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Italian Pages 700 Year 2008
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VOLUME SPROVVISTO DEL TALLONCINO A FRONTE
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(VENDITA E ALTRI ATTI DI DISPOSIZIONE VIETATI ART. 17, I.V.A. (D.P.R. 26.10.1972, N. 633, ART. 2, LETT. D).
C .2
L.
Le Unità: il profilo di storia della filosofia con i testi da leggere I Laboratori di lettura I Percorsi tematici I Laboratori sul lessico. Filosofia e vita quotidiana Le Tesi a confronto Configurazione dell’opera 1. Filosofia antica e medievale 2. Filosofia moderna 3. Filosofia contemporanea
ISBN 978-88-00-20484-2 ISBN 978-88-00-20485-9 ISBN 978-88-00-20486-6
Guida per l’insegnante
ISBN 978-88-00-20709-6
LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA
Le ragioni della filosofia
M. Vegetti | L. Fonnesu
Q UESTO
1 Filosofia antica e medievale
Mario Vegetti | Luca Fonnesu Franco Ferrari | Stefano Perfetti | Emidio Spinelli
LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA 1 - Filosofia antica e medievale
www.edusophia.it
Prezzo al pubblico Euro 25,80
0 I-II Vegetti-Filosofia 1
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Mario Vegetti - Luca Fonnesu Franco Ferrari - Stefano Perfetti - Emidio Spinelli
LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA 1 Filosofia antica e medievale
© 2008 by Mondadori Education S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati www.mondadorieducation.it www.pianetascuola.it
Prima edizione : gennaio 2008 Edizioni 11 2012
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L’opera è frutto della collaborazione fra gli autori. In particolare: Mario Vegetti ha curato l’Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica e i Percorsi tematici Che cos’è la giustizia?, Le ragioni della scienza Mario Vegetti e Franco Ferrari hanno curato le Unità 3 Platone, 4 Aristotele, 5 Il pensiero scientifico antico Franco Ferrari ha curato le Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici, 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate, 7 I platonismi e Plotino e il Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto Emidio Spinelli ha curato l’Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo e il Percorso tematico Che cos’è il piacere? Stefano Perfetti ha curato l’Introduzione Dal mondo antico al Medioevo, le Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino, 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto, 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino, 11 Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo e il Percorso tematico Il mondo è eterno? Luca Fonnesu ha curato i Laboratori sul lessico Bene/Buono, Giustizia/ Giusto, Felicità Claudio La Rocca ha curato i Laboratori sul lessico Verità, Essere Redazione Impaginazione Progetto grafico Copertina Ricerca iconografica
Andrea Bencini, Marco Solinas, Elisabetta Zappia, Polaris Studio redazionale (Firenze) Polaris Studio redazionale (Firenze) Alfredo La Posta Walter Sardonini/SocialDesign (Firenze) Alberto Mori
In copertina
Vaso attico a figure rosse (particolare) proveniente dalla Necropoli della Penna, V secolo a.C. Civita Castellana, Museo dell’Agro Falisco – Foto Archivio Seat/Archivi Alinari
Revisione testi e apparati didattici
Alessandro Becchi, Annalia Celli, Luciana Ceri, Francesco Cirri
Per eventuali e comunque non volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità.
Per informazioni e segnalazioni: Servizio Clienti Mondadori Education e-mail [email protected] tel. 199122171 (euro 0,12 + Iva al minuto senza scatto alla risposta; per cellulari il costo varia in funzione dell’operatore)
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Presentazione
Le ragioni della filosofia. Il titolo di questo corso può venire interpretato in due sensi diversi. Il primo di essi ha orientato la modalità di costruzione del nostro racconto storico, mentre il secondo esprime la sua destinazione, il compito che ci siamo posti. Nel primo senso, dunque, «le ragioni della filosofia» designa l’ordine degli argomenti, delle intenzioni, insomma appunto delle «ragioni» che hanno governato nel tempo la formazione delle prospettive teoriche proposte dai diversi filosofi, e anche quelle che hanno motivato le critiche ad esse rivolte da altri filosofi, in quella discussione incessante (ma non arbitraria o inconcludente) che costituisce la «storia della filosofia». Non pensiamo che la storia della filosofia vada concepita, e narrata, come una «filastrocca delle opinioni» che si snoda nei secoli (come diceva Hegel a proposito del cattivo uso di questa disciplina). Crediamo invece che essa costituisca lo scenario di un serrato dibattito fra tentativi diversi, e spesso contrapposti, di rispondere razionalmente a una serie di domande fondamentali che gli uomini si sono posti nel corso della loro storia, e in forme diverse tuttora si pongono: che cosa è il mondo, e come possiamo conoscerlo? esiste una divinità, e, se sì, qual è il suo rapporto con il mondo e con gli uomini? qual è il senso dell’esistenza umana, quali sono le condizioni che possono assicurarle una piena fioritura, quali sono le norme e i valori morali che garantiscono il buon ordine della vita associata? E infine: se intorno a questi e ad altri analoghi problemi si possono formulare tesi diverse, quali sono i criteri che ci permettono di sceglierne alcune rispetto ad altre? O in altri termini, come è possibile decidere della loro validità? Per chi ritiene che alle domande fondamentali intorno al mondo, alla conoscenza, al senso e al valore della vita individuale e collettiva, esista una sola risposta possibile, e che essa sia rivelata da un’autorità estranea e superiore alla ragione umana, ai suoi metodi di indagine e di argomentazione, lo sforzo secolare della riflessione filosofica può apparire inutile; ma anche chi possiede questa convinzione, se vuole vivere nella comunità umana, deve poi fare lo sforzo di convincere chi non la condivide, e ancora una volta – come spesso è accaduto nel corso della storia – deve ricorrere a questo fine agli argomenti della filosofia. Chi invece crede che si tratti di domande aperte, di risposte alternative fra le quali decidere e orientarsi con le sole forze della riflessione razionale, non può che trovare nella storia della filosofia l’affascinante spettacolo degli sforzi del pensiero umano per procedere lungo un percorso di conoscenza, di chiarezza, di progressivo approfondimento critico delle conquiste via via conseguite. Raccontare la storia della filosofia ha dunque significato per noi in primo luogo ricostruire ed esporre il gioco delle argomentazioni contrapposte, il progressivo accumularsi delle conoscenze oppure il conflitto fra «ragioni» alternative, con l’attenzione rivolta più alla ricostruzione della discussione razionale che alla semplice successione cronologica delle opinioni. Proprio per questo, abbiamo cercato, nell’analisi dei testi filosofici qui proposti alla lettura, di richiamare l’attenzione sulla loro tessitura dimostrativa, sul senso teorico delle prospettive proposte; senza mai dimenticare, d’altro canto, che ogni forma di riflessione filosofica si svolge in una situazione storica e sociale determinata, e che le sue «ragioni» sono in primo luogo riferite ai problemi propri del mondo in cui essa nasce e si sviluppa. III
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Prefazione
Ogni filosofia, dunque, ha le sue proprie «ragioni», e il primo compito che ci siamo proposti è stato quello di ricostruirle e renderle comprensibili, tanto dal punto di vista della loro concatenazione argomentativa, quanto da quello del loro particolare contesto storico. Ma, si diceva, l’espressione «le ragioni della filosofia» ha anche un altro senso. Si tratta, a nostro avviso, delle (buone) ragioni per le quali la filosofia e la sua storia meritano ancora oggi di venire insegnate e apprese. Siamo in effetti convinti che gli strumenti offerti dalla riflessione filosofica siano utili per articolare correttamente le domande che ognuno si pone intorno alla comprensione del mondo in cui viviamo, al senso della nostra esistenza, alla giustizia e alla felicità, al nostro rapporto con gli altri, con le vicende politiche, sociali e morali che ci coinvolgono. Siamo inoltre convinti che quegli stessi strumenti siano indispensabili per vagliare criticamente la validità e il senso delle risposte che a queste domande vengono suggerite dall’ambiente culturale che ci circonda, dalle tradizioni, dai mezzi di comunicazione e dalle forme di autorità che vi sono dominanti. L’esercizio della riflessione filosofica ha dunque a nostro avviso una doppia e preziosa funzione. In senso critico, essa serve a proteggere l’autonomia di giudizio e di valutazione del soggetto dalla pressione di credenze diffuse, di pregiudizi sociali, di proposte informative che possono essere intese a suscitare un’accettazione passiva e conformistica. In senso positivo, la riflessione filosofica può aiutare a orientarsi di fronte alle questioni decisive di verità e di senso, di conoscenza e di condotta personale e collettiva che si pongono alla vita di ognuno; può dunque servire a costruire profili di personalità libera e consapevole, capace di interagire positivamente con gli altri in un mondo sociale sempre più complesso. La storia della filosofia – se appunto non viene studiata come mera «filastrocca delle opinioni» – può allora costituire una sorta di repertorio ragionato di questi strumenti critici e costruttivi. Essa continua dunque a meritare, a nostro avviso, il suo posto in qualsiasi programma di formazione dei futuri cittadini in quanto soggetti in grado di esprimersi razionalmente e liberamente nel discorso e nell’azione, rifiutando le tentazioni della coercizione e della violenza, privilegiando invece l’ascolto, la comprensione, lo sforzo di convincere delle proprie ragioni e di accettare quelle altrui. Mario Vegetti e Luca Fonnesu
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Indice 3. Zenone: la difesa logico-argomentativa di Parmenide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Melisso: l’essere è il cosmo . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Parte prima
L’età antica
48 49
Melisso, Sulla natura o sull’essere: T19 fr. 1a (p. 49)
Introduzione
Dalle origini al declino della filosofia antica 1. 2. 3. 4.
La nascita della filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Perché in Grecia? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Chi erano i filosofi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La fine della filosofia antica . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5 6 9 13 20
Sommario (p. 23), Parole chiave (p. 23), Questionario (p. 24) ◆ La
parola al critico: Vernant legge le origini della filosofia in Grecia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Empedocle, Anassagora, Democrito: il naturalismo dopo Parmenide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
50 51
1. Empedocle: tra antichi e nuovi saperi . . . . . . . . . . Empedocle, Sulla natura: T20 fr. 8 (p. 52); T21 frr. 21 e 26 (p. 53); Purificazioni: T22 fr. 117 (p. 54)
2. Anassagora: i semi infiniti e l’Intelletto . . . . . . . .
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Anassagora, Sulla natura: T23 fr. 1 (p. 55); T24 frr. 12 e 13 (p. 55)
3. Democrito: gli atomi e il vuoto . . . . . . . . . . . . . . . . . 25
56
Democrito, Sulla natura: T25 fr. 11 (p. 58); T26 fr. 9 (p. 58) Sommario (p. 61), Parole chiave (p. 62), Questionario (p. 63)
Unità 1
Laboratorio di lettura: Eraclito, Sulla natura . . . . . . . . . .
Gli inizi della filosofia: i presocratici
Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
......
29
1. Chi sono i presocratici? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
30 30
1. Il problema delle fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. La scuola di Mileto e la cosiddetta physiologhìa
..
1. Talete, saggio tra i sapienti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
33 34
T1 Talete (da Aristotele), Sul cielo (p. 34)
2. L’illimitato di Anassimandro . . . . . . . . . . . . . . . . . .
34
T2 Anassimandro, Sulla natura fr. 1 (p. 35)
3. Anassimene: l’aria origine del tutto . . . . . . . . . . . .
35
Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Unità 2
La filosofia della città: i sofisti e Socrate . .
71
1. Il luogo della filosofia: Atene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. I sofisti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
72 73 74
T1 L’uomo è misura di tutte le cose (p. 75)
...............................
36
Eraclito, Sulla natura: T4 fr. 34 (p. 37); T5 fr. 29 (p. 37); T6 fr. 89 (p. 37); T7 fr. 51 (p. 37); T8 fr. 88 (p. 38); T9 fr. 53 (p. 38); T10 fr. 50 (p. 38); T11 fr. 1 (p. 38); T12 fr. 67 (p. 39)
4. L’anima e il numero: Pitagora e il pitagorismo
Laboratorio di lettura: Empedocle, Sulla natura . . . . . . . . .
1. Protagora e il relativismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
T3 Anassimene (da Simplicio), Commento alla Fisica frr. 24,26 (p. 35)
3. Eraclito l’oscuro
64 67 68 70
....
2. La potenza della parola: Gorgia . . . . . . . . . . . . . . . . 3. La sofistica e l’illuminismo greco . . . . . . . . . . . . . . T2 La «giustizia di natura» secondo Callicle (p. 81); T3 L’astuta invenzione della religione (p. 82)
39
3. Socrate e la filosofia
40 41
T4 Socrate: l’incantamento della filosofia (p. 86); T5 Socrate: l’interpretazione dell’oracolo delfico (p. 87)
5. L’essere e la verità: Parmenide e l’eleatismo . . . . . .
44
1. Senofane: fiducia nella ragione e critica alla religione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Il metodo filosofico socratico . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Il rapporto tra virtù, conoscenza, felicità . . . . . . . .
44
88 90
T6 Quel qualcosa di divino e demoniaco… (p. 92)
4. Il bene, la vita e la felicità del filosofo . . . . . . . . . .
Senofane, Silli: T13 fr. 11 (p. 44); T14 fr. 15 (p. 44); Sulla natura: T15 fr. 23 (p. 45) Parmenide, Sulla natura: T16 fr. 1 (p. 45); T17 fr. 3 (p. 46); T18 fr. 8 (p. 46)
84 85
............................
1. Il programma filosofico socratico . . . . . . . . . . . . . . .
1. L’immortalità dell’anima e il ciclo delle reincarnazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Le dottrine matematiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Parmenide: la verità contro l’opinione . . . . . . . . . .
77 79
92
T7 Socrate contro Antifonte: la felicità del filosofo (p. 93)
45
5. L’eredità di Socrate: le cosiddette «scuole socratiche» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Sommario (p. 98), Parole chiave (p. 99), Questionario (p. 100)
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Indice
Laboratorio di lettura: Gorgia, Encomio di Elena . . . . . . . . 101 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 LABORATORIO SUL LESSICO
Filosofia e vita quotidiana: Bene / buono
. . . . . . 105
Esercitiamoci sul bene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108
3. L’edificio del sapere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203 4. La logica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 204 T1 Suono, segno, significato (p. 205); T2 La dimostrazione (p. 208); T3 Principi propri e comuni (p. 209); T4 Dire qualcosa di sensato (p. 210); T5 L’intelletto principio della scienza (p. 212)
5. Le categorie e il primato della sostanza . . . . . . . . . 213 T6 Le dieci categorie (p. 214); T7 Sostanze seconde (p. 215); T8 Sostrato, specie e generi (p. 216)
Unità 3
Platone
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111
1. Platone e le ragioni della filosofia . . . . . . . . . . . . . . 112 2. Il maestro, il dialogo, la maturità . . . . . . . . . . . . . . 113 3. Virtù, desiderio, felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116
7. La struttura dell’universo: cosmologia e teologia . 223
8. I viventi e l’anima: biologia e psicologia . . . . . . . . 229
4. La giustizia nella pòlis: i filosofi-re . . . . . . . . . . . . 120 T5 La divisione del lavoro (p. 120); T6 Poeti al bando (p. 122); T7 L’onda più grande (p. 123); T8 Le insidie della proprietà privata (p. 125); T9 «Mio» e «non mio» (p. 125)
T15 La natura provvede al meglio (p. 230)
9. La filosofia prima o metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . 233
5. L’anima e la giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 T10 Le passioni del corpo (p. 126); T11 Il mito della biga (p. 128); T12 Sudditanza e costrizione (p. 131)
T16 I requisiti della sapienza (p. 234); T17 L’essere in quanto essere (p. 235); T18 L’essere e la sostanza (p. 236); T19 Causa è la forma (p. 238); T20 La scienza teologica (p. 240)
10. L’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241
6. Verità, conoscenza e discorso: le idee . . . . . . . . . . . 132 T13 Filosofi veri e falsi (p. 133); T14 Dal bel corpo all’idea del bello (p. 136); T15 Matematica e dialettica (p. 138); T16 Il segmento quadripartito (p. 140)
T21 Il bene maggiore: la felicità (p. 241); T22 L’opera propria dell’uomo (p. 242); T23 Il medio tra eccesso e difetto (p. 243); T24 La via di mezzo (p. 244)
11. La politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246 T25 Le sei costituzioni (p. 248)
7. Dialettica, idee, principi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 T17 La contrarietà: dalle cose alle idee (p. 142); T18 Il diverso ovvero il non essere (p. 145)
12. La retorica e la poetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249 T26 Poesia e storia (p. 251)
8. Il cosmo e le sue cause . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 148 T19 Modello, copia, verosimiglianza (p. 148)
13. La scuola di Aristotele: il Peripato . . . . . . . . . . . . . 252 14. Un bilancio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253 Sommario (p. 255), Parole chiave (p. 256), Questionario (p. 257)
9. Eros e filosofia: alla ricerca di una mediazione . . . 151 T20 Eros: ruvido, misero, instancabile cacciatore di sapienza (p. 152); T21 Ascesa e discesa del filosofo (p. 154)
10. L’eredità: l’Accademia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 Sommario (p. 157), Parole chiave (p. 158), Questionario (p. 159)
Laboratorio di lettura: Il Fedro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 166 Tesi a confronto Platone: governo totalitario o governo democratico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174
Laboratorio di lettura: L’Etica nicomachea (1) . . . . . . . . . . 258 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 263 Laboratorio di lettura: L’Etica nicomachea (2) . . . . . . . . . . 264 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267 Tesi a confronto Aristotele: la natura ha un fine? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 268 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274
Percorso tematico • Platone e Aristotele: un confronto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275 Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 286
. . . . . . . . . . 175
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190
LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Giustizia / giusto . . . . 191 Esercitiamoci sulla giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194
Aristotele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Unità 5
Il pensiero scientifico antico
. . . . . . . . . . . . . . . . 287
1. Scienze e filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 288 2. La medicina antica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 289 1. Gli inizi e il Corpus Hippocraticum . . . . . . . . . . . . . 289 2. Il sapere medico come modello culturale . . . . . . . 291
Unità 4 197
1. Il primo professore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198 2. Le ragioni di Aristotele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 202
VI
T9 Le cose per natura (p. 217); T10 Le quattro cause (p. 220); T11 Il fine nella natura (p. 222) T12 Movimenti rettilinei o circolari (p. 224); T13 Il luogo degli dèi (p. 225); T14 Il primo motore immobile (p. 227)
T1 Callicle: la virtù dei forti e la temperanza dei mezzi uomini (p. 117); T2 Contro la quiete socratica (p. 118); T3 Trasimaco: l’utile del potere costituito (p. 118); T4 Il patto dei deboli (p. 119)
Percorso tematico • Che cos’è la giustizia?
