messa in noi «come il marchio dell’operaio impresso sulla sua opera»; la verità metafisica di un’essenza si ricollega, quindi, al suo carattere innato. Locke conserva l’immanenza e distrugge l’innatismo; le idee, dunque, non possono che derivare dai sensi, e questo vecchio adagio non ha più il significato scolastico che rimandava a un formalismo aristotelico; le idee, con Locke […], non sono più che psicologiche, dei «quadri dipinti nel nostro cervello». Non è più questione, allora, di conoscere le sostanze e le cause, oggetto della metafisica: noi non conosciamo che degli accidenti e degli effetti, o, in una parola, dei fenomeni. Al dogmatismo succede un razionalismo scettico.

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Introduzione L’età dei lumi La centralità dell’esperienza

I limiti della matematica

Induzione e analisi

Un metodo fondato sull’osservazione

Il materialismo ➥ Percorso tematico, p. 187

Dal meccanicismo alla materia vivente

L’esperienza! Ecco la parola-chiave. Attenersi all’esperienza! Newton si vanta di non formulare ipotesi. Locke si rifiuta di scrivere il romanzo dell’anima, preferisce scriverne la storia. Come Locke, Bayle impara a dubitare mostrando, attraverso l’osservazione storica, che nessun sistema resiste alle contraddizioni. Si crede in Dio? Questa fede non ci salva dalla nostra fragilità: dato che si tratta di conoscenze non verificabili, dubitare è un dovere. La ricerca della verità, nell’ambito dell’esperienza, non ha altra risorsa che il metodo induttivo; si invoca Bacone, «il padre della filosofia sperimentale». Ma le matematiche, che avevano servito da modello al secolo precedente? L’abbiamo già detto: Newton le utilizza con uno spirito diverso da quello di Descartes: esse sono per lui il linguaggio della misura. […] È il caso dell’astronomia dove gli astri si semplificano con la distanza fino a non apparire che quasi come dei punti: di qui il successo della meccanica celeste. Le cose non vanno così per il mondo sublunare. «Quando gli argomenti sono troppo complicati perché si possano applicare con vantaggio il calcolo e le misure, come sono quasi tutti gli argomenti della storia naturale – scrive Buffon – mi sembra che il vero metodo di condurre lo spirito in queste ricerche sia di ricorrere alle osservazioni». E, con Buffon, Diderot proclama che «il regno delle matematiche è finito». Ma torniamo all’induzione. L’induzione è analitica. Di qui la duplice ossessione del XVIII secolo: scomporre in elementi, risalire all’origine. Così l’analisi del pensiero consiste nel riportarlo a delle idee semplici, dal linguaggio alle espressioni elementari e naturali, dalla percezione alle sensazioni o alle impressioni elementari, dalla società agli individui, e così via. Risalendo così alle origini si può, viceversa, ritenersi in possesso di un metodo genetico: ricomporre il pensiero con delle idee semplici, la percezione con delle sensazioni, la società con degli individui. Questo metodo segue l’esperienza in quanto si fonda effettivamente sull’osservazione: tale è il progetto di Locke quando vuole seguire i progressi dell’intelletto umano a partire dal bambino alla nascita, o mediante il confronto con il comportamento animale. Ma il metodo rischia anche di perdersi nelle astrazioni quando scompone il pensiero o ricerca l’origine dell’uomo sociale o del linguaggio in una natura immaginaria, o, ebbene sì, metafisica. Reale o fittizio, il ricorso all’esperienza favorisce il materialismo. Se, per timore di scriverne il romanzo, si inserisce l’anima, in qualche modo, tra i fatti, come salvare il dualismo [tra anima e corpo]? Maupertuis chiamerà metafisiche le esperienze che noi attribuiremmo alla psicofisiologia. Si era obiettato a Descartes di non avere dimostrato che la materia non può pensare. Locke riprende l’obiezione, e Voltaire fa leggere a tutti, nelle sue Lettere inglesi (o filosofiche), l’osservazione di Locke. La materia è in movimento. Questo movimento le è inerente? Allora è permesso di riconoscervi il segno divino. Le è essenziale? Allora il mondo basta a se stesso, si libera del caos, non è più l’opera di qualcuno. Il mondo del meccanicismo cartesiano, il grande meccanismo che Fontenelle accostava ai meccanismi del teatro dell’Opéra, lascia il posto alla natura dinamica, per la quale d’Holbach, un po’ stupito, si accorge che ha ereditato gli attributi divini: essa è creatrice, infinita. Per realizzare il materialismo non resta che spiegare come dalle combinazioni della materia si

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La crisi della teologia razionale

La collocazione dell’uomo

Legami sociali e varietà delle razze

La riflessione sulla storia

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formi la vita – a meno che la materia non sia essa stessa vivente; dalla vita ci si eleverà, con una gradazione naturale, alla coscienza, dalla coscienza al pensiero. […] Qual è la situazione dell’uomo? In rapporto a Dio, è ambigua. Se l’idea di Dio non è innata, se la ricerca, nel bambino e nel primitivo, prova o sembra provare che questa idea non è universale (e quindi necessaria), l’esistenza dell’essere supremo non si sostiene che grazie alla probabilità o al sentimento. Per parlare in termini kantiani, l’argomento cosmologico (la natura è un’opera) o l’argomento morale (tu devi) hanno un maggior peso dell’argomento ontologico (che muove dall’idea di Dio). E, lo abbiamo appena ricordato, a seconda che si ritenga il movimento inerente o essenziale alla materia, si sarà deisti (Voltaire) o atei (d’Holbach). A ogni modo, lo scetticismo delle idee non può che condurre – dopo Bayle – allo scetticismo riguardo ai dogmi: il Dio dei filosofi assomiglia sempre meno al Dio di Abramo, di Isacco o di Giacobbe. Nella pratica ciò significa: la lotta contro l’intolleranza. Con le loro dispute i teologi hanno essi stessi foraggiato lo scetticismo verso le loro religioni […]. Poco certo dell’esistenza di Dio e di essere la sua immagine, ambiguo verso il mondo della materia di cui gli capita di affermare di essere sia il prodotto sia il padrone, ignorando se lui stesso dipenda più dall’organizzazione sua propria […] o da cause esterne, l’uomo deve ciononostante trovare una collocazione, e ormai non può farlo che nella relazione con gli animali e con i suoi simili. È un animale? E sia! Ma è animale di una specie caratterizzata dalla perfettibilità (sottolinea Rousseau), dalla superiorità di una ragione che è la sola capace di combinare le idee con il linguaggio e, quindi, di inventare. Quanto ai suoi simili, l’uomo esita: è legato a essi per caso? Per istinto? Forse per l’istinto sessuale che sta alla base della famiglia? L’uomo selvaggio può essere accostato all’uomo naturale, per convincersi che quest’ultimo non sia un mito e, quel che è peggio, un mito metafisico? E cosa pensare della varietà delle razze umane? Infatti non si parla ancora seriamente di evoluzione. L’uomo è una specie costante le cui varietà sono imputabili a ogni sorta di fattori: clima, nutrizione, mescolanza del sangue, degenerazione, selezione dei più forti. Ci si interroga. Dappertutto si vedono formarsi e istituirsi i costumi: dall’uomo sociale si passa all’uomo civile. Il XVIII secolo è il secolo della storia, per il movimento stesso del metodo analitico, è il secolo che si interroga sulle origini. Storia della terra […], storia naturale e beninteso, e soprattutto, storia delle società. Al di là degli archivi monastici e delle genealogie principesche, la storia degli avvenimenti del passato – Bayle contro Descartes aveva sostenuto che la loro esistenza poteva essere altrettanto certa di una proposizione matematica –, la storia delle idee (per esempio nell’ultimo capitolo del Secolo di Luigi XIV [di Voltaire]), infine la storia dei costumi, cioè delle civiltà. Voltaire, David Hume e Edward Gibbon sono qui i grandi nomi. Ed è ugualmente nel XVIII secolo che si afferma, dopo la storia delle belle arti e quella della scienze, la storia della filosofia: questa si sgancia dalle dossografie di Diogene Laerzio, con Thomas Stanley (1711), Boureau-Deslandes (1737) e sopra a tutti, Johann Jakob Brucker, la cui Historia critica philosophiae (dal 1744) sarà saccheggiata da Diderot per l’Enciclopedia.

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Introduzione L’età dei lumi Filosofia della storia, storiografia e idea di progresso

Un secolo di educatori

La desacralizzazione del diritto

Il duplice esito dell’Illuminismo

La filosofia della storia (il termine sembra coniato da Voltaire) si potrà allora fondare su due basi: la storia senza documenti, dedotta, in gran parte immaginaria, che da G.B. Vico a Rousseau, e da Rousseau allo stesso Hegel, reinventerà le tappe dell’umanità primitiva; la storia dei documenti, sempre più precisa. Questa filosofia sarà, per tutti coloro che hanno sotto gli occhi l’esempio delle scienze, una filosofia del progresso dello spirito umano, anche se ci si rifiuta, con Rousseau, di riconoscervi allo stesso tempo, e con lo stesso ritmo, un progresso morale. Questa ossessione del progresso non poteva mancare di fare del XVIII secolo il secolo degli educatori, di Fénelon – uno dei primi a essersi occupato dell’educazione dei figli – o dell’Emilio la cui importanza resta capitale, fino a Helvétius e a Kant. È il secolo del Bildungsroman [romanzo di formazione], dopo Telemaco, e qualunque romanzo si vanta di avere un valore educativo. Il problema dell’educazione è un problema politico: si può dubitare che Rousseau abbia voluto risolvere le difficoltà dei suoi due primi Discorsi con l’Emilio o con il Contratto sociale; non si può dubitare che Helvétius abbia creduto che una educazione finalmente illuminata avrebbe illuminato quei giovani che sarebbero stati chiamati a essere uomini politici. Con la politica affrontiamo il diritto che ne è l’espressione. Non c’è filosofo che non se ne occupi. Si può senza dubbio dire che la filosofia del diritto è più attiva, più progressista, rispetto alla sua pratica tra i giuristi di professione. Dopo quel che si è detto, si possono indovinarne le caratteristiche: il diritto è desacralizzato, ecco il principio. Tutto il resto ne deriva. Alla legge divina succede la legge positiva; al comandamento mosaico il comando della volontà razionale (col rischio di confondere talvolta la ragione con l’essere supremo); al diritto sacro, il diritto dei popoli (ed è il contratto sociale). D’altra parte, se Dio si è offuscato, cosa diventa l’uomo se non si definisce più come immagine di Dio? Egli è un corpo, dunque un individuo […], e, se preso nel suo insieme, la ragione, dunque una persona […]. A questo doppio titolo – contraddittorio – egli accede al diritto naturale soggettivo. L’individualismo, reale o supposto, del XVIII secolo non è altro che questa contraddizione vivente: reale perché l’analisi ha isolato un elemento (l’uomo della natura, l’uomo prima dell’esercizio della ragione); supposto, perché nessun filosofo (per questo bisognerà attendere lo stadio industriale della nostra civiltà) – nemmeno Jean-Jacques [Rousseau] – sostiene che l’uomo sia nato per l’egoismo. […] La fine del secolo? Resta aperta la questione – tanto per i contemporanei quanto per noi – di sapere se i filosofi hanno davvero giocato qualche ruolo. La fine del secolo risolverà almeno in parte – variabile a seconda delle nazioni – le sue contraddizioni evidenti. Essa le risolverà nella filosofia teorica, pura, con Kant, e, nella pratica, con la rivoluzione francese.

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(in Histoire de la philosophie, 2, De la Renaissance à la révolution kantienne, a cura di Y. Belaval, Gallimard, Parigi 1973, pp. 601-608, trad. it. di L. Fonnesu)

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia 1. La critica della religione e la scienza della natura umana 2. Hume: limiti della ragione e scetticismo 3. La scienza della natura umana 4. La conoscenza 5. La morale 6. La critica della religione 7. Adam Smith: sentimenti morali e dinamica economica 8. Bentham e la nascita dell’utilitarismo ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: la Ricerca sull’intelletto umano I testi D. Hume Trattato sulla natura umana: La scienza dell’uomo, T1; Impressioni e idee, T3; La legge di Hume, T6; Il senso morale, T7 Lettera a Francis Hutcheson del 17 settembre 1739: L’anatomista e il pittore della natura umana, T2 Ricerca sull’intelletto umano: Relazioni di idee e materia di fatto, T4

Estratto del trattato sulla natura umana: La mente non è una sostanza, T5 Dialoghi sulla religione naturale: La miseria del mondo, T8 J. Bentham Introduzione ai principi della morale e della legislazione: Il piacere e il dolore, T9; Il principio di utilità, T10

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Parte seconda Il secolo dei lumi

1 L’eredità di Hobbes, Locke e Newton

Una scienza della natura umana scientifica e osservativa

La critica della religione e la scienza della natura umana La filosofia inglese e scozzese nel Settecento prende le mosse da un dibattito che ha luogo sulla scia dei maggiori filosofi del secolo precedente: Hobbes, Locke e Newton. La critica della religione si presenta come erede della filosofia di Locke e delle sue tesi sulla «ragionevolezza del cristianesimo». Il dibattito sulla natura umana si svolge in gran parte all’insegna dell’esame – anche polemico – delle tesi hobbesiane, ritenute da alcuni radicali e pericolose perché fondate sulla tesi esclusiva di un naturale egoismo della natura umana. Le suggestioni di Newton, infine, inducono pensatori per altri aspetti anche molto diversi a promuovere il progetto di una scienza della natura umana che possa essere, proprio perché ispirata a Newton, scientifica, cioè prevalentemente osservativa, il più possibile capace di spiegare l’esperienza quotidiana e il modo in cui è effettivamente possibile fare esperienza di giudizi e valutazioni, anche di tipo morale. Il maggior rappresentante di questo progetto è uno dei più grandi filosofi dell’età moderna, David Hume.

Il deismo Si ispirano a Locke i sostenitori di una critica della religione positiva e rivelata che caratterizza i deisti come John Toland (1670-1722), Anthony Collins (1676-1729) e Matthew Tindal (1653-1733). Ma andando ben al di là delle tesi di Locke, i deisti inglesi ritengono, con accenti e con radicalità diversi, che dalla religione positiva, rivelata nella Bibbia, vada espunto tutto ciò che non concorda con la ragione e si dimostri tanto contrario alla ragione quanto, come qualche apologeta aveva tentato di dire per salvare l’ortodossia, «al di sopra» di essa; una critica, quest’ultima, che era stata già avanzata da Bayle (vedi Unità 4, p. 225 s.), per smascherare i tentativi di conciliare illegittimamente la fede e la ragione. Conflitto tra fede L’apologetica aveva cercato di salvare una qualche compatibilità tra fede e rae ragione gione sostenendo che ciò che è al di sopra della ragione non è contrario ad essa, e che quindi il rapporto tra fede e ragione può essere considerato privo di conflitto se le verità della fede sono semplicemente al di sopra della ragione e non contrarie ad essa. Ma Bayle aveva mostrato che non c’è sostanziale differenza tra ciò che è al di sopra della ragione e ciò che è contro di essa: in entrambi i casi il rapporto tra fede e ragione si risolve in un conflitto. E il deismo inglese rivendica, in questo conflitto, i diritti della ragione.

Priorità della ragione sulla fede

Mandeville La natura umana è fondata sull’egoismo

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Le posizioni di Hobbes fondate sul self-love (cioè sull’amore di sé), che fanno dell’egoismo il movente centrale della natura umana, trovano una sorta di prosecutore nel pensiero di Bernard de Mandeville (1670-1733). La prosperità di un’immaginaria società di api (simbolo della condizione dell’Inghilterra del tempo e in

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia

generale della società moderna), fondata proprio su un comportamento egoistico, viene a cessare quando si comincia a introdurre nei comportamenti dei singoli la moralità, che manda in rovina lo stato di benessere raggiunto. È questo lo scandaloso contenuto della principale opera di Mandeville, che si intitola significativamente La favola delle api, ovvero vizi privati, benefici pubblici (1714), alla pubblicazione della quale molti reagiscono con sdegno.

Shaftesbury Il tema della natura morale dell’uomo

Critica di Hobbes: armonia del cosmo e benevolenza universale

Il ruolo del sentimento: dal perfezionamento estetico a quello morale

Le critiche alla religione positiva e alla validità assoluta dei principi morali del cristianesimo che emergono dalla polemica deistica e dalla concezione della natura umana di Hobbes e di Mandeville costituiscono il banco di prova per gran parte dei filosofi che intervengono, in questi anni a cavallo dei due secoli, sia sulla natura della religione sia sulla genuina natura, soprattutto morale, dell’uomo. Esplicitamente polemico nei confronti di Hobbes è il conte di Shaftesbury, che contrappone all’immagine hobbesiana di un universo potenzialmente sempre conflittuale fondato sull’egoismo, e sull’artificiale costruzione di accordi che proteggano l’interesse di ciascuno, l’immagine di un cosmo ordinato e armonico che risente dell’influenza del platonismo, diffuso in Inghilterra, e in particolare a Cambridge, nel corso del XVII secolo. Non è vero, secondo Shaftesbury, che i comportamenti umani sono motivati unicamente dall’egoismo; uno dei tratti della natura umana è il sentimento di benevolenza nei confronti dei propri simili, una benevolenza universale. Amico personale di Locke, Shaftesbury propone nelle sue opere maggiori una filosofia piena di ammirazione per l’ordine e la bellezza del creato sia sul piano estetico sia sul piano morale. In entrambi gli ambiti, decisiva è per Shaftesbury, più che il ruolo della razionalità, la funzione del sentimento, una sorta di facoltà che rende l’uomo capace di contemplare la bellezza della natura e di essere lui stesso protagonista del perfezionamento di se stesso attraverso l’arte e la cultura. Grazie al sentimento estetico riusciamo a cogliere in modo immediato la bellezza delle cose; in modo analogo, il sentimento morale ci rende capaci di cogliere in modo diretto ciò che è giusto e ciò che è bene. La posizione di Shaftesbury è di tipo aristocratico, e il suo stesso stile non ha alcuna pretesa di sistematicità filosofica, ma rispecchia piuttosto le riflessioni di tono saggistico dell’uomo colto, come dimostrano il dialogo I moralisti (1709) e la raccolta successiva Caratteristiche di uomini, costumi, opinioni, tempi (1711).

Hutcheson Il «sentimento» morale ed estetico di cui parla Shaftesbury è il punto di partenza del filosofo irlandese Francis Hutcheson (1694-1746), che diviene professore a Glasgow e che avrà una notevole importanza per la filosofia scozzese successiva, inclusi Hume (vedi p. 524 ss.) e Adam Smith (vedi p. 539 s.). La natura umana La riflessione filosofica di Hutcheson rientra nel nuovo interesse per una sciennon è egoistica za della natura umana che sia in grado di rendere conto della sua complessità e 521

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Polemica con Mandeville

Il richiamo alla benevolenza universale

I giudizi morali sono fondati sul sentimento morale

➥ Sommario, p. 545

quindi di fondare un sistema di filosofia morale: ciò che Hobbes e, ancor più, Mandeville non hanno capito è che la loro immagine della natura umana non è solo un’immagine sgradevole e pericolosa, ma inutilmente paradossale, proprio perché cerca di riportare tutto a una dimensione egoistica che non è, per la nostra esperienza quotidiana, corrispondente alla realtà. L’opera principale di Hutcheson, la Ricerca sull’origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, apparsa nel 1725, è volta da un lato a un’analisi della natura umana e delle sue disposizioni, dall’altro a riprendere e sviluppare la posizione di Shaftesbury confutando le tesi di Mandeville, «l’autore della Favola delle api», che è il principale obiettivo polemico. Con sarcasmo intenzionale Hutcheson riprende la prospettiva ottimistica e provvidenzialistica di Shaftesbury, sostenendo che l’autore della natura, cioè Dio, ci ha messo in grado, con le caratteristiche che abbiamo, di condurre una vita virtuosa «assai meglio di quanto sembra che i nostri moralisti immaginino», poiché l’approvazione morale non è fondata sull’amore di sé, sul self-love, ma su un sentimento di benevolenza universale. Se l’obiettivo polemico principale di Hutcheson è il pensiero di Mandeville e – sullo sfondo – di Hobbes, egli critica però anche i razionalisti come Samuel Clarke (1675-1729), che ritengono che i giudizi morali siano fondati sulla ragione, opponendosi ai sostenitori del sentimento morale ed estetico come Shaftesbury. Ciò non è da intendersi come un cedimento, da parte di Hutcheson, all’idea che il giusto e il bene abbiano un valore semplicemente soggettivo, ma piuttosto come l’affermazione di un valore oggettivo del sentimento morale, il moral sense, come fondamento della valutazione morale. Come il sentimento estetico ci fa approvare le cose belle, così il sentimento morale ci fa approvare le azioni che siano fondate sulla benevolenza disinteressata che l’esperienza ci mostra presente nei comportamenti umani. Il sentimento morale ci permette di conoscere le qualità morali delle azioni – qualità che secondo Hutcheson sono oggettive e del tutto indipendenti dalla mente umana – e di reagire ad esse con l’approvazione o la disapprovazione. Ragione e sentimenti umani sono, così, al centro del dibattito filosofico sorto nel Settecento in Inghilterra e in Scozia. Da un lato, i deisti sostengono la priorità della ragione sulla fede; dall’altro, Shaftesbury e Hutcheson rivendicano l’importanza del sentimento morale contro la tesi dell’egoismo umano sostenuta da Hobbes e ripresa da Mandeville.

Due concezioni opposte dell’uomo

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Natura umana

Hobbes e Mandeville

Hutcheson e Shaftesbury

L’unico movente delle azioni umane è l’egoismo

L’uomo è capace di provare un sentimento morale

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia

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Critica del razionalismo

Scetticismo moderato di Hume e ruolo di sentimento, passione e abitudine

Hume e l’Illuminismo

Rappresentante del fenomeno culturale dell’epoca

Hume: limiti della ragione e scetticismo Paragonabile solo a Kant per la statura filosofica e il peso della sua influenza nel pensiero moderno e contemporaneo, David Hume esprime nella propria figura e nella riflessione molti tratti caratteristici del pensiero illuministico, anche se la sua originalità ne fa un caso particolare, non assimilabile ad altri personaggi pur significativi della filosofia del Settecento. Influenzato notevolmente da Hutcheson e dall’idea di un forte peso delle passioni e dei sentimenti nel complesso dell’esistenza umana, Hume se ne distacca in aspetti essenziali mostrando una rara acutezza filosofica che investe tutti i campi della riflessione, dalla teoria della conoscenza alla teoria morale. Se la principale preoccupazione di Hutcheson è la difesa della virtù dagli attacchi di Hobbes prima e di Mandeville poi, come dimostrano la sua strenua difesa delle posizioni «armonicistiche» di Shaftesbury e il suo sostanziale ottimismo, Hume individua il suo principale obiettivo polemico nel razionalismo, nella fiducia ottimistica nella ragione tanto in ambito conoscitivo quanto in ambito pratico. Egli è in questo senso – e ancora una volta soltanto Kant potrebbe essere visto come un efficace termine di paragone – davvero un rappresentante dell’Illuminismo, se non si intende con questo termine una macchiettistica rappresentazione della presunta onnipotenza della ragione, ma proprio un’attitudine filosofica che ritenga uno dei compiti principali l’indagine sui limiti della ragione e della possibilità di giustificazione razionale. Hume non nega certo l’importanza della considerazione razionale; egli ritiene però che le possibilità della ragione siano limitate e che in problemi diversi le pretese della ragione debbano essere ridimensionate rispetto alla tradizione metafisica e all’idea che la nostra morale si fondi su regole razionali. Un grande peso assumono allora, in questa prospettiva, elementi non propriamente razionali come il sentimento, la passione o l’abitudine, che tendiamo troppo spesso a scambiare per frutto di un’analisi razionale e che condizionano invece in larga misura il modo umano di confrontarsi con il mondo. Lo scetticismo che caratterizza la filosofia di Hume è però uno scetticismo moderato, non radicale, che riconosce l’importanza della conoscenza e delle funzioni della ragione, quando queste vengano appunto mantenute nei propri limiti. Una forma radicale di scetticismo, che mette in dubbio ogni opinione e ogni convinzione, è invece di ostacolo alla vita stessa, poiché impedisce all’uomo di svolgere qualunque tipo di attività. La critica humiana del razionalismo ha avuto una notevole influenza sulla riflessione filosofica successiva fino ai nostri giorni, tanto che ancora oggi, per aspetti specifici del pensiero filosofico, la tradizione che a Hume si richiama resta un punto di riferimento per chi non intenda accettare le diverse forme di razionalismo tra le quali, certamente, ha un particolare rilievo la filosofia di Kant. Kant chiude e costituisce il grande punto d’arrivo della stagione illuministica e il suo pensiero si costruisce, per molti aspetti, come una replica esplicita e implicita alle critiche di Hume: Kant propone un razionalismo che tiene conto delle obiezioni del suo maggior critico – proprio Hume – e che affronterà i problemi metafisici, etici e conoscitivi con la consapevolezza del carattere limitato della razionalità umana. Nella sua riflessione Hume rappresenta quindi uno dei massimi esempi e un punto di sintesi della filosofia illuministica, ma anche dal punto di vista biografico, per le relazioni personali che intrattiene, egli costituisce una figura caratteristi523

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ca e significativa dell’età dei lumi. Erede della tradizione empiristica inglese di Bacone, di Locke e della scienza newtoniana, protagonista nel progetto di costruzione di una scienza della natura umana, Hume è in contatto diretto con le varie anime dell’Illuminismo francese e con Rousseau. Egli è davvero, tra le altre cose, un punto di intersezione del fermento intellettuale che caratterizza l’Illuminismo. L’empirismo è, dunque, alla base del progetto humiano di svolgere un’indagine scientifica sulla natura dell’uomo, tesa a sottolineare i limiti della ragione e il ruolo delle passioni e dei sentimenti.

La vita e le opere David Hume nacque a Edimburgo nel 1711 da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà terriera. Dopo i primi studi sotto la guida di uno zio paterno, dal 1721 al 1725 frequentò il college di Edimburgo. Terminati gli studi, si dedicò per breve tempo, e per volere della famiglia, all’avvocatura e ad attività commerciali, che però interruppe per proseguire gli studi letterari e filosofici. L’elaborazione di una nuova filosofia lo assorbì a tal punto che nel 1729 fu preso da una «torbida indolenza», una forma di depressione. Per superarla intraprese per pochi mesi un’attività commerciale presso un mercante di Bristol e nel 1734 si recò in Francia. Dopo un breve soggiorno a Parigi si trasferì a Reims e successivamente a La Flèche, dove rimase fino al 1737, dedicandosi alla composizione del Trattato sulla natura umana. Tornato in Inghilterra completò la stesura dell’opera, i cui primi due libri furono pubblicati anonimi a Londra nel 1739. Contro le sue aspettative, lo scritto passò inosservato, nonostante l’Estratto del trattato sulla natura umana redatto nel 1740 per rendere accessibili al pubblico le idee esposte nell’opera. Alla fine dell’anno apparve, anonimo, il terzo libro del Trattato. Diversa fu la sorte dei quindici Saggi morali e politici pubblicati nel 1741; il successo fu tale che l’anno seguente uscì un volume con dodici nuovi saggi. Nel 1744 Hume si candidò per la cattedra di etica e filosofia pneumatica dell’università di Edimburgo, ma non la ottenne a causa dell’ostilità dell’ambiente ecclesiastico ortodosso. Nel 1748 si recò come segretario del generale Saint Clair

3 La scienza dell’uomo è il fondamento di ogni scienza

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presso le corti di Vienna e di Torino e, contemporaneamente, lavorò alla rielaborazione degli argomenti affrontati nel Trattato. Nel 1748 apparve, così, la Ricerca sull’intelletto umano, a cui nel 1751 seguì la Ricerca sui principi della morale. Nel 1752, anno in cui fallì il suo tentativo di ottenere la cattedra di Logica all’università di Glasgow, apparvero i Discorsi politici, la sua opera più fortunata. Venne nominato conservatore della biblioteca degli avvocati di Edimburgo e poté dedicarsi alla stesura della Storia d’Inghilterra dall’invasione di Giulio Cesare all’ascesa di Enrico VII. L’opera, che fu pubblicata nel corso di vari anni a partire dal 1754, suscitò molte polemiche per l’interpretazione non convenzionale che veniva data in essa dello sviluppo costituzionale dell’Inghilterra. Nuove critiche gli vennero dal clero conservatore in seguito alla pubblicazione, nel 1757, di Quattro dissertazioni, tra cui la Storia naturale della religione. Nel 1762 uscì l’ultima parte della Storia d’Inghilterra. L’anno successivo Hume si recò nuovamente a Parigi al seguito dell’ambasciatore di Londra e frequentò numerosi philosophes, tra cui Buffon, d’Alembert, Diderot, Helvétius e d’Holbach. Nel 1766 tornò in Inghilterra con Rousseau, a cui aveva offerto la sua protezione; in seguito, però, i rapporti tra i due filosofi si interruppero. Negli ultimi anni si ritirò dalla vita politica e si trasferì a Edimburgo, dove si dedicò alla preparazione dell’edizione definitiva dei suoi scritti e alla revisione dei Dialoghi sulla religione naturale (che apparvero postumi nel 1779). Morì a Edimburgo nel 1776.

La scienza della natura umana Il progetto di una scienza dell’uomo come scienza empirica e sperimentale è una caratteristica dell’Illuminismo di lingua inglese e in particolare di alcuni filosofi scozzesi, o che hanno esercitato la loro influenza in Scozia, come Hutcheson, Hume, Adam Smith o Thomas Reid (1710-1796). Alle spalle di questo progetto ci sono la filosofia di Bacone e la scienza newtoniana: questa costituisce un modello suscettibile di interpretazioni diverse, come dimostrano le stesse differenze che troviamo tra i modi in cui una scienza della natura umana viene concepita da Hutcheson e dallo stesso Hume.

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Quanto il progetto stia a cuore a Hume emerge con grande chiarezza dalla Introduzione al Trattato sulla natura umana. Tutte le scienze rimandano alla conoscenza della natura umana, che è la base di qualunque conoscenza, e la conoscenza della natura umana si deve fondare non su presupposti arbitrari o metafisici, ma sull’esperienza e sull’osservazione. Spiegare i principi sui quali è fondata la natura dell’uomo è un passo necessario, ritiene Hume, per elaborare un sistema che comprenda tutte le scienze.

T1

La scienza dell’uomo

D. Hume, Trattato sulla natura umana, Introduzione

Carattere scientifico dell’analisi della natura umana

Hume «anatomista» della natura umana in polemica con Hutcheson

È evidente che tutte le scienze hanno una relazione più o meno grande con la natura umana, e anche quelle che sembrano più indipendenti, in un modo o nell’altro, vi si riallacciano. Perfino la matematica, la filosofia naturale e la religione naturale dipendono in certo qual modo dalla scienza dell’UOMO, poiché rientrano nella conoscenza degli uomini, i quali ne giudicano con le loro forze e facoltà mentali. È impossibile prevedere quali mutamenti e progressi noi potremmo fare in queste scienze se conoscessimo a fondo la portata e la forza dell’intelletto umano, e se potessimo spiegare la natura delle idee di cui ci serviamo e delle operazioni che compiamo nei nostri ragionamenti […]. Il solo mezzo, quindi, per ottenere dalle nostre ricerche filosofiche l’esito che speriamo, è di abbandonare il tedioso, estenuante metodo seguito fino ad oggi; e invece d’impadronirci, di tanto in tanto, d’un castello o d’un villaggio alla frontiera, muovere direttamente alla capitale, al centro di queste scienze, ossia alla stessa natura umana: padroni di esso, potremo sperare di ottener ovunque una facile vittoria. Movendo di qui, potremo estendere la nostra conquista su tutte le scienze più intimamente legate con la vita umana, e procedere poi con agio ad approfondire quelle che sono oggetto di mera curiosità. Non c’è questione di qualche importanza la cui soluzione non sia compresa nella scienza dell’uomo, e non ce n’è nessuna che possa essere risolta con certezza se prima non ci rendiamo padroni di quella scienza. Accingendoci, quindi, a spiegare i principi della natura umana, noi in realtà miriamo a un sistema di tutte le scienze costruito su di una base quasi del tutto nuova, e la sola su cui possano poggiare con sicurezza. E come la scienza dell’uomo è la sola base solida per le altre scienze, così la sola base solida per la scienza dell’uomo deve essere l’esperienza e l’osservazione. L’empirismo e lo sperimentalismo di origine baconiana e newtoniana costituiscono quindi la struttura di questo nuovo modo di affrontare le questioni filosofiche. La nuova impostazione deve però avere, per Hume, un carattere scientifico, osservativo, non condizionato da esigenze che vanno al di là dell’osservazione e che sono, magari, esigenze morali, cioè esigenze di rappresentare sotto una certa luce la virtù e le qualità morali dell’uomo. Hutcheson rimprovera in questo senso a Hume un troppo scarso «calore» nella rappresentazione della virtù, e Hume risponde ancora una volta con grande lucidità, proponendo il proprio ruolo scientifico di «anatomista» della natura umana, cioè di analista scientifico di essa, senza volerla rendere attraente come invece sembra volere raccomandare Hutcheson: quest’ultimo confonde il ruolo scientifico dell’anatomista con quello non scientifico del «pittore». Qui emerge la differenza di preoccupazioni che sta al fondo della filosofia di Hutcheson e di quella di Hume: per Hutcheson si tratta anche di svolgere un compito moralizzatore, didattico; per Hume l’interesse principale è la costruzione fredda e scientifica di una scienza dell’uomo. E Hume, rispondendo in una let525

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La scienza non ha bisogno di ‘abbellimenti’ moralistici

T2

L’anatomista e il pittore della natura umana

D. Hume, Lettera a Francis Hutcheson del 17 settembre 1739

Ambiguità della parola «natura»

➥ Laboratorio sul lessico, Natura / naturale, p. 131

Problema della definizione specchio della problematicità del concetto

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tera ai rimproveri di Hucheson, rivendica non solo il proprio punto di vista scientifico, ma anche la priorità di questo compito rispetto ad altri modi di parlare dell’uomo, che devono necessariamente fondarsi, per avere qualche senso, su una descrizione adeguata. Per Hume la riflessione filosofica è fatta di ragionamenti astratti, e quindi scientifici, che non devono essere confusi con le declamazioni moralistiche. Il compito dell’anatomista è quello di analizzare e sezionare senza abbellire la descrizione: è inevitabile che un’analisi approfondita della natura umana ne porti in luce anche le parti meno nobili. Per questo motivo il punto di vista di chi ricerca le cause e i principi delle azioni umane è difficilmente conciliabile con quello di chi si propone, invece, di mettere in risalto gli aspetti migliori, e più nobili, degli esseri umani. Hume spiega con grande chiarezza la differenza tra l’anatomista e il pittore della natura umana. Ciò che mi ha colpito maggiormente nelle vostre note è l’osservazione che manca un certo calore nella determinazione della causa della virtù, la qual cosa, secondo voi, sarebbe apprezzata da ogni animo gentile e non potrebbe dispiacere in mezzo ad astratte ricerche. Devo riconoscer che ciò non è dovuto al caso, ma è l’effetto di un ragionamento, sia esso buono o cattivo. Ci sono differenti modi di esaminare la mente, come anche il corpo. Si può considerarla alla maniera di un anatomista o di un pittore: per scoprire i suoi più profondi slanci o per descrivere la grazia e la bellezza delle sue azioni. Ritengo che sia impossibile congiungere questi due punti di vista. Quando voi strappate la pelle e mostrate tutte le più minute parti, vi appare qualcosa di triviale, anche nelle più nobili attitudini e nelle più vigorose azioni: né voi potete mai rendere piacevole o attraente questo punto del corpo se non coprendo le parti nuovamente con pelle e carne e mostrando il loro semplice aspetto esteriore. Un anatomista, comunque, può dare un ottimo consiglio a un pittore o a uno scultore, come sono convinto che un metafisico può essere di grande aiuto a un moralista, sebbene non possa facilmente concepire che questi due caratteri siano uniti nella stessa opera. Qualsiasi enfasi morale temo che avrebbe l’aria della declamazione in mezzo ad astratti ragionamenti e sarebbe stimata contraria al buon gusto. Il progetto di una scienza della natura umana non fa sfuggire a Hume quanto possano essere ambigui la parola «natura» e lo stesso aggettivo «naturale». È questa una delle prese di posizione più acute, e tuttora stimolanti, della storia della filosofia moderna: quando utilizziamo il termine «natura» (così come «naturale») ci serviamo di una parola ricca di ambiguità e che può significare molte cose, come Hume sottolinea: nessuna parola, scrive, «è più ambigua ed equivoca di questa». Analizzare la natura umana non deve infatti fare dimenticare che questo termine rimanda a molti significati: è possibile contrapporre la parola «natura» ai miracoli, perché questi costituiscono un’eccezione all’andamento naturale delle cose, come mostrano i miracoli della religione cristiana; ma possiamo contrapporre questo termine anche a ciò che è semplicemente insolito, inconsueto, o a ciò che è «artificiale» perché fatto dall’uomo, sebbene anche quanto viene fatto dall’uomo sia in un certo senso naturale, perché tutto ciò che accade è naturale. Nell’analisi della natura e di ciò che è o si pretende che sia naturale Hume dimostra una volta di più la sua spregiudicatezza e la sua capacità di mettere in lu-

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia

➥ Sommario, p. 545

ce le difficoltà del nostro modo di usare il linguaggio: è, in gran parte, la sottolineatura di un problema, ben più che una risposta definitiva. Nell’analizzare la natura dell’uomo, dunque, Hume ha un intento puramente descrittivo e non tenta di dare indicazioni o prescrizioni su ciò che gli uomini dovrebbero fare e su quali comportamenti siano giusti. In altre parole, Hume non intende elaborare una teoria di ciò che la natura umana dovrebbe essere, anche per la sua consapevolezza della difficoltà di dare una definizione chiara e univoca del concetto di natura.

L’ambiguità del termine «natura»

Natura

Opposto dei miracoli

4 Due tipi di percezione ➥ Laboratorio di lettura, p. 548

Impressioni e idee: stessa origine, intensità diversa

Priorità delle impressioni sulle idee: non ci sono idee innate

➥ Percorso tematico, p. 401

T3

Impressioni e idee

D. Hume, Trattato sulla natura umana, 1. 1. i

Opposto di ciò che è insolito

Opposto di ciò che è artificiale

La conoscenza La teoria della conoscenza di Hume è improntata a un rigoroso empirismo che sfocia in una forma di scetticismo moderato. L’unica radice della conoscenza umana, sulla base di questi presupposti, è costituita dalla percezione, il contenuto mentale che può avere due forme, le impressioni e le idee. Entrambe dipendono dall’esperienza – non ci sono percezioni indipendenti da questa –, ma impressioni e idee hanno un diverso carattere, o meglio una diversa forza o intensità. Le impressioni, infatti, sono le percezioni di cui facciamo attualmente esperienza, e sono quindi più vivaci proprio perché sono attuali, mentre le idee, che si fondano sulle percezioni di cui si è fatta esperienza, sono quelle stesse percezioni dotate di minor forza perché sono «immagini illanguidite», copie sbiadite delle impressioni, conservate nella memoria. La differenza tra i due tipi di percezioni, le impressioni e le idee, non è data da una loro diversa origine, né dal contenuto che hanno, ma semplicemente da un fattore temporale: le impressioni appartengono al presente, mentre le idee appartengono al passato. Per questo, la conclusione inevitabile di Hume è quella di una priorità delle impressioni sulle idee. Inoltre, se c’è sempre un’impressione alla radice delle idee, ciò significa che non ci sono idee innate, come invece molti filosofi hanno sostenuto: è l’esito, anche questo, dell’atteggiamento empiristico di Hume. Tutte le percezioni della mente umana si possono dividere in due classi, che chiamerò IMPRESSIONI e IDEE. La differenza tra esse consiste nel grado diverso di forza e vivacità con cui colpiscono la nostra mente e penetrano nel pensiero ovvero nella coscienza. Le percezioni che si presentano con maggior forza e violenza, possiamo chiamarle impressioni: e sotto questa denominazione io comprendo tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione nella nostra anima. Per idee, invece, intendo le immagini illanguidite delle impressioni […]. 527

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La prima osservazione che salta agli occhi è la grande rassomiglianza tra impressioni e idee in tutto tranne che nel grado della loro forza e vivacità: queste sembrano, in certo modo, il riflesso di quelle. Per cui ogni percezione è, per così dire, doppia, potendo mostrarsi come impressione o come idea. La teoria humiana della conoscenza

Conoscenza

È fondata sull’esperienza, ossia sulla percezione

Due tipi di percezione

Impressioni

Idee

Percezioni di cui facciamo esperienza

Percezioni fondate sulla memoria delle impressioni di cui facciamo esperienza attualmente

Appartengono al presente

Appartengono al passato

Differenza tra impressioni e idee

Grado di forza maggiore o minore

Le impressioni hanno un grado maggiore di forza

Le idee hanno un grado minore di forza

Naturalmente esistono anche idee che non hanno qualcosa di corrispondente nell’esperienza, perché è sempre possibile comporre arbitrariamente – grazie alla immaginazione – idee che sono fatte di singole percezioni di cui si sia realmente fatta esperienza, ma la cui composizione dà per risultato qualcosa che nella realtà non esiste. L’immaginazione in questo senso ha maggiori capacità della memoria (e maggiore capacità di commettere errori) perché è in grado di fare cambiamenti nella costruzione delle idee, e quindi anche di produrre costruzioni arbitrarie, come accade nelle favole, ma anche in molte idee della metafisica. I cavalli alati, i draghi fiammeggianti e i giganti mostruosi sono il frutto di quest’attività dell’immaginazione, che compone arbitrariamente, per esempio, l’idea del cavallo (che realmente esiste) con l’idea di un animale che vola (che realmente esiste), dando per risultato un’entità immaginaria come è il cavallo alato. L’associazione di idee Le idee possono essere quindi connesse o associate tra loro: il principio dell’associazione delle idee è infatti per Hume una caratteristica della mente umana che, come accade nel caso di altri suoi fenomeni, può essere sperimentalmente osservata attraverso l’introspezione, l’osservazione di se stessi. Anche qui, non si tratta di un principio assoluto, ma del risultato di un’osservazione empirica, che individua una «dolce forza che comunemente s’impone».

Immaginazione e costruzioni arbitrarie

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia Importanza della relazione di causalità

Due tipi di conoscenza: relazione tra idee e materia di fatto

La verità nei due casi

T4

Relazioni di idee e materia di fatto D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano, Sezione 4

Questa associazione avviene secondo certi criteri che fanno sì che a un’idea ne venga accostata un’altra: l’associazione o la connessione avviene tra idee che hanno tra loro rassomiglianza, contiguità nel tempo e nello spazio o una relazione di causa ed effetto. Hume ritiene del tutto naturali queste forme di associazione, e presta particolare attenzione, tra esse, alla relazione di causalità: questa viene sottoposta a un’analisi serrata che costituisce uno dei suoi contributi più significativi alla teoria della conoscenza. La conoscenza (ciò che è «oggetto della ragione») può essere di due tipi, può cioè consistere di una semplice relazione tra idee o di una materia di fatto. Nel primo caso, non si fa che esplicitare ciò che è già contenuto in un’idea, e quindi se ne fa una semplice analisi, indipendentemente dal confronto con l’esperienza, come avviene nel caso della matematica e della geometria: i principi di Euclide sono validi anche se non sperimentiamo l’esistenza in natura di circoli o di triangoli. Affermare che la moltiplicazione del numero 3 per il numero 5 non dà per risultato 15 è una contraddizione. Diverso è il caso della conoscenza di materie di fatto: in questo caso affermare il contrario di una proposizione che riguarda l’esperienza non costituisce una contraddizione: non è infatti contraddittorio affermare che domani non sorgerà il sole, perché non si tratta di una necessità logica, ma del frutto dell’esperienza. Mentre è sufficiente un’operazione del pensiero per accertare la verità delle proposizioni che esprimono una relazione tra idee, soltanto attraverso l’esperienza possiamo sapere se le proposizioni che riguardano i fatti sono vere o false. Tra i due tipi di proposizioni ci sono, quindi, due differenze: le prime possono essere dimostrate e la negazione di esse è incomprensibile per la mente umana; le seconde non possono essere dimostrate e la negazione di esse è perfettamente intelligibile. Tutti gli oggetti della ragione e della ricerca umane si possono naturalmente dividere in due specie, cioè relazioni di idee e materia di fatto. Alla prima specie appartengono le scienze della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica; e, in breve, qualsiasi affermazione che sia certa sia intuitivamente che dimostrativamente. Che il quadrato dell’ipotenusa sia uguale al quadrato dei due cateti è una proposizione che esprime una relazione tra queste figure. Che tre volte cinque sia uguale alla metà di trenta esprime una relazione fra questi numeri. Proposizioni di questa specie si possono scoprire con una semplice operazione del pensiero, senza dipendenza alcuna da qualche cosa che esista in qualche parte dell’universo. Anche se non esistessero in natura circoli o triangoli, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero sempre la loro certezza ed evidenza. Le materie di fatto, che sono la seconda specie di oggetti dell’umana ragione, non si possono accertare nella stessa maniera, né l’evidenza della loro verità, per quanto grande, è della stessa natura della precedente. Il contrario di ogni materia di fatto è sempre possibile, perché non può mai implicare contraddizione e viene concepito dalla mente con la stessa facilità e distinzione che se fosse del pari conforme a realtà. Che il sole non sorgerà domani è una proposizione non meno intelligibile e che non implica più contraddizione dell’affermazione che esso sorgerà. Invano tenteremo dunque di dimostrare la sua falsità; se essa fosse falsa dimostrativamente, implicherebbe contraddizione e non potrebbe mai essere distintamente concepita dalla mente. 529

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Parte seconda Il secolo dei lumi Indimostrabilità della regolarità della natura

Ciò che Hume vuole dire è che noi non siamo in grado di giustificare razionalmente quella che è una tendenza insita nella mente umana, che costantemente considera la natura come un insieme di fenomeni retto da un’uniformità, da una regolarità costituita da leggi naturali. Ma in realtà noi non possiamo in alcun modo dimostrare questa uniformità e questa regolarità, mentre possiamo dimostrare un’operazione matematica o un teorema geometrico.

I due tipi di conoscenza

Il principio di causalità

L’abitudine alla base della connessione causale tra fenomeni

La credenza

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Oggetti della ragione

Relazioni di idee

Materia di fatto

La conoscenza di esse è indipendente dall’esperienza

La conoscenza di essa dipende dall’esperienza

Negare una proposizione che riguarda una relazione di idee è contraddittorio

Negare una proposizione che riguarda una materia di fatto non è contraddittorio

Il principio più generale a cui ci si affida per conservare la nostra fiducia nella regolarità della natura è il principio di causalità, ovvero il principio secondo il quale a una data causa seguirà sempre, necessariamente, un certo effetto: ma è proprio questo che non si è in grado di dimostrare razionalmente, tanto che non c’è, né ci può essere, alcuna contraddizione nell’affermare che domani il sole non sorgerà o che non sorgerà mai più. La nostra convinzione che il sole sorgerà e che se una palla da biliardo colpisce un’altra palla da biliardo il movimento della prima sia la causa del movimento della seconda (lo stesso esempio fatto da Malebranche – vedi Unità 4, p. 211 – che Hume ha ben presente) ha la sua radice in una inclinazione istintiva degli esseri umani che Hume chiama «abitudine»: essa produce la convinzione che certi eventi passati si ripeteranno in futuro. Quando osserviamo un fatto seguire un altro fatto tendiamo ad associarli, cioè a stabilire una connessione tra essi; il ripetersi dell’associazione di due eventi contigui e in successione temporale produce in noi l’abitudine a considerare questa successione come una successione causale, senza però che questo sia logicamente garantito da nulla, perché l’unico motivo di questa convinzione è l’abitudine a osservare che se una palla colpisce l’altra questa si muoverà. L’abitudine è in realtà la «grande guida della vita umana» che produce in noi ciò che Hume chiama «credenza» (belief ): non si tratta di un atteggiamento fondato sulla ragione, ma piuttosto di un sentimento che si impone alla mente umana in modo diverso da una semplice invenzione: «la credenza» scrive Hume «è propriamente più un atto sensitivo che un atto cogitativo della nostra natura». E la credenza è qualcosa di essenziale per la nostra vita: essa dimostra al tempo stesso la moderazione dello scetticismo di Hume – che nega soltanto la giustificazione razionale di certi principi, non la loro utilità né la loro verosimiglianza – e il suo costante riferimento alla dimensione sentimentale non soltanto, come vedremo, in ambito morale, ma nello stesso ambito della conoscenza.

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia Origine della fiducia nella regolarità della natura

Osserviamo la successione di due eventi Stabiliamo una connessione tra i due eventi L’associazione dei due eventi si ripete Si forma in noi l’abitudine a pensare che tra i due eventi ci sia una successione causale Questa abitudine genera la credenza che tale successione si ripeterà sempre in futuro Principio di causalità: a una causa segue sempre, necessariamente, un certo effetto

Hume affronta criticamente anche le idee della metafisica, e in particolare il concetto di «sostanza», tanto per quel che riguarda gli oggetti fisici del mondo esterno quanto per quel che riguarda l’io. In realtà, noi non abbiamo nessuna idea di sostanza, perché le nostre idee, che si fondano sulle impressioni empiriche, rimandano soltanto a singole qualità degli oggetti. La pretesa «sostanza» unitaria e permanente che dovrebbe essere ciò a cui le differenti qualità o proprietà appartengono è solo una collezione di impressioni che scompare con il loro venire meno. Ancora una volta, sono l’abitudine e la credenza che su questa si fonda a farci connettere sistematicamente certi insiemi di qualità in una sostanza individuale come ciò che li riunisce. L’io è un fascio Le cose non vanno diversamente per quanto riguarda l’io, ovvero per il problema di percezioni della identità personale. L’esperienza non ci dà nessun insegnamento sul nostro io in quanto tale: ci vuole sempre un’impressione per produrre un’idea reale, ma non c’è nessuna impressione costante e invariata che corrisponda al nostro io. Attraverso l’introspezione, che rimane il punto di riferimento del metodo sperimentale di Hume, non ho mai la percezione di qualcosa che posso chiamare me stesso, ma soltanto percezioni singole e determinate. Ciò che chiamiamo il nostro io è in realtà un fascio di percezioni diverse che si susseguono rapidamente e che noi associamo l’una all’altra: si tratta del frutto di una composizione di elementi distinti come sono distinte le singole percezioni, non delle proprietà di qualcosa di permanente che funga da sostrato. La mente, o l’anima – come ha preteso di chiamarla la metafisica –, è una nozione inintelligibile, cioè incomprensibile, se non indica semplicemente la composizione delle percezioni distinte: le percezioni compongono la mente, ma ciò non equivale a dire che appartengono ad essa, proprio perché al di là delle singole percezioni non c’è nulla. Il tentativo di identificare un’essenza della mente non è fondato su alcuna esperienza che possiamo avere, perché ciò di cui abbiamo esperienza sono soltanto percezioni particolari, distinte l’una dall’altra. È del tutto errata, quindi, la tesi sostenuta da Cartesio, secondo la quale l’essenza della mente umana è il pensiero.

Critica del concetto di sostanza

T5

La mente non è una sostanza

D. Hume, Estratto del trattato sulla natura umana

[…] l’anima, in quanto la possiamo concepire, non è che un sistema o una serie di percezioni differenti, di caldo e di freddo, di amore e di collera, di pensieri e di sensazioni, tutte unite insieme, ma senza alcuna perfetta semplicità e identità. Cartesio sosteneva che l’essenza della mente è il pensiero, non questo o quel pensiero, ma il pensiero in generale. Ma ciò appare del tutto inin531

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Parte seconda Il secolo dei lumi

tellegibile, poiché ogni cosa che esiste è particolare; e perciò devono essere le nostre distinte percezioni particolari che compongono la mente. Dico, compongono la mente, non appartengono ad essa. La mente non è una sostanza, alla quale le percezioni ineriscano. Questa nozione è altrettanto inintellegibile di quella cartesiana secondo la quale il pensiero o la percezione in generale è l’essenza della mente. Noi non abbiamo alcuna idea di una sostanza di qualsiasi genere, perché non abbiamo alcuna idea che non sia derivata da qualche impressione e non abbiamo impressione alcuna di una qualsiasi sostanza, materiale o spirituale che sia. Noi conosciamo soltanto qualità e percezioni particolari.

➥ Sommario, p. 545

5

Va messa in rilievo la rigorosa coerenza del pensiero di Hume; è infatti sulla base dell’empirismo che il filosofo scozzese nega che ci siano idee innate, sostiene che non è possibile dare una dimostrazione razionale del principio di causalità e respinge il concetto di sostanza.

La morale Una polemica su fronti opposti

Hume e l’etica contemporanea

Critica delle tesi della benevolenza universale e dell’egoismo

Una «generosità limitata»

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L’insistenza sugli elementi non razionali della natura umana, che svolge un ruolo importante anche sul piano della teoria della conoscenza, trova l’espressione più riuscita nella riflessione di Hume sulla moralità. L’etica di Hume è infatti ancora oggi il punto di riferimento per le etiche contemporanee che adottino una posizione critica nei confronti del razionalismo, ovvero dell’idea che la moralità sia fondata sulla ragione. È in questa prospettiva che l’analisi della moralità è strettamente legata, in Hume, all’analisi della dimensione passionale e sentimentale dell’uomo. Se Hume non accetta la visione provvidenzialistica, finalistica e armonica della natura e della natura umana in particolare offerta da Shaftesbury e dallo stesso Hutcheson, egli non intende però accettare nemmeno le rappresentazioni paradossali che della natura umana hanno offerto i sostenitori del self-love, come Hobbes e Mandeville. A sostenere la propria impostazione, Hume nega che si possa parlare di una «calma e universale benevolenza» ampiamente diffusa come pretenderebbe Hutcheson, ma rifiuta anche la tesi che le distinzioni morali siano semplicemente frutto di artifici e convenzioni introdotte da politici abili, come crede Mandeville, o anche che la natura dell’uomo si risolva in un radicale egoismo, come ha ritenuto Hobbes. Su entrambi i fronti polemici, Hume crede piuttosto che l’osservazione empirica dia torto alle opposte tesi che intende criticare. Più che di una calma e universale benevolenza si potrà piuttosto parlare di una «generosità limitata», e a Hobbes si fa notare che seppure sia vero che è difficile che un uomo ami qualcun altro più di se stesso, l’osservazione quotidiana ci dimostra che l’insieme delle passioni (sentimenti) benevole di ciascuno, di regola, supera l’insieme di quelle egoistiche: la maggior parte di noi ha amici e familiari per i quali è disposto a sa-

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I giudizi morali sono fondati su un sentimento Le virtù artificiali

crificare il proprio interesse. Le tesi fondate sull’assoluto egoismo, insomma, non coincidono con l’esperienza comune, e quindi non sono in grado di spiegare l’esperienza della moralità. Del rapporto di Hume con chi lo ha preceduto nella teoria morale va però ricordata anche la ripresa di alcuni temi. Sicuramente, per esempio, Hume condivide l’anti-razionalismo di Hutcheson, e quindi l’idea che il giudizio morale si fondi su un sentimento, sul moral sense. Parallelamente, egli accetta certe posizioni di Hobbes e di Mandeville riconoscendo il carattere artificiale di alcune virtù, come per esempio la giustizia, che sta a fondamento del vivere sociale. L’empirismo su cui è fondata la teoria della conoscenza elaborata da Hume spiega anche la concezione humiana della moralità e, in primo luogo, il rifiuto della tesi della benevolenza universale e della tesi dell’egoismo: nessuna delle due è rispondente alla reale natura degli esseri umani.

La legge di Hume È impossibile dedurre il «dovere» dall’«essere»

Una conclusione morale richiede una premessa di tipo morale

«Essere» e «dovere» indicano relazioni diverse

Dal punto di vista metodologico, Hume presenta nel Trattato sulla natura umana una delle tesi più importanti e più discusse della storia della filosofia moderna e contemporanea, ancora oggi al centro di un vivace dibattito. Si tratta della cosiddetta «legge di Hume». Hume critica cioè la possibilità logica di passare dall’essere al dovere, dalla descrizione di ciò che è all’affermazione di ciò che deve essere: secondo Hume, quando si sta svolgendo una riflessione sul piano della semplice descrizione è illegittimo derivare da questa descrizione una prescrizione o un comando, perché si tratta di livelli logici diversi e quindi possiamo concludere con una prescrizione soltanto un ragionamento che contenga delle prescrizioni già nelle sue premesse. La semplice constatazione o descrizione di un fatto non è, se si accetta questa interpretazione, un argomento perché, per esempio, questo fatto debba diventare un dovere per qualcuno. In realtà, quando noi passiamo dalla constatazione di un fatto a un dovere spesso accettiamo implicitamente che dietro quella constatazione ci sia, anche se non la menzioniamo esplicitamente, un’idea morale che ci fa arrivare a una certa conclusione di tipo morale. Facciamo un esempio. Se di fronte alla domanda «Perché dovrebbe aiutarlo?» si risponde «Perché è un suo amico», la nostra argomentazione è valida soltanto se, seppure implicitamente, riteniamo valido il principio morale per cui si devono aiutare gli amici, come, in effetti, molti pensano. Ma per chi non accettasse questo principio la stessa risposta («Perché è un suo amico») non porterebbe affatto alla conclusione che ci sia il dovere morale di aiutare l’amico. Di frequente questo equivoco può emergere nell’uso delle parole «natura» e «naturale», verso le quali lo stesso Hume mette in guardia perché, come si è detto, si tratta di parole ambigue. Se, per esempio, facendo la raccomandazione di avere un certo comportamento io la giustificassi dicendo «Perché è naturale», la raccomandazione avrebbe valore, dal punto di vista logico, soltanto se si accettasse la tesi per la quale bisogna comportarsi secondo le leggi della natura (sempre che individuare cosa queste leggi dicono fosse possibile…). Ma se qualcuno non accetta questa tesi, dirgli che un certo comportamento è na533

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turale non è sufficiente per giustificare il giudizio secondo il quale quel comportamento deve essere adottato. Il «dovere» indica una relazione del tutto diversa da quella indicata dall’«essere», ed è proprio perché si tratta di relazioni differenti che non è possibile dedurre una conclusione su ciò che dobbiamo fare da una premessa che riguarda ciò che è.

T6

La legge di Hume

D. Hume, Trattato sulla natura umana, 3. 1. i

In ogni sistema di morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre notato che l’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo consueto, e afferma l’esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è e non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve o non deve, esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti. Il principio che vieta di dedurre una prescrizione da una descrizione dei fatti trova la sua prima applicazione nell’indagine humiana sulla natura umana: coerentemente con questo principio Hume sostiene, infatti, che tale indagine deve limitarsi a descrivere le varie parti della natura umana, senza pretendere di stabilire come gli esseri umani debbano vivere.

Ragione e passioni Per Hume la ragione non può essere né ciò che muove all’azione, né ciò che sta a fondamento del giudizio morale, e anche per questo è improprio, come si è fatto nella tradizione da Platone in poi, parlare di un conflitto tra la ragione e le passioni. Mentre, come si è visto, il sentimento ha un ruolo nella conoscenza, la ragione può solo svolgerne uno complementare e ausiliario per quanto riguarda la condotta e la moralità. Non c’è alcun conflitto tra la ragione e le passioni perché hanno funzioni diverse e, per così dire, domini differenti. Solo le passioni Certo, la ragione è in grado di fornirci le informazioni sul mondo esterno e sui possono muovere mezzi migliori per raggiungere un fine, ma non sarà la ragione a muovere la la volontà volontà perché la ragione è, sostiene Hume, inerte, e non può mai né produrre né impedire un’azione. Essa non può dirci, cioè, quali fini dobbiamo perseguire, ma soltanto quali sono i mezzi più efficaci per raggiungere i fini che già abbiamo. A spingere la volontà saranno sempre soltanto le passioni: se anche vengono orientate dal giudizio della ragione che fornisce le informazioni, le passioni sono gli unici possibili principi dinamici in grado di muovere la volontà. La ragione ha la funzione di produrre giudizi veri sul mondo esterno o, attraverso l’analisi, in ambito matematico e geometrico, ma non può muovere la volontà: in questo senso la ragione è e deve essere «la schiava» delle passioni, perché solo le passioni sono in grado di muovere la volontà.

Tra ragione e passioni non c’è alcun conflitto

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia Il rapporto tra la ragione e le passioni Differenza di funzione

Ragione

Passioni

Ci dà informazioni sul mondo

Muovono la volontà

È incapace di produrre e impedire le azioni

Sono in grado di produrre e impedire le azioni

È passiva

Sono attive

La ragione non è in conflitto con le passioni, ma è ‘schiava’ di esse

Il sentimento morale Carattere soggettivo della moralità, una reazione sentimentale del soggetto

T7

Il senso morale D. Hume, Trattato sulla natura umana, 3. 1. i e ii

Alla base della moralità c’è per Hume il sentimento morale, cioè un particolare sentimento di approvazione o di disapprovazione che si manifesta negli esseri umani di fronte a un determinato tipo di azioni; si tratta, per Hume, del piacere che proviamo nell’osservarle. La moralità, quindi, non è un dato di fatto del mondo esterno, né riguarda la verità e la falsità (di queste si occupa la ragione), ma consiste in una reazione sentimentale del soggetto. Non siamo in grado di individuare il vizio in qualcosa di oggettivo o di reale al di fuori di noi. La virtù e il vizio, e quindi tutti i giudizi morali, sono un elemento soggettivo: il dato di fatto è allora esclusivamente soggettivo, e consiste nel nostro sentimento; qualsiasi cosa sia «capace di darci soddisfazione al solo vederla o pensarla,» scrive Hume «è decisamente virtuosa; come invece viziosa è qualsiasi cosa […] che ci dia dolore». La difficoltà a rendersi conto che la moralità ha un carattere soggettivo deriva, secondo Hume, dal fatto che i sentimenti che danno origine alle nostre valutazioni morali non sono particolarmente intensi e assomigliano più a idee (le relazioni tra le quali sono oggetto della ragione) che a impressioni. Ma la somiglianza non è identità. Prendiamo un’azione ritenuta viziosa, ad esempio un omicidio premeditato; esaminiamola da tutti i punti di vista e vediamo se riusciamo a scoprire il dato di fatto, o esistenza reale, che chiamiamo vizio. In qualsiasi maniera la prendiate troverete solo certe passioni, motivi, volizioni e pensieri; non vi sono altri dati di fatto. Il vizio vi sfuggirà completamente fino a quando considerate l’oggetto. Non potrete mai scoprirlo fino a che non volgerete la vostra riflessione al vostro cuore in cui troverete che è sorto un sentimento di disapprovazione nei confronti di questa azione. Ecco allora un dato di fatto, ma oggetto del sentimento e non della ragione. Esso si trova in voi, non nell’oggetto. Così quando dichiarate viziosa un’azione o un carattere, non intendete dire niente altro che, data la costituzione della vostra natura, voi provate un senso o un sentimento di biasimo nel contemplarli […]. La morale, perciò, è più propriamente oggetto di sentimento che di giudizio, per quanto questo senso o sentimento sia di solito tanto dolce e lieve che siamo portati a confonderlo con una idea, secondo la nostra solita abitudine di prendere per identiche le cose che hanno una forte rassomiglianza reciproca. 535

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La simpatia All’origine del sentimento morale

Simpatia come meccanismo di associazione

La simpatia è comune all’uomo e agli animali

Il sentimento morale

Una volta individuato che cosa stia a fondamento del giudizio morale, il sentimento morale, Hume ritiene necessario spiegare anche su quale meccanismo esso si fondi. In questo modo, anche il sentimento morale viene riportato a un meccanismo associativo della mente umana, la simpatia. La simpatia deriva dal fatto che le menti degli uomini sono simili nelle loro emozioni e in generale nel loro modo di funzionare, per cui «tutte le affezioni passano prontamente da una persona ad un’altra e generano movimenti corrispondenti in ogni creatura umana»: la simpatia è il meccanismo psicologico grazie al quale si è in grado di condividere le passioni, i sentimenti e le opinioni altrui. Non si tratta di un meccanismo che riguardi soltanto la moralità, né di qualcosa che riguardi solo gli uomini. Attraverso la simpatia si possono abbracciare le opinioni di altri uomini, oltre che condividerne i sentimenti di piacere e di dolore, come accade per la nascita del sentimento morale. Inizialmente i sentimenti e le opinioni degli altri si presentano alla nostra mente come mere idee, li pensiamo cioè come sentimenti e opinioni di altre persone; grazie alla simpatia queste idee si trasformano in impressioni, ossia in percezioni di cui facciamo esperienza, ed è così che possiamo condividere quelle opinioni e quei sentimenti: proviamo piacere per le cose o le azioni che procurano piacere agli altri e dolore per quelle che arrecano dolore ad essi; in tal modo arriviamo ad approvare le une e a disapprovare le altre. A sottolineare quanto all’origine del sentimento morale ci siano meccanismi psicologici che in sé non hanno nulla di morale, ma sono semplici associazioni, Hume sostiene che la simpatia è qualcosa che gli uomini hanno in comune con gli animali, anzi, è addirittura «evidente che la simpatia, ovvero il comunicarsi delle passioni, si riscontra tra gli animali non meno che tra gli uomini», e ciò costituisce la dimostrazione della sensibilità che gli animali hanno per il dolore e il piacere l’uno dell’altro. All’origine del nostro sentimento di approvazione o disapprovazione di certe azioni, all’origine, quindi, del sentimento morale, c’è allora un meccanismo che non è di tipo morale, ma che fa sì che io sia partecipe dei piaceri e dei dolori altrui, in modo tale da approvare ciò che provoca il piacere altrui e da disapprovare ciò che provoca dolore.

Simpatia Meccanismo psicologico che ci rende capaci di condividere le opinioni e i sentimenti degli altri La simpatia trasforma le idee che abbiamo sulle opinioni e sui sentimenti altrui in impressioni Proviamo piacere per ciò che dà piacere agli altri e dolore per ciò che causa dolore ad essi Il piacere suscita approvazione morale, il dolore suscita disapprovazione morale I giudizi morali non sono fondati su dati di fatto, né sulla ragione, ma sui nostri sentimenti

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia Inerzia della ragione

La teoria humiana della moralità è, dunque, una teoria soggettivistica e antirazionalistica. Hume sostiene, infatti, che le valutazioni morali non sono fondate su dati di fatto, ma, in particolare, su certi sentimenti che si formano attraverso il meccanismo psicologico della simpatia. La ragione non è in grado di dirci quali azioni dobbiamo compiere, perché ha la funzione di farci conoscere la realtà e da una descrizione di ciò che è non è possibile dedurre una prescrizione. Essa è inoltre incapace di spingerci ad agire in un modo piuttosto che in un altro; solo le passioni possono farlo. Tuttavia, pur sostenendo che la moralità è il dominio delle passioni, Hume nega che ci sia un conflitto tra esse e la ragione, perché sostiene che i loro domini sono differenti.

La critica della libertà del volere Un ultimo aspetto della natura umana che Hume si sente in dovere di affrontare è quello della libertà del volere, che egli esplicitamente nega. La volontà è sottoposta alla stessa necessità e allo stesso meccanismo causale a cui sono sottoposti gli eventi della natura. Un determinato stato della mente è in questo senso la causa delle determinazioni della volontà e quindi delle azioni: se la necessità è data dalla concatenazione causale degli eventi, l’unica alternativa ad essa sarebbe il puro caso, e il caso non esiste. Gli equivoci all’origine Gli eventi umani nella loro concatenazione causale necessaria non sono diversi della teoria della libertà dagli eventi della natura, e la fantasiosa teoria della libertà ha potuto trovare credito e conservarsi soltanto grazie ad alcuni equivoci. Il primo equivoco consiste nel pensare che la necessità sia identica alla violenza e alla costrizione esterna, e non possa essere il risultato della nostra spontaneità, intesa come un processo causale della nostra mente. In secondo luogo, si è intesa come dimostrazione della libertà della volontà la falsa sensazione per cui noi appaiamo a noi stessi come liberi, ma in realtà noi ignoriamo l’insieme delle cause che concorrono a determinare la volontà (un argomento, questo, tipicamente spinoziano contro l’apparenza della libertà del volere; vedi Unità 5, p. 245 s.). In terzo luogo, la libertà del volere è stata difesa dalla religione perché riteneva pericolosa la tesi di una volontà non libera o necessaria nel senso della determinazione causale: se gli uomini non fossero liberi, non sarebbe possibile considerarli responsabili delle azioni buone e di quelle malvagie che compiono ed essi, quindi, non avrebbero alcun merito né demerito di fronte ai loro ➥ Sommario, p. 545 simili, né di fronte a Dio. La volontà non è libera

6 Fede e ragione sono incompatibili

La critica della religione Hume affronta in due modi la questione della religione: da un lato, egli intende mostrare l’incompatibilità tra fede e ragione, come aveva fatto Bayle alla fine del XVII secolo (vedi Unità 4, p. 225 s.); dall’altro, la sua analisi non si arresta qui, ma cerca anche di mostrare la genesi del fenomeno religioso. A questi problemi sono dedicate due importanti opere di Hume, i Dialoghi sulla religione naturale e la Storia naturale della religione: redatti negli stessi anni, a metà del XVIII secolo, i due testi non hanno lo stesso destino pubblico. I Dialoghi vengono pub537

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Lo scettico, il fideista e il razionalista

Argomento contro il razionalismo: il problema del male

➥ Percorso tematico, p. 321

T8

La miseria del mondo

D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, parte 10

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blicati, dopo molte perplessità dello stesso Hume e dei suoi amici, soltanto dopo la sua morte, nel 1779, mentre la Storia naturale della religione viene pubblicata nel 1757, insieme con altri testi. L’incompatibilità tra fede e ragione costituisce un argomento polemico sia verso il razionalismo teologico più conservatore, che ritiene non vi sia alcun contrasto tra i due termini, sia, sull’altro fronte, verso il deismo, che sostiene che non vi debba essere un contrasto, per cui soltanto ciò che è compatibile con la ragione può essere accettato dagli uomini in tema di religione. Nonostante alcune cautele nel formulare le proprie tesi, Hume finisce per mostrare l’inaccettabilità razionale e addirittura la pericolosità della fede cristiana, anche con argomenti ampiamente ripresi da Bayle. Nei Dialoghi i diversi personaggi che rappresentano le varie posizioni sono lo scettico, per bocca del quale parla lo stesso Hume (Filone), il fideista (Cleante), che accetta per fede le tesi della religione, ma rifiuta anch’egli – come Filone – la compatibilità tra fede e ragione, e infine il razionalista (Demea), che si trova a dover affrontare l’alleanza dei due altri personaggi e che finirà per essere presentato come la figura meno convincente. Lo scettico e il fideista si trovano infatti oggettivamente alleati nel negare che tra fede e ragione ci possa essere accordo, seppure lo scettico si colloca dalla parte della ragione, mentre il fideista è, inevitabilmente, dalla parte della fede. Come in Bayle, le uniche due soluzioni accettabili sono quelle dello scettico e del fideista, mentre isolato, e ingiustificato, rimane colui che cerchi di sostenere una fede fondata razionalmente. In questo dialogo a tre voci Hume non solo dimostra la debolezza delle varie prove dell’esistenza di Dio, ma fa scontrare i diversi personaggi con la spinosa questione del male che proprio in Bayle aveva trovato un decisivo punto di svolta: è proprio su questo tema che si dimostrano fallimentari i tentativi di chi intende mostrare l’armonia tra fede e ragione. Il male non è razionalmente giustificabile se pensiamo che il mondo sia stato creato da un Dio buono e onnipotente, e la vita dell’uomo si rivela, nell’esperienza quotidiana, come piena di sofferenza. Del resto, se anche la miseria e la sofferenza fossero superate dagli elementi positivi e fossero minime, esse, pur minime, rimarrebbero razionalmente inspiegabili come risultato della creazione di un Dio con quelle caratteristiche: essendo infinitamente buono, Dio non può volere che nel mondo ci sia sofferenza; e poiché è onnipotente, non è possibile che la sofferenza esista malgrado la sua volontà. Si tratta quindi di temi che la nostra ragione non è in grado di affrontare. Ma accordandovi ciò che non si crederà mai, o quanto meno ciò che mai potrete provare, cioè che la felicità animale, o almeno quella umana, supera in questa vita la miseria, non avete ancor fatto nulla; infatti non è questo in alcun modo che attendiamo da un potere infinito, da un’infinita sapienza e da un’infinita bontà. Perché c’è, per quanto poca sia, della miseria nel mondo? Non è certamente per caso. È dunque per qualche causa. È forse per l’intenzione della divinità? Ma essa è perfettamente buona. Questa miseria è allora in contrasto con la sua intenzione? Ma essa è onnipotente. Niente può scuotere la solidità di questo argomento così breve, chiaro, decisivo, a meno di affermare che questa materia supera ogni umana capacità e che le nostre misure ordinarie della verità e della falsità non si possono applicare ad essa.

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia Genesi della religione

➥ Sommario, p. 545

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Per quanto riguarda la genesi della religione, Hume è anche in questo caso attento alle caratteristiche della natura umana. La religione nasce da un effettivo timore di fronte a fatti che l’uomo non riesce a comprendere, come la forza degli eventi naturali e la morte. Dal politeismo si passa al monoteismo e alla credenza in un unico Dio perfetto: se questa fede in un solo Dio fa superare molte credenze superstiziose caratteristiche del politeismo, essa ha per conseguenza anche l’intolleranza e il fanatismo. Il tema della religione viene trattato da Hume con lo stesso metodo (quello empiristico) che viene usato nell’affrontare la moralità: punto di partenza della sua riflessione è la natura umana, nella quale viene individuato non solo il fondamento della moralità, ma anche quello della religione. Ed è richiamandosi a qualcosa di cui abbiamo esperienza – il male – che Hume sostiene l’impossibilità di dare una giustificazione razionale della fede.

Adam Smith: sentimenti morali e dinamica economica

La vita e le opere Adam Smith nacque a Kirkcaldy (nei pressi di Edimburgo) nel 1723. Nel 1737 si iscrisse all’università di Glasgow, dove divenne allievo di Hutcheson. Studiò in seguito a Oxford e nel 1750 conobbe Hume, con cui sarebbe rimasto sempre in contatto. Nel 1751 ottenne la cattedra di logica all’università di Glasgow e l’anno seguente succedette a Hutcheson alla cattedra di filosofia morale, che comprendeva l’insegnamento dell’economia e della giurisprudenza. Nel 1759 uscì la sua opera principale, Teoria dei sentimenti morali. Nel 1763 pubblicò l’Abbozzo della ricchezza delle nazioni. Lasciato nel 1764 l’insegnamento, si

La teoria economica di Smith

Influenza di Hutcheson su Smith

recò nel Continente, prima a Tolosa e in seguito a Parigi, come precettore del giovane duca di Buccleuch. Nel 1767 tornò a Kirkcaldy e si ritirò per qualche tempo a vita privata. Nel 1776 apparve la Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, che ottenne un notevole successo. Nel 1778 fu nominato commissario delle Dogane per la Scozia e si trasferì a Edimburgo. Successivamente divenne rettore dell’università di Glasgow. Negli ultimi anni lavorò alla riedizione della Ricchezza delle nazioni e alla revisione della Teoria dei sentimenti morali. Morì a Edimburgo nel 1790. Per suo volere gran parte dei suoi scritti venne bruciata.

La filosofia scozzese successiva a Hume discute criticamente le sue tesi, spesso contrapponendosi polemicamente ad esse – come nel caso di Reid –, ma c’è chi si colloca sulla scia di Hutcheson e Hume, come nel caso di Smith. Smith ha una sorte curiosa nella storia della filosofia. Filosofo morale e professore di filosofia morale all’università di Glasgow, pubblica nel 1759 la Teoria dei sentimenti morali, la sua opera maggiore, che ha una notevole fortuna in tutto il secolo. Nel corso dell’Ottocento, però, l’attenzione si sposta completamente sull’opera di teoria economica Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), che dà origine alla economia politica classica che si svilupperà con David Ricardo (1772-1823) e Karl Marx (1818-1883). Se l’opera economica di Smith è certamente di grande importanza, essa ha oscurato a lungo il valore della sua teoria morale, che solo nel corso del XX secolo è tornata a essere oggetto di studi approfonditi. Smith, che succede a Hutcheson alla cattedra di Glasgow, ne è fortemente condizionato. Privo della spregiudicatezza di Hume, Smith è attento anche all’esigenza di rendere compatibile la scienza della natura umana e la propria posizione filosofica con la tradizione cristiana. In questo senso, egli si ispira alla visione armonica della società e dell’uomo caratteristica di Hutcheson. Oltretutto, 539

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La natura sociale dell’uomo e il ruolo dello «spettatore imparziale»

Armonia del mondo economico: la «mano invisibile»

➥ Sommario, p. 545

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Smith condivide con Hutcheson un altro elemento che differenzia entrambi da Hume, e cioè il sostanziale disinteresse per le questioni filosofiche generali e per la teoria della conoscenza: l’interesse di Smith, come quello di Hutcheson, è concentrato sulle questioni morali. Con Hutcheson e con Hume, infine, Smith condivide l’idea che la morale si fondi prevalentemente sugli aspetti sentimentali ed emozionali della natura umana e non sulle componenti razionali e intellettuali. Anch’egli è quindi un sostenitore del sentimentalismo in etica e un critico del razionalismo. L’etica di Smith dà grande spazio alla socialità naturale dell’uomo e alla naturale disposizione degli uomini ad approvare le azioni che promuovono la socialità. Alla base della vita morale c’è, sulle tracce di Hume, la simpatia, ma questa non è più, come in Hume, un neutro meccanismo di associazione psicologica: i sentimenti che vengono suscitati in noi dalla simpatia sono caratterizzati da una certa piacevolezza. La simpatia fa parte del complessivo quadro armonico che Smith ci offre delle relazioni sociali e della capacità umana di giudicare in modo equilibrato e indipendente dall’egoismo e dalla parzialità verso se stessi, al contrario di quanto pensavano Hobbes e Mandeville. La simpatia è la capacità di immedesimarsi negli altri e di provare i sentimenti che provano loro nella situazione in cui si trovano. Ognuno di noi ha dentro di sé uno «spettatore imparziale», un uomo interno, che consente di valutare le azioni: approviamo un’azione quando, immaginandoci al posto della persona nei confronti della quale quell’azione viene compiuta, proviamo verso di essa lo stesso sentimento che quella persona prova; se, invece, il suo sentimento è discordante da quello che proviamo noi immaginandoci al suo posto, disapproviamo l’azione. Il quadro ottimistico disegnato sul piano morale, che vede una sostanziale coincidenza tra la realizzazione della felicità di ciascuno e quella degli altri uomini, torna nell’opera economica di Smith, il primo acuto indagatore della nascente società capitalistica. All’origine della ricchezza delle nazioni c’è innanzitutto la divisione del lavoro, la grande innovazione moderna che ha permesso di produrre in modo più razionale: se per la produzione di un oggetto sono necessarie diverse operazioni, dividere queste operazioni tra diversi individui ciascuno dei quali si occupi di una sola di esse sarà molto più produttivo. Il mondo dell’attività economica è in sostanza, per Smith – che pure si rende conto, per esempio, del problema etico del lavoro infantile –, un mondo capace di autoregolarsi e armonico: per questo lo Stato deve intervenire meno possibile nelle attività economiche, lasciando lo svolgersi degli eventi, in questo campo, a una sorta di provvidenziale «mano invisibile» (la dinamica del mercato), che non ha bisogno di interventi esterni. Nel perseguire il proprio interesse ciascuno contribuisce, sia pur inconsapevolmente, alla soddisfazione dell’interesse generale. Dunque, Smith aderisce pienamente al sentimentalismo morale che ha in Hutcheson e Hume due tra i suoi massimi esponenti e respinge la tesi dell’egoismo naturale dell’uomo sostenuta da Hobbes e da Mandeville. Come Hutcheson, Smith ha una concezione armonica della vita umana, non solo sul piano morale ma anche su quello economico, e condivide con Hume l’idea che la simpatia svolga un ruolo fondamentale nella formazione dei sentimenti morali.

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia

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Bentham e la nascita dell’utilitarismo

La vita e le opere Jeremy Bentham nacque a Londra nel 1748. Studiò a Westminster e frequentò poi il College di Oxford, dove studiò giurisprudenza. Avviato dal padre all’avvocatura, la praticò solo per breve tempo per dedicarsi, invece, all’elaborazione di una riforma della legislazione che si trasformò poi in un programma sociale e politico di orientamento liberale. Nel 1776 uscì anonimo il Frammento sul governo, che conteneva una dura critica della costituzione inglese. Nel 1785 si recò in Russia per visitare il fratello, ingegnere navale presso la corte di Caterina II. In questo periodo scrisse la Difesa dell’usura, che venne pubblicata nel 1787. L’anno seguente tornò in Inghilterra e nel 1789 apparve la sua opera maggiore, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, che gli dette una notevole fama in America e in Europa. Sostenne numerose cause, tra cui il suffragio universale, la riforma delle leggi sui poveri, la diffusione del-

l’insegnamento, la separazione tra Stato e Chiesa e la depenalizzazione dell’omosessualità. Ispirandosi al pensiero di Cesare Beccaria progettò un nuovo tipo di carcere, detto Panopticon, in cui ogni parte sarebbe stata visibile da un punto centrale. Il Parlamento inglese prese in esame il progetto, che però non approdò ad alcun risultato. Le sue idee esercitarono grande influenza su vari sistemi legislativi sia in Europa sia in America e si diffusero in Inghilterra soprattutto grazie alla «Westminster Review», fondata da Bentham nel 1823 in opposizione alla conservatrice «Edinburgh Review»; ad essa collaborarono molti giovani di tendenze liberali, tra cui James Mill e il figlio John Stuart Mill. Morì a Londra nel 1832. Nel 1834 fu pubblicata la Deontologia o scienza della moralità. L’eredità lasciata da Bentham servì a finanziare la costruzione dell’università di Londra, destinata a chi, come i cattolici e gli ebrei, era escluso dall’ambiente universitario tradizionale.

Al tramonto del XVIII secolo, con la filosofia di Jeremy Bentham ha inizio un indirizzo di pensiero che segna profondamente tutta la tradizione filosofica, politica ed economica di lingua inglese fino ai giorni nostri. L’Introduzione ai principi della morale e della legislazione, pubblicata nel 1789, segna infatti la nascita dell’«utilitarismo», cioè della teoria secondo la quale il valore morale di un’azione o di un comportamento dipende dalle sue conseguenze e, in particolare, dalla sua utilità, ossia dalla quantità di piacere che produce: dobbiamo fare ciò che ha come effetto il piacere e astenerci dalle azioni che causano dolore. Questa teoria utilizza ampiamente alcune suggestioni di Hutcheson e di Hume per la costruzione di una teoria morale radicata nelle caratteristiche della natura umana. Profondamente influenzato dal pensiero illuministico, lettore attento di Hume e Smith, Bentham dà così inizio a un nuovo modo di affrontare le questioni morali. Dal punto di vista filosofico complessivo la posizione di Bentham è di un empirismo radicale, tanto da considerare i concetti morali e giuridici (per esempio il «dovere») entità fittizie, cioè entità che non esistono nella realtà, anche se hanno un grande significato nella nostra vita. Piacere e dolore Al centro della propria prospettiva Bentham colloca il piacere e il dolore, che come criteri del giusto sono i tratti caratteristici ed essenziali dell’esistenza dell’uomo e, al tempo e dell’ingiusto stesso, la base su cui costruire un’etica pienamente umana, indipendente da qualunque considerazione metafisica e da considerazioni che trascurino questi elementi fondamentali che dominano la natura e la vita dell’uomo. Il piacere e il dolore, nella teoria di Bentham, sono sia i criteri per stabilire cosa è giusto e cosa non lo è e quali azioni dobbiamo compiere, sia i motivi che ci spingono a fare qualunque cosa facciamo: essi dominano ogni aspetto della vita umana. L’etica è fondata sulla natura umana

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Parte seconda Il secolo dei lumi

T9

La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. Spetta ad essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare quel che faremo. Da un lato il criterio di ciò che è giusto J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e ingiusto, dall’altro la catena delle cause e degli effetti è legata al loro trono. piacere è il valore e Il della legislazione, 1,1 Dolore e piacere ci dominano in tutto quel che facciamo, in tutto quel che difondamentale ciamo, in tutto quel che pensiamo: qualsiasi sforzo possiamo fare per liberarci da tale soggezione non servirà ad altro che a dimostrarla e confermarla. A parole si può proclamare di rinnegare il loro dominio, ma in realtà se ne resta del tutto soggiogati. Il piacere e il dolore

Piacere e dolore nella teoria di Bentham

Piacere e dolore

Sono i due padroni degli esseri umani

Il «principio di utilità»

542

Sono gli unici motivi che ci spingono ad agire

Sono i criteri per stabilire quali azioni sono giuste e quali sono ingiuste

Determinano ciò che faremo

Indicano ciò che dobbiamo fare

Il piacere è allora il valore centrale della vita umana, per Bentham, che fu per questo vivacemente criticato nei decenni successivi. La sua concezione della vita umana, e di conseguenza anche la sua etica, si fondano su questa idea della felicità come piacere e assenza di dolore. E il principio della moralità consiste proprio nella produzione di piacere e di felicità: il criterio per giudicare la moralità delle azioni consiste negli effetti, cioè nelle conseguenze di quelle azioni e più precisamente nella loro capacità di produrre felicità (o di diminuire la quantità di dolore presente nella vita degli individui). Con il criterio di Bentham, che egli chiama «principio di utilità» o della «maggiore felicità», le azioni moralmente giuste saranno quelle che producono più felicità, mentre saranno moralmente ingiuste quelle che hanno per conseguenza una diminuzione della felicità. Ma l’utilitarismo – la parola nasce in realtà solo nella seconda parte dell’Ottocento, con John Stuart Mill (1806-1873) – non deve essere in alcun modo confuso con l’egoismo, che prescrive all’individuo di perseguire unicamente il proprio interesse, quali che siano le conseguenze che le sue azioni avranno sugli altri. Il principio di utilità è un criterio che non riguarda il solo individuo che agisce, ma tutte le persone coinvolte dall’azione, tutte quelle cioè il cui interesse viene toccato da una determinata azione. Al contrario dell’etica egoistica, dunque, l’utilitarismo è un’etica universalistica. Oltretutto, il principio di utilità non è soltanto un criterio per giudicare le azioni individuali, ma anche l’operato dei governi. La comunità della cui felicità si parla è però per Bentham solo un’entità fittizia: reali sono gli individui, i singoli uomini che compongono la comunità, ed è la felicità dei singoli a essere in questione.

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia

T10

Il principio di utilità

J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, 1, parr. 2 e 6

Per principio di utilità si intende quel principio che approva o disapprova qualunque azione a seconda della tendenza che essa sembra avere ad aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è coinvolto, o, che è lo stesso concetto espresso in altre parole, a seconda della tendenza a promuovere quella felicità o a contrastarla. Mi riferisco a qualsiasi azione, e perciò non solo ogni azione di un privato individuo, ma anche ogni provvedimento di governo […]. Quindi un’azione si può definire conforme al principio di utilità, o, per brevità, conforme all’utilità quando la sua tendenza ad aumentare la felicità della comunità è maggiore di ogni sua tendenza a diminuirla.

La centralità del piacere e del dolore ha un’altra importante conseguenza che avvicina Bentham alla filosofia contemporanea. Bentham è tra i primi ad affrontare la questione di una possibile rilevanza morale degli animali, proprio perché anch’essi sono sottoposti al piacere e al dolore. Bentham non approfondisce la questione, ma spiega chiaramente come debba essere impostata, almeno dal suo punto di vista edonistico (per cui il piacere è l’unica cosa che ha valore in se stessa), la domanda che riguardi uno status morale degli animali. Criterio di rilevanza Il problema, infatti, è stato solitamente posto in modo errato: per sapere se gli morale: la capacità animali hanno un significato morale, se cioè dobbiamo porci il problema di cosa di soffrire sia giusto o sbagliato fare nei loro confronti, non ci dobbiamo chiedere se possono ragionare o se possono parlare: non sono la ragione e il linguaggio gli elementi centrali dell’etica. Oltretutto, dice Bentham, un cavallo o un cane adulto sono animali incomparabilmente più razionali di un neonato. Se accettassimo l’idea che solo gli esseri capaci di ragionare o di parlare siano degni di considerazione morale, dovremmo concludere che i neonati non hanno alcuna importanza dal punto di vista morale e che verso di loro non abbiamo alcun dovere. La domanda fondamentale che ci dobbiamo porre, invece, per sapere per quali esseri dobbiamo avere una considerazione morale è: possono soffrire? Non la razionalità, dunque, ma la sensibilità – ossia la capacità di provare piacere e dolore – è il criterio per stabilire di quali esseri dobbiamo tenere conto dal punto di vista morale. Assumendo il piacere e il dolore come criteri di valutazione morale delle azioni compiute e come criteri di condotta (sia sul piano individuale, sia su quello politico), Bentham pone il fondamento della moralità nella natura umana, ma, allo stesso tempo, estende la sfera dei soggetti degni di considerazione morale. Pur essendo fondata sulla natura dell’uomo, quindi, l’etica sostenuta da Bentham non ➥ Sommario, p. 545 ha un carattere antropocentrico. Lo status morale degli animali

Suggerimenti bibliografici Per la cultura filosofica inglese tra Seicento e Settecento è utile il libro di B. Willey, La cultura inglese tra Seicento e Settecento, il Mulino, Bologna 1975. Su Toland e il deismo inglese, come primo avviamento vedi C. Giuntini, Toland e i liberi pensatori del ’700, Sansoni, Firenze 1974, e della stessa autrice, più impegnativo, Panteismo e ideologia repubblicana: John Toland (1670-1722), il Mulino, Bologna 1979.

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Parte seconda Il secolo dei lumi Per Mandeville, un testo introduttivo è quello di A. Branchi, Introduzione a Mandeville, Laterza, Roma-Bari 2004; ma è importante, e più impegnativa, anche la monografia di M.E. Scribano, Natura umana e società competitiva. Studio su Mandeville, Feltrinelli, Milano 1980. Su Shaftesbury: F. Crispini, L’opinione del bene. Shaftesbury tra ispirazioni antiche e ragione moderna, Morano, Napoli 1994. Sul Settecento filosofico in Scozia vedi Scienza e filosofia scozzese nell’età di Hume, a cura di A. Santucci, il Mulino, Bologna 1976. Un ampliamento del quadro del progetto di una scienza della natura umana lo si ha in C. Giuntini, La chimica delle idee: associazione delle idee e scienza della natura umana da Locke a Spencer, Le Lettere, Firenze 1995. Per Hume, un agile testo introduttivo è A. Santucci, Introduzione a Hume, Laterza, Roma-Bari 2000, insieme con M. Dal Pra, David Hume. La vita e l’opera, Laterza, Roma-Bari 1984. Una lettura complessiva acuta è quella di F. Baroncelli, Un inquietante filosofo perbene. Saggio su David Hume, La Nuova Italia, Firenze 1975. Per l’aspetto morale in particolare vedi E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1991. Per la religione: G. Carabelli, Hume e la retorica dell’ideologia. Uno studio dei «Dialoghi sulla religione naturale», La Nuova Italia, Firenze 1972. Per Adam Smith, vedi S. Cremaschi, Il sistema della ricchezza. Economia politica e problemi del metodo in Adam Smith, Angeli, Milano 1984, e A. Zanini, Genesi imperfetta. Il governo delle passioni in Adam Smith, Giappichelli, Torino 1995. Per il suo inserimento nella fondazione dell’economia politica «classica» è da vedere C. Napoleoni, Valore, Isedi, Milano 1982. Un libro nel quale si intrecciano l’interpretazione dell’etica di Smith e i problemi dell’etica del XX secolo è quello del filosofo italiano G. Preti, Alle origini dell’etica contemporanea. Adam Smith, La Nuova Italia, Firenze 1977. Su Bentham e la tradizione utilitaristica vedi innanzitutto la ricostruzione di F. Fagiani, L’utilitarismo classico: Bentham, Mill, Sidgwick, introduzione di C.A. Viano; a cura di B. Morcavallo, Liguori, Napoli 1999; inoltre: L. D’Alessandro, Utilitarismo morale e scienza della legislazione: studio su J. Bentham, Guida, Napoli 1981. I brani antologizzati sono tratti da: D. Hume, Trattato sulla natura umana, trad. di A. Carlini, E. Lecaldano ed E. Mistretta, Laterza, Roma-Bari 1982: Introduzione, pp. 6-8 (T1), pp. 13, 16 (T3), pp. 496-497 (T6), pp. 495-497 (T7). D. Hume, Lettera a Francis Hutcheson del 17 settembre 1739, trad. it. in D. Hume, Lettere, a cura di M. Del Vecchio, Angeli, Milano 1983, p. 75. D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano, trad. a cura di M. Dal Pra in D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano e sui principi della morale, Laterza, Roma-Bari 1980, Sezione 4, pp. 38-39. D. Hume, Estratto del trattato sulla natura umana, a cura di M. Dal Pra, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 91-92. D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, trad. a cura di M. Dal Pra, Laterza, Roma-Bari 1983, parte 10, pp. 95-96. J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, trad. di S. Di Pietro, Introduzione di E. Lecaldano, UTET, Torino 1998: p. 89 (T9), pp. 90-91 (T10).

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia

Sommario 1. LA

CRITICA DELLA RELIGIONE E LA SCIENZA

DELLA NATURA UMANA

I tratti dominanti della filosofia settecentesca di lingua inglese sono la critica della religione, il dibattito sulla natura umana e il progetto di una scienza della natura umana. Influenzati da Locke, i deisti inglesi rivendicano la priorità della ragione nel conflitto tra ragione e fede. Mandeville condivide l’idea hobbesiana che l’uomo sia dominato dall’amore di sé e considera la moralità contraria alla prosperità economica. Shaftesbury respinge la tesi dell’egoismo naturale dell’uomo; grazie al sentimento morale l’uomo è in grado di conoscere il bene, così come grazie al sentimento estetico è in grado di contemplare la bellezza della natura. Anche Hutcheson rifiuta la tesi dell’egoismo: i giudizi morali sono fondati sul sentimento morale, che ha un carattere oggettivo. 2. HUME:

LIMITI DELLA RAGIONE E SCETTICISMO

Influenzato dal pensiero di Hutcheson, Hume respinge il razionalismo e difende una forma moderata di scetticismo. L’indagine sui limiti della ragione e l’adesione al progetto di elaborare una scienza della natura umana fanno di Hume uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo. 3. LA

SCIENZA DELLA NATURA UMANA

La scienza della natura umana è per Hume l’unica base solida per le altre scienze e deve fondarsi sull’esperienza. Contro Hutcheson sottolinea il carattere scientifico dell’analisi della natura umana. Peraltro, è consapevole dell’ambiguità insita nel concetto di natura. 4. LA

CONOSCENZA

Coerentemente con il proprio empirismo Hume sostiene che fonte di ogni conoscenza è la percezione, della quale distingue due forme, diverse per il grado di forza: le impressioni, di cui facciamo esperienza, e le idee, fondate su impressioni. Data la priorità delle impressioni sulle idee, non ci sono idee innate. Grazie all’immaginazione possiamo associare le idee e formare idee nuove, a cui non corrisponde nulla nella realtà. L’associazione delle idee avviene sulla base della rassomiglianza, della contiguità spaziale e temporale o della relazione causale tra esse. Hume distingue la conoscenza che consiste in una relazione di idee da quella, dipendente dall’esperienza, che consiste in una materia di fatto. Del principio di causalità, da cui dipende la fiducia dell’uomo nella regolarità della natura, non è possibile dare una dimostrazione razionale; la convinzione che nella natura ci sia regolarità è frutto dell’abitudine, che guida la vita umana e genera vari tipi di credenza. Hume respinge il concetto di sostanza sia riguardo agli oggetti esterni, sia riguardo all’io.

5. LA

MORALE

In polemica con Hutcheson e con Hobbes, Hume afferma che gli esseri umani sono capaci di una generosità limitata. Fondamentale nella riflessione humiana sull’etica è la cosiddetta «legge di Hume», principio secondo cui non è logicamente possibile dedurre una prescrizione da una descrizione dei fatti. Non c’è conflitto tra la ragione e le passioni, perché hanno funzioni diverse. La ragione è inerte e schiava delle passioni; solo esse possono muovere la volontà. La moralità non è fondata su dati di fatto, ma sul sentimento di approvazione che proviamo nell’osservare un’azione. All’origine di questo sentimento c’è la simpatia, meccanismo psicologico comune agli uomini e agli animali, che rende possibile condividere le opinioni e i sentimenti altrui. Intervenendo sul tema della libertà del volere Hume afferma che la volontà è sottoposta alla stessa necessità che domina gli eventi naturali. 6. LA

CRITICA DELLA RELIGIONE

Hume sostiene l’incompatibilità tra fede e ragione. L’esistenza del male nel mondo rende impossibile dare una giustificazione razionale della fede. La religione ha origine nel timore che l’uomo prova di fronte ai fatti che non comprende. 7. ADAM SMITH:

SENTIMENTI MORALI E DINAMICA

ECONOMICA

Come Hutcheson e Hume, Smith rifiuta il razionalismo etico. Sottolinea la natura sociale dell’uomo e pone la simpatia a fondamento della moralità. In ogni individuo c’è uno «spettatore imparziale» che rende possibile esprimere giudizi morali non condizionati dall’egoismo. L’armonia presente nella vita morale dell’uomo è presente anche nel mondo delle attività economiche: una sorta di «mano invisibile» fa sì che la soddisfazione dell’interesse personale di ognuno conduca alla soddisfazione dell’interesse generale. 8. BENTHAM

E LA NASCITA DELL’UTILITARISMO

Bentham sostiene che l’etica è fondata sul piacere e sul dolore, che sono i soli moventi dell’azione umana e i criteri per stabilire ciò che è giusto. Con Bentham nasce l’«utilitarismo», teoria fondata sul principio di utilità, per cui è giusta l’azione che produce più felicità (ossia piacere). L’utilitarismo non è però una teoria egoistica. Assumendo la capacità di provare piacere e dolore come criterio per stabilire quali esseri siano degni di considerazione morale, Bentham estende la sfera della rilevanza morale fino a includere gli animali. 545

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Parole chiave Abitudine. Termine con cui Hume indica l’inclinazione istintiva dell’uomo a pensare che la successione di due eventi, tra i quali abbiamo stabilito ripetutamente una connessione, sia una successione causale. L’abitudine guida la vita umana ed è all’origine del formarsi delle credenze. Associazione delle idee. Nella teoria di Hume è un principio caratteristico della mente umana. L’associazione tra le idee avviene sulla base della loro somiglianza, della loro contiguità nello spazio e nel tempo o della relazione causale tra esse. Credenza. Nella teoria di Hume è un atteggiamento della mente umana diverso da quelli fondati sulla ragione; la credenza è un sentimento prodotto dall’abitudine. Felicità. Con questo termine Bentham intende il piacere, che assume come valore centrale della vita umana e della morale. Generosità limitata. Hume la contrappone alla benevolenza universale e all’egoismo radicale che, secondo Hutcheson e Hobbes rispettivamente, caratterizzano la natura umana. Pur non negando che gli esseri umani siano egoisti, Hume sostiene che sono capaci di generosità, anche se solo verso un numero limitato di persone. Idee. Nella teoria di Hume sono percezioni fondate sulle impressioni di cui si è fatta esperienza. Le idee hanno un grado di forza o di intensità minore rispetto a quello delle impressioni su cui sono fondate perché non sono percezioni attuali, ma appartengono al passato. Immaginazione. Attività della mente umana che, secondo Hume, consiste nel mettere insieme certe idee fondate sulle impressioni di cui si è fatta esperienza e ha come risultato la formazione di idee nuove alle quali non corrisponde nulla nella realtà. Impressioni. Termine con cui Hume indica le percezioni di cui facciamo esperienza; poiché sono attuali, hanno un grado di forza o di intensità maggiore di quello delle idee, che sono fondate su di esse. Legge di Hume. È il principio, formulato da Hume, secondo il quale non è possibile dedurre una conclusione valutativa o prescrittiva da una premessa di tipo descrittivo: è logicamente impossibile passare dall’essere al dovere. Un ragionamento può concludersi con una prescrizione soltanto se tra le sue premesse c’è una prescrizione. 546

Natura. Termine di cui Hume sottolinea l’ambiguità e distingue vari significati: con esso si può intendere l’opposto dei miracoli (che sono eccezioni all’andamento naturale delle cose), l’opposto di ciò che è insolito o l’opposto di ciò che è artificiale. Percezione. Contenuto mentale che dipende dall’esperienza. Hume considera la percezione fonte di ogni conoscenza umana e ne distingue due forme, le impressioni e le idee, che hanno la stessa origine (l’esperienza), ma gradi di intensità o di forza differenti. Principio di causalità. Principio secondo il quale a ogni causa segue sempre, necessariamente, un certo effetto. Hume ritiene che di tale principio, su cui è fondata la fiducia dell’uomo nella regolarità degli eventi naturali, non sia possibile dare una dimostrazione razionale. Principio di utilità. È il principio, detto anche «principio della maggiore felicità», su cui secondo Bentham è fondata la moralità. In base ad esso sono giuste le azioni (sia individuali, sia compiute dai governi) che producono maggior felicità e ingiuste quelle che diminuiscono la felicità di tutte le persone coinvolte. Sentimento morale. Espressione con cui Shaftesbury indica la facoltà grazie alla quale l’uomo coglie direttamente ciò che è buono o giusto. Come Shaftesbury, Hutcheson e Hume lo considerano il fondamento delle valutazioni morali, ma Hutcheson attribuisce ad esso un valore oggettivo, mentre Hume insiste sul carattere soggettivo dei giudizi morali. Simpatia. Nella teoria humiana è il meccanismo psicologico di associazione che ci permette di condividere le opinioni e i sentimenti altrui. La simpatia è all’origine del sentimento morale, ma non è un meccanismo specificamente morale ed è comune agli uomini e agli animali. Smith ritiene invece che la simpatia non sia un meccanismo psicologico neutro e lo intende come capacità propria dell’uomo, in quanto essere sociale, di condividere i sentimenti degli altri uomini. Spettatore imparziale. Espressione con cui Smith indica quella sorta di uomo interno, presente in ogni individuo, che rende possibile formulare giudizi morali equilibrati e non condizionati dall’egoismo. Utilitarismo. Teoria morale che nasce con Bentham ed è fondata sul principio di utilità. Secondo l’utilitarismo il valore morale di un’azione dipende dalle sue conseguenze e, in particolare, dalla quantità di piacere che produce.

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia

Questionario LA

CRITICA DELLA RELIGIONE E LA SCIENZA

DELLA NATURA UMANA

1

Qual è l’elemento comune al pensiero di Hobbes e di Mandeville? (max 1 riga)

2

Spiega in un massimo di 3 righe qual è, secondo Shaftesbury, il ruolo del sentimento nella vita umana.

3

Perché Hutcheson considera errate le tesi di Hobbes e di Mandeville sulla natura dell’uomo? (max 3 righe)

HUME: 4

LA

6

Spiega in un massimo di 4 righe la differenza di impostazione tra la filosofia di Hutcheson e quella di Hume. Quali sono i vari sensi del termine «natura» che Hume distingue? (max 4 righe)

E LA NASCITA DELL’UTILITARISMO

Spiega in un massimo di 4 righe la differenza tra l’etica utilitaristica e l’egoismo.

Lavoriamo sui testi 18

Spiega in un massimo di 3 righe come viene presentato, in T1, il rapporto tra la scienza dell’uomo e le altre scienze.

19

Perché in T2 Hume sostiene l’incompatibilità tra il punto di vista dell’anatomista e quello del pittore? (max 4 righe)

20

Perché in T3 Hume afferma che ogni percezione è doppia? (max 3 righe)

21

Quali differenze ci sono tra i due tipi di oggetti della ragione umana di cui Hume parla in T4? (max 4 righe)

7

Spiega in un massimo di 5 righe la differenza tra le impressioni e le idee.

22

Spiega in un massimo di 5 righe quale critica viene rivolta a Cartesio in T5.

8

Quali sono, secondo Hume, i criteri secondo i quali associamo un’idea a un’altra? (max 2 righe)

23

9

Come viene spiegata da Hume la tendenza degli esseri umani a pensare che tra i fenomeni naturali ci sia una relazione di causalità? (max 5 righe)

Come viene spiegata in T6 l’impossibilità di dedurre una proposizione che contiene il verbo «dovere» da una che contiene il verbo «essere»? (max 3 righe)

24

Come viene definito il vizio in T7? (max 2 righe)

25

Quali sono le spiegazioni della miseria presente nel mondo che, in T8, Hume considera inaccettabili? (max 2 righe)

26

Quali funzioni vengono attribuite, in T9, al piacere e al dolore? (max 3 righe)

27

Qual è il criterio indicato in T10 per stabilire se un’azione è conforme al principio di utilità? (max 2 righe)

Spiega in un massimo di 4 righe la critica humiana del concetto di sostanza.

MORALE

11

LA

17

LIMITI DELLA RAGIONE E SCETTICISMO

Perché la posizione di Hume è una forma moderata di scetticismo? (max 3 righe)

Qual è l’elemento comune alla teoria morale e alla teoria economica di Smith? (max 2 righe)

BENTHAM

CONOSCENZA

10

LA

16

SCIENZA DELLA NATURA UMANA

5

LA

ADAM SMITH: SENTIMENTI MORALI E DINAMICA ECONOMICA

Qual è l’alternativa proposta da Hume alla tesi della benevolenza universale e alla tesi dell’assoluto egoismo? (max 2 righe)

12

Spiega in un massimo di 3 righe il contenuto della «legge di Hume».

13

Perché Hume nega che ci sia un conflitto tra la ragione e le passioni? (max 4 righe)

14

Spiega in un massimo di 5 righe il meccanismo psicologico che, secondo Hume, è all’origine del sentimento morale.

CRITICA DELLA RELIGIONE

15

Qual è la posizione di Hume sul problema del rapporto tra fede e ragione? (max 3 righe) 547

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Parte seconda Il secolo dei lumi

LABORATORIO DI LETTURA La Ricerca sull’intelletto umano Nel brano che segue, tratto dalla Ricerca sull’intelletto umano, Hume ripercorre alcuni tratti essenziali della propria posizione filosofica rivendicando l’importanza e la ragionevolezza di uno scetticismo moderato. Hume si contrappone così all’insensatezza di uno scetticismo radicale, che chiama eccessivo e che è del tutto sterile per la vita reale, e afferma al tempo stesso con forza i vantaggi dello scetticismo moderato nei confronti dei filosofi dogmatici.

Difesa dello scetticismo moderato Prima tesi: inutilità dello scetticismo radicale

Prima premessa: lo scetticismo non produce alcun risultato teorico né pratico

Commento e interpretazione

548

Infatti qui sta l’obiezione principale e più valida contro lo scetticismo eccessivo, che da esso non può risultare alcun beneficio durevole, finché esso mantiene in pieno la sua forza ed il suo vigore. Basta che chiediamo ad uno scettico del genere: qual è la sua intenzione? E che cosa si propone con queste curiose ricerche? Si trova subito imbarazzato e non sa che cosa rispondere. [A] Un copernicano o un seguace di Tolomeo, che sostengono ognuno il loro differente sistema astronomico, possono sperare di produrre una convinzione costante e durevole nel loro uditorio. Uno stoico od un epicureo sviluppano dei principi che possono non esser durevoli ma che hanno un influsso sulla condotta e sul comportamento. Ma un pirroniano non può aspettarsi che questa filosofia abbia un influsso costante sulla mente, o che, qualora lo avesse, questo influsso sia benefico alla società. [B] Al contrario, deve riconoscere, se vuol riconoscere qualche cosa, che

1

5

10

A. Hume intende mostrare come lo scetticismo radicale che rifiuta ogni forma di conoscenza sia insostenibile e inutile, anche quando sia coerente, perché porta a una sorta di immobilismo e non svolge alcuna funzione nella vita degli uomini, restando, come dirà, un semplice gioco di tipo intellettuale lontano e inutile per l’esperienza quotidiana. B. Tutte le concezioni scientifiche, come quelle di Tolomeo o di Copernico, e le concezioni della moralità, come quelle degli stoici e degli epicurei, hanno un senso: in un caso si tratta di sostenere una tesi sulla natura che spieghi l’osservazione scientifica, nell’altro si tratta di costruire una teoria che abbia un’influenza sulla condotta e sul comportamento degli uomini. Ma uno scettico radicale, un vero pirroniano (dal nome dello scettico greco Pirrone, vissuto tra il IV e il III secolo a.C.) non è in grado di convincere di nulla, e quando anche lo facesse, ciò non produrrebbe alcun beneficio per gli altri uomini: la negazione radicale di tutte le conoscenze e di tutte le asserzioni non è infatti in grado di mirare, proprio perché nega tutto, a nessun risultato concreto. C. L’eventuale accettazione delle tesi dello scettico radicale significherebbe la fine della stessa possibilità di osservare e di agire, la fine di qualunque attività umana e quindi, suggerisce Hume, una sorta di anticamera della morte, cioè un’attesa del compiersi del processo della natura che per gli esseri viventi si conclude proprio con la morte. D. Hume riconosce che le tesi dello scetticismo radicale possono essere suggestive, che possono impressionare e che in questo modo possono indurre allo stupore e alla confusione

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia Seconda premessa: accettare lo scetticismo radicale significa porre fine a ogni attività umana

Prima conclusione: lo scetticismo è una sorta di passatempo intellettuale

Seconda tesi: utilità dello scetticismo moderato Prima premessa: il dogmatismo conduce all’intolleranza

Seonda premessa: il dogmatismo trascura i limiti dell’intelletto umano

l’intera vita umana dovrebbe andare in rovina se i suoi principi avessero modo di affermarsi in maniera stabile e generale. Cesserebbero immediatamente tutti i discorsi e tutte le azioni e gli uomini resterebbero in un letargo totale fino a che le necessità della natura, insoddisfatte, porrebbero fine alla loro miserabile esistenza. È vero: un epilogo così fatale è ben poco da temere. La natura è sempre troppo forte per principio. [C] E per quanto un pirroniano possa precipitare se stesso o altri in una sorta di stupore e di confusione momentanei per mezzo dei suoi profondi ragionamenti, il primo e più insignificante fatto della vita metterà in fuga tutti i suoi dubbi e tutti i suoi scrupoli e lo metterà, per tutte le questioni pratiche e teoriche, sullo stesso piano dei filosofi d’ogni altra setta o di coloro che non si sono mai interessati a dispute filosofiche di alcun genere. [D] Risvegliato dal suo sogno, sarà il primo a ridere di se stesso ed a confessare che tutte le sue obiezioni sono meri passatempi e non possono servire ad altro che a mostrare la stravagante condizione in cui si trova l’umanità che deve ragionare e agire e credere; per quanto gli uomini non riescano, nemmeno con le più diligenti ricerche, a trovare una risposta soddisfacente intorno alla fondazione di queste operazioni, oppure a togliere di mezzo le obiezioni che si possono muovere contro di esse. [E] Vi è, in verità, uno scetticismo più moderato […] che può essere sia durevole che utile e che può, in parte, essere il risultato del pirronismo, o scetticismo eccessivo, quando i suoi dubbi indifferenziati vengano, in qualche misura, corretti dal buon senso e dalla riflessione. [F] La maggior parte degli uomini inclina naturalmente ad asserire dogmaticamente le proprie opinioni; e dal momento che vedono le cose soltanto da un lato e non hanno idea di argomenti che controbilancino i propri argomenti, abbracciano precipitosamente quei principi ai quali sono inclini e non hanno alcuna indulgenza per coloro che professano sentimenti opposti. [G] L’esitare, cioè il valutare il pro ed il contro, rende perplesso il loro intelletto, arresta le loro passioni e sospende la loro attività. Perciò sono impazienti di sottrarsi ad una

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che la negazione di qualunque verità può portare con sé. In realtà la stessa vita concreta spinge lo scettico radicale a tenere conto di alcune convinzioni sia per discutere sia per quanto riguarda il proprio agire: egli sarà allora un filosofo come quelli di ogni altra setta filosofica, non un filosofo particolare, perché non potrà tenere del tutto fede al suo scetticismo. E nella vita pratica non potrà che fare tutte le cose che fa la gente comune. E. L’atteggiamento dello scettico radicale è, quindi, un atteggiamento sterile, che è quasi una forma di passatempo intellettuale e che mostra agli uomini il carattere limitato della loro possibilità di giustificare fino in fondo razionalmente le loro convinzioni e credenze. F. Qui comincia la difesa dello scetticismo moderato: questo accoglie alcuni spunti dello scetticismo radicale ma li sottopone all’esame del buon senso e della riflessione, liberandoli quindi del loro carattere paradossale. Inevitabilmente, la presa di posizione scettica implica anche una modificazione del fronte polemico di Hume: l’obiettivo critico non è più lo scetticismo radicale, del quale si è ormai mostrata l’inutilità, ma piuttosto il suo contrario, il dogmatismo di chi faccia affermazioni avventate non suffragate dall’esperienza, e magari spacciate per assolute, senza accettare il confronto con il dubbio e in generale con opinioni diverse. G. La funzione del brano è giustificare lo scetticismo, seppure moderato, la cui prima funzione consiste proprio nel mettere in dubbio opinioni consolidate che non sono state vagliate a sufficienza e vengono semplicemente accettate per inerzia o per abitudine, come avviene

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Seconda conclusione: lo scetticismo moderato è un rimedio contro la superbia intellettuale

Terza tesi: la riflessione deve limitarsi a ciò di cui si può avere esperienza

condizione che è per loro così poco agevole; e pensano di non essersene mai allontanati abbastanza, con la violenza delle loro asserzioni e l’ostinazione della loro credenza. Ma se questi ragionatori dogmatici potessero rendersi conto delle sorprendenti infermità dell’intelletto umano, anche nelle sue condizioni più perfette, e quando è più accurato e pieno di cautela nelle sue risoluzioni; una simile riflessione ispirerebbe loro naturalmente maggiore modestia e riserbo, sminuirebbe la sciocca opinione che hanno di loro stessi, nonché i loro pregiudizi nei confronti dei loro avversari. [H] Gli ignoranti possono riflettere sull’atteggiamento della persona colta che, pur disponendo di tutti i vantaggi dello studio e della riflessione, è di solito sempre diffidente nelle proprie determinazioni; e se qualcuno fra le persone colte fosse incline, per temperamento naturale, all’arroganza ed all’ostinazione, un pizzico di pirronismo potrebbe abbattere la sua superbia, mostrandogli che i pochi vantaggi che egli può avere conseguito rispetto ai suoi compagni di ricerca, sono del tutto trascurabili, se paragonati con la perplessità e con la confusione che s’insinua dappertutto ed è inseparabilmente congiunta con la natura umana. In generale, v’è un grado di dubbio, di cautela e di moderazione che, in tutte le specie di ricerca e di determinazione, dovrebbe sempre accompagnare il ragionatore rigoroso. [I] Un’altra specie di scetticismo moderato che può esser di vantaggio all’umanità e che può essere il risultato naturale dei dubbi e degli scrupoli pirroniani, è la limitazione delle nostre ricerche a quei soggetti che sono più adatti alle ristrette capacità dell’intelletto umano. [L] L’immaginazione dell’uomo è naturalmente grandiosa, si compiace di tutto quanto è remoto e fuori dell’ordinario, e spazia senza controllo nei più remoti angoli dello spazio e nei più distanti confini del tempo, per sfuggire agli oggetti che

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nel dogmatismo. Il dogmatismo ha poi un altro difetto, cioè quello di attaccarsi pervicacemente alle proprie tesi e alle proprie posizioni, senza cercare di vedere anche il punto di vista altrui. Questa caratteristica fa sì che il dogmatismo rischi sempre di diventare intollerante proprio perché non riesce a mettere in dubbio e a discutere le proprie tesi. H. Hume usa l’ironia verso i «ragionatori» dogmatici, che rifiutano di accettare qualunque forma di dubbio perché lo stesso germe di un dubbio, per chi rifiuti un’indagine sulle proprie opinioni, è troppo scomodo per essere affrontato, ed è quindi qualcosa a cui ci si vorrebbe sottrarre. In realtà, i ragionatori dogmatici, nella loro presunzione, non si rendono conto della debolezza dell’intelletto umano, e dei suoi limiti, anche quando questo intelletto venga utilizzato con grande attenzione e cautela, tanto più, quindi, quando si è intellettualmente presuntuosi. I. Gli intellettuali possono essere un modello per gli altri, poiché nel lavoro intellettuale procedere con cautela è un principio indispensabile, anche se si hanno gli strumenti più adeguati per riflettere e per analizzare in modo appropriato le cose. La stessa cautela è necessaria non solo nell’indagine teorica, ma anche nel prendere decisioni, le «determinazioni». Ma Hume è consapevole della possibilità che gli uomini colti, per esempio proprio i ragionatori dogmatici, cedano alla presunzione: una terapia contro di essa è ancora una volta rappresentata da un atteggiamento scettico, il pirronismo, e consiste nel mostrare che la mente più agguerrita non può comunque superare i limiti della natura e dell’intelletto umano. Il dubbio e la cautela devono allora accompagnare ogni tipo di ragionamento. L. Un atteggiamento scettico è quindi un principio generale nel condurre le proprie indagini. Ma esso ha anche applicazioni specifiche che riguardano le caratteristiche della natura umana. Ci sono argomenti, come quelli della metafisica e della religione, che non possono essere affrontati razionalmente perché sono in sé argomenti per i quali la ragione umana è insufficiente.

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia

Prima premessa: la ragione umana ha capacità limitate

Seconda premessa: matematica e sapere empirico sono i soli tipi di conoscenza

la consuetudine le ha reso troppo familiari. [M] Chi ha corretto discernimento adotta il metodo contrario ed evitando tutte le ricerche distanti e grandiose, si limita alla vita quotidiana ed a quei soggetti che rientrano nella pratica e nell’esperienza d’ogni giorno, lasciando gli argomenti più sublimi agli abbellimenti dei poeti e degli oratori, o agli artifici dei preti e dei politici. Per spingerci ad una decisione così salutare, nulla può servire di più che il convincerci radicalmente una volta per tutte della forza del dubbio pirroniano e dell’impossibilità che qualche cosa di diverso dal forte potere dell’istinto naturale ce ne possa liberare. [N] Coloro che hanno inclinazione alla filosofia, continueranno sempre le loro ricerche, perché osservano che, oltre al piacere immediato che deriva da questa occupazione, le deliberazioni che si prendono in filosofia non sono che le riflessioni della vita di ogni giorno, rese metodiche e più accurate. Ma essi non saranno mai tentati di andare al di là della vita comune, fintantoché considereranno l’imperfezione delle facoltà di cui si servono, il loro ambito ristretto e l’imprecisione delle loro operazioni. Mentre non possiamo dare una ragione soddisfacente del perché crediamo, dopo mille esperimenti, che una pietra cadrà o che il fuoco brucerà, possiamo forse rimanere soddisfatti di qualche risoluzione che possiamo prendere, riguardo all’origine dei mondi e alla situazione della natura dall’eternità e per l’eternità? [O] Questa ristretta delimitazione, in verità, delle nostre ricerche, è, sotto ogni rispetto, così ragionevole che basta, allo scopo di farcela apprezzare, compiere il più modesto esame dei poteri naturali della mente umana, paragonandoli con i loro rispettivi oggetti. Troveremo allora quali sono gli argomenti di scienza e di ricerca adatti. Mi sembra che gli unici oggetti della

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M. L’immaginazione, al contrario della memoria, non è completamente legata all’esperienza quotidiana, perché può combinare i dati dell’esperienza in modo che, dai dati reali, risulti qualcosa di assolutamente fantasioso e lontano da noi sia nello spazio, sia nel tempo. Dall’idea del cavallo e da quella dell’uccello l’immaginazione è infatti in grado di pensare, cioè di immaginare, un cavallo alato che vola: ma ciò non significa che esistano i cavalli alati. Per questo l’immaginazione è senza controllo e può spaziare liberamente. N. Alla tentazione dell’immaginazione di spaziare liberamente Hume contrappone il discernimento; da ciò emerge il radicamento della sua filosofia nell’esperienza osservativa della vita quotidiana, l’unica sulla quale possiamo sensatamente riflettere. Gli argomenti che si discostano dall’esperienza non devono essere oggetto della riflessione e dell’analisi dell’intelletto, ma eventualmente della poesia, che attraverso l’immaginazione tratta gli argomenti più diversi dando ad essi una bella veste stilistica; dell’oratoria, che è in grado di presentare gli argomenti con la bellezza del discorso; degli artifici dei preti e dei politici, che permettono di presentare in modo persuasivo e convincente questioni che in realtà non sono il frutto dell’esperienza, ma che vengono sfruttate per altri fini. O. È il carattere stesso della filosofia come scienza della natura umana a far sì che essa non debba discostarsi dall’esperienza quotidiana: tra la filosofia e la vita quotidiana non c’è quindi una differenza di oggetti, ma soltanto del grado di profondità in cui gli oggetti trattati devono essere affrontati. La filosofia deve spiegare l’osservazione che è possibile fare nella vita di tutti i giorni, magari facendo vedere che ciò che appare in un certo modo è soltanto un’abitudine o il frutto di un pregiudizio, ma rimanendo sul terreno della spiegazione dell’esperienza. Il principale motivo di questo carattere della filosofia è la consapevolezza del fatto che le capacità umane sono limitate. Hume mostra quanto possa essere presuntuosa la ragione quando cerca di andare al di là dei propri limiti. Già nello 551

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Terza premessa: c’è una differenza tra le proposizioni matematiche e le asserzioni sui fatti

scienza astratta o dimostrativa siano la quantità ed il numero e che tutti i tentativi di estendere questa più perfetta specie di conoscenza al di là di questi confini si riducano a sofisticheria e ad inganno [P] […]. [Oltre il sapere di tipo matematico], tutte le altre ricerche umane riguardano soltanto questioni di fatto e di esistenza; e queste non sono evidentemente suscettibili di dimostrazione. [Q] Ogni cosa che è, può non essere. Nessuna negazione di un fatto può implicare contraddizione. [R] Quella della non-esistenza di qualche essere, senza eccezione, è un’idea così chiara e distinta come quella della sua esistenza. La proposizione che afferma che esso non esiste, non è meno concepibile ed intelligibile di quella che afferma che esso esiste. [S] Il caso è diverso, quando si tratta delle scienze propriamente dette. Ogni proposizione, che non è vera, in esse è confusa ed inintelligibile. Che la radice cubica di 64 sia eguale alla metà di 10, è una proposizione falsa e non può mai esser concepita in modo distinto. Ma che Cesare, o l’angelo Gabriele o qualche altro essere non siano mai esistiti, può essere una proposizione falsa, ma è tuttavia perfettamente concepibile e non implica contraddizione. [T]

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spiegare l’esperienza osservativa è necessario fare riferimento alle nostre credenze fondate sull’abitudine, come nel caso del peso di una pietra (che lanciata cadrà a terra) o del fuoco (che brucia un pezzo di legno). Questi eventi fisici osservabili non sono giustificabili razionalmente, perché non c’è nessuna garanzia che la prossima pietra cadrà anch’essa come tutte le pietre che si sono lanciate finora o che il prossimo pezzo di legno brucerà: ma noi abbiamo la credenza, sulla base dell’esperienza precedente, che accadrà così, e per Hume si tratta di una credenza importante e utile (non inutile, come crede lo scetticismo che Hume chiama «eccessivo»). Se già queste considerazioni sui dati dell’esperienza mostrano i limiti della ragione umana, come possiamo pretendere di esaminare questioni che vanno al di là di qualunque possibile esperienza, come l’origine dei mondi e l’eternità della natura? Qui Hume comincia la sua trattazione dei possibili oggetti di conoscenza, che corrispondono agli ambiti del sapere umano: essi sono di due soli generi, il sapere matematicogeometrico e il sapere fondato sull’esperienza. Le discipline che cercano di estendersi al di là o al di fuori di questo ambito sono in realtà ingiustificate. Le uniche scienze che possono essere dimostrate sono quelle di tipo matematico. In questo caso, è attraverso la semplice analisi a priori, cioè indipendente dall’esperienza, che si possono costruire dimostrazioni: i principi della geometria o l’addizione di due cifre sono calcoli astratti che non dipendono dall’esperienza e che sono validi, se formulati in modo corretto, indipendentemente dalla loro esistenza nella realtà empirica. Le leggi del cerchio o del triangolo si ottengono analizzando queste due figure e facendo certi calcoli, non sulla base dell’osservazione di cerchi e triangoli particolari. Affermare che la moltiplicazione del numero 3 per il numero 5 non dà per risultato 15 è una contraddizione, nel senso che noi non possiamo nemmeno sensatamente pensarlo senza che si manifesti con evidenza la contraddizione. Ma le capacità dimostrative della mente umana si fermano su questa soglia e non possono essere applicate a qualcosa di diverso come in effetti è l’altro importante ambito del sapere, che è costituito dall’indagine empirica sulle questioni di fatto e di esistenza, su ciò che realmente avviene nella natura. L’indagine empirica è completamente diversa dall’analisi matematica, perché non c’è alcuna necessità razionale che le cose stiano in un modo piuttosto che in un altro. Dal punto di vista razionale, o logico, è possibile affermare che una cosa di fatto esiste, oppure non esiste, senza che questa affermazione sia in sé contraddittoria. Hume usa ironicamente il criterio della chiarezza e della distinzione introdotto da Carte-

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Unità 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia

L’esistenza, perciò, d’un essere può essere provata soltanto con argomenti tratti dalla sua causa o dal suo effetto; e questi argomenti si fondano completamente sull’esperienza. Se ragioniamo a priori, ogni cosa può risultare capace di produrre qualsiasi cosa. La caduta d’un sasso potrebbe, per quel che ne sappiamo, spegnere il sole; o la volontà di un uomo potrebbe guidare i pianeti nelle loro orbite. È soltanto l’esperienza che ci fa apprendere la natura ed i limiti della relazione di causa ed effetto e che ci consente di inferire l’esistenza di un oggetto da quella di un altro [U] […]. Corollario: Quando scorriamo i libri d’una biblioteca, persuasi di questi princìpi, che coinutilità della teologia sa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per eseme della metafisica pio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni. [V]

Terza conclusione: solo sulla base dell’esperienza possiamo affermare che qualcosa esiste

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(da D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano, Sezione 12, trad. it. a cura di M. Dal Pra in Id., Ricerca sull’intelletto umano e sui principi della morale, Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 203-210)

sio per mostrare la specificità della questione dell’esistenza delle cose rispetto alle verità matematiche. Nel caso dell’esistenza, io posso pensare a un essere come esistente o come non esistente esattamente nello stesso modo e con la stessa chiarezza, anche se poi la mia asserzione può essere vera o falsa; ma è un’asserzione perfettamente comprensibile. T. Sul piano delle asserzioni matematiche, ossia delle scienze vere e proprie, se io faccio un’asserzione falsa questa costituisce qualcosa di confuso e di incomprensibile, che non riesco a pensare. Se nego l’esistenza di qualcuno che esista, o che sia realmente esistito, non ho nessuna difficoltà a capire che cosa si intende con questa asserzione, anche quando sia falsa. U. Tutte le affermazioni che riguardano la realtà fisica sono possibili soltanto sulla base dell’esperienza. Sul piano puramente logico, razionale, a priori, senza confronto con l’esperienza, io sono in grado di fare affermazioni che non trovano riscontro nella realtà: non è logicamente assurdo che un sasso possa spegnere il sole, anche se noi, per l’esperienza che ne abbiamo fatto finora, abbiamo la credenza che questa affermazione sia falsa. V. La chiusa del brano di Hume è molto netta e si riferisce esplicitamente alla sua distinzione tra diverse forme di conoscenza, quella matematica e quella fondata sull’esperienza, che costituiscono le uniche possibili forme del sapere: se un libro contiene qualcosa che non rientra né nell’una né nell’altra – e Hume polemicamente indica anche quali sono i possibili obiettivi della sua critica: la teologia e la metafisica, che parlano di cose non accessibili all’intelletto umano – è un libro inutile, che può essere gettato nel fuoco.

Questionario sull’argomentazione 1

Qual è, per Hume, la conseguenza dell’accettazione di una forma radicale di scetticismo? (max 4 righe)

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Come viene spiegata la riluttanza della maggior parte degli uomini a mettere in dubbio le proprie opinioni? (max 2 righe)

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Perché la filosofia deve limitarsi alla riflessione su ciò che è oggetto della nostra esperienza quotidiana? (max 6 righe)

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Perché Hume sostiene che la metafisica e la teologia sono un inganno? (max 4 righe)

Quali sono i vantaggi dello scetticismo moderato rispetto all’atteggiamento dogmatico? (max 5 righe) 553

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia

1. Atteggiamento critico e diffusione dei «lumi»

4. L’Enciclopedia: Diderot e d’Alembert 1. L’Enciclopedia, un grande successo editoriale 2. Il progetto di una nuova cultura

2. Montesquieu 1. Le società umane e le leggi 2. Le forme di governo 3. La divisione dei poteri

5. Sensismo e materialismo 1. Condillac e il sensismo 2. Il materialismo: La Mettrie, Helvétius e d’Holbach

3. Voltaire 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Il patriarca dell’Illuminismo Il modello inglese Il deismo e la critica dell’ottimismo La difesa della borghesia La tolleranza La polemica verso l’ateismo Le opere storiche

6. L’idea di progresso 1. Turgot 2. Condorcet

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte seconda Il secolo dei lumi

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Atteggiamento critico e diffusione dei «lumi»

Temi filosofici dell’Illuminismo inglese e scozzese

I pensatori illuministi inglesi e scozzesi, come abbiamo visto nell’Unità 10, affrontano un’ampia gamma di problemi: la critica della religione, la natura e la natura umana, la questione dei limiti della ragione e dei principi della conoscenza, i problemi della morale e i meccanismi sociali ed economici. Numerosi aspetti della filosofia inglese e scozzese del Seicento e del Settecento approdano rapidamente in Francia, un Paese che per molti aspetti si trova in una condizione ben più arretrata, tanto che il secolo sfocerà nella maggiore rivoluzione dell’età moderna, quella del 1789. A questa condizione di arretratezza, ancora profondamente segnata dalle conseguenze delle guerre di religione seguite alla Riforma protestante, corrisponde una maggiore radicalità critica dei percorsi intellettuali. Cartesio è l’inevitabile termine di confronto e l’obiettivo polemico della riflessione illuministica: si ammira lo scienziato, ma si cerca di liberarsi del filosofo metafisico, rifacendosi alla tradizione inglese, empiristica e sperimentalistica, di Newton e di Locke, due veri e propri numi tutelari della filosofia – anche francese – del XVIII secolo. La stessa circolazione delle idee ha in Francia un carattere peculiare, e passa in parte attraverso la diffusione di manoscritti clandestini (vedi Unità 4, p. 204) che sostengono posizioni deistiche o, in alcuni casi, ateistiche e materialistiche, anche utilizzando in varie forme il pensiero di Spinoza. Si tratta di idee che trovano poi, nel corso del secolo, espliciti riscontri in opere pubblicate, per esempio nel deismo di Voltaire o nel materialismo ateo di d’Holbach. Il carattere dominante dell’Illuminismo francese, che ha fatto sì che spesso sia stato identificato come il modello dell’Illuminismo per eccellenza, consiste nella stessa idea della diffusione della cultura o dei «lumi», che assume forme diverse. I maggiori rappresentanti della cultura filosofica francese, come Voltaire o Denis Diderot, non disperano di potere esercitare la loro influenza attraverso l’azione «illuminata» dei sovrani: Voltaire tenta invano di percorrere questa strada con Federico II di Prussia, il «re filosofo», e Diderot, altrettanto invano, ripone le sue speranze in Caterina di Russia. Lo stesso ambizioso e grandioso progetto di una Enciclopedia del sapere – l’impresa di Diderot e d’Alembert che segna profondamente la fisionomia dell’Illuminismo francese – risponde a un intento di rinnovamento e di diffusione della cultura, mentre il progetto di «illuminare» le menti incide anche sullo stile dell’intervento politico e filosofico: alla riflessione depositata in ponderosi trattati si preferisce l’intervento più agile, anche di genere letterario – come il romanzo, il racconto o il pezzo teatrale –, o comunque il saggio breve, più consono all’esigenza di un dibattito intellettuale di ampia diffusione.

L’influenza sulla cultura francese

Il confronto con Cartesio

I manoscritti clandestini

Azioni diverse, uno stesso obiettivo: la diffusione della cultura o dei «lumi»

➥ Sommario, p. 580

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia I luoghi degli illuministi francesi

Voltaire vi risiede durante il suo soggiorno in Inghilterra e vi pubblica le Lettere inglesi

Residenze di Federico II di Prussia che vi ospitò tra gli altri Voltaire, La Mettrie, Helvétius

Vi studia d’Holbach e vi si rifugia La Mettrie

Sede della corte imperiale russa, presso la quale si reca Diderot San Pietroburgo

SVEZIA

Vi nasce Condorcet

Vi risiede per alcuni anni Voltaire di ritorno dall’Inghilterra

Regno di Gran Bretagna e Irlanda

DANIMARCA

Berlino Potsdam Regno di Prussia

Province Leida Unite

Londra

Vi muore Rousseau Ribemont

Vi nasce La Mettrie

Paesi Bassi austriaci

Ermenonville Saint Malo

Parigi Beaugency

Principale centro dell’Illuminismo

Regno di Polonia

Castello di Cirey Impero

Bourg-La-Reine

Romano Germanico Heidesheim

Langres Castello di Ferney Svizzera Ginevra

Vi muore Condillac Vi muore Condorcet

La Brède

AUSTRIA

Regno di Francia

Regno d’Ungheria

Vi nasce Montesquieu Grenoble

Stato della Chiesa

Per un ventennio vi risiede Voltaire Vi nasce Diderot Vi nasce Rousseau e vi soggiorna Voltaire

Vi nasce d’Holbach Vi nasce Condillac

Montesquieu

2 I testi

Lo spirito delle leggi: Lo studio delle società umane, T1; Lo spirito generale, T2; Le leggi e lo spirito delle leggi, T3

La critica della società nelle Lettere persiane

La stagione illuministica francese si apre con l’opera di Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, che con le Lettere persiane, l’opera pubblicata nel 1721, esprime l’atteggiamento critico del pensiero illuministico verso la società contemporanea. La prospettiva adottata nei resoconti dei viaggiatori in Oriente, che mettevano in luce usanze diverse da quelle europee, viene qui ribaltata attraverso la finzione di lettere redatte da visitatori persiani di Parigi, che con lo stesso divertito stupore dei viaggiatori europei in Oriente raccontano i costumi occidentali, mostrando ironicamente l’irragionevolezza degli usi e dei costumi politici e sociali francesi. 557

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Parte seconda Il secolo dei lumi Lo spirito delle leggi

Il capolavoro di Montesquieu è però Lo spirito delle leggi, un grande affresco sociale e storico in cui egli, prendendo le mosse dalle istituzioni giuridiche, affronta in modo nuovo e approfondito tutti gli aspetti della vita sociale. Pur accettando la tesi fondamentale del giusnaturalismo, che vede in un diritto naturale il criterio per giudicare le istituzioni giuridiche e politiche, Montesquieu sviluppa la sua indagine in tutt’altra direzione.

La vita e le opere Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, nacque a La Brède, vicino a Bordeaux nel 1689. Iniziò i suoi studi presso un collegio degli oratoriani, e poi li proseguì a Bordeaux, laureandosi in diritto. In questa città divenne magistrato e poi consigliere parlamentare a partire dal 1714, impegnandosi anche nella locale Accademia delle scienze. Nel 1721 pubblicò le Lettere persiane e negli anni successivi viaggiò in Germania, Austria, Svizzera, Italia e Inghil-

1 L’obiettivo di Montesquieu: spiegare come nascono e si conservano le istituzioni sociali

Al di là della contrapposizione tra universalismo e relativismo

L’iniziatore della sociologia

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terra. Tornato in Francia pubblicò un libro sulla storia romana, Considerazioni sulla grandezza dei romani e sulla loro decadenza (1734), a cui, dopo quattordici anni di gestazione, seguì Lo spirito delle leggi (1748), uscito anonimo a Ginevra, il suo capolavoro e una delle maggiori opere politiche illuministiche e di tutti i tempi. Collaborò anche all’Enciclopedia, per cui scrisse un Saggio sul gusto. Negli ultimi anni si dedicò a rielaborare la sua opera principale. Morì a Parigi nel 1755.

Le società umane e le leggi Il carattere principale dello Spirito delle leggi non è tanto il giudizio sulla legittimità delle istituzioni, cioè del diritto positivo, attraverso un criterio esterno ad esso (com’è il diritto naturale), quanto la ricerca della spiegazione di esso, ovvero l’indagine sui motivi che hanno portato a un determinato tipo di società e su come le istituzioni di una determinata società si siano potute conservare. In questo modo, lo studio delle società umane si concentra prevalentemente sulle leggi che le governano e sui fattori che le condizionano. La grande novità consiste nell’abbandono dell’idea che le istituzioni sociali, giuridiche e politiche siano dominate dalle scelte libere, o arbitrarie, degli uomini, mettendo piuttosto in luce la possibilità di studiare il mondo umano secondo certe leggi proprie di esso. Montesquieu riesce in questo modo a indagare il mondo umano andando al di là della contrapposizione che aveva dominato il XVII secolo: da un lato, la tradizione giusnaturalistica, fondata sull’affermazione di un diritto naturale valido universalmente che funge da criterio e modello del diritto positivo, dall’altro, la tradizione scettica e libertina che metteva in luce l’infinita varietà di usi e costumi in popoli diversi, approdando a una visione relativistica della morale. Montesquieu sviluppa uno studio sulle istituzioni umane così come esse sono, più che come devono o dovrebbero essere, e crea le condizioni per uno studio della società di tipo scientifico, tanto che alcuni, come Jean-Jacques Rousseau (17121778), saranno insoddisfatti proprio dal carattere descrittivo dell’opera, che non disegna un modello di Stato (vedi Unità 12, p. 592). Al contrario, a partire dall’Ottocento si è visto nell’opera di Montesquieu il germe della moderna sociologia (ossia della scienza che studia i fenomeni sociali e che in senso proprio nascerà nel XIX secolo): anche le società umane, pur nella loro varietà, sono sottoposte a leggi generali, a principi, che regolano il loro funzionamento e non dipendono dalle «fantasie» e dall’arbitrio degli individui. Lo scopo principale dello studio della società è individuare queste leggi generali e

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia

vedere in che modo esse possano essere rintracciate nelle comunità più diverse. Ogni società è retta infatti da una serie di principi, di diversa natura e di diversa generalità, che formano un insieme coerente di elementi legati l’uno all’altro in un modo determinato.

T1

Lo studio delle società umane

Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Prefazione dell’autore

Dapprima ho esaminato gli uomini, e ho ritenuto che, in una infinita varietà di leggi e costumi, essi non fossero guidati unicamente dalle loro fantasie. Ho posto dei principi, e ho visto i casi particolari adattarvisi quasi spontaneamente, la storia di tutte le nazioni non esserne che la conseguenza, e ogni legge particolare essere legata a un’altra legge, o dipendere da un’altra più generale […]. Non ho tratto i miei principi dai miei pregiudizi, ma dalla natura delle cose.

Non che manchino, nel libro, i giudizi negativi o positivi su determinate istituzioni, ma questi sono sempre accompagnati dal tentativo di spiegarle, con un atteggiamento di tipo scientifico. Un esempio appropriato è la schiavitù, che Montesquieu condanna in linea di principio, ma della quale cerca anche di capire le radici. Polemizzando verso le giustificazioni della schiavitù offerte dai giuristi romani, Montesquieu ritiene di doverne cercare «la vera origine», che individua innanzitutto nei governi dispotici, dove si ha «una grande facilità a vendersi». E proprio per la schiavitù egli crede di poter mostrare l’efficacia di un principio di spiegazione che costituisce una delle caratteristiche della sua impostazione: tra i fattori che condizionano e spiegano il sorgere e il permanere delle istituzioni sociali, infatti, Montesquieu prende in considerazione anche il clima. L’influenza del clima Le condizioni ambientali favoriscono infatti determinati comportamenti umani, e nel sulla natura umana caso del clima caldo ci sarà da parte degli uomini una maggiore passività e quindi una maggiore probabilità di governi dispotici e del diffondersi della schiavitù, poiché il calore abbatte il corpo e questo abbattimento si trasmette anche allo spirito. I caratteri dei popoli Le società umane formano quindi un insieme articolato e coerente composto di vari elementi, di vari fattori, che contribuiscono a caratterizzarle in modo specifico. È così che si forma quello che Montesquieu chiama lo «spirito generale» di un popolo, costituito dall’interazione e dall’articolazione tra i diversi elementi. Non sembra possibile poter dire a priori quale sia il fattore determinante per una certa società: questa è una risposta che può essere data soltanto dall’indagine empirica sulle diverse società, che avranno in elementi diversi il fattore volta per volta prevalente. La ricerca di spiegazioni

T2

Lo spirito generale

Montesquieu, Lo spirito delle leggi, 19,4

Le leggi come espressioni dello spirito generale

Molte cose governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi dell’antichità, i costumi, le usanze; se ne forma uno spirito generale che ne è il risultato. A misura che, in ogni nazione, una di queste cause agisce con maggior forza, le altre le cedono in proporzione. La natura e il clima dominano quasi esclusivamente i selvaggi; le usanze governano i cinesi; le leggi tiranneggiano il Giappone; i costumi davano un tempo il tono in Sparta; i principi del governo e i costumi antichi lo davano in Roma. La legge, sostiene Montesquieu, è la stessa ragione umana, che trova diverse applicazioni nei diversi popoli, ed è questa diversità che fa sì che determinate circostanze caratteristiche di una data società diano luogo a leggi diverse: le leggi, infatti, quelle politiche e quelle civili (cioè il diritto pubblico e il diritto privato) 559

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esprimono l’insieme di una data società. L’oggetto reale dell’opera di Montesquieu è proprio la struttura della società e le relazioni che si danno tra i diversi fattori che la costituiscono.

T3

Le leggi e lo spirito delle leggi

Montesquieu, Lo spirito delle leggi, 1,3

L’origine dello Stato e la proprietà

2

La legge, in generale, è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli della terra, e le leggi politiche e civili di ogni nazione non devono costituire che i casi particolari ai quali si applica questa ragione umana. Devono essere talmente adatte ai popoli per i quali sono state istituite, che è incertissimo se quelle di una nazione possano convenire a un’altra. È necessario che siano relative alla natura e al principio del governo stabilito o che si vuole stabilire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche, sia che lo conservino, come fanno le leggi civili. Devono essere corrispondenti alle caratteristiche fisiche del paese; al clima – freddo, ardente o temperato –; alla qualità del suolo, alla sua situazione, alla sua ampiezza; al genere di vita dei popoli, agricoltori, cacciatori o pastori; devono rifarsi al grado di libertà che la costituzione può permettere, alla religione degli abitanti, all’indole di essi, alla loro ricchezza, al numero, al commercio, agli usi e costumi. Hanno, infine, relazioni fra loro, ne hanno con la loro origine, con lo scopo del legislatore, con l’ordine delle cose su cui sono stabilite. È quindi necessario che vengano considerate sotto tutti questi punti di vista. È appunto ciò che tenterò di fare nell’opera presente: esaminerò tutte queste relazioni che costituiscono, nel loro insieme, quello che si chiama lo SPIRITO DELLE LEGGI. Per quanto riguarda l’origine dello Stato, e quindi sia delle leggi civili sia delle leggi politiche, essa affonda le sue radici nella sostanziale modifica del modo in cui gli uomini producono: il passaggio dalla caccia e dalla pastorizia a un’economia agricola fondata sullo sfruttamento intensivo del suolo costituisce un punto di svolta perché segna l’inizio dell’istituzione della proprietà. Con la proprietà, nasce anche la necessità di regolare gli interessi dei diversi individui (con le leggi civili) e contemporaneamente la necessità di garantire la convivenza pacifica attraverso l’istituzione dello Stato e delle leggi politiche.

Le forme di governo

Spiegando la formazione delle strutture giuridiche e politiche, Montesquieu affronta anche il tema che appartiene alla filosofia politica fin dalle sue origini con Platone e Aristotele: quello delle forme di governo. Egli distingue tre diverse forme di Stato, o di governo: 1) la repubblica, che è a sua volta distinta in oligarchia e democrazia; 2) la monarchia; 3) il dispotismo, che non costituisce, come invece riteneva Aristotele, una forma di degenerazione della monarchia, ma è una forma specifica, alla quale Montesquieu attribuisce grande importanza: tutta l’opera, infatti, è attraversata dalla preoccupazione per il pericolo del dispotismo. Gli elementi Le diverse forme di governo sono caratterizzate da due elementi, la «natura» e il discriminanti: «natura» «principio». La natura della repubblica consiste nell’esercizio diretto del potere La classificazione delle forme di governo

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Gli elementi discriminanti: «principio»

Il rischio costante del dispotismo

3 Una peculiarità delle forme repubblicana e monarchica

➥ Sommario, p. 580

da parte del popolo nel suo complesso (nella democrazia) o di una parte di esso (nell’oligarchia); la natura della monarchia consiste nell’esercizio del potere da parte di un sovrano che trova nelle leggi i limiti della propria autorità, mentre nel caso del dispotismo il potere del sovrano non conosce limiti. Ciascuna delle forme di governo è caratterizzata anche da un principio, che costituisce l’elemento «passionale» o morale sul quale ciascuna di esse si fonda e grazie al quale si conserva: la repubblica si fonda sulla virtù come dedizione allo Stato, la monarchia sull’onore come dignità del proprio ceto, mentre il dispotismo si fonda sulla paura, la passione che per Hobbes era, in generale, la passione principale per qualsiasi forma di Stato. Il dispotismo è il rischio costante delle istituzioni politiche, e domina per Montesquieu ancora nel suo secolo gran parte dei popoli: esso si fonda sulla passività dell’uomo, come dimostra la relazione che Montesquieu istituisce tra il clima caldo e una maggiore disposizione al dispotismo. Il clima caldo, infatti, favorisce la possibilità del dispotismo e della schiavitù perché favorisce la componente passiva della natura umana, e per questo trova una sua patria di elezione nei Paesi dell’Oriente, dai climi più caldi. Tutte le società, comunque, sono sottoposte al rischio della decadenza e della corruzione.

La divisione dei poteri Montesquieu introduce anche un principio di divisione dei poteri dello Stato che serva a conservare la libertà politica per le forme di governo repubblicana e monarchica (nel dispotismo, dove non si dà libertà politica, il problema non può essere nemmeno posto): da questa preoccupazione nasce la distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo, ovvero la loro reciproca autonomia e indipendenza. Il tema della divisione dei poteri come garanzia della libertà politica diventerà un caposaldo della tradizione giuridico-politica occidentale, estendendosi a un terzo potere, il potere giudiziario.

Lo spirito delle leggi

I temi dello Spirito delle leggi

Obiettivo

Spiegare come nascono e si conservano le istituzioni sociali

Definizione dello «spirito generale»

Ogni popolo ha un proprio «spirito generale» dovuto a diversi fattori (per esempio il clima)

Origine delle leggi

Ogni popolo si dà leggi consone al proprio «spirito generale»

Origine dello Stato

Lo Stato nasce con l’istituzione della proprietà

Teoria delle forme di governo

Si distinguono per natura: per esempio la repubblica democratica per l’esercizio diretto del potere da parte del popolo Si distinguono sulla base del principio che le governa: – repubblica ➞ virtù – monarchia ➞ onore – dispotismo ➞ paura

Teoria della divisione dei poteri

Garantisce la libertà politica nella repubblica e nella monarchia: autonomia e indipendenza reciproca tra potere legislativo ed esecutivo

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Voltaire

3 I testi

Lettere inglesi: Elogio di Locke, T4; Il commerciante e il nobile, T5; La convivenza tra le religioni, T6

Il rappresentante dell’Illuminismo

1 Una vita ‘esemplare’

Per quanto non sia un filosofo originale, e pressoché nessuna delle sue tesi filosofiche sia stata proposta da lui per la prima volta, François-Marie Arouet, detto Voltaire, è il grande rappresentante dell’Illuminismo, del suo spirito e della sua carica critica. Così lo considerano già i contemporanei, e un segno esteriore, e simbolico, di questo prestigio è dato dal suo ritorno trionfale a Parigi, nel 1778, dove nell’arco di poche settimane l’ormai ultraottuagenario patriarca dei lumi viene acclamato dalla folla all’Accademia di Francia e, nell’occasione della rappresentazione di una sua tragedia, alla Comédie Française (il teatro di Stato nato nel 1680 per volontà di Luigi XIV).

Il patriarca dell’Illuminismo Le vicende biografiche e intellettuali di Voltaire sembrano costituire la premessa di questo trionfo finale ottenuto a pochi giorni dalla morte: scrittore di teatro di successo, imprigionato alla Bastiglia per un anno, perseguitato per avere osato sfidare a duello, lui borghese, un nobile, e quindi esiliato; romanziere e autore di saggi polemici e satirici, poeta, Voltaire è l’alleato degli enciclopedisti nella lotta per la grande impresa illuministica, il difensore della tolleranza in più occasioni, il critico per eccellenza della superstizione.

La vita e le opere François-Marie Arouet, detto Voltaire, nacque a Parigi nel 1694 in una famiglia dell’alta borghesia di orientamento giansenista e venne educato dai gesuiti. Durante la sua formazione entrò in contatto anche con i circoli libertini e fu influenzato dalle idee del libero pensiero. Nel 1717 compose alcuni versi satirici diretti contro il reggente Filippo d’Orléans e venne per questo imprigionato per un anno alla Bastiglia, la fortezza parigina che fungeva da carcere. Una volta uscito, portò in scena la sua prima tragedia, Edipo (1718), in cui la vicenda mitologica veniva trattata in modo da farne una critica della religione. Nel 1726, in seguito alla lite con un nobile, venne nuo-

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vamente portato alla Bastiglia e, liberato, quello stesso anno si recò in esilio in Inghilterra, dove soggiornò fino al 1729. Il maggior risultato di quell’esperienza furono le Lettere inglesi, uscite in inglese nel 1733 e in francese l’anno successivo; Voltaire scrisse anche il poema Enriade, elogio della politica tollerante di Enrico IV di Francia. Di ritorno in patria, condannato a causa delle Lettere, passò un lungo periodo ospite della sua amante, la marchesa du Châtelet, nel castello di Cirey in Lorena, dove compose il Trattato di metafisica (1734), gli Elementi della filosofia di Newton (1737), la Metafisica di Newton (1741) e il racconto Zadig (1748); graziato nel 1735, dieci anni dopo venne ammesso all’Accademia di Francia.

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Dopo la morte della marchesa, avvenuta nel 1749, Voltaire lasciò nuovamente la Francia per recarsi in Prussia presso Federico II, alla cui corte rimase dal 1750 al 1753, scrivendo nel frattempo l’opera storica Il secolo di Luigi XIV (1751) e il racconto Micromega (1752). In urto con il re e con Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, astronomo e filosofo divenuto presidente dell’Accademia di Berlino, Voltaire si trasferì in Svizzera, presso Ginevra, dove aveva acquistato una tenuta, e qui scrisse La pulzella (1755), una parodia dedicata a Giovanna d’Arco, il Poema sul disastro di Lisbona, e l’opera storica Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1756). Lasciò la Svizzera perché in quest’ultima opera aveva dimostrato simpatia per Michele Serveto (eretico arrestato anche con la complicità di Calvino e condannato

2

al rogo nel 1553) e questo lo aveva reso sgradito alle autorità ginevrine. Nel 1758 acquistò il castello di Ferney in Francia e vi si ritirò. Qui il «patriarca di Ferney» visse per un ventennio, spesso visitato da principi e uomini di cultura e compose alcune delle sue opere più famose, come Candido, o l’ottimismo (1759), Storia della Russia sotto Pietro il Grande (1759), il Trattato sulla tolleranza (1763), le Idee repubblicane (1763), il Dizionario filosofico (1764), la Filosofia della storia (1765), Il filosofo ignorante (1766), intrattenendo anche una fitta corrispondenza testimoniata da circa seimila lettere. Nel 1778, tornato a Parigi per la rappresentazione della sua ultima tragedia, Irene, e per essere celebrato all’Accademia, morì in questa città. Durante la Rivoluzione, nel 1791, le sue spoglie furono trasportate al Pantheon con una cerimonia pubblica.

Il modello inglese

Le Lettere filosofiche, o Lettere inglesi, redatte da Voltaire durante l’esilio inglese e pubblicate nel 1734, costituiscono una sorta di manifesto dell’Illuminismo francese e affrontano con tono saggistico le questioni più diverse, dalla religione ai temi sociali e politici, alla filosofia, alla cultura letteraria. Queste lettere costituiscono al tempo stesso la dimostrazione del peso che il pensiero inglese di Locke e di Newton ha e avrà nell’Illuminismo in Francia e il segno di una rottura di Voltaire, e del pensiero illuministico, con la tradizione metafisica di Cartesio e Malebranche. A questo fine Voltaire si ispira, infatti, alla tradizione empiristica e sperimentale inglese per attaccare la metafisica e l’apologetica cristiana, che viene considerata all’origine dell’intolleranza religiosa. La critica della Voltaire ironizza pesantemente su tutta la tradizione filosofica che si conclude con tradizione metafisica Cartesio («nato per scoprire gli errori dell’antichità ma per sostituirvi i propri») francese e Nicolas Malebranche (portatore di «sublimi illusioni»): tutti hanno cercato di dare spiegazioni metafisiche dell’anima e sono stati in questo fin troppo ambiziosi, mentre il Saggio sull’intelletto umano di Locke ha più modestamente esaminato l’intelletto umano e ne ha fatto la semplice «storia», fondata sull’osservazione sperimentale affine a quella della scienza della natura. Il manifesto dell’Illuminismo francese

T4

Elogio di Locke Voltaire, Lettere inglesi, Tredicesima lettera

Dopo che tanti ragionatori hanno costruito il romanzo dell’anima, è venuto un saggio, che ne ha fatto modestamente la storia. Locke ha spiegato all’uomo la ragione umana, come un bravo anatomista spiega le parti del corpo umano. Egli si aiuta sempre con la fiaccola della fisica; talvolta osa parlare affermativamente, ma ha anche il coraggio di dubitare. Invece di definire d’un sol tratto quel che non conosciamo, egli esamina per gradi quello che vogliamo conoscere. Prende un bambino al momento della nascita; segue passo passo i progressi della sua intelligenza; vede quel che ha di comune con gli animali e quello che lo rende superiore ad essi; consulta soprattutto la propria testimonianza, la coscienza del proprio pensiero. 563

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3

Il deismo e la critica dell’ottimismo

La posizione filosofica di Voltaire rimarrà sostanzialmente la stessa negli anni successivi: ispirato all’empirismo di Locke, egli trae dal pensiero di Newton l’idea di un cosmo ordinato del quale fa parte anche l’uomo, pur se questo ordine non va assolutamente inteso in modo antropocentrico. L’ordine del cosmo, che rivela indubbiamente una mente ordinatrice, sta alla base del deismo di Voltaire (sul deismo vedi anche Unità 6, p. 379 s.): Dio procede per leggi generali e non si cura delle vicende umane, dopo avere indicato le norme morali alle quali gli uomini devono attenersi. Uno dei tratti principali del deismo di Voltaire, infatti, sta proprio nel suo rifiuto di ogni interpretazione provvidenzialistica del cosmo e della storia. Critica La critica del provvidenzialismo assume maggior forza in seguito all’evento peral provvidenzialismo cepito dalla coscienza collettiva come il più catastrofico del secolo: il terremoto e problema del male di Lisbona del 1755. Se la posizione di Voltaire era improntata inizialmente all’ottimismo – un elemento della polemica verso il «sublime misantropo» Blaise Pascal – il terremoto di Lisbona modifica la sua prospettiva, come emerge chiaramente nel Poema sul disastro di Lisbona (1756) e nel romanzo Candido, o l’ottimismo (1759), dove la critica dei sistemi metafisici e il tentativo di ridicolizzare la tesi leibniziana del «migliore dei mondi possibili» (vedi Unità 5, p. 296 s.) si coniugano con un’acuta percezione della fragilità e della miseria della condi➥ Percorso tematico, p. 321 zione umana. Ordine del cosmo e mente ordinatrice

4 Il modello di vita inglese

T5

Il commerciante e il nobile Voltaire, Lettere inglesi, Decima lettera

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La difesa della borghesia Ma l’Inghilterra non è soltanto un modello di ispirazione filosofica antimetafisica: è lo stesso modo di vita inglese che viene contrapposto alla Francia, a partire dall’alacrità commerciale e utile degli inglesi se confrontata con il parassitismo della nobiltà. Voltaire instaura così il confronto tra la nascente società borghese inglese, libera e produttiva, che accresce la ricchezza e la potenza dello Stato, e il carattere ottusamente presuntuoso e improduttivo del ceto nobiliare francese. Il commercio che ha arricchito i cittadini inglesi, ha contribuito a renderli liberi, e questa libertà ha sviluppato a sua volta il commercio; così si è formata la grandezza dello Stato […]. In Francia è marchese chiunque lo voglia; e chiunque giunga a Parigi dal fondo d’una provincia con denaro da spendere e un nome in ac o in ille, può dire «un uomo come me, un uomo della mia qualità», e disprezzare sovranamente un commerciante; questi a sua volta sente parlare così spesso della sua professione con disprezzo, ch’è tanto sciocco da arrossirne. Eppure io non so chi sia più utile a uno Stato, se un signore bene incipriato che sa con precisione a che ora il re si alza e a che ora si corica, e che si dà arie di grandezza facendo la parte dello schiavo nell’anticamera di un ministro, ovvero un commerciante che arricchisce il proprio paese, impartisce dal proprio banco ordini a Surat e al Cairo, e contribuisce al benessere del mondo.

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia

5 Effetti positivi della libertà religiosa sulla vita economica e sociale

T6

La convivenza tra le religioni

Voltaire, Lettere inglesi, Sesta lettera

6

La tolleranza Un altro dei temi centrali delle Lettere è la difesa della tolleranza e della libertà di religione, espressa sinteticamente ma efficacemente nell’affermazione che l’Inghilterra è il Paese delle sètte dove convivono diverse religioni, e «un inglese, da uomo libero, va in cielo per la via che preferisce». Questa libertà è comunque l’altra faccia della stessa libertà che guida gli inglesi nel commercio. La vita economica inglese prospera proprio perché la tolleranza religiosa permette che tutti vi partecipino in modo uguale indipendentemente dalla loro fede religiosa, e la religione di ciascuno è qualcosa che viene affrontata da tutti in modo tollerante. Quello che importa, in una società tollerante, è il rispetto delle leggi civili e delle leggi del commercio, non la religione che si professa. La pluralità delle religioni diventa così un elemento determinante, perché nessuna di esse può prevalere sulle altre con la forza dell’intolleranza. Entrate nella Borsa di Londra, questo luogo più rispettabile di tante Corti: vi vedrete riuniti i deputati di tutte le nazioni per l’utilità degli uomini. Là il giudeo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della medesima religione, e non danno l’appellativo d’infedeli se non a coloro che fanno bancarotta; là il presbiteriano si fida dell’anabattista e l’anglicano accetta la cambiale del quacquero. Uscendo da queste pacifiche e libere assemblee, gli uni si recano in sinagoga, gli altri vanno a bere; l’uno va a farsi battezzare in una grande tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’altro fa tagliare il prepuzio a suo figlio e borbottare sul bambino parole ebraiche che non capisce; altri vanno nella loro chiesa, col cappello in testa, ad aspettare l’ispirazione divina; e tutti sono contenti. Se in Inghilterra vi fosse una sola religione, ci sarebbe da temere il dispotismo; se ve ne fossero due, si scannerebbero a vicenda; ma ve ne sono trenta, e vivono felici e in pace.

La polemica verso l’ateismo

La battaglia contro l’intolleranza e la superstizione rimane uno degli aspetti centrali del Voltaire filosofo e polemista, come dimostrano molti suoi interventi diretti nel dibattito pubblico o opere come il Trattato sulla tolleranza. Voltaire è però anche vivamente preoccupato per la diffusione dell’ateismo, e lo è sempre di più nel corso della vita, come dimostra, per esempio, la sua reazione di fronte a un testo dichiaratamente ateo come Il buon senso del barone d’Holbach: Voltaire stende una nutrita serie di osservazioni critiche sul libro, e scrive a d’Alembert di averlo trovato «terribile». La funzione sociale Voltaire si lascia andare anche a una difesa della funzione sociale della religiodella religione ne. È in questa prospettiva che rientra la sua affermazione che «se Dio non esistesse, occorrerebbe inventarlo»: la credenza in Dio e anche in ciò che Voltaire stesso ritiene improbabile, l’immortalità dell’anima, vanno promosse ai fini dell’utilità sociale che ciò può avere. Senza il deterrente di un Dio giustiziere che compia quel che la giustizia terrena non riesce a realizzare, difficilmente sarebbe possibile dissuadere gli uomini dal macchiarsi degli atti peggiori.

La preoccupante diffusione dell’ateismo

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Le opere storiche

Tra i contributi di Voltaire alla riflessione settecentesca è necessario menzionare le sue opere storiche, che mutano profondamente i modelli di storiografia correnti: il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni e la Filosofia della storia (la stessa espressione «filosofia della storia», che indica una riflessione teorica sullo sviluppo storico, è una sua innovazione). Insieme con vari articoli del Dizionario filosofico, Voltaire si schiera nelle sue opere storiche, pur con la cautela e la dissimulazione che gli sono caratteristiche, per una cronologia della storia del mondo che non si fonda sulla storia sacra ma sulle testimonianze riguardanti caldei, indiani e cinesi, che già nel corso del Seicento facevano risalire la storia del mondo a ben prima del racconto biblico (su questo vedi Unità 4, p. 203 s.). Inoltre, e di conseguenza, egli estende l’orizzonte geografico della trattazione storica, che viene a includere i popoli dell’Oriente. La storia come indagine Voltaire modifica così il modo stesso di fare storia, anche sulla base della nuova sociale e civile visione della società presentata e proposta, per quanto riguarda l’Inghilterra, nelle Lettere filosofiche. I protagonisti della storia non sono le dinastie, i sovrani e la storia militare, ma «i costumi degli uomini e le rivoluzioni dello spirito umano»: si tratta di compiere la stessa indagine che è stata fatta nelle Lettere, in fondo, e di generalizzarla. L’ordine e la successione dei re può essere una guida cronologica, ma non lo scopo del lavoro dello storico, che è piuttosto storia della società e della civiltà, cioè storia non dei monarchi e delle loro imprese militari, ma del➥ Sommario, p. 580 le arti, delle professioni e della cultura di una nazione. Mutamento dei modelli e dei contenuti della storia

Voltaire

Voltaire e l’Illuminismo

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Filosofia e religione

Critica della tradizione metafisica Difesa della tolleranza e della libertà d’opinione e religiosa Deismo e critica al provvidenzialismo Problema del male: iniziale ottimismo e poi critica alle tesi di Leibniz Critica dell’ateismo

Politica e società

Elogio della società borghese, in particolare di quella inglese Adesione al dispotismo illuminato, prima della rottura con Federico II

Storia

Filosofia della storia: la storia è guidata da leggi Innovazione nei contenuti e nella metodologia: attenzione agli sviluppi delle società e delle civiltà

Attività letteraria

Vasta produzione di opere teatrali, romanzi, racconti

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia

L’Enciclopedia: Diderot e d’Alembert

4 I testi

J.-B. Le Rond d’Alembert Discorso preliminare, in Enciclopedia: La critica dei sistemi metafisici, T7

Il progetto

L’Enciclopedia, o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, pubblicata tra il 1751 e il 1772, costituisce l’espressione più tipica dell’Illuminismo francese poiché ne mette in luce e ne realizza il tratto caratteristico: la diffusione della cultura. Nata sulla base del progetto di tradurre la maggiore enciclopedia apparsa in inglese negli anni immediatamente precedenti, la Cyclopaedia di Ephraim Chambers (1728), il progetto di una rassegna complessiva del sapere che tenesse conto delle novità del pensiero scientifico e filosofico, ma anche delle arti meccaniche e dei mestieri dell’età moderna, acquista rapidamente vita autonoma e viene assunto da Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert.

La vita e le opere di Diderot e d’Alembert Denis Diderot nacque a Langres, nell’alta Marna, nel 1713 e studiò presso i gesuiti, prima nella sua città e poi a Parigi. Nel 1732 si laureò come maestro delle Arti nell’università della capitale e visse per alcuni anni lavorando come traduttore e occupandosi delle discipline più svariate (anatomia, filosofia, matematica). Divenne famoso nel 1746 con la pubblicazione dei Pensieri filosofici, libro che venne condannato al rogo. Intanto nel 1745 l’editore Le Breton lo aveva chiamato come traduttore della Cyclopedia dell’inglese E. Chambers ma, assieme a d’Alembert, Diderot trasformò il progetto in un’opera completamente diversa, a cui si dedicò con grande entusiasmo fino al suo compimento nel 1772. Per l’Enciclopedia Diderot, oltre che assumersi il ruolo di organizzatore e redattore (pressoché da solo dopo l’abbandono di d’Alembert nel 1759) scrisse moltissime voci: lo storico della filosofia Paolo Casini afferma che le cinquecento che gli vengono attribuite sono probabilmente solo la metà o un terzo di quelle realmente composte. Inoltre egli fu l’unico a non abbandonare il progetto nonostante le condanne e le difficoltà della pubblicazione. Contemporaneamente scrisse il romanzo erotico I gioielli indiscreti (1747), la Lettera sui ciechi a uso di coloro che vedono (1749), in cui interveniva sul problema di Molyneux (vedi p. 387) e che, per il suo manifesto ateismo, gli costò tre mesi di carcere; la Lettera sui sordomuti a uso di coloro che intendono e parlano (1751), in cui

si occupava del linguaggio; i Pensieri sull’interpretazione della natura (1753), e i testi teatrali Il figlio naturale (1757) e Il padre di famiglia (1758), accompagnati da due opere dedicate alla teoria del teatro: Conversazioni sul «Figlio naturale» e Discorsi sulla poesia drammatica, mentre il Parodosso dell’attore uscì postumo nel 1830. I suoi articoli per la «Corrispondenza letteraria» di M. Grimm furono uno dei prototipi della moderna critica d’arte, a cui si affiancò un ricco epistolario, in cui per i temi scientifici e filosofici affrontati ebbe un’importanza centrale la corrispondenza con l’amica e amante Sophie Volland. Vicende editoriali complesse ebbero i romanzi La monaca (1760, in edizione riservata nel 1780 e postumo nel 1796), Il nipote di Rameau (del 1760-1761, ma apparso postumo nel 1821), Jacques il fatalista (del 1771, ma uscito postumo nel 1796); vicende analoghe interessarono il Colloquio tra Diderot e d’Alembert e ll sogno di d’Alembert (del 1769, ma pubblicati in edizione riservata nel 1782 e usciti postumi nel 1830). Dopo la conclusione dell’Enciclopedia nel 1773 Diderot fece un viaggio in Russia presso Caterina II, che gli affidò diversi progetti di riforma. Morì a Parigi nel 1784 pochi mesi dopo la morte dell’amata Sophie. Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert nacque a Parigi nel 1717. Figlio naturale di una nobile che lo abbandonò sui gradini della cappella di Sant Jacques-Le Rond, venne adottato dalla moglie di un vetraio. Studiò in un collegio giansenista e mostrò presto una grande predisposizio-

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ne per la matematica e per le scienze, tanto che a soli ventitré anni venne ammesso all’Accademia delle Scienze. Scrisse numerose opere su argomenti fisici e matematici: Sulla rifrazione dei corpi solidi (1739), Sul calcolo infinitesimale (1740), il Trattato di dinamica (1742), che contiene il teorema conosciuto come «principio di d’Alembert», le Ricerche sulla precessione degli equinozi (1749). Si occupò anche di filosofia, morale, epistemologia delle scienze naturali, politica e storia, dando alle stampe la Miscellanea di letteratura, storia e filosofia (1753), a cui poi aggiunse gli Elementi di filosofia o principi delle conoscenze umane (1759); importanti furono anche le sue riflessioni sul rapporto tra intellettuali, società e Stati espresse nel Saggio sui rapporti tra intellettuali e potenti (1753). Dal 1751 al 1758 guidò assieme a Diderot il progetto editoriale dell’Enciclopedia, per cui scrisse numerose voci (Attra-

1 Le difficoltà di pubblicazione

zione, Cartesianesimo, Copernico, Cortigiano, Dinamica, Elementi delle scienze, Fortuito, Geometria, Ginevra, Newtonianesimo ecc.), e il Discorso preliminare (1751). Tra il 1757 e il 1758 maturò la crisi nel rapporto tra Diderot e d’Alembert, dovuto sia a motivi personali che a divergenze teoriche e filosofiche, in cui venne coinvolto anche Rousseau, che non aveva apprezzato la voce Ginevra. Per motivi diversi sia d’Alembert che Rousseau abbandonarono la collaborazione al progetto enciclopedico, che era contemporaneamente sottoposto fin dall’uscita del primo volume (1751) agli attacchi dei gesuiti e del movimento antilluminista. D’Alembert non fece però mancare la sua adesione al movimento illuminista e continuò il suo impegno come scienziato e filosofo: dal 1754 fu membro dell’Accademia di Francia e nel 1772 ne divenne segretario perpetuo fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1783.

L’Enciclopedia, un grande successo editoriale Le vicende dell’Enciclopedia sono complesse già per quel che riguarda le difficoltà incontrate per la pubblicazione. Gli enciclopedisti, dei quali non deve essere esagerato il carattere polemico verso l’ordine costituito e la religione (anche per l’autocensura esercitata dagli stessi autori delle singole voci), hanno numerosi alleati, anche influenti, ma si trovano a dover fronteggiare ripetutamente gli attacchi ostili dei gesuiti, della Chiesa e del Parlamento di Parigi. I maggiori attacchi hanno luogo poco dopo l’inizio della pubblicazione dei volumi, e portano a vere e proprie crisi dell’impresa enciclopedica, soprattutto nel 1752 e nel 1759, quando viene decretata la soppressione dell’opera, d’Alembert si ritira dal progetto e il solo Diderot porta a termine clandestinamente la pubblicazione dei volumi restanti, accompagnati da numerosi volumi di tavole illustrative dedicate alle arti e ai mestieri. Sottoscrizioni dell’edizione dell’Enciclopedia del 1777-1779 Bruxelles Liegi Rouen Caen Parigi

Nancy

Rennes 500 Digione Angers

Besançon

Ginevra Lione Bordeaux Nimes

Torino Marsiglia

Tolosa

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Montpellier

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100

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia

La diffusione della Enciclopedia è però enorme e ha un notevole impatto sui ceti colti francesi ed europei: essa diviene in sostanza il veicolo delle idee e dei programmi illuministici. L’impresa non è indifferente nemmeno dal punto di vista organizzativo, se si pensa che ad essa partecipano circa centocinquanta collaboratori, tra i quali spiccano nomi come quelli di Voltaire, di Rousseau, di d’Holbach. Significato e temi L’Enciclopedia è un repertorio di circa sessantamila articoli delle materie più didell’Enciclopedia verse, ordinati alfabeticamente e preceduti da un Discorso preliminare, redatto da d’Alembert, che dà il significato del progetto enciclopedico e dichiara a quali autori l’opera si ispiri. Il Discorso preliminare è diviso in due parti, delle quali la prima è dedicata all’immagine complessiva del sapere e alla classificazione delle scienze (ispirata a Bacone), mentre la seconda ripercorre la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno. Per quanto riguarda l’impostazione generale, è esplicita la polemica, caratteristica degli illuministi francesi, verso i sistemi, intesi come sistemi metafisici. I sistemi hanno svolto una loro funzione nella rinascita della filosofia moderna che si è contrapposta alla tradizione, ma questa funzione si è esaurita ed è ora necessario un sapere diverso. Non occorre più giustificare e difendere l’autonomia del sapere filosofico; è necessario invece illuminare la ragione e farne uno strumento utile, mentre i sistemi metafisici servono soltanto a lusingare l’immaginazione e corrono il rischio di restare sterili esercizi intellettuali.

Il maggior veicolo dell’Illuminismo

T7

La critica dei sistemi metafisici

J.-B. Le Rond d’Alembert, Discorso preliminare

2

[…] il gusto dei sistemi, adatto più a lusingare l’immaginazione che a illuminare la ragione, è oggi quasi totalmente bandito dalle buone opere […]. Lo spirito d’ipotesi e di congettura poteva essere molto utile in altri tempi, ed è stato persino necessario per la rinascita della filosofia, perché allora si trattava più che di pensare bene, d’imparare a pensare con la propria testa. Ma i tempi sono mutati, e uno scrittore che ci facesse l’elogio dei sistemi, arriverebbe troppo tardi. I vantaggi che lo spirito di sistema può oggi procurare sono troppo poco numerosi per controbilanciare gli inconvenienti che ne risultano.

Il progetto di una nuova cultura

Le fonti d’ispirazione filosofiche dell’opera provengono anche in questo caso dal mondo inglese: Bacone ha proposto per primo l’idea di enciclopedia, Newton ha fondato la fisica sulla matematica e sull’osservazione empirica, mentre Locke ha completato l’opera di Newton, e ha avuto per la metafisica la stessa funzione che Newton ha avuto per la fisica, facendola diventare quella che effettivamente deve essere, cioè una «fisica sperimentale dell’anima». Per quanto riguarda Cartesio, questi viene lodato e ammirato da d’Alembert come matematico, mentre viene criticato come metafisico: verso la sua convinzione, da metafisico, di avere tutto spiegato, va usata la stessa arma che Cartesio ha introdotto nella filosofia, ossia il dubbio. I contenuti Nel suo complesso, l’impresa enciclopedica propone i contenuti di una nuova cultura che compongono una sorta di sommario del pensiero illuministico: la critica della metafisica e la difesa della concezione sperimentale della conoscenza, il valore della tecnica, la felicità come fine terreno dell’uomo, la tolleranza e la libertà religiosa e, infine, l’importanza della diffusione della cultura, della quale la stessa Enciclopedia è il mezzo più riuscito.

Le fonti d’ispirazione filosofiche e il confronto con Cartesio

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Parte seconda Il secolo dei lumi Le posizioni filosofiche di d’Alembert e Diderot

➥ Sommario, p. 580

Sia d’Alembert sia, ben di più, Diderot, hanno una produzione filosofica parallela alla partecipazione e alla direzione del progetto dell’Enciclopedia. D’Alembert è uno scienziato, e come tale viene inizialmente pensata la sua partecipazione all’Enciclopedia. Egli pubblica però anche gli Elementi di filosofia, dove si ritrovano la sua adesione al newtonismo e la polemica anticartesiana. Diderot ha una produzione filosofica più varia e articolata: traduttore di Shaftesbury e inizialmente su posizioni deistiche, con la Lettera sui ciechi la sua concezione si sviluppa verso un’identificazione di Dio con la natura che rivela l’influenza di Spinoza. Contrario a ogni provvidenzialismo, Diderot elabora un’idea della natura che tiene conto delle innovazioni settecentesche nell’ambito delle scienze biologiche e considera la realtà come costituita da una materia in continua trasformazione.

Sensismo e materialismo

5 I testi

J. Offroy de La Mettrie L’uomo macchina e altri scritti: L’uomo è una macchina, T8

Montesquieu, Voltaire e i due promotori dell’Enciclopedia, Diderot e d’Alembert, sono indubbiamente i personaggi più importanti dell’Illuminismo francese. L’altra figura di rilievo è Rousseau, ma data la complessità e l’originalità delle sue posizioni, gli è stata dedicata una trattazione a parte. Accanto a questi pensatori di prima grandezza ve ne sono però altri che hanno sviluppato in maniera nuova ambiti particolari della riflessione filosofica contribuendo in modo rilevante alla cultura illuministica.

1 Una teoria della conoscenza fondata sulle sensazioni

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Condillac e il sensismo Il sensismo di Étienne Bonnot, abate di Condillac, costituisce il maggiore contributo dell’Illuminismo francese alla teoria della conoscenza. Condillac condivide in pieno il rifiuto dei sistemi metafisici e la centralità del metodo sperimentale newtoniano, addirittura radicalizzando la prospettiva empiristica di Locke in una concezione della conoscenza umana completamente fondata sulle sensazioni (donde il nome di «sensismo»), come emerge soprattutto dal Trattato sulle sensazioni.

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia

La vita e le opere Étienne Bonnot, abate di Condillac, nacque a Grenoble, nella regione del Rodano-Alpi, nel 1714, in una famiglia di magistrati che lo avviò alla carriera ecclesiastica: studiò in un collegio gesuita e poi a Parigi in seminario, ottenendo la laurea in teologia e divenendo sacerdote. Nella capitale entrò in contatto con gli illuministi, tra cui Diderot, d’Alembert, e Rousseau. Dopo la pubblicazione del Saggio sull’origine delle conoscenze umane (1746) e

del Trattato delle sensazioni (1754), venne accusato di materialismo. Si difese nel Trattato sugli animali (1755); ma preferì abbandonare la Francia nel 1758 e si recò come precettore del nipote di Luigi XV, Ferdinando di Borbone, a Parma. Rientrò in Francia nel 1767 e l’anno successivo venne ammesso all’Accademia. Le sue ultime opere sono la Logica (1780) e La lingua dei calcoli (1798, incompiuta e postuma). Morì nell’abbazia di Flux a Beaugency, nel dipartimento della Loira, nel 1780.

Il processo della conoscenza si articola in varie fasi: 1) riprendendo l’empirismo di Locke, Condillac sostiene che le sensazioni sono all’origine di ogni nostra idea e quindi vi è una corrispondenza diretta tra le due nozioni; 2) il modo in cui le diverse sensazioni vengono confrontate, valutate e danno luogo a determinate abitudini, sta per Condillac alla radice di ogni forma di pensiero, e quindi di attività umana, secondo un criterio preciso costituito dal loro collegamento con il piacere e il dolore che prova il soggetto; 3) l’attenzione che rivolgiamo, su questa base, alle sensazioni, è ciò che dà luogo alla memoria e quindi alla conservazione delle sensazioni passate; 4) il confronto tra sensazioni produce la possibilità di esprimere giudizi, che possono essere a loro volta confrontati tra loro nella riflessione. Una critica a Locke La riflessione non è quindi, come in Locke, distinta dalla sensazione, ma è prodotta dalla sensazione stessa: per la tesi della riflessione come capacità innata della mente, infatti, Condillac rimprovera a Locke di essere ricaduto nell’innatismo cartesiano. Tra i sensi, un ruolo privilegiato viene attribuito al tatto, l’unico che mette direttamente in contatto il soggetto che conosce e l’oggetto conosciuto. Il processo della conoscenza

La conoscenza secondo il sensismo di Condillac

Le sensazioni determinano la formazione delle idee Le sensazioni vengono confrontate, valutate e danno luogo a determinate abitudini in base al loro collegamento con il piacere o il dolore provato dal soggetto. Nasce il pensiero e quindi ogni attività umana L’attenzione alle sensazioni dà luogo alla memoria e quindi alla conservazione delle sensazioni passate

Il confronto tra sensazioni produce la possibilità di esprimere giudizi, che possono essere a loro volta confrontati tra loro nella riflessione

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Il materialismo: La Mettrie, Helvétius e d’Holbach Parallelamente al sensismo, all’interno dell’Illuminismo francese si esprimono diverse teorie ispirate a un rigoroso materialismo, ossia a concezioni della realtà che indicano in un unico principio, la materia o sostanza corporea, l’origine di ogni cosa e negano l’esistenza di sostanze spirituali. 571

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Un gruppo di pensatori trae infatti le conseguenze più radicali dall’impostazione empiristica e, nel caso di Condillac, sensistica del pensiero illuministico: si tratta di Julien Offroy de La Mettrie, di Claude-Adrien Helvétius e di Paul Heinrich Dietrich barone d’Holbach.

La vita e le opere di La Mettrie, Helvétius e d’Holbach Julien Offroy de La Mettrie nacque a Saint-Malo, in Bretagna, nel 1709, e dopo iniziali studi di teologia presso un collegio giansenista si dedicò alla medicina, recandosi nel 1733 a studiare a Leida, in Olanda. Tornò a Parigi nel 1742 dove divenne medico militare. Il suo libro Storia naturale dell’anima (1745) venne condannato per le sue teorie materialiste e La Mettrie dovette abbandonare Parigi, rifugiandosi prima a Leida e poi a Berlino, presso Federico II. Qui rimase proseguendo i suoi studi fino alla morte, avvenuta nel 1751. Le sue opere principali sono: L’uomo macchina (1748), L’uomo-pianta (1748), l’Anti-Seneca, o discorso sulla felicità (1750), il Sistema di Epicuro (1750), Riflessioni filosofiche sull’origine degli animali (1750); Gli animali più che macchine (1755, postumo). Claude-Adrien Helvétius, figlio di uno dei medici di corte, nacque a Parigi nel 1715 e studiò presso i gesuiti. Ben presto si distaccò dal loro pensiero e si dedicò ad ampie letture di classici, dei moralisti francesi, di filosofi e scienziati (Newton, Locke, Voltaire, Buffon). A ventitré anni ottenne la carica di appaltatore generale, ma continuò a dedicarsi agli studi, collaborando all’Enciclopedia e divenendo amico e corrispondente di Voltaire e di Montesquieu, che gli diede in lettura il manoscritto dello Spirito delle leggi su cui Helvétius prese posizione in Esame critico dello «Spirito delle leggi» fatto dall’autore di «Dello spirito», che non venne

pubblicato. Nel 1758 uscì la sua opera Dello spirito, che venne condannata dalla Chiesa e dal Parlamento di Parigi, costringendolo a lasciare la capitale e a recarsi in Prussia. Dalle accuse si difese nell’opera Dell’uomo (1773, postuma). Tornato in Francia diede vita a un noto salotto letterario assieme alla moglie, che lo mantenne attivo anche dopo la morte di Helvétius, avvenuta a Parigi nel 1771. Paul Heinrich Dietrich barone d’Holbach nacque in Germania a Heidesheim, nel Palatinato, nel 1723; dopo gli studi a Leida si trasferì a Parigi, dove entrò nei circoli illuministi e raccolse intorno a sé intellettuali francesi a stranieri. Collaboratore dell’Enciclopedia per varie voci relative alla mineralogia, alla chimica e alla metallurgia, tradusse e divulgò opere scientifiche tedesche e si fece promotore, come traduttore ed editore in Olanda, di opere di pensatori antireligiosi, deisti e materialisti, tra cui John Toland, Thomas Hobbes e Lucrezio, che poi introdusse in Francia clandestinamente. Egli stesso scrisse opere polemiche contro la religione, e in particolare contro il cristianesimo, e nel Sistema della natura (1770) espose il suo sistema materialista e ateo; le altre sue opere furono Il buon senso o idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali (1772), il Sistema sociale o principi naturali della morale e della politica, con un esame dell’influenza sui costumi (1773), La morale universale o i doveri dell’uomo fondati sulla natura (1776). Morì a Parigi nel 1789.

La Mettrie Il rifiuto del dualismo cartesiano

➥ Percorso tematico, p. 187

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Nella sua opera maggiore, L’uomo macchina, La Mettrie utilizza in funzione anticartesiana – cioè contro il dualismo delle sostanze in res cogitans e res extensa – gli argomenti dello stesso Cartesio (vedi Unità 3, p. 150 ss.), estendendo all’uomo il modello prefigurato da Cartesio per gli animali: l’uomo stesso è una macchina; e dell’uomo-macchina e del suo pensiero si può dare una spiegazione unitaria che coincide con la spiegazione della natura, fondata sulla disposizione della materia al movimento. Anche in questo caso, è l’osservazione empirica che permette queste conclusioni, non ipotesi metafisiche, come La Mettrie, buon studioso di fisiologia e di medicina, tiene a sottolineare: è la scienza empirica l’unica disciplina efficace per capire l’uomo, non la metafisica o il pregiudizio. Sulla base dell’indagine empirica arriviamo a comprendere che l’universo è fatto di una sola sostanza, la materia, come La Mettrie rivendica esplicitamente contro il dualismo cartesiano. Gli strumenti per l’indagine della realtà sono l’esperienza e la ragione.

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia

T8

L’uomo è una macchina

J. Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina e altri scritti

Concludiamo dunque coraggiosamente che l’uomo è una macchina, e che in tutto l’universo c’è una sola sostanza diversamente modificata. Questa non è un’ipotesi costruita a forza di problemi e supposizioni: non è l’opera del pregiudizio, né della mia sola ragione: avrei disdegnato una guida che credo poco sicura se i sensi, portando, per così dire, la fiaccola, non m’avessero, con l’illuminarla, costretto a seguirla. L’esperienza mi ha dunque parlato a favore della ragione: e quindi io le ho congiunte insieme. Ma si sarà osservato che io non mi sono permesso il ragionamento più serrato e più immediatamente filato se non in seguito ad una moltitudine di osservazioni fisiche che nessuno scienziato contesterà. Io riconosco soltanto gli scienziati come giudice delle conseguenze che ne traggo, rifiutando qualunque uomo che abbia pregiudizi o non sia aggiornato alla sola filosofia che qui è competente, quella del corpo umano. Che potrebbero contro una quercia così ferma e solida tutte le fragili canne della teologia, della metafisica e della scolastica, armi puerili simili ai fioretti delle nostre sale di scherma, che possono, sì, dare il piacere della scherma, ma non già scalfire l’avversario. C’è bisogno che dica che sto parlando di quelle idee trite e triviali, di quei ragionamenti ripetuti e meschini, che si possono fare intorno alla pretesa incompatibilità delle due sostanze che si pongono in contatto e si modificano continuamente l’una con l’altra, ragionamenti che si faranno finché resterà sulla terra l’ombra del pregiudizio e della superstizione?

In ambito morale La Mettrie, coerentemente con gli assunti di fondo dell’Illuminismo francese, mette al centro dell’orizzonte la felicità, che egli intende come piacere e che costituisce lo scopo dell’uomo: quello di La Mettrie è quindi un pensiero rigorosamente edonistico (dal termine greco edonè, «piacere»), come emerge nel suo Anti-Seneca, o discorso sulla felicità. La Mettrie ha una concezione moderatamente ottimistica dell’esistenza umana («ognuno ha la sua porzione di felicità») ma ha una visione pessimistica dell’uomo dal punto di vista morale: in generale, sostiene, gli uomini sono nati cattivi, e gli unici mezzi per migliorarli sono l’educazione e le leggi. Utilità delle leggi Queste ultime sono l’unico rimedio realmente efficace contro i malvagi, poiché per la prevenzione nonostante l’educazione essi «sono sempre più numerosi dei buoni». A questo del delitto proposito ha un notevole interesse, e suscita scandalo, la polemica di La Mettrie verso il rimorso. Il rimorso è completamente inutile, poiché non riesce a impedire il male nei cattivi, e può avere luogo soltanto dopo avere compiuto il male nei buoni. I buoni portano così con sé un inutile peso, mentre il rimorso non è uno strumento efficace per tenere a freno i malvagi, che è possibile controllare soltanto attraverso le leggi. Felicità, piacere e natura umana

Helvétius Sensismo, utilitarismo e uguaglianza

L’opera principale di Helvétius, Dello spirito, scatena una polemica che rientra nella seconda grande crisi – quella del 1759 – che coinvolge la pubblicazione dei volumi dell’Enciclopedia. L’impianto delle teorie di Helvétius ha molte analogie, per quanto riguarda la teoria della conoscenza, con il sensismo di Condillac: anch’egli ritiene che tutte le nostre idee provengano dalla sensibilità e dalla memoria, con la quale conserviamo le impressioni ricevute dagli oggetti. Ogni attività dello spirito si risolve nella materia. Il piacere e l’interesse sono le 573

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Parte seconda Il secolo dei lumi

motivazioni principali delle azioni umane, e queste premesse permettono a Helvétius di formulare un’etica fondata sull’utilità, sia quella individuale sia quella sociale. Helvétius aderisce alla tesi di un’uguaglianza naturale degli uomini, ma mostra anche la consapevolezza delle difficoltà di una riforma della società che sappia rendere compatibili l’interesse egoistico e gli obiettivi di un benessere collettivo.

D’Holbach Un materialismo sistematico

Meccanicismo e determinismo

La critica della religione

La critica del deismo e la scelta dell’ateismo

L’insostenibilità della teodicea

➥ Percorso tematico, p. 321 «Buon senso» come fondazione della morale

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L’opera di d’Holbach costituisce lo svolgimento sistematico più ampio e coerente del materialismo francese di cui il suo autore è uno dei personaggi più dinamici e rappresentativi: collaboratore della Enciclopedia, d’Holbach è in contatto con i maggiori esponenti della cultura illuministica non solo francese, da Diderot a Helvétius, da Hume a Smith a Cesare Beccaria (1738-1804). D’Holbach contribuisce inoltre alla pubblicazione di manoscritti della letteratura clandestina che non possono avere una circolazione libera proprio per la radicalità e la ‘pericolosità’ delle loro tesi. L’opera maggiore di d’Holbach, il Sistema della natura, costituisce una rigorosa spiegazione meccanicistica e deterministica dell’universo, nella quale è coerentemente compreso anche l’essere umano: l’uomo rientra nelle leggi necessarie della natura, e la sua azione è determinata dalla ricerca della felicità. D’Holbach cerca anche, come Hume, di dare una spiegazione psicologica dell’origine del fenomeno religioso, e le sue conclusioni sono affini a quelle del filosofo scozzese: la religione ha origine dal terrore dell’uomo di fronte a fenomeni della natura che gli risultano potenti e incomprensibili, come anche dalla speranza di rendere benevolo un Dio costruito a immagine dell’uomo. Nel Buon senso la critica materialistica della religione si sviluppa mostrando il carattere contraddittorio e insostenibile di tutte le forme di divinità e in particolare della divinità cristiana, senza distinzione tra confessioni protestanti e confessione cattolica. D’Holbach mette in rilievo l’incompatibilità tra fede e ragione difendendo i diritti della ragione, ed è in questa prospettiva che elabora una dura critica del deismo – anche e soprattutto quello di Voltaire, mai nominato esplicitamente –, cioè del tentativo di presentare una versione della religione compatibile con la ragione. Il Dio dei deisti come Voltaire non è per d’Holbach meno contraddittorio né meno incomprensibile del Dio della teologia ortodossa. In realtà il Dio cristiano è incompatibile con la razionalità, e l’unica soluzione di fronte a questo conflitto è scegliere il fideismo, e quindi il sacrificio della ragione e dell’esperienza, o l’ateismo, la soluzione adottata da d’Holbach. Il problema irrisolvibile dell’esistenza del male nel mondo e quindi quello della insostenibilità della teodicea come giustificazione e spiegazione di esso costituiscono uno degli argomenti utilizzati da d’Holbach per la sua radicale critica della religione: un Dio buono che non fosse in grado di creare un mondo completamente felice avrebbe dovuto rinunciare alla creazione, piuttosto che produrre un mondo con tanta infelicità. È il buon senso, la ragione naturale comune a tutti, allora, ciò che può permettere agli uomini di fondare una morale, non la religione o la teologia, che non al-

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➥ Sommario, p. 580

leviano ma peggiorano il male del mondo. Le cause dell’infelicità sono infatti l’ignoranza e l’oscurantismo, e quindi la difficoltà di «illuminare» le menti, sostiene d’Holbach in pieno spirito illuministico. Il chiarimento dei ‘veri’ principi della morale dipende infatti dallo studio dell’uomo e della sua natura, dalla comprensione dei suoi interessi e dello scopo della società.

I materialisti illuministi in Francia

Materialismo: – l’unico principio della realtà è la materia – le sostanze spirituali non esistono

La Mettrie: – teoria dell’uomo-macchina: tutto quello che lo riguarda, compreso il pensiero, può essere spiegato attraverso la materia e il movimento – etica edonistica e ricerca della felicità – funzione dissuasiva delle leggi

Helvétius: – teoria della conoscenza sensista – etica utilitaristica. Il piacere e l’interesse sono i motivi dell’agire umano – teoria dell’uguaglianza naturale degli uomini

D’Holbach: – spiegazione meccanicista dell’uomo e della natura – critica della religione: essa nasce dalla paura – critica del deismo – fallimento della teodicea – morale fondata sul «buon senso»

L’idea di progresso

6 La nascita dell’idea di progresso

Il dibattito sugli antichi e sui moderni che si sviluppa alla fine del Seicento fa emergere l’idea di un progresso storico, almeno per quello che riguarda il sapere, nel contributo più importante che vede la luce in quel contesto, la Digressione sugli antichi e i moderni di Fontenelle (1688): l’idea di progresso è evidentemente il perno del generale giudizio di superiorità dei moderni sugli antichi (vedi Unità 4, p. 205 s.). Il tema del progresso, ossia la convinzione che la storia evolva verso un miglioramento delle condizioni sociali e civili, attraversa tutto l’Illuminismo francese, e ne rappresenta il presupposto: esso costituisce uno dei fili conduttori della considerazione storica di Voltaire, ed è sicuramente uno dei punti di riferimento dell’impresa enciclopedica. Si tratta però di un argomento che viene tematizzato soltanto nelle opere di Anne-Robert-Jacques Turgot e di Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat, marchese di Condorcet. 575

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La vita e le opere di Turgot e Condorcet Anne-Robert-Jacques Turgot, barone de l’Aulne, nacque a Parigi nel 1727 e inizialmente fu destinato alla carriera ecclesiastica, divenendo priore della Sorbona nel 1749. Successivamente fu consigliere del parlamento parigino (1752). Frequentò i filosofi illuministi, collaborò all’Enciclopedia e conobbe i pensatori della scuola fisiocratica aderendo alla loro teoria economica. Espresse le sue teorie nelle Riflessioni sulla formazione e sulla distribuzione delle ricchezze (1776) e dal 1774 al 1776 fu Controllore generale delle finanze e segretario di Stato alla Marina, incarico da cui si dimise per gli attacchi della regina Maria Antonietta e degli ordini privilegiati. Morì a Parigi nel 1781. Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat, marchese di Condorcet, nacque a Ribemont, in Piccardia, nel 1743 e studiò prima a Reims in un collegio gesuita e poi a Parigi. Interessato alla matematica, pubblicò il Saggio sul

1 La storia umana come continuo mutamento

L’importanza delle arti meccaniche

Immagine negativa del Medioevo

Un progresso che coinvolge tutti gli aspetti della vita

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calcolo integrale (1765) e i Saggi di analisi (1768); nel 1769 venne accolto nell’Accademia delle Scienze. Fu amico di d’Alembert, Voltaire e Turgot, che lo chiamò nel 1775 alla carica di ispettore delle finanze; fu anche collaboratore dell’Enciclopedia e teorizzò l’applicazione della matematica alle scienze sociali e morali nel Saggio sull’applicazione dell’analisi della probabilità alle decisioni prese a maggioranza di voti (1785) e nel Quadro generale della scienza che ha per oggetto l’applicazione del calcolo alle scienze politiche e morali (1793, uscito postumo). Partecipò alla Rivoluzione entrando nel partito girondino, ma essendosi opposto a Robespierre venne emesso contro di lui un mandato di arresto nel 1793. Latitante, si nascose per vari mesi a Parigi e scrisse l’Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano (pubblicato postumo, 1795) ma nel 1794 decise di lasciare la capitale, venne arrestato e imprigionato a Bourg-LaReine nell’Ile de France, e due giorni dopo fu trovato morto nella sua cella.

Turgot Turgot muove dalla rilevazione della sostanziale differenza tra natura e mondo umano: gli eventi naturali si succedono uniformemente nel corso del tempo, mentre la storia degli uomini è in continuo mutamento, una successione di epoche attraverso le quali ha luogo un progressivo accumularsi delle conoscenze. Una parte importante, in questo processo, è svolta dal linguaggio e dalla scrittura, ma una caratteristica dell’analisi di Turgot è la grande attenzione che egli rivolge alle arti meccaniche: queste costituiscono l’elemento meno soggetto alla decadenza, e quindi a periodi di arresto del progresso nel corso della storia. L’attenzione per le arti meccaniche è caratteristica dell’Illuminismo francese: Voltaire indica con chiarezza la loro importanza fin dalle Lettere filosofiche, e la stessa Enciclopedia si riferisce ad esse. Per Turgot le arti meccaniche continuano a progredire anche in periodi bui, nei quali, magari, l’umanità vive per altri aspetti nell’oscurantismo e nell’ignoranza: questa loro peculiarità si mostra con chiarezza in un’età precisa, l’epoca medievale. Turgot accoglie, come Voltaire, l’immagine negativa del Medioevo promossa polemicamente dalla cultura umanistica e rinascimentale: il Medioevo è quindi un momento di arresto del progresso, una involuzione. Ciononostante, le arti meccaniche continuano a progredire e a migliorare anche in questo contesto negativo: il loro continuo progresso costituisce il tessuto connettivo della storia dell’umanità. L’idea di progresso che si profila, quindi, non è limitata al sapere o alle attività superiori dell’uomo, ma coinvolge tutti gli aspetti della vita e delle società umane: parallelamente allo sviluppo del sapere e al progresso delle arti meccaniche, Turgot vede il progresso anche nella funzione civilizzatrice del cristianesimo e nel crescente spazio conquistato dalla libertà, sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista economico.

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia La scuola fisiocratica

Per quanto riguarda le teorie economiche, Turgot è, con François Quesnay (16941774) un rappresentante della scuola fisiocratica e tenta, come ministro delle finanze francesi, di modernizzare l’economia; il fallimento del suo tentativo sarà uno degli ultimi segni della crisi che porterà alla rivoluzione. Per i fisiocratici, la vita economica costituisce un ordine naturale, e per questo i governi devono lasciare piena libertà di commercio e di iniziativa economica agli individui. L’attività economica principale è l’agricoltura, che è l’unica capace di dare luogo a un «prodotto netto», ovvero a una differenza positiva tra un prodotto e il costo di quanto è necessario per produrlo: la produzione agricola è quindi il fondamento dell’accrescersi della ricchezza.

La teoria fisiocratica

I principi della fisiocrazia

2

La vita economica è un ordine naturale

L’agricoltura è l’attività economica principale perché è l’unica che produce un guadagno netto

I governi devono lasciare libertà in campo economico

L’agricoltura è il fondamento dell’accrescimento della ricchezza

Condorcet

Il personaggio di Condorcet è significativo anche perché partecipa attivamente alla Rivoluzione francese, diventando membro del partito girondino, opponendosi a Robespierre e rimanendo poi vittima del Terrore giacobino: ricercato dalle autorità, scrive in clandestinità, nel 1793, l’Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano. Le epoche della storia La rivoluzione stessa è, per Condorcet, un segno del progresso, tanto che la parte più originale della sua riflessione è dedicata a disegnare i tratti dello sviluppo futuro. Condorcet divide la storia in dieci epoche, nove delle quali sono già trascorse e vanno dall’antica Grecia all’età dei lumi. La parte più interessante della sua opera è proprio quella dedicata alla decima epoca, collocata nel futuro e caratterizzata dal progresso del sapere e della vita sociale. I lumi sono infatti diffusi solo in una parte della terra, e la gran massa degli uomini è ancora «in balia dei pregiudizi e dell’ignoranza». La decima epoca: Ciò che deve ancora venire è il superamento delle disuguaglianze e il reale perla società futura fezionamento dell’uomo in vista della sua felicità: il progresso dovrà infatti portare alla fine della disuguaglianza tra le nazioni e tra gli uomini di uno stesso popolo, con una sempre maggiore diffusione della libertà politica. Lo sviluppo dell’educazione porterà a un miglioramento anche morale degli individui. L’uomo è inoltre destinato anche a un perfezionamento della sua natura biologica, grazie al costante miglioramento delle proprie condizioni di vita e della ➥ Sommario, p. 580 alimentazione. Condorcet e la rivoluzione

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Superiorità dei moderni sugli antichi Premesse

Premesse e pensatori della teoria del progresso

Idea di progresso

La storia procede verso un miglioramento delle condizioni sociali e civili

Pensatori

Turgot: – progressivo accumularsi della conoscenza nella storia dell’uomo – importanza delle arti meccaniche – funzione civilizzatrice del cristianesimo – crescita della libertà come fattore di progresso – teoria fisiocratica in economia Condorcet: – teoria delle dieci epoche della storia – prime nove epoche: dall’antica Grecia all’età dei lumi – decima epoca (futura): • progresso del sapere e della vita sociale • fine della disuguglianza e felicità • libertà politica • educazione come fonte di miglioramento • perfezionamento della natura biologica dell’uomo

Suggerimenti bibliografici In generale, sull’Illuminismo francese, è significativo già il titolo del libro di D. Mornet, Le origini intellettuali della rivoluzione francese 1715-1787, Jaca Book, Milano 1982, che lo mette in relazione esplicita con la rivoluzione del 1789. Per l’intersezione tra Illuminismo e politica vedi anche F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Einaudi, Torino 1973, e La politica della ragione. Studi sull’Illuminismo francese, a cura di P. Casini, il Mulino, Bologna 1978. Sottolineano aspetti specifici: L.G. Crocker, Un’età di crisi. Uomo e mondo nel pensiero francese del Settecento, il Mulino, Bologna 1970; J.S. Spink, Il libero pensiero in Francia da Gassendi a Voltaire, Vallecchi, Firenze 1974, A. Postigliola, La città della ragione. Per una storia filosofica del Settecento francese, Bulzoni, Roma 1992. Per Montesquieu, utili monografie d’insieme sono J. Shklar, Montesquieu, il Mulino, Bologna 1990, e S. Cotta, Montesquieu, Laterza, Roma-Bari 1995; utilissimo per il tema che affronta: S. Landucci, Montesquieu e la nascita della scienza sociale, Sansoni, Firenze 1974. Per Voltaire vedi innanzitutto P. Alatri, Introduzione a Voltaire, Laterza, Roma-Bari 1989, e la biografia di T. Besterman, Voltaire, Feltrinelli, Milano 1971. In generale anche le due monografie di A. Ayer, Voltaire, il Mulino, Bologna 1990 e P. Gay, Voltaire politico, il Mulino, Bologna 1991. Sulle Lettere filosofiche vedi C. Luporini, Voltaire e le «Lettres philosophiques», Einaudi, Torino 1977; per le opere storiche vedi F. Diaz, Voltaire storico, Einaudi, Torino 1959. Per il progetto enciclopedico vedi F. Venturi, Le origini dell’Enciclopedia, Einaudi, Torino 1977, e J. Proust, L’Encyclopédie: storia, scienza e ideologia, il Mulino, Bologna 1988. Per Diderot una classica monografia è quella di F. Venturi, La giovinezza di Diderot, Sellerio, Palermo 1988, ma vedi anche P. Casini, Diderot «philosophe», Laterza, Roma-Bari 1962.

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia Per la filosofia di Helvétius vedi L. Gianformaggio, Diritto e felicità: la teoria del diritto in Helvétius, Edizioni di Comunità, Milano 1979. Per d’Holbach, vedi lo studio di P. Naville, D’Holbach e la filosofia scientifica del XVIII secolo, Feltrinelli, Milano 1976; essenziale per la sua analisi della religione è la monografia di A. Minerbi Belgrado, Paura e ignoranza. Studio sulla teoria della religione in D’Holbach, Olschki, Firenze 1983. I brani antologizzati sono tratti da: Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Prefazione dell’autore, trad. di B. Boffito Serra, BUR, Milano 1989. Voltaire, Lettere inglesi, trad. di M. Mandalari, a cura di P. Alatri, Editori Riuniti, Roma 1971. J.-B. Le Rond d’Alembert, Discorso preliminare, in Enciclopedia, o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, a cura di A. Pons, Feltrinelli, Milano 1966. J. Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina e altri scritti, a cura di G. Preti, Feltrinelli, Milano 1973.

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Sommario 1. ATTEGGIAMENTO

CRITICO E DIFFUSIONE DEI

«LUMI»

L’Illuminismo francese ha tra i suoi elementi di fondo le idee dell’analogo movimento inglese e scozzese. A ciò si aggiungono la critica alla tradizione metafisica francese – in particolare a Cartesio – e la diffusione di idee radicali ed eterodosse (critica della religione, deismo, materialismo ecc.) anche attraverso la letteratura clandestina. L’obiettivo principale dell’Illuminismo francese è la diffusione della cultura, perseguito anche attraverso la collaborazione con i sovrani «illuminati», ma soprattutto con il progetto dell’Enciclopedia e con l’utilizzo di generi letterari agili e diretti. 2. MONTESQUIEU

Montesquieu è uno dei primi e più importanti illuministi: la sua comparsa sulla scena pubblica è legata alla pubblicazione delle Lettere persiane, una critica serrata della società europea. Ma il suo capolavoro è Lo spirito delle leggi, un’opera in cui attraverso lo studio della società egli definisce la nozione di spirito generale come insieme delle caratteristiche di un popolo determinate da fattori diversi, per esempio il clima, e il rapporto tra questo e la formazione delle leggi. [par. 1] Montesquieu propone anche la distinzione tra le forme di governo, sulla base della «natura» e del «principio» ispiratore di ognuna, e sottolinea i pericoli del dispotismo; sostiene inoltre la formulazione del principio della divisione dei poteri. [parr. 1 e 2] 3. VOLTAIRE

Protagonista indiscusso e padre dell’Illuminismo francese è Voltaire, pensatore non originale ma versatile, dotato di uno spirito critico acutissimo e capace più di ogni altro di incarnare l’intellettuale cosmopolita, libero e impegnato. Il suo pensiero prende a modello la cultura antimetafisica, sperimentalista ed empirista inglese, in particolare la filosofia di Locke. [parr. 1 e 2] In ambito religioso Voltaire aderisce al deismo, ossia crede nell’esistenza di una divinità ordinatrice, e inizialmente all’ottimismo. Egli abbandona però l’ottimismo dopo il 1755, sottolineando la miseria e la fragilità della condizione umana. La critica alla religione e ai sistemi metafisici lo spingono a difendere i valori sociali della società borghese, il cui modello individua in Inghilterra, e a celebrare la tolleranza come presupposto dell’avanzamento sociale, economico, politico e culturale. [parr. 3, 4 e 5] Pur in questa difesa della libertà di opinione, Voltaire è fortemente critico verso l’ateismo, poiché sostiene la funzione sociale della religione. [par. 6] Infine, egli contribuisce con opere fondamentali alla modificazione della metodologia storica e allo sviluppo di una visione più ampia della storia, estendendone cronologia e ambiti e dando ampio spazio all’indagine sulle società, sulla vita economica e sul progresso tecnico, ci580

vile e culturale. È lui che conia l’espressione «filosofia della storia». [par. 7] 4. L’ENCICLOPEDIA: DIDEROT

E D’ALEMBERT

Il progetto che meglio incarna gli ideali della diffusione della cultura e dei valori illuministi è la pubblicazione dell’Enciclopedia, o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Nonostante le difficoltà e gli attacchi da parte delle autorità politiche e religiose essa viene realizzata tra il 1751 e il 1772, grazie all’impegno di d’Alembert e, soprattutto, di Diderot. Il significato e i temi del progetto sono esposti da d’Alembert nel Discorso preliminare, in cui sono presentati la classificazione delle scienze, che unifica tutti i contenuti in un quadro coerente, e gli scopi dell’opera: la critica della metafisica e la difesa dello sperimentalismo, il valore della tecnica, la felicità come fine terreno dell’uomo, la valorizzazione delle arti meccaniche ecc. Personalmente d’Alembert e Diderot aderiscono l’uno alla filosofia di Newton e il secondo, sotto l’influenza di Spinoza, all’identificazione tra Dio e la natura. [parr. 1 e 2] 5. SENSISMO

E MATERIALISMO

All’interno del movimento illuministico francese emergono anche teorie più specifiche. Condillac individua nella sensazione l’origine di tutti i gradi della conoscenza, sviluppando una teoria definita sensismo. [par. 1] Alcuni filosofi illuministi, invece, aderiscono al materialismo e pensano la materia come il principio unico della realtà: La Mettrie espone una critica al dualismo cartesiano e delinea la teoria dell’uomo-macchina, eliminando ogni principio spirituale dalla spiegazione delle funzioni e delle attività umane. Egli sostiene anche un’etica edonistica e vede nell’utilità la motivazione unica dell’agire umano; Helvétius propone un sistema fondato sul sensismo, sull’utilitarismo e ispirato all’uguaglianza; d’Holbach, il più sistematico, propugna una filosofia della natura meccanicista e determinista; svolge una ferma critica della religione e del deismo, sottolinea l’insostenibilità della teodicea e auspica una morale fondata sul «buon senso». [par. 2] 6. L’IDEA

DI PROGRESSO

L’idea di progresso, ossia la convinzione che la storia evolva verso un miglioramento delle condizioni sociali e civili, è uno dei principi della riflessione sulla storia di Voltaire. Esso è condiviso anche da Turgot, convinto che la storia umana sia in continuo mutamento verso il meglio, grazie all’apporto delle arti meccaniche e della tecnica; in economia è un sostenitore della scuola fisiocratica. Una concezione della storia articolata in dieci epoche è, infine, esposta da Condorcet, che immagina nella decima epoca l’avvento di una società fondata sull’uguaglianza. [parr. 1 e 2]

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Unità 11 L’Illuminismo in Francia

Parole chiave Arti meccaniche. Nella voce dell’Enciclopedia, che si deve a Diderot, è definito «arte» ogni insieme di tecniche per fare qualcosa; le arti si dividono in liberali, ossia tutte le attività intellettuali (per esempio la grammatica e la retorica), e in meccaniche, ossia tutte le attività pratiche e artigianali, comprese le arti figurative. Buon senso. Termine che nella tradizione filosofica è sinonimo di «lume naturale» (in Cartesio). D’Holbach se ne serve per criticare la religione e fondare una morale umana. Clima. Uno dei fattori oggettivi che formano lo «spirito generale» di un popolo nell’analisi di Montesquieu. Diffusione della cultura. Il processo attraverso il quale la conoscenza si diffonde nelle società tramite le scienze e le arti, il materiale informativo, la comunicazione e lo scambio di opinioni. È l’obiettivo principale dell’Illuminismo, per il quale la cultura si identifica con i «lumi», ossia con le forme di pensiero che si propongono di ‘rischiarare’ le menti liberandole dai pregiudizi, dall’ignoranza, dalla superstizione ecc. Dispotismo. Regime tirannico in cui chi detiene il potere si impone in modo indiscriminato e violento. Nella classificazione di Montesquieu, assieme alla repubblica e alla monarchia, è una delle tre forme di governo, giudicata negativamente e vista come un rischio costante. Divisione dei poteri. Teoria che distingue i diversi poteri dello Stato. Montesquieu distingue i primi due, legislativo ed esecutivo. Enciclopedia. Opera che vuole trattare in maniera esauriente ogni aspetto dello scibile. L’opera illuminista con questo titolo esce tra il 1751 e il 1772 inizialmente diretta da Diderot e d’Alembert e poi solo dal primo; ha come collaboratori tutti i principali intellettuali francesi: oltre ai due direttori, Rousseau, Voltaire ecc. Si compone di diciassette volumi di testo e di undici tavole. Felicità. Esperienza di appagamento dei bisogni e dei desideri che da molti illuministi (d’Alembert, La Mettrie, d’Holbach) viene identificata con il bene morale, ossia con il massimo fine dell’agire umano. Filosofia della storia. Teoria che vuole indagare le leggi che governano lo sviluppo storico. L’espressione compare per la prima volta in Voltaire.

Idea di progresso. Idea che esprime la convinzione, condivisa da tutti gli illuministi, che l’umanità segua un processo di civilizzazione durante il quale si realizza un avanzamento che coinvolge tutti gli aspetti della vita: la conoscenza, l’organizzazione sociale e civile, le condizioni di vita materiale ecc. Ben presente in Voltaire, questo tema viene approfondito da Turgot e Condorcet. Ottimismo. Termine derivante dal superlativo assoluto latino optimus, «il migliore», coniato da LouisBertrand Castel nel 1737 sulle pagine del giornale dell’ordine gesuita, le «Mémoires de Trevoux» per definire la metafisica leibniziana. Indica la teoria che ritiene che il mondo esistente sia il migliore possibile, rispetto al bilancio complessivo di bene e di male. Tesi inizialmente condivisa anche da Voltaire, che l’abbandona nel 1755 in seguito al terremoto di Lisbona. Scuola fisiocratica. Teoria economica nata nel XVIII secolo (sostenuta da Quesnay, Turgot e presentata anche nell’Enciclopedia) che, in opposizione al mercantilismo, ritiene che: la vita economica costituisca un ordine naturale; debba esser lasciata piena libertà di commercio e di iniziativa economica agli individui; l’attività economica principale sia l’agricoltura come fondamento dell’accrescersi della ricchezza. Sensismo. Teoria della conoscenza formulata da Condillac attraverso la parziale accettazione di quella di Locke, che pone la sensazione all’origine di ogni idea, e quindi di ogni grado della conoscenza, e nega la distinzione tra sensazione e riflessione. Spirito generale. Nella teoria politica di Montesquieu termine che indica l’insieme delle caratteristiche di un popolo, determinate dalle condizioni ambientali e dal modo di produzione, che lo distinguono dagli altri e che condizionano la formazione delle leggi, sia politiche sia civili (cioè il diritto pubblico e il diritto privato). Studio della società. Analisi descrittiva delle strutture e dell’organizzazione della vita sociale che è uno dei principali obiettivi di Montesquieu nello Spirito delle leggi. Questa impostazione scientifica costituisce il germe della moderna sociologia. Uomo-macchina. Espressione che sintetizza la tesi materialista di La Mettrie: l’uomo e le sue funzioni, compreso il pensiero e la conoscenza, sono comprensibili in base ai principi di materia e movimento, come gli animali nella teoria cartesiana. 581

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Questionario ATTEGGIAMENTO 1

CRITICO E DIFFUSIONE DEI

«LUMI»

Quali sono i presupposti teorici principali dell’Illuminismo francese? (max 4 righe)

Lavoriamo sui testi 16

Da cosa dipende ogni legge secondo Montesquieu in T1? (max 1 riga)

17

Quali sono i fattori che determinano lo spirito generale secondo Montesquieu in T2? (max 2 righe)

18

Qual è il rapporto tra legge e ragione secondo Montesquieu in T3? (max 1 riga)

19

Come si influenzano reciprocamente il commercio e la libertà secondo Voltaire in T5? (max 3 righe)

20

Quali sono i benefici effetti della libertà religiosa sulla società inglese secondo Voltaire in T6? (max 2 righe)

21

Per quale motivo in passato lo spirito di congettura è stato fondamentale per lo sviluppo della filosofia secondo d’Alembert in T7? (max 2 righe)

22

Qual è l’altra fonte di conoscenza che si unisce alla ragione per confermare che «l’uomo è una macchina, e che in tutto l’universo c’è una sola sostanza diversamente modificata» secondo La Mettrie in T8? (max 1 riga)

23

Qual è l’unica filosofia che La Mettrie in T8 ritiene competente per poter parlare dell’uomo? (max 1 riga)

MONTESQUIEU 2

Qual è il tema affrontato nelle Lettere persiane da Montesquieu? (max 1 riga)

3

Quali sono i fattori che determinano la formazione delle leggi secondo Montesquieu? (max 3 righe)

4

Definisci le nozioni di «natura» e di «principio» e il ruolo che svolgono nell’origine delle forme di governo in Montesquieu. (max 8 righe)

VOLTAIRE 5

Quali sono i temi delle Lettere inglesi di Voltaire? (max 4 righe)

6

Quale ruolo svolge la tolleranza nello sviluppo della società secondo Voltaire? (max 2 righe)

7

Riassumi in un massimo di 8 righe la posizione di Voltaire sul tema della religione.

L’ENCICLOPEDIA: DIDEROT

E D’ALEMBERT

8

Qual è il fattore determinante nel rapporto tra Enciclopedia e Illuminismo? (max 1 riga)

9

Quali sono i principali contenuti dell’Enciclopedia? (max 3 righe)

SENSISMO

E MATERIALISMO

10

Quali sono i motivi del disaccordo con Locke da parte di Condillac? (max 2 righe)

11

Quali elementi del cartesianesimo influenzano le tesi di La Mettrie? (max 2 righe)

12

Quali sono secondo Helvétius i motivi fondamentali dell’agire umano? (max 1 riga)

13

Quali sono gli elementi fondamentali della critica della religione di d’Holbach? (max 4 righe)

L’IDEA

DI PROGRESSO

14

Chiarisci in un massimo di 4 righe le tesi dei fisiocratici a cui aderisce anche Turgot.

15

Riassumi in un massimo di 3 righe la teoria delle epoche della storia di Condorcet.

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Unità 12 Rousseau

1. 2. 3. 4. 5.

Filosofia e autobiografia Un’esistenza tormentata La critica della civiltà Il contratto sociale Educazione, morale e religione

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Discorso sull’origine della disuguaglianza

I testi Confessioni: L’affermazione della propria unicità, T1; Tutto dipende dalla politica, T3 Discorso sulle scienze e sulle arti: La funzione mistificante delle scienze e delle arti, T2 Discorso sull’origine della disuguaglianza: La pietà dello stato di natura, T4; L’errore di Hobbes, T5; L’origine

della proprietà privata, T6 Del contratto sociale: Il problema fondamentale, T7; L’alienazione totale di ciascuno alla comunità, T8; La volontà generale, T9; Il rifiuto della rappresentanza, T10 Emilio: Robinson Crusoe, T11

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Parte seconda Il secolo dei lumi

1 Il profondo intreccio tra filosofia ed esistenza personale

La critica della nozione illuministica di «progresso»

I due Discorsi sulla corruzione della civiltà contemporanea

La proposta di un nuovo modello politico: il Contratto sociale

Corruzione sociale ed educazione domestica: l’Emilio

Amore e formazione alla vita adulta: La novella Eloisa

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Filosofia e autobiografia La filosofia di Jean-Jacques Rousseau costituisce un momento peculiare della riflessione illuministica sull’uomo e sulla vita in società, sia per la sua ricchezza e varietà, sia per il caratteristico intreccio che in essa si realizza tra il personaggio e il pensiero, o tra vita e dottrina; ciò è dovuto anche alla esplicita e tematizzata compresenza, nella sua opera, di trattazione filosofica e riflessione autobiografica. Le opere di Rousseau affrontano i campi più diversi attraverso molteplici generi letterari, lasciando un segno profondo, con gli scritti maggiori, nella tradizione filosofica e letteraria. In un secolo nel quale la fede e la speranza nel progresso costituiscono caratteristiche pressoché unanimi della produzione intellettuale (vedi Unità 11, p. 575 ss.), Rousseau prende una posizione radicalmente anticonformistica, mettendo sotto accusa l’intera civiltà moderna e individuando le cause della corruzione morale nei processi sociali: Rousseau sottolinea così, tra i primi, quanto la nozione di «progresso» possa rivelarsi ambigua e quanto un progresso che riguarda certi aspetti – come la scienza e la tecnica – possa rivelarsi problematico non appena si guardi ad altri elementi del vivere sociale. È questo il senso dei due famosi Discorsi che gli procurano la fama: il primo, che costituisce una sorta di diagnosi della corruzione della civiltà contemporanea (il Discorso sulle scienze e sulle arti), e il secondo, che di tale corruzione individua la genesi storico-sociale, confrontandosi criticamente con la dominante tradizione giusnaturalistica (il Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini). A questa originale analisi critica della civiltà moderna, e delle teorie che in un modo, o nell’altro la giustificano e la legittimano, Rousseau affianca la descrizione di forme di vita sociale alternative. Sul piano politico, il Contratto sociale costituisce una proposta critica e alternativa agli Stati esistenti: Rousseau intende indicare con questo saggio la possibilità, almeno per alcune comunità di uomini, di una nuova idea di patto sociale che stia a fondamento di una convivenza giusta. Nel fare ciò egli getta le basi per una radicale idea di democrazia che è stata addirittura accusata di essere «totalitaria», ma che almeno nello spirito costituisce un modello di democrazia ben più avanzato di quanto le democrazie successive siano riuscite a realizzare. La decadenza, la crisi e la corruzione che Rousseau ritiene di vedere nelle società del suo tempo emergono con chiarezza nella stessa impostazione del trattato sull’educazione, l’Emilio, un testo contemporaneo al Contratto sociale e che ne costituisce l’altra faccia: l’educazione esclusivamente domestica del bambino e del giovane non è che il risultato dell’impossibilità di un’educazione pubblica all’interno di società corrotte e ingiuste. Questo è il significato dell’operazione educativa rousseauiana, della quale è facile sottolineare i tratti ingenui, o i limiti, nella prospettiva ormai radicalmente modificata della pedagogia contemporanea. Sul piano letterario, il romanzo epistolare Giulia o la novella Eloisa, ancora degli stessi anni, costituisce un modello di grande successo non solo per l’oggettiva diffusione che ha tra i contemporanei, ma anche per l’influenza che esercita su grandi opere successive: la storia dell’amore infelice tra Giulia e Saint-

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Unità 12 Rousseau

L’atteggiamento dualistico di Rousseau e la riflessione autobiografica

➥ Sommario, p. 601

Preux offre un modello di trattazione letteraria che costituisce anche una potente fonte di ispirazione per altri autori, primo fra tutti il Goethe dei Dolori del giovane Werther. Accanto alle opere teoriche e letterarie devono essere tenute sempre presenti le grandi trattazioni autobiografiche, a partire dalle Confessioni. Rousseau vive, come ha scritto lo storico della filosofia Paolo Casini, in una forma mentis dualistica, dove alla contrapposizione tra natura e civiltà, tra integrità e corruzione, tra uomo isolato e vivere sociale, tra sincerità e menzogna, tra bene e male, corrisponde un’altra contrapposizione, quella tra lui stesso e quel mondo sociale che è stato anche all’origine della corruzione e della decadenza. Quella di Rousseau è sempre una considerazione dualistica: sul piano personale, egli pone da un lato il mondo degli altri uomini e dall’altro se stesso come una sorta di perseguitato; il risultato è quell’atteggiamento paranoico che è facile rinvenire anche in molti brani degli scritti autobiografici. La stessa persona di Rousseau è uno dei poli del dualismo poiché egli rappresenta l’uomo naturale, integro, isolato, sincero e buono.

La vita e le opere Jean-Jacques Rousseau nacque a Ginevra nel 1712. La madre morì durante il parto, fatto che ebbe ripercussioni decisive sulla vita psicologica e relazionale del filosofo. Visse i primi anni di vita col padre – un orologiaio calvinista, con il quale ebbe un rapporto assai complesso – e il fratello maggiore. Durante l’adolescenza era solito immergersi in appassionate letture di vario genere, tratte dalla ricca biblioteca lasciata dalla madre. Quando il fratello se ne andò via di casa senza lasciare traccia di sé e il padre, coinvolto in una rissa, fu costretto a fuggire per evitare la prigione, il giovane Rousseau fu affidato alle cure di uno zio presso Bossy e qui ricevette un’istruzione dal pastore Lambercier. Si cimentò in questo periodo in lavori di vario genere (scrivano, incisore). Una sera, all’età di sedici anni, essendosi recato fuori dalle mura cittadine per una passeggiata e avendo tardato a rientrare, restò chiuso fuori. Decise quindi di andarsene di casa ed ebbe così inizio una vita di vagabondaggi e avventure. Venne accolto in Savoia da un sacerdote cattolico, che lo affidò alle cure di una nobildonna da poco convertitasi, Madame de Warens. Presso di lei Rousseau trascorse lunghi anni, attraverso i quali passò da un attaccamento filiale nei confronti della donna, a una profonda amicizia, fino a una intensa passione amorosa. La nobildonna spinse inoltre Rousseau a convertirsi al cattolicesimo, conversione di cui egli ebbe più tardi a pentirsi. Le lunghe assenze di Rousseau da casa e i suoi numerosi viaggi misero tuttavia in crisi il rapporto, che fu troncato bruscamente nel 1744. Rousseau riprese il suo vagabondare e fu a Lione, a Parigi, a Venezia. Oltre che come precettore privato lavorò anche come segretario, copista di musica e musicista (una sua opera lirica, Le muse galanti, venne rappresentata a Parigi nel 1745). In questi anni entrò in contatto con gli enciclopedisti parigini Diderot e Condillac e scrisse alcune voci per l’Enciclopedia. Sempre a Pari-

gi conobbe nel 1745 Thérèse Levasseur, una stiratrice che nonostante le sue numerose infedeltà gli restò vicina per tutta la vita e che Rousseau sposerà – celebrando egli stesso il matrimonio in una stanza d’albergo – nel 1768. Da lei Rousseau ebbe nel corso della vita cinque figli, che affidò uno dopo l’altro alle cure di un orfanotrofio, reputandosi inadeguato ad allevarli. Nel 1749 partecipò al concorso letterario bandito dall’Accademia di Digione e si assicurò il primo premio con il Discorso sulle scienze e sulle arti, che gli dette un’improvvisa celebrità (dalla quale tuttavia rifuggì) e che lo allontanò almeno in parte dagli ambienti illuministici, data l’impostazione anti-progressista dello scritto. Nel 1753 un altro concorso bandito dalla stessa Accademia fu l’occasione per pubblicare la seconda opera importante, il Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini, che ebbe grande diffusione ma gli costò la rottura definitiva con i filosofi parigini. Testimonianze di questa rottura sono la Lettera sulla provvidenza (1756) e la Lettera sugli spettacoli (1758), rivolte rispettivamente contro Voltaire e d’Alembert. In questi anni visse a Parigi nella dimora dell’Ermitage, messagli a disposizione da Madame d’Épinay, e qui portò a termine alcune delle sue opere maggiori: Giulia o la novella Eloisa (1761), Emilio o dell’educazione (1762), Del contratto sociale (1762). Le ultime due opere suscitarono tali ostilità e condanne da parte delle autorità politiche e religiose che fu costretto a fuggire in Inghilterra, dove trovò ospitalità presso Hume. Tuttavia anche il rapporto con Hume entrò ben presto in crisi e Rousseau tornò in Francia. Qui portò a termine la maggiore delle sue opere autobiografiche, Le confessioni (1770). Morì nel castello del marchese di Girardin, in seguito a una malattia improvvisa, nel luglio del 1778. Altre opere da ricordare sono: Lettere dalla montagna (1764), Fantasticherie di un passeggiatore solitario (postuma, 1782), Rousseau giudice di Jean-Jacques (postuma, 1789).

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Parte seconda Il secolo dei lumi

2 Una vita costellata di relazioni sociali difficili

Il rapporto diretto con la natura come fonte di ogni felicità

L’incapacità di mantenere relazioni stabili

La rottura con gli enciclopedisti e con Hume

Le tensioni con se stesso

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Un’esistenza tormentata È perfino banale mettere in rilievo quanto la conoscenza dell’esistenza concreta di un filosofo – e non solo – sia importante per comprendere il tessuto di relazioni, di contatti, di amicizie che intrattiene, tutti elementi che possono aiutare a capire il suo pensiero. Nel caso di Rousseau, l’esercizio è certo altrettanto significativo, ma nella gran parte dei casi si tratta di relazioni che vengono rotte, di amicizie tradite, di incomprensioni reciproche, di una costante egocentrica attenzione per la propria persona che non lascia accettare a Rousseau il mondo umano che lo circonda. Semmai a essere accettata è la natura, nelle sue diverse forme: essa costituisce per Rousseau il rifugio dalla delusione provocata dal mondo degli uomini. È solo con la natura, con la passeggiata, nel contatto diretto con un mondo non umano bensì naturale che c’è qualche sollievo, o che addirittura può essere percepita una felicità che ha la sua radice nel semplice sentimento naturale della propria esistenza, privo di riflessione, poiché «l’uomo che medita è un animale depravato». Quando Rousseau si occuperà di botanica, per esempio, lo farà anche in polemica verso l’utilizzazione delle erbe come medicinali, o verso i gabinetti di scienza naturale: la passeggiata e la stessa collezione di erbe costituiscono la ripresa di un contatto diretto con la natura che il malvagio mondo degli uomini ha interrotto, anche se lo stesso Rousseau è consapevole di quanto la compagnia delle piante potrebbe essere abbandonata, se si potesse contare su quella degli uomini. Le fratture del tipo più diverso costellano l’esistenza di Rousseau, a partire dalle amanti o dalle sue protettrici, verso la maggior parte delle quali emerge tutta la sua insofferenza. L’unica presenza permanente sembra quella di Thérèse, la madre dei suoi cinque figli, tutti significativamente abbandonati all’orfanotrofio: azione, anche questa, che sarà fonte di confessione e rimorso pubblico (mentre Voltaire non gli risparmiava il suo polemico sarcasmo, sull’argomento). Su un altro fronte Rousseau litiga aspramente anche con l’ambasciatore di Francia a Venezia, dove aveva trovato una sistemazione. Ma limitiamoci ai rapporti con il mondo intellettuale e in particolare con i filosofi illuministi. Anche Rousseau scrive articoli per l’Enciclopedia, ma i rapporti con Diderot e d’Alembert si guastano quando d’Alembert, su istigazione di Voltaire, scrive la voce su Ginevra, criticando la repubblica svizzera per il suo divieto di rappresentare spettacoli teatrali. È uno dei momenti di maggiore crisi dell’impresa enciclopedica, che si concluderà con la sua soppressione da parte delle autorità; ma Rousseau non si trattiene dal replicare a d’Alembert con una lettera del 1758, difendendo il divieto ginevrino. A molti, e certo agli enciclopedisti, questo sembra un tradimento che rivela la divisione interna al fronte enciclopedico. E sì che qualche anno prima Diderot, che si trovava in prigione, riceveva costantemente le visite di Rousseau, che lo andava a trovare a piedi, non potendosi permettere una carrozza. Oppure, infine, si pensi a Hume, che si offre di ospitare Rousseau ma con il quale i rapporti si guastano rapidamente, forse con qualche stupore del flemmatico filosofo scozzese, a sentirne il racconto dello stesso Rousseau. Ma le tensioni, le contraddizioni, le fratture, riguardano in fondo anche il rapporto di Rousseau con se stesso, come mostrano non solo le Confessioni, ma an-

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che i dialoghi Rousseau giudice di Jean-Jacques e le Fantasticherie di un passeggiatore solitario. Lo sdoppiamento dell’autore risulta evidente già nel titolo dei dialoghi, e le opere autobiografiche sono una costante «confessione» – compreso il senso stretto del termine, riguardante cioè le proprie colpe – che è però al tempo stesso, e paradossalmente, l’affermazione consapevole della propria eccezionalità e, soprattutto, della propria sincerità e della propria sostanziale innocenza, come emerge con chiarezza dai brani di apertura delle Confessioni.

T1

L’affermazione della propria unicità Confessioni

➥ Sommario, p. 601

3 Il premio letterario e la ‘conversione’

Un testo originale: il Discorso sulle scienze e sulle arti

Le scienze e le arti come espressione di decadenza morale

Mi accingo ad un’opera senza esempi e senza imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura, e quest’uomo sarò io, io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono come alcun altro da me conosciuto, e oso credere di non essere fatto come alcun altro che esista. Se non valgo di più sono, almeno, diverso. Se la natura ha operato bene o male nello spezzare la forma nella quale mi ha plasmato, ciò non si può giudicare che dopo avermi ascoltato. […] Mi sono mostrato quale sono stato, spregevole e vile, buono, generoso e sublime. Ho svelato il mio intimo così come Tu stesso l’hai visto, Essere eterno. Raccogli intorno a me l’innumerevole folla dei miei simili: che ascoltino le mie confessioni, che arrossiscano per le mie indegnità, che gemano per le mie miserie; che ciascuno d’essi, a sua volta, apra il suo cuore con la stessa sincerità ai piedi del tuo trono e poi uno solo Ti dica, se osa: «io fui migliore di quell’uomo». La sincera e appassionata confessione della propria dimensione interiore con i suoi limiti e le sue contraddizioni costituisce dunque un tutt’uno con quell’atteggiamento narcisistico che caratterizza gran parte degli scritti autobiografici di Rousseau.

La critica della civiltà Nel 1749 la rivista «Mercure de France» pubblica l’annuncio del premio indetto dall’Accademia di Digione per una risposta al quesito se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a corrompere o a migliorare i costumi. Rousseau legge l’annuncio mentre va a trovare Diderot imprigionato nel castello di Vincennes e riproduce, nei suoi racconti successivi dell’evento, il modello dell’illuminazione, della conversione o dello inventum mirabilis di cui aveva parlato Cartesio. Non appena letto il quesito lungo la strada per Vincennes, racconterà Rousseau nell’VIII libro delle Confessioni, gli si dischiude una nuova prospettiva: «vidi un altro universo e divenni un altro uomo». Il Discorso sulle scienze e sulle arti che viene presentato da Rousseau e che ottiene il premio è un testo pieno di difetti, ma al quale non manca certo l’originalità: dei tredici scritti che partecipano al concorso, soltanto un altro (ben presto dimenticato), oltre a quello di Rousseau, sostiene una risposta negativa alla domanda se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi. La risposta negativa di Rousseau è evidentemente in netta controtendenza rispetto all’atmosfera del secolo e anche rispetto a quelli che sono gli amici di Rousseau e i suoi apparenti, possibili alleati: per il filosofo, infatti, le scienze e le arti, ben lungi dall’avere promosso il progresso morale, sono una delle espres587

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Parte seconda Il secolo dei lumi

L’ingiustizia dei rapporti sociali come radice della decadenza

La cultura come mistificazione dello stato di schiavitù

T2

La funzione mistificante delle scienze e delle arti

Discorso sulle scienze e sulle arti

L’origine sociale della decadenza e la reazione di Voltaire

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sioni della decadenza della società contemporanea. Si tratta di una risposta fondata su un’argomentazione e su un apparato di esempi – tratti prevalentemente dal mondo antico: la virtù di Sparta – non troppo convincenti, ma essa rappresenta pur sempre la radicale messa in crisi dell’idea che il «progresso» sia qualcosa di uniforme e di esteso a tutto, che il progresso delle scienze e della cultura sia anche, intrinsecamente, progresso morale, ovvero dei costumi. Una risposta negativa come quella di Rousseau costituisce la messa in stato d’accusa non solo dell’antico regime, ma anche dei sostenitori del progresso che pure verso l’antico regime, ovvero verso lo status quo, hanno un’attitudine critica, come gran parte degli stessi illuministi. La critica rousseauiana è più radicale, come si vedrà meglio negli sviluppi degli anni successivi. Già ora, tuttavia, Rousseau intravede quello che sarà il nucleo più essenziale e rilevante della sua riflessione: la consapevolezza, cioè, che il problema non sono tanto le scienze e le arti in sé come segno del vizio e della decadenza, ma qualcosa di più concreto e reale, ossia i rapporti sociali ingiusti sui quali il mondo contemporaneo si è formato e sviluppato. Le scienze e le arti sono quindi sì l’espressione della corruzione e della decadenza, ma sono anche l’effetto di qualcosa di più profondo: esse svolgono una funzione mistificante rispetto ai rapporti sociali iniqui che caratterizzano il mondo contemporaneo. Nel brano del Discorso riportato sotto è da notare l’ironia feroce che da un quadro apparentemente rassicurante della funzione dei governi sfocia in un esplicito e crudo atto d’accusa per i potenti che soffocano un sentimento originario della libertà, in questo aiutati dalla funzione delle scienze e delle arti, ovvero della cultura, che mistificano, ossia nascondono, come ghirlande, la reale situazione di schiavitù dell’uomo contemporaneo. Lo spirito ha i suoi bisogni al pari del corpo. Questi sono il fondamento della società, quelli ne fanno l’ornamento. Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini consociati, le scienze, le lettere e le arti, meno dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle catene di ferro ond’essi sono carichi, soffocano il loro sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravan nati, fan loro amare la loro schiavitù e ne formano i così detti «popoli civili». Il bisogno inalzò i troni: le scienze e le arti li hanno rafforzati. Potenti della terra, amate gl’ingegni e proteggete chi li coltiva. Popoli civili, coltivateli: schiavi felici, voi dovete loro quel gusto delicato e fine di cui vi vantate; quella dolcezza di carattere e quella urbanità di costumi che rendono così avvincenti e facili per voi i rapporti; in una parola, l’apparenza di tutte le virtù, pur senza il possesso di alcuna. Si tratta, per Rousseau, dell’avvio di una nuova critica della civiltà, che viene esplicitata, in replica alle molte obiezioni suscitate dal suo scritto, nella prefazione alla commedia Narciso, dove è ormai chiaro il tentativo di una ricostruzione ‘genetica’ della corruzione e della decadenza a partire dai rapporti sociali e politici, che non si limita più all’approvazione moralistica della virtù antica contrapposta alla condanna del vizio dei moderni. Nella polemica, va però ricordata la feroce critica di Voltaire, che pure intravede la genialità – e forse la pericolosità – di Rousseau: il 30 agosto del 1755 Voltaire scrive infatti a Rousseau

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Ambiguità del progresso

L’originalità della critica rousseauiana

Il rimedio è interno al male

La centralità della politica

che «non si è mai usato tanto ingegno per farci desiderare di essere bestie. A leggere il vostro libro vien voglia di camminare a quattro zampe. Tuttavia, siccome sono più di sessant’anni che ne ho perso l’abitudine, mi rendo conto purtroppo che mi è impossibile riacquistarla». La critica di Rousseau non è, come molti contemporanei intendono, l’invito a un ritorno al passato – al quale Rousseau non cede mai: «un popolo piombato nel vizio non torna mai alla virtù» – ma la diagnosi dell’ambiguità del progresso, del carattere iniquo e corrotto della società contemporanea e, allo stesso tempo, la base per una proposta positiva che si avrà soltanto con il disegno di una società giusta presentato nel Contratto sociale. La radice sociale del male morale, che costituisce il tratto essenziale della riflessione rousseauiana, è la grande novità che interviene con il suo pensiero, e la spiegazione, o il fondamento, della sua difesa di una bontà originaria dell’uomo che si è corrotto per motivi legati al vivere sociale. La critica di Rousseau non è quindi semplice condanna morale dei tempi moderni, ma illustrazione del processo che ha condotto alla decadenza e alla schiavitù. Rousseau è consapevole di non essere l’unico a vedere i vizi della società contemporanea, ma è al tempo stesso orgoglioso della novità dell’impostazione della propria indagine, se confrontata con un semplice giudizio morale negativo: «So che tante volte i retori hanno detto tutto questo, ma loro lo dicevano declamando, e io lo dico sulla base di fondate ragioni; loro hanno intravisto il male, e io ne scopro le cause, e soprattutto faccio vedere una cosa molto consolante e molto utile mostrando che tutti questi vizi appartengono non tanto all’uomo, quanto all’uomo mal governato». Naturalmente, tra le obiezioni che vengono fatte a Rousseau c’è anche quella di servirsi lui stesso, per la diagnosi della società contemporanea, dei medesimi strumenti che vengono ritenuti corrotti, cioè della riflessione e della filosofia. Rousseau replica con una sorta di ribaltamento della prospettiva, che rivendica per se stesso: sono proprio questi strumenti, che pure hanno contribuito a causare il male, a potere costituire ora un parziale rimedio, come colui che ha fatto un uso eccessivo di medicine è costretto a usare quelle stesse medicine «per mantenersi in vita», utilizzandole come antidoto per il male che hanno causato. Se il vizio non caratterizza l’uomo in quanto tale, ma l’uomo «mal governato», l’inevitabile conseguenza è la centralità della politica e dell’analisi della vita sociale. La stessa morale degli uomini e dei popoli è da ricondurre alla vita sociale e politica.

T3

Avevo visto che tutto, sostanzialmente, dipende dalla politica, e che comunque ci si comportasse nessun popolo sarebbe mai stato altro da quello che la natura del suo governo lo avrebbe fatto essere. Mi sembrava quindi che il problema del miglior governo possibile si riducesse a questo: quale è la natura del governo atto a formare il popolo più virtuoso, più illuminato, più saggio, migliore insomma, prendendo questa parola nel suo senso più largo?

Il secondo Discorso e la genesi della civiltà moderna ➥ Laboratorio di lettura,

La filosofia politica di Rousseau trova il suo coronamento nel Contratto sociale, ma la sua premessa è l’analisi svolta nel Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini. In questo discorso, anch’esso nato da un quesito dell’Accademia di Digione, Rousseau offre l’esame critico della genesi della civiltà moderna e delle teorie che la giustificano fraintendendone la natura, mentre nel Contratto sociale si mostra il modello positivo dell’organizzazione politica. A que-

Tutto dipende dalla politica Confessioni

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La critica dell’impostazione giusnaturalistica

L’errore fondamentale dei giusnaturalisti

L’uomo nello stato di natura: naturale e amorale

L’istinto, non la ragione, spinge alla convivenza pacifica

T4

La pietà dello stato di natura

Discorso sull’origine della disuguaglianza

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sto proposito bisogna tenere sempre presente che Rousseau, lo si è detto, è assolutamente convinto della impossibilità di recuperare l’innocenza perduta per i grandi Stati europei: le proposte positive varranno allora, eventualmente, per Stati piccoli che non sono ancora stati travolti dalla corruzione. Il secondo Discorso muove dalla considerazione critica delle teorie giusnaturalistiche – soprattutto Hobbes – e del modo in cui queste hanno interpretato l’opposizione tra stato di natura e stato civile. Il carattere comune a queste teorie è la descrizione dello stato di natura come una condizione negativa – o addirittura come uno stato di conflitto, nel caso di Hobbes (vedi Unità 7, p. 419 ss.) – da superarsi attraverso un patto che dia luogo alla società – allo stato civile – e quindi alla pacifica convivenza tra gli individui. Anche nel caso in cui, come in Locke, lo stato di natura non sia dipinto come una condizione di strutturale belligeranza (vedi Unità 7, p. 432 s.), soltanto lo stato civile garantisce in maniera stabile e certa il diritto naturale alla vita e alla proprietà. L’errore fondamentale dei giusnaturalisti è attribuire allo stato di natura una situazione che è invece tratta dall’osservazione dell’uomo contemporaneo, sia che si tratti della socievolezza sia che si tratti dell’egoismo. Né l’una né l’altro, per Rousseau, sono originari, ed egli è esplicito nel sostenere che lo stato di natura è uno stato ipotetico, immaginario, che viene utilizzato soltanto a scopo dimostrativo. L’uomo nello stato di natura non ha caratteristiche morali, ma soltanto caratteristiche naturali, istintuali, costituite dall’istinto alla propria conservazione, dall’amore di sé, e dalla compassione o pietà naturale, ovvero dalla naturale ripugnanza a vedere soffrire il proprio simile. L’uomo nello stato di natura è cioè un individuo naturale e ‘amorale’ che vive in equilibrio con se stesso e con i propri bisogni fondamentali (la sussistenza e la riproduzione), che è in grado di soddisfare in modo indipendente. Il comportamento pacifico dell’uomo nello stato di natura non è frutto della riflessione o della «ragione», ma dell’istinto, ed è questa struttura naturale degli istinti che svolge il ruolo che nello stato civile viene svolto dalle leggi e dalla morale. È questo elemento naturale che sostiene la convivenza, non la riflessione e la ragione nella quale alcuni, come Socrate, hanno inteso riporre la chiave della convivenza pacifica. Il comportamento non aggressivo non si fonda sulla conoscenza, ma sull’istinto. È dunque ben certo che la pietà è un sentimento naturale, che, moderando in ogni individuo l’attività dell’amor di se stesso, concorre alla mutua conservazione di tutta la specie. Essa ci porta impulsivamente in aiuto di quelli che vediam soffrire; essa, nello stato di natura, tien luogo di leggi, di costumi e di virtù, con questo vantaggio, che nessuno è tentato di disobbedire alla sua dolce voce: essa distoglierà ogni selvaggio robusto dal togliere a un debole fanciullo o a un vecchio malato il cibo conquistato a fatica, se almeno speri di trovarne per sé altrove; essa, in luogo di quella sublime norma di giustizia ragionata «Fa agli altri quel che vuoi fatto a te stesso», ispira a tutti gli uomini quell’altra massima di bontà naturale assai meno perfetta, ma più utile forse della precedente: «Fa il tuo bene col minor male altrui possibile». In questo sentimento naturale, in una parola, più che negli argomenti sottili, bisogna cercar la causa della repugnanza che ogni uomo proverebbe a far del male, anche indipendentemente dalle norme dell’educazione. Per quanto potesse

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appartenere a Socrate ed agli spiriti della sua tempra l’acquistar la virtù per via di ragione, il genere umano non esisterebbe più da gran tempo, se la sua conservazione non avesse dipeso che dai ragionamenti dei suoi componenti. La pietà è quindi un elemento naturale, amorale, che svolge però il suo compito di istinto ben meglio della riflessione, perché il processo di identificazione con la sofferenza altrui è, sostiene Rousseau, «ben più stretto». Il carattere amorale dell’uomo naturale non significa quindi che esso sia moralmente cattivo come lo ha rappresentato Hobbes: questo vede in realtà nell’uomo avido di proprietà della società contemporanea il modello per la descrizione dell’uomo naturale, ma si tratta soltanto di una proiezione del tutto indebita delle caratteristiche dell’uomo contemporaneo sull’uomo dello stato di natura. Il problema Comincia così a emergere il tema della proprietà, che non esiste nello stato di nadella proprietà tura perché in esso si dà, come giustamente dice anche Hobbes, il diritto di tutti su tutto; ma questa situazione non ha luogo tra individui dai bisogni illimitati prodotti dal vivere sociale, bensì tra individui che hanno bisogni elementari e che non aspirano alla proprietà, ma semplicemente alla soddisfazione dei bisogni.

Pietà come istinto naturale e amorale

T5

L’errore di Hobbes

Discorso sull’origine della disuguaglianza

Proprietà privata e stato di natura

Perfettibilità dell’uomo e prime forme di vita sociale

L’origine della proprietà privata

Soprattutto non arriviamo a concludere con Hobbes che per non avere alcuna idea della bontà, l’uomo sia naturalmente cattivo, che sia vizioso perché non conosce la virtù, che rifiuti sempre ai suoi simili i servizi che non crede di dovere loro; né che in virtù del diritto, che si attribuisce con ragione sulle cose delle quali ha bisogno, s’immagini follemente di essere il solo proprietario di tutto l’universo […]. Ragionando sui principi che pone, questo autore doveva dire che, essendo lo stato di natura quello in cui la cura della nostra conservazione è meno dannosa all’altrui, questo stato era per conseguenza il più adatto alla pace e il più conveniente al genere umano. Dice precisamente il contrario, per aver fatto entrare a sproposito, nella cura della conservazione dell’uomo selvaggio, il bisogno di soddisfare a una quantità di passioni, che sono il prodotto della società, e che hanno rese necessarie le leggi. Il tema della proprietà costituisce un passaggio fondamentale dell’analisi di Rousseau: anch’egli, come Montesquieu, vede nell’instaurazione della proprietà l’origine dei conflitti e la necessità delle istituzioni (vedi Unità 11, p. 560). A questa posizione Rousseau arriva attraverso la considerazione di un processo storico e attraverso l’analisi della genesi della disuguaglianza sociale. Lo stato di natura è uno stato di sostanziale uguaglianza, nel quale non esiste la proprietà privata. Nel tempo, anche per una serie di cause fortuite, intervengono però vari fattori che modificano la situazione originaria e che danno luogo alle prime forme di vita sociale, anche se ancora di carattere naturale, alla fine dell’autosufficienza degli individui e allo sviluppo dei bisogni: in tutto ciò svolge per Rousseau un ruolo fondamentale una peculiarità dell’essere umano, ossia la sua capacità di perfezionarsi, la ‘perfettibilità’. Forme di società naturali avrebbero potuto comunque costituire un esito accettabile, come mostrano certe società di popoli selvaggi che l’uomo europeo è in grado di conoscere attraverso il racconto dei viaggiatori: si trattava ancora di una «età felice» che è durata a lungo nella storia dell’umanità. Fatto sta che a un certo punto di questo processo complesso e lungo, che Rousseau tiene a descrivere come tale e che avrebbe anche potuto non avere luogo, il 591

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moltiplicarsi dei bisogni, la divisione del lavoro (per cui ciascun individuo non è più autosufficiente, ma dipende dai prodotti del lavoro altrui) e lo sviluppo dell’attività produttiva – metallurgia e agricoltura – insieme con il ruolo del «funesto caso» hanno condotto all’istituzione della proprietà privata, un evento che Rousseau descrive da un lato in modo lapidario, dall’altro mostrandolo come frutto di un processo che a sua volta dà luogo all’istituzione dello Stato.

T6

L’origine della proprietà privata Discorso sull’origine della disuguaglianza

Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno!». Ma è molto verosimile che allora le cose fossero già arrivate a tal punto, da non poter più durare com’erano: poiché questa idea di proprietà, dipendente da molte altre idee anteriori, che non sono potute nascere che una dopo l’altra, non si formò d’un tratto nello spirito umano: bisognò fare molti progressi, acquistare molta industria e molti lumi, trasmetterli e aumentarli di generazione in generazione, prima di arrivare a quest’ultimo termine dello stato di natura.

Nell’origine della disuguaglianza sta quindi anche l’origine dello Stato: in questo, la posizione di Rousseau coincide con quella di Montesquieu, anche se Montesquieu vorrebbe semplicemente offrire la descrizione di un fatto, mentre l’apparente descrizione di Rousseau è in realtà carica di valutazione critica. L’origine della società e delle leggi è ciò che dà «nuove pastoie al debole e nuove forze al ricco», poiché l’istituzione della società politica è ciò che distrugge la libertà naturale, fissa per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza e rende quella che è stata in realtà un’usurpazione un «diritto irrevocabile». È da questa disuguaglianza originaria che discendono poi, in una nuova serie processuale, le altre iniquità, dirette conseguenze della istituzione dello Stato, fino al mondo contemporaneo, con la trasformazione del potere in potere arbitrario e la riduzione dei cittadini a schiavi. L’ingiustizia alla base Ciò significa però né più né meno che il contratto sociale dei giusnaturalisti, codella società civile sì come il contratto sociale che sta alla base della società moderna, è in realtà un moderna patto iniquo, fondato sulla disuguaglianza. Si tratta, quindi, di contrapporre a ➥ Sommario, p. 601 questo contratto sociale ingiusto un contratto giusto.

Istituzione dello Stato e distruzione dell’uguaglianza originaria

Dallo stato di natura alla società civile

Stato di natura: condizione di sostanziale uguaglianza tra gli individui; la libertà naturale è sufficiente al soddisfacimento autonomo dei bisogni

Condizione di sostanziale disuguaglianza tra gli individui, perdita della libertà naturale, rapporti di dipendenza reciproca

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Intervento di molteplici fattori: – divisione del lavoro – moltiplicarsi dei bisogni – sviluppo delle attività produttive – il «funesto caso» (…)

Istituzione della proprietà privata

Istituzione della società civile

L’«usurpazione» diviene «diritto irrevocabile» grazie a un sistema di norme che tutelano la proprietà e codificano le disuguaglianze tra gli individui

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Il contratto sociale I principi del diritto politico

Il contributo di Montesquieu

L’oggetto del Contratto sociale: il patto che rende legittimo uno Stato

Dei grandi filosofi del passato a lui più prossimo, soltanto Montesquieu, per Rousseau, sarebbe stato in grado di trattare i principi del diritto politico, ovvero i principi generali di un ordinamento politico legittimo. Ma l’autore dello Spirito delle leggi non si è spinto fino a costruire questo modello: egli, infatti, si è limitato ad affrontare «il diritto positivo dei governi esistenti», ma questo è argomento ben diverso dal primo. I principi del diritto politico indicano un modello di Stato, dello Stato come dovrebbe essere, non degli Stati esistenti. È questo il contenuto del Contratto sociale, che si occupa non tanto di come si siano storicamente formati gli Stati esistenti, quanto di ciò che renda legittimo uno Stato, ovvero un patto che sia stretto tra i suoi componenti: né la tradizione né, tantomeno, la forza, rendono legittimo un ordinamento politico, poiché la forza è una forza fisica e non si vede quale moralità, cioè quale legittimità, possa risultare dai suoi effetti. La forza è semplicemente uno stato di fatto.

Conservare libertà e uguaglianza Il problema è trovare una forma di patto che conservi la libertà e l’uguaglianza dello stato di natura: anche nell’ipotesi che si possa alienare la propria libertà, non si ha il diritto di alienare quella dei propri figli, che nascono, come tutti gli uomini, liberi. L’uomo, infatti, è nato libero, anche se «dappertutto è in catene», e le stesse parole «schiavitù» e «diritto», ovvero ciò che è legittimo, contrastano l’una con l’altra. La principale difficoltà Sulla base dell’ipotesi che non sia più possibile conservare uno stato di natura in nell’elaborazione cui ciascuno eserciti senza limiti la propria forza e la propria libertà, Rousseau di un patto sociale equo cerca di superare una difficoltà fondamentale, quella per cui sia necessario alienare la propria forza e la propria libertà naturali, ma non si possa pensare a un ordinamento legittimo, e quindi a un patto equo, se questa forza e questa libertà, cioè la possibilità di perseguire il proprio interesse, non vengono al tempo stesso conservate. La conservazione della libertà e dell’uguaglianza originarie

T7

Il problema fondamentale

Del contratto sociale, 1,6

Conservare la libertà pur alienandola

[…] essendo la forza e la libertà di ogni uomo i primi strumenti della sua conservazione, come potrà egli impegnarli senza nuocersi e senza trascurare le cure che deve a se stesso? Questa difficoltà, ricondotta al mio argomento, può enunciarsi in questi termini: «Trovare una forma di associazione, che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona ed i beni di ciascun associato; e per la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti altrettanto libero di prima». Tale è il problema fondamentale, di cui il contratto sociale dà la soluzione. Per ottenere il risultato cercato da Rousseau, la conservazione della libertà pur attraverso la sua alienazione, il problema fondamentale coinvolge in realtà due 593

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Parte seconda Il secolo dei lumi

L’alienazione della libertà individuale dev’essere totale

L’intera comunità è portatrice della volontà generale

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L’alienazione totale di ciascuno alla comunità

Del contratto sociale, 1,6

aspetti distinti: 1) quale forma di alienazione della libertà naturale – che include la protezione del proprio interesse individuale – debba avere luogo; 2) a quale soggetto la volontà dell’individuo possa alienare la propria libertà in modo da conservarla, in modo cioè da non obbedire ad altri che a se stesso pur alienando la propria libertà: un’operazione che può apparire paradossale. I passaggi successivi dell’argomentazione di Rousseau costituiscono la sua risposta a queste domande. In primo luogo, l’alienazione deve essere totale. Questa caratteristica è richiesta dalla pretesa rousseauiana di un patto assolutamente equo ed egualitario: se ciascuno si dà per intero, questa condizione è valida per tutti, e nessuno può essere in grado di conservare un diritto che non rientri nel patto e che quindi lo renda diverso dagli altri. In secondo luogo, l’alienazione ha per destinatario la totalità della comunità dei contraenti, poiché in tal modo ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nessun individuo particolare, e ha, rispetto a ciascun individuo, che a sua volta si dà a tutti, lo stesso diritto che ciascuno ha su di lui. La soluzione del problema consiste quindi in un’alienazione totale di ciascun associato a tutta la comunità. Questa costituisce una volontà comune che ha per oggetto il bene e l’interesse generale e che Rousseau chiama «volontà generale». […] alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità; perché, in primo luogo, se ciascuno si dà tutto intiero, la condizione è uguale per tutti; e se la condizione è uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri. Di più, facendosi l’alienazione senza riserve, l’unione è perfetta per quanto può essere, e nessun associato ha più niente da rivendicare […]. Infine ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno; e siccome non c’è associato, sul quale non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l’equivalente intiero di ciò che si perde, e più forza per conservare ciò che si ha. Se dunque si escluda dal patto sociale ciò che non fa parte della sua essenza, si troverà ch’esso si riduce ai termini seguenti: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere, sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti in corpo riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto».

Attraverso il contratto sociale ciascun individuo perde quindi la sua libertà naturale, ma non la propria libertà, perché acquisisce la libertà civile. La libertà naturale è la libertà nella ricerca della soddisfazione dei propri bisogni, indipendentemente dalla relazione con gli altri, mentre la libertà civile è una libertà acquisita attraverso la convenzione del contratto sociale e consiste in una sostanziale limitazione dell’attività possibile degli individui a vantaggio della comunità, su un piano di completa uguaglianza tra coloro che contraggono il patto. La perdita della libertà significa quindi anche il recupero di essa in una nuova condizione, quella di membro della comunità. Sovranità La comunità è la depositaria della sovranità: la sovranità non appartiene a un ininalienabile dividuo o a un gruppo di individui, ma all’unione stessa, al corpo politico, al poe indivisibile polo nel suo insieme. Si tratta di una sovranità che è per Rousseau inalienabile e indivisibile: essa non può essere alienata o delegata a nessuno dei suoi membri, né può essere divisa, perché appartiene al corpo politico nel suo complesso come corpo unitario.

Dalla libertà naturale alla libertà civile: il contratto sociale

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Unità 12 Rousseau Il contratto sociale

Tesi Uno Stato legittimo deve conservare la libertà e l’uguaglianza originarie degli individui

Problema Com’è possibile costruire un tale Stato?

Conseguenza Alla perdita della libertà naturale corrisponde l’acquisto della libertà civile

Soluzione Attraverso un patto sociale che preveda: – l’alienazione totale della libertà di ciascun individuo alla comunità – la formazione della volontà generale

Volontà generale e volontà di tutti La volontà generale e il bene comune

L’infallibilità della volontà generale, diversa dalla volontà di tutti

T9

La volontà generale

Del contratto sociale, 2,1 e 3

Sovranità, governo, rappresentanza

La volontà generale, che è la volontà dell’intero corpo politico, della comunità, è l’unica che può avere per suo oggetto e per suo scopo il bene comune: essa è stata instaurata sulla base dell’interesse comune e per la necessità di comporre il conflitto tra le volontà particolari, e questo deve essere l’unico principio della sua direzione. La volontà generale è quindi una volontà che non può errare, perché il perseguimento del bene comune appartiene alla sua natura. L’errore può eventualmente dipendere dalla confusione o dalla sovrapposizione tra la volontà generale e la volontà di tutti: quest’ultima è la semplice somma degli interessi particolari, che in taluni casi potrebbero prevalere nelle concrete decisioni. Rousseau tiene a distinguere volontà generale e volontà di tutti proprio per il carattere fallibile della seconda: la volontà generale rappresenta, al contrario, ciò che è comune e che va al di là delle volontà particolari costituendo un’unità di tipo nuovo. La volontà generale può sola dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune; perché, se l’opposizione degli interessi privati ha reso necessaria l’istituzione della società, a sua volta l’accordo di questi stessi interessi l’ha resa possibile. Precisamente ciò che v’è di comune tra questi interessi forma il vincolo sociale; e se non ci fosse qualche punto, su cui tutti gli interessi si accordino, nessuna società potrebbe esistere. Ora unicamente in vista di questo comune interesse la società dev’essere governata. […] V’è spesso gran differenza fra la volontà di tutti e la volontà generale: questa non guarda che all’interesse comune, l’altra guarda all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari: ma togliete da questa volontà il più e il meno, che si distruggono a vicenda, e resta per somma delle differenze la volontà generale. Il problema che si pone è come possa essere concretamente espressa, ed esercitata, la volontà generale. A questo proposito, Rousseau prende posizione in modo caratteristico e originale su due questioni: 1) il problema del rapporto tra sovranità e governo; 2) il problema della rappresentanza. 595

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La distinzione tra sovrano e governo Il popolo sovrano come unico legislatore e l’assemblea dei cittadini

Il governo come emanazione della sovranità popolare

La migliore forma di governo

Rousseau tiene a distinguere rigorosamente il sovrano dal governo. Il compito di formare le leggi, il potere legislativo, spetta esclusivamente al popolo sovrano, che è l’unico ad averne la legittimità e il potere. Questo potere può essere esercitato soltanto con la concreta riunione fisica dei cittadini in un’assemblea, ciò che rivela la predilezione di Rousseau per l’ideale di uno Stato di piccole dimensioni: questa preferenza è in parte frutto della idealizzazione della repubblica di Ginevra, in parte conseguenza della sua convinzione che «un popolo piombato nel vizio non torna mai alla virtù», e che quindi un’eventuale resistenza della virtù rispetto alla corruzione sia possibile soltanto per i piccoli Stati, non certo per i grandi Stati europei. Il potere legislativo è formalmente distinto dal potere esecutivo, che è incaricato di applicare le leggi e che si esprime attraverso il governo, ma questo ha in Rousseau una funzione esclusivamente applicativa: è un organo che costituisce una sorta di emanazione del potere legislativo del popolo, non un potere separato (la sovranità è inalienabile e indivisibile). Il governo non impone leggi, ma semplicemente provvede all’applicazione di esse. Tra le diverse forme di governo, inteso nel senso che si è visto, Rousseau ritiene che la democrazia sia un sistema troppo perfetto per gli uomini; ritiene che un’oligarchia potrebbe essere la migliore forma di governo per uno Stato di piccole dimensioni (è questo, ancora, il segno della idealizzazione di Ginevra) e, infine, pensa che la monarchia sia caratteristica dei grandi Stati, le unità politiche alle quali guarda con più diffidenza.

La critica della rappresentanza Rousseau è un grande critico della nozione di «rappresentanza», in base alla quale il popolo elegge dei deputati come rappresentanti della sovranità: la rappresentanza è anch’essa un segno della corruzione, poiché la sovranità non può essere divisa, alienata o rappresentata. Essa appartiene e può appartenere soltanto al popolo, cioè alla volontà generale. La cosa pubblica Lo Stato giusto è fatto di cittadini che si occupano della cosa pubblica, non di contro gli interessi cittadini che si occupano soltanto del loro interesse privato e delegano ad altri le privati decisioni e gli affari pubblici. Quando i cittadini pensano soltanto ai propri interessi privati «lo Stato è perduto». La libertà politica consiste quindi nell’esercizio diretto della sovranità, non nella delega di essa, come avviene nei grandi Stati moderni come l’Inghilterra: in questo caso la libertà è solo un’illusione. La rappresentanza come segno di corruzione

T10

Il rifiuto della rappresentanza

Del contratto sociale, 3,15

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La sovranità non può essere rappresentata, per la ragione stessa che non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa, ovvero è un’altra; non c’è via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque, né possono essere, suoi rappresentanti; non sono che i suoi commissari: non possono concluder nulla in modo definitivo. Ogni legge, che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla; non è una legge. Il popolo inglese crede bensì di essere libero, ma si sbaglia di grosso; non è tale che durante l’elezione dei membri del parlamento: appena questi siano eletti, esso è schiavo, non è più niente.

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Unità 12 Rousseau La proprietà privata come istituzione convenzionale

➥ Sommario, p. 601

Distinzione tra sovranità e governo

5

Per quanto riguarda la proprietà privata Rousseau, nonostante la serrata critica di cui la fa oggetto nel Discorso sull’origine della disuguaglianza, non ritiene che essa debba essere negata o abolita, anche se certo egli pensa a proprietà di piccole dimensioni. Ciò che egli intende chiarire, coerentemente con quanto aveva sostenuto nel secondo Discorso, è che non si tratta di una istituzione naturale, ma, come lo Stato, di tipo convenzionale. Il diritto del privato sul proprio terreno diventa proprietà giuridica soltanto all’interno del corpo politico ed è sempre dipendente dal diritto che la comunità ha su tutti i cittadini.

La sovranità (indivisibile e inalienabile)

spetta al popolo, che è l’unico legislatore

L’assemblea popolare esprime la volontà generale

Il governo (emanazione della sovranità popolare)

ha funzione esecutiva rispetto alle leggi formulate dal popolo sovrano

ha forma oligarchica (in piccoli Stati)

Educazione, morale e religione L’educazione

Il quadro generale del progetto educativo

Un’educazione naturale e isolata dalla società

I diversi gradi dell’educazione di Emilio

Il modo in cui Rousseau affronta, nell’Emilio, la questione dell’educazione deve essere visto tenendo presenti le sue tesi filosofiche più generali. Il problema educativo è infatti un aspetto della complessiva diagnosi di Rousseau sulla società contemporanea, una società corrotta e in decadenza. È dalla considerazione di questa corruzione e di questa decadenza che discende l’oculato, e per molti singoli aspetti macchinoso e pedante, progetto educativo. La corruzione della società fa sì che l’educazione ideale, in questo contesto, debba essere un’educazione fondata innanzitutto sulla natura e sull’isolamento, tanto che essa si deve svolgere, secondo Rousseau, in campagna. In un universo sociale corruttore, il rimedio educativo che voglia essere realmente naturale e soprattutto che voglia sviluppare le potenzialità del bambino e del fanciullo deve creare un ambiente separato dalla società: soltanto dopo una formazione adeguata il giovane potrà affrontare l’esperienza della vita sociale. Lo sviluppo naturale delle facoltà, nell’educazione del giovane Emilio, segue un processo che parte dalla sensibilità, passa alla formazione dell’intelligenza e poi all’educazione morale e religiosa, necessaria al momento in cui, nell’adolescenza, il giovane entra in relazione con gli altri. Affrontando l’educazione morale e religiosa, Rousseau presenta anche i principi generali della morale e la sua concezione della religione, che egli espone attraverso la finzione della Professione di fede di un vicario savoiardo (nel IV libro dell’Emilio). Infine, si tratterà di prendere in considerazione l’educazione di Sofia, vista come potenziale compagna di Emilio, e quindi affrontare il tema del rapporto tra uomo e donna e della specificità – biologica e psicologica – dei due sessi. 597

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Parte seconda Il secolo dei lumi L’educazione della sensibilità

Lo sviluppo di una intelligenza pratica

Lo studio del «libro della natura» e il Robinson Crusoe

T11

Robinson Crusoe Emilio, 3

L’utile come criterio di validità del sapere

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La natura umana è innanzitutto natura sensibile, facoltà di sentire che è all’origine di tutte le facoltà e di tutte le operazioni dell’uomo: è una prospettiva che Rousseau riprende da Condillac e dal suo sensismo. Lo sviluppo dei sensi deve consistere innanzitutto nella capacità di orientarsi nel mondo, cioè nella presa di coscienza della necessità di regolare e limitare la propria libertà naturale in vista della soddisfazione dei propri bisogni. È una limitazione che non nasce dalla relazione intersoggettiva, ancora assente, ma dagli ostacoli che la natura pone al soggetto. L’intelligenza non è vista in opposizione ai sensi, ma fondata su questi. Lo sviluppo dell’intelligenza deve fondarsi infatti sull’esperienza diretta del giovane e sull’osservazione dei fatti. L’osservazione conduce il giovane a elaborare delle relazioni generali sulla base delle analogie e delle differenze tra i fatti che sperimenta direttamente. Lui stesso deve escogitare autonomamente gli esperimenti necessari a questo fine: si tratta, in sostanza, di una traduzione nella vita quotidiana del modello conoscitivo newtoniano, di tipo sperimentale. Rousseau sottolinea, in questa fase, come i libri non debbano trovare posto nell’educazione di Emilio, proprio perché i libri riportano esperienze che sono, per il giovane, di seconda mano, incapaci «di sostituire la lettura dell’unico libro che conta, il libro della natura». A questo proposito, viene però fatta un’unica eccezione: il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, che racconta il progressivo dominio del mondo naturale da parte di un naufrago isolato in un’isola deserta. È il primo libro che possa svolgere una funzione educativa, perché riproduce il modello dell’isolamento e della necessità di confrontarsi con la natura, come nel caso del giovane Emilio. Questo libro sarà il primo che leggerà il mio Emilio; solo esso comporrà per lungo tempo tutta la sua biblioteca, e vi terrà sempre un posto distinto. Sarà il testo al quale tutte le nostre conversazioni sulle scienze naturali non serviranno che da commentario. Servirà di prova, durante i nostri progressi, allo stato del nostro giudizio; e, fino a che il nostro gusto non sarà guastato, la sua lettura ci piacerà sempre. Qual è dunque questo libro meraviglioso? È Aristotile? È Plinio? È Buffon? No; è Robinson Crusoe. Robinson Crusoe nella sua isola, solo, privo dell’assistenza dei suoi simili e degli strumenti di tutte le arti, provvedendo per altro alla sua sussistenza, alla sua conservazione, e procurandosi perfino una specie di benessere: ecco un oggetto interessante per ogni età, e che con mille mezzi si può rendere piacevole ai fanciulli. Ecco come realizziamo l’isola deserta, che mi serviva dapprima di paragone. Questo stato non è, ne convengo, quello dell’uomo sociale; verosimilmente non dev’essere quello di Emilio: ma è su questo medesimo stato ch’egli deve apprezzare tutti gli altri. Il mezzo più sicuro di elevarsi al di sopra dei pregiudizi e di regolare i propri giudizi sui veri rapporti delle cose, è di mettersi al posto di un uomo isolato, e di giudicare di tutto come quest’uomo ne deve giudicare lui stesso, avuto riguardo alla propria utilità. Il significato del sapere consiste nella sua utilità: questo è l’unico carattere importante di esso. A questa dimensione utilitaria è legata anche la rilevanza del lavoro e delle «arti meccaniche», che Emilio deve conoscere (e che tutta la tradizione antica, medievale e, in buona parte, moderna aveva considerato inferiori rispetto alle arti liberali). In questo modo Emilio è ormai un individuo autosufficiente, che basta a se stesso e che può affrontare da uomo libero il rapporto con gli altri.

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Unità 12 Rousseau La rivoluzione pedagogica di Rousseau

Da un punto di vista più generale, si può affermare che con l’Emilio Rousseau abbia operato un’autentica rivoluzione nel pensiero pedagogico, le cui conseguenze sono vive tutt’oggi. In primo luogo, contrariamente a tutta la tradizione educativa occidentale basata sull’«adultismo», egli ha contrapposto un marcato «puerocentrismo» (dal latino puer, «fanciullo»), nel quale il protagonista del processo formativo è appunto il fanciullo (con i suoi bisogni, il suo peculiare mondo interiore ecc.) e non l’adulto. In secondo luogo l’educazione secondo natura tematizzata da Rousseau favorisce uno sviluppo autonomo e attivo delle potenzialità latenti dell’educando, nel pieno rispetto dei suoi ritmi di crescita biologica e psicologica. In terzo luogo, come è stato notato poco sopra, viene sottolineata – contro ogni astrattismo – la necessità di fornire sempre concretezza a ciò che si viene imparando, mediante un continuo aggancio all’esperienza quotidiana e al vissuto personale.

La morale L’intervenire dei rapporti con gli altri uomini segna anche la necessità della formazione di una morale che regoli le relazioni. Al centro della proposta morale rousseauiana ci sono le passioni e i sentimenti, ampiamente rivalutati da gran parte della cultura illuministica. Le passioni originarie e naturali sono l’amore di sé, che costituisce l’origine di tutte le nostre passioni, e la pietà naturale: le stesse passioni dell’uomo originario stanno a fondamento della morale di Emilio. Il ruolo dell’amore L’amore di sé sta alla base della nostra tendenza all’autoconservazione, ed è un di sé e della pietà sentimento positivo, ma corre il rischio di degenerare nell’«amor proprio» all’innaturale terno delle relazioni sociali, cioè nel desiderio di dominare gli altri e di sottometterli alla propria volontà. La pietà è invece «il primo sentimento di relazione che tocchi il cuore umano secondo l’ordine della natura». Per una corretta relazione tra gli uomini è infatti necessario il sorgere di una immaginazione che trasporti l’individuo all’esterno e che gli faccia sentire che vi sono esseri simili a lui che soffrono e hanno sofferto ciò che anche lui soffre (una sorta di empatia). È su questo processo di identificazione che si fondano la moralità, che ci fa sensibili e pietosi verso gli altri, e quindi tutte le virtù sociali. Risulta chiaro da ciò come Rousseau guardi alla natura umana originaria in maniera fiduciosa e positiva, contrariamente a quanto sostenuto, per esempio, da Hobbes.

Le passioni originarie e l’educazione morale

La religione La posizione religiosa di Rousseau viene illustrata soprattutto nella Professione di fede di un vicario savoiardo. Per quanto riguarda l’educazione, la religione è l’ultimo passo della formazione di Emilio: insegnare il catechismo ai fanciulli è soltanto segno di «stupidità importuna». La trattazione della religione da parte di Rousseau individua un duplice obiettivo polemico: da una parte egli ritiene che le religioni positive abbiano tradito il contenuto della religione naturale contenuta nel Vangelo; dall’altra, pensa che gli stessi filosofi illuministi abbiano spinto troppo in avanti la critica della religione finendo per cadere nell’ateismo. Il rifiuto del peccato La religione rousseauiana non ha nulla dell’ortodossia, a partire dall’ovvio rifiuoriginale to del dogma del peccato originale, incompatibile con il presupposto di una naIl corretto atteggiamento verso l’educazione religiosa

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La riformulazione del problema del male nel mondo ➥ Percorso tematico, p. 321

La religione rousseauiana come risposta a un’esigenza del cuore

➥ Sommario, p. 601

tura umana originariamente buona. Il male interviene nella storia a causa della società e della libertà dell’uomo, della quale Rousseau è uno strenuo assertore. È proprio il problema del male uno dei temi centrali della riflessione sulla religione, come dimostra anche la Lettera a Voltaire dell’agosto 1756, redatta in replica alle pessimistiche tesi del patriarca dell’Illuminismo in seguito al terremoto di Lisbona. Quella di Rousseau è una riformulazione del problema del male e della teodicea attraverso la critica della civilizzazione e dell’ordinamento sociale. Significativo, in questo senso, è lo stesso esordio dell’Emilio: «Tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo». Le linee fondamentali della religione rousseauiana sono essenziali. Innanzitutto, si riconosce una suprema intelligenza ordinatrice; in secondo luogo, si afferma con forza la fede nella provvidenza divina e nell’immortalità dell’anima. Quest’ultima corrisponde prevalentemente a un’esigenza di giustizia: la sola oggettiva ingiustizia del mondo, in cui il giusto viene oppresso e il cattivo trionfa, costituisce una prova sufficiente dell’immortalità dell’anima come soluzione di una dissonanza così urtante nell’armonia universale. La religione di Rousseau non ha un ampio contenuto dottrinale: ciò che la caratterizza è l’insistenza sull’elemento sentimentale, che vede la religione come risposta a un’esigenza del cuore, e sulla funzione della coscienza come principio interiore del giudizio morale che troviamo «in fondo alle anime».

Suggerimenti bibliografici Una buona introduzione è quella di P. Casini, Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1980; stimolante per aspetti specifici è anche F. Jesi, Che cosa ha veramente detto Rousseau, Ubaldini, Roma 1972. Un classico che si legge sempre con grande utilità è quello di E. Cassirer, Il problema Jean-Jacques Rousseau, in E. Cassirer - R. Darnton - J. Starobinski, Tre letture di Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1994. Discutibile ma brillante: J. Starobinski, La trasparenza e l’ostacolo, il Mulino, Bologna 1982; fondamentale per il Rousseau politico e per il suo confronto con il giusnaturalismo: R. Derathé, J.-J. Rousseau e la scienza politica del suo tempo, il Mulino, Bologna 1993; da vedere anche la monografia di I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, Feltrinelli, Milano 1971 e quella di A. Burgio, Uguaglianza, interesse, unanimità. La politica di Rousseau, Bibliopolis, Napoli 1989. Sull’ottimismo: L. Luporini, L’ottimismo di Jean-Jacques Rousseau, Sansoni, Firenze 1982. Per la religione: H. Gouhier, Filosofia e religione in Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1974. I brani antologizzati sono tratti da: J.-J. Rousseau, Le Confessioni di J.-J. Rousseau, in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, p. 747 (T1), p. 977 (T3). J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, in Opere, a cura di P. Rossi, cit., p. 4. J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza, in Opere, a cura di P. Rossi, cit.: p. 54 (T5), p. 56 (T4), p. 60 (T6). J.-J. Rousseau, Del contratto sociale, in Opere, a cura di P. Rossi, cit.: p. 284 (T7), p. 285 (T8), pp. 289-290 (T9), p. 322 (T10). J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, in Opere, a cura di P. Rossi, cit., p. 473. Il brano di J.-J. Rousseau citato a p. 589 è tratto da Prefazione al ‘Narciso’, in Opere, a cura di P. Rossi, cit., p. 27.

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Unità 12 Rousseau

Sommario 1. FILOSOFIA

E AUTOBIOGRAFIA

La riflessione filosofica di Rousseau costituisce un momento assai originale della filosofia dell’Illuminismo e per certi aspetti ha verso di essa un atteggiamento critico, specie per quanto concerne la nozione di progresso. I contributi di Rousseau spaziano dalla critica della civiltà a lui contemporanea (Discorsi) alla riflessione sul modello più giusto di Stato (Del contratto sociale), dalla teoria dell’educazione (Emilio) alla letteratura (La novella Eloisa). Le sue dottrine risultano altresì profondamente legate alle travagliate vicende della sua vita personale (Confessioni). In ogni ambito emerge quello che è stato definito un atteggiamento «dualistico» di Rousseau nei confronti dei vari problemi da lui affrontati.

dividuo nello stato di natura possiede, prima di qualunque patto sociale, un istinto alla pietà che lo porta a una convivenza pacifica irriflessa. 4. IL

CONTRATTO SOCIALE

La vita privata di Rousseau è costellata da rapporti difficili e conflittuali, sia per quanto riguarda le relazioni con parenti e amici sia per quanto riguarda quelle con altri intellettuali, come gli enciclopedisti francesi e Hume. Alla corruzione e alla sofferenza che contraddistinguono i rapporti sociali, Rousseau contrappone la felicità e la serenità che l’uomo può ritrovare in un rapporto diretto con la natura. La conflittualità investe alla radice la persona stessa di Rousseau, il cui travaglio psicologico emerge chiaramente dalle opere autobiografiche.

Il problema filosofico-politico con cui si confronta il Contratto sociale è quello di stabilire che cos’è che rende giusto uno Stato. La risposta di Rousseau è che uno Stato giusto deve conservare – seppure in forma diversa rispetto allo stato di natura – la libertà e l’uguaglianza originarie degli uomini. La sua proposta è quella di costituire, mediante un patto sociale, una comunità che preveda la totale alienazione della libertà dell’individuo e della sua volontà particolare a favore della collettività, portatrice della volontà generale. Alla perdita della libertà naturale corrisponde l’acquisto della libertà civile. La sovranità – inalienabile e indivisibile – appartiene al popolo nel suo insieme, che è l’unico soggetto legislatore e si esprime nell’assemblea popolare. Il governo, mera emanazione della sovranità popolare, ha solo una funzione applicativa. Rousseau inoltre critica la nozione di «rappresentanza», data l’inalienabilità e l’indivisibilità della volontà generale che deve esprimersi sempre in modo diretto. Egli infine non nega la possibilità della proprietà privata, ammettendola però solo come istituzione convenzionale.

3. LA

5. EDUCAZIONE,

2. UN’ESISTENZA

TORMENTATA

CRITICA DELLA CIVILTÀ

Già nei due Discorsi è esplicita la posizione critica di Rousseau nei confronti del progresso e della civiltà. In particolare egli sostiene – in contrasto con le posizioni di matrice illuminista – come il progresso delle scienze e delle arti, lungi dall’aver favorito un progresso morale dell’umanità, sia al contrario espressione di decadenza e di allontanamento dall’originario stato di natura, caratterizzato dall’uguaglianza fra gli uomini e da una pacifica soddisfazione dei loro bisogni elementari. Le manifestazioni della cultura e dell’arte sono secondo Rousseau una mistificazione dell’autentico stato dell’uomo incivilito, «schiavo felice» che ha rinunciato alla propria libertà originaria. L’affermarsi della proprietà privata e delle istituzioni statali volte a tutelarla rappresentano i momenti principali di tale perdita della libertà e dell’uguaglianza. In tale contesto Rousseau prende nettamente le distanze dai giusnaturalisti – primo fra tutti Hobbes – sostenendo che l’in-

MORALE E RELIGIONE

Il progetto educativo descritto nell’Emilio ha un senso compiuto solo se inserito nel quadro più ampio della valutazione negativa che Rousseau dà della società contemporanea. Esso si configura dunque come rimedio e alternativa rispetto a un mondo corrotto le cui istituzioni non possono più garantire alcuna formazione autentica. L’educazione di Emilio dovrà dunque avvenire in completo isolamento e a contatto con la natura. Le facoltà che Emilio dovrà sviluppare – con la guida del suo precettore personale – saranno, in ordine: la sensibilità, l’intelletto (inteso anche come fonte di abilità pratiche), il senso morale (amore di sé e pietà naturale) e quello religioso. Su quest’ultimo punto Rousseau abbraccia una religione naturale di tipo sentimentale che lo pone in contrasto con l’atteggiamento critico tipico dell’Illuminismo. L’educazione culmina con la preparazione di Emilio all’incontro con l’altro sesso (Sofia) e alla vita in società.

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Parole chiave Alienazione. Processo attraverso il quale, nel contratto sociale, ogni contraente rinuncia totalmente alla propria libertà individuale – di tipo naturale – per deporla nelle mani della comunità intera, ricevendone in cambio una libertà di tipo civile. Civiltà. Per Rousseau questo termine sta a indicare quello stato non naturale cui gli uomini sono gradualmente pervenuti rinunciando alla propria uguaglianza e libertà originarie – proprie dello stato di natura – in favore di un’organizzazione sociale culminante nello Stato e nelle sue istituzioni, volte a tutelare la proprietà privata e la disuguaglianza fra gli uomini. Libertà civile. Essa è una libertà acquisita attraverso la convenzione del contratto sociale che rende ciascuno legislatore nella volontà generale: l’obbedienza alla volontà generale è dunque obbedienza a se stessi. Libertà naturale. Tale termine indica la libertà nella ricerca della soddisfazione dei propri bisogni, indipendentemente dalla relazione con gli altri. Essa caratterizza dunque lo stato di natura dell’uomo e cessa con la vita in società.

Natura. In Rousseau, questo termine è connotato sempre in modo positivo, in opposizione a «civiltà», connotato negativamente. Esso ricorre prevalentemente in riferimento allo «stato di natura» originario, caratterizzato dall’uguaglianza fra tutti gli uomini e dal soddisfacimento pacifico dei loro bisogni elementari. Progresso. In Rousseau questo termine è connotato negativamente, in quanto sta a indicare il processo di graduale allontanamento dell’uomo dall’originario stato di natura verso una situazione di decadenza morale e sociale, tendente a nascondere la perdita della libertà e dell’uguaglianza attraverso tutte le manifestazioni culturali tipiche della società civile. Proprietà privata. L’istituzione della proprietà privata rappresenta per Rousseau il momento decisivo dell’abbandono dello stato di natura dell’uomo. Essa non viene istituita d’un tratto, bensì attraverso un processo graduale che passa attraverso la divisione del lavoro e lo sviluppo dell’attività produttiva. L’istituzione dello Stato, che segna il definitivo abbandono dello stato di natura, è volta a tutelare la proprietà privata e le differenze tra gli individui che da essa conseguono.

Questionario FILOSOFIA 1

LA

Quali tratti del pensiero di Rousseau lo avvicinano alla filosofia dell’Illuminismo e in che senso egli rappresenta invece un critico di questo movimento culturale? (max 8 righe)

Lavoriamo sui testi 6

Quale rapporto emerge tra il potere politico e il mondo della cultura in T2? (max 2 righe)

7

Quale rapporto tra individuo e governo, tra uomo e politica, emerge in T3? (max 6 righe)

8

Su quali punti fondamentali è basata la critica a Hobbes in T5? (max 7 righe)

9

Qual è la differenza tra «volontà di tutti» e «volontà generale» secondo quanto Rousseau afferma in T9? (max 5 righe)

10

Prova a ricostruire l’argomento attraverso il quale Rousseau critica il concetto di «rappresentanza» nel testo T10. (max 8 righe)

CRITICA DELLA CIVILTÀ

2

IL

E AUTOBIOGRAFIA

Quale diagnosi della realtà sociale contemporanea emerge dai due Discorsi? (max 6 righe)

CONTRATTO SOCIALE

3

Qual è secondo Rousseau il nesso storico tra l’istituzione della proprietà privata e l’istituzione dello Stato? (max 5 righe)

4

Quali sono i caratteri principali della sovranità popolare che Rousseau enuncia? (max 5 righe)

EDUCAZIONE, 5

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MORALE E RELIGIONE

Perché Rousseau stabilisce che l’educazione di Emilio debba avvenire in isolamento dalla società e a contatto con la natura? (max 5 righe)

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Unità 12 Rousseau

LABORATORIO DI LETTURA Discorso sull’origine della disuguaglianza Nel brano del secondo Discorso qui riportato, Rousseau descrive il lungo processo che ha condotto dalla condizione dell’uomo naturale alla istituzione della proprietà privata e dello Stato, fondato su un patto iniquo, reso per certi versi necessario dallo stato di conflitto e di guerra che si verifica con l’introduzione della disuguaglianza.

L’origine della proprietà privata e dello Stato Tesi iniziale: l’uomo allo stato di natura è guidato dall’istinto nella soddisfazione dei propri bisogni, in armonia con l’ambiente

Problema (antitesi): insorgono i primi ostacoli e conflitti naturali che mettono in pericolo l’esistenza dell’uomo

Commento e interpretazione

Il primo sentimento dell’uomo fu quello della sua esistenza; la sua prima cura, quella della sua conservazione. [A] I prodotti della terra gli fornivano tutti i soccorsi necessari; l’istinto lo trasse a farne uso. Poiché la fame e altri appetiti gli facevano sperimentare volta a volta diverse maniere di vita, ve ne fu una che lo invitò a perpetuare la sua specie; e questo cieco impulso, sprovvisto di ogni sentimento del cuore, non produsse che un atto puramente animale: soddisfatto il bisogno, i due sessi non si riconoscevano più, e il figlio stesso non era più nulla per la madre, non appena potesse far senza di lei. [B] Tale fu la condizione dell’uomo nascente; tale fu la vita di un animale, limitato dapprima alle pure sensazioni, che approfittava appena dei doni che gli offriva la natura, lungi dal pensare a strapparle nulla. Ma ben presto si presentarono difficoltà: bisognò imparare a vincerle: l’altezza degli alberi, che gli impediva di arrivare ai loro frutti, la concorrenza degli animali, che cercavano di nutrirsene, la ferocia di quelli che minacciavano la sua vita, tutto l’obbligò a darsi agli esercizi del corpo; bisognò rendersi agile, rapido alla corsa, vigoroso nel combattimento. Le armi naturali, che sono i rami d’albero e le pietre, si trovarono subito sotto la sua mano. Imparò a su-

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A. Si tratta della passione più originaria dell’uomo, che sta alla base di tutte le sue altre passioni: l’amore di sé. Questo è positivo, e solo degenerando dà luogo all’amor proprio che è caratteristico dell’uomo nella società ingiusta e civilizzata, fondata sulla smania di dominio sugli altri. In parte, il percorso dell’uomo nello stato di natura ripercorre le vicende di Emilio, il protagonista del trattato sull’educazione. B. L’uomo naturale vive in una condizione sostanzialmente animale, soddisfacendo, quando può, i propri bisogni e i propri istinti. La stessa spinta a fare uso dei prodotti offerti dalla natura è di tipo immediato, naturale. La condizione naturale non prevede affetti come l’amore coniugale: la vita sessuale è frutto di un bisogno elementare, e trova soddisfazioni occasionali, così come la riproduzione, che non dà luogo, nella condizione naturale, all’istituzione di famiglie: tutte le istituzioni sono frutto di un processo nel quale si modificano le caratteristiche dell’uomo naturale.

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Prima conseguenza: l’invenzione di utensili e tecniche per la sopravvivenza facilita l’adattamento dell’uomo a un ambiente ostile

Seconda conseguenza: sorgono nell’uomo i primi elementi di riflessione

Tesi: occasionalità dei rapporti sociali

perare gli ostacoli della natura, a combattere all’occorrenza gli altri animali, a disputare la sua sussistenza agli stessi uomini, o a indennizzarsi di ciò che doveva cedere al più forte. [C] Man mano che il genere umano si estese, le fatiche si moltiplicarono con gli uomini. La differenza dei terreni, dei climi, delle stagioni poté costringerli ad introdurne anche nella loro maniera di vivere. Annate sterili, inverni lunghi e rudi, estati ardenti, che consumano tutto, li costrinsero a nuove industriosità. Lungo il mare e i fiumi inventarono la lenza e l’amo, e divennero pescatori e mangiatori di pesce. Nelle foreste si fecero archi e frecce, e divennero cacciatori e guerrieri. Nei paesi freddi si coprirono delle pelli delle bestie che avevano uccise. Il fulmine, un vulcano, o qualche caso fortunato fece conoscere loro il fuoco, nuovo soccorso contro il rigore dell’inverno: impararono a conservare questo elemento, poi a riprodurlo, e infine a preparare con esso le carni, che prima divoravano crude. Questa applicazione di cose diverse a se stesso, e di talune a talaltre, dové naturalmente generare nello spirito dell’uomo la percezione di certi rapporti. Quelle relazioni, che noi esprimiamo con le parole grande, piccolo, forte, debole, rapido, lento, pauroso, ardito, e altre simili idee, confrontate al bisogno, e quasi senza pensarvi, produssero infine in lui una specie di riflessione, o piuttosto una prudenza macchinale, che gli indicava le precauzioni più necessarie alla sua sicurezza. [D] […] Benché i suoi simili non fossero per lui ciò che sono per noi, e non avesse affatto più relazioni con loro che con gli altri animali, essi non furono tuttavia dimenticati nelle sue osservazioni. […] Istruito dall’esperienza che l’amore del benessere è il solo movente delle azioni umane, si trovò in grado di distinguere le occasioni rare, in cui l’interesse comune doveva fargli fare assegnamento sull’assistenza dei suoi simili, e quelle, più rare ancora, nelle quali la concorrenza doveva farlo diffidare di loro. Nel primo caso, si univa a loro in branco, o tutt’al più con una specie di associazione libera, che non obbligava nessuno, e che durava quanto il bisogno passeggero che l’aveva formata. Nel secondo caso, cercava di avvantaggiarsi, sia con violenza palese, se credeva di poterlo, sia con destrezza e astuzia, se si sentiva il più debole.

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C. Il semplice utilizzo della natura, fondato su ciò che è già immediatamente disponibile in essa e che non ha bisogno di uno sforzo, viene meno quando l’uomo naturale comincia a incontrare i primi ostacoli naturali, che lo spingono a sviluppare le prime sue capacità attraverso l’esercizio fisico, dettato proprio dalle leggi della natura con le quali egli si deve necessariamente confrontare. D. Lo sviluppo delle prime capacità è dovuto a fattori naturali esterni, a partire dal moltiplicarsi degli uomini attraverso la riproduzione e quindi da forme di vita differenziate sulla base di diverse condizioni ambientali. Sulla base dell’esperienza, l’uomo comincia a formarsi alcune rudimentali nozioni generali osservando il ripetersi di certi eventi naturali o il contemporaneo avvenire di altri. La prospettiva conoscitiva rousseauiana, qui come anche nell’educazione del giovane Emilio, ha per modello una conoscenza di tipo empiristico e sperimentale che si ispira al sensismo di Condillac (vedi Unità 11, p. 570 s.) e allo sperimentalismo di Newton. Nell’uomo naturale si forma così una forma di riflessione dettata dalla necessità. E. L’incontro con altri uomini è in questa fase ancora fortuito, e provoca contingenti e mo-

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Unità 12 Rousseau Corollario: nasce un’idea primitiva di impegno reciproco

Conseguenza: si generano le prime forme di linguaggio Tesi: lo sviluppo dell’industria e l’organizzazione sociale generano le prime forme di proprietà

Prima conseguenza: sorgono bisogni superflui, la cui soddisfazione viene però avvertita come necessaria

Ecco come gli uomini poterono acquistare poco a poco qualche rozza idea degli impegni reciproci, e del vantaggio di mantenerli: ma solo quel tanto che poteva esigere l’interesse presente e sensibile, perché la previdenza non esisteva per essi; e lungi dall’occuparsi di un avvenire lontano, non pensavano neanche al domani. [E] […] È facile capire che tali relazioni non esigevano un linguaggio molto più raffinato di quello delle cornacchie o delle scimmie, che si imbrancano presso a poco nello stesso modo. Grida inarticolate, molti gesti e qualche rumore imitativo dovettero comporre per lungo tempo la lingua universale. [F] […] Questi primi progressi misero infine l’uomo in grado di farne di più rapidi. Più lo spirito si illuminava, e più si perfezionò l’industria. Ben presto, cessando di addormentarsi sotto il primo albero o di ritirarsi nelle caverne, si trovò qualche specie di accette di pietra dure e taglienti, che servirono a tagliare il legno, scavare la terra, e fare capanne di rami, che si pensò in seguito di coprire di argilla e di fango. Fu l’epoca di una prima rivoluzione, che generò l’istituzione e la distinzione delle famiglie, ed introdusse una specie di proprietà, onde forse nacquero già di gran contese e combattimenti. Tuttavia, siccome i più forti furono verosimilmente i primi a costruirsi abitazioni, che si sentivano capaci di difendere, è a credere che i più deboli trovassero più breve e più sicuro imitarli, che tentare di sloggiarli: e quanto a quelli che avevano già delle capanne, nessuno di loro dové cercare di appropriarsi quella del vicino, non tanto perché non gli apparteneva, quanto perché gli era inutile, e non poteva impadronirsene senza esporsi a una lotta assai viva con la famiglia che l’occupava. [G] […] In questo nuovo stato, con una vita semplice e solitaria, con bisogni limitatissimi, e con gli strumenti inventati per provvedervi, gli uomini, godendo di grande agio, l’usarono a procurarsi varie specie di comodità sconosciute ai loro padri; e fu questo il primo giogo che s’imposero senza pensarci, e la prima fonte dei mali che prepararono ai loro discendenti; perché, oltre al fatto che continuarono a rammollirsi il corpo e lo spirito, avendo queste comodità perduto per via d’abitudine quasi del tutto la loro piacevolezza ed essendo al contempo degenerate in veri bisogni, ne divenne

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mentanee occasioni di collaborazione e di scontro. L’impegno reciproco è però provvisorio, anche perché l’uomo in questa condizione non ha il senso del futuro e vive sprofondato nel presente e nei suoi bisogni elementari e attuali. F. Rousseau interviene nella disputa settecentesca sull’origine del linguaggio anche altrove, in un Saggio sull’origine delle lingue pubblicato solo dopo la sua morte, e ritiene di individuarne un’origine naturale. Ma egli lascia spazio anche all’idea di un’origine divina di esso, poiché in qualche occasione sottolinea quanto sia difficile da comprendere e misteriosa l’origine delle lingue. G. Non si tratta dell’origine vera e propria della proprietà, ma di un primo possesso del luogo nel quale ci si rifugia. Già questo primo possesso – che costituisce «una prima rivoluzione» – può essere causa di conflitti, ma questi sono rari, perché non c’è convenienza per nessuno nel promuoverli: in questa condizione di vita ancora naturale, la lotta e il conflitto sono considerati un prezzo troppo alto da pagare per conservare il poco che si ha, al contrario che nello stato civile.

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Seconda conseguenza: aumentano le tensioni

Tesi: c’è un periodo felice caratterizzato da un equilibrio tra pietà naturale e amor proprio

Tesi: dall’autonomia alla dipendenza reciproca: la divisione del lavoro e l’istituzione della proprietà

ben più crudele la privazione che dolce il possesso; e s’era infelici nel perderle, senz’esser felici nell’averle. [H] […] Ma bisogna notare che la società iniziata e le relazioni già stabilite fra gli uomini esigevano in loro qualità diverse da quelle che essi tenevano dalla loro costituzione primitiva: cominciando la moralità ad introdursi nelle azioni umane, ed essendo ognuno, prima delle leggi, solo giudice e vendicatore delle offese da lui ricevute, la bontà conveniente al puro stato di natura non era più quella che conveniva alla società nascente; bisognava che le punizioni diventassero più severe a misura che le occasioni d’offesa diventavan più frequenti; e toccava al terrore della vendetta di tener luogo del freno delle leggi. Così, per quanto gli uomini fossero divenuti meno tolleranti, e la pietà naturale avesse già sofferto qualche alterazione, questo periodo dello sviluppo delle facoltà umane, tenendo un giusto mezzo tra l’indolenza dello stato primitivo e la petulante attività del nostro amor proprio, dovette esser l’epoca più felice e durevole. Più ci si pensa, più si trova che questo stato era il meno soggetto a rivoluzioni, il migliore per l’uomo, che ha dovuto uscirne solo per qualche funesto caso, che per l’utilità comune non avrebbe mai dovuto sopravvenire. L’esempio dei selvaggi, che son stati quasi sempre trovati a questo punto, sembra confermare che il genere umano era fatto per rimanervi sempre; che questo stato è la vera giovinezza del mondo; e che tutti i progressi ulteriori son stati, sì, in apparenza tanti passi verso la perfezione dell’individuo, ma in realtà verso la decrepitezza della specie. [I] Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si limitarono a cucirsi gli abiti di pelle con spine di piante e di pesce, a ornarsi di piume e di conchiglie, a dipingersi il corpo di diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi o le loro frecce, a tagliar con pietre taglienti qualche canotto da pesca o qualche rozzo strumento musicale; in una parola finché non si volsero che ad opere che uno solo poteva fare, e ad arti

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H. Uno degli elementi principali del processo di civilizzazione è lo sviluppo dei bisogni, che per l’uomo nello stato di natura sono elementari ed essenziali: l’uomo nello stato di natura ha pochi bisogni da soddisfare ed è quindi in completo equilibrio con se stesso e con le proprie necessità. Lo sviluppo dei bisogni e la creazione di bisogni superflui rompe questo equilibrio e fa sì che gli stessi bisogni superflui vengano percepiti come indispensabili, e diventino quindi fonte di sofferenza perché ci si abitua a soddisfarli ma se ne sente anche la necessità. Quello che apparentemente è un processo di civilizzazione e di raffinamento, e quindi di maggior benessere, è in realtà fonte di mali e di nuovi dolori, perché non ci si accontenta più del soddisfacimento dei bisogni elementari. Lo sviluppo dei nuovi bisogni non fornisce in realtà un maggiore controllo sul mondo esterno, ma genera una maggiore dipendenza da esso, un primo «giogo». I. Nonostante Rousseau non lesini critiche a questo primo inizio di civilizzazione, egli dichiara esplicitamente che si sarebbe trattato di una sorta di giusto mezzo tra il pieno equilibrio animale dello stato di natura e lo stato della civilizzazione sviluppata, ormai caratterizzata dall’«amor proprio» che è una degenerazione dell’amore di sé. Si tratta in realtà di un’epoca felice, in cui i pochi conflitti si risolvono direttamente attraverso la vendetta e in cui ancora si ha la pietà naturale, ovvero la percezione del dolore altrui (per quanto già modificata). L’uscita da questo stato non era necessaria, è stata dovuta a una serie di circostanze che si sono verificate, e che Rousseau descrive nelle pagine successive; par-

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Corollario: l’interdipendenza tra metallurgia e agricoltura alimenta la divisione sociale del lavoro

Conseguenza: la divisione sociale del lavoro genera uno scompenso nella distribuzione della ricchezza e alimenta perciò la disuguaglianza

che non avevan bisogno del concorso di parecchie mani, vissero liberi, sani, buoni e felici, per quanto potevano esser tali di loro natura, e continuavano a godere fra loro della dolcezza di relazioni indipendenti: ma dal momento che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, e s’avvide che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, la proprietà s’introdusse, il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si mutarono in campagne ridenti, che bisognò bagnar col sudore degli uomini, e in cui ben presto si vide la schiavitù e la miseria germogliare e crescere con le messi. [L] La metallurgia e l’agricoltura furono le due arti, la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione. […] L’invenzione delle altre arti fu dunque necessaria per costringere il genere umano ad applicarsi a quella dell’agricoltura. Da che bisognaron uomini per fondere e forgiare il ferro, occorsero altri uomini per nutrire quelli. Più il numero degli operai venne a moltiplicarsi, meno furon le mani occupate a fornire la sussistenza comune, senza che fossero meno le bocche a consumarla; e come bisognarono agli uni derrate in cambio del ferro, gli altri trovarono infine il segreto d’impiegar il ferro per la moltiplicazione delle derrate. Quindi nacquero da una parte l’aratura e l’agricoltura, dall’altra l’arte di lavorar i metalli e di moltiplicarne gli usi. [M] Dalla cultura delle terre derivò necessariamente la loro partizione; e dalla proprietà, una volta riconosciuta, le prime regole della giustizia. [N] […] Le cose in tale stato avrebbero potuto restar uguali, se gli ingegni fossero stati uguali e, per esempio, l’uso del ferro e la consumazione delle derrate si fossero sempre esattamente bilanciate: ma la proporzione, che nulla manteneva, fu presto rotta; il più forte faceva più lavoro; il più destro traeva miglior partito dal suo; il più ingegnoso trovava mezzi d’abbreviar la fatica; l’agricoltore aveva più bisogno di ferro o il fabbro più bisogno di grano; e, lavorando ugualmente, uno guadagnava di più, mentre l’altro stentava a vivere. Così la disuguaglianza naturale si svolge insensibilmente con

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te di esse sono casuali: è stato, anche, un «funesto caso» a spingere l’uomo verso la civilizzazione. L’uomo si perfeziona, ma la specie imbocca una strada che la porterà verso la dipendenza dalla natura e verso la dipendenza degli uomini l’uno dall’altro. L. Il passaggio fondamentale, la seconda rivoluzione che segna un momento di svolta è dato dalla fine dell’autosufficienza e dell’indipendenza dell’uomo, ovvero dalla divisione del lavoro. Fino a che il lavoro non è diviso e ciascuno può direttamente produrre ciò di cui ha bisogno, si è ancora in grado di vivere come uomini buoni, sani e felici. La relazione di dipendenza necessaria che si instaura con la divisione del lavoro muta invece radicalmente i rapporti tra gli uomini rompendo una situazione ancora di prevalente uguaglianza, fondata proprio sull’autosufficienza di ciascuno. È da notare, anche stilisticamente, la contrapposizione tra le foreste e le «campagne ridenti» che hanno però bisogno di essere bagnate dal sudore degli uomini, e che quindi tanto ridenti non sono. M. Come in Montesquieu, sono l’agricoltura e la metallurgia a costituire un punto di svolta, poiché con esse si instaura la divisione del lavoro: scoperta l’importanza del metallo, è necessario che alcuni si dedichino ad esso e alla sua estrazione e lavorazione, ciò che implica la necessità di nutrirli e quindi di dividere le mansioni. N. Coltura delle terre e divisione di esse significa prima instaurazione di una proprietà, che se viene riconosciuta dà luogo alla necessità di un accordo sociale: è questa necessità che porterà alla creazione dello Stato politico.

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Corollario: l’abbandono dell’uguaglianza originaria è ormai inarrestabile

Tesi: si sviluppano tutte le facoltà dell’uomo

Corollario: si instaura la distinzione tra essere e apparire Tesi: i nuovi bisogni propri della società civile generano una schiavitù sociale generalizzata

quella di combinazione; e le differenze degli uomini, sviluppate da quelle delle circostanze, si rendono più sensibili, più permanenti nei loro effetti, e cominciano a influire nella stessa proporzione sulla sorte dei singoli. [O] Giunte le cose a tal punto, è facile immaginare il resto. Non mi fermerò a descrivere l’invenzione delle arti, i progressi delle lingue, la prova e l’uso delle capacità, la disuguaglianza delle fortune, l’uso o l’abuso delle ricchezze, né tutti i particolari che ne derivano e che ognuno può facilmente supplire. Mi limiterò a gettare uno sguardo sul genere umano, posto in questo nuovo ordine di cose. [P] Ecco dunque tutte le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione in giuoco, l’amor proprio interessato, la ragione resa attiva, e lo spirito giunto quasi al termine di perfezione di cui è capace. Ecco tutte le qualità naturali messe in azione, la classe e la sorte di ogni uomo stabilite, non solo sulla quantità di bene e sul potere di servire o nuocere, ma sullo spirito, sulla bellezza, la forza o l’abilità, sul merito o i talenti; e queste qualità, essendo le sole che potessero attirare considerazione, bisognò ben presto averle o fingerle. Bisognò, per l’utile proprio, mostrarsi altro da quello che s’era in realtà. Essere e parere divennero due cose affatto differenti, e da questa distinzione uscirono il fasto imponente, l’astuzia ingannatrice e tutti i vizi che ne sono il corteo. D’altro lato, di libero e indipendente che era prima l’uomo, eccolo, da una quantità di nuovi bisogni, assoggettato per così dire a tutta la natura e sopra tutto ai suoi simili, di cui diventa in certo senso lo schiavo, anche diventandone il padrone: ricco, ha bisogno dei loro servigi; povero, ha bisogno dei loro soccorsi; e la mediocrità non lo mette punto in grado di farne a meno. Bisogna dunque che egli cerchi senza posa d’interessarli alla sua sorte e di far loro trovare, in realtà o in apparenza, il loro utile per lavorar per l’utile suo: ciò che lo rende furbo e artificioso con gli uni, imperioso e duro cogli altri, e lo mette nella necessità di ingannare tutti quelli di cui ha bisogno. Quando non possa farsene temere, e non trovi il suo interesse a servirli utilmente.

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O. La divisione del lavoro, la differenza delle capacità nei rispettivi lavori e la conseguente necessità di scambiare i prodotti del lavoro sono la fonte prima della disuguaglianza: in questo modo alcune differenze naturali che avrebbero potuto restare relativamente irrilevanti si combinano con la differenza di beni, aumentando progressivamente la disuguaglianza tra gli uomini e il loro stesso modo di vita, la loro «sorte». È ormai nata la proprietà privata, che viene riconosciuta, seppure in una forma non ancora istituzionale: ciò avverrà soltanto con la fondazione dello Stato, cioè della società politica. P. Giunti a questo punto, il processo che si è innescato sembra inarrestabile, come viene descritto nelle righe successive: si tratta di tutti gli elementi caratteristici del processo di civilizzazione e quindi del crescere della disuguaglianza. Q. Rousseau descrive impietosamente tutte le caratteristiche dell’uomo ormai civilizzato che è in procinto di trovarsi nella necessità di fondare lo Stato politico. Pur se non lo nomina direttamente, l’oggetto di questa descrizione di Rousseau è l’amor proprio, il desiderio di dominare e di sfruttare gli altri uomini. Oltretutto, il rapporto di interdipendenza tra gli uomini, che segna la fine dell’autosufficienza, vale sia per i padroni sia per gli schiavi: lo stesso padrone dipende dal lavoro dello schiavo, perché nessuno è più capace di badare a se stesso. Ciò si esprime anche in un altro aspetto al quale Rousseau dà

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Unità 12 Rousseau Prima conseguenza: la ricerca del proprio utile a spese altrui diventa un fatto strutturale

Seconda conseguenza: l’uguaglianza infranta dalla nascente società civile genera uno stato di guerra permanente

Corollario: si prende coscienza degli svantaggi dello stato di guerra Tesi: lo Stato viene istituito col favore di tutti al fine di limitare i danni del conflitto permanente che si è ormai diffuso

Infine l’ambizione divorante, l’ardore di elevare la sua fortuna relativa, non tanto per vero bisogno, quanto per mettersi al di sopra degli altri, inspira a tutti gli uomini una tendenza nera a nuocersi a vicenda, una gelosia segreta, tanto più pericolosa in quanto, per fare il suo colpo più sicuramente, prende spesso la maschera della benevolenza; in una parola, concorrenza e rivalità da una parte, opposizione d’interessi dall’altra, e sempre il desiderio nascosto di fare l’utile proprio a spese altrui: tutti questi mali sono il primo effetto della proprietà e il corteo inseparabile della disuguaglianza nascente. [Q] […] Così, facendosi i più potenti o i più miserabili delle loro forze o dei loro bisogni una specie di diritto al bene altrui, equivalente, secondo loro, a quello di proprietà, l’uguaglianza infranta fu seguita dal più orribile disordine; così le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancor debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e malvagi. Si levò tra il diritto del più forte e il diritto del primo occupante un conflitto incessante, che non terminava che in combattimenti ed omicidi. La società nascente fece posto al più orribile stato di guerra: il genere umano, avvilito e desolato, non potendo più tornare sui suoi passi, né rinunciare agli infelici acquisti fatti, e lavorando solo a sua vergogna, con l’abuso delle facoltà che l’onorano, si mise lui stesso sull’orlo della propria rovina. [R] […] Non è possibile che gli uomini non abbian fatto alla fine riflessioni su una condizione così miserabile e sulle calamità da cui erano oppressi. I ricchi, soprattutto, dovettero presto sentire quanto fosse svantaggiosa per loro una guerra incessante, di cui facevan da soli tutte le spese, in cui il rischio della vita era comune, ma quello dei beni era loro particolare. […] Ci volle molto meno dell’equivalente di questo discorso per trascinar uomini rozzi, facili a sedurre, che d’altra parte avevan troppi affari da sbrogliar fra loro per poter fare a meno d’arbitri, e troppa avarizia ed ambizione per poter a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero incontro alle loro catene, credendo assicurarsi la libertà: perché, avendo abbastanza ragione per sentir i vantaggi d’una costituzione politica, non avevano abba-

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sempre molta importanza come caratteristica della civiltà e al quale egli contrappone, negli scritti autobiografici, la propria sincerità. Si tratta dell’ipocrisia dell’uomo contemporaneo, che cerca costantemente di approfittare egoisticamente delle relazioni con gli altri utilizzando tutti i mezzi che ha a disposizione: uno di questi è proprio l’apparenza, la dissimulazione, il tentativo di mostrarsi diversi da come si è in realtà. Lo sviluppo dei beni e della proprietà stimola lo sviluppo dell’ambizione, della smania di potere, della gelosia e del semplice voler nuocere agli altri per mostrare il proprio dominio. Questo tratto psicologico dell’uomo civilizzato ha un’origine sociale che consiste nella disuguaglianza e nella istituzione della proprietà. R. Rousseau descrive in sostanza la guerra di tutti contro tutti della quale ha parlato Hobbes, ma traducendo questa nozione nel proprio apparato teorico: la guerra di tutti contro tutti è il frutto di un processo storico e riguarda l’uomo civilizzato, non l’uomo nello stato di natura, e quindi è l’uomo contemporaneo che in realtà viene descritto da Hobbes con la sua formula del bellum omnium contra omnes. Siamo alla condizione che immediatamente precede l’istituzione dello Stato, poiché la condizione ormai di disuguaglianza e di conflitto determinata dalla proprietà e dall’avidità di essa è una condizione di insicurezza per tutti.

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Conseguenza: l’istituzione dello Stato segna la fine della libertà naturale e l’inizio della schiavitù permanente

stanza esperienza per prevederne i pericoli: i più capaci di presentirne gli abusi eran precisamente quelli che contavan di profittarne; e i saggi stessi videro che bisognava decidersi a sacrificare una parte della loro libertà alla conservazione dell’altra, come un ferito si fa tagliar il braccio per salvare il resto del corpo. [S] Tale fu o dovette essere l’origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, d’una accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile, e, per il vantaggio di qualche ambizioso, assoggettarono ormai tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria. [T]

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(da J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972 pp. 60-67)

S. La condizione di insicurezza è negativa soprattutto per i ricchi, che non hanno la certezza della loro proprietà in una situazione dominata dal conflitto e dalla forza. Sono quindi loro i primi promotori della fondazione di uno Stato, che anche solo per questo è un patto iniquo che trova sostegno nell’interesse egoistico dei molti che devono regolare il loro interesse privato e che quindi vedono la necessità di un arbitro delle dispute. Le stesse persone sagge, giunte a questo punto, vedono la necessità della fine del conflitto permanente. T. Consapevole di avere fornito una descrizione che non pretende di essere una verità storica («Tale fu o dovette essere…»), ma propone una ricostruzione che indaga la legittimità delle istituzioni moderne, Rousseau conclude questo suo percorso nella genesi della proprietà e dello Stato. Le istituzioni politiche moderne si fondano sull’ingiustizia della disuguaglianza sociale e su un patto sociale altrettanto ingiusto che ha stabilito arbitrariamente e ingannevolmente, per la convenienza di pochi, la propria legittimità. Il risultato di questo processo sono la schiavitù politica e la miseria morale della società contemporanea.

Questionario sull’argomentazione 1

Quali sono le tappe principali del processo attraverso il quale l’umanità è passata, secondo Rousseau, dallo stato di natura allo stato civile? Prova a rispondere cercando di evidenziare i nessi causali che determinano il passaggio da una fase all’altra. (max 8 righe)

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Individua nel testo i passi e le frasi in cui emerge con chiarezza la contrapposizione tra le caratteristiche psicologiche dell’uomo «naturale» e quelle dell’uomo «civile», cercando di mettere in luce le cause che – secondo Rousseau – hanno portato di volta in volta a tali trasformazioni. (max 6 righe)

2

Che ruolo gioca il tema dei ‘bisogni’ nel brano di Rousseau che hai letto? (max 6 righe)

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Perché proprio i «ricchi» e i «saggi» a un certo momento dello sviluppo storico-sociale danno un impulso fondamentale per l’istituzione dello Stato? Da quali scopi sono mossi? Perché l’istituzione dello Stato non avviene ad opera delle classi più deboli? (max 7 righe)

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Prendi in esame i seguenti concetti: «bisogni fisiologici», «autosufficienza», «stato di natura», «divisione del lavoro», «comodità», «bisogni superflui», «dipendenza reciproca», «riflessione», «libertà», «necessità», «degenerazione», «proprietà», «disuguaglianza». Quali relazioni intercorrono tra essi nel brano di Rousseau? (max 8 righe) 610

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Percorso tematico È legittimo resistere al potere politico?

I testi T. Hobbes Leviatano: Non si può resistere al potere sovrano, T1; La libertà di disobbedire, T3

B. Spinoza Trattato politico: Diritto di natura e diritto di guerra contro i detentori del potere, T4

I. Kant Sul detto comune: Il carattere contraddittorio del diritto di resistenza, T2

J. Locke Secondo trattato sul governo: La dissoluzione del governo e il diritto di resistenza del popolo, T5; L’appello al cielo, T6

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Parte seconda Il secolo dei lumi

È legittimo resistere al potere politico? Che cos’è il diritto di resistenza

1 Due visioni politiche

Umanesimo: autonomia del politico e universalità del diritto di resistenza

Riforma: religione e disobbedienza civile

Differenze tra ambiti geopolitici

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Per «diritto di resistenza» si intende il diritto di resistere in maniera passiva o attiva – rispettivamente attraverso la semplice disobbedienza o attraverso l’uso della violenza – a un potere considerato illegittimo o contrario all’ordine etico-politico. La discussione sull’ammissibilità o meno del «diritto di resistenza» accompagna tutto lo svolgimento del pensiero politico moderno che, in quanto riflessione sul fondamento del potere, è al tempo stesso riflessione sui limiti di quest’ultimo e sui mezzi per farli rispettare.

Tirannicidio e diritto di resistenza tra Umanesimo e Riforma La questione s’impone come tema centrale a partire da due filoni di pensiero che, pur essendo storicamente intrecciati, intendono in modo quasi opposto il fondamento del potere politico e, soprattutto, il rapporto tra politica e religione: 1) il pensiero giuridico-politico di ispirazione umanistica, sviluppatosi tra la seconda metà del Trecento e l’inizio del Cinquecento, che getta le basi per una concezione laica del potere politico, giungendo – con Machiavelli – fino all’affermazione dell’autonomia di quest’ultimo rispetto alla religione. Il diritto di resistenza trova in questo contesto culturale la sua giustificazione teorica nell’esaltazione della libertà come massima espressione della dignità dell’uomo, che induce per esempio gli scrittori umanisti a valorizzare il massimo gesto di «resistenza attiva», cioè il tirannicidio. Si tratta della ripresa di un topos della letteratura antica. Dagli autori umanisti l’omicidio del tiranno non è più, però, semplicemente valorizzato come l’atto eroico di chi si sacrifica per restituire ai cittadini la libertà oppressa dal tiranno – secondo l’impostazione tipica degli autori classici –, ma è piuttosto assunto come espressione paradigmatica di un diritto di resistenza che appartiene a tutti i cittadini, di cui occorre naturalmente definire i confini e le modalità di esercizio. Cosa che è possibile solo nella cornice più ampia dell’indagine sulla natura del potere, e sul rapporto tra chi lo esercita e il popolo. 2) il pensiero politico di ispirazione luterana e calvinista che, in netta controtendenza rispetto al processo di secolarizzazione della politica – ossia di autonomia dalla religione – avviato dall’umanesimo, rinsalda il legame tra religione e potere politico. Questa linea di pensiero adduce come principale motivo del diritto di resistenza il valore maggiormente vincolante delle leggi divine, la cui obbedienza richiede e legittima – in caso di contrasto con le leggi dello Stato – la disobbedienza civile. Il primo filone si sviluppa soprattutto in Italia, nella fase delicata di transizione dai Comuni alle Signorie, che richiede una concentrazione del potere cui si oppongo-

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Percorso tematico È legittimo resistere al potere politico?

Lutero: i limiti del diritto di resistenza

Calvino: il principio di obbedienza all’autorità

Due giusti motivi per disobbedire

2 Lo scontro religioso in Francia e i monarcomachi

no molti rappresentanti dell’aristocrazia e del ceto borghese-popolare, in nome dei valori umanistici di cui sono intrisi. Il secondo filone prende piede, invece, soprattutto nei Paesi dove maggiore è la diffusione della Riforma luterana che, infrangendo l’unità della fede, costringe il cristiano a interrogarsi sui limiti della propria obbedienza nei confronti delle leggi dello Stato, allorché chi governa intenda imporre una determinata confessione, allo scopo di garantire l’unità religiosa. Si tratta di quanto avviene, per esempio, in Germania, sotto la pressione dell’imperatore cattolico Carlo V, o nella Francia del Cinquecento, durante le ‘guerre di religione’. In realtà, Lutero ammette il diritto di resistenza solo in un caso molto circoscritto: quello dei principi elettori nei confronti del potere imperiale, che si comporta in maniera tirannica quando pretende di imporre un credo religioso non corrispondente alla vera fede del Vangelo. A livello di principi, Lutero nega invece in maniera decisa il diritto di resistenza, conformemente alla sua concezione del potere politico come strumento di diretta derivazione divina, volto a porre rimedio alla radicale perversione umana, frutto del peccato originale: di qui la presa di distanza nei confronti della rivolta dei contadini (1524-1525) e dagli altri tentativi di sovvertire l’ordine costituito, seguiti alla Riforma. La disobbedienza al potere per motivi religiosi riceve invece una teorizzazione più rigorosa e uno spazio più ampio in Calvino. Partendo dalla tesi di una stretta compenetrazione tra Stato e Chiesa – accomunati dal compito di rendere visibile, sia pure con diversi mezzi, la signoria di Dio sul mondo – anche Calvino accentua fortemente il dovere di obbedire all’autorità politica, identificando la disobbedienza a quest’ultima con la disobbedienza al volere divino: è in quest’ottica che viene esplicitamente affermato il dovere di sottostare anche agli ordini dei magistrati iniqui. Il principio dell’obbedienza trova, però, in Calvino due sostanziali limiti: 1) un limite di carattere teologico-religioso, secondo il quale il cristiano non deve in alcun modo obbedire alle leggi dell’autorità politica in caso di contrasto con i principi essenziali della nuova fede cristiana; 2) un limite di natura politica, costituito dai «magistrati intermedi», cioè quei corpi intermedi tra il re e i sudditi, come gli efori nel mondo antico o gli Stati generali nei regni moderni. Calvino dispensa questi magistrati dal divieto di resistere al tiranno, valido per i privati cittadini, attribuendo ad essi il compito di sorvegliare l’attività dei governanti affinché non violino le leggi e non opprimano il popolo.

I seguaci di Calvino: i monarcomachi francesi e Althusius Le considerazioni di Calvino sul diritto di resistenza sono riprese e ulteriormente sviluppate, nella seconda metà del Cinquecento, soprattutto in Francia, dove si assiste a una lotta fratricida e sanguinaria tra cattolici e ugonotti, la cui prima fase si conclude con il massacro di questi ultimi nella notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572), ordinato e preparato dal re Carlo IX (1550-1574) con la mancanza di scrupoli e l’inganno tipici del tiranno. Questo evento dà l’avvio, in ambiente ugonotto, allo sviluppo delle cosiddette «teorie monarcomache» (termine creato in questi anni, dal greco mònarkhos, 613

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L’ammissione del regicidio Althusius: la trattazione sistematica del diritto di resistenza

Stato come federazione di realtà consociate

Le fasi del patto civile secondo Althusius

Controllo e consenso del popolo sull’operato dei governanti

I fondamenti del diritto di resistenza

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«monarca», unito alla radice di màkhomai, «combattere»), il cui principale documento è costituito dalle Vindiciae contra tyrannos, pubblicate nel 1579 con lo pseudonimo di Stephanus Junius Brutus da un autore sulla cui identità gli storici stanno ancora dibattendo. Si tratta di teorie che giustificano il regicidio quando il re violi il patto fiduciario stipulato con il popolo, al fine di garantire il rispetto del patto originario tra quest’ultimo e Dio, che i calvinisti pongono a fondamento della comunità politica. Di fede calvinista è anche Johannes Althusius (vedi Unità 3, p. 137), lo scrittore politico tedesco autore della Politica methodice digesta (1603), generalmente considerata come l’opera più compiuta di tutta la pubblicistica sul diritto di resistenza. Althusius riprende, infatti, in modo sistematico tutti gli argomenti – politici e religiosi – utilizzati da quanti avevano giustificato la lotta al tiranno, inserendoli nel contesto di una concezione politica molto originale. Egli concepisce lo Stato come «realtà federale», cioè come «associazione pubblica» che risulta da un patto, in cui i contraenti non sono gli individui – come accade nel contrattualismo giusnaturalistico (vedi Unità 7, p. 415 ss.) – bensì tutte quelle realtà consociate, come le famiglie, i villaggi, le città e poi le province, che si riuniscono con un vincolo reciproco all’interno di un corpo politico autosufficiente. Nella dottrina di Althusius, il diritto di resistenza ha il suo fondamento proprio nel patto civile che egli pone all’origine dello Stato, articolato in due momenti e suggellato da un patto religioso: 1) il primo patto civile è il patto attraverso il quale i singoli membri del regno si impegnano a mettere insieme le loro risorse sotto uno stesso diritto, istituendo le «leggi fondamentali del regno»; 2) il secondo patto civile è il «contratto di mandato», attraverso il quale il popolo – insieme unitario e plurale di associazioni e corpi diversi – istituisce il sommo magistrato, affidandogli l’amministrazione del regno e impegnandosi all’obbedienza e alla cooperazione, attraverso i suoi rappresentanti, cioè gli efori; 3) infine, vi è il «patto religioso» tra Dio, il popolo e il magistrato – che costituisce il fondamento e la garanzia dei due patti civili precedenti – attraverso il quale governanti e governati si impegnano a rispettare le leggi divine, cioè i Dieci comandamenti, e a difendere la Chiesa. Ai fini della giustificazione teorica del diritto di resistenza, il punto essenziale è soprattutto il secondo patto civile, cioè il «contratto di mandato»: come dice il termine stesso, in questo secondo patto il popolo – pur impegnandosi a obbedire ai governanti – non si spoglia del diritto di cui è titolare, cedendolo una volta e per tutte al magistrato. In quanto «mandante», il popolo resta anzi un soggetto politico superiore rispetto ai governanti, nella misura in cui stabilisce le regole e le condizioni a cui questi si devono attenere. Questo significa che i governanti possono in ogni momento adempiere la propria funzione di governo sempre e solo con il consenso del popolo, che si esprime attraverso gli organi collegiali, ai quali partecipano tutte le differenti parti che lo compongono. Questa presenza attiva del popolo, che non si limita a casi eccezionali, ha la sua espressione principale nel giudizio di tirannia e nel diritto di resistenza, che il popolo può esplicare attraverso i suoi rappresentanti – cioè gli «efori» – intervenendo per correggere e anche per deporre i governanti, qualora questi non si attengano alle condizioni stabilite nel «contratto di mandato», con cui il governo è stato istituito. Ulteriori punti di riferimento per il diritto di resistenza sono le leggi divine e le leggi fondamentali del regno, stabilite con il primo patto.

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3 Autonomia e razionalità del politico rendono problematico il diritto di resistenza

Non ci si può appellare al «patto con Dio»

Nessun contrasto tra legge umana e legge divina Contraddittorietà della disobbedienza

T1

Non si può resistere al potere sovrano T. Hobbes, Leviatano, 2,18

Hobbes: il diritto di resistenza non è conciliabile con l’assoluto potere dello Stato Il giusnaturalismo e il contrattualismo moderni rendono in un certo senso più problematica l’ammissione e la fondazione del diritto di resistenza, soprattutto per due motivi: 1) in primo luogo, indicando come fonte delle leggi e del diritto naturale esclusivamente la ragione umana, il giusnaturalismo sgancia l’ordine politico da ogni ancoraggio metafisico, e fa venire così meno quella prospettiva trascendente (il richiamo alla legge divina) che, soprattutto in ambiente protestante, era stata addotta a giustificazione del diritto di resistenza; 2) in secondo luogo, secondo il contrattualismo giusnaturalistico lo Stato è un ordine artificiale – cioè il frutto di una costruzione umana – rappresentativo della volontà razionale di tutti i cittadini. In questa prospettiva, la resistenza al potere sovrano risulta addirittura contraddittoria, in quanto resistere equivale, per il singolo, a entrare in contrasto con la propria volontà razionale, rappresentata nel sovrano. Entrambi i motivi ricevono la loro espressione emblematica nel Leviatano (1651) di Hobbes (vedi Unità 7, p. 427 s.), che rifiuta quasi completamente il diritto di resistenza, negando ad esso ogni giustificazione sia sotto il profilo politico sia sotto il profilo religioso e teologico. L’appello al «patto con Dio» come motivo di disobbedienza all’autorità politica e civile è privo di senso, in quanto Hobbes ritiene che in epoca moderna non vi sia nessun patto tra Dio, il popolo e il sovrano, la cui violazione da parte di quest’ultimo potrebbe giustificarne la deposizione. Secondo l’interpretazione hobbesiana delle Sacre Scritture, a partire dal regno di Saul Dio governa gli uomini solo indirettamente, attraverso le leggi naturali della ragione, il cui unico interprete autorizzato è il sovrano, il quale risulta per questo motivo anche come l’unico interprete autorizzato della volontà divina. Questa identificazione del sovrano con il «luogotenente di Dio sulla terra» elimina alla radice la possibilità di quel contrasto tra la legge umana e le leggi divine, addotta dagli scrittori politici calvinisti come il fondamento principale del diritto di resistenza. Allo stesso modo, appellarsi a un «patto civile» come fondamento del diritto di resistenza – in caso di trasgressione di esso da parte del sovrano – è per Hobbes impossibile. Il patto che egli pone all’origine della sovranità è, infatti, un patto di sottomissione stipulato tra tutti i membri dello Stato, cui il sovrano non prende parte, essendone il risultato; di conseguenza, non potrà mai essere accusato di non averlo rispettato. Inoltre, la resistenza è una sorta di controsenso logico poiché con il patto ciascuno autorizza il sovrano ad agire in sua vece; disobbedire ai suoi ordini significa disobbedire a ordini di cui siamo autori. […] se colui che tenta di deporre il suo sovrano, è da lui ucciso o punito per tale tentativo, egli è autore della propria punizione, essendo, per istituzione, autore di tutto ciò che il sovrano vorrà fare. […] Per contro, alcuni uomini hanno preteso, per disubbidire al proprio sovrano, di fare un nuovo patto, non con gli uomini, ma con Dio; anche questo è ingiusto, poiché non c’è patto con Dio, se non per la mediazione di qualcuno che rappresenti la persona di Dio ed è 615

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tale solo il luogotenente di Dio, che ha la sovranità al di sotto di Dio. […] In secondo luogo, per il fatto che il diritto di sostenere la parte della persona di loro tutti, è dato a colui che fanno sovrano solamente per il patto dell’uno con l’altro, e non di lui con qualcuno di essi, non può accadere che ci sia infrazione del patto da parte del sovrano, e per conseguenza, nessuno dei sudditi, qualunque sia la trasgressione che si pretenda di addurre, si può liberare dalla sua sudditanza. Altro motivo del rifiuto di Hobbes della resistenza

Assenza di soggettività politica prima dello Stato

Althusius: l’ambito del politico è più ampio di quello dello Stato

4

La negazione del diritto di resistenza in Hobbes non deriva esclusivamente dalla sua concezione assolutistica della sovranità, e dalla preoccupazione di eliminare i rischi di guerra civile: guerra civile di cui egli era stato spettatore e che, con la condanna a morte di Carlo I Stuart, aveva mostrato all’Europa intera quale potesse essere il terribile esito delle teorie monarcomache. Si tratta piuttosto di una conseguenza della logica dell’autorizzazione, che è alla base di un filone consistente del moderno contrattualismo giusnaturalistico. In ultima analisi, non vi può essere resistenza al potere sovrano, perché prima dell’istituzione di quest’ultimo e al di fuori di esso non si dà alcun soggetto politico indipendente – in grado di opporre resistenza e legittimato a farlo – ma solo una moltitudine dispersa di individui tra loro isolati, che diventa «una persona» (un ente giuridico-politico) esclusivamente trasferendo sul sovrano-rappresentante tutta la propria capacità d’azione. Un simile problema non sussiste invece in una teoria come quella di Althusius che, come si è visto, pone all’origine dello Stato non un patto tra singoli individui, ma un patto tra associazioni minori: queste ultime, infatti, sono soggetti autonomi, capaci di un’azione politica prima e dopo la nascita del governo, con i quali quest’ultimo è tenuto a confrontarsi costantemente nell’esercizio della sua funzione. E questo perché il patto civile che istituisce il magistrato non consiste – come il contratto sociale delle moderne dottrine giusnaturalistiche – nell’alienazione irreversibile della propria capacità politica, ma rappresenta piuttosto un accordo provvisorio, che può sempre tramutarsi in discordia.

Kant: contraddittorietà tra potere sovrano e diritto di resistenza

La problematicità del diritto di resistenza insita nel contrattualismo giusnaturalistico emerge esaminando la posizione che, sullo stesso tema, assume per esempio Kant, il cui pensiero politico è generalmente considerato come una delle espressioni principali della concezione dello Stato liberale di diritto, agli antipodi dell’assolutismo hobbesiano (vedi Unità 14, p. 723 ss.). Le differenze tra la concezione kantiana e quella hobbesiana dello Stato sono effettivamente consistenti: basti qui ricordare che Kant afferma l’inviolabilità della «libertà della penna», cioè dello spazio di critica attraverso l’espressione scritta delle proprie opinioni; spazio che Hobbes aveva invece eliminato – concedendo ai detentori del potere sovrano il diritto di censura – a partire dalla convinzione che la diffusione di opinioni sediziose costituisca una delle cause principali della rovina di uno Stato. Contratto originario Tuttavia, in modo molto significativo anche Kant nega in maniera non meno ree potere assoluto cisa di Hobbes la legittimità della resistenza alla somma autorità dello Stato, seKant e Hobbes: convergenze e divergenze

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Contratto originario come «idea regolativa»

Un’istanza superiore al potere sovrano sarebbe contraddittoria

T2

Il carattere contraddittorio del diritto di resistenza

I. Kant, Sul detto comune, 2, Corollario

5

condo uno schema argomentativo tipico del giusnaturalismo moderno: schema che, partendo dall’affermazione della libertà assoluta degli individui nello stato di natura, arriva a porre – come unico strumento in grado di tutelare la libertà dei singoli dal rischio di reciproche aggressioni – l’istituzione di un’autorità dalla forza irresistibile e dal giudizio incontestabile, attraverso il contratto sociale. Emblematico è, sotto questo profilo, lo scritto kantiano Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi (1793). Da un lato, Kant pone qui il fondamento della legittimità del potere sovrano nel «contratto originario», inteso come «idea regolativa» della ragione, ossia un’idea a priori presente nella ragion pura pratica, e quindi universale. In virtù di essa ogni legislatore dovrebbe sentirsi tenuto a emanare le proprie leggi come se nascessero dalla volontà riunita di tutto il popolo. Dall’altro lato, però, Kant afferma il divieto incondizionato di resistere al capo dello Stato, anche qualora questi non abbia rispettato il contratto originario, emanando leggi che non avrebbero mai ricevuto l’assenso del popolo riunito: e questo perché in una «costituzione civile» non vi è alcun soggetto politico in grado di esercitare un giudizio e un controllo sull’operato del sovrano. Per definizione quest’ultimo è, infatti, la persona fisica o morale dotata di un supremo potere coattivo, in grado cioè di costringere tutti al rispetto delle leggi, ma al tempo stesso sottratta – proprio per la sua forza irresistibile – a ogni possibilità di controllo e di coazione. Ammettere un’istanza superiore al sovrano, volta a controllarne l’operato, sarebbe contraddittorio, perché equivarrebbe di fatto a istituire un nuovo sovrano, il cui operato dovrebbe a sua volta essere sottoposto a controllo, in un processo all’infinito. […] ogni resistenza contro il supremo potere legislativo, ogni istigazione a tradurre in fatti il malcontento dei sudditi, ogni sedizione che sfoci in ribellione, è il supremo e il più duramente punibile tra i delitti nel corpo comune, poiché ne distrugge le fondamenta. E questo divieto è incondizionato, così che, fosse anche quel supremo potere o il suo agente, il capo dello Stato, a ledere il contratto originario e, secondo il concetto del suddito, a perdere il diritto di essere legislatore dando pieni poteri al governo per comportarsi in modo assolutamente violento [tirannico], non è permesso tuttavia al suddito di fare resistenza a titolo di rappresaglia. La ragione di ciò è questa: in una costituzione civile già sussistente il popolo non dispone più di alcun giudizio giuridicamente valido che determini come essa debba essere amministrata. Si ponga infatti che ne disponga e che esso sia appunto contrario al giudizio dell’effettivo capo dello Stato: chi deve decidere da che parte sta il diritto? Nessuno dei due può farlo, dato che è giudice in causa propria. Dunque dovrebbe darsi un capo ancora superiore a quello, che decida tra esso e il popolo; ciò che è autocontraddittorio.

Hobbes: un’unica eccezione all’assolutismo, diritto alla vita e resistenza Anche nell’orizzonte del giusnaturalismo si continua, però, a rivendicare il diritto di resistenza, sulla base del ricorso al diritto naturale, in quanto diritto anteriore e superiore rispetto alle leggi positive emanate dai singoli Stati. 617

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Parte seconda Il secolo dei lumi Disobbedire per autodifesa

T3

La libertà di disobbedire

T. Hobbes, Leviatano, 2,21

6 Patto come composizione di diritti

La ribellione è iscritta nell’ordine necessario dell’universo

Natura umana e Stato

La natura giuridicopolitica dello Stato Il fondamento del diritto di resistenza

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Perfino lo stesso Hobbes – che pure concepisce il contratto all’origine dello Stato come un trasferimento quasi totale del diritto naturale di ogni individuo al potere sovrano – riconosce il diritto di resistenza da parte del singolo qualora sia in gioco la sua vita, in nome del diritto all’autodifesa, che è un diritto di natura inalienabile. Il sovrano dispone sì del potere di vita e di morte sui suoi sudditi, ma non può chiedere a nessuno di essi di togliersi la vita da solo, né tanto meno di ferirsi o di non resistere ai suoi aggressori; in questo caso, il suddito ha la libertà di disobbedire. Perciò, in primo luogo, dato che la sovranità per istituzione si ha per il patto di ognuno con ogni altro […], è manifesto che ogni suddito ha la libertà in tutte quelle cose, il cui diritto non può essere trasferito per patto. Ho già mostrato prima, nel capitolo XIV, che il patto di non difendere il proprio corpo è vano. Perciò: Se il sovrano comanda ad un uomo (per quanto sia giustamente condannato) di uccidere, ferire o mutilare se stesso o di non resistere a quelli che lo assaltano, o di astenersi dal prendere cibo, aria, medicine o qualunque altra cosa, senza la quale egli non possa vivere, quell’uomo ha la libertà di disobbedire […].

Spinoza: fondamento utilitaristico del potere e diritto di resistenza Il nesso fondativo tra diritto naturale e diritto di resistenza è ancora più marcato in Spinoza che, come si è visto, concepisce il patto all’origine dello Stato non tanto come alienazione o trasferimento del diritto naturale, ma piuttosto come una semplice composizione dei diritti naturali – cioè delle quantità di potenza – degli individui. Ciò implica che il potere sovrano risultante dal patto abbia sì un carattere assoluto – cioè al di sopra sia delle leggi civili sia del diritto divino, in quanto nessuno ha la forza di vincolarlo all’obbedienza (vedi Unità 7, p. 442 s.) – restando però sottoposto al diritto e alla legge di natura, da Spinoza identificata con la legge razionale di cercare il proprio utile. Secondo il determinismo spinoziano, è peraltro impossibile che un individuo possa agire contro le leggi della Natura, che coincidono con le leggi di Dio-sostanza infinita, universali e necessarie. Di conseguenza, quando i detentori del potere sovrano agiscono in modo tale da annullare l’utilità del patto sociale all’origine dello Stato, nessuno è più tenuto a rispettarlo. In un caso simile, la ribellione – cioè il tentativo di far valere il diritto naturale attraverso la guerra e l’uso della violenza – non solo è legittima, ma è inevitabile, secondo l’ordine necessario che regge l’universo. Spinoza argomenta la sua fondazione del diritto di resistenza all’interno del Trattato politico (1677), paragrafi 4-6: 1) in primo luogo, definisce la natura umana come una realtà guidata da leggi necessarie (la ricerca del proprio utile). Di conseguenza il potere dello Stato – pur essendo assoluto – cessa di essere legittimo quando tenti di negare la ricerca del proprio utile da parte dell’uomo; 2) secondariamente, si sposta sul piano politico-giuridico e precisa che lo Stato può infrangere solo le leggi naturali, perché quelle civili le stabilisce esso stesso: di conseguenza non è vincolato da esse; 3) il fondamento del diritto di resistenza risiede dunque non nelle leggi civili, bensì nella legge di natura, cioè la legge razionale di cercare il proprio utile:

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Percorso tematico È legittimo resistere al potere politico?

il contratto può essere «senza dubbio» infranto quando è nell’interesse comune infrangerlo. Chiarita la sua tesi, Spinoza ne delimita le condizioni di attuazione attraverso una serie di passaggi: a) nessun privato ha l’autorità per mettere in discussione il patto e solo chi detiene il potere ne è l’interprete; b) questo pone il sovrano fuori dall’obbligo delle leggi civili; c) ma se la trasgressione delle leggi civili da parte del potere è tale da mutare il timore dei sudditi verso il sovrano in indignazione, questo fa decadere il patto; d) solo in questo caso la moltitudine può esigere il rispetto del contratto, non attraverso il diritto civile, ma attraverso la rivolta violenta.

T4

Diritto di natura e diritto di guerra contro i detentori del potere B. Spinoza, Trattato politico, 4

IV. […] sebbene diciamo che gli uomini sono soggetti, non a se stessi, bensì allo Stato, non intendiamo con questo che gli uomini rinuncino alla natura umana e ne rivestano un’altra; e neppure, di conseguenza, che lo Stato abbia il diritto di far sì che gli uomini volino o, cosa ugualmente impossibile, che gli uomini considerino con riverenza ciò che provoca riso oppure disgusto; ma che si danno circostanze, poste le quali, si impone il rispetto e il timore dei sudditi nei confronti dello Stato, e che, una volta tolte, vengono meno timore, rispetto e con essi lo Stato. Lo Stato pertanto, per essere soggetto solo a sé, è tenuto a preservare le condizioni di timore e di rispetto, altrimenti cessa di essere uno Stato. Infatti, per coloro o per colui che detiene il potere, è ugualmente impossibile andare in giro ubriaco, o nudo in compagnia di prostitute, fare l’istrione, violare o disprezzare apertamente le leggi da esso stesso emanate, e insieme conservare la sua maestà, come è impossibile essere e non essere allo stesso tempo; infine trucidare o depredare i sudditi, rapire fanciulle, e simili, mutano il timore in indignazione, e di conseguenza lo stato civile in stato di ostilità. V. Vediamo dunque in qual senso possiamo dire che lo Stato è vincolato da leggi e può peccare. In realtà, se con legge intendiamo il diritto civile che può essere fatto valere in virtù di se medesimo, e con peccato ciò che dal diritto civile è proibito, cioè se assumiamo tali termini nel loro significato più autentico, non possiamo dire in alcun modo che lo Stato sia vincolato dalle leggi o che possa peccare. Le regole, infatti, e le condizioni di timore o rispetto che lo Stato è tenuto a preservare nel suo interesse, riguardano, non il diritto civile, ma il diritto naturale […]. Il diritto civile dipende, per contro, solo dal decreto dello Stato, che, per rimanere libero, è tenuto a condursi unicamente a modo proprio, e di nessun altro, e a non considerare bene o male se non ciò che esso stesso ha stabilito essere tale per sé. […] VI. Il contratto, ossia le leggi grazie alle quali una moltitudine trasferisce il suo diritto a un’assemblea o a un uomo, devono essere senza dubbio infrante nel caso sia nell’interesse della salute comune infrangerle. Ma nessun individuo privato può avere il diritto di pronunciare il giudizio sul fatto se sia o meno nell’interesse della salute comune infrangerle, bensì solo colui che detiene il potere […]; pertanto, l’interprete di quelle leggi rimane, per diritto civile, solo colui che detiene il potere. Di conseguenza, nessun privato può avere il diritto di farle valere, e dunque, in realtà non obbligano colui che detiene il potere. Se tuttavia esse sono di natura tale che non possono essere trasgredite senza che al tempo stesso ne risulti minata la forza dello Stato, ovvero senza che il timore comune della maggioranza dei cittadini si volga in indignazione, per ciò stesso lo Stato viene distrutto e il contratto decade, contratto che può essere fatto valere, non per diritto civile, ma per diritto di guerra. 619

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Parte seconda Il secolo dei lumi Il patto come accordo provvisorio

7 I due fondamenti del diritto di resistenza

I diritti naturali come limite del potere

Il potere di controllo del popolo sui governanti

Il popolo come corpo politico autonomo

Il popolo come depositario della sovranità

620

Spinoza costituisce, però, un’anomalia nella cornice del giusnaturalismo moderno (vedi Unità 7, p. 443 s.). Il legame indissolubile che egli stabilisce tra il rispetto del patto e la sua utilità differenzia, infatti, in maniera fondamentale la sua concezione del patto dal contratto che i giusnaturalisti pongono all’origine dello Stato: il patto spinoziano non è un atto unico e irreversibile, ma un accordo provvisorio, nel senso che la sua validità dura soltanto fino a quando permangono le condizioni che hanno indotto i contraenti a stipularlo (sotto questo rispetto, esso si avvicina maggiormente alla concezione del patto propria di Althusius).

Locke: la distinzione tra popolo e governo e il diritto di revoca della sovranità La dottrina del diritto di resistenza si trova invece calata nell’ambito di una concezione rigorosamente contrattualistica e giusnaturalistica della società e dello Stato in Locke: il Secondo Trattato sul governo si chiude proprio con la sistematica disamina di questo argomento, offerta negli ultimi due capitoli, dedicati rispettivamente alla «tirannide» e alla «dissoluzione di governo» conseguente all’instaurazione del potere tirannico. I presupposti della fondazione del diritto di resistenza compiuta da Locke sono due (vedi anche Unità 7, p. 438 s.): 1) la definizione del contenuto del contratto sociale come alienazione solo parziale del diritto naturale, ovvero come alienazione irreversibile esclusivamente del diritto a farsi giustizia da sé, volta a far sì che i restanti diritti naturali – alla vita, alla proprietà e alla libertà – vengano tutelati, sotto forma di diritti civili e politici, all’interno dello Stato. I diritti naturali in questione assurgono così a limite dell’azione legittima dell’autorità politica (sia di quella del parlamento, ossia del potere legislativo, che di quella dell’esecutivo): ogni qualvolta questo limite venga superato si instaura una «tirannide», che dissolve dall’interno il governo, facendo venir meno il dovere di obbedienza da parte del popolo; 2) l’articolazione della dinamica contrattuale in due momenti distinti, cioè il patto d’associazione, da cui viene fuori il corpo politico del popolo – titolare originario della sovranità – e l’istituzione del governo, attraverso la quale il popolo sceglie una determinata forma di governo e delega ai governanti la propria sovranità, secondo un rapporto fiduciario. La distinzione tra questi due momenti risponde proprio all’intento di presentare il popolo come un soggetto collettivo ‘altro’ rispetto ai detentori del potere e, dunque, capace di esercitare un controllo su di essi, opponendosi all’uso improprio del potere, cioè alla tirannide. Nella concezione politica di Locke, il popolo è in grado di esercitare il diritto di resistenza in quanto non è una moltitudine dispersa – che trova l’unità necessaria per un’azione politica solo nell’unità del sovrano-rappresentante, secondo la prospettiva hobbesiana – bensì piuttosto un corpo politico unitario risultante dal patto d’associazione, capace di esistere e agire anche senza una rappresentanza, ogniqualvolta ciò sia necessario. Ciò accade nel momento di istituzione del governo, e in occasione della dissoluzione di quest’ultimo provocata dall’esercizio tirannico del potere: il popolo ha, infatti, il diritto di reagire al tradimento perpetrato dai governanti nei confronti

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Percorso tematico È legittimo resistere al potere politico?

della fiducia accordata loro, riappropriandosi della sovranità e istituendo un governo nuovo, sia nella forma sia nelle persone, secondo la propria scelta.

T5

La dissoluzione del governo e il diritto di resistenza del popolo

J. Locke, Secondo trattato sul governo, 29

Il conflitto tra popolo e governanti

La soluzione pregiusnaturalistica

La soluzione di Locke: diritto di resistenza come…

… diritto collettivo

… diritto alla rivoluzione

L’ultima istanza

221. […] i governi si dissolvono […] quando cioè il legislativo o il principe o entrambi agiscano contrariamente al loro mandato. In primo luogo, il legislativo agisce contro il mandato affidatogli quando tenta di violare la proprietà dei sudditi e di rendere sé o una parte della comunità padrone o arbitro della vita, della libertà e dei beni del popolo. 222. La ragione per cui gli uomini entrano in società è la conservazione della loro proprietà. […] Ogniqualvolta dunque il legislativo trasgredisce questa fondamentale regola della società e per ambizione, timore, follia o corruzione tenta di assumere in proprio o mettere nelle mani di altri il potere assoluto sulla vita, la libertà e i beni del popolo, con questa violazione del mandato perde il potere che il popolo ha posto nelle sue mani per fini totalmente opposti; e questo ritorna al popolo, che ha il diritto di riprendersi la sua libertà originaria e provvedere con l’istituzione di un nuovo legislativo (quello che riterranno più adatto) alla propria salvezza e sicurezza; che è il fine in vista del quale esso si costituisce in società. Quanto ho detto qui riguardo al legislativo in generale vale anche per il supremo esecutore […] Nonostante l’innegabile continuità con i teorici del diritto di resistenza – testimoniata anche dalla comunanza di obiettivi polemici – l’inserimento della tematica nella cornice teorica del contrattualismo giusnaturalistico implica, però, dei problemi nuovi, la cui soluzione richiede delle rettifiche. La questione principale è quella del soggetto cui compete il diritto di giudicare se i governanti abbiano o meno rispettato il mandato che è stato loro affidato dal popolo. Nella tradizione di pensiero antecedente al giusnaturalismo moderno, i fautori del diritto di resistenza avevano affidato il compito di giudicare le controversie tra il popolo e il sovrano agli organismi intermedi, cioè agli ordini cetuali e ai loro rappresentanti, come gli Stati generali o gli efori. Una soluzione del genere non è riproponibile nella logica del moderno giusnaturalismo contrattualistico, che richiede che vi sia un solo giudice – dotato di forza incomparabilmente superiore rispetto a quella di tutte le altre componenti della società – onde evitare la conflittualità dello stato di natura, la cui causa principale consiste proprio nel fatto che in esso ognuno è giudice della propria causa. Per questo motivo, il contenuto essenziale del patto di associazione è, anche per Locke, l’alienazione irreversibile del diritto del singolo a farsi giustizia da solo. Ne consegue che: 1) il diritto di resistenza è ai suoi occhi un diritto esclusivamente collettivo, spettante cioè al popolo nella sua interezza, in quanto corpo risultante dal patto d’associazione; 2) il suo esercizio si configura prettamente come «rivoluzione», cioè come tentativo di rovesciamento dell’ordine politico costituito da parte del popolo: quest’ultimo – in quanto detentore originario della sovranità – è, infatti, titolare del diritto di giudicare e decidere se il comportamento del governo sia o meno conforme al suo mandato. Tuttavia, qualora questo si rifiuti di sottomettersi al giudizio del popolo, non vi sono un’istanza o un organo superiori cui il popolo possa appellarsi – come gli efo621

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Parte seconda Il secolo dei lumi

ri di Althusius – per far valere i suoi diritti, bensì non resta altro che l’appello al Cielo, cioè il richiamarsi alla legge e al giudizio divini, attraverso un agire rivoluzionario volto a ripristinare l’ordine tradito, con l’istituzione di un nuovo governo.

T6

L’appello al Cielo

da J. Locke, Secondo trattato sul governo, 29

242. […] se alcuni si ritengono danneggiati e pensano che il principe agisca contro il mandato o al di là del mandato, chi meglio del corpo del popolo (che gli ha affidato in principio quel mandato) può giudicare circa l’ampiezza che intendeva dare al mandato stesso? Ma se il principe, o chiunque sia nell’amministrazione del governo, rifiuta questo tipo di risoluzione, non rimane che l’appello al cielo. Infatti, l’uso della forza fra persone che non riconoscono superiori sulla terra, o in casi che non consentano l’appello a un giudice sulla terra, è propriamente uno stato di guerra nel quale non rimane che l’appello al cielo; e in questo stato la parte offesa deve giudicare per suo conto quando sia opportuno farvi ricorso e affidarvisi.

I brani antologizzati sono tratti da: T. Hobbes, Leviatano, trad. di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976. I. Kant, Sul detto comune, 2, Corollario, in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1995. B. Spinoza, Trattato politico, a cura di L. Pezzillo, Laterza, Roma-Bari 1991. J. Locke, Il secondo trattato sul governo, a cura di T. Magri e A. Gialluca, Rizzoli, Milano 1998.

Questionario 1

In un massimo di 2 righe definisci il diritto di resistenza.

5

Qual è il fondamento del potere politico rispettivamente per gli umanisti e per i pensatori della Riforma? Quali conseguenze comporta questa differenza per il diritto di resistenza? Rispondi completando la tabella seguente (max 1 riga per casella).

In un massimo di 4 righe, tenendo presenti T1 e T3, spiega la concezione di Hobbes del diritto di resistenza in rapporto alla sua concezione della sovranità.

2

6

Secondo Kant in T2 qual è la ragione per cui un popolo non può giudicare l’amministrazione della costituzione civile? (max 1 riga)

Umanisti

7

Attraverso quali esempi, in T4, Spinoza argomenta l’immutabilità della natura umana? (max 2 righe)

8

Qual è il bene, superiore al rispetto della legge civile, in nome del quale è giusto infrangere il contratto, secondo Spinoza in T4? (max 1 riga)

9

Che cos’è il «legislativo» di cui Locke parla in T5? (max 1 riga)

10

Qual è il rapporto tra «appello al cielo» e resistenza, secondo Locke in T6? (max 2 righe)

Riformatori

Fondamento del potere politico Diritto di resistenza

3

Quali sono le fasi del patto civile secondo Althusius? (max 3 righe)

4

Qual è secondo Althusius il fondamento del diritto di resistenza? (max 1 riga)

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1. L’Illuminismo in Italia 1. Napoli 2. Milano: Pietro Verri e Cesare Beccaria

2. L’Illuminismo in Germania 1. I caratteri dell’Illuminismo tedesco 2. Thomasius: critica alla tradizione scolastica e primato della morale 3. Wolff: il metodo matematico in filosofia 4. Wolffiani e antiwolffiani. Crusius 5. La «filosofia popolare» 6. Il rinnovamento della teologia. Lessing ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte seconda Il secolo dei lumi

L’Illuminismo in Italia

1 I testi

C. Beccaria Dei delitti e delle pene: Il fine delle pene, T1

Un movimento culturale di tipo eclettico

1 Giannone: la critica del potere papale

Genovesi: la critica della metafisica e l’importanza dell’economia

Filangieri: scienza della legislazione e riforma educativa

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Il movimento illuministico ha una certa eco anche in Italia, pur se con scarsa originalità filosofica. Gli strumenti intellettuali dell’Illuminismo italiano contribuiscono alla formazione di un pensiero di tipo eclettico, che recepisce le istanze provenienti dalla Francia e dall’Inghilterra. Per quanto riguarda i contenuti, il pensiero italiano del Settecento si orienta prevalentemente verso i temi etici, giuridici e politici, in direzione di un rinnovamento delle strutture sociali di antico regime nell’ambito di una posizione sostanzialmente moderata. I più importanti centri dell’Illuminismo italiano sono Napoli e Milano.

Napoli Il primo segno di un atteggiamento nuovo si ha a Napoli con Pietro Giannone (1676-1748), perseguitato per le sue concezioni razionalistiche in tema di religione (morì in carcere). Egli presenta infatti nel Triregno una severa critica del potere ecclesiastico: nel corso dello sviluppo storico, la religione ha infatti mutato la propria natura, diventando con il «regno papale» uno strumento di oppressione politica. Tra i primi illuministi napoletani è Antonio Genovesi (1712-1769), uno dei primi docenti della materia che oggi chiamiamo «economia», dopo avere insegnato metafisica ed etica. Genovesi critica la metafisica e la sua astrattezza sulla base di un eclettismo che rivendica l’importanza di una filosofia attenta all’interesse concreto degli uomini e al miglioramento delle loro condizioni di vita. I suoi punti di riferimento filosofico sono Bacone, Locke e Newton, in un impianto generale di tipo empiristico che privilegia le discipline morali anche attraverso il confronto con Rousseau e Montesquieu, e orienta poi il suo interesse verso l’economia, come dimostrano le sue Lezioni di commercio ossia di economia civile (1765-1767). L’intento di una profonda riforma della legislazione è dominante nell’opera di Gaetano Filangieri (1752-1788), che si ispira a Montesquieu ma ne critica, come Rousseau, l’attitudine meramente descrittiva delle istituzioni, poiché ritiene urgente dedicarsi alla delineazione di uno Stato ideale. L’opera maggiore di Filangieri, la Scienza della legislazione (1780-1791), sostiene la necessità di una razionalizzazione degli ordinamenti giuridici sulla base di un diritto equo e certo, e dedica una particolare attenzione alla necessità di un’educazione pubblica che tenga conto delle teorie educative di Rousseau.

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Unità 13 L’Illuminismo in Italia e in Germania

2 L’Accademia dei Pugni

Verri: la ricerca della felicità

La virtù e il progresso civile

Milano: Pietro Verri e Cesare Beccaria Con Napoli, Milano è il secondo importante centro della cultura illuministica italiana. Il nucleo promotore è l’Accademia dei Pugni, fondata da Pietro e Alessandro Verri e da Cesare Beccaria; un ruolo di primo piano è svolto in particolare dalla rivista «Il Caffè», organo dell’Accademia, che viene pubblicata tra il 1764 e il 1766. Pietro Verri dedica la sua attenzione, già nelle pagine del «Caffè», a questioni civili e politiche, ma affronta anche problematiche più strettamente filosofiche, come il tema del piacere e della felicità, ottenendo una certa notorietà anche fuori d’Italia (verrà letto ed esplicitamente menzionato, per esempio, da Kant). Verri non è un ottimista, e ritiene che la vita sia fatta più di dolori che di piaceri, con in più il problema che la ricerca del piacere è una ricerca affannosa che non riesce a trovare compimento. È qui che deve intervenire la virtù, che consiste nella moderazione dei desideri, che devono essere equilibrati rispetto alle nostre possibilità di soddisfarli. Del resto, il dolore è sofferenza, per Verri, ma è anche bisogno che spinge all’attività e alla civiltà (vista, contrariamente a Rousseau, in maniera positiva); un tema, questo, che collega la riflessione sulla felicità con l’analisi della vita sociale.

La vita e le opere Pietro Verri nacque a Milano nel 1728. Compì studi di economia e di filosofia, discipline che risultarono sempre strettamente connesse nel suo pensiero e nei suoi scritti. Assieme al fratello minore Alessandro e a Cesare Beccaria fondò nel 1762 l’Accademia dei Pugni, che divenne ben presto il centro propulsore del movimento illuministico italiano. L’organo principale dell’Accademia era rappresentato dalla rivista «Il Caffè», che venne pubblicata negli anni 1764-1766. Alla sua attività professionale nell’amministrazione dell’impero austriaco (durante la quale si adoperò per un rinnovamento sociale ed economico) Pietro Verri affiancò una intensa attività di polemista e di saggista, che lo vide impegnato in ambito politico, etico ed economico. Oltre a numerosi articoli usciti sulla rivista «Il Caffè»,

Beccaria: la rivendicazione del principio dell’utile e la spinta umanitaria

Verri pubblicò nel 1760 gli Elementi di commercio, con i quali si schierò a favore della teoria mercantilistica del mercato chiuso. Successivamente si orientò verso un marcato liberismo economico, posizione che risulta evidente nei successivi scritti Riflessioni sulle leggi vincolanti principalmente nel commercio dei grani (1769) e Meditazioni sull’economia politica (1771), opera quest’ultima in cui Verri anticipò alcune tesi fondamentali di Adam Smith. Le Meditazioni sulla felicità (1763) rappresentano il primo importante contributo di Verri in ambito etico, seguito dalle Idee sull’indole del piacere (1773); questa seconda opera venne citata da Kant nella sua Antropologia pragmatica. Nel 1777 uscirono le Osservazioni sulla tortura, in cui Verri riprese e discusse anche alcune tesi di Cesare Beccaria. Morì a Milano nel 1797.