6. Il divenire del mondo: principi e cause . . . . . . . . . 216
T1 Autopropaganda della medicina «ippocratica» (p. 291); T2 Il compito del medico (p. 292); T3 Il medico dei liberi e il medico degli schiavi (p. 292); T4 «Giuro su Apollo medico…» (p. 292)
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3. Il sapere dei medici ippocratici . . . . . . . . . . . . . . . . 293 T5 Ambiente e malattie (p. 294); T6 La terapia dei ricchi e la terapia dei poveri (p. 295); T7 La centralità della prognosi (p. 296)
4. La medicina ellenistica e la rivoluzione anatomica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297 5. Le scuole mediche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 298 6. Galeno e la rifondazione della medicina . . . . . . . . 300
T23 La natura del cosmo (p. 368); T24 La ragione divina (p. 369); T25 Il ritorno dell’identico (p. 370) T26 L’unitarietà delle virtù (p. 372); T27 La grandezza del saggio (p. 373); T28 Il cane e il carro (p. 374)
5. Lo stoicismo medio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 374
3. Matematiche e filosofia
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 306 1. I greci e la matematica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 306
2. Prima di Euclide: la nascita della matematica greca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 307 3. La svolta assiomatica: l’Accademia platonica, Aristotele ed Euclide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 308 T15 Le definizioni aritmetiche di Euclide (p. 309); T16 Le definizioni geometriche di Euclide (p. 310); T17 Principi indimostrabili (p. 311)
T29 La mitezza di Panezio (p. 375); T30 L’anima tripartita (p. 377)
6. Lo stoicismo romano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 377 T31 Sulla morte (p. 380); T32 La natura distruttrice (p. 380); T33 Il potere della filosofia (p. 381); T34 Le cose in nostro potere e le altre (p. 382); T35 Tener fermi i principi (p. 383); T36 L’abisso del tempo infinito (p. 383); T37 L’incessante dileguarsi dell’esistente (p. 384)
4. Scetticismi antichi
4. L’astronomia matematica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 312 5. L’assiomatizzazione dell’ontologia: Proclo e il neoplatonismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 316 Sommario (p. 318), Parole chiave (p. 319), Questionario (p. 320) . . . . . . . . 321
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 338
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 385 1. Le ragioni di Pirrone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 386
T38 È e non è (p. 387); T39 Relativismo e distacco (p. 387)
2. Lo scetticismo nell’Accademia . . . . . . . . . . . . . . . . 388 T40 Il ritorno all’aporia socratica (p. 388); T41 Sospendere l’assenso (p. 389); T42 Rappresentazione e giudizio (p. 390); T43 Un ingegno sbalorditivo (p. 391); T44 Cause e volontà (p. 392); T45 Verità incerte (p. 392); T46 Rappresentazioni e circostanze (p. 393)
3. L’eredità pirroniana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 394
Unità 6
L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. La fisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 367
4. L’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 370
T8 L’affermazione a Roma (p. 300); T9 Lo spettacolo anatomico (p. 300); T10 A confronto con i testi dei maggiori anatomisti (p. 301); T11 Contro Marziale (p. 301); T12 Competizioni tra medici (p. 301); T13 La terapia dell’anima (p. 303); T14 La malvagità involontaria (p. 304)
Percorso tematico • Le ragioni della scienza
T17 Le due rappresentazioni (p. 363); T18 La rappresentazione comprensiva (p. 363); T19 Il paragone di Zenone (p. 363); T20 La centralità dell’esperienza (p. 364); T21 Gli argomenti dimostrativi (p. 367); T22 I cinque ragionamenti indimostrati (p. 367)
339
1. L’ellenismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 340 2. L’epicureismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 343 1. Le ragioni di Epicuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 343 T1 La coesione dottrinaria (p. 344); T2 Non ci si stanchi di filosofare (p. 344)
2. Il sistema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 345
T47 I dieci tròpi (p. 395); T48 Si logorano invano (p. 395); T49 I cinque tròpi dell’epochè (p. 396); T50 Il linguaggio quotidiano (p. 399); T51 Terapie per i dogmatici (p. 400) Sommario (p. 402), Parole chiave (p. 403), Questionario (p. 404)
Laboratorio di lettura: I Lineamenti pirroniani di Sesto Empirico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 405 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 414
Percorso tematico • Che cos’è il piacere?
. . . . . . . . . . . 415
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 428
T3 Le prolessi (p. 346)
3. I principi della fisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 347 T4 L’esistenza del vuoto (p. 348); T5 L’eternità di atomi e vuoto (p. 349); T6 Il clinamen (p. 349); T7 La serenità e il verosimile (p. 351)
LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Felicità . . . . . . . . . . . . . 429 Esercitiamoci sulla felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 432
4. L’annuncio di felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 351 T8 Paura e conoscenza (p. 352); T9 La negazione della provvidenza (p. 352); T10 La morte non è nulla (p. 353); T11 Il calcolo dei piaceri (p. 354); T12 La tetraphàrmakos (p. 355); T13 Le gioie del ricordo (p. 356); T14 L’amicizia (p. 357)
5. L’eredità epicurea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 357 T15 Divino Epicuro (p. 358)
3. Lo stoicismo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 359 1. Nascita e sviluppo dello stoicismo antico . . . . . . . 359
T16 L’unità del sapere filosofico (p. 361)
2. La logica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 362
Unità 7
I platonismi e Plotino
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 435
1. Platonismi a confronto: un campo di battaglia . . . . 436 2. Il medioplatonismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 437 1. La rinascita dello spirito sistematico all’interno della scuola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 437 2. Dio e le idee: teologia e ontologia nel medioplatonismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 439 3. L’uomo e la sua anima: l’etica medioplatonica . . . 441 T1 L’anima non è monolitica (p. 442)
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4. Un terreno di scontro: il mondo è eterno o ha un inizio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 443
3. Plotino: fra innovazione e tradizione
3. Il giovane Agostino: l’ordine, il male e la felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 501 T7 La non-sostanzialità del male (p. 502)
. . . . . . . . . . . . . 445
4. La teoria della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 503
T2 Discorsi antichi (p. 445)
T8 L’anima agisce su ciò che il corpo subisce (p. 505); T9 Il metodo dell’interiorità (p. 507); T10 La verità dimora nell’uomo interiore (p. 508)
1. Al di là dell’essere e del pensiero c’è l’Uno . . . . . 446 T3 Tutti gli esseri sono esseri per l’Uno (p. 447); T4 L’anima è l’Uno? (p. 447); T5 Al di sopra della dualità (p. 449); T6 L’Uno: al di là dell’essenza (p. 450); T7 Il principio che permane in sé e tuttavia genera altro da sé (p. 452)
5. La teoria del tempo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 508 6. Teologia della storia e filosofia politica . . . . . . . . . . 510 T11 Due amori, due città (p. 510); T12 Una banda di pirati su larga scala (p. 512)
2. L’Intelletto, l’Anima, il mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . 453 T8 Il divenire del molteplice (p. 453); T9 La genesi del tempo (p. 454)
7. Etica e teologia morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 512 T13 La volontà buona (p. 513); T14 La giustificazione viene da Dio (p. 514)
3. Il ritorno all’Uno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 456
4. Il neoplatonismo dopo Plotino
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 459
Sommario (p. 463), Parole chiave (p. 464), Questionario (p. 465)
Laboratorio di lettura: Le Enneadi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 466 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 470
. 516
Sommario (p. 518), Parole chiave (p. 519), Questionario (p. 520)
Laboratorio di lettura: Le Confessioni di Agostino . . . . . . . 521 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 525 Tesi a confronto Predestinati o liberi? . . . . . . . . . 526 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 530
Parte seconda
L’età tardoantica e il Medioevo
LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Verità . . . . . . . . . . . . . . . 531 Esercitiamoci sulla verità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 536
Introduzione
Dal mondo antico al Medioevo
8. L’eredità di Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 515
5. L’autunno della patristica: il corpus dionysianum
. . . . . . . . . . . . . 475
1. I ‘confini’ del Medioevo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 476 2. I percorsi della filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 477 ◆ La
parola al critico: Identikit della filosofia medievale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 479
Unità 8
Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
481
1. Cristianesimo e filosofia tardoantica . . . . . . . . . . . . . 482 2. La rivelazione biblica e il cristianesimo . . . . . . . . . . 483 1. I temi fondamentali della Bibbia ebraica . . . . . . . . 483 T1 I dieci comandamenti (p. 484)
2. La predicazione di Gesù di Nazaret . . . . . . . . . . . . 484 T2 La casa sulla sabbia (p. 485); T3 «Beati quelli che…» (p. 485)
3. Il Nuovo Testamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 486 T4 Il Lògos (p. 488)
3. I padri della Chiesa
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 489 1. I padri apologisti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 490
T5 Ricerca e Lògos (p. 490)
2. La scuola di Alessandria: Clemente e Origene . . . 492 T6 Animali allegorici (p. 493)
3. Impero e ortodossia nell’età dei concili . . . . . . . . . 494
Unità 9
Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto . .
539
1. L’alto Medioevo: filosofia nei monasteri e nelle corti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 540 1. 2. 3. 4. 5.
V-VI secolo: i due ‘inizi’ del Medioevo . . . . . . . . . Severino Boezio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Compilazioni ed enciclopedie . . . . . . . . . . . . . . . . . La rinascita carolingia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Eriugena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
540 541 543 544 546
T1 La divisione della natura (p. 546); T2 Le cause primordiali (p. 547); T3 Il ritorno in Dio (p. 548); T4 Ragione e autorità (p. 549)
6. L’XI secolo e Anselmo d’Aosta . . . . . . . . . . . . . . . . 549 T5 Credo per capire (p. 551)
2. Abelardo e le scuole nel XII secolo . . . . . . . . . . . . . . 554 1. La civiltà urbana nel XII secolo . . . . . . . . . . . . . . . 554 2. Pietro Abelardo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 555 T6 L’arrivo a Parigi (p. 555); T7 L’anteriorità della legge di natura (p. 559); T8 L’educazione forgia le credenze (p. 560)
3. La filosofia della natura e il platonismo della scuola di Chartres . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 561 4. La filosofia politica di Giovanni di Salisbury . . . . . 562 5. La teologia della storia di Gioacchino da Fiore . . 563 T9 Le tre epoche storiche (p. 564)
4. Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 497
3. La filosofia islamica ed ebraica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 565
1. Il percorso biografico e intellettuale . . . . . . . . . . . . 498 2. Credere e sapere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 500
1. Contesto storico e caratteri generali . . . . . . . . . . . 565 2. L’Islam orientale: al-Farabi e Avicenna . . . . . . . . . 566
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Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 627
T10 L’uomo volante (p. 571)
3. L’Islam occidentale e Averroè . . . . . . . . . . . . . . . . . 572 4. La filosofia ebraica: ibn Gabirol e Mosè Maimonide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 575 T11 Credere e pensare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 576 Sommario (p. 578), Parole chiave (p. 579), Questionario (p. 580)
Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 632
Percorso tematico • Il mondo è eterno?
. . . . . . . . . . . . . 633
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 646
LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Essere . . . . . . . . . . . . . . 647 Esercitiamoci sull’essere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 652
Unità 10
Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tesi a confronto Come ha fatto Dio a creare il mondo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 628
581
1. Il XIII secolo: le traduzioni e le università
. . . . . . . 582 1. Il movimento delle traduzioni . . . . . . . . . . . . . . . . . 582 2. La nascita delle università . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 583 3. La didattica universitaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 585
2. L’eredità di Aristotele; Alberto Magno
. . . . . . . . . . . 586 1. La riscoperta di Aristotele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 586 2. Alberto Magno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 588
T1 Rendere comprensibile la fisica aristotelica (p. 588)
3. Gli «aristotelici radicali»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 590 1. Sigieri di Brabante: da Averroè alle censure . . . . . 591 2. Boezio di Dacia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 591
T2 Il sommo bene possibile per l’uomo (p. 592); T3 Sommo bene speculativo e sommo bene pratico (p. 593); T4 La beatitudine (p. 593)
4. Tommaso d’Aquino
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 594 1. Teologia e filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 595
T5 Due argomenti contro la scientificità della teologia (p. 596); T6 La teologia è scienza (p. 596)
2. Che cosa significa «Dio»? Le cinque vie . . . . . . . . 597 T7 La prima via (p. 597)
3. Ipsum esse subsistens: la natura di Dio . . . . . . . . . . 599 T8 L’atto creatore di Dio (p. 600)
4. L’essere di Dio e quello delle creature. Essenza ed esistenza. Il principio di individuazione . . . . . . 601 5. L’anima umana e la conoscenza intellettuale . . . . . 602 T9 Il pensiero individuale (p. 604)
6. L’etica: aristotelismo e cristianesimo a confronto . . 604 7. La politica: la naturale necessità della vita associata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 605 T10 L’uomo animale sociale e politico (p. 605); T11 Salvaguardare l’interesse comune (p. 607); T12 Il diritto dei poveri (p. 607)
5. Parigi e Oxford
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 608 1. Bonaventura: il secondo fondatore dell’ordine . . . 609
T13 Molte luci, un’unica sorgente: Dio (p. 610)
2. Roberto Grossatesta a Oxford: geometria e metafisica della luce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 613 3. Ruggero Bacone: riforma del sapere e rinnovamento religioso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 614 T14 Le straordinarie opere della tecnica (p. 616) Sommario (p. 620), Parole chiave (p. 621), Questionario (p. 622)
Laboratorio di lettura: Somma teologica: la verità secondo Tommaso d’Aquino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 623
Unità 11
Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
655
1. Le censure all’aristotelismo nell’università di Parigi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 656 2. Tomismo e antitomismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 658 3. Giovanni Duns Scoto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 659 1. Teologia e filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 659 2. Metafisica: l’univocità dell’essere . . . . . . . . . . . . . . 660 T1 L’essere come concetto univoco (p. 661)
3. Parlare metafisicamente di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . 661 4. La natura comune, gli individui e gli universali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 662 T2 L’indifferenza della natura comune (p. 663)
5. Intuizione e astrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 663 6. L’etica: volontà e libertà nell’uomo . . . . . . . . . . . . . 664 T3 La volontà come causa indeterminata . . . . . . . . . . . . . . 664
4. La mistica speculativa di Meister Eckhart . . . . . . . . 665 T4 La generazione interiore (p. 666); T5 Liberi da Dio in Dio (p. 667)
5. Guglielmo di Ockham
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 668 1. Ontologia: il primato degli enti singolari . . . . . . . . 669 2. Teoria della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 669 3. I concetti universali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 670
T6 Natura e origine degli universali (p. 671)
4. Come funziona il discorso scientifico . . . . . . . . . . . 672 T7 La scienza verte sugli universali (p. 672)
5. Il nesso causale e i limiti delle scienze naturali . . 673
6. L’eredità di Ockham
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 674 1. Il dibattito epistemologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 675 2. La nuova filosofia della natura . . . . . . . . . . . . . . . . . 676
T8 La relatività della percezione del moto (p. 677); T9 L’impetus e il moto dei corpi celesti (p. 678)
7. Il potere, lo Stato e la Chiesa
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 680 1. Dante Alighieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 681 2. Marsilio da Padova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 681
T10 La collettività come causa efficiente della legge (p. 682)
3. Ockham politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 684 T11 La legittimità del potere imperiale (p. 685); T12 Il ruolo dei laici nella Chiesa (p. 685) Sommario (p. 688), Parole chiave (p. 689), Questionario (p. 690)
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Indice delle opere antologizzate L’indice fa riferimento ai testi presenti nelle Unità e nei «Percorsi tematici»
ABELARDO Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano: p. 559, p. 560; Storia delle mie disgrazie: p. 555 AGOSTINO Confessioni: p. 502, p. 507; Il libero arbitrio: p. 513; La città di Dio: p. 510, p. 512; La natura e la grazia: p. 514; La vera religione: p. 508; Musica: p. 505 ALBERTO MAGNO Fisica: p. 588 ANASSAGORA Sulla natura: p. 55 ANASSIMANDRO Sulla natura: p. 35 ANASSIMENE (da Simplicio) Commento alla Fisica: p. 35 ANSELMO D’AOSTA Proslogion: p. 551 ANTICO TESTAMENTO, ESODO p. 484 ARISTOTELE Analitici secondi: p. 208, p. 209, p. 212, p. 311; Categorie: p. 214, p. 215, p. 216, p. 279; Dell’interpretazione: p. 205; Etica eudemia: p. 284; Etica nicomachea: p. 187, p. 241, p. 242, p. 243, p. 244, p. 277, p. 284, p. 425; Fisica: p. 217, p. 220, p. 222; Le parti degli animali: p. 230, p. 327; Metafisica: p. 210, p. 227, p. 234, p. 235, p. 236, p. 238, p. 240, p. 280, p. 282; Poetica, p. 251; Politica: p. 189, p. 248, p. 285; Sul cielo: p. 224, p. 225 AVICENNA De anima: p. 571 BACONE RUGGERO I segreti della tecnica e della natura: p. 616 BOEZIO DI DACIA Il sommo bene: p. 592, p. 593; L’eternità del mondo: p. 643 BONAVENTURA DA BAGNOREGIO Commento alle Sentenze: p. 638; Riconduzione delle arti alla teologia: p. 610 BURIDANO Questioni sul De caelo: p. 677, p. 678 CICERONE De finibus: p. 375; Dell’oratore, p. 388; Lucullo: p. 363; Sul fato: p. 392; Varrone: p. 389 CORPUS HIPPOCRATICUM Luoghi dell’uomo: p. 291 CRIZIA Sisifo: p. 82 DEMOCRITO Sulla natura: p. 58 DIOGENE LAERZIO Vite dei filosofi: p. 346, p. 361, p. 363, p. 367, p. 368, p. 372; In Pirrone, Testimonianze: p. 387 DUNS SCOTO GIOVANNI Additiones magnae: p. 664; Ordinatio: p. 661, p. 663
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EMPEDOCLE Purificazioni: p. 54; Sulla natura: p. 52, p. 53 EPICURO Epistola a Erodoto: p. 349; Epistola a Idomeneo: p. 356; Epistola a Meneceo: p. 344; p. 353, p. 354, p. 427; Epistola a Pitocle: p. 351; Massime capitali: p. 352, p. 355, p. 357, p. 428 EPITTETO Manuale: p. 382, p. 383 ERACLITO Sulla natura: p. 37, p. 38, p. 39 ERIUGENA Periphyseon: p. 546, p. 547, p. 548, p. 549 EUCLIDE Elementi: p. 309, p. 310 EUSEBIO In Pirrone. Testimonianze: p. 387 FOZIO Biblioteca: p. 395 GALENO Come riconoscere il miglior medico: p. 301; Il miglior medico è anche filosofo: p. 329; I miei libri: p. 301, p. 336; Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi: p. 303, p. 304; L’utilità delle parti: p. 330; Procedimenti anatomici: p. 300; In Testimonianze e frammenti: p. 377 GIOACCHINO DA FIORE Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento: p. 564 GIUSTINO Seconda Apologia: p. 490 GROSSATESTA ROBERTO Esamerone: p. 635 GUGLIELMO DI OCKHAM Commento alla Fisica di Aristotele: p. 672; Dialogo: p. 685; Questioni sulla Fisica: p. 671 IPPOCRATE Antica medicina: p. 326; Epidemie: p. 292; Il giuramento: p. 292; Il male sacro: p. 323; Le arie, le acque, i luoghi: p. 294; Prognostico: p. 296 IPPOLITO In Stoici antichi: p. 374 LUCREZIO La natura: p. 349, p. 358 MARCO AURELIO A se stesso: p. 383, p. 384 MARSILIO DA PADOVA Il difensore della pace: p. 682 MEISTER ECKHART Sermoni: p. 666, p. 667 MELISSO Sulla natura o sull’essere: p. 49 MOSÈ MAIMONIDE La guida dei perplessi: p. 576
NEMESIO In Stoici antichi: p. 370 NUMENIO DI APAMEA fr. 24 Des Places: p. 344 NUOVO TESTAMENTO, VANGELO DI GIOVANNI p. 488 NUOVO TESTAMENTO, VANGELO DI MATTEO p. 485 ORIGENE Omelie sulla Genesi: p. 493 PARMENIDE Sulla natura: p. 45, p. 46 PECKHAM GIOVANNI Sarebbe stato possibile creare il mondo dall’eternità?: p. 640 PLATONE Apologia: p. 87, p. 92; Fedone: p. 86, p. 126, p. 420; Fedro: p. 128; Filebo: p. 423; Gorgia: p. 81, p. 117, p. 118, p. 419; Leggi: 292; Parmenide: p. 142; Protagora p. 178, p. 418; Repubblica: p. 118, p. 119, p. 120, p. 122, p. 123, p. 125, p. 131, p. 133, p. 138, p. 140, p. 154, p. 180, p. 181, p. 182, p. 183, p. 185, p. 295, p. 332, p. 422; Simposio: p. 136, p. 152; Sofista, p. 145; Teeteto: p. 75; Timeo: p. 148, p. 282 PLOTINO Enneadi: p. 445, p. 447, p. 449, p. 450, p. 452, p. 453, p. 454 PLUTARCO Cato Maior: p. 391; La virtù etica: p. 442; In Stoici antichi: p. 369 SENECA Lettere a Lucilio: p. 381; Ricerche sulla natura: p. 380 SENOFANE Silli: p. 44; Sulla natura: p. 45 SENOFONTE Memorabili: p. 93 SESTO EMPIRICO Contro i logici: p. 348, p. 363, p. 364, p. 390, p. 392, p. 393; Contro i matematici: p. 399; Lineamenti pirroniani: p. 352, p. 367, p. 395, p. 396, p. 400 STATUTI DEL 1° APRILE 1272: p. 642 STOBEO In Stoici antichi: p. 373 TALETE (da Aristotele) Sul cielo: p. 34 TOLOMEO Almagesto: p. 335 TOMMASO D’AQUINO Il governo dei principi: p. 605; L’eternità del mondo: p. 641, p. 642; L’unicità dell’intelletto: p. 604; Questioni sulla potenza di Dio: p. 600; Somma teologica: p. 596, p. 597, p. 607 IV CONCILIO LATERANENSE: p. 634
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Parte prima L’età antica
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Roma
Bisanz Abdera Elea
Stagira
Taranto
Pergamo Colofone
Crotone
Efeso
Cheronea Agrigento
Siracusa Lentini
Elide
Samo Atene
Mileto
Sparta
Cirene
Alessa
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Bisanzio
Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana: Bene / buono
amo
Unità 3 Platone
one
Percorso tematico Che cos’è la giustizia?