L’opera più importante dell’Illuminismo italiano e di quello lombardo in particolare è Dei delitti e delle pene di Beccaria, che viene pubblicata nel 1764 e che, tradotta in diverse lingue, ha una grande diffusione anche in Europa. Molti sono i motivi del successo dell’opera, che pure non ha grande originalità filosofica. Tra questi, rientrano l’entusiasmo umanitario e il senso morale che essa esprime, nella sua decisa rivendicazione della necessità di un ordinamento giuridico fondato sul principio di Helvétius dell’utile, ovvero della massima felicità divisa per il maggior numero di individui, che non punisce se non quando ciò si rende necessario (e anche in questi casi con misura) e che guarda con occhi nuovi ai problemi del diritto penale. 625

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La vita e le opere Cesare Beccaria nacque a Milano nel 1738 da una ricca e nobile famiglia. Dopo aver ricevuto un’educazione superiore presso il collegio di Parma, nel 1758 si laureò in legge all’università di Pavia e ben presto si legò al gruppo milanese che diede poi origine all’Accademia dei Pugni (1762), divenendo uno dei principali collaboratori della rivista «Il Caffè», assieme a Pietro e Alessandro Verri. Proprio l’incontro con Pietro suscitò in Beccaria un forte interesse per l’economia, che trovò espressione nel saggio Del disordine e de’ rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1672, pubblicato nel 1762. In questo stesso anno nacque sua figlia Giulia, la futura madre di Ales-

sandro Manzoni. Nel 1764 Beccaria pubblicò l’opera che gli diede notorietà internazionale (in primis, tra gli enciclopedisti parigini): Dei delitti e delle pene. La Chiesa cattolica, nel 1766, inserì l’opera nell’Indice dei libri proibiti. Dal 1769 Beccaria occupò per due anni la cattedra di economia civile presso le Scuole Palatine di Milano. Nel 1770 pubblicò un’opera di estetica, ispirata al sensismo di Condillac: Ricerche intorno alla natura dello stile. Dal 1771 Beccaria si dedicò alla carriera amministrativa, dando il suo contributo alla politica riformista della monarchia asburgica che in quegli anni regnava in Lombardia. Morì a Milano nel 1794. Nel 1804 uscirono postumi gli Elementi di economia pubblica.

Tra gli elementi principali dell’opera di Beccaria vanno ricordati: la separazione tra il peccato (di tipo morale o religioso) e il delitto, inteso come ciò che danneggia la società; l’idea di una funzione preventiva della pena; la critica dell’uso della tortura e della pena di morte. La distinzione Il peccato è qualcosa di diverso dal delitto, perché riguarda la religione e non il tra peccato e delitto diritto: quest’ultimo, nei suoi aspetti penali, ha per sua misura il danno fatto alla società, ed è fondato su rapporti tra uguali che hanno stretto un patto di convivenza. Il peccato riguarda il rapporto con Dio, e «qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia», pretendendo di decidere lui se qualcuno va punito o perdonato? Il diritto si occupa soltanto di ciò che avviene all’esterno, non del cuore degli uomini, che costituisce un ambito riservato al giudizio di Dio. Lo scopo della pena Beccaria esplicita poi il carattere distintivo della pena, ovvero il suo fine, che non può consistere nel tormento del colpevole; né la pena è in grado di far sì che il delitto non sia stato commesso. Il criterio è sempre quello dell’utilità sociale, e quindi è nella prevenzione dei delitti che si dovrà cercare il fine delle pene. La riflessione sul diritto penale

T1

Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.

La certezza della pena e i dubbi sulla proprietà

Le pene devono quindi essere moderate e proporzionate ai reati, poiché è molto più efficace la certezza della pena che la sua intensità. Per il furto, se non vi sia violenza, è sufficiente una pena pecuniaria, ed è in questo contesto che emerge tutto l’egualitarismo di Beccaria: il diritto di proprietà,

Il fine delle pene C. Beccaria Dei delitti e delle pene, par. 12

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Unità 13 L’Illuminismo in Italia e in Germania

infatti, è un «terribile, e forse non necessario diritto», e il furto è spesso il delitto della miseria e della disperazione. La condanna Beccaria condanna l’uso della tortura, che è solo il monumento di una legisladella tortura zione «antica e selvaggia», e che consiste in una pena inflitta a qualcuno che non e della pena di morte sappiamo ancora esser colpevole, per spingerlo a confessare un presunto reato. Infine, si ha la condanna della pena di morte: lo Stato, infatti, si fonda su un contratto con il quale ciascuno aliena una minima porzione della propria libertà, e certo in questa minima porzione non può rientrare la previsione della propria morte come contenuto del contratto. Inoltre, per Beccaria è possibile dimostrare ➥ Sommario, p. 639 quanto la pena di morte non sia efficace.

L’Illuminismo in Germania

2 I testi

C. Thomasius Fondamenti del diritto di natura e delle genti: Il primato della volontà, T2

C.A. Crusius Sull’uso e i limiti del principio di ragione determinante: Causalità e moralità, T4

C. Wolff Filosofia razionale o Logica: Identità del metodo filosofico e matematico, T3

G.E. Lessing L’educazione del genere umano: Religioni positive e storia umana, T5; Il nuovo Vangelo eterno, T6

1

I caratteri dell’Illuminismo tedesco

L’Illuminismo ha in Germania caratteri notevolmente diversi da quelli degli altri Paesi europei e soprattutto dei Paesi di lingua inglese e francese. Una prima diversità è di tipo cronologico: il movimento della Aufklärung, del «rischiaramento» (il termine con cui si indica l’Illuminismo tedesco), comincia alla fine del XVII secolo con Christian Thomasius e con la sua attività di professore all’università di Lipsia. Un Illuminismo Questa indicazione permette di fornirne subito una seconda, che riguarda i prodelle università tagonisti e i promotori: in Germania, la diffusione del movimento illuministico parte dalle università e, in alcuni casi, dagli scritti di pastori protestanti. Non c’è in Germania, infatti, una borghesia attiva che si faccia portatrice di istanze di rin-

Le peculiarità della Aufklärung tedesca

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Il rapporto con il pensiero scientifico

Aufklärung e pensiero religioso

Origine e natura del movimento pietistico

Illuminismo e pietismo

2 La prima fase: Thomasius e Wolff

Le peculiarità di Thomasius e Wolff

La seconda fase: Lessing

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novamento culturale, come avviene altrove. L’Illuminismo tedesco è in gran parte una filosofia di professori. Un terzo elemento che contribuisce a distinguere il pensiero tedesco dalla filosofia inglese, scozzese o francese è poi il rapporto con il pensiero scientifico, molto meno stretto rispetto agli altri Paesi, dove si guarda a Newton come a un modello da seguire. In Germania, tutt’al più, ci si riferisce alla matematica in quanto modello dimostrativo, come avviene nel caso di Wolff, il quale se ne serve per costruire una metafisica sistematica. Infine, il confronto con la religione ha caratteristiche proprie, anche se non mancano influenze, nella seconda metà del secolo, del deismo europeo. L’interpretazione della Bibbia viene profondamente rinnovata, e si assiste al nascere e al diffondersi del movimento di religiosità protestante detto pietismo, che influenza tra gli altri anche il pensiero di Thomasius. L’ispiratore del movimento pietistico è Philipp Joseph Spener (1635-1705), con i suoi Pia desideria (1675): il pietismo propugna un ritorno agli elementi originari del luteranesimo, concentrandosi soprattutto sul libero esame dei testi sacri, dei quali si fa una lettura collettiva, e sull’importanza della vita interiore e della coscienza, trascurate, a parere dei pietisti, dal protestantesimo ufficiale, ormai dominato da una sorta di scolastica teologica, ossia da un insieme di norme o modalità religiose sentite come inautentiche o esteriori. Nei fatti, si ha allora una convergenza tra movimento pietistico e Illuminismo, o meglio con una parte di esso, in nome dell’autonomia della fede individuale, da un lato, e dell’autonomia della ragione, dall’altro.

Thomasius: critica alla tradizione scolastica e primato della morale La prima fase della Aufklärung – a cavallo tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento – è attraversata da due tradizioni principali, che ne rappresentano le due distinte anime: da un lato, Thomasius e coloro che a lui si ispirano, dall’altro, Christian Wolff, che oltre a essere il promotore di un’estensione del metodo dimostrativo matematico alla filosofia è anche l’iniziatore di una tradizione di manualistica universitaria che, attraverso i suoi seguaci, verrà ampiamente diffusa nelle università tedesche. Dei manuali di scuola wolffiana, infatti, si servirà anche Kant (vedi Unità 14, p. 652). La concezione che Thomasius e Wolff hanno dei compiti della filosofia illuministica è molto diversa: per Thomasius essa deve essere innanzitutto critica dei pregiudizi e della tradizione scolastica, con una particolare attenzione per la vita pratica e un marcato accento etico; per Wolff, la filosofia deve consistere nella chiarificazione concettuale e nella costruzione di un sistema della filosofia, essendo la conoscenza l’elemento caratteristico dell’uomo. Dopo la metà del secolo (Wolff muore nel 1754) la filosofia tedesca assume una fisionomia più varia, anche per l’influenza della filosofia europea, con la diffusione di una «filosofia popolare» che si indirizza al «sano intelletto umano». In questo periodo si colloca l’opera di Lessing, il personaggio più significativo di questi anni, che lascerà un forte segno nel pensiero successivo (tanto che si parla correntemente di «età di Lessing»).

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La vita e le opere Christian Thomasius nacque a Lipsia, in Sassonia, nel 1655. Presso la prestigiosa università della città natale compì studi di filosofia, teologia e diritto, conseguendo la libera docenza presso la medesima università, dove insegnò dal 1681 al 1687. Nel corso della sua intensa attività accademica si spostò prima a Berlino, poi a Halle (importanti centri universitari), occupandosi prevalentemente di L’iniziatore dell’Illuminismo tedesco

Il modello dei francesi

Lingua latina e astrattezza metafisica

La critica del mondo accademico e la centralità della dimensione pratica

Rapporto tra intelletto e volontà

filosofia del diritto ed esercitando una forte influenza sul dibattito riguardante il rapporto tra diritto naturale e giustizia divina. Tra le opere principali sono da ricordare: Institutiones jurisprudentiae divinae («Istituzioni di diritto divino») (1688), Fondamenti del diritto di natura e delle genti (1705, l’opera che ebbe maggiore diffusione), Paulo plenior historia juris naturalis («Piccolo compendio di storia del diritto naturale») (1719). Morì a Halle nel 1728.

Christian Thomasius segna l’inizio del movimento illuministico tedesco. La dimostrazione esteriore di questa funzione di iniziatore è data dal suo uso, assolutamente rivoluzionario in quegli anni, della lingua tedesca al posto della lingua latina negli scritti e nell’insegnamento all’università di Lipsia, come emerge dal programma del corso del semestre 1687-1688, intitolato Su come si debbano imitare i Francesi nella vita e nella condotta quotidiana. Questo scritto di Thomasius si inserisce nel dibattito sul rapporto tra gli antichi e i moderni e su chi detenga la superiorità (vedi Unità 4, p. 205 s.): in questo contesto gli antichi sono i tedeschi, e i moderni sono i francesi, che sono per Thomasius superiori e che dovrebbero essere imitati dalla cultura tedesca. Lo stesso uso della lingua latina, per Thomasius, è il segno dell’arretratezza della cultura accademica tedesca, e all’uso del latino corrisponde una scolastica immersa nella metafisica e separata dalla vita concreta e dalla società. L’intento di Thomasius è quindi un profondo rinnovamento della cultura e della filosofia tedesche, che si devono rivolgere alla vita pratica. La vita pratica e i problemi etici sono quindi al centro dell’interesse di Thomasius: per promuovere il proprio programma di rinnovamento, egli fonda nel 1688 una rivista, le «Conversazioni mensili», che attacca anche con le armi dell’ironia e della satira il mondo accademico. La centralità della vita pratica viene esplicitamente teorizzata: la nobiltà dell’uomo non deriva dalla conoscenza o dall’intelletto, ma dalla volontà e dall’amore per gli altri uomini in vista della felicità come tranquillità dell’animo, che può essere raggiunta soltanto in una dimensione sociale. Thomasius sostiene quindi il primato della volontà sull’intelletto: è la volontà che costituisce l’essenza dell’uomo, non il pensiero, ed è essa a muovere anche l’intelletto quando deve riflettere: «È dunque falso affermare che l’essenza dell’uomo, per cui egli si distingue dagli animali che non sono razionali, consiste unicamente nel pensiero. Infatti l’inclinazione e l’impulso della volontà sono, negli uomini, una forza molto più nobile che il pensiero dell’intelletto».

T2

Nell’affermazione del bene o del male, […] nell’attenta considerazione di questo bene e nella riflessione sui mezzi idonei a conseguire il bene, l’intelletto sottostà sempre all’impulso della volontà. Invece è erroneo sostenere che la volontà, nell’appetire il bene e nel fuggire il male, è guidata dall’intelletto. Infatti la volontà non appetisce qualcosa perché sembra buono all’intelletto, ma qualcosa sembra buono all’intelletto perché la volontà lo appetisce.

La distinzione tra diritto e morale

La riflessione sulla sfera pratica trova espressione anche nell’importante opera sul diritto naturale, i Fondamenti del diritto di natura e delle genti, dove Thomasius propone la distinzione tra diverse attività umane e quindi tra diversi valori: sono lo honestum, il justum e il decorum, che corrispondono alla morale, al

Il primato della volontà

C. Thomasius, Fondamenti del diritto di natura e delle genti, 1, i, 46, 49, 54

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Il riconoscimento dei limiti della conoscenza umana

3 L’influenza di Leibniz

diritto e alla politica. Il rapporto tra morale e diritto è segnato dalla diversa sfera di pertinenza delle due discipline: l’honestum riguarda la moralità e quindi la vita interiore, mentre il justum riguarda il diritto, cioè la sfera dei comportamenti esterni che sono sottoposti a una legge coattiva. Dal punto di vista conoscitivo, Thomasius sostiene una posizione empiristica che corrisponde alla sua critica della metafisica e delle pretese di conoscere ciò che sta al di là dell’esperienza: la conoscenza umana è limitata, e i concetti tradizionali della metafisica come Dio e l’anima non ne possono essere gli oggetti.

Wolff: il metodo matematico in filosofia L’altra grande tradizione della prima fase dell’Illuminismo tedesco ha inizio con Christian Wolff, che risente dell’influenza di Leibniz (tanto che si parla talvolta di tradizione leibniziano-wolffiana) e che ha caratteri molto diversi da quelli visti in Thomasius.

La vita e le opere Christian Wolff nacque a Breslavia nel 1679. Dopo aver compiuto studi di matematica e filosofia, nel 1706, grazie all’intercessione di Leibniz, venne chiamato a insegnare matematica all’università di Halle. I suoi interessi – che vanno al di là della matematica in senso stretto – trovarono espressione in alcuni primi lavori che, significativamente, vennero dati alle stampe in tedesco invece che in latino, suscitando l’interesse di una cerchia più ampia di lettori rispetto a quella ristretta del mondo accademico. L’autore raccolse tali lavori successivamente con il titolo generale di Pensieri razionali. Già in questi primi lavori si delineava il progetto di un sistema generale della filosofia, costruito sul modello del sapere matematico. A causa delle accuse da parte di alcuni col-

leghi pietisti, che vedevano nella filosofia di Wolff un pericolo per la religione dell’uomo, Federico Guglielmo I gli tolse la cattedra a Halle. In seguito a questo fatto Wolff si trasferì a Marburgo per un breve periodo, ma nel 1740 poté di nuovo tornare ad Halle, sotto la protezione del nuovo re di Prussia, Federico II, di vedute molto più aperte rispetto al padre. In questo secondo periodo vennero date alle stampe le sue opere più importanti, in lingua latina, nelle quali trovavano espressione le basi del sistema filosofico wolffiano: Filosofia razionale o Logica (1728); Philosophia prima sive Ontologia («Filosofia prima o Ontologia») (1729); Philosophia moralis sive Ethica («Filosofia morale o Etica») (1750-1753); Oeconomica («Questioni economiche») (1759). Wolff morì a Halle nel 1754.

Wolff non si contrappone certo né alla scolastica né alla metafisica. Al contrario, la sua opera si pone in continuità con la tradizione e cerca di costruire un sistema della filosofia come sistema metafisico che affronti tutti gli ambiti del sapere e costituisca un’esposizione completa di esso. Di qui la stesura di accurati manuali delle diverse discipline. La matematica Il sistema metafisico di Wolff si ispira al metodo della matematica, la quale è concome modello di rigore siderata il punto di riferimento di un sapere rigoroso, deduttivo, fondato sull’accuratezza delle definizioni dei principi e su dimostrazioni che derivino da questi principi.

Il sistema della filosofia

T3

Identità del metodo filosofico e matematico C. Wolff, Filosofia razionale o Logica, Discorso preliminare, 4

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Le regole del metodo filosofico sono identiche a quelle del metodo matematico. Infatti nel metodo filosofico ci si serve soltanto di termini spiegati con un’accurata definizione e si assume come vero soltanto ciò che è sufficientemente dimostrato, e nelle proposizioni soggetto e predicato sono determinati accuratamente, e ogni cosa è ordinata in modo che è premesso ciò mediante cui quanto segue è compreso e dimostrato. Ma dalla nostra riflessione sul metodo matematico e dalla stessa accurata tratta-

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zione della matematica […] è evidente che anche in questa i termini sono spiegati con un’accurata definizione e quelli che entrano nelle definizioni successive sono spiegati nelle precedenti […]; i principi sono sufficientemente stabiliti; dalle definizioni e dalle proposizioni già dimostrate nelle definizioni precedenti sono rigorosamente dimostrate le proposizioni accuratamente determinate per quanto concerne il soggetto e il predicato. Ovunque è scrupolosamente osservata quella regola, in modo che siano premesse quelle nozioni da cui le altre sono comprese e dimostrate. Chi, dunque, non vede che le regole del metodo matematico sono le stesse di quelle del metodo filosofico? La disputa sul metodo filosofico

Il fondamento del sistema: la logica

L’ontologia e le altre discipline filosofiche

Causalità, immortalità dell’anima, teologia razionale

I problemi con l’ortodossia religiosa

La filosofia pratica e il dispotismo illuminato

Nella disputa che si scatena sul metodo filosofico, Wolff è il primo e principale rappresentante della corrente che si schiera a favore dell’uso del metodo della matematica in filosofia. La disputa va avanti a lungo, tanto che ancora dopo la metà del secolo l’Accademia delle scienze prussiana indirà un concorso sull’argomento al quale parteciperanno i maggiori filosofi dell’epoca, inclusi Mendelssohn (vedi p. 634 s.), che risulterà il vincitore, e Kant, che con il suo scritto Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale (1762) prenderà posizione contro il metodo matematico in filosofia. A fondamento del sistema della filosofia – che viene esposto in una serie di manuali sia in tedesco sia, successivamente, in latino – Wolff pone la logica con i suoi due principi fondamentali (derivati da Leibniz; vedi Unità 5, p. 283 s.): il principio di non contraddizione e il principio di ragione sufficiente. Stando al primo, tutto ciò che implica contraddizione risulta falso; mentre il secondo principio asserisce che nessun fatto può accadere senza che vi sia una ragione che lo determini a quel modo. La filosofia è scienza del possibile, ossia di ciò che è logicamente possibile, non-contraddittorio, come struttura universale della realtà. Il sistema filosofico di Wolff prende le mosse dalla filosofia teoretica. Questa è formata dalla ontologia, che è la scienza dell’essere in generale, e dalle altre discipline filosofiche particolari che sono la cosmologia razionale, la psicologia razionale e la teologia razionale; esse studiano gli oggetti generali della metafisica: il mondo, l’anima e Dio. Per quanto riguarda il mondo, esso è ordinato dal principio di ragione sufficiente, il cui ambito di applicazione non riguarda dunque soltanto la logica; stando a tale principio ogni evento è l’effetto di una causa precedente, una tesi che procurerà a Wolff l’accusa di determinismo, cioè di non lasciare spazio per la libertà del volere (se tutto ciò che accade ha una causa da cui segue necessariamente come effetto, anche ogni azione è determinata da una causa antecedente). L’anima è immortale, mentre, per quanto riguarda Dio, Wolff accetta tutte le prove tradizionali della sua esistenza, e ritiene non solo che non ci sia conflitto tra filosofia e religione, ma che la teologia rivelata contenuta nella Bibbia non contrasti con la teologia razionale della filosofia. Queste tesi non devono però far pensare a una posizione ortodossa di Wolff: lo dimostra il fatto che le sue teorie sulla possibilità di un’etica indipendente dalla religione provocheranno, per le accuse dei pietisti, il suo allontanamento dall’università di Halle, dove potrà tornare soltanto nel 1740, per intervento di Federico II di Prussia, il cosiddetto «re filosofo». Nella filosofia pratica, che si fonda sul diritto naturale inteso come diritto oggettivo e razionale quanto le verità della matematica, il sistema wolffiano prevede le discipline dell’etica, dell’economica e della politica. Il fine dell’uomo è la feli631

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cità, che si fonda sul principio di perfezione per cui si deve fare ciò che contribuisce alla propria perfezione. Nella politica Wolff è un sostenitore del dispotismo illuminato, rappresentato proprio da Federico II di Prussia. Lo Stato ha origine da un contratto, e oltre ai diritti naturali dell’uomo esso deve promuovere la felicità dei propri cittadini, il benessere comune, proprio grazie a un sovrano «illuminato» che provveda in modo paternalistico ai propri sudditi. Il contributo di Wolff Il sistema filosofico di Wolff non è originale, ma costituisce un notevole sforzo di alla filosofia sistemazione complessiva del sapere filosofico, che ha una certa influenza anche fuori dalla Germania: lo dimostra il fatto che anche alcuni articoli della Enciclopedia francese risentono direttamente della sua influenza. Critici aspri di Wolff come Kant o Hegel, poi, di statura filosofica ben maggiore, gli riconosceranno infatti un valore proprio per la ricerca di una coerenza sistematica. Wolff e il «sistema della filosofia»

Filosofia teoretica:

Filosofia pratica:

1) ontologia 2) discipline filosofiche particolari: – cosmologia razionale (mondo) – psicologia razionale (anima) – teologia razionale (Dio)

– etica (norme morali) – economica (produzione e proprietà) – politica (Stato e istituzioni) ➞ principi del diritto naturale

➞ principio di ragione sufficiente

Logica (basata sui principi di non-contraddizione e di ragione sufficiente) In ogni ambito vale l’applicazione del metodo matematico, basato su principi e su dimostrazioni rigorosi

4

Wolffiani e antiwolffiani. Crusius

Wolff ha un notevole successo nell’insegnamento universitario anche attraverso le opere dei suoi diretti seguaci. Gran parte della manualistica universitaria più diffusa, infatti, si muove sulla sua scia, dando luogo anche a sviluppi di un certo interesse su aspetti particolari. Baumgarten È particolarmente importante, nella scuola wolffiana, il contributo di Alexander e la nascita Gottlieb Baumgarten (1714-1762), i cui manuali verranno adottati da Kant per le dell’estetica sue lezioni. Con Baumgarten nasce anche il termine «estetica» (dal greco àisthesis, «sensazione») per indicare la scienza del bello e del gusto, e la stessa disciplina dell’estetica come disciplina autonoma: egli pubblica tra il 1750 e il 1758 una Estetica come scienza delle funzioni conoscitive inferiori che riguarda la rappresentazione sensibile e che ha la sua perfezione nella bellezza.

Il successo di Wolff

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Unità 13 L’Illuminismo in Italia e in Germania Lambert e il Nuovo Organo. La critica a Wolff

La fenomenologia come dottrina della percezione

Gli antiwolffiani: il ruolo di Crusius

Una posizione particolare, nel dibattito sulla filosofia di Wolff, è assunta dal matematico, fisico e filosofo Johann Heinrich Lambert (1728-1777). Con la sua opera principale, il Nuovo Organo (1764) Lambert rileva infatti l’astrattezza dei principi logico-formali di Wolff quando con questi si voglia comprendere e classificare la realtà. Egli intende allora «correggere» l’impianto di Wolff, che è da accettare per il rigore logico, con l’aiuto del Saggio sull’intelletto umano di Locke e quindi con una maggiore attenzione per la componente sensibile della conoscenza. Il Nuovo Organo contiene anche una «fenomenologia» come «dottrina della parvenza» (dal greco fàinomai, «apparire») della percezione sensibile che deve essere organizzata in concetti semplici (estensione, solidità e movimento): l’uso del termine «fenomenologia» è il precedente più prossimo, e la probabile fonte, dell’utilizzo che ne farà Hegel in una delle sue opere maggiori, la Fenomenologia dello spirito (1807). I principali critici di Wolff si ispirano alla filosofia di Thomasius, alla sua attenzione per la conoscenza sensibile, per i limiti della conoscenza umana e per la vita pratica. Il maggiore rappresentante di questo indirizzo è Christian August Crusius, che avrà una notevole influenza anche sulla formazione del pensiero di Kant.

La vita e le opere Christian August Crusius nacque a Leuna, in Sassonia, nel 1715. Si formò all’università di Lipsia, dove nel 1750 ottenne la cattedra di teologia. Nel 1744 pubblicò un’opera di filosofia morale, Avviamento alla vita razionale, nella quale sviluppò una difesa della libertà del volere in chiave anti-razionalistica, manifestando molto presto il proprio approccio ortodosso alla religione. La sua opera filosofica principale, tuttavia, è Abbozzo delle verità di ragione necessarie, e il modo in cui si contrappongono a

quelle contingenti, che uscì nel 1745. Nel 1747 Crusius pubblicò una seconda opera in cui venivano affrontati problemi di logica ed epistemologia: La via per la certezza e l’attendibilità della conoscenza umana; in entrambi questi lavori Crusius muoveva delle critiche sia a Leibniz che a Wolff sul concetto di verità e sul principio di ragione sufficiente, in chiave anti-deterministica. Tali critiche ebbero un’influenza sul pensiero di Kant, il quale citò spesso Crusius nelle sue opere (sia di carattere teoretico che morale). Crusius morì a Lipsia nel 1775.

Il tema dei limiti della ragione ha in Crusius una forte impronta religiosa, che collega la limitatezza della mente umana con la sua finitezza. Crusius condivide il primato della volontà sostenuto da Thomasius: mosso da interessi morali, egli è uno degli alfieri della difesa della libertà del volere di fronte ai rischi del determinismo della tradizione wolffiana, come emerge dal suo scritto Sull’uso e i limiti del principio di ragione determinante, detto comunemente sufficiente, pubblicato nel 1743. I rischi Se tutto ciò che accade ha una ragione sufficiente, cioè una causa, tutto ha una del determinismo ragione determinante, ovvero una causa che lo determina, e l’intero universo degli eventi è dominato dalla necessità. Questa necessità universale sopprime la libertà umana necessaria per la moralità e per la religione, e quindi la possibilità di parlare di colpa e di imputazione morale.

I limiti della ragione umana e la difesa del libero arbitrio

T4

Causalità e moralità

C.A. Crusius, Sull’uso e i limiti del principio di ragione determinante, 5,7-9

La natura e, in modo ancor più completo, la religione rivelata ci insegnano che nell’uomo si dànno la libertà, la legge, la colpa, l’imputazione, le virtù, i vizi, le ricompense e le punizioni; che però Dio è giusto e buono; che detesta e punisce la malvagità; che non punisce alcuno se non per qualcosa per cui egli stesso si è procurato una vera colpa […]. Proviamo a vedere quale significato assumerebbero tali concetti se si ammettesse il principio di ragione determinante […]. La libertà sarà quella condizione di un soggetto in cui le cause determinanti sono rappresentate contemporaneamen633

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te da un intelletto razionale. La legge sarà una regola che spiega la successione di quelle ragioni determinanti mediante cui è promossa la perfezione di una sostanza razionale. La colpa consisterà nella presenza, in un soggetto, di ragioni che lo determinano al male. L’imputazione sarà il giudizio che questa o quella cosa avviene o è avvenuta in un certo soggetto. La virtù sarà la determinazione di uno spirito a procurarsi i mezzi per conseguire la sua perfezione. Il vizio sarà la determinazione a fare ciò che è contrario alla perfezione. Le ricompense e le punizioni saranno effetti naturali e inevitabili delle ragioni che determinano a questa o a quell’azione: effetti che sono necessari e inevitabili come l’essenza di tutte le cose […]. Da ciò non consegue che Dio non può riprovare alcun peccato? Infatti come può biasimare qualcosa che è inevitabile nelle cose che egli crea e la cui creazione stessa non può essere evitata? Crusius: ragione sufficiente e responsabilità umana

5 Illuminismo tedesco e Illuminismo europeo

Il nuovo indirizzo dell’Accademia prussiana delle scienze

La nascita della «filosofia popolare»

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Natura e rivelazione mostrano che l’uomo è libero e perciò responsabile delle proprie azioni di fronte a Dio e agli uomini

Ma allora è da rifiutare l’ipotesi, secondo cui tutto ciò che accade è determinato da una ragione sufficiente

Quindi l’uomo non può essere considerato responsabile delle proprie azioni; il che contraddice la tesi

Ipotesi: Tutto accade secondo il principio di ragione sufficiente

Allora anche l’intelletto razionale è mosso, nelle scelte che fa, da una serie di cause determinanti che lo muovono a certe azioni

Dunque tanto le azioni virtuose quanto quelle riprovevoli risultano necessarie e determinate

La «filosofia popolare» Nella seconda metà del Settecento, la discussione filosofica assume in Germania caratteri nuovi. Il dibattito perde il tono accademico dei decenni precedenti e tiene conto anche delle contemporanee elaborazioni degli altri Paesi europei: torna così a farsi viva l’esigenza di collegamento tra vita intellettuale e intervento nella vita pratica che si era vista con Thomasius, e il pensiero filosofico si diversifica in molte direzioni, con un certo eclettismo. A questo orientamento contribuiscono le traduzioni di molte opere dell’Illuminismo inglese e francese, che iniziano a circolare ampiamente, e la stessa direzione dell’Accademia prussiana delle scienze, affidata da Federico II a Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759), uno scienziato e filosofo francese che rappresenta in questi anni, insieme con la tradizione thomasiana e con Crusius, uno dei maggiori oppositori della filosofia «accademica» wolffiana. È in questo contesto che si sviluppa, a Berlino, la cosiddetta «filosofia popolare», che si affida al «sano intelletto umano» e ha i suoi maggiori rappresentanti nell’instancabile, ma filosoficamente modesto, Christoph Friedrich Nicolai (1733-1811), e soprattutto nel filosofo ebreo Moses Mendelssohn (1729-1786).

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Nonostante lo stile saggistico, Mendelssohn è un filosofo profondamente interessato alla metafisica, anche per l’influenza di Wolff. Egli offre contributi su molti temi, spaziando dall’estetica, al diritto, a questioni legate all’ebraismo. Mendelssohn cerca di dare una base razionale all’esistenza di Dio e all’immortalità dell’anima (con argomenti tratti dal dialogo platonico Fedone, in una riscrittura di esso pubblicata nel 1767). In ambito estetico, egli prosegue lo sforzo di Baumgarten per dare all’estetica un’autonomia rispetto alle altre discipline: la capacità di percepire il bello dipende da una terza facoltà che si affianca all’intelletto e alla volontà, il sentimento. Religione e Stato Sostenitore della tolleranza religiosa, Mendelssohn affronta in Gerusalemme, o sul potere religioso e sul giudaismo (1783) il problema del rapporto tra Stato e religione: in ambito religioso è necessaria la più grande libertà di coscienza, che deve essere difesa dallo Stato.

L’eclettismo filosofico di Mendelssohn

6 Il movimento dei «neologi»

Spalding e la «destinazione dell’uomo»

➥ Laboratorio di lettura, p. 825

Reimarus e la sua opera postuma

La critica delle Sacre Scritture

Lessing e la promozione di una cultura borghese nazionale

Il rinnovamento della teologia. Lessing Uno dei tratti rilevanti dell’Illuminismo tedesco è la riflessione sulla religione e il rinnovamento della teologia: quest’ultimo ha luogo in particolare con il movimento dei «neologi» («nuovi teologi»), che promuovono una rinnovata stagione di studi critici sulla Bibbia, in particolare con Johann Salomo Semler (1725-1791). Un rappresentante di spicco della neologia è Johann Joachim Spalding (17141804), autore di uno dei testi editorialmente più fortunati della Aufklärung, la Destinazione dell’uomo, che arriva ad avere ben undici edizioni tra il 1748, anno della sua pubblicazione, e il 1794. Il concetto di «destinazione dell’uomo», diffuso in seguito all’opera di Spalding, diventa una delle nozioni-chiave dell’Illuminismo in Germania. Nata in polemica con il materialismo, questa espressione intende dare un significato morale e religioso all’esistenza dell’uomo e ai compiti che deve assolvere. L’espressione ha una grande fortuna, e viene discussa e utilizzata da Mendelssohn, da Kant e soprattutto da Fichte, anch’egli autore di un libro dallo stesso titolo (pubblicato nel 1800). La critica della religione positiva ha il momento più importante in Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), autore di un’Apologia o difesa degli adoratori razionali, mai pubblicata in vita dall’autore, che si presentava come un tranquillo professore di ginnasio di Amburgo. A pubblicare parte del testo di Reimarus penserà Lessing, tra il 1774 e il 1778 (col titolo Frammenti di un anonimo), che ne riceve il testo dalla figlia di Reimarus. Gli strumenti intellettuali di Reimarus sono, da un lato, il deismo di origine inglese, dall’altro, i risultati degli studi biblici. Reimarus vede nell’Antico Testamento il libro che rende conto della religione soltanto del popolo ebraico e manca di qualunque cenno all’immortalità dell’anima e all’ipotesi di un aldilà. Ancora più pericolose sono le tesi di Reimarus sul Nuovo Testamento e la figura di Gesù: questi era in realtà un personaggio della storia politica ebraica che solo con l’azione divulgatrice degli apostoli diventa il fondatore di una religione universale e positiva. Lessing, che pubblica gli scritti di Reimarus fingendo di averli ritrovati nella biblioteca di Wolfenbüttel – dove Lessing è bibliotecario dal 1770 – è uno dei personaggi più significativi del Settecento tedesco. Autore di drammi e commedie, studioso di estetica, Lessing promuove con la sua attività pubblicistica e lettera635

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ria la formazione di un teatro nazionale tedesco. Il suo primo grande successo teatrale – Miss Sara Sampson. Una tragedia borghese in cinque atti – mostra una nuova concezione del teatro, che rappresenta appunto il mondo borghese, in polemica con l’idea che il teatro fosse destinato a rappresentare le «teste coronate». Le passioni dei personaggi della tragedia non devono riguardare principi ed eroi, ma persone affini, di condizione simile allo spettatore, cioè gli uomini e le donne comuni, «borghesi».

La vita e le opere Gotthold Ephraim Lessing nacque a Kamenz, in Sassonia, nel 1729. Dopo aver frequentato la scuola di latino e il ginnasio nella città natale, si iscrisse alla facoltà di teologia e medicina dell’università di Lipsia, ma dopo due anni interruppe gli studi per recarsi a Berlino, dove conobbe Voltaire, che ebbe un ruolo determinante per la riflessione di Lessing sulla religione. Dal 1751 lavorò come redattore e recensore e conobbe Moses Mendelssohn. Nel 1755 Lessing tornò a Lipsia, ma ben presto iniziò un periodo di lunghi viaggi. Nel 1758 tornò a Berlino, dove fondò – assieme a Friedrich Nicolai e Mendelssohn – il giornale letterario «Briefe, die neueste Literatur betreffend» («Lettere sulla letteratura più recente»). Nel 1766 venne pubblicata la sua opera di estetica Laocoonte. Nel 1767 ricevette un incarico come drammaturgo e consigliere presso il Teatro Nazionale di Amburgo. In questi anni venne rappresentata la sua commedia drammatica Minna von Barnhelm (1767) e Lessing conobbe la sua futura moglie, Eva König. Dal 1770 lavorò come bibliotecario nella cittadina di Wolfenbüttel, in bassa Sassonia. È lì che Lessing finse di aver rinvenuto un manoscritto che fece

pubblicare col titolo Frammenti di un anonimo; si trattava in realtà di una parte dell’opera di Reimarus Apologia o difesa degli adoratori razionali (mai pubblicata dall’autore) in cui veniva difeso un approccio deista alla religione. Dal 1775 il suo lavoro di bibliotecario venne interrotto da numerosi spostamenti. Del 1775 è la commedia teatrale di ambientazione borghese Miss Sara Sampson. Nel 1776 sposò Eva König e la sera di Natale del 1777 la donna dette alla luce un bambino, che però morì il giorno seguente. Dopo pochi giorni morì la moglie stessa, a causa delle complicazioni del parto. Dal 1779 la salute di Lessing iniziò a peggiorare. In quello stesso anno venne rappresentata la sua opera teatrale più famosa (di argomento religioso), Nathan il saggio. Nel 1780 venne data alle stampe L’educazione del genere umano, che ebbe grande risonanza all’interno del dibattito filosofico sulla religione. Nel 1781 – anno della prima edizione della Critica della ragion pura di Kant – Lessing morì a Braunschweig. Tra i lavori di carattere filosofico sono da ricordare anche: Il cristianesimo della ragione (1753); Sulla genesi della religione rivelata (1753-1755); Sulla prova dello spirito e della forza (1777); Dialoghi per massoni (1780).

Fin dalla giovinezza Lessing si dedica però anche all’analisi critica delle religioni positive, un tema che sta al centro della sua ultima e maggiore opera teatrale, Nathan il saggio (1778), dove l’ebreo Nathan (nel quale molti interpreti hanno visto rappresentato Mendelssohn, il filosofo ebreo suo amico) racconta al Saladino la favola dei tre anelli. Questi rappresentano le tre grandi religioni monoteistiche – giudaismo, cristianesimo e islamismo – ma in realtà tutte e tre sono soltanto l’imitazione dell’unico vero anello perduto, la genuina religione naturale e razionale. Educazione individuale L’analisi critica della religione da parte di Lessing trova un compimento nel suo e rivelazione collettiva capolavoro filosofico, L’educazione del genere umano, pubblicato anonimo: qui la critica della religione viene inserita in una prospettiva di filosofia della storia di tipo morale. Lo sviluppo della religione consiste in una progressiva educazione morale del genere umano, poiché ciò che l’educazione è per il singolo lo è la rivelazione per l’intero genere umano. La critica delle religioni positive: Nathan il saggio

T5

Religioni positive e storia umana G.E. Lessing, L’educazione del genere umano

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Voglio dire: perché non vedere in tutte le religioni positive nient’altro che il cammino secondo cui unicamente era possibile, in ciascun luogo, lo sviluppo dell’intelligenza umana e secondo cui questo sviluppo ancora deve continuare, piuttosto che irridere o inveire contro una di esse? Nulla, nel migliore dei mondi, merita questo nostro scherno o disdegno: dovrebbero meritarlo soltanto le religioni? La mano di Dio sarebbe presente ovunque, tranne che nei nostri errori?

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La religione ebraica rappresenta l’infanzia dell’umanità, di un’umanità ancora bisognosa di premi e di castighi immediati, sensibili, proprio come il bambino che ha bisogno di un’autorità diretta; ma come è un errore far rimanere il bambino in questa condizione, così sarebbe stato un errore far rimanere l’umanità in una condizione in cui la moralità fosse legata a premi e castighi terreni. È allora necessario un «pedagogo migliore», che è Gesù Cristo. Il cristianesimo Cristo, con il suo insegnamento, fa leva su moventi più nobili e più alti, rappresencome adolescenza tati dalla prospettiva di una vita dopo la morte, ed è così che egli diventa il primo dell’umanità maestro attendibile e soprattutto, «pratico», cioè morale. L’insegnamento di Gesù fa sì che si debbano conformare le proprie azioni interne ed esterne, e quindi anche la propria interiorità, ai principi morali: è in questo modo che si ottiene una religione fondata sulla intima «purezza del cuore». Il cristianesimo è così la religione dell’adolescenza del genere umano. Ma anche questa è una fase del genere umano che deve essere superata: anche il Nuovo Testamento si rivela, a un certo grado dello sviluppo dell’umanità, un libro «antiquato». Ciò che oggi si annuncia è quindi «l’epoca di un nuovo Vangelo eterno», in cui la moralità sarà premio a se stessa.

L’ebraismo come infanzia dell’umanità

T6

Il nuovo Vangelo eterno G.E. Lessing, L’educazione del genere umano, parr. 85-86

Verrà, verrà certamente il tempo del compimento in cui l’uomo, quanto più il suo intelletto si sente persuaso di un futuro sempre migliore, tanto meno avrà bisogno di mutuare da questo futuro i moventi per le sue azioni; il tempo in cui farà il bene per il bene, e non perché premiato da arbitrarie ricompense le quali erano comunque destinate soltanto a fermare e fortificare il suo sguardo irrequieto, al fine di riconoscere le intime migliori ricompense del bene stesso […]. Verrà certamente l’epoca di un nuovo Vangelo eterno.

L’interpretazione lessinghiana del progresso è quella di un progresso morale tanto del genere umano quanto degli individui, nel quale si relativizza la funzione della religione in vista del perfezionamento individuale e collettivo: la critica della religione si salda quindi con la prospettiva illuministica del progresso e del divenire storico dell’umanità. Il tramonto La parabola della Aufklärung si chiude in sostanza con la morte di Lessing (1781). dell’Illuminismo È di questi anni il dibattito, nella «Rivista mensile berlinese», sulle nozioni stestedesco se di «Illuminismo» o «Rischiaramento»: si tratta di un dibattito al quale partecipano molti personaggi prestigiosi, tra i quali Kant, con lo scritto del 1784 Ri➥ Laboratorio di lettura, sposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?. Con Kant, che nel 1781 aveva pubp. 731 blicato la Critica della ragion pura, si apre uno dei capitoli principali della tradizione filosofica occidentale, destinato a improntare di sé non soltanto l’Ottocento – con gli esiti dell’Idealismo tedesco – ma anche le riflessioni filosofiche sulla co➥ Sommario, p. 639 noscenza e sulla morale che prenderanno campo nel corso del Novecento. Religione e perfezionamento collettivo

Lessing: religione e progresso morale

Religione ebraica

Cristianesimo

Nuovo Vangelo eterno

Infanzia del genere umano

Adolescenza del genere umano

Maturità del genere umano

L’umanità ha bisogno di premi e castighi terreni (sensibili) per la propria condotta morale

L’umanità ha bisogno di moventi ultraterreni, (come la vita dopo la morte) e i precetti morali assumono carattere interiore

L’umanità diventa capace di compiere il bene per il bene, senza cercare ricompense al di fuori di esso. L’azione morale non tende più a qualcosa di altro da sé

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Parte seconda Il secolo dei lumi Suggerimenti bibliografici Per l’Illuminismo italiano, il punto di riferimento è la grande opera di F. Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino 1969-1990, 5 voll. La rivista «Il Caffè» è stata ripubblicata a cura di G. Francioni e S. Romagnoli: «Il Caffè» 17641766, Bollati Boringhieri, Torino 2005. Su Pietro Verri e sull’interesse di Kant per la sua dottrina del piacere: P. Verri - I. Kant, Sul piacere e sul dolore. Immanuel Kant discute Pietro Verri, a cura di P. Giordanetti, Unicopli, Milano 1998. Per Beccaria, vedi E. Biagini, Introduzione a Beccaria, Laterza, Roma-Bari 1990, e il volume collettivo Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Cariplo-Laterza, Milano-Roma-Bari 1990. Per gli aspetti filosofici, vedi G. Zarone, Etica e politica nell’utilitarismo di Cesare Beccaria, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1971. Sull’Illuminismo tedesco è utile innanzitutto l’antologia curata da R. Ciafardone, L’Illuminismo tedesco, Loescher, Torino 1983, con il volume dello stesso autore L’Illuminismo tedesco. Metodo filosofico e premesse etico-teologiche, Il Velino, Rieti 1978, e la monografia di N. Merker, L’Illuminismo tedesco, Laterza, Bari 1974. Per il rapporto tra filosofia e religione, vedi B. Bianco, Fede e sapere. La parabola dell’«Aufklärung» tra pietismo e idealismo, Morano, Napoli 1992. Su aspetti specifici, anche in riferimento alla formazione del pensiero di Kant, è di grande interesse la raccolta di lavori di G. Tonelli, Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, Prismi, Napoli 1987. Per il pietismo, vedi B. Bianco, Motivi pietistici nel pensiero dell’età di Goethe, Pubblicazioni della Facoltà di Magistero, Trieste 1976. Per Thomasius vedi F. Battaglia, Thomasio filosofo e giurista, Clueb, Bologna 1982. Per Wolff vedi M. Campo, Christian Wolff e il razionalismo precritico, Vita e Pensiero, Milano 1939, 2 voll., e la raccolta di saggi curata da S. Carboncini e L. Castaldi Madonna, Nuovi studi sul pensiero di Christian Wolff, numero monografico di «Il cannocchiale», 1989, nn. 2-3. Per Lambert vedi R. Ciafardone, J.H. Lambert e la fondazione scientifica della filosofia, Aralia, Urbino 1975. Per Lessing, un lavoro introduttivo d’insieme è N. Merker, Introduzione a Lessing, Laterza, RomaBari 1991. Una scelta del materiale del dibattito su «che cos’è l’Illuminismo» è raccolta in I. Kant, Che cos’è l’Illuminismo?, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1991.

I brani antologizzati sono tratti da: C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, in Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, a cura di L. Firpo e G. Francioni, Mediobanca, Milano 1984. C. Thomasius, Fondamenti del diritto di natura e delle genti, trad. in L’Illuminismo tedesco, a cura di R. Ciafardone, Loescher, Torino 1983. C. Wolff, Filosofia razionale o Logica, trad. in L’Illuminismo tedesco, cit. C.A. Crusius, Sull’uso e i limiti del principio di ragione determinante, detto comunemente sufficiente, trad. in L’Illuminismo tedesco, cit. G.E. Lessing, L’educazione del genere umano, trad. in La religione dell’umanità, a cura di N. Merker, Laterza, Roma-Bari 1991. Il brano di Thomasius citato a p. 629 è tratto da C. Thomasius, Esercizio della dottrina dei costumi, trad. in L’Illuminismo tedesco, cit.

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Unità 13 L’Illuminismo in Italia e in Germania

Sommario 1. L’ILLUMINISMO

IN ITALIA

Il movimento illuministico italiano attinge idee e modelli prevalentemente dal pensiero francese e inglese e ha i suoi maggiori centri a Napoli e a Milano. Nonostante l’eclettismo che caratterizza la riflessione di gran parte degli illuministi italiani, una costante della loro attività intellettuale è l’interesse verso temi etici, giuridici e politici, in una prospettiva moderata di rinnovamento sociale e culturale. A Napoli Giannone critica il potere politico della Chiesa, mentre Genovesi e Filangieri promuovono a loro volta istanze di rinnovamento. Genovesi propugna una rivalutazione della riflessione critica sull’economia, vista come il principale strumento per migliorare le condizioni di vita degli individui; Filangieri elabora una scienza legislativa volta a razionalizzare le istituzioni giuridiche e riformare l’istruzione pubblica sulla base di alcune idee pedagogiche di Rousseau. [par. 1] A Milano i fratelli Verri e Beccaria fondano la rivista «Il Caffè», organo ufficiale dell’Accademia dei Pugni, centro di discussione e di diffusione delle idee illuministiche. Pietro Verri si fa sostenitore di un ideale di virtù come equilibrio tra desideri e possibilità di realizzarli, in un’ottica di sostanziale fiducia nei confronti del progresso civile. Beccaria, autore del celebre Dei delitti e delle pene, opera una serie di riflessioni – destinate ad avere largo seguito – in merito ad alcuni temi centrali del diritto penale. Egli distingue nettamente tra peccato e delitto, sostenendo che soltanto il secondo è parte del dominio del diritto, laddove il primo rientra nell’ambito della religione. Elabora inoltre una moderna concezione della natura e della funzione della pena, vista come strumento essenzialmente preventivo. Nello stesso contesto egli adduce diversi argomenti anche contro la pratica della tortura e la pena di morte, una battaglia per la quale la sua opera avrà grande successo. [par. 2] 2. L’ILLUMINISMO

IN

GERMANIA

La Aufklärung tedesca, che si delinea già alla fine del XVII secolo, ha tratti peculiari rispetto all’Illuminismo degli altri Paesi europei: essa è infatti una filosofia prevalentemente universitaria, ha scarsi rapporti con il pensiero scientifico, si alimenta in parte del deismo europeo e del nascente pietismo. [par. 1] Si può guardare all’Illuminismo tedesco come suddiviso in due fasi: la prima dominata dalle figure di Thomasius e Wolff, la seconda da quella di Lessing. Thomasius, che per primo tiene lezioni in tedesco anziché

in latino, opera una critica serrata della filosofia accademica del tempo e dell’astrattezza della metafisica. Egli vi contrappone una filosofia di ispirazione pratica, che promuova un autentico progresso sociale, culturale e morale. Secondo Thomasius vi è un primato della volontà sull’intelletto, e quindi della sfera pratica sulla sfera teoretica. [par. 2] Wolff, muovendosi in direzione opposta rispetto a Thomasius, elabora una filosofia di ispirazione leibniziana. Egli si sforza di costruire un sistema della filosofia che copra i principali ambiti del sapere. Nel fare ciò assume come modello di rigore il sapere matematico, del quale asserisce l’identità di metodo con la filosofia. A fondamento del sistema della filosofia Wolff pone la logica, basata sui principi di non contraddizione e di ragione sufficiente. Il sistema è suddiviso in filosofia teoretica e pratica. La prima comprende l’ontologia, intesa come studio dei caratteri generali dell’essere, la cosmologia razionale, la psicologia razionale e la teologia razionale. La filosofia pratica è basata sul diritto naturale e include etica, economica e politica. In ambito politico Wolff sostiene il dispotismo illuminato. [par. 3]

Tra i wolffiani più illustri sono da ricordare Baumgarten (fondatore dell’estetica come disciplina autonoma) e il «critico» Lambert (che utilizza tra i primi il concetto di «fenomenologia»). Tra i critici di Wolff di maggiore rilievo è da ricordare Crusius, che pone l’accento sui limiti della ragione umana (influenzando sotto questo aspetto lo stesso Kant) e sul primato della volontà rispetto all’intelletto, in un’ottica anti-deterministica. [par. 4] Nella seconda metà del Settecento l’Illuminismo tedesco subisce una trasformazione che deriva anche dalla diffusione delle idee francesi e inglesi; si è parlato, a questo proposito, di «filosofia popolare». Esponenti di tale orientamento sono Nicolai e Mendelssohn. Quest’ultimo si mette in luce per il suo ricco eclettismo filosofico. [par. 5] L’Illuminismo tedesco promuove un profondo rinnovamento teologico anche attraverso la critica della religione positiva e il movimento dei cosiddetti «neologi». Con Lessing (filosofo e drammaturgo) la riflessione filosofica sulla religione diventa una filosofia della storia interpretata in prospettiva pedagogica: le grandi religioni sono tappe della crescita morale del genere umano, che raggiungerà piena maturità soltanto con il «nuovo Vangelo eterno», una sorta di religione razionale in cui si agirà per il bene in se stesso. [par. 6]

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Parole chiave Aufklärung. In tedesco il termine significa, alla lettera, «rischiaramento». È entrato nell’uso filosofico e storico per indicare il movimento illuministico tedesco con i suoi tratti peculiari. Dispotismo illuminato. Forma politica caratterizzata da una forte autorità sovrana che si occupa del benessere dei cittadini, come sostenuto da Christian Wolff in riferimento esplicito a Federico II di Prussia. Metodo matematico. In riferimento al sistema filosofico elaborato da Wolff, l’espressione indica una modalità espositiva e argomentativa mutuata dalla matematica per essere applicata alle trattazioni filosofiche. Tale modalità prevede che ogni proposizione filosofica consista o in assiomi autoevidenti, o in postulati assunti come veri, oppure che venga derivata come teorema a partire da tali assiomi e postulati mediante l’applicazione di regole di inferenza la cui certezza è al di là di ogni dubbio. Pena. Concetto affrontato in particolare da Cesare Beccaria. Secondo quest’ultimo la pena ha funzione

essenzialmente preventiva (suo scopo non è il tormento del colpevole) e in questo consiste la sua utilità sociale. Non è tanto importante la sua intensità (essa deve essere commisurata al delitto commesso) quanto la sua certezza. Pietismo. Movimento religioso fondato in Germania alla fine del Seicento da Philipp Joseph Spener. Esso propugna un ritorno agli elementi originari del luteranesimo, concentrandosi soprattutto sul libero esame dei testi sacri, dei quali si fa una lettura collettiva, e sull’importanza della vita interiore e della coscienza morale. Religione positiva. Con questo termine viene indicata, nel corso del lungo dibattito filosofico sulla religione dei secoli XVII-XVIII, ogni religione storicamente determinata (ebraismo, cristianesimo, islam ecc.), generalmente basata su testi sacri che «rivelano» Dio all’uomo. Per questo è detta anche religione «rivelata». Si contrappone alla religione «naturale» (sostenuta da molti intellettuali illuministi), che guarda a Dio unicamente attraverso la ragione.

Questionario L’ILLUMINISMO 1

2

IN ITALIA

Quali sono i principali tratti che caratterizzano l’Illuminismo italiano? (max 5 righe)

Lavoriamo sui testi 8

Quale immagine del rapporto tra il «corpo del reo» e gli «animi degli uomini» emerge dalla discussione che Beccaria propone in T1? (max 4 righe)

9

Nel brano riportato in T3 Wolff sostiene che, di fatto, matematica e filosofia si basano sullo stesso metodo rigoroso. Ricostruisci la sua argomentazione. (max 6 righe)

Su che cosa si fonda la distinzione tra peccato e delitto formulata da Beccaria? (max 5 righe)

L’ILLUMINISMO

IN

GERMANIA

3

Quali sono i caratteri distintivi della Aufklärung tedesca in rapporto all’Illuminismo degli altri Paesi europei? (max 5 righe)

4

Che atteggiamento assume Thomasius nei confronti della lingua latina, e perché? (max 4 righe)

10

Sapresti ricostruire i momenti principali dell’argomento di Crusius contro il principio di ragione sufficiente in T4? (max 6 righe)

5

Come concepisce Wolff la filosofia e quale articolazione interna dà a questa disciplina? (max 6 righe)

11

Che rapporto viene stabilito da Lessing tra intelligenza umana e religione in T5? (max 4 righe)

6

Su quali punti si concentra maggiormente la critica di Crusius a Wolff? (max 5 righe)

7

Quali sono i tratti caratteristici del rinnovamento teologico che investe la Germania alla fine del XVIII secolo? (max 6 righe)

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Unità 14 Kant

1. Kant e il suo tempo 1. L’età della critica 2. Un filosofo cosmopolita 3. Il «sonno dogmatico»

2. La conoscenza e la metafisica: la ragion pura 1. Il progetto di una nuova organizzazione del sapere 2. La metafisica come problema 3. La domanda critica 4. Gli strumenti concettuali dell’indagine critica. La catena delle questioni 5. Alla ricerca della conoscenza pura: l’indagine critica e la sua articolazione 6. Le forme a priori della sensibilità: l’Estetica trascendentale 7. Il concetto di fenomeno 8. Le forme a priori dell’intelletto: l’Analitica trascendentale 9. La ragione in senso stretto: la Dialettica trascendentale 10. Oltre i fenomeni: l’orizzonte della ragion pratica

3. L’azione e la libertà: la ragion pratica 1. Gli strumenti concettuali della critica della ragion pratica: regole pratiche e imperativi 2. L’oggetto autentico della valutazione morale 3. Alla ricerca di un imperativo categorico 4. Libertà e autonomia 5. Virtù e felicità

4. Gli scopi della natura: la facoltà di giudizio 1. Un nuovo principio, una facoltà ripensata: la Critica della facoltà di giudizio 2. La facoltà di giudizio 3. Il piacere e le sue forme 4. La conformità a scopi nella natura organica 5. Gli scopi oltre la natura. Cultura e storia

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? ♦ Tesi a confronto: In Kant la realtà è indipendente dalla mente?

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Kant e il suo tempo

1 I testi

Critica della ragion pura: La ragione e la critica, T1 Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del

La voce di un’epoca

T1

La ragione e la critica

Critica della ragion pura, Prefazione alla prima edizione, nota

1 Una ragione libera e pubblica

L’idea di critica: distruzione e costruzione dei fondamenti

La consapevolezza critica come acquisizione definitiva

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bello e del sublime: Il conoscere e i diritti dell’umanità, T2

Il progetto filosofico di Kant si propone consapevolmente di dare voce a un’epoca, segnando allo stesso tempo un momento particolare dello sviluppo della ragione: quello in cui essa non soltanto rivendica la propria autonomia rispetto ad altre ‘autorità’, ma assume il compito di orientare l’intero corso della cultura e della vita umana. La nostra epoca è la vera e propria epoca della critica, cui tutto deve sottomettersi. Quelle che solitamente vogliono sottrarsi alla critica sono la religione, a motivo della sua santità, e la legislazione, a motivo della sua maestà: ma, così facendo, esse fanno sorgere contro se stesse un legittimo sospetto e non possono più rivendicare quel rispetto sincero che la ragione concede soltanto a ciò che ha saputo resistere al suo esame libero e pubblico.

L’età della critica È una ragione libera e pubblica quella che avanza queste pretese: e Kant indicherà nella libertà di comunicare pubblicamente i propri pensieri una condizione necessaria della stessa capacità di pensare. Il tribunale della ragione al quale l’epoca che si riconosce nell’Illuminismo vuole affidare ogni legittimità è, come egli scrisse una volta, «il gran consiglio della ragione umana»: la comunità degli esseri razionali cui è affidato l’esame, svincolato da ogni autorità e aperto a ognuno, della legittimità di ogni affermazione. «Critica» significa per Kant «una radicale valutazione del fondamento di ogni affermazione». Si tratta di un compito che è inscindibilmente distruttivo e costruttivo: deve condurre alla distruzione di fondamenti apparenti attraverso la ricerca di fondamenti solidi. L’idea di critica ha un senso solo se entrambi questi scopi vengono perseguiti: la ragione può essere fondamento di legittimazione se può allo stesso tempo indicare la propria legittimità. Questo tratto rappresenta per Kant l’aspetto caratterizzante della cultura della sua epoca, di un modo di pensare nuovo che va distinto dalla semplice quantità di conoscenze accumulate e dalla loro diffusione, motivi che pure la mentalità illuministica considerava centrali. Allo stesso tempo, l’idea di critica così intesa segna, per così dire, un punto teorico di non ritorno. Le epoche precedenti non avevano, agli occhi di Kant, questa consapevolezza; ma egli sostiene anche, in rapporto al

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Unità 14 Kant

Analisi dei fondamenti e distinzione dei saperi

Diversificazione dei linguaggi della ragione

L’unità possibile dei discorsi

L’autolimitazione della ragione

2 Una vita tranquilla

futuro, che «in questo difficilmente un’epoca futura potrà superarci»: la consapevolezza critica, una volta raggiunta, non può più esser persa. Qualunque epoca futura, anche se potrà considerare piccola la quantità di conoscenza posseduta nelle età precedenti, inclusa quella di Kant, non potrà, a suo giudizio, lasciarsi alle spalle questo standard: ciò significa che, una volta posta la questione critica, essa diventa – come progetto, almeno – un’acquisizione permanente. Sulla base della consapevolezza di stare interpretando un’esigenza del suo tempo e insieme un compito non confinato a un’epoca, Kant cerca di svolgere un’analisi, ampia e ambiziosa, dei fondamenti di ogni sapere o presunto tale. Un suo risultato centrale, che contribuirà a costituire la coscienza di sé anche di molti modi di pensare dei secoli successivi, un carattere di fondo della «ragione moderna», sarà la rottura di un’apparente e fittizia uniformità dei discorsi umani, attraverso la individuazione di forme diverse di discorso, diversi tipi di «affermazioni» dotate di distinte fonti di legittimità. Conoscenze scientifiche, conoscenze filosofiche, asserzioni morali, fedi religiose, valutazioni estetiche, prospettive politiche si rivelano forme di discorso che hanno regole e principi di legittimazione diversi, che – una volta riconosciuti – possono portare a modificare il loro senso, e a determinare con precisione l’ambito in cui ognuna di esse può conservare il senso che le è proprio. Nella prospettiva kantiana è la pretesa di una forma di discorso di invadere i confini delle altre a causare lo stallo e la confusione nella conoscenza. Il compito, avvertito da tutta un’epoca, di fare chiarezza su se stessa e sull’intero orizzonte della cultura umana può essere svolto, nell’interpretazione che Kant ne dà, cercando anzitutto di comprendere la divaricazione dei diversi linguaggi: in primo luogo quella tra la conoscenza scientifica affermatasi secondo il modello della scienza fisico-matematica della natura e i diversi generi di discorso che orientano l’azione e la vita umana: la morale, il diritto, la religione, l’arte. Questa nuova comprensione dei diversi linguaggi della ragione rappresenta per Kant la condizione per poter ripensare in modo diverso la loro convivenza pacifica, e per poter cioè intendere in modo diverso il compito della ragione: non come la fonte di un linguaggio unico, un tipo superiore di sapere che include in sé gli altri riconducendoli a un’unica matrice, ma come il progetto che regola le relazioni reciproche e l’unità possibile delle diverse forme di discorso umano. L’idea tradizionale della filosofia come superiore «regina delle scienze», ma anche quella – moderna – di una «matematica universale» (sostenuta in forme diverse da Cartesio e da Leibniz) come scienza che unifichi secondo il suo modello ogni forma di sapere, lascia il posto a una ragione che ha nel suo modo di procedere, pubblico e tendenzialmente universale, quindi sempre aperto a un autoesame rigoroso, il suo principio di orientamento. Questo comporta anche un’autolimitazione della ragione, l’indicazione dei suoi limiti e del modo in cui, rispettando la possibilità dell’esercizio libero e pubblico della ragione da parte di ognuno, altre forme di esperienza umana possono svolgersi.

Un filosofo cosmopolita La vita esteriore di Kant non è stata avventurosa. Sulla base di una certa immagine convenzionale di questo filosofo si è arrivati a ironizzare sulla impossibilità di raccontarne la biografia, di narrare la storia della vita di una persona che non 643

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Parte seconda Il secolo dei lumi

avrebbe avuto né vita né storia. In realtà la biografia di Kant – che è quella di un tipico professore universitario tedesco della sua epoca – dimostra come il numero di chilometri percorsi non è una misura né della conoscenza del mondo, né dell’influenza che si può esercitare su di esso. Il sapere come parte L’avventura intellettuale rappresentata dal suo percorso filosofico, in cui non essenziale della vita vi è nulla di ‘tipico’, è una vicenda che ha richiesto risolutezza e coraggio e che degli uomini non è rimasta slegata dalla vita di altri uomini. Kant stesso concepisce presto il suo compito intellettuale come non confinato all’interno della dimensione della conoscenza, consapevole, come riteneva l’Illuminismo (al quale Kant de➥ Laboratorio di lettura, dicò un famoso scritto, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, 1784), p. 731 che il sapere è qualcosa che incide profondamente nella vita degli uomini. In un’annotazione racconta egli stesso di aver maturato a un certo punto questa convinzione.

T2

Il conoscere e i diritti dell’umanità

Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime

Fondare i diritti dell’umanità

Un cosmopolita sedentario

Competenze e interesse per le scienze naturali

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Io stesso, per inclinazione, sono un ricercatore. Avverto, con forza, tutta la sete di conoscere, l’inquieto desiderio di andare avanti, ma anche la gioia di ogni acquisizione. C’è stato un tempo in cui ho creduto che soltanto questo potesse far onore all’umanità e ho disprezzato la plebe ignorante. Rousseau mi ha corretto. Questo accecante privilegio è scomparso: ho imparato a rispettare gli uomini e mi sentirei all’improvviso più inutile di un comune lavoratore se non credessi che questa considerazione possa conferire un valore a tutte le altre, in grado di costruire i diritti dell’umanità. In effetti, attraversando i problemi più vertiginosamente speculativi, la concettualità più astratta (egli stesso scrisse: «il mio cammino mi porta da prati fioriti e valli arcadiche ad aridi campi»), il percorso filosofico di Kant lo porta a fondare i diritti dell’umanità: non soltanto a interpretare la filosofia come qualcosa di connesso con gli interessi più profondi dell’uomo, ma anche a disegnare un progetto di convivenza pacifica fra tutti i popoli incentrato sulla libertà e fondato sulla ragione. Quella di Kant è la figura di un intellettuale cosmopolita in molti sensi. Per sua scelta, rifiutando chiamate di diverse università tedesche (Erlangen, Jena, Halle), non lascia mai – se non per brevi periodi e senza allontanarsene troppo – il suo punto di osservazione in Königsberg, città della Prussia orientale, oggi all’interno dei confini della Russia. E tuttavia la sua formazione culturale gli permette di acquisire una visione di ampio respiro, basata su conoscenze scientifiche, filosofiche e perfino geografiche di prim’ordine. Pur operando sempre come docente (e bibliotecario) – prima precettore privato, poi libero docente, infine professore universitario – le sue competenze vertono su molti campi. Nella sua carriera insegna logica, matematica, metafisica, geografia fisica, etica, meccanica, fisica, geometria, antropologia, diritto, teologia, pedagogia; ma, al di là dell’insegnamento, l’attività di studioso di Kant è caratterizzata da un precoce interesse per le scienze naturali. Tra i temi dei suoi primi scritti vi sono questioni di dinamica, di geologia, una teoria dell’origine fisica del mondo, una teoria dei venti, un saggio sul fuoco: non soltanto l’attenzione costante alla scienza della natura – in anni più tardi questioni di biologia e poi di chimica avranno un’importanza centrale – ma soprattutto l’adesione all’impostazione di Newton in fisica caratterizzano una parte rilevante della sua posizione intellettuale.

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Unità 14 Kant L’influenza di Rousseau, della metafisica leibniziana e di Hume

La difesa dell’Illuminismo e della ragione

Una rivoluzione filosofica

Un mutamento radicale anche per la politica e la religione

Un pensatore essenziale per la sua epoca

Una dimensione diversa ma altrettanto importante è quella segnata dall’influenza di Rousseau che abbiamo visto ricordata: lo studio anche empirico della natura umana, la prospettiva costituita dalla dimensione morale dell’uomo e quella dei diritti. Ma Kant si forma comunque in un ambito culturale in cui la dimensione della metafisica, sotto l’influsso della filosofia di stampo leibniziano, pure controversa, ha un ruolo importante, e se rappresenta per certi aspetti un freno e un elemento di chiusura – Kant stesso parlerà di un «sonno dogmatico» dal quale la lettura di un filosofo come Hume lo aveva risvegliato – lo costringe però a confrontarsi con questioni fondamentali e di vasta portata. Kant considera se stesso come un uomo dell’Illuminismo, che egli vede incentrato sull’idea del «pensare da sé», di un uso autonomo della ragione svincolata da tutori: un atteggiamento che richiede il coraggio di uscire da uno stato di «minorità» intellettuale. Questo coraggio egli lo mostra presto, scrivendo a ventidue anni, ancora studente, un saggio in cui cerca di trovare una soluzione allo scontro tra la posizione cartesiana e quella leibniziana in relazione alla questione della misura delle forze in natura. Al di là delle soluzioni proposte, è notevole la risolutezza che già ora mette in campo: il suo obiettivo è difendere «l’onore della ragione umana» senza tener conto dell’«autorità dei Isaac Newton e dei Leibniz, quando essa dovesse opporsi alla scoperta della verità». Arriva così a scrivere: «Dopo essersi smarriti mille volte in una impresa, il guadagno che viene da ciò alla conoscenza delle verità, sarà nondimeno molto più rilevante che se si fosse battuta la strada maestra. Su ciò mi baso. Mi sono già tracciato la via che voglio tenere. Mi metterò sul mio cammino e nulla potrà impedirmi di proseguirlo». Questa audacia intellettuale, la capacità di porre questioni radicali, insieme con la graduale acquisizione della consapevolezza delle proprie forze, fa sì che Kant prosegua il suo cammino filosofico sicuramente tra molte peripezie, ma riuscendo a offrire una nuova, rivoluzionaria prospettiva alla filosofia, che ne condizionerà in modo considerevole lo sviluppo successivo. Nel suo percorso, in anni tardi, Kant – che nel 1789 saluta con favore la Rivoluzione francese pur senza assumere posizioni giacobine – si scontrerà anche con la censura di un re poco illuminato; sarà accusato dal suo governo di travisare e svalutare la Sacra Scrittura e il cristianesimo, pur mantenendosi nell’ambito di una religione razionale ispirata al luteranesimo. Il cittadino Kant non assumerà mai posizioni estreme nei confronti di quelle autorità «che vogliono sottrarsi alla critica», la religione e il potere politico: ma le sue concezioni, raggiunte sul cammino di pensiero intrapreso, come si era ripromesso, in decisa autonomia, cambieranno il modo di pensare queste due dimensioni e la «rivoluzione del modo di pensare» che Kant ha proposto in filosofia sarà avvertita dalla sua epoca e dalle stagioni successive come un sommovimento radicale. Dopo i suoi primi scritti critici Kant diventa famoso: la filosofia nel mondo culturale tedesco gira intorno alla sua opera. Egli continua incessantemente a sviluppare e anche a trasformare il suo pensiero, e fino agli ultimissimi anni lavorerà a completarlo e ripensarlo. Quando muore, nel 1804, la moda filosofica tuttavia sta cambiando, ma ogni nuova posizione deve confrontarsi comunque con la filosofia kantiana. Il giornale di Königsberg che dà notizia della sua scomparsa scrive: «Il mondo conosce e onora i suoi meriti riguardo alla revisione della filosofia speculativa». 645

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La vita e le opere Immanuel Kant nacque a Königsberg (attuale Kaliningrad, enclave russa tra Polonia e Lituania), importante città del regno di Prussia, nel 1724, da una famiglia di artigiani; studiò nel ginnasio locale e ricevette un’educazione religiosa improntata al pietismo, una corrente del luteranesimo che respingeva il dogmatismo e sosteneva una religione intima, individuale e moralmente molto rigorosa. Nel 1740 si iscrisse alla locale università e dal 1746, anno della morte del padre, scrisse la sua prima opera, Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive; fino al 1755 continuò i suoi studi e lavorò come precettore. In quest’ultimo anno ottenne il dottorato e iniziò a insegnare all’università di Königsberg come libero docente, pagato dagli studenti che sceglievano di frequentare i suoi corsi. Si occupò per quindici anni di molte discipline, pubblicando tra le altre opere la Nuova dilucidazione dei primi principi della conoscenza metafisica (1755), la Monadologia fisica (1756), i Saggi di talune considerazioni sull’ottimismo (1759), L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio (1763), le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764), I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica (1766). Nel 1770, con la dissertazione Sulla forma e i principi del mondo sensibile e di quello intelligibile, divenne professore ordinario di logica e metafisica. Continuò a insegnare, dedicandosi per un decennio alla elaborazione della Critica della ragion pura, la cui prima edizione del 1781 (una seconda edizione con importanti modifiche apparve nel 1787) non ottenne il successo che sperava. Per divulgare le proprie idee, nel 1783 pubblicò una sintesi dei temi della Critica della ragion pura, i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, e infine dedicò un’opera alla metafisica della natura, Primi principi metafisici della scienza della natura (1786). Parallelamente continuò a sviluppare il suo progetto di

3

una filosofia critica dedicandosi alla riflessione sui fondamenti della morale con la Fondazione della metafisica dei costumi (1785) e la Critica della ragion pratica (1788), e delineando una teoria sistematica del diritto e dell’etica con la Metafisica dei costumi (1797). La sua concezione unitaria del sapere trovò compimento con la Critica della facoltà di giudizio (1790). Alla sua fama di massimo filosofo della sua epoca contribuirono, oltre al progetto di una filosofia critica, la vastità dei suoi interessi e dei suoi interventi: scrisse di storia e politica con L’idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), Sopra il detto comune: «Questo può esser giusto in teoria, ma non vale per la pratica» (1793), Per la pace perpetua (1795); intervenne nel dibattito sull’Illuminismo in difesa di tale orientamento con Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? (1784); dedicò pagine fondamentali al problema del male con Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea (1791) e l’articolo Sul male radicale (1792); delineò una filosofia della religione razionalistica, in cui essa è vista come un fatto prevalentemente morale, con La religione nei limiti della semplice ragione (1793), opera che gli costò un rescritto da parte del re di Prussia su cui Kant lasciò un’annotazione molto significativa: «Il ritrattare sarebbe viltà, ma il tacere, in questo caso, è dovere di suddito». Nel 1796 abbandonò l’insegnamento e successivamente pubblicò, oltre alla Metafisica dei costumi, l’Antropologia pragmatica (1798) e la Logica (1800, curata da un suo allievo). Negli ultimi anni della sua vita si dedicò a una riformulazione del proprio sistema, e al progetto di un’opera rimasta incompiuta, i cui materiali furono pubblicati nel 1882-1884 con il titolo di Opus postumum. Dal 1799 la sua salute iniziò a deteriorarsi, ma, pur molto debilitato, continuò a scrivere, finché nel suo ultimo anno di vita perse la vista e la memoria. Morì a Königsberg – che gli tributò solenni funerali – nel 1804.

Il «sonno dogmatico»

Kant vive il suo «sonno dogmatico» non senza inquietudini. Il periodo che viene solitamente chiamato «precritico», in quanto prelude allo sviluppo della filosofia critica, o criticismo, caratterizzata dalle sue tre opere più famose (Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica, Critica della facoltà di giudizio) vede muoversi nel mondo filosofico un pensatore da subito autonomo, ma in un primo tempo intenzionato a correggere e migliorare la prospettiva leibniziana, che veniva ripresa e reinterpretata in modi diversi da autori come Christian Wolff (1679-1754) e Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762), e discussa vivacemente anche nell’ambiente di formazione di Kant a Königsberg. L’impronta Opere come Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive o la Nuova dilucidadella metafisica zione dei primi principi della conoscenza metafisica, la Monadologia fisica, i Sagleibniziana gi di talune considerazioni sull’ottimismo sono scritti di un filosofo che si fa notare subito per il suo acume e l’indipendenza di giudizio, però ancora interni a

Il periodo precritico e il ripensamento di Leibniz

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Unità 14 Kant

una prospettiva più generale non del tutto personale, caratterizzata dalla metafisica di impronta leibniziana. Interessi scientifici Altri scritti, dalla Storia generale della natura e teoria del cielo (in cui viene fore antropologici mulata l’ipotesi sull’origine del mondo, poi nota come ipotesi di Kant-Laplace) alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime hanno un taglio diverso, rivolto a un pubblico più ampio, ed esplorano teorie fisiche, come il primo (cui si accompagnano diversi altri saggi di scienze della natura), o, come il secondo, svolgono osservazioni empiriche di tipo antropologico su caratteri e temperamenti umani.

L’ipotesi Kant-Laplace Kant ha dato un importante contributo alla cosmologia scientifica con l’ipotesi sulle origini e la formazione del sistema solare nello scritto del 1755, Storia generale della natura e teoria del cielo. Secondo tale teoria il sistema solare ha avuto origine da una «nube primordiale» di particelle che, sotto l’azione delle leggi della meccanica newtoniana, partendo da una bassa velocità di rotazione, si sono progressivamente condensate, mentre l’intera nebulosa si appiattiva, formando infine il Sole e i pianeti. Nel 1796 il matematico, fisico e astronomo francese Pier-

Prime critiche alla metafisica come «scienza sognata»

Tensione tra ricerca e rifiuto della metafisica

Ruolo dell’esperienza e limiti della metafisica

re-Simon de Laplace (1749-1827) formulò nell’Esposizione del sistema del mondo una teoria analoga (probabilmente senza conoscere l’ipotesi kantiana) ma con basi fisiche più solide, che poi espresse più ampiamente nella sua opera maggiore, Meccanica celeste, in cinque volumi (1799-1825). Nel XIX secolo, dopo la riscoperta del contributo kantiano a questa teoria, l’ipotesi prende il nome di entrambi, ma nuovi calcoli astronomici sembrano confutarla. Abbandonata per alcuni decenni, viene riaccreditata nel XX secolo dagli studi sull’evoluzione e sulla struttura delle stelle.

Kant nota però da subito la debolezza della metafisica che pure pratica. Nel suo primo scritto sulle forze vive osserva: «La nostra metafisica è, come molte altre scienze, in effetti sulla soglia di una conoscenza realmente rigorosa; Dio sa, quando potrà oltrepassare tale soglia». Anche nel saggio L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, dove pure affronta secondo la sua personale visione un tema classico della metafisica, quest’ultima viene rappresentata come un «oceano tenebroso, senza sponde e senza fari», o come un «abisso senza fondo». Nel 1766 parla in una lettera della «presuntuosa arroganza di interi volumi pieni di vedute di questa specie, così come esse sono in voga oggigiorno», e si dice convinto che la totale cancellazione di queste immaginarie conoscenze non potrebbe mai essere tanto dannosa quanto lo è prender per vera quella «scienza sognata». Queste inquietudini si esprimono in forma più direttamente polemica in un’opera del 1766, scritta con leggerezza e ironia (I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica), che paragona gli scritti di un singolare personaggio, Emanuel Swedenborg (1688-1772), teologo svedese che pretendeva di avere contatti diretti con altri mondi mistici, con la «scienza sognata», che è appunto la metafisica. Si manifesta in toni nuovi e molto chiaramente l’ambivalenza che Kant ha maturato: da un lato, la metafisica è una scienza di cui egli dice di avere «in sorte di essere innamorato»; dall’altro, essa dà un esito deludente alle speranze dell’animo desideroso di sapere. Si prospetta però anche in queste pagine il ruolo centrale dell’esperienza, e un nuovo compito della metafisica stessa: essa può anche prendere la forma di una «scienza dei limiti della ragione umana». Ma, dal momento che si considera preferibile andare alla cieca in cerca di conquiste, piuttosto che conoscere e conservare i propri possedimenti, essa è ancora «la più sconosciuta e al tempo stesso la più importante». 647

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Parte seconda Il secolo dei lumi Un metodo filosofico diverso da quello matematico

La dissertazione del 1770 e l’accento sul problema del metodo Distinzione tra conoscenza sensibile e intellettuale

Non ancora un metodo positivo, ma la dissoluzione di principi ingannevoli

➥ Sommario, p. 727

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La posizione di Kant, di distanza e di inquietudine nei confronti della metafisica, si rafforza gradualmente e con essa cresce la convinzione che è la mancanza di un metodo adeguato all’origine dei suoi fallimenti. La pretesa di orientare il metodo filosofico su quello della matematica (vedi Unità 13, p. 630) è la prima confusione di linguaggi che Kant mette in questione (nella sua Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, del 1762). Ma prima di intraprendere la vera e propria indagine di critica della ragione, Kant continua a considerare possibile in qualche modo la metafisica tradizionale. L’ultima correzione parziale di questa scienza è data dalla dissertazione Sulla forma e i principi del mondo sensibile e di quello intelligibile, con cui Kant nel 1770 ottiene la cattedra di logica e metafisica. Qui il problema del metodo è posto consapevolmente, nell’ambito di una riformulazione abbastanza radicale della teoria leibniziana della conoscenza. Kant intende distinguere nettamente i principi della conoscenza sensibile da quelli che devono consentire di conoscere una cosa non come oggetto dei sensi, ma come oggetto della conoscenza razionale pura: come noumeno (ossia «ciò che è pensato», dal greco noèin, «pensare»). Nella conoscenza sensibile l’oggetto è conosciuto come appare (fenomeno, «ciò che si manifesta» dal greco phàinomai, «apparire») sulla base di forme di coordinazione rappresentate da spazio e tempo. La conoscenza intellettuale conosce invece gli oggetti come sono: e di questa Kant vuole indicare il metodo, ritenendo che un metodo conveniente alla natura propria della metafisica sia «completamente ignorato». Tuttavia, pur asserendo la possibilità di un uso «reale» dell’intelletto, che conosca le cose come sono, il compito metodologico positivo non viene risolto in quest’opera: le indicazioni di metodo che vengono date sono tutte volte a dissolvere principi ingannevoli, che derivano dal fatto che quelli validi per la conoscenza sensibile invadono il campo delle cose dell’intelletto. Si preserva la metafisica da ogni commistione con la sensibilità, ma non viene detto come l’intelletto possa conoscere i noumeni. Resta l’indicazione che in metafisica «il metodo precede ogni scienza». Dopo la dissertazione del 1770, Kant per dieci anni non pubblica più nulla. È il decennio di silenzio in cui nasce la Critica della ragion pura e con essa l’idea di una nuova sistemazione della filosofia e del sapere in generale.

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Unità 14 Kant

La conoscenza e la metafisica: la ragion pura

2 I testi

Critica della ragion pura: Due concetti di filosofia, T3; Scienze empiriche, filosofia, critica, saggezza, T4; Il compimento di ogni cultura della ragione umana, T5; L’inevitabile interesse per la metafisica, T6; Nessuna domanda senza risposta nella ragion pura, T7; Giudizi sintetici e giudizi analitici, T8; Intuizioni e concetti, sensibilità e intelletto, T9; I concetti empirici, T10; La conoscenza trascendentale, T11; Materia e forma della sensazione, T12; Risultato dell’Estetica

Unità sistematica della filosofia

1 La filosofia orienta il sapere in rapporto a scopi

T3

Due concetti di filosofia

Critica della ragion pura, A 839-840 B 866-867

trascendentale, T13; Trasformazione dell’ontologia, T14; La rivoluzione copernicana in filosofia, T15; Fenomeni come rapporti, T16; La materia, T17; L’a priori e l’esperienza, T18; L’io penso e le rappresentazioni, T19; Il principio supremo della conoscenza umana, T20; L’uso logico della ragione e l’incondizionato, T21; L’essere non è un predicato reale, T22; Uno spazio vuoto da riempire, T23; Lo scopo ultimo della ragione, T24; Il dovere e la ragion pratica, T25

Nel momento in cui scrive la sua opera maggiore e più celebre, la Critica della ragion pura, Kant ha maturato una visione d’insieme che non soltanto ridefinisce possibilità e compiti della filosofia, ma prevede l’organizzazione del sapere in una unità «sistematica», governata da una visione complessiva che stabilisce un rapporto a scopi delle diverse forme del sapere e dell’agire umani.

Il progetto di una nuova organizzazione del sapere È un aspetto importante del progetto kantiano l’idea che la filosofia – come forma di sapere che orienta e guida le altre – non ha un senso esclusivamente conoscitivo, ma è legata «ai fini essenziali della ragione umana». Essa deve servire, in altre parole, a collegare ogni forma di conoscenza all’uso che l’uomo può farne, e soprattutto al senso che può trarne: deve riferire in ultima istanza tutte le diverse forme dei discorsi umani, che Kant cercherà accuratamente di distinguere, ai bisogni più essenziali della vita dell’uomo in quanto tale (a «ciò che interessa necessariamente chiunque», dirà Kant). La differenza tra la filosofia come mera impresa conoscitiva e la filosofia come risposta a bisogni umani più ampi e più radicali è espressa da Kant tramite la distinzione tra due concetti di filosofia, quello scolastico e quello cosmico. Fino a questo punto, il concetto di filosofia resta solo un concetto scolastico, cioè il concetto di un sistema della conoscenza, la quale viene cercata soltanto come una scienza, senza avere come fine nient’altro che l’unità sistematica di tale sapere, e quindi la completezza logica della conoscenza. Esiste però anche un concetto cosmico (conceptus cosmicus) che è sempre stato alla base di questa denominazione, specialmente quando lo si è per così dire personificato, raffigurandolo nel modello ideale del filosofo. Da questo punto di vista la filosofia è la scienza dei fini essenziali della ragione umana (teleologia rationis humanae), e il filosofo non è un tecnico della ragione ma è il legislatore della ragione umana. 649

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Parte seconda Il secolo dei lumi Concetto cosmico di filosofia e destinazione dell’uomo

Valore condizionato delle scienze e incondizionato della filosofia

La saggezza come culmine della filosofia

Scienza come premessa della saggezza

T4

Scienze empiriche, filosofia, critica, saggezza

Critica della ragion pura, A 850 B 878

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Il concetto cosmico o cosmopolitico – «mondano», si potrebbe dire – della filosofia considera qualunque conoscenza in relazione agli interessi essenziali dell’uomo come cittadino del mondo, quelli che l’uomo, come essere finito che nel mondo deve vivere e orientarsi, non può non avere. Tra questi, o il principale di questi, è il bisogno di poter collegare ogni fine settoriale del suo conoscere e agire con un fine ultimo, con quella che Kant chiama anche la «destinazione dell’uomo». In questa prospettiva, qualunque sapere può essere inteso come una tecnica – un’abilità relativa a fini arbitrari – e ha in quanto tale un valore condizionato (condizionato appunto al fine cui serve): «ognuna di queste abilità ha il suo prezzo […] come ogni altro lavoro o merce», arriverà a dire Kant. La filosofia, riferendo ogni sapere agli interessi dell’uomo, acquisisce al contrario un valore incondizionato, in quanto sapere che è in grado di orientare e conferire senso a tutti gli altri (che può fare da «legislatore della ragione umana»). Kant è consapevole che questo rappresenta un compito più che un fatto, ossia che la filosofia così intesa si presenta come un modello ideale, da perseguire sì, ma da non considerare mai acquisito. Per questo Kant riferisce il concetto cosmico di filosofia al filosofo come figura ideale personificata, non alla filosofia come disciplina, scienza. E per lo stesso motivo sostiene che la filosofia propriamente culmina nella saggezza: in qualcosa che riguarda l’azione dell’uomo nel mondo, la sua dimensione «morale» in senso ampio, ma che non si può tradurre in un sapere già acquisito e fissato, in una scienza. La scienza tuttavia – ossia la conoscenza criticamente controllata, nei suoi diversi campi, compreso quello filosofico – è la premessa indispensabile per una ragione che in questo modo riesca a orientarsi. E a sua volta è premessa indispensabile della scienza un esame preliminare delle sue possibilità e dei suoi limiti, che ne consenta un uso appropriato e non illusorio. Kant ricapitola, concludendo la sua opera maggiore, il modo in cui concepisce questo rapporto organico tra le dimensioni diverse della cultura umana. Le scienze empiriche sono autonome nel loro ambito, ma il loro senso per gli interessi dell’umanità è compreso dalla filosofia, che presuppone la critica come autoesame della ragione; queste tre dimensioni (riassumibili insieme nel termine «scienza») rimandano alla saggezza – a una capacità, che è più di una conoscenza accertata (una dottrina), di riferire sempre di nuovo il sapere alla ricerca di fini ultimi. Ecco come sono presentate queste quattro dimensioni: Dunque la metafisica, sia intesa come metafisica della natura che come metafisica dei costumi, e soprattutto la critica di una ragione che si avventura a volare con le proprie ali, che precede in quanto esercizio preliminare (propedeutico) costituiscono di per sé tutto ciò che possiamo chiamare in senso proprio filosofia. La filosofia riferisce tutto alla saggezza, ma attraverso la via della scienza, l’unica che una volta aperta non si chiude mai più e non permette di smarrirsi. La matematica, la fisica, la stessa conoscenza empirica dell’uomo possiedono un alto valore come mezzi, per lo più in vista di fini contingenti, ma in ultima istanza anche in vista di fini necessari ed essenziali dell’umanità: in questo ultimo caso, però, solo con la mediazione di una conoscenza razionale che muova da semplici concetti, e che può essere chiamata come si vuole, ma propriamente non è altro che metafisica.

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Unità 14 Kant Il sistema della cultura umana come dinamica delle forme di sapere

Un progetto filosofico del tutto nuovo

Nuovo compito della metafisica

T5

Il compimento di ogni cultura della ragione umana

Critica della ragion pura, A 850-851 B 878-879

I due ambiti della metafisica: speculativo e morale

Il sistema della cultura umana che così viene delineato – e che trova il suo compimento nella filosofia intesa come metafisica – non è però una sistemazione chiusa di conoscenze compiute: Kant non sta definendo una summa, una organizzazione di contenuti culturali dati, ma sta definendo la dinamica, il modo di funzionare di un sistema di forme di sapere, che dovrebbe culminare nel suo armonizzarsi con i fini ultimi dell’uomo (assicura, dice Kant, «l’ordine e l’accordo universale»): in questo senso il sistema culmina nella «morale», che è però in Kant essenzialmente legata alla nozione di autonomia dell’essere razionale. Anche in questa prospettiva la «scienza» rimanda alla saggezza, a una posizione di fini che non può essere predeterminata da nessuna regola esterna all’esercizio stesso della ragione nel mondo. Nel riproporre la filosofia come metafisica e la metafisica come «compimento di ogni cultura della ragione umana» Kant tuttavia non sta ripercorrendo strade già battute, ma sta proponendo un progetto filosofico del tutto nuovo – non a caso la sua impresa è stata percepita dalla cultura a lui contemporanea anzitutto come un’opera di distruzione dell’organizzazione del sapere tradizionale: un filosofo suo contemporaneo, Mendelssohn, parlò pertanto del «Kant che tutto frantuma». La metafisica non è più un edificio di conoscenze riguardanti enti soprasensibili, intelligibili, ma una teoria – puramente razionale, che opera cioè con soli concetti – della possibilità e dell’uso delle diverse forme di esperienza umana: una teoria che ne indica le condizioni e il senso, senza pretendere di costituire un particolare sapere di oggetti non accessibili empiricamente, e di parlare quindi lo stesso linguaggio della conoscenza delle cose del mondo. Questo nuovo compito della metafisica ha come sua componente centrale, dice Kant, «soprattutto la critica», un esame della conoscenza che può anche individuarne dei limiti; ma ciò non toglie nulla al suo valore, anzi accresce la sua funzione in rapporto al compito di favorire una organizzazione armonica dell’insieme dei discorsi umani. Il brano precedente prosegue in questo modo la ridefinizione dei compiti della filosofia: Proprio per questo, la metafisica costituisce anche il compimento di ogni cultura della ragione umana, un compimento che risulta indispensabile, anche nel caso si voglia prescindere dal suo influsso come scienza su certi fini determinati. La metafisica, infatti, considera la ragione nei suoi elementi e nelle sue massime supreme che devono stare a fondamento della stessa possibilità di alcune scienze, e dell’uso di tutte quante. Il fatto che essa, come semplice speculazione, serva a tener lontani gli errori piuttosto che ad ampliare la conoscenza, non pregiudica il suo valore ma le conferisce piuttosto la dignità e il prestigio che appartengono all’ufficio del censore, quello che assicura l’ordine e l’accordo universale, e addirittura il benessere della comunità scientifica, e impedisce che le elaborazioni coraggiose e feconde degli scienziati si allontanino dal loro fine principale, che è la felicità universale. Come speculazione – come teoria, potremmo dire oggi – la metafisica ha un valore limitato (di teoria e di critica delle conoscenze, piuttosto che di conoscenza essa stessa), mentre acquista il suo senso positivo nell’ambito morale, in relazione ai fini dell’agire umano. È questo il duplice risultato che il progetto di una critica della ragion pura si prefigge di raggiungere, attraverso un percorso lungo e complesso, che Kant ha presente quando scrive queste righe, dopo averlo compiuto fino in fondo. 651

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Parte seconda Il secolo dei lumi Il nuovo sistema della cultura

Insieme, critica, filosofia e scienze empiriche e altre scienze formano la scienza

La critica come autoesame della ragione è il presupposto della filosofia

La filosofia comprende il senso delle scienze in relazione agli interessi umani

Concetto scolastico di filosofia (sistema della conoscenza)

Ha per fine l’unità sistematica del sapere

Presupposto necessario dell’agire morale

2 La metafisica leibniziano-wolffiana come ontologia

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Scienze empiriche

Concetto cosmico di filosofia (scienza dei fini essenziali della ragione umana)

Riguarda gli interessi dell'uomo come cittadino del mondo. Si incarna nel filosofo (legislatore della ragione) che rappresenta un compito ideale e mai concluso. Ha valore incondizionato

Caratteri: – sono autonome nel loro ambito – abilità tecniche relative a fini arbitrari – hanno un valore condizionato

Stabilisce il senso per l'uomo delle scienze

Proposito di raggiungere la saggezza, che riguarda l’agire concreto nel mondo

La metafisica come problema La metafisica che Kant trova nel suo tempo e nel suo ambiente culturale nel momento in cui inizia il suo cammino filosofico è la metafisica leibniziano-wolffiana, ossia lo sviluppo in parte originale della metafisica di Leibniz compiuto da Wolff e da alcuni autori che a lui si richiamano, come Baumgarten. In questa tradizione la metafisica si presenta come una scienza che ha per oggetto, da un lato, l’ente in quanto ente, dall’altro degli ambiti privilegiati dell’ente stesso, ovvero dei tipi di enti fondamentali. Nella visione cristiana in cui viene ripresa la riflessione metafisica antica, l’ente è visto come scaturito dalla creazione divina (è ens creatum, «ente creato»), e nell’ambito dell’ens creatum un ruolo particolare spetta all’uomo. Ne deriva una tripartizione di ambiti ontologici cui corrispondono tre diversi «oggetti» della metafisica: Dio, il mondo, l’anima umana. La metafisica si suddivide dunque in metaphysica generalis, detta anche «ontologia», che ha per oggetto l’ente in quanto ente, e in metaphysica specialis, che ha per oggetto i tre ambiti ontologici detti, articolandosi pertanto a sua volta in theologia, psychologia e cosmologia.

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Unità 14 Kant Articolazione e oggetti della metafisica leibniziano-wolffiana

Scienza delle grandi questioni

Riflessione sui principi della conoscenza

Motivi di crisi della metafisica

Affermazione del modello e del metodo scientifici

Definizione di una nuova ontologia, non sostanzialistica

Critiche degli empiristi alle procedure e alle pretese metafisiche

Metaphysica generalis (ontologia o scienza dell’ente in quanto ente) Metaphysica

Metaphysica specialis (scienza di enti appartenenti ad ambiti particolari)

Psychologia (anima) Cosmologia (mondo) Theologia (Dio)

Una disciplina così articolata, se realizzata in modo condivisibile, assume un’importanza culturale difficilmente sottovalutabile, in quanto è in grado di rispondere a questioni che non possono non interessare qualunque uomo: in particolare, la «psicologia», la questione dell’anima umana e della sua immortalità, dunque il destino dell’uomo dopo la morte; la «cosmologia», la questione della possibilità della causalità libera nel mondo; la «teologia», la questione dell’esistenza di un Dio che sia garante dell’ordine armonico dell’universo, della giustizia e della sorte dell’uomo in questo mondo e oltre la morte. Essa è inoltre – come pensavano Cartesio o Leibniz – anche «filosofia prima», ossia la garante dei primi principi della conoscenza umana, dunque della solidità e affidabilità dell’intero universo del conoscere (Baumgarten definiva infatti la metafisica «scienza dei principi primi nella conoscenza umana»). Nonostante questo peso culturale potenzialmente enorme, la metafisica è tuttavia, come Kant finisce presto per riconoscere, una disciplina in crisi. Nel momento in cui scrive la Critica della ragion pura Kant osserva che, nei confronti di quella che «veniva chiamata la regina di tutte le scienze», «ora invece, nella nostra epoca, va di moda dimostrare un totale disprezzo». Questa crisi è dovuta a molti motivi, tra di loro collegati e convergenti. 1) Un primo motivo è costituito dall’affermarsi della moderna scienza fisicomatematica della natura, che sembra offrire un modello non soltanto efficace, ma condiviso di indagine dei fenomeni. Essa segue un metodo tale da consentire l’applicazione di regole comuni alla ricerca degli uomini di scienza, a differenza di quanto avveniva nell’ambito della metafisica. 2) La scienza moderna non offre però soltanto un modello di sapere e un metodo affidabili, ma riformula di fatto l’ontologia degli enti naturali, considerandoli in primo luogo in rapporto a un sistema di relazioni, ossia attraverso leggi fisiche formulate in linguaggio matematico, in grado di definire le condizioni di produzione degli eventi nel mondo della natura. Il tentativo di ancorare questa ontologia a una più profonda ontologia sostanzialistica ad essa sottesa, compiuto in forme diverse da pensatori come Cartesio e Leibniz (il primo attraverso la sua nozione di sostanza estesa identificata con lo spazio geometrico, vedi Unità 3, p. 149 ss.; il secondo attraverso l’ipotesi delle monadi, vedi Unità 5, p. 287 ss.), non è giunto a risultati parimenti accertati e condivisi. 3) Un terzo motivo è rappresentato dagli attacchi alle procedure conoscitive e alle pretese della metafisica che sono stati svolti – anche in base all’influenza crescente delle scienze moderne della natura – da alcune posizioni all’interno della filosofia, in particolare da autori di impostazione empiristica come Hobbes, Locke, Hume. In questa prospettiva, alla scienza del soprasensibile non si riconosce, com’era stato invece nelle epoche del suo predominio, un va653

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Sensibilità di Kant per questi problemi

Conflitti tra tesi metafisiche: mancanza di un metodo affidabile di ricerca

La possibilità della metafisica come scienza

La metafisica al tempo di Kant: caratteri e motivi di crisi

lore superiore e maggiore certezza rispetto alla scienza del mondo sensibile, ma al contrario se ne nega o limita fortemente la portata conoscitiva. Kant, professore dal 1770 di logica e metafisica, è tuttavia, come abbiamo visto, uno studioso aperto all’intero spettro delle discipline scientifiche del suo tempo e particolarmente sensibile alla scienza newtoniana della natura. I motivi su indicati non possono dunque restargli indifferenti. A questi motivi, che provengono dal contesto culturale della sua epoca, Kant aggiunge delle riflessioni e delle considerazioni che derivano piuttosto dal suo personale percorso filosofico e dalle conclusioni cui questo lo ha condotto. Kant avverte dunque molto presto che la conoscenza metafisica avanza pretese che non riesce a soddisfare; e si rende conto gradualmente con sempre maggiore consapevolezza dello stato di perenne conflitto in cui le considerazioni metafisiche si trovano a causa dell’incertezza che regna riguardo alla loro procedura, a causa cioè della mancanza di un metodo affidabile della ricerca metafisica. Col tempo, Kant identificherà alcune contrapposizioni tra tesi opposte – cui darà il nome di «antinomie» (vedi sotto, p. 681) – come conflitti necessari della ragione con se stessa, che si possono risolvere soltanto assumendo un punto di vista del tutto nuovo, attraverso una rivoluzione concettuale radicale. Ma in generale lo stato di conflitto permanente in cui si trovava la disciplina metafisica – le «scene di discordia e di scompiglio», dirà nella Critica della ragion pura – convincono Kant sempre di più che il compito più urgente della riflessione filosofica è quello di porre la questione del metodo della metafisica, conducendo un esame delle capacità razionali dell’uomo in relazione alle diverse forme di conoscenza. Esiste un metodo affidabile della metafisica? E più radicalmente: è possibile la metafisica come scienza? Metafisica leibniziano-wollfiana – come scienza di enti soprasensibili – garante dei principi primi della conoscenza Kant riconosce la crisi della metafisica Motivi di crisi: – affermazione del modello conoscitivo delle scienze naturali – definizione di una nuova ontologia non sostanzialistica – critiche degli empiristi alle procedure e alle pretese della metafisica Necessità di una rivoluzione concettuale radicale per capire se è possibile la metafisica come scienza

3 Rilevanza della metafisica

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La domanda critica La crisi della metafisica non coincide per Kant con la proclamazione della sua irrilevanza. È anzi paradossalmente la sua importanza una delle cause del caos in cui si trova, perché «anche a costo di sbagliare, osiamo di tutto pur di non dover abbandonare delle ricerche così importanti», quali quelle riguardanti Dio, la libertà e l’immortalità.

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Unità 14 Kant

T6

L’inevitabile interesse per la metafisica

Critica della ragion pura, A X-XI, Prefazione alla prima edizione

Partire dall’esame della ragione: il procedimento critico

La ricerca di un metodo affidabile e sicuro per la metafisica

Precursori del compito critico: Cartesio e Locke

L’aspirazione all’autotrasparenza della ragione

T7

Nessuna domanda senza risposta nella ragion pura

Critica della ragion pura, A 477 B 505

È inutile, infatti, voler fingere indifferenza riguardo a tali indagini, giacché il loro oggetto non può risultare indifferente alla natura umana. Gli stessi presunti indifferenti, per quanto cerchino di rendersi irriconoscibili trasformando in un tono popolare il linguaggio della scuola, solo che vogliano pensare qualcosa ricadono inevitabilmente in quelle affermazioni metafisiche contro le quali, pure, essi avevano mostrato tanto disprezzo. Tuttavia, il fatto che questa indifferenza si presenti in mezzo al fiorire di tutte le scienze, e che riguardi proprio quella scienza le cui conoscenze – se mai potessimo averne – sarebbero quelle a cui rinunceremmo meno di tutte le altre, è un fenomeno che merita attenzione e riflessione. Il problema della metafisica dunque resta, e va affrontato con un atteggiamento diverso. Non «tentando di tutto», ma abbandonando un procedimento dogmatico – caratterizzato cioè dall’intraprendere la costruzione di un edificio teorico con fiducia non giustificata – in favore di un procedimento critico, che fa precedere alla costruzione «il piano intero, con piena garanzia di completezza e di sicurezza riguardo a tutti gli elementi che costituiscono l’edificio», ossia, fuori dall’immagine: un procedimento che antepone alla elaborazione teorica un esame della facoltà della ragione umana, per verificare la fattibilità e i limiti dell’impresa. Gli stessi dubbi che la cultura dell’epoca avanza contro la metafisica, l’affettata indifferenza, sono per Kant già l’indice di un atteggiamento filosofico e culturale più maturo di quello del passato, proprio «di un’epoca che non si lascia tenere a bada più oltre da un sapere apparente»: questo deve tradursi però in un’esortazione alla ragione ad assumersi «il più impegnativo dei suoi compiti», la conoscenza di sé, affinché venga individuato – se esistente – un metodo praticabile e sicuro per la conoscenza metafisica. Il sapere apparente non si dissolverà, «la discussione non potrà mai arrivare al termine se non si svela la vera causa della parvenza, quella che può ingannare persino l’uomo più ragionevole». Il compito critico riprende in questo senso questioni tipiche del pensiero moderno, affrontate da autori come Cartesio o Locke. L’uno aveva posto con fermezza il problema del metodo e della certezza della conoscenza, in particolare di quella metafisica; l’altro si era riproposto nel suo Saggio sull’intelletto umano di «scoprire quali sono i suoi [dell’intelletto] poteri, quanto si estendono, a quali cose essi sono in qualche misura proporzionati e in quali ambiti si rivelano insufficienti». L’ambizione della critica kantiana della ragion pura è di svolgere questo compito però in un modo più radicale: indicare «in base a dei principi» la fonte delle difficoltà (che non devono essere fatti oscuri insuperabili, limiti contro cui solo ci si scontra) e risolverle integralmente, seppure assumendo una prospettiva nuova, ossia comprendendo in modo diverso le medesime domande. Non vi sono domande senza risposta nell’ambito della ragione pura, ma solo domande fraintese. Il progetto della critica della ragion pura è quello di una completa autotrasparenza della ragione. […] nessuna questione relativa a un oggetto dato alla ragion pura è irrisolvibile per la stessa ragione umana, e nessun pretesto di una inevitabile ignoranza e di un’insondabile profondità del problema può esimere dall’obbligo di rispondervi in maniera fondata e compiuta: infatti, proprio lo stesso concetto che ci mette nella condizione di porre il problema, deve anche renderci capaci di risolverlo completamente, in quanto l’oggetto […] non si trova affatto al di fuori del concetto. 655

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Parte seconda Il secolo dei lumi Conoscenza indipendente dall’esperienza e legittimazione di sé della ragione

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Sulla base di questa assunzione la critica deve essere in grado di delineare un piano complessivo e completo dell’insieme delle conoscenze indipendenti dall’esperienza, in cui ogni parte richiama inevitabilmente l’altra: «qui nulla può sfuggirci», sostiene Kant, «poiché ciò che la ragione ricava totalmente da se stessa non può nascondersi, ma viene portato alla luce dalla stessa ragione non appena se ne sia scoperto il principio comune». In quanto basata su principi e non fatti la critica non sarà solo una constatazione di limiti, ma costituirà al contempo una legittimazione di sé da parte della ragione.

Gli strumenti concettuali dell’indagine critica. La catena delle questioni

La questione della possibilità della metafisica si sviluppa in una straordinaria avventura di «smontaggio» del meccanismo della conoscenza, che Kant compie per poterlo rimontare una volta compresone il funzionamento. Il percorso concettuale svolto si articola dunque in problemi man mano più specifici, finalizzati tutti però al disegno complessivo. La domanda originaria si dispiega in domande che scavano sempre più in profondità. Vediamo come. Le componenti Se si pone la questione della affidabilità di un certo tipo di conoscenza, è necesdella conoscenza sario sapere che cosa sia una conoscenza affidabile, per quali motivi essa lo sia. Affrontata in modo radicale, la questione «è possibile la metafisica come scienza?» produce una serie di domande ulteriori. E conduce naturalmente a una questione più basilare e più fondamentale, quella circa la possibilità di una scienza in quanto tale. E se la scienza è un genere di conoscenza, la domanda diventa allora «come è possibile la conoscenza?». Un procedimento ordinato richiede di indicare le componenti di ogni conoscenza per poi indagare se vi sono e come «funzionano» tipi diversi di conoscenza. Smontare il meccanismo della conoscenza

Conoscere e giudicare A un primo livello di approfondimento, se cioè si considera quel tipo di conoscenza costituito dalla metafisica, una conoscenza indipendente dall’esperienza, che non si svolge attraverso i sensi ma per mezzo del pensiero, la componente minima identificabile è quella del concetto. Tuttavia il concetto come tale non costituisce una conoscenza. È una rappresentazione, secondo Kant una rappresentazione generale, ossia che si può riferire a una pluralità di oggetti («albero» può riferirsi a tutti gli alberi). Il concetto da solo però non dice nulla, è solo «il predicato di un giudizio possibile». Il giudizio come unità L’unità minima di conoscenza è appunto il giudizio. Il giudizio è secondo Kant minima di conoscenza l’unione di due concetti, un ‘soggetto’ e un ‘predicato’ (per esempio, «gli alberi sono piante»). Va notato subito che Kant non presuppone alcun «paese dei possibili» come Leibniz, ossia nessuna dimensione oggettiva di essenze concettuali fondate nell’intelletto divino (vedi Unità 5, p. 294 s.). I concetti sono esclusivamente rappresentazioni, strumenti del conoscere umano. I concetti empirici sono rappresentazioni costruite gradualmente. Per questo motivo, se concepisce in modo

Concetto come rappresentazione: il «predicato di un giudizio possibile»

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Unità 14 Kant

La coscienza del soggetto come fondamento unificante della relazione tra concetti

T8

Giudizi sintetici e giudizi analitici Critica della ragion pura, Introduzione, par. 4

Due tipi di fondamento della relazione tra concetti

Ruolo determinante del concetto di partenza

Due principi della connessione tra soggetto e predicato

analogo a Leibniz il giudizio come legame tra un soggetto e un predicato, questo legame ha il suo fondamento soltanto nelle operazioni del pensiero stesso. Kant dichiara la sua insoddisfazione nei riguardi della definizione del giudizio come rappresentazione di una relazione tra concetti, perché in essa non viene detto in cosa consista tale relazione, che per lui è data dalla unificazione nella coscienza di un soggetto. Se conoscere è giudicare, per arrivare a comprendere tipi diversi di conoscenza bisogna vedere se vi siano tipi diversi di giudizi. Kant formula una distinzione dopo di lui divenuta celebre e alla quale egli dava grande importanza, considerandola capace di provocare, quasi da sola, la questione decisiva circa la metafisica. Se il giudizio è il rapporto di un predicato con il soggetto, la loro relazione può essere di due tipi: il concetto del predicato può essere incluso, o non incluso, nel concetto del soggetto. In tutti i giudizi nei quali viene pensato il rapporto di un soggetto con un predicato (e considero solo i giudizi affermativi, perché dopo sarà facile l’applicazione a quelli negativi) questo rapporto può esser di due specie. O il predicato B appartiene al soggetto A, come qualcosa che è contenuto (implicitamente) in questo concetto A; oppure B si trova completamente al di fuori del concetto A, sebbene stia in connessione con esso. Nel primo caso chiamo il giudizio analitico, nell’altro sintetico. Giudizi analitici […] sono […] quelli in cui la connessione del predicato col soggetto viene pensata come identità, mentre quelli in cui questa connessione è pensata senza identità, si devono chiamare giudizi sintetici. I primi li si potrebbe chiamare anche giudizi esplicativi, gli altri giudizi estensivi: i primi infatti, con il predicato non aggiungono niente al concetto del soggetto, ma lo dividono soltanto, scomponendolo nei suoi concetti parziali, che erano già pensati (sebbene confusamente) in esso; i secondi, invece, al concetto del soggetto aggiungono un predicato che non era affatto pensato in esso, e non avrebbe potuto essere ricavato da alcuna sua scomposizione. Consideriamo per esempio il concetto di «albero», come esplicitabile in «pianta costituita da tronco, rami e foglie». Se diciamo «tutti gli alberi sono piante», non stiamo facendo altro che esplicitare appunto uno dei predicati contenuti nel concetto; se diciamo invece «tutti gli alberi sono combustibili» il predicato non è contenuto nel concetto di albero che abbiamo, ma può esservi connesso. Nel primo caso è il principio di identità a consentirmi di formulare il giudizio (se A = BCD allora A = B: in caso contrario affermerei sia che A = B sia il suo contrario), nel secondo caso ho bisogno di un altro fondamento per il mio giudizio. È evidente che tutto dipende dal concetto di partenza: così, l’esempio che fa Kant stesso, quando dice che «tutti i corpi sono estesi» è analitico e «tutti i corpi sono pesanti» è sintetico, deriva da una nozione di corpo come ente esteso che è quella cartesiana, per cui sostituendo tra loro il termine «corpo» e quello di «ente esteso» otteniamo «tutti gli enti estesi sono estesi». Ma Kant intende sottolineare qui non tanto i diversi fondamenti dei giudizi, bensì il principio in base al quale il giudizio viene formulato, come la connessione tra soggetto e predicato «viene pensata»: in base a quello esclusivamente logico di identità, oppure a un altro. Quello che è analitico per me può essere sintetico per un altro (che non accetta le mie definizioni di albero e di corpo), ma analisi e sintesi sono due operazioni per principio diverse dell’intelletto. 657

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Parte seconda Il secolo dei lumi Il principio d’identità non fonda nuove conoscenze

È abbastanza chiaro che lavorare con il solo principio di identità non porta che a chiarire una conoscenza già posseduta, non ad acquisirla, a estenderla. Per acquisire conoscenza bisogna istituire connessioni prima non note, venire a sapere che gli alberi bruciano o che i corpi sono pesanti. Chiarire dei concetti è in qualche modo conoscere, ma il conoscere più autentico è venire a sapere. Ossia aggiungere predicati ai soggetti noti: comporre, mettere insieme (è il significato di «sintesi»). Il campo e il ruolo della conoscenza analitica è per Kant vasto e importante, ma essa ha un senso solo dove presuppone una conoscenza sintetica. Dove c’è solo conoscenza analitica non c’è sapere effettivo.

A priori e a posteriori Il ruolo dell’esperienza nella conoscenza

Due forme di conoscenza: a posteriori e a priori Metafisica e possibilità dei giudizi sintetici a priori

La questione più generale dei giudizi sintetici a priori come traccia

Una metafisica in forme nuove

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Kant intreccia questa distinzione tra due modi di conoscere con un’altra che riguarda due fonti possibili della conoscenza. La prima è l’esperienza, ossia la conoscenza che deriva dall’azione degli oggetti sui sensi che producono rappresentazioni e mettono in moto l’attività dell’intelletto. Kant assume che tutte le nostre conoscenze cominciano con l’esperienza; lascia aperto però inizialmente il problema se si esauriscano nell’esperienza, o se sia possibile invece anche una conoscenza indipendente dall’esperienza e da tutte le impressioni dei sensi. Dunque almeno per porre il problema è necessario ipotizzare due forme di conoscenza, che Kant con un linguaggio già in uso nella filosofia dell’epoca chiama a posteriori (successiva all’esperienza, derivante da essa) e a priori (precedente l’esperienza, indipendente da essa). Se si applicano questa distinzione e quella precedente (tra le due forme del giudizio) alla questione della metafisica, quest’ultima dovrà – per essere acquisizione di conoscenza e non amministrazione di essa – contenere giudizi sintetici; e tali giudizi, visto che la metafisica è per definizione scienza indipendente dall’esperienza, dovranno essere dei giudizi a priori. Sulla base degli strumenti concettuali così acquisiti, la questione «com’è possibile la metafisica?» si traduce in quella «come sono possibili giudizi sintetici a priori?». Tuttavia non coincide ancora con essa, perché potrebbero esistere altre conoscenze che sono indipendenti dall’esperienza e conoscenze effettive (dunque sintetiche), che pure non riguardano i temi della metafisica. Secondo Kant queste scienze esistono e sono la matematica e la «fisica pura». La questione dei giudizi sintetici a priori è dunque più generale, non risolve di per sé il problema della metafisica, però può svolgere la funzione di una traccia: se si comprende come sono in genere possibili giudizi sintetici indipendenti dall’esperienza – ossia autentica conoscenza indipendente dall’esperienza – si può poi vedere se le stesse condizioni sono rispettate nella metafisica oppure a quali condizioni potrebbero essere rispettate. Si può vedere se la metafisica come scienza è possibile (nelle forme già date), oppure come o per quali aspetti potrebbe esser possibile (in altre forme). La risposta di Kant sarà – possiamo anticiparla per poi chiarire come vi arriva e che senso ha – che la metafisica come ontologia (la metaphysica generalis) è possibile in modo analogo a quello delle scienze dette; e la metafisica come metaphysica specialis – cosmologia, psicologia, teologia – non è possibile come conoscenza, ma può esistere con un carattere del tutto diverso. Potremmo dire: in entrambi i casi si produce una metafisica in forme nuove – una trasformazione dell’ontologia e una riformulazione della metafisica speciale.

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Unità 14 Kant

Altri strumenti concettuali della critica: intuizione e concetti Analisi della conoscenza a posteriori

Concetti e classi di oggetti, intuizioni e oggetti singolari

Sensibilità e intelletto come fonti di conoscenza

T9

Intuizioni e concetti, sensibilità e intelletto

Critica della ragion pura, A 51 B 75, Logica trascendentale, Introduzione, par. 1

Conoscenza come unione delle due fonti

La questione da focalizzare è quella della metafisica, e la catena delle domande ha condotto a quella circa la possibilità della conoscenza a priori, che può offrire una traccia per risolvere il problema più specifico della metafisica. Ma anche se è la conoscenza a priori a costituire il centro dell’interesse e la metafisica il fine dell’indagine, la natura dell’altro genere di conoscenza, quella a posteriori, può a sua volta offrire una traccia per illuminare la natura della conoscenza a priori. La critica deve esplorare anche questo campo. Se nell’ambito dell’intelletto, del solo pensiero, la conoscenza è una unione di concetti, questo non esaurisce la natura della conoscenza umana. Esiste un altro genere di rappresentazione, per Kant: l’intuizione, che a differenza del concetto non è generale, ma singolare. Il concetto si riferisce a una classe di cose che hanno caratteri comuni, appunto attraverso tali caratteri (alberi sono quelle cose che hanno tronco, rami e foglie); l’intuizione si riferisce a una singola cosa, immediatamente, ossia senza la mediazione di caratteri comuni (la mia percezione di quest’albero che vedo). Kant aggiunge a questa distinzione logica una tesi molto forte e importante: quella secondo cui intuizioni e concetti fanno riferimento a due fonti diverse della conoscenza umana, sensibilità per le intuizioni e intelletto per i concetti, che funzionano in due modi diversi. La sensibilità è passiva, riceve impressioni dai sensi, l’intelletto è attivo, produce le sue rappresentazioni. Sensibilità e intelletto sono indicati come i «due tronchi della conoscenza umana». Se abbiamo chiamato sensibilità la recettività del nostro animo nel ricevere le rappresentazioni – in quanto esso ne viene in qualche modo affetto –, di contro chiameremo intelletto la facoltà di produrre da se stesso le rappresentazioni, ossia la spontaneità della conoscenza. La nostra natura è siffatta che l’intuizione non potrà mai essere altro che sensibile, e cioè conterrà soltanto il modo in cui veniamo affetti dagli oggetti. Di contro, l’intelletto sarà la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile. Nessuna di queste due proprietà va anteposta all’altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci verrebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri, senza contenuto, sono vuoti; le intuizioni, senza concetti, sono cieche. E perciò come è necessario rendere sensibili i propri concetti (vale a dire aggiungervi l’oggetto nell’intuizione), altrettanto necessario sarà rendersi intelligibili le proprie intuizioni (vale a dire portarle sotto i concetti). Entrambe le facoltà, o capacità, non possono poi scambiarsi le proprie funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, e nulla possono pensare i sensi. È soltanto dalla loro unione che può scaturire la conoscenza. Alla tesi che afferma la duplicità delle fonti della conoscenza umana si unisce qui l’ulteriore tesi secondo la quale la conoscenza scaturisce soltanto dall’unione di queste due fonti, delle capacità che vi fanno riferimento e delle rappresentazioni che ne scaturiscono. Le intuizioni sono conoscenza soltanto se comprese attraverso concetti: «se per esempio», dice una volta Kant, «un selvaggio vede una casa che non conosce: allora egli ha davanti a sé nella rappresentazione lo stesso oggetto che un altro che conosce la casa come un’abitazione allestita per uomini. Ma la forma di que659

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Concetto: regole di produzione dell’oggetto e contenuti intuitivi

sta conoscenza di un medesimo oggetto è nei due diversa. Nell’uno è mera intuizione, nell’altro intuizione e concetto allo stesso tempo». Soltanto la seconda è conoscenza in senso proprio. Sullo sfondo sta l’idea che conosciamo pienamente, possiamo comprendere, ciò che noi stessi facciamo: il ruolo indispensabile del concetto è legato in Kant a una nuova concezione del conoscere, che non è visto come un rispecchiare o esprimere l’oggetto, ma come la possibilità di disporre delle regole della sua produzione. Dall’altro lato, solo concetti riempiti di contenuto dalle intuizioni offrono una conoscenza non illusoria, ossia una conoscenza cui corrisponde un oggetto: solo se è possibile mostrare attraverso i sensi l’oggetto cui il concetto si riferisce, si ha la garanzia che il concetto stesso non sia senza senso, un semplice pensiero.

La conoscenza a posteriori La connessione sintetica

Intuizione come fondamento dei giudizi sintetici a posteriori

Costruzione dei concetti empirici

T10

I concetti empirici

Critica della ragion pura, A 728 B 756

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La teoria delle due fonti della conoscenza con la distinzione di intuizioni e concetti offre lo strumento per rispondere a una parte della questione generale della conoscenza nel cui orizzonte si sta indagando il problema della metafisica. Se infatti si conviene che una scienza debba essere costituita di giudizi sintetici, cosa consente quella particolare unificazione che non si basa – come nei giudizi analitici – sul principio di identità? Cosa congiunge soggetto e predicato in un giudizio sintetico? Ci dev’essere qualcosa che mi permette di andare oltre il concetto del soggetto, per attribuirgli un diverso concetto (il predicato). Nell’ambito della conoscenza sintetica a posteriori è ora possibile una risposta: è l’esperienza che io faccio dell’oggetto, e più precisamente l’intuizione sensibile empirica dell’oggetto. I giudizi sintetici a posteriori, ovvero quelli che seguono l’esperienza si basano sull’intuizione per estendere i propri concetti. Il concetto è qui per Kant qualcosa che si costruisce gradualmente, che originariamente serve solo come designazione, ossia per indicare l’oggetto, e che viene man mano arricchito dalle esperienze che vengono fatte. I concetti empirici non esprimono alcuna essenza, non sono propriamente definibili, ma sono una costruzione graduale e modificabile: non c’è un concetto di oro prefigurato da qualche parte come modello, ma esso viene messo insieme in modi diversi e in diverse prospettive. La teoria dell’esperienza scientifica di Kant è molto più complessa, ma alla sua base sta l’idea di una costruzione e di un arricchimento costante dei concetti attraverso il riferimento alle intuizioni offerte dai sensi. Così, per esempio, con il concetto di oro uno può pensare oltre al peso, al colore, alla durezza, anche la proprietà del non essere soggetto alla ruggine, mentre un’altro può non sapere nulla di questa proprietà. Ci si serve di certe note caratteristiche soltanto finché esse sono sufficienti a distinguere l’oggetto; al contrario, nuove osservazioni eliminano alcune note caratteristiche e ne aggiungono delle altre, di modo che il concetto non si trova mai tra confini sicuri.

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Unità 14 Kant La catena delle questioni

Compito critico: rifondare la metafisica attraverso l’esame della ragione che ne verifichi possibilità e limiti

Cercare una completa autotrasparenza della ragione trovando la fonte delle difficoltà della metafisica in base a principi indipendenti dall’esperienza

Prima domanda: è possibile la metafisica come scienza?

Seconda domanda: come è possibile una scienza in quanto tale?

Bisogna capire come funziona la conoscenza per rispondere alla seconda domanda

Analisi della conoscenza: – identificazione tra conoscere e giudicare – distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici – distinzione tra giudizi a posteriori e giudizi a priori

Tre tipi di giudizi: – giudizi analitici a priori (fondati sul principio d’identità) – giudizi sintetici a priori – giudizi sintetici a posteriori

La metafisica può essere costituita solo da principi sintetici a priori perché deve essere indipendente dall’esperienza e insieme estendere la conoscenza, ma su quale fondamento si basano tali giudizi?

Terza domanda: sono possibili giudizi sintetici a priori?

La terza domanda non risolve da sola la prima perché è più generale: esistono già la matematica e la fisica pura fondate sui principi sintetici a priori. Va trovato come siano possibili giudizi sintetici a priori in metafisica

5 Il problema irrisolto dei giudizi sintetici a priori

La conoscenza sintetica a posteriori amplia la conoscenza attraverso l’intuizione, e questo ci dà una traccia per rispondere alla terza domanda

Alla ricerca della conoscenza pura: l’indagine critica e la sua articolazione Stabilire la possibilità dei giudizi sintetici a posteriori non risolve naturalmente il problema di quelli sintetici a priori, perché la conoscenza a priori esclude appunto l’esperienza e le intuizioni sensibili che in essa si offrono. Si tratta di addentrarsi nelle peculiarità della conoscenza pura, tenendo però sullo sfondo la duplicità delle fonti del conoscere che si è in generale mostrata un elemento essenziale della conoscenza in quanto tale. Kant organizza pertanto l’indagine della Critica della ragion pura anzitutto sulla base della bipartizione tra le facoltà 661

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Parte seconda Il secolo dei lumi

fondamentali della conoscenza, sensibilità e intelletto. La critica deve verificare se esistono intuizioni e concetti puri, in grado di produrre conoscenze – effettive, sintetiche – a priori. Il modo di conoscere Per definire questo tipo di indagine che riguarda la possibilità di conoscenze a a priori degli oggetti priori Kant utilizza un termine della tradizione filosofica, conferendogli un senso del tutto nuovo, il termine «trascendentale»: «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che, in generale, si occupi non tanto di oggetti, quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti, nella misura in cui questo modo deve esser possibile a priori». In un altro passo Kant precisa ulteriormente che «trascendentale» è una conoscenza riguardante la possibilità di una conoscenza a priori; possiamo dire più sinteticamente: una teoria della conoscenza a priori.

T11

La conoscenza trascendentale

Critica della ragion pura, B 80

Critica della ragione come nucleo della filosofia trascendentale

Le parti dell’analisi della conoscenza nella Critica della ragion pura

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Qui faccio un’osservazione che vale per tutte le considerazioni che seguiranno, e che si dovrà tenere sempre bene a mente: non si deve cioè chiamare trascendentale ogni conoscenza a priori, ma soltanto quella mediante la quale noi conosciamo il fatto che, e il modo in cui, determinate rappresentazioni (intuizioni e concetti) vengono applicate o sono possibili unicamente a priori (vale a dire che si deve chiamare trascendentale la possibilità della conoscenza o il suo uso a priori). Se conoscenza trascendentale è la teoria della conoscenza a priori, la filosofia trascendentale è allora per larga parte costituita dalla critica della ragione: questa è anzi «l’idea compiuta della filosofia trascendentale» anche se non coincide del tutto con essa, «perché nell’analisi essa procede solo fin dove è richiesto per poter giudicare in maniera completa la conoscenza sintetica a priori», mentre la filosofia trascendentale dovrebbe contenere in modo completo le conoscenze sintetiche e analitiche in questione. La filosofia trascendentale, come abbiamo già visto (vedi T4, p. 650), oltrepassa la critica in una metafisica dei costumi e una della natura. Per svolgere la filosofia trascendentale Kant si propone di ricercare nelle due fonti della conoscenza delle rappresentazioni che siano applicate o siano possibili a priori: di individuare gli elementi a priori della sensibilità e dell’intelletto. Articola dunque la sua ricerca in due parti: 1) una scienza degli elementi a priori della sensibilità (Estetica trascendentale: l’uso del termine «estetica» – dal greco àisthesis – per indicare la scienza dell’aspetto sensibile della conoscenza era una recente innovazione di Baumgarten); 2) una scienza degli elementi a priori dell’intelletto (Logica trascendentale: il termine «logica» era d’uso più tradizionale, anche se Kant ne riformula il senso). La logica trascendentale si suddividerà a sua volta in: 1) una Analitica trascendentale (l’analisi degli elementi della conoscenza pura); 2) una Dialettica trascendentale (l’esame della conoscenza solo apparente e delle ragioni di tale parvenza). Logica trascendentale ed Estetica trascendentale compongono la prima parte della Critica, la Dottrina trascendentale degli elementi. La seconda parte, intitolata Dottrina trascendentale del metodo, offre secondo Kant il «piano» in base al quale costruire un sistema della ragione con i materiali indicati.

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Unità 14 Kant La struttura della Critica della ragion pura

Il tempo Estetica trascendentale

Lo spazio Analitica dei concetti Lo schematismo dei concetti puri dell’intelletto Analitica trascendentale Analitica dei principi

Dottrina trascendentale degli elementi

Sistema di tutti i principi dell’intelletto puro Il fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in fenomeni e noumeni

Logica trascendentale I concetti della ragion pura

I paralogismi della ragion pura Dialettica trascendentale

I procedimenti dialettici della ragion pura

L’antinomia della ragion pura L’ideale della ragion pura L’uso regolativo delle idee

La disciplina della ragion pura Dottrina trascendentale del metodo

Il canone della ragion pura L’architettonica della ragion pura La storia della ragion pura

6 L’oggetto dell’indagine nell’Estetica trascendentale: le intuizioni pure

Le forme a priori della sensibilità: l’Estetica trascendentale Una Estetica trascendentale deve ricercare se vi sia nella capacità recettiva dell’uomo, attraverso cui oggetti vengono dati, una componente a priori, che preceda l’esperienza. Abbiamo visto che per Kant le rappresentazioni proprie della sensibilità sono le intuizioni, per le quali vale anzi la tesi che «la nostra natura è siffatta che l’intuizione non potrà mai essere altro che sensibile». Si esclude cioè la possibilità di una intuizione intellettuale, una rappresentazione attraverso la quale l’oggetto sarebbe dato nella sua singolarità all’intelletto. Che le intuizioni siano esclusiva663

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Parte seconda Il secolo dei lumi

mente sensibili, però, non comporta ancora che esse siano soltanto empiriche, ossia a posteriori. La tesi centrale dell’Estetica trascendentale è, al contrario, che vi siano intuizioni sensibili sì, ma anche pure. Esse sono due: lo spazio e il tempo.

Spazio e tempo come intuizioni pure Spazio e tempo sono intuizioni e non concetti

Il rifiuto della concezione di Leibniz

Spazio e tempo come rappresentazioni preliminari

Spazio e tempo come forme dell’intuizione

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In che senso spazio e tempo sono intuizioni? Kant ritiene di poter mostrare che le nostre rappresentazioni dello spazio e del tempo sono rappresentazioni di una singolarità, dunque non possono essere considerate concetti. Noi non ci rappresentiamo infatti lo spazio se non come unità, e quando parliamo di «spazi» in realtà non ci riferiamo a una pluralità di enti che rientrano sotto lo stesso concetto (come quando parliamo di «alberi», intendendo un numero indefinito di oggetti che sono compresi sotto il concetto di «albero»), ma piuttosto a parti dell’unico spazio che rappresentiamo, che non possiamo pensare come componenti il tutto per così dire per successiva costruzione, perché è il tutto a precedere qui le parti. Discorso analogo vale per il tempo. Ma perché spazio e tempo sono intuizioni pure? Qui Kant si contrappone in particolare alla dottrina leibniziana che considerava lo spazio l’ordine delle coesistenze possibili, e il tempo l’ordine delle successioni, delle possibilità incompatibili, in altri termini come relazioni (vedi Unità 5 p. 293). A questa visione Kant obietta che io non posso rappresentare relazioni di coesistenza senza rappresentare le cose come l’una esterna all’altra in luoghi differenti, e dunque devo fondarmi già sulla rappresentazione dello spazio, che deve precedere ogni impressione empirica. In altri termini, io posso concepire delle cose in relazione nello spazio solo dopo avere già rappresentato lo spazio: posso collocare se ho già rappresentato un luogo, posso ordinare spazialmente se ho già il sistema d’ordine in cui inserisco qualcosa. Riguardo al tempo, la simultaneità e la successione – ossia i due tipi di relazioni temporali tra le cose – non potrebbero neppure essere percepite come tali se già non vi fosse a fondamento la rappresentazione del tempo. Se mi rappresento una cosa che si presenta insieme o dopo un’altra, so già cosa significa «prima» e «dopo», ossia rappresento preliminarmente lo svolgersi successivo del tempo. L’apriorità di spazio e tempo è rafforzata dal fatto che sono rappresentazioni necessarie: posso immaginarmi uno spazio vuoto, un tempo senza fenomeni, ma non che non ci sia spazio e non ci sia tempo. La natura di spazio e tempo, in quanto rappresentazioni che precedono necessariamente ogni collocazione spazio-temporale, si rivela essere quella di forme o condizioni delle intuizioni sensibili empiriche, della sensibilità. Nessuna intuizione esterna è possibile senza la preliminare rappresentazione dello spazio – se percepisco un oggetto lo percepisco come esteso e questa estensione non è pensabile che come collocazione in uno spazio unico e strutturato secondo regole d’ordine che non posso ricavare da concetti (se non sapessi cos’è la spazialità nessun concetto potrebbe descrivermela). Nessuna intuizione interna (quella dello svolgersi dei nostri stati mentali) è possibile senza una rappresentazione del succedersi che parimenti non può sopraggiungere dalla percezione degli eventi interni, ma la rende possibile. Dunque in generale tutto ciò che si presenta alla nostra sensibilità è condizionato (perché altrimenti non potrebbe essere) e formato (non potrebbe acquisire la strutturazione che ha) dalle due intuizioni pure dette, che più propriamente che intuizioni si rivelano dunque forme dell’intuizione.

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Unità 14 Kant

T12

Materia e forma della sensazione

Critica della ragion pura, A 20 B 34

In ciò che appare, quello che corrisponde alla sensazione lo chiamo materia, mentre quello che rende possibile ordinare in certi rapporti il molteplice che appare, lo chiamo forma di ciò che appare. E dal momento che ciò all’interno del quale soltanto le sensazioni possono ordinarsi ed esser poste in una certa forma non può essere a sua volta una sensazione, allora, se è certo che la materia di tutto ciò che appare ci è data solo a posteriori, la forma per esso, invece, dovrà trovarsi già pronta a priori nell’animo e perciò dovrà esser possibile considerarla separatamente da ogni sensazione.

Da questa analisi Kant ricava la conseguenza di grandissima importanza che spazio e tempo non sono proprietà delle cose – degli enti in quanto tali, astrattamente e genericamente concepiti – ma forme delle rappresentazioni sensibili. Posso concepire cose fuori dello spazio e del tempo (dunque questi non sono condizioni degli enti in generale ossia dei concetti), ma non posso percepire cose fuori di essi (dunque sono condizioni di ciò che è dato alla sensibilità). Il loro carattere a priori si traduce in questo senso nei due attributi: 1) della idealità: nel senso che sono forme legate a modi di rappresentazione del soggetto, non a proprietà delle cose considerate in se stesse; 2) della realtà: nel senso che nel loro ambito, quello dei fenomeni che si presentano alla sensibilità, valgono per qualunque possibile esperienza, ossia pur essendo a priori, mostrano proprietà valide per tutti i fenomeni incontrati a posteriori. Oggettività Hanno, nei significati detti, come afferma Kant, idealità trascendentale e realtà di spazio e tempo empirica. Spazio e tempo, in altri termini, non valgono per qualunque ente pensabile, ma neppure sono «soggettivi» nel senso in cui lo sono i colori o i sapori o la sensazione di calore, relativi a modi di percepire le cose solo di fatto propri degli uomini («che possono perfino essere diversi in uomini diversi»); sono invece oggettivi in quanto valgono in linea di principio per gli unici oggetti che a noi siano dati, quelli rappresentati nella sensibilità. Nessun soggetto che abbia una sensibilità, che riceva dati, comunque sia fatto fisicamente, può non averli, può non aver queste rappresentazioni, a priori e tuttavia valide, delle cose empiriche. Idealità e realtà di spazio e tempo

Le intuizioni pure e la domanda critica Questo risultato non resta fine a se stesso, ma ha immediate conseguenze per la domanda critica circa la possibilità di conoscenze sintetiche a priori. Kant mostra come lo spazio stia a fondamento di una disciplina a priori, la geometria, che deve il suo carattere sintetico – e anche la sua validità per le cose reali – al riferimento a un’intuizione a priori, che in modo analogo all’intuizione empirica oltrepassa ciò che è contenuto nei concetti. A sua volta il tempo come intuizione pura è una condizione per concepire il mutamento, che è alla base della «teoria generale del movimento»: ed è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale. Dal riferimento al tempo come intuizione pura possono scaturire proposizioni sintetiche a priori riguardanti le leggi più generali della natura fisica (vedi La metafisica della natura, p. 675) – cosa che sarà la stessa Critica della ragion pura a dimostrare. Condizioni e limiti Dunque in analogia alla possibilità di conoscenze sintetiche a posteriori – che ridella conoscenza chiedono il riferimento a intuizioni empiriche – si è mostrata la possibilità di cosintetica priori noscenze sintetiche a priori, e assieme a tale possibilità si è anche presentata la

Forme di conoscenza fondate sulle intuizioni pure

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Parte seconda Il secolo dei lumi

condizione di essa, e dunque il suo limite: poter valere solo per gli oggetti che si danno nello spazio e nel tempo, di cui si può fare esperienza. Kant riassume le sue conclusioni riguardo le proposizioni sintetiche a priori alla fine dell’Estetica trascendentale.

T13

Risultato dell’Estetica trascendentale

Critica della ragion pura, B 73

Spazio e tempo in Kant

Abbiamo così acquisito uno degli elementi essenziali per la soluzione del problema generale della filosofia trascendentale: come sono possibili proposizioni sintetiche a priori? – e cioè le intuizioni pure, a priori, di spazio e tempo. Se nel giudizio a priori noi vogliamo andare al di là del concetto dato, è nello spazio e nel tempo che troveremo ciò che può essere scoperto a priori non nel concetto, bensì nell’intuizione che corrisponde al concetto, e che può essere connesso sinteticamente con quest’ultimo. Ma per questa ragione tali giudizi non potranno mai giungere al di là degli oggetti dei sensi, e potranno valere soltanto per gli oggetti di un’esperienza possibile. Domanda critica posta nell’Estetica trascendentale: nella fonte passiva della conoscenza, o sensibilità, vi è una componente a priori?

Esistono due condizioni a priori della sensibilità: lo spazio e il tempo

Caratteri gnoseologici di spazio e tempo: – sono intuizioni e non concetti – sono rappresentazioni che precedono la percezione dei dati, anzi senza di loro non vi sarebbe percezione – sono quindi forme a priori, o condizioni, di ogni possibile esperienza

Caratteri trascendentali di spazio e tempo: – sono rappresentazioni ideali, ossia collegate a modi di rappresentazione del soggetto – sono rappresentazioni reali, perché nell’ambito dei fenomeni valgono per qualsiasi esperienza possibile

Rapporto con le scienze: spazio e tempo sono il fondamento di possibilità di conoscenze sintetiche a priori, quali la geometria e la fisica come teoria generale del movimento

7

Il concetto di fenomeno

Nell’Estetica trascendentale Kant introduce la nozione di fenomeno contrapponendolo alla cosa in sé, ossia alla cosa pensata senza relazione alle forme soggettive nelle quali viene recepita. Fenomeno è ciò che si manifesta a un soggetto dotato di sensibilità: in questo senso non esaurisce l’ambito del possibile, degli enti pensabili, ma quello degli oggetti che possono essere dati all’uomo, che l’uomo può semplicemente incontrare. L’ontologia della sfera Kant sta così trasformando l’ontologia o metaphysica generalis: essa non si rivoldell’esperienza ge più a tutti gli enti – perché non vi è un modo per conoscere tramite proposipossibile zioni sintetiche a priori tutti gli enti – ma soltanto ai fenomeni o enti del mondo fisico. Non si può fare ontologia parlando in modo diretto degli enti, ma la si può

Fenomeno e cosa in sé

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Unità 14 Kant

Indagine sulle condizioni intellettuali dei fenomeni

T14

Trasformazione dell’ontologia

Critica della ragion pura, A 246-247 B 303

fare, limitatamente alla sfera dell’esperienza possibile, in un modo indiretto, chiedendosi a quali condizioni i fenomeni si manifestano a noi e identificando così dei caratteri che essi devono avere se devono essere a noi manifesti. Questi caratteri, come vedremo, non si limitano a quelli indicati dall’Estetica trascendentale, perché l’intuizione da sola non dà conoscenza, ma dovrà essere indagato il ruolo dell’intelletto, e quindi anche le condizioni intellettuali, non sensibili della manifestazione dei fenomeni (quello che Kant farà nell’Analitica trascendentale): ma l’ambito in cui una conoscenza non empirica dell’ente è possibile è comunque limitato a quello individuato dall’estetica, la dimensione spazio-temporale dei fenomeni. L’ontologia è possibile nella forma «modesta», ossia limitata, di una teoria a priori dei fenomeni, l’analitica trascendentale. L’analitica trascendentale ottiene […] questo importante risultato: l’intelletto non potrà fare altro a priori che anticipare la forma di una possibile esperienza in generale e, poiché ciò che non è fenomeno non può essere oggetto di esperienza, l’intelletto non potrà oltrepassare i limiti della sensibilità, entro i quali soltanto gli oggetti ci vengono dati. Le sue proposizioni fondamentali sono semplicemente principi dell’esposizione dei fenomeni, e il nome superbo di ontologia, la quale pretende di fornire conoscenze sintetiche a priori sulle cose in generale in una dottrina sistematica […], deve cedere il posto al nome modesto di una semplice analitica dell’intelletto puro. Un’ontologia che credeva di poter dire cosa sono le cose in se stesse viene sostituita da un’analitica che indica principi della esposizione, ossia della «decifrazione» dei fenomeni: che indica a priori come intenderli.

La nuova ontologia e la rivoluzione copernicana Un nuovo metodo per l’ontologia: partire dal soggetto

T15

La rivoluzione copernicana in filosofia

Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, B XVI

L’ontologia non è così solo trasformata nei contenuti, ma anche nel metodo. Kant cerca di rendere comprensibile questa trasformazione tramite l’analogia con la rivoluzione copernicana. Copernico ha cambiato il punto di vista, facendo ruotare la Terra – che nel sistema tolemaico era immobile – intorno al Sole, così la filosofia trascendentale deve cambiare radicalmente il punto di vista: non muovere da pretese proprietà dell’ente, ma dal modo in cui ci è possibile accedere all’ente stesso, e cercare in esso i caratteri a priori di qualunque fenomeno in quanto tale. Il punto metodologico di partenza non è l’oggetto ma il soggetto, la sua rappresentazione. Io dovevo pensare che gli esempi della matematica e della scienza della natura – le quali son diventate quel che sono mediante una rivoluzione attuatasi di colpo – fossero sufficientemente rilevanti da indurci a riflettere sul punto essenziale di una trasformazione del modo di pensare risultata così vantaggiosa per loro e da tentare almeno di imitarle in ciò, per quanto lo permetta l’analogia che sussiste tra loro, considerate come conoscenze razionali, e la metafisica. Finora si riteneva che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti: ma tutti i tentativi di stabilire qualcosa di a priori su questi ultimi mediante dei concetti – qualcosa con cui venisse estesa la nostra conoscenza –, a causa di quel presupposto sono finiti in niente. Per una volta, allora, si tenti di vedere se non possiamo forse adempiere meglio 667

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Parte seconda Il secolo dei lumi

ai compiti della metafisica, ammettendo che siano gli oggetti a doversi regolare sulla nostra conoscenza: ciò che di per sé meglio si accorderebbe con l’auspicata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, che stabilisca qualcosa su questi ultimi prima che essi ci vengano dati. Si tratta di una cosa simile a quella che per la prima volta pensò Copernico: poiché la spiegazione dei movimenti celesti non riusciva a procedere bene ammettendo che tutto quanto l’ordine delle stelle girasse attorno allo spettatore, egli tentò di vedere se non potesse andar meglio facendo ruotare lo spettatore e star ferme invece le stelle. Ebbene, nella metafisica si può tentare qualcosa di simile riguardo all’intuizione degli oggetti. Se l’intuizione dovesse regolarsi sulla natura degli oggetti, non vedo in che modo se ne potrebbe sapere qualcosa a priori; se invece è l’oggetto (inteso come oggetto dei sensi) a regolarsi sulla natura della nostra facoltà intuitiva, posso benissimo rappresentarmi questa possibilità. Ma poiché non posso fermarmi a queste intuizioni, se esse devono diventare delle conoscenze, bensì devo riferirle, in quanto rappresentazioni, a un qualcosa come oggetto, e devo determinare quest’ultimo per loro tramite, allora i casi possono essere due: o ammetto che i concetti con i quali attuo questa determinazione si regolino anch’essi sull’oggetto, e allora vengo a trovarmi di nuovo nell’imbarazzo di prima riguardo al modo in cui posso saperne qualcosa a priori; oppure ammetto che gli oggetti o – il che è lo stesso – l’esperienza, nella quale soltanto essi vengono conosciuti (come oggetti dati) si regolino su questi concetti. Forme dell’apparire e forme del pensare

Perché questo capovolgimento fosse possibile per delle intuizioni, esse dovevano essere intese, abbiamo visto, in un modo molto particolare: non come sensazioni, ma come forme e condizioni dell’apparire delle cose nello spazio e nel tempo. In modo simile, i concetti qui in gioco saranno dei concetti del tutto particolari, che in realtà sono forme che permettono la pensabilità dei fenomeni empirici. L’apparente assurdo di un oggetto che si regola sulla sua rappresentazione (ossia su qualcosa che secondo il senso comune dovrebbe seguirlo e non renderlo possibile) svanisce se l’oggetto deve regolarsi su dei modi generali e inevitabili di essere rappresentato, senza i quali non potrebbe essere per noi «oggetto».

La natura dei fenomeni

Fenomeni non come mera parvenza, ma come oggetti di un’esperienza possibile

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La nozione di fenomeno non si comprende però soltanto in opposizione alla cosa in sé e dunque per il suo ruolo nella «rivoluzione del modo di pensare» costituita dalla filosofia trascendentale: è importante anche chiarire qual è il senso di questo concetto in quanto tale. Anzitutto va sottolineata l’oggettività dei fenomeni. Che le cose di cui si può fare conoscenza sintetica a priori siano fenomeni non vuol dire che dietro di essi vi sia una realtà sostanziale, che ogni fenomeno abbia la sua nascosta cosa in sé, e che dunque i fenomeni siano una mera parvenza. La cosa in sé indica soltanto uno spazio pensabile, che non può essere raggiunto ma neppure occupato (e eventualmente negato) dalla conoscenza. Ma questo non toglie oggettività ai fenomeni: se si sostiene, dice Kant, che le intuizioni nello spazio e nel tempo rappresentano i loro oggetti «nel modo in cui questi ultimi producono un’affezione sui nostri sensi, cioè nel modo in cui essi ci appaiono, questo non vuol dire che quegli oggetti siano una semplice parvenza». I fenomeni non sono apparenze, ma gli «oggetti di una esperienza possibile».

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Unità 14 Kant Conoscibilità della natura e leggi di relazione

T16

Fenomeni come rapporti

Critica della ragion pura, B 67

La materia come insieme di relazioni

T17

La materia

Critica della ragion pura, A 265 B 321

Perdita di senso e di legittimità dell’ontologia sostanzialistica

Una nuova ontologia

Con il concetto di fenomeno Kant continua a trarre le conseguenze dal ruolo di modello per la conoscenza della natura assunto dalla moderna scienza fisico-matematica della natura. In questa non sono le essenze delle cose a essere indagate – la natura «interna» che rende conto di tutte le proprietà dell’ente – ma le condizioni del prodursi degli eventi spazio-temporali, condizioni che sono riconducibili a leggi di relazioni, a funzioni. È quanto riconoscevano autori come Cartesio e Leibniz, conservando però in qualche modo l’ancoraggio delle relazioni che costituiscono i fenomeni in una natura sostanziale, seppure non considerata nella scienza fisica. Kant spezza l’ultimo filo con una visione sostanzialistica delle cose. Tutto ciò che nella nostra conoscenza appartiene all’intuizione […] non contiene altro se non semplici rapporti: rapporti di luoghi in un’intuizione (estensione), mutamento di luoghi (movimento), leggi secondo cui tale mutamento viene determinato (forze motrici). Con questo, però, non ci vien dato ciò che è presente nel luogo, o ciò che agisce nelle cose stesse al di fuori del mutamento di luogo. Ciò che nei fenomeni appare come sostanza, come sostrato dei mutamenti, ossia la materia, non ha in realtà nulla di interno: le sue determinazioni «non sono nient’altro che relazioni, ed essa stessa è in tutto e per tutto un insieme di mere relazioni». La sostanza nello spazio la conosciamo soltanto tramite forze che sono operanti in esso, per attirarvene altre (attrazione) o per impedire ad altre di penetrarvi (repulsione e impenetrabilità); non conosciamo altre proprietà che costituiscano il concetto di sostanza che appare nello spazio e che chiamiamo materia. Ciò che si potrebbe affermare per le cose in generale, considerate in se stesse (per esempio che delle relazioni devono fondarsi su sostanze), non vale se si assume che le cose abbiano una natura spazio-temporale, rispetto alla quale non ha senso parlare di qualcosa di «interno». I fenomeni sono regole di relazioni. Se si muove non da «enti» astrattamente considerati, ma – secondo la rivoluzione copernicana in filosofia – dalle condizioni (sensibili) attraverso cui le cose ci sono date, ogni ontologia sostanzialistica perde senso e legittimità. Distinzione tra fenomeno e cosa in sé nell’Estetica trascendentale: l’ontologia deve occuparsi solo dei fenomeni

Perdita dell’ultimo legame con il sostanzialismo e nascita di una nuova ontologia

Oggetti – i fenomeni, intesi non come mera parvenza, bensì come oggetti di un’esperienza possibile – i fenomeni non hanno natura sostanziale, ma sono regole di relazioni – le condizioni sensibili (Estetica trascendentale) e intellettuali (Analitica trascendentale) del prodursi dei fenomeni, cioè del loro manifestarsi a noi = leggi di relazioni e di funzioni

Metodo: si parte non più dalle pretese proprietà dell’ente, bensì dal soggetto, cioè dai modi generali e inevitabili attraverso i quali questo rappresenta l’oggetto dell’esperienza sensibile (rivoluzione copernicana)

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8 Una nuova domanda critica

Le forme a priori dell’intelletto: l’Analitica trascendentale Chiarire come possano valere a priori le forme attraverso le quali soltanto i fenomeni possono essere assunti dalla sensibilità è un compito relativamente facile, rispetto a quello successivo – indispensabile se si deve raggiungere la possibilità di una conoscenza a priori – di stabilire come possano valere per i fenomeni, prima che essi vengano conosciuti nella loro particolarità empirica, proposizioni che siano appunto sintetiche e a priori, e dunque concetti puri. In che modo il pensiero può esser condizione dei fenomeni?

Giudizi e categorie Se conoscere è propriamente giudicare con l’ausilio dell’intuizione, potrà essere conosciuto ciò che è conforme non soltanto alle forme dell’intuizione, ma ai modi in cui noi possiamo giudicare. Si tratta allora di stabilire: 1) in che modi noi giudichiamo (quali sono le forme possibili di conoscenza); 2) come devono essere i fenomeni per poter essere giudicati in quelle forme; 3) se e perché questi modi di conoscenza sono necessari, validi oggettivamente. Kant pensa di poter rispondere a tutti e tre questi problemi. Modi del giudicare I modi in cui giudichiamo sono dati dai possibili modi di giudizio, cioè dalle pose modalità di giudizio sibili modalità di congiungere concetti tra di loro. I giudizi sono per Kant «funzioni dell’unità delle nostre rappresentazioni». Kant individua quattro aspetti in cui si possono considerare i giudizi, operando delle modifiche alla tradizionale logica aristotelica, ma nell’ambito di un’analisi della forma dei giudizi, prescindendo dal loro contenuto. I giudizi possono esser considerati dal punto di vista della loro quantità, essere cioè universali, particolari o singolari; dal punto di vista della loro qualità, ossia possono essere affermativi, negativi o infiniti; dal punto di vista della relazione, che li caratterizza come categorici, ipotetici o disgiuntivi; dal punto di vista della loro modalità, distinguendosi in problematici, assertori, apodittici. Tre problemi sulla conoscenza

Classificazione e funzioni logiche dei giudizi Tavola dei giudizi Quantità

Qualità

Relazione

Modalità

Universali Particolari Singolari Affermativi Negativi Infiniti Categorici Ipotetici Disgiuntivi Problematici Assertori Apodittici

Esempio Tutti gli A sono B Qualche A è B Questo A è B Tutti gli A sono B Tutti gli A non sono B Tutti gli A sono non B Tutti gli A sono B Se P allora Q OPoQ È possibile che tutti gli A siano B Tutti gli A sono B È necessario che tutti gli A siano B

Nell’esemplificazione dei giudizi le lettere A e B indicano concetti, mentre P e Q indicano proposizioni.

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Unità 14 Kant Analisi dei giudizi nella logica trascendentale

Un’unica funzione unificante nell’intelletto

Esempi di giudizi unificanti

Ogni giudizio ha dunque una quantità, una qualità, una relazione e una modalità. Per esempio il giudizio «tutti gli A sono B» è un giudizio universale, affermativo, categorico e assertorio. Quelle indicate esauriscono secondo Kant tutte le «funzioni logiche», ossia i tipi di «unità di quell’operazione che ordina diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune» (i giudizi ipotetici e disgiuntivi sono un caso particolare, in quanto unione di giudizi, non di concetti: per esempio «se la temperatura scende sotto lo zero, l’acqua si congela»). Si tratta già di un’analisi propria di una logica trascendentale, cioè rivolta al problema della conoscenza a priori, non soltanto perché alcune distinzioni non sarebbero valide per la logica soltanto formale («generale», diceva Kant), ma perché l’uso di questa tavola è quello di consentire di individuare dei concetti puri, che Kant chiama – anche qui trasformando un termine aristotelico – «categorie». L’idea di fondo di Kant è che la stessa funzione dell’intelletto che unifica delle rappresentazioni in un giudizio è anche in grado di unificare le rappresentazioni in una intuizione: in altri termini, al giudizio come unione di concetti corrisponde un’unificazione della molteplicità di dati che la percezione sensibile ci presenta, e un’unificazione diversa a seconda della forma di unificazione pensata nel giudizio. Così, a un giudizio singolare corrisponderà una funzione di congiungere in una unità ciò che ci si presenta nella intuizione sensibile: di ritagliare, per usare questo paragone, in un’immagine una parte, distinta dal resto, che corrisponde al concetto di «cane» (vedi Figura 1). A un giudizio affermativo corrisponderà una funzione che identifica una «realtà», ossia una qualità positiva (per esempio, in una immagine, il nero). A un giudizio ipotetico corrisponderà la nozione di una connessione necessaria tra eventi, ossia il concetto di causa. A un giudizio assertorio corrisponderà il concetto di qualcosa di effettivamente dato, di esistente (non di semplicemente possibile, né di esistente in modo necessario).

Figura 1

In un campo visivo dato da molteplici macchie di colore noi ‘ritagliamo’ delle parti cui conferiamo una unità – per esempio identifichiamo come «cane» una parte degli stimoli che ci raggiungono. Per Kant possiamo identificare un oggetto sensibile in base a un concetto (una categoria) di unità che non ricaviamo dall’esperienza, ma che ci serve a fare esperienza e quindi la precede. (Rielaborazione grafica di un disegno tratto dal libro Illusioni, Idea Libri, Milano 1993.)

Pensabilità dei concetti puri fondata sulle modalità dei giudizi

In questo modo Kant ricava una tavola di concetti puri che si riferiscono a un oggetto in generale secondo le diverse modalità attraverso cui può essere pensato: indicano un oggetto in generale pensato secondo una delle forme logiche dei giudizi. Le categorie indicano dunque come deve essere un oggetto perché possa essere pensato – giudicato – da noi, analogamente a come le forme dell’intuizione indicavano come deve essere un oggetto per poter essere percepito da noi: «esse sono concetti di un oggetto in generale, per mezzo dei quali si considera l’intuizione di quell’oggetto in quanto determinata rispetto a una delle funzioni logiche del giudicare». 671

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Parte seconda Il secolo dei lumi Identità dei meccanismi di unificazione

Concetti puri e principi come regole di ‘lettura’ dei fenomeni

Regole a priori ma non innate

T18

L’a priori e l’esperienza

Critica della ragion pura, B 1-B 2

L’idea che la funzione che dà unità ai concetti nei giudizi sia la stessa che dà unità alle intuizioni nella percezione significa che le forme di collegamento tra i concetti (quelle indicate nella tavola dei giudizi) non sono un semplice gioco di congiunzione tra pensieri, ma esprimono modi di unificare ciò che ci si manifesta nei fenomeni, regole per decifrare ciò che vediamo – Kant dice: per «compitare i fenomeni, per poterli poi leggere come esperienza». Nel leggere dobbiamo prima identificare macchie sul foglio, riconoscerle come lettere, per poi poter leggere e intendere una frase; e per compiere questa identificazione dobbiamo già conoscere in anticipo le lettere, e per intendere dobbiamo conoscere anche il linguaggio in cui la frase è scritta. In modo analogo, per poter comprendere i fenomeni dobbiamo decifrarli in base a regole (i concetti puri o categorie) che già conosciamo (a priori) e interpretarli in base a dei principi dell’intelletto (che sono i giudizi sintetici a priori in cui usiamo i concetti puri), anch’essi già noti prima dell’esperienza. Queste regole sono a priori, ma non sono idee innate: sono forme per leggere l’esperienza, che non ricaviamo da essa, anche se non sono nulla e non sussistono senza l’esperienza – sono appunto simili alla conoscenza di un linguaggio, più che alla conoscenza di contenuti di un linguaggio. Anticipano come leggere, non cosa troviamo scritto: qualunque contenuto conoscitivo per Kant è derivato dall’esperienza, ma non tutto ciò che costituisce una conoscenza è ricavato dall’esperienza. I concetti puri sono, dice Kant, non innati, ma originariamente acquisiti: nascono con l’esperienza, ma non dall’esperienza. Tutte le nostre conoscenze – non vi è alcun dubbio – cominciano con l’esperienza: da che cos’altro, infatti, la nostra facoltà conoscitiva potrebbe essere provocata ad esercitarsi, se non dagli oggetti che toccano i nostri sensi, e che da un lato producono essi stessi delle rappresentazioni, dall’altro mettono in movimento l’attività del nostro intelletto, perché confronti, unisca o separi queste rappresentazioni, ed elabori in tal modo la materia grezza delle impressioni sensibili in una conoscenza degli oggetti, che è quel che chiamiamo esperienza? Nell’ordine cronologico, dunque, nessuna conoscenza in noi precede l’esperienza, e ognuna comincia con essa. Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non per questo essa deriva tutta quanta dall’esperienza. Potrebbe darsi benissimo, infatti, che la nostra stessa conoscenza empirica sia un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e ciò che la nostra propria facoltà conoscitiva (semplicemente provocata dalle impressioni sensibili) apporta da se stessa: un’aggiunta, questa, che noi non distinguiamo rispetto a quella materia prima, fino a quando un lungo esercizio non ce la faccia riconoscere e non ci renda capaci di separare le due cose.

L’uso delle categorie Derivazione delle categorie dai giudizi

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Le categorie sono ricavate dalla loro corrispondenza con le funzioni logiche del giudicare, e dunque dalla tavola dei giudizi, in un modo che secondo Kant è sistematico – basato su un principio – e perciò esaustivo, a differenza delle categorie aristoteliche, che sono un elenco privo di un principio di derivazione. Nella Critica della ragion pura Kant presenta questa Tavola delle categorie ricollegandole esplicitamente ai quattro aspetti dei giudizi: quantità, qualità, relazione e modalità.

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Unità 14 Kant 1. Della quantità unità pluralità totalità

Tavola delle categorie

2. Della qualità realtà negazione limitazione

3. Della relazione di inerenza e sussistenza (substantia et accidens) di causalità e dipendenza (causa ed effetto) di comunanza (azione reciproca tra l’agente e il paziente) 4. Della modalità possibilità – impossibilità esistenza – inesistenza necessità – contingenza

Dalle categorie ai giudizi sintetici a priori

Operazioni che rendono possibile l’esperienza

Traduzione delle categorie in concetti sensibili: schematismo trascendentale

Le categorie così elencate sono però concetti puri, mentre i giudizi sintetici a priori devono essere appunto giudizi, proposizioni. Con le categorie viene pensato un oggetto in generale conforme alle forme logiche del giudizio, ma perché questi concetti diano conoscenze devono essere applicati: applicati all’intuizione pura, allo spazio e al tempo. Anche in questo caso conoscenze sintetiche sono possibili attraverso il riferimento all’intuizione. Questo significa per Kant che quei concetti di un oggetto in generale devono esser «tradotti» in termini spaziotemporali, dando luogo a regole per la decifrazione dei fenomeni, per poterli leggere come «esperienza». Per avere un’esperienza, ossia una conoscenza strutturata dei fenomeni, che sia qualcosa di più di semplice ricezione di dati, almeno nella sua forma minima e più elementare (quella data da un giudizio come «questo è un cane») io devo essere in grado di: 1) poter indicare una unità distinguibile; 2) poter indicare delle qualità positive; 3.1) poter reidentificare qualcosa rispetto a variazioni del suo stato; 3.2) poterlo identificare in relazione al posto che occupa nella successione di stati o eventi; 3.3) poterlo identificare in relazione al posto che occupa rispetto a enti coesistenti. Queste operazioni, che corrispondono ai primi tre gruppi di categorie, sono possibili attraverso principi che ci danno indicazioni su come si possa – nella dimensione spazio-temporale dei fenomeni – realizzarle. Le categorie, che indicano appunto un oggetto in generale come corrispondente a una delle forme del giudicare, devono per questo tradursi in rappresentazioni che indichino le condizioni intuitive della loro applicazione: per esempio, le categorie della quantità si traducono nella rappresentazione di una intuizione omogenea nel tempo, e identificata rispetto all’estensione; quelle della qualità nella rappresentazione di un grado nella sensazione che «riempie» un certo tempo; la categoria di causa nella rappresentazione di un mutamento (che si svolge nel tempo) secondo una regola necessaria della successione. A questa traduzione delle categorie in concetti «sensibili» Kant dà il nome di «schematismo trascen673

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Parte seconda Il secolo dei lumi

L’immaginazione come facoltà unificante

Mediatrice tra dati sensibili e concetti

Principi dell’intelletto puro

Definizione dei principi in relazione ai primi tre gruppi di categorie

Differenti rapporti tra categorie

Le analogie dell’esperienza

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dentale», indicando come schema «la condizione formale e pura della sensibilità a cui si restringe il concetto dell’intelletto nel suo uso». Questo processo è attribuito da Kant alla facoltà dell’immaginazione, la quale in questo caso opera sulla forma pura del tempo, ma in generale è vista come la facoltà che unifica, compone intuizioni in una immagine unitaria (opera una «sintesi»), sulla base delle regole intellettuali rappresentate dalle categorie. L’operazione dell’immaginazione viene detta di «sintesi figurata» ed essa in questo agire sulla base della spontaneità è, dice Kant, «immaginazione produttiva»: non si limita a riprodurre immagini passivamente, ma le costruisce in quanto tali – interviene cioè, dice Kant, nello stesso processo di percezione. È l’immaginazione a mediare tra la dimensione dei dati sensibili e la dimensione dei concetti, «disegnando» immagini in base a concetti. Il suo status intermedio ne fa un facoltà di problematica definizione: Kant le attribuisce nella prima edizione della Critica della ragion pura (1781) un’importanza particolare, e quasi dignità di facoltà autonoma, che poi corregge parzialmente nella seconda edizione (1787), concependola non più come funzione «dell’anima», ma come funzione «dell’intelletto». Dall’insieme di conoscenze a priori possibili sulla base della traduzione delle categorie in termini sensibili – attraverso lo schematismo trascendentale dell’immaginazione – si ricavano delle regole presupposte prima di svolgere ogni esperienza, ma che consentono di svolgerla: i principi o proposizioni fondamentali dell’intelletto puro, le vere e proprie conoscenze sintetiche a priori. Viene presupposto anzitutto che ogni fenomeno è quantificabile, sia in relazione alla sua estensione nello spazio che al suo grado. I principi che corrispondono ai primi due gruppi di categorie sono che «tutte le intuizioni sono quantità estensive» e che «in tutti i fenomeni il reale che è oggetto della sensazione ha un quantità intensiva cioè un grado». Il principio corrispondente alle categorie della relazione – «l’esperienza è possibile soltanto mediante la rappresentazione di una connessione necessaria delle rappresentazioni» – si articola in tre aspetti, perché, a differenza dei primi due gruppi di categorie, la loro applicazione non si esclude reciprocamente. Se infatti si applica o la realtà o la negazione, o l’unità o la pluralità, perché corrispondono a forme di giudizi che non sussistono insieme (un giudizio è o affermativo o negativo), i giudizi ipotetici e disgiuntivi sono connessioni tra giudizi, non tra concetti, e dunque si possono applicare insieme (un giudizio ipotetico è per esempio la congiunzione di due giudizi categorici). Tradotto in categorie ciò significa che io presuppongo insieme per gli stessi fenomeni la permanenza di una materia che si modifica, i nessi causali tra i suoi mutamenti e l’azione reciproca tra elementi interagenti simultaneamente. Vi saranno allora tre principi legati alle categorie di relazione e che prendono il nome di «analogie dell’esperienza»: 1) in ogni cambiamento dei fenomeni, la sostanza permane e il quantum di essa nella natura non viene né accresciuto né diminuito (permanenza della sostanza); 2) tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto (causalità); 3) tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come simultanee, si trovano tra loro in azione reciproca universale (azione reciproca).

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Unità 14 Kant Categorie di modalità e rapporto con il soggetto

Le categorie della modalità non contribuiscono invece a prefigurare un oggetto in generale, a determinarne il concetto a priori, ma indicano secondo Kant solo diverse forme di rapporto con il soggetto conoscente, che finiscono per caratterizzare l’oggetto di esperienza come possibile, reale o necessario. Sono questi principi a costituire la «fisica pura» che Kant annovera tra le conoscenze sintetiche a priori, e che riterrà di poter sviluppare ulteriormente in un’opera intitolata Primi principi metafisici della scienza della natura.

La metafisica della natura Come abbiamo visto Kant procede verso una ridefinizione della metafisica, che si pone vari obiettivi, tra cui anche quello di elaborare un sistema di concetti puri (ossia liberi da ogni condizionamento empirico) e di proposizioni sintetiche a priori della scienza della natura, ossia della fisica. Rispetto ai concetti elaborati nella filosofia trascendentale, che si riferisce a una natura in generale, quelli della metafisica della natura non sono del tutto puri, presuppongono «una natura particolare di questa o quella specie di cose, delle quali è dato un concetto empirico», senza però utilizzare oltre a questo nessun altro concetto empirico. Per la metafisica della natura corporea è dato il concetto di materia, che include in sé, a differenza di quanto avveniva nella Critica della ragion pura, il concetto di movimento. Nell’opera intitolata Primi principi metafisici della scienza della natura Kant espone questa parte della metafisica, definendo autentica scienza della natura quella che contiene una parte pura. È possibile una scienza della natura corporea come dottrina del movimento; la sua

scientificità è legata alla matematica contenuta in essa. Autentica scienza della natura è dunque la fisica. La chimica, non avendo una parte a priori, è solo una «dottrina sperimentale»; e la scienza della «natura pensante», la psicologia, non può essere neppure questo, ma soltanto una «descrizione naturale». Kant individua i principi che permettono di ‘fare scienza’ nell’ambito della fisica, stabilendo concetti come quelli di forza motrice, attrazione, repulsione, massa, o leggi come quella della impenetrabilità della materia, della permanenza della quantità di materia, dell’inerzia ecc. Lo fa riferendo ai concetti di materia e movimento i principi generali dell’intelletto. Per esempio dal principio a priori dell’intelletto che dice che «tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come simultanee, si trovano tra loro in azione reciproca universale» deriva un principio che stabilisce che a ogni azione di un corpo corrisponde una reazione uguale e contraria. La parte a priori della scienza della natura così stabilita costituisce il quadro al cui interno l’individuazione di leggi empiriche particolari e la loro conferma sperimentale può avere luogo.

La legittimazione delle categorie: l’io penso Dimostrare l’effettivo valore conoscitivo delle categorie

La deduzione trascendentale deve legittimare l’uso delle categorie

Kant si rende conto che la sua limitazione della conoscenza a priori al campo dell’esperienza possibile può essere attaccata sia dai sostenitori della metafisica tradizionale sia da coloro che negano in un modo più radicale, senza eccezione, la possibilità di una conoscenza a priori. Il compito positivo di dimostrare che siamo effettivamente in possesso di conoscenze sintetiche a priori è dunque altrettanto importante di quello critico. È necessario non soltanto mostrare che di fatto possediamo conoscenze non derivate dall’esperienza, ma anche che esse si riferiscono all’esperienza, che non sono, in altri termini, conoscenze apparenti o illusorie: che abbiamo il diritto di considerarle effettive conoscenze. Il compito di dimostrare la legittimità di un possesso era indicato nel linguaggio giuridico dell’epoca con il termine «deduzione» (ancora oggi si parla in giurisprudenza di «deduzioni» e «controdeduzioni»). Kant si propone dunque una «deduzione trascendentale» delle categorie. La deduzione trascendentale deve affrontare il punto cruciale che l’Estetica trascendentale non aveva bisogno di trattare: comprendere in che modo le condizioni soggettive del pensiero debbano avere validità oggettiva, o in altri termini perché mai i fenomeni dati attraverso la sensibilità debbano essere conformi alle forme del giudicare. Il destino della «rivoluzione copernicana» in filosofia si gioca 675

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Premesse della teoria kantiana della conoscenza

La sensibilità: molteplicità senza unità

Un soggetto è sempre necessario per comporre il molteplice in unità

Io come funzione di unificazione

Legittimazione delle categorie

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in questa argomentazione, che Kant considerava la ricerca più importante esistente riguardo alla facoltà dell’intelletto e anche quella che gli era costata la maggior fatica – non a caso ne scrisse una nuova versione per la seconda edizione della Critica della ragion pura. Bisogna ricordare, per comprenderla, alcune importanti premesse della teoria kantiana della conoscenza: 1) gli oggetti dell’esperienza, i fenomeni, sono insiemi di relazioni regolate: non sostanze la cui natura è determinata da una essenza concettuale; 2) il giudicare si riferisce all’operazione di unificazione di rappresentazioni generali (ossia concetti) che colgono gli oggetti attraverso loro tratti caratteristici parziali (le «note»), estrinseci, che non esprimono alcuna natura interna. I concetti vengono composti, creati e connessi tra di loro, in un processo costruttivo graduale, che segue lo svolgersi dell’esperienza. Il concetto non esprime un’essenza (come in Leibniz) né si fonda su un rapporto di somiglianza delle rappresentazioni o di alcune loro componenti con le cose (come negli empiristi) ma assume valore cognitivo tramite una graduale composizione regolata. Se non vi è un’unità sostanziale nelle cose che fonda il presentarsi relazionale dei fenomeni (come avviene per esempio con le monadi leibniziane che fondano le manifestazioni fenomeniche dei corpi), l’unità è garantita soltanto dalle regole dell’atto di composizione. Allo stesso tempo, non vi possono essere relazioni senza un soggetto che le riconosce (per fare un esempio: «A è più lungo di B» non esprime proprietà in sé di A e B che possano essere pensate sussistere senza un confronto, svolto da qualcuno). Dunque il semplice presentarsi, essere «date» delle cose non contiene di per sé alcuna unità e alcun collegamento. La sensibilità in quanto tale offre, per Kant, un molteplice senza unità – una «rapsodia» di sensazioni. Qualunque unità sorge da un processo attivo, dalla operazione di composizione da parte di un soggetto, della sua facoltà attiva, l’intelletto. È questo il motivo per il quale il soggetto delle operazioni intellettuali – che Kant chiama l’«io penso» o «appercezione trascendentale» o «autocoscienza trascendentale» – ha un ruolo cruciale. Le relazioni e le operazioni di composizione devono fondarsi su un punto fisso, che fa da «sostrato» di tutti i pensieri (è Kant a trasformare il termine subjectum, che indicava un sostrato metafisico, senza alcun riferimento alla mente o all’io, per portarlo a designare quello che oggi chiamiamo «soggetto»). Questa funzione è svolta dall’Io: «Attraverso questo io o egli o esso (la cosa) che pensa non viene rappresentato altro che un soggetto trascendentale dei pensieri = x che non è conosciuto se non mediante i suoi pensieri che sono suoi predicati e di cui, preso per sé, non possiamo avere mai il minimo concetto». Un tale Io è una funzione di unificazione, non una realtà psicologica, non una identità personale di un certo individuo: di esso non sappiamo appunto nient’altro se non la funzione che esercita, senza la quale non possiamo però concepire nessuna esperienza. Sull’individuazione di questo Io trascendentale, e sull’autocoscienza che lo caratterizza, Kant impianta la legittimazione delle categorie. La leva per dimostrarla è data dalla tesi che la validità oggettiva delle categorie, il loro riferirsi a priori agli oggetti dell’esperienza ha tanta certezza quanta ne ha l’autocoscienza dell’atto «Io penso»: le due cose si implicano a vicenda, e questo ha conseguenze importanti sia per la concezione dell’io che per quella dell’esperienza. La premessa di tutto è che qualunque rappresentazione che deve costituire co-

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noscenza deve poter diventare oggetto di una coscienza intellettuale riflessa, di un’autocoscienza: deve poter esser oggetto del pensiero di un soggetto, altrimenti non sussisterebbe come conoscenza. Qualunque rappresentazione – anche una intuizione – che non può diventare cosciente è per me come se non ci fosse.

T19

L’io penso e le rappresentazioni

Critica della ragion pura, B 132

L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché, se così non fosse, in me verrebbe rappresentato qualcosa che non potrebbe affatto essere pensato: il che vuol dire, in altri termini, o che la rappresentazione sarebbe impossibile, o che essa – almeno per me – non sarebbe nulla. Ora, se la rappresentazione che può esser data prima di ogni pensiero si chiama intuizione, ogni molteplice dell’intuizione avrà un rapporto necessario con l’io penso, nello stesso soggetto in cui viene trovato questo molteplice. Ma questa rappresentazione – l’io penso – è un atto della spontaneità, e cioè non può esser considerata come appartenente alla sensibilità. Io la chiamo l’appercezione pura, per distinguerla da quella empirica, o anche l’appercezione originaria, poiché essa è quell’autocoscienza che, producendo la rappresentazione io penso – la quale deve poter accompagnare tutte le altre, ed è una ed identica in ogni coscienza –, non può essere accompagnata a sua volta da nessun’altra rappresentazione. L’unità propria di essa, io la chiamo pure l’unità trascendentale dell’autocoscienza, per designare la possibilità della conoscenza a priori che si fonda su di essa.

Da questa importante premessa consegue che qualunque rappresentazione, anche l’intuizione, deve sottostare alle condizioni che le permettano di esistere insieme alle altre in un’unica autocoscienza: tutte devono poter coesistere – essere unificate – «in un’autocoscienza universale». Questo non significa per Kant essere «contenute» di fatto in una mente (questa sarebbe un’autocoscienza empirica), ma piuttosto poter essere tessute insieme in base alle stesse regole: la coscienza si riconosce come identica a se stessa, in ogni sua rappresentazione, riconoscendo le proprie regole di unificazione – e queste non sono altro che le categorie. Unità della coscienza Dunque da un lato le rappresentazioni non possono costituire conoscenza se non dettata dalle regole unificate in un identico io che faccia da sostrato, dall’altro l’io deve la sua idendi unificazione tità alla sintesi delle rappresentazioni. Le rappresentazioni sono mie perché le unifico in un’unica coscienza; la coscienza è unica non perché sia una sostanza sussistente per sé, né perché risulti dall’unificazione, ma perché riconosce nell’unificazione le sue regole necessarie, date a priori. Unificazione necessaria di tutte le rappresentazioni

T20

Il principio supremo della conoscenza umana Critica della ragion pura, B 133

[…] è solo in quanto io posso comprendere in un’unica coscienza il molteplice delle rappresentazioni, che le chiamo, tutte quante, mie rappresentazioni. In caso contrario, infatti, io avrei un me stesso tanto variopinto e differenziato, a seconda di quante siano le rappresentazioni di cui sono cosciente. L’unità sintetica del molteplice delle intuizioni – in quanto data a priori – è dunque il fondamento dell’identità della stessa appercezione, che precede a priori ogni mio determinato pensiero. La congiunzione però non risiede mai negli oggetti, né la si può ricavare da questi ultimi, con una qualche percezione, per farla assumere poi nell’intelletto: in realtà essa è soltanto un lavoro dell’intelletto, e quest’ultimo, da parte sua, non è altro che la facoltà di congiungere a priori, e di portare sotto l’unità dell’appercezione il molteplice di rappresentazioni date. Questo è il principio supremo di tutta la conoscenza umana. 677

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L’autocoscienza si costituisce unificando le rappresentazioni e riconoscendo come necessarie le regole di unificazione: per questo motivo Kant parla anche di una unità oggettiva dell’appercezione. Viceversa vale come oggettivo ciò che sottostà a regole necessarie: la copula «è», che unifica concetti in un giudizio, riconosce che la sintesi non è soggettiva, non dipende da qualcosa che riguardi quel particolare soggetto, ma è compiuta in base a regole universali e necessarie. I principi a priori non sono, dice Kant, un’«arbitraria necessità soggettiva che è piantata in noi», ma condizioni valide per qualunque esperienza possibile, in generale: per qualunque soggetto cui gli oggetti siano dati. Autocoscienza e forme In definitiva, la validità delle categorie come condizioni cui deve sottostare ogni di unificazione intuizione per essere conosciuta ha la stessa solidità dell’autocoscienza: non si può ammettere quest’ultima senza ammettere la validità delle forme a priori di unificazione. D’altra parte non vi è autocoscienza se non come struttura universale e necessaria dell’unificazione del molteplice: essa non è una cosa, ma una funzione, non è oggetto di conoscenza ma condizione di ogni conoscere.

Correlazione tra oggettività e necessità delle regole

I giudizi, le categorie e l’Io penso

Analisi delle forme del giudizio

In che modi noi giudichiamo e quali sono le forme possibili di conoscenza

Un’unica e medesima funzione: – unifica le rappresentazioni in un giudizio – unifica le rappresentazioni in una intuizione Derivazione delle categorie dai giudizi: le forme di collegamento tra i concetti (quelle indicate nella tavola dei giudizi) non sono un semplice gioco di congiunzione tra pensieri, ma esprimono modi di unificare il molteplice dell’intuizione Concetti puri e principi dell’intelletto sono le regole di ‘lettura’ dei fenomeni

Tre problemi sulla conoscenza

Se e perché i concetti puri dell’intelletto sono validi oggettivamente, cioè si riferiscono a oggetti dell’esperienza = deduzione trascendentale delle categorie

Oggetti dell’esperienza = fenomeni, cioè insiemi di relazioni la cui unità non è garantita da un’essenza interna sostanziale

L’essere date delle cose nella sensibilità non contiene alcuna unità L’unità degli oggetti può sorgere solo dal processo attivo e intellettuale di composizione da parte di un’autocoscienza («Io penso»), che funge da punto fisso di tutti i nostri pensieri: autocoscienza come condizione di possibilità di un qualsiasi oggetto

La coscienza si riconosce come identica a sé solo riconoscendo le proprie regole a priori di unificazione, cioè le categorie: legittimazione dell’uso delle categorie in riferimento agli oggetti dell’esperienza

Come devono essere i fenomeni per poter essere giudicati in quelle forme

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Per poter essere ‘letti’ i fenomeni devono poter essere sottoposti a una serie di operazioni: essere identificati come un’unità, avere delle qualità ecc.