Afrodisia
feso
Antiochia Mileto
Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana: Giustizia / giusto Unità 4 Aristotele
Cizio
Damasco Percorso tematico
Platone e Aristotele: un confronto Unità 5 Il pensiero scientifico antico
Gerusalemme Alessandria
Percorso tematico Le ragioni della scienza Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo Percorso tematico Che cos’è il piacere? Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana: Felicità Unità 7 I platonismi e Plotino
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
1. 2. 3. 4.
La nascita della filosofia Perché in Grecia? Chi erano i filosofi? La fine della filosofia antica
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ La parola al critico: Vernant legge le origini della filosofia in Grecia
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Parte prima L’età antica
1 Filosofia: amore del sapere
Dall’antica sapienza del VI secolo alla filosofia del V
Gli oggetti specifici della filosofia sono cambiati nel tempo
La nascita della filosofia È noto a molti, e tutti i libri lo confermano, che la filosofia è nata nella Grecia antica nel VI secolo prima di Cristo. Le cose diventano però più complicate se ci si chiede che cosa è davvero ‘nato’ in quel luogo e in quel secolo. Certamente non la parola «filosofia». Essa risulta da un composto del verbo greco philèin, che significa «amare, desiderare» e del sostantivo sophìa, che significa «sapienza, sapere». Filosofia vale perciò «amore, desiderio della sapienza e del sapere»: il termine indica dunque una tensione, una ricerca verso una conoscenza che ancora non si possiede, e forse non si possiederà mai completamente. In questo senso (che comporta una distinzione polemica nei riguardi di quegli antichi ‘sapienti’, sophòi, che pretendevano di possedere la sapienza, di conoscere tutto quello che c’era da conoscere) la parola «filosofia» è nata probabilmente nella seconda metà del secolo seguente, il V, all’interno del gruppo di intellettuali che facevano capo a Socrate e poi a Platone (vedi Unità 2 e 3). Possiamo dire allora che nel VI secolo è nata una forma particolare e nuova di ‘sapienza’, diversa per qualche ragione dalle altre, che sarebbe in seguito stata considerata come l’antenata, o la matrice, della filosofia. Ma di che cosa si tratta esattamente, e in che cosa consiste questa differenza? Il problema non è qui più di nomi ma di concetti, e in sostanza rinvia alla domanda «che cos’è la filosofia?». Se noi discutessimo, per esempio, delle origini della geometria, dei caratteri che la differenziano da altre forme di sapere e ne assicurano la riconoscibilità attraverso i secoli e le epoche, potremmo dire che si tratta, grossomodo, dello studio delle proprietà delle figure piane (triangoli, poligoni, circonferenze) o solide (cubi, piramidi, sfere ecc.). La geometria può venire dunque definita, e riconosciuta, sulla base degli oggetti su cui verte la sua ricerca. Ma esistono oggetti specifici della filosofia? Le risposte a questa domanda sono state tanto diverse, e spesso contrapposte, da configurare nel corso della storia della riflessione filosofica immagini di questo sapere radicalmente diverse fra loro. In realtà, la risposta alla domanda «che cosa è la filosofia?» non può essere così lineare come quella relativa alla geometria. Sarebbe corretto dire che questa risposta consiste nell’insieme delle diverse risposte che sono state date nel corso della storia della riflessione filosofica; dunque la determinazione della specificità del sapere filosofico coincide con la sua storia. Filosofia è ciò che via via nel corso del tempo i filosofi hanno considerato come tale: un’ampia gamma di possibilità di pensiero non riducibile a una definizione univoca e invariante. Per un’adeguata risposta alla nostra domanda, dovremmo dunque attendere la fine del nostro racconto sulla storia della filosofia.
La nascita della filosofia secondo Aristotele Aristotele ci guida nella comprensione delle origini
6
Noi però stiamo cercando di capire che cosa è accaduto all’inizio di questa storia, e che in un certo senso le ha dato origine. Disponiamo in questa ricerca di una guida preziosa ma anche molto tendenziosa. Si tratta di Aristotele, l’uomo che, nel IV secolo a.C., definì per la prima volta con rigore sistematico i confini e gli oggetti di una disciplina che fino ad allora (almeno ai suoi occhi) non aveva ancora raggiunto la sua maturità (vedi Unità 4).
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica Si inizia con la filosofia della natura
L’influenza di Aristotele
Alle origini: uno sguardo generale sul mondo
La questione del rapporto tra mito e lògos
La sapienza antica
Per Aristotele, dunque, una parte importante della filosofia (benché non l’unica) era costituita dalla filosofia della natura: suoi oggetti specifici erano gli elementi primi di cui sono composti i corpi naturali, e soprattutto le cause capaci di spiegare i processi che riguardano questi corpi, e dunque l’intero universo fisico. Sulla base di questa definizione, Aristotele poteva ricostruire la dinastia degli antenati, i suoi predecessori che avevano avuto qualcosa da dire intorno alla questione degli elementi e delle cause. Così egli individuava una genealogia della filosofia, che cominciava con un antico sapiente ionico, Talete, continuava con altri pensatori ionici come Anassimene e Anassimandro, includeva poi sapienti della Magna Grecia come Pitagora e i suoi discepoli, per concludersi con Platone. Qui finiva la preistoria della filosofia e iniziava – naturalmente con Aristotele stesso – la sua vera e propria storia. L’influenza di Aristotele è stata tanto grande che ancora oggi i libri di storia della filosofia accettano la sua impostazione e ne ripercorrono le stesse fasi, elencano gli stessi personaggi e gli stessi problemi. Ma certamente le cose non sono così semplici. Per esempio, Talete è stato senza dubbio un sapiente curioso dei fenomeni naturali e interessato alla loro spiegazione, nonché dotato di notevoli abilità tecniche e pratiche. Ma se qualcuno si fosse potuto complimentare con lui perché era stato l’iniziatore della ‘teoria delle cause’, e pertanto il primo filosofo, egli non avrebbe certamente compreso né la parola né la cosa di cui gli si attribuiva il merito. Più in generale, gli antichi sapienti delle origini avevano certo un interesse complessivo sulla natura, gli uomini, gli dèi, e lo sguardo che rivolgevano al mondo, le ipotesi che formulavano, avevano senza dubbio il carattere della generalità. Ma questo non è ancora un carattere distintivo della filosofia. Anche i poeti fondatori della cultura greca, Omero ed Esiodo, avevano concezioni molto generali sul mondo, sulla vita degli uomini, sulle origini e la natura della divinità, eppure essi erano appunto poeti, non filosofi. I due gruppi, poeti e filosofi, non possono neppure venire distinti sulla base della forma (orale o scritta, in poesia o prosa) delle loro opere. Se è vero che i poemi omerici furono all’inizio composti e recitati solo oralmente (vennero infatti trascritti molto più tardi), anche uno di coloro che sono annoverati fra i primi filosofi, Pitagora, tramandò il suo insegnamento solo per via orale, e lo stesso fece, un secolo più tardi, anche Socrate, il maestro di Platone. Se poi è vero che alcuni dei primi filosofi scrissero in prosa (come Anassimandro, Eraclito e più tardi Anassagora), è anche vero che alcuni dei più importanti fra loro – Parmenide ed Empedocle – scrissero invece in versi esattamente come Omero ed Esiodo. Tutto questo rende molto incerta la linea di confine che separa la sapienza dei poeti antichi da quella dei primi filosofi. Si è spesso sostenuto che questa linea consiste nella differenza fra il mito e il lògos, cioè fra il racconto delle imprese degli dèi e degli uomini (che i poeti facevano risalire all’ispirazione divina delle Muse) e il ‘discorso razionale’ sulla realtà naturale e la vita umana, costruito dai filosofi con la sola forza del pensiero. C’è sicuramente del vero in questa ipotesi, ma anch’essa va meglio delimitata. Da una parte, anche gli antichi poemi sono ricchi di insegnamenti e di conoscenza, al punto che Omero fu per secoli considerato (come diceva ancora Platone) «il maestro di tutti i greci», che non cessarono mai di studiare le sue opere per apprendere come si deve vivere una vita davvero degna di un uomo. Del 7
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Parte prima L’età antica
resto, la teologia dei greci (cioè le idee intorno alla divinità sulle quali si basava la loro religione e una parte del loro modo di vivere) non aveva altre fonti e altre autorità se non appunto i poemi di Omero e di Esiodo. D’altra parte, anche molti importanti filosofi, come Parmenide ed Empedocle, pretendevano che il loro discorso fosse basato su di una sorta di ispirazione divina; Eraclito scriveva brevi ed enigmatiche sentenze che somigliavano nella forma a quelle pronunciate dagli oracoli divini, come quello di Apollo nel santuario di Delfi.
Le peculiarità del lògos filosofico
È un discorso che riflette su se stesso, fondato sulla sola razionalità
È un discorso argomentativo
Riflessività e argomentazione delimitano l’ambito della filosofia
➥ Sommario, p. 23
8
La differenza fra il mito poetico e il lògos della filosofia, quindi il carattere specifico che definisce quest’ultima, vanno allora individuati in un modo un po’ più complesso. Fin dai suoi incerti inizi, il nascente discorso filosofico si distinse non tanto per i suoi contenuti sapienziali, per la generalità delle sue asserzioni intorno alla realtà, o per il modo con cui esse venivano formulate. Piuttosto, questo discorso venne progressivamente definendosi per due aspetti decisivi. 1) Si tratta di un discorso che riflette su se stesso, cioè, in un certo senso, di un discorso di secondo grado. Per spiegarci meglio: il discorso della filosofia non si limita ad asserire tesi intorno alla realtà, alla natura, agli uomini e agli dèi, ma si pone la questione di come sia possibile la conoscenza di questi oggetti intellettuali, di che cosa garantisca la verità di queste tesi, e inoltre la loro preferibilità di fronte ad altre tesi alternative e contrapposte. Le condizioni di verità del discorso mirano a garantire la sua autonoma validità e autorità indipendentemente da chi lo pronunci e da chi l’abbia ispirato. Quando Eraclito scriveva «non seguite me, ma il lògos» affermava precisamente l’indipendenza, l’autonomia, la validità universale di questo discorso-ragione in cui la filosofia veniva riconoscendo il suo compito specifico. E ancora. Il discorso della filosofia non si limita a descrivere come gli uomini vivono, o a ingiungere il modo in cui dovrebbero vivere, come avevano fatto Omero ed Esiodo. Esso punta anche a formulare le ragioni per le quali un modo di vita è preferibile a un altro, a chiarire le norme, i criteri, i valori universalmente validi ai quali ci si dovrebbe conformare per condurre una vita buona e giusta. 2) In conseguenza di tutto questo, il discorso della filosofia deve inoltre argomentare la validità delle proprie tesi: cioè mostrare, in modo che risulti persuasivo e incontrovertibile, se possibile per tutti e per sempre, che le sue asserzioni intorno allo stato del mondo e alle norme di vita, sono in grado di offrire di per se stesse, senza ricorso ad alcuna autorità esterna, la garanzia della propria verità. Sulla base di questi due caratteri (riflessivo e argomentativo), che certo non sono comparsi d’un tratto e per miracolo, ma si sono venuti definendo progressivamente, ci è possibile delimitare l’ambito specifico di quella forma, di quello stile intellettuale che si darà il nome di filosofia. Ed è sempre a partire di qui che ora possiamo porci una seconda domanda: perché la filosofia è nata in Grecia, e non nelle più antiche culture mediterranee e orientali che precedettero di millenni quella greca? La risposta a questa domanda ci fornirà ulteriori chiarimenti sulla natura specifica del discorso filosofico.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica Mito e lògos: somiglianze e differenze
Elementi comuni a mito e lògos
Uno sguardo generale sul mondo
Forma letteraria
Orale o scritta
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Assenza di uno Stato centralizzato
Assenza di un’autorità religiosa unificata e di libri sacri
Assenza dell’autorità di una tradizione culturale secolare
Ispirazione divina
Elementi peculiari del lògos
Discorso riflessivo o di II grado
Autonomia e universalità
Uso della argomentazione
Poesia o prosa
Perché in Grecia? Le condizioni in cui si svilupparono la società e la cultura greche a partire dal IX-VIII secolo a.C. si possono identificare – in comparazione con l’ambiente confinante del vicino Oriente (Mesopotamia, Persia, Egitto) e se si vuole anche dell’estremo Oriente (India, Cina) – sulla base di una importante serie di assenze. 1) Non esisteva in Grecia un forte apparato statale centralizzato: né monarchia, né esercito, né potere giudiziario (dopo il crollo dei regni micenei che avevano costituito in piccola scala una continuazione in terra greca delle grandi monarchie orientali). 2) Non esistevano in Grecia né una Chiesa né un casta sacerdotale unificate e dotate di potere sullo Stato e sulla società; neppure esistevano uno o più Libri sacri che contenessero verità dogmatiche di cui i sacerdoti fossero interpreti autorizzati. La religione greca era fatta di miti e di culti locali, e i suoi soli testi di riferimento sono opera di poeti come Omero ed Esiodo, non derivando quindi da alcuna ‘rivelazione’ divina, come accade invece per la Bibbia o più tardi per il Corano, i testi fondatori delle grandi religioni monoteistiche che si presentano come dettati direttamente dalla divinità a profeti da essa scelti per comunicarli agli uomini. 3) Non esisteva in Grecia l’autorità di una tradizione culturale secolare. L’unica tradizione cui tutti i greci facevano riferimento è quella della cosiddetta «guerra di Troia», ma si tratta di un’invenzione letteraria elaborata nei poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, qualche secolo dopo il presunto svolgersi di quegli eventi. Platone racconta che il primo legislatore di Atene, Solone, vissuto alla fine del VII secolo a.C., avrebbe visitato l’Egitto, e che i sacerdoti di quell’antico Paese gli avrebbero detto: «voi greci siete sempre bambini!», cioè privi della memoria di una lunghissima tradizione. E in effetti, rispetto alle società e alle culture del vicino e del lontano Oriente, quelle greche erano davvero ‘infantili’, per la brevità del loro passato storico, e per la novità della loro formazione. 9
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Parte prima L’età antica Nascono comunità indipendenti e autolegittimate
➥ La parola al critico, p. 25
La specificità della cultura greca: la capacità persuasiva del discorso
Anche la filosofia deve autolegittimarsi
Rivalità teoriche e pluralità di verità possibili
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I greci vivevano dunque in un certo senso in un vuoto: vuoto di statualità, di autorità sacerdotale, di tradizione. All’interno di questo spazio vuoto, la società greca si venne organizzando in piccole comunità indipendenti, le città-stato (pòleis). In ognuna di esse, il potere venne conquistato dalle aristocrazie locali: ma si produssero immediatamente conflitti sia all’interno dei diversi gruppi aristocratici, sia fra essi e il popolo dei cittadini che non ne accettavano la supremazia. La cosa più interessante dal nostro punto di vista è che in queste comunità il potere non era legittimato da alcuna garanzia esterna (né umana, come è per esempio il diritto ereditario nelle dinastie monarchiche, né divina, come lo può essere l’investitura da parte di un sacerdozio autorevole). La pretesa al potere doveva dunque autolegittimarsi: per il valore in guerra, o per la capacità di governare nell’interesse della comunità, o, nelle democrazie che nacquero in Grecia nel V secolo a.C., per il fatto di rappresentare la volontà della maggioranza dei cittadini. La società greca si formò dunque nel contesto di un’assenza di sovranità. Questa assenza era surrogata dal confronto – che ora si può definire propriamente politico – fra parti diverse e contrapposte: un confronto che si svolgeva nelle assemblee cittadine, e che era basato non sull’autorità ma soprattutto sulla forza persuasiva della parola, sugli argomenti formulati nel discorso. Lo stesso si può dire per l’amministrazione della giustizia. Il giudizio non era affidato al sovrano o al sacerdote in virtù della loro autorità. A giudicare erano invece i rappresentanti della comunità cittadina, che godevano di uguali diritti: dunque prevaleva l’opinione di chi disponeva di prove e di argomenti migliori, più validi, più persuasivi. Anche qui, la forza della parola sostituiva quindi quella dell’autorità. È nelle assemblee politiche e nelle giurie dei tribunali che prese forma il carattere specifico della cultura greca: fatta di competizione, di confronto fra tesi contrapposte, che richiedevano dunque una decisione presa sulla base della forza degli argomenti, della capacità persuasiva del discorso. Questo non escludeva, naturalmente, in casi di crisi estreme, il ricorso alla forza delle armi, ben noto alla società greca; ma l’uso della forza militare fu considerato sempre come una patologia sociale, uno stato di malattia del corpo della comunità. Del resto, anche il ricorso alle armi nei conflitti fra cittadini conferma l’assenza di autorità statali o sacerdotali superiori ed esterne rispetto alla comunità stessa, un’assenza che costringeva i cittadini a dirimere i loro conflitti con la forza se ogni altro modo si era rivelato impraticabile. Torniamo ora al nostro problema: le origini del pensiero filosofico. La riflessione filosofica nacque nello stesso spazio vuoto di autorità statale, sacerdotale, tradizionale, in cui nacque la società greca. Se la verità sul mondo, gli dèi, la natura, la giustizia, la vita umana fosse stata codificata e imposta dall’autorità dello Stato, dei sacerdoti, di una tradizione immutabile, non ci sarebbe stato alcun posto per il discorso filosofico. Al contrario, esso nacque quando la ricerca della verità si pose come una possibilità aperta, un compito, un progetto. Ma la pretesa del nascente discorso filosofico di dire la verità doveva – proprio come il discorso della politica e del potere – legittimarsi da sé, affermare la propria autorità in virtù delle sue sole forze, che sono quelle del ragionamento argomentato, della prova razionale (e perciò persuasiva). Questa necessità di autolegittimazione si poneva tanto nei confronti del pubblico cui il discorso della filosofia si rivolgeva, quanto nei confronti dei rivali: quelli tradizionali, come la sapienza dei poeti, e quelli nuovi, le tesi contrapposte nel cam-
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
po della stessa filosofia. L’esistenza di rivalità teoriche, di una pluralità di verità possibili, fa parte della natura stessa della filosofia: poiché non ci sono dogmi da rispettare, né alcuna ortodossia (ortodossia significa «opinione giusta») imposta dall’esterno, è inevitabile che la ricerca filosofica dia luogo a una pluralità di approcci diversi alla verità, di visioni del mondo alternative, che possono dipendere dalla posizione sociale dei singoli filosofi, dalla loro collocazione politica, dalle loro convinzioni religiose, dal loro ambiente culturale. Tutte le posizioni hanno però, e devono avere, un tratto comune, e cioè lo sforzo di trovare buone ragioni, argomenti validi per sostenere la propria preferibilità rispetto alle tesi rivali.