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9 Intelletto, facoltà di giudizio e ragione

Problemi per la ragione nel realizzare una conoscenza a priori

La ragione ricerca l’incondizionato, ossia la totalità delle condizioni

La ragione in senso stretto: la Dialettica trascendentale La Critica della ragion pura indaga in generale la ragione umana (e, abbiamo visto, anche la sensibilità), che Kant considera però composta di diverse capacità, tra loro collegate ma distinte: l’intelletto, la facoltà di giudizio, la ragione in senso stretto. Se l’intelletto è la facoltà dei concetti o delle regole, la facoltà di giudizio è la capacità di usare i concetti, ossia di giudicare; la ragione infine è la capacità di inferire, ossia di collegare tra di loro dei giudizi per ricavarne conoscenze. Più esattamente, la ragione deriva il particolare dall’universale: le inferenze della ragione sono quelle tradizionalmente chiamate sillogismi, dove da una premessa che vale come principio generale si ricavano conseguenze. In un esempio classico: se «tutti gli uomini sono mortali» e «Socrate è un uomo», allora «Socrate è mortale». Se si esce dalla caratterizzazione solo logica della ragione, e si assume il punto di vista trascendentale, ossia si considera in che misura questa facoltà possa dar luogo da sola a conoscenze a priori, si presentano problemi. Se si chiama quella in cui si conosce il particolare dall’universale mediante concetti, conoscenza derivata da principi, si vede come sia problematico concepirla, ossia concepire una conoscenza che derivi solo da principi. Le proposizioni generali da cui traiamo conclusioni sono valide infatti solo se facciamo riferimento a un’intuizione, per le conoscenze a priori a un’intuizione pura. Una conoscenza in base a principi sarebbe «tutt’altra cosa rispetto a una semplice conoscenza dell’intelletto»; non si basa sul solo pensiero e su un universale scaturito dal solo pensiero. Una conoscenza pura della ragione sarebbe appunto quella che offrisse principi tratti solo da se stessa. In base alla teoria kantiana una conoscenza scaturita dalla sola ragione sembra impossibile: e questo è infatti quanto Kant afferma. Tuttavia, questa asserzione negativa non esaurisce il problema della ragione, per un motivo di fondo: la ragione resta comunque la facoltà che deve render conto del lavoro di tutte le altre, e che segue una sua logica legittima e inevitabile, necessaria. Le conoscenze infatti devono organizzarsi in unità, così come i fenomeni vengono unificati dai concetti. Questo significa ricercare condizioni sempre più universali che ne ricomprendono in sé altre, fino a stabilire principi a loro volta non condizionati. La ragione cerca l’incondizionato, ossia la totalità delle condizioni. È già il semplice uso logico della ragione a richiedere questo.

Critica della ragion pura, A 307 B 364

[…] la ragione cerca nel suo uso logico la condizione universale del proprio giudizio (della conclusione) e il sillogismo stesso non è altro che un giudizio ottenuto mediante la sussunzione della sua condizione sotto una regola universale (la premessa maggiore). Ma poiché questa regola, a sua volta, è sottoposta allo stesso tentativo della ragione, e con ciò dev’essere cercata, fin quando è possibile […], la condizione della condizione, allora si vede chiaramente che il principio proprio della ragione in generale (nell’uso logico) è di trovare per le conoscenze condizionate dell’intelletto quell’incondizionato con cui venga compiuta l’unità della conoscenza stessa.

Ricerca della ragione e inevitabilità della metafisica

Di qualunque premessa generale la ragione può e deve ricercare le condizioni, altrimenti il processo di unificazione si arresterebbe senza che vi sia un fondamento per farlo, e il discorso che la ragione conduce sarebbe frammentario o in-

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L’uso logico della ragione e l’incondizionato

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comprensibilmente ‘sospeso’ a un punto morto, oscuro. La ragione domanda necessariamente sempre oltre, la richiesta di un fondamento ultimo ed esaustivo appartiene alla sua più propria natura. Questa tendenza naturale della ragione umana nel suo uso più alto e comprensivo è quella da cui scaturisce la metafisica e la sua inevitabilità; compito della critica però è di interpretarla senza cancellarla, senza pensare che si possa semplicemente ignorare. Le due vie della ragione L’esigenza insopprimibile della ragione può prendere due strade: 1) o quella di fornire semplice conoscenza illusoria, «parvenza»; 2) o quella di un uso corretto della ragione stessa che ne rispetti insieme la logica e i limiti. La prima è la strada di un conflitto della ragione con se stessa, quello che Kant chiama «dialettica»; la seconda è quella dell’«uso regolativo» della ragione.

I conflitti della ragione e la loro soluzione Le idee della ragione come concetti di un incondizionato

➥ Percorso tematico, p. 401

Idee nate dall’estensione impropria delle categorie: anima, mondo, Dio

Le aporie delle idee

Soggetto incondizionato e paralogismi

Il mondo come totalità

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La critica della ragione deve eliminare, dice Kant, «l’inganno nato da un malinteso». Il malinteso si crea quando le rappresentazioni proprie della ragione vengono interpretate secondo una logica a loro estranea. L’intelletto lavora, abbiamo visto, con concetti, che costituiscono regole di unificazione dei fenomeni. Le rappresentazioni proprie della ragione in senso stretto sono invece chiamate da Kant idee: la loro caratteristica è quella di essere il concetto di una totalità delle condizioni per un condizionato che venga dato, dunque esse rappresentano un incondizionato. Una totalità non può mai essere oggetto dell’esperienza, che è sempre uno svolgersi progressivo di determinate esperienze: dunque le idee sono concetti di ‘oggetti’ che oltrepassano l’esperienza possibile. Esse scaturiscono da un uso delle categorie dell’intelletto esteso appunto fino alla totalità, in particolare di quelle categorie che istituiscono relazioni concettuali. Si avrà allora l’idea di un incondizionato della sintesi categorica in un soggetto; di un incondizionato della sintesi ipotetica dei membri di una serie; un incondizionato della sintesi disgiuntiva delle parti in un sistema: è la genesi delle idee di anima, di mondo, e di Dio. L’anima è intesa infatti come un soggetto incondizionato, l’unità assoluta del soggetto pensante; il mondo come la totalità della serie dei fenomeni; Dio come l’unità e condizione assoluta di tutti gli enti pensabili. Le idee scaturiscono come rappresentazione – necessaria – di una unità incondizionata; si trasformano però quasi inevitabilmente, ossia vengono intese impropriamente come rappresentazioni di enti soprasensibili – come concetti di cose. Se intese in questo modo esse generano una serie di conoscenze apparenti, in sé però profondamente aporetiche. 1) L’idea di un soggetto incondizionato – oggetto della psicologia razionale – genera quelli che Kant chiama i paralogismi della ragione, ossia ragionamenti distorti e solo apparentemente concludenti. Si trasforma cioè un soggetto dei pensieri che non può essere predicato – qual è l’Io penso, che era però soltanto una funzione del pensiero – in una sostanza (semplice, immateriale, identica a sé, immortale). 2) L’idea di una totalità della serie dei fenomeni è l’idea di mondo come totalità incondizionata, oggetto della cosmologia razionale. Rispetto a questa non si generano ragionamenti erronei, ma quella che Kant chiama un’antitetica del-

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Unità 14 Kant

L’antinomia: conflitti irrisolvibili

Distinzione tra fenomeno e cosa in sé

L’idealismo trascendentale

Dio come insieme di tutti i possibili

Scambio tra ideale ed esistenza di un ente

la ragione, ossia il presentarsi di tesi contrapposte, contraddittorie, che risultano però entrambe indecidibili, in quanto non riconducibili alla sfera dell’esperienza. Questo dissidio interno della ragione con se stessa è detto antinomia, e si articola in quattro conflitti: a) l’opposizione tra la tesi che il mondo abbia un suo limite nel tempo e nello spazio, e quella secondo cui esso è infinito nel tempo e nello spazio; b) l’opposizione tra la tesi secondo la quale nel mondo esistono parti semplici, e quella secondo la quale non esiste nulla di semplice; c) l’opposizione tra la tesi secondo la quale esiste una causalità mediante libertà e quella secondo la quale tutto avviene secondo leggi necessarie della natura; d) l’opposizione tra la tesi che sostiene l’esistenza di un essere necessario nella serie delle cause e quella che sostiene che non esiste alcun essere assolutamente necessario. Qui non vi sono errori, come nei paralogismi, ma l’impossibilità di risolvere il conflitto, in quanto è possibile fornire dimostrazioni o confutazioni sia per le tesi che per le antitesi. È solo la distinzione tra fenomeni e cose in sé a poter portare fuori da questo labirinto. I conflitti si dissolvono se si considera che le cose del mondo sono fenomeni, e dunque per esse non possono valere condizioni riferite dalla ragione alle cose in quanto tali, in sé. L’idea della totalità assoluta, valida solo per le cose in se stesse, è stata erroneamente applicata ai fenomeni. Kant considera dunque la sua impostazione di fondo – che chiama idealismo trascendentale – come confermata (quasi come in un «esperimento» concettuale) dalla sua capacità di risolvere i conflitti antinomici della ragione: assumendo gli oggetti come fenomeni che non hanno esistenza indipendentemente dal nostro modo di rappresentarli questi conflitti non si presentano. Questo idealismo trascendentale o formale si distingue nettamente dall’idealismo materiale, che mette in dubbio (Cartesio) o nega (Berkeley) l’esistenza del mondo esterno. L’idealista trascendentale può per Kant essere un realista empirico, cioè ammettere senz’altro l’esistenza della materia. 3) L’idea di una unità e condizione assoluta di tutti gli enti pensabili – oggetto della teologia razionale – corrisponde all’idea di un ens realissimum (identificato con Dio), ossia un ente che contiene in sé tutte le realitates, le proprietà positive delle cose. Kant vede scaturire quest’idea dal principio che ogni cosa esistente viene pensata come completamente determinata rispetto a ogni predicato possibile che le si possa attribuire: questo insieme dei possibili, con cui è dunque confrontata la cosa, viene ammesso come dato e ipostatizzato in un ente – appunto l’ens realissimum. Il malinteso consiste qui nello scambiare la presenza di un ideale (per Kant significa: l’idea di una cosa singola, la nozione di un individuo determinato soltanto dall’idea), che ha la funzione soltanto di rendere pensabile la necessaria determinazione completa delle cose, con l’esistenza effettiva di un ente conforme all’ideale. Un modello viene trasformato in un oggetto reale. È l’«esperienza unica e onnicomprensiva» ciò che la ragione legittimamente presuppone, come insieme su cui si fonda la determinazione di ogni singolo ente – ma non è possibile trasformare questo presupposto in un ente dato, esistente: in un ente realissimo che abbracci in sé tutte le proprietà. 681

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Parte seconda Il secolo dei lumi La genesi delle idee di anima, mondo e Dio

Ragione

Uso logico: capacità di collegare tra loro i giudizi per trarne inferenze (sillogismo)

Impulso all’unificazione della conoscenza e a scoprirne i fondamenti

Uso conoscitivo della ragion pura: se parte solo da se stessa, senza riferire i giudizi a un’intuizione pura, non ottiene vera conoscenza

Ricerca dell’incondizionato, ossia la totalità delle condizioni

Uso corretto della ragione che ne rispetti insieme la logica e i limiti

Fornisce semplice conoscenza illusoria, «parvenza»

Uso regolativo e uso critico della ragione

Entra in conflitto con se stessa

Dialettica trascendentale: le idee come rappresentazioni necessarie di un incondizionato si trasformano in concetti di cose

Anima = idea di un soggetto incondizionato

Mondo = idea della totalità delle condizioni

Dio = idea della totalità dei possibili

Paralogismi

Antinomie

Esistenza di un ens realissimum

Critica delle prove dell’esistenza di Dio Nel caso della teologia razionale Kant spinge la sua trattazione oltre l’analisi dell’uso distorto dell’idea. Vi è anche un «cammino naturale che intraprende ogni umana ragione, anche la più comune», che consiste nel cercare a partire dall’esperienza comune, dal terreno dato dall’esistenza delle cose, un fondamento assolutamente necessario, una «roccia» senza la quale quel terreno stesso sprofonderebbe. È per questa via che si giunge al concetto di ens realissimum, ossia partendo dalla convinzione dell’esistenza di un essere necessario che poi viene identificato con quello che contiene in sé ogni realtà. Tre tipi di prove È dunque necessario che la critica esamini anche questa pretesa, che si traduce in tre forme di argomentazione filosofica: 1) la dimostrazione di una causa suprema a partire dall’esistenza del mondo fisico (prova fisicoteologica); 2) la dimostrazione dell’esistenza di un ente necessario a partire da qualunque esistenza (prova cosmologica); 3) la dimostrazione della necessaria esistenza di un ente realissimo in base al suo solo concetto (prova ontologica).

Il cammino naturale della ragione verso le prove dell’esistenza di Dio

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Unità 14 Kant L’esame critico della prova ontologica, cardine della teologia razionale

L’impossibile passaggio dall’essenza all’esistenza

Piani ontologici diversi

T22

L’essere non è un predicato reale

Critica della ragion pura, A 598-599 B 626-627

Pur essendo questo il percorso naturale della ragione comune, che muove dall’esperienza più determinata, Kant inizia il suo esame critico dall’argomentazione meno naturale, la prova ontologica, in quanto essa svolge una funzione chiave dal punto di vista filosofico. 1) Alla prova ontologica Kant attribuisce il maggior peso e la sua critica a questa prova è quella che ha avuto maggiore importanza. La prova ontologica infatti, pur essendo «una cosa del tutto innaturale e una semplice invenzione dello spirito scolastico», a cui si è stati spinti dal bisogno della ragione – questo sì naturale – di trovare un fondamento necessario, è quella che per Kant costituisce una componente indispensabile anche delle altre due: la sua critica ha dunque un ruolo chiave per far crollare l’intero impianto della teologia razionale. Ma il suo senso filosofico e la sua portata oltrepassano gli ambiti di questa disciplina, pure cruciale. Tramite questa critica infatti Kant finisce per presentare una ontologia radicalmente nuova rispetto a quella leibniziana, colpendo la possibilità di un passaggio tra la dimensione delle essenze (coincidente con quella del possibile) e quella dell’esistenza, che consentiva di offrire un fondamento metafisico alla dimensione concettuale in quanto tale. Come Kant la ricostruisce, la prova ontologica pretende di derivare dal concetto di un ente che contiene in sé tutte le realtà la sua esistenza. Se questo concetto viene ammesso come possibile, cosa che Kant concede, esso viene pensato come contenente tutte le proprietà positive (le realitates) delle cose. Tra queste proprietà vi è l’esistenza, dunque questo ente esisterà necessariamente, perché l’esistenza fa parte del suo concetto. Kant oppone a questa dimostrazione (che presuppone la nozione di esistenza come complementum possibilitatis, come ciò che si aggiunge, completandola, all’essenza) la tesi ontologica fondamentale secondo la quale l’esistenza non è un predicato reale, ossia non indica una proprietà della cosa, posta allo stesso livello delle altre. Il giudizio di esistenza non ci dice nulla su che cosa sia una cosa, ma stabilisce se essa, con tutti i suoi predicati (tutto ciò che dice che cosa una cosa sia), esista o meno. Come predicato logico può servire tutto ciò che si vuole, perfino il soggetto può essere predicato di se stesso, poiché la logica astrae da ogni contenuto. Ma la determinazione è un predicato che si aggiunge al concetto del soggetto e lo accresce. Essa, dunque, non dev’essere già contenuta in quel concetto. L’essere non è evidentemente un predicato reale, cioè un concetto di qualcosa che possa aggiungersi al concetto di una cosa. Esso è semplicemente la posizione di una cosa o di certe determinazioni in se stesse. Nell’uso logico esso è soltanto la copula di un giudizio. La proposizione: Dio è onnipotente, contiene due concetti che possiedono i loro oggetti, Dio e onnipotenza. La paroletta: è, non contiene un predicato ulteriore, ma soltanto ciò che pone il predicato in relazione al soggetto. Ora, se io riunisco il soggetto (Dio) con tutti i suoi predicati (fra i quali rientra anche l’onnipotenza), e dico: Dio è, oppure: vi è un Dio, non aggiungo alcun nuovo predicato al concetto di Dio, bensì pongo soltanto il soggetto in se stesso, con tutti i suoi predicati, vale a dire l’oggetto in relazione al mio concetto. Entrambi, l’oggetto e il concetto, devono possedere esattamente lo stesso contenuto, e perciò al concetto che esprime la mera possibilità, non si può aggiungere nient’altro, per il solo fatto che io pensi il suo oggetto come semplicemente dato 683

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(attraverso l’espressione: esso è). E così il reale non contiene niente di più del mero possibile: cento talleri reali non contengono minimamente nulla di più di cento talleri possibili. […] Ma nel mio stato patrimoniale c’è di più nel caso di cento talleri reali che nel mero concetto di essi (cioè nella loro possibilità). Nella realtà, infatti, l’oggetto non è semplicemente contenuto in modo analitico nel mio concetto, bensì si aggiunge in modo sintetico al mio concetto (il quale è una determinazione del mio stato), senza che, attraverso questo essere al di fuori del mio concetto, vengano minimamente aumentati gli stessi cento talleri pensati. Kant non sta semplicemente distinguendo tra concetto e realtà (distinzione ovvia per tutti i filosofi fautori della prova ontologica), ma sta affermando che sono in gioco due piani ontologici irriducibili, tra i quali non vi è alcun punto di coincidenza. In conseguenza di questa concezione l’espressione corretta, che rende conto della effettiva struttura logica di una proposizione esistenziale non sarà «x esiste», per esempio «l’unicorno esiste», ma «a qualche x esistente convengono i predicati che io penso sotto il concetto di unicorno», ossia «esiste un x tale che x è p»: l’esistenza, dirà la logica molti anni dopo, è un operatore, qualcosa di esterno rispetto a contenuto e struttura logica della proposizione. Prova cosmologica 2) La prova cosmologica è considerata da Kant, seppure falsa, ben più naturale e ed ente necessario persuasiva di quella ontologica, anche perché muove dall’esperienza. Essa consiste in questo ragionamento: «se qualcosa esiste, allora deve esistere anche un essere assolutamente necessario. Ma per lo meno io stesso esisto: dunque, esiste un essere assolutamente necessario». Prosegue però identificando questo essere con l’ente realissimo (assumendo così in sé la prova ontologica). Gli argomenti fallaci Oltre a utilizzare appunto una prova non valida, la prova cosmologica contiene della prova «un nido intero di pretese dialettiche», di argomenti fallaci. Tra questi, l’utilizcosmologica zo del principio che ogni contingente abbia una sua causa fuori dal campo dei fenomeni sensibili, in cui ha la sua validità; la tesi, non fondata, dell’impossibilità di una serie infinita di cause senza una causa prima. In generale, si oltrepassa l’ambito dell’esperienza usando concetti che non hanno più una loro legittimità. In definitiva, conclude Kant, «la necessità incondizionata, di cui abbiamo bisogno in maniera così indispensabile come l’ultimo sostegno di tutte le cose, è il vero abisso della ragione umana»: «qui tutto sprofonda sotto di noi». Pregi della prova 3) La prova fisicoteologica è per Kant la più antica, la più chiara e la più adefisicoteologica guata alla comune ragione umana. Anch’essa parte da un’esperienza, che è però qui un’esperienza determinata: quella dello «scenario così smisurato di varietà, ordine, finalità e bellezza» offerto dalla natura, che porta a concludere l’esistenza di un essere dotato di ogni possibile perfezione come autore dell’universo. Kant guarda con un certa benevolenza questa prova: essa non solo estende le nostre conoscenze della natura offrendo «un filo conduttore di una particolare unità», ma merita considerazione per la sua forza di strappare da ogni «indecisione sofistica». Limiti e valore Tuttavia a questa prova va sottratto il carattere di prova, ne va cambiato il todella prova no: va abbassato il «linguaggio dogmatico dell’argomentatore sprezzante, rifisicoteologica portandolo al tono di moderazione e modestia di una fede che basta a tranquillizzare», senza costringere. Anche la prova fisicoteologica non funziona senza far uso al suo interno dell’argomento ontologico. Essa ha però anzitutto già nel suo impianto una portata liL’esistenza è un operatore e non un predicato

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Indimostrabilità dell’esistenza di un ente necessario

mitata: riguardando la forma – cioè l’ordine – del mondo, può dimostrare al limite la necessità non di un creatore, ma di un architetto del mondo: ossia di un ente che conferisce ordine a una materia che solo elabora, di cui non dispone. L’analogia con prodotti conformi a uno scopo, che porta a inferire la presenza di un ente dotato di intelletto e volontà che organizzi in tal senso le cose, non basta a concludere anche l’esistenza di un ente necessario da cui scaturisce interamente – anche riguardo alla sua «materia» – tutto ciò che esiste in modo contingente. L’architetto non è un ente assolutamente necessario. Per raggiungere i suoi scopi, dimostrare la contingenza della materia e un ente necessario, la prova fisico-teologica secondo Kant salta improvvisamente alla prova cosmologica, che è «soltanto una prova ontologica camuffata», presuppone cioè un argomento diverso, ossia del tutto a priori come quello ontologico.

Procedimenti ed esiti delle prove dell’esistenza di Dio

Tre tipi di prove

Prova ontologica: la dimostrazione della necessaria esistenza di un ente realissimo in base al suo solo concetto

Prova cosmologica: la dimostrazione dell’esistenza di un ente necessario a partire da qualunque esistenza

Prova fisicoteologica: la dimostrazione di una causa suprema a partire dall’esistenza del mondo fisico

Fondamentale per la teologia razionale, ma fallisce perché non si può passare dall’essenza all’esistenza. L’esistenza non è un predicato

È naturale e persuasiva, ma contiene numerose fallacie. Inoltre utilizza al suo interno la prova ontologica

È la più evidente per la comune ragione umana, va liberata dalle pretese dogmatiche e comunque anch’essa implica la prova ontologica

La ragione che non si smarrisce: l’uso regolativo delle idee Le idee della ragione sono fonte di illusioni e di un contrasto della ragione con se stessa se fraintese nel loro senso. Ma per Kant esse posseggono un uso non soltanto legittimo ma indispensabile. Sono fuorvianti se usate in modo costitutivo, ossia se pensate come riferite a oggetti che trascendono l’esperienza. Ma forniscono invece principi necessari per la conoscenza se intese correttamente nel loro senso regolativo, ossia non come fonti dirette di conoscenza, bensì nel loro ruolo indiretto, come principi di orientamento per il procedere dell’intelletto. Le idee devono produrre unità non nei fenomeni, ma nelle stesse conoscenze dell’intelletto, però soltanto indicandogli cosa fare, spingendolo a ricercare la maggiore unità e insieme la massima estensione possibile. La spinta irresistibile La ragione ha propriamente come suo oggetto soltanto l’intelletto e il suo uso verso l’uso regolativo conforme a uno scopo. Essa deve far convergere le linee direttive delle regole deldelle idee l’intelletto verso un unico punto – un focus imaginarius che resta irraggiungibile e che può dare l’impressione che vi sia un oggetto, mentre si tratta di un’unità proiettata e non data. Si tratta di procedere come se: unificare i fenomeni psicologici come se vi fosse una sostanza; proseguire nel regresso empirico alla ricerca delle cause come se si potesse arrivare a una causa prima; ricercare qualcoL’uso legittimo e indispensabile delle idee come principi di orientamento

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Il presupposto trascendentale dell’unità della natura

Massime per un uso corretto, regolativo delle idee

Massime applicate a classi di oggetti

Massime che indicano fini alla conoscenza

10 L’intento costruttivo della filosofia teoretica kantiana e l’autolimitazione della ragione

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sa di necessario per tutto ciò che è esistente – non fermarsi mai se non a una spiegazione completa e pure non sperare mai in una tale completezza, dunque agire come se fosse possibile raggiungerla. È importante notare che per Kant la ricerca di unità, che fonda anche il carattere sistematico del conoscere, è una legge necessaria che definisce la funzione della ragione, e che produce un presupposto trascendentale: quello dell’unità sistematica della natura come oggettivamente valida. Di questa unità non si dice che forma abbia – così come degli oggetti della natura le categorie dicono a priori qualcosa – ma si afferma che c’è, ossia viene presupposta la legittimità e necessità di cercarla, e questo si traduce in ulteriori regole oltre quelle date dall’uso corretto delle idee psicologiche, cosmologiche e teologiche. Si tratta di massime «nascoste nei principi dei filosofi», dice Kant, che riguardano la descrizione delle cose del mondo in rapporto alla possibilità di una loro articolazione logica, ossia in rapporto a generi e specie. Sono massime come quella secondo cui i principi non vanno moltiplicati senza necessità (presupponendo che vi sia in natura un’unità delle proprietà fondamentali, una omogeneità nell’esperienza); o quella inversa che prescrive all’intelletto di prestare attenzione alle specie, di proseguire cioè l’analisi delle differenze, alla ricerca dell’eterogeneità. La ragione persegue così al contempo unità e specificazione, estensione e determinatezza della conoscenza. E infine deve venire presupposta anche l’affinità tra i fenomeni, ossia la possibilità di poterli collegare attraverso una crescita graduale delle diversità. Queste massime che presuppongono molteplicità, affinità e unità nella natura, proprietà non di oggetti ma di classi di oggetti, corrispondono a esigenze logiche della ragione, e pongono un problema ulteriore rispetto a quello della concettualizzazione delle intuizioni attraverso le categorie, che costituirà il motivo di un approfondimento del problema del trascendentale nel prosieguo del pensiero critico. Kant lo affronterà in particolare nella sua Critica della facoltà di giudizio del 1790 (vedi sotto, p. 705). Verrà qui in primo piano il problema dell’esperienza come un tutto organizzato, come sistema, che i soli principi dell’intelletto non riescono a dominare. Ma già nella Critica della ragion pura si può concludere che «ogni conoscenza umana comincia con intuizioni, da qui muove ai concetti e si conclude con le idee». Nell’uso regolativo delle idee si coglie anche il carattere teleologico, finalistico della ragione. I concetti di totalità, considerati non come conoscenza di cose, ma correttamente come regole orientative per il procedere dell’intelletto danno luogo a scopi, indicano fini che la conoscenza deve perseguire nel suo svolgersi. Il riferirsi a scopi, l’avere la natura di un progetto è per Kant il tratto più proprio della ragione.

Oltre i fenomeni: l’orizzonte della ragion pratica Il Kant che i contemporanei percepivano come «il Kant che tutto frantuma» è soprattutto quello che si esprime nella Dialettica trascendentale, criticando in un modo radicale la vecchia metafisica speciale. Ma l’intento di fondo di Kant, come mostra già la teoria dell’uso regolativo delle idee, è del tutto costruttivo. La limitazione della ragione pura attraverso l’individuazione dell’esperienza possi-

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Unità 14 Kant

Il noumeno come concetto-limite

Il dover essere e la ragione pratica

T23

Uno spazio vuoto da riempire

Critica della ragion pura, B 21-22

Un nuovo obiettivo per la critica della ragione

T24

Lo scopo ultimo della ragione

Critica della ragion pura, A 800-801-B 828-829

bile come unico campo della conoscenza (sia a posteriori che filosofica a priori) non vuole aver solo un senso negativo. L’autolimitazione della ragione ha due facce. Da un lato si delinea il campo, quello dei fenomeni, dove la conoscenza è possibile. Dall’altro, si limitano anche le pretese del sapere modellato sulla conoscenza delle cose sensibili. È questo il ruolo del concetto di noumenon, ovvero della cosa pensata non come fenomeno, ma in se stessa: si tratta semplicemente di «un concetto-limite, per circoscrivere la pretesa della sensibilità». Da questa limitazione della sensibilità scaturisce un primo risultato positivo, seppure solo preliminare. Kant riassume questo aspetto positivo della critica con una sola frase: «ho dovuto mettere da parte il sapere, per far posto alla fede». Con questo ultimo termine non si riferisce a credenze religiose – anche se saranno temi d’interesse teologico come l’anima, la libertà, Dio a essere riproposti – bensì a una modalità del «ritener vero» (diversa, da un lato, dall’opinione e, dall’altro, dal sapere) che egli distingue dalla conoscenza vera e propria, ma a cui riconosce una sua legittimità. La limitazione della conoscenza ai fenomeni lascia libero lo spazio indicato dalla cosa in sé, che se non può esser oggetto di conoscenza non può però neppure essere negato. Quello spazio può esser riempito da un discorso che abbia una diversa logica: quello legato alla dimensione distinta del dover essere, oggetto secondo Kant della ragione pratica, che regola l’agire dell’uomo. […] dopo che alla ragione speculativa è stato interdetto qualsiasi avanzamento nel campo del soprasensibile, resta pur sempre da vedere se nella conoscenza pratica della ragione non si trovino forse dei dati per determinare quel concetto razionale trascendente dell’incondizionato, e per giungere in tal modo – secondo quello che è il desiderio della metafisica – al di là del confine d’ogni esperienza possibile, mediante la nostra conoscenza a priori: conoscenza questa, che sarebbe però possibile solo dal punto di vista pratico. Con un tale procedimento la ragione speculativa ci ha pur sempre procurato almeno lo spazio per un’estensione di questo genere, sebbene abbia dovuto lasciarlo vuoto, e noi siamo dunque autorizzati, anzi siamo addirittura esortati dalla ragione a riempirlo, se ci è possibile, con i dati pratici di essa. «Se ci è possibile»: il compito critico di indicare le condizioni di possibilità – che indicano insieme limiti e legittimità – delle pretese della ragione non è esaurito, ma deve ora esercitarsi su un tipo di discorso diverso. Secondo Kant la ragione «ha come un presentimento di oggetti che rivestono per essa un grande interesse», ma quando si vuol avvicinare ad essi per la via speculativa essi «le si dileguano davanti». A questi oggetti (libertà, immortalità dell’anima, esistenza di Dio) la ragione tende come allo scopo finale della sua speculazione; ma dietro di essi vi è una domanda ancora più radicale, uno scopo ancora più remoto della ragione, cui sono rivolti alla fine dei conti tutti i suoi sforzi: stabilire «che cosa si debba fare». Tutto ciò che la ragione mette in opera nell’elaborazione di quella che possiamo chiamare filosofia pura, è di fatto orientato solo ai tre suddetti problemi. Ma questi stessi problemi, a loro volta, si riferiscono ad uno scopo più remoto, cioè a che cosa si debba fare se la volontà è libera, se esiste un Dio e se vi è un mondo futuro. E dal momento che questo riguarda il nostro comportamento in relazione al 687

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Parte seconda Il secolo dei lumi

fine supremo, ciò sta a significare che lo scopo ultimo cui mirava la natura – una natura che si prende saggiamente cura di noi – nel costruire la nostra ragione, consisteva propriamente solo nello scopo morale. La ricerca di un fondamento a priori del dovere ➥ Laboratorio sul lessico, Dovere, p. 765

T25

Il dovere e la ragion pratica

Critica della ragion pura, A 548 B 576

➥ Sommario, p. 727

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L’intero uso della ragione tende allora a rispondere alla questione «che cosa devo fare?». E la tematica del dovere introduce un campo del tutto diverso da quello di cui si occupa la conoscenza: l’intelletto può conoscere solo ciò che è o è stato o sarà, ma nulla nella natura viene interrogato rispetto a ciò che deve essere. Il dovere esprime «un’azione possibile il cui fondamento non è altro che un semplice concetto»: non si tratta di nulla che possa essere trovato in natura, eppure di qualcosa che ha una sua necessità. Rispetto ad essa la ragione non si arrende – come dice Kant – a un fondamento empirico, ma ne cerca uno a priori. […] è vero che l’azione a cui è diretto il dovere dev’essere possibile entro condizioni naturali, ma queste ultime non riguardano la determinazione dell’arbitrio stesso, bensì solo l’effetto e il risultato di esso nel fenomeno. Per quante possano essere le ragioni naturali che mi spingono al volere, e per quanti possano esser gli stimoli sensibili, essi non possono mai produrre il dovere, ma solo un volere che è ben lungi dall’esser necessario ed anzi è sempre condizionato: un volere a cui il dovere espresso dalla ragione contrappone misura e scopo, se non divieto e autorità. Che si tratti di un oggetto della semplice sensibilità (il piacevole), o di un oggetto della ragion pura (il bene), la ragione non si arrende a un fondamento che sia dato solo empiricamente e non segue l’ordine delle cose così come esse si presentano nel fenomeno, ma si costruisce con piena spontaneità un proprio ordine secondo idee, alle quali essa detta le condizioni empiriche, e in base a quelle idee dichiara come necessarie persino le azioni che pure non sono accadute e forse non accadranno mai. Rispetto a tutte queste azioni, tuttavia, la ragione presuppone di poter esercitare una causalità, poiché altrimenti essa non potrebbe aspettarsi dalle sue idee effetti nell’esperienza. Si presenta così il problema della ragion pratica: come è possibile che la ragione – soltanto in quanto tale – eserciti una causalità? Come può la ragione autodeterminarsi e determinare l’azione?

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Unità 14 Kant

L’azione e la libertà: la ragion pratica

3 I testi

Fondazione della metafisica dei costumi: Gli imperativi, T26; Conforme al dovere e per dovere, T27; La volontà, T28; La metafisica dei costumi, T29; L’idea della libertà, T33; La legge e il mondo intelligibile, T34; Il sentimento di rispetto per la legge, T35

L’ampliamento delle domande critiche

1 Gli elementi primi del discorso pratico

Principi tecnico-pratici o prescrizioni: scelta dei mezzi per un determinato fine

Regole dell’abilità e consigli della prudenza

Critica della ragion pratica: La critica della ragion pratica, T30; La forma di una legislazione universale, T31; L’imperativo categorico, T32; I postulati della ragion pratica, T36 Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea: Giobbe e la fede, T37

Rispondere alle domande sull’uso pratico della ragione significa rispondere alla domanda «che cosa devo fare?», e vuol dire, allo stesso tempo, indicare lo scopo supremo della ragione, risolvendo di conseguenza anche le tre domande della vecchia metafisica. A questo compito, cui già nella prima Critica delinea le risposte, Kant dedica in modo più diretto la Fondazione della metafisica dei costumi e la Critica della ragion pratica.

Gli strumenti concettuali della critica della ragion pratica: regole pratiche e imperativi Così come operava uno smontaggio della nozione di conoscenza, individuando nel giudizio il suo elemento basilare, Kant identifica gli «elementi primi» del discorso pratico, di quella ragione cioè che vuole orientare l’azione degli uomini. Le proposizioni non conoscitive, ma normative, quelle che indicano un dover essere (vedremo come Kant intende questo concetto), sono chiamate da Kant «regole pratiche», e vengono analizzate nella loro diversa natura. 1) Le regole pratiche possono essere in primo luogo «principi tecnico-pratici» o «prescrizioni»: sono quelle regole che dicono come devo agire in rapporto a uno scopo arbitrario. Esse riguardano la scelta di mezzi appropriati per un determinato fine. Si tratta per Kant sì di regole per l’azione, ma in realtà esse prevedono una valutazione «tecnica», strumentale di condizioni per produrre un certo effetto: in questo senso appartengono più propriamente alla ragione teoretica. Se io voglio, per esempio, costruire una casa, la scelta dei mezzi più appropriati per realizzare questo scopo è un aspetto tecnico della ragione teoretica; analogamente se voglio conseguire uno scopo nella mia vita (per esempio diventare architetto). Kant distingue, all’interno dei principi tecnico-pratici, a seconda se lo scopo sia arbitrario o dato dalla natura dell’uomo (la ricerca della felicità) rispettivamente tra «regole dell’abilità» e «consigli della prudenza». Questi ultimi sono «consigli» in quanto, se lo scopo è dato dalla natura dell’uomo, il suo contenuto può molto variare a seconda di ciò in cui si ripone la felicità. 689

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Parte seconda Il secolo dei lumi Principi pratico-morali

Massime

Leggi

Comandi

Imperativi e necessità morale

Due sensi di «dovere»

➥ Laboratorio sul lessico, Dovere, p. 765

2) Le regole pratiche possono essere però anche «principi pratico-morali». Vedremo meglio cosa delimita l’ambito della moralità, ma intanto si può dire che queste regole riguardano anche la scelta dei fini, e non solo la valutazione dei mezzi. I principi pratico-morali possono suddividersi in due tipi: a) principi che hanno solo un valore soggettivo, e si chiamano massime (una massima, per esempio, è quella secondo la quale mi propongo di trattare con gentilezza le persone); b) principi che hanno valore oggettivo, e si chiamano leggi. Individuare la legge che orienta la libera azione umana è appunto il problema centrale della morale. Non tutte le regole pratiche comportano una «costrizione»: è pensabile una volontà che sia in sé interamente conforme alla ragione (una volontà santa in cui dovere e volere coincidono), per cui la regola non ha carattere di costrizione: per esempio la volontà divina. Per gli uomini tuttavia, dove questa coincidenza non si dà, in quanto non sono guidati soltanto dalla ragione, alcune regole pratiche assumono il senso di comandi: un comando è appunto per Kant «la rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto sia costrittivo per una volontà». Kant analizza a questo punto la struttura logico-linguistica dei comandi, la loro «formula»: essi contengono invariabilmente l’espressione di un «dover essere», ossia una necessità che non è quella fisica (ma è una necessità per una volontà, una necessità morale), e alle proposizioni che contengono il verbo «dovere» inteso in questo senso dà il nome di imperativi: «la formula del comando si chiama imperativo». Imperativi sono dunque le proposizioni che contengono una espressione di dovere che non coincide con una costrizione fisica, ma che indica piuttosto un compito, qualcosa da «compiere». Così se dico «devo sedermi perché non ho più la forza di stare in piedi» questa è una necessità meccanica, una costrizione fisica; mentre se dico «devo finire di tagliare il prato» non si tratta di un costrizione fisica, ma di un compito (non importa da chi o cosa imposto). Nella lingua di Kant questi due sensi di dovere sono espressi da due verbi modali diversi: müssen nel primo caso, sollen nel secondo.

Gli usi linguistici di «dovere» Nella lingua italiana una corretta descrizione degli usi del termine «dovere» si scontra con l’ambiguità grammaticale del suo essere sia sostantivo che verbo e con la polisemia lessicale determinata dalle tre sfere del dovere: necessità naturale, necessità morale.

In altre lingue come quella inglese e tedesca i possibili equivoci rispetto a entrambi questi problemi sono risolti. Esistono infatti termini diversi per esprimere la funzione del sostantivo e quella del verbo in ambito morale ed esistono due verbi diversi per riferirsi alla sfera della necessità naturale e a quella del dovere morale.

Sostantivo Verbo

Tedesco Pflicht sollen

Inglese duty ought

Necessità naturale Necessità morale

müssen sollen

must ought

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Unità 14 Kant Imperativi come formule per volontà imperfette

«Imperativo ipotetico»

«Imperativo categorico»

Valutazione dell’azione: due sensi di «buono»

T26

Gli imperativi Fondazione della metafisica dei costumi, 2

Differenza tra efficacia e valore

Se si ricorda che gli imperativi esprimono una costrizione per un essere la cui volontà non coincide di per sé con la regola, allora essi si possono definire «formule per esprimere il rapporto di leggi oggettive del volere in generale con la imperfezione soggettiva della volontà di questo o quell’essere razionale, per esempio della volontà umana». Kant individua due tipi principali di imperativo: 1) quello in cui il dovere è condizionato da un’ipotesi, ossia da uno scopo di per sé non necessario (per esempio: «se vuoi vincere la gara, devi allenarti»); lo chiama perciò «imperativo ipotetico»; 2) quello in cui il dovere non è sottoposto a condizioni, ma l’azione viene rappresentata come di per sé necessaria. Questo viene chiamato «imperativo categorico», e come vedremo per Kant ne esiste soltanto uno, seppure esprimibile in diverse formulazioni. Gli imperativi, affermando la necessità di un’azione, ne danno al contempo una valutazione: l’azione è vista come buona, o relativamente a uno scopo, come mezzo per un fine (in un imperativo ipotetico); oppure come buona in sé, incondizionatamente (nell’imperativo categorico). Ora, tutti gli imperativi comandano o ipoteticamente o categoricamente. I primi rappresentano la necessità pratica di un’azione possibile come mezzo per ottenere qualcos’altro che si vuole (o che è possibile che si voglia). L’imperativo categorico sarebbe quello che rappresenta un’azione, senza riferimento ad un altro fine, come in se stessa oggettivamente necessaria. Poiché ogni legge pratica rappresenta una possibile azione come buona e, perciò, per un soggetto determinabile praticamente dalla ragione, come necessaria, tutti gli imperativi sono formule di determinazione dell’azione che, secondo il principio di una volontà in qualche modo buona, è necessaria. Se ora l’azione è buona semplicemente come mezzo per qualcos’altro, l’imperativo è ipotetico; se essa è rappresentata come buona in sé, quindi come necessaria per una volontà in se stessa conforme alla ragione, come suo principio, l’imperativo è categorico. L’imperativo dice dunque quale azione possibile per mio mezzo sia buona, e rappresenta la regola pratica in rapporto ad una volontà che non compie immediatamente un’azione perché è buona: sia perché il soggetto non sempre sa che sarebbe buona, sia perché, quand’anche lo sapesse, le sue massime potrebbero pur essere contrarie ai principi oggettivi di una ragione pratica. Si può notare subito come dai due tipi di imperativo scaturiscono due sensi molto diversi di «buono». Ciò che è indicato come tale dall’imperativo ipotetico è buono nel senso di «adatto a produrre uno scopo», «efficace». In questo senso l’azione di allenarmi in vista di una gara sportiva è «buona» così come un martello è «buono» («adatto») a piantare un chiodo. Si capisce come questa valutazione sia, dato un certo scopo, una valutazione teoretica, tecnica. Se dico invece che un’azione è «buona» senza riferimento a uno scopo, sto dicendo che ha valore in sé: non sto esaminando «tecnicamente» alcunché, ma facendo qualcosa di diverso. L’imperativo categorico sembra aprire un orizzonte di discorso del tutto diverso, quello che tradizionalmente chiamiamo «morale». Che cosa è in gioco qui propriamente? 691

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Parte seconda Il secolo dei lumi Le regole pratiche secondo Kant

Principi tecnico-pratici

Consigli della prudenza (per uno scopo assertorio) Regole pratiche Massime (soggettive) Principi pratico-morali Leggi (oggettive)

2 Azioni conformi al dovere, buone secondo la lettera; azioni per dovere, buone secondo lo spirito

T27

Conforme al dovere e per dovere Fondazione della metafisica dei costumi, 1

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Imperativo problematico o tecnico

Regole dell’abilità (per scopi arbitrari) Imperativi ipotetici

Imperativo pragmatico Principio razionale che il soggetto riconosce valido solo per la sua volontà

Regola pratica razionale soggettiva

Legge interna (di esseri santi)

Non ha bisogno di imperativi

Imperativo categorico (comando)

Imperativo morale

L’oggetto autentico della valutazione morale Che cosa valutiamo quando stabiliamo non l’efficacia (bontà relativa), ma la bontà morale (assoluta) di un’azione? Abbiamo visto che la proposizione da cui scaturisce la valutazione di bontà è quella che indica un dovere. Buona risulterà allora un’azione che corrisponde a quel dovere. Se è per esempio un dovere non raggirare le persone, sembrerà buona l’azione di un commerciante che non ricavi un guadagno tramite un trucco, vendendo merce apparentemente buona, ma scadente. Ma se il commerciante agisce in questo modo per proprio vantaggio, per esempio per aumentare la clientela? In questo caso l’azione non ci sembra morale, e infatti ricade in una valutazione condizionata da uno scopo: nella valutazione di adeguatezza di un imperativo ipotetico. Non basta dunque che l’azione come tale corrisponda al dovere. Kant distingue tra un’azione conforme al dovere, e un’azione compiuta per dovere, e solo la seconda sembra aver titolo per una valutazione morale. La prima è buona impropriamente: secondo la lettera, ma non secondo lo spirito. Lascio […] da parte le azioni che sono effettivamente conformi al dovere, ma verso le quali gli uomini non hanno, immediatamente, alcuna inclinazione, e che tuttavia compiono perché spinti a ciò da un’altra inclinazione. Infatti in questo caso è facile distinguer se l’azione conforme al dovere abbia avuto luogo per dovere o per scopi egoistici. Assai più difficile è vedere questa distinzione là dove l’azione sia conforme al dovere e il soggetto abbia, però, inoltre, una immediata inclinazione ad essa. Per esempio, è senz’altro conforme al dovere che il bottegaio non raggiri il cliente inesperto, e quando c’è grande smercio, il commerciante abile di certo non lo fa, anzi, mantiene un prezzo fisso generale per tutti, così che da lui un bambino compri bene come chiunque altro. Si è dunque serviti onestamente: ma questo è di gran lunga insufficiente a credere che perciò il commerciante si sia comportato in tal modo per dovere e per principi d’onestà; il suo vantaggio lo richiedeva; ma che egli inoltre dovesse avere anche un’immediata in-

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Unità 14 Kant

clinazione verso i clienti, così da non privilegiare nel prezzo nessuno rispetto ad altri, quasi per amore, non si può certo ammettere. Dunque l’azione non ha avuto luogo né per dovere né per inclinazione immediata, bensì, semplicemente, per scopi egoistici. La volontà buona come vero oggetto della valutazione morale

T28

La volontà Fondazione della metafisica dei costumi, 1

L’azione dunque può conformarsi a una regola, ma essere motivata da altro e dunque tendere ad altri fini. La valutazione morale non deve giudicare buona un’azione, ma qualcos’altro. Per Kant c’è un solo oggetto cui può essere conferito in senso morale e non tecnico l’attributo della bontà, e questo oggetto è la volontà. Anche qualità positive – le cosiddette virtù, che avevano un ruolo importante nell’etica antica – non sono tali incondizionatamente, ma solo se orientate da una volontà buona. La stessa felicità sembra non avere un valore incondizionato, perché una felicità di qualcuno che non mostri una volontà buona non è oggetto di un apprezzamento morale. Nulla è possibile pensare nel mondo, anzi, in generale, anche fuori di esso, che possa essere ritenuto buono senza limitazione, se non una volontà buona. Intelletto, perspicacia, giudizio, e comunque si vogliano chiamare i talenti dello spirito, oppure coraggio, risolutezza, saldezza di propositi, come qualità del temperamento, sono senza dubbio, per più aspetti, buoni e desiderabili; ma possono diventare anche estremamente cattivi e dannosi, se la volontà che deve far uso di questi doni naturali, la specifica costituzione della quale si chiama perciò carattere, non è buona. Con i doni della fortuna va allo stesso modo. Potere, ricchezza, onore, persino salute e tutto il benessere e contentezza del proprio stato, che vengono detti felicità, producono coraggio, e con ciò spesso anche spavalderia, dove non vi sia una buona volontà che diriga rettamente il loro influsso sull’animo e così anche l’intero principio dell’agire, e lo renda universale nei suoi fini; senza contare che un osservatore ragionevole e imparziale non potrà mai compiacersi anche alla sola vista dell’ininterrotta prosperità di un essere che non mostri alcun segno di una volontà pura e buona; e così la buona volontà sembra costituire la condizione indispensabile anche per la dignità di essere felici.

Se la sola cosa che può essere ritenuta buona incondizionatamente – come richiede il giudizio morale – è la volontà, resta da chiedersi cosa della volontà venga propriamente esaminato, quale sua qualità venga valutata. Kant esclude anzitutto che una volontà sia buona «per ciò che attua od ottiene»: il risultato non è interamente nel potere della volontà, e da un’azione malvagia può conseguire un risultato buono o viceversa. Esclude che lo sia per la capacità di attuare quello che si propone. Esclude anche che lo sia per l’«intenzione», ossia lo scopo che si prefigge consapevolmente chi agisce: l’animo umano non è interamente trasparente a se stesso, è sempre possibile che il nostro autoesame consapevole ci inganni, e che un «segreto impulso dell’amor di sé», mascherato solo da un’idea, sia la vera causa dell’agire e persegua uno scopo a noi non consapevole. La massima del volere Ciò che viene giudicato è piuttosto un aspetto non psicologico, quello che nel brano citato viene chiamato «l’intero principio dell’agire»: viene valutata cioè la regola pratica che la volontà dà a se stessa, ossia, secondo la terminologia kantiana, la massima del volere. Generalità Stiamo parlando infatti non della volontà come semplice impulso verso un oggetdelle massime to – questo è ciò che Kant chiama «inclinazione» – ma di una volontà razionale, Risultati, abilità e intenzione non sono i veri oggetti della valutazione morale

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La massima della volontà è l’oggetto autentico della valutazione morale

3 L’agire morale come oggetto della filosofia pura

che agisce dando unità a spinte diverse secondo una regola generale: la massima è appunto una regola che mi dice non cosa volere in un dato momento, ma come agire in una generalità di casi, in un certo tipo di circostanze. Una massima può essere quella per cui mi ripropongo di non ingannare le persone, o quella per cui mi ripropongo di restituire qualcosa che mi sia stata lasciata in deposito. È dunque la massima della volontà, il principio che ne organizza e orienta una serie di azioni, l’oggetto autentico della valutazione morale. Non ci chiediamo quale sia il risultato dell’azione, cosa si pensava di ottenere, ma alla luce di quale principio essa si sia prodotta, e se sia valido quel principio.

Alla ricerca di un imperativo categorico Se nell’attribuire la qualità della bontà a una volontà si valuta la massima in base alla quale la volontà agisce, non è ancora chiaro come questo giudizio venga svolto, ossia in base a quale criterio. Sappiamo soltanto che il criterio che deve render necessaria un’azione – la regola obbligante o imperativo – non deve essere condizionata da un fine ulteriore: non può essere un imperativo ipotetico. Non può neanche scaturire da un’analisi o descrizione del modo in cui gli uomini agiscono di fatto, da un’antropologia empirica, perché questo non comporta alcuna necessità, alcun dover essere. L’ambito in cui il criterio della moralità andrà cercato è quello di una filosofia pura, o a priori: di una metafisica dei costumi o di una critica della ragion pratica.

Critica della ragion pratica e fondazione della metafisica dei costumi Abbiamo visto, introducendo il progetto complessivo della filosofia in Kant, come egli preveda una metafisica dei costumi e una metafisica della natura. Questa articolazione è riassunta anche nell’opera intitolata Fondazione della metafisica dei costumi.

T29

La metafisica dei costumi

Fondazione della metafisica dei costumi, Prefazione

La ricerca di un principio puro e razionale dell’agire

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Ogni filosofia in quanto poggia su fondamenti di esperienza, si può chiamare empirica; quella, invece, che tragga le sue dottrine esclusivamente da principi a priori, si può chiamarla filosofia pura. Quest’ultima, se è semplicemente formale, si chiama logica; se invece è limitata a certi oggetti dell’intelletto, si chiama metafisica. In questo modo sorge l’idea di una duplice metafisica: una metafisica della natura e una metafisica dei costumi. La fisica avrà quindi la sua parte empirica, ma anche una parte razionale; lo stesso l’etica; benché in quest’ultimo caso la parte empirica potrebbe in particolare chiamarsi antropologia pratica, mentre la parte razionale potrebbe chiamarsi morale in senso proprio. L’idea di Kant è che la morale debba poggiare su principi a priori. La questione della possibilità di una metafisica dei costumi si pone in modo un po’ diverso da quella della possibilità della metafisica speculativa, affrontata nella Critica della ragion pura. Lì la ragione doveva mostrare di conoscere legittimamente a priori qualcosa fuori di sé; ora invece la ragione deve dimostrare di poter essere – es-

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Unità 14 Kant

sa sola – principio dell’azione, di poter essere pratica. Deve dimostrare cioè che c’è un principio puro, solamente razionale da cui scaturiscono azioni, e nient’altro. Abbiamo visto che gli imperativi ipotetici non sono in realtà parte di una ragione pratica. Se c’è un imperativo non ipotetico, allora c’è ragion pratica, che è tale soltanto se è pura. Così inizia la Critica della ragion pratica:

T30

La critica della ragion pratica

Critica della ragion pratica, Prefazione

Due percorsi critici per fondare una morale pura

La seguente trattazione spiega abbastanza il motivo per cui questa Critica non è intitolata Critica della ragion pura pratica, ma semplicemente Critica della ragion pratica in genere, benché il parallelismo di essa con la ragione speculativa sembri richiedere il primo titolo. Essa deve semplicemente dimostrare che vi è una ragion pura pratica, e a questo fine ne critica l’intera facoltà pratica. Se riesce in ciò, essa non ha bisogno di criticare la stessa facoltà pura, per veder se la ragione non oltrepassi se stessa con questa facoltà, come con una semplice presunzione (come invero accade con la ragione speculativa). Poiché se essa, come ragion pura, è veramente pratica, dimostra la realtà propria e quella dei suoi concetti mediante il fatto, ed è vano ogni sofisticare contro la sua possibilità di esser tale. Le due opere, la Fondazione della metafisica dei costumi e la Critica della ragion pratica hanno il medesimo obiettivo: quello di individuare un principio assoluto del volere, seppure con procedure diverse. La prima muove dalla conoscenza morale comune, per trovare in essa il principio da chiarire e analizzare in una metafisica dei costumi; la seconda dai principi scaturiti da un’analisi concettuale, per dimostrare la «realtà», ossia la capacità di tali principi di determinare la volontà. Entrambe lasciano ancora aperto lo spazio a una vera e propria metafisica dei costumi (Kant pubblicherà nel 1797 un’opera con questo titolo) che determini un sistema dei doveri in relazione alla natura umana, sulla base del principio generale della moralità.

La metafisica dei costumi L’opera intitolata Metafisica dei costumi tratta di tutto quello che può essere conosciuto a priori nell’ambito pratico, ossia dell’agire libero: i principi che devono regolare il comportamento degli uomini. Essa è suddivisa in due parti, la Dottrina del diritto e la Dottrina della virtù, e inizialmente Kant analizza alcuni concetti comuni a entrambe queste sfere: la nozione di libertà; la nozione di obbligo, al cui interno troviamo i tre aspetti del lecito, dell’illecito e del dovere; quella di giusto e di ingiusto; il tema del conflitto tra doveri. Nella parte dedicata al diritto si passa poi dai generali principi a priori alle istituzioni della coesistenza umana, il diritto e la teoria dello Stato, e all’analisi dei vari tipi di dovere giuridico. Per Kant esiste un solo diritto innato, la libertà (intesa nel senso esteriore di indipendenza dalla costrizione altrui) in quanto può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale. Vengono quindi esposti i doveri vincolanti, che possono assumere la forma di leggi esterne, alle quali la ragione pratica dell’uomo obbedisce: per esempio l’insieme delle leggi che regolano la proprietà. La seconda parte dell’opera tratta invece della virtù, in-

tesa come la capacità interiore di resistere a ciò che ostacola l’adempimento del dovere. Per compiere adeguatamente il proprio compito la virtù deve trovare degli scopi, e poiché siamo sul piano della metafisica, deve poterli trovare a priori e autonomamente in modo che quando la ragion pratica li segue non lo faccia spinta da principi materiali ed esterni, ma dalla libertà interiore. Inoltre gli scopi / doveri della dottrina della virtù sono visti, a differenza di quelli giuridici, come doveri ‘larghi’, perché il modo di adeguarvisi non è determinato. Come e in che misura perseguire un certo scopo doveroso non è prestabilito, anche perché sta nella valutazione dell’uomo la commisurazione tra diversi doveri, il «limitare la massima di un’azione doverosa con un’altra»: per esempio bilanciare l’amore per il prossimo con quello per i genitori ecc. Kant individua doveri dell’uomo verso se stesso (come essere animale: l’autoconservazione; come essere morale: la conoscenza di se stesso, lo sviluppo delle proprie capacità naturali, intellettuali e morali) e verso altri (la benevolenza). I doveri si possono riassumere per Kant in quelli di perseguire la propria perfezione e la felicità altrui. Da notare che non vi sono per Kant doveri verso Dio.

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L’imperativo categorico La ricerca di un principio incondizionato Non può essere un oggetto determinato o il piacere

Variabilità dei contenuti delle massime soggettive

Ricerca di un principio formale e non materiale: universalità della legge

Quale può essere il principio generale della moralità, e come può essere un principio incondizionato del volere, ossia un imperativo categorico? Per trovarlo, Kant fa valere le premesse raggiunte con l’analisi che sopra abbiamo ricostruito. Si tratta di trovare una legge che valga incondizionatamente. Questa legge non può riferirsi a nessun oggetto particolare da considerare come desiderabile. Se la rappresentazione di un certo stato determina la volontà di attuare quello stato, la relazione che così si crea tra soggetto e oggetto è quella indicata con il termine di «piacere». Questa relazione secondo Kant non è mai determinabile a priori, perché dipende dalla natura particolare del soggetto (non possiamo sapere a priori cosa sarà piacevole per qualunque soggetto), dunque non può fondare una legge necessaria. Essa può dar luogo però a una massima soggettiva, e in effetti la massima di perseguire il piacevole in senso lato (per raggiungere la felicità, ossia la «coscienza della piacevolezza della vita») è una massima che di fatto guida l’azione degli uomini. Kant riconosce anzi che «essere felici è necessariamente il desiderio di ogni essere razionale ma finito, e perciò un motivo determinante inevitabile della facoltà di desiderare»: in quanto essere che ha bisogni, ogni essere finito, non autosufficiente, tende alla felicità. Ma la massima di perseguirla non è una legge, perché dipende da un fatto, e non indica nulla di determinato: il contenuto della felicità dipende dai desideri, e può essere diverso da soggetto a soggetto. È un obiettivo generico cui ognuno dà il proprio contenuto. Nessun oggetto del volere (nessuna «materia»: così Kant chiama l’oggetto della volontà), nessuna cosa che vogliamo può essere fonte di un volere necessario. Dunque: il principio deve essere di tipo formale. In altre parole: deve dirci non che cosa desiderare, ma come (in quale forma) desiderarlo. La forma di una legge, tolto il suo contenuto, consiste nella sua universalità, ossia nel suo valere per chiunque. È questa forma a fornire l’unico principio pratico incondizionato.

T31

In una legge, se si prescinde da ogni materia, cioè da ogni oggetto della volontà (in quanto motivo determinante) non rimane altro che la semplice forma di una legislazione universale. Dunque un essere razionale, o non può in nessun modo pensare i propri principi soggettivamente pratici, cioè le proprie massime, al tempo stesso come leggi universali, o deve ammettere che la loro semplice forma, per cui esse si adattano a una legislazione universale, ne faccia, di per sé sola, leggi pratiche.

Un principio universale

Se ci ricordiamo che l’oggetto proprio della valutazione morale era la massima soggettiva dell’agire, ecco che con quanto detto abbiamo trovato un criterio di valutazione: sarà buona quella massima (e quindi la volontà che la assume) adatta a qualificarsi come legge universale. Così viene espresso infine l’unico imperativo categorico, che prescrive solo la forma delle massime:

T32

LEGGE FONDAMENTALE DELLA RAGION PURA PRATICA

La forma di una legislazione universale Critica della ragion pratica, 1, par. 4

L’imperativo categorico

Critica della ragion pratica, 1, par. 7

Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale. Nota La geometria pura possiede postulati, come proposizioni pratiche che, tuttavia, non contengono altro che il presupposto che si possa eseguire qualcosa, quando viene richiesto

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che si debba farlo: e queste sono le uniche sue proposizioni che concernano un’esistenza. Si tratta, dunque, di regole pratiche sottoposte a una condizione problematica della volontà. Qui, per contro, la regola dice che ci si deve assolutamente comportare in un certo modo. La regola pratica è dunque incondizionata, ed è pertanto rappresentata come una proposizione pratica categorica a priori, da cui la volontà è determinata senz’altro immediatamente in modo oggettivo (mediante la stessa regola pratica che, dunque, in questo caso è legge). Infatti la ragion pura, in se stessa pratica, è qui immediatamente legislatrice. La volontà è pensata, dunque, come determinata, in quanto volontà pura, indipendentemente dalle condizioni empiriche; e pertanto, come determinata dalla pura forma della legge; e questo fondamento di determinazione è considerato come la condizione suprema di tutte le massime. La cosa è abbastanza singolare e non trova riscontro in tutto il resto della conoscenza pratica. Una legge a priori della volontà

Il fatto della ragione

Una moralità già esistente

Una morale universale e comune Una soluzione ai conflitti morali

Kant ritiene che ci si trovi davanti a una «cosa abbastanza singolare», ossia il fatto che il «pensiero di una possibile legislazione universale» si traduca qui in una legge a priori, che non deriva né dall’esperienza né da una volontà estranea. È la ragione pratica nella sua autonomia ad avvertire come un obbligo incondizionato quello di conformarsi a una possibile legislazione universale, cioè di pensare le proprie regole come inserite in un orizzonte comune a ogni essere razionale. Questo pensiero di una universalità possibile – in questo senso la «mera forma della legge» – diventa qualcosa che determina la stessa volontà e dunque diventa condizione suprema di tutte le massime. Kant parla a questo proposito di un «fatto della ragione», ossia di qualcosa che ci si impone di per se stesso, con la perentorietà di un fatto. Un essere razionale non riesce a riflettere sui fini della propria azione se non sentendosi obbligato a seguire fino in fondo la propria razionalità, e quindi pensando la propria massima nella prospettiva di una legge, come se dovesse essere una legge universale, anche se deve regolare le proprie azioni individuali. Kant non ritiene con questo di avere indicato un nuovo principio morale, di costruire una moralità nuova: ironizza su chi ponga questo obiettivo a una teoria morale: «chi pretenderebbe di trovare e, per dir così, di inventare per primo un nuovo principio di moralità? Quasi che, prima di lui, il mondo fosse stato ignaro di ciò che è il dovere, o non avesse fatto altro che avvolgersi nell’errore». Non ci vuole scienza o filosofia per sapere cosa si debba fare. Egli ritiene piuttosto: 1) di aver indicato ciò che è a fondamento della comune ragione umana, che essa «ha sempre presente», la struttura implicita nel ragionamento morale di ogni uomo (che anche in questo senso è un fatto, anche se non empirico); 2) di avere indicato però una formula precisa di esso, che può costituire una guida per la ragione comune, perché il peso dei bisogni e delle inclinazioni nella vita umana produce una dialettica naturale, che porta a mettere in questione quella legge avvertita da chiunque o a sottilizzare contro di essa per poter seguire i propri desideri, cercando di giustificarsi di fronte alla ragione. Offrire attraverso il chiarimento concettuale – rendendo consapevole ciò che è compreso già, ma in modo meno chiaro – una guida in questa dialettica è il compito della critica della ragione pratica che Kant ritiene essenziale. Trovare una «formula» non è un dettaglio, ma la chiave per la soluzione di ogni problema. 697

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Esistono due classi di azioni buone: quelle conformi al dovere e quelle fatte per dovere Il vero oggetto della valutazione morale è la «volontà»: è buona quella che agisce solo per il dovere Nella volontà oggetto di valutazione non sono risultati, abilità e intenzioni, bensì la massima Per essere considerata morale la massima dell’azione deve essere pura: non può essere condizionata da risultati, intenzioni ecc., non può essere determinata da un imperativo ipotetico Ricerca di un imperativo incondizionato, che può essere trovato a priori, valido per ogni ente razionale Due vie per la fondazione della morale

Fondazione della metafisica dei costumi: muove dalla conoscenza morale comune, per trovare il principio della moralità, da chiarire e analizzare in una metafisica dei costumi

Critica della ragion pratica: muove dai principi scaturiti da un'analisi concettuale, per dimostrare la «realtà», ossia la capacità di determinare la volontà di tali principi

Trovano il principio dell’agire morale nell’imperativo categorico Caratteri dell’imperativo categorico: – è solo formale, in quanto non determina un contenuto (uno scopo come oggetto del volere) – prescrive la forma universale della legge – si impone da se stesso come un fatto della ragione – fonda una morale universale comune in accordo con il senso morale esistente

4 Ragion pratica come legislatrice e autonoma

Libertà e autonomia L’etica di Kant stabilisce un principio che la ragione pratica trova in se stessa, senza derivarlo né da una fede religiosa né da una conoscenza teoretica (da un ordine del mondo cui conformarsi). In questo senso la ragione è legislatrice. Ma come concepire la possibilità da parte della ragione di determinarsi interamente da se stessa, senza essere condizionata da desideri? In altre parole: per seguire un comando come quello dato dall’imperativo categorico, la volontà dovrebbe essere libera, nel senso di indipendente da impulsi sensibili (libertà negativa) e nel senso di libera di determinare la propria legge (legislazione autonoma, libertà positiva). Come giungere all’affermazione della libertà, che oltrepassa ogni conoscenza sensibile?

La conoscenza della libertà Presupporsi liberi

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Kant ritiene che la libertà non sia conoscibile, ma debba essere ammessa come una idea: l’essere che riconosce la legge morale non può agire se non «sotto l’idea della libertà» (ossia presupponendosi libero), e questo è quanto basta per la ragion pratica, senza che vi sia bisogno di raggiungerne una vera e propria conoscenza nell’ambito della ragione teoretica.

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L’idea della libertà Fondazione della metafisica dei costumi, 3

[…] ogni essere che non possa agire altro che sotto l’idea della libertà è perciò stesso realmente libero dal punto di vista pratico, ossia per esso valgono tutte le leggi che sono inseparabilmente connesse con la libertà proprio come se la sua volontà fosse spiegata come libera anche in se stessa, e in modo valido per la filosofia teoretica.* [nota a piè di pagina] * Prendo questa via, di ammettere come sufficiente al nostro scopo la libertà solo in quanto sia posta a fondamento semplicemente nell’idea da esseri razionali per le loro azioni, affinché io non debba farmi l’obbligo di dimostrare la libertà anche dal punto di vista teoretico. Infatti quand’anche quest’ultima fosse lasciata non stabilita, per un essere che non può agire altrimenti che sotto l’idea della propria libertà valgono le stesse leggi che obbligherebbero un essere il quale fosse effettivamente libero. Possiamo dunque liberarci del peso che grava sul lato teoretico.

Non si può conoscere la libertà ma presupporla

Implicazione reciproca tra esistenza della libertà e conoscenza della legge morale

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La legge e il mondo intelligibile Fondazione della metafisica dei costumi, 3

Non si raggiunge, per via pratica, una vera conoscenza dell’in sé: non si tratta cioè di un argomento diverso (rispetto a quelli di tipo teoretico) che conduce al medesimo risultato conoscitivo. Nessuna conoscenza in senso proprio viene raggiunta, ma l’azione viene regolata inevitabilmente sulla base di una idea, e in questa prospettiva non c’è differenza con ciò che avverrebbe se tale idea fosse effettivamente conosciuta. È dunque la coscienza della legge morale, inevitabile per ogni essere razionale, a costringerci a pensarci come se fossimo liberi. Se da un lato la libertà è la condizione della legge morale (essa non avrebbe senso se non fossimo liberi e scaturisce dalla libertà stessa), la coscienza della legge morale è la condizione per la coscienza di essere liberi: la libertà è la ratio essendi della legge morale (la ragione che la fa essere, perché se non fossimo liberi allora non potrebbe esistere neppure l’autonomia della volontà), la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà (la ragione che la fa conoscere): senza la legge morale (che conosciamo come fatto della ragione grazie alla ragion pratica) non sapremmo mai – seppure, si è visto, in un senso molto particolare – di essere liberi. E concependoci liberi ci concepiamo dal punto di vista di un mondo che non è quello fisico. Anche questo non è un dato della filosofia, ma appartiene alla ragion pratica comune. L’uso pratico della comune ragione umana conferma la correttezza di questa deduzione. Non v’è alcuno, neanche il più feroce malfattore, se solo è abituato ad usare la ragione, che, quando gli si presentino esempi di rettitudine negli intenti, di perseveranza nell’osservare buone massime, di compartecipazione e di benevolenza universale (magari in più legate a grande sacrificio di vantaggi e comodità), non desideri di avere anch’egli la stessa disposizione d’animo. Costui non può mettere in atto in sé tutto ciò solo a causa dei suoi impulsi e inclinazioni; eppure desidera comunque essere libero da tali inclinazioni, gravi a lui stesso. Così egli dimostra che, con una volontà libera dagli impulsi della sensibilità, si trasferisce, nel pensiero, in un ordine di cose interamente diverso da quello dei suoi appetiti nel campo della sensibilità perché da quel desiderio non può attendersi alcun appagamento di tali appetiti, e dunque alcuno stato che soddisfi le sue inclinazioni reali o persino immaginarie (perché altrimenti l’idea stessa che gli suscita quel desiderio perderebbe la sua preminenza), ma soltanto un più grande valore intrinseco della sua persona. Egli crede però di essere questa migliore persona se si pone dal 699

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punto di vista di membro del mondo intelligibile, cosa a cui lo costringe, suo malgrado, l’idea della libertà, ossia l’indipendenza da cause determinanti del mondo sensibile e dal quale punto di vista è cosciente di una buona volontà che, per sua stessa ammissione, costituisce per la sua cattiva volontà in quanto membro del mondo sensibile la legge, la cui autorità egli riconosce nel momento stesso in cui la trasgredisce. Il dover essere morale è dunque, in quanto membro di un mondo intelligibile, proprio volere necessario, e viene da costui pensato come dover essere solo in quanto si consideri insieme come membro di un mondo sensibile. Il mondo intelligibile non è un regno di cose soprasensibili, ma un’idea, un «punto di vista» inevitabile per chi agisca in base alla ragione e si senta costretto a riconoscere la necessità di una prospettiva imparziale, valida per tutti, che la ragione stessa propone. Lo spazio lasciato libero dalla cosa in sé è riempito da uno sfondo di orientamento ideale per l’agire morale dell’uomo, senza che si traduca in una pretesa conoscenza di oggetti che oltrepassi l’ambito dell’esperienza. La libertà del volere La libertà del volere da proprietà metafisica diventa un presupposto per comprencome autolegislazione dere la nostra azione e la necessaria razionalità di cui nell’agire inevitabilmente teniamo conto anche quando non la seguiamo. Una volontà libera viene così concepita come una volontà che dà a se stessa la legge, che si autoregola. «Trascendente», inconoscibile per la ragione teoretica, la libertà acquista realtà «oggettiva», un senso determinato e un valore di fondamento all’interno dei ragionamenti morali. Il mondo intelligibile come idea che orienta l’agire morale

Un movente puro: il rispetto per la legge Cosa può motivare, spingere ad agire una volontà libera? Secondo quanto visto, soltanto la legge morale, che la stessa volontà dà a se stessa. Ma come può un principio razionale costituire un movente per un essere sensibile? Riconosciuto il bene nella legge, perché devo compierlo? Kant ha escluso ogni sentimento – compreso quello dell’amore – come movente della moralità, in quanto un sentimento non è in grado di garantire, come mero dato di fatto, l’universalità del dovere. Rispetto della legge Ma ciò che traduce il riconoscimento della legge morale in una spinta ad agire è un come sentimento puro sentimento particolarissimo, il rispetto per la legge stessa, che non è qualcosa che la mette in questione nella sua purezza, perché è un sentimento prodotto dalla ragione nel riconoscere l’autentico comando morale, dunque che scaturisce a priori. Io posso agire per dovere e non solo conformemente al dovere, secondo lo spirito e non la lettera della legge, se è la legge che ridimensiona la mia natura sensibile, presentandomi qualcosa di più forte. Nel rispetto per la legge si manifesta una dimensione profonda di noi stessi, avvertita da un lato come nostra (dunque come una inclinazione) e dall’altro sentita come estranea, ma superiore (dunque come un timore). Questo particolare intreccio viene descritto da Kant nella Fondazione. Esclusione dei sentimenti come movente della moralità

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Il sentimento di rispetto per la legge Fondazione della metafisica dei costumi, 1

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La determinazione immediata della volontà da parte della legge e la coscienza di ciò si chiama rispetto, che va dunque considerato come l’effetto della legge sul soggetto e non come la causa della legge. Propriamente, rispetto è la rappresentazione di un valore che lede il mio amor proprio. È dunque qualcosa che non va considerato come oggetto dell’inclinazione o del timore, benché abbia qualche analogia con l’una e l’altro insieme. L’oggetto del rispetto è dunque esclusivamente la legge, e precisamene quella legge che imponiamo a noi stessi e tuttavia come in sé

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necessaria. In quanto è una legge, noi le siamo sottomessi, senza che interroghiamo l’amor proprio; in quanto imposta da noi stessi, essa è comunque una conseguenza della nostra volontà e ha per il primo aspetto analogia con il timore, per il secondo con l’inclinazione. Ogni rispetto per una persona non è propriamente che il rispetto per la legge (della probità ecc.) di cui tale persona ci offre l’esempio. Contro il sentimentalismo

L’agire morale secondo Kant

Kant può salvare così l’assunto che la motivazione in un ente sensibile deve esser di carattere sensibile (e «ogni sentimento è sensibile»), senza cedere a una posizione sentimentalista (come quella di coloro che indicano nel sentimento morale il criterio dell’agire etico, quali Hume e Francis Hutcheson, vedi Unità 10, p. 520) che considerava la ragione come qualcosa di «freddo», incapace di motivare all’azione. Ogni sentimento d’altro genere resta «patologico», ossia viene subìto come un fatto. Il precetto evangelico dell’amore in questo quadro è valido solo se interpretato correttamente: non come l’assurdo comando di avere un sentimento – nessuno può amare per precetto – ma come il comandamento di disporsi a compiere volentieri il proprio dovere. Si tratta di un obiettivo (un ideale di santità) non raggiungibile da un uomo, ma verso cui tendere in un progresso ininterrotto. La ragion pratica deve essere autonoma, ossia determinarsi da sola sulla base di un principio non empirico (né desideri, né piacere ecc.) Deve essere libera sia in senso negativo (indipendente da impulsi sensibili ) che positivo (libera di determinare la propria legge) La libertà è il presupposto necessario dell’esistenza (ratio essendi) della legge morale, la legge morale è ciò che ci permette di conoscere (ratio cognoscendi ) la libertà

Il rispetto della legge morale è l’unico movente puro

5 Etica e mondo: non sempre la virtù rende felici

Virtù e felicità Stabilire, anzi ritrovare nell’uomo un principio in base al quale egli sente di dover agire è un risultato di grande importanza, che lascia aperto però un problema, quello del rapporto tra la moralità delle azioni (che per Kant rende un uomo degno di essere felice) e il corso del mondo. Non c’è un dissidio tra il dovere percepito attraverso la legge morale e la constatazione che nel mondo la virtù spesso non è premiata, e sembra piuttosto in contrasto con la felicità personale? La ragione può pensare la possibilità di un dovere razionale in un mondo irrazionale?

I postulati e il primato della ragion pratica Proposizioni teoretiche ammesse per orientare l’agire morale

Kant cerca di ricomporre questo dissidio – che è quello che si presenta nella «dialettica naturale» in cui la ragione tenta di ingannare se stessa, proprio perché avverte questo contrasto – attraverso la dottrina dei «postulati» della ragion 701

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I postulati rendono pensabile la conciliazione di virtù e felicità

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I postulati della ragion pratica

Critica della ragion pratica, Dialettica, 2,6

Primato della ragion pratica come compimento della metafisica

pratica. I postulati sono per Kant proposizioni teoretiche, ammesse soltanto da un punto di vista pratico (ossia per orientare l’azione dell’uomo nel mondo), ma non affermate come conoscenze teoretiche: non sono dogmi, ma supposizioni, che servono a dare contenuto («realtà oggettiva») a concetti che resterebbero altrimenti vuoti, a renderli ammissibili come concetti. Il loro uso pratico è nel consentire di vivere come se fossero veri, consentendo di pensare – in particolare con l’idea di immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio – una possibile riconciliazione tra virtù e corso del mondo, di concepire «almeno come possibile» un legame tra la coscienza della moralità e l’attesa di una felicità ad essa proporzionata, ottenuta dopo questa vita. In questo senso consentono di seguire la legge morale, l’«osservanza» dei suoi precetti senza dissidio della ragione. Essi derivano tutti dal principio della moralità, che non è un postulato, bensì una legge con cui la ragione determina immediatamente la volontà: la qual volontà, appunto perché è determinata così, come volontà pura, esige queste condizioni necessarie all’osservanza di ciò che la legge prescrive. Tali postulati non sono dogmi teoretici, ma presupposti, da un punto di vista necessariamente pratico: quindi, non ampliano la conoscenza speculativa, ma danno alle idee della ragione speculativa in generale (per mezzo del loro rapporto con ciò che è pratico) una realtà oggettiva, e autorizzano concetti, di cui, altrimenti, essa non potrebbe arrogarsi neanche di affermare la possibilità. Il legame con la legge pratica di questi concetti, e il loro contributo a sanare il dissidio della ragione, fanno sì che si possa: 1) considerarli «veri concetti», ossia qualcosa di diverso dalle «mostruosità» della ragione alle quali si abbandonano per Kant «mistici» e «teosofi»; 2) lasciare aperta la possibilità di agire alla luce di tali concetti. La ragion pratica per Kant detiene un «primato» su quella teoretica, nel senso che può trovare un ambito possibile e legittimo anche fuori di ciò che la ragione speculativa può conoscere, mentre questa non può rigettare ciò che la ragione pratica, in base alle proprie procedure, può stabilire. I postulati allora, riguardanti i concetti di libertà, immortalità dell’anima, esistenza di Dio, possono conservare un senso anche se non sono conoscenze, anzi soltanto rinunciando a esserlo. I vecchi dogmi della metafisica speciale (cosmologia, psicologia, teologia) diventano così lo sfondo di orientamento di una razionalità pratica che deve realizzare nel mondo la legge morale incondizionata. La ragion pratica può ammettere, in un nuovo senso, ciò che la ragione teoretica aveva indicato come inconoscibile. La riformulazione kantiana della metafisica trova qui il suo compimento.

Immortalità dell’anima ed esistenza di Dio Il postulato della libertà ha una natura diversa da quella degli altri: esso è legato, come abbiamo visto, immediatamente con la coscienza della legge morale. Dell’idea di libertà sappiamo a priori la possibilità in quanto è condizione della legge morale. Il sommo bene Le idee dell’immortalità dell’anima e di Dio non sono invece condizioni della scaturisce legge morale, ma condizioni dell’oggetto necessario di una volontà determinadalla legge morale ta dalla legge. Questo oggetto è quello che Kant chiama il sommo bene. Il conIl postulato della libertà

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Il fine della legge morale: virtù e felicità

La possibilità di un accordo tra virtù e felicità

I postulati come base per una religione razionale

Fede e certezza morale

cetto di bene per Kant scaturisce dalla legge morale, non la precede. È bene ciò che è voluto in base alla legge morale; non è – inversamente – un oggetto «buono» a determinare cosa è giusto, come voleva secondo Kant l’etica degli antichi. La legge morale, pur formale, non può non avere un contenuto, un fine da raggiungere nell’azione. Questo è costituito, per l’uomo come essere razionale e finito, da un lato dalla virtù, ossia la condizione di esser degni della felicità; dall’altro dalla felicità, che un ente finito, cioè caratterizzato da bisogni come l’uomo, necessariamente, vuole. La stessa ragione imparziale e disinteressata considera incompatibile con la ragione che un essere abbia bisogno della felicità, ne sia degno e tuttavia non ne possa essere partecipe: questa prospettiva minerebbe non la legge morale, ma il suo dispiegarsi in un’azione nel mondo. Per liberarsi da questa lacerazione la ragione ha bisogno – un bisogno razionalmente necessario – di postulare la possibilità di un accordo tra virtù e felicità, e dunque le condizioni di questo accordo: l’immortalità dell’anima, che consente di pensare in una vita futura la coincidenza tra l’esser compiutamente degni della felicità (in un perfezionamento infinito) e la felicità effettiva; l’esistenza di Dio, che consente di pensare la natura, il mondo in cui si svolge l’azione umana, come compatibile con la moralità: Dio è la causa suprema della natura, dotata di intelletto e volontà, che può governare il mondo in conformità con la moralità. Intese come postulati pratici, come principi di orientamento e di senso dell’azione, queste idee sono liberate dall’antropomorfismo e dalla superstizione, così come dal fanatismo: dalla commistione cioè con pretese conoscenze, sia empiriche che soprasensibili. Liberato dalla conoscenza, il discorso morale rende possibile una religione puramente razionale. I contenuti della religione – depurati da tutto ciò che sarebbe uso vuoto di concetti incontrollati – vengono fatti dipendere dalla moralità. Capovolgendo il modo consueto di concepirle, per Kant è la morale che fonda la fede e non viceversa. Questa fede, che si limita a pensare la possibilità di un accordo tra virtù e corso del mondo, e dunque la possibilità di Dio e dell’immortalità, che trova nella limitazione della conoscenza dogmatica una dimensione più autentica è rappresentata per Kant esemplarmente dalla figura biblica di Giobbe, l’uomo tormentato dall’infelicità che non fonda la sua fede sulla certezza.

Giobbe, la fede e il male Giobbe è il protagonista di un testo poetico della Bibbia, uno dei sette «libri sapienziali» dell’Antico Testamento, ricco di spunti di riflessione teologici e morali. La storia narra di un uomo buono e giusto, timorato di Dio e incapace di male, che vive sereno e felice, ricco di beni materiali e di affetti. Ma un giorno i figli di Dio si recano davanti a Lui e tra loro viene anche il Nemico (Satana) a cui Dio chiede se ha visto il suo servo Giobbe, l’uomo migliore che esista. Al che Satana ironizza chiedendogli perché Giobbe non dovrebbe essere giusto, dato che Dio lo ha colmato di doni, ma – dice – se perdesse tutto forse non lo sarebbe più. E Dio accetta che Satana metta alla prova Giobbe per ben due volte, prima facendogli perdere figli, beni e servi, e poi

colpendolo con terribili piaghe: ma Giobbe non maledice Dio per questo. In questa situazione tre amici vengono a fargli visita e tra loro vi è un lungo dibattito sulle possibili motivazioni dell’agire divino: gli amici sostengono che in qualche modo Giobbe deve aver offeso Dio, mentre egli nega di aver mai peccato e s’interroga sulla giustizia divina. Uno degli amici risponde al lamento di Giobbe e subito dopo Dio stesso si presenta per affermare la propria onnipotenza e mettere a tacere Giobbe, che ha osato chiedergli conto delle sue azioni. Di fronte al silenzio dell’uomo, che piega il capo davanti all’onnipotenza e all’oscurità di Dio, Egli infine lo loda e critica le argomentazioni degli altri, rendendolo nuovamente sereno e restituendogli tutto quello che gli era stato tolto.

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Giobbe e la fede Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea

➥ Sommario, p. 727

[…] a Giobbe probabilmente, dinanzi a un tribunale di teologi dogmatici, ad un sinodo, a un’inquisizione, ad una reverenda congrega o a qualunque concistorio supremo del nostro tempo […], sarebbe toccata una cattiva sorte. Soltanto la sincerità del cuore, dunque, e non la superiorità del conoscere, soltanto l’onestà di confessare apertamente i propri dubbi e la ripugnanza a fingere ipocritamente una convinzione non sentita e soprattutto a fingerla dinanzi a Dio (dove questa astuzia è senz’altro assurda): sono queste qualità che nel giudizio divino hanno deciso a favore dell’uomo onesto, nella persona di Giobbe, e contro il pio adulatore. Ma la fede che nacque in lui da una così sorprendente dissoluzione dei suoi dubbi, e cioè semplicemente dal convincimento della propria ignoranza, poteva sorgere unicamente nell’anima di un uomo che, in mezzo ai dubbi più vivi, era capace di dire (XXVII, 5, 6): «Finché non giungerà la mia fine, non voglio recedere dalla mia pietà, e così via…». Con questa intima convinzione egli infatti dimostrava che la sua moralità non si fondava sulla fede, bensì la fede sulla moralità: in questo caso, la fede, per quanto fragile possa essere, è tuttavia di un genere schietto e puro, di quel genere, cioè, che fonda una religione non della richiesta di favori ma della buona condotta.

Gli scopi della natura: la facoltà di giudizio

4 I testi

Critica della facoltà di giudizio: Facoltà di giudizio determinante e riflettente, T38; Difficoltà per il principio della facoltà di giudizio, T39; Il ruolo del gusto nella critica della facoltà di giudizio, T40; Il principio di conformità a scopi, T41; Il piacere come percezione del libero gioco delle facoltà co-

Conclusione della critica della metafisica

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noscitive, T42; Due forme del sublime, T43; L’organismo come «scopo naturale», T44; Due sensi del principio di conformità a scopi, T45; L’uomo come scopo ultimo condizionato della natura, T46; Società civile e tutto cosmopolitico come condizioni dello scopo ultimo, T47

Con il recupero dei temi della metafisica speciale, la trasformazione del loro senso e del loro ruolo, sembra concluso il compito critico come Kant lo aveva progettato: stabilire le condizioni e prefigurare il piano di una metafisica della natura e di una metafisica dei costumi. La risposta alla domanda «cosa devo fare?» ha definito lo scopo ultimo della ragione e, con esso, ciò che interessa necessariamente l’uomo come cittadino del mondo. Il primato della ragion pratica consente di unificare – pur con una precisa distinzione tra ciò che è conoscenza e ciò che non lo è – natura e libertà.

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1 Problemi aperti Dualismo tra necessità naturale e libertà

Problema del rapporto meccanicismo / finalismo

➥ Percorso tematico, p. 753 Problemi legati alla classificazione e alla formazione di classi di fenomeni

Insufficienza del meccanicismo per spiegare l’organismo

Il problema del bello nella natura e nell’arte

Un nuovo principio, una facoltà ripensata: la Critica della facoltà di giudizio In questa compiuta teleologia della ragione umana tuttavia restano aperti o non risolti in modo soddisfacente diversi problemi. 1) Uno è quello principale. La natura, definita dalle sue leggi, lascia aperto uno spazio, il soprasensibile, che la ragione «occupa» con idee pratiche senza estendere la conoscenza. Tra questi due domini, quello della natura e quello della libertà, vi è «un immenso abisso»: e tuttavia la libertà deve realizzare nella natura, nel mondo sensibile, gli scopi che si pone. Dev’essere possibile allora pensare la conformità a leggi della natura in modo che si accordi almeno con la possibilità degli scopi da realizzare in essa mediante la libertà. Il modo di pensare dell’intelletto e quello della ragione possono risultare altrimenti così distanti da rendere impossibile concepire un passaggio tra l’uno e l’altro. Se i postulati della ragion pratica garantivano la possibilità dell’armonia tra la moralità e gli esiti del corso del mondo, gli eventi che la volontà del singolo non controlla, essi non fondavano però un accordo tra la legalità naturale e la libertà, tra i differenti modi di pensare costituiti dal riconoscimento di cause meccaniche, da un lato, e dalla libera posizione di fini, dall’altro. Si ripropone dunque il problema del rapporto tra meccanicismo e finalismo, che la tradizione filosofica lasciava in eredità, irrisolto. 2) La stessa conoscenza della legalità naturale presentava però problemi non risolti nella prima Critica. Anzitutto quello riguardante l’organizzazione in classi dei fenomeni naturali, e l’unità tra queste classi. Se la Dialettica trascendentale indicava i presupposti di omogeneità, affinità ed eterogeneità nella natura come principi regolativi del procedere della ragione (vedi p. 686), non indicava in modo netto un principio che fosse alla base di questi presupposti. Inoltre non era emerso con chiarezza che prima ancora di un problema di rapporto tra classi (di classificazione) si presentava quello più basilare di un’affinità dei fenomeni sufficiente alla formazione di classi, di concetti generali: il problema della concettualizzazione, dell’«applicazione della logica alla natura». 3) Un altro problema interno alla scienza della natura era quello dovuto alla esistenza di enti «organizzati» – quelli chiamati «organismi» – la cui peculiarità (il fatto di presentare un rapporto tra parti e tutto funzionale, in cui ogni parte risulta comprensibile solo in rapporto alle altre e alla funzione complessiva dell’organismo, ai suoi scopi) sembra sfuggire a una spiegazione interamente meccanicistica, richiedendo l’attribuzione di «scopi». La biologia non si lasciava pertanto comprendere senza riserve nello schema delle scienze fisiche della natura. 4) Ancora un problema, apparentemente eterogeneo rispetto a quelli indicati, non era risolto nel quadro concettuale della Critica della ragion pura e della Critica della ragion pratica: il problema del bello nella natura e nelle opere d’arte. Il giudizio sulla bellezza di un fenomeno naturale o di un quadro era tradizionalmente pensato, nell’orizzonte leibniziano, in riferimento al concetto di «perfezione» (ossia di rispondenza a un fine). Kant ritiene invece che, da un lato, esso sfugga alla dimensione dei concetti (manifestandosi invece in un sentimento di piacere), dall’altro, non si presenti come un fatto 705

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Tutti rimandano alla nozione di conformità a scopi in natura

Verso la Critica della facoltà di giudizio

privato, ma pretenda una sua universalità, una validità per ogni giudicante in generale. Cosa rende possibile questa pretesa? Che rapporto ha il piacere con la finalità? Kant ritiene che tutti questi problemi abbiano una cifra comune: l’utilizzo, in modi diversi, del concetto di conformità a scopi in rapporto alla natura e agli oggetti sensibili. La legittimità dell’uso di concetti di finalità all’interno della natura diventa così il denominatore comune e il problema centrale: e, dal momento che l’intelletto e la ragione speculativa si rivolgono alla natura e la ragione pratica fa uso del concetto di finalità, sembra presentarsi qui una dimensione di passaggio tra questi due domini.

Kant ha risposto alle domande critiche (è possibile la metafisica come scienza? ecc.) nelle prime due Critiche

Ha costruito una nuova metafisica generale (ontologia)

Ha risolto le aporie delle metafisiche speciali con la dottrina dei postulati

Problemi aperti

Dualismo tra necessità naturale e libertà. Problema del rapporto meccanicismo / finalismo

Problemi legati alla classificazione e alla formazione di classi di fenomeni

Insufficienza del meccanicismo per spiegare gli organismi

Il problema del bello nella natura e nell’arte

Tutti rimandano alla nozione di conformità a scopi in natura

Una facoltà mediatrice Kant riconosce, nella sua analisi delle capacità dell’animo, tre facoltà distinte e non riducibili l’una all’altra: la facoltà conoscitiva, la facoltà di desiderare, e il sentimento di piacere e dispiacere. Conoscenza, volontà e sentimento sono tre aspetti originari della vita mentale: nessuno può essere spiegato in base a uno degli altri due o a entrambi, né essi possono essere derivati da un fondamento comune. La facoltà conoscitiva e quella di desiderare hanno anche una loro dimensione «superiore», ossia legata alla specifica razionalità umana e a principi a priori: ad esse corrispondono rispettivamente intelletto e ragione, come capacità di riconoscere la legalità nella natura e di porre uno scopo finale al volere. La facoltà di giudizio Nell’analisi delle facoltà della ragione umana è però presente una terza capamedia tra intelletto cità, quella di giudicare, o di applicare le regole a casi concreti dati: la facoltà e ragione di giudizio. Questa facoltà media tra intelletto e ragione, rispettivamente legati, nella loro originaria matrice logica, a concetti e sillogismi: i concetti devono unirsi in giudizi (a opera appunto della facoltà di giudizio) che poi si uniscono a loro volta in sillogismi. Kant pensa di individuare qui un’analogia e una trac-

Conoscenza, volontà, sentimento

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cia per ulteriori approfondimenti: come la facoltà di giudizio media tra intelletto e ragione, la posizione mediana tra conoscenza e facoltà di desiderare del sentimento di piacere e dispiacere può suggerire una corrispondenza tra quest’ultimo e la facoltà di giudizio, e l’ipotesi che – come intelletto e ragione – anch’esso abbia un suo principio a priori. Nello schema che segue, inserito da Kant nella sua Introduzione alla Critica della facoltà di giudizio, vengono presentati questi rapporti.

Insieme delle facoltà dell’animo

Facoltà conoscitive

Principi a priori

Applicazione a:

Facoltà conoscitiva

Intelletto

Conformità a leggi

Natura

Sentimento di piacere e dispiacere

Facoltà di giudizio

Conformità a scopi

Arte

Facoltà di desiderare

Ragione

Scopo finale

Libertà

Giustificare l’unità sistematica attraverso la facoltà di giudizio

2 Una facoltà capace di sussumere sotto regole

Si tratta di una traccia che Kant ha seguito e che deve però giustificare dal punto di vista teorico, per potere effettivamente affermare questo nesso e questa articolazione sistematica. Farlo vuol dire: 1) approfondire la natura della facoltà di giudizio; 2) scoprire un nuovo principio a priori. Questo principio, va detto però subito, ha due facce, non entrambe evidenti nella tabella: una costitutiva, quella indicata nella tabella, per la quale esso determina a priori la natura del sentimento di piacere e dispiacere (un principio è costitutivo quando determina a priori il suo oggetto); e una regolativa, che orienta la facoltà conoscitiva nel suo rapporto con la natura (un principio regolativo non determina la natura di un oggetto, ma guida il modo di procedere di una facoltà). Entrambi gli aspetti saranno centrali nella Critica della facoltà di giudizio.

La facoltà di giudizio Nella Critica della ragion pura la facoltà di giudizio veniva indicata da Kant come «un talento particolare, il quale non può essere insegnato, ma può soltanto essere esercitato». La facoltà di giudizio non può in altri termini avere una regola che le dica come procedere, perché essa è «la facoltà di sussumere sotto regole, cioè di distinguere se qualcosa cada o no sotto una data regola» – e una regola per l’applicazione di regole farebbe soltanto slittare il problema all’infinito. La mediazione tra il caso e la regola è affidata a un saper fare – un talento – e non a un sapere. Si tratta della capacità che esercita per esempio un medico nell’identificare la malattia nel caso particolare che gli si presenta, un giudice nell’applicare la legge al caso concreto. Altra cosa è il possesso di queste regole in generale, propria dell’intelletto: la facoltà di giudizio agisce proprio nel mediare tra regole e concretezza dell’esperienza. Quando si parla di «sano intelletto» umano, di «buon senso», è a questa facoltà che si pensa, la cui importanza è evidente. 707

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Determinante e riflettente I due aspetti della facoltà di giudizio

T38

Facoltà di giudizio determinante e riflettente

Critica della facoltà di giudizio, Introduzione, par. 4

L’operazione di applicare un concetto o una legge

Giudizio riflettente e principi euristici

Identificare la natura universale del sentimento di piacere e dispiacere

Nella Critica della facoltà di giudizio Kant non revoca questa caratterizzazione e non cambia quella definizione della facoltà, ma la approfondisce, individuando due aspetti: se si parte dall’universale (la regola) si applica la facoltà determinante di giudizio; se si parte dal particolare la facoltà riflettente di giudizio. La facoltà di giudizio in genere è la facoltà di pensare il particolare come compreso sotto l’universale. Se è dato l’universale (la regola, il principio, la legge), allora la facoltà di giudizio che sussume sotto di esso il particolare (anche quando, in quanto facoltà trascendentale del giudizio, stabilisce a priori le condizioni secondo le quali, soltanto, esso può essere sussunto sotto quell’universale), è determinante. Se invece è dato solo il particolare, per il quale essa deve trovare l’universale, la facoltà di giudizio è semplicemente riflettente. Applicare un concetto o una legge è una operazione molto diversa dal trovare il concetto o la legge: è diverso riconoscere un cane – identificare un oggetto come corrispondente a un concetto dato, per esempio pensare il particolare come compreso sotto un universale («cane») già formato e noto – dal creare una classe di oggetti caratterizzati da tratti comuni (per esempio formare il concetto di «dalmata» sulla base di caratteristiche ricorrenti in cani particolari). È diverso spiegare un caso particolare sulla base di una legge nota (il bruciare di un albero sulla base delle leggi della combustione) rispetto allo scoprire il principio comune a più fenomeni (per esempio i casi di combustione come dovuti alla reazione chimica di ossidazione di una sostanza). Questa seconda operazione, per cui la facoltà di giudizio trova la regola generale, ha bisogno anch’essa di principi non tratti dall’esperienza, che indichino in anticipo non il risultato – questo appunto solo l’esperienza può indicarlo – ma come cercarlo: le occorrono dei principi di orientamento della ricerca, ovvero, come si dice, dei principi euristici. È la facoltà di giudizio riflettente ad aprire dunque problematiche nuove: l’emergere di questa dimensione porta a un approfondimento del progetto della critica della ragione, anche se i due campi dove è possibile una determinazione concettuale a priori (nel nuovo senso kantiano: una metafisica) restano quelli dell’intelletto e della ragione, la conoscenza e la morale. Se infatti il principio della facoltà di giudizio risulterà costitutivo per il sentimento di piacere e dispiacere, questo non darà luogo a una determinazione concettuale, ma solo alla comprensione critica della natura universale di quel sentimento. Una critica della ragion pura sarebbe incompleta senza la critica della facoltà di giudizio, afferma Kant ora. Ma questa facoltà non determina un nuovo campo di «oggetti», ma soltanto una più profonda comprensione di sé da parte della ragione.

Il ruolo del gusto per la ricerca di un principio per la facoltà di giudizio La ricerca di un principio per la facoltà di giudizio produce secondo Kant un particolare «imbarazzo», e «grandi difficoltà», dovute alla funzione mediatrice che abbiamo sottolineato: il passaggio tra regole e concretezza non può essere guidato da una regola. 708

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T39

Difficoltà per il principio della facoltà di giudizio Critica della facoltà di giudizio, Prefazione

Valore paradigmatico della definizione dei giudizi estetici

T40

Il ruolo del gusto nella critica della facoltà di giudizio

Critica della facoltà di giudizio, Prima introduzione, par. 11

Obiettivo generale della terza Critica

[Il principio della facoltà di giudizio] non deve essere derivato da concetti a priori, perché questi appartengono all’intelletto e la facoltà di giudizio è volta solo alla loro applicazione. Quindi questa facoltà deve fornire da sé un concetto, mediante il quale non viene conosciuta propriamente alcuna cosa, ma che serve da regola solo ad essa stessa, e tuttavia non una regola oggettiva a cui la facoltà possa adattare il suo giudizio, poiché a tal fine sarebbe di nuovo richiesta un’altra facoltà di giudizio per poter distinguere se si tratti o no del caso cui la regola si applica. Nella ricerca, complessa, di questo principio hanno un ruolo particolare quei giudizi che Kant chiama estetici (o di gusto) e che riguardano il bello e il sublime nella natura e nell’arte. Da un lato, infatti, l’«imbarazzo» è qui acuito, perché essi non conducono mai a una conoscenza concettuale, ma soltanto a un sentimento di piacere; dall’altro, però, il giudizio estetico, senza presupporre un concetto del suo oggetto, sembra attribuirgli una particolare qualità, e in un modo condivisibile da tutti, che fa pensare a un fondamento in un principio universale e a priori. È dunque il giudizio di gusto a costituire il problema più acuto e a fornire però anche una traccia per ipotizzare la presenza di un principio proprio solo della facoltà di giudizio (l’assenza di un concetto nel giudizio di gusto esclude che la sua universalità sia dovuta all’intelletto o alla ragione). La portata del principio che qui si ipotizza e si cerca, oltrepasserà poi l’ambito estetico. È quindi solo il gusto, e precisamente in relazione agli oggetti della natura, ciò in cui la facoltà di giudizio si manifesta come una facoltà che ha il suo principio peculiare, e per questo tramite avanza la fondata pretesa ad un posto nella critica generale delle facoltà superiori della conoscenza, pretesa che forse non ci si attendeva da essa. Ma, una volta che è data la capacità della facoltà di giudizio di porsi da sé principi a priori, è anche necessario determinarne l’estensione, e per questa completezza della critica si richiede che la sua facoltà estetica, assieme a quella teleologica, sia riconosciuta come contenuta in una stessa facoltà e basata sullo stesso principio, perché anche il giudizio teleologico su cose della natura appartiene, con il medesimo titolo di quello estetico, alla facoltà di giudizio riflettente (non a quella determinante). Il principio che si manifesta nella sua autonomia nei giudizi di gusto ha dunque una portata più generale: riguarda anche i giudizi su «scopi naturali» (ossia su enti della natura che si presentano come organizzati) e, inoltre, a un livello più basilare, l’idea stessa della conoscenza empirica come sistema. Un medesimo principio sta alla base dei problemi apparentemente disparati che indicavamo, e giustifica la loro trattazione all’interno di un’unica opera, la Critica della facoltà di giudizio.

Il principio trascendentale della facoltà di giudizio La ricerca di un nuovo principio

La terza Critica kantiana ha due parti, la critica della facoltà di giudizio estetica e la critica della facoltà di giudizio teleologica. Kant le fa precedere però da una lunga Introduzione nella quale l’unità dell’opera viene giustificata e il principio generale viene identificato e legittimato come principio trascendentale. La necessità di questo principio è data dalla molteplicità di leggi empiriche, dalla varietà delle possibilità di concettualizzare la materia lasciate indeterminate dai 709

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Il bisogno di unificare i fenomeni naturali

Idea della natura come progetto di un intelletto: la conformità a scopi

T41

Il principio di conformità a scopi

Critica della facoltà di giudizio, Introduzione, par. 4

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principi a priori dell’intelletto. Questi stabiliscono soltanto leggi generalissime, come quella di causa ed effetto, non leggi empiriche. L’organizzazione della natura, pur conforme alle leggi dell’intelletto, potrebbe non consentire una unificazione progressiva, il ricomprendere leggi empiriche in leggi man mano superiori, o la stessa organizzazione di fenomeni in classi, la formazione di concetti. Per non brancolare nel buio in questa molteplicità, la facoltà di giudizio ha bisogno, nel momento in cui cerca le leggi o vuole formare concetti, di orientarsi. Un principio di orientamento viene fornito dall’idea di conformità a scopi: la natura viene pensata come se fosse stata progettata da un intelletto per essere conosciuta da noi. Con questo non si attribuiscono realmente scopi alla natura – il meccanicismo resta l’unico principio di conoscenza – ma si riflette su di essa (ossia si cercano leggi) presupponendo l’unità delle leggi empiriche che consente di conoscerla. La facoltà di giudizio regola in questo modo se stessa, il proprio modo di considerare la natura e di procedere nella ricerca, consentendosi di presupporre una disposizione favorevole della natura anche dove questo non è prescritto a priori dall’intelletto. La facoltà riflettente di giudizio, che ha il compito di risalire da ciò che è particolare nella natura all’universale, ha bisogno quindi di un principio che non può trarre dall’esperienza, dato che esso deve appunto fondare l’unità di tutti i principi empirici sotto principi egualmente empirici ma superiori, e quindi la possibilità di una subordinazione sistematica tra di essi. Un tale principio trascendentale, la facoltà riflettente di giudizio può quindi darlo come legge solo a se stessa, non ricavarlo da altrove (ché altrimenti sarebbe facoltà determinante di giudizio), né prescriverlo alla natura, poiché la riflessione sulle leggi della natura si regola sulla natura, ma questa non si regola sulle condizioni secondo le quali cerchiamo di ottenerne un concetto che è affatto contingente rispetto ad essa. Ora, questo principio non può essere altro che questo: poiché le leggi universali della natura hanno il loro fondamento nel nostro intelletto, che le prescrive alla natura (sebbene solo secondo il concetto universale di essa in quanto natura), le particolari leggi empiriche, rispetto a ciò che vi è lasciato indeterminato in quelle, debbono essere considerate secondo un’unità tale, come se, anche qui, l’avesse data a vantaggio della nostra facoltà conoscitiva un intelletto (sebbene non il nostro), per rendere possibile un sistema dell’esperienza secondo leggi particolari della natura. Non: come se in questo modo un tale intelletto dovesse essere ammesso effettivamente (poiché è solo alla facoltà riflettente di giudizio che questa idea serve come principio, per il riflettere, non per il determinare); con ciò piuttosto questa facoltà dà solo a se stessa una legge e non alla natura. Ora, poiché il concetto di un oggetto, in quanto contiene nello stesso tempo la ragione della realtà di questo oggetto, si chiama scopo, e l’accordo di una cosa con quella costituzione delle cose che è possibile solo secondo scopi si chiama conformità a scopi della sua forma, allora il principio della facoltà di giudizio, rispetto alla forma delle cose della natura sotto leggi empiriche in genere, è la conformità della natura a scopi nella sua molteplicità. Vale a dire, la natura viene rappresentata da questo concetto come se un intelletto contenesse il fondamento dell’unità del molteplice delle sue leggi empiriche. La conformità della natura a scopi è quindi uno speciale concetto a priori che ha la propria origine unicamente nella facoltà riflettente di giudizio.

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Questo principio, sottolinea poi Kant, è quello di una conformità a scopi soggettiva (ossia relativa al nostro intelletto) e formale: stabilisce che i fenomeni si presentano come se fossero organizzati in favore della nostra facoltà conoscitiva, ma senza che la materia di questo nesso finale – lo scopo stesso – sia effettivamente conoscibile. Uso regolativo È questo principio, che ci autorizza a priori a cercare leggi empiriche come se la delle idee e ricerca natura fosse predisposta per esser conosciuta, a fondare secondo Kant quelle di leggi empiriche massime che la Critica della ragion pura indicava nell’uso regolativo delle idee (massime di eterogeneità, omogeneità e affinità dei fenomeni), che ora vengono intese come fondate su un presupposto trascendentale della facoltà di giudizio. Ma questo stesso presupposto ci consente di comprendere fenomeni in apparenza disparati come l’esperienza del bello e la natura dei corpi organici.

Principio soggettivo e formale

Forme e principio della facoltà di giudizio

Facoltà di giudizio come facoltà che sussume sotto una regola

Facoltà di giudizio determinante: sussume il particolare sotto un universale già dato e noto

Facoltà di giudizio riflettente: ricerca l’universale partendo dal particolare

Richiede dei principi euristici che orientino la ricerca, diversi dalle categorie e dai principi dell’intelletto

Bisogna cercare il principio che guida l’agire di questa facoltà

La ricerca del principio della facoltà di giudizio riflettente risponde a diversi problemi

Problema dei giudizi di gusto: i giudizi di gusto non sono conoscenze concettuali, ma hanno un carattere universale che va spiegato. Il piacere che ne deriva manifesta una sorta di accordo tra soggetto e mondo

L’organizzazione dei fenomeni in concetti e dei concetti in un sistema empirico di concetti non è fondato sulle categorie e richiede un altro principio

La struttura di alcuni enti naturali (i corpi organici) e la ricerca di nessi funzionali non si lascia comprendere in base alla struttura meccanicistica definita dalle categorie

Il principio che risolve tutti questi problemi è il concetto di conformità a scopi (del mondo pensato in accordo con le facoltà del soggetto, come se fosse progettato per queste: la natura viene pensata «come se» fosse stata progettata da un intelletto in accordo con le facoltà del soggetto)

Caratteri di questo principio: – è soggettivo e formale – ci autorizza a priori a cercare leggi empiriche come se la natura fosse predisposta per esser conosciuta – ci consente di comprendere fenomeni in apparenza disparati come l'esperienza del bello e la natura dei corpi organici

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3 Un’ipotesi fondata su un’analogia

Il piacere e le sue forme Sulla base dell’individuazione di un principio generale della facoltà di giudizio Kant affronta i problemi particolari del gusto e della teleologia naturale. Per affrontare il primo, che come abbiamo visto ha un significato cruciale, un ruolo esemplare, egli deve trovare un legame tra la facoltà di giudizio e il sentimento di piacere e dispiacere, quel legame che l’analogia strutturale nel sistema delle facoltà gli consentiva solo di ipotizzare.

La facoltà di giudizio e il piacere Un nesso tra facoltà di giudizio e sentimento

Caratteri del nesso tra facoltà di giudizio e sentimento nelle esperienze del bello

È il concetto di conformità a scopi o di finalità la chiave per stabilire il nesso tra facoltà di giudizio e sentimento. La soddisfazione di un bisogno è legata al sentimento di piacere e la soddisfazione del nostro bisogno conoscitivo di trovare universalità nella natura ne è un genere particolare, che si manifesta più chiaramente quando la conformità della natura alla nostra facoltà di giudizio è inattesa, perché non necessaria; e inatteso è l’accordo trovato dalla facoltà di giudizio riflettente tra il mondo e la conoscenza, che è contingente, va oltre quanto prescritto dalle categorie. Di questo legame bisogna però indagare la forma particolare che assume in esperienze come quelle del bello nella natura e nell’arte. Esse hanno due caratteri particolari: 1) da un lato, producono un sentimento di piacere; 2) dall’altro, questo piacere viene avvertito come universale, condivisibile da tutti, non privato. Insieme, questi due caratteri fanno pensare a un principio universale del piacere, dunque al principio della facoltà di giudizio. Ma c’è un ulteriore carattere, ossia: 3) la natura non concettuale di tali esperienze. Esso richiede una spiegazione diversa dell’accordo tra soggetto e mondo, della conformità a scopi rispetto a quella finora vista, che riguardava l’accordo tra concetti e natura. È questo l’enigma particolarmente difficile della critica del gusto, che impone, dice Kant, «una non piccola fatica» al filosofo.

L’analisi del giudizio di gusto Pur estendendosi poi alla valutazione di opera d’arte, la teoria kantiana del bello e del giudizio di gusto si riferisce in primo luogo a oggetti della natura. Un giudizio di gusto è quello che stabilisce appunto se qualcosa è bello o no, non però attraverso un atto conoscitivo dell’intelletto, ma riferendo la rappresentazione dell’oggetto al sentimento di piacere del soggetto. In questo senso il giudizio di gusto è un giudizio estetico, in un significato ora diverso da quello dell’Estetica trascendentale: il suo principio di determinazione è soggettivo, riferito al soggetto. Quattro aspetti Sono quattro gli aspetti che Kant individua come caratterizzanti un giudizio di gusto. Compiacimento 1) Il compiacimento che lo determina è senza alcun interesse: non è legato cioè a senza interesse un piacere per l’esistenza dell’oggetto, e dunque per l’uso che potrei fare del-

Il bello naturale come oggetto principale

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Compiacimento universale

Compiacimento formale e conforme a uno scopo indefinito

Indipendenza da effetti e forma estetica

Compiacimento necessario

Quattro aspetti collegati alle quattro modalità logiche dei giudizi

l’oggetto, per un godimento di esso, ma a un piacere soltanto per la sua rappresentazione. Il bello non è dunque il piacevole, che è interessato a un godimento, ma soggettivo, e neppure il buono, che è legato a un interesse, ma attribuisce un valore oggettivo, assoluto. 2) Nel giudizio di gusto il bello viene rappresentato senza concetti come oggetto di un compiacimento universale. È questo l’aspetto forse più notevole del giudizio di gusto, che ne richiede una fondazione. Quando giudico di una cosa che è bella, non sto pensando «è bello per me»: pur non dimostrabile, il giudizio di gusto pretende di avere una validità comune (pubblica), e se è possibile discuterne, questa discussione è sensata solo sulla base di quel presupposto. Kant identifica così una particolare validità intersoggettiva, cioè condivisibile dall’intera sfera dei giudicanti, anche se priva di criteri oggettivi. 3) Il giudizio di gusto si basa sulla forma della conformità a scopi di un oggetto (o, nell’arte, del modo di rappresentarlo). In altri termini lo scopo che viene percepito nell’oggetto è indeterminato, la sua conformità a scopi è rappresentata senza alcuno scopo (la materia di un nesso finale): l’oggetto si presenta come se avesse uno scopo che però non è noto né dato. Questo distingue il giudizio di gusto dalla percezione – magari solo sensibile – della perfezione di un oggetto, che è il concetto dell’adeguatezza di qualcosa a uno scopo determinato. L’idea di perfezione aveva invece un ruolo importante nelle teorie del bello di derivazione leibniziana. In negativo Kant sottolinea che il giudizio di gusto è indipendente da attrattiva o emozione, ossia da qualcosa che possa agire empiricamente suscitando desiderio o modificando lo stato d’animo. Non è qualcosa che produce effetti sul soggetto a determinare il giudizio di gusto, ma soltanto la forma dell’oggetto, ossia ciò che nella cosa bella può essere oggetto di un processo di riflessione del soggetto, di una sua elaborazione attiva. La forma estetica dell’oggetto è per Kant figura o gioco: rapporto di elementi nello spazio o nel tempo che il soggetto «decifra» seppure in modo non concettuale. 4) Infine il bello è rappresentato – senza concetto – come oggetto di un compiacimento necessario. La necessità qui evocata è però soggettiva, non nel senso che sia privata, ma che non è dimostrabile con procedure oggettive: il giudizio sul bello presuppone però che ognuno debba giudicare in un certo modo, e dunque l’idea di un senso comune, cioè l’esigenza della ragione di «produrre una concordanza nel modo di sentire». Quando si giudica del bello ci si sente membri di una comunità ideale tendenzialmente concorde non solo nella dimensione concettuale (garantita dalla ragione), ma anche in quella del sentimento. Da queste quattro caratteristiche, che riguardano le quattro prospettive in cui possono essere visti i giudizi anche logici (quantità, qualità, relazione, modalità), viene fuori una caratterizzazione del bello come ciò che piace senza interesse, senza concetti, senza rappresentazione di scopi, senza necessità oggettiva, eppure in modo universale, sulla base di una conformità a scopi, in relazione alla forma sensibile dell’oggetto, nell’orizzonte di un ideale accordo intersoggettivo. L’esperienza del bello viene così concepita nella sua autonomia, come indipendente tanto dalla conoscenza quanto dalla morale. Resta il problema di scoprire il fondamento di queste caratteristiche del giudizio di gusto. Di vedere in che modo il principio generale del giudizio intervenga in questo caso. 713

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La fondazione del giudizio di gusto Ruolo del sentimento del piacere

Scambio tra immaginazione e intelletto non finalizzato alla conoscenza

T42

Il piacere come percezione del libero gioco delle facoltà conoscitive Critica della facoltà di giudizio, par. 35

Cosa ha a che fare il presupposto della conformità tra soggetto e mondo, o della conformità a scopi del mondo per il soggetto, con l’esperienza del bello? L’idea di Kant è che quell’accordo che la facoltà di giudizio in generale soltanto presuppone, nel giudizio sul bello venga effettivamente avvertito attraverso il sentimento del piacere. Il singolo oggetto della natura si presenta di fatto attraverso il sentimento estetico come «predeterminato per la nostra facoltà di giudizio». Più in particolare, ciò che questo sentimento rivela è la «condizione soggettiva formale di un giudizio in genere», che consiste non in un accordo tra un concetto e un’intuizione – tra un determinato concetto e l’intuizione che gli corrisponde, come nel giudizio conoscitivo – ma tra la facoltà dei concetti, l’intelletto, e quella delle intuizioni, l’immaginazione: ossia in uno scambio tra la dimensione dei concetti e quella delle immagini non finalizzato alla conoscenza. Un processo non finalizzato è per Kant un «gioco»: il piacere per il bello è coscienza del libero gioco armonico tra immaginazione e intelletto. La condizione soggettiva di tutti i giudizi è la stessa capacità di giudicare, o facoltà di giudizio. Questa, usata nei riguardi di una rappresentazione con cui è dato un oggetto, richiede l’armonizzarsi delle due facoltà rappresentative: vale a dire, dell’immaginazione (per l’intuizione e la composizione del suo molteplice) e dell’intelletto (per il concetto quale rappresentazione dell’unità di tale composizione). Ora, poiché qui non sta a fondamento del giudizio alcun concetto dell’oggetto, il giudizio può consistere soltanto nella sussunzione dell’immaginazione stessa (in una rappresentazione con cui è dato un oggetto) sotto le condizioni per cui l’intelletto in genere procede dall’intuizione a concetti. Vale a dire: poiché la libertà dell’immaginazione consiste proprio nello schematizzare senza concetto, il giudizio di gusto deve riposare su una semplice sensazione del reciproco vivificarsi dell’immaginazione nella sua libertà e dell’intelletto con la sua conformità a leggi, e quindi su un sentimento che permette di giudicare l’oggetto secondo la conformità a scopi della rappresentazione (con cui l’oggetto è dato) ad agevolazione delle facoltà conoscitive nel loro libero gioco […]

In quanto fondato su un accordo delle facoltà conoscitive non mirante alla conoscenza, che esemplifica e quasi conferma l’accordo tra soggetto e mondo presupposto dal principio a priori dalla facoltà di giudizio, il piacere qui in gioco non è un piacere privato, basato su caratteristiche individuali del soggetto, ma un piacere universalmente comunicabile, che si può presupporre venga condiviso da ogni uomo. Quando giudico qualcosa come «bello» sto presupponendo che non incontri solo il mio gusto, ma corrisponda a un gusto estetico: posso naturalmente sbagliarmi sul caso concreto, ma penso che dire di qualcosa che è bello significhi riferirsi a qualcosa che dovrebbe piacere a tutti. Non posso dimostrarlo, ma è pensabile discuterne. Giudizio estetico La facoltà di giudizio è qui riflettente non in quanto cerchi un determinato condi riflessione cetto, ma perché si muove tra la dimensione concreta delle intuizioni e quella indeterminata e molteplice dei concetti, secondo una proporzione armonica comune a chiunque giudichi. Il giudizio sul bello è un «giudizio estetico di riflessione»: di riflessione, per quanto detto; estetico, perché si manifesta solo in un sentimento.

Non è un piacere privato, ma universalmente comunicabile

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L’arte bella Genio come capacità creativa

L’arte non è una dimensione separata

Arte come espressione della ricchezza simbolica della sensibilità

Arte come stimolo per i processi di pensiero

L’esperienza del bello nella natura ha dunque un’importanza cruciale, e un ruolo centrale nella stessa filosofia trascendentale. Il bello nei prodotti dell’uomo, ossia nell’«arte bella», viene compreso su questa base. Nelle opere dell’arte bella viene espresso il medesimo accordo tra immaginazione e intelletto, sulla base di una capacità creativa, che Kant chiama «genio». Il genio non agisce in base a regole consapevolmente dominate, perché queste darebbero un fondamento concettuale determinato al loro prodotto, che dunque non potrebbe suscitare un gioco «libero» e uscirebbe dall’ambito dell’estetico. Questo non significa però ridurre l’arte a una dimensione separata, a un gioco in sé conchiuso. Il genio attraverso l’arte si manifesta come capacità di espressione di «idee estetiche», ossia di rappresentazioni dell’immaginazione alle quali nessun concetto risulta adeguato (così come, inversamente, nelle idee della ragione nessuna immagine è adeguata al concetto). Il processo che viene così messo in moto diventa un mezzo per esprimere nella sensibilità, ma in maniera non riduttiva – senza pretendere cioè di farne conoscenza – le stesse idee vere e proprie, ossia quelle della ragione che si riferiscono a una dimensione soprasensibile. La ragione nelle idee va oltre la sensibilità e oltre la conoscenza: nell’arte si crea un processo che oltrepassa ogni significato determinato, ma a causa della ricchezza simbolica della sensibilità non catturabile in concetti definiti. In questo modo la ragione stessa «pensa» in una rappresentazione sensibile ciò che non può esser costretto in parole: come scrive Kant, «molto di indicibile», «più di quanto in essa possa essere appreso e reso distinto». Nei confronti delle idee della ragione l’arte, senza perdere la sua autonomia, svolge così un ruolo di espansione e vivificazione dei processi di pensiero, non illudendo di far conoscere di più, ma facendo avvertire e rappresentare, in uno scambio intenso tra sensibilità e concetti indeterminati, una dimensione più ampia, per Kant anzi sconfinata. In relazione a un’idea della ragione l’arte è in grado di rappresentare, dice Kant, «qualcosa d’altro, che dà occasione all’immaginazione di diffondersi su una quantità di rappresentazioni imparentate, che fanno pensare di più di quanto si possa esprimere in un concetto determinato mediante parole e danno un’idea estetica che serve, in luogo di un’esibizione logica, a quell’idea della ragione, ma propriamente per vivificare l’animo, aprendogli la vista in un campo di rappresentazioni imparentate, a perdita d’occhio».

Il sublime e la ragione Definizione del sublime

Nel pensiero estetico del Settecento acquisisce una notevole importanza il concetto di «sublime», che è usato per caratterizzare esperienze che sfuggono alla categoria del bello, nelle quali l’attrattiva e la piacevolezza sono connesse ad altri aspetti, quali il terribile, l’orrido, la sofferenza; il sublime è cioè legato a un lato oscuro – ma anche a un particolare entusiasmo o pathos – presente nella fruizione di opere d’arte o di spettacoli della natura. 715

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La riflessione sul sublime La riflessione kantiana sul sublime si inserisce in una tradizione filosofica molto antica, ma che ha conosciuto nel XVIII secolo una nuova fortuna. Nel 1554 viene riscoperto e tradotto il testo greco Del sublime attribuito nella prima edizione a uno sconosciuto, Dionisio Longino (dopo l’attribuzione a Cassio Longino o a Dionisio di Alicarnasso, la tendenza ora più diffusa è di attribuirlo a un Anonimo del I secolo d.C.; da qui nasce il nome oggi comune di Pseudo Longino per indicarlo). In quest’opera si dà conto di un dibattito (I secolo a.C.) sulla superiorità di una retorica dai toni grandiosi ed enfatici rispetto a uno stile medio, elegante e preciso. Il trattato viene tradotto in francese nel 1674 da Nicolas Boileau (1636-1711) e poi ripubblicato da Joseph Addison (16721719) sullo «Spectator»: ed è proprio il letterato inglese Sublime e giudizio estetico di riflessione

Sublime e illimitato

Non deve essere giustificato

Sublime come gioco che coinvolge immaginazione e ragione

Sublime matematico e dinamico

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a porre per primo la distinzione tra bello e sublime che occupa il dibattito settecentesco su questo tema. Prima dell’intervento di Kant nella Critica della facoltà di giudizio, importante è stato lo scritto di Edmund Burke (1729-1797), la Ricerca filosofica sull’origine delle idee del sublime e del bello (1756), che sostiene che il sublime non nasce dall’armonia e dall’equilibrio della forma, né da un piacere disinteressato come il bello, ma viene suscitato dall’orrore, da tutto ciò che è smisurato, terribile, infinito. In questo modo anche aspetti come il brutto naturale e l’informe entrano a far parte dell’esperienza estetica. Dopo Kant si occupano di questo tema molti autori, tra cui Friedrich Schiller (1759-1805), Schelling, Arthur Schopenhauer (1788-1860). L’estensione e la trasformazione del concetto di bello con il Romanticismo fa passare in secondo piano l’opposizione bello-sublime.

Kant dedica ampio spazio al sublime nella Critica della facoltà di giudizio non soltanto per garantire la completezza di una teoria estetica, ma perché riconosce anche nel sentimento del sublime l’operato della facoltà di giudizio e lo intende come prodotto di un giudizio estetico di «riflessione». Il sublime si rivolge a oggetti di tipo diverso rispetto al bello: se il sentimento del bello riguarda la forma degli oggetti, che consiste nella limitazione, il sublime riguarda ciò che si presenta come illimitato. Il bello inoltre produce un piacere direttamente, mentre il piacere del sublime include in sé un dispiacere, e, più che un piacere positivo, contiene ammirazione e rispetto. C’è però una differenza di fondo, che fa sì che il sublime non debba essere oggetto di giustificazione come il bello: pur occasionato da oggetti naturali, esso si riferisce a una sublimità che viene ritrovata nell’animo. Ciò che è avvertito in questo caso dalla facoltà di giudizio come conforme a scopi è una disposizione d’animo, non l’oggetto naturale stesso. Il sublime funziona attraverso un gioco di rimandi che coinvolge l’immaginazione non in rapporto all’intelletto, ma alla ragione. Determinati spettacoli – Kant cita informi masse montuose, l’oceano in tempesta, rocce audaci, vulcani in eruzione, cascate poderose, ma anche la vista delle Piramidi o dell’interno di San Pietro a Roma – da un lato, sollecitano l’immaginazione, dall’altro, le rivelano la sua inadeguatezza. Un oggetto grandissimo, che non può essere colto dall’immaginazione in un unico atto, né interamente in atti successivi, finisce per alludere, tramite questa incommensurabilità, a una infinità che l’immaginazione per principio non può cogliere: questa frustrazione dell’immaginazione, che provoca un sentimento negativo, rivela però allo stesso tempo la dimensione stessa dell’infinità, della totalità, come idea presente nell’animo. Si manifesta così la ragione come dimensione superiore a ogni sensibilità, e con essa una finalità d’altro tipo che prevale sul fallimento dell’immaginazione: la controfinalità della natura rivela una finalità superiore della ragione. Il sublime può essere messo in moto non solo dalla illimitatezza (quello che Kant chiama sublime matematico), ma anche dalla potenza sovrastante dell’oggetto naturale: qui a essere schiacciata non è la forza d’immaginazione, ma la facoltà di desiderare. Questo tipo di sublime – il sublime dinamico – rivela (a condizione che la minaccia non sia reale, e l’animo possa seguire perciò la sua riflessione estetica) «una capacità di resistenza di tutt’altra specie», quella costituita dalla nostra libertà che ci eleva al di sopra di tutto ciò che è sensibile.

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Due forme del sublime

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Infatti, come trovammo la nostra propria limitatezza nella incommensurabilità della natura e nell’inadeguatezza della nostra facoltà ad assumere un’unità di misura proporzionata alla valutazione estetica della grandezza del dominio della natura, e però nello stesso tempo trovammo nella nostra facoltà razionale un’altra unità di misura non sensibile che ha sotto di sé quella stessa infinità come unità, di fronte alla quale tutto nella natura è piccolo, e quindi trovammo nel nostro animo anche una superiorità sulla natura perfino nella sua incommensurabilità; così anche l’irresistibilità della potenza ci dà, sì, a conoscere la nostra impotenza fisica, in quanto esseri della natura, ma ci rivela nello stesso tempo una facoltà per giudicarci come indipendenti da essa e una superiorità sulla natura, sulla quale si fonda un’autoconservazione di tutt’altra specie da quella che può essere minacciata e messa in pericolo dalla natura fuori di noi, per cui l’umanità nella nostra persona resta non umiliata, sebbene l’uomo debba sottostare alla sua potestà.

Forme, caratteri e funzioni del giudizio estetico

Problema del giudizio di gusto: che nesso esiste tra facoltà di giudizio e sentimento di piacere e dispiacere? Impostazione del problema

Per trovarlo viene utilizzato il principio di conformità a scopi La soddisfazione di un bisogno genera piacere

Valore esemplare del giudizio di gusto sul bello naturale

Caratteri del nesso facoltà di giudizio / sentimento nelle esperienze del bello di natura: – producono un sentimento di piacere – tale piacere viene avvertito come universale – tale piacere è di natura non concettuale – tale piacere non può essere spiegato con l’accordo tra soggetto e mondo

Analisi del giudizio di gusto sul bello naturale: – compiacimento senza interesse – compiacimento universale – compiacimento formale e conforme a uno scopo indefinito che non determina il soggetto, ma che il soggetto ‘decifra’ – compiacimento necessario Il piacere per il bello è coscienza del libero gioco armonico tra immaginazione e intelletto

Nelle opere dell’arte bella viene espresso il medesimo accordo tra immaginazione e intelletto, sulla base di una capacità creativa, che Kant chiama «genio»

Utilizzo dell’analisi del bello naturale per capire il giudizio sull’arte bella

Arte come espressione delle idee estetiche e della sensibilità, come stimolo per il pensiero Distinzione tra bello e sublime Caratteri del sublime: – prodotto del giudizio estetico di riflessione – si riferisce a ciò che è privo di forma, di limiti – non richiede una giustificazione (come il bello) perché riguarda il soggetto – gioco tra immaginazione e ragione – matematico e dinamico – nesso tra sublime e moralità

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Il sublime ha in definitiva un nesso con la moralità perché il sentimento in cui consiste è strutturalmente analogo al sentimento morale del rispetto: è un sentimento in cui si congiungono la frustrazione della sensibilità e la percezione di qualcosa che le è superiore. Per questo motivo il sublime è uno stato d’animo «conforme a quella disposizione d’animo, e conciliabile con essa, che sarebbe prodotto dall’influsso di determinate idee (pratiche) sul sentimento». Bello come simbolo In modo simile il bello può essere «simbolo della moralità»: il suo piacere sendella moralità za interesse sensibile, la libertà conforme a leggi dell’immaginazione in gioco, l’universalità che manifesta, in genere, la consapevolezza «di una certa nobilitazione ed elevazione al disopra della semplice recettività a un piacere mediante le impressioni dei sensi» fanno sì che il sentimento che si prova in esso alluda, per analogia, alla disposizione d’animo propria della moralità.

Nesso tra sublime e moralità e analogia con il rispetto

4 Possibilità di una conoscenza finalistica della natura

Alternative che si offrono alla facoltà di giudizio teleologica

La conformità a scopi nella natura organica L’ambito estetico è cruciale nella critica della facoltà di giudizio per i motivi detti, ma quello teleologico riveste una notevole importanza, in quanto consente di comprendere la possibilità di un tipo di conoscenza che la teoria della Critica della ragion pura non consentiva di fondare. La concezione della natura in quest’opera è infatti del tutto meccanicista, ma Kant riconosce che questo modello di spiegazione incontra difficoltà notevoli nei confronti della natura organica, nella quale alcuni corpi sembrano governati da finalità. Da un lato, sembra quasi impossibile pensare che un giorno possa nascere «un Newton che renderà comprensibile anche solo la generazione di un filo d’erba secondo leggi della natura che nessun intento ha ordinato»; dall’altro, la possibilità che anche i fenomeni organici e biologici possano essere ricondotti a una legalità simile a quella delle leggi fisiche non può neanche essere esclusa in linea di principio. E non si è legittimati neppure ad affermare l’esistenza di una causa che agisca intenzionalmente come condizione di possibilità degli oggetti della natura senza cadere in inestricabili difficoltà. La critica della facoltà di giudizio teleologica cerca di superare questa alternativa.

Due forme di conformità a scopi nella natura Sono due i modi in cui si può in teoria applicare a oggetti della natura il concetto di conformità a scopi. Si può parlare di una conformità a scopi relativa o esterna, se alcuni oggetti della natura vengono considerati l’un l’altro come mezzi a scopi (Kant fa l’esempio di un terreno sabbioso che favorisce la crescita di boschi di abeti). Conformità Oppure di una conformità a scopi interna, tale cioè che un determinato oggeta scopi interna to della natura – uno «scopo naturale», lo chiama Kant – non sia pensabile se non in base a un rapporto finale (oggi diremmo «funzionale») tra le sue parti e il tutto, ossia presupponendo una causa finale. In un corpo organico le parti contribuiscono all’esistenza del tutto, ma la natura delle parti non sembra concepibile senza presupporre il loro ruolo all’interno di quella totalità, dunque il

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concetto del tutto come loro causa finale. Inoltre, a differenza dei prodotti della tecnica, dove c’è sì un progetto, ma le parti sono prodotte dal progettista, ogni parte è causa efficiente della produzione delle altre: l’ente naturale si autorganizza.

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L’organismo come «scopo naturale»

Critica della facoltà di giudizio, par. 65

Quindi, per un corpo che deve essere giudicato in sé e secondo la sua interna possibilità come scopo naturale, è richiesto che le sue parti si producano vicendevolmente l’un l’altra, nel loro insieme, sia secondo la loro forma sia secondo il loro legame, producendo così per propria causalità un tutto, il cui concetto in senso inverso (in un essere che possegga una causalità secondo concetti adeguata a un tale prodotto) potrebbe essere a sua volta causa di esso secondo un principio, e di conseguenza la connessione delle cause efficienti essere giudicata nello stesso tempo come effetto mediante cause finali. In un tale prodotto della natura ogni parte, così come c’è solo mediante tutte le altre, è anche pensata come esistente in vista delle altre e del tutto, vale a dire come strumento (organo): il che però non basta (ché potrebbe anche essere uno strumento dell’arte ed essere così rappresentato come possibile solo in quanto scopo in genere); ma piuttosto come un organo che produce le altre parti (e quindi ciascuna, vicendevolmente, produce le altre), quale può essere nessuno strumento dell’arte, ma solo della natura che fornisce ogni materiale per gli strumenti (perfino di quelli dell’arte): e solo allora e per ciò un tale prodotto potrà essere detto, in quanto essere organizzato e che si autorganizza, uno scopo naturale. In un orologio una parte è lo strumento del movimento delle altre, ma una rotella non è la causa efficiente della produzione delle altre; una parte c’è, sì, in vista delle altre, ma non mediante le altre. Anche per questo la causa che produce l’orologio e la sua forma non è contenuta nella natura (di questa materia), ma, al di fuori di essa, in un essere che può avere effetti secondo idee di un tutto che è possibile secondo la sua causalità. Anche per questo, in un orologio, una rotella non ne produce un’altra, e ancor meno un orologio produce altri orologi, utilizzando (organizzando) per far ciò altra materia; anche per questo non sostituisce da sé i pezzi rimossi o compensa i suoi difetti di costruzione mediante l’intervento dei restanti o si corregge da sé quando perde la regolazione: e invece tutto ciò possiamo aspettarcelo dalla natura organizzata.

Kant considera questa forma interna di conformità a scopi quella che deve effettivamente essere compresa nella sua possibilità; la conformità esterna – l’idea che la natura possa essere un sistema di scopi, dove per esempio l’erba esiste perché possa essere mangiata dagli animali – ha un valore solo ipotetico, e può servire come massima o filo conduttore per considerare le cose della natura come se tutto servisse a qualcosa nel mondo, senza attribuire davvero alla natura una intenzione. La conformità È anzi la conformità a scopi interna che legittima l’uso di quella esterna: «una a scopi interna volta che abbiamo scoperto nella natura una capacità di generare prodotti che legittima quella esterna possono esser pensati da noi secondo il concetto delle cause finali», dice Kant, noi possiamo andare «più in là», perché già la prima idea, quella dell’oggetto di natura come «scopo naturale», ci conduce oltre il mondo sensibile. Gli esseri organizzati sono gli unici in natura che non possono essere pensati se non come scopi, e danno realtà oggettiva al concetto di uno scopo che non sia pratico, ma scopo della natura stessa. Valore ipotetico della conformità a scopi esterna

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La conformità a scopi della natura come principio per la facoltà riflettente di giudizio Non si apre una questione metafisica per le scienze naturali Conformità a scopi: non è un concetto teologico non si attribuisce intenzionalità alla natura, ma si afferma un principio euristico

Necessità di questo principio per la ricerca biologica

Legame con la facoltà di giudizio riflettente

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Due sensi del principio di conformità a scopi Critica della facoltà di giudizio, par. 71

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Ma come è possibile legittimare (anzitutto in relazione agli organismi in quanto tali) l’uso di concetti teleologici, finalistici, all’interno della scienza della natura? Kant non intende ripristinare quella che considera l’«intrusione di un affare estraneo», ossia di una questione metafisica all’interno della scienza naturale. Sottolinea invece due punti importanti: 1) il concetto di conformità a scopi usato nella teleologia naturale non è un concetto teologico: l’intenzione non viene attribuita a un essere sovrannaturale, ma alla natura stessa, alla materia; e soprattutto: 2) si considera la natura come se la conformità a scopi fosse intenzionale, ma non si attribuisce alla materia un’intenzione nel significato proprio della parola; ciò significa che si tratta solo di un principio euristico, un principio della facoltà riflettente di giudizio con funzione regolativa: un «filo conduttore» della ricerca. Non si reintroduce un principio di causalità finale concorrente con quello della causalità meccanicistica, ma si consente «un tipo di indagine diversa da quello secondo leggi meccaniche», che utilizza una «lontana analogia» con la causalità in gioco nell’uso tecnico della ragione, nella produzione di artefatti, per avere una regola secondo la quale certi prodotti della natura possano essere indagati. La legittimazione di questo principio, alla luce del generale principio della facoltà di giudizio secondo il quale la natura è pensata come in accordo con la nostra capacità di giudicarla, sta nel fatto che senza ammettere la massima secondo cui «niente è gratuito» (ossia tutto ha una funzione) in una creatura organica, la stessa ricerca biologica sarebbe impossibile, non rimarrebbe alcun filo conduttore che orienti l’osservazione degli enti organizzati. La contraddizione tra principio meccanicistico e principio teleologico scompare se il secondo viene inteso correttamente come un principio non per la facoltà determinante di giudizio (che comporterebbe una determinazione a priori della natura dell’oggetto), ma per la facoltà riflettente di giudizio, che prefigura a priori non un carattere degli enti naturali, ma un carattere della procedura di indagine sulla natura, che è autorizzata a cercare connessioni funzionali, finalistiche, e dispone dunque di un «filo conduttore» da utilizzare in rapporto a un tipo particolare di enti, gli organismi. […] il semplice meccanismo della natura, dal punto di vista della nostra facoltà conoscitiva, [non] può fornire un principio di spiegazione per la generazione di esseri organizzati. Quindi per la facoltà riflettente di giudizio il seguente è un principio del tutto giusto: che, per la connessione così manifesta di cose secondo cause finali, debba esser pensata una causalità diversa dal meccanismo, e cioè una causa del mondo che agisce secondo scopi (intelligente), per quanto precipitoso e non provabile sarebbe questo principio per la facoltà determinante di giudizio. Nel primo caso è una semplice massima della facoltà di giudizio, nella quale il concetto di quella causalità è una semplice idea a cui non si cerca in alcun modo di attribuire realtà, ma la si usa solo come filo conduttore della riflessione, che in ciò rimane aperta per ogni principio di spiegazione meccanico e non si perde al di fuori del mondo dei sensi; nel secondo caso il principio sarebbe un principio oggettivo che la ragione prescriverebbe e al quale la facoltà di giudizio, in quanto determinante, dovrebbe sottomettersi, con il che però essa si perde nel trascendente, oltre il mondo dei sensi, e forse viene fuorviata.

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Unità 14 Kant Meccanicismo e uso del concetto di scopo

Il principio di conformità a scopi e lo studio della natura

L’ammissione del principio finalistico non esime dunque, ma impegna anzi a spiegare meccanicamente fin quando possibile i fenomeni della natura, permettendo però di pensare in base all’analogia con scopi intenzionali prodotti o eventi naturali «che non possiamo neanche sottoporre a indagine della ragione» se non facciamo uso del concetto di scopo. Siamo autorizzati a usare il concetto di scopo, senza assumere la realtà dello scopo stesso. Due forme di conformità a scopi in natura Conformità a scopi esterna

Conformità a scopi interna

Oggetti della natura vengono considerati l’un l’altro come mezzi a scopi

L’ente naturale si autorganizza

Valore ipotetico della conformità a scopi esterna. Valore legittimante della conformità a scopi interna Come legittimare il finalismo all’interno della natura? Kant non vuole riaprire la questione metafisica Il concetto di conformità a scopi: – non è un principio teologico – non attribuisce intenzionalità alla natura, ma si afferma come un principio euristico – è utile per la ricerca biologica – è legato con la facoltà del giudizio riflettente – permette di spiegare la natura usando l’analogia con gli scopi (mantenendo però la spiegazione meccanicista)

5 Un nuovo rapporto con lo spazio del soprasensibile

Gli scopi oltre la natura. Cultura e storia Seppure con le notevoli cautele teoriche che salvano la legittimità del meccanicismo e prevengono l’intromissione di aspetti metafisici nella ricerca naturale, la facoltà riflettente di giudizio rende possibile un discorso finalistico che non riguarda solo le azioni umane, ma il mondo naturale in quanto tale. Si acquista così anche un nuovo rapporto con lo spazio del soprasensibile. Lasciato vuoto ma libero dalla ragione teoretica, «occupato» dalla ragion pratica con l’idea della libertà, ora questo spazio è pensabile come contenente una causa dell’organizzazione finalistica della natura, anche se questa causa resta inconoscibile e ogni nesso finale determinato conserva – senza possibilità di spingersi oltre – il senso di una ipotesi.

Scopo ultimo e scopo finale Natura come tutto organizzato e scopo ultimo

Pur nella oscillazione dovuta a osservazioni che sembrano smentire un ordine finale nella natura, a Kant sembra possibile concepire una conformità esterna a scopi dei diversi enti naturali, che li colleghi in un tutto organizzato finalistica721

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Cultura come scopo ultimo

Il ruolo dell’uomo nella natura

La natura non tende alla felicità dell’uomo

Possibilità di un ruolo privilegiato dell’uomo

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L’uomo come scopo ultimo condizionato della natura Critica della facoltà di giudizio, par. 83

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mente. Se ci si chiede a qual fine esistano le diverse creature, la natura inorganica può essere vista come un mezzo per l’esistenza di quella organica, il mondo vegetale un mezzo per l’esistenza di quello animale, e infine tutti gli enti naturali un mezzo per gli usi che l’uomo può farne in base al suo intelletto. Se si deve cercare uno scopo ultimo della natura, l’uomo è un ragionevole candidato perché è l’unico essere che può concepire scopi, e che può fare dunque di un insieme non interconnesso (un aggregato) di cose che si presentano almeno come disposte in modo conforme a scopi, un sistema complessivo di scopi. In questo senso è possibile dire – così sostiene Kant – che scopo ultimo della natura è la produzione di cultura, intesa appunto come capacità di porsi scopi. Se è però in quanto tale che l’uomo può esser pensato come scopo della natura, questo sottrae la visione della natura a una concezione ingenuamente finale. L’uomo non è ciò cui la natura tende per produrne la felicità: questo significherebbe concepire come reali gli scopi della natura e l’uomo come un suo fine di fatto. Invece, l’uomo può esser pensato come fine in quanto è dotato della capacità di porre fini consapevoli, capacità che sola potrebbe fare di finalità disperse un sistema. L’uomo dunque può essere presentato come fine in quanto è formalmente il luogo in cui i fini possono giungere a unità, non perché materialmente si possa mostrare che tutto tenda in favore dell’uomo. L’esperienza mostra al contrario che la natura è ben lungi dal favorire la felicità dell’uomo, la realizzazione dei suoi scopi naturali: «peste, carestia, inondazioni, gelo, attacchi di altri animali grandi e piccoli» e molte altre cose, insieme ai mali che l’uomo escogita da sé in base alle sue attitudini naturali che dovrebbero favorirlo (oppressione, guerra), mostrano che in questa prospettiva l’uomo non può esser visto come scopo. Il ruolo privilegiato dell’uomo all’interno della natura non è un fatto, ma è dato dalla possibilità che egli rappresenta, dal suo essere il luogo possibile di una posizione di scopi che oltrepassa la natura. Dunque l’uomo come ente capace di cultura (di porsi scopi) è uno scopo ultimo soltanto in modo condizionato, condizionato alla sua capacità di conferire un senso complessivo al resto, di stabilire uno scopo finale. Egli è dunque sempre solo membro nella catena degli scopi naturali: è, sì, principio rispetto ad alcuni scopi, per cui la natura sembra averlo determinato nella sua predisposizione, in quanto egli stesso si fa principio, ma è anche mezzo per la conservazione della conformità a scopi nel meccanismo degli altri membri. In quanto unico essere sulla terra che ha intelletto e quindi una facoltà di proporsi da sé arbitrariamente scopi, ha, sì, il titolo di signore della natura e, se si guarda a questa come a un sistema teleologico, è secondo la sua destinazione lo scopo ultimo della natura, ma sempre solo a condizione che sappia e abbia la volontà di dare alla natura e a se stesso un tale riferimento a scopi, che possa essere, indipendentemente dalla natura, sufficiente a se stesso, cioè essere scopo finale, che però non deve essere affatto cercato nella natura. Per trovar dove si abbia da porre, almeno nell’uomo, quello scopo ultimo della natura, dobbiamo cercare ciò che la natura può mettere in opera per prepararlo a ciò che egli stesso deve fare per essere scopo finale, e isolare quello scopo ultimo da tutti gli scopi la cui possibilità riposa sulle cose che ci si può aspettare solo dalla natura. Dell’ultimo tipo è la felicità sulla terra, per la quale si intende l’insieme di tutti gli scopi dell’uomo possibili mediante la natura fuori di lui e in

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lui: questa è la materia di tutti i suoi scopi sulla terra, che, se egli ne fa tutto il suo scopo, lo rende incapace di porre alla sua propria esistenza uno scopo finale e armonizzarsi con esso. Di tutti i suoi scopi nella natura non resta altro che la condizione formale, soggettiva, cioè l’idoneità a porsi in genere scopi e (nel suo determinare scopi indipendentemente dalla natura) a usare la natura come mezzo in modo adeguato alle massime dei suoi liberi scopi in genere, ciò che la natura, rispetto allo scopo finale che sta al di fuori di essa, può far conseguire e può quindi essere considerato come suo scopo ultimo. La cultura è il produrre l’idoneità di un essere razionale a scopi arbitrari in genere (di conseguenza nella sua libertà). Dunque solo la cultura può essere lo scopo ultimo che si ha motivo di attribuire alla natura rispetto al genere umano […] Conclusioni sul giudizio riflettente

La facoltà di giudizio riflettente offre la pensabilità di scopi naturali in genere, e con questo uno sfondo di finalità possibile – Kant vedeva con favore le considerazioni finalistiche anche in teologia, a patto che non si traducessero in affermazioni dogmatiche – nel quale può e deve inserirsi l’azione consapevole dell’uomo, volta alla posizione di fini oggettivi tramite la libertà.

Cultura, politica, cosmopolitismo Cultura come capacità di porsi fini

Concezione non strumentale della cultura

Ingannevolezza del benessere esteriore

Condizioni formali per il fine ultimo della natura

Non qualunque cultura, la cultura in qualunque senso può avere il ruolo di quella condizione formale, soggettiva cui Kant, abbiamo visto, si riferisce. La cultura non è qui il tramandarsi di tradizioni, né «abilità», ossia capacità tecnica, ma appunto capacità di porsi fini che vadano al di là dei fini naturali – riassunti sotto l’etichetta di felicità – rispetto ai quali l’intelletto è soltanto uno strumento. Come abbiamo visto a proposito del progetto generale di riorganizzazione del sapere di Kant (vedi sopra, p. 649 ss.), ogni sapere, e la stessa filosofia in senso scolastico ha un valore solo strumentale, condizionato. Kant non considera il progresso tecnico, la cultura in senso strumentale come un bene in senso assoluto: la vede fondata sull’ineguaglianza degli uomini, dei quali una parte provvede alle necessità della vita, l’altra si dedica alle parti della cultura meno necessarie per la vita, scienza e arte; entrambe le parti vedono però crescere da un lato la violenza subita, dall’altro l’incontentabilità (con il lusso, in cui «la propensione al superfluo già comincia a nuocere all’indispensabile»). Lo sviluppo delle tecniche e delle conoscenze non è di per sé un fattore positivo: l’uomo, scrive Kant nel saggio L’idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), «dovrà sostenere durissimi mali sotto l’ingannevole apparenza del benessere esteriore». Questa «miseria splendida» – e in generale quella che chiama l’«insocievole socievolezza» dell’uomo, la sua tendenza a unirsi in società ma a sviluppare al contempo conflitti – è stata di fatto un mezzo per la promozione dello sviluppo della cultura, e tuttavia lo stesso scopo della natura di produrre una cultura nel senso pieno richiede un passaggio da un semplice incremento quantitativo della cultura (come insieme di scienze, arti, tecniche) a una organizzazione politica conforme ai fini dell’uomo, e anzitutto alla libertà. Così Kant pone delle «condizioni formali» perché la natura possa giungere a quel fine, a quello che sembra il suo scopo ultimo: una organizzazione delle libertà, che riguarda sì la relazione esterna tra gli uomini – quello che si chiama il «diritto» –, ma che deve però realizzarsi per consentire le libere posizioni di scopi 723

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che possono promuovere la destinazione finale dell’uomo. Il trapasso tra conformità a fini della natura e finalità libera dell’uomo richiede un processo storico e politico che deve istituire la società civile e un tutto cosmopolitico: una convivenza pacifica degli individui nello Stato e degli Stati in una organizzazione sovranazionale.

T47

Società civile e tutto cosmopolitico come condizioni dello scopo ultimo Critica della facoltà di giudizio, par. 83

La condizione formale, sotto la quale soltanto la natura può raggiungere questo suo intento finale, è quella costituzione del rapporto degli uomini tra di loro in cui al danno delle libertà che si contraddicono l’un l’altra reciprocamente è contrapposto il potere conforme a leggi in un tutto, che si chiama società civile, ché solo in essa può avvenire il massimo sviluppo delle attitudini naturali. Per far questo però, se mai gli uomini fossero sufficientemente accorti da trovarla e sufficientemente saggi da sottomettersi volontariamente alla sua coazione, sarebbe richiesto anche un tutto cosmopolitico, cioè un sistema di tutti gli stati che rischiano di nuocersi l’un l’altro. In mancanza di esso e con l’ostacolo che smania di gloria, di dominio e di possesso, soprattutto in quelli che hanno il potere in mano, oppone perfino alla possibilità di un tale progetto, la guerra (sia quella in cui gli stati si spaccano e si risolvono in stati più piccoli, sia quella in cui uno stato riunisce a sé altri stati più piccoli e tende a formare un tutto più grande) è inevitabile; la quale guerra, essendo un tentativo inintenzionale degli uomini (suscitato da passioni sfrenate), e però, più profondamente nascosto, un tentativo forse intenzionale della suprema saggezza di preparare, se non di istituire, conformità a leggi con la libertà degli stati e in tal modo l’unità di un loro sistema fondato moralmente, e senza tener conto delle calamità più spaventose di cui essa grava il genere umano e quelle forse ancora maggiori con cui il costante essere pronti alla guerra lo opprime in pace, è tuttavia un movente in più (mentre si allontana sempre di più la speranza di una pacifica felicità del popolo) per sviluppare tutti i talenti che servono alla cultura fino al più alto grado.

La complessa costruzione critica di Kant si dispiega nel riconoscimento della necessità del diritto (statale e internazionale) come condizione per il perseguimento di quegli scopi ultimi che la ragione in quanto tale, nella sua forma più alta (quella morale), indica in modo universale (mentre nello scritto sulla storia universale del 1784 questo scopo è attribuito a un «occulto piano della natura»). La stessa «pacifica felicità del popolo» – che non può essere come tale un fine della natura o della ragione pratica – diventa una condizione richiesta dalla ragione stessa perché possa liberamente porre i suoi scopi finali. La riflessione In modo analogo, se la felicità non è uno scopo morale per l’uomo, la promosulla storia zione della felicità altrui viene riconosciuta come dovere. Kant – che era stato e il diritto entusiasta spettatore della Rivoluzione francese – dedica opere importanti alla costruzione di una visione della storia e una teoria del diritto: tra queste il saggio già ricordato L’idea di una storia universale dal punto di vista cosmopo➥ Percorso tematico, p. 611 litico, lo scritto Sopra il detto comune: «Questo può esser giusto in teoria, ma non vale per la pratica», la Metafisica dei costumi (che contiene gli Elementi metafisici della dottrina del diritto), e in particolare il «progetto filosofico» Per la pace perpetua in cui propone e indica le tappe necessarie per la costituzione di un organismo sovranazionale, una federazione degli Stati che debba garantire la pace tra le nazioni, sotto l’idea di una unità tra morale e diritto. La filosofia pensata secondo il suo significato «cosmico» prende una direzione coNecessità del diritto e scopi ultimi indicati dalla ragione morale

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➥ Sommario, p. 727 La conformità a scopi: dalla natura alla cultura e alla storia

smopolitica in un senso più specifico. La critica della ragione, ripensando conoscenza, metafisica, morale, religione, progetta l’intervento della ragione stessa nella storia degli uomini. La facoltà riflettente di giudizio rende possibile un discorso finalistico che non riguarda solo le azioni umane, ma il mondo naturale in quanto tale Nuovo rapporto con lo spazio del soprasensibile

Un’organizzazione finalistica della natura è pensabile almeno come principio euristico

Scopo della natura non può essere la felicità dell'uomo, che ognuno si progetta a suo modo e che non sembra comunque essere considerata dalla natura

Come scopo ultimo della natura è pensabile invece la produzione di cultura, intesa come capacità di porsi scopi: dunque l’uomo, che è l’unico essere in grado di concepire un sistema complessivo di scopi

Il ruolo di scopo ultimo dell’uomo non è un fatto, ma una possibilità, condizionata dalla sua capacità di porre uno scopo finale che conferisca un senso al mondo

La cultura può essere scopo ultimo non in quanto insieme di tecniche ma se consente la posizione di uno scopo finale che vada oltre la natura fondato sulla ragion pratica

Questo presuppone due condizioni formali, che sono così rese necessarie:

la società civile, in cui il conflitto delle libertà è regolato da un sistema di leggi

un tutto cosmopolitico, ossia un accordo tra Stati analogo a quello che vige all'interno di uno Stato, per evitare la guerra

Suggerimenti bibliografici Tra le numerose monografie dedicate al pensiero di Kant consigliamo l’opera di uno dei massimi esponenti del neocriticismo novecentesco: E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, La Nuova Italia, Firenze 1997. Una introduzione utile per un primo approccio al pensiero kantiano: A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Roma-Bari 1980. Una monografia che dedica ampio spazio al confronto tra pensiero kantiano e filosofia contemporanea: O. Höffe, Immanuel Kant, il Mulino, Bologna 20022. Molto utili sono anche una serie di commentari e guide alla lettura delle tre Critiche: R. Ciafardone, La Critica della ragion pura di Kant. Introduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996; S. Marcucci, Guida alla lettura della «Critica della ragion pura» di Kant, Laterza, Roma-Bari 1997; S. Landucci, La Critica della ragion pratica di Kant. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 1993; F. Menegoni, La Critica del Giudizio di Kant. Introduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995.

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Parte seconda Il secolo dei lumi Una presentazione complessiva delle opere morali di Kant è S. Bacin, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, il Mulino, Bologna 2006. Una raccolta di saggi dedicati a temi delle opere morali: Introduzione alla morale di Kant. Guida alla critica, a cura di G. Tognini, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993; edito ora da Carocci. Sulla filosofia politica kantiana: F. Gonnelli, La filosofia politica di Kant, Laterza, Roma-Bari 1996. I brani antologizzati sono tratti da: I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004 (in T3, T4, T14, T20, trad. modificata da C. La Rocca). I. Kant, Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, a cura di M.T. Catena, Guida, Napoli 2002 (trad. modificata da C. La Rocca), p. 64. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. e introd. di F. Gonnelli, Laterza, RomaBari 2003 (in T33, T34, T35 trad. modificata da C. La Rocca): p. 5 (T29), p. 15 (T28), pp. 2425 (T27), p. 33 (T35), p. 59 (T26), p. 131 (T33), p. 145 (T34). I. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2004 (in T30, T36 trad. modificata da C. La Rocca), p. 3. I. Kant, Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea, in I. Kant, Scritti di confine. Saggi polemici (1786-1800), a cura di F. Desideri, Marietti, Genova 1990, p. 34. I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino 1999. I. Kant, Prima introduzione alla Critica della facoltà di giudizio, trad. di C. La Rocca.

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Sommario 1. KANT

E IL SUO TEMPO

L’età di Kant è l’età della critica in cui la ragione sottopone a esame i fondamenti di tutti i saperi, compresa se stessa. Kant distingue le varie forme del discorso e al tempo stesso ne ricerca l’unità. [par. 1] Kant è il massimo filosofo della sua epoca, difensore di una concezione illuministica del sapere come parte fondamentale della vita degli uomini. È un intellettuale di vasta cultura e di molteplici interessi, sostenitore di una società cosmopolitica. [par. 2] Negli scritti che precedono la filosofia critica Kant si occupa del problema della metafisica e, in particolare nella dissertazione del 1770, distingue tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale ma, pur ponendosi l’obiettivo di analizzare il corretto uso dell’intelletto, non raggiunge un risultato definitivo. [par. 3] 2. LA

CONOSCENZA E LA METAFISICA: LA RAGION PURA

Il progetto kantiano di rifondazione del sapere ha come strumento la ragione e come oggetti la conoscenza, la morale e l’esigenza di unificare in un nuovo sistema della cultura la scienza, ossia la critica, la filosofia e le scienze empiriche. [par. 1] Kant è consapevole della crisi della metafisica leibniziano-wolffiana (distinta in ontologia e metafisiche speciali) e si pone la domanda critica se la metafisica possa essere scienza. [par. 2] Da questa domanda critica ne discendono altre che determinano l’indagine sul funzionamento della conoscenza e sulle forme del giudizio, all’interno della quale Kant definisce la nozione di concetto e quella di intuizione, e il ruolo della sensibilità e dell’intelletto nella conoscenza, iniziando dall’esame della conoscenza a posteriori. [parr. 3 e 4] Successivamente Kant si interroga sulla possibilità della conoscenza pura a priori e definisce questa indagine «filosofia trascendentale», ossia un’indagine non sugli oggetti ma sul nostro modo di conoscere gli oggetti a priori. [par. 5] Per prima cosa ricerca le condizioni a priori della sensibilità e le individua nelle nozioni di spazio e tempo, forme dell’intuizione e condizioni di ogni possibile esperienza, dotate di idealità trascendentale e di realtà empirica. [par. 6] Poi Kant stabilisce la distinzione tra fenomeno e cosa in sé e costruisce una nuova ontologia, o metafisica generale, che utilizza un nuovo metodo, partendo dal soggetto (rivoluzione copernicana), e conosce i fenomeni attraverso delle relazioni o funzioni, abbandonando definitivamente la nozione di sostanza. [par. 7] A questo punto vengono presi in esame altri problemi della conoscenza: attraverso l’analisi delle forme di giudizio si stabilisce la derivazione da esse delle categorie; si chiariscono i meccanismi che permettono alle categorie e ai principi dell’intelletto di ‘leggere’ i fenomeni e il ruolo dell’immaginazione nell’unificazione tra categorie e dati della sensibilità attraverso lo schematismo trascendentale; si legittima l’uso delle categorie trovando il principio uni-

ficante dei processi della conoscenza nell’io penso o appercezione trascendentale. [par. 8] Dall’intelletto si passa all’esame della ragione per definirne l’uso corretto e la tendenza a cercare una conoscenza illusoria che la mette in conflitto con se stessa: nella sua spinta a ricercare la totalità delle condizioni essa costituisce le idee di anima, mondo e Dio e la metafisica speciale che si occupa di questi enti. Ma il pensiero metafisico cade in paralogismi, antinomie e produce delle prove dell’esistenza di Dio (ontologica, cosmologica e fisicoteologica) che si fondano su errori logici e fallacie argomentative. All’uso corretto della ragione appartiene invece l’uso delle idee come massime che permettono la descrizione delle cose del mondo in rapporto alla possibilità di una loro articolazione logica, ossia in rapporto a generi e specie. [par. 9] Completato il progetto di un esame critico della conoscenza, rimane escluso l’ambito della cosa in sé e del sovrasensibile, al quale però la ragione può rivolgersi nella sua funzione di facoltà pratica, ossia nella ricerca di un principio a priori dell’agire che spieghi come essa possa autodeterminarsi ed essere causa di azioni. [par. 10] 3. L’AZIONE

E LA LIBERTÀ: LA RAGION PRATICA

L’ambito del dovere introduce nuove domande critiche, affrontando anche le questioni legate agli enti della vecchia metafisica speciale: anima, mondo e Dio. L’indagine kantiana della sfera pratica inizia dalla classificazione dei principi dell’azione, distinguendo tra regole dell’abilità, consigli della prudenza e principi pratico-morali, ossia massime soggettive e leggi oggettive. Kant distingue anche tra i comandi, o le regole, e gli imperativi, la formulazione di tali regole. Kant sostiene che tra i vari imperativi ne esiste solo uno che valga incondizionatamente a priori per ogni volontà buona e per ogni ente razionale: l’imperativo categorico. Esso è solo formale, in quanto non determina un contenuto, si impone da se stesso come un fatto della ragione, fonda una morale universale comune in accordo con il senso morale esistente. [parr. 1-3] Kant esamina poi le condizioni che determinano la moralità dell’azione e le individua nell’autonomia e nell’agire liberamente spinti solo dal rispetto per la legge morale universale, oggettiva e incondizionata, ossia privi di moventi empirici. Questo agire presuppone l’esistenza della libertà e ha come sfondo il mondo intelligibile – la sfera del dover essere – che non può essere conosciuto ma a cui sappiamo di appartenere come esseri liberi. [par. 4] Si pone a questo punto il problema di conciliare l’agire morale, la virtù, con il corso del mondo, che non premia con la felicità il comportamento morale. Kant ricompone questo dissidio attraverso la dottrina dei postulati della ragion pratica (immortalità dell’anima, libertà ed esistenza di Dio), che permettono di conciliare virtù e felicità. La teoria dei postulati rappresenta il contenu727

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Sommario to di una religione razionale e della fede ed è la soluzione al problema delle metafisiche speciali. [par. 5] 4. GLI

SCOPI DELLA NATURA: LA FACOLTÀ DI GIUDIZIO

La soluzione del problema della metafisica e l’affermazione di una teleologia della ragione come orientamento dell’agire umano lasciano aperte alcune questioni (dualismo tra necessità naturale e libertà, problema del rapporto meccanicismo / finalismo, problemi legati alla classificazione e alla formazione di classi di fenomeni ecc.) che rimandano tutte all’esistenza di un principio di conformità a scopi. L’indagine su di esso è l’ultima parte dell’esame sulle facoltà dell’animo e ha per oggetto la facoltà di giudizio, che deve garantire l’unità sistematica mediando tra ragione e intelletto. [par. 1] La facoltà di giudizio è capace di sussumere sotto una regola e ha due forme: giudizio determinante e giudizio riflettente. La facoltà di giudizio riflettente richiede principi euristici diversi dalle categorie, la cui ricerca risponde ad alcuni problemi: 1) i giudizi di gusto, che non sono conoscenze concettuali ma hanno comunque un carattere universale (il piacere che ne deriva manifesta una sorta di accordo tra soggetto e mondo); 2) la struttura meccanicistica definita dalle categorie non riesce a spiegare i corpi organici e i nessi funzionali della natura. Il principio che risolve tutti questi problemi è il concetto di conformità a scopi. [par. 2] In un primo momento, l’indagine si concentra sul giudizio di gusto a proposito del bello naturale, analizzando le caratteristiche del sentimento di piacere che

accompagna tali giudizi (piacere disinteressato, non concettuale, universale ecc.) per concludere che il piacere per il bello è coscienza del libero gioco armonico tra immaginazione e intelletto. Viene poi esaminata l’opera dell’arte bella in cui si esprime il medesimo accordo tra immaginazione e intelletto, sulla base di una capacità creativa, che Kant chiama «genio». L’arte è descritta come espressione delle idee estetiche e della sensibilità e come stimolo per il pensiero. Infine Kant introduce la distinzione tra bello e sublime e analizza i caratteri di quest’ultimo concludendo che esso nasce da un gioco tra ragione e immaginazione e che esiste un nesso tra sublime e moralità. [par. 3] Il successivo oggetto dell’indagine kantiana è il principio di conformità a scopi, distinto in esterno e interno, e la domanda critica sulla possibilità di attribuirlo legittimamente alla natura come fine interno. Kant lo ammette come principio euristico legato alla facoltà riflettente del giudizio, fondato su un’analogia e utile per le scienze biologiche, conciliando così due tipi di spiegazione dei fenomeni, finalistica e meccanicistica. [par. 4] La possibilità di pensare la natura come guidata da scopi apre la questione di quale sia il suo scopo ultimo: il candidato più ragionevole è l’uomo attraverso la cultura, intesa come capacità di porsi scopi. Condizione formale affinché la natura possa raggiungere lo scopo ultimo della cultura è il diritto, cioè l’organizzazione della libertà esterna indispensabile perché ciascuno possa porsi liberamente scopi e promuovere la propria destinazione. [par. 5]

Parole chiave Categorie. Termine di derivazione aristotelica con cui Kant designa i concetti puri dell’intelletto che rendono possibile l’esperienza, comuni a tutti i soggetti e corrispondenti alle funzioni logiche del giudicare. Comandi / Imperativi. I due aspetti in cui si manifestano le leggi oggettive e razionali che hanno valore costrittivo per la volontà: i comandi sono le rappresentazioni di un principio oggettivo, mentre gli imperativi sono le formule che lo esprimono. Gli imperativi si dividono in ipotetici (validi se è posto un certo fine) e categorici (validi incondizionatamente per ogni ente razionale). Concetto. Rappresentazione generale (che non si riferisce a un oggetto singolo). Kant distingue i concetti in: 1) empirici, ossia quelli formati a posteriori, sulla 728

base dell’esperienza; 2) puri, o categorie, ossia le condizioni a priori dell’esperienza. Facoltà di giudizio. Facoltà che presiede alla formazione dei giudizi e media tra universale e particolare. Nella terza Critica Kant distingue tra giudizio determinante e giudizio riflettente. Se si parte dall’universale (la regola) si applica la facoltà determinante di giudizio; se si parte dal particolare si applica la facoltà riflettente di giudizio. Fenomeno / Cosa in sé. Il primo indica l’oggetto come si manifesta nello spazio e nel tempo al soggetto attraverso l’intuizione, conoscibile tramite le categorie e i concetti; la seconda è la cosa pensata come esistente indipendentemente dalla forma di conoscenza del soggetto.

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Filosofia critica o criticismo. Definizione che indica la filosofia kantiana come tentativo di risposta alle domande critiche, ossia indagini sul nostro sapere riguardo agli oggetti, sul dovere, sui sentimenti di piacere e dispiacere ecc. I suoi ambiti più specifici sono: 1) la ricerca dei fondamenti e dei limiti della conoscenza sia a priori che a posteriori, sia teoretica che pratica; 2) l’analisi delle facoltà umane, del loro funzionamento e delle loro relazioni reciproche; 3) l’analisi delle forme del sapere e del discorso e la ricerca di un’unità sistematica di esse. Forme dell’intuizione. Lo spazio e il tempo come forme che precedono necessariamente tutte le intuizioni sensibili e che per questo sono condizioni necessarie di ogni possibile esperienza. Giudizio. L’attribuzione di un predicato a un soggetto. A ogni diversa forma di giudizio corrisponde una categoria. Kant dà una classificazione dei giudizi esaminando inoltre due ordini di problemi: il problema della distinzione tra giudizi analitici e sintetici, a seconda se il predicato è contenuto o meno nel soggetto; la distinzione tra giudizi a priori e a posteriori, a seconda se precedano o seguano l’esperienza. Gusto. Parte della facoltà del giudizio in grado di riconoscere e cogliere la bellezza, che presiede alla formazione dei giudizi estetici. Idea. Termine che indica una rappresentazione o contenuto di pensiero e che Kant usa in senso ristretto rispetto alla tradizione filosofica moderna, contrapponendola alla nozione di concetto. Le idee infatti appartengono alla ragione e vogliono rappresentare ciò di cui non si può avere esperienza, la totalità o l’incondizionato, e quindi realtà inconoscibili come l’anima, il mondo, Dio o la libertà. Hanno solo funzione regolativa, ossia orientano l’operato della ragione, e non conoscitiva. Immaginazione. In generale, facoltà di rappresentare un oggetto senza la sua presenza. L’immaginazione produttiva è la facoltà che riconduce il molteplice di

una intuizione in un’immagine; nella terza Critica è una delle facoltà che contribuiscono, in un libero gioco con la ragione e l’intelletto, alla creazione artistica e all’esperienza del bello. Intelletto. Facoltà dei concetti, che presiede anche alla formazione dei concetti puri, attraverso i quali rende possibile l’esperienza. Intuizione. Essa è per Kant sempre empirica e può dar luogo a conoscenza solo in unione con i concetti. Io penso o appercezione trascendentale. Funzione che presiede e unifica le operazioni dell’intelletto e che è necessaria per compiere esperienza. Non indica una sostanza, né un’identità personale individuale. Massime / Leggi. I due tipi di principi pratici. Le prime sono regole pratiche che il soggetto razionale ritiene valide per la sua volontà, le seconde sono valide incondizionatamente e universalmente. Principi dell’intelletto. Giudizi sintetici a priori in cui usiamo i concetti puri e che rendono possibile l’esperienza. Ragione. La facoltà conoscitiva che, dal punto di vista logico, unifica giudizi in sillogismi; dal punto di vista trascendentale è la facoltà delle idee, rappresentazioni della totalità e dell’incondizionato: tende naturalmente a superare i propri limiti alla ricerca dell’incondizionato, ma presiede anche all’organizzazione sistematica del sapere in unità. Sensibilità. Capacità passiva di ricevere il molteplice attraverso le intuizioni. Teleologia. Termine derivante dal greco tèlos, «fine, scopo» e che indica la dottrina che ricerca e descrive la presenza di scopi. Trascendentale. In senso proprio, carattere delle conoscenze che riguardano la possibilità di conoscenze a priori; trascendentale è la filosofia in quanto indagine sugli elementi a priori della conoscenza.

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Questionario KANT

E IL SUO TEMPO

1

2

LA

Lavoriamo sui testi

Che cos’è la critica e qual è il suo ruolo nell’epoca di Kant? (max 3 righe)

14

Qual è il rapporto tra metafisica e filosofia, secondo T4? (max 3 righe)

Qual è il tema della dissertazione del 1770 e perché è importante? (max 3 righe)

15

Quali sono le due fonti della nostra conoscenza secondo T9 e qual è il loro rapporto reciproco? (max 6 righe)

16

Per quale motivo l’intelletto non può oltrepassare i limiti della sensibilità, secondo T14? (max 1 riga)

17

Quali sono le due teorie sul rapporto tra oggetti e conoscenza descritte in T15? Quale delle due sceglie Kant e perché? (max 6 righe)

CONOSCENZA E LA METAFISICA: LA RAGION PURA

3

Quali sono i principali caratteri della metafisica al tempo di Kant e perché è in crisi? (max 6 righe)

4

Quali sono le principali distinzioni a proposito dei giudizi? Qual è il tipo di giudizio più problematico e perché? (max 8 righe)

5

Di cosa si occupa l’Estetica trascendentale e quali sono le sue conclusioni? (max 5 righe)

6

7

Che cosa sono le categorie e qual è la loro funzione nella conoscenza? (max 4 righe) Perché la ragione entra in conflitto con se stessa e quali soluzioni offre Kant a questo conflitto? (max 6 righe)

L’AZIONE

Perché l’essere non è un predicato secondo T22? Con quale esempio Kant spiega la sua te-

si? (max 4 righe) 19

Per quali motivi la volontà non compie immediatamente un’azione a causa della sua bontà secondo T26? (max 4 righe)

20

Qual è l’azione dell’imperativo categorico sulla volontà secondo T32? (max 2 righe)

21

Quali sono i motivi che impediscono ad alcuni di seguire la legge morale secondo T34? (max 3 righe)

E LA LIBERTÀ: LA RAGION PRATICA

8

Che differenza esiste tra imperativi ipotetici e imperativo categorico? (max 2 righe)

9

Qual è l’unico movente legittimo della volontà secondo Kant? (max 1 riga)

22

Cosa sono i postulati della ragion pratica e che cosa fondano? (max 4 righe)

Qual è la differenza tra giudizio determinante e riflettente secondo T38? (max 4 righe)

23

Perché la facoltà di giudizio riflettente può dare per legge il principio di conformità a scopi solo a se stessa, secondo T41? (max 4 righe)

24

Perché secondo T44 in un corpo non basta pensare una parte come esistente in vista delle altre? (max 2 righe)

10

GLI

18

SCOPI DELLA NATURA: LA FACOLTÀ DI GIUDIZIO

11

Qual è il principio a priori che regola l’agire della facoltà di giudizio riflettente? (max 2 righe)

12

Quali sono le caratteristiche principali del giudizio di gusto? (max 4 righe)

13

Chiarisci la distinzione tra bello e sublime in un massimo di 4 righe.

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LABORATORIO DI LETTURA Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? Nel 1783, sulla «Berlinische Monatsschrift», una rivista legata alla «Società degli amici dell’Illuminismo», il pastore protestante Johann Friederich Zöllner (1748-1805) era intervenuto contro la proposta di istituire il matrimonio civile, avanzata da uno dei direttori della rivista. In una nota a piè di pagina Zöllner scriveva: «“Che cos’è l’illuminismo?” A questo interrogativo – importante quasi quanto l’interrogativo «che cos’è la verità» – occorrerebbe pur dare una risposta prima di cominciare l’opera di rischiaramento! Eppure io non ho trovato da nessuna parte una risposta ad essa!». Le parole di Zöllner toccarono una questione centrale e diedero luogo a un’ampia discussione; il primo a intervenire fu Moses Mendelssohn; seguì l’intervento di Kant con l’articolo qui riportato, pubblicato sulla stessa «Berlinische Monatsschrift» nel 1784.