Il mondo greco e la nascita della filosofia
Politica e società
Assenza di un potere statuale centrale
Cultura
Tendenza all’autolegittimazione della sovranità
Persuasione al posto dell’autorità
Assenza di una tradizione secolare
Religione
Assenza di un potere religioso / istituzionale centrale
Omero ed Esiodo: fonti della tradizione e della religione
Capacità persuasiva del discorso
Nessun dogma né ortodossia
Comunità aperte, indipendenti, autolegittimate
Nascita del pensiero filosofico
Metodi di fondazione del discorso filosofico I modi sperimentati dalla filosofia delle origini per sostenere la validità delle proprie tesi si possono riassumere in tre tipi principali. Le forme mitiche 1) Il primo accomuna la filosofia alle forme mitiche della sapienza poetica. Si o sapienziali tratta del riferimento a una ispirazione divina (Parmenide), alla rivendicazione di doti personali sovrumane e semidivine dello stesso filosofo (Pitagora, Empedocle), o della proposizione di tesi presentate nella forma suggestiva di sentenze oracolari (Eraclito). La filosofia nascente si muove qui ancora sullo stesso terreno delle forme di sapienza consolidate e note al suo pubblico, benché i contenuti del suo messaggio si differenzino nettamente da esse per il carattere astratto (cioè non narrativo, ma universalmente valido) delle asserzioni formulate intorno al mondo, alla natura, alla vita. 11
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Parte prima L’età antica L’inferenza logica
La matrice primaria della logica: la tautologia
L’analogia
Spiegazioni analogiche
L’analogia: potenzialità esplicative e immaginazione teorica
Tratti essenziali del discorso filosofico
➥ Sommario, p. 23
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2) Il secondo tipo è specificamente filosofico. Si tratta dell’inferenza logica, che mira a produrre enunciati la cui verità risulti oggettiva (cioè indipendente da fattori esterni alla forma stessa dell’enunciato) e dunque incontrovertibile. La forma primaria di questa inferenza – che costituisce anche la ‘matrice’ da cui si svilupperà la complessità del futuro pensiero logico – è quella della tautologia, che consiste nel predicare l’identità del soggetto a se stesso e nell’esclusione di predicazioni contrarie. «L’essere è, e non è possibile che non sia» (Parmenide): cioè A è uguale ad A, e se B è diverso da A non si può dire che A sia uguale a B. Circa due secoli più tardi, Aristotele avrebbe costruito una teoria dei modi di inferenza logica enormemente più articolata rispetto alla forma originaria della tautologia, ma anche questa teoria si sarebbe basata su di essa in quanto, appunto, matrice primaria di ogni discorso vero. 3) C’è poi un altro tipo di argomentazione, altrettanto proprio della filosofia delle origini, meno rigoroso dell’inferenza logica ma più flessibile di essa, più adatto a interpretare la varietà e complessità dei fenomeni del mondo. Si tratta dell’analogia: il procedimento analogico consiste nell’analizzare la struttura di un fenomeno noto per derivarne la comprensione di uno ignoto. Per esempio, se si tratta di capire la composizione dei corpi naturali a partire dagli elementi primari della natura, si può pensare all’opera del pittore, che mescolando i colori primi della tavolozza può tracciare un numero infinito di figure (Empedocle). Oppure: gli astri del cielo possono essere pensati come frammenti di metallo incandescente, come quelli che il fabbro produce quando lavora martellando il ferro sull’incudine (Anassagora). I filosofi delle origini ricorsero a una vastissima serie di questi procedimenti analogici, basati spesso sull’esperienza tecnica o su quella psicologica e politica (per esempio Empedocle attribuiva alle due forze contrapposte di Amore e Odio rispettivamente il ruolo di mantenere il cosmo coeso e quello di frantumarlo in una pluralità di oggetti). Qualche volta, semplici esperimenti venivano escogitati in funzione del problema da risolvere. Questi procedimenti analogici hanno una forte capacità euristica (dal greco heurìsko, «trovo»), sono cioè in grado di trovare spiegazioni plausibili per fenomeni in sé ignoti. Naturalmente, essi si basano sul presupposto, difficilmente dimostrabile, che i fenomeni e i processi messi a confronto abbiano strutture identiche o simili. Quello che conta, tuttavia, è che l’analogia costituisce un prezioso strumento di analisi e di scoperta messo al servizio di quell’enorme sforzo di immaginazione teorica che con grande audacia la filosofia delle origini mise all’opera per comprendere l’infinita complessità di un mondo naturale fino ad allora inesplorato. L’ipotesi di strutture analoghe per tutti gli ambiti dei fenomeni di questo mondo è quindi necessaria per ridurre questa complessità, altrimenti incomprensibile, a una serie controllabile e pensabile di processi che possono venire analizzati a partire da quelli già noti e spiegabili. I caratteri che distinguono il discorso filosofico ai suoi inizi – generalità delle tesi formulate, sforzo di argomentazione razionale della loro verità, immaginazione produttiva di teorie – continueranno a costituire i tratti fondamentali anche della filosofia matura, quella che verrà costruita da Platone e Aristotele, benché naturalmente a un livello di complessità e di articolazioni concettuali molto più elevato.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica Tipi di fondazione del discorso filosofico
Tipi di fondazione
Forme mitiche o sapienziali
Forme di attuazione
Ispirazione divina
Parmenide
Doti personali o semidivine del filosofo
Pitagora Empedocle
Sentenze oracolari
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Nell’antichità la filosofia era anche un modo di vita
Le comunità filosofiche
Filosofi
Eraclito
Inferenza logica
Tautologia, ovvero la predicazione dell’identità del soggetto a se stesso, ed esclusione di predicazioni contrarie
Parmenide
Analogia
Comprensione dell’ignoto attraverso ciò che è noto
Empedocle Anassagora
Chi erano i filosofi? Se ci chiedessimo oggi «chi sono i filosofi?», potremmo rispondere «le persone che insegnano filosofia nelle scuole e nell’università». Magari con qualche eccezione, sarebbe una buona risposta. Ma il percorso che ha portato a una quasi completa istituzionalizzazione scolastica della filosofia ha avuto una durata secolare: esso è cominciato sì verso la fine dell’epoca greco-latina, ma si è compiuto soltanto in età moderna, fra Ottocento e Novecento. Questa risposta sarebbe invece completamente sbagliata se riferita agli inizi della filosofia. La figura del filosofo era allora del tutto diversa da quella cui siamo oggi abituati. Una prima e fondamentale differenza tra i filosofi antichi e quelli del nostro tempo è questa: per i primi, la filosofia non era soltanto una professione o un tipo specializzato di lavoro intellettuale fra i tanti altri. La filosofia era anche un modo di vita: il filosofo cioè si distingueva dagli altri uomini non soltanto per quello che pensava, che scriveva e che insegnava, ma anche per il modo in cui conduceva la propria intera esistenza. Questo aspetto vale in modo particolare per i filosofi delle origini, ma avrebbe continuato a caratterizzare l’intera storia della filosofia antica. Un carattere costante era la tendenza dei filosofi a vivere in comunità fra loro: una comunità che per alcuni dei filosofi delle origini, come i pitagorici, ebbe addirittura la forma di una setta religiosa, e più tardi divenne il gruppo dei maestri e dei loro discepoli (come accadde, in modi diversi, per Platone, Aristotele, gli stoici, gli epicurei, gli stessi neoplatonici). Questa forma di vita comunitaria rese spesso i filosofi antichi personaggi sospetti, accusati di arroganza e di spirito antisociale ed eversivo, a volte anche ridicoli, agli occhi dei loro contemporanei 13
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Parte prima L’età antica
e concittadini, ma al tempo stesso facilmente riconoscibili rispetto agli uomini ‘comuni’ che vivevano nella stessa città. Inoltre, si riteneva che il modo di vita dei filosofi dovesse rispecchiare fedelmente il loro pensiero, e ogni trasgressione nella condotta quotidiana rispetto alle idee professate veniva percepita come uno scandalo, una inaccettabile contraddizione: anche questo induceva i filosofi a tentare di rendere conformi tra loro vita e pensiero. Ma, a parte queste costanti, la figura del filosofo ha conosciuto tutta una serie di trasformazioni già lungo la durata storica del mondo antico. È importante ripercorrerne le tappe, perché non esiste ovviamente filosofia senza filosofi, e la collocazione sociale e culturale dei filosofi risulta decisiva per la stessa configurazione del loro lavoro intellettuale.
I maestri di verità L’audacia dei fondatori
La sfida sapienziale all’ignoranza dei ‘mortali’
I destinatari del messaggio
La pretesa di verità porta con sé la pretesa al potere sulla comunità
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I ‘filosofi’ degli inizi erano personaggi consapevoli della novità e dell’audacia del loro messaggio. Pretendere di dire la verità sul mondo e sulle sue origini, sugli dèi e sul loro rapporto con gli uomini, sul significato e il destino della vita umana – una verità diversa e spesso opposta a quella trasmessa dai vecchi racconti dei miti e dei poeti famosi – era un’impresa degna di personaggi eccezionali, e che solo personaggi che si ritenevano tali potevano perseguire. Essi si sentivano quindi e si presentavano come ‘maestri di verità’, come profeti ispirati, come uomini dotati di qualità e di intelligenza più che umane (questo vale certo più per personaggi come Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, che per i sapienti ionici, Talete, Anassimandro e Anassimene, della cui posizione sociale e del cui ruolo intellettuale sappiamo troppo poco). Questi uomini lanciavano dunque il loro messaggio sapienziale come una sfida rivolta contro l’ignoranza e la cecità mentale dei loro contemporanei, che essi spesso definivano «mortali», lasciando quindi intendere che la propria era una condizione vicina all’immortalità tipica degli dèi. E, in effetti, Pitagora era considerato dai suoi discepoli un discendente di Apollo, Empedocle si presentava come un uomo ‘divino’, prossimo a rinascere come divinità, Parmenide si dichiarava depositario di una rivelazione trasmessagli direttamente da una dea (la Verità personificata), Eraclito pronunciava sentenze simili a quelle dell’oracolo di Apollo. A chi si indirizzavano il messaggio e la sfida di questi protofilosofi? In primo luogo, a un gruppo ristretto di seguaci e discepoli, che in certi casi, come in quello già ricordato dei pitagorici, poteva trasformarsi in una vera e propria setta di tipo religioso, con i suoi rituali e le sue gerarchie interne. Ma, in secondo luogo, essi si rivolgevano agli uomini in generale, in cui però non è difficile riconoscere la comunità cittadina in cui questi sapienti agivano, predicando forse nelle sue piazze (come Empedocle), o davanti ai suoi templi, o nel corso delle sue festività politiche e religiose (come forse Eraclito e Parmenide). Una cosa è comunque certa. La potenza e l’importanza del messaggio lanciato da questi maestri di verità, la condizione sovrumana che essi si attribuivano e che veniva loro riconosciuta dai discepoli, facevano sì che la loro pretesa di verità fosse immediatamente accompagnata da una pretesa al potere sulla comunità umana. Comprendere, accettare e seguire il loro messaggio significava mutare la vita di individui e città, riconoscere nuove norme morali, politiche, religiose, nuove concezioni del mondo. Dunque i maestri di verità non potevano che essere anche ‘maestri di vita’, e perciò destinati al comando sulla vita degli uomini.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica Regalità filosofica e azione di governo
Violente reazioni cittadine alle pretese politiche dei filosofi
La ‘vocazione imperiosa’ della filosofia
In alcuni casi, e per un certo periodo di tempo, questa pretesa di regalità filosofica ebbe successo. Così, Pitagora e i pitagorici esercitarono per qualche decennio il governo su alcune città della Magna Grecia; Parmenide fu probabilmente legislatore della sua città, Elea. Una sorte meno felice toccò probabilmente a Eraclito, ignorato dai suoi concittadini di Efeso, benché vantasse una discendenza dagli antichi sovrani della città. Incerto è anche il destino di Empedocle, per quanto egli fosse circondato da un numeroso gruppo di seguaci entusiasti. Queste pretese al potere sulla città oltre che sulla verità non ebbero lunga durata, anche se lasciarono una traccia profonda ancora nel ri-fondatore della filosofia, Platone. Anzi esse destarono alla fine una reazione violenta da parte delle comunità cittadine. I pitagorici furono in parte massacrati, in parte espulsi da Crotone e Metaponto, dove avevano governato, e nelle altre città che abbiamo menzionato non restò alcuna traccia di ‘potere filosofico’. Altre accuse, culminate in processi famosi, colpirono in seguito la filosofia: nel V secolo, Anassagora fu esiliato da Atene, e all’inizio del IV Socrate fu addirittura condannato a morte nella stessa città. Benché entrambi questi processi fossero basati su accuse di empietà religiosa, i loro veri motivi erano in realtà politici (attraverso Anassagora si voleva colpire Pericle di cui egli era amico, e attraverso Socrate la cerchia aristocratica, antidemocratica, che egli aveva frequentato). Più chiaramente politico fu il processo con il quale, verso la fine del IV secolo, si tentò, vanamente, di mettere al bando da Atene le grandi scuole filosofiche, quella platonica e quella aristotelica, accusate entrambe di tramare contro la democrazia e l’indipendenza della città. Nonostante queste traversie, talvolta anche tragiche, una memoria della sua ‘vocazione imperiosa’ non avrebbe abbandonato la filosofia, in forme diverse, durante tutta la sua esistenza nel mondo antico, anche se la sua capacità di controllo veniva sempre più restringendosi al solo ambito dei discorsi.
Luoghi e protagonisti della filosofia delle origini (VI-V secolo a.C.) Intorno al 530 a.C. vi insegnò Pitagora di Samo
Nel 460 circa a.C. vi nacque Democrito
Nel 500 a.C. vi nacque Anassagora Nel 570 a.C. vi nacque Senofane
Vi nacquero Parmenide, nel 515 a.C., e Zenone, nel 490 a.C.
Abdera Elea
Crotone Agrigento
Nel 493 a.C. vi nacque Empedocle
Tebe
Clazomene Colofone Efeso Atene Micene Samo Mileto Argo Sparta
Vi nacquero Melisso, nel 485 a.C., e Pitagora, nel 570 a.C.
Nel 540 a.C. vi nacque Eraclito
Vi nacquero Talete, nel 625 a.C., Anassimandro, nel 610 a.C., e Anassimene, nel 586 a.C.
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Parte prima L’età antica
La ri-fondazione: i libri e la scuola Platone: tra i maestri di verità e la ricerca di verità parziali
Miti antichi e argomentazioni razionali
Platone: il primo grande corpo di scritti filosofici
L’Accademia, la prima scuola di filosofia
Aristotele: una nuova figura del filosofo
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Vissuto a cavallo fra il V e il IV secolo, Platone (vedi Unità 3) rappresenta una figura di transizione, quasi un crinale, nella storia della figura del filosofo antico. Alla tradizione dei maestri di verità lo accomunavano una condizione sociale eccezionale (apparteneva a una famiglia aristocratica che faceva risalire la sua discendenza a Codro, l’ultimo re di Atene, e a Solone, il primo legislatore della città), e la convinzione che il filosofo – per le sue doti straordinarie e per il suo sapere – potesse vantare un diritto alla sovranità, al governo della comunità umana. D’altra parte, il suo modo di praticare la filosofia si distingueva profondamente da quello dei predecessori: non più la pretesa di possedere una sapienza totale, e dunque la proclamazione di un messaggio definitivo sulla verità, ma invece la ricerca complessa e laboriosa indirizzata alla possibile conquista di verità parziali e non definitive. Come i vecchi sapienti, Platone ricorreva ancora a raffigurazioni mitiche del mondo, ma l’aspetto dominante del suo lavoro filosofico consisteva nell’argomentazione razionale, nella confutazione delle dottrine altrui e talvolta anche delle proprie, sempre suscettibili di revisione e di ulteriori sviluppi. Questa ricerca instancabile non pretendeva di essere ispirata dalla rivelazione divina, ma si fondava sulle sole forze della ragione: per questo aspetto ‘moderno’ della sua filosofia, Platone più che ai maestri di verità era vicino all’esperienza dei sofisti, che egli combatteva sul loro stesso terreno della discussione razionale e del confronto fra argomenti. Allievo di un maestro, Socrate, che non aveva scritto nulla, Platone fu invece l’autore del primo grande corpo di scritti filosofici della storia dell’Occidente (i suoi predecessori si erano per lo più limitati a scrivere un unico libro, in cui ognuno di essi aveva esposto il suo messaggio: così Eraclito, Parmenide, Empedocle, Anassagora). Ma anche qui Platone è in una posizione di transizione: i suoi scritti non sono trattati filosofici ma dialoghi, cioè rappresentazioni di discussioni svoltesi tra diversi interlocutori in cui le rispettive tesi vengono esposte, dimostrate o confutate, in un aperto confronto di pensiero che non raggiunge mai conclusioni chiuse e definitive. Anche la scuola fondata da Platone, l’Accademia, occupò un simile luogo di crinale fra epoche diverse. Da un lato, essa somigliava alle antiche comunità di sapienti come la setta pitagorica: non si limitava cioè all’insegnamento e all’apprendimento ma nutriva inoltre aspirazioni al potere politico, e manteneva una certa ispirazione anche religiosa, presentandosi come un gruppo dedito al culto delle Muse. D’altro lato, l’Accademia fu certamente la prima scuola di filosofia moderna, con un suo programma di ricerca e di studio, tanto che ad essa si sarebbero ispirate tutte le successive scuole dei filosofi. Il grande allievo di Platone, Aristotele (vedi Unità 4), attraversò invece con decisione la linea di crinale fra le due epoche, inaugurando così una nuova fase della storia della figura del filosofo, una fase di cui egli va certamente considerato il vero fondatore. Aristotele abbandonò ogni sogno e desiderio di sovranità dei filosofi sulla città: il dominio della filosofia poteva ora riguardare solo il campo della conoscenza e del sapere. Il pubblico cui Aristotele si rivolgeva era in primo luogo quello dei discepoli, destinati a diventare a loro volta filosofi di professione. Certo Aristotele parlava anche della città e della politica, ma ormai nella forma di oggetti di riflessione e di conoscenza teorica (una conoscenza che poteva avere anche effet-
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
Distinzione di ambiti e discipline
Il trattato filosofico
Il Liceo e il corso di studi
ti nella conduzione della politica, ma solo indirettamente, cioè tramite l’opera di professionisti della politica la cui forma di vita era ora nettamente distinta da quella filosofica). Distinguendosi ormai drasticamente non solo dai maestri di verità, ma dallo stesso Platone, Aristotele articolò inoltre il campo della filosofia in una pluralità di ambiti e discipline diverse (la logica, la fisica o filosofia della natura, la filosofia pratica – etica e politica –, la psicologia, la metafisica, la teologia), ognuna delle quali aveva principi e metodi propri che non andavano sovrapposti e confusi, come accadeva nella globalità indistinta dei messaggi sapienziali ma anche nelle complesse discussioni dialogiche di Platone. A ognuno di questi campi disciplinari Aristotele dedicava uno o più scritti, che avevano ormai la forma del trattato, cioè di un’esposizione organica che partiva dalla discussione delle tesi precedenti e dalla formulazione del metodo adeguato di ricerca, esaminava ordinatamente il materiale di conoscenza disponibile, e giungeva infine alle conclusioni teoriche pertinenti. Ognuno di questi trattati costituiva la base, o il risultato, di corsi di lezioni tenuti da Aristotele nella sua scuola, il Liceo, che manteneva l’antico carattere di una comunità di vita e di lavoro fra studiosi, ma si organizzava ormai come una istituzione dedicata alla formazione regolare di specialisti nei vari ambiti del sapere filosofico. Con Aristotele, la filosofia antica è così entrata nella fase della sua maturità. Ma, senza saperlo e forse senza volerlo, Aristotele costituiva inoltre la premessa per ulteriori trasformazioni nella figura del filosofo.
La filosofia in Platone e Aristotele
Passaggio dalla figura del maestro di verità a quella del filosofo Ricerca complessa e mai finita Uso dell’argomentazione Platone Dialogo Primo corpus organico di scritti Prima scuola: l’Accademia Filosofia come conoscenza Ambiti disciplinari definiti Aristotele
Trattato Corsi istituzionali: il Liceo Formazione di filosofi specialisti
Le scuole, le tradizioni e il commento Dopo Aristotele: l’istituzionalizzazione della filosofia
Dopo Aristotele, negli ultimi decenni del IV secolo a.C. e nei primi del III, la filosofia antica assunse la configurazione istituzionale che l’avrebbe caratterizzata fino alla fine del suo percorso. È questa l’epoca delle scuole e dei loro maestri, 17
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Parte prima L’età antica
Le quattro scuole e lo scetticismo
Capiscuola e ortodossia
La rivalità tra le scuole e le sue conseguenze
Irrigidimento delle posizioni filosofiche
Il commento come spiegazione e difesa dei testi antichi
La trasformazione in sistemi filosofici
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ormai propriamente professori di filosofia (va però rilevato che soltanto in epoca imperiale romana alcuni di questi maestri-capiscuola avrebbero ricevuto un regolare stipendio da parte dello Stato; prima di allora, essi vivevano dei propri mezzi e dei contributi versati dai loro allievi, in modo del tutto privato). Si consolidarono le due prime scuole, l’Accademia platonica e il Liceo aristotelico. Ne nacquero, anch’esse ad Atene, due nuove, quella stoica (fondata da Zenone) e quella di Epicuro. Si formò anche un’altra corrente di pensiero, lo scetticismo fondato da Pirrone, che però non avrebbe mai costituito una vera e propria scuola regolarmente organizzata. Queste scuole, vecchie e nuove, presentavano alcuni importanti caratteri comuni. Erano dirette da un caposcuola, e i successivi capiscuola formarono una specie di ‘dinastia’ filosofica. Erano vincolate al rispetto del pensiero del fondatore, dando così luogo per la prima volta a forme di ortodossia filosofica (più accentuata per stoici ed epicurei, meno per i platonici). La secolare persistenza delle grandi scuole filosofiche produsse effetti di grande rilievo. In primo luogo, esse costituivano il veicolo attraverso il quale si trasmettevano e si consolidavano le tradizioni di pensiero alle quali facevano capo: si costituirono così le tradizioni del platonismo, dell’aristotelismo, dello stoicismo e dell’epicureismo. In secondo luogo, si assisté a un’accesa rivalità fra le diverse scuole, ognuna delle quali tendeva a stabilire la superiorità della propria dottrina, in vista di un successo sia in campo teorico sia in campo pratico (l’acquisizione di un numero crescente di discepoli e studenti). Questa rivalità dette luogo a secolari discussioni intorno ai problemi centrali delle tradizioni filosofiche, e alla produzione di un sempre più ricco (e talvolta anche capzioso) armamentario di argomenti a favore e contro le rispettive dottrine. Rivalità e controversie ebbero come proprio effetto anche un irrigidimento delle opposte posizioni filosofiche, ognuna delle quali tese a fortificarsi contro le critiche dei rivali. Questo irrigidimento dette luogo a sua volta ad alcune forme del tutto nuove del pensiero filosofico e della sua produzione di testi, che risultano tipiche della filosofia nella sua fase ‘scolastica’ (cioè dal III secolo a.C. fino alla fine dell’età antica). Il commento ai testi del fondatore caratterizzò soprattutto la scuola platonica e quella aristotelica. Commentare un testo significava renderlo disponibile ai discepoli: spiegarlo, chiarirne le oscurità, mostrarne il rapporto con altri testi eliminando anche quelle lacune e quelle contraddizioni che in molti casi erano effettivamente presenti nei testi antichi, ma che ora potevano apparire come punti deboli della dottrina, criticabili dagli avversari. Commentare un testo significava in un certo senso tradurlo in un linguaggio filosofico più aggiornato, più comprensibile e più agguerrito nella situazione di competizione fra scuole rivali. Non bisogna pensare che il lavoro del commento sia privo di originalità filosofica: al contrario, sotto l’apparenza della dichiarata fedeltà al maestro fondatore, i commenti sono spesso ricchi di analisi filosofiche innovative, proprio nella misura in cui l’esigenza di chiarimento e di aggiornamento del pensiero degli antichi induce a svilupparne potenzialità teoriche che vi erano rimaste implicite, o prospettive che erano loro estranee (esemplari in questo senso i commenti ad Aristotele di Alessandro di Afrodisia nel II secolo d.C.: vedi Unità 4). La necessità di normalizzare i testi fondatori delle diverse tradizioni, eliminandone le contraddizioni, le oscillazioni fra tesi diverse, l’apertura problematica, per disporre di insiemi di tesi filosofiche lineari, ordinate, difendibili, comportò
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
La nascita del manuale filosofico e il suo ruolo
Nascita di un linguaggio tecnico e specialistico
Nascita di una cultura rivolta ai libri e lontana dalla realtà
Rilevanza delle questioni propriamente filosofiche
la progressiva trasformazione di quei testi in un sistema; ossia in un corpo dottrinale compatto, coeso, definitivo, chiuso. Né Platone né Aristotele, e neppure Zenone avevano composto un simile corpo dottrinale; il compito della sistematizzazione delle loro dottrine spettò invece ai loro seguaci nell’età scolastica della filosofia, che disponevano a tal fine del lavoro compiuto nei commenti di cui si è parlato. Il ‘sistema’ delle teorie di Platone, di Aristotele, di Zenone e dei suoi successori come Crisippo, diventò così la base dell’insegnamento nelle scuole di filosofia, e un’arma potente di difesa e di offesa di cui esse si dotarono per affrontare il conflitto con le scuole rivali. Più dei testi originali, e anche più dei complessi commenti a loro dedicati, il sistema filosofico si prestava a esposizioni riassuntive e schematiche, che vennero elaborate nei manuali di scuola. L’esigenza di disporre di questi strumenti per un insegnamento rapido e chiaro fu particolarmente forte fra i seguaci della tradizione platonica: i testi del maestro, dato il loro complesso carattere dialogico, si prestavano male a una facile comprensione e a un rapido apprendimento. I manuali filosofici, che spesso somigliavano molto poco al pensiero originale del fondatore (è soprattutto il caso di Platone), svolsero però un ruolo prezioso per il consolidamento e la resistenza delle tradizioni filosofiche. Questa serie di complesse operazioni attuate dalle scuole di filosofia (commenti, sistematizzazione, manuali) ebbero un effetto profondo sulla stessa configurazione della ricerca filosofica e sulle sue forme di pensiero. In primo luogo: la necessità di disporre di testi scritti in un linguaggio uniformato, in cui ogni termine avesse un significato ben definito e univoco, determinò la formazione di un linguaggio tecnico e specialistico della filosofia, sempre più lontano da quella lingua normale, di uso comune, che Platone, Aristotele, Zenone, Epicuro, avevano usato in prevalenza. Questo linguaggio tecnico contribuì ad allontanare la filosofia dalla possibilità di comprensione di un pubblico certo colto ma non specialistico, quindi a distanziarla sempre di più dalla vita e dalla comunicazione quotidiana fra gli uomini, riducendone il pubblico agli studiosi appartenenti alle scuole filosofiche. In secondo luogo: la pratica del commento ai testi della tradizione e la specializzazione del linguaggio filosofico produssero un altro effetto, molto durevole nel corso della storia della filosofia. L’interesse, lo sguardo, si rivolsero sempre di più verso i libri, i testi dei classici, e parallelamente si allontanarono dal mondo reale, cioè dalla natura, dalla vita associata degli uomini, dai problemi di spiegazione e di comprensione che essi ponevano. Per esempio: quando si poneva la questione di capire e magari di migliorare l’organizzazione politica della vita umana, Platone aveva osservato la città, la sua storia, i suoi conflitti e i suoi problemi; ora, di fronte allo stesso ordine di questioni, si leggevano invece la Repubblica di Platone o la Politica di Aristotele. Quest’ultimo, per spiegare la struttura del corpo degli animali, era ricorso all’osservazione diretta, giungendo fino alla dissezione anatomica. Ora si studiavano, invece che il delfino o la scimmia, le pagine che Aristotele aveva dedicato a questi animali nei suoi scritti zoologici. Anche questo contribuiva a specializzare la filosofia facendone un ambito autonomo di discorsi e di problemi. Era perciò naturale che in questo quadro assumessero un rilievo centrale le questioni specificamente filosofiche, come quelle relative alla teologia, alla metafisica, alla cosmologia, alla teoria dell’anima, mentre i problemi relativi al mondo esterno (come le scienze della natura o la politica) passavano in secondo piano, e comunque raggiungevano il discorso filosofico solo attraverso la mediazione dei testi che ne avevano trattato in passato. 19
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Parte prima L’età antica Il controcanto dello scetticismo
➥ Sommario, p. 23
A queste tendenze si accompagnò, fino ai primi decenni del III secolo d.C., una specie di controcanto, l’indirizzo scettico: esso continuava a mettere tenacemente in dubbio la possibilità che la ragione umana raggiungesse verità definitive (dunque dogmatiche) su argomenti (come Dio, l’anima, l’universo, l’essere) non suscettibili di un controllo empirico, cioè basato sull’osservazione diretta. Ben lungi dal costituire una posizione irrazionalistica, lo scetticismo può venire considerato come una delle ultime difese della razionalità antica contro lo slittamento verso forme, queste sì irrazionali, di misticismo e fideismo religioso. Le scuole filosofiche: luoghi e fondatori (IV secolo a.C. - V secolo d.C.) Nel 384 a.C. vi nacque Aristotele
In epoca imperiale diventò sede di numerose scuole filosofiche: stoica, platonica, epicurea
Nel 360 circa a.C. vi nacque Pirrone, fondatore dello scetticismo
Nel 341 a.C. vi nacque Epicuro, fondatore dell’epicureismo
Roma
Costantinopoli Stagira
Elide Atene
Dalla fine del IV secolo d.C. fu la capitale dell’impero d’Oriente e centro della cultura cristiana ortodossa
Samo Cizio
Alessandria
Nel 428 a.C. vi nacque Platone. Vi ebbero sede la scuola platonica (Accademia), aristotelica (Liceo), epicurea e stoica
4 Dalla libera pòlis all’autorità di uno Stato centralizzato
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Nel 333 a.C. vi nacque Zenone, fondatore dello stoicismo
Fu per secoli il massimo centro della scienza greca: Museo e Biblioteca di Alessandria
La fine della filosofia antica La filosofia era nata in Grecia, come abbiamo visto, in un’epoca di crisi di sovranità, cioè nell’assenza di forti autorità statali, religiose, e di una tradizione dominante; nell’epoca, cioè, in cui si era formata la pòlis, la piccola comunità politica libera e indipendente. Nelle fasi successive dello sviluppo della società antica, quella crisi venne colmata prima dalle monarchie ellenistiche, poi dalla repubblica di Roma e soprattutto dallo Stato imperiale romano. Queste nuove strutture di potere disponevano di una solida autorità statale (il monarca ellenistico, il Senato repubblicano, l’imperatore romano), che a sua volta si appoggiava a un forte apparato burocratico, militare e giudiziario. Era nata, insomma, una forma di Stato più vicina a quella che noi conosciamo a partire dalla modernità occidentale.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
Istituzionalizzazione del pluralismo scolastico e riassestamento sistematico
L’inizio del declino: saldatura fra impero e religione
529 d.C.: chiusura della scuola di Atene
642 d.C.: distruzione della Biblioteca di Alessandria
Fine delle società antiche, fine della filosofia antica
➥ Sommario, p. 23
Per quanto riguarda il pensiero filosofico, la formazione di forti Stati centralizzati e autoritari aveva prodotto effetti di diversa natura. Da un lato, essa aveva definitivamente reso irrealistica e anacronistica l’antica pretesa della filosofia (ancora viva in Platone) di assurgere direttamente al potere politico, e di farne uno strumento per la riforma morale della società. Questo aveva contribuito alla trasformazione del filosofo da profeta e maestro di verità, aspirante alla regalità (ormai detenuta da chi aveva ben altri mezzi di comando e di potere), in professore insegnante di una disciplina particolare, per quanto importante e prestigiosa. Dall’altro lato, gli Stati ellenistici e quello romano avevano messo a disposizione dei filosofi importanti risorse per i loro studi (prime fra tutte le grandi biblioteche pubbliche), e avevano accettato il pluralismo delle opinioni filosofiche, fino al punto di istituire, come abbiamo visto, cattedre statali di filosofia destinate alle principali tradizioni di pensiero. Questo pluralismo non era stato abolito neppure quando, con Costantino all’inizio del IV secolo d.C., il cristianesimo era diventato la religione ufficiale dell’impero romano. Alla nuova situazione politica e sociale la filosofia aveva reagito organizzando un proprio riassestamento sistematico, imperniato sulla difesa delle sue grandi tradizioni di pensiero e sviluppando soprattutto il versante metafisico e teologico della propria ricerca (anche in rapporto alla sfida che il cristianesimo portava a quelle tradizioni, ora considerate pagane). Ma la filosofia antica si trovava ormai in una situazione precaria, stretta com’era fra uno Stato imperiale sempre più autoritario e militarizzato e una crescente intolleranza religiosa verso ogni forma di pensiero non ortodossa (ortodossia, come sai, significa «opinione giusta», e la sua giustezza per le religioni è garantita dalla rivelazione divina e dal Libro sacro che la contiene, come la Bibbia e il Corano). Il momento della crisi e del collasso, per una forma di pensiero che era nata e cresciuta proprio nell’assenza di entrambe queste dimensioni storiche, non poteva essere lontano. Possiamo collocarlo intorno a due date, che hanno un valore simbolico. Nel 529 d.C. l’imperatore Giustiniano, rigido custode dell’ortodossia cristiana, chiuse di autorità la scuola filosofica di Atene (lontana erede dell’Accademia platonica), considerata ormai come un intollerabile covo di paganesimo e di libertà di pensiero. I filosofi platonici di Atene cercarono allora rifugio in Persia. Ma un secolo più tardi anche il regno persiano venne travolto dall’espansione araba in Oriente, che era animata dalla nuova religione islamica. Intorno al 642, gli arabi invasero l’Egitto e distrussero definitivamente la grande Biblioteca di Alessandria (in realtà già gravemente danneggiata a più riprese durante le guerre dell’impero romano). Secondo un aneddoto, il califfo conquistatore avrebbe detto: «se i libri di questa biblioteca dicono le stesse cose del Corano, sono inutili, e vanno distrutti; se dicono cose diverse, sono empi, e a maggior ragione vanno distrutti». La frase è sicuramente leggendaria, ma essa esprime bene l’incompatibilità fra il pensiero filosofico antico e l’insorgere delle opposte intolleranze religiose, quella cristiana e quella islamica, con le rispettive ortodossie. Con il crollo delle società antiche, prima quella della pòlis poi quella monarchica e imperiale, finiva dunque anche la stagione del pensiero filosofico che ne aveva accompagnato lo sviluppo. In seguito, la filosofia avrebbe faticosamente cercato la via per una ricostruzione, seguendo un percorso intermedio tra la fedeltà alla propria tradizione originaria e i vincoli imposti dal nuovo contesto sociale, politico e religioso. 21
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Parte prima L’età antica Società, cultura e filosofia nel mondo antico
Società e cultura
Filosofia
Comunità libere e indipendenti: le pòleis greche
Nascita della filosofia
Monarchie ellenistiche e Stato romano (repubblica, impero)
Istituzionalizzazione della filosofia nelle scuole
Nuove forme di sovranità e religioni monoteiste
Attacco dei nuovi poteri a un pensiero autonomo, universale, non dogmatico: fine della filosofia antica
Suggerimenti bibliografici Sulle origini della filosofia resta un classico J.-P. Vernant, Le origini del pensiero greco, Editori Riuniti, Roma 1984. Un’ampia e sintetica panoramica sull’intero pensiero antico, di taglio etico-politico, è offerta da M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 2004. Una chiara esposizione complessiva del pensiero antico è offerta da P. Donini e F. Ferrari, L’esercizio della ragione nel mondo classico, Einaudi, Torino 2005. Un quadro dell’evoluzione della figura del filosofo viene tracciato da G. Cambiano, La filosofia in Grecia e a Roma, Laterza, Roma-Bari 1983.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
Sommario 1. LA
NASCITA DELLA FILOSOFIA
La filosofia, letteralmente «amore del sapere», affonda le sue radici nella Grecia del VI secolo a.C., per poi definirsi sempre più chiaramente nel V e nel IV. Il primo a fornirci una chiave di lettura della storia della filosofia, ancora oggi attuale, è Aristotele, che la fa iniziare con la filosofia della natura. Il pensiero filosofico ha inizialmente in comune con l’antica sapienza greca, e in particolare con il mito, un carattere di generalità; ciò che invece contraddistingue il lògos filosofico è la sua riflessività e l’uso dell’argomentazione razionale. 2. PERCHÉ
IN
GRECIA?
Le condizioni politiche e culturali della Grecia antica permettono il formarsi delle pòleis, le città-stato che si autolegittimano attraverso il libero confronto di opinioni. Questo primato della parola, del confronto dialogico, è anche ciò che caratterizza la filosofia, dove una pluralità di verità possibili si combattono sul piano delle buone ragioni, delle argomentazioni razionali. I tipi di fondazione della verità filosofica alle origini sono tre: forme mitiche e sapienziali, inferenza logica, originata dalla tautologia, e analogia. 3. CHI
ERANO I FILOSOFI?
I filosofi delle origini si presentano come ‘maestri di verità’, avanzando nel contempo una pretesa di rega-
lità sulla società, e formando delle comunità filosofiche. Con Platone il filosofo assume progressivamente il ruolo di maestro dell’argomentazione e della ricerca di verità parziali e mai definitive, con l’adozione del dialogo quale forma di scrittura filosofica. Con Platone abbiamo il primo grande corpo di scritti filosofici e la prima scuola: l’Accademia. Il suo maggior discepolo, Aristotele, restringe l’ambito della filosofia alla conoscenza, definisce i campi disciplinari e utilizza nella sua scuola, il Liceo, libri di testo organici, i trattati. Dopo Aristotele, le correnti della filosofia si istituzionalizzano in quattro scuole: platonica, aristotelica, stoica ed epicurea, cui si affianca la corrente dello scetticismo. L’attività scolastica produce via via un sempre maggior irrigidimento delle dottrine, creando un’ortodossia filosofica attraverso nuove modalità di pensiero e nuovi tipi di testi: il commento, il sistema e il manuale. La filosofia diventa un sapere sempre più specialistico, libresco e autonomo. 4. LA
FINE DELLA FILOSOFIA ANTICA
Nei secoli che vanno dal III a.C. al IV d.C., con l’affermarsi di forme statali centralizzate, la filosofia accentua i suoi caratteri sistematici e specialistici. Quando poi lo Stato si salda all’ortodossia religiosa, il declino della filosofia diventa inevitabile.
Parole chiave Analogia. Dal greco anàlogos, che significa «che ha relazione, simile». Ragionamento che, da alcune somiglianze tra due fenomeni, trae la conseguenza che abbiano anche altri aspetti in comune. Discorso di secondo grado / Riflessività. Riflessione e argomentazione che ha per oggetto il discorso (le sue condizioni di possibilità, la validità delle sue tesi, la plausibilità delle sue conclusioni, la correttezza delle argomentazioni ecc.). Filosofia della natura. Riflessione che ha per oggetto la natura, ossia l’insieme dei fenomeni fisici. Il filosofo della natura non descrive solo i fatti ma spiega le cause, cercando di comprendere le componenti fondamentali dell’universo fisico (gli elementi primi). Inferenza. Termine che deriva dal latino inferre, significa «portare contro, verso». In senso figurato «dedurre, trarre da», e indica il procedimento che perviene a una conseguenza da uno o più antecedenti. Lògos. Termine greco che significa «parola, discorso, calcolo» e che è diventato sinonimo di «ragione». In
opposizione a «mito» indica il discorso filosofico, connotato dal pensare argomentativo e dalla riflessività. Mito. Termine derivante dal greco my`thos, che significa «parola, discorso, narrazione». In opposizione a lògos, indica il discorso che non richiede argomentazione o dimostrazione. Ortodossia. Termine derivante dal composto greco orthòs, «retto, giusto», e dòxa, «opinione», indica l’atteggiamento di chi ritiene un insieme di teorie o di dottrine assolutamente vere e indiscutibili. Sistema. Dal greco sy`stema, che deriva da synistànai, «porre (histànai) insieme (syn)». In filosofia indica un insieme compatto e integrato di concetti, teorie e ambiti disciplinari. Tautologia. Dal greco tautò, crasi di to autò («il medesimo») più lògos («discorso»), quindi «discorso dell’uguale». Indica una proposizione in cui il predicato esprime lo stesso significato presente nel soggetto; o, detto altrimenti, il predicato è già incluso nel soggetto. 23
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Parte prima L’età antica
Questionario LA
NASCITA DELLA FILOSOFIA
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Per quale aspetto la filosofia si distingue dalle altre forme di sapienza? (max 1 riga)
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In un massimo di 3 righe indica in cosa consiste l’interpretazione aristotelica della filosofia delle origini.
3
PERCHÉ
CHI
Illustra in un massimo di 6 righe le caratteristiche del discorso filosofico, sottolineando gli elementi comuni e le differenze con il mito. IN
GRECIA?
4
Riassumi in un massimo di 3 righe i fattori che favorirono la nascita della filosofia.
5
Spiega quanti e quali sono i vari tipi di fondamento del discorso filosofico delle origini. (max 6 righe)
LA
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Di che cosa si consideravano portatori i primi filosofi? Qual era il loro rapporto con il potere? (max 4 righe)
8
Quali novità introdusse Platone all’interno del modo di fare filosofia? (max 6 righe)
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Quali sono le caratteristiche della filosofia aristotelica che segnano una svolta nel modo di concepire la filosofia? (max 6 righe)
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Che cosa caratterizzava la filosofia delle scuole rispetto alla tradizione precedente? (max 3 righe)
FINE DELLA FILOSOFIA ANTICA
11
Quali fattori determinarono la fine del mondo antico? Quali conseguenze ebbero sulla filosofia? (max 3 righe)
12
Quali furono i due eventi storici che segnarono la fine del mondo culturale classico? (max 1 riga)
ERANO I FILOSOFI?
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Spiega in un massimo di 2 righe in che senso la filosofia delle origini era anche uno modo di vivere e quali conseguenze aveva questo fatto.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
LA PAROLA AL CRITICO Vernant legge le origini della filosofia in Grecia In queste pagine, tratte dal libro Le origini del pensiero greco, il grande storico e antropologo francese Jean-Pierre Vernant (1914-2007) mostra con chiarezza la stretta connessione fra lo sviluppo della pòlis (città-stato) e la nascita della riflessione filosofica.