Che cos’è l’illuminismo? Definizione: «illuminismo» come uscita da uno stato di minorità

Commento e interpretazione

L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui è egli stesso responsabile. Minorità è l’incapacità ad usare il proprio intelletto senza la guida di un altro. Questa minorità va imputata a se stessi quando essa dipende non da un difetto dell’intelletto, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. [A] Sapere aude! Abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto! è questo dunque il motto dell’illuminismo. [B]

1

5

A. Kant usa qui il termine «intelletto» (Verstand) ma non lo intende nel senso ristretto proprio della sua teoria delle facoltà conoscitive, dove l’intelletto è distinto dalla facoltà di giudizio e dalla ragione, bensì in un senso generale. Qualche traduttore usa per questo motivo il termine «intelligenza». È importante notare questo punto, perché il tipo di razionalità che Kant ha qui in mente non coincide con l’operato dell’intelletto in senso stretto. In questa celebre definizione del concetto di Aufklärung («illuminismo», ma anche «rischiaramento», «illuminazione», intesi come processi; in questa traduzione viene usato anche il termine «lumi»), Kant mette in primo piano l’idea di autonomia della ragione, e della ragione individuale (del «pensare da sé»; più sotto Kant parla della «vocazione di pensare da sé»), rispetto a qualsiasi tipo di autorità. Come abbiamo visto, il progetto di sottoporre ogni sapere all’esame della ragione è considerato da Kant nella Critica della ragion pura come proprio dell’«epoca della critica», alla quale ogni altra istanza deve sottomettersi. In questo scritto (vedi sotto, p. 739) Kant parla della propria epoca come dell’«età dei lumi». Nello scritto del 1786 Che cosa significa orientarsi nel pensiero? si legge: «Pensare da sé vuol dire cercare in se stessi (cioè nella propria ragione) la suprema pietra di paragone della verità; e la massima di pensare sempre da sé è l’illuminismo». Il «pensare da sé» come «massima di una ragione mai passiva» e «massima del modo di pensare libero da pregiudizi» è messo in connessione con l’Illuminismo anche nella Critica della facoltà di giudizio (par. 40). B. Le parole «sapere aude» sono del poeta latino Orazio (65 a.C. - 8 a.C.): «Nam cur / quae

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Se così tanti uomini, anche dopo che la natura li abbia da gran tempo affrancati dall’altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono nondimeno volentieri minorenni vita natural durante, questo lo si deve a pigrizia e a viltà; e per questo riesce così facile agli altri erigersi a loro tutori. È così comodo esser minorenni! Io ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che per me decide quale debba essere la mia dieta, ecc., e quindi non ho bisogno di badare a me stesso. Purché solo possa pagare, non è necessario ch’io pensi; altri si as2) azione negativa sumeranno per me questa noiosa incombenza. A far sì che la stragrande dei tutori maggioranza degli uomini (compreso tutto il gentil sesso) reputi il passo verso la maggiore età, oltre che faticoso, anche oltremodo pericoloso, provvedono già quei tutori che con tanta benevolenza si sono assunti sopra costoro il supremo controllo. Dopo aver in un primo tempo rincretinito i loro domestici animali, e scrupolosamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un sol passo fuori del recinto nel quale le hanno rinchiuse, essi passano ad additar loro il pericolo che le minaccia nel caso che tentassero di camminar da sole. Ora, questo pericolo, in verità, non è poi così grande, perché, pur con qualche caduta, essi alla fine imparerebbero sicuramente a camminare; e tuttavia il continuo additarlo li

Fattori che favoriscono la condizione di minorità: 1) pigrizia e viltà dei singoli

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laedunt oculum, festinas demere: siquid / est animum, differs curandi tempus in annum? / Dimidium facti qui coepit habet: sapere aude, / incipe. Vivendi qui recte prorogat horam, / rusticus exspectat, dum defluat amnis; at ille / labitur et labetur in omne volubilis aevum» (Epistulae, 1,2,37-43) («Perché ti affretti a togliere ciò che offende l’occhio, e per ciò che ferisce l’animo rimandi la cura di anno in anno? Chi bene incomincia è a metà dell’opera. Osa essere saggio: incomincia. Chi rimanda il momento di vivere nel modo giusto è come il contadino che attende che il fiume defluisca: ma il fiume scorre e scorrerà veloce nel volgere di tutti i tempi»). Non è stato Kant a fare per la prima volta dell’esortazione «sapere aude» un motto dell’Illuminismo. Le stesse parole sono incise su una medaglia coniata nel 1736 dalla «Società degli Aletofili» (gli «amici della verità», da phìloi, «amici», e alètheia, «verità»), un’associazione che ha il fine di difendere e diffondere la filosofia di Christian Wolff. Kant traduce, nel suo scritto, il motto oraziano in modo consapevolmente non letterale, in vista dell’idea di Illuminismo che intendeva proporre. È interessante notare che Kant invece in un appunto dei suoi ultimi anni tradurrà le stesse parole in modo più letterale, con l’espressione «sii saggio», collegandole al tema della saggezza come culmine della filosofia oltre la «scienza». È la ragione che culmina nella saggezza come posizione di fini assoluti – quella del concetto cosmopolitico di filosofia (vedi p. 650) – a esser qui evocata. Ancora un appunto degli ultimi anni suona: «“sapere aude”. Cerca di servirti della tua propria ragione per i tuoi veri scopi assoluti». Il motto «sapere aude» viene ripreso anche da Friedrich Schiller, nell’ottava delle sue Lettere sull’educazione estetica dell’umanità (1795), con la traduzione «abbi il coraggio di essere saggio». C. In questa parte del testo Kant descrive anzitutto lo stato di minorità cui l’Illuminismo si oppone, dal quale esso deve portare fuori. La minorità è ricondotta da Kant: 1) a responsabilità individuali (la pigrizia, la comodità, la viltà, il timore), e insieme 2) all’interessata opera dei «tutori», le autorità culturali, religiose, politiche, che cercano di mantenere nello stato di dipendenza. In questa prospettiva prevalgono le difficoltà e l’uscita dallo stato di minorità è visto come un compito che può riuscire solo a pochi. Nella Critica della facoltà di giudizio Kant aggiunge un’altra spiegazione alla difficoltà di realizzare l’Illuminismo (definito in quest’opera anche come «la liberazione dalla superstizio-

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Conseguenza: difficoltà a uscire dalla minorità per il singolo

Tesi: possibilità per il «pubblico» di illuminarsi, cioè di pensare, da sé

rende di tutto timorosi, e scoraggia in genere ogni ulteriore tentativo. Riesce pertanto difficile ad ogni singolo uomo tirarsi fuori dallo stato di minorità, diventato quasi la sua natura. Egli è giunto persino ad amarlo, ed è effettivamente incapace per ora di usare il proprio intelletto, dal momento che non si è mai consentito che egli ci si provasse. Regole e formule, questi strumenti di un uso, o, piuttosto, di un cattivo uso razionale delle sue doti naturali, sono i ceppi d’una persistente minorità. Chi anche riuscisse a liberarsene, pur sul fosso più stretto non farebbe che un salto incerto, non essendo egli avvezzo a una tal libertà di movimento. È per questo che solo a pochi è stato dato, al prezzo d’un travaglio del proprio spirito, di sciogliersi dallo stato di minorità e di camminare ugualmente con passo sicuro. [C] Al contrario, è possibile più facilmente che sia un pubblico [D] ad illuminarsi da sé, ed anzi, se solo gliene si lascia la libertà, è pressoché inevitabile, giacché in tal caso si troveranno sempre, persino tra coloro che sono ufficialmente preposti alla tutela della massa, delle persone che pensano con la propria testa e che, scrollatesi di dosso il giogo della minorità, diffonderanno il sentimento d’un apprezzamento razionale del valore d’ogni uomo e della sua vocazione a pensare da sé. [E] Va notato, in proposito, che è il pubblico stesso, se a ciò lo istigano quelli tra i suoi tutori che

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ne»): l’interesse dell’uomo per ciò che sta al di là del conoscibile, per i temi della metafisica, sfruttato da quelli che «assicurano con grande sicurezza di poter soddisfare questo desiderio di sapere» (Critica della facoltà di giudizio, par. 40). Da questa impostazione risulta estremamente chiaro il nesso stretto tra Illuminismo e impresa critica: mettendo in luce, da un lato, la vanità di ogni conoscenza che oltrepassa l’esperienza, e indicando, dall’altro, la possibilità di una differente risposta a quelle esigenze (con la riformulazione pratica della metafisica), la critica della ragione può eliminare questa radicale difficoltà, data dalla facilità con cui gli uomini vengono (illusoriamente) soddisfatti nelle loro domande più radicali. D. Per «pubblico» (Publikum) si poteva intendere ai tempi di Kant, tra le altre cose, gli uomini appartenenti alla medesima epoca storica, ma anche il pubblico di chi legge, dei lettori. Entrambe le accezioni hanno qui un ruolo importante. Più sotto Kant fa esplicito riferimento a un pubblico di lettori, e parla di «un pubblico nel senso proprio della parola»; poi parla però del rivolgersi al «pubblico propriamente detto, cioè al mondo»: risulta così chiaro che l’accezione che Kant ha in mente è, oltre i due significati detti, quella di pubblico inteso come la comunità di coloro che fanno uso della ragione. E. Nello scritto del 1786 Che cosa significa orientarsi nel pensiero? Kant sembra sostenere una tesi opposta: «Fondare con l’educazione l’Illuminismo nei singoli soggetti è quindi affatto facile; si deve solo cominciare per tempo ad avvezzare le giovani teste a questa riflessione. Illuminare un’epoca, però è cosa assai difficile e lunga; si incontrano infatti molti ostacoli esteriori che in parte impediscono quel tipo di educazione, in parte lo rendono difficoltoso». La contraddizione può essere forse superata da alcune considerazioni. 1) Kant parla qui della facilità di educare all’Illuminismo, al pensare autonomo, a partire da un’educazione precoce, mentre nel nostro testo sembra riferirsi a coloro che sono da tempo abituati a delegare ad altri la guida del proprio intelletto. Viene posto così il problema dell’uscita dallo stato di «minorità» dovuta a se stessi, del «tirarsi fuori» da uno stato di minorità diventato una seconda natura; mentre nel testo del 1786 si tratta in positivo di educare – precocemente – al pensiero autonomo. 2) In entrambi i testi l’educazione all’Illuminismo di un ampio pubblico o di un’epoca è considerata comunque come un processo lento. 3) Nello scritto del 1786 le cose sono viste in questo modo: «Servirsi della propria ragione non vuol dire altro che chie-

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Inutilità della rivoluzione e gradualità del processo di riforma del modo di pensare

Tesi: al rischiaramento serve solo la libertà dell’uso pubblico della ragione

Prima domanda e risposta: distinguere tra uso privato e uso pubblico della ragione

sono incapaci d’ogni lume, a costringere poi a rimanere sotto quel giogo coloro che ve lo avevano prima tenuto. A tal punto è pericoloso seminar pregiudizi! Essi finiscono infatti col ritorcersi anche contro coloro che li hanno fatti sorgere, o si sono limitati a perpetuarli. Solo lentamente, dunque, un pubblico può arrivare ai lumi. Forse una rivoluzione potrà provocare la caduta d’un dispotismo personale oppure di un’oppressione avida di guadagno e di potere, mai però una vera riforma del modo di pensare; al contrario, nuovi pregiudizi, proprio com’era accaduto con quelli vecchi, serviranno da dande della moltitudine di coloro che non pensano. [F] Eppure, per questo rischiaramento non è richiesto altro che la libertà; ed invero la più innocua fra tutte quelle che portano questo nome, la libertà cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma da ogni parte io sento ora gridare: non ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, marciate! L’esattore delle tasse: non ragionate, pagate! Il sacerdote: non ragionate, credete! (Un solo signore al mondo afferma: ragionate quanto volete e su ciò che volete; ma obbedite!). Ovunque intorno a noi v’è limitazione della libertà. Ma quale limitazione è d’impedimento al rischiaramento e quale non lo è, anzi lo favorisce? Io rispondo: l’uso pubblico della propria ragione deve essere libero sempre, e sol esso può attuare il rischiaramento tra gli uomini; l’uso privato della ragione, invece, spesso può essere assai strettamente limitato senza che ciò risulti di particolare ostacolo al progresso dei lumi. Intendo per uso pubblico della propria ragione quello che uno fa di essa come studioso dinanzi all’intero pubblico dei lettori. Uso privato, invece, io chiamo quello che qualcuno può fare della sua

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dersi, in tutto quel che si deve assumere, se si ritenga possibile fare del motivo per il quale si assume qualcosa […] il principio universale del proprio uso della ragione». Si tratta di qualcosa di analogo al principio di universalizzazione presente nell’imperativo categorico, cioè di un principio accessibile a chiunque. Kant lo considera qui «un principio negativo dell’uso della propria facoltà conoscitiva», nel senso che è un principio in grado di liberare da superstizione ed esaltazione mistica, anche se non di fondare conoscenze. Il singolo ha dunque a disposizione un principio della ragione per liberarsi da pregiudizi, mentre liberare da pregiudizi un’epoca è un compito che incontra molti «ostacoli esteriori». La lentezza del processo di rischiaramento è sottolineata da Kant anche nelle Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (dello stesso anno 1786), dove si sostiene che «occorre una serie indefinita di generazioni che si trasmettano l’una all’altra i loro lumi per portare i germi insiti nella nostra specie a quel grado di sviluppo che corrisponda perfettamente al suo scopo». F. Qui il ragionamento di Kant si fa più complesso. L’Illuminismo, difficile nell’individuo, è possibile, seppure come processo graduale, per un intero popolo, a patto che sia consentita la condizione indispensabile della libertà di pensiero (e di comunicazione del pensiero), su cui si insiste più avanti. Kant prende le distanze, qui, dalla eventualità di una rivoluzione politica che non si accompagni a «una riforma del modo di pensare», ossia a un modo di pensare stabilmente alieno da pregiudizi, che appunto può essere raggiunto solo gradualmente: essa può avere l’effetto limitato di mettere fine a un dispotismo oppressivo, ma lascerà un popolo che non ha raggiunto l’Illuminismo alla mercé di nuovi pregiudizi. Da notare che Kant sta scrivendo prima della Rivoluzione francese (1789), quasi prefigurandone la degenerazione. Nel 1798, nove anni dopo lo scoppio della Rivoluzione, Kant vede però, comunque, in questo evento la prova di una disposizione morale dell’umanità che è garante della possibilità di progresso: «La rivo-

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Unità 14 Kant Conseguenza: limitazioni della libertà nell’uso privato: l’obbedienza

Conseguenza: libertà nell’uso pubblico: il pensiero critico

Esempi della distinzione tra uso privato e pubblico

ragione in un certo impiego o ufficio civile a lui affidato. [G] Ora, in talune faccende di interesse comune è necessaria una certa meccanicità, in virtù della quale alcuni membri della comunità devono comportarsi in modo meramente passivo, allo scopo di venir orientati dal governo, con un’unanimità imposta ad arte, verso fini pubblici, o quantomeno d’essere impediti di distruggerli. In questo caso non è assolutamente consentito ragionare; si deve invece obbedire. Ma nella misura in cui colui che è una parte della macchina consideri se stesso nello stesso tempo come membro di un’intera comunità, e persino come cittadino del mondo, e per conseguenza nella sua qualità di studioso che con i suoi scritti si rivolge a un pubblico nel senso proprio della parola, egli può certamente ragionare, senza che per questo ne abbiano a patire le mansioni alle quali egli, come membro in parte passivo, è adibito. Così, sarebbe molto dannoso se un ufficiale al quale è stato impartito un ordine dal suo superiore volesse apertamente mettere in discussione l’opportunità o l’utilità di quest’ordine mentre è in servizio; egli deve obbedire. Ma non si ha il diritto di impedirgli di fare, in quanto studioso, delle osservazioni sui difetti che si possono ravvisare nel servizio militare, sottoponendole al giudizio del suo pubblico. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare i tributi impostigli; e una critica irriguardosa di tali imposte, quando egli ha il dovere di onorarle, può persino esser punita come uno scandalo (poiché potrebbe istigare all’evasione generalizzata). Eppure, proprio costui non agisce contro il suo dovere di cittadino se, come studioso, manifesta pubblicamente il suo pensiero circa l’inopportunità o anche l’iniquità di queste imposizioni.

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luzione di un popolo ricco di spirito, che noi abbiamo visto svolgersi ai nostri giorni, può riuscire o fallire; essa può essere piena di miserie e di atrocità al punto che un uomo benpensante, se potesse sperare di compierla felicemente, tentandola una seconda volta, tuttavia non deciderebbe mai di fare l’esperimento a un tale costo; questa rivoluzione, dico, trova però negli animi di tutti gli spettatori (che non sono coinvolti essi stessi in questo gioco) una partecipazione, quanto al desiderio, che rasenta l’entusiasmo e la cui manifestazione comportava un pericolo; una partecipazione quindi che non può avere alcuna altra causa che in una disposizione morale nel genere umano» (da Il conflitto delle facoltà, 1798). G. Le definizioni di «uso pubblico» e «uso privato» della ragione qui date stridono rispetto al senso che noi tendiamo ad attribuire oggi a questi termini. Chiamiamo privato ciò che riguarda l’individuo e pubblico ciò che riguarda una collettività, dunque anche istituzioni come quelle che Kant richiama. Ma la contrapposizione che Kant fa valere ha di mira le finalità ultime dei diversi usi della ragione: da un lato vi è una finalità universale, che riguarda qualunque soggetto pensante in quanto tale (e in questo senso l’uso è «pubblico»); dall’altro vi è una finalità relativa a interessi particolari, seppure propri anche di collettività o istituzioni (e in questo senso l’uso è «privato»: riguarda cioè una parte soltanto, un certo interesse particolare, non quello di tutti). Il singolo pensatore, allora, fa un uso pubblico della ragione se il suo pensiero non è al servizio di un interesse particolare, ma di chiunque partecipi al discorso razionale. Mentre il funzionario usa la sua ragione al servizio di un interesse particolare, anche se questo è rappresentato da uno Stato o da una Chiesa. Storicamente c’è poi da notare che Kant appoggia la sua terminologia su un’ordinanza di Federico II (1712-1786) che riconosce al predicatore Johann Heinrich Schulz la facoltà di muoversi liberamente nella sua «pubblica» attività di studioso, senza i vincoli dovuti alla sua funzione. 735

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Conseguenza: possibilità di conciliare ruolo privato e pubblico nella stessa persona

Conclusione della prima risposta: bisogna consentire l’uso pubblico del pensiero critico

Parimenti, un ecclesiastico è tenuto ad impartire ai suoi catecumeni e alla sua comunità un insegnamento che si attenga al credo della Chiesa di cui è servitore, essendo egli stato assunto a questa condizione. Ma come studioso egli ha la piena libertà, e anzi il dovere di comunicare al pubblico tutti i suoi pensieri, accuratamente vagliati nonché ben intenzionati, su quanto di errato ritiene essere in quel credo, e le proposte perché siano meglio regolati gli affari della religione e della Chiesa. E non v’è nulla qui di cui si possa incolpare la coscienza. Infatti, ciò che insegna in conseguenza del suo ufficio, come ministro della Chiesa, egli lo presenta come qualcosa che egli non ha la libertà di insegnare, a sua discrezione, ma che è intento ad insegnare secondo la prescrizione – e nel nome – di un altro. Egli dirà: la nostra Chiesa insegna questo o quello; questi sono gli argomenti a cui essa ricorre. Egli metterà poi in luce tutta l’utilità pratica che alla sua comunità può derivare dal seguire quei principi che egli stesso non sottoscriverebbe con piena convinzione, ma all’insegnamento dei quali egli può nondimeno impegnarsi, non essendo affatto impossibile che in essi si celi qualche verità, e perché, comunque, almeno non si trova nulla in essi che s’opponga alla religione interiore. Giacché se credesse di trovarsi qualcosa che vi si opponga, egli non potrebbe esercitare con coscienza il suo ufficio; dovrebbe dimettersi. Quindi l’uso che della sua ragione fa dinanzi alla sua comunità un insegnante che sia titolare d’un uffizio ecclesiastico è solo un uso privato: perché, per grande che sia, questa adunanza di fedeli ha pur sempre un carattere privato; ciò considerando, egli, come prete, non è né può essere libero, dal momento che esegue un compito affidatogli da altri. Al contrario, come studioso che parla al pubblico propriamente detto, cioè al mondo, attraverso i suoi scritti, e pertanto come sacerdote nell’uso pubblico della sua ragione, egli gode di un’illimitata libertà di servirsi della propria ragione e di parlare in prima persona. Che i tutori del popolo (in ciò che concerne le cose di religione) debbano a loro volta rima-

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H. Nell’esercizio delle sue funzioni un ufficiale o un ecclesiastico non ha completa libertà, in quanto la sua ragione è al servizio di altro; come studioso, dovrebbe aver invece libertà illimitata – in altri termini: la libertà dev’essere sempre illimitata quando si parla, come dice Kant, in prima persona. Nell’esercizio del pensiero e della critica chiunque deve essere libero, e tanto più quelli che hanno il compito di essere tutori, guida di altri, che sono quindi giuridicamente nella posizione di «maggiorenni». I. Assemblea del clero olandese cui competeva la legislazione canonica. L. Dal discorso precedente risulta che è legittimo chiedere a un «funzionario» ubbidienza nell’ambito dei suoi uffici. Da questo non deriva tuttavia il diritto a stabilire l’immutabilità di qualunque ordinamento positivo, giuridico o di altro genere: se si può chiedere in un determinato momento l’ubbidienza agli scopi prefissati in una certa istituzione, non si può derivarne l’indiscutibilità di tali scopi stessi. Come Kant sottolineava nella Critica della ragion pura, niente può sottrarsi alla critica da parte della ragione per non perdere «quel rispetto sincero che la ragione concede soltanto a ciò che ha saputo resistere al suo esame libero e pubblico» (vedi T1, p. 642). Questo principio di una ragione che qualche interprete ha chiamato «repubblicana» è espresso ancora più chiaramente in un altro passo della Critica della ragion pura, dove la terminologia richiama quella di questo scritto sull’Illuminismo: «In tutte le sue imprese la ragione deve sottomettersi alla critica, e non può pregiudicare la libertà di quest’ultima con alcun divieto, senza danneggiare se stessa e attirare su di sé un dannoso sospetto. Ora,

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Seconda domanda: è ammissibile che un certa comunità decida di impedire al suo interno il pensiero critico? Seconda risposta: non si deve impedirlo

Argomento a favore: il diritto a progredire delle generazioni future

Nuova formulazione seconda domanda: è legittima una simile legge? Risposta: solo provvisoriamente, ma preservando comunque il diritto di opinione

nere minorenni, è infatti un’assurdità che finisce col perpetuare altre assurdità. [H] Ma ad una società di ecclesiastici, quale sarebbe un sinodo o una Venerabile Classe (secondo il nome che essa stessa si è dato presso gli Olandesi), [I] dovrebbe forse esser concesso di impegnarsi col giuramento a mantenere immutato un certo credo al fine di esercitare così sopra ciascuno dei suoi membri e, attraverso questi, sul popolo, una continua, superiore tutela, trasformandola addirittura in eterna? Io dico: non è assolutamente possibile. Un tal contratto, fatto per allontanar per sempre dal genere umano ogni ulteriore rischiaramento, è assolutamente nullo e privo di valore, anche se a sanzionarlo fossero stati la suprema autorità, le Diete dell’Impero e i più solenni trattati di pace. Un’epoca non può tutt’unita congiurare per mettere l’epoca successiva in condizione di non poter ampliare le sue conoscenze (in special modo quelle che più le stanno a cuore), liberarle degli errori e soprattutto progredire nel rischiaramento. Questo sarebbe un crimine contro l’umana natura, la cui inclinazione originaria consiste proprio in questo progresso; e coloro che vengono dopo sarebbero pertanto perfettamente autorizzati a respingere quelle risoluzioni, in quanto prese in modo illegittimo e criminoso. [L] La pietra di paragone di tutto ciò che è possibile imporre come legge ad un popolo sta nel chiedersi se quel popolo potrebbe mai imporsi da se stesso una legge siffatta. Ora, ciò potrebbe certo accadere per un tempo breve e determinato, in attesa d’una legge migliore, allo scopo di introdurre un certo ordine: purché, però, ogni cittadino, in particolar modo l’uomo di chiesa, venga nello stesso tempo lasciato libero, nella sua qualità di studioso, di fare pubblicamente, vale a dire attraverso gli scritti, le sue osservazioni circa i difetti della vigente istituzione; nel frattempo l’ordine costituito dovrebbe pur sempre rimanere in vigore fino a che le nuove vedute riguardo alla natura di queste cose non si saranno a tal punto fatte strada e affermate nel pubblico, da far sì che i cit-

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non vi è nulla di così importante nella sua utilità, non vi è nulla di così sacro da potersi sottrarre a questo esame che controlla e ispeziona senza riconoscere alcuna autorità della persona. Su questa libertà si basa l’esistenza stessa della ragione, la quale non ha alcuna autorità dittatoriale, poiché il suo decreto non è altro che l’accordo di liberi cittadini, ciascuno dei quali deve poter esprimere le sue perplessità e addirittura il suo veto senza impedimenti» (Dottrina del metodo, 1, 2, B766/A738). Nota che l’esistenza della ragione coincide con la possibilità di un esame libero e pubblico, perché la ragione non è possesso di alcuno, non ha un fondamento né nella natura delle cose né nell’intelletto di Dio, e nemmeno in una empirica «natura» umana, ma è la procedura di formazione di un accordo libero e universale. È questo il motivo per cui, nello scritto del 1786 Che cosa significa orientarsi nel pensiero? Kant sottolinea che la libertà di comunicare i propri pensieri è talmente essenziale per la libertà di pensiero che quest’ultima senza la prima non esisterebbe (così come l’assenza di libertà di critica pregiudica, abbiamo visto, «l’esistenza stessa della ragione»): «Si dice che mentre la libertà di parlare o di scrivere ci può essere tolta da un potere superiore, questo non può privarci della libertà di pensare. Ma fino a che punto penseremmo, se non pensassimo per così dire in comunità con altri, ai quali noi partecipiamo i nostri pensieri ed essi a noi i loro? Si può ben dire dunque che quel potere esteriore, che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i propri pensieri, li priva anche della libertà di pensare».

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Risposta: In ogni caso bisogna preservare il diritto di critica in nome dei posteri

Risposta: neppure il monarca può fermare il processo di rischiaramento perché il suo potere è legato alla sovranità del popolo

tadini siano in grado, conciliando le loro voci (anche se non tutte), di proporre al sovrano di prendere sotto la propria protezione quelle comunità che fossero d’accordo a modificare l’istituzione religiosa in conformità alle loro idee, senza tuttavia impedire a chi lo volesse di rimanere nell’antico ordinamento. [M] Ma che ci si accordi perché persista, anche solo entro i limiti della vita d’un uomo, una costituzione religiosa che nessuno può mettere pubblicamente in dubbio, e cancellare con ciò, rendendolo infruttuoso, un intero periodo nel cammino dell’umanità verso il suo miglioramento, danneggiando così la posterità, questo non è assolutamente permesso. Un uomo può, è vero, per quel che lo riguarda – e anche in questo caso solo temporaneamente – differire il proprio rischiaramento riguardo a ciò ch’egli è tenuto a sapere; ma rinunciarvi del tutto, sia per la propria persona, sia, ancor più, per la posterità, significa violare e calpestare i sacri diritti dell’umanità. [N] Ma ciò che neppure un popolo ha il diritto di decidere per se stesso, ancor meno ha il diritto di deciderlo un monarca per il popolo; e questo perché la sua autorità legislativa si fonda proprio sul fatto che nella sua volontà egli riassume l’intera volontà del popolo. Purché badi a che ogni miglioramento, vero o presunto che sia, non contrasti con l’ordinamento civile, egli per il resto può lasciar liberi i suoi sudditi di far ciò che reputano necessario per la salute della loro anima; que-

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M. Qui Kant applica alla questione di una istituzione religiosa – che non era nel suo tempo indipendente dal potere statale – una riflessione sulla legittimità del potere politico che ha una portata più ampia. Per Kant è legittimo il potere politico fondato sul «contratto originario», che non rappresenta un fatto storico, ma una idea della ragione (vedi p. 617). Essa obbliga «ogni legislatore a fare leggi come se esse dovessero derivare dalla volontà comune di tutto un popolo» e a considerare «ogni suddito, in quanto vuole essere cittadino, come se egli avesse dato il suo consenso a una tale volontà. Questa infatti è la pietra di paragone della legittimità di una qualsiasi legge pubblica» (Sopra il detto comune: «Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», 1793). Nel nostro testo Kant dice, come si è visto: «La pietra di paragone di tutto ciò che è possibile imporre come legge ad un popolo sta nel chiedersi se quel popolo potrebbe mai imporsi da se stesso una legge siffatta»; e poco oltre: «l’autorità legislativa si fonda proprio sul fatto che nella sua volontà egli riassume l’intera volontà del popolo». Dall’idea del contratto originario deriva la costituzione repubblicana, fondata sulla libertà dei membri di una società, la loro dipendenza da una legislazione comune, la loro eguaglianza in quanto cittadini. Dal momento che in base a tale idea del contratto originario l’obbligo per il legislatore è di fare leggi come se esse dovessero scaturire dalla volontà generale, e non vi è la necessità che esse di fatto provengano dalla volontà popolare, la forma di governo repubblicana è compatibile con la forma di dominio monarchica. Kant non deriva dalla sua idea di contratto originario la democrazia rappresentativa. L’essenziale è per lui in altri termini solo la separazione di principio del potere legislativo da quello esecutivo: il primo deve essere compatibile con la possibilità che un popolo intero dia il suo consenso; il secondo deve essere esercitato in nome delle leggi. La teoria politica di Kant è qui piuttosto complessa, e non priva di compromessi. Nello scritto Per la pace perpetua, del 1795, Kant si riferisce retrospettivamente a Federico II, il sovrano citato in questo testo sull’Illuminismo, sul trono nel 1784, e nel frattempo scomparso (1786), ricordando che egli «diceva, per lo meno di non essere altro che il più alto servitore dello Stato» – un monarca illuminato poteva essere conforme allo spirito di un sistema rappresentativo. Nella Metafisica dei costumi del 1797 la posizione di Kant è più chiara: ogni forma statale è in quanto tale legittima (non vi è un diritto alla rivoluzione, ma

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Terza domanda e terza risposta: il rischiaramento non è ancora realizzato ma è iniziato

st’ultima non è cosa che lo riguardi, mentre spetta a lui fare in modo che nessuno impedisca con la violenza ad un altro di operare con tutte le sue forze per attuarla e promuoverla. Se si immischia in queste cose, sottoponendo al suo regio controllo gli scritti attraverso i quali i suoi sudditi cercano di mettere in chiaro le loro vedute, egli compromette la sua stessa maestà, sia ch’egli faccia ciò seguendo il suo sovrano giudizio, esponendosi al rimprovero: Caesar non est supra grammaticos, sia anche, e ancor più, ch’egli abbassi la sua suprema autorità sino ad appoggiare nel suo Stato il dispotismo religioso di qualche individuo tirannico contro tutti gli altri suoi sudditi. [O] Se ora dunque si domanda: Viviamo noi attualmente in un’età illuminata? la risposta è: No, bensì in un’età che procede verso i lumi. Ci vuole ancora molto perché, stando così le cose, gli uomini nel loro insieme siano in grado, o anche soltanto possano esser posti in grado, di servirsi con sicurezza e in modo appropriato del proprio intelletto nelle cose di religione, senza essere guidati da altri. Eppure, abbiamo chiari segni che ad essi è ora aperto il campo per lavorare alla propria emancipazione, e che vanno a poco a poco diminuendo gli ostacoli al rischiaramento generale, ossia all’uscita dallo stato di minorità di cui essi stessi sono responsabili. Sotto questo aspetto quest’età è l’età dei lumi, ossia il secolo di Federico. [P]

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un dovere di obbedienza alle leggi), e tuttavia lo spirito del contratto originario – rispetto al quale la forma statale vigente non è che la lettera – obbliga il potere costituente a modificare gradualmente il modo di governo adattandolo sempre più all’idea della sola costituzione veramente conforme al diritto, quella di una «pura repubblica»: quella in cui «la legge è sovrana e non dipende da nessuna persona particolare». È il tema di fondo presente anche in questo scritto sull’Illuminismo: la possibilità della trasformazione, del progresso, deve essere garantita dalla libera discussione pubblica, e deve realizzarsi come riforma (per Kant qui procedente dall’alto, ma sulla base di una libera discussione di tutti). N. Non è possibile neanche per libero accordo stabilire l’immutabilità di contenuti di fede, perché questo inciderebbe sui diritti delle generazioni future e comunque sul sacro diritto dell’umanità al libero progresso verso l’autonomia della ragione. Se ogni uomo è libero di differire il proprio «rischiaramento», di restare nello stato di minorità, non può vincolare alcun altro. L’Illuminismo è legato alla destinazione stessa dell’uomo come essere libero di darsi da sé i propri scopi. O. Come si diceva, Kant si riferisce qui al problema religioso, ma sullo sfondo – anche se qui non chiaramente espresso – vi è il problema più generale del potere politico e della possibilità di una sua graduale trasformazione. Un sovrano non può consentire una istituzione per principio sottratta alla libera critica; nel caso delle istituzioni religiose, non può confermarne una d’autorità. Se è illegittimo stabilire liberamente un ordinamento che si proclama non modificabile, altrettanto illegittimo è ciò da parte dell’autorità statale esterna. Il sovrano deve solo garantire che le modificazioni non contrastino con l’ordinamento civile. Non può intervenire in alcun modo sulla discussione che prepara e prefigura tali modifiche. Non può pretendersi superiore rispetto alla libera discussione critica; e tanto meno può appoggiare una parte religiosa contro altre (farsi strumento di un «dispotismo religioso»). La frase latina («l’imperatore non ha autorità sui grammatici») è la risposta che si narra che il grammatico Marco Pomponio Marcello (I secolo d.C.) avrebbe dato all’imperatore Tiberio. P. L’età che procede verso i lumi (das Zeitalter der Aufklärung: l’età dell’Illuminismo) non è l’età in cui ognuno è già in grado di servirsi della propria ragione (questo è un proble-

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Parte seconda Il secolo dei lumi Tesi: Federico è un sovrano illuminato perché ha permesso l’uso critico della ragione anche in materia religiosa e la diffusione dello spirito critico

Conclusione: la libertà di pensiero in religione ha valore paradigmatico ma deve estendersi anche all’ambito politico

Un principe che non ritiene indegno di sé dire che crede suo dovere non imporre niente agli uomini in fatto di religione, lasciando loro, invece, in queste cose piena libertà, e che perciò respinge la parola tolleranza, segno di superbia, è egli stesso illuminato e merita dal mondo e dalla posterità riconoscenti d’esser lodato come colui che, primo, affrancò il genere umano dallo stato di minorità, almeno per la parte che vi può avere il governo, e lasciò libero ognuno di usare la propria ragione in tutto ciò che ha a che fare con la coscienza. Sotto di lui rispettabili uomini di chiesa possono, senza pregiudizio del loro dovere d’ufficio, liberamente e pubblicamente sottoporre all’esame del mondo, in veste di studiosi, i loro giudizi e le loro vedute qua o là divergenti dal credo accettato dalla Chiesa; e tanto più può far ciò chiunque altro non sia soggetto alle limitazioni che s’accompagnano ad un dovere d’ufficio. Questo spirito di libertà si diffonde anche all’estero, persino là dove deve lottare contro gli ostacoli esteriori frapposti da un governo che fraintende se stesso, giacché dinanzi a quest’ultimo risplende realmente l’esempio che la pace pubblica e l’unità della comunità non hanno assolutamente nulla da temere dalla libertà. Gli uomini si adoperano da se stessi ad uscire a poco a poco dalla barbarie se solo non si ricorra intenzionalmente ad artifici per mantenerveli. [Q] Ho posto segnatamente nelle cose di religione il punto decisivo dell’illuminismo, cioè dell’uscita degli uomini dallo stato di minorità di cui essi sono responsabili: questo perché in ciò che concerne le arti e le scienze coloro che ci governano non hanno alcun interesse ad assumere verso i loro sudditi il ruolo di tutori; per di più questa forma di minorità è, fra tutte, la più dannosa nonché la più umiliante. Ma il modo di pensare d’un sovrano che favorisce i lumi va ancor più in là, e riconosce che persino in ciò che concerne la legislazione da lui voluta non v’è pericolo alcuno nel

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ma, abbiamo visto, anche di educazione, di individui e di popoli) ma quella in cui gli ostacoli esterni a questo scopo sono rimossi, in cui la libertà di espressione del pensiero come condizione politica esterna è garantita. Pur muovendo dal coraggio (e dalla viltà) individuale, questo scritto di Kant ha in realtà al centro del suo interesse la dimensione delle condizioni politico-culturali dell’Illuminismo, e dunque l’Illuminismo come libero processo storico, non come condizione individuale. È questo il motivo per cui Kant pronuncia l’elogio di Federico II che ora segue. Q. Federico II, detto Federico il Grande, re di Prussia dal 1740 al 1786, era visto come un esempio di sovrano illuminato. La lode di Kant era senz’altro giustificata in paragone con altri sovrani dell’epoca, e ne è una conferma anche il confronto con il successore di Federico II, Federico Guglielmo II (1744-1797), con la cui censura Kant si scontrò in occasione della pubblicazione del suo scritto La religione nei limiti della sola ragione (1793). Altri autori illuministi, come Diderot, Maupertuis, Voltaire (con quest’ultimo Federico II fu in stretto contatto, anche se il rapporto si andò logorando) videro in lui un monarca illuminato. Secondo Schopenhauer tra i maggiori meriti di Federico II vi fu quello di aver reso possibile lo sviluppo della stessa filosofia di Kant, che trovò l’ambiente culturale ideale per il suo dispiegarsi. Storicamente la figura di Federico II presenta aspetti complessi e contraddittori, come l’accentuato militarismo e il dispotismo politico, che traluce anche tra le righe del testo di Kant, nella sottolineatura che segue dell’obbedienza come garante dello Stato, dei limiti alla libertà politica come «duro involucro» che consente il germe della libertà di pensiero. Kant sottolinea qui l’influsso positivo che può avere anche fuori del regno di Prussia l’e-

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Paradosso: talvolta vi è un rapporto inverso tra libertà civile e atteggiamento critico

Conclusione: tuttavia l’uso critico della ragione agisce in favore del rischiaramento anche in materia politica

consentire ai propri sudditi di fare pubblico uso della loro ragione, sottoponendo pubblicamente al giudizio del mondo i loro pensieri circa una migliore formulazione della legislazione medesima, e ciò finanche attraverso una critica franca di quella già esistente; noi ne abbiamo un esempio luminoso, ed anche in questo nessun monarca ha superato quello che noi veneriamo. [R] Tuttavia, è pur vero che solo chi, illuminato egli stesso, non ha paura delle ombre, e dispone nello stesso tempo, a garanzia della pace pubblica, d’un esercito numeroso e ben disciplinato, può affermare ciò che una repubblica non può azzardarsi a dire: ragionate quanto volete e su ciò che volete; ma obbedite! Uno strano ed inatteso corso delle cose umane si delinea pertanto a questo punto; come è anche possibile notare solitamente, se si considera questo corso nel suo complesso, quasi tutto in esso risulta paradossale. Un più alto grado di libertà civile par favorire la libertà dello spirito del popolo, ed invece pone ad esso limiti invalicabili; al contrario, un grado minore di libertà civile offre allo spirito lo spazio per dispiegarsi secondo tutte le sue capacità. Se dunque sotto questo duro involucro la natura ha sviluppato il germe del quale si prende la più tenera cura, vale a dire l’inclinazione e la vocazione al libero pensiero, allora questa inclinazione e questa vocazione si ripercuotono gradualmente sul modo di sentire del popolo (per cui esso diviene man mano sempre più capace di libertà di agire) e da ultimo persino sui principi del governo, che trova vantaggioso per se stesso trattare l’uomo, che diventa allora più che una macchina, in modo conforme alla sua dignità*. [S]

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Königsberg, Prussia, 30 settembre 1784

sempio di uno Stato in cui la libertà di uso pubblico della ragione è ammessa e che dimostra al contempo con i fatti che da tale situazione non deriva alcun pericolo per la stabilità politica. Il governo che «fraintende se stesso» è ogni governo che fraintende i propri compiti, che non stanno nell’impedire l’uso libero e pubblico della ragione, ma nel garantire il diritto come coesistenza delle libertà secondo leggi generali. R. Lo sfondo e l’interesse politico del discorso di Kant, pur nel prevalere della tematica religiosa, già prima sottolineato, vengono qui alla luce esplicitamente. I meriti di Federico II sono non solo nel campo della libertà religiosa, ma nell’ammettere la libertà di critica anche in ambito politico. S. Kant qui non sottolinea soltanto il corso paradossale delle cose – per lui frequente in molti aspetti della storia umana – per cui una minore libertà politica favorisce una maggiore libertà di pensiero, ma adombra la possibilità che la libertà di pensiero, una volta diffusasi, retroagisca sulla dimensione delle libertà politiche. L’uomo che col pensiero dimostra autonomia nella posizione di fini – di essere in questo senso più che una macchina: di sfuggire alla «meccanicità» di una ragione che è al servizio di fini estranei di cui si parlava prima nel testo – può, dimostrandosi capace di libertà di agire oltre a quella di pensare, aspettarsi che il governo decida di trattarlo con la «dignità» che gli è propria: quella, come si diceva nella Fondazione della metafisica dei costumi, che richiede che l’uomo venga trattato sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo. L’uomo che dimostra autonomia, uso della ragione non subordinato a finalità altrui, rivendica implicitamente di non essere strumento per nessuno. La ragione illuminista è qui una ragione consapevolmente non strumentale.

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* Leggo proprio oggi, 30 settembre, nelle «Wochentlichen Nachrichten» di Büsching del 13 scorso, l’annuncio della «Berlinische Monatsschrift» di questo mese, in cui è citata la risposta del Signor Mendelssohn alla medesima domanda. Non l’ho ancora avuta per le mani, altrimenti essa mi avrebbe trattenuto dal formulare la presente risposta, che ora vale solo a testimoniare fino a qual punto il caso possa realizzare una concordanza di pensieri. [T]

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(da I. Kant, Scritti sul criticismo, a cura di G. De Flaviis, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 5-12)

T. Moses Mendelssohn, importante filosofo di religione ebraica, esponente della cosiddetta ‘filosofia popolare’ e di una visione moderata dell’Illuminismo, aveva risposto alla domanda di Zöllner con il saggio Sulla domanda: che cosa significa rischiarare? Kant intratteneva buoni rapporti con Mendelssohn, di cui aveva un’alta considerazione.

Questionario sull’argomentazione 1

Qual è il significato del motto «sapere aude!» e che relazione ha con l’Illuminismo? (max 4 righe)

2

Quali sono i fattori che ostacolano e quali quelli che favoriscono l’Illuminismo? (max 6 righe)

3

Qual è il motivo in difesa dell’Illuminismo che non permette a nessuno (Chiesa, popolo o monarca) di fermarlo? (max 1 riga)

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4

Completa la tabella inserendo in ogni casella una risposta di 2 righe al massimo.

Domande critiche presenti nel brano

Risposte

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Tesi a confronto In Kant la realtà è indipendente dalla mente? Il bicentenario e il bilancio critico

Le critiche di Ferraris

Trasformazione delle condizioni della scienza in leggi naturali dell’esperienza Intuizioni e concetti

Prima risposta

Nel 2004 si è celebrato il bicentenario della morte di Kant. Come spesso avviene, queste ricorrenze vengono usate come occasioni per un bilancio dell’influenza storica e del peso teorico di un pensatore, oltre che per fare il punto della ricerca su di esso. Molti convegni e interventi sono stati dedicati a questo tema. In Italia, Maurizio Ferraris ha scritto un libro intitolato Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, con l’intento dichiarato non «di mutilare un monumento, bensì, se possibile, di togliergli un po’ di ruggine per restituirlo all’attualità» ma conducendo, in realtà, una serrata disamina critica delle principali tesi sostenute nella Critica della ragion pura, che vengono vivacemente confutate. Ferraris prende di mira il complessivo progetto della filosofia trascendentale, la cui fallacia consisterebbe nella confusione tra scienza (dipendente dagli schemi concettuali che utilizziamo nella conoscenza) ed esperienza (che sarebbe invece «inemendabile», ossia non influenzabile dal nostro apparato concettuale), da cui consegue il mancato riconoscimento di una realtà indipendente dal pensiero: «Siamo d’accordo sul fatto che un conto è pensare una cosa, un altro conoscerla. Ma si dovrà anche ammettere che un conto è conoscere una cosa e un altro incontrarla, per esempio sbattere al buio contro una sedia. E bisognerà ammettere che la maggior parte della nostra esperienza, per sofisticata che possa diventare, poggia su un suolo opaco e inemendabile, in cui gli schemi concettuali che organizzano il nostro sapere contano ben poco». La confusione tra scienza ed esperienza, secondo Ferraris, porta Kant a sostenere una «naturalizzazione della scienza»: le condizioni della conoscenza scientifica (per Kant la fisica newtoniana), a posteriori e mutevoli, vengono trasformate in leggi naturali (a priori) della conoscenza e dell’esperienza. Così il mondo diventa per Ferraris dipendente dalla mente, mentre lo è solo la conoscenza. Centrale per la critica di Ferraris diventa allora la contestazione della celebre tesi della Critica della ragion pura che suona: «i pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche». In questa tesi si nasconderebbe il peso eccessivo dato da Kant agli «schemi concettuali» che, secondo Ferraris, regolano sì la conoscenza, ma non l’esperienza.

Per Kant il mondo dipende dalla mente: confonde infatti scienza ed esperienza; e anche la tesi degli schemi concettuali risente di questa confusione da Maurizio Ferraris, Goodbye Kant!

La fallacia trascendentale

Questo è l’aspetto cruciale, quello che nel Capitolo 5 [Kant] sviluppò sotto il titolo di «fallacia trascendentale». Kant, abbagliato dagli exploit della fisica, ha confuso la scienza con l’esperienza, cioè l’epistemologia con l’ontologia. «Epistemologia» è ciò che conosciamo e come lo conosciamo, «ontologia» quello che c’è indipendentemente dal fatto che lo si conosca o meno. 743

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Parte seconda Il secolo dei lumi Kant ‘sposa’ una metafisica prescrittiva

L’errore di Kant

«Naturalizzazione» della fisica

Le conseguenze idealistiche della fallacia

Fa dipendere la cosa dal nostro modo di conoscere

Non scioglie le equivocità dell’uso di «conoscere»

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Confondendo ontologia ed epistemologia (il che, tutto sommato, riesce abbastanza facile), Kant non solo ha commesso un errore molto comune, ma ha altresì sposato quella che si è soliti chiamare «metafisica prescrittiva» o «correttiva», che si contrappone alla «metafisica descrittiva», giacché non si limita a individuare le strutture della nostra esperienza ordinaria. Fa – o vuole – ben altro: rettificare il senso comune e tradurre l’esperienza alla luce delle nostre attuali conoscenze scientifiche. In breve, per una metafisica correttiva bisognerebbe sopprimere espressioni come «il Sole tramonta» (in effetti, non è così); «il caffè si è raffreddato» (meglio sarebbe infatti dire che ha ceduto calore all’ambiente); «mi sono scottato» (converrebbe forse dire che ho eccitato le mie fibre-C). Ora, non c’è niente di male nel perseguire una metafisica correttiva, e soprattutto sembra difficile immaginare una metafisica descrittiva allo stato puro, essendo costante l’interazione tra i due livelli, almeno per un adulto della nostra epoca. Ma Kant ha confuso i due strati, così come i due atteggiamenti, per sistema e per principio, e la maggior parte dei filosofi successivi lo ha seguito su questa via. […] Proprio perché era persuaso dell’identità di diritto [identità legittimata dalla propria teoria trascendentale della conoscenza] tra fisica ed esperienza, così come tra fisica e logica, Kant ha potuto, da una parte, descrivere la nostra esperienza con gli stessi strumenti della scienza e, dall’ altra, assumere che dei princìpi della fisica non fossero ricavati aposteriori, dallo stato attuale delle conoscenze umane, bensì deposti apriori nella nostra dotazione concettuale. Per un’ironia della storia, proprio questa fallacia costituisce il punto in cui la filosofia kantiana ha conosciuto un incontrastato successo. […] La Deduzione trascendentale – per cui le condizioni di possibilità di un oggetto costituiscono le condizioni di possibilità della sua conoscibilità – sfrutta sistematicamente la fallacia, che chiamo così perché comporta una serie di conseguenze che condizionano il seguito dell’indagine kantiana e, con essa, della filosofia successiva. Un mondo mente-dipendente. Queste conseguenze (così come le inconseguenze che ne derivano) sono quattro. 1. Si fa dipendere la cosa dal modo in cui la conosciamo. Qui «conoscere» significa avere un’esperienza che è più o meno una scienza, quando chiaramente non è così, giacché possiamo benissimo incontrare cose senza conoscerle, cioè non solo senza avere la minima idea delle loro proprietà interne, ma anche senza identificarle. Quando gli abitanti di Metropolis [la città immaginaria dove vive Superman] guardano in cielo ed esclamano: «It’s a bird! It’s a plane! It’s Superman!», vuol dire che vedono qualcosa, anche senza sapere con esattezza che cosa. Se trascurassimo questa circostanza, saremmo costretti a sostenere che vediamo qualcosa solo quando la conosciamo, il che è ovviamente falso, mentre Kant, il più delle volte, sembra pensarla proprio così. 2. La frase «non come le cose sono in se stesse, ma come devono essere fatte per venire conosciute da noi» comporta un’ambiguità che poggia interamente sulla questione del «conoscere», che può indicare: (a) le

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Unità 14 Kant

Consente interpretazioni soggettivistiche, fino all’idealismo estremo

‘Naturalizza’, oltre la fisica, altre conoscenze storicamente condizionate

Dalla fallacia discende anche la tesi degli schemi concettuali

Apparente argomento a favore della tesi degli schemi concettuali: i costrutti culturali

operazioni esercitate a nostra insaputa» sul piano della conoscenza del mondo esterno, dai nostri sensi e dalle nostre categorie; (b) come sono fatti, a livello di conoscenza delle nostre architetture cognitive, i nostri sensi e il nostro sistema nervoso; (c) quanto sappiamo delle cose, in veste di esperti. 3. In ogni caso, otteniamo una riduzione degli oggetti ai soggetti che li conoscono, che, a seconda del modo in cui si ritiene di affrontare la questione dell’intervento della soggettività, si presta alle interpretazioni più varie. Nella versione più estrema, si spiana la via dell’idealismo trascendentale, che non consiste tanto nell’identificazione tra «essere» ed «essere percepito», come nel caso dell’idealismo di Berkeley, quanto piuttosto in un esse est concipi [l’essere consiste nell’essere concepito, pensato in concetti], che appare più cauto, ma che in realtà risulta ben più pervasivo e insidioso: le cose esistono solo in quanto ce le rappresentiamo in forma cosciente, con una coscienza che costituisce altresì il primo fondamento di una scienza. 4. La fallacia si manifesta soprattutto nell’Estetica e nell’Analitica (dove Kant tratta delle cose accessibili all’esperienza), ma a ben vedere vige anche nella Dialettica. Che Dio, l’Anima, il Mondo non costituiscano argomenti su cui possiamo pronunciarci in modo conclusivo è per Kant ovvio in base alla fisica dei suoi tempi, che non se la sentiva di decidere, per esempio, se il mondo avesse un inizio nel tempo o meno. Tuttavia, già nell’Ottocento sarà un argomento di discussione scientifica; dunque l’inconoscibilità non risulta assoluta, come ritiene Kant, ma storicamente condizionata. Non si tratta, beninteso, di rimproverare a Kant di non essere un profeta, bensì di sottolineare come col tempo ciò che egli aveva naturalizzato sia tornato a storicizzarsi. […] La tesi degli schemi concettuali – quella che suona come «le intuizioni senza concetto sono cieche» – discende direttamente, nel suo estremismo, dalla fallacia trascendentale. Non c’è dubbio che per fare scienza occorrano dei concetti; tuttavia, che questi risultino strettamente necessari per l’esperienza è un assunto che suscita svariati interrogativi. […] Le intuizioni senza concetto sono cieche? […] la tesi secondo cui le intuizioni senza concetto sono cieche, cioè l’argomento che definisce la centralità degli schemi concettuali, sembra potersi difendere in molti modi. Il primo, e il più ovvio, riguarda i costrutti culturali. Prendiamo una scritta come la seguente:

Si potrebbe facilmente sostenere che un analfabeta (e forse uno che non sa l’inglese) non decifrerebbe la scritta e, di conseguenza, non riconoscerebbe nemmeno le ombre. Ma è abbastanza chiaro che invocare la lettura come esempio di intervento del concetto nell’intuizione suona un po’ debole: è ovvio che leggere rappresenta una prestazione concettuale, in cui il vedere assolve una funzione servile. 745

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Parte seconda Il secolo dei lumi Esempio di costrutto culturale: la visione orientata nell’arte

In questione c’è la possibilità di percepire senza gli schemi concettuali

La tesi oltranzista di Kant

La replica contro la tesi di Kant

Autonomia dell’intuire dal conoscere

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Gli storici dell’arte, tuttavia, riportano altri esempi che si riferiscono alla riproduzione di oggetti fisici, non di scritte: Castel Sant’Angelo, in una xilografia tedesca del 1540, ostenta dei tratti gotici; Notre Dame, riprodotta nel Seicento da Matthäus Merian, tradisce degli elementi di architettura barocca; il rinoceronte raffigurato da Dürer è uno strano mostro che ha poco da spartire con quelli che vediamo allo zoo; la Tavola Strozzi è una veduta di Napoli dipinta da un artista probabilmente toscano che ha messo, sopra i tetti bianchi della città, tegole rosse davvero molto fiorentine; gli indiani d’America, nelle incisioni settecentesche, risultano incontestabilmente rococò. Ora, per forti che siano questi esempi, non producono una prova decisiva, poiché l’argomento non è che l’abitudine (e non degli schemi apriori, come sostiene Kant) possa interferire nella percezione, e soprattutto in un’attività così sofisticata come la riproduzione visiva (dove intervengono consuetudini espressive di cui è difficile liberarsi, come può verificare chiunque cerchi di falsificare una firma). L’argomento kantiano è che la percezione non ha luogo senza il sostegno di schemi concettuali, il che non solo non è provato, ma viene anzi confutato, dagli esempi degli storici dell’arte: quello che si vede è pur sempre un rinoceronte, un indiano, Castel Sant’Angelo, Notre Dame e Napoli, sia pure con aberrazioni più o meno grandi. […] Ora, si tratta davvero di prove del fatto che le intuizioni senza concetto sono cieche? O non piuttosto del fatto che i concetti possono intervenire nelle intuizioni? Chiaramente, vale la seconda, che però costituisce una tesi molto ragionevole ma poco interessante per Kant, giacché concede un ruolo troppo modesto agli schemi concettuali. È sacrosanto ricordare che quando Marco Polo vide un rinoceronte per la prima volta, lo interpretò come un unicorno, riportando il reale ignoto a un noto irreale. Di tutto questo non si discute; tuttavia, il punto è più radicale: per Kant non è questione di far notare che i concetti guidino le intuizioni – soprattutto quando si tratta di riconoscere o di disegnare – bensì di sostenere che senza intuizioni si è ciechi e, soprattutto, che la sfera del visivo (e del percettivo in generale) risulta totalmente determinata dal concettuale. Il che, chiaramente, non è vero. […] Ora, riconoscere resistenza di contenuti non concettuali nell’intuizione costituisce un ingrediente indispensabile per concedere il giusto spazio al ruolo degli schemi concettuali. Tuttavia è proprio questo che, nel suo oltranzismo, Kant si è inibito di fare. Di fronte a un’affermazione così lapidaria come «le intuizioni senza concetto sono cieche», non resterà dunque che replicare: 1. Si può vedere anche senza concetti. Le macchie […] [qui sotto raffigurate] non sono molto concettualizzabili (dargli un nome, «macchia», non è ancora averne un concetto), ma ne individuiamo benissimo i rapporti e le posizioni:

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Unità 14 Kant Autonomia del conoscere dall’intuire

2. Si possono avere concetti, e non vedere. I gruppi di triangoli disegnati qui sotto sono uguali per forma, dimensioni e rapporti tra gli elementi di ciascun gruppo; ciò non toglie che ci sembrano diversi:

Le intuizioni non sono cieche

3. Le intuizioni senza concetto ci vedono benissimo. La possibilità di ottenere visioni complesse senza capire esattamente la natura di quanto si percepisce è proprio quanto accade ai ciechi congeniti operati in età adulta, alla fine del processo di riabilitazione visiva. Da un punto di vista fisiologico, siamo certi che vedono distintamente le cose che hanno sotto gli occhi, ma indubbiamente non riescono a capire esattamente ciò che vedono.

Replica: le critiche di Ferraris non colpiscono Kant

Seconda risposta

Com’era nelle intenzioni di Ferraris, il suo intervento ha suscitato un’ampia e vivace discussione, che si è espressa tra l’altro nel libro Congedarsi da Kant? (2006) curato da Alfredo Ferrarin, in cui quattro autori (Ferrarin, La Rocca, Parrini, Barale) discutono l’interpretazione e l’analisi critica di Ferraris. Nel suo intervento, Claudio La Rocca cerca di distinguere tra il valore teorico degli argomenti di Ferraris, alcuni dei quali condivide, e la loro capacità di colpire Kant, che ritiene per lo più infondata. Dopo aver difeso la teoria kantiana dall’accusa di idealismo quasi «magico» insistendo sul modello della lettura come analogia che illustra la soluzione kantiana al problema della conoscenza dei fenomeni da parte della mente, La Rocca si dedica alla chiarificazione del rapporto tra intuizioni e concetti, per mostrare che le accuse di Ferraris non colpiscono la teoria kantiana. Importante è distinguere tra concetti empirici, sempre in costruzione, di cui la percezione non ha bisogno, e principi trascendentali, che definiscono che cosa sia un oggetto in generale e consentono così di orientarsi nell’esperienza.

Per Kant la realtà non dipende dalla mente: il suo obiettivo è individuare il codice con cui ‘leggiamo’ i fenomeni da Claudio La Rocca, Lontano da dove. Congedarsi da Kant?

Cos’è l’in sé per Kant

L’in sé che Kant nega è appunto lo sguardo da nessun luogo e da nessun soggetto possibile: non è affatto l’in sé che il senso comune ammette, quel747

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Nega la possibilità di conoscere l’in sé, non l’indipendenza del mondo La cosa in sé per Kant: un altro punto di vista sulle cose

La decifrazione del mondo e le sue regole: il modello della lettura

L’obiezione di Ferraris al modello della lettura

Risposta: la questione centrale è il rapporto tra percepire e conoscere

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lo che ognuno di noi ammette, contro il quale non ci si rivolge mai. Kant non sottoscriverebbe mai la tesi «ciò che non si conosce, è come se non esistesse» (p. 140); non sottoscriverebbe mai la tesi che «le cose esistono solo in quanto ce le rappresentiamo in forma cosciente», e nemmeno la tesi esse est concipi (p. 69), o la tesi che «vediamo qualcosa solo quando la conosciamo» (p. 68; ma di quest’ultima tesi parleremo meglio in seguito). Sottoscriverebbe invece senza battere ciglio la tesi che «possiamo benissimo incontrare cose senza conoscerle» (p. 68). La negazione dell’in sé non significa per Kant legare l’esistenza delle cose all’esistenza della mente. È invece – non lo si sottolinea mai abbastanza, e il libro di Ferraris ne è la conferma – la negazione di un punto di vista possibile, ma solo nel senso di astrattamente concepibile: quello di un intelletto che intuirebbe, cioè che nel pensare produrrebbe anche il darsi delle cose. Le cose in sé non sono altre cose dietro quelle manifeste (la rosa in sé, il cavallo in sé, l’ornitorinco in sé, la casa in sé) ma un altro punto di vista sulle cose, che per esseri finiti (ai quali le cose sono date) come noi – ma come sarebbero anche degli alieni o come sono i computer – non è possibile né sensato ammettere. Sono le cose concepite come slegate da qualunque modo di accesso ad esse o come legate ad un modo di accesso che ne produce e non semplicemente riconosce l’esistenza. Le cose che possiamo incontrare sono fenomeni non perché ve ne siano altre, che non lo sono, acquattate dietro e inconoscibili, ma perché è sensato parlare di cose se sappiamo dire come le riconosciamo rispetto a ciò che cosa non è: rispetto a mere rappresentazioni, allucinazioni, miraggi, o cose semplicemente inesistenti. Non c’è bisogno di essere filosofi, e neppure di essere scienziati newtoniani, per esercitare come facciamo quotidianamente una elementare ma fondamentale attività di discriminazione: gli input che riceviamo devono essere interpretati in relazione alla capacità che hanno di informarci su ciò che effettivamente è presente. Questa discriminazione e interpretazione di stimoli presuppone delle regole: un codice per potere – secondo un noto ma non abbastanza valorizzato passo kantiano – «compitare (buchstabieren) i fenomeni per poterli leggere come esperienza»: un codice che non può essere tratto esso stesso dalla lettura dell’esperienza, pena un circolo vizioso. Ferraris contesta la pertinenza del modello della lettura (p. 77): ma credo sia un potente antidoto, fortemente fondato in re, ovvero nel testo kantiano, contro una lettura cripto-psicologica (o palesemente tale) del trascendentale che resta sempre (e fortissimamente in Ferraris) la via maestra per fraintendere Kant. «Invocare la lettura come esempio di intervento del concetto nell’intuizione suona» secondo Ferraris «un po’ debole: è ovvio che leggere rappresenta una prestazione concettuale, in cui il vedere assolve una funzione servile» (p. 77). In realtà è assolutamente pertinente alla questione della presenza della dimensione concettuale nella percezione: la lettura, nel suo primo stadio del compitare (riconoscere lettere), ancora slegato dal momento semantico (il leggere in senso pieno o intendere parole: io posso senz’altro compitare una parola sconosciuta o per me inintelligibile), non è che un caso particolare – e particolarmente istruttivo – di visione discriminante, di riconoscimento visivo. Non è dunque un esempio più «facile» di altre forme di intuire, perché avrebbe un carattere chiaramente concettuale, in quanto attività culturale, frutto di apprendimento.

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Unità 14 Kant

Per Kant il rapporto mente-mondo non è magico

Per distinguere tra percepire e conoscere, Kant individua il codice di lettura comune

Posso intuire senza concetti anche per Kant

L’ornitorinco

Imparo a riconoscere la lettera A come imparo a riconoscere un coniglio o una casa. È il riconoscimento di ciò che vedo ciò che è in questione, e le sue condizioni non sono diverse se riconosco una lettera o un gatto. Se dunque assumiamo che il nostro rapporto con stimoli sensibili è un discriminare e riconoscere guidato da regole, come lo è il buchstabieren, possiamo rifiutare una interpretazione psicologico-magica del rapporto mentemondo. O si crede – e non si può farlo seriamente, per quanto si possa esserne tentati – che Kant ritenesse che la mente ordina un mondo caotico in un senso magico (che quando chiudiamo gli occhi o siamo voltati le cose se la spassino alle nostre spalle in una sarabanda come in un cartone animato, per poi irrigidirsi sull’attenti non appena le guardiamo), oppure bisogna intendere la «rivoluzione copernicana» di Kant come la teoria secondo la quale il mondo, al quale la mente non torce neanche un capello, che è lì com’è del tutto indipendentemente dal mio piccolo io, può essere inteso soltanto se dispongo di un codice per decifrarlo (quello che prima indicavo come una «modalità di accesso»), con l’ovvio corollario che là dove io non disponga di un tale codice non sto comprendendo proprio niente, e dispongo tutt’al più di costrutti (questi sì dipendenti dalla mente) che solo sembrano dire qualcosa. Sul piano filosofico, se voglio considerare valida una certa modalità di accesso ad un certo genere di «oggetti» (dunque non legittimare dall’esterno un qualche tipo di discorso, ma riconoscerne la intrinseca legittimità), devo essere in grado di esibire tale codice, ovvero indicare l’insieme di condizioni e regole condivisibili che rendono possibile quel tipo di «esperienza». Rispetto ai fenomeni, dunque al mondo che si dà nello spazio e nel tempo, si tratta di «rendersi comprensibili le proprie intuizioni», come dice Kant proseguendo la famosa frase sui pensieri vuoti e le intuizioni cieche che svolge un ruolo centrale, vedremo, nella critica di Ferraris. Per rendere comprensibili (attraverso concetti) le intuizioni, per leggerle, dobbiamo anzitutto riconoscerle (attraverso le categorie), compitarle. […] Torniamo al gatto, per affrontare un tema cruciale del libro di Ferraris, quello del rapporto tra concetti e intuizioni. La discussione di questo punto è condizionata da un presupposto: Ferraris identifica concetti con conoscenze e conoscenza con scienza. Di conseguenza fa dire a Kant che – se le intuizioni senza concetti sono cieche – io non vedo un pesce se non sono ittiologo. Ma quanto cercavo di mostrare prima, ossia che sono necessarie delle categorie in quanto regole di identificazione per riconoscere un gatto, non significa che io abbia bisogno del concetto di «gatto», altrimenti non lo vedrei neppure. Basta porsi il problema dell’ornitorinco, che Kant aveva ben previsto, ossia il caso dell’ente non ri-conoscibile perché sconosciuto, mai prima conosciuto. Leggiamo nelle Logikvorlesungen Bauch [Lezioni di logica]: «Io posso conoscere qualcosa per mezzo dell’intuizione, senza averne un concetto […]. Per esempio, se qualcuno si trovasse a vedere all’improvviso un animale mostruoso; in questo caso ha una rappresentazione, lo conosce per mezzo della sua intuizione, se lo può rappresentare in modo distinto; ma non ne avrà ancora un concetto, poiché lo vede per la prima volta, è per lui qualcosa del tutto nuovo. Se deve portarlo sotto un concetto, devono venire rappresentate per mezzo dei suoi sensi più cose singole di questa specie». Ciò che è presupposto in ogni esperienza che possa diventare conoscenza – ci sono quelle che non possono, e sono tante per Kant, dal sentimento, al 749

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Parte seconda Il secolo dei lumi La categorie: presupposto necessario di ogni esperienza che possa divenire conoscenza

Kant non ha mai sostenuto che non possiamo percepire senza concetti

La presenza dei concetti nelle intuizioni: vedere e comprendere

Corretta nozione di «cieco»

L’esperienza che intendo

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giudizio di gusto, alla mera parvenza – non è certo nessun concetto particolare (Kant più di tutti, certamente più di Locke, insiste sul carattere arbitrario, provvisorio, di mero aggancio segnico dei concetti empirici), bensì le regole di ricerca e ritrovamento che chiama categorie, regole che richiedono e consentono che io identifichi qualcosa in quanto qualcosa, in quanto oggetto, ma non in quanto gatto. Se si tratti di un gatto o di un ornitorinco posso non saperlo e non venire a saperlo mai (se voglio metter su un po’ di conoscenza devo vederne almeno due, creare una classe, una rappresentazione generale). […] Si tratta allora di dare una esegesi […] del famoso detto, cui Ferraris dedica forse troppo spazio, secondo cui «pensieri senza contenuto sono vuoti, intuizioni senza concetti sono cieche» (A 51 B 75). Abbiamo visto che non può non avere nulla a che fare con l’idea che non possiamo percepire – ad esempio vedere – senza concetti. È difficile trovare nei testi di Kant qualcosa che ricordi la tesi «che la sfera del visivo (e del percettivo in generale) risulta totalmente determinata dal concettuale» (p. 79), tanto più se il concettuale è inteso come l’ambito dei concetti empirici. Così sembrerebbe che molti controesempi che Ferraris mette in campo se servono, non servono a colpire Kant. Tuttavia un problema teorico resta. In questo caso conviene sforzarsi di distinguere il problema esegetico da quello teorico, anche perché può aiutare a distinguere due piani del discorso di Kant. Il primo piano è quello della presenza dei concetti nelle intuizioni. È importante anche per collocare al posto giusto il discorso sugli «schemi concettuali», la forma in cui si traduce e riprende (e talvolta si distorce) nella epistemologia contemporanea l’eredità dell’apriori kantiano. Kant, abbiamo visto, non ha alcun problema con intuizioni senza concetti. […] Vedo un pesce persico anche se non sono un ittiologo, un ornitorinco anche se non l’ho mai visto prima. L’intuizione, che ha anch’essa una natura complessa, ha una sua ovvia autonomia da ogni singolo concetto. Ma allora perché le intuizioni senza concetto sono cieche? Perché è necessario, dice Kant due righe dopo, «rendersi comprensibili le proprie intuizioni». Ed «è possibile certamente vedere molte cose, ma non è possibile comprendere niente, di ciò che appare, se non in quanto ciò viene portato sotto concetti dell’intelletto e per loro tramite in relazione ad una regola». «Cieco» allora non è un intuire che letteralmente non vede, ma un intuire che non comprende. Il problema – e non è una differenza da poco anche sul piano poi trascendentale – non è quello che «so» (conoscenza, credenza, ecc.), ma quello che «intendo». Dunque non è un problema di scienza (in seguito certamente anche), ma di esperienza comune. C’è una nota Reflexion [Riflessione, un appunto postumo] di Kant dove si dice che Erfahrung ist eine verstandene Wahrnemung: l’esperienza è una percezione che intendo. Mi spiego. Posso sbattere contro una sedia al buio, come esemplifica Ferraris (p. 71), senza saperne niente. Ma se poi voglio comprendere cosa mi è successo, mi chiedo anzitutto contro che cosa ho sbattuto. Le cose si incontrano, ma la nostra esperienza non è solo e sempre – per fortuna – uno sbatterci contro. Nel momento in cui voglio comprendere, mi appresto a formare concetti. Non capisco nulla né della sedia né dell’ornitorinco e neppure del mio dolore se non mi avvio per questa strada. Lo posso fare se so da che parte cominciare, se mi oriento in

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Unità 14 Kant Le indicazioni di partenza: i giudizi provvisori

Due livelli distinti: concetti empirici e princìpi trascendentali

qualche modo in questo compito. Quando comincio ad intendere, non ho alcun sapere, ma indicazioni per rintracciare e riconoscere: se ho sbattuto contro qualcosa, cerco di capire se c’è un oggetto (o piuttosto è un dolore dovuto a ragioni interne), cerco cioè di reidentificarlo, ricercandolo in un continuum causale e spaziale, raccogliendone, se mi riesce, prime informazioni, che sono eventualmente sufficienti per riconoscerlo-classificarlo, nel caso io possa ritrovare un concetto già disponibile; altrimenti devo formarne uno – e qui intervengono una serie di presupposizioni che vanno ben al di là delle categorie e che Kant tenta di indicare prima nella Dialettica della Critica della ragion pura, poi nella Critica della capacità di giudizio, ma anche quando delinea la teoria dei «giudizi provvisori», quelle «anticipazioni» con le quali fiutiamo dove possa trovarsi la verità, man mano correggendoci. Servono princìpi euristici, «massime» per cercare, anticipazioni. Non voglio farla lunga, ché anche l’elenco, ancor prima che l’analisi, di tutto ciò che interviene nell’inizio di costruzione di un’esperienza sarebbe molto lungo; l’importante è sottolineare due livelli molto distinti, quello dei concetti empirici, sempre in costruzione, arbitrari, meri «segni dell’esperienza», di cui nessuna percezione in quanto tale ha bisogno, ma che servono quando devo capire che cosa (mi) succede; e quello dei princìpi trascendentali, con i quali mi oriento già nel più elementare e antepredicativo atto di organizzare i miei tentativi di comprendere quanto sento e vedo e incontro (non le cose, a cui, ripeto, non si torce un capello). Le categorie hanno la funzione di «determinare per una intuizione il modo in generale nel quale essa può servire a giudizi», ossia di orientare la nostra lettura proposizionale della realtà percepita.

I brani antologizzati sono tratti da: M. Ferraris, Goodbye, Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004. C. La Rocca, Lontano da dove. Congedarsi da Kant?, in A. Ferrarin (a cura di), Congedarsi da Kant? Interventi sul Goodbye Kant di Ferraris, Edizioni ETS, Pisa 2006, pp. 37-68.

Per seguire il dibattito 1

Quali sono i due piani che Kant confonde, commettendo una fallacia, secondo Ferraris? (max 1 riga)

2

Qual è lo scopo di una metafisica correttiva, quale quella che, secondo Ferraris, Kant abbraccia? (max 2 righe)

3

Quali sono i caratteri del mondo «mente-dipendente» secondo Ferraris? (max 8 righe)

4

Qual è secondo Ferraris la tesi oltranzista di Kant? (max 4 righe)

5

Come bisogna intendere il concetto di cosa in sé di Kant, secondo La Rocca? (max 4 righe)

6

In cosa consiste il modello della lettura, la chiave per comprendere la teoria della conoscenza kantiana, secondo La Rocca? (max 5 righe)

7

Quale sarebbe la conseguenza della mancanza di un codice di decifrazione dei fenomeni, secondo la Rocca? (max 2 righe)

8

Qual è nell’epistemologia di Kant il processo conoscitivo che ci permette di renderci comprensibili le nostre intuizioni, secondo La Rocca? (max 5 righe) 751

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Percorso tematico Meccanicismo o teleologia?

I testi G. Galilei Dialogo sopra i due massimi sistemi: Lo scontro tra due visioni del mondo, T1 T. Hobbes Critique du «De Mundo» de Thomas White: L’uomo non domina sugli animali, T2

G.W. Leibniz Nuovo sistema per spiegare la natura delle sostanze. Primo abbozzo: Il valore del finalismo come principio euristico, T3 I. Kant Critica della facoltà di giudizio: Lo scopo della natura non è uno scopo divino, T4

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Meccanicismo o teleologia? 1 Un universo ordinato secondo fini

Il presupposto antropocentrico

La rivoluzione scientifica e l’affermazione del meccanicismo

La scomparsa delle cause finali

Il trionfo del meccanicismo e l’abbandono del finalismo Sino alla fine del Cinquecento è dominante una concezione teleologica della natura derivata dalla fisica aristotelica, riletta in chiave cristiana dalla Patristica medievale e incorporata da buona parte della filosofia rinascimentale, a parte alcune eccezioni: la visione, cioè, dell’universo come ordine creato da Dio in modo tale che al suo interno ogni cosa sia dotata di una «causa finale», espressione della sua natura essenziale. Conformemente al racconto della Genesi, secondo il quale l’intero universo è stato creato da Dio in funzione dell’uomo, questa concezione teleologica assume, a partire dall’epoca medievale, un significato fortemente antropocentrico, fondato su due presupposti: 1) la tesi che tutti i moti celesti siano finalizzati alla produzione dei cicli vitali aventi luogo sulla Terra; 2) l’assunto che il fine di tutti gli esseri terreni – da quelli inanimati ai vegetali, sino agli animali – non sia altro che quello di permettere la vita dell’uomo. Nel corso del XVII secolo, i principali protagonisti della rivoluzione scientifica e filosofica contribuiscono all’affermazione di un’immagine dell’universo fisico radicalmente diversa rispetto al teleologismo antropocentrico: si tratta della concezione meccanicistica, che riduce la realtà naturale a mera struttura di corpi in movimento, legati tra loro non mediante rapporti gerarchicamente ordinati in vista dei fini della natura, bensì in una concatenazione fondata sulle leggi generali del moto e, principalmente, sul nesso di causa-effetto. Le cause finali, che per secoli erano apparse lo strumento più idoneo per spiegare i fenomeni naturali, vengono ora escluse dall’indagine fisica, che viene progressivamente a concentrarsi invece sulle cause efficienti, cioè quegli eventi il cui accadere comporta il verificarsi di un effetto.

Scienza delle cause efficienti e inconoscibilità degli scopi divini In questo processo determinante è il ruolo di Galileo, che a più riprese stigmatizza come infondata e arrogante la pretesa degli uomini di potere arrivare a conoscere le essenze delle cose o gli scopi per i quali Dio le ha create, delimitando il campo dell’indagine fisica esclusivamente all’individuazione delle leggi generali, cioè le costanti di comportamento attraverso cui la natura agisce, e delle cause efficienti (vedi Unità 2, p. 102 ss.). Il Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632) rappresenta inoltre un documento prezioso dello scontro tra la nuova concezione e la vecchia mentalità, che trova espressione nelle osservazioni dell’aristotelico Simplicio. Simplicio e la difesa È proprio in nome del teleologismo antropocentrico che quest’ultimo è restio ad acdel modello cettare molti punti della nuova concezione dell’universo copernicana e galileiana. tolemaico-aristotelico Per esempio, l’enorme ampliamento delle dimensioni dell’universo rispetto a quelle supposte dagli antichi – affermato sia da Copernico sia da Galileo – è per Galileo e il meccanicismo

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Percorso tematico Meccanicismo o teleologia?

Salviati e la nuova scienza

Il riconoscimento dei limiti dell’intelletto umano

T1

Lo scontro tra due visioni del mondo

G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, 3

Analogia tra Cartesio e Galileo

La critica delle cause finali e la proposta di un nuovo metodo di indagine

Simplicio inammissibile, in quanto non si capisce di quale utilità potrebbe essere agli uomini un simile «spazio immenso»: Dio, che ha creato tutto per il nostro «beneficio», deve piuttosto avere disposto tutti i pianeti attorno alla Terra a distanze proporzionate agli effetti da produrre in essa. A questa e ad analoghe obiezioni Galileo replica, per bocca del copernicano Salviati, affermando che valutare le opere della natura con un metro umano – cioè sulla base di ciò che all’uomo torna utile o meglio sembra tornare utile – finisce per sminuire la potenza divina, allo scopo di renderla accessibile al nostro limitato intelletto. Galileo non nega la Provvidenza divina e nemmeno l’esistenza di un ordine teleologico divino, bensì semplicemente ritiene che la fede in quest’ultima – una volta riconosciutane l’imperscrutabilità – non sia affatto incompatibile con il riconoscimento della piccolezza e della marginalità dell’uomo all’interno dell’universo: non è, infatti, in contraddizione con l’onnipotenza divina pensare che nella creazione dell’universo Dio abbia agito non solo per il nostro utile, ma anche in vista di altri esseri o di scopi che sfuggono alla nostra comprensione. SIMPLICIO – […] non deviamo ammettere, nessuna cosa esser stata creata in vano ed esser oziosa nell’universo; ora, mentre che noi veggiamo questo bell’ordine di pianeti, disposti intorno alla Terra in distanze proporzionate al produrre sopra di quella suoi effetti per benefizio nostro, a che fine interpor di poi […] uno spazio vastissimo […], superfluo e vano? […] per comodo ed utile di chi? SALVIATI – Troppo mi par che ci arroghiamo, Sig. Simplicio, mentre vogliamo che la sola cura di noi sia l’opera adequata ed il termine oltre il quale la divina sapienza e potenza niuna altra cosa faccia o disponga; ma io non vorrei che noi abbreviassimo tanto la sua mano […]. So certo che niente si lascia indietro dalla divina Provvidenza di quello che si aspetta al governo delle cose umane; ma che non possano essere altre cose nell’universo dipendenti dalla infinita sua sapienza, non potrei per me stesso, per quanto mi detta il mio discorso, accomodarmi a crederlo […]; è temerità voler far giudice il nostro debolissimo discorso delle opere di Dio, e chiamar vano e superfluo tutto quello che dell’universo non serve per noi. Un’argomentazione analoga a questa è addotta anche da Cartesio, a sostegno della necessità di espungere la ricerca delle cause finali dall’indagine fisica (vedi Unità 3, p. 143 ss.): come si legge nella quarta meditazione metafisica, la considerazione dell’abisso tra la finitezza del nostro intelletto e l’infinità della natura divina – che rende per noi impenetrabili gli scopi di Dio – è una ragione sufficiente per ritenere che «tutto quel genere di cause, che si è soliti trarre dal fine, non è di nessun uso nelle cose fisiche o naturali». Per Cartesio, inoltre, nell’indagine fisica «non si deve mai argomentare a partire dal fine», in quanto non è affatto vero che le cause finali indicano l’essenza delle cose, come sostenuto dai seguaci della fisica aristotelica: «lo scopo di una cosa non ci fa conoscere anche la sua natura». All’essenzialismo e al finalismo della fisica tradizionale Cartesio contrappone un «metodo» di ricerca fondato sulla «spiegazione genetica» – consistente nell’individuazione delle condizioni in cui un fenomeno si è prodotto – e su una generale e rigorosa impostazione meccanicistica, che si sforza di descrivere tutto ciò che avviene nel mondo fisico senza ricorrere alle essenze aristoteliche o scolastiche, bensì utilizzando esclusivamente i parametri di «estensione» e «movimento», trattabili in modo matematico. 755

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Nel pensiero cartesiano questa universalizzazione della portata del meccanicismo a tutta la realtà naturale è fondata, a livello ontologico, sul dualismo sostanziale tra res cogitans e res extensa, che consente di svincolare la fisica e la fisiologia dalla metafisica tradizionale, innalzando la materia e il corpo al rango di sostanza, governata in modo autonomo dalle leggi del movimento. La mente e i limiti Lo stesso dualismo sostanziale segna, però, anche il limite oltre il quale non è delle spiegazioni possibile estendere la considerazione meccanicistica, in quanto esso esprime il meccanicistiche riconoscimento dell’esistenza di una fetta di realtà che, in quanto sostanza immateriale, non è sottoposta alle leggi del movimento: per questo motivo, la descrizione cartesiana dell’uomo-macchina si arresta alle soglie dell’anima e Cartesio – pur offrendo una spiegazione interamente meccanicistica del modo in cui si depositano nel cervello tracce materiali delle cose esterne – riconduce tuttavia, attraverso la ghiandola pineale, il sorgere delle idee vere e proprie esclusivamente alla res cogitans, il cui funzionamento non è ai suoi occhi spiegabile con cause meccaniche.

Il dualismo sostanziale di Cartesio

L’ipotesi di un universo senza scopo Hobbes e il monismo materialistico: la meccanica del mondo umano

La determinazione meccanica della volontà

La negazione della supremazia dell’uomo nel mondo naturale

L’assurdità dell’antropocentrismo

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A differenza di Cartesio, Hobbes – partendo da un radicale monismo materialistico, che ammette come sola realtà la sostanza corporea (vedi Unità 6, p. 339 ss.) – giunge invece ad assumere il «movimento» come causa unica e universale di tutti i fenomeni, compresi quelli psichici, fino alle funzioni intellettuali. Sulla base di questi presupposti, egli offre una spiegazione meccanicistica non solo degli enti naturali, ma anche delle formazioni sociali, concepite come meccanismi regolati dalle leggi del movimento corporeo. Il monismo materialistico hobbesiano funge inoltre da base per un rifiuto del finalismo della fisica tradizionale ancora più radicale rispetto a quello formulato da Galileo e da Cartesio. In primo luogo, Hobbes riduce le «cause finali» alle «cause efficienti». Nell’antropologia materialistica hobbesiana, il fine – cioè la «causa che fa sì che vogliamo o non vogliamo qualcosa» – risulta essere nient’altro che il movimento di uno o più corpi esterni, che provoca in maniera necessaria nei nostri organi un movimento che, una volta giunto al cuore, determina in modo altrettanto necessario la nostra volontà a volere o a non volere una cosa. Questa concezione meccanicistica della deliberazione volontaria e la conseguente negazione del libero arbitrio sottraggono al finalismo antropocentrico uno dei suoi argomenti centrali: la tesi secondo la quale il libero arbitrio, innalzando l’uomo al di sopra di tutte le altre creature, lo renderebbe l’unico degno scopo del creato. Muovendo dalla propria antropologia materialistica e meccanicistica, Hobbes non solo rifiuta la concezione della libertà come libero arbitrio, ma pone radicalmente in discussione la tesi di una superiorità ontologica degli uomini rispetto agli animali, tale da giustificarne una posizione di preminenza all’interno della natura, che egli ritiene tra l’altro smentita dall’esperienza: ben lungi dal mostrarci un uomo che domina incontrastato sulla natura, quest’ultima ci offre piuttosto – nella prospettiva hobbesiana – il triste spettacolo di esseri umani che devono continuamente lottare per la loro sopravvivenza con animali più forti e feroci. Tenuto conto di ciò, inferire che le cose della terra siano state create da Dio per il nostro utile partendo dalla semplice constatazione che gli uomini se ne servo-

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Percorso tematico Meccanicismo o teleologia?

no, appare altrettanto assurdo quanto concludere che, dal momento che i lupi e le altre bestie feroci si nutrono degli uomini, allora questi ultimi esistono soltanto per essere divorati.

T2

In primo luogo, chi non vede che non è valido l’argomento secondo il quale «l’uomo si serve della terra, dunque l’uso da parte degli uomini è il solo fine, in vista del quale la terra è stata creata»? Sulla base dello stesso ragionamento qualcuno potrebbe dire: «I leoni, gli orsi, i lupi e gli altri animali si nutrono con ferocia della carne umana, uccidono gli uomini, i cavalli, i buoi, etc., e dunque Dio ha creato gli uomini, i cavalli e i buoi per lo scopo di essere divorati dai leoni, dagli orsi, dai lupi, etc.» […]. Inoltre l’uomo non domina sui leoni, sugli orsi, etc. come l’autore [scilicet: White] ritiene, bensì conduce una guerra contro di essi, e per diritto di guerra l’uomo uccide l’orso e l’orso uccide l’uomo.

La contraddittorietà intrinseca del finalismo

Hobbes si spinge inoltre ancora più avanti, giungendo ad affermare che la stessa nozione di «fine» appare contraddittoria, in riferimento alla creazione divina: una volta ridotte le cause finali alle cause efficienti – che sono sempre anteriori all’effetto – affermare che Dio ha creato il mondo al fine di servire gli uomini o per un qualsiasi altro scopo equivale ad assumere qualcosa di precedente alla volizione divina, cioè qualcosa di anteriore all’eternità, in modo evidentemente contraddittorio. A differenza di Galileo – che aveva rigettato il finalismo sulla base dell’argomento dell’imperscrutabilità degli scopi divini – Hobbes adombra così la tesi che Dio non possa porsi degli scopi, in completa rottura con la tradizione religiosa giudaico-cristiana. In Hobbes questa concezione eversiva della divinità, discendente dai presupposti della propria filosofia materialistica, non riceve, però, una elaborazione sistematica e convive con la convinzione fideistica che Dio, in quanto ingenerato, non possa essere oggetto della scienza – identificata con la rigorosa conoscenza degli effetti mediante le loro cause e viceversa – bensì possa essere solo creduto, sulla base della testimonianza del dato rivelato. Anche la critica hobbesiana della concezione finalistica della creazione divina si conclude, in modo ambiguo, con l’affermazione che occorre riconoscere che si tratta di una tesi che non può «essere conosciuta a partire dalla natura delle cose», bensì solo «creduta sulla base della Sacra Scrittura». Quest’ambiguità viene quasi completamente meno in Spinoza, che offre una confutazione rigorosa della concezione giudaico-cristiana di Dio come Ente personale trascendente dotato di intelletto e volontà, alla quale contrappone l’identificazione – sia pure mai del tutto compiuta – tra il Dio-Sostanza infinita e la Natura, intesa come ordine necessario ed eterno, determinato in maniera necessaria dalla legge di causa-effetto (vedi Unità 5, p. 238 ss.). Il coronamento di questa nuova teoria della divinità è la confutazione del finalismo teologico e antropocentrico, cui è dedicata l’Appendice posta non a caso in chiusura della prima parte dell’Etica, cioè la parte Su Dio. La ragione del successo duraturo di una simile visione del mondo è ricondotta da Spinoza all’ignoranza umana delle cause efficienti di tutte le cose – comprese le volizioni – e all’azione dell’immaginazione: gli uomini che, in virtù di questa ignoranza, sono portati a credere di agire solo sulla base di cause finali, proiettano infatti la propria esperienza sulla natura e sulla sua Causa Prima, giungendo così a immaginare che il mondo sia stato creato per i loro scopi da un Dio, mosso a sua volta dal fine di essere adorato.

L’uomo non domina sugli animali

T. Hobbes, Critique du «De Mundo» de Thomas White, 37, par. 2

L’impossibilità di un Dio che agisce secondo scopi

La scissione tra ragione e fede

Spinoza e l’identificazione tra Dio e Natura

L’illusione del finalismo

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Secondo questa genealogia, la concezione teleologica risulta dunque essere un semplice frutto dell’immaginazione, la cui falsità è dimostrata da Spinoza innanzitutto attraverso il richiamo ai caratteri essenziali della causalità della Sostanza, immanente e necessaria: l’azione secondo un fine presuppone un’intelligenza e una volontà che il Dio-Sostanza non ha, pur essendo sia questa sia quella effetti necessari della sua attività, al pari di tutte le cose naturali. La mancanza di fini Inoltre, l’idea che Dio abbia creato in vista di uno scopo sarebbe in contraddinel Dio-Natura zione con la sua perfezione, nel senso che a lui mancherebbe qualcosa che è conseguito solo grazie al raggiungimento dello scopo. La stessa cosa vale per la natura, che solo a giudicare secondo l’umana immaginazione si prefigge fini quando genera uomini o ragni, mentre, con intrinseca necessità e somma perfezione, produce senza scopo tutte le cose, ognuna delle quali è perfetta nel suo genere.

Intelligenza e volontà divine come effetti necessari

2 Meccanicismo e ortodossia religiosa

Il ruolo limitato di Dio nella cosmologia cartesiana

La critica di Newton a Cartesio

Newton e la necessità di un elemento teleologico nel cosmo

Leibniz e il recupero del finalismo

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Sviluppi della nuova scienza e recupero del finalismo La diffusione del meccanicismo destò fin dal principio numerose preoccupazioni sulle sue possibili conseguenze teologiche, che colpirono non solo personaggi la cui religiosità ortodossa poteva effettivamente essere messa in discussione – come Hobbes e Spinoza – ma anche lo stesso Cartesio, che pure non aveva mai lasciato nel dubbio di essere un credente cattolico. Pur restando aderente alla concezione tradizionale della divinità come Ente personale trascendente e spirituale, anche Cartesio aveva, infatti, posto dei confini all’intervento di Dio nell’universo fisico: in conseguenza del dualismo sostanziale tra res cogitans e res extensa, nella fisica cartesiana l’azione divina risulta limitata esclusivamente alla creazione della materia e all’attribuzione ad essa del movimento, mentre è affidata all’efficacia delle cause seconde – cioè le leggi fondamentali del moto – sia la produzione dell’organizzazione del cosmo, sia il funzionamento di questa grande macchina, a costruzione compiuta. Questa tesi procurò a Cartesio non solo la diffidenza delle gerarchie ecclesiastiche e civili, ma anche l’opposizione di uno dei principali fautori della nuova scienza, cioè Newton, che pervenne a rifiutare il meccanicismo cartesiano – fondato sull’identificazione tra estensione e materia – non da ultimo anche per la preoccupazione teologica di contrastare il drastico ridimensionamento dei margini d’azione della Provvidenza divina implicato dalla fisica cartesiana. A differenza di Cartesio, Newton è convinto che il «Sistema del mondo» non solo presupponga alla sua origine una causa trascendente dotata di intelletto e agente secondo un disegno prestabilito, ma richieda anche, per potere continuare a funzionare, il continuo intervento di un Dio provvidente. Secondo Newton, infatti, la meccanica, per quanto fondamentale, non riesce a spiegare tutto: per questo motivo, occorre ammettere l’esistenza di un agente vitale, che media l’azione continua di Dio nel mondo, introducendo nei fenomeni naturali un ordine teleologico (vedi Unità 8, p. 477). Particolarmente importante è la posizione assunta in questo dibattito da Leibniz che – pur considerando come indegna della perfezione divina l’idea di un Dio che debba di continuo intervenire per garantire il funzionamento della sua opera – contribuisce in maniera determinante al recupero del finalismo, sforzandosi di conciliare spiegazione meccanicistica e spiegazione finalistica (vedi Unità 5, p. 294).

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Percorso tematico Meccanicismo o teleologia? La conciliazione tra meccanicismo e finalismo

La causalità efficiente come espressione del disegno divino

Il migliore dei mondi possibili e la funzione euristica del finalismo

T3

Il valore del finalismo come principio euristico

G.W. Leibniz, Nuovo sistema per spiegare la natura delle sostanze

Queste due prospettive non sono per Leibniz in contraddizione, in quanto riguardano piani diversi, per quanto congiunti: la fisica e la metafisica. I principi meccanicistici sono perfettamente adeguati nella fisica, che per Leibniz può e deve procedere per via sperimentale, in maniera indipendente rispetto alla metafisica, in quanto indaga non le «sostanze» soggiacenti alla realtà, bensì solo «fenomeni ben fondati». Tuttavia, così come non è possibile capire un qualsiasi strumento meccanico se non in rapporto al progetto per il quale è utilizzato, allo stesso modo è impossibile comprendere pienamente l’universo, se non si fa riferimento a un’intelligenza che conferisce ordine alle cose del mondo secondo un fine. Occorre dunque spostarsi a un livello di ricerca differente e superiore – cioè al livello della metafisica, avente per oggetto lo studio delle «sostanze» – a partire dal quale emerge come le «cause efficienti» in realtà dipendano dalle «cause finali»: nell’ontologia leibniziana, infatti, la connessione dei fenomeni secondo il principio della causalità efficiente (il cosiddetto principio di «ragione sufficiente») non è altro che l’espressione del disegno divino cui rispondono le «entelechie» o «forme sostanziali», cioè le «forze» o i principi di attività interna che contraddistinguono in maniera unica e irripetibile ogni sostanza individuale, orientandola alla realizzazione del suo fine interno. Identificando il progetto divino sottostante alle «entelechie» con la realizzazione del migliore dei mondi possibili – inteso nel senso di universo massimamente armonico, contraddistinto cioè da semplicità e varietà –, Leibniz fa del principio della massima perfezione possibile la «causa finale» di tutte le creature. Il presupposto di un disegno della natura in favore della semplicità delle leggi – che è componente essenziale dell’armonia – può inoltre secondo Leibniz aiutare lo scienziato a scoprire verità che difficilmente verrebbero intraviste attraverso la via lunga della catena delle cause: alla prospettiva finalistica va dunque riconosciuta anche una funzione euristica, interna alla scienza stessa. Ritengo pure che il concetto del bene o della causa finale, per quanto contenga in sé alcunché di morale, si possa anche impiegare utilmente nella spiegazione dei fenomeni naturali; poiché l’autore della natura agisce secondo il principio dell’ordine e della perfezione, con una saggezza alla quale nulla si può aggiungere; e ho mostrato altrove [scilicet: il Discorso di metafisica], a proposito della legge generale dell’irraggiamento della luce, come il principio della causa finale basti spesso a scoprire i segreti della natura, finché non se ne sia trovata la causa prossima efficiente, che è più difficile a scoprirsi. Il riferimento a fini nell’ordine della natura, dunque, lungi dal rappresentare un ostacolo per le spiegazioni fisiche, rappresenta secondo Leibniz uno strumento concettuale utile e legittimo.

3

Meccanicismo e teleologia nella filosofia kantiana La «rivoluzione copernicana» effettuata da Kant in filosofia si riflette anche sul modo di intendere il rapporto tra meccanicismo e finalismo, che egli imposta in maniera completamente nuova rispetto alla tradizione, sganciando la questione da ogni riferimento alle intenzioni divine e al piano delle essenze o sostanze. 759

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Parte seconda Il secolo dei lumi

La fondazione trascendentale del meccanicismo Kant e il modello della scienza moderna

La critica kantiana della fisica sostanzialistica

La restrizione della conoscenza al campo fenomenico

La sostituzione della metafisica tradizionale con l’ontologia trascendentale

La difesa del carattere necessario e universale della conoscenza scientifica

Le posizioni di Hume e di Kant sul principio di causalità

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Nella Critica della ragion pura, Kant sviluppa coerentemente e fino alle estreme conseguenze il ruolo di modello assunto dalla moderna scienza fisico-matematica in relazione alla conoscenza della natura. Si è visto che questa aveva spostato il centro dell’indagine fisica dall’essenza delle cose alle condizioni del prodursi degli eventi spazio-temporali, riconducibili a leggi di relazioni, come la legge di causa-effetto. I pensatori esaminati fino a questo punto avevano riconosciuto questo cambiamento, conservando però in qualche modo l’ancoraggio delle relazioni che costituiscono i fenomeni naturali a un sostrato sostanziale, seppure non considerato nella scienza fisica: la res extensa cartesiana, il Dio «sostanza infinita» di Spinoza o le «forme sostanziali» dell’ontologia leibniziana. In seguito alle critiche sulla conoscibilità della sostanza e sulla sostanzialità degli oggetti e del soggetto sollevate da Locke e da Hume – e corroborate dall’incapacità della metafisica tradizionale di giungere a risultati condivisi – un simile modo di procedere risulta non più percorribile agli occhi di Kant. Per questo motivo, egli si risolve a spezzare in maniera recisa ogni legame tra la fisica e la visione sostanzialistica, escludendo dal campo della nostra conoscenza le cose come sono in se stesse – indipendentemente cioè dalle forme soggettive attraverso le quali vengono recepite – e circoscrivendolo ai «fenomeni», che nel linguaggio kantiano indicano tutto ciò che si manifesta attraverso lo spazio e il tempo, forme a priori della nostra intuizione sensibile. Ciò equivale a sostenere che, al di fuori o meglio alle spalle delle relazioni indagate dalla moderna scienza fisico-matematica, non vi è alcun sostrato sostanziale cui riferirle: il mondo fenomenico, cioè tutto ciò che si presenta alla nostra intuizione sensibile, non contiene, infatti, nient’altro se non semplici rapporti, consistenti nei rapporti di luogo, nel movimento e nelle leggi generali secondo le quali questo può essere determinato (vedi Unità 14, p. 666 ss.). Il fatto che Kant neghi la possibilità di ancorare la fisica moderna in una visione sostanzialistica non significa affatto, però, che egli rinunci al progetto di offrire una fondazione filosofica della nuova scienza, perseguito dai principali protagonisti del pensiero moderno, a partire da Cartesio. Semplicemente, egli è convinto che un simile compito possa essere realizzato con successo solo sostituendo la vecchia ontologia – fondata sulla pretesa di poter dire cosa sono le cose in se stesse – con una «nuova ontologia» trascendentale, consistente nell’indagine sui modi generali e inevitabili attraverso i quali noi rappresentiamo gli oggetti, che sono al tempo stesso i caratteri a priori che ogni fenomeno deve necessariamente avere, se deve essere un «oggetto per noi». Individuando dei principi a priori attraverso i quali tutti gli uomini recepiscono i fenomeni – cioè le forme a priori della nostra conoscenza – è possibile, infatti, fondare su basi nuove quell’universalità e necessità, che sono requisiti essenziali della conoscenza scientifica. È questa per Kant l’unica strategia efficace per contrastare i possibili esiti scettici ai quali la critica del sostanzialismo era giunta con Hume che – partendo dall’affermazione dell’origine empirica di tutte le nostre conoscenze, compreso il principio di causalità – era giunto a mettere in discussione la possibilità di una scienza della natura universalmente valida e necessaria. Kant riconosce, con Hume, che nulla ci autorizza ad asserire che la causalità efficiente sia un rapporto fondato nelle cose come sono in sé. Hume aveva però sostenuto che essa fosse un mero principio empirico – ricavato dalla reiterata os-

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Percorso tematico Meccanicismo o teleologia?

Il principio di causalità come presupposto della possibilità dell’esperienza

servazione di eventi presentatisi in una successione temporale, e dunque privo di certezza assoluta – al quale gli uomini sono portati ad attribuire una validità universale, anche in riferimento al futuro, semplicemente sulla base di una «credenza» frutto dell’abitudine. Al contrario, per Kant la causalità efficiente, ben lungi dall’essere ricavata dall’osservazione empirica di eventi in successione, risulta piuttosto come il presupposto senza il quale non potremmo avere nessuna esperienza di una serie temporale di eventi. La causalità è, infatti, per Kant uno dei concetti puri o «categorie» del nostro intelletto, ed in quanto tale è dotata di validità universale e al tempo stesso anche oggettiva, nella misura in cui – come è dimostrato nella deduzione trascendentale – noi non potremmo percepire nessun oggetto, senza l’azione unificatrice dell’«io penso» mediante le categorie. Riferita all’intuizione pura del tempo, attraverso lo schematismo trascendentale dell’immaginazione, la categoria di causalità si traduce poi in uno dei «principi» fondamentali dell’intelletto puro, cioè in una delle regole presupposte allo svolgimento dell’esperienza, ossia indispensabili per svolgerla: la seconda analogia dell’esperienza, stando alla quale «tutti i mutamenti nel tempo accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto». Il principio della causalità efficiente risulta così incluso tra le conoscenze sintetiche a priori che per Kant costituiscono la «fisica pura».

Una teleologia naturale svincolata dalla teologia Il recupero del finalismo

Il tentativo di colmare la distanza tra la necessità fisica e la libertà morale

La ricerca di un principio guida della facoltà di giudizio

La teleologia del «come se»

Dopo avere offerto una rigorosa fondazione trascendentale della concezione meccanicista del mondo fisico, nella Critica della facoltà di giudizio Kant si sforza di legittimare – sempre attraverso il metodo trascendentale – la possibilità di utilizzare il principio teleologico nelle scienze della natura, svincolandolo da ogni ancoraggio metafisico e teologico. Kant intraprende questo compito mosso innanzitutto dall’esigenza di ridurre l’«abisso» tra il mondo fenomenico – retto dalla ferrea necessità della legge di causa-effetto – e il «regno della libertà» dischiuso all’uomo dalla legge morale: una distanza eccessiva tra i due mondi, corrispondenti rispettivamente al modo di pensare dell’intelletto (ambito conoscitivo) e a quello della ragione (ambito pratico), avrebbe infatti rischiato di rendere incomprensibile la possibilità di realizzare gli scopi posti all’uomo dalla ragion pratica all’interno del mondo naturale. Vi sono, però, anche delle difficoltà interne alla scienza della natura – rimaste irrisolte nella Critica della ragion pura – che inducono Kant a interrogarsi sulla possibilità di un uso legittimo del concetto di «fine» in riferimento alla natura. La prima difficoltà è la necessità di individuare un principio trascendentale in grado di fondare la possibilità della classificazione dei fenomeni naturali e della progressiva comprensione di questi ultimi sotto leggi empiriche all’interno di un sistema unitario. I principi a priori dell’intelletto stabiliscono, infatti, solo leggi generalissime – come quella di causa ed effetto – lasciando del tutto indeterminato come la facoltà di giudizio debba orientarsi nel suo uso riflettente, cioè quando procede dal particolare all’universale, sforzandosi di arrivare alla formazione di leggi e concetti universali partendo dalla molteplicità dei fenomeni e delle leggi empiriche. Per non brancolare nel buio, la facoltà di giudizio necessita, nelle sue ricerche, di un principio non tratto dall’esperienza, che indichi in anticipo non il risultato 761

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Il valore euristico del riferimento a scopi

La teleologia nella comprensione degli organismi naturali

Il finalismo interno alla capacità di giudizio

La conciliazione tra meccanicismo e finalismo nella prospettiva kantiana

Il finalismo e la totalità dei fenomeni naturali

Una teleologia senza presupposti teologici

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– attingibile solo attraverso l’indagine empirica – ma come cercarlo. Per questo motivo, Kant introduce un principio a priori peculiare della facoltà di giudizio, consistente proprio nell’idea di «conformità a scopi», in base alla quale la natura viene pensata «come se» fosse stata progettata da un intelletto per essere conosciuta da noi. Così facendo, Kant non attribuisce realmente scopi alla natura: il meccanicismo resta l’unico principio di conoscenza, nella misura in cui – come egli tiene a precisare – il principio della conformità a scopi non ha il valore costitutivo proprio delle categorie attraverso le quali l’intelletto costruisce gli «oggetti» della nostra esperienza; si tratta piuttosto unicamente di un principio euristico, attraverso il quale la facoltà di giudizio regola il proprio modo di riflettere sulla natura e di procedere nella ricerca. Questo presupposto consente a Kant di risolvere la seconda difficoltà fondamentale della scienza della natura lasciata irrisolta dalla Critica della ragion pura, cioè la comprensione degli organismi naturali, contraddistinti da un evidente finalismo interno, inspiegabile con i semplici principi del meccanicismo: in essi, infatti, ogni parte esiste per mezzo delle altre e in vista del tutto, secondo un’auto-organizzazione e un rapporto funzionale che non sono pensabili se non presupponendo uno scopo della natura stessa. Una simile finalità oggettiva della natura non può secondo Kant essere stabilita a priori, ma risulta ammissibile proprio alla luce del principio a priori della facoltà di giudizio, secondo il quale la natura è pensata come in accordo con la nostra capacità di giudicarla: senza ammettere che in una creatura organica tutto risponde a uno scopo della natura, la ricerca biologica sarebbe infatti impossibile, in quanto priva di qualsiasi filo conduttore. Nella prospettiva kantiana, la considerazione teleologica della natura così ammessa non è in contraddizione o in concorrenza con quella meccanicistica, in quanto – al pari del principio a priori della «conformità a scopi» – anche il concetto di una finalità oggettiva della natura concerne solo la facoltà riflettente di giudizio, e dunque ha unicamente il valore «regolativo» di principio euristico, che autorizza la ricerca di connessioni finalistiche in quei casi nei quali saremmo privi di ogni altro criterio. L’ammissione del principio finalistico non esime dunque, ma impegna anzi a spiegare meccanicamente fin quando possibile i fenomeni della natura, permettendo però di pensare in base all’analogia con scopi intenzionali prodotti naturali che altrimenti non potremmo neanche sottoporre a indagine. Sia pure con qualche oscillazione, in realtà Kant si spinge anche oltre, affermando che la finalità interna della natura riscontrabile nei corpi organizzati ci autorizza a considerare in una prospettiva teleologica la totalità dei fenomeni naturali – compresi quelli spiegabili attraverso il solo meccanicismo – in modo da arrivare a considerare l’intera natura come un sistema di scopi, dove ogni cosa esiste in funzione di un’altra. Anche in questa dimensione allargata, il principio teleologico mantiene però il valore esclusivamente euristico di massima per considerare le cose della natura «come se» tutto servisse a qualcosa nel mondo, senza attribuire davvero alla natura una intenzione. Il concetto di «conformità a scopi» su cui è incentrata la teleologia naturale kantiana – cioè la finalità interna degli organismi naturali – non è inoltre un concetto teologico, in quanto non deduce la finalità naturale dall’esistenza di un Dio buono e saggio né rinvia a un essere sovrannaturale, in quan-

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Percorso tematico Meccanicismo o teleologia?

to considera unicamente la natura stessa – cioè la materia – come se fosse dotata di scopo, sulla base della mera osservazione empirica dei corpi organizzati. In questo modo, Kant riesce a svincolare la propria teleologia naturale da ogni fondamento metafisico, nel chiaro e deliberato intento di prevenire le nocive intromissioni della vecchia metafisica nelle scienze della natura.

T4

Lo scopo della natura non è uno scopo divino I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, 2,1, par. 68

Se si introduce il concetto di Dio per la scienza della natura nel suo contesto, per rendersi spiegabile la conformità della natura a scopi, e poi a sua volta si usa questa conformità a scopi per provare che vi è un Dio, allora non c’è un’interna consistenza in nessuna delle due scienze […]. L’espressione «scopo della natura» già previene abbastanza questa confusione perché la scienza della natura, e l’occasione che essa dà per un giudizio teleologico dei suoi oggetti, non sia mischiata con la considerazione di Dio e quindi con una derivazione teologica; e non si deve considerare insignificante se, nell’ordinamento della natura, si scambia quell’espressione con quella di scopo divino […]; ci si deve invece limitare con cura e con modestia a quell’espressione che ci dice proprio solo quel tanto che noi sappiamo, cioè all’espressione scopo della natura.

In questa cornice, Kant può attribuire un significato nuovo anche all’antropocentrismo, che per secoli aveva caratterizzato il finalismo nella tradizione di pensiero occidentale. Nella teleologia kantiana – che non concepisce come «reali» gli scopi della natura, bensì li assume come un mero principio euristico – l’uomo non è, infatti, lo scopo ultimo della natura «di fatto», ma può semplicemente essere «pensato» come tale; e questo non perché materialmente si possa mostrare che tutto tenda in suo favore – cosa che è, al contrario, quotidianamente smentita dall’esperienza – bensì piuttosto in quanto l’uomo è formalmente il luogo in cui i fini possono giungere a unità: soltanto l’uomo è, infatti, dotato di quella capacità di porre fini consapevoli, che costituisce il presupposto indispensabile per fare di finalità disperse un sistema. La capacità umana Questo implica anche che l’uomo come ente capace di porsi scopi – capacità che di porre scopi secondo Kant denomina «cultura» – è uno scopo ultimo soltanto in modo condizionato, ragione cioè esclusivamente alla condizione di utilizzare la sua capacità di conferire un senso complessivo al resto, di stabilire uno «scopo finale» che vada al di là dei fini naturali riassunti sotto l’etichetta di «felicità»: scopo finale coincidente con quello indicato universalmente a tutti gli esseri umani dalla ragion pratica.

Un nuovo significato per l’antropocentrismo

I brani antologizzati sono tratti da: G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, a cura di L. Sosio, Einaudi, Torino 2002, p. 219. T. Hobbes, Critique du «De Mundo» de Thomas White, éd. critique d’un texte inédit par J. Jacquot et H. Whitmore Jones, Vrin, Parigi 1973. G.W. Leibniz, Nuovo sistema per spiegare la natura delle sostanze. Primo abbozzo, 1695, trad. in Id., La monadologia, preceduta da un’esposizione antologica, a cura di E. Colorni, Sansoni, Firenze 1934, p. 71. I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, trad. a cura di E. Garroni, Einaudi, Torino 1999.

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Questionario 1

Illustra i tratti caratterizzanti della concezione meccanicistica dell’universo in quanto contrapposta a quella finalistica. (max 6 righe)

2

Qual è il nesso tra finalismo e antropocentrismo? (max 5 righe)

3

Che atteggiamento assume Galileo rispetto alla concezione finalistica del cosmo? (max 4 righe)

4

Quale atteggiamento tra quello di Simplicio e quello di Salviati – così come emergono in T1 – ti sentiresti di caratterizzare come più umile verso Dio? Perché? (max 5 righe)

5

Su quale assunto metafisico di base è fondato il meccanicismo cartesiano? (max 4 righe)

6

Quali caratteri assume il meccanicismo nella filosofia di Hobbes? (max 5 righe)

7

Su che genere di argomento poggia la critica di

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Hobbes all’antropocentrismo esposta in T2? (max 6 righe) 8

Su cosa si basa la critica del finalismo teologico avanzata da Spinoza? (max 6 righe)

9

Quali vantaggi esplicativi offre il riferimento a una finalità della natura, secondo quanto asserito da Leibniz in T3?

10

In che senso Kant intende fornire una fondazione della fisica alternativa rispetto alle precedenti costruzioni metafisiche? (max 7 righe)

11

Che forma e che ruolo acquista il finalismo nell’ambito della fondazione kantiana delle scienze della natura? (max 7 righe)

12

Come giustifica Kant in T4 la distinzione tra il riferimento a scopi divini e il riferimento a scopi della natura? (max 5 righe)

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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana DOVERE 1. I sensi del «dovere» Il termine «dovere» ricorre con grande frequenza nel nostro linguaggio quotidiano. Anche soltanto dal punto di vista grammaticale, «dovere» può essere sia un verbo, sia un sostantivo. Se usiamo il termine come verbo, esso può essere usato in almeno due modi, come emerge da espressioni diverse come «Tutti dobbiamo morire» oppure «Dobbiamo dire la verità». Funzione descrittiva Nel primo caso, ciò che viene espresso è una necessità naturale dovuta alla nostra costituzione fisica: si tratta di una necessità alla quale non possiamo sottrarci, completamente indipendente dalle nostre scelte e dai nostri desideri. Che noi si voglia o non si voglia, la fisiologia degli esseri umani (e degli esseri animali in generale) è tale che la vita di ciascuno di essi ha un termine, chiamato «morte». Non siamo di fronte a una regola di condotta di nessun tipo: l’uso del verbo «dovere» svolge qui la funzione di descrivere una specifica caratteristica naturale dell’uomo. Funzione prescrittiva Nel secondo caso, quando si pronuncia l’espressione «Dobbiamo dire la verità», il significato dell’espressione e del verbo «dovere» è profondamente diverso: intendiamo dire, cioè, che dobbiamo dire la verità, ma che abbiamo anche la possibilità di non farlo. È possibile cioè sottrarsi a quello che dobbiamo fare. Il verbo «dovere» indica in questo caso una regola di condotta, cioè una prescrizioDovere implica potere ne. E una prescrizione è sensata soltanto se è possibile seguirla, come afferma il principio per cui «dovere implica potere»: per poter dire che qualcuno deve fare qualcosa nel senso che gli o le è prescritto di fare quella cosa, questo qualcuno deve anche poterlo fare. Sarebbe del tutto privo di senso prescrivere a qualcuno di compiere un’azione che non è in grado di fare: se ha senso prescrivere a qualcuno «devi dire la verità», perché ha la capacità di dire la verità, è invece insensato prescrivere «devi correre i 100 metri in 3 secondi netti», se non è possibile che la prescrizione venga seguita. Per questo «dovere implica potere»: si può dover fare solo ciò che si è in grado di fare. Qui ci occupiamo solo del significato prescrittivo del termine «dovere», e in particolare del significato per cui c’è una corrispondenza tra il termine «dovere» usato come verbo e il termine «dovere» usato come sostantivo. 2. Le sfere del dovere Sfera morale, giuridica, Al termine «dovere» come verbo che dà una regola di condotta, o che prescrive, dell’etichetta corrisponde il sostantivo «dovere» o «obbligo»: dire a qualcuno che deve dire la verità corrisponde a dire che è un suo dovere farlo. Ma l’ambito del dovere non comprende soltanto il significato morale del termine: «dovere» può essere infatti usato in tre diversi contesti, che sono 1) quello della morale, come nel dovere di dire la verità; 2) quello del diritto, come nel dovere di pagare le tasse; e infine anche, 3) il particolare contesto delle «buone maniere», o dell’etichetta, come nel dovere di usare certe forme di comportamento esteriore, che possono consistere nel765

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Parte seconda Il secolo dei lumi

Distinzioni tra diritto e morale: maggiore importanza dei doveri morali rispetto ai doveri giuridici

Quattro domande sul dovere morale

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l’indossare una cravatta o nel ringraziare qualcuno. Tutti e tre questi usi del termine «dovere» del linguaggio quotidiano sono interessanti per il modo in cui parliamo della condotta nostra e altrui, e sono usi che in alcune occasioni si intersecano, per cui ci sono doveri morali che sono anche giuridici (per esempio: non usare violenza ad altri esseri umani) e ci sono doveri di etichetta che possono risultare rilevanti anche dal punto di vista morale (per esempio di chi si rivolga in modo particolarmente scortese verso i suoi simili, o verso i bambini, e così via…). I contesti più importanti nei quali usiamo la parola «dovere» sono comunque quello morale e quello giuridico, che sono anche ritenuti normalmente i tipi di doveri più cogenti. L’importanza dipende dal fatto che questi doveri riguardano aspetti importanti della vita in generale e della vita sociale in particolare. Ma vediamo come i doveri morali possano essere distinti dai doveri giuridici. Dato che abbiamo parlato dell’importanza dei doveri morali e dei doveri giuridici, è il caso di sottolineare che i doveri morali – quando si intendano in modo moderno, ovvero in quanto principi liberamente assunti come propri – sono considerati più importanti dei doveri giuridici, tanto che in alcuni casi può essere un dovere morale violare un dovere giuridico che confligga con i nostri princìpi (per cui è possibile che si rifiuti, per esempio, di andare in guerra, o di denunciare qualcuno perché appartenente a una certa etnia, e così via). Una maggiore importanza, quindi, è un primo tratto distintivo del dovere morale rispetto al dovere giuridico. Una seconda caratteristica distintiva è la volontarietà delle violazioni che vengono disapprovate moralmente: nel caso che io danneggi senza intenzione un altro individuo, non vengo sottoposto a disapprovazione morale, mentre dal punto di vista del dovere giuridico sono considerato responsabile di ciò che ho causato (seppure, nella maggior parte dei casi, con l’attenuante, appunto, della involontarietà). Una terza caratteristica distintiva è il fatto che in ambito giuridico le norme divengono valide, o invalide, in un momento temporale determinato (per esempio: una legge è valida dal 1° gennaio 2005), ed è solo da allora che si ha il relativo dovere giuridico, mentre suonerebbe bizzarro fare un ragionamento analogo dal punto di vista del dovere morale e sostenere, per esempio, che a partire da una certa data una certa azione è un dovere morale o è un’azione moralmente vietata (per esempio: dal 1° gennaio 2005 è moralmente giusto aiutare chi è in difficoltà). Infine una caratteristica distintiva molto importante che distingue il dovere morale dal dovere giuridico è la diversa natura della sanzione nei confronti di chi violi un dovere giuridico o un dovere morale. Nel caso di un dovere giuridico, la violazione ha per conseguenza una sanzione di tipo fisico (che può andare da una sanzione amministrativa, come una multa, a una sanzione penale, come il carcere), mentre nel caso della violazione di un obbligo morale la sanzione non è di tipo fisico, ma viene espressa nella disapprovazione da parte degli altri e, secondo alcuni, anche nella disapprovazione come rincrescimento che si può provare verso se stessi per avere violato un dovere morale che si riconosca come valido. 3. Il dovere morale Soffermiamoci ora sul dovere morale, e poniamoci alcune domande su questo tipo di dovere. Chiediamoci quindi: 1) come possiamo riconoscere i nostri doveri morali; 2) se il dovere morale è un dovere che deve essere rispettato in ogni caso o se deve essere rispettato soltanto perché rispettarlo ha conseguenze positive; 3) chi sono i destinatari dei doveri morali; 4) se i doveri morali possano entrare in conflitto tra loro.

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Laboratorio sul lessico Dovere Fondamenti assoluti o relativi?

Principi inderogabili o conseguenze positive?

Doveri verso chi?

Conflitti tra doveri

La prima domanda riguarda il modo in cui possiamo riconoscere i nostri doveri morali: a cosa si può affidare la nostra convinzione che il nostro principio morale è giusto? Si tratta della conoscenza di un principio assoluto e oggettivo che tutti dovrebbero condividere o di una nostra percezione soggettiva che appartiene a noi e che potrebbe avere origine nei nostri sentimenti, o magari nella comunità alla quale apparteniamo? Tutte e due le soluzioni hanno un problema: la prima non riesce a spiegare come si possano avere opinioni diverse su questioni morali importanti come, per esempio, l’aborto o l’eutanasia, e chi possa decidere chi ha ragione, la seconda sembra condannare la morale a una questione di punti di vista soggettivi, e quindi relativi. Pensando al motivo per cui un dovere morale debba essere rispettato ci troviamo di fronte ad almeno due soluzioni. La prima soluzione ritiene che un dovere morale deve essere rispettato perché certi princìpi o certe regole devono essere sempre rispettati, anche quando questo abbia conseguenze negative. Con questa soluzione, mi potrei trovare di fronte al problema di un’eccezione al principio – per esempio – di non danneggiare gli altri, nel caso che danneggiare qualcuno fosse il solo mezzo per salvare qualcun altro. Di solito, infatti, noi accettiamo l’idea di intervenire in difesa di una persona aggredita anche danneggiando l’aggressore, oppure accettiamo l’idea di mentire se questo può avere conseguenze molto positive per qualcuno. La seconda soluzione suggerisce che il principio di non danneggiare gli altri sarebbe valido soltanto se le conseguenze complessive di questo nostro rispetto per il principio fossero buone: in questo caso, non ci sarebbe il problema visto nella soluzione precedente, dato che sarebbe sempre possibile danneggiare qualcuno per avere conseguenze positive (salvare l’aggredito). Ma anche in questo caso avrei un problema: se l’unico motivo per rispettare un principio è la conseguenza che se ne può avere, io potrei essere giustificato a compiere atti anche molto gravi per avere buone conseguenze. Io potrei per esempio avere ragione di torturare qualcuno per sapere dove ha nascosto una bomba che danneggerebbe molte persone. E l’idea di potere usare qualsiasi mezzo per un fine buono suona poco convincente. Entrambe le soluzioni hanno quindi certi vantaggi e certi difetti, e in effetti entrambe possono essere sensatamente sostenute. Verso chi abbiamo doveri? Ci possiamo infatti porre il problema se, oltre che verso gli esseri umani attualmente viventi, si abbiano doveri morali anche verso esseri umani che ancora non ci sono, cioè le generazioni che verranno, e anche verso altri animali che possono condividere con noi alcune caratteristiche, come, molto importante, quella di potere provare il piacere e il dolore o quella di avere una certa vita psicologica ed emotiva. Se si accetta di avere doveri morali verso gli animali, non è detto che si debba accettare di averli verso tutti i tipi di animali (un’ameba non è uguale a un cane), né che il dovere verso un animale sia dello stesso valore del dovere verso un essere umano. Certo, difficilmente riusciamo a pensare che gli animali abbiano doveri morali, per cui potremmo solo arrivare a pensare di avere noi doveri verso di loro. Secondo qualcuno, noi abbiamo doveri anche verso la natura e l’ambiente, ma in questo caso ci possiamo chiedere se si tratti di genuini doveri verso la natura o non si tratti piuttosto, in realtà, di doveri verso esseri umani e animali che riteniamo moralmente significativi e che devono e dovranno vivere nella natura. Abbiamo accennato sopra alla possibilità che il rispetto di doveri morali liberamente assunti implichi la violazione di doveri giuridici. Ciò significa che in determinate occasioni le nostre convinzioni morali possono entrare in conflitto con 767

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Parte seconda Il secolo dei lumi

le leggi giuridiche. Il problema è, se possibile, ancora più acuto se pensiamo alla possibilità che un dovere morale confligga con un altro dovere morale, ovvero che si diano conflitti morali veri e propri. Dai conflitti ai dilemmi In realtà, i conflitti morali sono frequentissimi, ma soltanto in determinate occasioni diventano rilevanti, e talvolta drammatici, per la nostra vita morale. Non c’è alcuna apparente drammaticità nel conflitto che si verificasse tra il dovere di soddisfare i legittimi desideri del proprio figlio (per esempio: mangiare un gelato) e il dovere di salvare la vita di qualcuno: in questi casi, la gerarchia tra i doveri è sufficientemente evidente, e cosa sia più importante tra il gelato di nostro figlio e la vita di qualcuno non sembra poter essere messo in questione. Ma in alcuni casi il conflitto può essere più problematico o addirittura drammatico, per esempio se si debba scegliere se salvare una vita o un’altra, quando non si abbia la possibilità di salvarle entrambe. È in questi contesti che ci si può porre il problema se non esistano conflitti morali che sono strutturalmente irrisolvibili, in cui non ci può essere una scelta giusta rispetto a un’altra, ossia veri e propri dilemmi.

Esercitiamoci sul dovere 1. Rifletti e completa

USO DESCRITTIVO (necessità naturale)

«DOVERE»

USO PRESCRITTIVO (obblighi / regole di condotta)

DOVERI MORALI

DOVERI GIURIDICI

1) Liberamente assunti e più importanti rispetto alle norme giuridiche. 2) Le violazioni sono sempre volontarie (intenzionali). 3) Validità che non ha un inizio preciso. 4) Le sanzioni hanno carattere di disapprovazione da parte degli altri o di rincrescimento verso se stessi.

1) Subordinati a quelli morali in ordine di importanza (e a volte in conflitto con essi). 2) Le violazioni non sempre sono volontarie (intenzionali). 3) Hanno validità a partire da un certo tempo (per esempio approvazione e attuazione della norma). 4) Le sanzioni hanno carattere «fisico» (multa, carcere ecc.).

Esempio: _____________________________ _____________________________ _____________________________ _____________________________ _____________________________ _____________________________

Esempio: _____________________________ _____________________________ _____________________________ _____________________________ _____________________________ _____________________________

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BUONE MANIERE («doveri di etichetta»)

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Laboratorio sul lessico Dovere

2. Spunti per il dibattito: io e… il dovere 1

Supponi che all’interno di una data società venga assunta una regola di condotta morale che prescrive di non mantenere mai le promesse fatte. – Quali pensi sarebbero le conseguenze di ciò dal punto di vista del comportamento degli individui appartenenti a tale società? – Credi che una tale norma morale potrebbe sopravvivere a lungo e in modo coerente in una società che la accettasse come regola di condotta? – Che cosa rende a tuo avviso più stabile la norma morale che prescrive di mantenere le promesse fatte rispetto a quella che prescrive di non mantenerle?

2

Prendi per un momento in considerazione l’utilizzo (largamente diffuso) a scopo sperimentale degli animali in ambito di ricerca medica, compreso tutto ciò che tale attività può comportare: sofferenza degli or-

ganismi oggetto dell’esperimento, menomazioni di arti o organi, contagio indotto per mezzo di virus, stress, danni neurologici, decesso ecc. – Ritieni moralmente lecito utilizzare qualsiasi forma di vita non umana allo scopo di mettere a punto farmaci o tecniche terapeutiche eventualmente in grado di salvare vite umane? – Se sì, fino a che punto della «scala evolutiva» sentiresti di poterti spingere nel condurre tali esperimenti? (per esempio batteri, molluschi, crostacei, insetti, rettili, volatili, mammiferi, primati, …) – Sulla base di quali criteri ti baseresti nell’escludere dagli esperimenti in questione certe specie animali? (per esempio capacità di sentire dolore, consapevolezza di essere sfruttati e maltrattati, danni a livello ecologico o ambientale, inutilità di una certa specie ai fini di un dato scopo, complessità dell’organizzazione sociale ecc.)

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Parte terza L’idealismo

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Berlino Hannover

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Jena Francoforte sul Meno Heidelberg

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Norimberga Stoccarda Vienna

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Monaco

Bad Ragaz

Roma

Introduzione L’idealismo Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza Laboratorio sul lessico Dovere Unità 16 Il Romanticismo e Schelling Unità 17 Hegel

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Introduzione L’idealismo

1. La «terza età d’oro del pensiero occidentale» 2. Idealismo come filosofia della libertà 3. Verso il sistema

♦ La parola al critico: Cesa legge le origini dell’idealismo

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Parte terza L’idealismo

1 Una straordinaria galleria di personaggi

«L’ultimo classicismo filosofico»

Kant e l’idealismo

La definizione di idealismo

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La «terza età d’oro del pensiero occidentale» Il movimento filosofico chiamato «idealismo tedesco» o «filosofia classica tedesca» (in quest’ultimo caso include anche Kant) è stato senz’altro uno dei più formidabili periodi intellettuali della storia della tradizione occidentale. A prescindere dall’arte, dalla letteratura o dalla musica, tutti ambiti in cui la Germania offre personaggi di livello eccezionale, in filosofia gli anni che vanno dalla fine del XVIII secolo (la prima edizione della Critica della ragion pura esce nel 1781) alla morte di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1831) costituiscono un periodo di una ricchezza e di una concentrazione con rare possibilità di confronto. Uno studioso francese, Bernard Bourgeois, ha scritto pochi anni fa che questo periodo della storia della filosofia «costituisce – dopo il IV secolo a.C., il secolo greco della filosofia universale, e dopo il secolo francese della rivoluzione cartesiana – la terza età d’oro del pensiero occidentale; la filosofia tedesca costruisce l’ultimo classicismo filosofico». E ciò stupisce tanto più, quanto più si pensa che la filosofia tedesca moderna, con rare eccezioni, non aveva dato di sé grandi prove, prima di Kant e dell’età kantiana. Lo stesso Settecento tedesco, con la Aufklärung («Illuminismo», vedi Unità 13, p. 627 ss.), aveva prevalentemente sviluppato, per quanto riguarda le teorie filosofiche, la manualistica universitaria, che aveva avuto un’ampia diffusione in tutto il secolo ed era servita da base per le lezioni di Kant. Il termine «idealismo» non è una novità nel lessico filosofico: usato genericamente per riferirsi alla filosofia di Platone (per esempio da Leibniz), riceve una caratterizzazione più determinata da Kant. Critico verso l’idealismo materiale e «problematico» di Cartesio (che ritiene certa solo l’asserzione «io sono» e pone in dubbio l’esistenza del mondo esterno), e ancor più verso l’idealismo materiale «dogmatico» di Berkeley (che dichiara le cose nello spazio semplici immaginazioni), Kant dà anche un significato positivo all’idealismo, chiamando la propria filosofia «idealismo trascendentale» (vedi Unità 14, p. 681). In Kant, e nel dibattito successivo, il termine indica una dottrina che nega che l’oggetto della nostra esperienza sia il semplice calco di qualcosa esistente fuori di noi. Nel processo conoscitivo, in altre parole, il soggetto è anche attivo.

Idealismo come filosofia della libertà

Nella filosofia di Fichte, e poi in generale nel movimento filosofico che chiamiamo «idealismo», la posizione di Kant viene portata alle sue estreme conseguenze. A partire da Fichte si pone il fondamento del processo conoscitivo in un rapporto metafisico tra il soggetto e la realtà in cui è la realtà a essere dipendente dalle attività del soggetto e della coscienza, e non viceversa. Altrimenti, il rischio, secondo Fichte, è cadere nel dogmatismo e rinunciare alla nozione che, riferita al soggetto o Io, ricorre con frequenza ossessiva nei primi scritti degli idealisti, e non solo in un significato «politico», cioè la libertà. La libertà è una sorta di abito mentale che esprime l’autonomia del soggetto sia sul piano teoretico sia sul piano morale. La libertà La libertà come abito mentale e la libertà come tema politico non sono necessadi una nuova epoca riamente coincidenti, nei filosofi tedeschi tra il Settecento e l’Ottocento, ma è fa-

L’attività del soggetto come libertà

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Introduzione L’idealismo

La libertà tra Rivoluzione e ritorno all’ordine

La società borghese

Il pensiero di fronte ai cambiamenti sociali

Gli effetti dirompenti della Rivoluzione e della filosofia kantiana

3 Il sistema come compimento del criticismo

cile cogliere nel linguaggio dell’ultimo decennio del Settecento una sorta di «disposizione d’animo escatologica», cioè la consapevolezza – o la speranza – che si sia giunti a un punto di svolta della storia europea. Naturalmente, questa consapevolezza non è frutto della sola riflessione filosofica o dell’attività letteraria: la Rivoluzione francese, e la sua eco, sono fenomeni dei quali è difficile comprendere la portata e l’enorme impatto sull’opinione pubblica e in particolare su coloro che auspicano comunque un «rinnovamento», anche se non rivoluzionario. È pur vero, poi, che con la svolta del nuovo secolo – intorno al 1800 – gli animi si raffreddano molto. Se numerosi scritti dell’ultimo decennio del Settecento mettono l’accento sulla libertà del soggetto e sulla sua capacità di trasformare il mondo, ben presto la stessa nozione di libertà muta i suoi caratteri, diventando, da forza trasformatrice, forma di adesione a un ordine. Qualcosa di simile avviene nel pensiero di molti intellettuali, a cavallo tra i due secoli. Se si guarda al mondo storico, il problema non è soltanto politico, ma anche sociale: l’idealismo tedesco nasce infatti parallelamente al sorgere del capitalismo, al crescere della divisione del lavoro, alla crisi della società e dei legami tradizionali. Si va formando una società dei bisogni e del lavoro che non coincide più con lo Stato politico e che ha proprie leggi e propri funzionamenti: è la società «borghese». Tra i pensatori particolarmente attenti a questa dimensione le soluzioni offerte sono senz’altro diverse, ma sono comunque segno della coscienza dell’esistenza di un problema a cui si propongono risposte diverse. Il poeta, drammaturgo e filosofo Friedrich Schiller, per esempio, rimpiange l’armonia dell’uomo greco, se confrontata con la società contemporanea fondata sulla divisione del lavoro. Fichte elabora una teoria della società ispirata a un rudimentale e utopico «socialismo» in cui ognuno ha una funzione, e gli intellettuali una funzione di guida (vedi Unità 15, p. 809). Hegel coglie con acutezza i tratti della nuova società moderna e conia su questa base la nuova nozione di «società civile» distinta dallo Stato (vedi Unità 17, p. 919 s.). Il collegamento, o meglio il parallelismo, tra la filosofia kantiana e la Rivoluzione francese come eventi dirompenti del mondo filosofico da un lato e del mondo reale dall’altro viene fatto già dai contemporanei, e poi dalla generazione successiva, per esempio da Marx. Si tratta di dare e pensare un nuovo ordine concettuale e al tempo stesso sociale per un’epoca nuova che deve superare l’attuale momento di crisi e di lasciare maturare le proprie risorse migliori. Se sul piano politico gran parte degli intellettuali tedeschi ritiene che la rivoluzione non sia né necessaria né auspicabile, perché oculate riforme possono avere gli effetti adeguati, sul piano filosofico e letterario questa nuova epoca non può accontentarsi della filosofia «popolare» e del richiamo al «sano intelletto umano» illuministici: le rivoluzionarie Critiche kantiane dimostrano appunto la necessità di perseguire un nuovo modo di filosofare, adeguato ai tempi.

Verso il sistema Kant è il punto di partenza e il dato acquisito, per i tre grandi idealisti – Fichte, Schelling e Hegel – ma è anche il punto di riferimento per altri personaggi di grande o grandissimo peso della Germania del tempo, da Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) a Schiller, da Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) a Friedrich Da777

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Parte terza L’idealismo

Un sistema della ragione

La critica di Kant a Fichte

Il distacco degli idealisti da Kant

L’idealismo non è un cammino ascendente e necessario

Sistemi alternativi

niel Ernst Schleiermacher (1768-1834). È a partire da Kant, e dichiarando di seguire le sue indicazioni, che gli idealisti promuovono l’idea di un sistema della filosofia. Questa idea della filosofia come sistema è un loro tratto comune indubitabile. Se di un’enciclopedia si deve parlare, e ne aveva già parlato Kant, per gli idealisti si deve trattare di un’enciclopedia sistemata e organizzata per concetti, secondo principi e in modo razionale. Esattamente il contrario, insomma, della disposizione degli articoli per ordine alfabetico (e quindi casuale) che costituiva il prestigioso precedente prossimo, l’illuministica Enciclopedia di Diderot e d’Alembert. L’idea iniziale che guida gli idealisti è completare il sistema kantiano e dargli basi più solide, anche se ci pensa il vecchio Kant, nell’agosto del 1799, a eliminare l’equivoco e a dichiarare che la Dottrina della scienza (cioè la prima opera sistematica) di Fichte è un «sistema del tutto insostenibile», concludendo poi con il riferimento al proverbio italiano «dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io». Come dire che di certi «continuatori» non sapeva proprio cosa fare. Certo si tratta di un sconfessione piena, e pubblica, ma ormai il movimento idealistico è più che avviato, e non si presenta più soltanto come il completamento dell’opera kantiana. Al contrario, Kant viene eventualmente visto come il filosofo che ha svolto sì, ma anche esaurito, la sua funzione, come Schelling scrive con durezza a Fichte, poco dopo la dichiarazione kantiana sulla Dottrina della scienza. Fichte, Schelling e Hegel sono stati spesso visti, erroneamente, come tappe di una successione che costituisce un cammino ascendente e necessario dello spirito filosofico tedesco a cavallo tra Settecento e Ottocento. E i loro sistemi sono stati letti spesso unitariamente, nelle storie e nei manuali di filosofia, come una progressiva approssimazione alla verità e alla comprensione razionale del mondo, utilizzando le etichette di idealismo soggettivo (di Fichte, per l’accento posto sull’Io), di idealismo oggettivo (di Schelling, per la filosofia della natura) e di idealismo assoluto (di Hegel, per avere questi completato il sistema inglobando e superando le posizioni degli altri due). In realtà – con alcune differenze che riguardano per motivi anagrafici soprattutto Fichte, più legato alla tradizione illuministica e molto meno attento, per esempio, al mito della grecità, rispetto a Schelling, a Hegel e ad altri personaggi contemporanei – Fichte, Schelling e Hegel sono pensatori tra loro contemporanei, che sulla base dell’eredità della filosofia kantiana e di altre suggestioni anche di tipo politico, o sociale, tentano di offrire soluzioni alternative ai problemi della filosofia e della società del loro tempo, seppure in un orizzonte in parte comune. E si tratta appunto di alternative, non di un cammino in cui chi venga dopo sia più avanti di chi viene prima, per cui in Hegel si realizzerebbe una sorta di compimento del percorso. Del resto, queste filosofie idealistiche alternative si esprimono anche in dure rotture personali tra i protagonisti principali: prima si ha la rottura tra Schelling e Fichte, poi quella tra Schelling e Hegel. Suggerimenti bibliografici Oltre all’antologia curata da C. Cesa dalla quale abbiamo tratto il brano delle prossime pagine, si possono vedere almeno il classico volume di N. Hartmann, La filosofia dell’idealismo tedesco, Milano, Mursia 1972; il libretto di C. Cesa, Fichte e il primo idealismo, Firenze, Sansoni 1975 (anche in questo caso con una parte antologica). Vanno poi ricordati due lavori più recenti sulla filosofia etico-politica dell’idealismo: L. Fonnesu B. Henry (a cura di), Diritto naturale e filosofia classica tedesca, Pacini, Pisa 2000, e G. Duso G. Rametta (a cura di), La libertà nella filosofia classica tedesca, Franco Angeli, Milano 2000.

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Introduzione L’idealismo

La parola al critico Cesa legge le origini dell’idealismo Uno dei maggiori specialisti degli studi sull’idealismo tedesco, Claudio Cesa, delinea in queste pagine sia i tratti fondamentali della filosofia idealistica sia le linee della sua evoluzione.

Genesi e sviluppi dell’idealismo da C. Cesa, Le origini dell’idealismo tra Kant e Hegel

Filosofia e movimenti intellettuali

Cogliere il nesso tra filosofia e «spirito del tempo»

La storia dello «spirito» è più ricca

La filosofia idealistica e le sue radici culturali

Per la definizione della cronologia, del periodizzamento e quindi dei caratteri della cosiddetta filosofia classica tedesca, quella che va, all’ingrosso, da Kant a Hegel, si pongono problemi che a prima vista non sono sostanzialmente diversi da quelli che – per non uscire dall’ambito dell’età moderna – si presentano per il pensiero del Rinascimento e dell’Illuminismo. In questi tre casi lo studioso si trova di fronte a una «filosofia» che da una parte si inserisce in una tradizione filosofica, prende posizione nei confronti di essa, la continua, ma che è anche parte di un movimento intellettuale molto più vasto, che si manifesta nell’arte e nelle scienze naturali, nella teologia e nella storiografia, nella filologia e nella critica letteraria. Vien da domandarsi, allora, se sia possibile dare una storia della filosofia come ordinata successione dei sistemi filosofici, ciascuno dei quali porta avanti i problemi che i suoi predecessori gli hanno affidato, o se si debba tentare, invece, di cogliere lo «spirito» del tempo, utilizzando la maggior quantità possibile di dati tratti dalla storia culturale (cui andrebbero aggiunti, naturalmente, anche quelli della storia politico-sociale), e considerare le opere dei filosofi di mestiere come una delle tante voci di un coro molto più vasto; a tali opere si potrebbe magari riconoscere il significato di espressione privilegiata, cioè più significativa e più tipica, solo qualora abbiano un intrinseco ed eccezionale valore, non perché appartengano a una particolare disciplina o genere letterario. Si è posta la questione non come problema metodologico generale, ma perché, nella vastissima bibliografia sul pensiero germanico di questo periodo, si affiancano opere di taglio molto diverso […]. La «storia dello spirito» appare molto più ricca della storia della filosofia; se è scritta con gusto, e con conoscenze adeguate, dà l’impressione di penetrare davvero nella cultura di un’epoca; e quando si adoperano formule (non importa qui stabilire quanto fondate) di Fichte che esprime il mondo ideale dello Sturm und Drang, di Schelling che esprime il mondo ideale del Romanticismo e Hegel quello del Classicismo, si ritiene di aver collocato alla radice delle loro opere, spesso redatte in stile così astruso, un complesso di passioni e di intuizioni nel quale è confluita la vita interiore di due generazioni; di co-

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Parte terza L’idealismo

La peculiarità filosofica dell’idealismo

Il valore della tradizione filosofica

Nell’idealismo confluiscono criticismo e riflessione estetica ed etica

Estremi temporali limitati di questa confluenza (1785-1807)

Dispersione del movimento

Difficile recezione degli idealisti a causa del loro linguaggio

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gliere, insomma, la molla più intima che ha indotto quei filosofi a pensare come hanno pensato. Alla radice di questo giudizio c’è un presupposto che spesso è un pregiudizio: quello, cioè, che la letteratura o, da altre prospettive, la teologia, le scienze naturali, la teoria politica ecc. siano attività molto più «concrete» della filosofia, e che quest’ultima abbia più bisogno delle altre di essere motivata con ciò che è stato coltivato fuori di essa: pregiudizio che può diventare davvero pericoloso quando si ha a che fare con un movimento filosofico che non è soltanto elaborazione concettuale dei pensieri dell’epoca, ma che ha preteso di costruire un proprio metodo e, sulla base di questo, di dare una nuova o diversa formulazione di problemi provenienti da una tradizione secolare o millenaria. La possibile influenza della tematica attuale è certo importante, e va ricercata; ma è indispensabile non dimenticare che essa è integrata (il che spesso vuol dire anche trasfigurata) in quella specifica della tradizione filosofica. Il che può sembrare magari scolasticismo deteriore, dal quale occorre salvare il nucleo vivente; ma è facile accorgersi che, se si butta via quello che sembrerebbe un involucro «tecnico», si finisce per banalizzare proprio i pensieri che si vorrebbero salvare. Diversamente dal Davide biblico, i filosofi non danno il meglio di sé quando sono spogliati delle loro pesanti armature. Chi voglia studiare quel movimento teorico che è comunemente detto «idealismo» dovrà tenere ben presente che in esso sono confluiti due filoni con radici molto differenti: uno è la filosofia critica, cioè Kant e i suoi primi interpreti e critici (Reinhold, Schulze, Maimon, Jacobi, per ricordare solo i maggiori), l’altro è quella grande corrente, alimentata a sua volta da acque così diverse (Schiller e Goethe, Herder e Lessing, Winckelmann e di nuovo Jacobi) che introdusse, negli ultimi decenni del Settecento, un rinnovamento delle concezioni estetiche ed etiche con un’intensità che non ebbe pari negli altri paesi europei. Occorre per altro non dimenticare che, sul piano fattuale, di scambi intellettuali, e anche di collaborazione personale, tra filosofi, naturalisti, letterati, questa confluenza fu davvero intensa solo in un periodo relativamente ristretto, all’incirca tra la polemica sul panteismo (quella aperta da Jacobi, nel 1785, con la pubblicazione delle Lettere sulla dottrina di Spinoza) e la polemica sull’ateismo del 1798-1799 (che, con le dimissioni di Fichte dalla cattedra di Jena, iniziò la dispersione di quello che era sembrato un gruppo anche geograficamente compatto); al massimo si può prendere, come termine ad quem, la pubblicazione della Fenomenologia dello spirito (1807) di Hegel, anche se, nella coscienza dei contemporanei, quest’opera ebbe una risonanza molto più modesta di quella che oggi saremmo indotti ad attribuirle. A partire dai primi anni dell’Ottocento, si potrebbe dire, ciascuno andò per la sua via; si possono ricostruire le polemiche che videro scontrarsi personaggi che, per un certo numero di anni, avevano fatto un tratto di strada in comune, e si possono anche individuare i temi sui quali, malgrado tutto, continuarono a pensare in modo simile; ma è difficile continuare a vedere un movimento in qualche misura omogeneo. Già all’apparire dei primi scritti di Fichte e di Schelling i loro critici ironizzarono non soltanto sul contenuto (la filosofia dell’io), ma anche sul linguaggio. A lettori che avevano dimestichezza soprattutto con le opere della «filosofia popolare» della seconda metà del Settecento, espressioni co-

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Introduzione L’idealismo

Formule accettate in Kant, ma «inquietanti» negli idealisti

Libertà come fondamento dei sistemi idealistici di Fichte e Schelling

Primato della ragion pratica e suoi significati

1) coscienza etica come autocoscienza 2) attività produttiva dell’io

Fichte e l’io come unico principio della filosofia

me «in sé» e «per sé», «egoità» (Ichheit) e «non-io», «a priori», «trascendentale» e così via, davano l’impressione di una ricaduta in un gergo oscuro, spia, a sua volta, di un pensiero oscuro, e sospetto perché non immediatamente accessibile alla comune intelligenza o, come allora si diceva, al «sano intelletto umano». Per la verità, buona parte di queste formule venivano da Kant, il quale le aveva riprese (talvolta rettificandone il significato) dalla scolastica universitaria. Ma ciò che si era disposti a tollerare in Kant, considerato, anche in ambienti illuministici, un pensatore di tutto rispetto, non lo si perdonava a quelli che allora comparivano come suoi discepoli. Kant, secondo l’opinione comune, aveva criticato la metafisica; i kantiani, col loro linguaggio esoterico, avevano tutta l’aria di volerla far risorgere; Kant, se anche aveva respinto l’eudemonismo, esponeva una morale che non aveva in sé alcun principio sovvertitore; i suoi discepoli, invece, sembravano voler dire cose molto più inquietanti. […] Anche se per qualche anno non si osò dichiararlo ad alta voce, il pensiero di Kant era ritenuto più un’approssimazione, ricchissima di spunti geniali, che una sistemazione esauriente. Si diceva che Kant aveva dato i risultati, ma non le premesse. Queste dovevano esser poste, ed essere incontestabili; da esse, poi, bisognava «dedurre». Fichte propose addirittura che si mettesse al bando il termine di filo-sofia, che gli pareva esprimere più la ricerca del sapere che l’esposizione rigorosa di esso. Ma sia Schelling che Fichte dichiararono a tutte lettere che la scelta tra le due opposte concezioni – quella «dogmatica» e quella «critica» o idealistica – doveva essere indotta non da mere argomentazioni teoriche, ma da una decisione pratica. «Noi non stabiliremmo quei principi, se già in precedenza la nostra libertà non avesse deciso su di essi» – affermava Schelling nel 1795; e due anni dopo Fichte ribadiva: «la scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è un’inerte suppellettile che si può lasciare o prendere a piacere, ma è animato dallo spirito dell’uomo che l’ha». Sono due proposizioni, queste (e si lasci qui da parte il significato preciso che hanno ciascuna nel loro contesto, e la questione se la seconda vada intesa come tacita rettifica della prima), che indicano in qual modo il primato della ragion pratica, enunciato da Kant nella seconda Critica, si dilatasse fino a diventare il punto di partenza, o addirittura il principio unificante, di tutta la filosofia. E già il principio recava in sé una duplicità di significati che dovevano poi emergere (e divaricarsi) nelle discussioni successive. Per un rispetto primato della ragion pratica vuol dire che la coscienza etica è autocoscienza: l’io che si sia posto come attivo, e in quanto rifletta su di sé nella sua attività, è libero. Per un altro rispetto, e prendendo «pratico» nel significato più specifico che Fichte gli attribuì nella terza parte della Dottrina della scienza, esso voleva dire che quella metafisica che un tempo era stata presentata come «la scienza delle cose in sé» poteva essere sostituita con la teoria che le cose sono «così come noi dobbiamo farle»: qui l’accento cade di più sull’attività produttiva che «tende» all’infinità attraverso i suoi contenuti. Sono un po’ le due facce, quella soggettiva e quella oggettiva, della filosofia dell’io. E anche se i contemporanei (non soltanto i non filosofi, ma, a credere a Fichte, anche i filosofi) non dovettero capir molto delle complicate elucubrazioni fichtiane, una cosa, almeno, parve

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Parte terza L’idealismo

Gli idealisti a confronto con Kant: soluzioni personali e rotture

Hegel come filosofo della totalità

Hegel e la critica ai suoi contemporanei

La presenza di Spinoza

La svolta anti-umanistica

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ad essi chiara: che l’io autocosciente e attivo era il principio filosofico in grado di sostituire tutti quelli precedenti, l’unico all’altezza della parte più nobile dell’umanità presente. Di qui la tendenza a un’immediata applicazione di tale principio anche al di fuori della filosofia pura, di cui lo stesso Fichte dette un esempio illustre con le sue Lezioni sulla destinazione del dotto, e poi con altri numerosi scritti di andamento «popolare»; in questa direzione si muovevano anche kantiani indipendenti come quel Forberg il cui articolo del 1798 fece scoppiare la «polemica sull’ateismo», come i collaboratori allo «Athenaeum» degli Schlegel ecc. Soprattutto in queste applicazioni la mentalità dell’ambiente, quella che si è tentato di delineare, trovava l’occasione di rivestire le forme della nuova filosofia. Ma c’era anche il ricco patrimonio kantiano, che non poteva certo essere esaurito nell’affermazione che l’io poneva se stesso; non era possibile ignorarlo, ma era difficilissimo da padroneggiare. La parte teoretica della Dottrina della scienza è una faticosa ri-deduzione dell’analitica trascendentale; Schelling si affaticò a lungo, fino al Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) e oltre, con il problema delle categorie; il rapporto tra la logica classica (che ancora Kant aveva dato per presupposta), la «logica della filosofia» (come sembrava essere la Critica della ragion pura) e il «sistema» restò una questione aperta, e un punto dolente: su questo tema avvennero le rotture tra Fichte e Schelling, tra Schelling e Hegel – precedute, nel 1799, dalla scomunica pronunciata da Kant. […] Senza voler toccare qui il complicato problema dello svolgimento intellettuale di Hegel, pare difficile proiettare all’indietro, ai primi scritti da lui pubblicati nel 1801-1802, quella preoccupazione di articolare i diversi momenti o figure della coscienza che si riscontra nella Fenomenologia (per non dire delle opere più tarde). Egli aveva seguito da lontano, e con relativo ritardo, l’elaborazione quasi parallela del pensiero di Fichte e di quello di Schelling; e in lui non c’è quasi traccia di quell’ondeggiare tra filosofia trascendentale e speculazione che, nello scorcio del secolo, caratterizza i due altri pensatori. I suoi primi saggi sono di un entusiasta dell’unità, che va ripristinata a tutti i livelli. La sua critica, penetrante e incisiva soprattutto sotto il rispetto etico, alle teorie di Kant, di Fichte, di Jacobi, vuol soprattutto denunciare i misfatti dell’astrazione, dell’intelletto riflettente, che hanno reso impossibile sfruttare anche le autentiche scoperte speculative fatte da Kant (l’immaginazione trascendentale) e da Fichte (l’identità dell’io con se stesso); invece di riconoscere, in queste forme, l’espressione dell’assoluto, le si è volute scomporre in una lunga serie, tendenzialmente infinita, di determinazioni psicologiche e logiche; accanto all’astrazione e alla riflessione, l’empirismo e il «formalismo» sono gli obiettivi che Hegel accomuna nella polemica. Anch’egli, come Schelling, si richiama a Spinoza, il cui merito consiste, ai suoi occhi, nell’aver posto nell’infinito della ragione il punto di unificazione degli attributi, e di non esser rimasto prigioniero delle strettoie dell’intelletto «umano». Ancora qualche anno prima la nuova filosofia si era sentita, sia pure con autonome motivazioni, all’unisono con la generale tendenza dell’epoca verso il recupero della «dignità» dell’uomo: libertà politica, autonomia etica (in senso kantiano), idealismo filosofico erano sembrate rivendicazioni convergenti. Ma le resistenze del-

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Introduzione L’idealismo

La critica dell’uomo astratto

Tensione hegeliana verso una sintesi speculativa

Hegel: unità degli opposti come manifestazione dello spirito

Svolta comune degli idealisti verso la filosofia speculativa

Fichte non abbandona la filosofia trascendentale

La svolta speculativa come fattore di divergenza nella ricerca

la cultura tardo-illuministica e l’emergere dell’atteggiamento speculativo inducono una svolta anti-umanistica: sia Hegel che Schelling si irritano a sentir parlare di «umanità», a Kant e Fichte viene rimproverato di «ricordarsi sempre dell’uomo», e così via. L’uomo, nella sua finitezza, non può essere né il centro dell’interesse teoretico (che cosa si poteva ricavarne, se non un coacervo di facoltà, da coordinare poi faticosamente?), né di quello pratico (l’uomo, infatti, non avrebbe desiderato che di mantenersi nella sua finitezza, protetto contro quelle tensioni supreme che risultano dal contatto con un valore assoluto). Questo anti-umanesimo riguarda, beninteso, l’uomo astratto, che vuole se stesso come singolo, che pensa alla «propria» felicità, non l’uomo «unito con l’universo», nel quale opera «l’eterna natura»; e non riguarda neppure l’uomo immerso negli universi etici, che adempia ciò che essi richiedono, che mostri reverenza per il fato. […] E come, secondo Schelling, i tempi erano maturi perché si esprimesse in linguaggio scientifico e filosofico quelle verità sulla natura che gli antichi avevano esposto in forma immaginosa, così per Hegel era giunto il momento di una sintesi speculativa, verso la quale premevano sia i tempi che il pensiero. L’approccio speculativo può essere definito in varie maniere, per esempio come ciò che permette di pensare la totalità nella quale gli opposti si riunificano; ma più importante delle definizioni è l’indicazione dello «speculativo» nel razionale come nel vivente, nella proposizione logica come nella fantasia poetica, nel mistero religioso come nel sillogismo. L’unificazione degli opposti o, con altra immagine concettuale, la «conciliazione», non è un’arte della mente; è piuttosto la riproduzione, ad opera della mente, di ciò che è l’essenza dello spirito nel suo manifestarsi. Non senza ragione ci fu, nella prima metà del secolo scorso, chi preferì definire il pensiero hegeliano come idealismo «oggettivo» piuttosto che assoluto, perché in esso anche la più ardita operazione del pensiero è soltanto la formulazione concettuale del «reale». In poco meno di un decennio la filosofia trascendentale, o l’idealismo trascendentale, si erano trasformati in filosofia speculativa. Anche Fichte, nonostante le sue sdegnose proteste contro Schelling, ebbe una svolta in questa direzione. Costruì una filosofia speculativa della storia, articolata in cinque epoche, si appellò al vangelo di Giovanni, si servì ampiamente di immagini e termini platonici e neoplatonici («modello» e «copia», «idea» e «beatitudine nell’idea», «luce», «emanazione»); durante il breve periodo di insegnamento a Erlangen (1805) le sue lezioni parvero puro platonismo ad alcuni dei suoi uditori, anche se il filosofo, alla domanda se fosse platonico, rispondeva di essere «sicuramente di più». L’unica differenza fu che Fichte continuò a coltivare, e ritornò a farlo con particolare intensità negli ultimi anni della sua vita, la filosofia trascendentale. Ma di queste sue riflessioni, lui vivo, nulla venne dato alle stampe. E per il pubblico filosofico egli restò l’autore degli scritti teoretici pubblicati tra il 1794 e il 1798, o degli scritti «popolari» degli anni successivi. Come si può spiegare questa così diffusa svolta speculativa? Non è lecito vederla come il trionfo dell’immaginazione e dell’intuizione, rivestite di panni filosofici, sopra la sobria filosofia critica; non fosse per il fatto che, anche se all’inizio poté esservi stato qualche cosa di quel «tono da raffinati» che irritava tanto il vecchio Kant, i maggiori esponenti di questa tendenza, quelli che ab-

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Parte terza L’idealismo

La solitudine e la fine dei contatti personali e degli scambi intellettuali

Hegel come testimone della crisi del primo idealismo

Crisi a cui ognuno dà una soluzione personale

biamo citato, presero sopra di sé, nei decenni successivi, la «fatica del concetto», con autentica abnegazione, chiudendosi ciascuno nell’ambito del proprio mondo concettuale, rinunciando spesso (è il caso di Fichte, ma anche di Schelling dopo il 1809) a offrire al pubblico i risultati delle loro riflessioni. Questa solitudine forma un singolare contrasto con quella ricchezza di contatti personali e di commercio intellettuale che si era avuta tra la fine del Settecento e i primissimi dell’Ottocento, quando Schiller discuteva pubblicamente le dottrine di Kant e si intratteneva con Fichte, quando Goethe e Schelling si comunicavano le loro vedute di filosofia della natura; quando gli Schlegel volevano suscitare una poesia filosofica, e sollecitavano i loro amici filosofi a studiarsi, quale modello, la Divina Commedia, e i Romantici visitavano insieme a Fichte le gallerie d’arte di Dresda; quando le speranze in un rinnovamento dell’umanità, suscitate e poi deluse dalla Rivoluzione francese, alimentavano la poesia di Hölderlin e le intuizioni di Novalis. Alcune volte a Hegel capitò di rievocare quel periodo; ne parlò come di un’epoca di fermentazione, di tentativi in tutte le direzioni, di soggettività scatenata, che non aveva saputo effettuare il passaggio dal concetto all’essere anche perché la filosofia allora disponibile, quella di Kant e della sua prima scuola, era più forte nel «negare» che nel costruire. Con tutte le possibili rettifiche […] in questo giudizio c’è un nucleo che deve probabilmente essere conservato: l’idealismo trascendentale, come anche la filosofia della natura, furono tentativi, di altissimo livello ma provvisori, per sistemare un materiale eterogeneo, per dare una risposta filosofica a stimoli di tipo molto diverso. Si può considerare la filosofia hegeliana come l’unico superamento-inveramento di quei primi sistemi solo se si dimentica che essi vennero «superati» anche da Fichte e da Schelling; se si dimentica, insomma, che anche questi corressero drasticamente i risultati cui erano pervenuti negli ultimi anni del Settecento, e che la «crisi» del primo idealismo non ebbe quale unico frutto la Fenomenologia, ma anche le più tarde opere di Fichte e di Schelling, certi scritti di Friedrich Schlegel (spesso, anche questi, pubblicati postumi); e si potrebbe continuare. (Loescher, Torino 1990, pp. 9-17 e 24-29) (È stata eliminata la numerazione in paragrafi e si sono tradotti in italiano i titoli delle opere citate)

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Evoluzione e ricezione della dottrina della scienza L’ascesa e il declino di un ‘astro filosofico’ Il dibattito sul criticismo Significato e caratteri della dottrina della scienza Dottrina dei principi e metafisica del soggetto La conoscenza Etica e intersoggettività La dottrina della scienza come metafisica dell’Assoluto 9. Politica e storia ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: La destinazione del dotto I testi Prima introduzione alla dottrina della scienza: La soggettività come opposto della sostanza T1; La scelta della filosofia riflette la propria personalità, T2 Fondamento dell’intera dottrina della scienza: La parte pratica ha per oggetto il «conosciuto», T3; Lo Streben come termine medio tra infinitezza e finitezza, T4; L’Io sviluppa da se stesso il materiale della conoscenza, T5; La dottrina della scienza come «ideal-realismo», T6 Sistema di etica secondo i principi della dottrina della scienza: Causalità naturale e causalità per libertà, T7

L’avviamento alla vita beata: Contro il misticismo, T8; Punto di vista della legalità e morale inferiore, T10 Dottrina della scienza 1804/II: Teoria della verità e teoria dell’apparire, T9 Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza: La negazione del ‘diritto naturale’, T11 Discorsi alla nazione tedesca: La nazione come «natura spirituale», T12

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Parte terza L’idealismo

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Due fasi, due soluzioni al problema del fondamento del sapere

Le due fasi e l’influenza sui contemporanei

La filosofia di Fichte come soluzione ai problemi del criticismo

La rilevanza storica della metafisica del soggetto

➥ Sommario, p. 822

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Evoluzione e ricezione della dottrina della scienza «Dottrina della scienza» è il termine che Johann Gottlieb Fichte stesso conia per designare la propria filosofia, che – sulle orme di Kant – indaga non tanto gli oggetti, quanto piuttosto il nostro sapere degli oggetti (vedi lo schema a p. 788). Il problema del fondamento del sapere costituisce il centro costante della speculazione fichtiana, che presenta un altissimo grado di astrazione e difficoltà, notato già dai contemporanei. Nella prima fase del suo pensiero, Fichte risolve la questione additando nella soggettività il principio primo e incondizionato della certezza, e dunque del sapere. A partire dal 1800, egli opera un profondo ripensamento della sua dottrina, in seguito alle critiche pubbliche rivoltegli da molti contemporanei e alle accuse di ateismo che gli erano costate l’allontanamento dall’insegnamento universitario a Jena. In questa seconda fase reintroduce come fondamento del sapere l’Essere o l’Assoluto, che però – nella sua filosofia – sono indagati da un punto di vista rigorosamente trascendentale, cioè a partire dal punto di vista del finito, senza nessuna pretesa di potere attingere, attraverso la filosofia, il punto di vista dell’Assoluto stesso (come andavano invece teorizzando, nello stesso torno di anni, sia Schelling, sia Hegel). L’attenzione di molti studiosi si è concentrata, nei tempi più recenti, soprattutto sugli scritti fichtiani posteriori al 1800 che, rimasti inediti per lungo tempo, sono stati pubblicati nell’ambito dell’edizione critica dell’intero corpus delle opere di Fichte, iniziata negli anni sessanta e ormai prossima alla conclusione. A prescindere dal dibattito storiografico sul rapporto tra le diverse fasi del pensiero fichtiano e sul loro diverso valore teorico, è indubbio, però, che la prima dottrina della scienza sia quella che ha esercitato una maggiore influenza sui contemporanei. Questi ultimi salutarono entusiasticamente la dottrina fichtiana dell’Io assoluto come una svolta epocale, vedendo in essa la soluzione più coerente dei problemi lasciati irrisolti dal criticismo e, dunque, il compimento della «rivoluzione copernicana» kantiana, cioè del rovesciamento del rapporto di subordinazione del soggetto rispetto all’oggetto (vedi Unità 14, p. 667 s.). Compimento che dischiude una nuova prospettiva antropologica, in cui l’uomo, riscattato dalla condizione servile rispetto a una verità proposta fuori e indipendentemente da lui, è finalmente restituito alla sua essenza come libertà. Queste osservazioni giustificano la scelta di porre al centro di questa trattazione la metafisica del soggetto, sviluppata attraverso la dottrina dei principi contenuta nella prima «dottrina della scienza», che merita ampio spazio sia per la sua difficoltà sia per la sua rilevanza storica. Il Fondamento dell’intera dottrina della scienza (1794) – pur essendo solo la terza di oltre venti esposizioni, sulla quale Fichte stesso esprime in più occasioni un giudizio limitativo – imprime, infatti, una «traccia indelebile nella storia del pensiero umano», trasformando e formando lo spirito di un’intera generazione, come è ben testimoniato dal giudizio dello scrittore e teorico del Romanticismo Friedrich Schlegel (1772-1829), che pone questo libro accanto alla Rivoluzione francese e al romanzo Wilhelm Meister di Goethe, indicandoli come le tre maggiori tendenze del secolo.

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

2 Una straordinaria e fortunata ascesa sociale

Il successo degli anni jenensi

La controversia sull’ateismo e la cacciata da Jena

Fichte a Berlino

Due fasi, due generi di scritti: scritti scientifici

L’ascesa e il declino di un ‘astro filosofico’ Nella prima parte della sua vita, Fichte è protagonista di un movimento di sorprendente ascesa sociale: primogenito degli otto figli di un modesto tessitore – costretto a trascorrere l’adolescenza come «guardiano di oche» – all’età di soli trentun anni egli ottiene la cattedra di filosofia presso la prestigiosa università di Jena. Questa ascesa sociale è resa possibile sia dalla forza di volontà – che contraddistingue la personalità di Fichte – sia da una serie di eventi casuali. Fichte può studiare, per esempio, solo grazie all’incontro fortuito con un nobile locale che, colpito dalle sue capacità intellettuali, decide di adottarlo. In secondo luogo, si deve a una circostanza altrettanto fortuita l’evento decisivo della formazione fichtiana, cioè la conoscenza della filosofia kantiana, che Fichte accosta in qualità di precettore privato. Infine, si deve a un caso anche l’inaspettata notorietà che egli raggiunge, grazie alla pubblicazione anonima del suo primo scritto filosofico, il Saggio di una critica di ogni rivelazione (1792), attribuito in un primo momento allo stesso Kant: quando quest’ultimo ne rigetta la paternità, rendendo pubblica l’identità del vero autore, Fichte diviene improvvisamente famoso e ottiene, poco dopo, la chiamata presso l’università di Jena. A Jena Fichte professa per la prima volta pubblicamente la sua filosofia – frutto della rielaborazione teoretica del criticismo – che riceve un’accoglienza trionfale. Questo successo, giunto a coronamento di anni di difficoltà, non dura, però, a lungo. La carriera di Fichte è, infatti, bruscamente interrotta dalla cosiddetta «controversia sull’ateismo», occasionata dalla pubblicazione sul «Philosophisches Journal» di un articolo di Friedrich Karl Forberg (1770-1848), e dalla replica fichtiana (1798): la negazione di un Dio personale, ivi espressa, costa a Fichte l’accusa di ateismo, in quanto viene da molti dichiarata incompatibile con l’affermazione dell’esistenza di Dio. L’esito di questa vicenda sono le dimissioni forzate dalla cattedra di Jena, nell’aprile del 1799. Fichte si trasferisce a Berlino, dove, salvo qualche intervallo, rimarrà sino alla morte, che lo coglie nel 1814. Qui egli, pur entrando in contatto con i principali esponenti della cultura dell’epoca, non stringe legami profondi con nessuno. Da personaggio centrale della filosofia tedesca, quale è stato per alcuni anni, dopo la polemica sull’ateismo egli si trova così spinto ai margini, pur continuando a intervenire nella scena culturale tedesca sia con scritti polemici, sia con conferenze dall’immediato scopo politico. Tra queste, i Discorsi alla nazione tedesca, un ciclo di conferenze pubbliche che tiene tra il 1807 e il 1808 – dando prova di grande coraggio – nella Berlino occupata dai francesi, allo scopo di esortare i tedeschi a intraprendere quello che egli considera il primo passo necessario per l’emancipazione della nazione tedesca dal giogo straniero, cioè un programma di «educazione nazionale». La controversia sull’ateismo può essere considerata anche come lo spartiacque fondamentale tra le due fasi della filosofia fichtiana. A questa distinzione ne va sommata un’altra, quella tra due generi di scritti diversi: 1) da un lato, le opere o i corsi di carattere scientifico, in cui il procedimento adottato è rigorosamente deduttivo; 787

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Parte terza L’idealismo

La speculazione teorica sulla dottrina della scienza

Prima fase: la teoria del diritto e dei doveri sociali

Seconda fase: la filosofia della storia

➥ Sommario, p. 822

Le due fasi della filosofia di Fichte

2) dall’altro, i cosiddetti «scritti popolari», che si limitano a esporre i risultati acquisiti in sede speculativa, nel tentativo di renderli accessibili a un pubblico più largo di quello accademico. Le due distinzioni però non coincidono, poiché l’attività filosofica di Fichte si muove costantemente, in entrambe le fasi, su questi due piani: la speculazione squisitamente teorica sui principi primi, e la riflessione sulle forme della vita collettiva. Nella prima fase di Jena, la speculazione sulla dottrina della scienza riceve espressione in diverse opere a stampa: lo scritto Sul concetto della dottrina della scienza, il Fondamento dell’intera dottrina della scienza, e le cosiddette Prima e Seconda introduzione alla dottrina della scienza, uscite rispettivamente nel 1797 e nel 1798. Fichte non pubblica, invece, nessuna delle oltre dieci esposizioni della dottrina della scienza redatte dopo il 1800, a eccezione del brevissimo scritto del 1810, intitolato Schizzo generale della dottrina della scienza. La riflessione sulla vita sociale ha come principale risultato, nella fase jenense, l’esposizione scientifica di una teoria del diritto – offerta nel Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza – e la teoria dei doveri sociali dell’uomo, contenuta nel Sistema di etica secondo i principi della dottrina della scienza. Negli anni posteriori alla polemica sull’ateismo, questo filone della speculazione fichtiana sfocia invece in una filosofia della storia in cui s’intrecciano religione e politica, i cui documenti principali sono: I tratti fondamentali dell’epoca presente, e il corso di lezioni di Filosofia applicata, tenuto da Fichte a Berlino nel 1813, e pubblicato postumo con il titolo di Dottrina dello Stato.

Prima fase fino al 1800 Soggettività come principio primo e incondizionato della certezza, e dunque del sapere Metafisica del soggetto e dottrina dei principi

Accanto alle opere speculative sviluppa una teoria del diritto e dei doveri sociali

La vita e le opere Johann Gottlieb Fichte nacque nel 1762 a Rammenau in Alta Lusazia, un territorio oggi al confine tra Germania e Polonia, da una famiglia molto povera. Compì studi ginnasiali grazie all’aiuto di un nobile, il barone von Miltitz, e nel 1780 si iscrisse alla facoltà di teologia prima a Jena (1780-1781), e poi a Lipsia (17811784), dove si laureò. In seguito fece il precettore, spostandosi frequentemente; dal 1788 al 1790 visse a Zu-

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Cesura rappresentata dalla controversia sull’ateismo

scritti «popolari»

Seconda fase dopo il 1800 Fondamento del sapere è l’Essere o l’Assoluto indagato da un punto di vista trascendentale Dottrina della manifestazione dell’Assoluto nel sapere

Filosofia della storia

rigo dove conobbe Maria Johanne Rahn, che sposò nel 1793. Nel 1790 uno studente gli chiese di dargli lezioni sulla filosofia di Kant, e così Fichte lesse le sue opere restandone entusiasta, tanto che nel 1792 si recò a Königsberg per incontrarlo e consegnargli il Saggio di una critica di ogni rivelazione (1792), che gli diede il successo e gli valse la chiamata all’università di Jena come docente. L’anno successivo pubblicò anonimo Contributi alla rettifica dei giudizi del pubblico sulla Ri-

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

voluzione francese, in cui proponeva una teoria politica contrattualistica dello Stato. Durante gli anni jenensi pubblicò anche varie opere in cui esponeva la sua dottrina della scienza: Sul concetto della dottrina della scienza, il Fondamento dell’intera dottrina della scienza (1794), le cosiddette Prima e Seconda introduzione alla dottrina della scienza, uscite rispettivamente nel 1797 e nel 1798, e Nova Methodo (1798). Nel 1794 tenne a Jena alcune lezioni che raccolse nel volume Alcune lezioni sulla destinazione del dotto. La sua teoria del diritto venne invece formulata nel Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza (1796-1797) e quella dei doveri nel Sistema di etica secondo i principi della dottrina della scienza (1798). Nello stesso anno uscì il saggio Sul fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo, in cui espose una concezione di Dio molto lontana dall’immagine tradizionale della teologia giudaico-cristia-

3 Il contesto della dottrina della scienza

Avversari e fautori di Kant

La questione centrale: la funzione della «cosa in sé»

na. Accusato di ateismo, fu costretto a lasciare Jena nel 1799 e si trasferì a Berlino, dove pubblicò Lo Stato commerciale chiuso (1800); lavorò a due nuove versioni della dottrina della scienza (1801 e 1804), uscite postume, e diede alle stampe due cicli di lezioni: uno sulla filosofia della storia, I tratti fondamentali dell’epoca presente (1806), e uno di filosofia della religione, L’avviamento alla vita beata (1806). Nel 1807 tenne varie conferenze in cui esaltava una riscossa nazionalistica contro l’esercito napoleonico che aveva occupato la Germania, che furono pubblicate col titolo Discorsi alla nazione tedesca. Quando venne fondata l’università di Berlino, nel 1810, Fichte vi assunse la cattedra di filosofia e riprese le sue lezioni sulla dottrina della scienza, che ebbe varie redazioni, tra cui Schizzo generale della dottrina della scienza (1810). Morì a Berlino nel 1814 a causa di una malattia trasmessagli probabilmente dalla moglie che curava i feriti di guerra.

Il dibattito sul criticismo Lo sviluppo teoretico del criticismo compiuto da Fichte – che ha come esito la dottrina della scienza – matura nell’ambito della vivace discussione sulla filosofia kantiana, che anima il panorama culturale tedesco negli ultimi decenni del Settecento. Questo dibattito ha come suoi principali protagonisti sia gli avversari sia i fautori della filosofia kantiana. I primi, che provengono soprattutto dalla scuola leibniziano-wolffiana (vedi Unità 14, p. 652 s.), si sforzano o di negare il significato innovativo del criticismo – affermando la sua identità con il sistema leibniziano-wolffiano – o di difendere la tradizione, mettendo in rilievo l’insufficienza teorica e le aporie lasciate aperte dalla «nuova filosofia», ossia quella di Kant. Tra essi va ricordato, in particolare, Gottlob Ernst Schulze (1761-1833), soprannominato «Enesidemo», dal titolo del suo principale scritto, uscito anonimo nel 1792. I secondi, che hanno entusiasticamente aderito alla «rivoluzione copernicana» di Kant – come per esempio Karl Leonhard Reinhold (1758-1823), che con le sue Lettere sulla filosofia kantiana contribuì in modo decisivo alla diffusione del criticismo –, ne apprezzano a pieno il valore di svolta epocale, ma sono al tempo stesso consapevoli delle difficoltà inerenti alla prospettiva critica. Questa consapevolezza alimenta la convinzione della necessità di una sua corretta interpretazione o revisione. Al centro di questo dibattito è innanzitutto la funzione attribuita da Kant alla «cosa in sé», dal punto di vista conoscitivo. Si è visto (vedi Unità 14, p. 666 ss.) che Kant ha limitato la conoscenza dell’uomo ai semplici fenomeni, intendendo con tale espressione le cose come ci appaiono attraverso le forme a priori della nostra sensibilità, cioè spazio e tempo. Egli si è poi servito del termine «noumeno» o «cosa in sé» per designare il correlato logico del fenomeno, ovvero ciò che non è dato nell’intuizione sensibile, il non-fenomeno: il pensiero unicamente negativo «di un qualcosa in generale», formato prescindendo completamente dalle forme dell’intuizione sensibile. 789

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Parte terza L’idealismo Il problema dell’esistenza della «cosa in sé»

La cosa in sé è una ricaduta del dogmatismo?

Il dubbio scettico sul rapporto rappresentazioni / oggetti

Il dilemma del dibattito sulla cosa in sé: tra scetticismo e dogmatismo

Il dualismo fenomeno / noumeno e la scissione nell’uomo

La ricerca di una soluzione dei dualismi kantiani

➥ Sommario, p. 822

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Da un lato, questo riferimento alla cosa in sé è denunciato da molti come incompatibile con la prospettiva criticistica: se l’essenza del criticismo consiste nel riconoscere nei fenomeni i limiti insuperabili della conoscenza umana, com’è possibile anche solo affermare l’esistenza di cose in sé? Certo, le cose in sé sono «pensabili»: ma inferirne l’esistenza dalla pensabilità significa – viene argomentato per esempio da Schulze – utilizzare quel procedimento della vecchia metafisica dogmatica, che Kant stesso ha rigettato nella confutazione della prova ontologica dell’esistenza di Dio, utilizzando l’esempio dei «cento talleri» (vedi Unità 14, p. 683 s.). Inoltre, nella prima edizione della Critica della ragion pura Kant non si è limitato ad affermare la pensabilità della cosa in sé, ma ha posto quest’ultima alla base di tutta la nostra conoscenza fenomenica, indicando in essa il sostrato e la fonte (la causa) delle impressioni sensibili. Anche questa tesi risulta contraddittoria rispetto ai principi del criticismo, in quanto – viene osservato – si fonda sull’applicazione della categoria intellettuale di causalità a un noumeno, ossia a qualcosa al di sopra e al di fuori dell’esperienza: applicazione che Kant ha dichiarato illegittima, delimitando l’uso delle categorie intellettuali esclusivamente ai dati empirici (vedi Unità 14, p. 672 ss.). Dall’altro lato, però, la negazione della cosa in sé apre la strada allo scetticismo, cioè al dubbio che tra le nostre rappresentazioni soggettive e gli oggetti esterni non vi sia alcun rapporto: se le cose in sé non possono essere poste alla base dei fenomeni, allora la nostra conoscenza – in quanto conoscenza di meri fenomeni – rischia di ridursi alla conoscenza di un mondo di semplici apparenze, cioè di immagini prive di ogni riscontro oggettivo e di ogni aggancio con la realtà. Riepilogando, i due corni del dilemma emerso nel corso del dibattito postkantiano sulla cosa in sé possono essere così sintetizzati: o la cosa in sé non è causa delle nostre rappresentazioni – e allora si ha un esito scettico – o lo è, ma allora si ricade nel dogmatismo, che consiste nel far dipendere tutta la nostra conoscenza da un ente, una sostanza, presente al di fuori di noi e indipendentemente dalle nostre facoltà conoscitive. Non meno problematico appare poi il rapporto tra fenomeni e noumeni sotto il profilo pratico: Kant stesso ha riconosciuto l’esistenza di un «abisso» incolmabile tra il mondo fenomenico – retto dalla ferrea necessità espressa dalla categoria intellettuale di causalità – e il mondo intelligibile o noumenico, retto dalla legge della libertà, cioè la legge morale (vedi Unità 14, p. 687 s.). Questo abisso e l’opposizione, ad esso connessa, tra conoscenza e moralità, si traduce in una drammatica scissione per l’uomo, appartenente al mondo fenomenico in virtù della sua costituzione sensibile e al mondo noumenico in virtù della ragion pura pratica. Kant stesso si è posto il problema di superare il dualismo tra fenomeni e noumeni e di ricomporre l’unità dell’uomo con la natura e con se stesso, teorizzando – nella Critica della facoltà di giudizio – la possibilità di una considerazione estetica e finalistica della natura (vedi Unità 14, p. 718 ss.). Considerazione cui però egli continua ad attribuire un valore conoscitivo subordinato rispetto al meccanicismo. I seguaci di Kant avvertono invece l’esigenza di risolvere in maniera più radicale i dualismi appena enunciati. Ciò è ritenuto possibile solo mediante l’individuazione di un unico fondamento, da cui derivare tutte le parti della filosofia e le facoltà dello spirito umano, che Kant ha invece trattato separatamente, nelle tre Critiche.

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza Il dibattito sulla cosa in sé

Critiche alla teoria kantiana della «cosa in sé»

Difficoltà del criticismo

Dogmatismo

4 La teoria di un fondamento unico del sapere

Scetticismo

Se è pensabile allora esiste

Prima edizione della Critica della ragion pura: la cosa in sé è il sostrato e la fonte delle impressioni sensibili

Se non possiamo avere esperienza della cosa in sé allora questa non esiste

No, non si può dedurre l’esistenza dalla pensabilità

No, non si può applicare la categoria di causalità alla cosa in sé

Quindi le nostre rappresentazioni non hanno nessun rapporto con la realtà?

Significato e caratteri della dottrina della scienza L’esigenza di un fondamento unico della filosofia e del sapere umano in generale – sollevata da più parti nel corso del dibattito postkantiano – riceve la sua espressione più energica e rigorosa nella «dottrina della scienza» di Fichte. L’espressione «dottrina della scienza» può essere resa, sia pure con una traduzione non letterale, come «teoria del sapere scientifico». A differenza di Kant, Fichte non assume come oggetto della propria indagine il problema della fondazione delle scienze particolari – come la matematica, la fisica e la metafisica – quanto piuttosto il problema del «sapere scientifico» in se stesso, fatta astrazione da ogni possibile oggetto: non dunque il sapere di qualcosa – come per esempio il sapere della natura – bensì piuttosto il problema della possibilità e dei fondamenti del sapere in quanto tale. In questo modo, Fichte assegna alla filosofia, in quanto dottrina della scienza, un ruolo fondativo nei confronti di tutti i saperi particolari, razionali ed empirici (vedi lo schema a p. 792).

L’unità del sapere I caratteri della scientificità: totalità e certezza del contenuto unificati nella «forma sistematica»

Un principio unico per tutte le scienze Gli assiomi delle scienze particolari

In primo luogo, la dottrina della scienza definisce in che cosa consiste la scientificità, cioè quali sono i caratteri che rendono possibile qualificare un qualsiasi sapere come scienza. Questi caratteri sono per Fichte innanzitutto essere una totalità di parti interconnesse e la certezza del contenuto. Nel caso che un sapere sia composto da più proposizioni, questi due tratti distintivi della scienza possono essere unificati solo attraverso la «forma sistematica», che consiste nel connettere le singole proposizioni in un tutto, derivandole da un unico principio, cioè da un’unica proposizione, certa in se stessa prima della connessione, e in grado di comunicare certezza a tutte le altre. In secondo luogo, la dottrina della scienza è la scienza delle scienze, in quanto stabilisce l’unico principio fondamentale, da cui deriva la certezza dei principi delle singole scienze particolari. In base a quanto appena detto sui caratteri della scientificità, ciascuna scienza particolare deve muovere da assiomi che riguardano il suo specifico ambito, i 791

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Parte terza L’idealismo

Deducibilità degli assiomi dal primo principio della filosofia

Rapporto tra la filosofia e le scienze particolari

Conservazione dell’impianto trascendentale kantiano: ricerca sul modo di conoscere gli oggetti

quali all’interno di essa non sono dimostrabili: un assioma è, infatti, il principio assolutamente certo – da cui vengono dedotte tutte le conclusioni di quella scienza – ed è in quanto tale indimostrabile. Tuttavia, ciò non significa che esso sia indimostrabile in sé: per Fichte, al contrario, i principi fondamentali delle singole scienze particolari possono e devono essere dedotti geneticamente, a partire da un unico principio fondamentale, che è l’unico principio incondizionatamente certo, indeducibile da uno superiore. Questo compito è il compito specifico spettante alla dottrina della scienza. Se la sua attuazione non fosse possibile – se cioè i principi fondamentali dei singoli saperi particolari fossero tra loro slegati – il sapere umano nel suo complesso sarebbe un semplice insieme di frammenti. La dottrina della scienza è dunque la ricerca e la determinazione del fondamento unico e unitario in virtù del quale può costituirsi qualsivoglia scienza, in quanto totalità di parti interconnesse. La dottrina della scienza e le singole scienze coincidono, in quanto sia la prima sia le seconde deducono le proprie conclusioni da un principio fondamentale e hanno forma sistematica. Tuttavia, nella filosofia il primo principio è indimostrato perché indimostrabile, trattandosi di un principio incondizionatamente certo, e dunque non deducibile da nessun principio superiore; invece, nelle scienze particolari il primo principio è indimostrato soltanto perché è già dimostrato nella filosofia. L’elaborazione della dottrina della scienza solleva la filosofia al di sopra di semplice ‘critica’ delle scienze esistenti, restituendo ad essa il ruolo di «regina delle scienze», tradizionalmente spettante all’ontologia e alla metafisica. Ciò non significa affatto, però, che Fichte abbandoni l’impianto trascendentale della ricerca filosofica, come lo aveva definito Kant, affermando che è trascendentale «ogni conoscenza che si occupi in generale non tanto di oggetti, quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori». Si è visto, infatti, che nelle intenzioni di Fichte la dottrina della scienza può e deve prendere il posto dell’ontologia non attraverso un’indagine sulle cose come sono in se stesse, bensì in quanto riflessione sul sapere in generale, cioè in quanto indagine sul modo in cui gli oggetti vengono conosciuti. La dottrina della scienza di Fichte – ponendo esplicitamente al centro della filosofia non più gli oggetti, bensì il sapere dei medesimi che l’uomo è in grado di realizzare – si pone dunque in una forte linea di continuità con la filosofia trascendentale di Kant.