Il lògos filosofico nasce dall’esperienza politica da J.-P. Vernant, Le origini del pensiero greco
La preminenza della parola nella pòlis: strumento di potere e pubblica discussione
Lo sviluppo del lògos: dalla politica alla logica del vero
L’apparizione della pòlis costituisce, nella storia del pensiero greco, un avvenimento decisivo. Certo, sul piano intellettuale come nel campo delle istituzioni, esso produrrà solo per gradi tutte le sue conseguenze; la pòlis conoscerà fasi molteplici, forme variate. Tuttavia, fino dagli inizi, che si possono situare tra l’VIII e il VII secolo, essa segna un punto di partenza, una vera invenzione; grazie ad essa, la vita sociale e le relazioni tra gli uomini assumono una forma nuova, di cui i Greci sentono pienamente l’originalità. Il sistema della pòlis implica prima di tutto una straordinaria preminenza della parola su tutti gli altri strumenti del potere. Essa diventa lo strumento politico per eccellenza, la chiave di ogni autorità nello Stato, il mezzo di comando e di dominio su altri. Questa potenza del linguaggio – di cui i Greci fecero una divinità: Peithò, la forza di persuasione – ricorda l’efficacia delle parole e delle formule in certi rituali religiosi, o il valore attribuito ai «detti» del re quando egli pronuncia sovranamente la thèmis, la sentenza; in realtà, tuttavia, si tratta di una cosa affatto diversa. Il linguaggio non è più la parola rituale, la formula giusta, ma il dibattito contraddittorio, la discussione, l’argomentazione. Presuppone un pubblico al quale esso si rivolge come a un giudice che decide in ultima istanza, per alzata di mano, tra i due partiti che gli sono presentati: è questa scelta puramente umana che misura la forza di persuasione rispettiva dei due discorsi, assicurando la vittoria di uno degli oratori sul suo avversario. Tutte le questioni d’interesse generale che il sovrano aveva la funzione di regolare e che definiscono il campo dell’archè («potere») sono ora sottomesse all’arte oratoria e devono essere decise al termine di un dibattito; occorre dunque che possano essere fuse nella matrice di dimostrazioni an-
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Parte prima L’età antica
La dimensione pubblica e visibile della vita sociale nella pòlis
Democratizzazione e divulgazione del sapere aristocratico
La dimensione pubblica delle conoscenze
Le origini della filosofia: dal mito alla razionalità
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titetiche, di argomentazioni opposte. Tra la politica e il lògos c’è così un rapporto stretto, un legame reciproco. L’arte politica consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio; e il lògos, all’origine, prende coscienza di se stesso, delle sue regole, della sua efficacia, attraverso la sua funzione politica. Storicamente, sono la retorica e la sofistica che, mediante l’analisi da esse intrapresa delle forme del discorso quale strumento di vittoria nelle lotte dell’assemblea e del ‘tribunale’, aprono la strada alle ricerche di Aristotele, definendo le regole della dimostrazione, accanto a una tecnica della persuasione, e ponendo una logica del vero, propria del sapere teorico, di fronte alla logica del verosimile o del probabile che presiede ai dibattiti aleatori della pratica. Un secondo aspetto della pòlis è il carattere di piena pubblicità dato alle manifestazioni più importanti della vita sociale. Si può anche dire che la pòlis esiste soltanto nella misura in cui si è riservata un dominio pubblico, nei due sensi, diversi ma solidali, del termine: un settore d’interesse comune, opposto agli affari privati; pratiche aperte, stabilite alla luce del sole, opposte alle procedure segrete. Questa esigenza di pubblicità conduce a confiscare progressivamente a profitto del gruppo, e a porre sotto gli sguardi di tutti, l’insieme dei comportamenti, delle procedure, delle conoscenze che all’origine costituivano il privilegio esclusivo del basileùs («re»), o dei gène («famiglie») detentori dell’archè («potere»). Questo duplice movimento di democratizzazione e di divulgazione avrà conseguenze decisive sul piano intellettuale. La cultura greca si costituisce aprendo a una cerchia sempre più larga – e infine all’intero dèmos («popolo») – l’accesso al mondo spirituale riservato in origine a un’aristocrazia di carattere guerriero e sacerdotale (l’epopea omerica è un primo esempio di questo processo: una poesia di corte, cantata dapprima nelle sale dei palazzi, evade da essi, si allarga, e si muta in poesia di festa). Ma questo allargamento comporta una profonda trasformazione. Divenendo elementi di una cultura comune, le conoscenze, i valori, le tecniche mentali sono a loro volta portati sulla piazza pubblica, sottomessi a critica e a controversia. Non sono più conservati, come garanzie di potenza, nel segreto di tradizioni familiari; la loro pubblicazione susciterà esegesi, interpretazioni diverse, opposizioni, dibattiti appassionati. Ormai la discussione, l’argomentazione, la polemica diventano le regole del gioco intellettuale come del gioco politico. Il controllo costante della comunità si esercita sulle creazioni dello spirito come sulle magistrature dello Stato. La legge della pòlis, in opposizione al potere assoluto del monarca, esige che le une e le altre siano ugualmente sottoposte a una «resa dei conti». Esse non s’impongono più mediante la forza di un prestigio personale o religioso: devono dimostrare la loro giustezza mediante processi di ordine dialettico. La parola forma, nel quadro della città, lo strumento della vita politica; e la scrittura fornirà, sul piano propriamente intellettuale, il mezzo di una cultura comune, e permetterà una divulgazione completa di conoscenze dapprima riservate o interdette. […] Nella storia dell’uomo, di solito, gli inizi ci sfuggono. Tuttavia se l’avvento della filosofia, in Grecia, segna il declino del pensiero mitico e il principio
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
Spiegazioni razionali di tutti i fenomeni naturali
Tutto è natura, niente è soprannaturale
Dal mistero al familiare
La filosofia si libera del mito: la desacralizzazione della conoscenza
di un sapere di tipo razionale, si può fissare la data e il luogo di nascita della ragione greca, stabilire il suo stato civile. All’inizio del VI secolo, nella ionica Mileto, uomini come Talete, Anassimandro, Anassimene inaugurano un nuovo modo di riflessione concernente la natura, che essi prendono come oggetto di una ricerca sistematica e disinteressata, di una historia, e di cui presentano un quadro d’insieme, una theoria. Dell’origine del mondo, della sua composizione, del suo ordinamento, dei fenomeni meteorologici, essi propongono spiegazioni sgombre di tutte le immagini drammatiche delle teogonie e cosmogonie antiche: le grandi figure delle Potenze primordiali si sono ora cancellate; non più agenti soprannaturali, le cui avventure, lotte, imprese formavano la trama dei miti della genesi, che narravano il nascere del mondo e l’istituzione dell’ordine; non più, inoltre, allusioni agli dèi che la religione ufficiale associava, nelle credenze e nel culto, alle forze della natura. Presso i «fisici» della Ionia la positività invade immediatamente la totalità dell’essere. Nulla esiste che non sia natura, phy`sis. Gli uomini, il divino, il mondo formano un universo unificato, omogeneo, tutto intero sullo stesso piano; essi sono le parti o gli aspetti di una sola e medesima phy`sis che dappertutto mette in gioco le stesse forze, manifesta la stessa potenza di vita. Le vie sulle quali questa phy`sis è nata, si è diversificata e organizzata, sono perfettamente accessibili all’intelligenza umana: «all’inizio» la natura non ha operato in modo diverso da come fa ancora, ogni giorno, quando il fuoco asciuga un vestito bagnato o quando, in un crivello agitato dalla mano, le parti più grosse, isolate, si radunano. Come c’è una sola phy`sis, che esclude la stessa nozione di soprannaturale, così c’è una sola temporalità. L’originario, il primordiale si spogliano della loro maestà e del loro mistero; essi hanno la banalità rassicurante dei fenomeni familiari. Per il pensiero mitico, l’esperienza quotidiana s’illuminava e acquistava un senso in rapporto agli atti esemplari compiuti dagli dèi «all’origine». Presso gli Ioni il polo della comparazione si rovescia. Gli avvenimenti primi, le forze che hanno prodotto il cosmo sono concepiti a immagine dei fatti che si osservano oggi e richiedono una spiegazione analoga. Non è più l’originale che illumina e trasfigura il quotidiano; è il quotidiano che rende intelligibile l’originale, fornendo modelli per comprendere come il mondo si è formato e ordinato. […] Tra il mito e la filosofia non c’è realmente continuità. Il filosofo non si contenta di ripetere in termini di phy`sis («natura») ciò che il teologo aveva espresso in termini di Potenza divina. Al cambiamento di registro, all’utilizzazione di un vocabolario profano, corrispondono un nuovo atteggiamento spirituale, un clima intellettuale diverso. Con i Milesi, per la prima volta, l’origine e l’ordine del mondo prendono la forma di un problema esplicitamente posto, al quale occorre dare una risposta senza mistero; a misura dell’intelligenza umana, suscettibile di essere esposta e dibattuta pubblicamente, davanti all’insieme dei cittadini, come le altre questioni della vita corrente. Così si afferma una funzione di conoscenza liberata da ogni preoccupazione di ordine rituale. I «fisici», deliberatamente, ignorano il mondo della religione. La loro ricerca non ha più niente a che fare con le procedure del culto alle quali il mito, malgrado la sua relativa autonomia, restava sempre più o meno legato.
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Parte prima L’età antica L’ordine della città diviene l’ordine del discorso filosofico
La costruzione della ragione greca e la sua essenza politica
Desacralizzazione del sapere, avvento di un tipo di pensiero esterno alla religione, non sono fenomeni isolati e incomprensibili. Nella sua forma, la filosofia si ricollega in modo diretto all’universo spirituale che ci è sembrato definire l’ordine della città, caratterizzato appunto da una laicizzazione, da una razionalizzazione della vita sociale. Ma la dipendenza della filosofia dalle istituzioni della pòlis si manifesta anche nel suo contenuto. Se è vero che i Milesi hanno preso a prestito dal mito, essi hanno anche trasformato molto profondamente l’immagine dell’universo, l’hanno integrata in un quadro spaziale, l’hanno ordinata secondo un modello più geometrico. Per costruire le nuove cosmologie, essi hanno utilizzato le nozioni elaborate dal pensiero morale e politico, hanno proiettato sul mondo della natura quella concezione dell’ordine e della legge che, trionfando nella città, aveva fatto del mondo umano un kòsmos. […] Avvento della pòlis, nascita della filosofia: tra i due ordini di fenomeni i legami sono troppo stretti perché il pensiero razionale non appaia, alle sue origini, solidale con le strutture sociali e mentali peculiari della città greca. Così reinserita nella storia, la filosofia abbandona quel carattere di rivelazione assoluta che talvolta le si è attribuito, salutando nella giovane scienza degli Ioni la ragione sovratemporale venuta ad incarnarsi nel Tempo. La scuola di Mileto non ha visto nascere la Ragione: ha costruito una Ragione, una prima forma di razionalità. Questa ragione greca non è la ragione sperimentale della scienza contemporanea, orientata verso l’esplorazione dell’ambiente fisico, i cui metodi, strumenti intellettuali, quadri mentali, sono stati elaborati nel corso degli ultimi secoli nello sforzo laboriosamente perseguito di conoscere e dominare la Natura. Quando Aristotele definisce l’uomo un «animale politico», sottolinea ciò che separa la Ragione greca da quella di oggi. Se per lui l’homo sapiens è un homo politicus, è perché la Ragione stessa, nella sua essenza, è politica. (trad. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 41 ss., 90 ss.)
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici 1. Chi sono i presocratici? 1. Il problema delle fonti
2. La scuola di Mileto e la cosiddetta physiologhìa 1. Talete, saggio tra i sapienti 2. L’illimitato di Anassimandro 3. Anassimene: l’aria origine del tutto
3. Eraclito l’oscuro
2. Parmenide: la verità contro l’opinione 3. Zenone: la difesa logico-argomentativa di Parmenide 4. Melisso: l’essere è il cosmo
6. Empedocle, Anassagora, Democrito: il naturalismo dopo Parmenide 1. Empedocle: tra antichi e nuovi saperi 2. Anassagora: i semi infiniti e l’Intelletto 3. Democrito: gli atomi e il vuoto
4. L’anima e il numero: Pitagora e il pitagorismo 1. L’immortalità dell’anima e il ciclo delle reincarnazioni 2. Le dottrine matematiche
5. L’essere e la verità: Parmenide e l’eleatismo 1. Senofane: fiducia nella ragione e critica alla religione
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Eraclito, Sulla natura; Empedocle, Sulla natura
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Parte prima L’età antica
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Chi sono i presocratici? Rintracciare le origini di qualsiasi fenomeno – e dunque anche della filosofia – costituisce un compito tutt’altro che facile. La parola philosophìa è attestata solo a partire da Pitagora e forse da Eraclito (ma in entrambi i casi non è affatto certo che i due pensatori abbiano effettivamente utilizzato il termine); l’oggetto, ossia la disciplina filosofia, nella sua complessità e in particolare nella capacità di riflettere su se stessa (sulle proprie procedure, sul proprio linguaggio, sui propri limiti: vedi «Introduzione», p. 6) nasce solo con Platone (vedi Unità 3). Sarebbe però difficile negare che nei due secoli che hanno preceduto la comparsa di Platone siano presenti consistenti tracce di uno stile di pensiero, di modelli di ragionamento, e per certi aspetti di vere e proprie dottrine, che noi siamo portati a considerare filosofici. Insomma, se è vero che la filosofia nasce veramente solo con Platone, è altrettanto vero che la sua incubazione dura almeno due secoli e che in questa lunga fase gli elementi di interesse filosofico sono numerosi e di notevole rilevanza. Le domande Del resto esistono problemi e domande che sembrano in qualche modo connatudella filosofia rati all’uomo e che presentano di per se stessi un carattere in qualche modo filosofico: interrogativi come quelli relativi alla struttura dell’universo, alla collocazione in esso dell’uomo, al rapporto tra quest’ultimo e la divinità, al modo di associarsi in comunità politiche, alla natura e ai limiti della conoscenza, pur se formulati in un linguaggio ancora lontano da quello astratto della filosofia platonica e aristotelica, appartengono inevitabilmente all’orizzonte del domandare filosofico. Da questo punto di vista si può parlare – e si è effettivamente parlato – di una filosofia dei poemi omerici, di una filosofia delle opere di Esiodo e dei grandi poeti arcaici, come Pindaro. I presocratici Bisogna però anche riconoscere che solo a partire da certe figure questi interrogativi, e le riflessioni con le quali si è tentato di fornire ad essi risposte consistenti, hanno assunto le modalità tipiche del pensiero filosofico. Queste figure, questi autori sono solitamente indicati con il termine «presocratici». Una lunga e consolidata consuetudine, dunque, riunisce gli autori di interesse filosofico attivi tra la fine del VII e gli inizi del IV secolo sotto la denominazione di presocratici, ossia «precedenti Socrate». In verità, alcuni di essi sono contemporanei di Socrate (Democrito nacque nel 460, cioè dieci anni dopo Socrate), ma la denominazione possiede un significato culturale piuttosto che storico, intendendo sottolineare che gli autori in questione appartengono a una fase in qualche modo ancora di gestazione della filosofia, destinata a vedere definitivamente la luce con Socrate (il quale, come si dirà più avanti, non scrisse nulla) e con il suo grande allievo Platone.
La nascita della philosophìa
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Il problema delle fonti Il primo dato che occorre tenere presente quando si parla di presocratici è quello relativo alla mancanza delle loro opere. A differenza di Socrate molti dei pre-
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Aristotele come fonte
Testimonianze ‘tendenziose’
Un pensiero lontano ma ricostruibile
Due tipi di informazioni: le testimonianze…
socratici compongono scritti (trattati, raccolte di aforismi, poemi), ma nessuno di essi è giunto integro fino a noi; in effetti, la letteratura di interesse filosofico precedente Platone è andata completamente perduta. Come possiamo allora ricostruire il pensiero di questi autori? In un modo insieme semplice e complesso: ossia attraverso le informazioni che ci trasmettono gli autori successivi, in primo luogo Platone e Aristotele (soprattutto quest’ultimo, il quale costituisce una fonte davvero preziosa sulla riflessione filosofica che lo ha preceduto). Perché questa ricostruzione si presenta semplice e insieme complessa? Essa è semplice perché Aristotele (e in misura minore anche Platone) sembra conoscere abbastanza bene le dottrine dei pensatori presocratici e le riporta in modo apparentemente preciso; dice, per esempio, che il tal filosofo – nel nostro caso Talete – affermava che principio (archè) di tutte le cose fosse l’acqua (o in generale l’elemento umido). La difficoltà risiede nel fatto che Aristotele trasferisce nel suo linguaggio, ossia nella sua terminologia e nei suoi schemi mentali, le concezioni dei suoi predecessori. In riferimento al caso appena menzionato, ossia l’attribuzione a Talete della dottrina secondo cui l’acqua è principio di tutte le cose, risulta infatti del tutto improbabile che Talete abbia effettivamente usato la parola archè; e poi quest’ultima può significare sia «principio» (ossia elemento costitutivo di una data cosa, la materia di cui è fatta) – e questo è il senso in cui verosimilmente la utilizza Aristotele –, sia «inizio» (per esempio di un determinato processo), sia ancora fondamento su cui le altre cose poggiano (vedi Unità 4, p. 216 ss.). Casi come questi sono numerosissimi e riguardano praticamente ogni testimonianza in nostro possesso sugli autori presocratici. Insomma, in generale sembra difficile stabilire con esattezza il significato di una dottrina, anche quando colui che la trasmette lo fa con una certa precisione, appunto perché egli è portato, più o meno consapevolmente, a trasferire le concezioni che sta citando all’interno dei propri schemi concettuali e linguistici. Senza poi contare il fatto che un autore come Aristotele – sempre per fare l’esempio più significativo – è solito attribuire agli autori di cui sta parlando più di quanto essi abbiano effettivamente sostenuto; egli infatti è convinto che il compito del filosofo non sia tanto quello di riportare fedelmente quanto un suo predecessore ha affermato, bensì quello di fare emergere quanto quel certo pensatore avrebbe dovuto dire in base ai suoi stessi presupposti: insomma Aristotele tende a far dire a ogni suo predecessore di più di quanto questi abbia effettivamente detto. Questa discussione ha lo scopo di mettere in guardia chi si avvicina al pensiero di autori di cui noi non possediamo le opere dai pericoli impliciti in un approccio eccessivamente disinvolto. Quando leggiamo notizie sul pensiero dei presocratici dobbiamo tenere presente che si tratta non solo di un pensiero lontano da noi (e forse per questo ci appare tanto misterioso e affascinante), ma anche lontano e diverso da quello degli autori che lo riportano. Sarebbe però ugualmente sbagliato abbandonarsi al pessimismo e ritenere che il senso della riflessione dei presocratici debba risultare per noi del tutto inattingibile. Si tratta solo di affrontare ogni informazione con attenzione e cautela, nella convinzione che l’eco dei primi filosofi arriva a noi attenuata e non sempre comprensibile al primo ascolto. Prima di passare all’esposizione delle concezioni degli autori presocratici, occorre fare un’ultima precisazione. Le informazioni relative ad essi di cui siamo in possesso (grazie alle opere dei pensatori successivi) sono di due tipi. 31
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Le prime consistono in resoconti nei quali un certo autore, per esempio il solito Aristotele, riporta con le proprie parole il pensiero di un suo predecessore; egli dice, per esempio, che Talete ritiene che la Terra poggi sull’acqua e che per questo rimanga a galla. Informazioni di questo tipo, nelle quali non vengono riportate le parole dell’autore presocratico ma ne viene riassunto il senso (una specie di parafrasi), vengono chiamate «testimonianze». … e i frammenti In altri casi, invece, il nostro informatore riporta una citazione letterale dell’opera dell’autore presocratico (che evidentemente ha davanti agli occhi); in questo caso egli cita direttamente una parte dello scritto e si comporta in modo simile a noi quando, per riportare le parole di qualcuno, le collochiamo tra virgolette. Le informazioni di questo secondo genere vengono chiamate «frammenti» e sono chiaramente distinte dalle testimonianze. È chiaro che i problemi sopra sollevati riguardano primariamente le testimonianze; ma anche i frammenti non ne sono immuni: basti pensare al fatto che spesso il frammento dell’autore presocratico in nostro possesso è di poche righe (talora anche di una sola riga) e questo rende molto difficile ricostruire il contesto originario nel quale era inserito. Il senso di questa lunga premessa consiste dunque nell’invito ad avvicinarsi ai presocratici con prudenza; senza però abbandonare la speranza di assaporare il senso di un pensiero misterioso e affascinante. Tutte le cautele sopra formulate non devono indurci a rinunciare a cogliere le linee essenziali di una riflessione ➥ Sommario, p. 61 che talora non manca di colpire la sensibilità dell’uomo contemporaneo.
Le opere perdute: frammenti e testimonianze Una gran quantità dei testi di interesse filosofico composti dall’età arcaica fino agli inizi dell’epoca imperiale sono andati perduti. Tuttavia i filologi (ossia gli studiosi che si occupano della ricostruzione e dell’interpretazione dei testi) sono in grado di ricostruire almeno in parte il contenuto di queste opere. A tale scopo essi si servono, come si è detto, di due tipi di documenti: 1) della tradizione indiretta, ossia di documenti in cui vengono riportati passi delle opere perdute (i frammenti). Si utilizzano per esempio le citazioni fatte da Platone, da Aristotele e, più tardi, da Plutarco (I-II secolo d.C.), Diogene Laerzio (III secolo d.C.) e altri. 2) della tradizione «dossografica», ossia dei resoconti
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delle dottrine forniti dagli autori successivi (testimonianze). La parola «dossografia» significa «scrittura (graphè) delle opinioni (dòxai)»; questo genere di pratica acquisì un’importanza rilevante all’interno della scuola aristotelica, soprattutto grazie a Teofrasto (IV secolo a.C.), il quale compose una raccolta in diciotto libri di Opinioni dei fisici (Physikòn dòxai). Dal momento che per Aristotele la discussione di ogni problema doveva essere preceduta dalla presentazione delle opinioni dei predecessori, egli stimolò i suoi allievi a comporre delle vere e proprie raccolte di queste opinioni. Dall’opera di Teofrasto, andata perduta, dipendono probabilmente le raccolte successive, composte tra la fine dell’epoca ellenistica e gli inizi dell’era cristiana; molto importante dovette essere lo scritto di un certo Aezio – I secolo a.C. – che aveva per titolo Placita philosophorum, ossia Opinioni dei filosofi.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
La scuola di Mileto e la cosiddetta physiologhìa
2 I testi
Talete da Aristotele, Sul cielo: 294a28, T1 Anassimandro Sulla natura: fr. 1, T2 Gli inizi nelle colonie greche dell’Asia Minore
Autonomia e scambi culturali
I fisiologi o fisici: studiosi della natura a tutto campo
La ricerca dei principi universali
Anassimene da Simplicio, Commento alla Fisica: 24,26, T3
Le prime tracce di un pensiero dotato di caratteri in qualche modo riconducibili alla dimensione della filosofia si trovano tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo all’estremo limite orientale del mare Mediterraneo, in Ionia, nell’Asia Minore (l’odierna Turchia). A Mileto, città situata sulle coste ioniche del Mediterraneo, si sviluppa una tradizione di pensiero abbastanza unitaria, anche se non deve trattarsi di una vera e propria scuola. Personaggi come Talete, Anassimandro e Anassimene entrano quasi certamente in contatto, sebbene è poco probabile che esistano tra loro rapporti di discepolato simili a quelli che si incontreranno nei secoli successivi. Ma perché gli inizi della filosofia (o di qualcosa che le assomiglia) si situano proprio in Ionia, in una regione colonizzata dai greci, e non nella madrepatria, ossia in Grecia? È probabile che un certo influsso sia stato esercitato dall’autonomia di queste città e dallo spirito genericamente democratico che vi si respira (vedi «Introduzione», p. 9 s.). Non bisogna tuttavia dimenticare che l’Asia Minore presenta una collocazione geografica particolarmente favorevole ai contatti con altre civiltà: l’egiziana, la fenicia, la mesopotamica. È dunque possibile che proprio in questa regione abbiano cominciato a circolare nuclei di sapere – per esempio la geometria (fiorente in Egitto) e l’astronomia (straordinariamente sviluppata presso i babilonesi) – destinati a venire ripresi e approfonditi dai greci. Aristotele, quando si riferisce ai pensatori ionici, non li chiama «filosofi», bensì «fisiologi» (physiòlogoi) o «fisici» (physikòi), ossia studiosi della natura (phy`sis). Questo perché i loro interessi sono essenzialmente incentrati intorno alla natura, intesa nel significato più ampio del termine. La parola «natura» comporta infatti un riferimento all’insieme dei processi di nascita, di generazione (il verbo phy`o, da cui deriva il sostantivo phy`sis, significa infatti «nascere, generarsi») e in generale di movimento delle cose. I fisiologi ionici sono dunque interessati a tutto ciò che accade nel mondo: ai movimenti degli astri e al cambiamento delle stagioni (sono astronomi e meteorologi), alla descrizione della configurazione delle terre (sono anche geografi), ai processi biologici che riguardano i viventi; ma anche ai principi della geometria e perfino alle modalità di associazione tra gli uomini (non mancano infatti interessanti spunti di carattere politico e sociale). In tutti questi campi essi si impegnano nel tentativo di reperire principi esplicativi universali, validi in campi diversi. Tentano spesso di operare generalizzazioni, per esempio da un fatto noto a uno ignoto: si tratta dell’applicazione di un ragionamento di tipo analogico, sul quale torneremo tra breve. 33
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1 Emblematica ampiezza di interessi
Talete, saggio tra i sapienti Talete esprime in forma emblematica l’estrema articolazione degli interessi dei fisiologi ionici; le sue conoscenze, prima ancora che filosofiche, appaiono di natura sapienziale (non a caso il suo nome compare nella lista dei Sette sapienti; vedi sotto). Ha interessi in campi molto svariati, spaziando dall’astronomia, alla meteorologia, alla geometria e alla biologia. In ciascuno di questi ambiti acquisisce conoscenze di notevole importanza. Sappiamo che stabilisce il principio secondo cui il diametro divide un cerchio in due parti uguali (anche se forse non fornisce di questo teorema una vera e propria dimostrazione); studia la natura dell’eclissi solare, stabilendone la causa nell’interposizione della Luna tra il Sole e la Terra. Ma sa anche, almeno se prestiamo fede a una famosa testimonianza di Aristotele, fare fruttare economicamente le sue conoscenze meteorologiche: infatti, avendo previsto un abbondante raccolto di olive, acquista tutti i frantoi della zona, che poi può affittare a prezzo estremamente vantaggioso.
La vita Talete (625-550 ca. a.C.) nacque nella colonia ionica di Mileto. Secondo la tradizione viaggiò in Egitto e in Mesopotamia, riportando in Grecia vaste conoscenze di astronomia e di geometria; gli vengono attribuiti vari teoremi e l’invenzione del metodo per misurare l’altezza delle piramidi sulla base della loro ombra, misurata nel momento del giorno in cui essa rispecchia l’altezza del corpo. Si occupò di meteorologia, di biologia e studiò i L’acqua, principio di tutte le cose
T1
Talete
da Aristotele, Sul cielo, 294a28
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fenomeni del magnetismo. Secondo Erodoto fu anche ingegnere militare e uomo politico, promuovendo una federazione delle città ioniche contro i persiani. Per queste sue molteplici scoperte fu definito da Diogene Laerzio «il più saggio dei Sette sapienti», ossia quegli individui semileggendari, vissuti fra il VII e il VI secolo a.C., ai quali erano attribuite sentenze che riassumono il pensiero morale greco delle origini. Non sappiamo se scrisse o meno delle opere.
Non c’è dubbio, comunque, che la sua concezione più nota è quella secondo la quale l’acqua è principio (archè) di tutte le cose. Si è già avuto modo di osservare quanto sia difficile stabilire il significato di una simile affermazione. È probabile che con essa Talete non voglia sostenere tanto che l’acqua è l’elemento da cui derivano tutte le cose, quanto che la vita si accompagna spesso alla presenza dell’elemento umido (e si tratta di un’osservazione alla quale noi stessi possiamo pervenire). La supremazia dell’acqua ha in Talete anche un’applicazione di carattere cosmologico nella concezione secondo la quale la Terra poggia sull’acqua. Si tratta di un caso tipico di applicazione della procedura dell’analogia, attraverso la quale si riferisce a un caso ignoto una spiegazione che funziona in un caso noto e osservabile (vedi «Introduzione», p. 12). Aristotele attribuisce infatti a Talete il seguente ragionamento: La Terra resterebbe al posto per via del suo stare a galla, come un legno o qualcosa del genere; infatti nessuna di queste cose ha la natura di restare per aria, bensì sull’acqua.
L’illimitato di Anassimandro Mentre Talete non scrive probabilmente nulla, il suo concittadino Anassimandro compone quasi certamente un libro, poi intitolato, secondo un uso destinato a im-
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
porsi nei secoli successivi, Sulla natura. Di esso possediamo un frammento, che restituisce dunque le prime parole del pensiero occidentale. Esse suonano misteriose e piene di fascino:
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Anassimandro Sulla natura, fr. 1
L’illimitato: origine e fine di tutto
Principio degli enti è l’illimitato […] e ciò da cui le cose hanno generazione, proprio lì si dissolvono, secondo la necessità. Esse infatti si rendono reciprocamente giustizia della loro ingiustizia secondo l’ordine del tempo. Non è davvero facile intuire il senso di questa strana affermazione che sembra parlare di una questione fisico-cosmologica (generazione e dissoluzione delle cose) con un linguaggio etico e giuridico (giustizia e ingiustizia). Il termine centrale è senz’altro àpeiron, che significa «privo di limite» (composto dal prefisso privativo a e pèras «limite»), ossia appunto «illimitato» e forse «infinito». Probabilmente Anassimandro intende sostenere che tutte le cose nascono da una sorta di magma originario, l’illimitato appunto, e in esso sono destinate a tornare, forse per rigenerarsi ancora. Egli poi sembra sostenere che nel momento stesso in cui nascono, e dunque si affermano nella loro individualità, le cose commettono una sorta di ingiustizia (forse a danno dell’illimitato, forse delle altre cose) e per questo pagano una pena, consistente nel ritorno all’illimitato originario.
La vita e le opere Anassimandro (610-540 ca. a.C.) nacque a Mileto ed ebbe probabilmente stretti contatti con il concittadino Talete. Fu attivo in politica e guidò la fondazione di una colonia. Si occupò di problemi naturali e a lui vengono attribuite la dottrina dell’origine del tutto dall’illimitato (àpeiron), la convinzione che la vita si sia originata dal Il principio di ragion sufficiente
3 Condensazione e rarefazione all’origine del mondo
T3
Anassimene
da Simplicio, Commento alla Fisica, 24,26
fango marino, la scoperta dell’inclinazione dello zodiaco, un modello geometrico dell’universo in cui la Terra è di forma cilindrica e occupa il centro di vari cerchi dove si trovano il Sole, la Luna e le stelle. Disegna la prima carta geografica del mondo conosciuto e introduce in Grecia l’orologio solare, o gnomone. Scrive un’opera in prosa più tardi intitolata Sulla natura.
Sappiamo poi che anche Anassimandro si interessa di cosmologia e astronomia. Sembra che a lui si debba l’utilizzo, forse per la prima volta, del principio di ragion sufficiente, quando sostiene che la Terra resta al suo posto in virtù della posizione centrale nella quale si trova; essendo esattamente al centro dell’universo, non esistono ragioni per cui essa dovrebbe spostarsi in una direzione piuttosto che in un’altra.
Anassimene: l’aria origine del tutto Il terzo rappresentante della cosiddetta scuola di Mileto è Anassimene, attivo nella seconda metà del VI secolo a.C. Se Talete vede nell’acqua l’elemento da cui si origina la vita, Anassimene osserva che i processi naturali risultano meglio comprensibili ipotizzando la centralità dell’aria. Il ragionamento che dovrebbe supportare questa concezione sembra sintomatico del modo di procedere dei fisiologi di Mileto: secondo Anassimene gli elementi fisici si producono a causa di processi di condensazione e rarefazione dell’aria, la quale costituisce dunque una sorta di sostrato originario. Nella prima testimonianza a lui relativa leggiamo infatti: L’aria rarefacendosi diviene fuoco, condensandosi vento, e poi nube, e, se si condensa ancora di più, acqua, poi terra, e poi pietre, e da queste altre cose ancora. 35
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➥ Sommario, p. 61
Come si vede, siamo di nuovo di fronte a una procedura analogica, che tende a universalizzare un nesso esplicativo in qualche modo osservabile a livello microcosmico. La physiologhìa ionica rappresenta il primo serio tentativo di stabilire cause naturali (l’acqua, l’aria, l’illimitato) per i fenomeni, annullando o riducendo di molto il ruolo delle divinità tradizionali, alle quali Omero ed Esiodo avevano assegnato il primato nella determinazione degli accadimenti dell’universo.
La vita e le opere Anassimene (586-528 ca. a.C.) nacque a Mileto ed ebbe molto probabilmente occasione di ascoltare Anassimandro. Si occupò prevalentemente di meteorologia e astronomia. Individuò come principio unico dell’universo l’a-
La scuola di Mileto
Contesto storico-culturale
ria, che dà origine a tutto attraverso i processi di rarefazione e di condensazione: in questo modo le differenze qualitative tra i fenomeni sono riportate a differenze di tipo quantitativo. Scrisse un’opera in prosa più tardi intitolata Sulla natura.
Città autonome e libere
Contatti con altre civiltà
Fisiologi con interessi naturalistici molto ampi: astronomia, biologia, fisica, meteorologia
La scuola di Mileto
Identificazione di un principio originario, l’archè. Ragionamento fondato sull’analogia a partire da fatti e fenomeni conosciuti e osservati
I fisiologi ionici
Talete Elemento umido: l’acqua. Processi di generazione e dissoluzione
Anassimandro Magma originario illimitato, l’àpeiron. Processi di generazione e dissoluzione
Anassimene Elemento aria. Processi di rarefazione e condensazione
Eraclito l’oscuro
3 I testi
Eraclito Sulla natura: fr. 34, T4; fr. 29, T5; fr. 89, T6; fr. 51, T7; fr. 88, T8; fr. 53, T9; fr. 50, T10; fr. 1, T11; fr. 67, T12 Un pensatore misterioso e aristocratico
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Sulle coste dell’Asia Minore, a Efeso, non lontano da Mileto, vive e opera una delle figure più affascinanti e misteriose della filosofia antica: Eraclito. Misterioso Eraclito deve apparire anche agli antichi, visto che si merita l’appellativo di «oscuro»: un epigramma contenuto nell’Antologia Palatina (la principale raccolta di epigrammi dell’antichità) invita a «non volgere troppo in fretta i fogli di Eraclito di Efeso, sono tenebre oscure come la notte; ma se ti guida un iniziato,
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la luce è più chiara di quella del sole». In queste poche parole è contenuto il senso del messaggio di Eraclito: esso deve apparire oscuro ai molti, i quali vivono nell’ignoranza delle loro opinioni private, ma, se correttamente inteso, è in grado di disvelare verità profonde e inaccessibili alla moltitudine, verità capaci di trasformare l’esistenza degli uomini.
La vita e le opere Eraclito (540-470 ca. a.C.) nacque a Efeso, colonia ateniese nella Ionia, da una famiglia aristocratica che si diceva discendesse da antichi re. Al primogenito erano per questo attribuiti privilegi sacerdotali e civili cui Eraclito rinunciò in favore del fratello minore. Ferocemente antidemocratico, rifiutò di partecipare alla stesuIl solo sapiente e i molti stolti ➥ Laboratorio di lettura, p. 64
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Eraclito
Sulla natura, fr. 34
ra della nuova costituzione; secondo una tradizione, è per i suoi rapporti politici con il re Dario che la sua città non aderì alla rivolta delle città greche contro i persiani del 499 a.C. Scrisse un libro di sentenze oracolari in prosa – cui venne attribuito il titolo Sulla natura – che lasciò come dono votivo nel tempio di Artemide Efesia.
L’opposizione tra l’unico sapiente (sveglio e saggio) e la molteplicità degli stolti (dormienti e ignoranti), che è destinata ad attraversare in varia forma la riflessione dei presocratici (la ritroveremo in Parmenide, Empedocle, ma anche nel pitagorismo), conosce con Eraclito la sua più radicale formulazione. Nel frammento 34 leggiamo a proposito dei molti, ossia della maggioranza degli uomini: Ascoltando privi di intelligenza assomigliano ai sordi; a loro si riferisce il detto «pur presenti, sono assenti». Un’altra sentenza recita impietosa:
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Eraclito
Sulla natura, fr. 29
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Gli aforismi e il principio
Lo stesso genere letterario scelto da Eraclito per comunicare le verità profonde alle quali è pervenuto esprime in modo emblematico il carattere generale del suo pensiero: questo scritto, infatti, al quale viene assegnato successivamente il consueto titolo Sulla natura, è costituito per lo più da brevi ed enigmatiche sentenze, veri e propri aforismi, che hanno lo scopo di celare alla moltitudine il loro significato recondito. Secondo Eraclito gli uomini si ostinano a muoversi all’interno di orizzonti privati e individuali; essi non sono in grado di comprendere la legge profonda del reale, che rappresenta una sorta di principio universale al quale tutto l’essere si adegua. Recita Eraclito nel frammento 89:
Eraclito
Per coloro che sono svegli il cosmo è comune e unico, ma quando dormono ciascuno si rivolge a ciò che gli è proprio.
Sulla natura, fr. 89
L’armonia degli opposti
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Preferiscono i migliori un’unica cosa a tutte le altre, fama perenne su tutte le cose mortali; la maggioranza pensa invece a saziarsi come bestie.
Eraclito
Sulla natura, fr. 51
Gli uomini «dormienti» credono che il significato delle cose risieda nella loro individualità e che esso possa dunque venire compreso se tali cose vengono considerate individualmente, ossia separando le une dalle altre. Nulla di più ingenuo e falso, secondo Eraclito: Non comprendono come pur differendo, in realtà concordi. Armonia di entrambe le parti, come quella dell’arco e della lira. 37
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Così recita un po’ misteriosamente il frammento 51. Eraclito vuole dire che le cose che gli uomini ritengono opposte e inconciliabili – come la salute e la malattia, la vita e la morte – non sono che due aspetti di una medesima cosa, anche in considerazione del fatto che l’una non può esistere senza l’altra. In uno degli aforismi più celebri leggiamo:
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Eraclito
Sulla natura, fr. 88
Tutto scorre: permanenza del mutamento
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Eraclito
Sulla natura, fr. 53
Il lògos: legge cosmica universale
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Eraclito
Sulla natura, fr. 50
La medesima cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando sono quelli, e quelli di nuovo mutando divengono questi. Quest’ultima affermazione ci mette di fronte a un altro motivo centrale della riflessione di Eraclito: l’idea che le cose siano interessate da un processo incessante di divenire, in cui l’unico elemento di permanenza, ossia di stabilità, è costituito proprio dal mutamento. Eraclito ritiene che la guerra (pòlemos) rappresenti in un certo senso l’essenza stessa delle cose: nel conflitto si scontrano e si armonizzano gli opposti in un processo di perpetuo divenire, espresso dalla formula pànta rèi, ossia «tutto scorre». La natura in qualche modo fondante della guerra o conflitto viene enunciata nel frammento 53: Conflitto è padre di tutte le cose, di tutte è re: alcuni dimostrò essere dèi altri uomini, alcuni fece schiavi e altri liberi. La parola centrale della riflessione di Eraclito è però un’altra. Si tratta della parola lògos, che possiede in lui (come in generale nella lingua greca) una pluralità di significati. Il lògos di Eraclito è la legge cosmica universale, ossia l’identità e la co-implicazione degli opposti; è il pensiero razionale in grado di cogliere questa legge; ma è anche il discorso sapienziale che la enuncia: Prestando attenzione non a me, ma al lògos, è saggio convenire che tutte le cose sono uno, afferma il pensatore di Efeso nella sentenza 50. Del resto, il suo scritto si apre con una dichiarazione di fede nella profonda verità del lògos, che è anche un’ammissione delle difficoltà che gli uomini hanno di comprenderlo:
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Eraclito
Sulla natura, fr. 1
Il lògos come fuoco
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Di questo lògos [legge, discorso], che è vero, mai possiedono gli uomini intelligenza, né prima di udirlo né subito dopo averlo udito; per quanto ogni cosa infatti accada secondo questo lògos, sembra non ne abbiano avuto esperienza. Il lògos rappresenta dunque il principio universale della realtà, la legge cosmica che regola gli accadimenti e che consente di pensare alla pluralità delle cose e degli accadimenti come la manifestazione di un’unica realtà. Secondo Eraclito questo lògos possiede anche una sorta di espressione fisica, che è costituita dal fuoco. Quest’ultimo rappresenta l’elemento visibile che esprime in modo emblematico il carattere intrinsecamente contraddittorio della realtà: per vivere, ossia per essere, il fuoco deve bruciare, cioè annullare, qualcosa; in lui vita e morte coincidono. Questo lògos-fuoco viene poi identificato con la divinità, anticipando una concezione destinata ad affermarsi in modo organico nello stoicismo (vedi Unità 6).
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Sulla natura, fr. 67
Il dio è giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame: muta come il fuoco quando si unisce agli odori, e prende il nome dal sapore di ognuno di essi.
➥ Sommario, p. 61
È indubbio che il pensiero di Eraclito presenti tratti oracolari, che lo rendono in molti punti quasi incomprensibile. Esso esercita tuttavia un’influenza significativa sulla filosofia antica; il grande Platone, il quale entra in contatto con un eracliteo del suo tempo (un certo Cratilo), non manca di restarne affascinato; gli stoici, poi, costruiscono il loro complesso sistema fisico proprio sulla base dei concetti fondamentali di Eraclito, e in particolare sull’identità tra la ragione universale e il fuoco cosmico.