La filosofia e le scienze particolari

Trova il principio unico che rende possibili e fonda tutte le scienze, dal quale sono cioè deducibili i principi primi delle scienze particolari Dottrina della scienza o filosofia Definisce la scientificità: – totalità di parti interconnesse – certezza del contenuto – forma sistematica

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Il principio primo della filosofia è incondizionatamente certo, e indimostrabile

I principi primi delle scienze particolari sono certi perché sono stato dimostrati dalla filosofia

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Idealismo e dogmatismo Il principio unitario: la «soggettività» o «egoità» ➥ Laboratorio sul lessico, Coscienza / autocoscienza / io, p. 833

Spontaneità dell’Io come superamento del dualismo conoscenza / morale

Punti di partenza opposti: Io e cosa in sé

Incessante dinamismo dell’Io

T1

La soggettività come opposto della sostanza Prima introduzione alla dottrina della scienza, 7

Il principio unitario da cui derivare tutta la filosofia – e indirettamente tutte le scienze particolari – è individuato da Fichte nell’intera attività dello spirito umano, anteriore alla distinzione tra ragion pratica e teoretica: l’unità pratico-teoretica della coscienza, che egli denomina con il termine «soggettività» o «egoità», intendendo con tale espressione l’agilità interiore della ragione (intelligenza), ossia l’azione in atto (Tathandlung). L’adozione della soggettività – così intesa – come principio primo della filosofia risponde all’esigenza di affrontare i problemi derivanti dal dualismo, posto da Kant, tra la ragione nella sua dimensione teorica e pratica: problemi che per Fichte vengono meno, una volta compreso e mostrato che ragion pura teoretica e ragion pura pratica non sono altro che due aspetti della medesima e unica ragione, cioè dell’assoluta spontaneità dell’Io. In particolare, questa impostazione consente secondo Fichte di risolvere il problema della cosa in sé in chiave idealistica, attraverso l’attività originaria, autonoma e indipendente della ragione, evitando di ricadere nel dogmatismo, ma al tempo stesso senza incorrere nelle obiezioni degli scettici. La valenza antiscettica dell’idealismo fichtiano potrà essere spiegata adeguatamente solo attraverso l’esame della dottrina della conoscenza (vedi sotto, p. 800 ss.). Vale la pena invece soffermarsi sin d’ora sul suo significato antidogmatico. Idealismo e dogmatismo sono per Fichte due tendenze filosofiche radicalmente contrapposte e inconciliabili, che consistono nel ricondurre l’esperienza – cioè l’intero sistema delle nostre rappresentazioni – rispettivamente all’attività dell’Io o a una «cosa in sé», cioè a una sostanza di qualsivoglia genere (che può essere un oggetto, o un Dio inteso come Essere, o lo stesso soggetto, ma concepito in modo statico). L’Io assoluto o la soggettività che Fichte pone come principio primo della propria filosofia è esattamente l’opposto dell’Essere e della sostanza, il cui carattere fondamentale consiste, secondo una tradizione di pensiero risalente a Parmenide e ad Aristotele, proprio nella staticità. Non a caso, Fichte tiene a precisare in più occasioni che la soggettività – o attività dell’intelligenza – non può essere chiamata un «qualcosa di attivo», perché questa definizione rinvia a un presunto ma inesistente sostrato fisso e permanente della sua azione, impedendo di cogliere la vera natura della soggettività, che consiste esclusivamente nel fare, cioè in un incessante dinamismo. Come si è già detto, l’idealismo spiega le determinazioni della coscienza in base all’operare dell’intelligenza. Per lui essa è soltanto attiva e assoluta, non passiva; non può essere passiva, in quanto essa, secondo il suo postulato, è il primum, e il più alto; prima di essa non c’è niente da cui possa essere spiegato un suo stato di passività. Dallo stesso principio si ricava anche che all’intelligenza non può essere attribuito neanche un essere in senso proprio, né un sussistere – perché ciò è il risultato di un’azione reciproca, e non esiste né viene presunto niente con cui l’intelligenza possa entrare in azione reciproca. Per l’idealismo l’intelligenza è un agire, e assolutamente niente di più; non si deve chiamarla neanche un che di attivo, in quanto con questa espressione si intende qualcosa di sussistente al quale si accompagni l’attività. Ma l’idealismo non ha alcun motivo per fare una simile ipotesi […] 793

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Parte terza L’idealismo

Motivazioni pratiche contro il dogmatismo

Inclinazione e interesse come motivi di scelta prefilosofica

T2

La scelta della filosofia riflette la propria personalità Prima introduzione alla dottrina della scienza, 5

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A favore dell’idealismo e contro il dogmatismo depongono per Fichte sia motivazioni teoretiche sia motivazioni pratiche. Sotto il profilo pratico, il dogmatismo è inaccettabile in quanto partire da un Essere o da un oggetto assoluto – o meglio da una cosa in sé – implica inevitabilmente il determinismo e la negazione di ogni libertà. Ogni dogmatico conseguente non può che abbracciare il fatalismo, ossia ritenere che tutte le cose siano necessariamente quelle che sono, riconducendo alla causalità di una cosa in sé tutte le nostre rappresentazioni, compresa quella della libertà e quelle delle nostre azioni libere. Non vi possono, infatti, essere due termini iniziali, e ciò che si assume come termine derivato non può che essere dipendente dal primo; dunque, porre come primum la cosa in sé equivale a negare l’indipendenza dell’Io. Di qui la tesi fichtiana, secondo la quale l’adesione personale all’una o all’altra filosofia costituisce anche una scelta prefilosofica, cioè una scelta che non poggia su argomentazioni – ciò che è primo non può per definizione essere dimostrato – bensì piuttosto sull’inclinazione e sull’interesse, che mettono in gioco e rispecchiano l’uomo intero e la sua personalità. Vi sono uomini che non si sono ancora elevati al sentimento della propria libertà assoluta e perciò trovano se stessi soltanto nelle cose, considerando la propria autocoscienza come un semplice riflesso degli oggetti esterni: questi sono i dogmatici. Chi diventa invece consapevole della propria indipendenza dalle cose esterne, non ha bisogno della fede in esse, perché è animato da un’immediata fede in sé. Ogni dogmatico coerente è necessariamente fatalista […] Contesta senza riserve l’indipendenza dell’io, che l’idealista prende come fondamento, e fa dell’io soltanto un prodotto delle cose, un accidente del mondo […] Non ci sono dubbi che si può avere la rappresentazione dell’indipendenza dell’io, e di quella della cosa, ma non l’indipendenza di entrambi, l’una accanto all’altra. Primo, iniziale, indipendente può essere uno solo; e quello che è secondo diventa necessariamente, per il fatto che è secondo, dipendente dal primo, con il quale esso va collegato. Ma quale dei due dev’esser messo al primo posto? Non è possibile che il motivo della decisione venga ricavato dalla ragione; qui non si tratta infatti dell’inserimento di un membro nella serie argomentativa, per il quale sono sufficienti le motivazioni razionali, ma dell’inizio dell’intera serie, che, essendo un atto assolutamente primo, dipende soltanto dalla libertà del pensiero. Tale atto viene quindi determinato dalla libertà dell’arbitrio; e dato che la decisione dell’arbitrio deve pur avere un motivo, vien determinato dall’inclinazione e dall’interesse. Il motivo ultimo della differenza tra l’idealista e il dogmatico è dunque la diversità del loro interesse. L’interesse supremo, fondamento di ogni altro interesse, è quello per noi stessi. […] Ora, ci sono due livelli di umanità […] Alcuni, che non si sono ancora innalzati al pieno sentimento della loro libertà, e della loro assoluta indipendenza, trovano se stessi soltanto nella rappresentazione delle cose. […] se le cose vengono loro sottratte, ecco che anche il loro se stesso va perduto; è in funzione di loro stessi che non possono abbandonare la loro fede nell’indipendenza delle cose: perché soltanto insieme a queste essi sussistono. […] Il principio dei dogmatici è la fede nelle cose, in funzione di loro stessi: da cui deriva, per mediazione, la fede nel loro proprio sé, disperso, e sorretto soltanto dagli oggetti. Chi, invece, è consapevole della propria autonomia, e della propria indipen-

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

denza da tutto ciò che è fuori di lui – e lo si diventa soltanto perché, per opera propria e indipendentemente da tutto il resto, ci si è resi qualcosa –, costui non ha bisogno delle cose come sostegni del suo sé, non può averne bisogno, perché esse sopprimono l’autonomia di cui si è detto, e la trasformano in vuota apparenza. […] Da quanto si è detto risulta che la scelta della filosofia dipende da che uomo si sia: un sistema filosofico, infatti, non è una inerte suppellettile, che si possa abbandonare o accettare a proprio piacimento: al contrario, esso è animato dall’anima dell’uomo che lo ha fatto proprio. Il dogmatismo non spiega l’origine delle rappresentazioni

Il dualismo tra intelligenza e cose è superato solo dall’idealismo

➥ Sommario, p. 822

Idealismo e dogmatismo come scelte prefilosofiche

Anche sotto il profilo teoretico, l’idealismo ha per Fichte degli indubbi vantaggi rispetto al dogmatismo, nonostante la loro reciproca inconfutabilità, dovuta all’impossibilità di dimostrare per via argomentativa il principio primo. Soprattutto, il dogmatismo (le teorie fondate sull’Essere o sulla sostanza) per Fichte non spiega ciò che si propone di spiegare, cioè la genesi dell’esperienza, intesa come sistema delle rappresentazioni che si presentano alla nostra intelligenza accompagnate dal sentimento della necessità. Secondo Fichte, infatti, le cose hanno una sola dimensione, che egli chiama «dell’essere o del reale»; l’intelligenza è invece contraddistinta dall’unione indissolubile di essere e coscienza, cioè di una dimensione insieme reale e ideale. Se si tiene conto di questa differenza essenziale fra le cose e l’intelligenza, emerge in modo chiaro l’impossibilità di spiegare la genesi delle rappresentazioni come il risultato dell’azione causale di una cosa in sé: dalla causalità di una cosa non può derivare nient’altro che un effetto reale, cioè una cosa, ma giammai la coscienza, che è un termine radicalmente eterogeneo. Se si parte da un essere – come fanno i dogmatici – è dunque impossibile spiegare il passaggio al rappresentare, e si è condannati a lasciare sussistere una «smisurata lacuna» tra cose e rappresentazioni. Per questo motivo, anche dal punto di vista speculativo l’unica filosofia valida risulta essere l’idealismo, che parte dall’intelligenza, intesa come unità sintetica di ideale e reale.

Idealismo

Dogmatismo

Sono due attitudini prefilosofiche ambedue inconfutabili

Riconduce l’esperienza (le nostre rappresentazioni) all’attività dell’Io

Riconduce l’esperienza (le nostre rappresentazioni) all’esistenza di qualcosa che ne è l’origine (la cosa in sé, l’Essere, Dio, l’Io come realtà statica)

Motivazione pratica a favore dell’idealismo: afferma l’indipendenza dell’Io

Motivazione pratica contro il dogmatismo: implica il determinismo o la negazione della libertà

Motivazione teoretica a favore dell’idealismo: unisce essere e coscienza attraverso l’intelligenza

Motivazione teoretica contro il dogmatismo: non riesce a spiegare il passaggio dall’essere al rappresentare

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Parte terza L’idealismo

5 I principi fondamentali della coscienza: posizione, opposizione, determinazione

Dottrina dei principi e metafisica del soggetto La parte più nota e più discussa del pensiero fichtiano è la prima parte del Fondamento dell’intera dottrina della scienza, che contiene un’esposizione preliminare dei tre principi fondamentali della coscienza, cioè le sue azioni originarie: la posizione, l’opposizione e la determinazione, etichettate spesso nella storiografia filosofica novecentesca rispettivamente come «tesi», «antitesi» e «sintesi», gli strumenti con cui Fichte ha lavorato per una lunga parte della sua attività filosofica.

La posizione assoluta I caratteri del primo principio: infinitezza, identità e totalità

L’Io non è colto dalla coscienza empirica

Principio logico dell’identità e primo principio

Dal principio logico come fatto all’Io come atto

Valore ontologico dell’asserzione logica Io = Io

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Il primo principio suona in questi termini: «l’Io pone se stesso in maniera assoluta», cioè è causa assoluta del proprio essere. Il termine «Io» non indica qui il soggetto individuale e finito (Io empirico), bensì la pura forma della soggettività, intesa come attività assoluta, cioè priva di oggetto, e dunque sciolta da ogni limite, infinita. La posizione assoluta dell’Io è l’unica attività in cui il soggetto e l’oggetto, o meglio il producente e il prodotto dell’azione si identificano completamente. I due tratti appena enunciati – cioè l’infinitezza e l’identità – implicano un terzo carattere, che contraddistingue la soggettività assoluta espressa dal primo principio: il suo configurarsi come totalità, capace di comprendere al suo interno tutto il reale; ciò che è infinito non può, infatti, avere nulla al di fuori di sé. In quanto tale, cioè in quanto attività infinita e assoluta identità di soggetto e oggetto, la egoità pura non si presenta alla coscienza empirica: quest’ultima è, infatti, sempre coscienza di qualcosa, cioè implica sempre un dualismo tra soggetto e oggetto. Il porre assoluto è dunque un porre precoscienziale, condizione di possibilità della coscienza finita e principio di spiegazione di quest’ultima: ad esso il filosofo può pervenire solo attraverso un procedimento mediato di astrazione e riflessione. Nel Fondamento, Fichte arriva alla formulazione del primo principio prendendo le mosse dal principio logico di identità «A = A», che è adatto a fungere da punto di partenza dell’argomentazione, in quanto è un enunciato riconosciuto da tutti. Il principio logico dell’identità non afferma l’esistenza di A, bensì semplicemente il nesso necessario, in base al quale «se A esiste, cioè se si pone A, A deve essere = A»: per esempio, nell’affermazione «il triangolo è il triangolo», il principio ha un valore esclusivamente formale, e non comporta la reale esistenza del triangolo. A partire dal principio logico di identità – che è un fatto (un dato incontrovertibile e autoevidente) della coscienza empirica – Fichte coglie l’esistenza dell’atto assoluto dell’Io come principio primo della filosofia, osservando che il nesso necessario tra due termini espresso dal principio di identità (il giudizio A = A) può essere posto solo nell’Io e dall’Io, che giudica, cioè che connette soggetto e predicato. Dunque, se si applica il principio d’identità all’Io, cioè se si afferma «Io = Io», si verifica l’unico caso in cui il principio d’identità ha un valore non solo formale, ma anche sostanziale. La proposizione «Io = Io» implica, infatti, non solo l’affermazione dell’identità dell’Io con se stesso («Io sono Io»), ma anche l’affermazione della realtà dell’Io («Io sono»), come «assoluto positivo»: mentre un oggetto qualsiasi, dalla pietra al muro, è identico a se stesso solo per una coscienza che lo pone, l’identità dell’Io con se stesso non può essere posta da nient’altro se non dall’Io stesso che – per sapersi come identico – deve esistere.

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza Nell’Io coincidono sapere di sé ed essere

Riepilogando: per via argomentativa, il filosofo coglie l’Io – in quanto attività di connessione secondo leggi poste da esso stesso – come fondamento di tutti i giudizi, cioè coglie che «A è A» solo perché «Io sono». L’affermazione «Io sono» è però possibile solo in quanto l’Io sa di se stesso e, reciprocamente, non potrebbe sapere di se stesso se non fosse. L’Io è l’unico elemento il cui essere coincide e si esaurisce completamente in un’attività, che è l’attività del porre se stesso.

Il primo principio

Procedimento per arrivare al primo principio Principio logico di partenza: A = A (principio d’identità) Può essere posto solo nell’Io e dall’Io-fondamento dei giudizi di identità Applicazione del principio all’Io: Io = Io Il principio d’identità applicato all’Io ha un valore non solo formale, ma anche sostanziale: «Io sono Io», implica «Io sono» L’Io come atto assoluto, unico ente il cui essere è un’attività, quella di porre se stesso

Primo principio: «l’Io pone se stesso in maniera assoluta»: posizione (tesi)

Caratteri del primo principio

Infinitezza: attività assoluta, cioè sciolta da ogni limite

Differenza tra l’Io assoluto di Fichte e l’Io penso kantiano

Identità: attività in cui il soggetto e l’oggetto si identificano

Totalità: capace di comprendere al suo interno tutto il reale

Carattere inconsapevole: in quanto assoluta identità di soggetto e oggetto, non si presenta alla coscienza empirica

Il modello di Fichte è l’appercezione pura kantiana (vedi Unità 14, p. 675 s.). Tuttavia, si è già detto che l’Io assoluto non è solo attività teoretica, bensì pura attività incondizionata della ragione, che è alla radice sia dell’agire teoretico sia dell’agire pratico dell’uomo. Inoltre, il cambiamento fondamentale sta nell’inversione dell’ordine: Kant parte dal materiale dato nella sensibilità, e presenta l’Io penso come unità originaria, cui ricondurre un materiale molteplice già dato. Invece, l’Io del primo principio di Fichte non ha alcun riferimento alla sensazione, o a qualsiasi limitazione esterna, e proprio per questo è definito «Io assoluto».

Opposizione e determinazione L’emergere del Non-io

L’esperienza e la coscienza finita possono venire spiegate soltanto se si ammette che l’agire originario dell’Io incontri nel proprio orizzonte un altro da cui differisce: si è detto, infatti, che si ha la coscienza finita solo quando c’è un dualismo tra soggetto e oggetto, che è del tutto assente nel primo principio. 797

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Parte terza L’idealismo Secondo principio: originarietà dell’opposizione

I contenuti del secondo principio dipendono dal primo

Motivi pratici e teoretici della dipendenza del Non-io dall’Io

Il secondo principio

Per fondare la differenza, Fichte introduce dunque il «secondo principio fondamentale», secondo il quale «all’Io viene opposto assolutamente un Non-io». Anche al secondo principio Fichte arriva prendendo le mosse da un principio logico, cioè il «principio di non-contraddizione»: «A non è Non-A». Il secondo principio non può, infatti, essere dedotto dal primo: e questo perché dalla posizione assoluta non è possibile derivare l’azione dell’opporre, che risulta dunque altrettanto originaria quanto la prima. Ciò significa che l’Io assoluto non crea la realtà, cioè non è il fondamento della sua esistenza: quest’ultima è un fatto indeducibile, assolutamente contingente. Quanto al contenuto, il secondo principio è però determinato dall’Io assoluto: il risultato dell’opporre – cioè la cosa – si presenta, infatti, solo come opposto dell’Io, e non può presentarsi diversamente. Di qui l’uso del neologismo «Non-io», che Fichte conia per definire la materia, allo scopo di ribadire che tutto ciò che si pensa e si percepisce è conoscibile solo perché c’è il soggetto, e solo attraverso le leggi del soggetto. Egli parte dunque dall’Io assoluto e qualifica l’opposto come Non-io, solo per rigettare la tesi, tipica del dogmatismo, di una cosa in sé come superiore all’Io in quanto è la causa delle sue rappresentazioni. Tesi che risulterebbe negativa non solo dal punto di vista pratico – in quanto incompatibile con l’affermazione della libertà del soggetto – ma anche dal punto di vista teoretico, in quanto comprometterebbe l’identità e unità della coscienza. Solo se si parte dall’Io assoluto, nell’incontro tra il soggetto e l’oggetto è il secondo che si deve conformare al primo e alle sue leggi; altrimenti, bisogna ammettere che nella conoscenza è il soggetto che si adegua all’oggetto, assumendone le forme cangianti e smarrendo così la sua identità.

Procedimento per arrivare al secondo principio Principio logico di partenza: A non è Non-A (principio di non contraddizione) Non può essere dedotto dal primo, ma gli sta di fronte come atto assoluto e originario di opposizione Il suo contenuto è determinato dall’attività priva di limiti dell’Io assoluto Viene definito Non-io in quanto è conoscibile solo attraverso l’Io e le sue leggi Si identifica con la materia Fonda la differenza che sola può spiegare la coscienza finita

Secondo principio: «all’Io viene opposto assolutamente un Non-io»: opposizione (antitesi) Caratteri del secondo principio Non è la cosa in sé superiore all’Io perché causa delle rappresentazioni

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Non limita la libertà del soggetto

Non compromette l’identità e l’unità dell’Io

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza Problemi connessi all’autonomia dei due principi

Relazione tra principi: negazione parziale e terzo principio

Il principio logico del terzo principio

Il terzo principio

I primi due principi non sono ancora sufficienti, però, per spiegare la coscienza finita: il primo enuncia un Io assoluto, cioè un Soggetto che – proprio per la sua assolutezza – toglie e annulla l’oggetto, in quanto qualcosa di distinto da sé; il secondo enuncia un Oggetto altrettanto assoluto, la cui posizione equivale alla totale negazione dell’Io. Presi per sé, i primi due principi non rendono dunque ragione del dualismo, che definisce la cifra costitutiva della coscienza finita empirica, sintesi di soggetto e oggetto. Nasce dunque il problema di trovare un rapporto in cui Io e Non-io possano essere confrontati senza annullarsi reciprocamente: problema che può essere risolto solo ammettendo che i due termini non si neghino completamente, ma solo in parte. Questa negazione parziale – che è denominata da Fichte «limitazione» o «determinazione» – presuppone che l’Io e il Non-io siano posti come «divisibili»: può essere, infatti, negato parzialmente solo ciò che è suscettibile di essere diviso in parti. Di qui il terzo principio, che recita: «Io contrappongo nell’Io all’Io divisibile un Non-io divisibile», ove l’Io e il Non-io divisibili non sono nient’altro che gli infiniti soggetti conoscenti e gli infiniti oggetti conosciuti. Attraverso questa reciproca negazione parziale ognuno dei due, l’Io e il Non-io, è posto e limitato nell’orizzonte della soggettività assoluta, cioè «nell’Io». Il risultato di questa limitazione e determinazione reciproca è la coscienza empirica: il terzo principio enuncia dunque il passaggio dall’Io assoluto all’Io individuale. Anche il terzo principio è posto in corrispondenza con un principio logico, cioè quello di «ragion sufficiente», secondo il quale «niente esiste, accade o può essere considerato vero senza una ragion sufficiente»; principio che, in questo contesto, viene formulato come «A in parte = –A, e viceversa». In riferimento al rapporto di determinazione reciproca tra Io e Non-io (che, come abbiamo visto, sono ontologicamente autonomi), ciò significa che ognuno dei due opposti ha il suo fondamento nella negazione dell’altro, ossia trova nell’altro la «ragion sufficiente» che lo determina. Per esempio, se vi è nella coscienza una rappresentazione «Y», ad essa dovrà sempre corrispondere, nell’ambito del Non-io, un termine opposto, che viene indicato con un segno negativo, un «–Y». Procedimento per arrivare al terzo principio In questo caso il punto di partenza non è un principio logico, bensì l’esigenza di superare l’opposizione tra Io e Non-io Io e Non-io possono essere confrontati, all’interno dell’Io, senza annullarsi reciprocamente, solo ammettendo una loro limitazione reciproca La limitazione reciproca presuppone la divisibilità di entrambi i termini Il terzo principio esprime il passaggio dall’Io assoluto all’Io empirico

Terzo principio: «Io contrappongo nell’Io all’Io divisibile un Non-io divisibile»: determinazione (sintesi) Caratteri del terzo principio Spiega la coscienza finita, sintesi di soggetto e oggetto, rappresentazioni e cose

Spiega il dualismo della coscienza finita mantenendo come fondamento l’attività del soggetto

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Parte terza L’idealismo Dottrina della scienza e logica formale

➥ Sommario, p. 822

6 Dualismo tra teoretico e pratico rispetto ai loro oggetti

Per la corrispondenza stabilita tra i tre principi fondamentali della coscienza e quelli logici, la prima dottrina della scienza è stata anche definita come un’«ontologia dell’Io strutturata secondo principi logici»: Fichte nega l’ontologia tradizionale, rifiutandosi di porre come principio della filosofia l’Essere, ma presenta l’Io assoluto in base ai principi logici, tradizionalmente concepiti come i predicati interni necessari dell’Ente. Ciò non significa, però, che per Fichte la dottrina della scienza dipenda dalla logica formale. Egli afferma piuttosto il contrario: in quanto astrazione dal sapere materiale, la logica formale non si darebbe se non si dessero le condizioni di esso, indagate ed enucleate dalla dottrina della scienza.

La conoscenza Nel Fondamento dell’intera dottrina della scienza Fichte fa seguire alla dottrina dei principi una seconda e una terza parte, dedicate rispettivamente all’indagine sui fondamenti del «sapere teoretico» e della «scienza del pratico». Questa bipartizione tra teoretico e pratico è fatta derivare dalla limitazione reciproca tra Io e Non-io, enunciata nel terzo principio: il teoretico – viene argomentato – ha per oggetto l’Io in quanto quest’ultimo si pone, nella conoscenza, come determinato dal Non-io; il pratico ha invece per oggetto l’Io in quanto quest’ultimo si pone, nell’attività pratica, come determinante il Non-io.

Il fondamento pratico della conoscenza: lo Streben Ciò non significa, però, che la bipartizione tra teoretico e pratico coincida con la divisione tra gnoseologia ed etica, dato che per Fichte questi due ambiti sono strettamente interdipendenti. Innanzitutto, per attività pratica dell’Io Fichte non intende l’agire morale, cioè l’agire libero e consapevole dell’uomo, bensì piuttosto il «tendere» (Streben) della ragione all’assoluta spontaneità e all’assoluta identità con sé, che nella prospettiva fichtiana si manifesta originariamente in modo inconsapevole, nelle funzioni sensibili dell’animo (sentimenti e sensazioni, vedi sotto, p. 802 s.). Di conseguenza, la scienza del pratico non corrisponde alla morale, pur avendo nei confronti di quest’ultima un ruolo fondativo. L’attività teoretica In secondo luogo, la gnoseologia fichtiana travalica i confini del sapere teoretico, e l’immaginazione in quanto Fichte pone a fondamento della stessa conoscenza l’attività pratica delproduttiva l’Io, indicando in quest’ultima anche l’unico possibile «contenuto» delle nostre rappresentazioni. Nella parte teoretica Fichte deduce le strutture mediante le quali un oggetto può essere intuito e pensato – come le categorie intellettuali o lo spazio e il tempo – e indaga l’attività sintetica inconsapevole che mette in relazione l’Io e il Non-io, cioè l’immaginazione produttiva, senza però chiarire da dove il soggetto riceva il contenuto delle proprie rappresentazioni. Questo problema trova una soluzione solo all’interno della parte pratica, che deduce, come abbiamo detto, le funzioni sensibili dell’animo a partire dal tendere (Streben) della ragione all’assoluta indipendenza. Nello stesso contesto, Fichte precisa che soltanto una parte pratica potrebbe dare una metafisica, nel senso di pretesa scienza delle cose in sé: il tendere dell’Io costituisce, infatti, l’unica realtà oriL’attività pratica non coincide con la morale: lo Streben

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

ginaria – cioè l’unico in sé – che possiamo attingere, e da cui nella prospettiva fichtiana deriva il contenuto delle nostre rappresentazioni. Trattazione unitaria Questa stretta interdipendenza tra sfera teoretica e sfera pratica indusse Fichte pratico-teoretica – nella esposizione della dottrina della scienza immediatamente successiva al Fondamento, cioè la cosiddetta Nova Methodo (1798) – ad abbandonare la bipartizione a favore di una trattazione unitaria.

T3

La parte pratica ha per oggetto il «conosciuto» Fondamento dell’intera dottrina della scienza, par. 6

Indagine sull’attività pratica dell’Io

Autolimitazione e urto con il Non-io

Lo sforzo della ragione di uniformare a sé la realtà

Il dinamismo dello Streben

T4

Lo Streben come termine medio tra infinitezza e finitezza

Fondamento dell’intera dottrina della scienza, 5,2

Innanzitutto poche parole sul metodo – Nella parte teoretica della dottrina della scienza noi abbiamo da fare esclusivamente col conoscere; qui [nella parte pratica] col conosciuto. Là noi domandiamo; in che modo qualcosa è posto, intuito, pensato e così via; qui: che cosa è posto? Se dunque la dottrina della scienza dovesse avere anche una metafisica, come pretesa scienza delle cose in sé, e se una tale scienza le fosse richiesta, essa dovrebbe rimandare alla sua parte pratica. Solo questa, come si vedrà sempre meglio, parla di una realtà originaria […] Per comprendere in che modo Fichte concepisce la conoscenza, si tratta dunque innanzitutto di chiarire meglio in che cosa consista l’attività pratica dell’Io, che egli indica al tempo stesso come fondamento e contenuto della nostra attività rappresentativa. L’Io pratico consiste per Fichte nello Streben, cioè nello «sforzo» – o meglio nel «tendere» della ragione ad assorbire e a uniformare a sé tutta la realtà – che è ai suoi occhi l’unica forma in cui l’attività pura dell’Io assoluto, in sé infinita identità di soggetto e oggetto, si manifesta a livello della coscienza finita, racchiusa nell’orizzonte del dualismo tra i due termini, ragione e realtà. Da un lato, la soggettività assoluta può pervenire alla coscienza non nella sua infinitezza, bensì solo una volta sollecitata ad autolimitarsi dall’urto del Non-io: non ci può essere riflessione – e dunque non ci può essere coscienza – senza l’«urto» (Anstoss) di un oggetto che respinga all’indietro l’attività del soggetto (la riflessione non è nient’altro, infatti, che attività che ritorna su se stessa). Dall’altro, essendo infinita, la soggettività assoluta che Fichte addita come essenza del nostro spirito non può accettare di essere arrestata da una limitazione, bensì la sorpassa incessantemente con una nuova posizione, manifestandosi così – una volta posta in relazione con un oggetto, nell’ambito della coscienza finita – come «sforzo» e tendenza della ragione a uniformare a sé tutto ciò con cui entra in contatto, cioè a razionalizzare tutto il reale, sottoponendolo alle leggi della coscienza. Questo tendere o Streben porta a espressione al tempo stesso la finitezza della nostra coscienza e l’infinitezza che ci compete, in quanto esseri razionali: esso è infinito, perché non è arrestato da nessun ostacolo o limitazione, bensì sorpassa all’infinito ciò da cui è urtato. Dall’altro lato, lo Streben non è una causalità realizzata, bensì è solo un «tendere» – cioè un’aspirazione che per definizione non si realizza e non potrà mai pienamente realizzarsi – proprio perché il limite non può mai essere eliminato, essendo la condizione necessaria per la riflessione e dunque per la coscienza. Così, dunque, è determinata ormai l’essenza dell’Io, in quanto essa può essere determinata, e le contraddizioni che erano in essa [tra il carattere incondizionato dell’Io assoluto e il carattere condizionato dell’Io teoretico] sono risolte in quanto possono essere risolte. L’Io è infinito, ma solo per il suo sforzo; esso si sforza di essere infinito. Ma nel concetto stesso dello sforzo è già compresa la finità, poiché ciò a cui non si contrasta non è uno sforzo. Se l’Io fosse più che sforzantesi, se avesse una causalità infinita, esso non sarebbe Io, non porrebbe se stesso e 801

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Parte terza L’idealismo

perciò non sarebbe nulla. Se non avesse questo sforzo infinito, allora non potrebbe porre se stesso, poiché non potrebbe contrapporsi nulla; esso non sarebbe dunque neppure Io e quindi non sarebbe nulla.

L’attività pratica e teoretica dell’Io

Il tendere della ragione a riempire di sé l’infinità è per Fichte la condizione della possibilità di ogni oggetto: senza di esso, infatti, l’Io non andrebbe oltre la limitazione, e dunque non sarebbe in grado di comprendere – o meglio, in linguaggio fichtiano, di «porre» – ciò che la provoca, cioè l’oggetto (come si legge nel testo, «non potrebbe contrapporsi nulla»). Dall’altro lato, senza il movimento riflessivo in cui consiste l’essenza dell’Io teoretico, non vi sarebbe coscienza del tendere, e il soggetto si perderebbe in ciò che è fuori di lui. In questo senso, la conoscenza è dunque per Fichte un circolo tra attività pratica e attività teoretica dell’Io.

Attività teoretica

Conoscenza fondata sull’attività pratica dell’Io, dalla quale riceve il proprio contenuto

L’Io teoretico come coscienza che accompagna (riflette) il tendere dell’Io pratico

Attività pratica Circolarità tra teoretico e pratico

Circolarità tra l’attività pratica e quella teoretica dell’Io

Attività pratica come «tendere» (Streben) della ragione all’identità

L’Io pratico, lo sforzo della ragione si manifesta originariamente in modo inconsapevole nelle funzioni sensibili dell’animo

La costituzione inconscia degli oggetti: immaginazione produttiva e sentimenti Inversione rispetto alla trattazione kantiana della sensibilità

Kant: sensibilità come mera passività

Sentimento come componente attiva della sensibilità per Fichte

802

La Critica della ragion pura si apre con l’esame della sensibilità, contenuto nell’Estetica trascendentale. Nel Fondamento dell’intera dottrina della scienza, invece, Fichte sceglie di trattare della sensibilità nell’ultima parte, cioè nella «scienza del pratico», dopo l’indagine sulle strutture riflessive e sull’immaginazione produttiva. Questa inversione non è casuale, bensì riflette una concezione della sensibilità – e dunque dell’intera conoscenza – molto diversa da quella kantiana. Kant concepisce quest’ultima come mera passività – cioè come la capacità del soggetto di essere modificato dall’azione esercitata dagli oggetti esterni – contrapposta e completamente eterogenea rispetto alla spontaneità del pensiero, inteso come attività di sintesi. Di contro, Fichte deduce le funzioni sensibili, come per esempio il sentimento, come la prima forma dell’originaria posizione-opposizione tra Io e Non-io, mediata dall’attività sintetica dell’immaginazione produttiva. Più precisamente, il sentimento è l’espressione originaria, lo stato di consapevolezza immediata che è dato dall’autolimitazione dello «sforzo» dell’Io, a seguito dell’urto esercitato dal Non-io. In questo modo, Fichte può mettere in rilievo la componente attiva pre-

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Elementi soggettivi della conoscenza

Percezione mediata dell’oggetto attraverso l’attività dell’Io

Svolta idealistica rispetto a Kant

La validità oggettiva della conoscenza: l’idealismo di Fichte

T5

L’Io sviluppa da se stesso il materiale della conoscenza Fondamento dell’intera dottrina della scienza, par. 7, C

sente anche nel sentimento / sensazione: certo, in quanto coscienza di una limitazione, esso esprime una parziale passività, ma l’elemento limitato è un’attività, cioè lo «sforzo» della ragione; quest’ultimo, inoltre, non subisce passivamente una limitazione dall’esterno, bensì si autolimita, sia pure in seguito all’urto con il Non-io. Il sentimento è dunque attività, sia pure «limitata», cioè parzialmente negata. Questa impostazione determina un’enfatizzazione del carattere esclusivamente soggettivo dei sentimenti, e dunque del processo conoscitivo, che da essi prende le mosse: secondo Fichte, infatti, con il sentimento e la sensazione la materia che colgo immediatamente non è l’oggetto esterno né le sue qualità, bensì unicamente l’Io stesso e il suo tendere, in quanto esso si autolimita; è in questo senso che il contenuto della conoscenza è l’Io pratico. All’oggetto pervengo soltanto in maniera mediata, nella misura in cui – per spiegare la limitazione particolare che è espressa nel sentimento – abbozzo l’immagine di qualcosa al di fuori di me, che sia ad essa corrispondente: ammettiamo per esempio che l’attività limitata dell’Io, di cui il sentimento è espressione, sia uguale a Y; in base alle sue leggi universali (e in particolare al principio di ragion sufficiente), la coscienza deve necessariamente trovare un fondamento di questa limitazione, riconducendola a un elemento opposto –Y, che essa pone fuori di sé. Quanto appena detto consente di cogliere in maniera chiara la svolta idealistica che Fichte compie rispetto alla filosofia critica di Kant. Per quest’ultimo, il pensiero costituisce e determina gli oggetti, ma sintetizzando – attraverso le forme a priori dell’intelletto – un materiale proveniente dall’esterno, cioè le impressioni sensibili. Per Fichte, invece, la coscienza costituisce e determina gli oggetti – o meglio forma l’immagine degli oggetti – sottoponendo alle sue leggi e alle sue strutture riflessive non un materiale proveniente dall’esterno, bensì la stessa attività dell’Io, il suo «impulso», in quanto questo si autolimita, a seguito dell’urto con il Non-io (vedi lo schema a p. 806). In questo senso, la dottrina della scienza è un idealismo, in quanto elimina il riferimento a un elemento esterno come fonte del materiale della conoscenza, affermando che l’Io sviluppa esclusivamente da sé – cioè dal sentimento, in quanto attività limitata – tutto ciò che si deve presentare in esso. Come Fichte stesso tiene a precisare, però, affermare il carattere soggettivo non solo delle forme, ma anche del materiale della conoscenza – offerto dal sentimento – non significa affatto affermare che gli oggetti e il mondo varino da soggetto a soggetto: le azioni dell’anima attraverso le quali la coscienza costituisce e determina gli oggetti sono, infatti, sottoposti a leggi necessarie, valide per ogni uomo; per questo motivo, le rappresentazioni che formiamo hanno «validità oggettiva». Qui si mostra, chiaro come il sole, quel che tanti filosofi i quali, malgrado il loro preteso criticismo, non si sono ancora liberati dal dogmatismo trascendente, non possono comprendere, che e come l’Io possa sviluppare esclusivamente da se stesso tutto ciò che in esso deve presentarsi, senza uscire mai da sé né rompere il suo circolo, come doveva del resto necessariamente accadere, perché l’Io sia Io. Nell’Io esiste un sentimento; questo è una limitazione dell’impulso e se questo sentimento deve essere posto come un sentimento determinato, da distinguersi dagli altri sentimenti, – del che noi certamente non vediamo ancora qui la possibilità – esso è limitazione di un impulso determinato, da distinguersi dagli 803

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Parte terza L’idealismo

altri. L’Io deve porre un fondamento di questa limitazione e porlo fuori di sé. Esso non può porre l’impulso come limitato se non da qualcosa di affatto opposto; e così si trova manifestamente nell’impulso ciò che deve essere posto come oggetto. Se per esempio l’impulso è determinato = Y, allora come oggetto deve essere posto necessariamente –Y. […] Questo procedimento ha tuttavia validità oggettiva, poiché è il procedimento di ogni ragione finita e non c’è punto validità oggettiva, né può essercene altra che questa indicata.

La spiegazione del «realismo» della coscienza comune

L’immaginazione produttiva all’origine della costituzione degli oggetti

L’attività dell’immaginazione: dai sentimenti alle intuizioni sensibili

All’interno di questa svolta idealistica, resta da comprendere per quale motivo l’oggetto, pur essendo un prodotto della coscienza, appaia all’uomo comune come qualcosa di sussistente per sé, indipendente dall’azione dell’Io e anteriore ad essa. Fichte riconduce questo dato – cioè il «realismo» della coscienza comune – al carattere inconscio delle operazioni dell’animo attraverso le quali l’oggetto viene costituito: la coscienza comune, inconsapevole delle azioni mediante le quali forma l’oggetto, è necessariamente portata a credere di ricevere dal di fuori ciò che invece non è altro che il prodotto della propria forza, secondo le sue leggi. Soltanto la coscienza filosofica, riflettendo sull’operare della coscienza comune, solleva a consapevolezza questo procedimento, rivelando illusoria la credenza in oggetti esistenti indipendentemente dall’Io. Nella costituzione inconscia degli oggetti a opera della coscienza Fichte attribuisce un ruolo fondamentale all’immaginazione produttiva, riprendendo e rielaborando la dottrina kantiana dello schematismo trascendentale. Per Kant, l’immaginazione produttiva era la facoltà inconsapevole preposta alla elaborazione degli schemi trascendentali, concepiti come il termine medio tra intuizioni sensibili e categorie dell’intelletto, derivante dalla temporalizzazione delle categorie (vedi Unità 14, p. 673 s.). Per Fichte, l’immaginazione produttiva opera inconsapevolmente sul «tendere» dell’Io, in quanto questo è limitato e trova espressione nel sentimento. Precisamente, Fichte descrive la sua attività come un «oscillare» (schweben) tra l’infinito e il finito, rispettivamente il tendere infinito dell’Io e il suo ritornare su di sé, cioè la sua determinazione, aperta all’opposizione di un Non-io: tramite questo oscillare, essa connette i due opposti – cioè infinito e finito – elaborando un sostrato intuitivo disteso nel tempo e nello spazio. In questo modo, l’immaginazione trasforma i sentimenti, espressione del tendere limitato dell’Io, in intuizioni. Infine, il sostrato intuitivo prodotto dall’immaginazione diventa realtà oggettiva – cioè la realtà quale è concepita dalla coscienza comune – solo quando è organizzato e fissato dall’intelletto (vedi lo schema a p. 806).

La soluzione del problema della «cosa in sé» Alla luce di quanto detto, si può ora chiarire meglio in che modo Fichte ritenga di avere risolto la questione della «cosa in sé» evitando non solo di ricadere nel dogmatismo, ma anche di incorrere nelle obiezioni dei critici scettici della filosofia kantiana. Obiezione scettica Si è visto che per questi ultimi la negazione della cosa in sé – pure necessaalla cosa in sé ria, data la contraddittorietà di questo concetto con le premesse del criticismo – aveva per conseguenza quella di sottrarre alla conoscenza umana ogni ri804

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Originarietà dell’azione reciproca Io / Non-io

L’«ideal-realismo» come nuova concezione della cosa in sé

T6

La dottrina della scienza come «idealrealismo»

Fondamento dell’intera dottrina della scienza, 5,2

➥ Sommario, p. 822

scontro oggettivo: conseguenza derivante dal fatto che essi negavano o mettevano fortemente in dubbio la possibilità di un passaggio dal pensiero alla realtà oggettiva. Per Fichte questo problema viene meno nella dottrina della scienza, poiché quest’ultima afferma l’originarietà dell’azione reciproca tra Io e Non-io, cioè parte dall’attività assoluta (teoretico-pratica) dell’Io, riconoscendo però che quest’ultima non può porsi senza opporsi un oggetto, cioè un qualcosa di esterno. Per questa impostazione – che unisce l’affermazione della priorità dell’Io sulle cose con il riconoscimento del ruolo essenziale della realtà esterna nella genesi della coscienza finita – la dottrina della scienza viene anche definita da Fichte come «ideal-realismo» o «idealismo critico», contrapposto all’idealismo assoluto, per il quale si dà solo un mondo degli spiriti e nessuna realtà esterna (come per esempio quello di Berkeley). Questo «realismo» non rappresenta, però, una ricaduta nel dogmatismo. In primo luogo, perché la dottrina della scienza non riconduce alla cosa in sé la genesi delle nostre rappresentazioni: partendo dall’attività assoluta dell’Io – intesa come attività teoretico-pratica – Fichte introduce la cosa in sé come semplice termine secondario, cui non a caso dà il nome di Non-io, abbassandola a mero ostacolo dell’egoità, la quale sviluppa dal suo interno tutto ciò che si presenta in essa. In secondo luogo, nella dottrina della scienza il riconoscimento che la coscienza empirica finita è inspiegabile senza ammettere un dato – presente indipendentemente da essa – è sempre unito a una riflessione critico-trascendentale, che rivela come in realtà questo stesso dato esista solo per una coscienza che lo pensa, e che può pensarlo solo in quanto esso è posto, nel sentimento, come limite dell’agire pratico dell’Io. Questo tipo di riflessione sottrae dunque al dato il carattere di cosa in sé, mostrando come per noi non possa esistere nessuna realtà esteriore, indipendente dalle funzioni teoretico-pratiche della coscienza. Il principio ultimo di ogni realtà per l’Io è quindi, secondo la dottrina della scienza, una originaria reciprocità d’azione tra l’Io e una qualche cosa posta fuori di esso, della quale non si può dire null’altro che questo: che essa deve essere affatto opposta all’Io. In questa reciprocità d’azione, nulla è portato nell’Io, nulla di eterogeneo è introdotto; tutto ciò che si sviluppa in esso fino all’infinito si sviluppa esclusivamente dall’Io stesso secondo le sue proprie leggi; quell’opposto non fa se non mettere in movimento l’Io per l’azione, e senza tale primo motore al di fuori di esso, l’Io non avrebbe mai agito; e poiché la sua esistenza non consiste se non nell’attività, non sarebbe neppure esistito. […] La dottrina della scienza è dunque realistica. Essa mostra che è assolutamente impossibile spiegare la coscienza delle nature finite se non si ammette l’esistenza di una forza indipendente da esse, affatto opposta a loro, e dalla quale quelle nature dipendono per ciò che riguarda la loro esistenza empirica. […] Tuttavia, malgrado il suo realismo, questa scienza non è trascendente, ma resta trascendentale nelle sue più intime profondità. Essa spiega certo ogni coscienza con qualcosa, presente indipendentemente da ogni coscienza; ma anche in questa spiegazione non dimentica di conformarsi alle sue proprie leggi; ed appena essa vi riflette su, quel termine indipendente diventa di nuovo un prodotto della sua propria facoltà di pensare, quindi qualcosa di dipendente dall’Io, in quanto deve esistere per l’Io. […] 805

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Parte terza L’idealismo La conoscenza secondo Fichte

È sintesi di attività e passività, in quanto è il punto d’incontro originario tra l’attività dell’Io e il condizionamento da parte del Non-io Sentimento sensazione

La materia che ci offre – che è il contenuto di tutta la conoscenza – non è l’oggetto esterno nelle sue qualità, bensì unicamente il tendere dell’io in quanto si autolimita

Oscilla tra il tendere infinito dell’Io e il tornare a sé dopo l’opposizione al Non-io Immaginazione produttiva Trasforma in maniera inconscia i sentimenti in sostrato intuitivo (oggetti spazio-temporali) attraverso l’oscillare

Intelletto

7 Non coincidenza tra «scienza del pratico» e morale

Organizza e fissa il sostrato intuitivo in realtà oggettiva, cioè la realtà quale è concepita dalla coscienza comune

Etica e intersoggettività Si è detto che la «scienza del pratico» non coincide con la morale: quest’ultima non rientra per Fichte nella dottrina della scienza in senso stretto, cioè nella trattazione generale dei principi primi di ogni sapere, bensì costituisce piuttosto una delle scienze filosofiche particolari, assieme alla dottrina del diritto, alla filosofia della religione e alla filosofia della natura (di questa Fichte non offrirà mai, però, una trattazione sistematica).

Etica produttiva e causalità per libertà In quanto scienza filosofica particolare, l’etica ha in ogni caso il suo fondamento nella dottrina della scienza. Nella prospettiva fichtiana, l’imperativo categorico kantiano – che richiede di agire in accordo con la ragion pura, cioè la ragione scevra da ogni condizionamento sensibile – non è un «fatto della ragione», indimostrato e indimostrabile, bensì è deducibile a priori dalla soggettività assoluta dell’Io, che costituisce l’essenza, sia pure inconsapevole, della nostra coscienza finita. L’attività della ragione assoluta, urtata in un punto dalla resistenza del Non-io – essendo in sé identità pura e totalità infinita – non può che dare luogo all’«esigenza» che tutto si conformi ad essa; solo in questo modo, infatti, la ragione può ristabilire l’identità con sé incrinata dall’incontro con il Non-io. Questa «esigenza» è per Fichte l’«imperativo categorico». Verso un’etica La deduzione fichtiana dell’imperativo categorico dall’«essere assoluto» dell’Io ha produttiva per conseguenza una radicale trasformazione della dottrina morale kantiana, che può essere descritta sinteticamente nei termini di un passaggio dalla morale del-

Deducibilità dell’imperativo categorico, una «esigenza» della ragione assoluta

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

La legge morale in Fichte: azione sul mondo esterno e sua trasformazione

Valore morale di un’azione

Causalità libera dell’uomo nel mondo sensibile

Fondazione della libertà: il mondo oggettivo ha come principio la libertà ed è dinamico

l’impulso sensibile come termine medio tra meccanismo e libertà

la «disposizione d’animo» (Gesinnung) a una morale dello «sforzo, della conquista, della costruzione del mondo umano», e quindi a un’etica produttiva. La differenza fondamentale consiste in ciò: per Kant la legge morale richiede unicamente l’accordo della nostra volontà con la ragion pura, che si esplica nel momento in cui l’azione è compiuta unicamente per rispetto del dovere, e non in base ad altri moventi, quali le inclinazioni sensibili; per Fichte, invece, la legge morale richiede l’accordo con la ragion pura non solo della nostra volontà, ma anche del mondo esterno. Essa comanda dunque agli uomini di agire nella natura, in modo da trasformarla consapevolmente, per renderla conforme ai loro concetti razionali. Questa posizione non equivale, naturalmente, a riporre il valore morale di un’azione nel risultato conseguito; ciò che conta – sotto il profilo morale – non è nemmeno per Fichte il successo o l’insuccesso di un’azione, bensì esclusivamente il tendere del soggetto alla realizzazione della piena razionalità in sé e al di fuori di sé. Questa concezione dell’etica ha senso solo se si ammette che l’uomo possa esercitare una causalità libera nel mondo sensibile. Cosa che Kant, a parere di Fichte, ha negato, presentando la natura come il regno della necessità, cioè come un insieme di fenomeni legati dalla categoria intellettuale di causa-effetto, e confinando la libertà nell’interiorità del soggetto. Fichte ritiene che, nella prospettiva kantiana, l’uomo sia libero non quanto alle sue azioni esterne – che cadono nel tempo, e sono dunque anch’esse sottoposte al principio meccanico della causalità – bensì unicamente nell’azione interna di autodeterminazione, attraverso la quale può risolversi a comportarsi seguendo esclusivamente la legge della ragione. Per Fichte, invece, la libertà umana non si esaurisce nell’interiorità del soggetto, bensì deve e può essere un principio attivo nel mondo circostante. Nella prospettiva fichtiana, ciò è possibile per due motivi: 1) innanzitutto, in quanto il mondo oggettivo ha come suo principio costitutivo la libertà stessa, dal momento che esso non è altro che la proiezione esterna, compiuta dall’immaginazione produttiva, dell’assoluta attività dell’intelligenza, in quanto questa si auto-limita, in seguito all’urto con il Non-io. È questo che Fichte intende, quando afferma che la libertà è «principio di determinazione teoretica» del nostro mondo. L’universo così concepito si presenta come un universo la cui configurazione non è fissata una volta per tutte – cosa che toglierebbe ogni spazio al libero intervento dell’uomo – bensì come un universo dinamico, aperto alle modificazioni: un insieme di limiti che l’Io può e deve di volta in volta superare e spostare in avanti, per riaffermare la propria direzione originaria, cioè il tendere all’assoluta indipendenza e all’accordo con sé. Il limite non può mai essere eliminato, perché ciò comporterebbe il venir meno del dualismo tra soggetto e oggetto che è l’orizzonte della coscienza finita: di conseguenza, il superamento dell’ostacolo – ossia la razionalizzazione della natura che ci è prescritta dalla legge morale – costituisce un processo di approssimazione all’infinito. 2) in secondo luogo, perché nella prospettiva fichtiana l’impulso sensibile – che, essendo ciò che fa dell’uomo una parte della natura, è al tempo stesso il fattore che gli consente di agire in essa – non è mera passività, bensì piuttosto «attività limitata» e, in quanto tale, è un termine medio tra attività e passività, cioè tra meccanismo e libertà. Inoltre, nell’uomo l’impulso naturale non ha una causalità immediata e diretta, cioè non lo determina necessariamente a compiere o a non compiere una certa azione. Esso si limita a produrre un’in807

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Parte terza L’idealismo

clinazione verso un determinato oggetto – come per esempio un cibo o una bevanda – che negli esseri razionali, a differenza che negli animali, è sempre accompagnata dalla consapevolezza. Ora, una volta giunto nella regione della coscienza, l’impulso cade sotto il potere dell’intelligenza, poiché sta solo a noi decidere se soddisfarlo o meno: nella pianta e nell’animale il soddisfacimento dell’impulso ha luogo necessariamente se subentrano le condizioni ad esso necessarie; l’uomo, invece, pur non essendo libero di avvertire la fame e la sete, è però libero di soddisfarle o meno, e questo vale per tutti i suoi impulsi.

T7

Causalità naturale e causalità per libertà

Sistema di etica secondo i principi della dottrina della scienza, 2,10,2

Al di là della riflessione indicata [la riflessione del soggetto sull’agire che costituisce la sua essenza], non posso venir spinto ancora dalla necessità naturale, perché al di là di essa io non sono più un membro della sua catena. In questa l’ultimo membro è un impulso, ma è anche soltanto un impulso che, in quanto tale, non ha nessuna causalità nell’essere spirituale […]. Ciò che segue a un impulso non è opera della natura, perché essa si esaurisce generando l’impulso; io opero certo con una forza che proviene dalla natura, la quale però non è più la sua ma la mia forza, perché essa è caduta sotto il dominio di un principio posto al di là di ogni natura, sotto il dominio del concetto.

La libertà e il mondo Libertà L’uomo può esercitare una causalità libera nel mondo sensibile

Perché il mondo oggettivo è costituito dall’attività assoluta dell’intelligenza e quindi è dinamico

Perché l’impulso sensibile dell’uomo non è passività ma attività, limitata e controllata dall’intelligenza

Destinazione e teoria etica della società Riformulazione dell’imperativo categorico

La destinazione dell’uomo, peculiare a ciascuno ➥ Laboratorio di lettura, p. 825

Morale e storia

808

Per Kant il carattere della vera moralità era l’adeguarsi alla legge universale, cioè il volere ciò che vuole la legge, riconoscibile sulla base del criterio esclusivamente formale dell’universalità (vedi Unità 14, p. 696 ss.). Come molti dei suoi contemporanei, Fichte critica il presunto formalismo dell’etica kantiana, sforzandosi di dare un’enunciazione dell’imperativo categorico che sia universale, senza essere però formale e vuota, cioè in grado di indicare anche i doveri particolari e positivi dell’uomo. A questo scopo, Fichte ricorre al concetto di «destinazione». La sua riformulazione dell’imperativo kantiano è: «adempi ogni volta la tua destinazione», ove la destinazione di ciascuno corrisponde al peculiare compito che, nel processo di razionalizzazione della natura e di progressiva moralizzazione dell’umanità, spetta di volta in volta a ciascuno, ed è differente per ogni individuo, in base alla sua costituzione naturale e alla sua collocazione sociale (vedi lo schema a p. 810). Ne deriva un’etica calata nella storia e nella società. Fichte pensa, infatti, innanzitutto a una sorta di storicità della morale, che non può comandare le stesse cose in situazioni differenti. In secondo luogo, egli ritiene che il soggetto possa

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

L’esortazione reciproca all’agire

Lo scopo morale è comune per tutti

Teoria dei doveri e articolazione del lavoro

La giustificazione della divisione del lavoro

Perfezionamento umano e progresso sociale

La comunicazione come strumento di educazione reciproca

I dotti come guida della società

➥ Sommario, p. 822

acquisire coscienza del suo dovere individuale solo a contatto con altri esseri morali, cioè con altri soggetti liberi e razionali: «l’uomo diventa uomo solo tra gli uomini». A rigore, anche gli altri uomini sono, per l’Io, un Non-io; ma, a differenza di quanto accade nel rapporto tra l’Io e le cose, nell’incontro con un altro essere morale io non ho il diritto di espandermi all’infinito, considerando il corpo di un altro o la parte di natura che egli ha elaborato come oggetti sui quali esercitare il mio arbitrio. Di questo mi accorgo perché un essere che agisca moralmente mi rispetta come soggetto attivo, e il suo comportamento è, di per sé, un’esortazione, un invito a fare altrettanto, rivolto a me. Di conseguenza, ogni individuo deve contribuire ad adempiere il comune scopo morale – cioè la razionalizzazione della natura e dell’umanità – solo secondo la parte che gli spetta, in base alla sua collocazione spazio-temporale e alla sua posizione sociale, senza invadere la sfera d’azione dei propri simili, che lavorano in vista della realizzazione della medesima meta. Questa è la cosiddetta «dottrina dell’intersoggettività», alla base del nesso, molto stretto, che Fichte stabilisce tra etica e teoria della società, offrendo una teoria dei doveri determinati fondata sull’articolazione sociale: alla luce di quanto detto, quest’ultima rappresenta ai suoi occhi il tessuto oggettivo in cui i diversi soggetti assumono un ruolo e una funzione anche etica, a seconda della loro specifica determinazione sociale, che dipende dalla divisione del lavoro. La posizione di Fichte si differenzia da quella di molti contemporanei – come per esempio Schiller – che deprecavano l’incipiente divisione del lavoro e rimpiangevano la formazione totale dell’individuo nel mondo antico, e in particolare nel mondo greco. Fichte invece giustifica la divisione cetuale della società deducendola come un elemento necessario affinché ciascun singolo individuo possa apportare il proprio contributo al progresso, cioè alla razionalizzazione della natura che è prescritta dalla legge morale: ognuno trova la società arrivata sino a un certo grado di progresso. Ognuno ha il dovere di contribuire a promuovere il perfezionamento umano, e – per assolvere questo compito – è necessario specializzarsi, dal momento che, se il singolo si sforzasse di modificare la natura sotto tutti i suoi aspetti, nel corso della sua intera vita arriverebbe a stento a giungere a conoscenza di ciò che è stato fatto per opera d’altri prima di lui. Questa teoria etica della società comprende tutte le dimensioni della vita sociale, il cui elemento centrale è però costituito, nella prospettiva fichtiana, dalla «comunicazione»: in quanto strumento di «educazione reciproca», quest’ultima è, infatti, uno dei fattori fondamentali del progresso materiale e morale dell’umanità. Nella concreta applicazione al tessuto sociale, la comunicazione è per Fichte una comunicazione a senso unico, cioè una comunicazione che va dai dotti / filosofi al popolo: dai primi agli ultimi scritti, alle élite culturali è attribuito, infatti, un ruolo-guida nei confronti del resto della società. Questa suddivisione della società in dotti e non-dotti non è, però, una suddivisione statica: l’attitudine di alcuni soggetti alla filosofia, e dunque a diventare «dotti», non è un dato materiale – che possa essere trasmesso per via ereditaria – bensì è un talento spirituale individuale, che emerge soltanto all’interno del processo educativo. 809

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Parte terza L’idealismo La teoria della società in Fichte

Comune scopo morale degli uomini: razionalizzazione della natura e moralizzazione dell’umanità Ogni uomo ha un compito in base alle sue qualità e alla sua posizione sociale Dottrina dell’intersoggettività: l’uomo diventa uomo stando con gli uomini; l’individuo può acquisire coscienza della propria libertà solo in seguito all’esortazione di un altro essere razionale L’uomo non deve invadere la sfera d’azione altrui I doveri di ciascuno si fondano sull’articolazione sociale Specializzazione di ognuno: ceti e divisione del lavoro Comunicazione come educazione reciproca e ruolo guida delle élite culturali

8 Il rifiuto kantiano della dottrina della scienza

La dottrina della scienza come metafisica dell’Assoluto La controversia sull’ateismo è accompagnata da diverse prese di posizione pubbliche contro la dottrina della scienza. Tra queste ha un peso particolare la sconfessione di Kant, che in una dichiarazione pubblica del 1799 rigetta la dottrina della scienza, identificandola con una semplice logica formale, basata sull’astrazione da ogni contenuto e dunque incapace di ricavare l’elemento materiale della conoscenza (vedi lo schema a p. 792). […] dichiaro con la presente di considerare la dottrina della scienza di Fichte un sistema del tutto insostenibile. Pura dottrina della scienza è infatti né più né meno che mera logica la quale, con i suoi principi, non può presumere di arrivare sino all’elemento materiale della conoscenza; essendo pura logica, astrae dal contenuto di questa, e volerne tirare fuori un oggetto reale è fatica sprecata, ed è una impresa alla quale non si era ancora mosso nessuno.

Si è visto che, in realtà, già con la prima dottrina della scienza Fichte ritiene di essere riuscito a spiegare l’«elemento materiale» della conoscenza, attraverso l’affermazione dell’originarietà dell’azione reciproca tra Io e Non-io (vedi sopra p. 797 s.). Tuttavia, sollecitato dalle critiche dei suoi avversari, Fichte matura progressivamente una certa insoddisfazione nei confronti della «forma Io», che gli appare ora incapace – se posta come il primum e l’originario – di offrire al sapere una base stabile: la verità, per potere essere conosciuta, deve avere una «realtà» in sé, cioè una realtà oggettiva indipendente dall’Io, in cui pure solo essa può estrinsecarsi; di qui il convincimento che, senza il riferimento a un Essere, tutto il sapere soggettivo risulti privo di senso. La seconda fase: l’Io Inizialmente mosso dal mero intento di sottrarre ogni appiglio ai fraintendimencome manifestazione ti di cui si ritiene vittima, Fichte giunge così a modificare in maniera significatidell’Essere va l’impianto sistematico della dottrina della scienza. L’esigenza di offrire al sapere un fondamento più solido della certezza di sé attingibile con l’autocoscienza induce, infatti, Fichte ad abbassare l’Io da primo principio del sistema a maLa progressiva insoddisfazione fichtiana verso la «forma Io»: la ricerca di un fondamento

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Non è un ritorno alla metafisica tradizionale

L’Essere non è colto immediatamente

L’Essere è colto attraverso la riflessione

L’Essere o Assoluto è colto attraverso il concetto

T8

Contro il misticismo

L’avviamento alla vita beata, lezione 1

nifestazione di quello stesso Essere che in un primo tempo si è proposto di distruggere. Precisamente, l’Io è ora posto al livello più basso di un processo genetico articolato in tre momenti: 1) l’Essere in senso proprio, l’«immutevole», fuori della portata di ogni riflessione; 2) la «Ragione assoluta», ossia l’esistere o la manifestazione dell’Essere, che è necessaria quanto l’Essere; 3) la soggettività o Io, che è il mezzo di manifestazione della Ragione. Questo spostamento non equivale, però, a una ricaduta nel dogmatismo della metafisica tradizionale: piuttosto, Fichte si sforza di tematizzare il problema fondamentale della metafisica – cioè il problema dell’Essere – restando fedele all’orientamento della filosofia trascendentale e della «rivoluzione copernicana» kantiana, che aveva insegnato come ogni indagine e affermazione sull’Essere non potesse procedere indipendentemente dall’indagine sulle condizioni della conoscenza. Coerentemente con questo proposito, Fichte nega sia che l’Essere possa essere colto immediatamente – con una intuizione intellettuale – sia che esso possa essere enunciato primariamente, secondo l’impostazione adottata in passato da Spinoza o, nello stesso torno di anni, da Schelling, nella cosiddetta «filosofia dell’identità» (vedi Unità 16, p. 865 ss.): se si parte immediatamente dall’Essere, diventa, infatti, impossibile ogni passaggio al pensare. Di contro, Fichte presenta come unica via di accesso all’Assoluto un processo di radicale riflessione del sapere su se stesso. Questo processo culmina con un’autonegazione del sapere che, annullandosi nella sua autonomia, riconosce come suo fondamento l’Essere o l’Assoluto. Tuttavia, questa autonegazione del sapere è essa stessa un atto del pensiero e della coscienza, e non ha dunque nulla a che vedere né con il «sacrificio dell’intelletto» teorizzato dalla mistica medievale, né con l’esaltazione dell’intuizione e del sentimento come organi privilegiati di accesso all’Assoluto, tipica del pensiero romantico (vedi Unità 16, p. 859 ss.). Contro quest’ultimo e contro ogni fraintendimento misticheggiante del proprio pensiero, Fichte prende posizione anche in quegli scritti che hanno maggiormente alimentato la ricezione della seconda dottrina della scienza in termini di filosofia religiosa e visionaria, come per esempio L’avviamento alla vita beata. In essa, Fichte affronta il problema di come sia possibile raggiungere la «beatitudine» o vita vera, intesa nel senso di «unione» del soggetto con l’Assoluto, «eterno e immutabile», definito anche come «Dio» (per quanto in realtà l’Assoluto della dottrina della scienza sia molto distante dal Dio personale e creatore della tradizione giudaico-cristiana). Fichte precisa che questa unione per l’uomo può avere luogo solo nel medio del concetto e del sapere, che sono la nostra «essenza inestinguibile». L’Assoluto, in quanto unità inscindibile di essere e pensiero, non può, infatti, essere colto attraverso il sentimento – che, anche nelle sue forme più raffinate, conserva una componente di oscurità, oltre a essere estemporaneo e casuale – ma solo attraverso il pensiero, che diviene così sapere assoluto. […] La vera vita e la sua beatitudine consistono nell’unione con l’immutabile e l’eterno; ma l’eterno può essere attinto unicamente e soltanto con il pensiero, e, in quanto tale, non ci è accessibile in nessun altro modo. […] E così la vera vita e la beatitudine consistono nel pensiero, cioè in una certa precisa visione di noi stessi e del mondo, in quanto scaturiamo dall’intima e in sé nascosta essen811

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Parte terza L’idealismo

za divina; e anche una dottrina della beatitudine non può essere nient’altro che una dottrina del sapere, in quanto non c’è in generale nessun’altra dottrina al di fuori della dottrina del sapere.

La teoria dell’apparire I corsi del 1804: Essere in atto e teoria del fenomeno

T9

Teoria della verità e teoria dell’apparire

Dottrina della scienza 1804/II, sedicesima conferenza

I corsi della dottrina della scienza del 1804 – che Fichte stesso considera come le esposizioni più riuscite della sua filosofia – sono articolati in due parti fondamentali, che seguono a una lunga sezione introduttiva: 1) una «teoria della verità e della ragione», che contiene e giustifica l’autonegazione della coscienza, attraverso la quale dal concetto si può ascendere all’Essere, inteso non in termini statici, bensì piuttosto come «Essere in atto», cioè come unità di essere e vita, assolutamente chiusa in se stessa, nel senso che al di fuori di essa non esiste nulla; 2) una teoria dell’«apparire», o del «fenomeno», il cui proposito è quello di discendere dall’Essere come principio al sistema dell’apparire, attraverso un procedimento deduttivo. Il principio stabilito adesso, per cui l’essere è assolutamente un singulum in sé chiuso dell’immediato essere vivente, che non può mai uscire da sé, […] è immediatamente chiaro in sé […] Esso implicava, ho detto, e compiva ciò che poteva essere stabilito come prima parte della dottrina della scienza, la pura dottrina della verità e della ragione. Passiamo ora all’accennata seconda parte per dedurre da essa, la prima parte stessa, tutto quanto fin qui è stato lasciato cadere come fattuale e in sé invalido e tuttavia come fenomeno necessario e vero.

Il sistema dell’apparire cui Fichte si riferisce – enunciando il proposito di dedurlo dall’Essere – non va, però, confuso con il mondo: con il termine apparire o «fenomeno» egli non intende, infatti, gli oggetti dell’intuizione sensibile, secondo la tradizione kantiana, bensì le forme in cui l’Assoluto diventa concepibile, cioè le determinazioni necessarie della coscienza, in quanto manifestazione dell’Assoluto (vedi lo schema a p. 813). Fichte deduce cinque forme fondamentali della coscienza originaria. Questa ha in sé la determinazione di poter essere: 1) coscienza di un oggetto sensibile, dato e sussistente, ossia della natura; 2) coscienza di un soggetto sensibile, anch’esso dato e sussistente, cioè della persona che è soggetto di relazioni giuridiche; 3) coscienza di un soggetto sovrasensibile, che non è dato, bensì forma se stesso nell’agire, cioè il soggetto della ‘moralità’; 4) coscienza di un oggetto sovrasensibile e assoluto, che non è dato, bensì forma interiormente se stesso, cioè del Dio oggetto della ‘religiosità’; 5) infine, scienza trascendentale, che comprende unitariamente queste determinazioni necessarie della coscienza in quanto manifestazione della Ragione assoluta. La scissione Si tratta di una delle versioni della «sintesi quintuplice», una complessa figura della Ragione assoluta teorica tematizzata da Fichte per la prima volta nella Nova methodo del 1798, su cui gli interpreti hanno di recente molto insistito. La deduzione delle forme della coscienza

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Questa scissione quintuplice della Ragione assoluta nelle determinazioni necessarie della coscienza è per Fichte inseparabile da un’ulteriore scissione: secondo la legge della riflessione, che è la legge fondamentale della coscienza, la Ragione assoluta può, infatti, manifestarsi in questa, solo scindendosi in un’infinita molteplicità distesa nel tempo, cioè negli infiniti oggetti conosciuti e gli infiniti soggetti conoscenti che costituiscono il mondo empirico.

«Morale superiore» e religione I gradi evolutivi della vita spirituale:

materialismo eudemonistico

legalità morale superiore religione

scienza Determinazioni della coscienza e gradi di vita spirituale

Nella quinta lezione dell’Avviamento alla vita beata Fichte traccia – come già in altri scritti precedenti – una «fenomenologia» della vita spirituale, distinguendo cinque possibili gradi dell’evoluzione di quest’ultima, contraddistinti rispettivamente dalla prevalenza di una delle cinque determinazioni necessarie della coscienza, dedotte in sede di dottrina della scienza. Queste cinque visioni del mondo sono, in ordine ascendente: 1) il materialismo eudemonistico, contraddistinto dalla ricerca esclusiva del godimento sensibile: colui che sia fermo alla coscienza del mondo sensibile – in quanto non si è ancora elevato ai livelli superiori, attingibili solo mediante un atto di libera riflessione – non può che conferire alla materia e ai piaceri da essa derivanti un valore assoluto; 2) il punto di vista della legalità, caratterizzato dal porre al di sopra di tutto la «legge dell’ordine»; 3) il punto di vista della «morale superiore», che pone al primo posto non una legge formale, bensì gli ideali spirituali del sacro, bello e buono; 4) il punto di vista della religione, che si acquisisce quando si comprende che gli ideali spirituali della morale superiore non sono prodotti della nostra coscienza finita, bensì espressione di quell’assoluta creatività spirituale che per Fichte costituisce l’essenza dell’Assoluto; 5) il punto di vista della scienza, che comprende tutti gli altri nella loro unità. Determinazioni della coscienza come manifestazioni dell’Assoluto

Gradi di vita spirituale o visioni del mondo

Coscienza di un oggetto sensibile, dato e sussistente, ossia della natura

Il materialismo eudemonistico, contraddistinto dalla ricerca esclusiva del godimento sensibile

Coscienza di un soggetto sensibile, anch’esso dato e sussistente, cioè della persona che è soggetto di relazioni giuridiche

Il punto di vista della legalità, pone al di sopra di tutto la «legge dell’ordine»

Coscienza di un soggetto sovrasensibile, che non è dato, bensì forma se stesso nell’agire, cioè il soggetto della ‘moralità’

Il punto di vista della «morale superiore», pone al di sopra di tutto gli ideali spirituali del sacro, bello e buono

Coscienza di un oggetto sovrasensibile e assoluto, che non è dato, bensì forma interiormente se stesso, cioè del Dio oggetto della ‘religiosità’

Il punto di vista della religione, comprende che gli ideali spirituali della morale superiore sono espressione dell’assoluta creatività spirituale (l’essenza dell’Assoluto)

Scienza trascendentale, che comprende unitariamente queste determinazioni necessarie della coscienza in quanto manifestazione della Ragione assoluta

Il punto di vista della scienza, comprende tutti gli altri nella loro unità

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Parte terza L’idealismo Una nuova etica per il superamento del legalismo formalistico

T10

Punto di vista della legalità e morale inferiore

L’avviamento alla vita beata, lezione 5

Questa fenomenologia della vita spirituale lascia emergere in modo emblematico come il decadere dell’Io da principio primo del sistema a «immagine» dell’Assoluto implichi un importante cambiamento nella concezione fichtiana dell’etica. In maniera significativa, Fichte parla di una «morale superiore», per distinguerla dal punto di vista della legalità, definita anche come «morale inferiore». Il punto di vista della legalità non comprende, infatti, solo la dottrina del diritto, bensì anche il legalismo formalistico, cioè quella dottrina morale che pone al di sopra di tutto l’universalità della legge, nel significato unicamente negativo di divieto di arrecare danno agli altri e di commettere quanto è contrario al dovere. Legalismo formalistico che Fichte imputa ora non solo alla morale kantiana, ma anche, in maniera autocritica, alla concezione etica da lui stesso sostenuta negli anni jenensi. Per quanto riguarda le scienze, derivate da questo modo di vedere [il punto di vista della legalità], non va qui annoverata soltanto la dottrina del diritto, in quanto fissa i rapporti giuridici tra gli uomini, ma anche la comune dottrina morale, cui preme soltanto che nessuno faccia torto all’altro, e che ognuno ometta di fare ciò che è contrario al dovere, sia che ciò venga vietato o meno da un’esplicita legge dello Stato. Non si possono ricavare esempi di questo modo di vedere il mondo dal modo comune di considerare la vita, in quanto questo, radicato nella materia, non è nemmeno in grado di elevarsi fino là; ma nella letteratura filosofica, a volerne considerare il curriculum filosofico non oltre la Critica della ragion pratica, Kant è l’esempio più pertinente e coerente di questo modo di vedere; il vero carattere di questo tipo di pensiero, che abbiamo esposto più sopra dicendo che la realtà ed autonomia dell’uomo viene dimostrata soltanto mediante la legge morale che regna in lui e che quindi solo per essa egli diventa qualcosa in sé, è espresso da Kant con le stesse parole. Noi pure, per nostro conto, abbiamo indicato, sviluppato e, ne siamo convinti, esposto non senza energia questo modo di vedere il mondo, sia pure non come il più elevato, ma come il punto di vista che fonda una dottrina del diritto e della morale nella nostra trattazione di queste due discipline […]

Si è visto che, in realtà, già negli scritti jenensi, Fichte si era sforzato di correggere il formalismo dell’etica kantiana. L’inclusione autocritica di quei tentativi all’interno del «punto di vista della legalità» costituisce una sorta di riconoscimento del fallimento del tentativo di costruire un’etica reale e materiale solo in quanto «sanzione» del diritto, cioè un’etica che si limitava a prescrivere, come doveri materiali, quei doveri sociali e civili già prescritti all’individuo sotto forma di leggi giuridiche. A partire dal 1800, Fichte abbandona questa prospettiva, affermando piuttosto una morale ‘superiore’, propria di individui agenti sulla base di ideali spirituali che, come viene riconosciuto al livello del punto di vista religioso, non «sono affatto opera nostra», bensì «la manifestazione immediata in noi dell’intima essenza di Dio» (vedi lo schema a p. 813). L’uomo come strumento Questo cambiamento può a prima vista apparire come un radicale abbandono volontario di Dio dell’autonomia, in favore della teonomia: a cosa si riduce, infatti, l’autonomia di un soggetto, la cui destinazione è riposta nel farsi strumento di Dio? Fichte stesso è ben cosciente di questa difficoltà, e si sforza di risolverla, sostenendo che l’uomo non nasce strumento di Dio, ma deve diventarlo, e può farlo solo attra➥ Sommario, p. 822 verso un atto di libera riflessione. Fichte riconosce i limiti della sua prima fase

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

9 Due interpretazioni della filosofia politica: individualismo atomistico e organicismo comunitario

Continuità e mutamenti della teoria politica

L’antinomia tra libertà individuale e ordine collettivo

Politica e storia Anche lo svolgimento del pensiero politico di Fichte è stato oggetto di un dibattito molto acceso. Molti studiosi hanno parlato di un contrasto tra l’individualismo atomistico, liberale e universalistico dei primi scritti fichtiani – corrispondente, sul piano politico, all’adesione alla causa della Francia rivoluzionaria – e l’organicismo comunitario (ossia la teoria secondo la quale lo Stato / nazione rappresenta un organismo, in funzione del quale gli individui devono esistere), sostenuto a partire dal 1800, tradottosi, dopo le sconfitte prussiane di Jena e Auerstädt a opera dell’esercito napoleonico (1806), nell’impegno per la «causa nazionale» tedesca. È indubbio che il pensiero politico fichtiano abbia subito dei mutamenti notevoli, riconducibili sia all’evoluzione dell’impianto sistematico sia al cambiamento del quadro politico: mutamenti che meritano di essere messi in rilievo, anche per spiegare l’influenza esercitata da Fichte su pensatori appartenenti a tutte le principali correnti politiche sviluppatesi nel corso del XIX e XX secolo, dal liberalismo al socialismo al nazionalismo più radicale. Questi cambiamenti non possono, però, essere descritti con lo schema cronologico, secondo il quale Fichte avrebbe posto al centro della propria riflessione politica dapprima la libertà dell’individuo, per concentrarsi in seguito sullo Stato e, infine, sulla nazione. Piuttosto, l’antinomia tra libertà individuale e ordine collettivo costituisce il nodo centrale di tutti i momenti del pensiero politico fichtiano, che si differenziano solo per il peso e il significato diverso attribuito ai due termini della contraddizione. Anche quando aderisce alla causa della Rivoluzione, Fichte esprime, infatti, l’esigenza di ristabilire un nuovo «ordine» legale e razionale, tale da negare sia il disordine dell’antico regime sia quello rivoluzionario. Analogamente, anche quando teorizza la necessità del sacrificio dell’individuo alle esigenze dell’intero – che sia lo Stato o la nazione – non manca di interrogarsi sulle condizioni tali da garantire che l’ordinamento collettivo non annulli il valore della personalità individuale.

Diritto naturale, individuo e Stato nei primi scritti fichtiani L’individualismo giusnaturalistico del primo Fichte (1793)

Teoria contrattualistica dello Stato come semplice aggregazione di individui

Fatte queste precisazioni, si può passare a esaminare lo scritto che è comunemente considerato l’espressione più tipica e più radicale dell’‘individualismo’ giusnaturalistico del primo Fichte: i Contributi alla rettifica dei giudizi del pubblico sulla Rivoluzione francese, usciti anonimi nel 1793, e redatti allo scopo di difendere la legittimità della Rivoluzione, in un momento nel quale – in seguito alle violenze del Terrore – gli iniziali entusiasmi per quest’ultima si sono ormai drasticamente attenuati. Pur accennando all’esigenza di un ordine legale, in questo scritto – che da molti, sia all’epoca sia in seguito, è stato considerato addirittura «anarchico», ossia contrario a qualsiasi forma di istituzione politica stabile – Fichte riduce al massimo il ruolo dello Stato, inteso come semplice aggregazione di individui. Per giustificare il diritto di un popolo a cambiare la propria costituzione, egli afferma che lo Stato è soltanto una delle tante forme di contratto – e non la più importante – che l’individuo stipula arbitrariamente, senza alcun vincolo a continuare a far parte di esso, qualora non lo ritenga più necessario. 815

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Parte terza L’idealismo Nessun obbligo verso lo Stato

Compresenza di motivi individualistici e organicistici (1796-1797)

Si amplia il ruolo dello Stato

Il diritto naturale realizzato: l’interpretazione fichtiana del giusnaturalismo

T11

La negazione del ‘diritto naturale’

Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza, 3,2,15

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Fichte rigetta inoltre l’argomento secondo il quale l’individuo sarebbe obbligato a restare nello Stato per sdebitarsi dei benefici ricevuti da esso, sostenendo che in realtà l’educazione, la proprietà ecc. sono o frutto della sua attività o prestazioni ricevute da altri singoli individui, in rapporti che sono di semplice diritto naturale – come per esempio quelli familiari – non dipendenti dal vincolo statale. Ma la posizione di Fichte cambia già nel Fondamento del diritto naturale – che costituisce il più importante scritto politico fichtiano durante la fase jenense – dove si riscontra la compresenza di motivi individualistici e di istanze organicistiche. Da un lato, Fichte sostiene ancora una visione liberal-individualistica, in quanto concepisce lo Stato come fondato su un contratto d’unione tra gli individui, e lo intende come semplice strumento al servizio di questi; dall’altro, egli considera lo Stato risultante da tale contratto non più come un semplice aggregato, bensì come un intero organico, le cui parti ricevono consistenza e significato solo in rapporto al tutto. Inoltre, a differenza che negli scritti giovanili, il ruolo attribuito allo Stato non è più un ruolo marginale: l’appassionata rivendicazione della libertà individuale è qui piuttosto unita alla delineazione accurata di una macchina statale che non lascia nulla al caso. Ciò dipende dal fatto che, a partire da questo momento, Fichte rifiuta nettamente la possibilità di un diritto naturale, nel senso di vincolo giuridico vigente al di fuori della res publica, cioè al di fuori dello Stato. L’individuo è sì titolare di diritti originari, che sono la libertà, la proprietà e la vita; non si può, però, dare per presupposta la bontà e la buona fede di tutti gli uomini, poiché questi non nascono morali, ma devono essere educati alla moralità. Di conseguenza, i diritti originari possono essere garantiti solo da una forza infinitamente superiore a quella dell’individuo, cioè la forza coattiva dello Stato, in grado di spingere ciascuno al rispetto dei diritti altrui facendo leva esclusivamente sul movente egoistico, cioè la paura della pena. In questo modo, Fichte assume una posizione intermedia tra il giusnaturalismo e il positivismo giuridico (vedi Unità 7, p. 413 ss.): da un lato, nega un diritto vigente al di fuori dello Stato; dall’altro, però, teorizza la necessità che le leggi dei singoli Stati realizzino i diritti originari degli uomini, deducibili a priori dalla ragione (motivo per cui Fichte dà una nuova definizione del diritto positivo come «diritto naturale realizzato»). Non esiste quindi nessun diritto naturale, nel senso in cui si è spesso intesa la parola, non è cioè possibile nessun rapporto giuridico tra uomini se non in una res publica, e sotto leggi positive. O c’è una moralità senza eccezioni ed una fiducia generale in essa […]. Allora, la legge giuridica non ha nessun effetto, e non arriverebbe a pronunciarsi, perché quel che dovrebbe avvenire secondo questa, avviene senza di questa, e ciò che essa vieta non viene mai voluto. Per una specie di esseri compiutamente morali, non si dà nessuna legge giuridica. Che l’uomo non sia di questa specie è chiaro già per il fatto che esso deve venire educato, ed educarsi alla moralità, e per il fatto che l’uomo non è morale per natura, ma deve rendersi tale con il proprio lavoro. Oppure – il secondo caso – non c’è una moralità senza eccezioni, o almeno non c’è una fiducia generale in essa, ed allora interviene certamente la legge giuridica esterna, ma questa non può ricevere nessuna applicazione se non in una res publica. In tal modo, il diritto naturale viene soppresso.

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Però, quello che perdiamo da un lato, lo riacquistiamo dall’altro con guadagno, perché lo Stato stesso diventa lo stato di natura dell’uomo, e le sue leggi non devono essere nient’altro che il diritto naturale realizzato. Ampliamento delle prerogative dello Stato (1800)

Pianificazione dell’economia nazionale

Autorità dello Stato e diritti sociali

L’evoluzione della filosofia politica fichtiana

Nello Stato commerciale chiuso (1800) Fichte sviluppa ulteriormente le prerogative dello Stato, insistendo non solo sulle funzioni giuridiche, ma anche sui compiti sociali di «dare a ciascuno il suo, immettendolo nella sua proprietà, e poi di proteggervelo». Per Fichte questo compito può essere adempiuto solo attraverso una totale pianificazione dell’economia nazionale, che comporta una forte limitazione della libertà individuale. La divisione della società in ceti non è più, per esempio, affidata alla libera scelta del singolo, bensì alle competenze dello Stato, che la compie sulla base della valutazione delle attitudini individuali e della situazione economica generale. Inoltre, la pianificazione dell’economia nazionale prevede anche, per Fichte, la proibizione del commercio privato con l’estero, e la limitazione di quello pubblico, sino alla chiusura completa delle frontiere commerciali: solo uno Stato autosufficiente e libero dai condizionamenti degli Stati stranieri può organizzare l’economia al proprio interno in modo da garantire la giustizia. Tutte queste misure sono possibili solo in uno Stato che dispone della più illimitata autorità e con un forte apparato burocratico. Per questo motivo, molti hanno indicato nello Stato commerciale chiuso il documento del passaggio di Fichte da una concezione liberale dello stato di diritto – la cui funzione si esaurisce in quella negativa di impedire che i singoli violino le sfere di libertà altrui – a una concezione prossima a quella socialista. Tuttavia, non va omesso che anche in questo scritto Fichte ribadisce che il fine dell’individuo, cioè la sua destinazione morale, è nettamente superiore rispetto al fine dello Stato. Polarizzazione costante tra libertà e ordine

1793 – Individualismo giusnaturalistico (riconoscimento di un diritto naturale al di fuori dello Stato) – Teoria contrattualistica dello Stato – Nessun obbligo dell’individuo verso lo Stato

1796-1797 – Lo Stato nasce da un contratto, ma non è un semplice aggregato: le sue parti ricevono consistenza e significato solo in rapporto al tutto – Ampliamento del ruolo dello Stato – Stato come garante dei diritti individuali

1800 – Ampliamento delle prerogative dello Stato – Pianificazione dell’economia nazionale – Stato autoritario e burocratico

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Parte terza L’idealismo

Storia, popoli e nazioni Ragione assoluta ed epoche della storia: dall’istinto all’«arte della Ragione»

Il problema della contingenza

Storia della libertà ricondotta a una legalità razionale

La Ragione assoluta come legge della storia

La Ragione nelle epoche primitive agisce come istinto

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Dopo il 1800 la riflessione fichtiana sulle forme della vita collettiva trova espressione non più nella teoria del diritto, bensì in una filosofia della storia, fondata sulla considerazione della vita terrena del genere umano come manifestazione temporale della Ragione assoluta. Nei Tratti fondamentali dell’epoca presente il punto di partenza è costituito dal «concetto a priori» dell’intero svolgimento storico, articolato in epoche fondamentali: il concetto di un «piano cosmico» (Weltplan), secondo il quale la storia ha come suo inizio necessario un’epoca di dominio della Ragione assoluta sotto forma di «istinto» – dunque senza il contributo della libertà umana – e come suo termine finale altrettanto necessario l’epoca dell’«arte della Ragione», contraddistinta dall’organizzazione di tutti i rapporti umani secondo Ragione, ma in modo libero e consapevole. Questa costruzione a priori della storia ha indotto molti interpreti a vedere nella filosofia della storia di Fichte una radicale negazione della contingenza, a favore dell’affermazione della necessità del processo storico, in cui ben poco spazio resterebbe, dunque, per l’agire libero dell’uomo. Anche la libertà con cui culmina il piano cosmico non sarebbe altro che l’adeguarsi consapevole a una necessità assoluta, cioè il fare consapevolmente ciò che prima era compiuto sotto la coercizione dell’istinto razionale. In realtà, Fichte si propone esplicitamente di conciliare due esigenze tra loro apparentemente contrapposte: da un lato, quella di rinvenire nel corso degli eventi storici una legalità razionale, in modo da sfuggire alla considerazione della storia come dominio del puro caso; dall’altro, quella di evitare il determinismo, mantenendo intatto uno spazio per la libertà umana. In altri termini, il problema è quello di comprendere la storia come storia della libertà, ove comprendere vuol dire «ricondurre» a una legge che – per non cancellare la libertà – non deve essere una legge meccanica e automatica. Fichte affronta questa problematica, partendo dall’articolazione tra Assoluto, Ragione assoluta e soggettività, che costituisce il nucleo teorico della metafisica della dottrina della scienza (vedi p. 810 s.). In base ad essa: 1) è escluso l’intervento diretto dell’Essere assoluto nel tempo, che comprometterebbe sia la libertà umana sia l’assolutezza di Dio; 2) alla guida della storia è posta la necessità non dell’Assoluto, bensì della sua manifestazione primaria e necessaria, cioè la Ragione assoluta: produttività spirituale assolutamente spontanea, che a sua volta non si può estrinsecare direttamente nella realtà effettuale, bensì può apparire solo nel medio della coscienza, rivelandosi in quest’ultima sotto la forma di ideali spirituali, la cui attuazione richiede il contributo indispensabile della libertà umana. Anche nelle prime epoche della storia, per Fichte la Ragione assoluta non interviene come forza sovrapersonale e sovramorale, tale da utilizzare gli uomini e le loro passioni per condurli – contro il loro sapere e volere – verso un fine della Ragione, secondo il modello dell’eterogenesi dei fini (il meccanismo per cui le azioni umane sono indirizzate da forze sovraindividuali verso fini diversi rispetto alle intenzioni degli agenti). Il Lògos o Ragione agisce piuttosto come «istinto», erompendo nella coscienza degli individui «afferrati dall’eterno», cioè individui che – pur senza essersi elevati alla scienza della Ragione – si trovano in una visione del mondo superiore a quella comune, cioè nel punto di vista della «morale superiore».

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza Fichte nega l’eterogenesi dei fini

La realizzazione del piano cosmico non è sottoposta ad alcun automatismo

Ragione e storia in Fichte

L’agire di tali individui «ispirati» non è quindi un agire completamente cieco, mosso da impulsi naturali ed egoistici, e apportante un contributo al progresso dell’intera umanità solo per eterogenesi dei fini. L’oscurità parziale che offusca lo sguardo degli individui rispetto al fine da realizzare dipende, secondo Fichte, esclusivamente dalla loro inconsapevolezza della vita della Ragione assoluta come fonte originaria dei valori sovrasensibili. Ciò non toglie, però, che tali uomini siano invece coscienti dei valori che pongono a fondamento del proprio operare, sacrificando alla loro realizzazione le passioni e gli interessi personali. L’eterogenesi dei fini può per Fichte al limite essere ammessa a proposito della genesi delle condizioni esteriori, necessarie affinché l’umanità si possa fare con libertà e consapevolezza manifestazione dell’Assoluto, cioè a proposito, per esempio, dell’istituzione di uno Stato conforme a ragione, promossa in modo necessario, anche contro la volontà dei governanti, dalla lotta per la supremazia. L’avvento della «scienza della ragione», che per Fichte costituisce il momento centrale e più delicato del Weltplan – la cui posta in gioco è la salvezza sia del singolo sia dell’umanità – non è però in alcun modo promosso dal finalismo naturale, alla base del perfezionamento dello Stato: tale evento è piuttosto un compito la cui attuazione è affidata agli individui «ispirati dall’eterno», e dunque sottratta a ogni automatismo.

Filosofia della storia

L’Assoluto non interviene direttamente nella storia Nella storia agisce la Ragione assoluta (manifestazione primaria dell’Assoluto) attraverso la coscienza, cui si rivela progressivamente producendo ideali spirituali La coscienza attua liberamente gli ideali spirituali, e dunque la storia non è sottoposta ad alcun automatismo

Nelle epoche primitive agisce come istinto, che però non è eterogenesi dei fini

Quanto appena detto consente di attribuire il giusto peso all’ulteriore allargamento delle prerogative dello Stato, che Fichte afferma nei Tratti fondamentali dell’epoca presente. Da un lato, egli identifica il «fine dello Stato» – inteso come istituzione artificiale coattiva – con quello della specie umana, di organizzare tutte le sue relazioni secondo le leggi della ragione; presupposto che giustifica l’attribuzione allo Stato di diritti quasi illimitati nei confronti dell’individuo. Dall’altro lato, però, per Fichte lo Stato può promuovere, con la coazione, solo alcuni rami della cultura, tra i quali non rientrano quelli superiori, cioè la moralità, la religione e la scienza, la cui cura resta di competenza degli individui. Lo Stato è insufficiente In seguito alla disfatta militare dell’esercito prussiano nelle battaglie di Jena e a fondare la comunità Auerstädt, Fichte matura la convinzione dell’insufficienza dello Stato – in quanpolitica to istituzione fondata unicamente sul vincolo meccanico ed esterno della coazione – a tenere in vita la comunità politica. Ciò lo induce a porre al centro della propria riflessione politica due nuovi concetti: il «popolo» e la «nazione». Limiti al potere dello Stato: moralità, religione e scienza

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Parte terza L’idealismo Concetto di «popolo» e unità linguistica

Il linguaggio come vincolo non artificiale

Il linguaggio come dato spirituale

T12

La nazione come «natura spirituale» Discorsi alla nazione tedesca, 13

Per «popolo» egli intende la comunità di coloro che parlano la medesima lingua: il linguaggio unisce determinate masse di uomini in un popolo, differenziandolo e separandolo da tutti gli altri. Questa comunanza linguistica è caricata da Fichte di un significato metafisico-religioso, in quanto è presentata come la condizione indispensabile affinché gli ideali spirituali – che la Ragione assoluta ispira nei singoli – possano diventare patrimonio condiviso di ciascun popolo. In tale concezione, due sono i punti essenziali da mettere in rilievo: 1) da un lato, il linguaggio non è un vincolo artificiale, a differenza di quello che invece unisce o separa gli uomini in uno o più Stati: un uomo può scegliere se entrare o meno a far parte di uno Stato, o se cambiarlo, ma non può invece scegliere la propria lingua madre. Per Fichte, dunque, l’appartenenza a un popolo e alla nazione non è né il frutto di una scelta arbitraria, né tanto meno un’invenzione dell’intelletto, bensì si fonda su un dato oggettivo; 2) dall’altro lato, però, il linguaggio non è un dato sensibile né tanto meno biologico: esso costituisce piuttosto un dato spirituale – Fichte stesso usa in proposito l’espressione «natura spirituale» – ossia è la base, sottratta alla scelta individuale, della comprensione reciproca dei membri di una comunità, senza la quale non sarebbe possibile nessuna forma di progresso. Di conseguenza, il popolo e la nazione non sono affatto, nella concezione fichtiana, entità biologico-razziali o territoriali, ma esclusivamente comunità culturali e spirituali. Quelli che parlano la medesima lingua sono collegati tra loro da una molteplicità di legami invisibili mediante la semplice natura, ben prima che intervenga l’arte umana; sono capaci d’intendersi sempre più chiaramente, fanno parte di un tutto, e per natura sono Uno, ed un unico inseparabile intero. Essi non possono accogliere in sé e mescolare con sé un popolo di altra lingua e provenienza, senza confondere e disturbare violentemente il regolare procedere della loro formazione.

Ciò non toglie nulla, però, al carattere radicale del nazionalismo fichtiano, almeno quale questo è sostenuto nei Discorsi alla nazione tedesca, redatti per un’immediata finalità pratico-politica, che è quella di incitare i tedeschi ad autoaffermarsi come «nazione». Per rafforzare il proprio appello, Fichte non si limita a richiamare i tratti comuni dei tedeschi, bensì si sforza di suscitare il sentimento di una missione al tempo stesso universale ed esclusiva, cioè spettante solo ad essi: quella versione secolarizzata dell’idea di popolo eletto che, secondo gli studi più recenti, costituisce una delle idee centrali del nazionalismo. Il primato spirituale A tale scopo, Fichte parte dalla contrapposizione tra la lingua tedesca come lindei tedeschi gua viva e le lingue neolatine come lingue morte, presentando i tedeschi come l’unica popolazione del mondo moderno che, proprio per avere preservato la propria lingua originaria, è ancora terreno fecondo per l’apparizione nella storia di nuovi ideali spirituali, ed è dunque in grado di creare «qualcosa di nuovo».

La missione universale ed esclusiva del popolo tedesco

Il popolo tedesco e la sua missione

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L’unità linguistica è l’elemento che caratterizza un popolo

Linguaggio come vincolo, ma dato spirituale

I tedeschi hanno conservato la loro lingua originaria

La lingua tedesca ha ancora la forza per far nascere nuovi ideali spirituali

Il popolo tedesco ha la missione spirituale di far nascere qualcosa di nuovo

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza I rischi delle tesi fichtiane

➥ Sommario, p. 822

L’affermazione del primato spirituale dei tedeschi è assolutamente disgiunta, in Fichte, da ogni progetto di imperialismo nazionale: al contrario, la nazione deve restare chiusa in sé, per non contaminarsi. Alla lunga, però, anche la tesi fichtiana – assieme a quelle molto simili di suoi contemporanei, da Schiller a Hegel – avrebbe contribuito ad alimentare il mito di superiorità della nazione tedesca.

Suggerimenti bibliografici Per una prima introduzione alla filosofia di Fichte è molto utile C. Cesa, Introduzione a Fichte, Laterza, Roma-Bari 1994. Un testo in cui la filosofia di Fichte viene analizzata sia attraverso la collocazione nella storia della filosofia che attraverso i suoi aspetti sistematici: R. Lauth, La filosofia trascendentale di J.G. Fichte, Guida, Napoli 1986. Un’ampia monografia, rimasta incompiuta, in cui, seguendo un’indicazione dello stesso Fichte, il suo sistema è analizzato come espressione della libertà: L. Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, Mursia, Milano 19762. Per un approfondimento della concezione etica di Fichte, si consigliano: L. Fonnesu, Antropologia e idealismo. La destinazione dell’uomo nell’etica di Fichte (Laterza, Roma-Bari 1993), che focalizza l’attenzione su uno dei concetti-chiave dell’etica fichtiana, quello, cioè, di destinazione, indagandolo in una prospettiva storico-esegetica; M. Ivaldo, Libertà e ragione. L’etica di Fichte (Mursia, Milano 1992), che adotta una prospettiva del tutto diversa, rigorosamente sistematica. Per una visione complessiva della filosofia pratica di Fichte è importante, infine, il libro di C. De Pascale, Etica e diritto. La filosofia pratica di Fichte e le sue ascendenze kantiane, il Mulino, Bologna 1995. I brani antologizzati sono tratti da: J.G. Fichte, Prima introduzione alla dottrina della scienza, in Id., Prima e seconda introduzione alla dottrina della scienza, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1999. J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, in Id., Sul concetto della dottrina della scienza o della così detta filosofia, a cura di A. Tilgher, rivista da F. Costa, Laterza, Roma-Bari 1971. J.G. Fichte, Sistema di etica secondo i principi della dottrina della scienza, a cura di C. De Pascale, Laterza, Roma-Bari 1994. J.G. Fichte, L’iniziazione alla vita beata, in Id., La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Guida, Napoli 1989. J.G. Fichte, Dottrina della scienza 1804/II, sedicesima conferenza, da Id., Scritti sulla dottrina della scienza 1794-1804, a cura di M. Sacchetto, UTET, Torino 1999. J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza, a cura di L. Fonnesu, Laterza, Roma-Bari 1994. J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, trad. a cura di G. Rametta, Laterza, Roma-Bari 2003. Il brano di Kant citato a p. 810 è tratto da I. Kant, Dichiarazione in riferimento alla dottrina della scienza di Fichte, in C. Cesa, Fichte e il primo idealismo, Sansoni, Firenze 1975.

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Parte terza L’idealismo

Sommario 1. EVOLUZIONE

E RICEZIONE DELLA DOTTRINA

DELLA SCIENZA

Fichte chiama la sua filosofia «dottrina della scienza»: nel solco di Kant, egli ricerca un fondamento certo del nostro sapere degli oggetti e, contemporaneamente, del sapere in generale. In una prima fase, egli si concentra sull’Io assoluto, ed elabora una metafisica del soggetto; in una seconda fase, sulla nozione di Assoluto; ma in entrambe conserva l’impostazione trascendentale. 2. L’ASCESA

E IL DECLINO DI UN ‘ASTRO FILOSOFICO’

La biografia di Fichte è caratterizzata da una straordinaria e fortunata ascesa che si interrompe drammaticamente con la controversia sull’ateismo del 1798 e la sua cacciata da Jena. Questo evento è anche lo spartiacque tra le due fasi della sua filosofia.

come una determinazione reciproca o negazione parziale che dà origine alla contrapposizione tra Io empirico e mondo. 6. LA

CONOSCENZA

L’attività conoscitiva secondo Fichte non è limitata alla sfera teoretica, ma nasce dall’unità tra pratico e teoretico: l’Io pratico è il fondamento di ogni sapere. L’attività pratica dell’Io consiste nello Streben, ossia lo «sforzo» o il tendere della ragione all’identità, in seguito all’urto del Non-io. La conoscenza si articola in: sentimento, l’attività inconscia dell’Io che si autolimita nell’urto con il Non-io; immaginazione produttiva, la facoltà inconscia che elabora i sentimenti in intuizioni; intelletto che organizza e fissa le intuizioni in realtà oggettiva. 7. ETICA

3. IL

DIBATTITO SUL CRITICISMO

Il punto di partenza della riflessione fichtiana sono i dibattiti sul criticismo che ruotano attorno alla «cosa in sé» e al suo rapporto con il «fenomeno». Nella discussione Fichte si colloca tra i continuatori dell’impresa critica e si propone l’obiettivo di ricercare un fondamento unico della conoscenza. 4. SIGNIFICATO

E CARATTERI DELLA DOTTRINA

E INTERSOGGETTIVITÀ

In ambito etico Fichte si distacca da Kant, affermando la deducibilità dell’imperativo categorico e un’etica produttiva, ossia basata sullo sforzo dell’Io. La possibilità di questa etica risiede nella causalità libera dell’uomo e nella centralità del concetto di destinazione. Fichte elabora anche una teoria della società fondata sulla dottrina dell’intersoggettività. 8. LA

DOTTRINA DELLA SCIENZA COME METAFISICA

DELLA SCIENZA

DELL’ASSOLUTO

La dottrina della scienza vuol essere una teoria del sapere scientifico e il suo scopo è realizzare l’unità del sapere, identificando i caratteri della scientificità e unificandoli in una forma sistematica attraverso l’assoluta spontaneità dell’Io. Con questa soluzione Fichte opta per l’idealismo, poiché riconduce le rappresentazioni all’attività del soggetto, di contro al dogmatismo, che le fa dipendere dall’esistenza dell’oggetto (cosa in sé, Essere, sostanza ecc.). Nel respingere il dogmatismo Fichte usa argomentazioni sia pratiche che teoriche, e sostiene che tale scelta è prefilosofica e ha le sue radici nelle inclinazioni e nell’interesse di ciascuno.

Nella seconda fase della sua riflessione Fichte modifica il suo sistema dell’Io trasformandolo in una metafisica trascendentale dell’Assoluto: l’accesso all’Assoluto avviene attraverso la riflessione del sapere su se stesso e non per via intuitiva o mistica. Nei corsi del 1804 egli elabora una teoria dell’«apparire» in cui illustra le cinque forme in cui la coscienza manifesta l’Assoluto; ad esse corrispondono cinque gradi della vita spirituale che egli descrive attraverso la loro «fenomenologia».

5. DOTTRINA

DEI PRINCIPI E METAFISICA DEL SOGGETTO

La parte più famosa della teoria fichtiana è la dottrina dei principi della coscienza: posizione, opposizione e determinazione. Ognuno dei tre corrisponde a un principio logico (principio d’identità, di non contraddizione e di ragion sufficiente): nel primo si pone l’Io come Io assoluto; nel secondo, il Non-io come materia; nel terzo si identifica il rapporto tra Io e Non-io

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9. POLITICA

E STORIA

La teoria politica di Fichte è incentrata sulla tensione tra libertà individuale e ordine collettivo, che ricevono peso diverso nei diversi momenti della sua riflessione. Nella seconda fase della sua riflessione Fichte sviluppa anche una filosofia della storia che vede nel genere umano la manifestazione temporale della Ragione. Infine, prende in considerazione la nozione di popolo, attribuendo al popolo tedesco un primato spirituale.

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Parole chiave Assoluto. Termine con cui Fichte, nella seconda fase della sua riflessione, indica l’Essere o Dio, identità di essere e pensiero e fondamento del sapere. Esso può essere colto attraverso la riflessione, attraverso il sapere che riflette su se stesso fino all’autonegazione, e non intuitivamente. Destinazione. Il compito che spetta a ciascuno ed è differente per ogni individuo, in base alla sua costituzione naturale e alla sua collocazione sociale. Dottrina della scienza. In senso non letterale la possiamo definire «teoria del sapere scientifico». Fichte indica la filosofia come scienza che fonda tutti gli altri saperi. Ne esistono molte versioni, ma la distinzione più importante è tra la prima forma, incentrata sulla teoria della soggettività e la seconda forma, dopo il 1800, in cui il soggetto, pur mantenendo un ruolo fondamentale, viene subordinato all’Assoluto e la dottrina della scienza diviene una riflessione di secondo grado sul sapere assoluto. Dottrina dell’intersoggettività. Teoria secondo la quale l’uomo può acquisire consapevolezza di sé solo nel rapporto con altri individui. Forma sistematica. Connessione capace di unire le singole proposizioni di una scienza in un tutto, derivandole da un unico principio (l’Io), cioè da un’unica proposizione, certa in se stessa prima della connessione, e in grado di comunicare certezza a tutte le altre. Idealismo / Dogmatismo. Due posizioni filosofiche opposte inconciliabili e indimostrabili, che vengono scelte sulla base di un’attitudine personale: secondo la prima l’esperienza, le nostre rappresentazioni, sono riconducibili all’attività del soggetto, per la seconda sono determinate da una realtà esterna (la cosa in sé, la sostanza ecc.). Immaginazione produttiva. La funzione media dell’animo, che opera tra il sentimento e l’intelletto: co-

glie sia il tendere infinito dell’Io che il suo ritornare su di sé, dopo l’urto con un Non-io; tramite questo doppio movimento (oscillazione), essa elabora delle intuizioni che poi l’intelletto organizza. Io assoluto / empirico / pratico. L’Io è il soggetto, nozione centrale per Fichte, all’interno della quale possiamo distinguere: 1) l’Io assoluto, al di qua della coscienza, come pura attività incondizionata della ragione, che non ha limitazioni e corrisponde al primo principio; 2) l’Io empirico, ossia il soggetto individuale e finito, autocosciente; 3) l’Io pratico, il «tendere» della ragione all’identità con se stessa. Metafisica del soggetto. Il tratto essenziale della prima filosofia fichtiana, che pone l’Io come principio del sistema. Non-io. Il contenuto del secondo principio, ossia la materia, indeducibile dal primo per quanto riguarda la sua esistenza, ma posto dal primo per quanto riguarda il contenuto. Popolo. Una collettività che ha in comune lingua, tradizioni, origini. Per il secondo Fichte l’elemento caratterizzante di un popolo è l’unità linguistica che permette di condividere gli ideali spirituali che la Ragione ispira ai singoli individui. Sentimento. La funzione sensibile dell’animo: esprime lo «sforzo» dell’Io, che si autolimita a seguito dell’urto esercitato dal Non-io. Soggettività / Egoità. L’unità pratico-teoretica della ragione, principio unitario di tutte le scienze. Streben. Termine traducibile con «sforzo» o «tendere» e che indica il fondamento della conoscenza nell’Io pratico: l’attività della ragione, tendenzialmente infinita, ma che si autolimita nell’urto con il Non-io.

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Parte terza L’idealismo

Questionario EVOLUZIONE

E RICEZIONE DELLA DOTTRINA

14

DELLA SCIENZA

1

Qual è il centro costante della riflessione di Fichte? (max 2 righe)

2

Che cos’è la metafisica della soggettività? (max 2 righe)

L’ASCESA

IL

POLITICA 15

E IL DECLINO DI UN ‘ASTRO FILOSOFICO’

Qual è la differenza di genere tra gli scritti della prima e della seconda fase della filosofia di Fichte? (max 3 righe)

3

Quali sono i problemi legati alla nozione kantiana di ‘cosa in sé’? (max 6 righe)

SIGNIFICATO 5

Qual è la funzione della forma sistematica nella concezione della scienza fichtiana? (max 2 righe)

6

Quali motivazioni pratiche e teoriche, secondo Fichte, contrastano il dogmatismo? (max 6 righe)

Per quale motivo in T1 l’intelligenza non può essere passiva? (max 1 riga)

17

Quali sono i due livelli dell’umanità secondo Fichte in T2 e quali scelte filosofiche determinano? (max 4 righe)

8

LA

Che cos’è il «conosciuto» di cui Fichte parla in T3? (max 2 righe)

Che cosa deduce Fichte dal fatto che il sentimento è determinato, in T5? (max 2 righe)

20

In che senso Fichte afferma che l’Io è il fondamento di tutti i giudizi? (max 4 righe)

Che cos’è che stimola l’Io all’azione, secondo Fichte in T6? (max 1 riga)

21

Spiega in un massimo di 6 righe il terzo principio: «Io contrappongo nell’Io all’Io divisibile un Non-io divisibile».

Per quale motivo, secondo Fichte in T7, la natura non può esercitare una causalità dell’agire dell’uomo? (max 3 righe)

22

Qual è il principio stabilito da Fichte in T9? (max 2 righe)

23

Quali parti della filosofia di Fichte trovano un fondamento nella teoria morale kantiana, secondo T10? (max 1 riga)

24

Per quale motivo, secondo Fichte in T11, per gli esseri compiutamente morali non si dà nessuna legge giuridica? (max 2 righe)

25

Qual è la radice dell’unità di un popolo secondo Fichte in T12? (max 1 riga)

DEI PRINCIPI E METAFISICA DEL SOGGETTO

CONOSCENZA

9

Spiega in un massimo di 5 righe perché la bipartizione teoretico / pratico non coincide, secondo Fichte, con la divisione tra etica e gnoseologia.

10

Che cos’è lo Streben, secondo Fichte, e qual è la sua funzione nella conoscenza? (max 4 righe)

ETICA

LA

18

19

DOTTRINA 7

Qual è, secondo Fichte, la missione del popolo tedesco? (max 2 righe)

16

E CARATTERI DELLA DOTTRINA

DELLA SCIENZA

E STORIA

Lavoriamo sui testi

DIBATTITO SUL CRITICISMO

4

Tra i cinque gradi della vita spirituale a quali corrispondono le due fasi della filosofia di Fichte, in quale ambito e che cosa determina il passaggio dall’una all’altra? (max 5 righe)

E INTERSOGGETTIVITÀ

11

Quali sono i tratti caratteristici dell’etica di Fichte? (max 4 righe)

12

Che rapporto esiste, secondo Fichte, tra la destinazione di ciascuno e la dottrina dell’intersoggettività? (max 3 righe)

DOTTRINA DELLA SCIENZA COME METAFISICA

DELL’ASSOLUTO

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Attraverso quale via, secondo Fichte, possiamo cogliere l’Assoluto? (max 1 riga)

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Laboratorio di lettura La destinazione del dotto Subito dopo il suo arrivo a Jena, Fichte tenne – parallelamente al corso sulla dottrina della scienza – un ciclo di lezioni sulla destinazione del dotto, aperte a un pubblico ampio. La prima lezione definisce la «destinazione dell’uomo», traducendo in «stile popolare» i risultati conseguiti attraverso l’indagine rigorosamente deduttiva della dottrina della scienza. Essa contiene una delle espressioni più felici del passaggio dalla morale kantiana della disposizione d’animo a quella che giustamente è stata definita un’«etica produttiva», mirante cioè alla consapevole trasformazione e razionalizzazione della natura.

La «destinazione» dell’uomo Presentazione dell’argomento: domande preliminari sulla destinazione del dotto Definizione di «dotto» in rapporto con la società

Puntualizzazione del tema: «qual è la destinazione dell’uomo in sé?»

Commento e interpretazione

Lo scopo delle lezioni a cui oggi do inizio vi è già noto parzialmente. Il mio proposito è di rispondere, o piuttosto di guidarvi a rispondere da voi stessi, alle seguenti domande: Qual è la destinazione del dotto? – Qual è la relazione in cui egli si trova verso l’umanità intera nonché verso le singole classi in essa esistenti? Con quali mezzi può egli più sicuramente realizzare la sua altissima missione? Il dotto si può chiamare così solo in quanto viene contrapposto ad altri uomini che non sono tali: il concetto che noi ne abbiamo sorge dalla comparazione, dalla relazione tra lui e la società; [A] e per società qui si vuole intendere non puramente lo Stato, ma in generale ogni aggregazione di uomini ragionevoli che vivano vicini nello spazio e si trovino perciò in relazioni scambievoli. [B] Di conseguenza la destinazione del dotto, in quanto egli è tale, è concepibile soltanto nella società. E quindi la risposta alla domanda: Qual è la destinazione del dotto? presuppone la risposta ad un’altra, cioè alla seguente : – Qual è la destinazione dell’uomo nella società? La risposta a questa domanda presuppone a sua volta che sia data risposta ad un’altra domanda, ancora più alta e cioè: – Qual è la destinazione dell’uomo in sé? – ossia dell’uomo in quanto viene considerato puramente come uomo, puramente secondo il concetto di uomo in generale, vale a dire

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A. Il termine italiano «destinazione» corrisponde al tedesco Bestimmung derivante dal verbo «bestimmen», che significa «determinare». La destinazione di ogni ceto non è altro che il ruolo determinato spettante ad esso nella società. Essa può dunque essere colta solo nel confronto con gli altri ceti: in questo senso, il dotto è tale perché non è commerciante, né artigiano ecc. B. Fichte tiene a precisare che non ogni società è uno Stato, in quanto in questa fase del suo pensiero politico attribuisce a quest’ultimo un ruolo molto limitato, partendo dal presupposto che sia possibile una coesistenza tra gli uomini fondata esclusivamente sul diritto naturale, cioè su principi validi anche al di fuori delle istituzioni coattive dello Stato (vedi p. 815 s.).

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Parte terza L’idealismo

Tutta la filosofia è una risposta a questa domanda

Premessa metodologica: non si utilizza il metodo deduttivo, ma si parte dal «sentimento» di ciascuno

Inizio argomentazione: non si può concepire l’Io puro senza una relazione con il Non-io

isolato e concepito al di fuori di ogni relazione che non si trovi necessariamente inclusa in tale concetto. E posso ben dirvi subito senza dimostrazione ciò che parecchi di voi indubbiamente conoscono come cosa già da gran tempo dimostrata e che altri sentono oscuramente, ma non perciò meno fortemente: che tutta la filosofia, che ogni pensiero ed ogni insegnamento degli uomini, che tutto il vostro studio e tutto ciò che io in particolare potrò esporvi non può mirare ad altro scopo che a dar la risposta alle domande che ora ci facevamo e specialmente all’ultima e più alta: Qual è la destinazione dell’uomo in generale, e con quali mezzi può egli più sicuramente realizzarla? Ed invero non è per render possibile il sentimento di questo destino, ma perché se ne abbia una concezione chiara, distinta e completa, che bisogna fare appello all’intera filosofia, ad una filosofia (s’intende) fondata ed esauriente. Questa destinazione dell’uomo in sé, è precisamente l’oggetto della mia lezione d’oggi. Voi capite che non posso in questa ora dedurre compiutamente dai suoi principii tutto ciò che debbo dirvi su questo argomento, a meno che non voglia esaurire l’intera filosofia nello spazio di un’ora. Ma posso fondarmi, per procedere innanzi, appunto sul vostro sentimento. [C] Voi comprendete altresì che la domanda a cui intendo rispondere nelle mie lezioni pubbliche: «qual è la destinazione del dotto» o, ciò ch’è equivalente, come risulterà a suo tempo, «qual è la destinazione dell’uomo più altamente, più veramente uomo» segna il termine ultimo di ogni indagine filosofica; e comprendete insieme che l’altra domanda: «qual è la destinazione dell’uomo in generale» (e a questa io intendo dare una risposta esauriente nelle mie lezioni private, limitandomi per oggi ad accenni sommari) segna il punto di partenza di tale ricerca. E ora passo a rispondere appunto a questa domanda. Che cosa sarebbe ciò che vi è di propriamente spirituale nell’uomo, l’Io puro, considerato assolutamente in sé, isolato, e senza alcuna relazione con qualche cosa fuori di esso? Questa domanda è tale che non ammette risposta; e, rigorosamente presa, si mostra contraddittoria in se stessa. [D] Perché certamente non è vero che l’Io puro sia un prodotto del Non-io (designo con questo termine tutto ciò che viene concepito come esistente fuori dell’Io e che quindi viene distinto dall’Io e contrapposto ad esso), che l’Io puro, ripeto, sia un prodotto del Non-io: una proposizione di tal fatta

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C. È qui enunciata la differenza tra stile scientifico e stile popolare. La filosofia produce una «concezione chiara, distinta e esauriente», in quanto ha «forma scientifica», cioè «sistematica» (vedi p. 791), consistente nel dedurre tutte le proprie proposizioni a partire da un principio primo, in sé assolutamente certo. Nelle conferenze e negli scritti popolari Fichte non segue un procedimento deduttivo, ma si limita a esporre i risultati della deduzione svolta in sede di dottrina della scienza, appellandosi al «sentimento» degli uditori. D. In quanto attività infinita e assoluta identità, l’Io puro non si presenta alla coscienza empirica, che implica sempre un dualismo tra soggetto e oggetto. Ad esso il filosofo può pervenire solo a partire dalla coscienza finita attraverso un procedimento mediato di astrazione e riflessione (l’«Io = Io», che implica l’«Io sono», vedi p. 796 s.). E. «Non-io» è il neologismo che Fichte conia per definire la materia. Questa scelta terminologica costituisce già di per sé una presa di posizione polemica nei confronti di quello che Fichte definisce «materialismo trascendentale» o «dogmatismo», il quale intende «l’Io come prodotto del Non-io», riconducendo tutto il sistema delle nostre rappresentazioni all’azione causale di una cosa in sé, cioè di una materia del tutto indipendente dal-

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Limitazione: l’Io può però essere concepito isolato dalla società

Riformulazione e ampliamento della domanda: che cosa distingue l’uomo? Risposta alla domanda. Primo argomento: dalla consapevolezza di essere razionale a quella di essere che esiste di per sé

sarebbe espressione di un materialismo trascendente, che è del tutto contrario a ragione; è d’altra parte indubbiamente vero, e sarà a suo luogo rigorosamente dimostrato, che l’Io non giunge mai né può giungere alla coscienza di se stesso se non nelle sue determinazioni empiriche e che queste determinazioni empiriche presuppongono necessariamente un qualcosa al di fuori dell’Io. [E] Già il corpo dell’uomo, che egli chiama il suo corpo, è qualcosa al di fuori dell’Io. Senza questo collegamento, egli non sarebbe neanche più un uomo, ma qualche cosa che è per noi assolutamente impensabile; seppure si può ancora chiamare un qualchecosa ciò che non è nemmeno un oggetto di pensiero. Il considerare dunque l’uomo in sé ed isolato non significa, né qui né altrove, considerarlo semplicemente come Io puro, senza nessun rapporto con alcun’altra cosa al di fuori del suo Io puro, ma soltanto concepirlo al di fuori di ogni rapporto con altri esseri ragionevoli suoi pari. E, se l’uomo viene concepito in tal modo, qual è la sua destinazione? Che cosa spetta a lui come uomo, secondo il concetto di esso, che non spetti pure a quelli tra gli esseri a noi noti che non sono uomini? in che cosa si distingue egli da tutti gli esseri che, tra quelli a noi noti, non designiamo col nome di uomini? Io debbo muovere ora da qualcosa di positivo e, poiché non posso muovere qui dall’assoluto positivo, cioè dalla proposizione «io sono», debbo dunque mettere innanzi come ipotesi provvisoriamente una proposizione, che è possesso insopprimibile del sentimento umano, che è il risultato dell’intera filosofia, che si può dimostrare rigorosamente (e che io dimostrerò rigorosamente nel mio corso privato), ed è questa: quanto è certo ch’egli ha la ragione, altrettanto è certo che l’uomo è fine a se stesso. In altre parole: egli non esiste perché debba esistere qualche altra cosa, bensì esiste semplicemente perché egli stesso deve esistere; null’altro che il suo esistere è lo scopo ultimo del suo esistere o, ciò che significa lo stesso, non si può senza contraddizione chiedersi il fine del suo esistere. Egli è perché è. Questo carattere dell’essere assoluto, dell’essere che esiste di per se stesso, è il suo carattere o la sua destinazione, in quanto egli venga considerato puramente e semplicemente come essere ragionevole. [F]

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la coscienza, e posta come primo termine ontologico. Fichte rovescia invece il rapporto tra i due termini, e proprio in quanto pone al primo posto la soggettività assoluta può qualificare la materia in maniera negativa, cioè come l’opposto dell’Io. Al tempo stesso, però, egli riconosce che l’esistenza della materia è indeducibile a partire dalla coscienza, affermando che l’opposizione del Non-io è altrettanto originaria quanto la posizione dell’Io, nella misura in cui senza di essa non si darebbe il dualismo tra soggetto e oggetto, che è presupposto indispensabile della coscienza finita. F. Lo stile popolare e non scientifico di queste conferenze induce Fichte a prendere le mosse dal principio secondo il quale l’uomo, in quanto essere razionale, è fine in se stesso, espresso nella seconda formulazione dell’imperativo categorico kantiano, la cui conoscenza poteva essere data per presupposta nel pubblico colto dell’epoca. Per Fichte, però, il dovere di considerare e trattare l’uomo come fine in sé – e mai come mezzo – non costituisce un indimostrabile «fatto della ragione», bensì un principio che può essere dimostrato rigorosamente, in quanto deriva dal principio primo, cioè dalla posizione assoluta della ragione, che costituisce la nostra essenza e la nostra destinazione: in quanto 827

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Parte terza L’idealismo Secondo argomento: l’uomo scopre se stesso in relazione al Non-io

Terzo argomento: l’uomo fonda il suo essere sul suo Io, sulla sua soggettività pura

Chiarificazione: l’Io puro non può essere contraddittorio

Quarto argomento: solo l’Io empirico può essere contraddittorio

Ma all’uomo non appartiene solo l’essere assoluto, l’essere senza altre attribuzioni; gli appartengono anche certe particolari determinazioni di questo essere. Egli non soltanto è, ma è anche qualchecosa. Egli non dice soltanto: io sono: ma aggiunge anche: io sono questo o quello. In quanto egli è, in senso assoluto, è un essere ragionevole; ma in quanto egli è qualcosa, che cosa sarà dunque? A questa domanda dobbiamo rispondere ora. Anzitutto egli non è questo o quello perciò che egli è, ma perciò che esiste qualcosa fuori di lui. La coscienza empirica di noi stessi, cioè la coscienza di una qualsiasi determinazione in noi, non è possibile se non dietro il presupposto di un Non-io, come abbiamo già detto sopra e dimostreremo a suo luogo. Questo Non-io deve agire sulla facoltà recettiva dell’uomo, che noi chiamiamo sensibilità. L’uomo dunque, in quanto è qualcosa, è un essere senziente. [G] Ma egli è al tempo stesso, secondo quanto si è detto sopra, un essere ragionevole; e la sua ragione non deve venir annullata dalla sua sensibilità, ma ambedue devono sussistere l’una accanto all’altra. [H] Posto questo collegamento, la proposizione sopra formulata: «l’uomo è perché è» si trasforma nella seguente: «l’uomo deve essere ciò che egli è, unicamente perciò che egli è», ossia tutto ciò ch’egli è dev’essere ricondotto al suo Io puro, alla sua soggettività pura; tutto ciò ch’egli è, deve esserlo unicamente perciò che è un Io; e ciò che egli non può essere perché è un Io, egli non deve assolutamente cercar di essere. [I] Questa formula, ancora oscura sin qui, verrà tosto chiarita. L’Io puro può essere rappresentato soltanto in modo negativo, come l’opposto del Non-io, il cui carattere è la molteplicità – e quindi come completa, assoluta unità; esso è sempre uno e identico e non può mai essere altro. Quindi quella formula di sopra – si può anche esprimere così: l’uomo dev’essere sempre in accordo con se stesso, egli non deve porsi in contraddizione con sé. S’intende, l’Io puro non può mai trovarsi in contraddizione con se stesso poiché non vi è in esso alcuna diversità, essendo esso sempre uno e identico; ma l’Io empirico, determinato e determinabile dal-

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razionalità – cioè in quanto soggettività – l’uomo è causa di sé in maniera assoluta, e non ha in nient’altro né la sua causa efficiente né la sua causa finale. Fichte pone qui il problema del passaggio dall’Io assoluto – l’essenza identica in tutti gli uomini – all’Io empirico e determinato, cioè all’individuo. In questa fase del suo pensiero, egli ripone il fondamento d’individuazione del soggetto – cioè il fattore che determina e differenzia un individuo da ogni altro – nella sensibilità. Fichte non parla di dominio della ragione sulla sensibilità, bensì sostiene semplicemente che esse devono sussistere l’una accanto all’altra. In questo modo egli non afferma certo la loro pariteticità, ma tuttavia nega – prendendo le distanze dal dualismo kantiano – che tra ragione e inclinazioni sensibili vi sia una contraddizione necessaria. Ciò avviene in quanto Fichte deduce le stesse funzioni sensibili a partire dall’attività assoluta della ragione, giungendo così a intendere la sensibilità in modo molto diverso da Kant, cioè non come mera passività, bensì come un termine medio tra passività e attività (vedi p. 802 s.). Fichte traduce qui in stile popolare la deduzione dell’imperativo categorico kantiano offerta in sede di dottrina della scienza a partire dalla soggettività assoluta, sia teoretica sia pratica: nel soggetto finito, questa si esprime e manifesta solo come ideale, o meglio, come esigenza che tutto si accordi con la ragione. L’adeguazione del soggetto empirico alla soggettività pura e assoluta – che ne costituisce l’essenza e la destinazione – si traduce innanzitutto nell’imperativo di una coerenza in-

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Quinto argomento: bisogna eliminare le contraddizioni attraverso un imperativo

Conclusione e prima tesi: la destinazione di tutti è la coerenza con sé

Precisazione della tesi: valore teoretico-pratico della coerenza

Obiezione: la necessità naturale è un ostacolo all’agire

le cose esterne, può contraddirsi; e, ogni volta che esso si contraddice, dà con ciò una prova sicura di essere allora determinato non da se stesso, non secondo la forma dell’Io puro ma dalle cose esterne. E ciò non deve essere; poiché l’uomo è fine a se stesso; egli deve determinarsi da sé e non lasciarsi mai determinare da qualcosa di esterno; egli deve essere ciò che è, soltanto perché egli vuole e deve volere essere così. L’Io empirico dev’essere determinato nel modo in cui potrebbe essere determinato eternamente. [L] Esprimerei dunque il principio della morale (e aggiungo ciò soltanto di passata e a chiarimento) con la formula seguente; «agisci in modo che tu possa pensare la massima della tua volontà come legge eterna per te». [M] La destinazione ultima di tutti gli esseri finiti dotati di ragione è, quindi, l’unità assoluta, l’identità permanente, la piena coerenza con se stessi. Questa identità assoluta è la forma dell’Io puro, l’unica vera sua forma; o, meglio ancora, dovunque sia concepibile quella identità si riconosce l’espressione di quella forma. Ora soltanto quella destinazione che può esser concepita come eternamente durevole è davvero corrispondente alla forma pura dell’Io. E non s’intenda ciò a mezzo o in modo unilaterale. Non si vuol dire solo della volontà, che debba essere sempre in accordo con se stessa, questione che riguarda propriamente l’etica; ma tutte le forze dell’uomo, le quali in sé sono una sola forza e vengono a differenziarsi soltanto nella loro applicazione ad oggetti diversi, tutte queste forze, dico, debbono accordarsi in una perfetta identità e armonizzarsi tra loro. [N] Le determinazioni empiriche del nostro Io, però, almeno nella maggior parte, non dipendono da noi ma da qualcosa fuori di noi. Vero è che la volontà nella sua sfera, cioè nell’ambito degli oggetti coi quali può entrare in rapporto, una volta che questi son venuti a conoscenza dell’uomo, è assolutamente libera, come sarà rigorosamente dimostrato a suo tempo. Ma la sensibilità, e la rappresentazione di cui essa è il presupposto, non è libera,

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terna del soggetto, cioè nella prescrizione, valida per ogni individuo, di agire secondo massime che non siano in contraddizione tra loro: il tendere alla soggettività pura, che è assoluta identità e unità, non può, infatti, dare luogo a comportamenti cangianti e incoerenti, che si verificano piuttosto solo quando il soggetto subisce passivamente il condizionamento da parte delle molteplici cose esterne. M. Fichte riscrive la classica formula dell’imperativo categorico kantiano – cioè «agisci in modo che la tua massima possa valere come principio di una legislazione universale» – sostituendo la nota dell’universalità con quella dell’eternità. Questa sostituzione non ha un valore neutro, come emerge chiaramente dall’aggiunta del «per te», accanto a «legge eterna», che rivela chiaramente le perplessità fichtiane riguardo all’adeguatezza del criterio formale della universalità razionale a fungere da principio-guida per riconoscere i doveri prescritti dalla legge morale. Perplessità che derivano dalla considerazione fichtiana del soggetto morale come un individuo concreto, determinato in maniera unica e irripetibile dalla sua costituzione naturale e dalla sua collocazione sociale (vedi p. 809). N. Questa precisazione costituisce un’ulteriore presa di distanza rispetto all’etica kantiana, che richiede esclusivamente l’accordo della volontà empirica con la volontà pura, ossia la volontà determinata esclusivamente dalla legge morale. Fichte mira invece all’unità dell’uomo con se stesso nella sua interezza, cioè in tutte le sue facoltà, compresi gli impulsi sensibili.

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Parte terza L’idealismo

Risposta all’obiezione. Primo argomento: l’uomo deve sforzarsi di modificare il mondo

Secondo argomento: lo strumento per migliorare il mondo è la cultura

Terzo argomento: la cultura ha gradi diversi

Conclusione: l’accordo dell’uomo con sé è il Sommo bene (Kant)

bensì dipende dalle cose che sono fuori dell’lo e il cui carattere è non l’identità, ma la molteplicità. E se tuttavia anche sotto questo rispetto l’Io deve sempre essere in accordo con se stesso, esso dovrà sforzarsi di agire immediatamente sopra le cose stesse, dalle quali dipendono la sensibilità e la rappresentazione nell’uomo: l’uomo deve cercare di modificare gli oggetti e di portarli ad armonizzarsi con la forma pura del suo Io, affinché poi anche la rappresentazione di essi, in quanto dipende dalla loro conformazione, si accordi con quella forma. [O] Ora questa modificazione delle cose, in modo che esse siano quali debbono essere secondo i nostri concetti necessari di esse, non può essere attuata mediante la sola volontà, ma occorre a ciò anche una certa capacità che si può acquistare ed aumentare con l’esercizio. [P] L’acquisto della capacità diretta da un lato a reprimere ed eliminare le cattive inclinazioni sviluppatesi prima del destarsi della nostra ragione e del senso della nostra autonomia, dall’altro a modificare le cose fuori di noi e a porle in armonia coi nostri concetti, l’acquisto di tale capacità, dico, si chiama cultura; e parimenti si designa con questo nome anche quel certo grado che si è acquistato di tale capacità. La cultura ha diversità soltanto di gradi; ma essa è suscettibile di un’infinita varietà di gradi. Essa è l’ultimo e più alto mezzo pel raggiungimento del fine supremo dell’uomo, che è la piena coerenza con se stesso, se si considera l’uomo come essere ragionevole e sensibile insieme; è essa stessa il fine ultimo, se si considera l’uomo come essere puramente sensibile. La sensibilità deve essere coltivata: ecco ciò che di più alto e di meglio possiamo farne. Il risultato finale di tutto quanto si è detto è il seguente: nell’accordo completo dell’uomo con sé medesimo e (affinché egli possa giungere alla coerenza con se stesso) nell’accordo di tutte le cose esterne coi concetti pratici necessari ch’egli se ne forma (i concetti cioè che determinano come esse devono essere) consiste il fine ultimo e supremo dell’uomo. Questo

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O. Questi passaggi esprimono in maniera emblematica il distacco fichtiano dalla morale kantiana della «disposizione d’animo» – secondo Fichte circoscritta nel perimetro dell’interiorità del soggetto – verso una morale dello «sforzo, della conquista, della costruzione del mondo umano», come è stata a ragione definita la posizione del Fichte jenense. Alla radice di questo distacco vi è il seguente ragionamento: la trasformazione del mondo, volta ad adeguarlo ai nostri concetti razionali, costituisce la condizione necessaria anche dell’accordo pieno del soggetto con se stesso, dal momento che, con eccezione della volontà pura, le forze dell’uomo – cioè le funzioni sensibili e l’attività rappresentativa – si esplicano solo in reazione a un condizionamento da parte del Non-io. P. Per realizzare la legge morale – che prescrive la trasformazione del mondo – secondo Fichte non è sufficiente la buona volontà, ma occorre anche la «cultura» della sensibilità, nel duplice significato di disciplinamento dei sensi e di coltivazione delle nostre forze sensibili: queste ultime sono il fattore che fa dell’uomo una parte della natura e, in quanto tali, sono il termine medio indispensabile per agire in essa. Q. «Sommo bene» è l’espressione adoperata da Kant per designare lo scopo finale prescritto all’uomo dalla legge morale: non il movente, bensì l’oggetto del volere morale. Per Kant, però, il Sommo bene è l’unione e la giusta proporzione tra virtù e felicità, che egli intende come elementi assolutamente eterogenei (vedi Unità 14, p. 701 s.), in polemica con lo stoicismo e l’epicureismo, cioè le teorie etiche fondate sull’affermazione dell’identità tra i due termini (secondo l’epicureismo la virtù consiste nella felicità – cioè

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Unità 15 Fichte e la dottrina della scienza

Precisazione: problema del rapporto moralità / felicità e rifiuto dell’eudemonismo

Seconda tesi: la destinazione dell’uomo non è raggiungere il fine ultimo ma avvicinarsi all’infinito alla sua meta

accordo è senz’altro, per usare la terminologia della filosofia critica, ciò che Kant chiama il Sommo bene; e questo Sommo bene, considerato in se stesso, come risulta da quanto è detto sopra, non ha affatto due parti, ma è assolutamente semplice ed uno: esso è la completa coerenza di un essere ragionevole con se stesso. In rapporto però ad un essere ragionevole che è anche dipendente dalle cose esterne il Sommo bene si può considerare sotto un duplice aspetto: come accordo pieno della nostra volontà con l’idea di una volontà eternamente valida, o bontà morale, e come accordo delle cose esterne con la nostra volontà (s’intende con la nostra volontà conforme a ragione) o felicità. [Q] È dunque tanto lontano dal vero (sia detto ciò di passaggio) che l’uomo sia determinato alla bontà morale dalla aspirazione alla felicità, che anzi il concetto stesso e l’aspirazione ad essa hanno la loro prima sorgente nella natura morale dell’uomo. Non già, come si suol dire, è buono ciò che ci rende felici; ma si dica piuttosto: soltanto ciò che è buono può renderci felici. Senza moralità non è possibile felicità alcuna. [R] Sono, sì, possibili senza di essa, e perfino in contrasto con essa, dei sentimenti piacevoli (e a suo luogo ne vedremo il perché), ma questi non costituiscono la felicità, anzi spesso sono addirittura in contraddizione con essa. Sottomettere a noi tutto ciò che esiste di irragionevole, dominarlo liberamente e secondo la legge a noi propria è il fine ultimo dell’uomo; fine ultimo il quale è affatto irraggiungibile e rimarrà eternamente irraggiungibile tranne che l’uomo non debba cessare d’essere uomo e divenir Dio. È implicito nel concetto stesso di uomo, che il fine ultimo debba essere irraggiungibile, la sua via verso di esso infinita. La destinazione dell’uomo, quindi, non è di raggiungere questo fine. Ma egli può e deve avvicinarsi sempre più alla sua meta: or dunque l’avvicinarsi infinitamente a questa meta è la vera destinazione dell’uomo in quanto uomo, cioè in quanto essere ragionevole ma finito, in quanto essere sensibile ma libero.

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nel condurre una vita che ci garantisca la maggiore felicità possibile – mentre secondo lo stoicismo la felicità consiste nella virtù, ossia nella coscienza interiore di avere agito in maniera virtuosa, a prescindere da tutto ciò che accade nel mondo). Fichte designa invece con l’espressione «Sommo bene» l’accordo completo dell’uomo con se stesso, comprendente anche l’adeguazione del mondo ai nostri concetti pratici. A partire da questo presupposto, egli può affermare, in implicita polemica con Kant, che il Sommo bene è «assolutamente e semplicemente uno» indicando nella virtù e nella felicità non due componenti separate ed eterogenee di esso, bensì i due aspetti sotto i quali è possibile considerarlo in rapporto a un essere finito quale l’uomo. Il primo aspetto considera l’accordo della volontà empirica con la volontà pura – corrispondente alla virtù – e il secondo l’accordo degli oggetti esterni con la nostra volontà razionale, corrispondente alla felicità. Così intesi, i due termini risultano per Fichte inseparabili, nella misura in cui la virtù dell’uomo non può consistere in nient’altro che nel contribuire allo sviluppo della cultura, e dunque all’aumento della felicità. R. Da un lato, Fichte nega – come Kant – che l’impulso alla felicità costituisca e possa costituire l’impulso e il movente dell’azione morale. Dall’altro, però, egli attenua il rigorismo kantiano, deducendo la felicità a partire del tendere della ragione all’assoluta spontaneità e all’assoluta unità con sé. In questo modo, la felicità non risulta più essere godimento passivo – espressione di dipendenza materiale e spirituale – bensì è posta in stretta correlazione con l’attività dell’uomo.

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Parte terza L’idealismo Precisazione della seconda tesi e conclusione: l’uomo deve perfezionare anche la società e il mondo

Se si designa ora come perfezione, nel senso più alto della parola, quel completo accordo dell’essere ragionevole con se stesso (e si può certamente designarlo così), allora la perfezione è per l’uomo la meta più alta ed irraggiungibile; il perfezionamento all’infinito è invece la sua destinazione. L’uomo esiste per divenire egli stesso sempre migliore moralmente e per rendere migliore materialmente e (se consideriamo l’uomo nella società) moralmente tutto quanto lo circonda, conquistandosi così una felicità sempre maggiore. [S] […]

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(da J.G. Fichte, La missione del dotto, lezione I, Mursia, Milano 1976, pp. 117-123, trad. modificata da R. Picardi)

S. L’adeguamento degli oggetti alla soggettività assoluta – cioè la razionalizzazione della natura prescritta dalla legge morale – non può mai essere realizzata completamente, perché ciò comporterebbe il venir meno del dualismo tra soggetto e oggetto che è l’orizzonte della coscienza finita: per questo motivo, la «perfezione» è una meta irraggiungibile, e la destinazione dell’uomo può essere riposta solo nel «perfezionamento all’infinito». La perfetta coincidenza tra soggetto e oggetto non può per Fichte avere luogo in un essere razionale finito qual è l’uomo, bensì solo in un Essere infinito, qual è Dio. Il Dio cui egli fa qui riferimento non è l’Essere morale creatore del mondo, ammesso da Kant come postulato della ragion pratica (vedi Unità 14, p. 701 s.): si tratta piuttosto solo di un concetto-limite, menzionato per mettere in guardia contro la pretesa dell’uomo di essere uguale alla divinità. Il primo Fichte sostiene dunque un umanesimo radicale che va oltre Kant, il quale – dopo avere confutato, nella Critica della ragion pura, le prove tradizionali dell’esistenza di Dio – ha però indicato in un Creatore morale del mondo la condizione necessaria per garantire la realizzabilità del Sommo bene. Per Kant, infatti, solo la virtù è sotto il controllo dell’uomo, da cui non dipende invece il congruo rapporto (che viene garantito da Dio in una vita futura) tra le intenzioni virtuose e la felicità – intesa come felicità personale – in cui egli ripone appunto il Sommo bene. L’identificazione che Fichte compie tra quest’ultimo e il processo di civilizzazione dell’umanità – espungendo da esso la componente della felicità personale – fa invece venir meno ogni fondamento all’esigenza della fede pratico-razionale in un’istanza superiore, chiamata a garantire la realizzabilità del Sommo bene. La razionalizzazione della natura e della società è sì un processo che non potrà mai giungere a compimento – a causa dell’ineliminabilità del limite oggettivo per gli uomini – ma non per questo è sottratto al controllo della ragione finita.

Questionario sull’argomentazione 1

Qual è la definizione di società che Fichte dà in questo brano? (max 1 riga)

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L’Io puro viene definito attraverso delle affermazioni contraddittorie: quali sono? (max 4 righe)

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A quale proposizione Fichte si riferisce definendola l’«assoluto positivo» e che ruolo le fa svolgere nella sua argomentazione? (max 2 righe)

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Qual è la causa che rende infinita la destinazione dell’uomo? (max 2 righe)

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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana COSCIENZA / AUTOCOSCIENZA / IO I due significati principali del termine «coscienza»: morale e cognitivo

Intenzionalità: la «coscienza di»

La «coscienza» come stato dell’individuo

Nesso tra i due significati cognitivi

1. Che cosa significa la parola «coscienza»? Usiamo spesso il termine «coscienza» e i suoi derivati («cosciente», «incosciente», «inconscio», ma anche «consapevole», «inconsapevole» ecc.). Ma qual è il loro significato, o, meglio: quali sono i loro significati? Se provassimo a raggruppare secondo il loro senso alcune espressioni di uso comune, noteremmo subito almeno due accezioni del termine. Qualche volta parliamo di «coscienza» in un senso morale, ossia legato alla responsabilità per le nostre azioni: «fatti l’esame di coscienza», «c’è gente che non ha un po’ di coscienza», «io voto secondo coscienza» ecc. Altre volte questo senso è assente, e ci riferiamo a qualcosa di più fondamentale: come quando diciamo che «non avevo coscienza di quello che stava accadendo», «sono cosciente di quello che stanno facendo gli altri», oppure «aveva perso coscienza a causa di un malore», «è ritornato cosciente», e simili. Qui «coscienza» non sembra legato alla responsabilità morale, ma a uno stato nel quale «ho consapevolezza», «mi rendo conto» di determinate cose. Questa seconda accezione del termine potremmo chiamarla ‘cognitiva’ per distinguerla da quella morale. Se guardiamo bene, anche in questo secondo significato si può riscontrare una diversificazione, che si manifesta anche in particolari grammaticali. Nei primi due esempi fatti («non avevo coscienza di quello che stava accadendo», «sono cosciente di quello che stanno facendo gli altri»), si parla di coscienza di qualcosa, potremmo dire del riferimento della nostra mente a qualcos’altro, a un ‘oggetto’ determinato. Per questa proprietà degli stati mentali si usa in filosofia un termine tecnico di origine latina, «intenzionalità», che esprime il tendere a, dirigersi verso qualcosa di certi stati (da non confondere col significato corrente di «avere un’intenzione», «voler fare qualcosa»). Vedere qualcosa o immaginare qualcosa è uno stato mentale intenzionale, la gioia o la tristezza non lo sono. Quando qualcuno allora è cosciente di qualcosa si può parlare di «coscienza intenzionale». Il significato degli altri esempi è diverso. Se qualcuno «è ritornato cosciente», per esempio dopo un’anestesia totale, ci riferiamo non tanto a un singolo stato mentale con un suo oggetto (non c’è infatti la proposizione «di»), ma a uno stato complessivo, il cui opposto non è la mancata coscienza di quell’oggetto – posso per esempio essere o meno cosciente della presenza di qualcun altro in una stanza –, ma uno stato di incoscienza, ossia la mancanza di qualunque coscienza. La differenza è espressa in modo forte dal fatto che in quest’ultimo caso posso dire che in qualche senso io non ci sono, mentre nel caso precedente della mancata coscienza di qualcosa io sono comunque lì, «cosciente». Non so che c’è qualcun altro nella stanza, ma so molte altre cose. Risulta evidente che il significato di coscienza come stato complessivo è quello più basilare: per poter essere cosciente di qualcosa – e anche per avere coscienza in senso morale – devo essere anzitutto cosciente (non in anestesia, non in 833

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Parte terza L’idealismo

coma, non in uno stato di sonno senza sogni). Ma tra stato complessivo di coscienza e coscienza intenzionale c’è un legame complesso: se si può dire che la coscienza complessiva è il presupposto di ogni coscienza intenzionale, si può anche osservare che sono cosciente quando sono – o almeno posso essere – cosciente di molte cose, e che quindi lo stato di coscienza contrapposto alla completa incoscienza è composto di molteplici stati di coscienza intenzionale. Quando mi sveglio da un’anestesia comincio a esser consapevole delle voci di chi mi sta intorno, di avere sete, di essere in un letto ecc. La natura L’ultima osservazione ci porta alla domanda: che cos’è la coscienza come stato della coscienza: basilare e complessivo? E di che cosa è fatta? Che cosa la rende un fenomeno due modelli unitario? Già la distinzione semplice che abbiamo fatto ci prefigura due modelli per concepirla, infatti possiamo: 1) pensare che la coscienza come stato complessivo risulti dalla composizione o dall’intreccio di una pluralità di stati di coscienza puntuale, riferita agli oggetti (sono cosciente quando so che qui c’è una sedia, e che lì c’è un tavolo, e che qualcuno sta parlando, e che prima pioveva ecc.); oppure 2) pensare che questi stati siano possibili e che sia possibile la loro unità se c’è uno stato complessivo che li abbraccia, e una ‘cosa’ stabile che li tiene insieme ed è ragione di quello stato, ossia l’‘Io’ che è cosciente di tutti questi stati. In fondo, quello che hanno in comune tra di loro il mio esser cosciente di questa cosa e il mio esser cosciente di altre mille cose è che io ne sono cosciente. Sono ‘io’ la cosa che le tiene insieme. 2. L’autocoscienza e l’io Come si vede, nel discorso sulla coscienza emerge la nozione di «io» ancora prima di introdurre un’altra importantissima distinzione che non può non essere fatta quando parliamo della nostra coscienza, ossia della coscienza umana. L’io emerge già almeno come l’ipotesi di qualcosa che tenga insieme i diversi stati nei quali qualcuno è cosciente di qualcosa: delle immagini, dei suoni, degli odori, in genere di ciò che lo circonda. Ma quando sono cosciente, per esempio, di un rumore improvviso, che forse mi fa sobbalzare, sono anche in grado di rispondere, a chi mi chiede perché sono sobbalzato: «perché ho sentito un rumore». Ciò vuol dire che alla mia coscienza del rumore è legata la coscienza di sentire il rumore: io so che c’è un rumore e so che io lo sento. Insieme alla coscienza intenzionale (dell’oggetto) c’è dunque per lo più una coscienza riflessiva, una coscienza della mia coscienza: un’autocoscienza. Non soltanto sono cosciente del mondo, ma sono cosciente di me stesso. Nella frase «sono cosciente del rumore» una componente importante – che nell’uso normale della lingua in italiano resta nascosta – è l’‘io’, che allude a un’altra azione della mente, del tutto diversa dalla coscienza del rumore. Conviene approfondire un po’ di più, una alla volta, queste due dimensioni, coscienza e autocoscienza. La dimensione La coscienza è un fenomeno estrememante familiare. Infatti che cosa può esserdella coscienza ci di più familiare di ciò che noi siamo? E noi siamo, anzitutto, coscienza. Ma ciò nonostante essa è alquanto complessa e difficile da definire. Qualche filosofo oggi si toglie d’imbarazzo con una definizione operativa, cioè sufficiente a identificare la cosa di cui si parla: «coscienza» è quello stato in cui ci troviamo quando non siamo immersi in un sonno senza sogni (sognare è una forma di coscienza). Fare così, però, è come indicare: la coscienza è quella cosa lì. Ma posso anche chiedermi: che cosa è? Proviamo a dire qualcosa di più riflettendo ancora sull’uso della parola.

Coscienza e autocoscienza

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Laboratorio sul lessico Coscienza / autocoscienza / io Coscienza e conoscenza

Conoscenza senza coscienza

Essere cosciente e orientarsi nella propria situazione

Requisiti della coscienza: unificazione e integrazione delle informazioni

Il ‘sé’ e la coscienza

La coscienza sembra essere legata alla nostra conoscenza di certe cose, a informazioni che abbiamo su di esse. Si usa anche dire, quando qualcuno rinviene dopo essere stato svenuto (incosciente), «ha ripreso conoscenza». Ma coscienza e conoscenza sono la stessa cosa? Se sono cosciente che sta arrivando l’autobus, so che sta arrivando. Ma vale il contrario? No, io posso sapere che sta arrivando l’autobus perché qualcuno me l’ha detto, perché arriva sempre puntuale a quell’ora, perché vedo una persona correre verso la fermata ecc. In questo caso, lo so, ma non ne sono cosciente. La coscienza sembra essere allora un tipo particolare di sapere. Quale? Sono cosciente di qualcosa non solo se ho informazioni su di essa, ne so qualcosa, ma se questo sapere è direttamente legato al mio stato presente. Potrei sapere che da qui passano gli autobus, ma non esserne – ora – cosciente. La coscienza di qualcosa riguarda il mio rapporto presente con questa cosa e con l’informazione relativa. Anche questo è espresso da ciò che intendiamo con alcune formulazioni del linguaggio quotidiano. Io posso dire che sono cosciente dei pericoli di una certa situazione (e non mi comporto, dunque, da ‘incosciente’) se non soltanto so che i pericoli ci sono, ma anche ne tengo conto: se cioè oriento il mio comportamento attuale in base alla conoscenza che posseggo. La quantità di informazione, di conoscenza, non è identica alla coscienza: se so molte cose sui pericoli che ci sono e mostro di non tenerne conto, allora diremmo che non ne sono veramente cosciente. Così, se qualcuno si riprende dopo uno svenimento, sappiamo che è cosciente in senso pieno non tanto se sa dire qualcosa, per esempio come si chiama, ma se si orienta nella situazione, ossia se è in grado di modificare le sue azioni in relazione alla situazione presente in cui si trova. Il potersi orientare in rapporto a una situazione presente, grazie al quale possiamo considerare qualcuno o qualcosa cosciente, richiede qualcosa di più di informazioni, e anche di informazioni ‘attuali’, per così dire, cioè relative a uno stato presente. Richiede che queste informazioni siano unificate, che costituiscano una ‘scena’ complessiva in cui informazioni di tipo diverso sono integrate fra di loro. Ci riesce difficile considerare cosciente un animale che reagisce a un unico stimolo (per esempio il calore), mentre consideriamo cosciente il nostro cane quando cerca una traccia con l’olfatto evitando ostacoli grazie alla vista e ascoltando i nostri richiami. Qualche filosofo assume un concetto minimale di coscienza, tale da poter essere applicato a un congegno semplicissimo, come un termostato, che sia in grado di discriminare stati del mondo esterno e di reagire di conseguenza. Il termostato accende o spegne uno scaldabagno a seconda che la temperatura sia inferiore o superiore a un certo limite, quindi in un certo senso si può dire che il termostato è ‘cosciente’ dello stato del mondo esterno, relativamente alla temperatura. Tuttavia, un’accezione più vicina a quella dell’uso comune del termine suggerisce di considerare ‘coscienza’ la capacità di orientarsi in una molteplicità di informazioni provenienti dal mondo, integrandole, unificandole tra di loro in un quadro unitario. Il ruggito che sento proviene da quella stessa cosa che vedo (il leone) ecc., che è in un nesso determinato con un’altra cosa che vedo (l’albero) ecc. La scena che si crea deve essere ‘sensata’, ossia permettere e suggerire di agire in un modo o nell’altro. Perché questo avvenga, perché le informazioni orientino l’ente cosciente – che può essere non solo un uomo, ma anche un animale o un robot – esse devono comprendere anche informazioni sul ‘soggetto’ e la sua relazione con il mondo, anche se non necessariamente un’autocoscienza in senso 835

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Parte terza L’idealismo

stretto. Per esempio, l’animale avverte un rumore come ‘vicino’ o ‘lontano’ (a breve o lunga distanza da sé), vede qualcosa che ‘si avvicina’ (a sé), o annusa qualcosa di appetitoso (che risponde a suoi bisogni). Per questo non c’è bisogno che ci sia coscienza riflessa, ossia il sapere che si sta vedendo o sentendo, né coscienza riflessa di un io (avere una rappresentazione della propria identità). Ma perché vi sia coscienza come fenomeno complesso, – quale la attribuiremmo per esempio a un animale superiore (il cane, il gatto, il cavallo) – c’è bisogno che il sistema complessivo includa, nei modi che si è detto, un riferimento al ‘sé’.

La coscienza vista dall’interno

La coscienza che fa un certo effetto

Che effetto fa essere un animale

Risvolti della coscienza qualitativa o ‘fenomenica’

La coscienza fenomenica e l’indagine scientifica

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3. Il punto di vista interno Quella finora abbozzata è una caratterizzazione della coscienza che potremmo chiamare funzionale, nel senso che cerca di indicare alcune proprietà della coscienza in relazione alla funzione che essa svolge, che sembra essere quella di consentire un più efficace orientamento in relazione all’ambiente e alle sue variazioni. C’è però una peculiarità di ciò che chiamiamo coscienza che va al di là di questo tipo di caratterizzazione, e che si rivela solo se osserviamo la coscienza, come a noi è possibile, dall’‘interno’. Uno stato cosciente ha forse le caratteristiche che abbiamo accennato e molte altre che rendono possibile lo svolgersi di un processo come la ‘coscienza’, ma ha anche delle proprietà che si mostrano a chi è cosciente – delle qualità. Il rosso del fiore che vedo, il sapore di cioccolato che sento, il suono del violino che ascolto sono così come mi appaiono in quel certo stato di coscienza, e questo ‘così come’ non è un insieme di cose che la coscienza fa, ma qualcosa che la coscienza prova. Il mondo visto dall’interno di una coscienza si rivela con delle qualità che ci fanno un certo effetto, e ci fa un certo effetto provarle. Il rosso non visto da nessuno, il sapore non provato da nessuno, l’emozione non sentita da nessuno, non sono la stessa cosa, non sono alcuna cosa. C’è allora un aspetto molto importante della coscienza che è avvertibile solo in prima persona, non descrivibile dall’esterno: l’effetto che fa essere quel tipo di coscienza con quel tipo di ‘informazioni’. Si può parlare in questo caso di ‘soggettività ontologica’ degli stati coscienti, che non significa che siano soggettivi in senso epistemologico (che cioè ognuno abbia i suoi), ma che il loro essere è essere provati da qualcuno (o da ‘qualcosa’, se non si vuole usare l’espressione ‘qualcuno’ che rimanda esclusivamente a una persona). Essi sono accessibili solo dall’interno, introspettivamente. Un modo per comprendere questo aspetto è pensare a una coscienza diversa dalla nostra, una coscienza animale. In un esempio rimasto famoso fatto da un filosofo americano, ci si può chiedere che effetto faccia essere un pipistrello (ma anche un delfino), ossia un animale il cui stato cosciente è costituito anche da una sensazione che noi non possiamo provare, quella data dal ‘biosonar’, la sorta di strumento a ultrasuoni con cui si percepiscono oggetti e li si localizza. Si può discutere se per sapere ‘che effetto fa’ un certo stato cosciente basti la coscienza o sia necessaria già una forma di autocoscienza – dipende anche dal fatto che mettiamo o meno l’accento sul vedere il rosso (sulla sensazione di rosso in quanto tale) o sul vedere il rosso nel suo complesso (come qualcosa che appunto fa un certo effetto su qualcuno / qualcosa). Ma la questione della coscienza qualitativa – o coscienza «fenomenica», come si usa chiamarla – ha diversi risvolti importanti. Secondo alcuni, la natura fenomenica della coscienza sfugge a una descrizione dall’esterno, ma caratterizza in modo essenziale, imprescindibile, che cosa significa essere un ente cosciente, e dunque pone dei limiti all’indagine scientifi-

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Laboratorio sul lessico Coscienza / autocoscienza / io

Nella coscienza, essere è uguale a essere provato

Il privilegio dell’infallibilità

Dal sé all’io

ca sulla coscienza, e di conseguenza anche alla sua riduzione a processi materiali. Una scienza non può che descrivere la coscienza in termini funzionali, secondo ciò che essa fa, ma le sfuggirebbe allora un aspetto essenziale di cosa essa è. Secondo altri, i pretesi aspetti qualitativi della coscienza potrebbero essere perfettamente compresi e ricondotti ad aspetti funzionali. In ogni caso, l’aspetto qualitativo della coscienza introduce una proprietà particolare che la sfera cosciente sembra avere. Sia o meno spiegabile in altri termini, un rosso visto – quando so di averlo visto, ossia sono anche autocosciente – esiste solo per il fatto che lo vedo: in altri termini, posso dubitare che vi sia una cosa rossa, ma non che vi sia il rosso che ho visto, la sensazione di rosso che so di aver avuto. Pensiamo, per esser più chiari, a un dolore: se lo provo c’è, e al contrario un dolore che nessuno prova non c’è in nessun senso. Ciò che fa parte della sfera della coscienza sembra godere della particolare natura per cui essere è uguale a essere provato (rappresentato in qualche forma dalla coscienza). Questo sembra dare all’esperienza interna della coscienza – in realtà all’esperienza autocosciente: so di vedere, so di provare dolore ecc. – un particolare privilegio, ossia quello dell’infallibilità, sottolineato in epoca moderna da Cartesio. Se mi sembra di vedere qualcosa, se mi sembra di sentire qualcosa, può darsi che la cosa che credo di vedere e quella che credo di sentire non vi siano, ma sul ‘mi sembra di’ non posso ingannarmi. Non c’è una totale infallibilità riguardo ai contenuti della coscienza: potrei per esempio trovarmi a rivolgere a me stesso una domanda come «mi è sembrato di vedere del rosso, o era piuttosto violetto, o era porpora?» e quindi anche i contenuti ‘interni’ possono essere dubbi. Piuttosto, è la mia capacità di riferirmi ai miei stati come miei che sembra offrire un punto d’appiglio particolarmente solido. Esso ha una particolare importanza funzionale: riconoscendo stati coscienti come miei posso anche confrontarli con altri, elaborarli, metterli in dubbio, inserendoli in un contesto più vasto che però ‘io’ unifico e organizzo. Se so che mi è sembrato di vedere una certa cosa, posso poi mettere in discussione questa sensazione (mettiamo, perché sono all’interno di un ambiente in cui quella cosa è improbabile ci sia, e lo so, ne sono cosciente). L’autocoscienza sembra allora non tanto consentire una più profonda coscienza di sé, ma una più elaborata e precisa coscienza del mondo. Una rielaborazione più profonda della coscienza con cui mi oriento nel mondo. Qualsiasi essere autocosciente (umano, animale, alieno, androide…) per esercitare un controllo complesso sulle proprie elaborazioni deve poterle rendere oggetto di un pensiero di secondo grado. Devo poter sapere che sto pensando di scappare per valutare se è la strategia migliore per affrontare un certo rischio, per esempio la presenza di una tigre. Per farlo, non solo le informazioni sul mondo, ma le informazioni sul rapporto tra il sé e il mondo che abbiamo visto essere implicite in un certo grado di ‘coscienza’ devono essere oggetto di coscienza riflessa o di secondo grado. Il sé implicito deve diventare allora un elemento identificabile come altri, di cui posso occuparmi: deve trasformarsi in un ‘sé concettuale’, esplicitamente rappresentato, di cui parlo come parlo delle cose del mondo. Questo sé cui posso attribuire proprietà è il mio ‘io’, che può avere una storia e dar luogo a una identità personale. La mia capacità di essere autocosciente – di avere coscienza riflessa di processi mentali – si traduce nel diventare Io.

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Parte terza L’idealismo

Esercitiamoci sulla coscienza 1. Rifletti e completa

Autocoscienza

Coscienza morale (legata alla responsabilità per le proprie azioni)

Coscienza intenzionale (coscienza di un oggetto)

COSCIENZA

Sé concettuale o ‘io’ (coscienza __________ del sé implicito in ogni coscienza)

Integrare le informazioni in una ‘scena’ con riferimento a ________

Coscienza cognitiva (________________) Coscienza come stato ________________ ________________ (essere cosciente)

Due modelli

{

– L’io come intreccio di atti intenzionali – L’io come presupposto degli atti intenzionali

Coscienza ‘funzionale’: __________________ __________________ __________________ __________________ Coscienza ‘qualitativa’ o ‘fenomenica’ (vista dall’interno) Infallibilità nel riferirsi ai propri stati

2. Spunti per il dibattito: io e… la coscienza 1

2

Dopo aver letto il testo e completato la mappa rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – La coscienza morale secondo te è una parte o un aspetto della coscienza cognitiva? Oppure qualcosa di completamente diverso e anche se si usa la stessa parola sono due concetti che non hanno nulla in comune? – Quali tra i seguenti stati mentali sono intenzionali e quali non lo sono? L’invidia per la vincita di un vicino di casa a una lotteria; un senso di euforia dopo il superamento dell’esame per la patente; una grande sete in un pomeriggio d’agosto; l’operazione «16+37=53» fatta ‘a mente’.

Ricevi una telefonata che ti propone di partecipare a un bizzarro sondaggio: ti viene chiesto di dichiarare tutto ciò di cui sei cosciente in quel momento. – Tu, da filosofo, che cosa risponderesti? E prima di tutto, è possibile eseguire il compito richiesto? 838

– Di quante cose sei cosciente in questo momento? – È possibile descrivere la coscienza presente o solo quella passata? – Il tentativo di descrivere la tua coscienza la modifica, e perché? 3

Una grande industria del settore robotica ha costruito un prototipo di macchina autocosciente che gioca a scacchi. Questa macchina dispone di un sistema di autocontrollo che registra continuamente i propri stati ed emette delle frasi del tipo «ora muovo il pedone da g2 a g4», oppure «non posso muovere la torre in f1 perché verrebbe mangiata». Un giocatore di scacchi sostiene che questo non basta e che si potrà dire che la macchina sa quello che sta facendo solo se può dire frasi come «devo difendere la regina», «ora voglio fargli spostare l’alfiere» oppure «l’ho messo sulla difensiva». – Che cosa ne pensi? È importante il livello di visione strategica per parlare di consapevolezza del rapporto tra l’io e l’ambiente?

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

1. L’età di Goethe e il pensiero romantico 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Classicismo e ‘filosofia del Romanticismo’ Arte e verità: Schiller e Schlegel La natura vivente: Goethe Fede e religione: Schleiermacher La riscoperta delle origini: Herder Il pensiero politico romantico

2. Schelling 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Schelling: un filosofo in continua evoluzione La filosofia della natura Il Sistema dell’idealismo trascendentale La filosofia dell’identità La filosofia della libertà: Dio, l’uomo e il male Filosofia negativa e filosofia positiva

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte terza L’idealismo

L’età di Goethe e il pensiero romantico

1 I testi

F. Schlegel Lyceum der schönen Künste: Ironia, filosofia e poesia, T1 W. Goethe Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister: Contro il metodo sperimentale, T2

1 La Germania, centro di una nuova cultura

L’aspirazione all’unità e il ritorno all’antico

Il Classicismo tedesco

La nascita del movimento romantico

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F.D.E. Schleiermacher Discorsi sulla religione: La religione: intuizione e sentimento, T3

Classicismo e ‘filosofia del Romanticismo’ A cavallo tra Settecento e Ottocento la Germania è teatro di una fioritura culturale e artistica che rinnova le concezioni della natura, dell’arte e della morale con un’intensità che non ha pari negli altri Paesi europei. Questo rinnovamento è alimentato da acque molto diverse – come lo Sturm und Drang, il Classicismo e il Romanticismo – attraverso l’incrocio e lo scontro di motivi e interessi culturali tra loro eterogenei: non a torto, l’epoca viene spesso chiamata «età di Goethe», perché nessuno meglio di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), col carattere ricco e composito della sua figura, può esprimerla. Alla radice di questo fermento è però rinvenibile un’esigenza comune, cioè l’esigenza di ricomporre l’unità, contro le scissioni prodotte dalla cultura intellettualistica dei Lumi: l’unità tra individuo e comunità e quella dell’uomo con Dio, con la natura e con se stesso. Quest’aspirazione all’unità trova una prima espressione nel Classicismo tedesco, cioè quell’esperienza filosofico-culturale che reagisce alle molteplici lacerazioni del mondo moderno attraverso il richiamo all’antichità classica come epoca dell’armonica fusione tra uomo, natura, divinità e comunità. La classicità è presentata non come semplice modello da imitare e contemplare, bensì come un insieme di valori esemplari da riportare in vita. In senso stretto, il Classicismo viene fatto coincidere con il periodo della collaborazione di Goethe e Friedrich Schiller (1759-1805), che va dal 1794 fino al 1805, anno della morte del secondo. Esso si sviluppa in particolare attorno alla piccola corte di Weimar che – dopo l’arrivo, nel 1775, di Goethe, in qualità di precettore del giovane duca Karl August – divenne la capitale culturale della Germania dell’epoca. A Weimar si stabilì anche Johann Gottfried Herder (17441803) – una delle personalità più importanti di questo periodo, molto vicina a Goethe e Schiller, dai quali si allontanò, però, proprio dopo la loro «svolta classica» – e soggiornò, sia pure per un breve lasso di tempo, il poeta lirico Friedrich Hölderlin (1770-1843), sospeso tra Classicismo e Romanticismo, senza aderire pienamente a nessuno dei due movimenti. All’incirca negli stessi anni, nell’ultimo decennio del Settecento, nasce in Germania il movimento romantico, le cui coordinate spazio-temporali risultano molto più ampie e difficilmente definibili, rispetto a quelle del Classicismo. In pri-

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

Le tre fasi del Romanticismo

Complessità ed eterogeneità del Romanticismo

I tratti fondamentali della filosofia romantica

mo luogo, non si tratta di un fenomeno esclusivamente tedesco, bensì di un movimento che si diffonde in tutta Europa, per quanto sia innegabile che in Germania esso riceva la sua espressione più rilevante, soprattutto sotto il profilo filosofico. In secondo luogo, se si è abbastanza concordi circa l’inizio, collocato nell’ultimo decennio del Settecento, molto più problematica è invece la determinazione del suo esito: per alcuni va fissato all’incirca alla metà dell’Ottocento, mentre per altri non può essere stabilito, dal momento che tratti essenziali della cultura romantica permeano ancora il mondo odierno. Il Romanticismo è, in ogni caso, solitamente suddiviso in tre «fasi», distinte sulla base dei luoghi in cui si formano i circoli romantici: 1) la prima, che molti identificano con l’attività filosofica, estetica e poetologica del circolo di Jena, che si sviluppa attorno alla rivista «Athenäum», fondata nel 1798 dai fratelli Friedrich (1772-1829) e Wilhelm August (17671845) Schlegel; circolo a cui partecipano anche Fichte e il giovane Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854); 2) la seconda, che comprende il Romanticismo sviluppatosi soprattutto a Heidelberg e Berlino a partire dal primo decennio dell’Ottocento, caratterizzato dall’interesse per il mondo dei miti e dei simboli – promosso dalle ricerche di Joseph Görres (1776-1848) e Georg Friedrich Creuzer (1771-1858) – e dallo sviluppo di una forte attenzione per il recupero e la rinascita delle tradizioni nazionali e popolari; 3) la terza, cioè lo sviluppo del Romanticismo nell’ambiente cattolico di Monaco e Vienna – i cui principali esponenti sono Benedict Franz Xaver von Baader (1765-1841) e l’ultimo Schelling – contraddistinto dal ritorno a prospettive teistiche (che ammettono cioè l’esistenza di un Dio-persona), dall’emergere di tendenze restauratrici in politica e da uno spiccato interesse per gli aspetti ‘notturni’ della scienza della natura e per la dimensione dell’inconscio. Questa suddivisione in fasi è un’operazione legittima e utile, per segnalare in certi periodi una convergenza di motivi estetici, etico-politici e religiosi. La successione delle diverse fasi non deve, però, essere intesa come lo sviluppo di un unico atteggiamento o principio fondamentale: ciò non è possibile, perché il Romanticismo è un fenomeno culturale estremamente complesso ed eterogeneo. Più che un movimento unitario e coerente, esso è un insieme di intuizioni feconde e vivissime, legato alle singole personalità. Tuttavia, al di là delle differenze tra i singoli autori e tra le diverse fasi, è possibile individuare alcuni tratti fondamentali e distintivi della filosofia del Romanticismo: 1) la tensione all’unità, già alla radice del Classicismo, si traduce nell’indagine metafisica sull’Assoluto, inteso come il fondamento, anteriore a ogni riflessione, dell’Essere e del pensiero, in grado di unificare tutte le opposizioni; 2) dal momento che l’Assoluto, concepito come unità degli opposti, non può essere colto attraverso il pensiero discorsivo e mediato – vincolato al principio logico di non-contraddizione – ciò implica una rivalutazione delle forme di conoscenza immediate, quali la «fede», il «sentimento», l’«intuizione», intellettuale o estetica; 3) questa preferenza per le forme immediate di conoscenza va di pari passo con l’attribuzione all’arte – e in particolare alla poesia – di una funzione gnoseologica paritetica, se non superiore, rispetto alla filosofia; 4) è affermata l’immanenza dell’Assoluto nella realtà – sia naturale sia storica – 841

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Parte terza L’idealismo

Schelling e il Romanticismo

Il rapporto tra Romanticismo e Classicismo

La cultura tedesca tra Settecento e Ottocento

con una conseguente rivalutazione della finitezza, cioè dell’«individualità». Al tempo stesso, è generalmente condivisa l’idea che l’Assoluto possa rivelarsi nella storia non direttamente, bensì solo attraverso un termine medio (una delle forme di conoscenza indicate al punto 2) che, pur essendo la sua manifestazione, non esaurisce mai la sua infinita totalità spirituale: di qui il riconoscimento della tensione tra finito (ogni cosa che esiste) e infinito (l’Assoluto come totalità dell’Essere e del pensiero) come condizione essenziale e insuperabile dell’uomo, che è l’ente che partecipa sia dell’uno che dell’altro. I tratti appena enunciati si ritrovano tutti nel pensiero di Schelling, che a ragione è stato considerato come la principale espressione filosofica del Romanticismo. La filosofia di Schelling non è, però, il frutto dell’elaborazione individuale di una mente geniale, bensì matura e si evolve nel dialogo costante e continuo con i contemporanei. Di conseguenza, è opportuno premettere all’esposizione della filosofia schellinghiana una breve ricostruzione dei problemi fondamentali su cui si confrontano i principali esponenti dell’età di Goethe. Ciò consente anche di offrire un’immagine viva e concreta del rapporto molto complesso e articolato tra Classicismo e Romanticismo, che si sviluppa sia nel segno della continuità sia nel segno della rottura: il Classicismo costituisce, infatti, per il movimento romantico un insopprimibile punto di riferimento, dal quale esso si distacca, però, in quanto affronta in maniera diversa la questione del rapporto tra classico, cioè «antico», e moderno, situando la classicità in un momento preciso e irripetibile del passato e abbandonando l’ideale dell’equilibrio e dell’armonia. Esigenza di ricomporre l’unità contro le scissioni: individuo / comunità; uomo / Dio; uomo / natura; scissione interiore all’uomo

Classicismo

Romanticismo

A Weimar. Protagonisti: Goethe e Schiller Contenuti: il richiamo all’età classica come epoca di armonia dell’uomo con se stesso, con la natura, con Dio e con la comunità

Seconda fase: a Heidelberg e a Berlino. Protagonisti: Creuzer e Görres e Schleiermacher. Contenuti: interesse per simboli e mito, recupero delle tradizioni popolari

Prima fase: a Jena. Protagonisti: i fratelli Schlegel, Fichte e Schelling. Contenuti: riflessioni sulla filosofia, l’estetica e la poesia

Tratti comuni a tutto il Romanticismo

Classicismo come punto di riferimento critico Classicità come momento irripetibile

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Terza fase: a Monaco e Vienna. Protagonisti: von Baader e Schelling. Contenuti: ritorno al teismo, restaurazione in politica, aspetti ‘notturni’ della scienza e attenzione all’inconscio

Assoluto come unità degli opposti

Forme di conoscenza immediata e primato dell’arte

Immanenza dell’Assoluto e tensione tra finito e infinito

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

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Arte e verità: Schiller e Schlegel

Si è detto che la rivalutazione dell’arte come organo di verità costituisce uno dei tratti fondamentali e distintivi del pensiero romantico, che riceve la sua massima espressione nella filosofia dell’arte elaborata dal primo Schelling (vedi sotto, p. 863 s.). Schiller e l’arte Un passo importante in questa direzione è tuttavia già compiuto da Friedrich come superamento Schiller che – prendendo le mosse da alcuni motivi contenuti nella kantiana Cridelle scissioni tica della facoltà di giudizio – indica nell’arte e nella bellezza l’unico strumento efficace per superare le scissioni che rendono la vita dell’uomo moderno inferiore rispetto a quella dell’uomo antico: prima tra tutte, la contrapposizione tra sensibilità e ragione che contraddistingue la stessa etica kantiana.

La vita e le opere Friedrich Schiller nacque vicino a Stoccarda nel 1759. Frequentando l’accademia militare scoprì un’intensa passione per la letteratura e giunse giovanissimo alla fama con il dramma I masnadieri, del 1781, ispirato alla poetica dello Sturm und Drang. Costretto a lasciare la carriera militare, visse per diversi anni in ristrettezL’ideale dell’«anima bella»

Primato e funzione pedagogica dell’arte

Arte e filosofia in Schlegel e Novalis

ze economiche finché nel 1787 si stabilì a Weimar, dove iniziò una lunga collaborazione con Goethe. Qui sviluppò la sua teoria estetica in Sulla grazia e la dignità (1793), Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795) e Della poesia ingenua e sentimentale (1800), scrisse altri drammi, poesie e opere storiche. Morì a Weimar nel 1805.

Nel saggio Sulla grazia e la dignità, Schiller contrappone al rigorismo di quest’ultima – cioè la considerazione dell’opposizione alle inclinazioni sensibili come tratto essenziale del dovere morale – l’ideale dell’«anima bella»: questa consiste nell’accordo spontaneo e giocoso tra le inclinazioni sensibili e le richieste della ragione, che a suo avviso si verifica in un’anima educata alla bellezza. In questo senso, la bellezza è per Schiller la condizione necessaria per elevarsi alla vera libertà, che egli intende come emancipazione non solo dall’anarchia delle inclinazioni sensibili ma anche dalla coazione delle leggi dell’intelletto e della ragione. Sulla base di queste premesse Schiller sostiene energicamente il primato dell’arte rispetto alla filosofia, contestando il ruolo di guida attribuito da Fichte ai «dotti / filosofi» rispetto al resto della società. In quanto essa stessa prodotto dello sviluppo unilaterale della riflessione e dell’astrazione, la filosofia risulta, infatti, per Schiller inevitabilmente inadeguata – anche nelle sue espressioni più alte – a ricomporre l’unità delle forze umane e a recuperare, a un livello superiore, quell’equilibrio armonico delle facoltà che all’uomo antico era garantito dalla formazione onnilaterale ricevuta nella pòlis. Di contro, egli ritiene che questo obiettivo possa essere raggiunto solo mediante un’educazione estetica dell’umanità. L’arte è, però, caricata per la prima volta di una funzione gnoseologica – e non meramente pedagogica – solo nella teorizzazione della poesia romantica, a opera di Friedrich Schlegel e di Friedrich Leopold von Hardenberg (più noto come Novalis, 1772-1801), che rappresentano i principali animatori del circolo di Jena. Friedrich Schlegel non contrappone più l’arte alla riflessione filosofica, bensì indica nella poesia una forma espressiva – tipica del Romanticismo – che per sua natura tende a superare i confini non solo tra i generi letterari, ma anche tra le diverse discipline, annullando così la stessa distinzione tra arte e filosofia. 843

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Parte terza L’idealismo

Schlegel afferma, infatti, la presenza all’interno dell’arte di una dimensione filosofica, cioè di un momento di riflessione: in questo senso, la poesia si ‘filosoficizza’. Di converso, la filosofia si ‘poeticizza’: nella prospettiva di Schlegel, essa non fa altro che esplicitare la dimensione filosofica intrinseca alla poesia.

La vita e le opere Nato a Hannover nel 1772, Friedrich era il più giovane dei due fratelli Schlegel. Avversario del Classicismo di Schiller e Goethe, diresse, insieme al fratello, la rivista «Athenäum» (1798-1800), espressione del circolo di Jena, su cui pubblicò i Frammenti nel 1798. Contribuì all’elaborazione della poetica romantica anche con il

saggio Storia della poesia dei greci e dei romani (1798) e le Idee (1801). In seguito visse a Berlino e a Parigi, e nel 1808 si stabilì a Vienna, dove divenne collaboratore del cancelliere Klemens von Metternich e partecipò alla vita politica austriaca. Convertitosi al cattolicesimo, aderì al pensiero della Restaurazione. Morì a Dresda nel 1829.

Al centro sia della poesia sia della filosofia sta per Schlegel l’«ironia», intesa come la consapevolezza dei limiti delle proprie realizzazioni, derivante dalla necessità e, al tempo stesso, dall’impossibilità, da parte del finito (ossia dell’uomo e delle sue creazioni), di esprimere completamente l’infinito. Questa concezione «ironica» della poesia – chiaramente influenzata dalla fichtiana dottrina della scienza (vedi Unità 15, p. 791 ss.), che aveva individuato il meccanismo essenziale e insuperabile della coscienza nel suo duplice carattere di infinito e finito – si discosta profondamente dall’ideale classicista della poesia come espressione di armonia e di equilibrio. La poesia «progressiva» Nella prospettiva schlegeliana, la poesia non può, infatti, né superare né armodi Schlegel nizzare il contrasto tra finito e infinito – che rappresenta la cifra costitutiva della coscienza umana – bensì può solo renderlo produttivo per i suoi scopi, oltrepassando continuamente il mondo creato da lei stessa e affermando la sovranità dell’io, in un processo infinito che vede costantemente l’alternarsi di autocreazione e autodistruzione. In questo senso, la poesia romantica è per Schlegel una poesia «progressiva», perché non può che proiettare continuamente nel futuro il proprio compito di esprimere l’infinito. L’ironia come espressione del contrasto tra infinito e finito

T1

Ironia, filosofia e poesia F. Schlegel, Lyceum der schönen Künste

Novalis e l’arte come attività creatrice

844

42. La filosofia è la vera e propria patria dell’ironia […] La poesia soltanto può elevarsi, anche da questo lato, fino all’altezza della filosofia […] 108. […] Essa [l’ironia] contiene e genera un sentimento del conflitto insolubile tra l’incondizionato e il condizionato, tra l’impossibilità e la necessità di una comunicazione completa. 115. L’intera storia della poesia moderna è un continuo commento al breve testo della filosofia: ogni arte deve diventare scienza e ogni scienza deve diventare arte; poesia e filosofia devono essere unificate. L’identificazione tra filosofia e poesia si ritrova anche nella riflessione di Novalis, ove però essa assume il significato della riduzione dell’attività filosofica ad attività poetica. Insistendo sul significato etimologico del termine «poesia» – derivante dal greco poìesis, che vuol dire «produzione» – Novalis indica infatti in essa l’attività spirituale più alta e compiuta, in quanto è l’unica in grado di ripetere e proseguire il processo di creazione del mondo. In quanto tale, la poesia va posta al centro della stessa filosofia, in modo che i confini tra artista, poeta e filosofo vengono a perdere ogni valore.

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling Le teorie dell’arte romantiche

Arte come organo della verità

La filosofia dell’arte del primo Schelling

3 La reazione al meccanicismo: il vitalismo

Mesmer e la teoria del magnetismo animale

La controversia sullo spinozismo e la rinascita del panteismo

Schiller: funzione pedagogica dell’arte; educazione estetica come recupero dell’unità armonica dell’uomo sul modello della classicità

F. Schlegel: funzione gnoseologica dell’arte; annullamento della distinzione tra arte e filosofia; ironia come consapevolezza necessaria della ineliminabile tensione tra finito e infinito

Novalis: l’arte come attività spirituale creatrice; centralità dell’arte per la filosofia

La natura vivente: Goethe Negli ultimi decenni del Settecento matura, in Germania, una generale reazione contro la fisica meccanicistica, alimentata dall’avversione verso tutte le dottrine che frammentano e inaridiscono la realtà, subordinando la conoscenza a scopi utilitaristici. La fisica meccanicistica cessa così di essere il modello privilegiato delle scienze della natura, ed è sostituita, in questa funzione, dalle scienze della vita, cioè la biologia, la medicina e la fisiologia, i cui sviluppi più recenti avevano lasciato emergere la possibilità di elaborare una concezione unitaria e dinamica della natura, mediante una reinterpretazione vitalistica dei fenomeni inorganici e meccanici. Emblematica è, per esempio, l’enorme risonanza che ricevette, sul finire del secolo, la teoria del magnetismo animale, elaborata da Franz Anton Mesmer (17341815), da cui prende il nome di «mesmerismo», secondo la quale un’unica forza primigenia connette tutti i regni della natura – dal minerale al vegetale all’animale – in una rete di influssi reciproci. Questa reazione al meccanicismo trova la sua prima espressione significativa, sotto il profilo filosofico, nella «controversia sul panteismo», detta anche «polemica sullo spinozismo», in quanto originata da uno scambio di lettere tra Jacobi e Mendelssohn in cui si dibatteva riguardo alla presunta adesione di Lessing, uno dei maggiori esponenti dell’Illuminismo tedesco, alla filosofia di Spinoza. La notizia dello spinozismo di Lessing suscita scalpore nella Germania dell’epoca, in quanto il pensiero di Spinoza era stato considerato, durante tutto il corso del Settecento, l’espressione di un rigido materialismo, ateo e deterministico. Nel corso di questa controversia, però, l’immagine della filosofia di Spinoza subisce un profondo rinnovamento, inaugurato da Herder e Goethe, che aderiscono al panteismo spinoziano in quanto lo interpretano come affermazione del dispiegarsi in tutta la natura di un unico spirito divino vivificante. A queste concezioni della natura come unità di spirito e materia è vicina anche quella sostenuta da Schelling nella prima fase del suo pensiero (vedi sotto, p. 854 ss.). 845

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Parte terza L’idealismo

La vita e le opere Johann Wolfgang Goethe nacque a Francoforte sul Meno nel 1749 in un famiglia agiata, mostrando fin dall’infanzia una grande predisposizione per lo studio. Nel 1765 si recò a studiare legge a Lipsia e visse un periodo di intensa vita sociale. Cinque anni dopo terminò gli studi a Strasburgo, dove conobbe Herder. Negli anni 1771-1775 si avvicinò allo Sturm und Drang e scrisse la prima versione del dramma Faust (dopo il 1772), a cui avrebbe lavorato per tutta la vita, e il romanzo simbolo delle nuove tendenze preromantiche, I dolori del giovane Werther (1774), che gli dette fama internazionale. Nel 1775 si stabilì a Weimar come precettore del giovane duca e poi come consigliere di corte e riformatore. Dal 1775 al 1786 visse, lavorò e studiò nella piccola città continuando a lavorare al Faust e al romanzo La vocazione teatrale di Wilhelm Meister; dal 1786 al 1788 intraprese il viaggio in Italia che segnò la sua definitiva conversione alla classicità, di cui è segno il dramma in versi Ifigenia in Tauride (1787). Tornato a Weimar iniziò il sodalizio con Schiller, La concezione giovanile di Goethe

La «forma originaria» e la produttività della natura

Il ritorno allo studio qualitativo della natura

T2

Contro il metodo sperimentale W. Goethe, Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister, in Massime e riflessioni

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che terminò con la morte dell’amico e collaboratore nel 1805: furono gli anni del Classicismo e Goethe assunse progressivamente quell’atteggiamento distaccato e sereno, olimpico, che è rimasto come uno dei tratti più famosi della sua personalità e della sua opera. In questo decennio, rielaborando la versione precedente, pubblicò il romanzo Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795-1796) e si dedicò a studi di fisica e di scienze naturali, la cui massima espressione sono La metamorfosi delle piante (1790) e la Teoria dei colori (1792-1810). Dopo la morte di Schiller la sua fama internazionale continuò a crescere, ma Goethe visse una grande solitudine. Nel 1808 pubblicò anche la prima parte del Faust e nel 1809 il romanzo Le affinità elettive. La sua opera letteraria si accrebbe di nuovi capolavori: le liriche Divano occidentale-orientale (1814-1819); il romanzo Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister (1829); tra il 1811 e il 1830 scrisse la sua autobiografia Della mia vita. Poesia e verità. Nel 1831 terminò il Faust, che fu pubblicato per intero dopo la sua morte, avvenuta a Weimar nel 1832.

La concezione della natura costituisce, sotto il profilo filosofico, l’aspetto più rilevante del pensiero di Goethe. In un primo momento, egli considera la natura secondo i parametri dello Sturm und Drang – cui sono ispirate le sue opere giovanili – come un’inesauribile forza originaria, dalle mille trasformazioni e dai mille volti, compresi quello umano e divino. Successivamente, questa visione letteraria si trasforma in una concezione più sistematica e scientifica, incentrata sui concetti di «forma originaria» o «fenomeno originario» (Urphänomenon). Con queste espressioni, Goethe intende il «tipo generatore», cioè la forma originaria a partire dalla quale derivano, per metamorfosi, tutti gli organismi che compongono uno specifico ambito di analisi. La forma originaria è, infatti, caratterizzata da intrinseca dinamicità, che si traduce nella possibilità di essere soggetto di trasformazioni e modificazioni: per esempio, sulla base di studi di anatomia comparata, Goethe indica nella «vertebra» il «fenomeno originario» dello scheletro, cioè la struttura da cui si sarebbe sviluppato quest’ultimo, attraverso un processo di successive modificazioni e metamorfosi. Così intesa, ciascuna «forma originaria» esprime, per Goethe, la pienezza della potenza produttrice della natura. Sulla base di questi presupposti, egli si propone di costruire una «morfologia della natura», cioè uno studio qualitativo delle forme della natura, condotto attraverso l’intuizione sensibile e l’osservazione diretta dei cinque sensi umani. Questo tipo d’indagine si contrappone nettamente al metodo della scienza moderna, fondata sulla riconduzione dei fenomeni a elementi quantitativi, misurabili matematicamente attraverso «esperimenti» oggettivi, prodotti in maniera artificiale, cui Goethe attribuisce la colpa di avere separato l’uomo dalla natura. 706. Per se stesso e in quanto si serve dei suoi sensi integri l’uomo è il maggiore e il più preciso strumento di fisica che possa esistere; ed è appunto la maggior calamità della fisica moderna quella di avere quasi scisso gli esperimenti dall’uomo, di pretendere di conoscere la natura solo attraverso ciò che ne rivelano gli strumenti artificiali, anzi, di volere con questi limitare e decidere ciò che essa è in grado di fare.

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

La celebrazione panteistica della natura – intesa come Uno-tutto, in cui l’individuo si deve perdere per potersi ritrovare come espressione della totalità – costituisce anche il tema fondamentale dell’opera di Hölderlin, che risulta, però, molto distante da Goethe per sua concezione tragica della realtà, contraddistinta dalla celebrazione del dolore come dimensione metafisica e cosmica della realtà. Le concezioni ‘notturne’ L’intuizione goethiana della natura è invece solare, pagana e classicistica, in della natura quanto intende la natura come il regno dell’ordine e della forma. Accanto ad essa si sviluppano, a partire dalla fine del Settecento e durante la prima metà dell’Ottocento, delle concezioni marcatamente religiose della natura, che ne enfatizzano, di contro, il lato ‘notturno’, oscuro, istintivo e violento, interpretato in chiave metafisico-teologica come un aspetto imperfetto e incompleto della rivelazione di Dio. In questa direzione si mossero soprattutto von Baader e Johann Wilhelm Ritter (1776-1810), che furono entrambi legati, in qualche modo, all’ultimo Schelling. Hölderlin e la concezione tragica della realtà

Le teorie della natura romantiche

Reazione al meccanicismo negli ultimi decenni del Settecento

Reinterpretazione vitalistica dei fenomeni inorganici o meccanici (per esempio, mesmerismo)

Polemica sullo spinozismo e ripresa del panteismo di Spinoza

Nuove teorie della natura

Panteismo spinoziano di Herder

4 La priorità della fede sulla ragione

Goethe: panteismo spinoziano, teoria della «forma originaria» e della produttività naturale

Hölderlin: panteismo contraddistinto da una visione tragica della realtà

Primo Schelling: concezione della natura come manifestazione dell’Assoluto

Concezioni religiose e ‘notturne’ della natura, von Baader, Ritter, ultimo Schelling

Fede e religione: Schleiermacher La dimensione religiosa del Romanticismo – anticipata da figure come Johann Georg Hamann (1730-1788) e Jacobi, le cui filosofie, sia pure molto diverse, sono accomunate dall’affermazione della priorità della fede sulla ragione discorsiva – trova la sua principale e più matura espressione nel pensiero di Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, la personalità più eminente del circolo romantico di Berlino.

La vita e le opere Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher nacque a Breslavia, nella Bassa Slesia (attuale Polonia), nel 1768. Studiò teologia ad Halle e intraprese la carriera ecclesiastica. Nel 1796 divenne cappellano a Berlino ed entrò in contatto con il circolo jenense, divenendo amico in particolare di Friedrich Schlegel. Pubblicò i Discorsi sulla reli-

gione (1799); i Monologhi (1800) e proseguì i rapporti con i romantici anche nelle fasi successive. Dal 1804 divenne docente universitario, prima ad Halle (1804-1806) e poi, fino alla morte, avvenuta nel 1834 a Berlino. Altre opere importanti sono i Lineamenti essenziali di una critica della morale (1803), La fede cristiana (1821-1822) e la traduzione dell’intera opera platonica (1804-1828).

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Parte terza L’idealismo La rivalutazione dell’esperienza religiosa

L’ambito specifico della religione

La religione come accesso diretto all’infinito

Il sentimento di dipendenza

T3

La religione: intuizione e sentimento

F.D.E. Schleiermacher, Discorsi sulla religione

Sentimento religioso: trascendentale ma individuale

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L’opera più celebre di Schleiermacher sono i Discorsi sulla religione, che contengono un’energica rivalutazione dell’esperienza religiosa, contro le critiche e l’emarginazione cui era stata sottoposta nella cultura illuministica. La religiosità da recuperare non è però, per Schleiermacher, la religione dogmatica della tradizione: egli riprende, infatti, dagli illuministi un atteggiamento anti-dogmatico, interpretando liberamente il contenuto dei fondamentali dogmi del cristianesimo. Dalla cultura illuministica Schleiermacher si distacca, però, nettamente, in quanto si sforza di individuare l’ambito specifico e autonomo della religione, rifiutando la riduzione razionalistica di essa a metafisica o morale. Nell’interpretazione di Schleiermacher, metafisica, morale e religione hanno lo stesso oggetto, cioè il mondo, ma lo affrontano con approcci e obiettivi differenti, che delimitano in maniera netta i loro rispettivi campi: mentre la metafisica e la morale si propongono rispettivamente di spiegare e di perfezionare l’universo – la prima attraverso il pensiero e la seconda attraverso l’azione – la religione è piuttosto aspirazione a intuire il mondo, cogliendo attraverso il sentimento la presenza dell’infinito nel finito (si tratta dunque di una religione dai forti accenti panteistici). In base a questa distinzione, Schleiermacher rivendica non solo l’autonomia, ma anche il primato e la centralità della religione, che appare come l’unica strada che consente all’uomo di accedere direttamente all’infinito: quel che la metafisica cerca di conoscere gradualmente e la morale di realizzare passo dopo passo, la religione lo attinge immediatamente. Ciò non significa che l’intuizione religiosa dell’universo ci offra una completa conoscenza dell’infinito, poiché un infinito da cui fosse eliminato il senso dell’ineffabilità non sarebbe più tale: essa ci offre solo il sentimento della dipendenza del finito dall’infinito, cioè il sentimento della dipendenza dell’uomo da Dio, in cui Schleiermacher ripone la vera religione. [La religione] non aspira a conoscere e spiegare l’universo nella sua natura, come fa la metafisica; non aspira a continuarne lo sviluppo e a perfezionarlo mediante la libertà e la divina volontà dell’uomo, come fa la morale. La sua essenza non è né il pensiero né l’azione, ma l’intuizione e il sentimento. Essa aspira a intuire l’Universo; vuole starlo a guardare pienamente nelle sue manifestazioni e nelle sue azioni originali; vuole farsi penetrare e riempire dei suoi immediati influssi con passività infantile. Il sentimento religioso della dipendenza da Dio non è per Schleiermacher qualcosa di contingente – che gli uomini possono avere o non avere – bensì è un «sentimento trascendentale», cioè connaturato alla stessa natura umana. Tuttavia, poiché l’intuizione e il sentimento sono sempre qualcosa di particolare, essi si manifestano sempre in forma individuale in ogni singolo uomo: in senso stretto, dunque, vi sono tante religioni quanti sono gli individui. Queste religioni individuali, cioè le esperienze soggettive dei singoli credenti, si svolgono poi nella cornice oggettiva delle diverse confessioni religiose, che per Schleiermacher – pur non esaurendo l’essenza stessa della religione – sono tutte giustificate, in quanto forme particolari di manifestazione dell’infinito nel finito. La priorità spetta però alla componente soggettiva, cioè l’intuizione individuale del singolo credente che, pur svolgendosi all’interno di un’istituzione oggettiva (come una comunità religiosa), non se ne deve sentire costretta e limitata.

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling La filosofia della religione di Schleiermacher

Rivalutazione dell’esperienza religiosa e atteggiamento antidogmatico nell’interpretazione libera dei dogmi Rifiuto del riduzionismo illuminista e rivendicazione dell’ambito specifico della religione, cioè il sentimento Religione come accesso diretto all’infinito Sentimento di dipendenza come «sentimento trascendentale», ma individuale Pari dignità di tutte le confessioni religiose e primato della componente soggettiva

5 Il valore della storicità

Una nuova concezione: le origini come perfezione

Herder e la storia come totalità organica

La riscoperta delle origini: Herder La rivalutazione dell’individualità, che caratterizza la filosofia della religione di Schleiermacher, si situa nel contesto della più generale rivalutazione della storicità – nel suo carattere di unicità e irripetibilità – che, come si è detto, contraddistingue il Romanticismo tedesco. Un atteggiamento diverso nei confronti del passato inizia ad affermarsi già negli ultimi decenni del Settecento: all’incirca a partire dagli anni Settanta, viene, infatti, contrapposta alla critica illuministica della tradizione la ricerca delle origini, ove «originario» non è più inteso come «barbarico» e «selvaggio», o anche soltanto ingenuamente «primitivo». Questo è anzi proprio il punto in cui avviene un distacco consapevole rispetto al modello illuministico delle storie dell’incivilimento, che concepivano il processo storico come il passaggio dalla selvatichezza iniziale a forme sempre più civili di vita collettiva. Per i romantici, invece, l’originario è già cultura, e anzi spesso una forma di cultura perfettamente compiuta, che assume un valore paradigmatico, e rispetto alla quale il presente è visto come il risultato di un processo di decadenza. Questa ricerca delle origini si sviluppa lungo direzioni differenti, già tutte anticipate, anche se in forma embrionale, nella filosofia della storia di Herder, esposta nello scritto Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità e nelle Idee per una filosofia della storia dell’umanità. Herder parte dalla considerazione della storia come processo unitario e totalità organica, le cui singole parti o epoche hanno tutte un valore parimenti essenziale. Di qui la critica della filosofia della storia illuministica che, assumendo come parametro di giudizio univoco il progresso della ragione, indicava nelle epoche anteriori semplici strumenti di preparazione delle più illuminate epoche finali.

La vita e le opere Johann Gottfried Herder nacque a Mohrungen, nella Prussia orientale (attuale Polonia), nel 1744. Studiò teologia a Königsberg, dove ebbe come maestri Kant e Johann Georg Hamann; intraprese la carriera ecclesiastica e fu predicatore a Riga dal 1765 al 1769, scrivendo anche saggi di estetica e di critica. Nel 1770 conobbe Goethe a Strasburgo e dal loro confronto nacquero i saggi Intorno al carattere e all’arte dei tedeschi

(1773) considerati il manifesto dello Sturm und Drang. Del 1774 è lo scritto Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità. Dal 1776 fino alla morte, nel 1803, fu chiamato come Sovrintendente generale del clero a Weimar. Nel periodo weimariano scrisse numerosissime opere: Plastica e Il conoscere e il sentire dell’anima (1778); le raccolte di Canti popolari (17781779); le Lettere sullo studio della teologia (1781); Lo spirito della poesia ebraica (1782-1783); le Idee per la

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Parte terza L’idealismo

filosofia della storia dell’umanità (1784-1791), le Lettere per la promozione dell’umanità (1793-1797) e due scritti polemici contro la filosofia di Kant, Metacritica

(1799) e Kalligone (1800), rispettivamente indirizzate contro la critica della ragion pura e contro l’estetica kantiana.

Contro le tesi illuministe, la concezione della storia come totalità organica induce Herder – in Ancora una filosofia della storia – a istituire una stretta correlazione tra le epoche dello sviluppo dell’umanità e le età della vita umana individuale, secondo uno schema in cui le fasi iniziali, paragonate all’infanzia e alla giovinezza, risultano avere un significato più positivo rispetto a quelle posteriori, corrispondenti alla vecchiaia. Muovendo da questi presupposti, Herder rivaluta le «origini» attraverso tre momenti della storia universale: 1) le civiltà orientali, «culla del genere umano», i cui inizi sono descritti come l’«età dell’oro dell’umanità fanciulla»; 2) la civiltà greca, identificata con l’adolescenza del genere umano, che ha creato la bellezza e istituzioni libere, cancellate poi dall’azione livellatrice della potenza romana; 3) l’antichità germanica che, in quanto frutto dell’incontro tra lo spirito nordico e il cristianesimo, è per Herder l’inizio di un nuovo ciclo storico, la cui manifestazione aurorale è il Medioevo, presentato così in una luce positiva, in netta controtendenza rispetto alla storiografia illuministica che lo aveva giudicato negativamente come epoca di barbarie e di irrazionalità. La ripresa ottocentesca Gli spunti presenti nella filosofia della storia di Herder saranno ripresi e svilupdelle fasi delle origini pati per oltre mezzo secolo. Nel 1808 Friedrich Schlegel scrive, per esempio, un di Herder saggio Sulla lingua e sulla sapienza degli indiani, in cui l’esaltazione del sanscrito come la lingua più perfetta è unita al richiamo alla religione e alla filosofia indiana. Del riferimento alla Grecia antica come modello di una realtà armoniosa e perfetta – che contraddistingue soprattutto il Classicismo, ma resta vivo anche nel Romanticismo – si è già parlato. A partire dal 1800, la ricerca delle origini si volge, però, soprattutto al mondo germanico, e al Medioevo, ad esso associato. Alla rivalutazione del Medioevo contribuì, tra i primi, il frammento di Novalis La Cristianità ovvero l’Europa (1799), che contrappone alle lacerazioni politiche e religiose dell’Europa moderna gli «splendidi tempi» medievali, in cui il continente europeo era un solo paese cristiano, sotto un unico capo spirituale. Infine, alla storia come luogo della progressiva rivelazione dell’Assoluto dedicherà un ampio spazio Schelling all’interno della sua filosofia trascendentale (vedi p. 861 ss.). Tre momenti positivi per lo sviluppo dell’umanità

Temi e autori della filosofia della storia romantica

Romanticismo

Generale rivalutazione della storicità, espressione del rinnovato interesse per l’individualità

Filosofia della storia di Herder

L’origine come forma di cultura compiuta contro la concezione illuministica dell’«originario» come «barbarico»

– la storia come totalità organica – corrispondenza tra epoche storiche ed età della vita – rivalutazione delle origini (Oriente, mondo greco, antichità germanica)

Concezioni romantiche legate alla riscoperta delle origini

F. Schlegel: idealizzazione della civiltà indiana

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Classicismo e Romanticismo: Grecia antica come epoca in cui regna l’armonia

Novalis: esaltazione del Medioevo cristiano

Schelling: storia come luogo della progressiva rivelazione dell’Assoluto

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

6 Il tema del rapporto rivoluzione / filosofia

Le critiche alla Rivoluzione

Il rifiuto del razionalismo politico

Il popolo come entità spirituale e culturale

Nazione e Stato

➥ Sommario, p. 873 Temi e concetti del pensiero politico romantico

Il pensiero politico romantico L’interesse per la storia matura nell’ambito del vivace dibattito che la Rivoluzione francese innesca tra i Romantici, e che va ben oltre le reazioni più o meno contingenti di fronte al mutamento vertiginoso della situazione politica francese, in quanto finisce per affrontare il problema centrale del nesso tra rivoluzione e filosofia, ovvero la questione della possibilità di una riorganizzazione ‘razionale’, efficace e duratura della società in base a puri principi filosofici. Dopo una fase di iniziale entusiasmo – che ha radici essenzialmente letterarie più che politiche – la maggior parte dei romantici assume un atteggiamento critico nei confronti della Rivoluzione, la cui involuzione autoritaria, culminata con l’avvento dell’impero napoleonico, è considerata un esempio paradigmatico del fallimento cui è inevitabilmente destinato ogni tentativo di modificare la realtà in base a principi e dottrine astratte, invece di innestarsi organicamente sulle tradizioni esistenti. Alle teorie politiche basate su concetti e principi razionali astratti – come il cosmopolitismo e il contrattualismo giusnaturalistico – i romantici contrappongono dunque l’esigenza di concretezza storica, in base al principio che l’autentico nuovo può scaturire solo dall’autentico antico: di qui deriva la ricerca, nella storia, degli elementi veramente originari, cioè i vincoli naturali, come la lingua e la famiglia, con la loro continuità. In particolare, i romantici tendono sempre più a individuare la concretezza della realtà storica nei caratteri peculiari di ciascun «popolo», dove il termine non è usato più per indicare le classi socialmente inferiori in contrapposizione al clero, alla nobiltà e al terzo stato, bensì una entità spirituale e culturale che abbraccia un’intera collettività, unita da legami di sangue, di lingua e di tradizioni. Determinante in tal senso è il contributo della riflessione politica di Fichte con i suoi Discorsi alla nazione tedesca (vedi Unità 15, p. 820). Di pari passo, si va affermando un concetto di «nazione» più culturale che territoriale, più spirituale che politico, che assurge gradualmente a principio di rinnovamento politico, morale e religioso insieme. Alla concezione meccanicistica dello Stato come macchina burocratica – criticata come prodotto tipico della violenza della mentalità dei Lumi, che voleva sottomettere a sé e deformare i vincoli naturali – viene contrapposto lo Stato inteso come espressione del popolo e della nazione. Questi ultimi sono, infatti, realtà organiche in cui tutti i cittadini, lungi dall’essere associati mediante un arbitrario patto sociale, sono uniti da un vincolo interiore, in quanto parti di un corpo sociale la cui unità è storica e metafisica, prima ancora che politica. Riflessione motivata dalle vicende della Rivoluzione e dalla successiva età napoleonica Questione del rapporto tra rivoluzione e filosofia Progressiva presa di distanza dagli esiti della Rivoluzione Rivalutazione della tradizione rispetto alla politica governata da principi razionali astratti Concetto di popolo

Concetto di nazione

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Parte terza L’idealismo

Schelling

2 I testi

Idee per una filosofia della natura come introduzione allo studio di questa scienza: Il nesso organico come rapporto oggettivo, T4; L’armonia prestabilita tra spirito e natura, T5 Sistema dell’idealismo trascendentale: Libertà e legge nella storia, T6; L’arte come supremo organo della filosofia, T7

1 La filosofia di Schelling come principale espressione del Romanticismo

Una formazione eclettica

La filosofia della natura

La filosofia trascendentale

La filosofia dell’identità

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Esposizione del mio sistema filosofico: La Ragione assoluta e la filosofia come scienza delle cose in sé, T8 Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana: Il punto più difficile della dottrina della libertà, T9

Schelling: un filosofo in continua evoluzione La filosofia di Schelling è considerata a ragione, come abbiamo già accennato, la principale espressione del pensiero romantico, nei suoi diversi aspetti – dalla concezione organicistica della natura all’affermazione del primato dell’arte – e nelle sue differenti fasi. Schelling è, infatti, un genio precoce e longevo, che per circa un sessantennio, dall’ultimo decennio del Settecento fino alla prima metà dell’Ottocento, tenta con spirito di ricerca inesauribile una molteplicità di soluzioni differenti, traducendo in termini filosofici gli stimoli e le suggestioni che gli provengono da romantici di diverse generazioni e impostazione – dal circolo jenense al monachese Franz von Baader – e dai principali filoni della cultura dell’epoca, dalla grande letteratura poetica fino alle più recenti scoperte della scienza della natura, relative al chimismo e al magnetismo. L’apertura del pensiero schellinghiano a questi molteplici stimoli è il risultato di una formazione eclettica e continuamente aggiornata, che ha inizio presso il collegio teologico di Tübingen, cui Schelling – proveniente da una famiglia colta del Baden-Württemberg – viene ammesso all’età di soli quindici anni, cioè tre anni prima del previsto. Fondamentale è poi il soggiorno a Lipsia, dove – dopo una fase di intenso studio e assimilazione della filosofia fichtiana – Schelling si dedica con abnegazione agli studi scientifici. Il risultato principale di questo lavoro sono i due documenti più importanti di quella che è solitamente denominata come «filosofia della natura»: le Idee per una filosofia della natura: introduzione allo studio di questa scienza, e il saggio sull’Anima del mondo: ipotesi di fisica superiore per illustrare l’organismo universale. A Jena, dove è nominato professore nel 1798, Schelling in un primo tempo intensifica il rapporto con il circolo romantico e con Fichte, per poi intraprendere un’intensa collaborazione con Hegel, destinata a interrompersi poco dopo. Di questi anni è innanzitutto il Sistema dell’idealismo trascendentale – un vero e proprio capolavoro, soprattutto se si tiene conto che è l’opera di un venticinquenne –, in cui Schelling espone la sua filosofia trascendentale. L’anno successivo segna la prima svolta significativa nell’evoluzione del suo pensiero con una serie di scritti, come l’Esposizione del mio sistema filosofico e il dia-

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

La riflessione sul male e sulla libertà

La filosofia positiva: rivalutazione del fatto e dell’esistenza

Schelling e il suo tempo

logo Bruno, dedicati all’esposizione della cosiddetta «filosofia dell’identità», cioè la filosofia che Schelling elabora dopo la rottura con Fichte, avvenuta al termine di una lunga polemica, causata dalle insanabili divergenze e dall’incapacità di ciascuno dei due di comprendere il punto di vista dell’altro. Dopo il trasferimento a Monaco, nel 1806, Schelling matura lentamente – a contatto con i nuovi esponenti del Romanticismo, quali Johann Ritter e Franz von Baader – la svolta decisiva del suo itinerario intellettuale, cioè il passaggio da una filosofia che ha al suo centro la contemplazione dell’evidenza e della perfezione (nella natura e nell’arte) a una filosofia che indugia piuttosto sugli aspetti oscuri dell’esistenza, quali il male e l’irrazionale. Il principale documento di questa transizione sono le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, l’ultima opera pubblicata da Schelling che, nei decenni successivi, si chiude in un lungo silenzio, dedicandosi interamente alla stesura di un’opera mai conclusa, Le età del mondo. Il frutto di questa evoluzione del pensiero schellinghiano è il superamento o meglio l’integrazione del razionalismo hegeliano a favore della cosiddetta «filosofia positiva», intesa come «filosofia storica», che rivaluta il fatto e l’esistenza: la filosofia non deve ridurre, come in Hegel, la realtà a una struttura logica, razionale e metafisica, ma deve occuparsi di ciò che esiste, dei fatti e degli individui. La «filosofia positiva» è documentata dai corsi di lezioni sulla Filosofia della mitologia e sulla Filosofia della rivelazione, tenuti prima a Monaco e poi a Berlino, dove nel 1841 Schelling viene chiamato alla cattedra che era stata di Hegel. Formazione eclettica nel collegio teologico di Tübingen

Soggiorno a Lipsia e filosofia della natura (1797-1798) Professore a Jena e filosofia trascendentale (1798-1800) Collaborazioni e contatti con il circolo romantico e Hegel Rottura con Fichte e filosofia dell’identità (1801) Trasferimento a Monaco e riflessione sulla libertà e il male (1806-1809) Rapporti con i romantici di Monaco (von Baader e Ritter) Lungo periodo di silenzio e assenza di pubblicazioni Professore a Berlino e filosofia positiva (dopo il 1841)

La vita e le opere Friedrich Wilhelm Joseph Schelling nacque a Leonberg, nel Württemberg, nel 1775 e a quindici anni entrò nel collegio teologico di Tübingen, dove ebbe come compagni di studi Hölderlin e Hegel. Tra il 1795 e il 1796 scrisse i suoi primi saggi filosofici dedicati a Fichte e a Kant, Sulla possibilità di una forma della filosofia in generale,

Sull’Io come principio della filosofia e Lettere filosofiche sul dogmatismo e sul criticismo. Lavorò poi come precettore a Stoccarda e a Lipsia, e in quest’ultima città frequentò l’università e scrisse le Idee per una filosofia della natura: introduzione allo studio di questa scienza (1797), e il saggio sull’Anima del mondo: ipotesi di fisica superiore per illustrare l’organismo universale (1798). Nel 1798 diven-

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Parte terza L’idealismo

ne assistente di Fichte a Jena e, dopo l’allontanamento di questi in seguito alla controversia sull’ateismo, occupò la cattedra di teologia. Del periodo jenense sono il Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura (1799) e il Sistema dell’idealismo trascendentale (1800). Nel 1801 a Jena lo raggiunse Hegel, con cui dette vita dal 1802 al 1803 al «Giornale critico della filosofia», pubblicando nel frattempo l’Esposizione del mio sistema filosofico (1801) e il dialogo Bruno (1802). Dal 1803 al 1806 insegnò all’università di Würzburg, mentre nel 1806 si trasferì a Monaco: in questi anni ruppe definitivamente con Fichte e nel 1807, in seguito alla pubblicazione della Fenomenologia dello spirito, anche con Hegel. A Monaco venne in-

2 L’iniziale convergenza con Fichte

fluenzato dal filosofo della natura e studioso di mistica Franz von Baader e dalle sue riflessioni nacquero le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809). Oscurato dalla crescente fama di Hegel, Schelling visse a Erlangen (1821-1826) per poi tornare a Monaco, chiamato alla cattedra di filosofia. Qui tenne il corso sulla filosofia moderna, pubblicato postumo, in cui definì i concetti di filosofia positiva e filosofia negativa. Dal 1841 al 1846 insegnò a Berlino, dove tra i suoi auditori ci furono Søren Kierkegaard, Ludwig Feuerbach e Friedrich Engels: tra i corsi di quegli anni vi furono le lezioni sulla Filosofia della mitologia e sulla Filosofia della rivelazione. Morì a Bad Ragaz, in Svizzera, nel 1854.

La filosofia della natura L’esordio dell’attività filosofica di Schelling è contraddistinto da un’entusiastica adesione alla dottrina della scienza fichtiana (vedi Unità 15, p. 791 ss.), adesione che affonda le sue radici in due presupposti condivisi: l’affermazione della libertà umana – insita nella filosofia dell’Io – e l’esigenza sistematica di ricondurre a un fondamento unitario i rami del sapere e dell’agire umano, che Kant aveva trattato separatamente nelle tre Critiche.

Organicismo e meccanicismo Il distacco da Fichte: dal «Non-io» all’«Io oggettivo»

L’omogeneità tra natura e coscienza

Il rifiuto del meccanicismo

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Il primo contributo originale e innovativo che Schelling apporta, rispetto al quadro teorico della dottrina della scienza, è costituito dalla filosofia della natura che, elaborata negli anni compresi tra il 1797 e il 1801, resta al centro del suo interesse ancora per tutto il primo decennio dell’Ottocento. La scelta di dedicarsi alla costruzione della filosofia della natura deriva dall’insoddisfazione nei confronti del significato riduttivo che Fichte aveva attribuito alla natura, presentandola come Non-io (vedi Unità 15, p. 757 s.), cioè come un mero momento negativo nella dialettica della coscienza. Non a caso, Schelling sostituisce la locuzione «Non-io» con quella di «Io oggettivo». Non si tratta di una semplice differenza nominale. La definizione della natura come «Io oggettivo» equivale, infatti, all’affermazione di una omogeneità di fondo tra natura e coscienza, che per Schelling costituiscono due realtà distinte non dal punto di vista qualitativo – come per Fichte – bensì esclusivamente dal punto di vista quantitativo: per Schelling, la natura non è l’opposto rispetto alla coscienza, ma piuttosto la contiene in sé, sia pure in misura inferiore e differente (vedi lo schema a p. 857). Alla base di questa omologazione tra soggettività e natura vi è il rifiuto della concezione meccanicistica di quest’ultima come estensione inerte – messa in moto solo da forze esterne – a favore di un organicismo finalistico e immanentistico, cioè una concezione secondo la quale: 1) la natura è un intero organico, in cui ogni parte sussiste solo in relazione al tutto e alle altre parti (organicismo);

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

La ripresa del finalismo kantiano

Kant: il finalismo è fondato su un’analogia, è soggettivo e non ha valore conoscitivo

Schelling e la rivalutazione teoretica del finalismo

2) la natura si autoorganizza secondo un fine che non le proviene dall’esterno – come per esempio da Dio, secondo il creazionismo – bensì da un principio interno, che Schelling definisce, con un termine di derivazione rinascimentale, «Anima del mondo» (finalismo immanentistico). Il punto di partenza della critica schellinghiana del meccanicismo è costituito dalla Critica alla facoltà di giudizio, in cui Kant – che pure nella Critica della ragion pura aveva offerto una rigorosa fondazione trascendentale della fisica meccanicistica – riconosce l’insufficienza del principio meccanico di causalità per spiegare gli organismi, ammettendo in questo caso la legittimità del ricorso a una spiegazione finalistica (vedi Unità 14, p. 718 ss.). Da Kant, Schelling riprende: 1) la definizione di organismo come una realtà unitaria, che possiede in sé il principio della propria organizzazione e, in quanto tale, si sottrae al nesso meccanico di causalità (in base al quale ogni cosa è effetto di qualcos’altro e a sua volta è causa di altro). L’organismo non è, infatti, determinato dall’azione di cause esterne, bensì si autoproduce, cioè è causa ed effetto di se stesso, sia a livello di specie sia a livello di individuo: un albero produce un albero della stessa specie, così come produce se stesso in quanto individuo, nella misura in cui cresce, trasformandosi da seme in albero; 2) l’idea che la considerazione organica non debba essere limitata agli organismi, ma possa invece essere estesa a tutta la natura. Schelling rovescia, però, il rapporto tra meccanicismo e finalismo stabilito da Kant. Per Kant: 1) la considerazione finalistica dell’intera natura è semplicemente il frutto di un’analogia, cui spetta, dal punto di vista conoscitivo, solo il valore di ideaguida in grado di stimolare il progresso della ricerca, fino a quando non si realizza la scoperta di nuovi nessi meccanico-causali: gli unici cui egli attribuisce validità sotto il profilo teoretico; 2) nella prospettiva kantiana, un oggetto può essere costituito e conosciuto, con i giudizi determinanti, solo unificando il molteplice empirico attraverso le categorie intellettuali, una delle quali è la legge di causalità; 3) il concetto di fine non è, invece, una categoria intellettuale, bensì un concetto a priori della ragione. Di conseguenza, attraverso di esso possiamo formare solo giudizi riflettenti, che hanno sì un carattere universale – essendo fondati su un’esigenza a priori del soggetto trascendentale e quindi comuni a tutti gli uomini – ma non hanno validità oggettiva e valore conoscitivo, in quanto esprimono esclusivamente la nostra interpretazione dei fenomeni naturali sulla base del principio soggettivo di finalità. Per Schelling, invece, il rapporto tra queste due concezioni della natura si articola in maniera diversa: 1) la considerazione finalistica sia dei fenomeni organici sia dell’intera natura non ha un fondamento esclusivamente soggettivo, che le conferirebbe uno statuto conoscitivo inferiore rispetto alla spiegazione meccanicistica; 2) al contrario, il finalismo è da anteporre al meccanicismo, proprio in quanto si basa sul rapporto organico, che è qualcosa di oggettivo – cioè un rapporto che risiede nell’organismo stesso – a differenza del nesso meccanico di causa-effetto che, in quanto categoria intellettuale, appartiene al soggetto conoscente; 3) infine, mentre la legge di causalità ha una dimensione esclusivamente fenomenica – cioè vale solo per le cose come appaiono alla nostra facoltà cono855

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Parte terza L’idealismo

scitiva – il nesso organico sussiste per sé, cioè lega le parti di un organismo indipendentemente dall’attività unificatrice del nostro intelletto, quindi permette di cogliere l’essenza delle cose.

T4

Il nesso organico come rapporto oggettivo F.W.J. Schelling, Idee per una filosofia della natura

Ogni organismo è quindi un tutto; la sua unità sta in lui stesso, e non dipende dal nostro arbitrio il pensarlo come una unità o una molteplicità. Il rapporto di causa ed effetto è qualcosa di transitorio, di dileguante, è pura apparenza, nel senso comune della parola. L’organismo invece non è pura apparenza, ma è esso stesso oggetto, e più precisamente un oggetto che sussiste per se stesso, intero in se stesso e indivisibile […]

I fondamenti ontologici della filosofia della natura Il rifiuto del dogmatismo

Lo spostamento del problema della rappresentazione sul piano ontologico

L’identità originaria di soggetto e oggetto

Il parallelismo tra mondo naturale e mondo spirituale

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La definizione dell’organismo come «oggetto sussistente per sé» non deve essere intesa come una ricaduta nell’illusione dogmatica, secondo la quale le cose esistono indipendentemente da noi. Al contrario, Schelling come Fichte rimane, per adesso, fedele alla «rivoluzione copernicana» kantiana e rifiuta il dogmatismo, cioè rifiuta di ricondurre la nostra rappresentazione della natura all’influsso di cose esterne sulla nostra facoltà rappresentativa (vedi Unità 15, schema a p. 795). Di conseguenza egli nega espressamente che l’esistenza di una natura come intero finalisticamente organizzato al di fuori di noi possa spiegare la genesi della rappresentazione finalistica della natura, che è presente nella nostra mente. La soluzione che Schelling offre a questo problema è, però, molto diversa da quella fichtiana, secondo la quale l’accordo tra le nostre rappresentazioni e il mondo oggettivo dipende dal fatto che è la nostra coscienza a costituire gli oggetti, imprimendo ad essi le proprie leggi. Schelling solleva piuttosto la questione da un piano meramente gnoseologico a un piano ontologico (vedi lo schema a p. 857). Egli riconduce la concordanza tra la nostra idea di natura e il mondo esterno a un principio diverso e superiore rispetto all’Io fichtiano, cioè allo «Spirito infinito» o «Assoluto», inteso come radice comune della natura e dello spirito che la pensa: per essere tale, l’Assoluto non può che essere unità indifferenziata dell’uno e dell’altra. In questa cornice, la coincidenza tra le leggi della nostra coscienza e quelle della natura viene riaffermata, ma non è interpretata come il risultato dell’attività dell’Io, che sottopone alle proprie leggi il Non-io, in un infinito processo di razionalizzazione della realtà. L’unità è piuttosto il risultato del fatto che tanto il nostro spirito quanto la natura derivano entrambi da un principio comune, che è identità originaria di soggetto e oggetto, conscio e inconscio. Questa identità originaria fonda per Schelling la corrispondenza tra il sistema della natura e il sistema del nostro spirito – con le loro rispettive leggi – e il conseguente accordo tra la nostra rappresentazione della natura e la natura al di fuori di noi. Per definire la corrispondenza tra il ciò che è (la materia, l’Io oggettivo) e la componente spirituale (la coscienza, l’Io soggettivo) Schelling ricorre a una nozione che abbiamo già incontrato nella filosofia di Leibniz: quella di armonia prestabilita, ossia di un armonico e predeterminato parallelismo tra i processi naturali, indicati anche come il «reale», e quelli spirituali, indicati come «ideale» (vedi Unità 5, p. 287).

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

T5

L’armonia prestabilita tra spirito e natura F.W.J. Schelling, Idee per una filosofia della natura

La filosofia della natura in Schelling

Che è dunque quel legame segreto che unisce il nostro spirito con la natura, o quell’organo nascosto in virtù del quale la Natura parla al nostro spirito o il nostro spirito alla Natura? Vi facciamo subito grazia di tutte le vostre spiegazioni circa il modo in cui una tale natura conforme a scopi sia divenuta reale fuori di noi. […] perché noi non vogliamo sapere come sia nata tale natura fuori di noi, ma come anche l’idea di una tale natura sia venuta in noi; e non come l’abbiamo arbitrariamente prodotta, ma come e perché essa originariamente e necessariamente stia a fondamento di tutto ciò che la nostra specie ha sempre pensato sulla natura. Infatti l’esistenza di tale natura fuori di me non ne spiega l’esistenza in me: e se ammettete che fra l’una e l’altra ci sia un’armonia prestabilita – è proprio questo l’oggetto del nostro problema. Oppure se affermate che noi soltanto applichiamo alla natura questa idea, non vi è entrato nell’anima neppure il sospetto di che cosa sia e debba essere per noi la natura. Perché noi vogliamo non già che la natura concordi accidentalmente (e magari per la mediazione di una terza cosa) con le leggi del nostro spirito, ma che in se stessa e originariamente non soltanto esprima ma realizzi veramente le leggi del nostro spirito, e che essa sia e si chiami natura solo in quanto essa faccia ciò. La natura deve essere lo spirito visibile, lo spirito la natura invisibile. Qui dunque, nell’assoluta unità dello spirito in noi e della natura fuori di noi, si deve risolvere il problema di come una natura sia possibile fuori di noi.

Unità ontologica di natura e spirito che fonde: – armonia prestabilita tra mondo spirituale e mondo naturale, tra «ideale» e «reale» – la conseguente coincidenza tra le leggi naturali e la rappresentazione di quelle leggi nella coscienza umana

Rifiuto del meccanicismo e adesione a una concezione teleologica della natura come intero organico organizzato da un principio interno (Anima del mondo) che la guida verso la realizzazione del proprio fine

Distacco da Fichte: definizione della natura come Io oggettivo e non come Non-io, per mettere in rilievo l’omogeneità qualitativa tra coscienza e natura

Reinterpretazione ontologica del finalismo kantiano: – valore teoretico della spiegazione finalistica; – oggettività del rapporto organico; – nesso organico come qualità essenziale delle cose

Polarità, coesione e «potenze» della natura La natura come totalità di principi opposti

Per Schelling, dunque, la natura è la manifestazione dell’Assoluto nella sfera del reale o dell’oggettività. Essendo l’Assoluto unità di soggettività e oggettività, anche la natura – in quanto sua manifestazione – non è, però, mera oggettività, ma 857

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Parte terza L’idealismo

La dialettica all’interno della natura e il principio di polarità

Tre potenze della natura

Polarità e potenze della natura in Schelling

è unità e totalità di principi opposti, e quindi contiene anche tracce di soggettività, sia pure con la prevalenza dell’elemento oggettivo. In quanto unità di principi opposti, la natura è concepita da Schelling come un processo dialettico: l’attività di autoorganizzazione che ne costituisce l’essenza è un processo oppositivo fondato sul principio della polarità, in virtù del quale ogni grado della natura è costituito da due termini antitetici, in un rapporto di tensione che esprime al tempo stesso la loro unità e opposizione. La manifestazione di questa polarità nel grado più semplice è costituita dalla dialettica tra forza di attrazione e repulsione, che contraddistingue la materia inanimata. La dialettica di forze polari attraverso cui la natura si autoorganizza in diversi gradi si fonda, oltre che sul principio di attrazione e repulsione, su altri due meccanismi fondamentali, che Schelling trae rispettivamente dal chimismo e dal magnetismo, estendendoli a tutta la natura: il principio di metamorfosi – cioè la trasformabilità degli elementi gli uni negli altri – e il principio di coesione, cioè il reciproco equilibrarsi delle forze naturali. Partendo da questi tre diversi tipi di polarità naturale, Schelling riconosce altrettanti gradi o «potenze» della natura, ove il termine «potenza» designa il grado di differenza tra la componente «reale» (o oggettiva) e quella «ideale» (o soggettiva), grado attraverso il quale avviene la costituzione dell’universo e il graduale emergere della coscienza nella natura: 1) la prima potenza, nella quale prevale il principio della realtà, è il regno dell’inorganico, retto, in complessità crescente, dalle forze del magnetismo, dell’elettricità e del chimismo; 2) la seconda potenza è la luce, considerata come l’emergere dell’idealità nella natura, in quanto nella luce quest’ultima inizia in un certo senso a prendere coscienza di sé, rendendosi visibile a se stessa; 3) la terza potenza è il mondo organico – articolato nei tre momenti interni di sensibilità, irritabilità e «tendenza produttiva» – in cui si ha l’annuncio aurorale della coscienza. Natura: – come manifestazione dell’Assoluto nella sfera del reale o dell’oggettività – unità e totalità di principi opposti

Unità in cui si mescolano ideale (coscienza) e reale (materia) in gradi diversi, definiti potenze

Prima forma di polarità: principio di attrazione e repulsione Seconda forma di polarità: principio di metamorfosi Terza forma di polarità: principio di coesione

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Attraverso la loro azione si generano

Autoorganizzazione fondata sul principio di polarità

Prima potenza: regno dell’inorganico in cui prevale il principio della realtà

Seconda potenza: luce, attraverso cui l’idealità emerge nella natura

Terza potenza: mondo organico (sensibilità, irritabilità e tendenza produttiva) come primo apparire della coscienza

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

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Il Sistema dell’idealismo trascendentale

Sviluppando le conseguenze implicite nella sua filosofia della natura come totalità di oggettivo e soggettivo, materia e spirito, Schelling perviene nel 1800 a ristrutturare tutta la sua riflessione precedente in una trattazione organica, che da molti è ritenuta il suo capolavoro: il Sistema dell’idealismo trascendentale. Per «idealismo trascendentale», o anche «filosofia trascendentale», Schelling intende la parte della filosofia parallela e complementare alla «filosofia della natura». Quest’ultima spiega, come si è visto, il processo che va dall’oggettivo al soggettivo, cioè dalle potenze inconsce della natura all’organismo, e quindi all’emergere della coscienza. Partire dal soggetto Poiché l’Assoluto è per Schelling unità indifferenziata di ideale e reale, per avere un sistema filosofico compiuto occorre, però, percorrere anche il processo inverso, che parta dal soggettivo per derivare da esso l’oggettivo. È necessario mostrare come sia possibile per un soggetto rappresentarsi un oggetto e pervenire a un’oggettivazione, attraverso una concreta azione creatrice: questo è il compito dell’idealismo trascendentale, che a sua volta è articolato in filosofia teoretica, filosofia pratica e filosofia dell’arte.

Il parallelismo tra filosofia della natura e idealismo trascendentale

Il sistema di Schelling

Assoluto come unità indifferenziata di reale (oggetto) e ideale (soggetto)

Coscienza come totalità soggettiva di ideale e reale

Processo che va dall’oggettivo al soggettivo

Processo che va dal soggettivo all’oggettivo

Le potenze della natura: il cammino dall’inorganico verso l’organismo e la coscienza

L’evolversi della coscienza del soggetto: filosofia teoretica (conoscenza), filosofia pratica (l’agire), filosofia dell’arte (l’attività creatrice)

Idealismo trascendentale

Filosofia della natura

Natura come totalità oggettiva di reale e ideale

La filosofia teoretica: la rappresentazione dell’oggetto L’intuizione intellettuale

Per ricavare l’oggettivo dal soggettivo occorre prendere le mosse da un principio soggettivo – cioè un elemento dell’intelligenza – che però li contenga entrambi. Tale è per Schelling solo l’intuizione intellettuale dell’Io, cioè l’atto attraverso cui l’Io sa immediatamente di sé e, così facendo, crea se stesso: l’Io non è, infatti, nient’altro che autocoscienza, e dunque in esso essere e sapere, soggetto e oggetto, coincidono. 859

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Parte terza L’idealismo L’Io come unico e primitivo accesso alla conoscenza

L’Io come parte della natura ed espressione dell’unità uomo / natura

La filosofia teoretica e le tre epoche della coscienza

Filosofia teoretica e coscienza

Schelling si riallaccia in questo modo a Fichte, che aveva additato come unico possibile accesso alla filosofia l’intuizione intellettuale dell’Io. Tuttavia, in Schelling l’assunzione dell’Assoluto come principio primo della filosofia e l’integrazione dell’idealismo trascendentale con la filosofia della natura conferiscono all’Io e all’intuizione intellettuale un significato profondamente differente rispetto a quello che gli stessi termini avevano nella filosofia fichtiana. Per Schelling, infatti, l’intelligenza non è soggettività pura, assolutamente contrapposta e separata rispetto alla natura, ma è piuttosto una parte di essa, e precisamente quella parte in cui questa perviene alla coscienza di sé. Di conseguenza, l’intuizione intellettuale dell’Io non è la conoscenza di un sé vuoto e privo di riferimenti oggettivi, ma è piuttosto espressione dell’unità tra uomo e natura: in quanto tale, essa costituisce il punto di partenza adeguato per realizzare l’obiettivo che Schelling si propone nell’idealismo trascendentale, cioè realizzare una forma di sapere nella quale la conoscenza di sé sia, al tempo stesso, conoscenza del mondo, secondo l’armonia prestabilita – fondata nell’Assoluto – di cui si è detto sopra. Il parallelismo tra filosofia della natura e idealismo trascendentale si traduce, sul piano formale, in una puntuale corrispondenza tra le «potenze» della prima e i momenti in cui è articolata la «filosofia teoretica»: le «epoche» della coscienza, ovvero le diverse tappe del processo ideale attraverso il quale l’Io acquisisce coscienza di sé come attività produttrice, strappandosi dall’inconscio. Le epoche della storia dell’autocoscienza sono: 1) l’ascesa dalla sensazione – in cui il soggetto si trova di fronte a un oggetto esterno, rispetto al quale si crede completamente passivo – all’intuizione produttiva, in cui il soggetto prende coscienza di sé come senziente, e dunque come attività, che non solo viene limitata dall’oggetto, ma va anche oltre il limite; 2) il passaggio dall’intuizione produttiva alla riflessione, attraverso cui l’intelligenza si riconosce uguale al proprio oggetto (l’Io si sa uguale a se stesso, autocoscienza), e si intende come organismo umano; 3) infine, l’epoca che va dalla riflessione al volere che, in quanto autodeterminazione dell’intelligenza, è schietta attività, e segna il passaggio dalla filosofia teoretica alla filosofia pratica. Intuizione intellettuale: atto originario con cui l’Io sa se stesso, e in cui soggetto e oggetto coincidono

Differenza con Fichte: data l’unità di natura e spirito, l’Io è parte della natura

L’autocoscienza dell’Io porta con sé la consapevolezza dell’unità tra uomo e natura: la conoscenza di sé è conoscenza del mondo

Epoche della coscienza: – coscienza di sé come essere senziente, attivo: intuizione produttiva – l’intelligenza si riconosce uguale al proprio oggetto: riflessione – l’intelligenza si scopre capace di autodeterminarsi: volere

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

La filosofia pratica: la storia I contenuti della filosofia pratica

Rapporto tra la storia e la fisica

La necessità nella storia

La storia come sintesi di libertà e legalità

T6

Libertà e legge nella storia

F.W.J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, Sezione 4, E

Nella filosofia pratica Schelling espone innanzitutto la propria concezione giuridico-politica – incentrata sulla deduzione del diritto come l’unico sistema in grado di garantire la compatibilità dell’esplicazione delle volontà individuali – calandola all’interno della propria visione della storia. Quest’ultima merita una particolare attenzione, in quanto Schelling è uno dei primi ad affrontare in una cornice rigorosamente sistematica nodi cruciali sia per la filosofia della storia sia per la storiografia dell’epoca. In particolare, Schelling pone in modo chiaro il problema del rapporto tra la storia e la fisica, anticipando sotto alcuni aspetti il dibattito sulla differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito che animerà il pensiero tedesco alla fine dell’Ottocento. Da un lato, egli distingue e delimita rigorosamente il campo e il metodo della storia rispetto a quello della fisica: della natura non si dà «storia», e solo molto impropriamente si parla di «storia della natura», in quanto essa ha come tratto caratteristico il ciclo, la ripetizione periodica e un andamento uniforme; la storia ha invece come oggetto ciò che non può essere previsto a priori o in anticipo, ossia il libero agire degli uomini. Dall’altro lato, però, Schelling nega che possa essere chiamata storia una serie di azioni ed eventi completamente privi di legge, cioè del tutto casuali e non concatenati. Ciò renderebbe, infatti, il mondo umano e morale inferiore a quello naturale. Di conseguenza, egli indica il problema fondamentale della filosofia della storia nella questione di individuare una «coerenza» e una «legalità», nel susseguirsi apparentemente caotico e disordinato degli avvenimenti e degli individui. La conclusione di questo ragionamento è la definizione del concetto di storia come sintesi di libertà e legalità, in quanto realizzazione graduale di un ideale da perseguire a livello non meramente personale ma collettivo. Questo ideale è l’elemento che conferisce unitarietà e coerenza alle azioni e agli eventi di cui è intessuta la storia, legandoli tra loro e rendendoli così conformi a una legge. Si tratta, però, di una legalità compatibile con la libertà, nella misura in cui la realizzazione del piano è graduale, ed è possibile solo attraverso l’intreccio delle libere azioni umane. Risulta ora di per sé da questa deduzione del concetto della storia, che meriti così poco il nome di storia una serie di fatti assolutamente sciolta da legge, quanto una assolutamente conforme a leggi; risulta quindi: a) che il progressivo, il quale viene pensato in ogni storia, non permette una uniformità del genere di quella, per cui la libera attività è circoscritta ad una determinata successione di operazioni sempre in sé ritornante; b) che, in generale, tutto ciò che segue secondo un determinato meccanismo o ha la sua teoria a priori, non è punto obbietto della storia. Teoria e storia sono cose interamente contrapposte. L’uomo ha storia unicamente perché quel che egli farà non si può calcolare in precedenza secondo nessuna teoria. L’arbitrio è in questo senso il dio della storia. La mitologia fa incominciare la storia col primo passo dalla signoria dell’istinto al campo della libertà, con la perdita dell’età dell’oro, o con la caduta, cioè con la prima estrinsecazione dell’arbitrio; […] c) che alla stessa guisa non meriti il nome di storia ciò che è assolutamente privo di legge, o una serie di avvenimenti senza scopo ed intenzione, e che soltan861

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Parte terza L’idealismo

to la legalità e la libertà congiunte insieme, o il graduale realizzarsi di un ideale, non mai totalmente perduto, da parte di un’intera specie di esseri, costituisca il proprio della storia. L’ideale cosmopolitico kantiano come «piano» della storia

L’armonia prestabilita tra individui e istituzioni nella storia

Incompiutezza della rivelazione dell’Assoluto e libertà umana

La storia come dramma ideale

Le due necessità della storia e l’agire libero umano

I tre momenti della rivelazione divina nella storia

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Nel Sistema dell’idealismo trascendentale, Schelling individua il ‘piano’ in grado di conferire una direzione alla storia universale nell’ideale kantiano di costituzione giuridica cosmopolitica, cioè di un tribunale internazionale destinato a dirimere, pacificamente e giuridicamente, le controversie tra gli Stati. Schelling inserisce però questo motivo nella cornice metafisica del proprio sistema, in cui l’antinomia kantiana tra il mondo naturale come regno della necessità e il mondo umano come regno della libertà viene meno, essendo l’Assoluto – che rappresenta la radice comune di entrambi i mondi – identità originaria di libertà e necessità. In quanto tale, l’Assoluto fonda e garantisce per Schelling un’armonia prestabilita tra il lato oggettivo e il lato soggettivo della storia, che consistono rispettivamente nel progresso delle istituzioni giuridiche e nell’agire arbitrario dei singoli. Il primo è un processo naturale, che procede indipendentemente dal volere degli individui, i quali agiscono, invece, seguendo interessi particolari e proponendosi scopi completamente diversi; così facendo, però, senza saperlo e senza volerlo contribuiscono con le loro azioni – che, una volta entrate nel mondo, sfuggono al loro controllo e sottostanno alle leggi della natura – a realizzare gradualmente l’ideale di una costituzione cosmopolitica. La storia è, dunque, rivelazione dell’Assoluto, sotto la forma di svolgimento graduale e destinato a restare perennemente incompiuto. La rivelazione dell’Assoluto nella storia non può mai, infatti, essere completa e piena in nessun punto del processo: se così fosse, cioè se l’Assoluto in un certo momento del tempo si rivelasse completamente, nulla potrebbe più essere diverso da come è. Ciò eliminerebbe completamente dalla storia quella libertà umana, che è una componente essenziale dell’Assoluto stesso. L’infinita incompiutezza della rivelazione divina nella storia è, dunque, la condizione della infinita libertà dell’uomo, senza la quale neanche l’Assoluto sarebbe. Sulla base di questi presupposti, Schelling descrive il rapporto tra l’Assoluto e i singoli uomini nella storia, paragonando quest’ultima a un «dramma ideale», il cui autore è tutt’uno con gli attori che lo rappresentano, in modo tale che la volontà del primo può realizzarsi solo attraverso la libera azione dei secondi. Questi ultimi risultano così non solo come «collaboratori di tutta l’opera», ma anche come «originali inventori» della parte che recitano. Fuor di metafora e in termini più semplici, Schelling vuole affermare che nella storia c’è sì una necessità, data sia dal peso ritardante e limitante del passato, sia dalla necessaria direzione del futuro, che procede inevitabilmente verso l’avvento della costituzione giuridica cosmopolitica; tuttavia, tra queste due necessità – che non solo non possono coincidere, ma sono tra loro legate da un nesso inconoscibile per noi – c’è spazio per la libertà dell’uomo. Nonostante la rivelazione divina nella storia resti perennemente incompiuta, è possibile distinguere in essa tre momenti progressivi: 1) l’età del tragico o del destino – che giunge sino alla grecità classica – espressione di un’opposizione assoluta tra il soggettivo e l’oggettivo, cioè tra le finalità consapevolmente perseguite dagli uomini e le conseguenze delle loro azioni, conformi a un piano divino assolutamente impenetrabile;

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

2) l’età della natura – che inizia con le conquiste della repubblica romana e giungerà sino alla costituzione cosmopolitica – è l’epoca in cui l’Assoluto si manifesta sotto la forma oggettiva di necessità naturale; 3) l’età della Provvidenza, contraddistinta dalla piena coincidenza tra oggetto e soggetto, e in realtà situata al di fuori del divenire storico. La storia come «piano» dell’Assoluto

Storia come rivelazione graduale dell’Assoluto, in quanto armonia prestabilita di soggettivo e oggettivo

Dimensione soggettiva: agire individuale libero, mosso da scopi consapevoli e particolari

Dimensione oggettiva: evoluzione naturale delle istituzioni giuridiche, secondo una direzione necessaria, cioè in vista della realizzazione di un «piano»: l’ideale kantiano della costituzione giuridica cosmopolitica

Carattere perennemente incompiuto della rivelazione dell’Assoluto nella storia come condizione della libertà umana

I tre momenti della storia universale in cui l’Assoluto si è rivelato: – età del tragico e del destino; si conclude con la grecità classica – età della natura; dalla repubblica romana alla realizzazione della costituzione cosmopolitica – età della Provvidenza; situata fuori dal divenire storico

L’arte come supremo organo della filosofia L’arte come rivelazione compiuta dell’Assoluto

Filosofia e arte di fronte alla contraddizione tra soggettivo e oggettivo

I limiti soggettivi dell’intuizione intellettuale

La storia è la rivelazione graduale e perennemente incompiuta dell’Assoluto, a causa della scissione tra soggettivo e oggettivo, che contraddistingue inevitabilmente il sapere e l’agire umani. L’unico luogo in cui questo scarto viene meno è l’opera d’arte, frutto del genio, che agisce guidato da un’ispirazione e da un talento naturale inconsci, sviluppandoli però con un esercizio libero e consapevole. In quanto sintesi di conscio e inconscio, essa costituisce dunque la rivelazione compiuta e attuale dell’Assoluto. In questo modo, nel Sistema dell’idealismo trascendentale l’esperienza estetica è innalzata al di sopra della filosofia, come unica via d’accesso all’Assoluto. La filosofia della natura e la filosofia, o idealismo, trascendentale interpretano, infatti, la divaricazione ontologica dell’Assoluto – cioè la scissione in oggettivo e soggettivo – ciascuna da un angolo visuale specularmente contrapposto all’altro. In entrambe in ogni caso si può solo tendere all’identità originaria, nel senso fichtiano del termine, ossia secondo un processo all’infinito, in cui la contraddizione rimane, anzi si acuisce man mano che si precisano i termini della contrapposizione. L’intuizione estetica, al contrario, esprime sì la contraddizione, ma la concilia nell’opera d’arte. L’intuizione intellettuale principio della filosofia trascendentale – attraverso la quale l’Io intuisce immediatamente se stesso come attività – offre certo al filosofo la possibilità di innalzarsi al di sopra delle scissioni in cui è rinchiuso l’intelletto ordinario e discorsivo, che procede sempre in maniera mediata, passando dal 863

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condizionato alla condizione. Tuttavia, l’intuizione intellettuale, in quanto puro atto filosofico, è interna, soggettiva, e non può dunque aspirare all’universalità oggettiva: è un’esperienza che il filosofo può fare solo in solitudine, ma non può condividere con nessuno; essa è un mero «postulato», di cui la filosofia non è in grado di dimostrare l’esistenza effettiva. L’arte si eleva L’intuizione estetica non ha invece questo limite. Per Schelling, infatti, essa è inall’universalità tuizione intellettuale divenuta oggettiva, nel senso che l’opera d’arte esprime in oggettiva maniera immediatamente presente alla sensibilità del soggetto, e dunque accessibile a tutti gli uomini, l’assoluta identità originaria, che nella coscienza – contraddistinta dalla scissione di soggetto e oggetto – inevitabilmente si perde.

T7

L’arte come supremo organo della filosofia

F.W.J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale

L’opera d’arte come parte del mondo della ragione

La filosofia dell’arte in Schelling

Se l’intuizione estetica non è se non la trascendentale divenuta obbiettiva, s’intende di per sé che l’arte sia l’unico vero ed eterno organo e documento insieme della filosofia, il quale sempre e con novità incessante attesta quel che la filosofia non può rappresentare esternamente, cioè l’inconscio nell’operare e nel produrre, e la sua originaria identità col cosciente. Appunto perciò l’arte è per il filosofo quanto vi ha di più alto, perché essa gli apre quasi il santuario, dove in eterna e originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e nella storia è separato, e quello che nella vita e nell’azione, come nel pensiero, deve fuggire sé eternamente. Questa apoteosi dell’arte come organo privilegiato di accesso all’Assoluto è senza dubbio in consonanza con le tendenze dell’epoca, e in particolare con il pensiero romantico. Tuttavia, non bisogna perdere di vista la peculiarità dell’estetica schellinghiana. Pur riprendendo da Kant, Goethe e Schiller la tesi del carattere originariamente naturale del talento artistico, Schelling tempera, infatti, l’irrazionalismo che contraddistingueva molte delle teorizzazioni romantiche del genio artistico e dell’arte. E questo perché il canone della sua estetica – derivante dalla filosofia dell’identità – consiste nella indivisibilità tra dato naturale ed esercizio consapevole: motivo per cui nella prospettiva schellinghiana l’opera d’arte appartiene anche all’universo della ragione e dell’intelligenza, e non solo del sentimento, dell’intuizione prelogica e dell’emozione. Filosofia della natura

Filosofia trascendentale

Interpretano da diverse visuali la divaricazione ontologica tra oggettivo e soggettivo nell’Assoluto

Tendono all’unità originaria ma rimangono all’infinito nel dualismo tra soggetto e oggetto

L’intuizione intellettuale, filosofica, coglie l’unità originaria, ma non può dimostrarlo. Rimane un’esperienza soggettiva, interna

L’intuizione estetica che si esprime nell’opera d’arte dà una prova ‘sensibile’ dell’unità originaria di reale e ideale Filosofia dell’arte L’opera d’arte, in quanto frutto del genio – inteso come sintesi di talento naturale (oggettivo) ed esercizio consapevole (soggettivo) –, è rivalutazione attuale dell’Assoluto

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La filosofia dell’identità

Con l’espressione «filosofia dell’identità» – o con quelle meno usate, ma equivalenti, di «filosofia dell’indifferenza» o «filosofia dell’unitotalità», tutte coniate dallo stesso Schelling – si è soliti indicare l’impianto che il sistema schellinghiano assume tra il 1801 e il 1806. Non si tratta di una fase completamente nuova del pensiero schellinghiano, quanto piuttosto di un mutamento di prospettiva. Si è visto, infatti, che la filosofia della natura e l’idealismo trascendentale elaborati negli anni precedenti presuppongono già la concezione dell’Assoluto come unità indifferenziata e originaria di natura e spirito. La prospettiva Tuttavia, fino al 1801 Schelling si sforza di pervenire a tale unità partendo dai dualistica fino al 1801 due termini opposti, e da congiungere: gli scritti dedicati alla filosofia della natura mirano a rintracciare lo spirito nel mondo naturale, mentre il Sistema dell’idealismo trascendentale muove dal soggetto per ricavare da esso l’oggetto. Questa impostazione rispecchia la convinzione che la riflessione filosofica si collochi necessariamente in una prospettiva dualistica, cui è precluso il centro unico da cui promanano filosofia della natura e filosofia trascendentale, accessibile – come si è visto – solo attraverso l’intuizione estetica. Un mutamento di prospettiva

La filosofia come scienza dell’Assoluto Il passaggio al monismo e il primato della filosofia

La Ragione assoluta come principio ontologico e metafisico

La rottura netta con l’impostazione trascendentale kantiana

La conoscenza della cosa in sé

A partire dal lungo saggio intitolato Esposizione del mio sistema filosofico, Schelling passa a un rigoroso e radicale monismo, e inverte il corso della propria analisi, partendo dall’unità assoluta di oggettivo e soggettivo, per derivare da questa l’opposizione. Questo rovesciamento di prospettiva non è solo un’esplicitazione di quanto in precedenza era presupposto, ma comporta piuttosto importanti cambiamenti: primo tra tutti, la restituzione di un ruolo primario alla filosofia, in quanto «scienza dell’Assoluto». Il punto di partenza è la determinazione del concetto di «Ragione assoluta», ovvero la Ragione pensata come fondamento di tutta la realtà: il fondamento comune di soggettivo e oggettivo che, per essere tale, non può essere né soggettivo né oggettivo, bensì assoluta indifferenza di entrambi. Così intesa, la Ragione non ha un significato gnoseologico, bensì ontologico e metafisico: la Ragione assoluta non è, cioè, una facoltà conoscitiva della mente umana, e anzi non ha nulla a che fare con il soggetto pensante, così come non ha nulla a che fare con l’oggettivo. Essendo completamente indipendente dal pensiero, e più in generale dalle forme della conoscenza umana, la Ragione assoluta è l’«in sé»: ciò significa, in concreto, che essa è completamente sottratta allo spazio e al tempo – forme della nostra conoscenza sensibile – così come alle categorie intellettuali. In quanto scienza della Ragione assoluta, la filosofia schellinghiana dell’identità costituisce dunque una rottura netta rispetto all’approccio trascendentale inaugurato da Kant, che limita in maniera rigorosa l’ambito dell’indagine filosofica al nostro modo di conoscere le cose, lasciando da parte le cose in sé o noumeni (che nella prospettiva kantiana sono pensabili, ma non conoscibili). Collocandosi nel punto di vista della Ragione assoluta, la filosofia può e deve cogliere, per Schelling, le cose come sono in sé, prescindendo completamente dai 865

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nessi spazio-temporali e dal principio meccanico di causa-effetto; cosa che è possibile solo abbandonando il procedimento discorsivo.

T8

La Ragione assoluta e la filosofia come scienza delle cose in sé

F.W.J. Schelling, Esposizione del mio sistema filosofico, par. 1

[…] È certo che ognuno si può fare un concetto della ragione; per pensarla come assoluta, per arrivare dunque al punto di vista che io richiedo, si deve astrarre da colui che pensa. Per colui che fa questa astrazione, la ragione cessa immediatamente di essere qualcosa di soggettivo, come è presentata dalla maggior parte; anzi essa non può più essere pensata neanche come qualcosa di oggettivo, giacché una cosa oggettiva o pensata diventa possibile solo in antitesi con un soggetto pensante, e di questo è stata fatta astrazione completa; diventa dunque per quell’astrazione il vero in sé che cade proprio nel punto d’indifferenza del soggettivo e dell’oggettivo. Il punto di vista della filosofia è il punto di vista della ragione, la sua conoscenza è una conoscenza delle cose, come sono in sé, cioè come sono nella ragione. È nella natura della filosofia di eliminare totalmente tutte le cose che stanno le une dopo le altre e le une lontane dalle altre, ogni differenza del tempo e in generale ogni differenza che solo l’immaginazione inserisce nel pensiero, in una parola di vedere nelle cose soltanto quello per cui esse esprimono la ragione assoluta, non però in quanto esse sono oggetti semplicemente di quella riflessione, che si attacca alle leggi del meccanismo e procede nella serie temporale.

Infinito e finito nella filosofia dell’identità L’identità dell’Assoluto

Identità come essere privo di differenze

Il problema dell’origine del finito

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La formula «filosofia dell’identità» esprime la centralità che in questa fase Schelling attribuisce alla legge dell’identità – espressa dalla formula A = A – presentandola come l’unica legge cui può essere sottoposto l’Assoluto, essendo quest’ultimo ciò in cui non vi sono distinzioni. L’identità dell’Assoluto schellinghiano non va confusa con l’identità dell’Io assoluto fichtiano: in riferimento alla Ragione assoluta, l’identità non indica, infatti, l’uguaglianza con sé propria della soggettività assoluta – che, in quanto autocoscienza pura, non ha altro oggetto che se stessa – ma designa piuttosto l’Essere in quanto compattezza immobile, che esclude ogni distinzione e differenza. Rispetto a questa forma di identità – che è definita assoluta – quella dell’Io assoluto fichtiano è per Schelling solo un’identità relativa, nella misura in cui essa si definisce solo in contrapposizione al Non-io, cioè differenziandosi rispetto all’oggetto. La filosofia dell’identità lascia emergere problemi nuovi e diversi rispetto a quelli con cui Schelling si era confrontato nella fase precedente del suo pensiero. La difficoltà fondamentale non è più quella di rinvenire lo spirito nella natura o viceversa, bensì quella di spiegare come la «differenza» possa nascere dall’«indifferenza», la molteplicità dall’identità: o, in altri termini, spiegare come il finito nasca dall’infinito, chiarendo la natura ontologica del finito rispetto all’Assoluto. Per fare questo Schelling sostiene due tesi complementari: 1) da un lato, egli intende l’Assoluto come co-essere di finito e infinito: se il finito non fosse già nell’Assoluto, non potrebbe poi esserne dedotto. Sulla base di questi presupposti, egli elabora una teoria radicalmente immanentistica, fondata sull’affermazione della presenza del finito nell’Assoluto (rapporto di inclusione che viene definito come panenteismo, termine coniato a partire dalla locuzione greca pan en theòi, che significa «tutto in Dio»);

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

Le «idee» come presenza eterna del finito nell’infinito

Il rifiuto di creazionismo ed emanatismo

La filosofia dell’identità di Schelling

2) dall’altro lato, però, egli distingue tra il finito presente nell’Assoluto e il finito esistenziale, cioè il finito legato alla temporalità dell’accadere e dell’esistenza. Il finito è, infatti, per Schelling presente nell’Assoluto non nella limitazione e imperfezione dell’esistente, bensì in una sua forma in certo modo infinita, cioè sotto forma di «idee»: termine che designa, platonicamente, le essenze delle cose, in quanto radicate nell’eternità di Dio, cioè una sorta di termine intermedio partecipe sia della sfera dell’identità sia della sfera del molteplice. Questa forma di immanentismo, in cui il finito è presente nell’infinito sotto forma di idee eterne, lascia, però, irrisolto il problema di come sia possibile spiegare l’esistenza del finito nella sua realtà particolare e limitata. Due possibili soluzioni tradizionali, il creazionismo e l’emanatismo – che la riconducono rispettivamente o a un libero atto di creazione o a un’emanazione – sono entrambe rifiutate da Schelling, che non è disposto ad ammettere nessuna forma di passaggio continuo dall’Assoluto al finito. E questo perché egli enfatizza la rottura ontologica tra l’Assoluto, oggetto della filosofia, e il mondo sensibile e quotidiano, oggetto della scienza positiva: in questa prospettiva, ammettere un passaggio continuo dall’Assoluto al finito significherebbe degradare l’Assoluto. Scartate le soluzioni classiche del creazionismo e dell’emanatismo, per spiegare la genesi dell’esistenza del finito Schelling ricorre infine al concetto di «caduta» e di «colpa», interpretando la nascita delle cose finite e molteplici come una cesura radicale, un «salto», frutto di una separazione dall’Assoluto.

Nuova fase della filosofia di Schelling (1801-1806): superamento del dualismo ontologico

Filosofia dell’identità: monismo ontologico e primato della filosofia. Ragione assoluta come fondamento della realtà

Possibilità di conoscere le cose in sé

5 Origine delle realtà limitate: la nozione di «colpa»

Identità come realtà dell’Essere privo di differenza

Problema di spiegare l’origine del finito: panenteismo e teoria delle «idee» eterne

Teoria della «caduta» per spiegare l’origine delle cose finite individuali

La filosofia della libertà: Dio, l’uomo e il male La svolta monista di Schelling lo induce a sostenere una filosofia dell’identità incentrata sulla nozione di Ragione assoluta, sull’identità di finito e infinito e sulla presenza delle «idee» come essenze eterne delle cose finite. Per spiegare l’origine delle singole realtà limitate invece Schelling introduce la nozione di «colpa» all’interno dell’Assoluto: questo segna una nuova fase della sua riflessione. 867

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Parte terza L’idealismo

Il problema del male e la libertà La libertà come condizione della colpa

La presenza del male in Dio e la teodicea

➥ Percorso tematico, p. 321 Schelling respinge l’ottimismo metafisico

T9

Il punto più difficile della dottrina della libertà

F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana

L’adozione della teoria della caduta induce Schelling ad approfondire il problema della libertà e del male: la caduta cui egli riconduce la genesi del finito non è altro, infatti, che una separazione di questo dall’Assoluto, dall’infinito; separazione che ha come sua condizione di possibilità la libertà. Si tratta dunque di fondare la libertà del finito – intesa in senso positivo, cioè come facoltà del bene e del male, e non solo negativamente, cioè come dominio del razionale sugli istinti sensibili e sulla natura – senza abbandonare l’immanentismo degli scritti precedenti. Problema di non facile soluzione perché, una volta assunto che tutte le cose sono in Dio, il riconoscimento della realtà del male equivale ad ammettere la sua presenza in Dio stesso, cosa che risulta incompatibile con la sua perfezione. D’altronde, anche nella prospettiva non immanentistica della metafisica tradizionale, la presenza del male ha sempre costituito un problema imbarazzante, data la sua inconciliabilità con gli attributi della bontà e dell’onnipotenza divina: secondo la domanda tipica della teodicea, se Dio è buono e onnipotente, da dove deriva il male? La soluzione tradizionale di questo problema – cioè la riduzione del male a nonente, secondo l’ottimismo metafisico che va da Agostino d’Ippona (354-430) a Leibniz – risulta per Schelling insoddisfacente, in quanto la negazione della realtà positiva del male finisce per sottrarre ogni fondamento alla libertà umana. Questo dilemma – cioè la conciliabilità della perfezione divina con il male, che è necessario come condizione di possibilità della libertà – costituisce il nodo centrale delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana di Schelling, scritto fortemente suggestivo che, non a caso, a un secolo di distanza, ispirerà la meditazione del filosofo Martin Heidegger (1889-1976), il principale esponente dell’esistenzialismo tedesco del Novecento. Questo è il punto della difficoltà più profonda nell’intera dottrina della libertà, difficoltà che è stata da lungo tempo sentita, e che non riguarda semplicemente questo o quel sistema, ma li concerne tutti. Nel modo più preciso, certo, il concetto di immanenza; poiché, o si ammette un male reale, e allora è inevitabile che si comprenda il male nella sostanza infinita o nello stesso volere originario, con il che si distrugge il concetto di un essere perfettissimo: oppure in qualche modo si deve negare la realtà del male, ma con questa si dilegua insieme anche il concetto reale di libertà.

Il divenire di Dio e l’origine del male La storia di Dio: eterna dialettica

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Ricollegandosi alla tradizione mistica tedesca che aveva trovato il suo maggiore esponente in Jakob Böhme (1575-1624) e in quel tempo era rinverdita dai pensatori romantici e soprattutto da Franz von Baader, Schelling risolve questa difficoltà attraverso una rielaborazione del concetto di Dio. Egli è inteso ora come un Dio dinamico, con una storia, consistente nell’eterna dialettica tra un principio positivo e un principio negativo, che si conclude con la vittoria del primo. Ciò gli consente di ammettere il principio negativo all’interno di Dio – in modo da fondare la realtà del male e della libertà umana – senza lederne

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I due princìpi in Dio

L’analogia tra l’uomo e Dio

L’origine del male come scelta effettiva

Dall’immanentismo al teismo: il Dio-persona

Un Dio ‘quasi’ biblico

Una filosofia tragica

però la perfezione, dal momento che in Dio il positivo ha sempre il sopravvento sul negativo. Il principio negativo è definito da Schelling Grund o Urgrund, cioè «fondamento» dell’esistenza, ed è descritto come una radice oscura, connotata di volta in volta da termini allusivi a una dimensione negativa, come «volontà cieca» e «irrazionale», «impulso inconscio» ed «egoistico». Il principio positivo è invece volontà razionale e cosciente, o amore. Dio non è tale, ma diviene tale, ossia produce se stesso, traendosi fuori dal fondamento oscuro della sua esistenza. Senza quest’ultimo, dunque, non vi sarebbe neanche Dio, il quale si afferma come tale solo come vittoria sul male e sulla sofferenza che egli ha in se stesso. L’uomo è l’unico essere in cui vi è una dialettica tra principio negativo e positivo, analoga a quella attraverso la quale Dio si afferma come persona. Tuttavia, mentre in Dio l’egoismo è sempre vinto dall’amore, nell’uomo tale vittoria non sempre si realizza, e l’egoismo può portare l’individuo ad assolutizzare la propria particolarità, invece di cercare di riunirsi e riconciliarsi con l’Assoluto. In questa anteposizione della propria volontà individuale alla volontà universale risiede per Schelling il male, contrapposto al bene, che consiste nel vivere nella organicità del tutto. Così inteso, il male – pur essendo una distorsione patologica, una «malattia» – non rappresenta, però, una semplice privazione, ossia un’«assenza di bene» secondo la definizione dell’ottimismo tradizionale. Esso è una realtà positiva, proprio nella misura in cui affonda la sua radice remota, se non in Dio, nel «fondamento» di Dio, per quanto sia imputabile esclusivamente all’uomo e alla sua libertà: esso non deriva, infatti, dalla finitezza dell’uomo, presa in sé, bensì dalla scelta effettiva, concreta di elevare tale finitezza ad Assoluto, a totalità. Questa «filosofia della libertà» segna una svolta decisiva rispetto alla filosofia dell’identità, pur nel solco della parziale continuità, espressa dalla persistente affermazione della inseparabilità e identità degli opposti, natura e spirito, inconscio e conscio, in Dio. Innanzitutto, il dinamismo che ora Schelling introduce nella relazione tra questi due termini – concependo Dio come l’affermarsi del secondo sul primo – implica lo sfumare del panteismo / panenteismo immanentistici della filosofia della natura e dell’identità in una concezione teistica e personale della divinità: il Dio delle Ricerche non è più, infatti, il cosmo divino o il Dio tangibile, cioè il Deus sive natura (formula latina che letteralmente significa «Dio o la natura» e che esprime l’identificazione tra questi due concetti) vivente nelle erbe e nelle pietre, bensì un Dio-persona. Nonostante la permanente distanza rispetto alla tradizione giudaico-cristiana – che non ammetterebbe mai la presenza di un principio negativo in Dio stesso – Schelling sembra in qualche modo recuperare il principio biblico di un Dio che avrebbe creato l’uomo a propria immagine e somiglianza, e che non è estraneo e indifferente alla vicenda dell’uomo, bensì vive il suo stesso dramma della libertà, cioè la stessa lotta tra conscio e inconscio. Alla filosofia come serena contemplazione di una inalterabile pace metafisica – cioè l’identità assoluta, in cui si dissolvono tutte le differenze e tutti i contrasti – si sostituisce così la visione tumultuosa di una relazione tragica quale può essere quella tra la libertà di Dio e la libertà dell’uomo. Relazione così drammatica da potere portare al conflitto e alla ribellione, ma che non è mai tale da rendere pensabile la libertà dell’uomo come disgiunta da quella divina. 869

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Questo cambiamento di toni e di orientamento si riflette anche da un punto di vista sistematico, con un netto spostamento d’interesse dalla natura e dall’arte – le parti maggiormente sviluppate nelle fasi precedenti – alla storia e alla religione. Il residuo irrazionale Infine, l’identificazione del «volere cieco» con una parte della natura di Dio (l’edella realtà goismo umano) esprime il riconoscimento di un irriducibile residuo irrazionale, che allontana irrimediabilmente Schelling dal razionalismo assoluto che in quegli anni si stava affermando con Hegel, perché mette a fondamento del mondo e del processo storico qualcosa di non concettuale e di non formalmente razionale: il bisogno, cioè la semplice e oscura volontà di esistenza. Storia e religione

La filosofia della libertà di Schelling

Filosofia dell’identità

Afferma la teoria della caduta come giustificazione dell’esistenza delle cose individuali finite

Monismo ontologico; il finito è una parte dell’infinito, ossia dell’Assoluto

Per potersi separare dall’Assoluto (caduta) il finito deve essere libero di scegliere il male, ma allora il male è parte anche dell’Assoluto (monismo)

Rifiuto dell’ottimismo metafisico e problema di conciliare male e perfezione divina

Concezione di un Dio dinamico, in cui sono presenti due princìpi, uno positivo e uno negativo Filosofia della libertà Libertà di Dio: il positivo vince sempre

Libertà dell’uomo: può causare il male

Concezione teista di Dio e presenza di un residuo irrazionale in Dio stesso attraverso l’egoismo dell’uomo

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Filosofia negativa e filosofia positiva

La rivalutazione dell’irrazionale – che anima già le Ricerche – si accentua sempre più e porta agli ultimi sviluppi del pensiero schellinghiano, che approda a un «empirismo filosofico» fondato sulla distinzione e sull’affermazione della reciproca complementarità tra «filosofia negativa» e «filosofia positiva». Filosofia negativa L’espressione «filosofia negativa» designa il puro razionalismo, cioè il tentativo come razionalismo di dedurre dai concetti tutta la realtà. Per Schelling la ragione può cogliere unicamente l’essenza delle cose, ma non la loro esistenza. Di conseguenza, ogni filosofia puramente speculativa e fondata su argomentazioni puramente a priori può determinare soltanto il «lato negativo» della conoscenza – cioè le sue condizioni negative, senza le quali le cose non possono essere pensate – ma lascia

L’«empirismo filosofico»

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

La filosofia positiva è fondata sull’‘esperienza’ metafisica

L’annuncio di una terza fase: la religione filosofica

➥ Sommario, p. 873

L’«empirismo filosofico» di Schelling

irrisolto il problema della loro esistenza, rischiando così di sfociare in una costruzione vuota. Schelling classifica come «filosofia negativa» anche la propria filosofia dell’identità. Il culmine della «filosofia negativa» è, però, costituito ai suoi occhi dal ‘panlogismo’ del sistema di Hegel, fondato sulla pretesa di spiegare tutta la realtà come sviluppo dell’Idea logica. Per evitare il rischio di una conoscenza vuota, secondo Schelling è dunque necessario integrare la «filosofia negativa» con la «filosofia positiva», che si differenzia dalla prima proprio in quanto assume come punto di partenza non più l’a priori, bensì un dato di esperienza: di qui l’espressione «empirismo filosofico» con cui Schelling denomina quest’ultima fase del suo pensiero. L’empirismo filosofico schellinghiano si distingue, però, nettamente da quello caratteristico dell’età moderna, rivolto unicamente all’esperienza sensibile e all’analisi dei fatti psicologici, in quanto si basa su un’esperienza metafisica, cioè la rivelazione continua di Dio. La filosofia positiva esamina due forme di esperienza della divinità: 1) la «filosofia della mitologia» che ha per oggetto la «religione naturale», intesa come il manifestarsi di Dio nella natura, secondo le leggi della coscienza umana. Questo significa che per Schelling le divinità naturali del politeismo antico non sono il frutto di fantasie individuali o fenomeni culturali fortuiti, bensì il risultato del processo necessario attraverso il quale l’uomo ha naturalmente sviluppato la propria coscienza del divino, in assenza di una rivelazione positiva; 2) la «filosofia della rivelazione» che, invece, ha per oggetto la «religione rivelata» – in particolar modo il cristianesimo – in quanto si riferisce alla manifestazione diretta di Dio nella storia, che si autorivela all’uomo attraverso un atto di libertà assoluta. Secondo Schelling, soltanto attraverso questa via all’uomo è stato possibile pervenire alla conoscenza di Dio come persona vivente, che si incarna nel Figlio. Oltre alla filosofia della rivelazione Schelling presagisce, però, l’avvento di una terza fase della filosofia positiva, nella quale la religione filosofica supera sia la religione naturale sia la religione rivelata. Dal punto di vista storico, il significato di quest’ultima fase del pensiero schellinghiano consiste nella sua carica polemica nei confronti del sistema hegeliano, rispetto al quale la filosofia positiva si presenta come proposta alternativa, e con esito diverso. Polemica e proposta che non mancheranno di influire sugli sviluppi della filosofia posthegeliana dell’Ottocento, in quanto saranno riprese da quelle correnti che in vario modo si presenteranno come superamento o rifiuto della filosofia hegeliana.

Filosofia negativa: ogni filosofia razionalistica, fondata su argomentazioni puramente a priori. Coglie l’essenza delle cose

Condanna del ‘panlogismo’ hegeliano e della propria filosofia dell’identità

Filosofia positiva: una conoscenza basata su un dato di esperienza metafisica, cioè la rivelazione continua di Dio (empirismo filosofico). Cerca di cogliere l’esistenza delle cose

Filosofia della mitologia: religione naturale

Filosofia della rivelazione: religione rivelata (cristianesimo)

Religione filosofica: non ancora realizzata

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Parte terza L’idealismo Suggerimenti bibliografici Per un inquadramento generale del pensiero di Schelling, si consiglia l’eccellente Introduzione a Schelling di G. Semerari, e la lunga introduzione della raccolta di testi curata da L. Pareyson, Schelling. Presentazione e antologia, Marietti, Torino 1975. Una ricostruzione della filosofia pratica di Schelling – che spazia dalla morale alla politica alla concezione della storia – è offerta nel libro di C. Cesa, La filosofia politica di Schelling, Laterza, Bari 1969. Per un approfondimento della filosofia della natura schellinghiana, in riferimento alle scienze dell’epoca, molto ricco è il libro di F. Moiso, Vita, natura e libertà. Schelling (1795-1809), Mursia, Milano 1990. I motivi e i momenti essenziali della filosofia dell’arte schellinghiana sono esposti in maniera molto chiara nei corsi di lezioni di L. Pareyson, pubblicati sotto il nome di Estetica dell’idealismo tedesco, 3. Goethe e Schelling, a cura di M. Ravera, Mursia, Milano 2003.

I brani antologizzati sono tratti da: F. Schlegel, Lyceum der schönen Künste, in I Romantici tedeschi. Filosofia politica storia religione, a cura di G. Bevilacqua, scelta e introd. di C. Cesa e V. Verra, pp. 107-109. J.W. Goethe, Massime e riflessioni, introd. di P. Chiarini, a cura di S. Seidel, trad. di M. Bignami, Theoria, Roma - Napoli 1983. F.D.E. Schleiermacher, Discorsi sulla religione, a cura di G. Durante, Sansoni, Firenze 1947. F.W.J. Schelling, Idee per una filosofia della natura, in Id., L’empirismo filosofico e altri scritti, a cura di G. Preti, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 32. F.W.J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Semerari, Laterza, Roma Bari 1965. F.W.J. Schelling, Esposizione del mio sistema filosofico, a cura di G. Semerari, Laterza, Roma Bari 1974. F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, in Scritti sulla filosofia, la religione e la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1974.

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

Sommario 1. L’ETÀ

DI

GOETHE

E IL PENSIERO ROMANTICO

Tra Settecento e Ottocento la Germania diviene il centro di una nuova cultura che aspira a ricomporre le molte scissioni introdotte dall’Illuminismo e si articola in due movimenti diversi: il Classicismo di Goethe e Schiller, che ha come modello di armonia il mondo antico; e il Romanticismo, suddiviso nelle tre fasi di Jena, Berlino-Heidelberg, Monaco-Vienna, i cui tratti fondamentali nell’ambito filosofico sono: la ricerca dell’Assoluto come fondamento dell’Essere e del pensiero; la rivalutazione delle forme di conoscenza immediata, come l’intuizione, il sentimento e la fede; l’affermazione del ruolo gnoseologico dell’arte e della poesia; l’immanenza dell’Assoluto nella realtà e la tensione tra finito e infinito. [par. 1] Le principali teorie estetiche sono quella di Schiller – che indica nell’arte e nell’educazione estetica l’unica strada adeguata per superare la scissione – e quella di Friedrich Schlegel, che ne accentua il ruolo gnoseologico ponendo al centro di filosofia e poesia l’ironia, cioè la consapevolezza del contrasto tra finito e infinito che contraddistingue la coscienza umana. [par. 2] Il Romanticismo accoglie il panteismo spinoziano, resuscitato dalla controversia su Spinoza. La filosofia della natura è la parte filosoficamente più rilevante del pensiero di Goethe che sviluppa la teoria della «forma originaria», che segna il ritorno a uno studio qualitativo della natura. [par. 3] La rivalutazione dell’esperienza religiosa è al centro della riflessione di Schleiermacher, che attribuisce al sentimento religioso la capacità di cogliere l’infinito nel finito, come esperienza della dipendenza dell’uomo da Dio. [par. 4] Alla rivalutazione dell’individualità romantica appartiene anche la nuova attenzione per la storia che trova espressione già in Herder. La sua considerazione della storia come processo organico in cui hanno importanza alcuni momenti delle origini sarà ripresa da numerosi autori romantici. [par. 5] All’interesse per la storia è legato anche il rinnovamento del pensiero politico, incentrato sul recupero della tradizione e sui concetti di popolo e nazione, intesi come entità spirituali e culturali. [par. 6] 2. SCHELLING

Il maggior filosofo romantico è Schelling, la cui vita è segnata da una ricerca continua, stimolata dal contatto con personalità diverse per età e impostazione. [par. 1] L’evoluzione di Schelling ha come prima tappa la filosofia della natura, concepita come «Io oggettivo», in

cui sono compresenti natura e coscienza. L’omologazione tra soggettività e natura dà vita a un organicismo finalistico e immanentistico. La filosofia della natura deve la sua oggettività teoretica al parallelismo ontologico, o armonia prestabilita, tra spirito e natura, entrambi derivati dall’Assoluto. Nella natura Schelling distingue diverse «potenze», gradi differenti di rapporto tra reale e ideale. [par. 2] Parallelamente Schelling sviluppa una filosofia, o idealismo, trascendentale, che parte dal soggettivo per derivarne l’oggettivo, individuando diverse epoche della storia della coscienza: la coscienza si solleva da sensazione a intuizione produttiva, da questa in riflessione e infine in volere. Il volere segna il passaggio alla filosofia pratica, dedicata in gran parte alla storia che per Schelling è rivelazione dell’Assoluto, in quanto sintesi di un momento soggettivo – le azioni libere e consapevoli degli uomini – e di un momento oggettivo, cioè l’evoluzione delle istituzioni giuridiche verso una costituzione giuridica cosmopolitica, cui le prime contribuiscono involontariamente. La rivelazione dell’Assoluto nella storia è però graduale e perennemente incompiuta, a causa della scissione tra soggettivo e oggettivo, che contraddistingue l’agire umano. Solo l’opera d’arte – in quanto frutto del genio, sintesi di talento (oggettivo) ed esercizio (soggettivo) – costituisce la rivelazione compiuta e attuale dell’Assoluto: l’arte è dunque innalzata al di sopra della filosofia. [par. 3] A partire dal 1801 Schelling passa a una concezione monista: la filosofia dell’identità, in cui il punto di partenza è la Ragione assoluta e la filosofia diviene la forma superiore di conoscenza. Il nuovo problema è spiegare l’origine del finito in una realtà monistica: Schelling lo risolve distinguendo il finito presente nell’Assoluto sotto forma di «idee» eterne dal finito esistenziale derivato da una cesura radicale, una «caduta». [par. 4] Per conciliare il finito esistenziale con il monismo Schelling elabora la filosofia della libertà, sviluppando la tesi della lotta di un principio negativo e uno positivo in Dio. L’Assoluto è ora un Dio personale il cui divenire apre uno spazio alla libertà dell’uomo, che può generare il male. [par 5] La rivalutazione dell’irrazionale si accentua nell’ultima fase della riflessione schellinghiana con la distinzione tra filosofia negativa e filosofia positiva: questa ci permette di accedere alla realtà in quanto parte dall’esperienza metafisica della rivelazione di Dio nella natura (filosofia della mitologia), nella storia (filosofia della rivelazione) e nella filosofia (religione filosofica, ancora da venire). [par. 6]

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Parte terza L’idealismo

Parole chiave Armonia prestabilita. Concetto che Schelling deriva da Leibniz e che descrive il procedere parallelo e la corrispondenza di spirito e materia, fondata nell’Assoluto, unità indifferenziata dei due momenti. Arte. Nella filosofia romantica l’arte diviene una forma di conoscenza superiore, il cui organo è l’intuizione estetica. In Schiller prevale la sua funzione pedagogica; in Schlegel essa assume una funzione gnoseologica, che mantiene anche in Schelling durante la fase dell’idealismo trascendentale. Filosofia negativa / Filosofia positiva. Distinzione presente nell’ultima fase della riflessione di Schelling. La prima indica ogni forma di razionalismo che deduca a priori l’esistenza delle cose: la ragione, infatti, è capace di cogliere solo le essenze; la seconda indica una filosofia fondata sull’esperienza metafisica della rivelazione divina, prima nella natura (filosofia della mitologia) e poi nella storia (filosofia della rivelazione). Filosofia trascendentale / Idealismo trascendentale. La teoria parallela e complementare alla filosofia della natura che illustra l’emergere dell’oggettivo dal soggettivo, ossia il cammino della soggettività attraverso tre ambiti: filosofia teoretica, pratica e dell’arte. Forma originaria. Indica in Goethe la forma a partire dalla quale derivano, per metamorfosi, tutti gli organismi di uno specifico ambito di analisi. Identità. In Schelling ha due significati: 1) durante la sua fase dualista indica l’unità ontologica tra spirito e natura, soggettivo e oggettivo, preclusa alla filosofia e accessibile solo mediante l’arte; 2) in seguito alla svolta monista indica l’assenza di differenze all’interno dell’Essere o Assoluto, oggetto della filosofia. Immanenza / Immanentismo. Concezione che vede l’Essere, Dio o altre incarnazioni dell’Assoluto presenti nella realtà; il suo opposto è la «trascendenza» come totale estraneità dell’Assoluto rispetto al mondo. Inconscio. Termine che indica l’unità indistinta di spirito e natura prima dell’emergere della coscienza. Intuizione. La percezione immediata di un oggetto, che può essere di diversi tipi:

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1) sensibile, ossia l’acquisizione diretta dei dati della percezione (Goethe); 2) religiosa, conoscenza immediata dell’infinito attraverso il sentimento di dipendenza (Schleiermacher); 3) intellettuale, l’atto immediato di conoscenza da parte dell’Io, il cui primo oggetto è l’Io stesso (autocoscienza) (Fichte e Schelling); 4) estetica, consapevolezza immediata che esprime in forma sensibile, e quindi oggettiva, l’unità originaria di soggetto e oggetto, conscio e inconscio. Io oggettivo. Definizione schellinghiana della natura che indica la presenza in essa della coscienza (Io). Ironia. Nell’estetica di Schlegel, espressione della tensione ineliminabile tra finito e infinito che contraddistingue la coscienza umana. Natura. La sfera dell’oggettività, che i romantici pensano animata, vivente, capace di trasformazione. Schelling vi distingue vari gradi o potenze. Organicismo. Teoria che pensa la natura come un tutto in cui ogni parte sussiste solo in rapporto con la totalità. Panteismo / Panenteismo. Due concezioni del divino: la prima (dal greco pan, «tutto», e theòs, «dio») identifica Dio con la natura, per cui esiste un’unica sostanza di cui tutti gli enti sono parti; la seconda (dal greco pan en theòi , «tutto in Dio») distingue Dio dalla natura, ponendo il finito nell’infinito ma senza farli coincidere. Potenza. Il grado di differenza tra la componente «reale» (o oggettiva) e quella «ideale» (o soggettiva) presente in ognuna delle forme della natura. Principio positivo / Principio negativo. Nella filosofia della libertà di Schelling, il primo è la volontà razionale e cosciente, o amore presente in Dio, mentre il secondo, detto Grund o Urgrund, cioè «fondamento» dell’esistenza, è la «volontà cieca» e «irrazionale» che in Dio è sempre superata dal principio positivo, mentre nell’uomo può dare origine al male. Sentimento. Per i romantici una delle forme di conoscenza immediata. Come sentimento di dipendenza del finito dall’infinito ha un ruolo centrale nella filosofia della religione di Schleiermacher.

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Unità 16 Il Romanticismo e Schelling

Questionario L’ETÀ

DI

1

GOETHE

E IL PENSIERO ROMANTICO

Quali sono gli aspetti comuni e quali le principali differenze tra Classicismo e Romanticismo? (max 6 righe)

Lavoriamo sui testi 15

Qual è il rapporto tra poesia e filosofia, secondo Schlegel in T1? (max 2 righe)

2

Qual è il ruolo dell’ideale dell’«anima bella» nell’estetica di Schiller? (max 1 riga)

16

Che cosa provoca, secondo Goethe in T2, il fallimento della fisica moderna? (max 1 riga)

3

Cosa sono le scienze della vita e che ruolo hanno nella filosofia della natura romantica? (max 3 righe)

17

Qual è l’aspirazione della religione secondo Schleiermacher in T3? (max 1 riga)

18

4

Che rapporto esiste tra religione individuale e confessioni religiose secondo Schleiermacher? (max 2 righe)

Qual è la caratteristica degli organismi secondo Schelling in T4? (max 2 righe)

19

Quali sono i momenti delle origini secondo Herder e perché ciascuno è importante? (max 6 righe)

Qual è il fondamento di tutto ciò che noi pensiamo della natura secondo Schelling in T5? (max 1 riga)

20

Quale influsso hanno esercitato gli eventi storici francesi nella filosofia politica romantica? (max 4 righe)

Quali sono i due tipi di serie di fatti che non meritano il termine di «storia» e per quali motivi, secondo Schelling in T6? (max 4 righe)

21

A quale altra forma di intuizione è legata l’intuizione estetica e qual è la relazione tra le due, secondo Schelling in T7? (max 2 righe)

22

Quali sono i passaggi necessari per pensare la ragione come assoluta, secondo Schelling in T8? (max 6 righe)

23

Da dove si originano le differenze delle cose che la filosofia deve eliminare per poterle pensare come sono in sé, secondo Schelling in T8? (max 1 riga)

24

Esponi con parole tue, in un massimo di 4 righe, il dilemma che Schelling formula in T9.

5

6

SCHELLING 7

Che differenza c’è tra il Non-io fichtiano e l’Io oggettivo di Schelling? (max 2 righe)

8

Quali aspetti del finalismo kantiano sono adottati e quali sono rifiutati da Schelling? (max 8 righe)

9

Descrivi la teoria schellinghiana delle potenze, illustrandone anche la successione, in un massimo di 6 righe.

10

Che rapporto esiste tra potenze della filosofia della natura ed epoche della coscienza nell’idealismo trascendentale? (max 1 riga)

11

Quanti e quali sono i momenti della rivelazione divina nella storia, secondo Schelling nell’idealismo trascendentale? (max 3 righe)

12

Definisci in un massimo di 4 righe i contenuti della filosofia dell’identità di Schelling.

13

Che rapporto esiste tra libertà divina e libertà umana secondo Schelling? (max 2 righe)

14

Che cos’è il «lato negativo» della conoscenza e quale filosofia se ne occupa, secondo l’ultimo Schelling? (max 3 righe)

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Unità 17 Hegel 1. La filosofia come sistema della comprensione razionale 2. Un professore e le sue lezioni 3. Religione e filosofia: gli scritti giovanili 4. Gli scritti critici di Jena 5. La Fenomenologia dello spirito 6. Dalla fenomenologia alla logica 7. Il sistema: la logica 8. Il sistema: la filosofia della natura 9. Il sistema: la filosofia dello spirito 10. La filosofia dello spirito: lo spirito oggettivo 11. La filosofia dello spirito: lo spirito assoluto ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Lezioni sulla filosofia della storia

I testi Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1827-1830: Il sistema come scienza dell’Idea, T1; Le forme logiche e la realtà, T13; La natura, T14; Contro la divinizzazione della natura, T15; La conoscenza dello spirito, T16; Non tutto ciò che esiste è razionale, T18 Lineamenti di filosofia del diritto: La filosofia come nottola di Minerva, T2; Realtà e razionalità, T17; I doveri e i diritti, T20; Il cittadino come bourgeois, T21; Stato e società civile non vanno confusi, T22 Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling: La genesi della filosofia, T3 Fede e sapere: La ragione e l’Assoluto, T4

Le diverse maniere di trattare scientificamente il diritto naturale: L’importanza di una distinzione terminologica, T5 Fenomenologia dello spirito: La negazione determinata, T6; La lotta per il riconoscimento, T7 Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1817: La struttura del sistema, T8 Scienza della logica: Il contenuto della logica, T9; L’identità di pensiero ed essere, T10; La dialettica, T11; La contraddizione, T12 Filosofia della storia: Socrate come fondatore della morale, T19; Gli individui «cosmico-storici», T23

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Parte terza L’idealismo

1 La realizzazione di un obiettivo comune all’idealismo

La filosofia come sistema della comprensione razionale Il principale tratto comune ai maggiori rappresentanti dell’idealismo tedesco è l’aspirazione alla costruzione di un sistema della filosofia, cioè di un insieme organizzato di concetti, posti in relazione coerente gli uni con gli altri e volti alla comprensione della realtà. La figura di Georg Wilhelm Friedrich Hegel assume, in questo ambito, una posizione particolare: a differenza di Fichte e di Schelling che, per motivi diversi, mancano questo obiettivo, egli riesce infatti a realizzare il proprio intento presentando il sistema nelle varie edizioni della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817, 1827 e 1830). Prima di affrontare il pensiero hegeliano nei suoi diversi aspetti è opportuno, però, delineare alcune coordinate che presiedono alla sua costruzione.

La filosofia come scienza La prima cosa da sottolineare è che Hegel è ben lungi dal pensare la filosofia come qualcosa di ‘popolare’ e da affidare al senso comune: egli condivide la diffidenza, se non addirittura il disprezzo, che già Kant, ma anche Fichte e Schelling, nutrivano verso la cosiddetta «filosofia popolare» del tardo Illuminismo tedesco, che si affidava al «sano intelletto umano» (vedi Unità 13, p. 634). Per Hegel la filosofia è scienza, e sarebbe meglio dire la scienza: 1) per la sua struttura sistematica, che è l’unica adeguata alla forma più alta e completa di conoscenza vera; 2) perché è comprensione della realtà, sia di quella naturale sia, soprattutto, della realtà umana o, nel linguaggio di Hegel, dello spirito. La nozione di spirito Se si dovesse azzardare una caratterizzazione di questo termine spesso frainteso come realtà umana – almeno per quel che riguarda Hegel – lo si potrebbe intendere infatti come corrispondente alla realtà umana in quanto cultura, naturalmente intendendo questa parola in un senso piuttosto ampio, che includa tutte le forme di attività e di coscienza dell’uomo, sia quelle individuali sia quelle collettive, anche nel loro divenire storico, fino alle attività più alte che lo Hegel maturo individua nell’arte, nella religione e nella filosofia. Lo spirito non va inteso quindi in un senso eccessivamente astratto o ‘spirituale’: il mondo dello spirito è anche il mondo della determinatezza e dei bisogni degli uomini, che sono sempre mediati dall’intelligenza e che costituiscono, per dichiarazione dello stesso Hegel, il punto di partenza del suo filosofare, come egli scrive a Schelling in una lettera del novembre 1800, dove sottolinea che la sua formazione scientifica ha «preso le mosse dai bisogni più elementari degli uomini». Filosofia e conoscenza vera

La realtà come totalità L’unità del reale

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La concezione della filosofia come sistema corrisponde per Hegel a una concezione della realtà come totalità unitaria (monismo) in cui i diversi aspetti trovano una collocazione razionale, e questa totalità è intesa come una ragione assoluta e infinita che Hegel chiama Idea. L’assenza di sistematicità della riflessione filosofica esprime infatti un suo carattere soggettivistico, una pretesa di descri-

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Unità 17 Hegel

zione della realtà che, per l’appunto, non ne coglie il carattere unitario ma soltanto singoli aspetti accidentali che verrebbero estrapolati dalla loro collocazione nell’insieme. Comprendere la realtà dell’Idea o dell’Assoluto come costituita dalla totalità delle sue parti significa invece cogliere questa realtà come qualcosa di unitario, di concreto e che «si svolge in sé», quindi di dinamico.

T1

Il sistema come scienza dell’Idea Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1827-1830, par. 14 e Annotazione

La scienza di esso [l’Idea o l’Assoluto] è essenzialmente sistema, perché il vero, come concreto, è solo in quanto si svolge in sé e si raccoglie e mantiene in unità, cioè come totalità […]. Un filosofare senza sistema non può esser niente di scientifico; ed oltreché un siffatto filosofare per sé preso esprime piuttosto un modo di sentire soggettivo, è, rispetto al suo contenuto, accidentale. Un contenuto ha la sua giustificazione solo come momento del tutto, e fuori di questo è un presupposto infondato e una certezza meramente soggettiva.

Questa concezione del rapporto tra i vari elementi della realtà è per Hegel la vera caratteristica dell’idealismo: il rapporto tra l’intero e le parti non è una giustapposizione, ma una reciproca integrazione. È all’interno di questa cornice che deve essere collocato il rapporto tra infinito e finito, ovvero tra la totalità e le parti. Il filosofo sostiene infatti che la idealità del finito è «la proposizione fondamentale della filosofia»: la reale natura della finitezza, di tutto ciò che è finito, consiste nel suo essere non semplicemente opposto all’infinito, ma parte di esso e comprensibile soltanto al suo interno. L’infinito come totalità L’idea hegeliana di infinito è quindi un’idea peculiare: l’infinito consiste nella todegli aspetti finiti talità degli esseri determinati, cioè di tutti gli aspetti finiti della realtà, che sono parte del «vero infinito» (vero perché abbraccia tutto e fuori di esso non rimane nulla). L’immagine adeguata per esprimere il vero infinito è il cerchio come figura perfetta della totalità, alla quale Hegel contrappone il «cattivo» o «falso» infinito rappresentato dalla figura geometrica della linea retta, come avviene nella filosofia di Fichte, che consiste in un continuo e indefinito, e quindi inconcluso e imperfetto, superamento del Non-Io da parte dell’Io. Il cerchio è, invece, perfetto e chiuso in se stesso.

Reciproca integrazione tra totalità e parti

Comprensione razionale e dialettica Se la filosofia è – e deve essere – il sistema della comprensione della realtà, si deve però chiarire di che tipo di comprensione si tratti. Per Hegel, si tratta di comprensione razionale, concettuale, non sentimentale né intuitiva, come emerge ben presto nella sua biografia intellettuale e come viene dichiarato nella Fenomenologia dello spirito, l’opera che segna a parere di molti interpreti la rottura con Schelling e con il suo appello all’intuizione, alla conoscenza immediata. Conoscere Affidare a quest’ultima, e cioè all’immediatezza, il compito del confronto con la attraverso concetti realtà significa per Hegel abdicare a quella che egli chiama, proprio nella Fenomenologia, «fatica del concetto», ovvero rinunciare alla comprensione razionale articolata per concetti e inserita in un tessuto di connessioni sistematiche che costituisca un tutto organico, il sistema. «Il vero è l’intero» La verità, infatti, sta nell’insieme delle connessioni sistematiche («il vero è l’intero», scrive Hegel), nel movimento che le ricomprende tutte e che spiega e supera, nel proprio percorso, tutte le tensioni e le contraddizioni. La critica della conoscenza intuitiva

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Parte terza L’idealismo Integrare le contraddizioni attraverso la dialettica

Il movimento dialettico triadico: posizione, negazione, superamento

Il linguaggio del movimento dialettico

Il vero e la dialettica

Il sistema hegeliano della comprensione razionale è infatti contraddistinto dall’integrazione, al proprio interno, del carattere complesso e oggettivamente contraddittorio della realtà. Questo processo avviene attraverso la dialettica, contrapposta nella Enciclopedia alle altre «posizioni del pensiero di fronte all’oggettività», cioè alla tradizione filosofica moderna: la metafisica tradizionale di Wolff (vedi Unità 13, p. 630 s.), l’empirismo, il criticismo di Kant e la pretesa di Jacobi, dei romantici e di Schelling di affidarsi all’intuizione. La forma generale della dialettica, o dell’«elemento logico», è fatta di tre momenti. Il punto di partenza è la posizione (o tesi, come spesso si dice) di un elemento come singolo e isolato aspetto della realtà; il secondo passaggio è quello propriamente dialettico, ed è la negazione (o antitesi) della posizione iniziale, come ulteriore elemento finito e determinato; il terzo passaggio è costituito dal momento («speculativo» o «positivo-razionale», lo chiama Hegel, la sintesi) che «concepisce l’unità delle determinazioni nella loro opposizione», ovvero che supera e risolve la contraddizione tra la posizione e la sua negazione conservando, in questo superamento (Aufhebung), cioè in una nuova unità, i momenti precedenti. Quest’ultimo momento è a sua volta il punto di partenza di un nuovo movimento dialettico, e il complesso del movimento, ovvero il sistema di tutti i suoi elementi, cioè di tutte le determinazioni finite, costituisce la verità. Si tratta di una forma generale che assume varie configurazioni, anche linguistiche, e che di frequente viene espressa attraverso i termini «in sé», «per sé» e «in sé e per sé»: si parte da un’unità indifferenziata (l’«in sé»), la si ‘nega’, mostrandone la frammentazione e il suo risolversi, da unità indifferenziata, in diverse determinatezze (il «per sé»), per poi ottenere il superamento, la Aufhebung di questa contraddizione in una nuova unità articolata al proprio interno e che quindi contenga le determinatezze, ma al tempo stesso sia in sé unitaria («in sé e per sé»). Nella lettura diretta dei testi hegeliani, però, bisogna tenere conto del fatto che la trattazione del processo e l’uso della terminologia appena vista («in sé», «per sé» e «in sé e per sé») non è sempre coerente con la forma generale e non ha sempre lo stesso significato. La totalità (l’insieme di tutto ciò che esiste) non è una giustapposizione, ma una reciproca integrazione di parti La conoscenza vera della realtà sta nell’insieme delle connessioni sistematiche

Il processo di acquisizione della verità è dialettico

La struttura logica della dialettica è triadica

Primo momento: posizione (tesi)

Secondo momento: negazione (antitesi)

Terzo momento: superamento che conserva i due elementi precedenti (sintesi)

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Unità 17 Hegel

Il compito della comprensione razionale attraverso concetti trova una delle sue formulazioni più riuscite nella Prefazione alla maggiore opera etico-politica di Hegel, i Lineamenti di filosofia del diritto, che suscita al suo apparire molte polemiche per i suoi contenuti politici, ma che offre osservazioni importanti sulla funzione della filosofia e sulla sua stessa capacità di confrontarsi con la realtà. Sullo sfondo, ma ben presente, c’è la polemica di Hegel verso chi pretenda di assegnare alla filosofia una funzione didattica che vada al di là del proprio tempo, che in certo modo lo superi. In realtà il compito della filosofia è proprio comprendere ciò che è, poiché, essendo la filosofia medesima il proprio tempo appreso ‘concettualmente’, è insensato aspettarsi che lo oltrepassi. La filosofia La filosofia è sempre in ritardo, se pretende di dare insegnamenti, perché nasce come comprensione quando una certa realtà storica è ormai costituita, e non può fungere da guida. a posteriori Questa verità concettuale è dimostrata anche dalla verità storica, nella quale si vede che l’elemento ideale della filosofia coglie la natura razionale del mondo reale dal quale nasce e lo rappresenta teoricamente in un «regno intellettuale». È qui che compare la bella metafora della filosofia come nottola, ossia civetta, di Minerva (dea greco-romana della sapienza) che si alza in volo al crepuscolo: in questo modo Hegel sottolinea che essa è sì capace di comprendere il mondo concettualmente, ma solo quando quel mondo che deve comprendere, e descrivere, è invecchiato, cioè quando è ormai al tramonto.

La filosofia comprende ‘ciò che è’

T2

La filosofia come nottola di Minerva

Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione

Per dire ancora una parola a proposito del dare insegnamenti su come deve essere il mondo, ebbene, per tali insegnamenti la filosofia giunge sempre troppo tardi. In quanto pensiero del mondo essa appare soltanto dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione e s’è bell’e assestata. Questo, che il concetto insegna, mostra necessario parimenti la storia, che soltanto nella maturità della realtà l’ideale appare di fronte al reale e che quell’ideale si costruisce il medesimo mondo, appreso nella sostanza di esso, nella figura d’un regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo.

Hegel è uno dei pochi pensatori che segnano davvero uno spartiacque nella storia della filosofia, un filosofo, cioè, dopo il quale si riflette (a lungo) pro e contro il suo pensiero. Se si guarda alla filosofia dei decenni successivi, si rimane davvero impressionati dal peso che la sua opera esercita, sia che questa influenza passi attraverso la formazione di schiere di seguaci sia che, al contrario, funzioni da obiettivo polemico. Basti qualche esempio. Destra e sinistra Il XIX secolo viene attraversato dalle polemiche su Hegel già all’interno della hegeliana scuola hegeliana, secondo la divisione tra giovani e vecchi hegeliani o tra sinistra e destra hegeliana, che riguarda prevalentemente la concezione della religione e della politica. Su questi temi la sinistra hegeliana svilupperà la prospettiva di Hegel in una direzione critica – anche radicale, come nel caso di Ludwig Feuerbach (1804-1872) e Marx –, mentre la destra hegeliana assumerà un atteggiamento sostanzialmente conservatore. È in questo contesto che si fa strada anche l’idea della contrapposizione tra aspetti diversi del pensiero di Hegel, e più precisamente tra il «metodo» (dinamico, cioè dialettico) e il «sistema» (statico). Uno spartiacque nella storia della filosofia

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Parte terza L’idealismo Sistema e metodo in Hegel e negli hegeliani Hegel Sistema e metodo dialettico Concezione della religione e della politica

L’influenza di Hegel

➥ Sommario, p. 928

2

Giovani hegeliani o sinistra hegeliana

Vecchi hegeliani o destra hegeliana

Utilizzano il metodo dialettico Sono critici verso la religione e la politica, talvolta in modo radicale

Seguono prevalentemente il sistema Sono conservatori in politica e religione

Nello spazio di qualche decennio, poi, si formerà un movimento ‘neoidealistico’ ispirato a Hegel in Inghilterra, con Francis Herbert Bradley (1846-1924) e Thomas Hill Green (1836-1882), e in Italia, con Benedetto Croce (1866-1952) e Giovanni Gentile (1875-1944). È Hegel, ancora, a costituire il principale obiettivo polemico dei maggiori filosofi dell’Ottocento, Arthur Schopenhauer (1788-1860), Søren Kierkegaard (1813-1855), Friedrich Nietzsche (1844-1900), come anche di tutto il movimento del ‘ritorno a Kant’ e del neocriticismo tra Ottocento e Novecento. E si potrebbe continuare fino a tempi ben più recenti, nei quali il nome di Hegel continua a risuonare come un punto di riferimento indispensabile, positivo o negativo.

Un professore e le sue lezioni

Ci sono aspetti della vita di Hegel che hanno sempre stimolato i suoi biografi, a partire dall’aneddoto dell’albero della libertà piantato nella ricorrenza della Rivoluzione francese (che festeggerà poi ogni anno con un bicchiere di vino) insieme con i compagni del collegio teologico di Tubinga, fino alla costante ammirazione per la figura di Napoleone come espressione dello «spirito del mondo». È stata sottolineata anche la scarsa disposizione di Hegel, da tanti inteso come celebratore della potenza dello Stato, a cercare rapporti con i potenti. E ancora: Hegel è, alla fine della vita (negli ultimi anni del soggiorno berlinese, che va dal 1818 alla morte, avvenuta nel 1831), un personaggio influente, ma la filosofia idealistica non era quella di maggiore e incontrastato successo in Germania (come ci suggerirebbe il peso che oggi tendiamo ad attribuire ad essa); altrettanto Hegel non era il filosofo dominante nella Prussia del suo tempo, o anche soltanto a Berlino. Una vita come docente La biografia intellettuale di Hegel in realtà rispecchia fin troppo la forma classica assunta dai filosofi nel XIX secolo: quella del professore universitario. Hegel, infatti, è a lungo docente nelle università: insegna a Jena (a partire dal 18011802), poi (oltre a una parentesi come giornalista a Bamberga nel 1807-1808 e all’attività didattica come preside del ginnasio di Norimberga, 1808-1817) come professore ufficiale a Heidelberg e a Berlino, fino alla morte. Si tratta di un’attività d’insegnamento, insomma, che attraversa un trentennio, dal 1801 al 1831. E questa immagine condiziona più di quanto si possa pensare l’esposizione e la stessa ricezione della sua filosofia. L’Enciclopedia, ovvero l’esposizione del sistema, viene stesa proprio ai fini didattici, così come i Lineamenti di filosofia del diritto (tanto che in entrambi i casi le ampie annotazioni ai paragrafi devono svolgere, lo dichiara lo stesso Hegel, la funzione di chiarimento didatticamente affidata, di regola, alla trattazione orale). Hegel e il suo tempo

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Unità 17 Hegel L’importanza delle lezioni di Hegel e gli appunti degli allievi

➥ Sommario, p. 928

Ma la questione è ben più complessa. Molti degli argomenti per i quali la filosofia di Hegel ha esercitato una profonda influenza sono disponibili soltanto attraverso la trascrizione di appunti di studenti presenti alle sue lezioni. Ciò significa che parti importanti della filosofia hegeliana ci sono note non grazie agli scritti dello stesso Hegel, ma grazie a fonti diverse. In alcuni casi, la trascrizione delle lezioni ha fornito un importante contributo per la comprensione del pensiero di Hegel (è il caso per esempio delle lezioni sulla filosofia del diritto, che sono state pubblicate a partire dal 1974), collocandosi quelle lezioni accanto a testi a stampa stesi e pubblicati dallo stesso Hegel. Ma in altri casi, la presenza di testi provenienti da mani diverse, che danno conto delle sue lezioni, costituisce in effetti l’unica – o almeno la principale – opportunità per conoscere e approfondire aspetti importanti della filosofia hegeliana, come la filosofia della storia, la storia della filosofia, l’estetica e la filosofia della religione, per prendere gli esempi più significativi. Il ruolo del professore, insomma, non è nel caso di Hegel un mero dato biografico. E ne costituisce una sorta di conferma il fatto che suoi grandi critici come Schopenhauer, Kierkegaard o Nietzsche abbiano sovente polemizzato contro la cultura accademica della quale Hegel è stato uno dei più illustri e prestigiosi rappresentanti.

La vita e le opere Georg Wilhelm Friedrich Hegel nacque nel 1770 a Stoccarda, capitale del granducato di Württemberg, nella Germania sud-occidentale, da una famiglia luterana di origine austriaca; il padre era occupato nell’amministrazione granducale. Dopo una prima formazione nel ginnasio della sua città, Hegel compì i suoi studi di filosofia e di teologia dal 1788 al 1793 nel seminario teologico di Tubinga, destinato alla formazione del clero protestante. Qui incontrò il suo coetaneo Hölderlin e, dal 1790, Schelling. Con loro condivise l’entusiasmo per la Rivoluzione francese tanto che piantarono, insieme ad altri, un ‘albero della libertà’ per celebrarne l’anniversario. In quegli anni Hegel lesse Kant, Herder, Rousseau; studiò gli illuministi tedeschi e seguì con attenzione i dibattiti contemporanei che coinvolsero Fichte, Jacobi, Goethe, assistendo alla nascita del Romanticismo e dell’idealismo. Approfondì inoltre i classici greci, che aveva già conosciuto negli anni della sua prima formazione a Stoccarda. Terminati gli studi, non volle abbracciare la carriera ecclesiastica e preferì lavorare come precettore privato: dal 1793 al 1796 fu a Berna, dove scrisse i frammenti su Religione popolare e cristianesimo (1792-1794), la Vita di Gesù (1795) e La positività della religione cristiana (1796), tutti lavori che documentano il suo interesse per la religione e che rimasero sconosciuti e inediti fino agli inizi del Novecento. Successivamente, fino al gennaio del 1801, fu a Francoforte, dove ritrovò Hölderlin. Negli anni francofortesi Hegel scrisse Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (1798-1800) e il Frammento di sistema (1800), anch’essi inediti. Durante gli anni di Berna e Francoforte iniziò anche il

suo interesse per la politica e per l’economia, coltivato con un’assidua lettura dei giornali inglesi. Nel 1799, l’anno in cui in Francia Napoleone Bonaparte compì il colpo di Stato con cui abbatté il Direttorio, il padre di Hegel, morendo, gli lasciò un’eredità sufficiente ad abbandonare il lavoro di precettore e a dedicarsi solamente agli studi. Nel 1801, Schelling, professore nella locale università, lo chiamò a Jena, il centro della cultura romantica, dove avevano già insegnato Reinhold e Fichte, Schiller e i fratelli Schlegel. In quel medesimo anno ottenne l’abilitazione all’insegnamento con la dissertazione De orbitis planetarum («Sulle orbite dei pianeti»), in cui sosteneva la superiorità di una scienza della natura ancora intrisa di elementi neoplatonici come quella di Keplero rispetto alla prospettiva meccanicistica di Newton e pubblicò il suo primo scritto, la Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling. Insieme con Schelling dette vita dal 1802 al 1803 al «Giornale critico della filosofia», i cui principali bersagli polemici erano Jacobi e Fichte. Sulla rivista uscirono numerosi articoli di Hegel, fra i quali spiccano per importanza Il rapporto dello scetticismo con la filosofia, Le diverse maniere di trattare scientificamente il diritto naturale e Fede e sapere o la filosofia della soggettività nella completezza delle sue forme come filosofia di Kant, di Jacobi, di Fichte. Lasciò inediti, invece, La costituzione della Germania e il Sistema dell’eticità. Tra il 1802 e il 1806 – gli anni in cui Napoleone consolidava il suo potere facendosi nominare primo console (1802) e poi imperatore (1804), e iniziava la sua politica espansionistica in Europa – Hegel tenne all’università di Jena corsi di logica e metafisica, filosofia della natura e

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filosofia dello spirito: di questi corsi restano numerosi materiali che testimoniano il progressivo formarsi del sistema hegeliano e che sono stati pubblicati postumi. Nell’autunno del 1806 terminò la Fenomenologia dello spirito, ultimata durante la battaglia di Jena vinta dall’esercito napoleonico su quello prussiano: Hegel, che nutrirà sempre una grande ammirazione per Napoleone, scrisse a un amico di aver assistito all’ingresso in città dell’imperatore e di aver visto passare a cavallo lo «spirito del mondo». Nella Prefazione alla Fenomenologia pubblicata nel 1807 a Bamberga, dove dirigeva un giornale, Hegel sembrò criticare la filosofia di Schelling e questo determinò la fine del loro sodalizio. Nel 1808 divenne rettore del ginnasio di Norimberga: in questa città, nella quale rimase fino al 1816, sposò nel 1811 Maria Elena von Tucher da cui ebbe due figli, Karl e Immanuel (un altro figlio era nato dalla relazione con la sua affittacamere a Jena nel 1807). A Norimberga pubblicò la Scienza della Logica, che uscì in tre volumi dal 1812 al 1816.

3 Gli scritti sul cristianesimo

Nel 1816, in un’Europa ormai pacificata dopo la sconfitta di Napoleone e il congresso di Vienna (1814-1815), Hegel venne chiamato all’università di Heidelberg dove, l’anno successivo, pubblicò come testo per il suo corso l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, in cui compare per la prima volta la compiuta esposizione del sistema: essa venne ripubblicata altre due volte, nel 1827 e nel 1830, integrata di vari paragrafi e di annotazioni esplicative. Dal 1818, e per il resto della sua vita, Hegel fu professore all’università di Berlino, capitale del regno prussiano. In questi anni pubblicò i Lineamenti di filosofia del diritto (1821) e tenne corsi di grande successo dedicati alla filosofia del diritto, alla filosofia della storia, alla storia della filosofia, alla filosofia della religione, all’estetica, che furono raccolti e pubblicati dagli allievi dopo la sua morte. Il 14 novembre 1831, a Berlino, Hegel morì, ancora nel pieno della sua attività di insegnante, probabilmente in seguito a un’infezione di colera.

Religione e filosofia: gli scritti giovanili I primi scritti di Hegel sono un gruppo di abbozzi sul cristianesimo pubblicati solo nel 1907 da Hermann Nohl (1879-1960) con il titolo (non di Hegel) Scritti teologici giovanili. Si tratta di un gruppo di testi di grande interesse che vengono stesi da Hegel tra il 1793 e il 1800 a Berna e a Francoforte (dove fa il precettore): attraverso l’analisi del cristianesimo, emergono qui anche alcuni concetti che avranno un peso nella filosofia hegeliana successiva. Certo non si tratta da parte di Hegel, nell’affrontare il cristianesimo, di un interesse strettamente teologico, né di un interesse erudito o filologico: il problema è piuttosto quello del significato storico del cristianesimo e delle sue modificazioni, oltre al contenuto morale e, per certi versi, politico della religione come «popolare» e «positiva».

Il confronto con il cristianesimo attraverso Kant Il confronto con il cristianesimo è, per Hegel, anche l’occasione per confrontarsi con Kant, e in particolare con la sua teoria morale.

Hegel e il tema della scissione Sullo sfondo del confronto di Hegel con il cristianesimo e con Kant, c’è il modello della grecità come unità armonica dell’uomo e come perfetta integrazione tra l’uomo antico e la comunità alla quale appartiene, la pòlis; si tratta di un modello che costituisce un punto di riferimento per Hegel, oltre che per molti suoi contemporanei. Il modello armonico e unitario della pòlis e della civiltà

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greca è un tema che Hegel trae dalle suggestioni dei poeti Schiller (vedi Unità 16, p. 843 s.) e Hölderlin (vedi Unità 16, p. 847) e che rimarrà costante nella sua riflessione: la frammentazione, la scissione, la divisione costituisce un carattere del mondo moderno che deve essere ricomposto e riportato all’unità. È il primo passo verso quell’indagine sulla realtà come totalità che costituisce il tratto caratteristico della filosofia di Hegel.

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Unità 17 Hegel

Gesù e l’etica kantiana

Gesù e la legge dell’amore

Il rifiuto della dottrina kantiana dei postulati

La critica dell’ortodossia teologica

Hegel e la morale kantiana

Nel primo scritto, steso tra il 1792 e il 1794 – Religione popolare e cristianesimo –, la religione popolare, ossia radicata nei costumi, e che coinvolge la fantasia e il cuore dei cittadini, è quella della pòlis greca, alla quale si contrappone il cristianesimo come religione fondata sulla precettistica esteriore e su un apparato autoritario. Nello scritto su La vita di Gesù, Gesù è una sorta di apostolo dell’etica razionalistica kantiana, con la quale Hegel sembra sentire una profonda affinità, ma nel corso del tempo è proprio sul piano morale che Hegel indica con sempre maggiore forza i limiti del criticismo. L’errore di Kant consiste nell’essersi limitato a spostare all’interno del soggetto quel legalismo e quella rigida obbedienza che la religione ebraica collocava in un’autorità esteriore, in Dio come origine della Legge. Il fatto che nell’etica kantiana il comando venga dalla natura razionale dell’uomo non la rende, a parere di Hegel, meno legalistica rispetto all’etica ebraica, poiché in entrambe tutta la moralità si esaurisce nell’obbedienza a un comando, come viene esplicitato in modo netto nello scritto su Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (1798-1800). Alla legge morale universale e formale Hegel contrappone in quest’opera «l’amore» come principio di unificazione. La figura di Gesù viene ora riletta come incarnazione della divinità, e quindi come ricomposizione, soluzione di un’opposizione che corrisponde a quella tra Dio e mondo, tra sovrannaturalità e naturalità. Parallelamente alla critica del legalismo, ricordiamo, per quel che riguarda Kant, una seconda obiezione rivolta da Hegel alla filosofia critica. Hegel non può accettare, infatti, la soluzione data da Kant al problema della felicità con la dottrina dei postulati (vedi Unità 14, p. 701 s.): partito dall’affermazione dell’assolutezza del dovere, e dalla necessità di rispettare la legge morale senza altri fini che questo stesso rispetto, Kant finisce per postulare l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima per potere garantire agli uomini la possibilità di raggiungere la felicità. Con la feroce ironia che lo caratterizza, Hegel dichiara esplicitamente il suo dissenso da questa «confortevole e rosea teoria della provvidenza, che nei giorni nostri forma la chiave di volta della nostra teoria sulla felicità». Già in uno scambio di lettere del gennaio 1795, infatti, sia Schelling sia Hegel avevano espresso un duro giudizio sulla dottrina dei postulati e sull’uso in difesa dell’ortodossia che ne facevano i «teologi di Tubinga» (Tubinga era il massimo centro di formazione del clero protestante luterano), i quali, aveva scritto Schelling, assumevano «tutti i dogmi possibili» come «postulati della ragion pratica». E Hegel, che a differenza di Schelling non subisce mai troppo il fascino della filosofia di Fichte – per quanto ne venga influenzato –, pensa che anche lo scritto che inaspettatamente ha dato la notorietà a Fichte (il Saggio di una critica di ogni rivelazione) corra lo stesso rischio dei «teologi di Tubinga». Iniziale adesione di Hegel alla morale kantiana: Gesù è una sorta di apostolo dell’etica razionalistica kantiana Distacco da Kant: – la sua è una morale legalistica poiché si esaurisce nell’obbedienza a un comando – all’etica kantiana è contrapposto Gesù come portatore della legge dell’amore Critica della dottrina dei postulati: – è consolatoria – i teologi ne abusano per dimostrare tutti i dogmi possibili

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La preminenza della religione sulla filosofia La religione ha una posizione di preminenza sulla filosofia nell’ultimo di questi scritti giovanili, il cosiddetto Frammento di sistema del 1800. È proprio l’esigenza di unificazione che abbiamo visto emergere negli scritti precedenti che fonda ora la superiorità della religione. In questo frammento, Hegel afferma che nella religione si coglie l’unità molteplice della «vita», che costituisce il principio unificatore della realtà come processo che include in sé le opposizioni. Grazie alla religione, viene superata l’opposizione tra soggetto e oggetto, e quindi tra finito e infinito, prodotta dalla filosofia: la vita è «unione dell’unione e della non-unione», unione quindi dell’identità (unità), e della differenza (opposizione, molteplicità). La religione Ed è un’unità che può essere colta solo intuitivamente con la religione (per cui e l’intuizione alcuni interpreti hanno parlato, a proposito di questo scritto, di un ‘misticismo’ hegeliano). La vita è insomma, in questo momento della biografia intellettuale di Hegel, l’Assoluto che ricomprende le opposizioni, in modo dinamico, al proprio interno. Sarà questo, da ora in poi, il grande tema della filosofia hegeliana: capacità di pensare la molteplicità e le opposizioni e, allo stesso tempo, ricomprenderle in un’unità. Ma ben presto sarà la filosofia, e cioè la ragione, ad assu➥ Sommario, p. 928 mere una posizione di preminenza.

La vita come principio unificatore

4 Il confronto con la filosofia contemporanea

Gli scritti critici di Jena L’arrivo a Jena, nel 1801, è anche l’ennesima conferma, per Hegel, del riuscito sodalizio con l’antico compagno di Tubinga, Schelling, che, nel frattempo, ha raggiunto la notorietà con i suoi scritti di filosofia trascendentale e di filosofia della natura e che lo ha voluto accanto a sé. A Jena, oltre a lavorare ad abbozzi di un sistema della filosofia, Hegel sviluppa i temi già affrontati negli anni precedenti avviando un confronto esplicito, e pubblico, con la filosofia contemporanea. È per questo che gli scritti di questi anni hanno prevalentemente un tono critico, anche se documentano l’emergere di alcuni elementi chiave del pensiero di Hegel.

Il bisogno della filosofia Storia della filosofia ed epoche storiche

La distinzione tra intelletto, che scinde, e ragione, che ricompone

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Il primo intervento pubblico del giovane filosofo lo si ha proprio a Jena, con esplicito richiamo a Schelling, nello scritto sulla Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, nel quale, tra l’altro, Hegel prende posizione sulla genesi della riflessione filosofica. In realtà, queste considerazioni di Hegel si collocano all’interno di un «esame storico di sistemi filosofici», e annunciano la posizione dello Hegel maturo sulla storia della filosofia: ogni filosofia esprime la propria epoca, cioè i problemi e le scissioni che la caratterizzano. Egli tematizza anche con chiarezza, sulla traccia di alcune indicazioni di Kant, il diverso ruolo svolto dall’intelletto e dalla riflessione rispetto alla ragione, per cui mentre ai primi spetta il compito della scissione, e di fissare le opposizioni, la ragione è ciò che è (e deve essere) capace di ricomporre l’unità. L’interesse della ragione consiste nel superare le opposizioni senza negarle, e l’idea corretta della totalità, cioè della realtà, è quella che comprende in sé le opposizioni.

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Unità 17 Hegel

T3

La genesi della filosofia

Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Primi scritti critici

La scissione è la fonte del bisogno della filosofia e, come cultura di un’epoca, l’aspetto condizionato, dato della figura […]. I contrasti, che nel passato – sotto la forma di spirito e materia, anima e corpo, fede e intelletto, libertà e necessità ecc., ed altri ancora in sfere più circoscritte – erano in diverse maniere importanti e avevano attirato a sé tutto il peso degli interessi umani, sono trapassati, con il progresso della cultura, nella forma di contrasti tra ragione e sensibilità, intelligenza e natura, e, in rapporto al concetto universale, assoluta soggettività e assoluta oggettività. L’unico interesse della ragione è di togliere queste opposizioni che si sono consolidate. Ma non nel senso che la ragione si opponga all’opposizione e alla limitazione in quanto tali: la scissione necessaria è un fattore della vita, che si plasma eternamente mediante opposizioni, e la totalità è possibile nella più alta pienezza di vita solamente quando si restaura procedendo dalla più alta divisione. Ma la ragione si oppone all’atto che fissa assolutamente la scissione operata dall’intelletto, tanto più perché gli assolutamente opposti sono scaturiti essi stessi dalla ragione. Quando la potenza dell’unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni hanno perduto il loro rapporto vivente e la loro azione reciproca e guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno della filosofia.

Finitezza e razionalità

L’emergere della nozione di Assoluto

La critica della filosofia della soggettività

Hegel: la filosofia è superiore alla fede

Gran parte dello scritto sulla Differenza è poi dedicata alla critica della filosofia contemporanea, kantiana e postkantiana. In primo luogo Hegel definisce la sua nozione di Assoluto come realtà razionale e infinita. Reinhold ha frainteso l’idea di sistema: una semplice tesi, una «proposizione fondamentale assoluta», non può riuscire ad articolarsi in sistema. Kant e Fichte hanno colto il principio della speculazione razionale, ma hanno affermato la ragione nella sola forma soggettiva, come opposta all’oggettività e alla natura, e quindi come finita; Schelling, infine, che Hegel contrappone a Fichte, è l’unico che ha colto correttamente l’Assoluto come identità di soggettività e oggettività. La critica del punto di vista filosofico che non sa liberarsi della prospettiva della finitezza, rimanendo per questo soggettiva, è essenziale anche nell’altro grande scritto critico di Jena, del 1802: Fede e sapere o la filosofia della soggettività nella completezza delle sue forme come filosofia di Kant, di Jacobi, di Fichte. Il confronto di Hegel con la filosofia contemporanea, così come con quella passata, risponde qui a criteri prevalentemente teorici, non a criteri di verosimiglianza storica. Hegel ritiene, infatti, di avere individuato negli autori che prende in considerazione, e cioè Kant, Jacobi e Fichte, l’esito estremo di una filosofia soggettivistica e ancorata al punto di vista della finitezza. Si è così concluso, per il filosofo, il «ciclo completo» delle forme della «metafisica della soggettività» che è stata iniziata da Lutero: quest’ultimo, però, ha avuto il merito di inaugurare il diritto dell’interiorità della coscienza dell’individuo, e non è responsabile della degenerazione di questo principio prima nell’Illuminismo e poi nella filosofia di Kant, di Jacobi e di Fichte. Per la «metafisica della soggettività», dice Hegel, l’Assoluto è qualcosa che va al di là del sapere e non può essere attinto che attraverso la fede. Per Kant, in887

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fatti, ciò che va al di là del fenomeno non può essere conosciuto per principio, per Jacobi il limite della ragione finisce per ridurla a una sorta di ‘istinto’, seppur «universalmente soggettivo», cioè comune a tutti, e lo stesso Fichte (che nel frattempo ha modificato in direzione religiosa alcuni aspetti della propria filosofia, con La destinazione dell’uomo, del 1800; vedi Unità 15, p. 810 s.) finisce per affidarsi alla fede per cogliere l’Assoluto, che non è attingibile dalla ragione. Hegel, che pure ha avuto la tentazione, negli anni precedenti, di affidarsi alla religione e di dare ad essa la preminenza, ha invece ormai una posizione integralmente razionalistica che celebra le capacità della ragione. L’assolutizzazione della finitezza e dei limiti della ragione che caratterizza Kant, Jacobi e Fichte rappresenta l’innalzamento a sistema di tutti i difetti della filosofia illuministica, e finisce per mostrare l’impotenza della ragione.

T4

La ragione e l’Assoluto

Fede e sapere, in Primi scritti critici

Hegel e la «metafisica della soggettività»

Secondo Kant il soprasensibile non può essere conosciuto dalla ragione, l’idea suprema non ha insieme anche realtà; secondo Jacobi «la ragione si vergogna di mendicare e non ha per scavare né mani né piedi»; all’uomo è dato solo il sentimento e la coscienza della sua ignoranza del vero, solo il presentimento del vero nella ragione, che è soltanto qualcosa di universalmente soggettivo, un istinto. Secondo Fichte, Dio è qualcosa d’incomprensibile e d’impensabile, il sapere nulla sa se non che nulla sa, e deve trovar rifugio nella fede. Secondo tutti, l’assoluto, per l’antica distinzione, non può essere né contro né a favore della ragione, bensì al di sopra di essa.

Lutero ha inaugurato il diritto dell’interiorità della coscienza dell’individuo

La prospettiva soggettiva è vincolata alla finitezza

Kant: ciò che va al di là del fenomeno non può essere conosciuto per principio

Jacobi: il limite della ragione finisce per ridurla a una sorta di ‘istinto’, seppur «universalmente soggettivo»

Fichte: finisce per affidarsi alla fede per cogliere l’Assoluto, che non è attingibile dalla ragione

Hegel: i filosofi contemporanei restano ancorati alla finitezza e non colgono l’infinito ossia l’Assoluto

Hegel: solo la filosofia, ossia la ragione, ci permette di cogliere l’Assoluto

La Germania non è più uno Stato Politica e critica del giusnaturalismo

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Parallelamente alle riflessioni critiche sulla «metafisica della soggettività» di Kant e di Fichte, Hegel matura in alcuni scritti di questi anni considerazioni importanti anche sulla condizione politica della Germania e, da un punto di vista filosoficamente più impegnativo, sulla filosofia pratica della tradizione giusnaturalistica, inclusi Kant e Fichte.

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Unità 17 Hegel

Tra il 1801 e il 1802 Hegel stende uno scritto, rimasto anch’esso inedito per lungo tempo, su La costituzione della Germania. La diagnosi hegeliana è di grande chiarezza e di grande incisività fin dall’esordio del testo, che muove proprio dalla sconsolata constatazione che «la Germania non è più uno Stato», come dimostrano la sua frammentazione territoriale e politica e, soprattutto, la sua incapacità di far fronte alle minacce esterne, fattasi evidente nella rapida capitolazione di fronte alle armate francesi. La situazione della Germania dimostra, per Hegel, il fallimento dello Stato-macchina settecentesco, ovvero dello Stato di quel dispotismo illuminato, di quel Polizeistaat («Stato di polizia», inteso nel significato settecentesco di «Stato amministrativo», non nel senso attuale di «Stato repressivo»), che aveva esercitato ancora una notevole influenza, e un fascino, su Fichte (vedi Unità 15, p. 815 ss.). E sono dirette contro Fichte, e contro l’ossessivo apparato di controllo del Fondamento del diritto naturale e dello Stato commerciale chiuso, le frecciate di Hegel verso «la pedantesca mania di regolare ogni particolare». Necessità La libertà inutilmente conculcata da Fichte deve essere invece per Hegel mandi rinnovamento tenuta per i sudditi dello Stato; per la salvezza dello Stato tedesco, poi, il filosofo dello Stato tedesco si professa esplicitamente seguace dell’atteggiamento di Machiavelli nell’Italia a lui contemporanea, e auspica l’arrivo dall’esterno di un «novello Teseo» (il mitico eroe fondatore della città e dello Stato ateniesi) che rinnovi la Germania. Il fallimento del dispotismo settecentesco

Moralità ed eticità L’attacco al giusnaturalismo

La nuova nozione di eticità

La «bella eticità» greca

L’emergere del mondo dei bisogni

Il testo più importante di riflessione etico-politica, in questi anni, è però il complesso saggio su Le diverse maniere di trattare scientificamente il diritto naturale, dove Hegel, ancora in nome della totalità (stavolta sul piano etico-politico), attacca la tradizione giusnaturalistica sia nella sua versione ‘empirica’ (Hobbes), sia nella sua versione ‘formale’ (Kant e Fichte). Nel primo caso si tratta di una concezione della vita sociale fondata sulla molteplicità di individui empirici particolari giustapposti l’uno all’altro, mentre nel secondo si muove da un principio universale e a priori (il soggetto morale o l’Io), ma non si riesce comunque a superare l’opposizione tra la soggettività e il mondo oggettivo in cui il diritto dovrebbe essere realizzato. Oltre a sviluppare la critica all’etica kantiana e alla concezione etico-giuridica di Fichte, questo scritto è importante perché presenta al pubblico, per la prima volta, la nuova concezione hegeliana di una «eticità» diversa dalla, e per certi versi contrapposta alla, semplice «moralità», due termini per i quali Hegel utilizza intenzionalmente due parole tedesche diverse: Sittlichkeit per «eticità» e Moralität per «moralità». Il punto centrale della questione è intendere la vita morale come qualcosa di innanzitutto individuale, come per Hegel hanno fatto sia Kant sia Fichte (sostenitori di una semplice moralità), invece che come qualcosa di immerso nella vita collettiva, secondo il modello della pòlis greca. Hegel contrappone cioè la vita comunitaria greca, che definisce «bella» eticità, alla moralità individualistica e propriamente moderna, che ha trovato le sue formulazioni più avanzate nelle filosofie di Kant e di Fichte. A questo modello individualistico corrisponde del resto per Hegel – e sulle tracce della riflessione hegeliana si muoverà anche Marx – il nuovo mondo economico dei bisogni, del lavoro e di una divisione in classi sociali, che in questi anni sta rice889

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Parte terza L’idealismo

vendo la sua attenzione (è di questo periodo, infatti, anche l’interesse per l’economia politica) e che nello Hegel maturo darà corpo alla nozione di società civile. Totalità etica e popolo Nell’eticità genuina, cioè antica, il tutto precede le parti ed è maggiore della somma di esse, il popolo è quindi precedente al singolo, come Hegel ricorda citando Aristotele e anche sottolineando che «l’assoluta totalità etica nient’altro è che un popolo». E i filosofi moderni, costruendo una moralità individualistica, sono perfettamente consapevoli di differenziarsi dalla prospettiva dell’eticità come vita collettiva, perfino per le parole che usano. Secondo Hegel, infatti, questi filosofi moderni hanno ben presente che non descrivono un’eticità, un ethos, un costume inteso collettivamente, ma qualcosa di diverso perché irriducibilmente individualistico, e sono costretti a usare, per distinguere il loro concetto da quello classico, la nuova parola ‘moralità’ (termine che deriva da quello latino, mos, che pure designa al pari di quello greco, ethos, il «costume» di un popolo o di un singolo).

T5

L’importanza di una distinzione terminologica

Le diverse maniere di trattare scientificamente il diritto naturale, in Scritti di filosofia del diritto (1802-1803)

Armonia del mondo classico e perdita dell’unità

Notiamo anche, a questo proposito, un’indicazione del linguaggio, altre volte rifiutata ed invece giustificata da quanto precede, [il fatto cioè] che è proprio della natura dell’eticità di essere universale ovvero ethos; quindi la parola greca che designa l’eticità e la parola tedesca esprimono in maniera eccellente questa sua natura, mentre i moderni sistemi dell’eticità, che elevano a principio un per sé e una singolarità, non possono tuttavia evitare di riferirsi a queste parole, e questa interiore allusione si rivela così potente che quei sistemi, non potendo abusare di quelle parole per designare il loro proprio oggetto, dovettero adottare la parola moralità, che invero all’origine esprime lo stesso concetto, ma che, essendo soltanto una parola appena formata, non si erge altrettanto contro il suo meno opportuno significato. In questi anni, il mondo moderno viene visto prevalentemente, da Hegel, come il mondo della perdita della «bella unità» dell’uomo greco con la sua comunità, la pòlis (vedi Hegel e il tema della scissione, p. 884). È anche questo genere di considerazione storica, come si è detto, che mette al centro dell’orizzonte il tema teorico della scissione e della frammentazione. Hegel si trova, in questo scritto, ancora sul piano del rimpianto per la perdita dell’armonia e dell’unità del mondo classico, secondo il modello inaugurato da Schiller e Hölderlin. Nel volgere

Il pensiero di Hegel a Jena

Ogni filosofia esprime la propria epoca, cioè i problemi e le scissioni che la caratterizzano Distinzione intelletto / ragione e riconoscimento della ragione come strumento di ricomposizione delle opposizioni Critica della «metafisica della soggettività» e razionalismo Superiorità della filosofia sulla religione per la comprensione dell’Assoluto Hegel a Jena

Emergere di una nuova concezione politica: – critica dello Stato illuminista – ricerca di un nuovo modello costituzionale per la Germania – critica del giusnaturalismo

Nuova concezione dell’eticità: – riconoscimento dell’importanza della società civile e del mondo dei bisogni – distinzione concettuale tra moralità ed eticità nei moderni che si esprime attraverso una distinzione terminologica

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5 A Jena, anni d’intensa rielaborazione sistematica

di pochi anni, invece, egli imparerà a vedere nell’individualismo e nella libertà moderni una conquista e un arricchimento, e successivamente si farà strada anche l’idea che lo stesso Stato moderno possa rappresentare una nuova forma di unità e quindi di eticità distinta da quella, immediata, rappresentata dalla società antica. Sarà questa, come vedremo, la soluzione definitiva della riflessione etico-politica hegeliana.

La Fenomenologia dello spirito Gli anni di Jena sono per Hegel anni di riflessione intensissima, durante i quali egli progetta – e stende – vari abbozzi e versioni di un «sistema della filosofia» che dovrebbe costituire un’esposizione sistematica del proprio pensiero, e al contempo tiene corsi di lezione di logica e metafisica, di filosofia del diritto e, per la prima volta nel semestre invernale 1805-1806, di filosofia della natura e di storia della filosofia. È di questi anni, anche, un rinnovato confronto con le filosofie di Kant e di Fichte che, a parere di alcuni interpreti, costituisce un parziale riavvicinamento alle loro posizioni e che svolge un ruolo nella stesura di uno dei più bei testi della storia della filosofia, la Fenomenologia dello spirito.

L’idea di una «fenomenologia» Critica del sapere apparente e degli errori della sensibilità

Il cammino dello spirito verso il sapere vero

L’evoluzione della coscienza verso il sapere assoluto

Vediamo innanzitutto di chiarire il titolo dell’opera. Il termine «fenomenologia» era stato introdotto, per Hegel e per i suoi contemporanei, da Johann Heinrich Lambert, che così aveva intitolato la quarta parte della sua opera Nuovo Organo (1764). Lambert descrive questa parte come «fenomenologia o dottrina dell’apparenza», che ha lo scopo di eliminare l’apparenza per conoscere il vero. Ma non solo: Kant stesso aveva progettato (Hegel non può ignorarlo) di scrivere una «fenomenologia generale» come introduzione di tipo ‘negativo’ alla metafisica, ovvero che sgombrasse il campo dagli errori legati alla sensibilità. Queste due fonti, rielaborate in una costruzione di grande complessità, confluiscono nella concezione hegeliana della fenomenologia. L’idea di una critica del sapere «apparente» e quindi l’idea di un’introduzione alla scienza filosofica (che abbia anch’essa forma scientifica) sono fondamentali per capire l’uso hegeliano del termine. Hegel intende infatti descrivere un processo che, attraverso diverse forme di sapere apparente, giunga al sapere vero che è costituito dal sapere assoluto, il punto d’arrivo della Fenomenologia. Il processo, seguendo il titolo, ha per soggetto lo spirito, che conosce se stesso attraversando le diverse forme di consapevolezza e di attività umane (la cultura, in un senso ampio), sia individuali sia collettive, che si rivelano tutte provvisorie se prese per sé stesse, ma che ricevono un significato se collocate nel processo complessivo. Lo spirito percorre varie tappe per giungere al sapere di se stesso, cioè al sapere assoluto, alla conoscenza di sé da parte dell’Assoluto. Il processo prende le mosse dal sapere più semplice e immediato, cioè dalla coscienza nella figura della certezza sensibile, attraverso un percorso nel quale, progressivamente, la coscienza crede ogni volta di possedere un sapere che si rivela, però, apparente, ed è questa presa di coscienza che determina il passaggio alla tappa successiva e 891

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quindi tutto l’andamento del percorso. In questo modo, Hegel conserva due aspetti della propria filosofia ai quali tiene molto: 1) l’idea della verità come processo e non come qualcosa di statico (è questo il significato dell’affermazione «la sostanza [l’Idea] si è fatta soggetto»); 2) l’idea che «il vero è l’intero», come scrive proprio nella Prefazione della Fenomenologia per difendere il principio che la verità consiste nella connessione sistematica delle parti, e non in proposizioni singole disgiunte tra loro. La verità consiste quindi nell’intero processo. Momenti e figure La Fenomenologia dello spirito è articolata in un percorso fatto di diversi «model percorso menti» che costituiscono le parti dell’opera e che sono Coscienza, Autocoscienza, Ragione, Spirito, Religione, Sapere assoluto. Ciascun momento si articola poi in «figure», che costituiscono delle esemplificazioni sia di tipo ideale sia di tipo storico, e che possono avere carattere e contenuti molto diversi.

La fenomenologia come cammino e come formazione La Fenomenologia narra, attraverso molteplici passaggi, una sorta di storia. Si tratta di un «cammino», come scrive più volte Hegel, cioè del succedersi di diversi momenti e di diverse figure che costituiscono vere e proprie tappe del sapere, che nella sezione, o momento, sullo spirito (in senso stretto) corrispondono a figure in successione di una sorta di filosofia della storia, a partire dal mondo antico dell’eticità greca fino alla filosofia tedesca contemporanea a Hegel. Il termine «spirito» ha quindi in quest’opera due significati: 1) l’intero processo, dalla coscienza al sapere assoluto; 2) un determinato momento, quello in cui si traccia una filosofia della storia che, a differenza di quanto avverrà nei cicli di lezioni sull’argomento, Hegel non limita agli avvenimenti storico-politici. Una molteplicità Una delle difficoltà della Fenomenologia dello spirito è infatti proprio la moltedi esperienze plicità di piani su cui ci si muove, fermo restando il suo carattere di percorso progressivo e ascensionale, che attraverso le diverse tappe ha per esito la sezione sulla religione (nelle sue varie forme) e quella sulla filosofia come sapere assoluto, ovvero come spirito che conosce se stesso. Lungo il percorso si incontrano elementi della natura più varia che vanno a formare le diverse figure: forme di coscienza individuale, posizioni filosofiche, tipi di società o di relazione intersoggettiva, fasi storiche, modelli letterari, forme di religione.

I due significati di «spirito» nella Fenomenologia

Hegel e i modelli filosofici e letterari della Fenomenologia I modelli ai quali Hegel si ispira, in un’opera che costituisce per la sua ricchezza e per la sua complessità un unicum nella letteratura filosofica, sono diversi. Sul piano filosofico, gli antecedenti prossimi sono la «storia pragmatica dello spirito umano» della Dottrina della scienza fichtiana e il Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling. Ma a questo proposito si deve tenere conto anche del fatto che la successione progressiva di diversi «modi di vedere il mondo» (e quindi di diverse «figure») è presente anche in certi testi di Fichte di tipo ‘popolare’ – tra i quali alcuni sono contem-

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poranei alla Fenomenologia – come la Destinazione dell’uomo (del 1800, sicuramente nota a Hegel), le lezioni sulla Essenza del dotto (1805) o l’Avviamento alla vita beata (1806). Una seconda fonte di ispirazione, poi, è di tipo letterario, ed è costituita dai cosiddetti Bildungsromane, i «romanzi di formazione», come l’Emilio (1762) di Rousseau, il Wilhelm Meister (1796) di Goethe, il romanzo epistolare Iperione (1797-1799) di Hölderlin: in tutti questi casi, il protagonista del racconto attraverso varie vicende porta a compimento la propria formazione (la Bildung), giungendo infine a una compiuta maturazione intellettuale, sentimentale o morale.

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Il percorso hegeliano prende le mosse dalla forma di coscienza più bassa, la «coscienza sensibile», e passa attraverso i diversi momenti e le diverse figure per giungere al sapere assoluto. Il processo della coscienza viene definito da Hegel come «la via del dubbio o, più propriamente, la via della disperazione»: il metodo espositivo consiste infatti nell’illustrare il succedersi dei momenti e delle figure secondo un processo che viene mostrato come necessario e nel quale un ruolo fondamentale – di qui il richiamo al «dubbio» – viene svolto dallo «scetticismo». Le forme del sapere e della coscienza vengono infatti progressivamente mostrate come insufficienti, e attraverso questa insufficienza viene evidenziata la necessità di passare a una figura successiva: per questo il percorso è detto anche «via della disperazione». Il negativo Lo sviluppo delle figure e dei momenti mostra quindi nell’intento di Hegel al come elemento tempo stesso, le ragioni che conducono a una determinata figura del sapere e le dinamico ragioni che stanno a fondamento della sua insufficienza e del passaggio alla figura successiva. Il procedimento negativo, tipico dello scetticismo, non è, dunque, soltanto negativo, ma è anche principio dinamico dello sviluppo da una tappa all’altra: emerge, nella Fenomenologia, la peculiarità della negazione secondo Hegel, ovvero il suo darsi come negazione determinata.

Un percorso attraverso la via del «dubbio» e della «disperazione»

Il ruolo positivo della negazione Una negazione produttiva

Rifiuto dello scetticismo e negazione determinata

T6

La negazione determinata

Fenomenologia dello spirito, Introduzione

Lo scetticismo si limita a negare, quindi non riesce che a produrre il nulla, il vuoto, mentre il procedimento di Hegel intende la negazione in modo determinato. Esso nega aspetti determinati della figura che viene presa in esame e produce quindi, a sua volta, una nuova figura che porta in sé la traccia di ciò che è stato negato. Si tratta insomma di una forma di negazione che potremmo chiamare ‘produttiva’, come Hegel mostra in un complesso brano dell’opera. Ciò che conta, come viene sottolineato sia in apertura sia in chiusura del brano, è il processo complessivo, il ciclo completo delle forme della coscienza, che si realizza nell’intera serie delle forme e delle figure. Alla coscienza protagonista di questo processo, cioè alla coscienza «naturale» (ovvero quella che ha la tendenza spontanea ad assumere le varie forme e figure prima di scoprirne i limiti), la negazione appare, infatti, una negazione assoluta, indeterminata, com’è quella dello scetticismo: ad essa si rivela soltanto il carattere negativo della propria consapevolezza di possedere un sapere non verace, un sapere apparente. Mentre tuttavia la negazione indeterminata produrrebbe il nulla, la negazione determinata nega quella specifica forma di coscienza che è volta per volta presa in esame, e da questa negazione determinata il processo viene spinto in avanti verso una nuova forma. La negazione determinata ha quindi un carattere anche positivo, non solo negativo: è ciò che permette il progredire dell’intero processo e gli dà la direzione. Il ciclo completo delle forme della coscienza resulterà dalla necessità stessa del processo e della concatenazione. Per render ciò concepibile si può preliminarmente notare in generale che la presentazione della coscienza non verace nella sua non verità, non è un movimento meramente negativo, qual è invece secondo il modo di vedere unilaterale della coscienza naturale; e un sapere che di tale unilateralità faccia la propria essenza è una delle figure della coscienza imperfetta e, co893

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me tale, rientra a sua volta nel corso di tale itinerario, e ivi verrà a mostrarsi. Questa figura non è che lo scetticismo il quale nel resultato vede sempre soltanto il puro nulla, e astrae dal fatto che questo nulla è per certo il nulla di ciò da cui resulta. Ma il nulla preso come il nulla di ciò da cui resulta, non è, in effetto, se non il resultato verace; quindi è esso stesso un nulla determinato e ha un contenuto. Lo scetticismo che termina con l’astrazione del nulla o con la vacuità, non può da questa procedere oltre, ma deve aspettare se gli si possa mostrare un che di nuovo per gettarlo nel medesimo vuoto abisso. Se invece il resultato viene inteso come in verità esso è, come negazione determinata, ecco che allora è immediatamente sbocciata una nuova forma, e nella negazione è stato aperto il passaggio pel quale avviene lo spontaneo processo attuantesi attraverso la completa serie delle figure. Un percorso guidato

Dalla coscienza individuale alla coscienza collettiva

Figure storiche

Il percorso della coscienza, nella Fenomenologia, è un percorso guidato, e per la precisione guidato dall’analisi filosofica che lo governa, descrivendo il succedersi dei passaggi. La progressiva consapevolezza dei propri limiti raggiunta in ciascuna tappa, e il passaggio a quella successiva, costituiscono cioè un processo durante il quale il filosofo che sta narrando questa «storia della coscienza» ha un ruolo determinante nell’indirizzarlo. A complicare la struttura dell’opera hegeliana c’è il fatto che, in realtà, inizialmente è la coscienza singola che passa attraverso le varie fasi della propria maturazione, della propria formazione, che sono coscienza, autocoscienza e ragione, per poi diventare, a partire dalla sezione sulla ragione, un mondo composto dall’operare di diverse coscienze, cioè «dall’operare di tutti e di ciascuno», passando dal piano della coscienza individuale a quello collettivo. Nella sezione sullo Spirito, questa coscienza collettiva come mondo storico assume a sua volta diverse figure, che corrispondono a diversi periodi storici come la storia di Roma, a movimenti culturali come l’Illuminismo o a eventi storici come la Rivoluzione francese. Il percorso non è però sempre lineare, e contiene una serie di digressioni, e di esempi, che danno luogo a ulteriori difficoltà.

I caratteri della Fenomenologia dello spirito

Ha lo scopo di eliminare l’apparenza per conoscere il vero

Descrive un processo che attraverso diverse forme di sapere apparente giunge al sapere vero Ha per soggetto lo spirito che procede verso la conoscenza di sé attraverso tutte le forme del sapere umano Fenomenologia dello spirito

È articolata in sei momenti e molte figure che costituiscono delle esemplificazioni sia di tipo ideale sia di tipo storico La negazione determinata è essenziale per passare da una figura alla successiva

È un processo guidato dall’analisi filosofica

Evoluzione dalla coscienza individuale a quella collettiva

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Unità 17 Hegel

I momenti e le figure del processo

La coscienza: dimensione conoscitiva e contrapposizione agli oggetti

La certezza sensibile

La percezione

L’intelletto

L’autocoscienza: aspetto pratico e figure storiche

La vita come appetito e la ricerca del riconoscimento

Il rapporto tra le autocoscienze

Definite le caratteristiche del metodo hegeliano, vediamo le caratteristiche dei momenti e delle figure che compaiono nella Fenomenologia. I momenti sono, lo si è detto, sei: coscienza, autocoscienza, ragione, spirito, religione, sapere assoluto. Il primo momento, la coscienza, è composto da tre figure, che sono la certezza sensibile, la percezione e l’intelletto. Tutte condividono un tratto particolare che è la dimensione conoscitiva, tanto più caratteristico in quanto nella Fenomenologia il tratto dominante è quello della consapevolezza dell’agire, del sapere pratico, sia esso inteso in senso individuale o collettivo. Inoltre, si tratta qui di atteggiamenti nei quali la coscienza si contrappone, per conoscerli, agli oggetti che si trova di fronte. Con la certezza sensibile la coscienza è convinta di raggiungere il massimo della concretezza, legata alla sua identificazione di un ‘questo’, di ciò che è ‘qui e adesso’, ma in realtà si tratta del massimo dell’astrazione e della indeterminatezza, poiché ogni ‘qui e adesso’ è diverso da ogni altro: ciò che qui e adesso è una cosa sarà in un altro luogo e in un altro momento, cioè in un altro ‘qui e adesso’, qualcosa di differente. È così che si passa alla «percezione», che è anch’essa impigliata nella contraddizione tra l’unicità di una cosa e la molteplicità delle qualità che contraddistinguono questa cosa (la mela è un oggetto, ma ciò che la caratterizza sono una molteplicità di qualità come la rotondità, il colore, la dimensione e così via). Altrettanto contraddittoria, poi, è la condizione dell’intelletto, caratteristica della scienza meccanica della natura di Newton, ma anche del ragionamento dell’uomo comune. L’oggetto non appare più come dato immediato e nemmeno più come cosa, ma come fenomeno, cioè come manifestazione di una forza che agisce secondo una legge. È la legge che dà coerenza al fenomeno, e quindi il fondamento unitario non è più nell’oggetto, ma nel soggetto che pensa e formula la legge: l’esito di questa figura è allora volgersi non più all’esterno, ma all’interno di sé, nel momento successivo dell’autocoscienza. L’autocoscienza costituisce un momento di particolare importanza della trattazione hegeliana per due motivi. Innanzitutto, non ci si muove più su un piano esclusivamente conoscitivo ma si comprende anche un aspetto pratico; inoltre, da ora in avanti, pur rimanendo all’interno di una «scienza dell’esperienza della coscienza», Hegel inserisce nell’esposizione rimandi ed esemplificazioni attraverso figure storiche. Quello dell’autocoscienza, tra l’altro, è il momento della Fenomenologia che ha ottenuto la maggiore attenzione nel corso del XX secolo. La ricerca della certezza di se stesso che caratterizza l’autocoscienza muove dalla «vita», radicata per Hegel nella dimensione antropologica dell’appetito (cioè il bisogno, o il desiderio), e ha il suo centro nella necessità, per l’autocoscienza, di essere riconosciuta: qui viene utilizzata quella figura del riconoscimento intersoggettivo e della sua necessità per la costituzione dell’autocoscienza che era stata presentata per la prima volta da Fichte nel Fondamento del diritto naturale, dove si affermava che l’uomo diventa tale soltanto tra gli uomini (vedi Unità 15, p. 808 s.). La costituzione della propria individualità e della propria libertà autocosciente – per Hegel e, prima, per Fichte – dipende cioè dall’esistenza di un altro essere libero e autocosciente che è in grado di dare appunto «la certezza di se stesso». Come già in Fichte, però, questo riconoscimento non può avvenire soltanto sul 895

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piano teoretico, conoscitivo, ma implica una dimensione pratica, attiva, che costituisce ciò che Hegel chiama la «lotta per il riconoscimento». A differenza che nel rapporto con gli oggetti, il rapporto con un’altra autocoscienza è cioè condizione della verità e della realtà della propria autocoscienza. E questa reciprocità sembra condizione necessaria per entrambe le autocoscienze.

T7

La lotta per il riconoscimento Fenomenologia dello spirito, 4, A. 2

Dapprima l’autocoscienza è semplice essere-per-sé, è eguale a se stessa, perché esclude da sé ogni alterità; a lei sua essenza e suo assoluto oggetto è l’Io; ed essa in questa immediatezza o in questo essere del suo essere per sé è qualcosa di singolo. Ciò che per lei è un altro, lo è come oggetto inessenziale, segnato col carattere del negativo. Ma l’altro è anch’esso un’autocoscienza; un individuo sorge di fronte a un individuo. In questa posizione immediata gli individui sono l’un per l’altro a guisa di oggetti qualunque; sono formazioni indipendenti e, – dacché l’oggetto essente si è qui determinato come vita, – sono coscienze calate nell’essere della vita, le quali non hanno ancora compiuto l’una per l’altra il movimento dell’assoluta astrazione, consistente nel sopprimere ogni essere immediato, e nell’essere soltanto l’essere puramente negativo della coscienza eguale a se stessa; ossia son coscienze le quali non si sono ancora presentate reciprocamente come puro esser-per-sé, vale a dire come autocoscienze. Ciascuna è bensì certa di se stessa, non però dell’altra; e quindi la sua propria certezza di sé non ha ancora verità alcuna, perché di una sua verità si potrebbe parlare qualora il suo proprio esser-per-sé le si fosse presentato come oggetto indipendente, o, ciò che è lo stesso, l’oggetto si fosse presentato come questa pura certezza di se stesso. Ma, secondo il concetto del riconoscere, ciò non è possibile se non in quanto, come l’altro oggetto per il primo, così il primo per l’altro compia in se stesso questa pura astrazione dell’esser-per-sé mediante l’operare proprio, e, di nuovo, mediante l’operare dell’altro.

Al contrario che in Fichte, la concretezza della lotta per il riconoscimento non si realizza per Hegel nel rapporto tra soggetti che si riconoscono nel rapporto giuridico, ma consiste in una lotta per la vita e per la morte che si conclude con la morte di uno dei due contendenti o con il rapporto di signoria e servitù caratteristico del mondo antico: la lotta per il riconoscimento si conclude quindi, in realtà, con il fallimento di esso. In questo nuovo rapporto tra signore e servo, inizialmente soltanto il signore è riconosciuto come indipendente e libero: il signore, infatti, è tale perché è stato disposto a rinunciare alla vita pur di essere riconosciuto, ma non è stato disposto a rinunciare alla libertà, mentre il servo, dal canto suo, è stato disposto a rinunciare alla libertà pur di conservare la vita, ma non è stato disposto a rinunciare alla vita per conservare la propria libertà. Le forme di libertà Sembrerebbe quindi che il rapporto tra il signore e il servo si risolva con il dodel servo: stoicismo minio del primo sul secondo. In realtà, però, il progredire dell’autocoscienza pase scetticismo sa attraverso la figura del servo, perché diventa centrale la figura del «lavoro», ciò che spiega il successo di questa figura nella tradizione marxista. Il signore, infatti, finisce per dipendere dal lavoro del servo, che è capace di dominare e controllare i propri appetiti e di dare una forma alle cose: questa sua indipendenza produce allora una forma ulteriore di libertà. Questa forma ulteriore è però soltanto una libertà del pensiero tipica di una situazione di schiavitù, che viene raffigurata da Hegel nello «stoicismo» e nella libertà soltanto negativa, che vorrebbe annullare ogni aspetto della realtà, dello «scetticismo». Il fallimento del riconoscimento e la servitù

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Unità 17 Hegel La «coscienza infelice»: religiosità e devozione medievale

La ragione: celebrazione e critica della ragione moderna

Il velleitarismo della ragione

Esempi letterari

Verso la piena consapevolezza individuale

La propria assoluta mutevolezza e contraddittorietà caratteristica dello scetticismo ha per risultato, infine, la figura della «coscienza infelice» che proietta in un aldilà ciò che è immutabile ed essenziale, ovvero ciò che è assoluto: si crea così una separazione assoluta e radicale tra l’uomo e Dio, ciò che per Hegel rappresenta la religiosità e la devozione medievale. È da questa scissione assoluta della coscienza con se stessa che nasce la necessità di rintracciare l’Assoluto non in un aldilà, ma in se stessa, ovvero nell’assolutezza della ragione, come certezza di essere ogni verità. Il momento della ragione contiene la celebrazione e al tempo stesso la critica della ragione moderna, insieme con il punto d’appoggio per il passaggio al momento dello spirito e, quindi, alla filosofia della storia. L’esposizione di Hegel muove dalla «ragione osservativa», che nel confronto con le leggi della natura ha la pretesa di riconoscere la propria presenza nella realtà, di enunciare leggi logiche separate e di individuare le leggi della vita psichica. In questo ambito si colloca la critica della psicologia settecentesca o di discipline diffuse alla fine del Settecento come la «fisiognomica» fondata dal pastore evangelico Johann Kaspar Lavater (1741-1801), per la quale le espressioni del volto rivelano caratteristiche dell’anima o dello spirito, o la «frenologia», che tenta di ricondurre atteggiamenti spirituali alla configurazione del cranio o del cervello. Il confronto con la sfera pratica («L’attuazione della coscienza razionale mediante se stessa») viene sviluppato nella figura del tentativo di realizzazione di sé da parte dell’autocoscienza razionale: qui si presenta il tema, costante nella filosofia di Hegel, di soggetti che tentano di agire e di realizzare se stessi nel mondo senza tenere conto delle caratteristiche oggettive di esso. Si tratta, per Hegel, di tentativi velleitari, che sono necessariamente condannati all’insuccesso e che vengono descritti facendo riferimento ad atteggiamenti o a personaggi della letteratura a lui contemporanea. Il mito faustiano ripreso da Goethe in un suo dramma, in questo contesto, funge da modello di ispirazione per la pretesa di realizzarsi nella ricerca, necessariamente frustrata, del piacere; mentre il ‘masnadiero’ schilleriano (il personaggio di Karl Moor, nei Masnadieri, divenuto bandito di strada ma impegnato a combattere torti e ingiustizie) cerca di imporre al mondo la sua legge del cuore e così facendo termina in un «delirio della presunzione». Infine, la stessa velleitaria pretesa della virtù fallisce, proprio perché il «corso del mondo», il modo in cui le cose effettivamente si svolgono, non viene modificato dall’astratta affermazione della virtù, e quest’ultima necessariamente soccombe. L’ultima figura della ragione esamina «l’individualità che è a se stessa reale in sé e per se stessa», dove l’accento va posto innanzitutto, pur con i limiti anche di questa figura, sulla realtà dell’individualità, contrapposta al velleitarismo delle figure precedenti. In essa il processo si suddivide ulteriormente in tre figure. La prima, «Il regno animale dello spirito, o la cosa stessa», vuole preparare il terreno per il successivo passaggio allo spirito. Lo stesso titolo (regno «animale») vuole probabilmente indicare questa presenza ‘iniziale’ dello spirito. L’agire delle diverse individualità si è ora fatto reale, ed è un operare di tutti e di ciascuno che produce un risultato, un operare effettuale in cui ciascuno deve tenere conto anche dell’operare altrui, pretendendo però, contemporaneamente, di essere l’esclusivo autore del risultato. Ciò è tanto vero che le due figure kantiane che vengono prese di mira nei due passaggi ulteriori («La ragione legislatrice» e «La ragione esaminatrice delle leggi») rappresentano proprio – o tornano a rappresentare – l’aspetto individuale di un agire in cui ognuno vuole seguire i propri principi. 897

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Parte terza L’idealismo La critica a Kant: una morale tautologica o vuota

Lo spirito: delineazione di una filosofia della storia

La «bella eticità» greca non è più rimpianta

Antigone e la frammentazione dell’eticità greca

La cultura come estraniazione rispetto all’armonia greca

L’Illuminismo e la Rivoluzione francese

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Qui troviamo la critica della morale di Kant che Hegel ha già espresso altrove (per esempio nel saggio sul diritto naturale) e che tornerà a sviluppare sia nelle pagine successive della Fenomenologia dedicate alla moralità (nella sezione sullo Spirito), sia, ampiamente, nella Filosofia del diritto del 1821. La moralità kantiana, secondo Hegel, o non riesce a dare indicazioni concrete su ciò che è giusto e buono, poiché si arresta all’universalità e alla formalità della legge, e si risolve quindi in una tautologia (non posso violare la proprietà perché ciò contraddice alla nozione della proprietà, ma ciò non dimostra, sostiene Hegel, che la proprietà sia giusta); o pretende di determinare arbitrariamente la validità di qualcosa, che invece, in realtà, non dipende dal giudizio di un soggetto, ma da ciò che è valido oggettivamente. In entrambi i casi, si tratta di una prospettiva insostenibile, o per la sua vuotezza, o perché intende la moralità come qualcosa di arbitrario. Con il momento dello spirito entriamo in una prospettiva ben più ampia di quella sviluppata sinora, nella quale ci si era limitati a delineare le figure della coscienza. Si tratterà ora di tracciare non soltanto figure della coscienza, ma vere e proprie «figure di un mondo»: viene qui delineata, cioè, una filosofia della storia, che dalla «bella eticità» del mondo greco arrivi al mondo a Hegel contemporaneo. Le tappe di questo percorso sono l’«eticità», la «cultura» e la «moralità». Il modello della vita greca, già presente negli scritti giovanili fino alla tematizzazione della nozione di eticità nello scritto sul diritto naturale, costituisce per Hegel ancora un modello di vita comune in cui il rapporto dell’individuo con il popolo, con la pòlis, è un rapporto armonico e di sostanziale identificazione. Tuttavia ciò non significa più per Hegel leggere la storia all’insegna del rimpianto, perché conquiste non meno significative si sono avute, nel frattempo, grazie al mondo moderno. L’armonia tra individuo e popolo si rompe, nell’eticità greca, con la figura sofoclea di Antigone e con il suo conflitto con Creonte: con la fedeltà alla legge divina della prima (che seppellisce il fratello morto in nome del rispetto verso le leggi sacre e non scritte) contrapposta alla legge statale del secondo (che ha vietato la sepoltura di un traditore della patria). È una frattura irrecuperabile, che porta al termine dell’eticità antica nell’impero romano, dove gli individui non sono ormai che soggetti giuridici (del diritto romano) formali, privi di un significato pubblico che li colleghi al tessuto sociale al quale appartengono, e dove vige una semplice «condizione giuridica». Per Hegel, il mondo moderno che caratterizza la «cultura» (Bildung) è il mondo che si è reso estraneo a sé, che si è «estraniato», «alienato», come scrive Hegel usando un termine che avrà notevole fortuna in Feuerbach, in Marx e nel marxismo. Dal punto di vista teorico, si deve inserire questo momento nel movimento concettuale tipicamente hegeliano che a partire da un’unità immediata (in questo caso: l’eticità antica), si estrania, ovvero si esteriorizza e si frammenta verso l’esterno (la cultura) già con il mondo romano, e infine torna in sé recuperando l’unità attraverso un nuovo termine unitario che ‘conserva’ anche le caratteristiche dei momenti precedenti e le rende parti del nuovo intero così ottenuto. È il processo di frammentazione della bella eticità antica. La cultura ha il suo esito nell’Illuminismo, al quale Hegel riconosce una funzione critica dirompente innanzitutto contro la fede e la superstizione, ma poi anche contro lo Stato, sino a sfociare nella libertà assoluta e nel «Terrore», fenomeni che rappresentano con chiarezza la Rivoluzione francese e il suo svolgi-

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Unità 17 Hegel

Dalla libertà alla moralità

Una nuova critica a Kant: la contraddittorietà della dottrina dei postulati

L’«anima bella»

La religione e il sapere assoluto: itinerario e rivelazione dell’Assoluto

Le forme della religione: naturale, artistica, rivelata

mento, con il netto e pesante giudizio hegeliano sul Terrore giacobino (il periodo più cruento della Rivoluzione francese). L’esito della Rivoluzione francese, di cui Hegel sempre riconosce la grandezza come evento storico, non è però soltanto un fallimento, altrimenti, Hegel lo dice espressamente, il processo dovrebbe ricominciare dall’inizio e non vi sarebbe in esso nessuna razionalità. La mossa di Hegel è in questo caso duplice e consiste, da un lato, nell’affermare che la libertà assoluta e il terrore che ne deriva sono pur sempre espressione della negatività di una «volontà universale», la quale volontà è anche la volontà caratteristica della moralità, dall’altro, nel mostrare il passaggio dello «spirito autocosciente» in «un’altra regione»: è come dire, in questo contesto, che l’avanzamento dello spirito è ora affidato non più alla Francia, ma alla Germania, e per la precisione alla figura della moralità (la Moralität criticata già a Jena) come «spirito certo di se stesso», che viene vista ora da Hegel come una conquista del mondo moderno. La figura della «moralità» è dominata dalle critiche all’etica kantiana, con in più il confronto, critico anch’esso, con le concezioni preromantiche (Schiller) o romantiche. Per l’etica kantiana, Hegel torna su un punto debole che già in gioventù aveva ritenuto di individuare nella dottrina dei postulati (vedi p. 885): questa cerca di integrare con l’aiuto di nuovi elementi (Dio e l’immortalità), e quindi con la realizzazione dell’unione di virtù e felicità nel sommo bene, una disposizione morale che dovrebbe essere, invece, autosufficiente (per le stesse premesse kantiane che predicano «il dovere per il dovere»). La pretesa di realizzare il sommo bene induce allora a indicare un fine irrealizzabile se non attraverso i «postulati della ragion pratica», e mina alle fondamenta la possibilità concreta di fare qualcosa di buono. La figura della moralità è poi conclusa dalla critica dell’etica romantica che pretende di ergersi a giudice della realtà con l’immediatezza arbitraria del suo sentire individuale o con la pretesa purezza dell’«anima bella», che richiama i personaggi di Schiller o di Goethe (vedi Unità 16, p. 843), ma che rischia di scadere nell’ipocrisia e, ancora una volta, nel velleitarismo. Religione e sapere assoluto si collocano su un piano diverso rispetto alle figure precedenti, poiché non si tratta più dell’itinerario della coscienza, individuale o collettiva, ma dell’Assoluto che si rivela all’uomo, e quindi a se stesso: «lo spirito manifesta quindi sé a se stesso», in forma ancora incompleta nella religione, e in forma compiuta nel sapere assoluto, cioè nella filosofia, dove viene saputo l’intero percorso fenomenologico, cioè l’intero movimento dei momenti e delle figure viste fino a quel punto. Sia nella religione sia nel sapere assoluto, in modi diversi, lo spirito ha quindi se stesso come proprio oggetto, anche se nella religione esso ha ancora una forma rappresentativa e non è, ancora, identico a se stesso. Si compie, qui, quella rivalutazione della filosofia rispetto alla religione cominciata negli scritti di Jena (vedi p. 887 s.). La religione si articola in tre diverse forme, a partire dalla «religione naturale o immediata» dei popoli orientali e degli egiziani, rappresentata nella luce, nelle figure naturali (piante e animali) e nella geometria degli obelischi e delle piramidi. La forma oscura di queste rappresentazioni si chiarisce con la «religione artistica» della civiltà greca: qui si procede attraverso le varie forme artistiche, dalla rappresentazione della figura umana nella statua, alla tragedia, alla commedia. In quest’ultima la presenza dell’ironia e del pensiero razionale vanifica le figure della divinità e inizia il movimento verso la «religione rivelata» propria del 899

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Parte terza L’idealismo

cristianesimo. Nel cristianesimo, il tema centrale è quello dell’incarnazione e della «morte di Dio», della morte dell’uomo-divino che risorge all’interno della comunità. È l’ultima figura, questa, della forma rappresentativa in cui viene espresso l’Assoluto, e quella che permette il passaggio al sapere assoluto. Sapere assoluto Il sapere assoluto è il sapere concettuale, lo spirito che sa se stesso e che coglie e verità dell’intero la necessità e la funzione di tutte le figure precedenti, ovvero del percorso fenomenologico nella sua interezza. L’essenziale di questo punto d’arrivo è il suo carattere di sapere dinamico, processuale, che include in sé la storia. La certezza che ha costituito il punto di partenza del processo è ora la verità dell’intero, che ➥ Sommario, p. 928 ha superato ogni contrapposizione tra soggettività e oggettività. La struttura della Fenomenologia dello spirito

Coscienza: – la certezza sensibile, il «qui e adesso» – la percezione, la molteplicità – l’intelletto, dal fenomeno al soggetto

Autocoscienza: Itinerario della coscienza individuale

– vita e appetito – lotta per il riconoscimento – il rapporto servo / padrone – scetticismo e stoicismo – coscienza infelice

Ragione: – ragione osservativa: fisiognomica e frenologia – ragione attiva: tentativi velleitari di affermazione – l’individualità reale

Spirito: Itinerario della coscienza collettiva

– eticità greca, figura della rottura è Antigone – cultura come estraniazione, culmina nell’Illuminismo, nella Rivoluzione francese e nel Terrore – moralità e libertà (Kant) – critica della dottrina dei postulati – il fallimento dell’«anima bella»

Religione:

Manifestazioni dello spirito

– religione naturale o immediata – religione artistica – religione rivelata

Sapere assoluto: – lo spirito conosce se stesso e la necessità di tutti i momenti e le figure precedenti

6 Due diverse vie di accesso alla verità

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Dalla fenomenologia alla logica Si è così compiuto, nella Fenomenologia, il percorso necessario per la conoscenza della totalità, mostrato appunto come un cammino verso un sapere che può essere ora illustrato nelle sue parti costitutive. Attraverso queste, Hegel può

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Unità 17 Hegel

La logica hegeliana non è solo formale

L’oggetto della logica: è una parte del sistema ma anche la sua struttura

Le trattazioni della logica

L’articolazione del sistema

➥ Sommario, p. 928

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La struttura del sistema

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1817, par. 11

ora affrontare la struttura metafisica del pensiero e della realtà che viene trattata, di lì a qualche anno, nella Scienza della logica e poi, in forma compiuta, nella Enciclopedia. Si tratta, per la Fenomenologia e per la Enciclopedia, di due diverse vie di accesso alla verità, e quindi di due diverse vie di esposizione del sistema: 1) la prima come un processo ascendente dalla coscienza ingenua al sapere assoluto; 2) la seconda come articolazione delle diverse parti del sistema nella sua totalità. All’interno del sistema la logica possiede in effetti uno statuto peculiare. Innanzitutto, sulla base della coincidenza tra forme del pensiero e strutture della realtà, Hegel afferma l’unità tra logica e metafisica, e nega quindi che la logica sia una disciplina semplicemente formale, come era stata considerata nella tradizione aristotelica. Ma non solo. La logica è da un lato, come scienza della logica, una parte del sistema, insieme con la filosofia della natura e con la filosofia dello spirito: la logica ha infatti per proprio oggetto una dimensione particolare che costituisce, in generale, l’«elemento logico» (das Logische). Questo elemento, però, non è caratteristico soltanto di una scienza, di una disciplina del sistema, ma riguarda tutte le parti di esso proprio perché costituisce la struttura stessa della scienza e, quindi, della realtà. L’elemento logico, dunque, è presente su tutti i piani della considerazione filosofica perché corrisponde al metodo stesso della filosofia. Se la logica costituisce la prima parte, la fondazione del sistema, è perché essa affronta quell’elemento logico che caratterizza la razionalità della realtà e che deve essere ritrovato nella realtà della natura (filosofia della natura) e nell’intera realtà umana (filosofia dello spirito). La logica viene affrontata da Hegel sia nell’opera specifica dedicata ad essa, Scienza della logica (pubblicata tra il 1812 e il 1816), sia nelle varie versioni dell’Enciclopedia, ovvero nell’esposizione del sistema, di cui Hegel offre diverse edizioni, nel 1817, nel 1827 e nel 1830, con differenze notevoli soprattutto tra l’edizione di Heidelberg del 1817 e quelle berlinesi del 1827 e 1830. La logica non è però l’unica parte del sistema a trovare una trattazione autonoma: una parte della filosofia dello spirito, lo spirito oggettivo, trova infatti anch’essa una trattazione propria, nei Lineamenti di filosofia del diritto. L’articolazione del sistema nelle tre parti dedicate alla logica, alla filosofia della natura e alla filosofia dello spirito rimane costante in Hegel: la stessa presentazione del sistema fatta nell’Enciclopedia del 1817 ne spiega la struttura – anche qui – attraverso il tipico movimento triadico hegeliano di un’unità di partenza dell’elemento logico (la logica), che si fa esterno a sé (filosofia della natura), e che infine compie il processo tornando in sé (filosofia dello spirito). L’intero della scienza è l’esposizione dell’idea; la sua partizione può quindi venir compresa solo partendo da questa. Ora poiché l’idea è la ragione uguale a se stessa, la quale, per esser per sé, si contrappone a sé ed è a sé un altro, ma in quest’altro è uguale a se stessa, così la scienza si scinde nelle 3 parti 1) la logica, la scienza dell’idea in sé e per sé; 2) la filosofia della natura, come la scienza dell’idea nel suo esser altro; 3) la filosofia dello spirito, come scienza dell’idea che ritorna in sé dal suo esser altro. 901

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Parte terza L’idealismo Due vie verso il sapere assoluto

Hegel vuole guidarci alla conoscenza dell’Assoluto, alla verità

Prima via

Seconda via

Processo fenomenologico: percorso ascendente

Il sistema viene esposto attraverso le esperienze della coscienza

Logica o scienza dell’idea in sé e per sé La struttura metafisica del pensiero e della realtà (sistema) viene esposta attraverso l’articolazione delle sue parti

Filosofia della natura o scienza dell’idea nel suo essere altro Filosofia dello spirito o scienza dell’idea che ritorna in sé dal suo essere altro

Sapere assoluto

7 I caratteri della logica hegeliana

Il sistema: la logica La scienza della logica hegeliana non prende in esame il rapporto tra coscienza e mondo che è stato programmaticamente affrontato e risolto nella Fenomenologia, ma l’identità di pensiero e realtà che costituisce la verità, il vero assoluto come pensiero oggettivo. Prima di affrontarne i contenuti, che esporremo sommariamente (e che suonano, all’orecchio moderno, piuttosto astrusi), è opportuno delinearne alcuni elementi essenziali che chiariscano il senso più profondo della speculazione hegeliana. Questi sono: 1) la polemica verso la logica tradizionale come logica soltanto formale; 2) la centrale tesi dell’identità di pensiero ed essere; 3) il carattere oggettivo della contraddizione e la dialettica come struttura portante del sistema.

Identità di logica e metafisica La logica, per Hegel, non svolge più soltanto la funzione critica e negativa sviluppata negli scritti di Jena nei confronti delle filosofie «della riflessione» di Kant e di Fichte, ma è logica «speculativa» nella quale trovano espressione le strutture della realtà. Questa concezione hegeliana della logica si contrappone sia alla logica tradizionale sia alla logica trascendentale con la quale, pur imboccando la strada giusta, Kant si era illuso di rinnovare la logica. Il rifiuto della logica La logica tradizionale, infatti, si è mossa per Hegel su un piano esclusivamentradizionale che separa te formale, ritenendo la logica una scienza priva di contenuti e priva di relalogica e metafisica zione con la metafisica: le determinazioni logiche sono considerate come assolutamente separate tra loro, come semplici forme la cui materia dovrebbe esUna logica speculativa

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sere cercata fuori di esse, e quindi come separate dalla struttura logica della realtà. In questo modo, la logica tradizionale non ha compreso l’identità di logica e metafisica. Il fatto che i contenuti della logica non siano quelli della vita ordinaria non significa che essa sia una disciplina soltanto formale e priva di contenuti. Questa pretesa vuotezza è piuttosto il frutto del modo tradizionale di affrontare la questione, che presenta soltanto forme astratte: perché vuote, cioè prive di contenuto, e perché separate l’una dall’altra invece di essere inserite in un processo.

T9

Il contenuto della logica

Scienza della logica

Quello poi, che ordinariamente si intende per logica, vien considerato senza riguardo alcuno ad un significato metafisico. Questa scienza, nello stato in cui tutt’ora si trova, non ha certo alcun contenuto del genere di quello che nella coscienza usuale val come realtà e come una vera cosa. Non però per questo motivo è dessa una scienza formale, priva di una verità sostanziale […]. La vuotezza delle forme logiche sta anzi unicamente nella maniera di considerarle e di trattarle. In quanto, come determinazioni fisse, cadono una fuori dell’altra, e non vengon tenute assieme in un’unità organica, coteste son forme morte, né risiede in esse lo spirito, che è la loro concreta unità vivente. Mancan così del vero contenuto – di una materia, che sia in se stessa una sostanza e un valore. Il contenuto, di cui si trovan mancanti le forme logiche, non è altro che una ferma base e concrezione di queste determinazioni astratte: ed una tal essenza sostanziale si suol per quelle forme andarla a cercar fuori. Ma il sostanziale o reale, quello che riunisce assieme, in sé, tutte le determinazioni astratte, ed è la loro schietta ed assolutamente concreta unità, è appunto la ragione logica. Non vi sarebbe dunque bisogno d’andar lontano, per cercare quello che si suol denominare materia.

Se la logica tradizionale ha avuto il limite di ritenere la logica una scienza formale, e quindi ‘vuota’, il criticismo kantiano ha «trasformato la metafisica in logica», nel tentativo di costruzione di una logica trascendentale, e questo è il suo grande merito: le categorie sono, infatti, concetti degli oggetti, sono parti costitutive del processo conoscitivo e quindi degli stessi oggetti (vedi Unità 14, p. 670 ss.). Ma avere limitato le possibilità della conoscenza al mondo fenomenico, e avere quindi negato la conoscibilità della «cosa in sé», ha fatto sì che la prospettiva kantiana fosse una prospettiva irriducibilmente soggettiva, che conserva la separazione tra soggetto e oggetto che Hegel è convinto di aver superato grazie alla Fenomenologia dello spirito. Questa ha infatti offerto la prospettiva della scienza come prospettiva dell’identità tra concetto e realtà, cioè come logica speculativa. La logica come mondo Hegel non ‘dimostra’ la tesi dell’identità tra pensiero ed essere: si tratta di una delle essenze pure sorta di presupposto, che ha dietro di sé una tradizione fin nel pensiero antico (Parmenide), ma che soprattutto ha, secondo lui, nel pensiero moderno un esempio illustre in Spinoza, uno dei filosofi preferiti suoi e di Schelling (anche se in realtà entrambi proiettano sul filosofo olandese se stessi). Nella conclusione del brano che segue, il filosofo si avventura in una suggestiva immagine per caratterizzare la logica come universo delle essenze pure della realtà: è l’esposizione di Dio prima della sua estrinsecazione, prima della «creazione della natura e di uno spirito finito». Hegel riprende qui, traducendolo nel suo linguaggio, un aspetto della teologia cristiana: la mente divina, prima della creazione, contiene già il mondo come ‘modello’, per quanto ancora non realizzato, cioè non ‘creato’.

Le categorie kantiane come strutture logiche

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L’identità di pensiero ed essere

Scienza della logica, 1

Il concetto della scienza pura e la sua deduzione vengon dunque presupposti nella presente trattazione, in quanto che la Fenomenologia dello spirito non è appunto altro che la deduzione di tal concetto. Il sapere assoluto è la verità di tutte le guise di coscienza, perché, come risultò da quel suo svolgimento, solo nel sapere assoluto si è completamente risoluta la separazione dell’oggetto dalla certezza di sé, e la verità si è fatta uguale a questa certezza, così come questa alla verità. La scienza pura presuppone perciò la liberazione dall’opposizione della coscienza. Essa contiene il pensiero in quanto è insieme anche la cosa in se stessa, oppure la cosa in se stessa in quanto è insieme anche il puro pensiero. Come scienza, la verità è la pura autocoscienza che si sviluppa, ed ha la forma del Sé, che quello che è in sé e per sé è concetto saputo, e che il concetto come tale è quello che è in sé e per sé. Il contenuto della coscienza pura è appunto questo pensare oggettivo. Lungi quindi dall’essere formale, lungi dall’esser priva di quella materia che occorre a una conoscenza oggettiva e vera, cotesta scienza ha anzi un contenuto che, solo, è la vera materia, – una materia, però, cui la forma non è un che di esterno, poiché questa materia è anzi il puro pensiero, e quindi l’assoluta forma stessa. La logica è perciò da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, come essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimer così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito.

La dialettica e la contraddizione Ruolo della negazione determinata nella dialettica

T11

La dialettica

Scienza della logica, Introduzione

La contraddizione è necessaria

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Nella Scienza della logica, Hegel torna a ribadire l’importanza della negazione determinata presentata nella Fenomenologia (vedi p. 893): la negazione determinata svolge un ruolo fondamentale all’interno della dialettica, e costituisce ciò che del movimento dialettico è parte decisiva e permette ad esso di procedere. La dialettica non è, come nella tradizione, una parte della logica, ma ne costituisce piuttosto l’anima e il principio, il carattere speculativo. Quello, per cui il concetto si spinge avanti è quel negativo, dianzi accennato, che ha in sé; cotesto è il vero elemento dialettico. La dialettica, che venne trattata come una parte separata della logica e che, quanto al suo scopo e al suo punto di vista, rimase, si può ben dire, interamente disconosciuta, acquista con ciò una ben altra dignità […]. In questo elemento dialettico, come si prende qui, epperciò nel comprendere l’opposto nella sua unità, ossia il positivo nel negativo, consiste lo speculativo. La tesi centrale della logica hegeliana consiste nell’affermazione della necessità e dell’oggettività della contraddizione, una necessità che Kant aveva intravisto, secondo Hegel, con la dottrina delle antinomie (vedi Unità 14, p. 680 s.), mostrando le contraddizioni in cui la ragione umana inevitabilmente cade quando pretende di conoscere le idee che vanno al di là dei fenomeni: Dio, anima, mondo. Le antinomie esprimono quindi l’idea kantiana dei limiti della ragione, e proprio in ciò consiste l’errore kantiano. La contraddizione è invece più importante della semplice identità delle cose perché essa costituisce il principio della dialettica come movimento. La logica tra-

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dizionale non riesce a pensare la contraddizione, e la ritiene un difetto della ragione soggettiva, un’anomalia, un errore, piuttosto che la struttura stessa del pensiero e quindi del reale.

T12

La contraddizione Scienza della logica, 1

Si dovrebbe dunque dire: Tutte le cose sono in se stesse contraddittorie, e ciò propriamente nel senso che questa proposizione esprima anzi, in confronto delle altre, la verità e l’essenza delle cose […]. Ma è uno dei pregiudizi fondamentali della vecchia logica e dell’ordinaria rappresentazione, che la contraddizione non sia una determinazione altrettanto essenziale ed immanente quanto l’identità. Invece, quando si dovesse parlare di un ordine di precedenza e si dovesser tener ferme le due determinazioni come separate, bisognerebbe prendere la contraddizione come la più profonda e la più essenziale. Poiché di fronte ad esse l’identità non è che la determinazione del semplice immediato, del morto essere; la contraddizione invece è la radice di ogni movimento e vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in quanto ha in se stesso una contraddizione. La contraddizione viene ordinariamente allontanata, in primo luogo, dalle cose, da ciò che è e dal vero in generale; si afferma, che non v’è nulla di contraddittorio. Essa vien poi anzi rigettata sulla riflessione soggettiva, che sola la porrebbe col suo riferire e comparare. Ma propriamente non si troverebbe nemmeno in questa riflessione, perché il contraddittorio, si dice, non si può né rappresentare né pensare. La contraddizione vale in generale, sia nella realtà, sia nella riflessione pensante, come un’accidentalità, quasi un’anomalia e un transitorio parossismo morboso.

I caratteri della logica hegeliana

Rifiuto della logica tradizionale perché priva di contenuti e priva di relazione con la metafisica. Rifiuto della logica trascendentale kantiana per il suo carattere soggettivo

Identità di logica e metafisica: la struttura logica coincide con la struttura del reale Logica La logica come mondo delle essenze pure: il modello ideale del mondo come è nella mente divina

L’elemento logico è presente in tutto il sistema

La struttura della logica e i suoi contenuti Il processo interno alla logica

La logica hegeliana è, nelle sue varie versioni, articolata in tre diverse parti: «logica dell’essere», «logica dell’essenza» e «logica del concetto». In questo processo, le categorie del pensiero intendono esprimere la struttura stessa della realtà, ma sono nelle diverse parti legate da relazioni differenti. Nella logica dell’essere, si tratta di categorie che ‘passano’ l’una nell’altra, nella logica dell’essenza le categorie ‘rimandano’ o ‘si manifestano’ l’una nell’altra, mentre nella logica del concetto il tema centrale è quello dello ‘sviluppo’ del concetto stesso attraverso le proprie determinazioni. La differenza tra dottrina dell’essere e del905

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l’essenza da una parte e dottrina del concetto dall’altra viene espressa da Hegel anche denominando le prime logica «oggettiva», e la seconda logica «soggettiva», nel che, ovviamente, non va vista alcuna accentuazione ‘soggettivistica’, ma l’indicazione dello sviluppo autonomo del concetto.

La dottrina dell’essere La dottrina dell’essere si articola in «qualità», «quantità» e «misura». La qualità prende le mosse dalla categoria più indeterminata, quella dell’«essere» (Sein), indeterminato al punto di non essere in realtà distinguibile dal «nulla». Essere e nulla sono, infatti, quanto di più diverso si possa pensare, e al tempo stesso condividono la vuotezza e l’indeterminatezza, e sono in questo indistinguibili, ma pensabili insieme nella categoria del «divenire», in cui l’essere si determina, diventa un «esserci» (Dasein), «essere determinato», che è finito e mutevole. L’idealità del finito È in questo contesto che Hegel propone la sua tesi della idealità del finito (che il finito non debba essere opposto all’infinito, ma compreso come sua parte) come caratteristica dell’idealismo e la sua interpretazione del vero infinito come totalità degli aspetti finiti della realtà: il finito è comprensibile soltanto come parte dell’infinito (vedi sopra, p. 879). Il vero infinito così ottenuto è l’«essere per sé», l’unità articolata che supera anch’essa una contrapposizione, quella tra l’unità e la molteplicità, l’uno e i molti. La quantità e la misura Si ha così il passaggio alla quantità, la sezione nella quale Hegel si confronta anche con il pensiero scientifico a lui contemporaneo, in particolare con la matematica e con la fisica, e con le antinomie kantiane su spazio, tempo e materia, tornando ad affrontare il problema dell’infinito. Attraverso la quantità, il quanto e il «rapporto quantitativo» si giunge alla misura. Qui Hegel sviluppa le relazioni tra quantità e qualità, che rimandano l’una all’altra, mostrando per esempio che una certa modificazione quantitativa può condurre a una modificazione qualitativa (l’acqua a zero gradi, per esempio, si trasforma in ghiaccio). La qualità: l’essere e il nulla

La dottrina dell’essenza La dottrina dell’essenza si fonda sulla coppia essenza / fenomeno e si articola in «essenza come riflessione in se stessa», «fenomeno» e «realtà». La prima sezione è particolarmente importante perché sviluppa un esame critico dei principi fondamentali della logica classica, le sue «leggi universali del pensiero», ovvero il principio d’identità, il principio del terzo escluso e il principio di non contraddizione. L’identità implica sempre la distinzione, e per quanto riguarda la contraddizione, Hegel non può che assumere una posizione critica – lo si è visto sopra – di fronte a questo principio della logica aristotelica e del pensare comune. Il fenomeno Nella sezione sul fenomeno (Erscheinung) Hegel affronta ancora una volta la filosofia tedesca immediatamente precedente, utilizzando ampiamente la trattazione della Fenomenologia, e polemizza anche con la kantiana «cosa in sé», oltre che con le astratte distinzioni che perpetuano varie forme di dualismo: tutto e parti, la forza e la sua estrinsecazione, l’interno e l’esterno. La realtà La realtà, come sostanza, causa e azione reciproca, porta a unità le astratte opposizioni in una totalità, e qui viene discussa anche la concezione della sostanza di Spi-

Le leggi della logica classica

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noza, che Hegel apprezza per aver compreso che l’assoluta unità della sostanza si basa sul principio che «la determinatezza è negazione» («determinatio est negatio»). Dopo avere discusso l’Assoluto, Hegel passa ad analizzare le categorie modali (come possibilità e necessità) e le categorie di relazione (sostanzialità, causalità e azione reciproca), dove l’azione reciproca costituisce il parziale superamento del dualismo tra causa ed effetto e il movimento necessario per il progredire del processo.

La dottrina del concetto La terza parte della logica, la dottrina del concetto, si articola anch’essa in tre sezioni: «soggettività», «oggettività» e «idea». Nell’Enciclopedia, la dottrina del concetto viene presentata da Hegel in modo inequivocabilmente polemico verso la sua interpretazione tradizionale, ribadendo da un lato il carattere non formale della propria logica, dall’altro l’identità tra pensiero ed essere. Il concetto non è formale e non è un’astrazione, un semplice strumento conoscitivo, ma la verità dell’essere e dell’essenza, ovvero dell’unità immediata e della mediazione. Esso è la realtà stessa, intesa razionalmente. La soggettività La prima sezione della dottrina del concetto, la soggettività, dopo che nella dottrina dell’essenza si sono affrontati i principi universali della logica tradizionale, affronta nozioni tradizionali della logica come il concetto, il giudizio e il sillogismo. Ma Hegel tiene a differenziarsi dalla tradizione: concetto, giudizio e sillogismo non sono intesi come le nozioni o i procedimenti della logica tradizionale, ma come strutture della realtà. La definizione di concetto

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Le forme logiche e la realtà

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1827-1830, par. 162 Annotazione

Concetto, giudizio e sillogismo

La logica del concetto è d’ordinario intesa come scienza soltanto formale, nel senso che essa s’occupi della forma come tale del concetto, del giudizio e del sillogismo, ma punto non s’interessi se qualcosa sia o no vero: ciò sarebbe poi affare del contenuto. Se le forme logiche del concetto fossero veramente recipienti morti, passivi e indifferenti di rappresentazioni e pensieri, la conoscenza di esse sarebbe un sapere istorico, addirittura superfluo, e da poterne far di meno, nel rispetto della verità. In realtà, però, esse sono, per contrario, come forme del concetto, lo spirito vivente del reale; e del reale è vero soltanto ciò che, in forza di queste forme, per mezzo di esse e in esse, è vero. La verità di queste forme per se stessa non è stata mai fin qui considerata e indagata; come nemmeno la loro connessione necessaria. Nella Logica il concetto, il giudizio e il sillogismo non compaiono come procedimenti semplicemente mentali, ma come processi che hanno a che fare con la realtà. Per questo il «concetto immediato», che costituisce il punto di partenza della sezione sulla soggettività, è inteso come individuo che conserva in sé universalità e particolarità. Nel «giudizio» si ha la separazione tra soggetto e predicato, una separazione che viene però progressivamente superata in un’integrazione tra i due attraverso le varie forme di giudizio. Questo processo si conclude con il giudizio valutativo in cui si giudica la corrispondenza della cosa all’universale di cui costituisce la realizzazione: «I predicati buono, cattivo, vero, bello, giusto ecc. esprimono che la cosa è stata messa a confronto col suo universale concetto come con un, assolutamente presupposto, dover essere e che gli corrisponde oppure no». Attraverso il «sillogismo», infine, che ha come termine mediatore l’universale, si ha il passaggio alla sezione dell’oggettività. 907

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Parte terza L’idealismo L’oggettività

L’idea

La scienza come circolo di circoli

Dall’universale astratto a quello concreto

Un processo a forma di spirale

➥ Sommario, p. 928 La struttura della Logica

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L’oggettività non è naturalmente un’oggettività contrapposta al soggetto, poiché siamo sul piano di una struttura della realtà che è identica al pensiero, ovvero della logica del concetto, ma è costituita da una serie di determinazioni concettuali come modi di pensare le forme naturali, e cioè: come oggetti tra loro separati, in relazione soltanto estrinseca e meccanica, nel «meccanismo»; come combinazione degli elementi nel «chimismo» e, infine, sulle tracce del Kant della Critica della facoltà di giudizio, come un ordine teleologico, che è l’unico in grado di pensare i processi naturali come organicamente unitari. Ciò non significa soltanto che ogni cosa può essere al tempo stesso fine, e mezzo per ulteriori fini, ma anche che il fine di una cosa viene riconosciuto come principio di essa, e come ciò che dà ad essa la sua unità. La logica hegeliana si chiude con l’«idea», «il vero in sé e per sé», che comprende le tre sezioni della «vita», dell’«idea del conoscere» e dell’«idea assoluta». La presenza della vita, che prosegue la riflessione sulla teleologia e sugli esseri viventi, vuole riaffermare il carattere non formale della logica, sostiene Hegel. La vita è l’idea nella sua immediatezza, dove l’essere vivente è una totalità in cui si ha un peculiare rapporto tra le membra e delle membra con il tutto. L’idea del conoscere riguarda sia il conoscere sia il volere dell’uomo, attraverso l’idea del vero e l’idea del bene. L’idea assoluta, infine, è «essere, vita che non passa, verità di sé conscia, ed è tutta la verità». La verità, ancora una volta, consiste nell’intero, nella complessità di tutte le determinazioni logico-ontologiche che si sono attraversate, e la scienza costituisce un circolo, o meglio un circolo di circoli, perché lo stesso cominciamento dal quale si era partiti, l’essere, attraverso le varie determinazioni e le varie mediazioni della logica è ora anche un essere, scrive Hegel, «pieno», il «concetto che si concepisce»: è divenuto l’essere come concreta totalità. L’idea hegeliana della scienza come scienza filosofica è quindi un’idea circolare, in cui a partire da un elemento universale, ma astratto, questo stesso elemento passa attraverso le determinazioni che progressivamente lo arricchiscono e diventa un universale concreto che è il contenuto di se stesso e che è anche il sapere di se stesso, perché è passato attraverso le diverse determinazioni, ciascuna delle quali riproduce, su scala minore, il medesimo processo del circolo. Per questo «la scienza è un circolo di circoli». Un andamento diverso lascerebbe i termini dai quali si è partiti nella loro astrazione e vuotezza, da un lato, e costituirebbe una progressione infinita del genere di quello che Hegel definisce un «cattivo» infinito, ovvero una progressione indefinita, dall’altro. Il carattere circolare della scienza rimanda invece a una sorta di spirale che non è una circolarità statica ma un processo ‘vivente’ nel quale soltanto può consistere la verità. La verità è quindi qualcosa di complessivo («il vero è l’intero»), di processuale, di dinamico e di circolare. Dottrina dell’essere:

Dottrina dell’essenza:

Dottrina del concetto:

– qualità: • essere e nulla • divenire come loro composizione in cui l’essere si determina diventando un esserci finito • dal finito si perviene all’infinito come essere per sé, unità articolata – quantità – misura

– essenza come riflessione in sé: esame delle leggi logiche – fenomeno: critica della posizione kantiana – realtà come sostanza, causa e azione reciproca

– soggettività: concetto, giudizio e sillogismo come strutture della realtà – oggettività: meccanismo, chimismo e teleologia come sistemi di comprensione del mondo fisico – idea: vita, idea del conoscere e idea assoluta come comprensione dell’essere come totalità

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Il sistema: la filosofia della natura

La filosofia della natura hegeliana è sempre stata considerata una delle parti più deboli e meno riuscite del sistema. Ciononostante, non la si deve guardare – come talvolta si è fatto – come contrapposta alla considerazione scientifica della natura. Al contrario, la conoscenza scientifica della natura costituisce un presupposto indispensabile della considerazione filosofica di essa: «non solo la filosofia deve concordare con l’esperienza della natura, ma la nascita e la formazione della scienza filosofica ha per presupposto e condizione la fisica empirica». La natura come La natura fa parte del processo di realizzazione dell’Idea, della ragione assolualienazione dell’Idea ta e infinita, e partecipa quindi della sua razionalità, ma mentre la logica esamina l’Idea in sé, la filosofia della natura affronta il processo di alienazione o estraniazione dell’Idea in sé, la sua «negazione» come pensiero puro. Se l’Idea è unità e necessità razionale, la natura mostra invece dispersione e accidentalità dove «l’unità del concetto si nasconde», dove cioè a nascondersi è la razionalità. È per questo, per questa sua duplicità di partecipare all’Idea e al tempo stesso di negarla, che la natura viene definita la «contraddizione insoluta», o come la «decadenza dell’idea da se stessa», pur essendo anch’essa parte del complessivo processo razionale in cui consiste la realtà. Dal punto di vista del sistema, la filosofia della natura riguarda quindi l’esteriorità. La natura non ha storia Dunque, dal punto di vista del sistema, la natura è certo legittimata e giustificata nella sua esistenza – e così deve essere – ma resta il momento della esteriorizzazione, quindi della rottura di un’unità, della «caduta». Oltretutto, la natura, al contrario dello spirito, è costituita da forme che non hanno sviluppo, e quindi non hanno storia. Nella natura le modificazioni si ripetono in modo costante e necessario e non «accade nulla di nuovo sotto il sole», tanto che, scrive Hegel, essa porta con sé «una certa noia». L’accettazione della scienza empirica

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La natura

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1827-1830, parr. 247-248

La natura si è dimostrata come l’idea nella forma dell’essere altro. Poiché l’idea è per tal modo la negazione di se stessa, ossia è esterna a sé, la natura non è esterna solo relativamente, rispetto a quest’idea (e rispetto all’esistenza soggettiva di esso, lo spirito); ma l’esteriorità costituisce la determinazione, nella quale essa è come natura […] la natura non mostra, nella sua esistenza, libertà alcuna; ma solamente necessità ed accidentalità.

Nell’ambito della filosofia della natura, Hegel cerca di contrastare due indirizzi diversi della cultura a lui contemporanea. Da un lato, la tendenza che vede nella filosofia della natura un orpello inutile, una volta che la scienza si sia impadronita di strumenti adeguati per conoscere la natura. Critica della natura Dall’altro, Hegel polemizza duramente contro la filosofia della natura romantica romantica e quindi contro la tendenza a divinizzare la natura, magari considerandola superiore alla realtà umana, che egli illustrerà nel successivo, e superiore, momento dello spirito. Nel brano che segue, però, anziché un pensatore contemporaneo egli cita come esempio di tale atteggiamento il filosofo italiano Giulio Cesare Vanini (1585-1619).

Critica della scienza

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Parte terza L’idealismo

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Contro la divinizzazione della natura

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1827-1830, par. 248 Annotazione

Hegel e le concezioni della natura

Tuttavia, quantunque nell’elemento dell’esteriorità, la natura è rappresentazione dell’idea; e però si può bene, e si deve ammirare in essa la sapienza di Dio. Ma al Vanini, che diceva bastare un fil di paglia a far conoscere l’esser di Dio, bisogna rispondere che ogni rappresentazione dello spirito, la più bassa delle sue immaginazioni, il giuoco del suo accidentale capriccio, ogni qualsiasi parola, è fondamento più eccellente a conoscere l’essere di Dio di qualsiasi oggetto naturale. Nella natura non solo il giuoco delle forme è in preda a un’accidentalità sregolata e sfrenata; ma ogni forma manca per sé del concetto di se stessa. Il sommo, a cui si spinge la natura nella sua esistenza, è la vita; ma questa, essendo idea soltanto naturale, è in preda all’irrazionale dell’esteriorità.

La conoscenza scientifica della natura è presupposto indispensabile della considerazione filosofica di essa

La natura fa parte del processo di realizzazione dell’Idea

La natura è l’Idea nel suo essere altro da sé

Per il suo carattere accidentale e dispersivo la natura nasconde la razionalità, e quindi l’Idea

La natura non ha storia, ma è dominata dalla necessità e dalla ripetizione

Hegel rifiuta la sostituzione della filosofia della natura con la scienza moderna

Hegel rifiuta la divinizzazione della natura dei romantici

La filosofia della natura è anch’essa divisa in tre parti: «meccanica», «fisica» e «fisica organica». La polemica Nelle due prime parti colpisce innanzitutto la forte polemica nei confronti di contro Newton Newton, a cui corrisponde, rispettivamente, da un lato la difesa di Keplero, dall’altro la difesa della teoria dei colori di Goethe fondata sul rapporto luce-oscurità. La difesa di Keplero ha un particolare significato, per Hegel: mentre Newton tratta le forze naturali nel loro assoluto isolamento e nella loro separazione, e quindi secondo la prospettiva della «riflessione» e dell’intelletto, Keplero coglie, come fa la ragione, l’unità dell’intero attraverso la sua idea dell’armonia complessiva dell’universo. La vita animale Nell’ultima parte, la fisica organica passa dalla natura geologica alla natura vegetale e a quella animale, che possiede il sentimento della vita e l’autonomia rispetto agli enti esterni. L’inadeguatezza tra la vita animale individuale, destinata alla morte, e la dimensione universale, costituita dal genere, costituisce una contraddizione insuperabile a livello dell’animalità, e ciò provoca il passaggio al➥ Sommario, p. 928 l’ultimo momento, quello dello «spirito», ovvero della realtà umana. 910

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Unità 17 Hegel

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Il sistema: la filosofia dello spirito

Abbiamo visto sopra che la natura non mostra «libertà alcuna», ma soltanto necessità e accidentalità. Lo spirito invece, cioè tutte le forme di coscienza e di attività umana, è caratterizzato essenzialmente dalla libertà: la libertà è il tratto tipico delle sue diverse forme e si realizza nella storia che, essendo storia dello spirito, è storia umana. Hegel ne dà una definizione complessiva indicandola come la «storia del mondo» o «storia universale» (Weltgeschichte). La razionalità Dal punto di vista filosofico, la conoscenza del mondo umano e delle sue diverse del mondo umano articolazioni, la conoscenza dello spirito, è senz’altro il punto d’arrivo del sistema, ma è anche il punto più complesso. In realtà, scrive Hegel, è una nuova versione del vecchio detto classico «conosci te stesso», ma non inteso, ora, come semplice processo introspettivo, o come conoscenza particolare di aspetti psicologici, ma come conoscenza di ciò che è essenziale, del nucleo di razionalità del mondo umano nelle diverse forme della sua attività e della sua cultura. È lo spirito che conosce se stesso. Libertà e storia

T16

La conoscenza dello spirito

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1827-1830, par. 377

L’uomo e le forme della cultura

La conoscenza dello spirito è la più concreta delle conoscenze, e perciò la più alta e difficile. Conosci te stesso, questo precetto assoluto, non ha – né preso per sé né dove lo s’incontra storicamente espresso – il significato di una conoscenza di se medesimo come delle proprie capacità particolari (carattere, inclinazioni e debolezze dell’individuo) ma significa invece la conoscenza di ciò che è la verità dell’uomo, della verità in sé e per sé, dell’essenza stessa in quanto spirito. Parimente, la filosofia dello spirito non ha il significato della cosiddetta conoscenza degli uomini, la quale si adopra a indagare le particolarità, passioni e debolezze degli altri uomini, le cosiddette pieghe del cuore umano – conoscenza codesta che, da una parte, non ha significato se non nel presupposto che si conosca l’universale dell’uomo, e perciò, essenzialmente, lo spirito; dall’altra parte, si occupa di quelle, che sono esistenze della spiritualità accidentali, insignificanti e non vere; ma non giunge al sostanziale, allo spirito stesso. La conoscenza dello spirito è una conoscenza anch’essa articolata, nella terza parte della Enciclopedia delle scienze filosofiche, in tre parti: si affronterà qui innanzitutto l’uomo nel formarsi della sua intelligenza e volontà libera (spirito «soggettivo»), poi il tessuto delle relazioni giuridiche, morali, economiche e politiche e la loro dimensione storica (spirito «oggettivo»), infine, le forme superiori della cultura nelle quali lo spirito conosce se stesso, ovvero l’arte, la religione e la filosofia (spirito «assoluto»). Come si è detto, allo spirito oggettivo Hegel dedica anche un’opera specifica in cui ne tratta i contenuti più estesamente che nell’Enciclopedia, e cioè i Lineamenti di filosofia del diritto. Ai contenuti della filosofia dello spirito, poi, Hegel dedica in più occasioni cicli delle sue lezioni universitarie delle quali ci restano in alcune occasioni i materiali, come abbiamo accennato in apertura di questa Unità (vedi p. 883): oltre alla filosofia del diritto, si sono conservati appunti degli uditori alle lezioni di filosofia della storia, di estetica, di filosofia della religione, di storia della filosofia. 911

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Parte terza L’idealismo I caratteri della filosofia dello spirito

Riguarda tutte le forme di coscienza e di attività umana

Ha come tratto tipico di tutte le forme dello spirito la libertà Filosofia dello spirito (l’Idea che torna in sé dal suo essere altro)

Rappresenta il punto d’arrivo del sistema hegeliano, la forma superiore di conoscenza, ma anche la sua parte più articolata e complessa È articolata in spirito soggettivo, oggettivo e assoluto I suoi contenuti sono: antropologia, psicologia, filosofia del diritto, filosofia della storia, estetica, filosofia della religione, storia della filosofia

Lo spirito soggettivo L’analisi dello spirito soggettivo presenta l’emergere della libertà, dell’intelligenza e della volontà nell’individuo. Essa si articola nei diversi momenti della «antropologia», della «fenomenologia dello spirito» e della «psicologia». L’anima è l’oggetto dell’antropologia come unione di anima e corpo, mentre la fenomenologia dello spirito ripresenta in una forma molto ridotta e teoreticamente meno impegnativa i contenuti dei primi tre momenti dell’opera del 1807 («coscienza», «autocoscienza» e «ragione»). Psicologia La parte più interessante dello spirito soggettivo è la psicologia, dove Hegel affronta l’unità di anima e coscienza nella genesi dell’intelligenza e della volontà libera individuale. Qui Hegel sviluppa un percorso unitario in cui cerca di mettere in connessione tutti gli elementi che la trattazione tradizionale aveva affrontato separatamente: intuizione, immaginazione, rappresentazione, memoria, con alcune interessanti riflessioni sul linguaggio. I tre momenti della psicologia sono lo «spirito teoretico», lo «spirito pratico» e lo «spirito libero»: spirito teoretico e spirito pratico costituiscono la conquista da parte del soggetto individuale della razionalità da un lato e dell’autodeterminazione dall’altro. Il loro superamento dialettico è lo spirito libero, la cui libertà non può però limitarsi a essere una libertà astratta soltanto individuale, soltanto soggettiva, ma deve attuarsi nella realtà dello spirito oggettivo, segnando così il passaggio ➥ Sommario, p. 928 a un livello superiore. Antropologia e fenomenologia

Lo spirito soggettivo: caratteri e struttura

Si realizza attraverso l’emergere della libertà, dell’intelligenza e della volontà nell’individuo Lo spirito soggettivo

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Struttura: – antropologia, riguarda l’anima come unione di anima e corpo – fenomenologia, contiene coscienza, autocoscienza e ragione – psicologia, affronta l’unità dell’anima e della coscienza

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Unità 17 Hegel

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La filosofia dello spirito: lo spirito oggettivo

La parte dedicata allo spirito oggettivo, in particolare nella sua trattazione più ampia, la Filosofia del diritto del 1821, colpisce per la vastità dei temi che abbraccia: essa include la filosofia del diritto, la filosofia morale, la teoria della società e la filosofia politica, per concludersi con un abbozzo di filosofia della storia. Come molti interpreti hanno notato, si tratta dell’ultimo tentativo della tradizione occidentale di costruire una philosophia practica universalis, una teoria cioè che includa tutti gli aspetti della prassi umana, individuale e, soprattutto, sociale. I molti significati Un’osservazione va fatta anche sull’uso hegeliano del termine «diritto», poiché del termine ‘diritto’ Hegel si serve di questa parola con significati diversi: 1) innanzitutto, la sfera del diritto corrisponde alla sfera dello spirito oggettivo, ed è in questo senso che il libro del 1821 è dedicato alla filosofia del diritto; 2) in secondo luogo, Hegel si occupa del diritto in un suo aspetto specifico indicandolo come diritto astratto, e in questo senso esso rappresenta la prima sezione dello spirito oggettivo, come vedremo; 3) inoltre, l’ambito giuridico e le sue varie parti sono disseminati lungo le diverse sezioni dello spirito oggettivo: il diritto privato è in parte nella sezione sul diritto astratto, che contiene anche una parte di diritto penale; il diritto amministrativo e un’altra parte del diritto penale sono trattati nella sezione della società civile, mentre il diritto pubblico e costituzionale e il diritto internazionale sono trattati quando si parla dello Stato; 4) infine, Hegel utilizza il termine «diritto» anche in un senso lato, che potremmo definire non-giuridico, come una pretesa o una prerogativa: è in questo senso che nel mondo moderno si è affermato il «diritto della soggettività», o che la storia del mondo ha un «diritto assoluto».

Una filosofia pratica universale

La razionalità del reale È proprio in questo contesto, di trattazione filosofica dei temi morali, giuridici e politici, che Hegel formula la sua concezione della filosofia come «nottola di Minerva» (vedi T2, p. 881). Ma la prefazione dell’opera del 1821 contiene anche un’altra osservazione destinata a suscitare molte polemiche già tra i contemporanei e poi a fare discutere gli interpreti di Hegel: si tratta dell’affermazione della «razionalità del reale», che abbiamo già detto costituire un tratto specifico del➥ Tesi a confronto, p. 939 la filosofia di Hegel. A molti tale teoria sembra semplicemente, sul piano politico, la presa di posizione di un conservatore che predica l’adeguamento allo status quo, una semplice rassegnazione – o peggio, una valutazione incondizionatamente positiva – dello stato di cose presente. Comprensione razionale In realtà, Hegel intende in modo diverso il compito della filosofia, pur se cere realtà storica to questo compito include la comprensione della razionalità del reale, sia della realtà umana, in questo senso ‘spirituale’, sia della realtà naturale. Non è corretto guardare alla realtà sulla base dell’arbitrio soggettivo, infatti, in nessuno dei due casi; chi critica arbitrariamente la realtà storica accetta la considerazione razionale soltanto della natura, e non della realtà umana, come se questa fosse priva di razionalità. La filosofia deve quindi comprendere la naNon una semplice difesa dello status quo

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Parte terza L’idealismo

tura razionale della realtà, e questo processo di comprensione è condizionato storicamente, perché si svolge in un determinato contesto storico che condiziona il tipo di realtà che deve essere compresa (per esempio: lo Stato moderno): sarebbe velleitario, infatti, secondo Hegel, pretendere di andare al di là del proprio tempo.

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Realtà e razionalità

Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale.

Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione

In questa convinzione sta ogni coscienza non prevenuta, e così pure la filosofia, e questa procede di qui nella considerazione così dell’universo spirituale, come di quello naturale. Se la riflessione, il sentimento, o qualsiasi forma abbia la coscienza soggettiva, riguarda il presente per un qualcosa di vano, è al di là di esso e giudica da saccente, essa si ritrova in uno spazio vano, e giacché essa ha realtà soltanto nel presente, così essa stessa è soltanto vanità. […] Comprendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Per quel che concerne l’individuo, del resto, ciascuno è un figlio del suo tempo; così anche la filosofia è il tempo di essa appreso in pensieri. È altrettanto insensato figurarsi che una qualsiasi filosofia vada al di là del suo mondo presente, quanto che un individuo salti il suo.

Determinazione del concetto di realtà

In una nota della Enciclopedia berlinese, qualche anno dopo la Filosofia del diritto, Hegel tornerà sulla questione, chiarendo che non tutto ciò che esiste, ovvero, non tutto ciò che ci troviamo davanti, ha la dignità del reale (e Hegel fa esplicito riferimento alla sezione della logica dedicata proprio alla «realtà», che chiude la dottrina dell’essenza). Certo, la nota hegeliana dell’Enciclopedia è ben lungi dal dissipare tutti i dubbi sul significato dell’espressione utilizzata da Hegel nell’opera del 1821, ma altrettanto certamente: 1) rifiuta esplicitamente l’idea che l’affermazione della razionalità della realtà significhi la giustificazione di tutto ciò che esiste di contingente o di accidentale; 2) lo Stato tratteggiato da Hegel non corrisponde, nonostante le critiche feroci che gli vengono e gli verranno mosse, allo Stato prussiano del suo tempo. La filosofia che comprende la razionalità del reale è però contrapposta, da Hegel, all’arbitrio soggettivo che pretende di andare al di là di esso.

T18

Non tutto ciò che esiste è razionale

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1827-1830, par. 6 Annotazione

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Nella prefazione alla mia Filosofia del diritto […] si trovano queste proposizioni: Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Queste semplici proposizioni son sembrate strane a parecchi […] l’esistenza è, in parte, apparizione, e solo in parte realtà. Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio, l’errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi difettiva e passeggiera esistenza. Ma già anche per l’ordinario modo di pensare un’esistenza accidentale non meriterà l’enfatico nome di reale: l’accidentale è un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile, che può non essere allo stesso modo che è. Ma, quando io ho parlato di realtà, si sarebbe pur dovuto pensare al senso nel quale adopero quest’espressione, giacché in una mia estesa Logica ho trattato anche della realtà, e l’ho distinta non solo dall’accidentale, che pure ha esistenza, ma altresì dall’essere determinato, dall’esistenza e da altri concetti.

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Unità 17 Hegel

Il mondo moderno: soggettività ed eticità L’eticità greca nelle opere jenensi

La concezione moderna dell’eticità

Il riconoscimento delle istituzioni moderne come etiche

Il modello greco di una bella eticità è sempre presente nell’orizzonte hegeliano: si tratta di un rapporto di identificazione e di armonia tra l’individuo e il tessuto sociale al quale appartiene, la pòlis. Diverso però è il modo in cui Hegel guarda a questo mondo e, di conseguenza, al mondo moderno, nel corso del tempo. Già a Jena Hegel distingue la moralità moderna dall’eticità antica, pur se con differenze nelle opere di quegli anni: 1) nello scritto Sulle diverse maniere di trattare scientificamente il diritto naturale, dove propone la distinzione tra moralità ed eticità, la posizione hegeliana è ancora quella di un rimpianto per la perdita della bella unità tra individuo e pòlis, propria dell’eticità greca; 2) mentre nella Fenomenologia, che chiude il periodo jenese, il percorso dello spirito che muove dall’eticità greca tocca il suo culmine con la «moralità» del pensiero tedesco kantiano e romantico, e può essere superato soltanto attraverso la religione e la filosofia (il sapere assoluto). Già con la Fenomenologia, quindi, la morale individualistica moderna è considerata una conquista, rispetto al mondo antico. Questo riconoscimento si fa compiuto nella teoria dello «spirito oggettivo» già nella Enciclopedia del 1817, ma non solo: l’eticità, come eticità collettiva, non è più soltanto un fenomeno antico, ma anche moderno, e per la precisione un fenomeno dello Stato moderno, dove l’individuo e le istituzioni trovano la loro conciliazione. Al riconoscimento del principio moderno della particolarità soggettiva, e quindi anche della libertà soggettiva, introdotto nella storia del mondo in forma germinale dalla crisi del mondo greco (rappresentata da Socrate), ma soprattutto dal cristianesimo e poi dalla Riforma protestante, si aggiunge ora anche il riconoscimento dell’esistenza di una vita collettiva nelle istituzioni moderne. Questa ammissione tiene conto del valore della soggettività individuale e la riconosce sia sul piano giuridico (nel diritto astratto), sia sul piano morale (nella moralità), sia sul piano che si è sviluppato più di recente e per il quale Hegel aveva dimostrato interesse fin dagli anni di Francoforte: quello economico-sociale della società civile, che è un momento dell’eticità. La struttura dello spirito oggettivo, anche sulla base di queste novità, è allora articolata in tre sfere: «diritto astratto» (cioè privato), «moralità» (individuale), «eticità» (moderna).

La società civile e la critica dell’individualismo Abbiamo accennato al fatto che il riconoscimento del valore della soggettività moderna ha per Hegel diversi aspetti: diritto privato e moralità nati dalla crisi del mondo greco, ma anche quel mondo economico-sociale che costituisce lo spazio dell’economia e della società, del lavoro, dei bisogni (vedi p. 889 s.). Si tratta di un mondo che si è ormai separato dallo Stato e che ha acquisito una propria autonomia, come Hegel per primo coglie con grande acutezza. Non è un caso se le riflessioni di Marx sulla società «civile» / «borghese» (l’aggettivo tedesco bürgerlich, può essere significativamente tradotto con entrambi i termini) prenderanno le mosse proprio dalla critica della filosofia del diritto hegeliana. La società civile come L’ulteriore peculiarità di Hegel, come vedremo, è che il mondo egoistico del lamomento dell’eticità voro, dei bisogni e dell’economia, il mondo cioè della società civile, è un mondo

L’autonomia del mondo economico-sociale

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Parte terza L’idealismo

La critica dell’individualismo

La supremazia del pubblico sul privato

Lo Stato come organismo

che già al proprio interno deve trovare forme di riorganizzazione della propria frantumazione, e che, soprattutto, costituisce soltanto un momento dell’eticità, ovvero della vita collettiva moderna, il cui termine ultimo e risolutore delle tensioni e delle contraddizioni sociali è lo Stato. La società civile è quindi solo un momento, un aspetto dell’eticità, così come il diritto e la moralità sono solo un momento dello svolgimento dello spirito oggettivo. Infatti, Hegel accompagna al riconoscimento dell’importanza e della funzione positiva dell’individualità, in tutte le sue manifestazioni (diritto, moralità, lavoro), la critica serrata dell’individualismo quando l’individuo privato voglia presentarsi come fine dello Stato o come fondamento di esso. Torneremo su questo aspetto, ma vale la pena di ricordare subito che la critica dell’individualismo – e quindi anche delle teorie liberali – è sicuramente uno dei punti centrali della filosofia politica di Hegel. È questo il significato della sua critica del giusnaturalismo inteso come teoria che fonda lo Stato su un contratto tra gli individui (vedi p. 889). Ora, per Hegel il contratto è una nozione del diritto privato, e come tale non è minimamente in grado di spiegare la natura razionale dello Stato. Come ha fatto notare il filosofo politico Norberto Bobbio (1909-2004), della «grande dicotomia privato / pubblico» il valore maggiore, pur nel riconoscimento dell’importanza del privato, sta per Hegel dal lato del pubblico. Lo Stato, come il filosofo non mancava di sottolineare già a Jena, quando ancora rimpiangeva la dimensione esclusivamente pubblica e comunitaria dell’uomo greco, non è la somma delle sue parti, e quindi non deriva dalla (e non è la) semplice somma delle volontà dei cittadini, ma è qualcosa che, aristotelicamente, li sovrasta. Il tema di un intero statale che è maggiore della somma delle sue parti, come un organismo non è soltanto la semplice somma dei suoi elementi – l’‘organicismo’ hegeliano – è ancora pienamente valido anche nello Hegel maturo dell’Enciclopedia e della Filosofia del diritto, che pure ha ormai accettato la libertà della soggettività moderna.

I caratteri dello spirito oggettivo

Si articola in: diritto astratto, moralità, eticità

Una teoria che include tutti gli aspetti della prassi umana, individuale e sociale

Comprensione razionale della realtà: il reale è razionale, il razionale è reale

Delimitazione del concetto di realtà: non tutto ciò che esiste è razionale Spirito oggettivo Abbandono del rimpianto per l’eticità greca

La morale individualistica moderna è considerata una conquista

Riconoscimento della società civile e del mondo dei bisogni

Supremazia del pubblico sul privato: lo Stato

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Unità 17 Hegel

La struttura dello spirito oggettivo L’andamento dello spirito oggettivo, che costituisce anche il contenuto della Filosofia del diritto del 1821, è quindi dato dai tre termini «diritto astratto», «moralità», «eticità». Nella separazione tra diritto e moralità, che poi troveranno entrambi la loro realizzazione nell’eticità, Hegel riprende la separazione tra diritto e moralità che si trova, in forme in parte diverse, sia in Kant sia in Fichte. L’idea generale che fonda la partizione hegeliana è che la sezione sul diritto riguarda soltanto il diritto privato e soltanto la sfera esterna della vita del soggetto individuale, mentre la sezione sulla moralità, che costituisce la negazione determinata della sezione sul diritto, riguarda il soggetto individuale nella sfera dell’interiorità. Eticità e storia La sezione sull’eticità, infine, sposta lo sguardo dal piano individuale a quello collettivo, mentre la parte finale dello spirito oggettivo muove dal rapporto tra gli Stati verso la storia universale, che viene però trattata molto più estesamente nelle lezioni sulla filosofia della storia.

Diritto e moralità come sfere individuali

Il diritto astratto Diritto privato e personalità giuridica

Proprietà, accordo e contratto

L’illecito e la vendetta

La pena come diritto del delinquente

Il punto di partenza dello spirito oggettivo è quindi il diritto astratto come diritto privato, anch’esso articolato in tre parti: la «proprietà», il «contratto» e l’«illecito». Il protagonista, sul piano del diritto astratto, è la semplice persona come persona giuridica, formale, per la quale l’imperativo giuridico è «sii una persona e rispetta le altre persone». La prima realizzazione della personalità giuridica è la proprietà, nella quale la persona si dà una sfera esterna per la sua attività libera attraverso l’azione sulle cose e la modificazione di esse. Ma sono un’azione e una modificazione del mondo esterno che sono possibili soltanto attraverso l’accordo con altre persone grazie a un contratto. È il mancato accordo che si configura invece nella figura dell’illecito, e nella conseguente riparazione di esso che esiste inizialmente come vendetta privata, che dal punto di vista del contenuto è giusta, perché ripara l’illecito, ma dal punto di vista della forma è ingiusta, perché la vendetta è semplice fatto privato, che non è universale come deve invece essere la pena, ovvero la lesione per il delinquente. Anche sul piano del diritto, quindi, la semplice privatezza dei rapporti procede verso il proprio superamento, e con la sottolineatura dell’insufficienza della vendetta come fatto privato, e, significativamente, con la critica delle tesi di Beccaria. Quest’ultimo, infatti, nella sua critica della pena di morte partiva dalla tesi errata, secondo Hegel, che lo Stato si fondi su un contratto, ossia su ciò che ha valore soltanto sul piano privato. Il carattere universale della pena consiste nel suo essere non vendicativa, ma punitiva, e nel riconoscere la razionalità del delinquente. Con una tesi che ha fatto molto discutere, infatti, Hegel ritiene che la pena sia essa stessa un riconoscimento che chi ha violato la legge è un essere razionale, e come tale deve essere punito. La pena è quindi, paradossalmente, «un diritto posto nel delinquente stesso». Attraverso il carattere universale della pena è possibile il passaggio alla «moralità». 917

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Parte terza L’idealismo

La moralità Struttura e origini della moralità

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Socrate come fondatore della morale Filosofia della storia, Introduzione

La responsabilità

Il dovere come espressione della soggettività

Doveri e diritti diventano concreti solo nell’eticità

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Come il diritto si fonda sulla persona e sulla sua sfera semplicemente esterna, così la moralità si fonda sul soggetto le cui espressioni si articolano nelle tre parti di «proponimento e responsabilità», «intenzione e benessere», «bene e coscienza morale». Siamo ancora sul piano individuale, come nel diritto, e quindi su un piano insufficiente, ma che ha una sua specifica importanza dopo che nel mondo moderno, grazie all’intuizione precorritrice di Socrate, attraverso il cristianesimo e, poi, con la Riforma protestante, è stato riconosciuto il diritto della libertà soggettiva che non esisteva nel mondo antico. Il fondatore della moralità è infatti, al tramonto dell’eticità antica, Socrate, che ha precorso i valori del cristianesimo valorizzando la libertà dell’individuo e la sua interiorità, come appare con chiarezza anche nelle lezioni sulla filosofia della storia. Socrate, poi, dichiarò che la libertà interiore, quella determinata dal pensiero, è il bene, ed è assolutamente universale. Così è sorta la libertà del pensiero, che comprende se stesso. Socrate ha portato l’interiorità del pensiero a coscienza di sé, in modo che la misura di ciò che è giusto ed etico venne posta nella coscienza. In ciò era implicito il contrasto fra quello che fin’allora era stato etico e ciò che doveva essere tale nell’epoca seguente: prima di questa età, i Greci non avevano coscienza. Socrate è celebre come maestro di moralità, ma in realtà egli è l’inventore della morale. Egli dichiarò realtà suprema e determinante il pensiero. I Greci avevano un’eticità del costume: ma Socrate volle insegnare loro quali virtù morali, quali valori, ecc., dovesse avere l’uomo. L’uomo morale non è quello che semplicemente vuole e attua ciò ch’è giusto, non è l’uomo innocente, bensì colui che ha la coscienza del suo agire. Nella sezione sulla moralità troviamo i temi già affrontati da Hegel in altri scritti, e che hanno per obiettivi polemici le filosofie contemporanee, a partire da Kant e da Fichte. Qui, i diritti della particolarità soggettiva sono innanzitutto il diritto di vedersi imputare solo ciò che il soggetto riconosce come sua azione, come un’azione che egli si è proposto di compiere e per la quale è responsabile. Si tratta di azioni che hanno la propria radice nelle decisioni e nella consapevolezza dell’agente che vuole così realizzare anche il proprio benessere e la propria felicità, che sono il benessere e la felicità di tutti. Ma il punto di vista morale è soprattutto il punto di vista del dovere, il dovere astratto kantiano che però rimane astratto, secondo Hegel, perché è fermo al punto di vista, appunto, della moralità, al punto di vista soggettivo che ritiene di determinare arbitrariamente, a partire da se stesso, cosa sia il bene, e che per questo va incontro al perenne rischio dell’errore e dell’ipocrisia, e quindi del male. In realtà, sia il piano del diritto astratto sia quello della moralità sono insufficienti per attingere una dimensione concreta, e l’uno e l’altra non possono che realizzarsi all’interno dell’eticità, cioè all’interno della vita collettiva nelle sue diverse determinazioni. La stessa vita individuale, infatti, sia sul piano giuridico sia sul piano morale, non si realizza se non all’interno di un tessuto sociale e istituzionale: soltanto in quest’ultimo diventano concreti tanto i doveri quanto i diritti dei cittadini. Doveri e diritti, una volta inseriti nella vita collettiva, non sono più enunciazioni astratte, ma doveri e diritti determinati che a ciascuno spettano nei determinati ruoli che assume all’interno della famiglia, della società e delle istituzioni

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Unità 17 Hegel

(«nei suoi rapporti»). La nozione di ‘dovere’ assume così, a parere di Hegel, una concretezza che mancava nelle teorie precedenti e in particolare nella teoria morale di Kant: la dottrina dei doveri è realmente possibile soltanto all’interno della vita sociale e per individui determinati. L’inserimento dell’individuo all’interno delle diverse sfere della società (famiglia, società civile, Stato) – anche sulla base delle sue scelte e delle sue disposizioni – implica l’assunzione di determinati compiti e quindi di determinati doveri, ed è la sua appartenenza a un determinato tessuto sociale e istituzionale che garantisce i suoi diritti. Questo avviene sul piano dell’eticità.

T20

I doveri e i diritti

Lineamenti di filosofia del diritto, par. 148 Annotazione, par. 150 Annotazione, par. 153

La dottrina etica dei doveri, cioè com’essa è oggettivamente, non deve essere raccolta nel vuoto principio della soggettività morale, come tale che anzi non determina nulla – è pertanto lo sviluppo sistematico, seguente in questa terza parte [cioè: l’eticità], della cerchia della necessità etica. […] una immanente e conseguente dottrina dei doveri non può esser nient’altro che lo sviluppo dei rapporti che ad opera dell’idea della libertà son necessari, e pertanto reali nella loro intera estensione, nello Stato […]. Che cosa l’uomo debba fare, quali sono i doveri ch’egli deve adempiere per esser virtuoso, è facile a dire in una comunità etica – non c’è nient’altro da fare, da parte sua, se non ciò che a lui nei suoi rapporti è tracciato, enunciato e noto […]. Il diritto degli individui per la loro destinazione soggettiva alla libertà ha il suo compimento nel fatto ch’essi appartengono alla realtà etica, giacché la certezza della loro libertà ha la sua verità in tale oggettività.

L’eticità Le articolazioni dell’eticità

La famiglia

La società civile e il sistema dei bisogni

Strutture di ordine nella società civile

L’eticità moderna non è più quindi, come quella antica, un’identità immediata tra l’individuo e il tessuto sociale, ma un’articolazione sociale e istituzionale che riconosce al proprio interno una molteplicità di individui liberi e una molteplicità di realtà e di istituzioni: la famiglia, la società civile, lo Stato. La famiglia si articola nei diversi momenti del matrimonio, della costituzione del patrimonio della famiglia, dell’educazione dei figli e dello scioglimento della famiglia. Essa rappresenta l’eticità immediata destinata, con la crescita dei figli, a risolversi in una pluralità di famiglie e quindi, dal punto di vista hegeliano, a una perdita dell’immediatezza e della compattezza, e quindi a una seppur provvisoria «perdita dell’eticità» nel disperdersi degli individui all’interno della grande innovazione hegeliana, la «società civile». La società civile costituisce il segno del riconoscimento hegeliano della novità del mondo contemporaneo dell’economia e del lavoro, come si è detto, ed è articolata in «sistema dei bisogni», «amministrazione della giustizia» e «polizia e corporazione». Il suo punto di partenza è infatti il suo tratto più caratteristico, ed è costituito da un’analisi estremamente acuta del mondo del lavoro sulla base della quale si svilupperanno anche le riflessioni di Marx. La società civile non si esaurisce però nel sistema dei bisogni, poiché nell’ottica di Hegel già all’interno di essa è necessario ricostituire forme di unità e di armonizzazione della vita sociale: è questa la funzione svolta dall’amministrazione della giustizia da un lato e dalla polizia e dalla corporazione dall’altro. Queste rappresentano il primo accenno del ricostituirsi di un ordine all’interno di un 919

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Divisione del lavoro e interdipendenza degli individui

Il bourgeois come uomo concreto

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Il cittadino come bourgeois Lineamenti di filosofia del diritto, par. 190 e Annotazione

mondo economico, sociale e giuridico che non è ancora lo Stato come eticità compiuta, ma nel quale lo Stato è presente attraverso alcune istituzioni. Il sistema dei bisogni mostra la consapevolezza hegeliana del moderno mondo del lavoro in cui si assiste alla moltiplicazione dei bisogni, alla divisione del lavoro e alla conseguente reciproca interdipendenza degli individui. Con un’espressione che sarà usata nel suo senso esclusivamente critico in Marx e nel marxismo, Hegel parla per la società civile di libertà «formale», per sottolineare il carattere ancora limitato della libertà nella società civile (che non è ancora lo Stato). Nel marxismo, questo aspetto ‘formale’ sta a significare il carattere apparente, limitato, ‘borghese’ della libertà. In realtà, la libertà formale del mondo dei bisogni e del lavoro è, per Hegel, sì limitata, ma è soprattutto una conquista, tramite la quale egli dimostra in modo chiaro la propria attenzione per la concretezza degli individui come soggetti di bisogni e quindi come uomini concreti (l’obiettivo polemico è l’uso astratto del termine «uomo», tipico delle Dichiarazioni dei diritti), che anche in questo si differenziano dagli animali. Compare qui la distinzione, anch’essa utilizzata da Marx soprattutto nei suoi primi scritti, tra il cittadino come soggetto dei bisogni e del lavoro, e quindi come soggetto del mondo economico-sociale, il bourgeois, che non costituisce ancora la pienezza della qualifica di «cittadino», e il cittadino come cittadino dello Stato. L’animale ha una cerchia limitata di mezzi e modi dell’appagamento dei suoi bisogni in pari modo limitati. L’uomo dimostra anche in questa dipendenza in pari tempo il suo andare al di là della medesima e la sua universalità, dapprima attraverso la moltiplicazione dei bisogni e mezzi, e poi attraverso la scomposizione e differenziazione del bisogno concreto in singole parti e lati, che divengono diversi bisogni particolarizzati, quindi più astratti. Nel diritto l’oggetto è la persona, nel punto di vista morale il soggetto, nella famiglia il membro della famiglia, nella società civile in genere il cittadino (come bourgeois) – qui nel punto di vista dei bisogni […] è il concreto della rappresentazione, il quale vien denominato uomo; – è dunque per la prima volta qui e anche propriamente soltanto qui che si parla dell’uomo in questo senso.

Il sistema dei bisogni della società civile, fondato sulla divisione del lavoro, è un «sistema dell’interdipendenza» nel quale vari fattori contribuiscono alla disuguaglianza, cioè alla differenza dei patrimoni e al formarsi degli stati o ceti (gli Stände), cioè le diverse classi sociali che si articolano nello stato «sostanziale», cioè dell’agricoltura, nello stato «dell’industria» (artigianato, addetti alle fabbriche, commercio) e nello stato «universale», che per Hegel è rappresentato dai funzionari dello Stato, che si occupano degli interessi universali. Ciò che caratterizza gli individui del sistema dei bisogni è il loro perseguire, da soggetti economici quali Hegel li ritiene, il proprio interesse egoistico: questa è nella società civile un aspetto importante del riconoscimento specificamente moderno dei diritti della particolarità soggettiva. Il sistema dei bisogni è il luogo della realizzazione degli interessi privati dei cittadini come bourgeois. La polizia Con l’amministrazione della giustizia, compaiono nella società civile i primi elee la corporazione menti di ordine, attraverso i processi e i tribunali ai quali il cittadino può ricorrere: si tratta dell’esercizio concreto del diritto all’interno della vita sociale, non più sul piano semplicemente astratto della sezione sul diritto, ma come concreto esercizio della giurisdizione che tutela gli interessi dei bourgeois. Una stessa fun-

Gli stati o ceti: agricoltura, industria, funzionari

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Corporazione e tutela dell’«onore»

Lo Stato come fine di se stesso

Lo Stato come punto d’arrivo e come fondamento

zione di riorganizzazione della vita sociale ce l’hanno la polizia – da intendersi nel senso settecentesco di «amministrazione pubblica» – che si deve anche occupare di problemi sociali come la povertà, e la corporazione, che limita il mondo egoistico del libero scambio visto nel sistema dei bisogni e che costituisce, insieme con la famiglia, la seconda radice ‘etica’ dello Stato. Qui gli individui vengono parzialmente protetti dalle accidentalità della vita economica e vedono riconosciuto – grazie a questa istituzione di origine medievale – l’«onore» della propria condizione sociale e della propria professione. È attraverso questa radice etica costituita dalla corporazione che è reso possibile il passaggio dalla società civile allo Stato. Lo Stato è «la realtà dell’idea etica», e come si evince dalla trattazione della società civile, non è da confondersi con questa, ovvero non è da intendersi come un’istituzione che abbia per fine la protezione della proprietà e della sicurezza dei cittadini. Il fine dello Stato è piuttosto la propria conservazione, e i cittadini vivono in esso e in esso ottengono «la propria universalità». Ciò non vuole affatto dire che i cittadini vivano sacrificandosi per i fini dello Stato, se non in casi – vedremo – significativi ma particolari: nello Stato infatti i cittadini raggiungono, dal loro punto di vista soggettivo, anche la propria soddisfazione e il perseguimento del proprio interesse particolare. Ma lo Stato non è semplicemente questo, indipendentemente dalle motivazioni individuali dei propri cittadini. Lo Stato è qualcosa che include il perseguimento del proprio interesse da parte dei singoli, ma in realtà diritto e moralità soggettiva, famiglia e società civile hanno essi stessi lo Stato a loro fondamento: altrimenti, non sono che astrazioni. È ancora una volta un’applicazione del metodo ‘circolare’: lo Stato è il punto d’arrivo dell’esposizione dello spirito oggettivo, ma secondo il metodo hegeliano è al tempo stesso il fondamento di ciò che precede.

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Se lo Stato vien confuso con la società civile e la destinazione di esso vien posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse degli individui come tali è lo scopo ultimo per il quale essi sono uniti, e ne segue parimenti che esser membro dello Stato è qualcosa che dipende dal proprio piacimento. Ma lo Stato ha un rapporto del tutto diverso con l’individuo; giacché lo Stato è spirito oggettivo, l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità soltanto in quanto è un membro del medesimo. L’unione come tale è essa stessa il verace contenuto e fine, e la destinazione degli individui è di condurre una vita universale; l’ulteriore loro particolare appagamento, attività, modo del comportamento ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido.

Il diritto statuale interno: unità dei poteri

La vita dello Stato si articola in tre distinti momenti che sono il «diritto statuale interno», il «diritto statuale esterno» (ovvero il rapporto tra gli Stati) e la «storia del mondo» o storia universale. Il diritto statuale interno consiste nell’ordinamento costituzionale, nel quale Hegel riprende la teoria della separazione dei poteri ma vedendoli non tanto come una vera e propria separazione in cui un potere debba bilanciare l’altro, ma come elementi che fanno parte di un’unità. I poteri presi in esame da Hegel, infatti, non sono il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario, ma il «potere del principe», il «potere governativo» e il «potere legislativo», dove si nota la mancata indipendenza del potere giudiziario rispetto al potere esecutivo o governativo.

Stato e società civile non vanno confusi Lineamenti di filosofia del diritto, par. 258 Annotazione

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Dal punto di vista della forma del governo, quella di Hegel è, in sostanza, una monarchia costituzionale. Per quanto riguarda il rapporto dell’individuo con lo Stato, Hegel ritiene che lo stesso patriottismo vada visto come una «disposizione d’animo politica» sorretta dalla fiducia nello Stato che quindi non deve essere inteso come disponibilità ad azioni straordinarie, ma piuttosto come «la disposizione d’animo, la quale nelle relazioni di vita e situazioni ordinarie è avvezza a sapere la comunità per la sostanziale base e finalità». La necessità Nei rapporti tra gli Stati, e nella riconosciuta necessità, o addirittura nella valudella guerra tazione positiva, della guerra (che viene descritta come «il movimento dei venti che salva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole»), Hegel vede poi l’ennesimo segno di quanto sia errata l’idea che lo Stato abbia per fine la sicurezza e la proprietà dei cittadini: proprio nella guerra, infatti, la vita e la proprietà dei cittadini vengono messe in pericolo, se necessario, in nome della conservazione dello Stato.

La monarchia costituzionale

La struttura dello spirito oggettivo

Diritto astratto: protagonista è la persona giuridica – proprietà, sfera esterna della libertà della persona – contratto, come accordo con gli altri per modificare il mondo esterno – illecito, come rottura degli accordi Attraverso il carattere universalmente razionale della pena si passa alla moralità

Moralità: come diritto del soggetto libero, nasce con Socrate; Hegel riprende la polemica con Kant e Fichte – proponimento e responsabilità, come presupposti necessari per l’agire morale – intenzione e benessere, come fini soggettivi della morale – bene e coscienza morale, la scelta soggettiva è sempre in bilico tra bene e male, è a rischio di errore Solo nella vita collettiva (eticità) diritti e doveri divengono concreti

Eticità: le forme della vita collettiva degli individui liberi che si realizza in molteplici istituzioni – famiglia, come forma dell’eticità immediata (matrimonio, patrimonio familiare, educazione dei figli, scioglimento della famiglia) – società civile, come mondo dei bisogni, strutturata in istituzioni che armonizzano la vita associata (amministrazione della giustizia, corporazioni, polizia) – Stato, come totalità in cui tutte le parti precedenti trovano la loro unità

La storia universale: la filosofia della storia Contrario alla concezione kantiana della «pace perpetua», che presuppone proprio ciò che vuole instaurare – la concordia tra gli Stati –, Hegel vede nel rapporto tra gli Stati un rapporto sempre potenzialmente conflittuale, per l’insussistenza di un’autorità superiore che possa appianare i contrasti. È proprio con il rapporto tra gli Stati che si conclude lo spirito oggettivo, che ha per esito la storia del mondo o storia universale, detta da Hegel il «tribunale universale», ovvero l’unico effettivo giudizio che possa essere dato sui conflitti. La storia del ➥ Laboratorio di lettura, mondo ottiene così un diritto assoluto, perché ciò con cui ci dobbiamo confronp. 931 tare è innanzitutto ciò che è realmente avvenuto, e non ciò che possiamo pensare che sarebbe dovuto avvenire; inoltre, la storia è un processo che non tiene conto delle vicende dei singoli individui, la cui sorte è qualcosa di contingente. L’astuzia della ragione Ma Hegel è ben lungi dal pensare che la storia sia un processo irrazionale, al contrario: come la libertà si realizza attraverso i diversi momenti dello spirito oggettivo – diritto, moralità ed eticità – così il suo dispiegamento e la sua realizzaStoria del mondo e diritto assoluto

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zione hanno anche una dimensione cronologica, che consiste proprio nella storia del mondo. Ciò segna anche la grande differenza tra la natura e lo spirito: della natura non c’è storia perché in essa non v’è spirito, non v’è sviluppo e non v’è progresso. Al contrario, nella storia degli uomini agisce l’«astuzia della ragione» che va ben al di là dell’intenzione degli uomini che agiscono in essa, e che comunque mai ha per fine la felicità degli individui. Gli individui al servizio I periodi di felicità, nella storia, sono «pagine vuote», sia che si prendano in esadello spirito universale me gli uomini comuni, sia che si prendano in considerazione quei rari individui – come Alessandro Magno, Cesare o Napoleone – che hanno promosso il corso della storia, ovvero gli individui «cosmico-storici». La loro peculiarità consiste anche nell’avere ottenuto la loro propria soddisfazione: negli individui «cosmicostorici» questa non è un fine individuale legittimo ma particolaristico come la felicità, ma un fine diverso, di carattere universale, che ha rappresentato un avanzamento reale dello «spirito universale». Raggiunto il fine che si sono proposti, e che ha un significato universale o «storico», la loro sorte individuale ha una dimensione tragica, perché anche la loro individualità è sottoposta alla transitorietà dell’esistenza personale, per cui, svolto il loro ruolo storico, «somigliano a involucri vuoti che cadono» e la loro stessa vita, spesso, va incontro a una fine prematura.

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Gli individui «cosmico-storici» Filosofia della storia, Introduzione

Le tappe della storia del mondo dalla teocrazia alla libertà come riconciliazione tra razionalità e Stato

➥ Sommario, p. 928

Se gettiamo ora uno sguardo sulla sorte di questi individui cosmico-storici, vediamo che essi hanno avuto la fortuna di esser gli agenti di un fine, che costituisce un grado nel corso evolutivo dello spirito universale. In quanto, però, essi sono anche stati soggetti distinti da questa loro sostanza, non hanno avuta quella che comunemente si dice felicità. Ma neppure volevano averla, bensì attingere il loro fine; e l’hanno attinto col loro faticoso lavoro. Essi hanno saputo soddisfarsi, hanno saputo realizzare il loro fine, il fine universale. Di fronte a un fine così grande, si sono proposti audacemente di tendervi, contro ogni opinione degli uomini. Ciò che scelgono non è quindi la felicità, bensì fatica, lotta, lavoro per il loro fine. Raggiunto il loro scopo, non sono passati alla tranquilla fruizione, non son diventati felici. Ciò che sono, è stata la loro opera: questa loro passione ha determinato l’ambito della loro natura, del loro carattere. Raggiunto lo scopo, essi somigliano a involucri vuoti che cadono. È forse stato duro, per loro, assolvere il loro compito; e, nel momento in cui ciò è accaduto, son morti presto come Alessandro, o sono stati assassinati come Cesare, o deportati come Napoleone. La storia del mondo procede, per Hegel, da oriente verso occidente attraverso quattro tappe principali: il «regno orientale», il «regno greco», il «regno romano», il «regno germanico». Il primo è il regno della teocrazia, del dispotismo teocratico di tipo patriarcale, il secondo è il regno della bella libertà, dell’arte e della sostanza etica dei greci, presso i quali però vige ancora la schiavitù. Nel mondo dell’impero romano l’individuo diventa persona giuridica, ma perde la propria libertà poiché gli individui decadono a persone private tenute insieme «soltanto da un arbitrio astratto, spingentesi nell’immane». La mancata realizzazione della libertà nel mondo conduce alla scoperta dell’interiorità promossa prima dal cristianesimo e poi dalla Riforma protestante, la quale ha fatto sì che, in Germania, non sia stata necessaria una rivoluzione come si è avuta in Francia, per l’affermazione della libertà come riconciliazione tra razionalità e Stato: è lo Stato moderno, la cui natura razionale viene descritta nella Filosofia del diritto. 923

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Parte terza L’idealismo La filosofia della storia hegeliana

Hegel vede nelle relazioni tra gli Stati un rapporto sempre potenzialmente conflittuale: l’inevitabilità della guerra

La storia come dispiegamento e realizzazione della libertà

Nella storia degli uomini agisce l’astuzia della ragione che va al di là dell’intenzione degli uomini e che non ha per fine la felicità degli individui

Gli individui cosmico-storici sono al servizio dello spirito universale

Le tappe principali del cammino dello spirito nella storia verso la libertà: – il regno orientale – il regno greco – il regno romano – il regno germanico

11 La coscienza di sé dello spirito ha tre forme: arte, religione, filosofia

I caratteri dello spirito assoluto

La filosofia dello spirito: lo spirito assoluto Nonostante le molte critiche rivolte a Hegel per avere ‘assolutizzato’ lo Stato, lo spirito oggettivo non costituisce il culmine del sistema hegeliano: la storia non è la forma più elevata di manifestazione dello spirito. La coscienza di sé dello spirito si compie infatti, nel sistema della filosofia, con lo spirito assoluto, articolato in «arte», «religione» e «filosofia» come diverse forme di espressione dell’Assoluto. Ciò che cambia in queste tre diverse forme – che hanno tutte per oggetto l’Assoluto – è il diverso modo in cui lo esprimono, o lo comprendono, cioè il diverso modo in cui lo spirito comprende se stesso: l’«intuizione» per l’arte, la «rappresentazione» per la religione – entrambe quindi forme limitate da una propria unilateralità di prospettiva – e il «pensiero consapevole di sé» per la filosofia. Tutte queste forme di comprensione dell’Assoluto non sono solo forme astratte del sistema, ma si realizzano ciascuna in una dimensione concreta, storica.

Forma più elevata di manifestazione dello spirito Spirito assoluto Lo spirito raggiunge la piena conoscenza e la piena coscienza di sé

L’arte Forma incompleta di conoscenza dell’Assoluto

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Per quanto riguarda l’arte, va notata innanzitutto la polemica hegeliana nei confronti dei romantici: al contrario di questi, per Hegel l’arte non è la forma suprema di espressione dell’Assoluto, ma una sua forma incompleta. Lo spirito procede dall’intuizione dell’arte alla rappresentazione della religione al sapere con-

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cettuale della filosofia. L’arte non è quindi il modo più alto per esprimere la verità. Inoltre, un esame della considerazione hegeliana dell’arte non può affidarsi soltanto ai pochi paragrafi ad essa dedicati nell’Enciclopedia, ma deve utilizzare anche le lezioni sull’estetica (trascritte da un allievo), che Hegel tiene dal 1818 al 1828/1829, dove troviamo trattate le diverse forme universali dell’arte: «simbolica», «classica» e «romantica», alle quali corrispondono rispettivamente le singole arti dell’architettura, della scultura e di pittura, musica e poesia. L’arte simbolica La forma simbolica è la prima forma di arte, ed è in realtà preparatoria alla nozione della bellezza che si realizza soltanto nell’arte classica. Essa prende le mosse da fenomeni naturali e figure animali e si conclude con la figura egiziana della Sfinge, nella sua ambiguità tra figura animale e figura umana e nell’enigmaticità che indica l’indeterminatezza e la problematicità dello spirito rispetto a se stesso. L’arte classica L’arte classica è l’arte greca che raffigura al meglio la bellezza sensibile nella figura umana e che matura sul terreno dell’eticità spontanea: è nell’ammirazione verso questa forma d’arte che Hegel esprime tutta la sua affinità con l’ideale neoclassico proposto da J. Joachim Winckelmann, un ideale che nel mondo antico entra in crisi attraverso la tragedia e, soprattutto, attraverso il comico e la satira. L’arte romantica L’arte romantica non va identificata con il movimento romantico tedesco contemporaneo a Hegel, ma con l’intera civiltà postclassica e cristiana. Con la ‘scoperta’ dell’interiorità propria del cristianesimo, il materiale sensibile si rivela sempre più inadeguato a esprimere l’Assoluto. Nell’arte romantica il rapporto tra contenuto e forma sensibile è inverso rispetto alla prima forma di arte, l’arte simbolica: in quest’ultima, la forma sensibile risulta dominante rispetto al contenuto, mentre nell’arte romantica, cioè nell’epoca moderna, la forma sensibile non è più in grado di dare espressione al contenuto dello spirito. È l’arte classica, insomma, l’unica nella quale questo rapporto è espresso armonicamente. Con l’arte romantica, invece, non spetta più all’arte dare espressione adeguata alla verità dello spirito: è in questo senso determinato che Hegel parla di «morte dell’arte».

La religione Anche per la religione, la trattazione dell’Enciclopedia è limitata: qui, troviamo affrontata soltanto la religione rivelata ossia la religione cristiana, che costituisce il punto d’arrivo delle forme di manifestazione dello spirito attraverso la religione. Una trattazione più estesa la si trova già nella Fenomenologia o, ancora una volta, nelle lezioni hegeliane, delle quali possediamo prevalentemente trascrizioni fatte dagli uditori. La trattazione della Enciclopedia corrisponde del resto a un’esigenza sistematica: è la religione rivelata, infatti, come religione cristiana, a svolgere nel mondo moderno la funzione di punto più alto dello sviluppo svolta dall’arte classica nel mondo antico. La religione rivelata La religione cristiana è quindi un punto d’arrivo delle diverse forme di religione. o cristiana come forma Le religioni determinate che l’hanno preceduta sono la «religione immediata o superiore della natura», che corrisponde alle religioni orientali, e «la religione dell’individualità spirituale» come religione del sublime (la religione ebraica), come religione della bellezza (la religione greca), e infine come religione della finalità o del fato (la religione romana). Il cristianesimo è la rivelazione della verità che permette il passaggio all’ultima forma dello spirito assoluto, cioè alla filosofia, che è l’unità dell’arte e della religione. Diverse trattazioni della religione

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La filosofia La filosofia è la conoscenza dell’Assoluto da parte di se stesso, è l’assoluta razionalità che ha se stessa per oggetto anche nel suo svolgimento storico, come viene mostrato nelle lezioni sulla storia della filosofia che Hegel tiene già a partire dal 1807. Il problema è naturalmente come sia possibile non ridurre tutta la storia della filosofia a una serie di opinioni che si succedono nel tempo, ovvero come sia possibile rendere compatibili la molteplicità delle filosofie e l’unicità della verità, di cui Hegel è con certezza convinto assertore. Non è una questione agevole da risolvere, e lo stesso Hegel si trova, in realtà, in difficoltà. È lui a dire che la «prima idea» che ci si può fare potrebbe essere quella di trovarsi di fronte a una contraddizione tra la filosofia e il fatto che essa abbia una storia. Le filosofie come tappe La soluzione che il filosofo suggerisce è che la storia della filosofia sia, come l’indel percorso sieme delle figure logiche del sistema, un processo dialettico: le figure che si sucdello spirito cedono (e che in questo caso si sono incarnate storicamente attraverso le concezioni dei filosofi) non sono parti di un processo all’interno del quale, una volta che si siano consumate, esse scompaiono. Esse vengono conservate nel movimento complessivo come tappe del percorso dello spirito. È l’ennesima ricomposizione dell’unità operata dalla potenza della razionalità: gran parte della filosofia dell’Ottocento sarà dedicata a frantumare la prima e a mettere in dubbio la ➥ Sommario, p. 928 seconda. La storia della filosofia

La struttura dello spirito assoluto

Arte: lo spirito si comprende attraverso l’intuizione

Religione: lo spirito si comprende attraverso la rappresentazione

Filosofia: lo spirito si comprende attraverso il concetto

– arte simbolica – arte classica – arte romantica

– religione immediata o della natura (orientale) – religione dell’individualità spirituale (ebraismo, religione greca e romana) – religione rivelata (cristianesimo)

– le filosofie come tappe di manifestazione dello spirito – la storia della filosofia come storia di un processo dialettico che comprende razionalmente in unità tutte le molteplici filosofie

«Morte dell’arte»: non spetta più all’arte dare espressione adeguata alla verità dello spirito

Il cristianesimo è la rivelazione della verità che permette il passaggio alla filosofia

Suggerimenti bibliografici Un’introduzione sintetica e completa: V. Verra, Introduzione a Hegel, Laterza, Roma-Bari 1988. Un’introduzione non elementare, incentrata sulla centralità della speculazione dialettica: H. Schnädelbach, Hegel, il Mulino, Bologna 2002. Una monografia stimolante è R. Bodei, Sistema ed epoca in Hegel, il Mulino, Bologna 1975. Un testo a più mani che affronta tutti i più importanti temi della filosofia hegeliana: C. Cesa (a cura di), Guida a Hegel, Laterza, Roma-Bari 1997. Un’opera che riunisce gli interventi dei maggiori studiosi italiani: P. Rossi (a cura di), Hegel. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1992. Un’indagine acuta e originale della Fenomenologia: S. Landucci, Hegel: la coscienza e la storia.

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Unità 17 Hegel Approssimazione alla ‘Fenomenologia dello spirito’, La Nuova Italia, Firenze 1976. Un’analisi puntuale della nozione di contraddizione: S. Landucci, La contraddizione in Hegel, La Nuova Italia, Firenze 1978. Un classico che studia l’evoluzione del pensiero etico-politico hegeliano: F. Rosenzweig, Hegel e lo stato, il Mulino, Bologna 1976. Una raccolta di saggi sul pensiero giuridico-politico: N. Bobbio, Studi hegeliani, Einaudi, Torino 1981. I brani antologizzati sono tratti da: G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1827-1830, trad. a cura di B. Croce, introduzione di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1975. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1999. G.W.F. Hegel, Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Id., Primi scritti critici, Mursia, Milano 1971. G.W.F. Hegel, Fede e sapere, in Primi scritti critici, cit. G.W.F. Hegel, Le diverse maniere di trattare scientificamente il diritto naturale, in Scritti di filosofia del diritto (1802-1803), a cura di A. Negri, Laterza, Bari 1962. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1817, trad. a cura di F. Biasutti e altri, Verifiche, Trento 1987. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, trad. a cura di A. Moni, riv. da C. Cesa, introd. di L. Lugarini, Laterza, Bari 1978. G.W.F. Hegel, Filosofia della storia, a cura di C. Cesa, La Nuova Italia, Firenze 1981.

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Parte terza L’idealismo

Sommario 1. LA

FILOSOFIA COME SISTEMA DELLA COMPRENSIONE

RAZIONALE

Per Hegel la filosofia è scienza perché è un sistema, l’unica forma appropriata alla conoscenza vera, quella realizzata attraverso i concetti, e perché comprende tutta la realtà, quando si presenta sia come natura sia come spirito, ossia l’insieme delle forme del sapere e della cultura umana. La realtà è una totalità unitaria, una ragione assoluta e infinita che Hegel chiama Idea o Assoluto. Il rapporto tra totalità e parti è assimilato a quello tra infinito e finito, due realtà comprensibili solo attraverso il rapporto reciproco. Il metodo per conoscere secondo Hegel è la dialettica, il movimento concettuale capace di comprendere positivo e negativo e di superarli in un’unità che conserva entrambi. 2. UN

PROFESSORE E LE SUE LEZIONI

Essere un professore non è per Hegel un mero dato anagrafico: alcune sue opere sono state scritte come manuali universitari e le sue lezioni, raccolte dagli allievi, sono un contributo importante per la comprensione del suo pensiero. 3. RELIGIONE

E FILOSOFIA: GLI SCRITTI GIOVANILI

Nei primi scritti di Hegel, pubblicati nel Novecento, è centrale il confronto con il cristianesimo e con la filosofia kantiana. Hegel passa da un’iniziale adesione alla moralità kantiana alla critica di essa. In questa fase, egli considera la religione come la forma più elevata di conoscenza dell’Assoluto e ritiene l’eticità greca (unità armonica di uomo e comunità) come la più alta. 4. GLI

SCRITTI CRITICI DI

JENA

Nel periodo di Jena, il pensiero di Hegel si avvicina alla sua forma definitiva: egli afferma la tesi che ogni filosofia esprime la propria epoca e sostiene la distinzione tra ragione e intelletto; raggiunge la definizione dell’Assoluto come unità di soggettivo e oggettivo; porta a compimento la critica della filosofia contemporanea approdando a un razionalismo che fa della filosofia la forma più alta di conoscenza; delinea aspetti importanti della sua filosofia pratica come la distinzione tra moralità ed eticità. 5. LA FENOMENOLOGIA

DELLO SPIRITO

Il culmine del periodo jenese è rappresentato dalla Fenomenologia dello spirito. In quest’opera Hegel si propone di superare il sapere apparente e raggiungere il «vero». Lo fa ripercorrendo, in una storia articolata in momenti e figure, le esperienze della coscienza attraverso il sapere, la cultura e la storia umane.

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6. DALLA

FENOMENOLOGIA ALLA LOGICA

Fenomenologia e articolazione del sistema sono due vie per cogliere la verità. Raggiunto il «vero» grazie alla ricomprensione storico-critica della Fenomenologia, Hegel si dedica alla sua esposizione sistematica: logica, filosofia della natura e filosofia dello spirito. 7. IL

SISTEMA: LA LOGICA

La logica presenta l’Idea in sé e per sé prima che essa si estrinsechi nella natura e nello spirito: le strutture logiche sono per Hegel identiche alle strutture della realtà, il pensiero è identico all’essere. Nella realtà la contraddizione è necessaria e la dialettica è l’unico metodo di comprensione della totalità. 8. IL

SISTEMA: LA FILOSOFIA DELLA NATURA

La filosofia della natura è una forma di conoscenza diversa dalla scienza moderna. In essa conosciamo l’Idea nel suo essere altro da sé, in una forma dispersa e accidentale, ma regolata da leggi necessarie. Hegel critica la divinizzazione romantica della natura. 9. IL

SISTEMA: LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO

La filosofia dello spirito affronta l’evolversi della cultura umana come sviluppo della libertà. La sua prima parte è lo spirito soggettivo in cui emergono libertà, intelligenza e volontà dell’individuo. 10. LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO: LO SPIRITO OGGETTIVO

Lo spirito oggettivo è una delle parti più sviluppate del sistema e include tutti gli aspetti della prassi umana. In esso Hegel afferma la natura necessaria e razionale della realtà, in quanto espressione dell’Idea o ragione; riprende la valutazione positiva dell’eticità moderna e la distinzione moralità / eticità; riconosce il valore dell’evoluzione sociale ed economica del mondo moderno (società civile e ceti), ma critica l’individualismo ponendo lo Stato come incarnazione dell’Idea in ambito etico e unità organica di tutte le altre forme. Lo spirito oggettivo si conclude con una filosofia della storia in cui i protagonisti sono gli Stati e, talvolta, alcuni individui capaci di realizzare i fini dello «spirito universale». 11. LA

FILOSOFIA DELLO SPIRITO: LO SPIRITO ASSOLUTO

Lo spirito assoluto è il termine del cammino dello spirito che raggiunge la piena conoscenza e coscienza di sé, come espressione dell’Idea o Assoluto. Esso si intuisce attraverso l’arte, si rappresenta attraverso la religione e si conosce in forma concettuale nella filosofia. Queste tre forme di conoscenza ripercorrono l’intera storia dell’umanità e culminano con la storia della filosofia come unità dialettica di tutto il pensiero umano.

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Parole chiave Alienazione / estraniazione. Un momento del dinamismo interno dell’Idea: quando essa diviene altro da sé perdendo la propria unità immediata o producendo la natura.

integrandole attraverso la dialettica. Esiste anche un infinito ‘cattivo’ che si limita a prolungare indefinitamente la finitezza senza riuscire a riportarla all’unità.

Concetto. Nella tradizione il termine indica un contenuto o oggetto della mente. In Hegel questi contenuti sono reali e rappresentano la struttura razionale oggettiva e metafisica del mondo, che la nostra mente è in grado di cogliere e che ci permette la conoscenza vera.

Idea. In Hegel l’Idea è ‘ciò che è’, la sostanza, l’Assoluto, la ragione assoluta e infinita che abbraccia l’intera realtà. Nell’articolazione del sistema essa si presenta per la prima volta nella terza sezione della dottrina del concetto, la terza parte della Logica, ma la sua conoscenza piena presuppone tutto il sistema.

Contraddizione. Secondo Hegel è il darsi contemporaneamente nella realtà di due enti o concetti opposti. La ragione, però, è in grado di superare ogni volta questa opposizione per ricostituire un’unità in cui entrambi vengono conservati.

Natura / Spirito. La coppia di opposti, entrambi manifestazioni dell’Idea, che costituiscono due livelli della realtà: la natura come idea che diviene estranea a se stessa, lo spirito come idea che si riappropria di sé attraverso tutte le forme del sapere e della cultura.

Coscienza. Termine che indica l’«essere consapevole» di un soggetto. È la protagonista della Fenomenologia, nella quale come «coscienza naturale» o spontanea assume molte forme, passando attraverso gradi diversi di esperienza, fino a raggiungere il sapere assoluto. In un significato più limitato rappresenta anche il primo momento del cammino fenomenologico.

Opposizione. Termine della logica tradizionale che indica tutte le forme della negazione: correlatività (padre / figlio), privazione (vista / cecità), contrarietà (bianco / nero), contraddizione (A / non-A). Hegel la interpreta come un’opposizione reale, una polarizzazione dinamica in cui anche il negativo è dotato di una propria ‘positività’, indicata con l’aggettivo «determinato», usato nel significato di «non vuoto, concreto».

Dialettica. Il movimento in tre momenti che, per Hegel, è costitutivo del reale a ogni livello e in ogni ambito. Fenomenologia. Termine – introdotto da J.H. Lambert nel 1754, formato da «fenomeno», «ciò che appare», e il suffisso «logia», «scienza» – che indica: 1) una scienza che secondo Hegel ha lo scopo di rivelare le forme di sapere apparente e superarle attraverso la dialettica; 2) la storia attraverso cui lo spirito acquisisce questa scienza attraversando tutte le forme del sapere e della cultura (momenti e figure), descritta da Hegel nella Fenomenologia del 1807; 3) una fase dello spirito soggettivo che ripercorre solo i primi tre momenti dell’opera maggiore, quelli in cui è protagonista la coscienza individuale. Figura. Termine che traduce il tedesco Gestalt e indica ogni determinata manifestazione della coscienza, che può essere un tipo di conoscenza, oppure può essere esemplificata attraverso una fase storica, un evento storico, una concezione filosofica o un personaggio letterario. La loro successione segue la legge della dialettica ed è trattata da Hegel nella Fenomenologia. Finito / Infinito. Termini che Hegel usa come sinonimi di parte e totalità, realtà correlative che assumono significato nel rapporto reciproco. Secondo lui, infatti, il finito può essere compreso solo in relazione con l’infinito e l’infinito è la somma di tutte le parti finite, ottenuta non semplicemente per giustapposizione ma

Sistema. Un insieme organizzato di concetti, posti in relazione coerente gli uni con gli altri, che realizza la comprensione razionale, completa, esaustiva e coerente della realtà. Per Hegel esso rappresenta la condizione della filosofia come scienza. Società civile. La forma sociale intermedia tra la famiglia e lo Stato assunta dall’eticità moderna: al suo interno è organizzata a vari livelli, nel mondo del lavoro come sistema dei bisogni, nell’amministrazione della giustizia ecc. Stati o ceti. Le classi sociali ed economiche (Stände) che raggruppano individui accomunati dal lavoro che svolgono: ceto degli agricoltori, dei lavoratori dell’industria (artigianato, addetti alle fabbriche, commercio) e ceto universale, quello dei funzionari dello Stato. Stato. L’istituzione più alta dell’eticità moderna, quella in cui si concretizza la totalità degli interessi parziali. Esso, al tempo stesso, fonda e raccoglie in unità organica tutte le precedenti forme etiche: quindi, secondo la visione di Hegel, l’idea etica trova qui il proprio compimento. Gli Stati sono anche i protagonisti della storia universale, nella quale si confrontano arrivando spesso, necessariamente, alla guerra. Totalità. Termine che indica l’unità delle parti non come semplice somma, ma come insieme integrato, razionale, coerente. 929

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Parte terza L’idealismo

Questionario LA

FILOSOFIA COME SISTEMA DELLA COMPRENSIONE

RAZIONALE

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UN

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Elenca i motivi per cui il ruolo di professore non è un mero dato biografico per Hegel. (max 3 righe)

RELIGIONE 3

GLI

E FILOSOFIA: GLI SCRITTI GIOVANILI

Quali sono le principali critiche che Hegel rivolge all’etica kantiana nei suoi primi scritti? (max 4 righe)

SCRITTI CRITICI DI

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Spiega in un massimo di 4 righe i significati del termine «spirito» all’interno della Fenomenologia.

6

Che differenza c’è tra «momenti» e «figure» nella Fenomenologia? Illustrala con un esempio per ciascuno dei due tipi. (max 6 righe)

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IL

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Quale concezione della filosofia emerge dalla lettura di T1 e T2? (max 4 righe)

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Secondo Hegel in T3, qual è il rapporto che, rispettivamente, la ragione e l’intelletto hanno nei confronti della scissione? (max 2 righe)

16

Per quale motivo Hegel definisce lo scetticismo «una delle figure della coscienza imperfetta» in T6? (max 2 righe)

17

Hegel sostiene in T7 che l’autocoscienza, come essere-per-sé, eguale a se stessa e immediata, «esclude da sé ogni alterità»: cosa sono l’uno per l’altro gli individui in questa posizione immediata? (max 1 riga)

18

Qual è la materia della logica, secondo Hegel in T9? (max 1 riga)

19

Per quale motivo, nella Scienza della logica, il sapere assoluto rappresenta l’unità di tutte le forme («guise») di coscienza, secondo Hegel in T10? (max 2 righe)

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Quale opinione riguardo la contraddizione è respinta da Hegel in T12? (max 1 riga)

21

Hegel definisce in T16 la conoscenza dello spirito come «la più concreta»: che cos’è che le dà significato? (max 1 riga)

22

Secondo Hegel in T19 qual è la caratteristica dell’uomo morale? (max 2 righe)

23

Qual è la destinazione, vera ed etica, degli individui secondo Hegel in T22? (max 1 riga)

DELLO SPIRITO

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FENOMENOLOGIA ALLA LOGICA

La Fenomenologia e l’Enciclopedia hanno in comune uno stesso obiettivo, quale? (max 1 riga)

SISTEMA: LA LOGICA

8

IL

Quale rapporto esiste, secondo Hegel, tra pensiero e realtà? (max 2 righe)

SISTEMA: LA FILOSOFIA DELLA NATURA

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IL

Qual è il giudizio di Hegel sulla scienza? (max 3 righe)

SISTEMA: LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO

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LA

Quali sono le parti dello spirito soggettivo e qual è l’oggetto di ciascuna? (max 5 righe)

FILOSOFIA DELLO SPIRITO: LO SPIRITO OGGETTIVO

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Spiega che differenza esiste, secondo Hegel, tra realtà e accidentalità e qual è il loro rapporto con la razionalità. (max 4 righe)

12

Illustra la nozione hegeliana di società civile e spiega il suo rapporto con lo Stato in un massimo di 8 righe.

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Formula una definizione di spirito assoluto e spiega il rapporto tra esso e l’arte, la religione e la filosofia. (max 4 righe)

Lavoriamo sui testi

JENA

A quale concezione dell’eticità approda Hegel durante gli anni jenesi? (max 1 riga)

LA FENOMENOLOGIA

DALLA

FILOSOFIA DELLO SPIRITO: LO SPIRITO ASSOLUTO

Qual è, secondo Hegel, il rapporto tra totalità e parti all’interno della realtà e attraverso quale metodo è possibile descriverlo? (max 4 righe)

PROFESSORE E LE SUE LEZIONI

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LA

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Unità 17 Hegel

Laboratorio di lettura Lezioni sulla filosofia della storia Nel testo che segue, tratto dalle Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel mostra che nella storia universale, o storia del mondo, l’agire e la funzione degli individui sono una componente essenziale, pur se il senso della storia non consiste nella sorte degli individui particolari, ma nel far sì che lo spirito giunga a comprendere se stesso, come avviene per Hegel soltanto nell’epoca contemporanea. La razionalità della storia si interseca con l’agire sia degli individui comuni sia con quello dei grandi uomini, e si serve di entrambi.

La storia universale e l’agire degli individui Premessa: distinzione tra storia come cammino dello spirito e storia esteriore Analisi dell’agire umano: bisogni, passioni, interessi come moventi Spinti dalle virtù gli uomini perseguono talvolta fini universali limitati (beni)

Commento e interpretazione

[La] questione circa i mezzi con cui la libertà fa di se stessa un mondo ci fa penetrare nel fenomeno della storia vera e propria. [A] Se la libertà come tale è anzitutto l’intimo concetto, i mezzi, per contro, son qualcosa di esteriore, sono ciò che appare, e che quindi si manifesta nella storia quale essa si presenta immediatamente al nostro sguardo. A prima vista la storia ci mostra le azioni degli uomini, le quali procedono dai loro bisogni e passioni e interessi, dalle immaginazioni e finalità che vi si conformano, dai loro caratteri e capacità: e ne procedono in modo che, in questo spettacolo d’attività, solo i bisogni, le passioni, gli interessi appaiono quali moventi. [B] Certo, anche gli individui tendono in alcuni casi a fini di carattere più universale, a un bene, ma però in modo tale che questo stesso bene è di natura limitata: per es. un nobile amor di patria, che può essere bensì per un paese la cui relazione col mondo e col suo fine universale è insignificante; o l’amore per la famiglia, per gli amici – insomma la rettitudine. [C] In breve tutte le virtù rientrano in questo caso: soltanto attraverso di esse pos-

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A. La storia vera e propria è costituita cioè dai mezzi di cui la razionalità di essa si serve per realizzare il proprio fine, che è la comprensione dello spirito da parte di se stesso. B. La libertà è il principio della storia come storia dello spirito e quindi come storia umana, e ciò che si manifesta in modo immediato è l’azione degli individui insieme con ciò che muove gli individui ad agire: bisogni, passioni, interessi, immaginazione e fini. Qui, come poi in tutto il brano, è fortissima l’attenzione di Hegel per la concretezza degli individui e delle loro azioni, oltre che per la dimensione psicologica dell’azione che nell’individuo, e nei suoi caratteri psicologici, ha il proprio punto di partenza. C. Le azioni degli individui si fondano sui loro bisogni e sui loro interessi privati, ma in alcuni casi l’oggetto della volontà e dell’azione dell’individuo è qualcosa di più generale, un bene non soltanto individuale e privato. Questo motivo più generale delle azioni è, però, pur sempre limitato, come è per esempio limitata la motivazione di un’azione fondata sull’amore per la patria, la famiglia o gli amici. Si tratta di un’estensione limitata, 931

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Parte terza L’idealismo

Ma altre volte sono guidati dalla violenza delle passioni

Analisi della storia: appare intrisa di male e mostra la transitorietà degli individui

Conclusione: l’osservazione del male può spingerci al fatalismo…

siamo vedere attuato il fine razionale in questi stessi soggetti e negli ambiti della loro attività: tuttavia questi sono singoli individui, che stanno in misero rapporto con la massa del genere umano (in quanto, come singoli, li dobbiamo paragonare ad altri individui); e così di estensione relativamente limitata è l’ambito esistenziale delle loro virtù. [D] In altri casi, poi, quel che prevale son le passioni, i fini dell’interesse particolare, la soddisfazione dell’egoismo; la loro potenza consiste in ciò che essi non rispettano nessuno dei limiti che voglion porre loro il diritto e la moralità, e nel fatto che la violenza naturale delle passioni è più immediatamente vicina agli uomini che l’artificiale e lungo ammaestramento all’ordine e alla moderazione, al diritto e alla moralità. [E] Se consideriamo questo spettacolo delle passioni e ci poniamo innanzi agli occhi, nella storia, le conseguenze della loro violenza, della irragionevolezza che è connessa non solo ad esse ma anche, e si potrebbe dire persino soprattutto, a quelle che sono buone intenzioni, scopi giuridicamente legittimi, se guardiamo al male in ogni sua forma, al tramonto dei regni più fiorenti che lo spirito umano abbia prodotto, se consideriamo, con la più profonda compassione per la loro angoscia senza nome, gli individui, non possiamo concludere se non nel compianto per questa universale transitorietà, ed anzi, – giacché questo tramontare è opera non solo della natura ma anche della volontà umana – nel cordoglio morale, nello sdegno dello spirito buono, se ve n’è tale in noi, per simile spettacolo. [F] Con quei risultati si può comporre uno dei più terribili quadri, senza accentuazioni oratorie, solo mettendo insieme esattamente le calamità sofferte da quanto di più splendido è esistito in fatto di popoli e di stati, di virtù private e d’innocenza; e in tal modo si può spingere il sentimento fino al più profondo e inconsolabile cordoglio, che non è compensato da

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strettamente riferita alla cerchia personale dell’agente o al massimo alla sua comunità di appartenenza (come è il caso della patria). D. I comportamenti che hanno qualche dimensione universale in un’azione concreta sono le virtù. Ma la virtù personale degli individui agisce sempre in un ambito ristretto. E. Fatto l’esempio positivo, si passa a un esempio negativo del comportamento umano. Si parla ora del perseguimento di passioni e fini particolari fino all’egoismo e fino al negare, con questi comportamenti (e con i motivi per cui li si mettono in atto) le norme giuridiche e quelle morali. La forza naturale di questo egoismo dei comportamenti è apparentemente più influente rispetto a ciò che viene acquisito con fatica, cioè un ordine giuridico e una moderazione negli appetiti e nelle passioni. Ma come si vedrà più avanti, la passione è ben lungi dall’essere considerata in senso solo negativo, da Hegel. F. È un capoverso di grande suggestione, questo di Hegel, e ruota intorno alla constatazione del male nelle sue diverse forme, da un lato, e alla reazione individuale che si può avere di fronte ad esso, dall’altro. È da notare innanzitutto che le azioni umane possono essere irragionevoli, e negative, sia quando sono egoistiche, sia quando sono guidate dalle buone intenzioni (che per Hegel, almeno dalla Fenomenologia, non sono affatto sufficienti se rimangono buone intenzioni come aspirazioni velleitarie o, peggio, se si traducono in azioni negative, che cercano di giustificarsi perché l’intenzione iniziale che le promuoveva era buona). In generale, la storia è fatta anche del tramonto dei regni più fiorenti e dell’angoscia di infiniti individui il cui nome ci è sconosciuto: per questo Hegel parla, con un’espressione rimasta giustamente famosa, di «compianto per questa universale transitorietà»: individui e popoli sono tutti transitori, infatti. E di fronte al male della storia, ag-

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Unità 17 Hegel

… oppure spingerci all’azione soggettiva e interessata

Primo interrogativo: qual è il fine della storia?

Risposta e prima tesi: la storia come intreccio tra idea e agire individuale, necessità e libertà

Secondo interrogativo: come conciliare razionalità della storia e libertà umana?

nessun risultato conciliante, e nei riguardi del quale noi organizziamo la nostra difesa o ricuperiamo la nostra libertà solo pensando: – è andata così, è il destino: non c’è nulla da farci. Oppure ne usciamo tornando, dalla sazietà che ci può arrecare questa riflessione di tristezza, al nostro senso della vita, all’attualità dei nostri scopi e interessi, i quali esigono non un cordoglio per il passato ma la nostra attività; tornando persino all’egoismo, [G] che stando sulla riva tranquilla gode sicuro delle lontane visioni di confuse rovine. Ma, pure quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a chiedersi in vantaggio di chi, e di qual finalità ultima siano stati compiuti così enormi sacrifici [H] […] Nella storia del mondo abbiamo a che fare con l’idea […]. Il primo principio dell’idea in questa forma è, come si è detto, l’idea stessa, astratta; l’altro è la passione umana, ed ambedue formano la trama e il filo del tessuto della storia. L’idea come tale è la realtà; le passioni sono il braccio che essa tende […] Considerate oggettivamente, l’idea e la singolarità particolare si contrappongono nella grande antitesi di libertà e necessità. È la lotta dell’uomo contro il fato: ma noi non consideriamo la necessità come quella esteriore del destino, bensì come quella dell’idea divina; e sorge allora il problema del modo in cui si possa riunire quest’alta idea con la libertà umana. La volontà del singolo è libera se esso astrattamente, assolutamente, in sé e per sé, può porre ciò che vuole. Come può allora l’universale, il razionale aver funzione determinante nella storia? [I] A questa contraddizione non si può dar qui una risposta che risolva sino in fondo ogni singola difficoltà. Ma si pensi a quanto segue […]

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giunge Hegel, c’è spazio anche per lo sdegno morale, quando si pone mente al fatto che il male in essa non è frutto soltanto della ‘natura’, ma anche della volontà umana. G. Hegel tratteggia qui due atteggiamenti che il singolo individuo può assumere di fronte al male che si presenta nella storia per individui e popoli. In un caso, ci si può rassegnare al fatto che gli eventi sono ormai accaduti, e non c’è nulla che possa essere fatto per cambiarli. In un altro caso, la reazione può essere quella di tornare attivi alle nostre vicende personali, ai nostri scopi e ai nostri interessi attuali, fino ad accentuare il nostro lato egoistico che da lontano guarda tranquillamente alle «lontane visioni di confuse rovine». H. È però inevitabile, e lo deve essere soprattutto per la filosofia, chiedersi il senso del divenire storico e della transitorietà, spesso drammatica, di individui, popoli e Stati. In realtà, la risposta hegeliana è che il senso della storia è la conoscenza e la consapevolezza dello spirito da parte di se stesso. Il fine della storia è la realizzazione della libertà come realizzazione dello spirito che giunge a contemplare se stesso, ma questo è un processo che si realizza nel tempo e che si serve anche dell’agire e dell’esistenza dei popoli e degli individui. I. Qui Hegel – dopo avere parlato 1) dell’agire degli individui e dei motivi che li spingono all’azione; 2) del carattere sostanzialmente transitorio di popoli e individui e 3) del quadro pessimistico che dalla considerazione della storia emerge per quanto riguarda la sorte di individui e popoli – comincia a prendere in esame il tema centrale di queste pagine, ovvero, in una sorta di trasfigurazione del tradizionale problema del rapporto tra libertà e fato e tra libertà e provvidenza, il problema del rapporto tra l’agire libero degli individui e la razionalità immanente alla storia, ovvero il corso razionale dello spirito del mondo, dell’idea.

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Parte terza L’idealismo Risposta articolata Primo passaggio: il ruolo dell’attività volontaria (passioni, interessi) dell’uomo

Secondo passaggio: ogni uomo è un uomo determinato

Le passioni come principio di azioni universali: condanna del velleitarismo

Terzo passaggio: niente si realizza senza passione, ossia senza la volontà soggettiva

La passione viene considerata come qualcosa che non va, che è più o meno cattiva: l’uomo non deve avere passioni. Del resto la parola passione non è totalmente adatta per ciò che voglio esprimere qui. Qui intendo infatti di parlare, generalmente, dell’attività che l’uomo svolge per interessi particolari, per fini speciali, o, se si vuole, per intenzioni egoistiche; e che esso svolge consacrando a questi fini tutta l’energia della sua volontà e del suo carattere, e sacrificando ad essi altre cose, a cui pur potrebbe mirare, anzi a rigore ogni altra cosa. Questo contenuto particolare vien tanto a coincidere con la volontà dell’uomo, che ne costituisce tutta la determinatezza ed è da essa inscindibile: mercé sua essa è quel che è. L’individuo è infatti tale che esiste: non è un uomo in genere, ché questo non esiste, ma un determinato uomo. L’idea del «carattere» esprime ugualmente questa determinatezza della volontà e dell’intelligenza. Ma il carattere comprende in sé, in generale, tutte le particolarità, il modo di comportarsi in rapporti privati, ecc., e non è tale determinatezza in quanto si manifesta in efficienza ed attività. Dirò dunque passione, ed intenderò con ciò la particolare determinatezza del carattere, in quanto queste determinatezze del volere non hanno solo un contenuto privato, ma sono il principio attivo ed efficiente di azioni universali. Non si parla qui d’intenzioni nel senso di quella disposizione interiore, impotente e presunta, con cui caratteri deboli si trastullano, e partoriscono topi come la montagna dell’apologo. [L] Diciamo, dunque, che nessuna cosa è mai venuta alla luce senza l’interesse di coloro la cui attività cooperò a farla essere; e dal momento che a un interesse noi diamo il nome di passione, così – in quanto l’intera individualità, posponendo tutti gli altri interessi e fini che ha o può avere, si lega a un oggetto con tutte le vene della sua propria volontà e concentra in questo fine tutte le sue esigenze ed energie – dobbiamo dire in generale che nulla di grande è stato compiuto nel mondo senza passione. Passione è il lato soggettivo, in quanto formale, dell’energia del volere e dell’attività, in cui il contenuto o fine è ancora indeterminato: così come accade anche

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L. In questo capoverso troviamo innanzitutto una polemica hegeliana verso l’idea che la passione sia qualcosa di negativo. In realtà, per Hegel – sulle tracce di Schiller, e di altri – l’uomo va considerato nella sua interezza e nella sua determinatezza: gli uomini sono sempre individui determinati, l’uomo in generale è soltanto un’astrazione. Altrettanto, in questo modo, Hegel polemizza contro quello che lui e i suoi contemporanei considerano un limite della filosofia kantiana: la scissione tra ragione e sensibilità. L’individuo determinato, l’uomo determinato agisce in un contesto determinato e per certi fini, seguendo determinati aspetti del suo carattere, che non è anch’esso qualcosa di scindibile (come avveniva, ancora, nella distinzione kantiana tra carattere intelligibile e carattere empirico), ma esprime la determinatezza della volontà e dell’intelligenza. Il carattere è la disposizione, potremmo dire la ‘psicologia’ di ciascun individuo, quando non si intenda, ancora una volta, questa ‘disposizione’ come qualcosa di simile alle vuote ‘buone intenzioni’ con cui si trastullano i ‘caratteri deboli’ e contro le quali Hegel ha sempre polemizzato. M. Questo brano è molto importante per capire che, secondo Hegel, le azioni sono sempre azioni di individui, anche se poi l’azione di ciascuno si interseca con quella di altri e con un mondo naturale e sociale, che fanno sì che l’esito o il risultato dell’azione possano essere diversi da quanto l’individuo si era proposto. Da questo brano si potrebbe derivare anche la conseguenza che soltanto gli individui agiscono, nell’universo sociale hegeliano, an-

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Quarto passaggio: unione tra interessi individuali e Stato

Digressione: lo Stato come realtà che va oltre gli interessi individuali

Seconda tesi: attività, interessi, voleri sono il mezzo dello spirito del mondo per raggiungere la consapevolezza di sé Obiezione: dubbio sulla finalità della storia

nella propria convinzione, nella propria esperienza e coscienza. Si tratta poi di vedere quale contenuto abbia il mio convincimento, e parimenti quale scopo la passione, se l’uno o l’altro sia di natura verace. Ma inversamente, quando è così, perché esso entri nell’esistenza e sia reale è necessario il momento della volontà soggettiva, col che s’intende tutto questo complesso di elementi, bisogno, istinto, passione e insieme esperienza, opinione, convincimento. [M] Da questa spiegazione del secondo momento essenziale di effettività storica di un fine risulta, in generale, (se di passaggio ci riferiamo allo Stato) che da questo punto di vista uno Stato è in sé bene organizzato e vigoroso quando al suo fine generale va unito l’interesse privato dei cittadini, e l’uno trova nell’altro la sua soddisfazione e realizzazione: principio, questo, di somma importanza intrinseca. Ma nello Stato sono necessarie molte istituzioni, molte scoperte di ordinamenti adatti allo scopo – e ciò attraverso lunghe lotte dell’intelligenza, fino a che essa acquista coscienza di ciò che è adatto allo scopo –; sono necessarie lotte con l’interesse particolare e con le passioni, e una lunga e difficile educazione di esse, perché quella unione giunga ad essere attuata. L’epoca di tale unione costituisce, nella storia di uno Stato, il periodo del suo fiore, della sua virtù, della sua forza e della sua fortuna [N] […] Questa incommensurabile massa di voleri, interessi, attività rappresenta gli strumenti e i mezzi che lo spirito del mondo ha per raggiungere il suo fine, – per elevarlo a coscienza e realizzarlo; e questo fine è solo quello di trovarsi, di pervenire a se stesso, di contemplarsi come realtà. [O] Ma che quelle facoltà vitali degli individui e dei popoli, perseguenti e soddisfacenti i propri fini, siano nello stesso tempo mezzi e strumenti per qualcosa di più alto e più vasto, di cui essi nulla sanno e che compiono inconsapevolmente, questo è ciò di cui si potrebbe dubitare e si è dubitato, ciò che è stato più volte negato e diffamato quale fantasticheria e filosofia e fatto oggetto di dispregio.

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che se ciò non implica in alcun modo che l’individuo stia al centro del suo sistema: al contrario, lo Stato non è funzione dell’individuo, anche se deve tenere conto del suo interesse particolare, come vedremo subito, e anche nella storia, naturalmente, gli individui sono strumenti indispensabili dello spirito del mondo, ma non è la loro sorte quella decisiva. N. Come si è appena accennato, pur se in una digressione, Hegel affronta anche qui un tema trattato ampiamente nello spirito oggettivo: lo Stato non esiste certo in funzione degli individui, ma in esso, o meglio nello Stato moderno, l’individuo deve trovare la propria soddisfazione, la soddisfazione della propria particolarità, un diritto caratteristico proprio dell’epoca moderna, cristiana. Un’adeguata articolazione dello Stato si raggiunge, però, soltanto con il tempo e attraverso l’educazione delle passioni e la lotta contro l’interesse egoistico e particolare che non solo vuole la propria soddisfazione – questa è per Hegel legittima – ma la ritiene l’unico interesse dello Stato. O. Due affermazioni di grande importanza: 1) gli strumenti per realizzare il fine dello spirito del mondo sono le attività, gli interessi e i voleri presi nel loro complesso, che pure per altri versi (lo vedremo tra poco) perseguono i propri fini; 2) il fine dello spirito del mondo è trovarsi e contemplarsi, ovvero raggiungere la consapevolezza di sé, come emerge già nel sapere assoluto della Fenomenologia o nello spirito assoluto della Enciclopedia delle scienze filosofiche.

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Parte terza L’idealismo Riaffermazione delle tesi: la razionalità guida la storia del mondo

Unione di universale e singolarità come verità logica Terza tesi: la coscienza individuale è inconsapevole dei fini universali che realizza

Esempi di questa inconsapevolezza

Primo esempio: le conseguenze di un’azione

Ho già parlato sin dal principio di ciò, e manifestato la nostra promessa o fede (la quale però, si è pur detto, doveva esser soltanto un risultato, e perciò anche qui non pretende tuttora nulla più) che la ragione governa il mondo, e quindi ha anche governato e governa la storia del mondo. [P] Rispetto a questo universale e sostanziale in sé e per sé ogni altra cosa è subordinata: gli serve, è mezzo per esso. Ma questa ragione è anche immanente nell’esistenza storica, si compie in essa e attraverso essa. L’unione dell’universale, di ciò che è universalmente in sé e per sé, con la singolarità, col soggettivo: – che solo essa sia la verità, è un’asserzione di natura speculativa, e, in questa forma universale, viene trattata nella logica. Ma nel corso stesso della storia del mondo, in quanto tuttora progrediente, il lato soggettivo, la coscienza, non possiede ancora la nozione di quel che sia il puro fine ultimo della storia, il concetto dello spirito. Questo stesso non è, appunto perciò, neanche il contenuto del suo bisogno ed interesse; e l’universale, pur sovrastando inconsapevole, è tuttavia nei suoi fini particolari e si attua attraverso di essi. [Q] Poiché, come si è detto, il lato speculativo di questo rapporto appartiene alla logica, non posso qui darne e svolgerne il concetto, cioè non posso renderlo, come si dice, afferrabile o concepibile. Ma posso tentare di farlo in qualche modo più chiaro e intuibile attraverso esempi. Quel rapporto implica dunque che, nella storia del mondo, risulti dalle azioni degli uomini anche qualcosa d’altro, in generale, da ciò che essi si propongono e raggiungono, che immediatamente sanno e vogliono. Essi recano in atto quel che a loro interessa, ma da ciò vien portato alla luce anche altro, che vi è pure implicito, ma che non è nella loro coscienza e intenzione. [R] Come esempio, per analogia, citeremo un uomo che per vendetta, forse giusta, cioè a causa di un’ingiusta offesa, dà fuoco alla casa di un altro. In ciò si manifesta già un nesso fra un’azione immediata e circostanze ulteriori, sia pure esterne, che non appartengono a quell’azione presa immediatamente per sé. Questa, come tale, si riduce all’appiccare una piccola fiamma a un piccolo punto di una trave. Ma quel che con ciò non è ancora stato fatto si sviluppa poi da sé; la parte accesa della trave comunica con le altre sue parti, queste con la travatura di tutta la casa, la casa con le altre case: ne nasce un vasto incendio, che consuma la proprietà di P.

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Come si vede, Hegel dichiara esplicitamente il suo assunto che pure – lo ammette lui stesso – può essere messo in dubbio: la storia è razionale, ed è la razionalità che la governa. L’azione dei singoli e dei popoli è in realtà lo strumento di qualcosa di più vasto, che è proprio il procedere razionale della storia. Q. La razionalità della storia è assoluta e si serve di tutti i mezzi che ha a disposizione, individui e popoli. In questa razionalità del processo storico si realizza per Hegel ciò che si realizza anche nella logica, ovvero l’unità tra l’universale e il particolare. L’universalità di partenza, attraverso il processo logico, da un lato, e storico, dall’altro, si riempie di contenuti, e diventa quindi universalità concreta, non più astratta e vuota come era inizialmente. Il processo non è presente naturalmente alla coscienza dei singoli, ma è compreso dalla filosofia quando questa sia giunta all’apice della propria maturazione, che si è avuta, per Hegel, nel pensiero a lui contemporaneo. R. Questo passo, insieme con uno precedente (righe 127-132) esplicita il tema hegeliano della coincidenza tra razionalità della storia e agire degli individui: ciò non significa che gli individui agiscano consapevolmente per i fini dello spirito del mondo, ma che

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Unità 17 Hegel

Commento all’esempio: permette di capire per analogia i limiti della consapevolezza di chi agisce

Secondo esempio: la vicenda di Cesare

Un contributo determinante alla nascita dell’impero

Volendo il potere per sé, Cesare svolse un ruolo epocale

molti uomini oltre che quella di colui contro cui si dirigeva la vendetta, e costa la vita a molti individui. Tale risultato non era implicito né nell’atto immediatamente per sé preso, né nell’intenzione di colui che lo perpetrò. Ma l’azione contiene anche un’ulteriore determinazione universale; nel fine di colui che agiva essa era solo una vendetta contro un individuo mercé distruzione della sua proprietà; ma essa è inoltre un delitto, e ciò implica anche la sua punizione. Ciò può non essere stato nella coscienza, e ancor meno nella volontà dell’agente; ma tale è la sua azione in sé, la sostanza universale di essa, che attraverso essa medesima è recata in atto. – In questo esempio bisogna por mente soltanto al fatto che nell’azione immediata vi può essere qualcosa di più che nella volontà e coscienza dell’agente. In esso è peraltro anche implicito che la sostanza dell’azione, e con ciò senz’altro l’azione stessa, si rivolge contro colui che la compì; essa si risolve in un contraccolpo contro l’agente, che annienta quest’ultimo, annulla l’azione in quanto essa è delitto, e restaura il diritto nel suo valore. [S] A questo aspetto dell’esempio non dobbiamo per il momento dar peso: esso appartiene al caso particolare, – e io ho detto che volevo citare solo un caso di analogia. Ma voglio citarne un altro, che ritroveremo più tardi al suo posto e che, essendo esso stesso storico, contiene quell’unione dell’universale e del particolare, di una determinazione per sé necessaria e di un fine che appare accidentale, in quella forma più particolare in cui tale riunione essenzialmente ci interessa. Cesare – in pericolo di perdere la posizione, se non ancora di preponderanza almeno di uguaglianza, a cui si era elevato accanto agli altri che stavano a capo dello Stato, e di soccombere ad essi, i quali ormai erano in procinto di divenire suoi nemici e insieme avevano dalla parte dei loro fini personali la costituzione dello Stato e la forza dell’apparenza legale – combatté questi nell’interesse proprio, per conservare la sua posizione, il suo onore e la sua sicurezza; e la vittoria su di essi, in quanto il loro potere consisteva nel dominio delle province dell’impero romano, fu allo stesso tempo la conquista di tutto questo impero: così, pur mantenendo la forma della costituzione statale, egli divenne l’unico detentore del potere nello Stato. Quel che gli permise il raggiungimento del suo fine, che era anzitutto negativo, cioè il dominio di Roma, era nello stesso tempo una finalità in sé necessaria di Roma e del mondo, in modo da non esser solo il suo guadagno

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nel perseguire i propri fini essi in realtà collaborino alla realizzazione di un fine del quale non sono consapevoli. In un altro luogo Hegel chiamerà questa relazione tra agire dei singoli e razionalità della storia una «astuzia della ragione». Hegel fa poi due esempi per mostrare quanto un individuo possa non essere consapevole del processo al quale partecipa attraverso la sua azione: il primo riguarda l’agire dell’uomo comune (benché criminale), mentre il secondo riguarda Cesare, cioè un individuo «cosmicostorico». S. Quello che emerge in questo primo esempio di Hegel è, innanzitutto, il fatto che l’agire consapevole e intenzionale di un individuo dà luogo a eventi e a significati degli eventi che gli erano del tutto ignoti quando cominciava l’azione. Hegel mette insieme molti elementi, che vanno dal modo in cui si propaga l’azione iniziale, alle sue conseguenze impreviste e non volute, all’esito giuridico della punizione che «restaura il diritto nel suo valore». Il senso dell’esempio è mostrare l’ampia concatenazione razionale tra i diversi aspetti dell’azione, dalla sua promozione alle conseguenze per lo stesso agente, da lui non volute inizialmente. 937

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Parte terza L’idealismo

Commento e conclusione: i grandi uomini (individui «cosmico-storici») realizzano la volontà dello spirito del mondo

particolare: la sua fatica fu bensì un istinto, che realizzò ciò che in sé e per sé era portato dal tempo. Questi sono i grandi uomini della storia, quelli i cui propri fini particolari contengono il sostanziale, che è volontà dello spirito del mondo. Questo contenuto è la loro vera potenza; esso è nell’universale istinto inconsapevole degli uomini. Essi sono spinti a ciò intimamente, e non hanno altro modo di resistere a colui che ha assunto, nel proprio interesse, l’esecuzione di un tale fine. I popoli piuttosto si uniscono intorno alla sua bandiera: egli svela loro e reca in atto quel ch’era impulso immanente della loro natura. [T]

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(da G.W.F. Hegel, Filosofia della storia, a cura di C. Cesa, Firenze, La Nuova Italia 1981, pp. 40-46)

T.

Il secondo esempio mostra la realizzazione, da parte di un individuo «cosmico-storico» come Cesare, di un’impresa di grande rilevanza storica, a partire da una concreta motivazione individuale dell’agire che certo non è quel fine di significato storico, ma piuttosto la sua ambizione personale. Così nel caso precedente della vendetta, come nel caso di Cesare, la razionalità della storia si realizza servendosi dei fini individuali e particolaristici di soggetti che, inconsapevolmente, partecipano al progetto dello spirito del mondo.

Questionario sull’argomentazione 1

Per quale motivo le virtù degli individui hanno un ambito esistenziale limitato secondo Hegel? (max 1 riga)

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Quale rapporto esiste tra idea e passioni nella storia? (max 2 righe)

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Qual è la definizione hegeliana di ‘carattere’? E in che rapporto sta il carattere con la passione, in relazione all’agire individuale? (max 4 righe)

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A quale asserzione di natura speculativa fa riferimento Hegel, in relazione al rapporto tra agire del singolo e universale, e qual è la conseguenza che trae da questa asserzione? (max 4 righe)

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Qual è il risultato storico dell’agire di Cesare che Hegel definisce «ciò che in sé e per sé era portato dal tempo»? Questo risultato era il fine di Cesare? (max 2 righe)

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Unità 17 Hegel

Tesi a confronto Hegel: reazionario difensore dell’esistente o lucido analista dei problemi del proprio tempo? L’interpretazione dei contemporanei: Hegel come difensore dell’ordine costituito

L’autodifesa di Hegel

Haym: Hegel come interprete filosofico della Restaurazione

Rinnovato interesse novecentesco e accusa di antesignano del totalitarismo

Topitsch: Hegel come difensore dell’obbedienza e dell’ordine, valori che favoriscono l’ideologia totalitaria

Il pensiero politico di Hegel è stato al centro di numerose controversie fin dalla pubblicazione della sua Filosofia del diritto (1821). Secondo molti contemporanei, sia il contenuto della Prefazione all’opera – che attaccava alcuni liberali del tempo – sia l’intera trattazione della maggiore opera filosofico-politica di Hegel mostravano quanto egli si collocasse dalla parte dello Stato e dell’ordine costituito di fronte a chi aveva mosso critiche all’operato governativo. Lo stesso compito attribuito alla filosofia, quello di cogliere la «razionalità del reale», ivi compresa la realtà politica, sembrava una difesa dello stato di cose esistente, sancito dall’affermazione che «ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale». A poco valgono le precisazioni fatte successivamente da Hegel, per cui non tutto ciò che semplicemente esiste può essere considerato, nel senso più profondo, una realtà. Per lungo tempo, Hegel viene considerato il filosofo dello Stato prussiano e quindi il filosofo della Restaurazione. Al di là delle dispute tra le scuole hegeliane, a metà del XIX secolo un importante libro di Rudolf Haym, Hegel e il suo tempo (1857) sanciva senza troppi dubbi il carattere «prussiano» della filosofia di Hegel, inteso come l’interprete filosofico della Restaurazione. Sono gli anni in cui si apprezza eventualmente Fichte, come filosofo progressista da contrapporre a Hegel, e si comincia anche a «tornare a Kant» nell’ambito di una generale polemica verso i sistemi filosofici idealistici. Si tratta di due prospettive diverse dei compiti della filosofia: comprendere razionalmente la realtà politica, nel caso di Hegel (con il rischio di giustificarla), oppure indicare modelli alternativi ad essa, come avviene nel caso di Kant o di Fichte. Per quanto riguarda Hegel, le cose non cambiano molto fino al Novecento, quando si assiste a un rinnovato interesse per la sua filosofia. Le vicende della Germania nazista e la Seconda guerra mondiale spingono poi, nel corso del XX secolo, a un deciso recupero dell’interpretazione di Hegel come filosofo reazionario che divinizza lo Stato e raccomanda una cieca obbedienza ad esso: soprattutto da parte di pensatori liberali, come Karl Popper, comincia a emergere un’interpretazione che vede in Hegel un antesignano del totalitarismo del XX secolo e addirittura una continuità nel percorso «da Hegel a Hitler». Questo atteggiamento si è conservato fino a oggi, ed è presente in una delle interpretazioni che seguono, quella di Ernst Topitsch. Topitsch, che intende presentare una critica degli «apologeti», cioè dei difensori, di Hegel, vuole mettere in luce che la concezione hegeliana dello Stato non intende essere semplicemente una descrizione, seppur filosofica, di esso, ma una valutazione che finisce per essere decisamente positiva, mentre la critica hegeliana dei liberali suoi contemporanei dimostra che il filosofo guarda con sospetto a chiunque metta in discussione la validità delle decisioni del potere politico. Questo atteggiamento di giustificazione dell’esistente corrisponde in Hegel, se939

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Parte terza L’idealismo

condo Topitsch, a una filosofia della storia che vede nel presente la conclusione di un processo storico che realizza la razionalità nella realtà e nella filosofia hegeliana in particolare. La razionalità dell’ordine statale corrisponde alla razionalità dell’intera realtà come ordine «cosmico»: questo atteggiamento di Hegel corrisponde così al culto dell’obbedienza e dell’ordine, affine a quello richiesto dal totalitarismo come ideologia del dominio. Prima risposta

La filosofia politica hegeliana è un’ideologia del dominio, affine al totalitarismo da Ernst Topitsch, In critica degli apologeti di Hegel

La teoria hegeliana dello Stato non è descrittiva e avalutativa

Lo Stato come realizzazione dell’Idea

Il problema del rapporto tra Hegel e lo Stato prussiano

Il presente: realtà della ragione e compimento della storia

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Ora, qui non vorrei approfondire se, e in qual misura, lo «stato razionale» di Hegel possa valere come adeguata descrizione dello stato moderno – questa questione, infatti, non ha molta rilevanza per il problema che stiamo discutendo. Il fatto decisivo, piuttosto, è che Hegel non si proponeva affatto di dare una teoria dello Stato puramente descrittiva, avalutativa, come sarebbe una moderna sociologia dello stato, la quale ignori la distinzione tra «esistere meramente empirico» e «realtà razionale vera». Per uno scopo così modesto tutto il pretenzioso apparato delle forme essenziali che si autorealizzano nello svolgimento dialettico-teleologico e che pervengono all’autocoscienza sarebbe non solo di nessuna utilità, ma anche decisamente dannoso. Per cui anche il noto luogo della Filosofia del diritto: «Compito della filosofia è di comprendere ciò che è, perché ciò che è, è la ragione», non può essere, alla svelta, interpretato come se Hegel avesse avuto in mente una sociologia dello stato senza giudizi di valore; il contesto dell’intero gruppo di pagine mostra piuttosto, e senza possibilità di equivoci, che con l’espressione «ciò che è» si intende non una mera fatticità empirica, ma una «realtà» che è anche un valore, cioè l’ordine razionale dell’«universo etico», dello stato dell’Idea il quale si sviluppa secondo una teleologia dialettica. Questo ordine è vincolante per i membri dello stato, e le convinzioni di chi dissente sul come il mondo – e, implicitamente, lo stato – debba essere, vanno relegate nell’ambito dell’opinare arbitrario. A questa problematica se ne collega un’altra, derivante anch’essa dall’applicazione di forme concettuali dialettico-teleologiche alla realtà storicosociale; qui l’argomento del contendere è se lo stato delineato nella Filosofia del diritto, e che corrisponde all’ingrosso alla Prussia del suo tempo, sia stato ritenuto da Hegel, almeno in via di principio, la realizzazione della «forma essenziale», ovvero della «Idea» dello stato; e se, coerentemente, egli abbia creduto che la storia non avrebbe portato alla luce forme politiche fondamentalmente diverse. Connessa è un’altra domanda, di significato anche più pratico; se e in che misura il filosofo possa esser ritenuto l’ideologo e il profeta di un’egemonia prussiano-tedesca in Europa o nel mondo. Quando si tocca questo tema si fa riferimento al fatto, accertato, che Hegel si è reso perfettamente conto delle grandi prospettive future dell’America e della Russia. Peraltro queste osservazioni, notevoli ed acute, non hanno lasciato alcuna traccia nella concezione sistematica della sua filosofia sociale. La logica interna del sistema nel suo complesso – insieme all’atteggiamento fondamentalmente conservatore dell’ultimo Hegel – spingono anzi a considerare il presente come la fase conclusiva (almeno in

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Unità 17 Hegel

Si tratta di logiche conseguenze delle premesse di Hegel

Il mito dello Stato e la realizzazione di un giusto ordine cosmico

La legittimazione provvidenziale di questa concezione dello Stato

Un sapere razionale non criticabile

via di principio) dello svolgimento. Come il fondamento divino del mondo è giunto a consapevolezza di sé, e pertanto a coronare e concludere il suo svolgimento nel «sistema assoluto» di Hegel, allo stesso risultato deve essere giunta anche la sua parallela autorealizzazione nell’ambito storicosociale. Il dispiegarsi temporale delle figure storiche nella Filosofia della storia, ed il sistematico «dispiegarsi delle determinazioni del concetto» nella Filosofia del diritto, tendono verso lo stesso telos [fine], cioè verso la vera conciliazione nella quale lo stato, in quanto monarchia costituzionale, è divenuto l’immagine e la realtà della ragione. Molto di ciò che, quando leggiamo Hegel, ci pare sospetto, e che ha maturato fatali conseguenze nella teoria e nella prassi politica, non deriva tanto da un atteggiamento mentale servile o volgare, quanto dall’ambizione di base, e dalle forme teoriche che sono la base del sistema. […]. Questa ambizione si esprime del resto anche nel pathos pontificale, anzi, nello stile curiale degli scritti hegeliani. Per radicalizzare la formulazione: con la bocca di Hegel si esprime Iddio, che è giunto solo in Hegel e attraverso Hegel alla sua propria autocoscienza, e che solo così è divenuto davvero Dio. A questa eredità dei misteri gnostici di autodivinizzazione1 si congiunge quella delle ideologie di dominio socio-cosmiche le cui radici possono esser ricercate fin nelle mitologie statali dei grandi imperi dell’Oriente antico: la struttura del «vero stato» come «universo etico» è una parte, è una immagine dell’intero, giusto ordine cosmico, ed è pertanto sottratta, in via di principio, ad ogni obiezione umana ed al mero «opinare»; essa è stata tracciata una volta per tutte nel piano della creazione divina deposto nella Logica di Hegel. Il fatto si è che la «forma essenziale» dello Stato non aleggia chissà dove, in qualche «luogo iperuranio», ma si realizza quale fine ultimo del processo dialettico-teleologico della storia – una fede, questa, che ha anche essa una rilevanza straordinaria, e politica nel senso più specifico. La convinzione che un determinato ordine di convivenza umana possegga così un oggettivo primato di valore rispetto a tutti gli altri, e che sia, inoltre, il fine ultimo provvidenzialmente stabilito del processo storico-sociale, può assai agevolmente rafforzare i suoi seguaci nell’opinione di poter tranquillamente prescindere dalle opinioni politiche diverse, e schiacciarne spietatamente i sostenitori. Anzi, la teodicea, che giustifica il dolore ed il male nel mondo come parte dell’ordine cosmico voluto da Dio, può anche legittimare le misure più dure dichiarandole necessarie per raggiungere o garantire il fine redentore. Infine queste, e le analoghe, dottrine sono garantite nei confronti di ogni analisi critica in quanto vengono dichiarate intuizioni di un «sapere più al1. misteri gnostici di autodivinizzazione: i movimenti gnostici sono animati dalla fede religiosa di possedere una conoscenza (gnosi) iniziatica della realtà, preclusa ai più: sono sostenitori del dualismo (esistono due principi, uno del Bene e uno del Male) e affermano che il nostro mondo è opera del dio malvagio. Topitsch utilizza in chiave ironica questa espressione, che riprende quanto detto sopra sulla convinzione di Hegel che la sua filosofia rappresenti una sorta di compimento del cammino dell’Idea, dello Spirito, nel mondo. 941

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Parte terza L’idealismo

L’affinità con il totalitarismo

Elementi in favore di un diverso giudizio su Hegel

Hegel come lucido analista del suo tempo…

… affronta il nodo del rapporto società civile / Stato

Il vero limite di Hegel è non aver previsto gli sviluppi del nazionalismo

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to», di un «pensiero razionale» che non è nemmeno sfiorato dal «vano chiacchierare» dell’intelletto meramente «astratto». Questi motivi fondamentali del pensiero hegeliano lo predestinano ad essere una ideologia di dominio, ad essere una concezione autoritaria dello stato – e sono essi a spiegare, da ultimo, la sua affinità col totalitarismo, che a quell’epoca non esisteva ancora. Un contenuto fondamentale di questo genere non può essere eliminato sottolineando i «miglioramenti di tipo liberale» che lo stato della Filosofia del diritto presenta rispetto alla Prussia del 1820, o ponendo l’accento sul carattere relativamente avanzato di questa Prussia rispetto alle altre monarchie contemporanee, o facendo le lodi dell’intervento del filosofo in favore di alcuni studenti che, accusati di essere agitatori politici, erano nei guai con la polizia. Nel dopoguerra, però, emergono anche proposte diverse: innanzitutto, si pubblicano molti inediti, e corsi di lezioni, che aiutano a comprendere meglio le posizioni politiche di Hegel nella Prussia del suo tempo e le sue stesse posizioni filosofiche. Inoltre, si fa notare che il modello di Stato contenuto nella Filosofia del diritto è decisamente diverso dalla realtà dello Stato prussiano (nonostante alcuni critici – come Topitsch – affermino il contrario), o si ricorda che Hegel ebbe sempre – non solo nei suoi anni giovanili – una notevole ammirazione per la Rivoluzione francese. Per non dire che la Filosofia del diritto contiene aspre critiche anche dei reazionari del tempo di Hegel. Infine, si sottolinea, come fa Shlomo Avineri nel secondo brano qui presentato, quanto la grandezza di Hegel, al di là dei contenuti più strettamente politici del suo pensiero, consista nella sua capacità di penetrare, dal punto di vista filosofico, i problemi che la società del tempo poneva: questo è il significato del compito di «comprensione razionale» affidato da Hegel alla filosofia. Polemico verso quelli che ritiene pregiudizi, Avineri intende invece mostrare l’acutezza filosofica di Hegel nell’affrontare l’opposizione tra mondo economico e mondo politico che si matura nella nuova società «borghese», cioè nel capitalismo nascente. Altri filosofi o movimenti politici, infatti, si sono ritratti di fronte a questo compito (perché troppo complesso), oppure, come l’utilitarismo inglese, hanno riconosciuto la supremazia dell’elemento economico su quello politico accettando l’individualismo egoistico della società contemporanea. Hegel guarda spregiudicatamente la realtà, e coglie l’importanza della nuova figura della «società civile» – che viene distinta dallo Stato – anche nella sua ambiguità: il mondo di relazioni economico-sociali che la «società» rappresenta è fonte di ricchezza, ma anche di contraddizioni e di tensioni. Hegel affronta il rapporto tra società e Stato cercando una mediazione che riconosca il valore dell’attività economica ma che riesca a superarne le tensioni e i conflitti in una dimensione politica, quella, appunto, dello Stato. Si tratta di un equilibrio precario tra individualismo e coesione sociale e politica che è indispensabile, ma che può anche rompersi, cosa della quale Hegel è consapevole. Il vero limite di Hegel sta piuttosto nel non avere capito i futuri sviluppi del nazionalismo, che avranno così gravi conseguenze nella vita politica europea; ciò conferma però il carattere paradossale dell’attribuzione proprio a lui di una posizione nazionalistica, o addirittura di un precorrimento delle ambizioni nazionalistiche della Germania del secolo successivo.

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Unità 17 Hegel Seconda risposta

La filosofia politica di Hegel esprime un’acuta comprensione del proprio tempo da Shlomo Avineri, La teoria hegeliana dello stato

Pregiudizi sulla filosofia politica hegeliana

Nulla potrebbe esprimere meglio i pregiudizi e l’ignoranza da cui […] è circondata la filosofia politica hegeliana, che la seguente dichiarazione di Bertrand Russell: Dalla sua metafisica consegue che la vera libertà consiste nella obbedienza ad un’autorità arbitraria, che la libertà d’espressione è un male, che la monarchia assoluta è buona, che lo stato prussiano era il migliore che ci fosse al tempo in cui scrive, che la guerra è un bene, e che un’organizzazione internazionale per la composizione pacifica dei conflitti sarebbe una vera disgrazia […] Ciò che la sua filosofia lo obbligava ad ammirare […] era […] l’ordine, il sistema, la regolamentazione e la forza del controllo governativo.

Un grande filosofo politico moderno

Le difficoltà dei tentativi precedenti

La soluzione utilitaristica e l’economia come legge di natura

Duplice atteggiamento di Hegel verso la società civile

Sotto il peso di così enormi pregiudizi, non è facile ristabilire una visione più equilibrata del pensiero politico di Hegel. Nella nostra discussione, abbiamo cercato di mettere in rilievo non solo come sia falso un giudizio come quello espresso da Russell, ma anche che si deve vedere in Hegel il primo grande filosofo politico moderno che abbia tentato di guardare in faccia le realtà dell’epoca moderna. È vero che molti dei filosofi settecenteschi avevano contribuito a dar forma al nascente mondo moderno, ma il loro approccio fondamentalmente astorico impediva loro di affrontare e raccogliere le sfide della società nuova, e Rousseau, che sentiva profondamente questa inadeguatezza dei philosophes e intuiva tutta la novità della sua epoca, si ritirò disgustato da ciò che il nuovo mondo aveva da offrire all’uomo. Alcuni degli atteggiamenti più radicali dei giacobini attestano questo volger le spalle alle realtà della vita contemporanea: il richiamo alle virtuose semplicità repubblicane dell’antica polis non era in loro un mero espediente retorico – esprimeva una profonda avversione per le complessità della società moderna. Mentre molti romantici tedeschi echeggiavano in gran parte lo stesso tema, benché le implicazioni politiche immediate fossero più antirivoluzionarie che filogiacobine, l’utilitarismo inglese può considerarsi un tentativo coraggioso, per quanto semplicistico, di gettar fuori bordo l’intero bagaglio sia del giusnaturalismo che dell’esperienza storica, e di vedere l’uomo moderno qua homo economicus come la misura di tutte le cose. Il giacobinismo francese finì col proclamare il terrorismo come virtù politica; l’utilitarismo inglese fece degli orrori della vita moderna una nuova legge di natura. È in questo contesto che il tentativo hegeliano di costruire una nuova teoria politica acquista tutto il suo significato. Il suo tema di fondo è forse espresso nel modo migliore dall’atteggiamento ambiguo di Hegel verso la società civile: da un lato, essa è la massima conquista del mondo moderno; dall’altro, guai alla società di uomini che permetta alle forze della società civile di regnare indisturbate; non si deve consentire a questo Golem [mitico mostro costruito dall’uomo], espressione della creatività e libertà soggettiva dell’uomo, di correre a briglia sciolta. 943

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Parte terza L’idealismo Il modello di uno Stato moderno: non assoluto, rappresentativo, aperto alla società

Consapevole della complessità della società moderna

Il tallone di Achille di Hegel: il mancato riconoscimento della forza politica del nascente nazionalismo

Anche la filosofia politica di Hegel è una vittima del nazionalismo

Grandezza di Hegel nello sforzo di capire l’esistente

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Di qui, l’insistenza di Hegel sui mezzi istituzionali per controllare la società civile; di qui, perfino la tormentata concezione della guerra come il potere della negazione al quale anche le forze più caparbie del «regno dei bisogni» debbono inchinarsi. In scritti così diversi l’uno dall’altro come La costituzione della Germania e la Realphilosophie [Filosofia dello spirito], si delinea il modello di uno stato moderno, libero per quanto possibile dai ceppi dell’assolutismo, basato sulla rappresentanza, servito da una burocrazia razionalmente orientata, che lasci ampio spazio alle associazioni volontarie e cerchi di instaurare un equilibrio – forse inattingibile – fra homo economicus e zoòn politikòn [animale politico]. In questo senso, lo sforzo di Hegel, malgrado tutto ciò che può sembrare antiquato a causa di un linguaggio spesso oscuro, è di una straordinaria attualità. Non meno attuale, non meno contemporaneo, è il senso (che abbiamo visto serpeggiare qua e là nel pensiero hegeliano) che la soluzione offerta possa essere insufficiente, e che il tessuto della società moderna, ansiosa di conciliare la sete di illimitata autoespressione dell’uomo e il suo bisogno di un comune fattore restrittivo, possa scucirsi. Engels probabilmente aveva ragione di dire che nessuno ha fatto torto a Hegel più dei suoi discepoli. Ma la stessa cosa si potrebbe sostenere di qualunque grande pensatore. Il vero tallone di Achille, in Hegel, risiede forse in qualcos’altro, e lo si può misurare al metro stesso del suo giudizio sulla filosofia come «il proprio tempo appreso nel pensiero». Pur riuscendo in grado eccezionale a leggere correttamente in alcuni dei più scottanti problemi dell’era moderna, e a decifrarli, Hegel condivise alcune delle illusioni comuni alla sua età, non ultima la certezza che il nazionalismo non avesse avvenire. Abbiamo visto con quale vigore egli si sia opposto alle nascenti manifestazioni del nascente nazionalismo tedesco, considerando i vincoli etnici come un mero prolungamento del passato. Ora, su questo punto, egli non ha letto giusto nei segni dei tempi. L’incapacità di riconoscere nel nazionalismo una delle forze dominanti dei secoli XIX e XX è forse il punto più debole nella pretesa della filosofia hegeliana di esprimere fedelmente il proprio Zeitgeist [spirito del tempo]. L’ironia del destino della filosofia di Hegel è che, nell’Ottocento, egli sia stato erroneamente e superficialmente elevato a promotore del nazionalismo moderno in genere, e tedesco in specie. Ma, con l’avvento del nazionalismo etnico e romantico, molte di quelle che per Hegel erano le caratteristiche dello stato moderno sono diventate irrilevanti, e si può ben capire come la sua teoria dello stato abbia potuto essere distorta; analogamente, la visione di un mondo in cui, prima o poi, fosse possibile limitare e ridurre al minimo le guerre si è ridotta a puro wishful thought, desiderio scambiato per realtà. La combinazione di ideologia nazionalista e guerra totale, che ha sepolto sotto quest’ultima le conquiste relative dell’Età Vittoriana, ha fatto anche della filosofia di Hegel una delle sue maggiori vittime. Nulla di ciò che si è detto fin qui va interpretato nel senso che le risposte date da Hegel agli altri problemi da lui sollevati debbano sempre ritenersi soddisfacenti o corrette. Ma la capacità di porsi il giusto tipo di domande sulla natura della società post-1789, e di integrarle in un sistema filosofico generale, così come la consapevolezza che, di conseguenza, la teoria politica classica ha bisogno di rettifiche e di approfondimenti – tutto ciò

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Unità 17 Hegel

fa di Hegel ben più che un puro e semplice capitolo nella storia delle idee. Le sue domande – se non sempre le sue risposte – puntano nel senso della comprensione di ciò che è, oggi non meno che ai suoi giorni.

I brani antologizzati sono tratti da: E. Topitsch, In critica degli apologeti di Hegel, in C. Cesa (a cura di), Il pensiero politico di Hegel. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 186-189. S. Avineri, La teoria hegeliana dello stato, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 283-286.

Per seguire il dibattito 1

Secondo Topitsch qual è il rapporto tra la filosofia politica di Hegel e la realtà del suo tempo? (max 4 righe)

2

Qual è secondo Topitsch il rapporto tra sistema assoluto e filosofia politica nel pensiero di Hegel? (max 6 righe)

3

Quali sono le conseguenze politiche della convinzione che «un determinato ordine di convivenza umana possegga così un oggettivo primato di valore rispetto a tutti gli altri» che Topisch attribuisce a Hegel e ai suoi seguaci? (max 4 righe)

4

Qual è l’opinione di Russell sul pensiero politico di Hegel, citata da Avineri? (max 3 righe)

5

Qual è l’atteggiamento di Hegel verso la società civile secondo Avineri? (max 5 righe)

6

Il non aver previsto gli sviluppi del nazionalismo di quale tesi del pensiero di Hegel mostra la debolezza, secondo Avineri? (max 2 righe)

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Indice dei nomi I numeri in corsivo si riferiscono ai luoghi in cui un autore è trattato in modo più approfondito, con citazioni da opere o meno. ADDISON, Joseph, 716 AGOSTINO D’IPPONA, 7, 22, 162, 202, 209, 211, 225, 228, 277, 309, 324, 402, 868 ALBERTI, Leon Battista, 16 ALBERTO I, duca di Prussia, 73, 79 ALBERTO MAGNO, 33 ALEMBERT, Jean-Baptiste Le Rond d’, 14, 118, 524, 556, 565, 567-570, 571, 576, 580, 581, 585, 586, 778 ALESSANDRO DI AFRODISIA, 38, 39 ALESSANDRO MAGNO, 923 ALIGHIERI, Dante, 501 ALQUIÉ, Ferdinand, 150, 313, 314-316, 317, 318 ALTHUSIUS, Johannes, 137, 614, 620, 622 ANNA, regina d’Inghilterra, 464 ANSELMO D’AOSTA, 166 APOLLONIO DI PERGE, 75 ARCIVESCOVO DI MAGONZA, vedi SCHÖNBORN, Johann Philipp von ARISTARCO DI SAMO, 78 ARISTOTELE, 15, 16, 17, 28, 32, 38, 40, 41, 46, 50, 75, 104, 107, 111, 115, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 142, 143, 148, 181, 189, 204, 212, 217, 358, 368, 418, 421, 450, 560, 598, 793, 890 ARNAULD, Antoine, 141, 202, 205, 208-210, 211, 214, 215, 220, 221, 222, 227, 228, 269, 270, 290, 404 AUSONIO, 139 AVERROÈ, 32 AVINERI, Shlomo, 942, 943-945 BAADER, Benedict Franz Xaver von, 841, 842, 847, 852, 853, 854, 868 BACON, sir Nicholas, padre di Francesco Bacone, 106 BACONE, Francesco (Francis Bacon), 10, 11, 93, 106-118, 119, 146, 270, 362, 472, 490, 491, 515, 524, 569, 624 BARBARO, Ermolao, 16, 32 BARBERINI Maffeo, vedi URBANO VIII BARROW, Isaac, 469 BAUMGARTEN, Alexander Gottfried, 166, 514, 632, 635, 639, 646, 652, 653, 662 BAYLE, Pierre, 205, 206, 222-226, 227, 228, 232, 297, 299, 313, 323-325, 328, 329, 330, 331, 495, 498, 503, 514, 515, 516, 520, 537, 538 BECCARIA, Cesare, 541, 574, 625-627, 639, 640, 917 BEECKMAN, Isaac, 139 BELAVAL, Yvon, 514-517 BELLARMINO, Roberto, cardinale, 47, 98, 100, 103 BENTHAM, Jeremy, 541-543, 545, 546 BENTLEY, Richard, 482 BERKELEY, George, 193, 195, 199, 384-396, 398, 399, 681, 745, 776, 805 BIBBIA, 32, 119, 138, 203-204, 205, 229, 379, 464, 468, 484, 494, 496, 498, 503, 511, 520, 628, 631, 635, 703 BOBBIO, Norberto, 916

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BOCCALINI, Traiano, 337 BODIN, Jean, 57 BÖHME, Jakob, 868 BOILEAU, Nicolas, 716 BOINEBURG, Johann Christian von, protettore di Leibniz, 268 BOLINGBROKE, Henry St John, 329 BONAPARTE, Napoleone, 882, 883, 884, 923 BORGHERO, Carlo, 202 BOSSUET, Jacques-Bénigne, 205, 211, 227 BOUREAU-DESLANDES, André-François, 516 BOURGEOIS, Bernard, 776 BOYLE, Robert, 339, 361, 385, 467 BRADLEY, Francis Herbert, 882 BRAHE, Tycho (Tyge Ottesen Brahe), 70, 8185, 86, 87, 89, 90, 91, 92, 96, 101, 102, 119, 122, 123, 127 BRAMHALL, John, arcivescovo di Armagh, 339, 343 BRAUNSCHWEIG-LÜNENBURG, Johann Friedrich von, duca di Hannover, 269, 270 BRUCKER, Johann Jakob, 516 BRUNELLESCHI, Filippo, 16 BRUNI, Leonardo, 16, 28, 37 BRUNO, Giordano (Filippo Bruno), 6, 8, 11, 18, 37, 41, 44, 45, 46-56, 64, 66, 67, 147, 229, 242, 244, 270 BRUNSCHVICG, Léon, 215 BUFFON, Georges-Louis Leclerc de, 511, 515, 524, 572, 598 BURKE, Edmund, 716 CALCIDIO, 28 CALLIPPO, 75 CALVINO, Giovanni, 22, 23, 563, 613 CAMPANELLA, Tommaso (Giovan Domenico Campanella), 6, 10, 18, 41, 42-44, 63, 64, 66, 67, 270 CARLO I, re d’Inghilterra, 418, 616 CARLO II, re d’Inghilterra, 360, 430, 467 CARLO V, imperatore del Sacro romano impero, 60, 613 CARLO IX, re di Francia, 613 CARLO DI BORBONE, re di Napoli, 489 CARLO LUDOVICO, elettore palatino, 415 CARLO LUIGI, elettore palatino, 235 CARTESIO (René Descartes), 6, 7, 9-12, 93, 136-185, 188, 189-191, 192, 193, 194, 195, 198, 199, 202, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 213, 215, 216, 221, 228, 229, 234, 235, 237, 238, 245, 246, 251, 268, 270, 273, 274, 278, 288, 291, 293, 294, 314, 317, 320, 336, 337, 339, 340, 342, 346, 351, 358, 360, 362, 363, 365, 367, 368, 371, 374, 377, 384, 398, 402-404, 405, 408, 409, 410, 414, 415, 470, 471, 473, 476, 481, 489, 490, 491, 492, 514, 515, 516, 531, 552, 556, 563, 569, 572, 580, 581, 587, 643, 653, 655, 669, 681, 755, 756, 758, 760, 776, 837 CASINI, Paolo, 567, 585 CASSIRER, Ernst, 9-12 CASTEL, Louis-Bertrand, 322, 581

CASTELLI, Benedetto, 98, 100 CATERINA II, imperatrice di Russia, 513, 541, 556, 567 CESA, Claudio, 779-784 CESARE, Gaio Giulio, 223, 923, 937, 938 CHAMBERS, Ephraim, 567 CHEVALIER, Jean, 215 CLARKE, Samuel, 269, 479, 480, 522 CLEMENTE VII, papa, 60 COLBERT, Jean-Baptiste, ministro di Luigi XIV, 468 COLLINS, Anthony, 520 CONDILLAC, Étienne Bonnot abate di, 557, 570-571, 572, 573, 580, 581, 585, 598, 604, 626 CONDORCET, Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat de, 557, 575, 576, 577-578, 580, 581 COOPER, lord Anthony Ashley, vedi SHAFTESBURY, Anthony Ashley Cooper conte di COPERNICO, Niccolò (Niklas Koppernigk), 6, 48, 70, 72-74, 77-80, 81, 83, 84, 85, 87, 88, 90, 91, 93, 96, 119, 120, 484, 548, 667, 668, 754 CORANO, 265 COTES, Roger, 475 CREUZER, Gerog Friedrich, 841, 842 CRISTIANO IV, re di Danimarca, 81 CRISTINA, regina di Svezia, 141 CRISTO, vedi GESÙ CROCE, Benedetto, 882 CROMWELL, Oliver, 338, 361, 430 CROMWELL, Richard, figlio di Oliver Cromwell, 430 CRUSIUS, Christian August, 633-634, 639 CUDWORTH, Ralph, 361 CUSANO, Niccolò (Nikolaus Krebs), 33-37, 46, 64, 66, 67 CYRANO DE BERGERAC, Hercule Savinien de, 204, 205, 227 DEFOE, Daniel, 598 DEL MEDIGO, Elia, 16 DELLA PORTA, Giovan Battista, 42 DENNET, Daniel, 174 DE SANCTIS, Francesco, 61 DESARGUES, Girard, 215 DESCARTES René, vedi CARTESIO DIDEROT, Denis, 118, 513, 515, 516, 524, 556, 557, 567, 571, 574, 580, 581, 585, 586, 587, 740, 778 DIOGENE LAERZIO, 15, 516 DIONISIO DI ALICARNASSO, 716 DONNE, John, 80 DREYER, John Louis, 90 DÜRER, Albrecht, 746 EINSTEIN, Albert, 128, 480, 482 ELISABETTA I, regina d’Inghilterra, 106 ELISABETTA DI BOEMIA, principessa palatina, 142, 171 ENGELS, Friedrich, 854, 944 ENRICO III, re di Francia, 46 ENRICO IV, re di Francia, 562

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Indice dei nomi

ENRICO VIII, re d’Inghilterra, 62 EPICURO, 207, 208, 226, 229, 323, 324, 331 ERASMO DA ROTTERDAM (Geert Geertsz), 18, 19-20, 21, 22, 24, 28, 54, 62, 64, 66, 67 ERIUGENA, Giovanni Scoto, 33, 37 ERMETE TRISMEGISTO, 29, 67 ERODOTO, 203 EUCLIDE, 88, 235, 375, 529 EUDOSSO DI CNIDO, 75 EUGENIO IV, papa, 33 EULER, Leonhard, 10 EUSEBIO DI CESAREA, 204 FABRITIUS, J. Ludovicus, 235 FAULHABER, Johann, 139 FEDERICO II, re di Danimarca, 81, 82 FEDERICO II, re di Prussia, 513, 556, 557, 562, 566, 572, 630, 631, 632, 634, 640, 735, 738, 739, 740, 741 FEDERICO III, principe di Brandeburgo, 269 FEDERICO V, re di Boemia, 141 FEDERICO GUGLIELMO I, principe di Brandeburgo e duca di Prussia, 415, 630 FEDERICO GUGLIELMO II, re di Prussia, 740 FÉNELON, François de Salignac de la Mothe, 517 FERDINANDO II, imperatore del Sacro romano impero, 142 FERMAT, Pierre de, 215 FERRARIN, Alfredo, 747 FERRARIS, Maurizio, 743-747, 748, 749, 750 FEUERBACH, Ludwig, 854, 881, 898 FICHTE, Johan Gottlieb, 161, 635, 776, 777, 778, 779, 780, 781, 782, 783, 784, 786-823, 825-832, 841, 843, 851, 852, 853, 854, 856, 857, 860, 874, 878, 879, 883, 885, 887, 888, 889, 891, 892, 895, 896, 902, 917, 918, 922, 939 FICINO, Dietifeci, padre di Marsilio Ficino, 30, 67 FICINO, Marsilio, 28-31, 37, 45, 46, 64, 66 FILANGIERI, Gaetano, 624, 639 FILIPPO II D’ORLÉANS, reggente di Francia, 562 FILMER, Robert, 430, 431, 432, 447 FILOLAO, 78 FILONE EBREO, 204 FONTENELLE, Bernard Le Bovier de, 8, 205, 206, 227, 228, 325, 491, 515, 575 FORBERG, Friedrich Karl, 782, 787 GALENO, 40 GALILEI, Galileo, 6, 8, 9-12, 70, 71, 72, 90, 93, 94-105, 108, 115, 119, 120, 122-129, 136, 138, 141, 142, 144, 147, 148, 182, 191, 215, 270, 337, 351, 464, 468, 474, 481, 484, 485, 491, 754, 755, 756, 757 GALILEI, Vincenzo, padre di Galileo, 105 GARIN, Eugenio, 15, 45 GASSENDI, Pierre, 141, 184, 185, 189, 202, 204, 205, 206-208, 227, 404 GENESI, 754 GENOVESI, Antonio, 624, 639 GENTILE, Giovanni, 882 GESÙ (IEHOSHUA) DI NAZARET, 19, 20, 22, 23, 30, 36, 37, 53, 55, 67, 223, 265, 379, 380, 381, 398, 428, 635, 637, 885 GEULINCX, Arnold, 196, 211, 317 GIACOMO I, re d’Inghilterra, 106 GIACOMO II, re d’Inghilterra, 430, 438 GIAMBLICO DI CALCIDE, 29, 30, 37 GIANCOTTI BOSCHERINI, Emilia, 316, 317-320 GIANNONE, Pietro, 624, 639

GIANSENIO (Cornelius Jansen), 203, 205, 229 GIBBON, Edward, 516 GILBERT, William, 91 GIOVANNA D’ARCO, 563 GIOVANNI, evangelista, 783 GIROLAMO, santo, 20 GOETHE, Johann Wolfgang von, 585, 777, 780, 784, 786, 840, 842, 843, 845-847, 849, 864, 873, 874, 883, 892, 897, 899, 910 GÖRRES, Joseph, 841, 842 GRASSI, Orazio, 98, 101, 102 GRATAROL, Guglielmo, 38 GRIMM, Friedrich Melchior von, 567 GROZIO, Ugo (Huig van Groot), 137, 414, 447, 490, 497 GUGLIELMO III, re d’Inghilterra, 360, 361, 430 GUGLIELMO DI OCKHAM, 348, 372 GUGLIELMO D’ORANGE NASSAU, vedi GUGLIELMO III, re d’Inghilterra GUICCIARDINI, FRANCESCO, 60-62, 64, 66, 67 HABERMAS, Jürgen, 137 HALLEY, Edmund, 475 HAMANN, Johann Georg, 847, 849 HARDENBERG, Friedrich Leopold von, vedi NOVALIS HAYM, Rudolf, 939 HEGEL, Georg Wilhelm Friedrich, 8, 161, 517, 632, 633, 776, 777, 778, 779, 780, 782, 783, 786, 821, 852, 853, 854, 870, 871, 878-945 HEIDEGGER, Martin, 868 HELVÉTIUS, Claude-Adrien, 517, 524, 557, 572, 573-574, 575, 580, 625 HERDER, Johann Gottfried, 780, 840, 845, 846, 847, 849-851, 873, 883 HILL GREEN, Thomas, 882 HITLER, Adolf, 939 HOBBES, Thomas, 8, 142, 191-192, 195, 199, 202, 205, 222, 229, 235, 269, 276, 278, 317, 336-357, 362, 371, 372, 377, 386, 398, 399, 404, 415, 416, 418-430, 432, 433, 434, 435, 437, 438, 440, 441, 442, 443, 444, 446, 447, 448, 450-457, 497, 520, 521, 522, 523, 532, 533, 540, 545, 561, 572, 590, 591, 599, 601, 609, 615-618, 653, 756-757, 758, 889 HOLBACH, Paul-Henri Thiry, barone d’ (Paul Heinrich Dietrich), 192, 329, 331-333, 515, 516, 524, 556, 557, 565, 569, 572, 574-575, 580, 581 HÖLDERLIN, Johann Christian Friedrich, 784, 840, 847, 853, 883, 884, 890, 892 HOOKE, Robert, 467, 471, 473 HUME, David, 329, 330-332, 408, 410, 411, 512, 516, 520, 521, 523-539, 540, 541, 545, 546, 548-553, 574, 585, 586, 601, 645, 653, 701, 760 HUSSERL, Edmund, 161 HUTCHESON, Francis, 521-522, 523, 524, 525-526, 532, 539, 540, 541, 545, 546, 701 HUYGENS, Christiaan, 268, 270, 468, 473 IPPARCO DI NICEA, 75, 86 ISAIA, profeta, 219 JACOBI, Friedrich Heinrich, 514, 777, 780, 782, 845, 847, 880, 883, 887, 888 JANSEN, Cornelius, vedi GIANSENIO KANT, Immanuel, 7, 12, 161, 167, 358, 403, 410-411, 416, 510, 512, 514, 517, 523, 616617, 631, 632, 633, 635, 636, 637, 639, 642751, 759-763, 776, 777, 778, 779, 780, 781,

782, 783, 784, 786, 787, 788, 789, 790, 791, 792, 793, 797, 802, 803, 804, 807, 808, 810, 814, 822, 828, 830, 831, 832, 849, 850, 853, 854, 855, 864, 865, 878, 880, 883, 884, 885, 886, 887, 888, 889, 891, 898, 900, 902, 904, 908, 917, 918, 919, 922, 939 KARL AUGUST, duca di Weimar, 840 KATER, Jan de (Caterus), 141 KEPLERO (Johannes Kepler), 10, 70, 82, 83, 86-93, 96, 115, 119, 137, 144, 270, 474, 475, 883, 910 KIERKEGAARD, Søren, 854, 882, 883 KOYRÉ, Alexandre, 80, 142 KUHN, Thomas, 91 LA BRUYÈRE, Jean de, 217 LAMBERT, Johann Heinrich, 633, 639, 823, 891, 929 LA METTRIE, Julien Offroy de, 192, 195, 199, 557, 572-573, 575, 580, 581 LA MOTHE LE VAYER, François, 204, 205, 207, 227 LANCELOT, Claude, 209 LA PEYRÈRE, Isaac de, 494 LAPLACE, Pierre-Simon de, 647 LA ROCCA, Claudio, 747-751 LA ROCHEFOUCAULD, François de, 217 LATTANZIO, Lucio Cecilio Firmiano, 226, 323, 324 LAVATER, Johann Kaspar, 897 LE CLERC, Jean, 204, 227, 361 LEIBNIZ, Gottfried Wilhelm von, 7, 8, 10, 161, 166, 196-197, 199, 205, 206, 209, 225, 267-303, 317, 320, 322, 325-327, 328, 330, 358, 408-410, 469, 470, 471, 479, 480, 566, 630, 631, 633, 643, 645, 652, 653, 657, 669, 676, 758-759, 776, 856, 868 LEONARDO DA VINCI, 11, 71 LEONE X, papa, 60 LESSING, Gotthold Ephraim, 513, 628, 635637, 639, 780, 845 LINNÉ, Carl, 511 LIPSIO, Giusto, 356 LOCKE, John, 8, 161, 193, 197-199, 223, 270, 271, 274, 286, 358-383, 385, 386, 387, 388, 389, 390, 392, 398, 399, 404, 405-408, 409, 410, 416, 430-440, 441, 447, 448, 456, 490, 512, 514, 515, 520, 521, 524, 545, 556, 563, 564, 569, 570, 571, 572, 580, 581, 590, 620-622, 624, 633, 653, 655, 750, 760 LONGINO, Cassio, 716 LUCIANO DI SAMOSATA, 19 LUCREZIO CARO, Tito, 229, 572 LUIGI XIII, re di Francia, 42, 414 LUIGI XIV, re di Francia, 224, 468, 562 LUIGI XV, re di Francia, 571 LULLO, Raimondo, 33, 37 LUTERO, Martin, 6, 21-23, 24, 53, 62, 66, 67, 73, 79, 613, 887, 888 MACCHIA, Giovanni, 217 MACH, Ernst, 480 MACHIAVELLI, Niccolò, 57-59, 60, 61, 64, 66, 67, 612, 889 MAESTLIN, Michael, 86, 87 MAIMON, Salomon, 780 MALEBRANCHE, Nicolas, 166, 196, 203, 205, 209, 210-214, 222, 227, 269, 270, 314, 317, 320, 404, 405, 408, 410, 530, 563 MANDEVILLE, Bernard de, 520-521, 522, 523, 532, 533, 540, 545 MANETTI, Giannozzo, 16 MANI, fondatore del manicheismo, 229

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Indice dei nomi

MANZONI, Alessandro, 626 MARIA II, regina d’Inghilterra, 430 MARIA ANTONIETTA, regina di Francia, 576 MARSHAM, John, 494 MARX, Karl Heinrich, 539, 777, 881, 889, 898, 915, 919, 920 MAUPERTUIS, Pierre-Louis Moreau de, 515, 563, 634, 740 MAURIZIO DI NASSAU, principe di Orange, 137, 139, 141 MEDICI, Alessandro de’, duca di Firenze, 60 MEDICI, Cosimo de’, il Vecchio, 29, 30 MEDICI, Cosimo I de’, granduca di Toscana, 60 MEDICI, Cosimo II de’, granduca di Toscana, 96 MEDICI, famiglia, 57, 60, 100 MEDICI, Giuliano de’, 96 MEDICI, Lorenzo de’, il Magnifico, 16, 17, 60 MEISTER ECKHART, 33, 37 MELANTONE, Filippo (Philipp Schwarzerd), 6, 24, 73 MENDELSSOHN, Moses, 513, 631, 634-635, 636, 639, 651, 731, 742, 845 MERSENNE, padre Marin, 7, 140, 142, 156, 205, 207, 215, 337, 339, 342 MESMER, Franz Anton, 845 MILL, James, 541 MILL, John Stuart, 541, 542 MITRIDATE, Flavio, 16 MOLINA, Luis de, 221 MOLYNEUX, William, 387, 388, 567 MONTAIGNE, Michel Eyquem de, 6, 8, 18, 2527, 28, 64, 66, 67, 216, 356 MONTESQUIEU, Charles-Louis de Secondat barone di, 557-561, 570, 572, 580, 581, 591, 592, 593, 607, 624 MORE, Henry, 476 MORE, Thomas, vedi MORO, Tommaso MORO, Tommaso (Thomas More), 19, 62-63, 64, 66, 67 MOSÈ MAIMONIDE, 32 MÜNTZER, Thomas, 21 NAPOLEONE, vedi BONAPARTE, Napoleone NASSAU, vedi MAURIZIO DI NASSAU NAUDÉ, Gabriel, 204, 205, 207, 227 NEWTON, Isaac, 10, 70, 90, 93, 99, 144, 149, 269, 293, 385, 464-485, 511, 514, 515, 520, 556, 563, 564, 569, 572, 580, 604, 624, 628, 644, 645, 718, 758, 845, 883, 895, 910 NICOLAI, Christoph Friedrich, 634, 636, 639 NICOLE, Pierre, 202, 208, 209, 215, 404 NIETZSCHE, Friedrich, 882, 883 NOHL, Hermann, 884 NOVALIS (Friedrich Leopold von Hardenberg), 313, 784, 843, 844, 845, 850 OLDENBURG, Henry, 234 OMERO, 500, 501 ORAZIO FLACCO, Quinto, 731 OSIANDER, Andrea, 73, 78, 79, 119 PAOLO III, papa, 79 PAOLO IV, papa, 24 PAOLO DI TARSO, 19, 21, 22, 53, 138 PARACELSO (Theofrast von Hohenheim), 106 PARMENIDE, 50, 793, 903 PASCAL, Blaise, 8, 141, 202, 203, 205, 209, 214-221, 227, 228, 229, 328, 564 PATRIZI, Francesco, 41 PEMBERTON, Henry, 475 PERSIO, Antonio, 40, 41 PICCOLOMINI, Enea Silvio, vedi PIO II PICO DELLA MIRANDOLA, Giovanni, 16-17, 31-

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33, 37, 58, 62, 64, 66, 67 PIO II, papa, 33 PIRRONE, 216, 229, 548 PITAGORA, 87, 350 PLATONE, 6, 15, 17, 28, 29, 30, 31, 32, 37, 46, 66, 87, 88, 107, 109, 120, 202, 225, 358, 363, 402, 490, 503, 534, 560, 776 PLAUTO, Tito Maccio, 421 PLINIO IL GIOVANE (Gaio Plinio Secondo), 598 PLOTINO, 28, 29, 30, 37, 50 POLIZIANO, Angelo, 17 POLO, Marco, 746 POMPONAZZI, Pietro, 38-39, 40, 41, 64, 66, 67 POMPONIO, Marcello Marco, 739 POPE, Alexander, 326-327, 329, 330, 483 POPPER, Karl, 939 PORFIRIO, 29, 30, 37 PRETI, Giulio, 218 PROCLO, 29, 30, 33, 37 PROSPERI, Adriano, 24 PSELLO, Michele, 29, 30, 37 PSEUDO DIONIGI AREOPAGITA, 29, 30, 33, 37 PSEUDO LONGINO (Dionisio Longino), 716 PUFENDORF, Samuel, 415, 447, 497 QUESNAY, François, 577, 581 REID, Thomas, 524, 539 REIMARUS, Hermann Samuel, 635, 636 REINHOLD, Erasmo, 79 REINHOLD, Karl Leonhard, 780, 789, 883, 887 RE SOLE, vedi LUIGI XIV, re di Francia RHETICUS (Georg Joachim Lauschen), 73 RICARDO, David, 539 RITTER, Johann Wilhelm, 847, 853 ROBERVAL, Gilles Personnes de, 215 ROBESPIERRE, Maximilien de, 576 RODOLFO II, imperatore del Sacro romano impero, 47, 82, 90, 92 ROSSI, Paolo, 70 ROSTAND, Edmond, 204 ROUSSEAU, Jean-Jacques, 329, 330, 416, 512, 513, 514, 516, 517, 524, 557, 558, 568, 569, 570, 571, 581, 584-610, 624, 625, 639, 644, 645, 883, 892, 943 RUSSELL, Bertrand, 943 SALOMONE, re di Israele, 51 SALUTATI, Coluccio, 16 SALVIATI, FILIPPO, 104 SANT’AGOSTINO, vedi AGOSTINO D’IPPONA SAN TOMMASO, vedi TOMMASO D’AQUINO SARPI, Paolo, 337 SAUL, re d’Israele, 428, 615 SAVONAROLA, Girolamo, 17, 32, 37 SCHELLING, Friedrich Wilhelm Joseph, 161, 716, 777, 778, 779, 780, 781, 782, 783, 784, 786, 811, 841, 842, 843, 845, 847, 850, 852-871, 873, 874, 878, 879, 880, 883, 884, 885, 886, 887, 892, 903 SCHILLER, Friedrich, 716, 732, 777, 780, 784, 809, 821, 840, 842, 843, 845, 846, 864, 873, 874, 884, 890, 899, 934 SCHLEGEL, Karl Wilhelm Friedrich, 782, 784, 786, 841, 842, 843-844, 845, 850, 873, 874, 883 SCHLEGEL, Wilhelm August, 782, 784, 841, 842, 844, 883 SCHLEIERMACHER, Friedrich Daniel Ernst, 777, 847-849, 874 SCHNEINER, Christoph, 147 SCHÖNBORN, Johann Philipp von, 268, 269, 270 SCHOPENHAUER, Arthur, 716, 740, 882, 883

SCHULZ, Johann Heinrich, 735 SCHULZE, Gottlob Ernst, 780, 789, 790 SEBOND, Raymond, 25 SEMLER, Johann Salomo, 635 SERVETO, Michele, 563 SHAFTESBURY, Anthony Ashley Cooper conte di, 327, 329, 360, 361, 396, 521, 522, 523, 532, 545, 546, 570 SIMON, Richard, 204, 227 SMITH, Adam, 521, 524, 539-540, 541, 545, 546, 574, 625 SOCRATE, 590, 591, 915, 918, 922 SPALDING, Johann Joachim, 635 SPENCER, John, 494 SPENER, Philipp Joseph, 628, 640 SPINOZA, Baruch, 7, 8, 166, 193-195, 199, 203, 205, 222, 224, 229, 232-266, 269, 271, 294, 296, 302, 303, 305-320, 344, 351, 358, 379, 399, 417, 440-446, 447, 448, 490, 556, 570, 580, 618-620, 757-758, 760, 782, 811, 845, 873, 903, 906 STAGIRITA, vedi ARISTOTELE STANLEY, Thomas, 516 STEPHANUS Junius Brutus, 614 STUART, dinastia, 430, 431 SWEDENBORG, Emanuel, 647 SWIFT, Jonathan, 385 TACITO, Publio Cornelio, 490, 503 TALMUD, 233 TELESIO, Antonio, 40 TELESIO, Bernardino, 10, 40-41, 44, 64, 66 THOMASIUS, Christian, 510, 627, 628-630, 633, 634, 639 TIBERIO, Claudio Nerone, imperatore romano, 739 TICONE, vedi BRAHE, Tycho TIGNOSI, Niccolò, 30 TINDAL, Matthew, 495, 520 TOLAND, John, 380, 495, 520, 572 TOLOMEO, Claudio, 6, 74-77, 86, 91, 120, 122, 123, 124, 548 TOMMASO D’AQUINO, 39, 46, 166, 188, 309 TOPITSCH, Ernst, 939, 940-942 TORRICELLI, Evangelista, 215 TUCIDIDE, 337, 339 TURGOT, Anne-Robert-Jacques, 575, 576577, 578, 580 URBANO VIII, papa, 42, 98, 103, 105 VANINI, Giulio Cesare, 140, 909, 910 VERNIA, Nicoletto, 16 VERRI, Alessandro, 625, 626, 639 VERRI, Pietro, 625, 626, 639 VICO, Giambattista, 8, 352, 488-504, 517 VOET, Gisbert, 141 VOLTAIRE (François-Marie Arouet), 299, 322, 328, 330, 331, 512, 513, 514, 515, 516, 556, 557, 562-566, 569, 570, 572, 574, 575, 576, 580, 581, 585, 586, 588, 636, 740 WALLIS, John, 470, 471 WARBURG, Aby, 45 WHITE, Thomas, 757 WINCKELMANN, Johann Joachim, 780, 925 WITT, Jan de, 234 WOLFF, Christian, 166, 327, 328, 512, 513, 628, 630-632, 633, 635, 639, 640, 646, 652, 732, 880 ZÖLLNER, Johann Friedrich, 731, 742 ZWINGLI, Huldrych, 22-23