Eraclito
Il lògos di Eraclito
Continuo divenire come elemento di stabilità: «tutto scorre»
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Unità degli opposti che si svela ai sapienti attraverso il lògos
Lògos come legge cosmica
Espressione fisica del lògos attraverso il fuoco, elemento mutevole e in perenne movimento
L’anima e il numero: Pitagora e il pitagorismo Sul versante opposto del Mediterraneo, dunque in Occidente, nella Magna Grecia (l’odierna Italia meridionale), vive e opera tra la Calabria e la Puglia Pitagora, il quale è però anch’egli nato in Oriente, e precisamente nell’isola di Samo.
La vita e le opere Pitagora (570-490 ca. a.C.) nacque a Samo, un’isola greca vicino alla costa della Ionia. Abbandonò la sua città per motivi politici trasferendosi a Crotone, colonia greca posta sul versante ionico dell’attuale Calabria, dove fondò una scuola filosofica che avrebbe avuto una vasta influenza politica, giungendo a governare Crotone e altre città della Magna Grecia. Nelle numerose Vite di Pitagora che sono giunte fino a noi è difficile distinguere fra notizie storiche ed elementi mitici e leggendari: non sapIl maestro di verità e la cerchia pitagorica
piamo, per esempio, se è vero che abbia viaggiato in Egitto e in Oriente. Secondo una tradizione, una rivolta democratica abbatté a Crotone il governo dei pitagorici, considerati una setta di tendenze aristocratiche, e il maestro fuggì a Metaponto, colonia del golfo di Taranto, dove si sarebbe lasciato morire di fame nel tempio delle Muse. Non lasciò scritti. Gli sono stati attribuiti I tre libri: educazione, politica, fisica e i Versi aurei, ma probabilmente entrambi sono falsificazioni composte all’inizio dell’era cristiana.
Pressappoco contemporaneo di Eraclito, Pitagora presenta più di un elemento in comune con il pensatore di Efeso e poi con Parmenide, anch’egli attivo nella Magna Grecia, in Campania. Questi tre filosofi incarnano in modo emblematico la figura del maestro di verità (vedi «Introduzione», p. 14). Essi si dichiarano in possesso di un sapere eccezionale, precluso agli uomini comuni; un sapere che, se acquisito, consentirebbe di condurre una vita, sia privata che pubblica (ossia 39
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Parte prima L’età antica
politica), virtuosa e quasi divina. In misura maggiore che in Eraclito e Parmenide, il messaggio di Pitagora assume i connotati di una vera e propria rivelazione divina, tanto che la cerchia pitagorica si profila quasi subito come una setta religiosa, oltre che come un gruppo politico. Del resto, se la tesi secondo la quale le filosofie antiche (soprattutto quelle dei primissimi secoli) si prefiggono l’obiettivo di trasmettere un modello di vita più che delle dottrine è vera in generale (vedi «Introduzione», p. 13 s.), essa è ancora più vera nel caso del pitagorismo, il quale si configura fin da subito come un bìos, ossia come un modello di vita. La vocazione politica Sappiamo con certezza che i pitagorici tentano a più riprese – talora anche con successo – di prendere il potere e applicare nelle città dove si trovano i dettami filosofico-religiosi della loro setta, spesso alleandosi con i settori più aristocratici e conservatori delle stesse città. Per questo subiscono anche significativi rovesci, vengono cacciati (per esempio da Crotone) e in alcuni casi addirittura massacrati. La loro vocazione politica è ereditata da Platone, il quale, con la sua Accademia, si propone un compito di rifondazione intellettuale, politica e religiosa non dissimile da quello perseguito dai pitagorici (vedi Unità 3). Pitagora fra storia Su Pitagora molto si è scritto a cominciare dall’antichità. Si tratta certamente di e leggenda una figura che sconfina nel mito e nella leggenda, anche se la sua esistenza storica non viene più revocata in dubbio. L’autorità e il prestigio di cui fu circondato risultarono tali che per secoli i pitagorici attribuirono a lui tutte le loro dottrine, rendendo in questo modo a noi quasi impossibile stabilire con precisione quali fossero effettivamente le concezioni formulate da Pitagora (il quale, tra l’altro, non compose alcuna opera scritta). Sembra comunque di poter dire che già in Pitagora siano presenti i due motivi centrali del pensiero pitagorico successivo, vale a dire: 1) una concezione, più o meno definita, dell’anima come entità diversa e separata, ossia indipendente, dal corpo; 2) un certo interesse per il numero, alla cui natura venivano ricondotti molteplici fenomeni fisici.
1
L’immortalità dell’anima e il ciclo delle reincarnazioni
Esaminiamo questi due motivi separatamente. Sembra certo che a Pitagora si debba l’introduzione nella cultura greca di alcune credenze di origine orientale (probabilmente egiziana o addirittura indiana) concernenti l’immortalità dell’anima. In realtà anche la religione orfica (quella cioè fondata dal leggendario poeta tracio Orfeo nel VI secolo a.C.) gioca un ruolo significativo nella diffusione di queste credenze relative alla natura dell’anima, ma è indubbio che solo all’interno del pitagorismo esse sono oggetto di una riflessione veramente approfondita. Trasmigrazione Dunque i pitagorici (e prima di loro i seguaci di Orfeo) credono che l’anima sia dell’anima un’entità diversa dal corpo e indipendente da quest’ultimo. Una volta cessata la vita di un corpo, l’anima si incarnerebbe in un altro, dando così luogo a un processo di vera e propria trasmigrazione. Si tratta della concezione della metempsicosi («passaggio delle anime»), da altri chiamata anche metemsomatosi («passaggio nei corpi», ossia trasmigrazione delle anime in corpi sempre diversi).
Influenze esterne e pitagorismo
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Lo storico Erodoto (V secolo a.C.) scrive (Storie, 2,123): Gli Egizi furono i primi a fare questo discorso secondo cui l’anima è immortale e con il venire meno del corpo essa penetra in un altro essere vivente via via che nasce, e dopo che li abbia girati tutti, terrestri, marini e volatili, di nuovo penetrerebbe nel corpo nascente di un uomo e il giro completo avverrebbe in 3000 anni. […] Convengono con questa dottrina Orfici, seguaci di Bacco e pitagorici. Immortalità dell’anima
Trasmigrazione e purificazione
Pitagora mago e sciamano
2 La scuola pitagorica: l’esempio di Filolao
All’interno di un simile quadro, l’anima viene concepita come un’entità immortale, destinata dunque a sopravvivere al corpo nel quale si trova di volta in volta a essere incarnata. Secondo Pitagora l’elemento veramente proprio dell’individuo non è dunque il suo corpo, bensì la sua anima. All’anima, di conseguenza, e non al corpo si rivolge il messaggio sapienziale dei pitagorici. Secondo Pitagora, poi, i corpi nei quali l’anima si può trovare non sono solamente quelli degli uomini, ma anche quelli di altri esseri viventi, per esempio degli animali. Si spiega in questo modo il divieto, formulato nell’ambito delle prescrizioni morali e religiose della setta, di cibarsi di carne, dal momento che nell’animale ucciso potrebbe esserci stata l’anima che era stata precedentemente di un uomo e che in un uomo si sarebbe potuta incarnare in una successiva fase. In verità, basterebbe prestare attenzione all’insieme delle prescrizioni pitagoriche, per rendersi conto che l’intero modo di vita della setta è finalizzato al conseguimento di una vera e propria purificazione dalle istanze della corporeità (non manca neppure l’invito all’astinenza sessuale). I discepoli di Pitagora vedevano nel maestro una sorta di sciamano, un individuo dotato di capacità e poteri eccezionali (si narrava, per esempio, che fosse in grado, conosciuto un individuo, di elencarne le precedenti venti incarnazioni). Era in possesso di qualità divinatorie, era cioè capace di predire il futuro. La sua autorevolezza risultava tale che gli adepti della setta ne parlavano senza in realtà nominarlo, ma indicandolo con espressioni quali «colui», «il divino» ecc.; il motto «lo ha detto lui» (in latino ipse dixit) si riferisce proprio a Pitagora.
Le dottrine matematiche Se l’attribuzione a Pitagora di una concezione dell’immortalità dell’anima, della sua alterità rispetto al corpo e in generale della trasmigrazione, sembra abbastanza sicura, più complessa si presenta la questione per quanto concerne le dottrine numeriche. In realtà molte delle concezioni matematico-scientifiche attribuite dalla tradizione a Pitagora sorsero all’interno della sua scuola in un’epoca successiva, soprattutto grazie all’opera di Filolao di Crotone. Ma un certo interesse per i numeri e per le loro qualità dovette quasi certamente caratterizzare anche il primo pitagorismo, e forse l’insegnamento dello stesso Pitagora.
La vita Filolao (470-390 ca. a.C.) nacque a Crotone e, secondo una tradizione, lasciò la città dopo la rivolta antipitagorica, trasferendosi a Tebe per poi ritornare in Italia. Tra i suoi discepoli è indicato il tarantino Archita. Oltre alla
dottrina dei numeri egli avrebbe sostenuto una teoria astronomica secondo la quale al centro dell’universo c’è un Fuoco attorno al quale ruotano la Terra e gli altri pianeti, all’esterno dei quali c’è un’orbita di Fuoco esterno composto dalle stelle.
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Occorre tenere presente che quando si parla di numeri a proposito dei pitagorici non si deve pensare a entità astratte e separate dalla realtà fisica; i numeri dei pitagorici sono quasi certamente entità concrete, che vengono rappresentate attraverso dei sassolini (con i quali risultano in qualche modo equivalenti). L’aritmetica pitagorica prende per questo la denominazione di psephìzoria, ossia «studio dei sassi» (psèphos in greco significa appunto «sassolino»). La natura concreta – si direbbe fisica – dei numeri trova espressione proprio nel fatto che ogni numero viene rappresentato visivamente per mezzo di questi sassolini e possiede una precisa forma geometrica (che il 9 sia un quadrato viene, per esempio, espresso per mezzo della sua raffigurazione tramite 9 sassolini disposti nella forma di un quadrato). Numeri, musica, In un secondo tempo si fa strada l’idea che la realtà sia costituita di numeri e raparmonia porti numerici. A questa convinzione i pitagorici pervengono anche grazie a una serie di osservazioni relative ad alcuni fenomeni fisici. Si rendono conto, per esempio, che i principali accordi musicali (noi diremo le principali note) sono prodotte da precisi rapporti numerici tra le corde degli strumenti (la quarta = 4/3, la quinta = 3/2 e l’ottava = 2/1); concludono dunque che i numeri stanno alla base dei fenomeni musicali, ossia delle armonie. In un secondo tempo, proprio con Filolao, arrivano addirittura ad attribuire ai moti celesti, cioè ai movimenti degli astri, un carattere armonico, sostenendo però che si tratta di un’armonia che produce un suono che le orecchie umane non sono in grado di udire. La tetrade L’importanza del numero, e in particolare dei numeri sui quali si fondano i principali accordi musicali, vale a dire 1, 2, 3, 4, induce i pitagorici ad attribuire una particolare importanza alla figura che rappresenta questi numeri (la cui somma, tra l’altro, è uguale a 10, altro numero significativo). Sembra addirittura che i pitagorici giurassero fedeltà alla setta proprio in nome della tetrade (tetrakty`s), ossia il gruppo dei primi quattro numeri, che essi rappresentano in questo modo:
Numeri e geometria
● ● ● ● ● ● ● ● ● ●
Secondo i pitagorici in questa figura (e nei numeri che essa rappresenta) era contenuta, o compressa, l’intera realtà: in effetti la sequenza 1-2-3-4 riproduce la successione punto (1: l’unità puntuale), linea (2: perché la linea è delimitata da due punti), figura (3: perché la figura geometrica minima, il triangolo, è circoscritto in tre punti) e solido (4: la piramide, il solido minimo, necessita di quattro punti). Le scoperte L’interesse dei pitagorici per la matematica è del resto ampiamente confermato matematiche dal fatto che a questa scuola si è soliti fare risalire la formulazione del celebre teorema di Pitagora (difficilmente dovuta allo stesso fondatore), e la scoperta delle grandezze incommensurabili (come la diagonale rispetto al lato del quadrato) e dei numeri irrazionali (come √2). Sembra che queste due ultime scoperte avessero provocato drammatici problemi teorici all’interno della setta, tanto che ne fu vietata la diffusione (la leggenda vuole che un adepto, tale Ippaso, il quale aveva infranto il divieto, morisse annegato in mare). È probabile che entrambe queste scoperte, con il riconoscimento di numeri non riconducibili all’unità e di grandezze tra loro non comparabili, mettessero in qualche modo in pericolo l’e42
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dificio teorico complessivo dei pitagorici, secondo i quali la realtà è numero e quest’ultimo presenta una natura perfettamente intelligibile. Numeri limitati L’importanza assegnata ai numeri induce i pitagorici, almeno quelli delle genee illimitati razioni successive, a vedere nei principi dei numeri i principi di tutte le cose. Essi dividono i numeri in due classi, quelli limitati e quelli illimitati; limitati risultano essere i numeri dispari (perché nella rappresentazione fisica operata con i sassolini essi ammettono un limite), illimitati quelli pari (per la ragione opposta). Ecco come sono rappresentati i numeri 4 (illimitato) e 5 (limitato): ●● ●●
(illimitato)
●● ● (limitato) ●●
In questo contesto, dunque, il limite (pèras) e l’illimitato (àpeiron) vengono considerati, almeno a partire da Filolao, come principi di tutte le cose (una simile dottrina, approfondita e modificata, sarà ripresa da Platone nelle sue ultime opere e nelle dottrine non scritte: vedi Unità 3, p. 147). Una setta elitaria Il carattere elitario della setta pitagorica viene, infine, confermato dalle numerose notizie che narrano di una distinzione che vi era in vigore. Si tratta della separazione tra acusmatici, o uditori (àkousma, «ascolto»), e matematici, o esperti nelle conoscenze (màthema significa «conoscenza»). I primi sono semplici ascoltatori, i quali limitano la loro adesione alla setta all’ascolto e all’osservanza dei precetti morali fondamentali formulati da Pitagora; i secondi, invece, costituiscono un gruppo di studio avanzato, dedito probabilmente allo sviluppo delle dottrine scientifiche (matematiche, astronomiche, musicali) più complesse. L’eredità secolare L’influenza del pitagorismo sulla storia del pensiero antico è stata enorme e straordinariamente duratura (troviamo importanti scuole pitagoriche anche dopo il III secolo d.C.). L’eccezionale prestigio della figura di Pitagora (mago, sciamano, ma forse anche filosofo-scienziato) rappresenterà per quasi un millennio l’au➥ Sommario, p. 61 tentico collante di tutta la tradizione pitagorica successiva.
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L’essere e la verità: Parmenide e l’eleatismo
5 I testi
Senofane Silli: fr. 11, T13; fr. 15, T14 Sulla natura: fr. 23, T15
Parmenide Sulla natura: fr. 1, Il proemio, T16; fr. 3, T17; fr. 8, T18 Melisso Sulla natura o sull’essere: fr. 1a, T19
Nello stesso periodo in cui Pitagora e i pitagorici operano, prima in Calabria e poi in Sicilia, a Elea (l’odierna Ascea), in Campania, si forma una scuola, quella eleatica, destinata ad avere un limitato successo istituzionale, ma una straordinaria influenza filosofica su tutto il pensiero occidentale.
1 Le radici dell’eleatismo
Senofane: fiducia nella ragione e critica alla religione Il fondatore della scuola eleatica è Parmenide (il quale è anche legislatore della sua città), ma, secondo Platone, già con Senofane di Colofone sono individuabili motivi tipici di quella che lui definì la «stirpe eleatica».
La vita e le opere Senofane (570-460 ca. a.C.) nacque a Colofone, nella Ionia, ma abbandonò la sua città dopo la conquista persiana e viaggiò a lungo, stabilendosi infine a Elea.
Le sue opere, di cui ci sono giunti circa quaranta frammenti, comprendono poesie di vario genere (elegiache, conviviali, satiriche) e due poemi epici, La fondazione di Colofone e La fondazione della colonia di Elea.
La ragione principale per la quale Senofane può venire considerato un antesignano dell’eleatismo risiede nella fiducia da lui riposta nelle capacità della ragione e nella radicale critica alla tradizione. In particolare Senofane si scaglia con forza e ironia contro l’antropomorfismo della religione greca tradizionale (quella di Omero ed Esiodo). Ai suoi occhi l’abitudine di rappresentare gli dèi come se fossero uomini, sia pure immortali – e dunque in possesso degli stessi difetti di questi ultimi – costituisce il retaggio di una mentalità arcaica che la ragione si deve incaricare di smascherare. In una delle sue opere Senofane afferma:
T13
Senofane Silli, fr. 11
Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e biasimo: rubare, commettere adulterio, ingannarsi reciprocamente. Ancora più ridicola è però ai suoi occhi l’abitudine di rappresentare gli dèi con sembianze umane:
T14
Senofane Silli, fr. 15
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Se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e potessero con queste disegnare […] i cavalli disegnerebbero figure di dèi simili a cavalli, e i buoi simili a buoi […]
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Nei pochi frammenti rimastici di Senofane sembra contenuta anche una prudente professione di scetticismo, o almeno un coraggioso riconoscimento dei limiti conoscitivi dell’uomo. Nel frammento 23 si legge infatti:
T15
Senofane
Sulla natura, fr. 23
Il certo nessuno mai lo ha colto, né ci sarà qualcuno che lo colga, sia relativamente agli dèi sia relativamente a tutte le cose di cui parlo. Egli sembra dunque ammettere che la conoscenza certa e assoluta risulta in qualche modo preclusa all’uomo, in assenza di una rivelazione divina. Proprio quella rivelazione divina che Parmenide dichiara di avere avuto.
2
Parmenide: la verità contro l’opinione
Parmenide è un pensatore straordinario per profondità e influenza. È anche il primo autore presocratico al quale sia Platone che Aristotele sembrano riconoscere la caratura del filosofo vero e proprio. L’atteggiamento che i due grandi maestri del pensiero antico hanno verso Parmenide è duplice: da un lato, essi rimangono colpiti dalla radicalità e dalla profondità delle sue riflessioni; ma dall’altro, non mancano di metterne in luce gli eccessi teorici, quasi che alla sua straordinaria profondità teorica non corrispondesse un’uguale capacità di gestire con moderazione questo acume (Platone definisce Parmenide «venerando e insieme terribile»). Il richiamo Parmenide consegna il proprio pensiero a un poema (dal solito titolo Sulla natualla tradizione ra), scritto in esametri omerici e di cui ci restano diciannove frammenti (alcuni sapienziale dei quali abbastanza estesi). Nella scelta di scrivere in poesia e in particolare nell’utilizzo dell’esametro omerico si cela probabilmente l’intento di presentare una concezione che vuole riallacciarsi a forme di comunicazione sapienziale e arcaica: in questo senso, anche Parmenide – esattamente come Eraclito e Pitagora, e dopo di lui Empedocle – intende presentarsi come un maestro di verità.
Un pensatore «venerando e terribile»
La vita e le opere Parmenide (515-445 a.C.; secondo Apollodoro, meno attendibile, la nascita risalirebbe intorno al 540) nacque a Elea (l’attuale Ascea) in Magna Grecia da una famiglia aristocratica. Di lui sappiamo solo che svolse l’attività di
legislatore nella propria città, acquisendo un discreto prestigio, e che forse si recò ad Atene, ormai anziano, accompagnato dal discepolo Zenone (450 ca.). Del suo poema Sulla natura restano diciannove frammenti per un totale di 154 versi.
La rivelazione della dea L’atmosfera sapienziale e volutamente arcaicizzante del poema è rafforzata dal fatto che a parlare al poeta, ossia a Parmenide, è una dea, che gli comunica una rivelazione profonda, alla quale gli uomini comuni non hanno accesso. Dice dunque la dea:
T16
Parmenide
Sulla natura, fr. 1, Il proemio
Verità e opinioni
Bisogna che tu tutto sappia, sia della verità ben rotonda il sapere incrollabile, sia le opinioni dei mortali, prive di vera certezza. Fin dall’apertura del poema, dunque, Parmenide segnala la struttura generale del suo pensiero e della sua opera: da una parte si colloca la «verità ben roton45
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da» (ossia perfettamente coerente), conosciuta dal filosofo, dall’altra, le opinioni degli uomini (alle quali bisogna pure prestare attenzione, ma non allo scopo di accettarle, bensì per comprenderle ed eventualmente per renderle almeno plausibili, ossia sensate, visto che non potranno mai risultare vere). Le parole della dea assumono poi un andamento davvero misterioso, anche se dietro di esse si intuisce la grandezza di un pensiero che tenta di conciliare la logica (l’argomentazione stringente), l’ontologia (la teoria dell’essere) e l’epistemologia (la dottrina della conoscenza). Afferma dunque la dea:
T17
Parmenide
Sulla natura, fr. 3
Ecco ora che dico, e tu fa’ tesoro del detto, quali sono le sole due vie di ricerca pensabili: l’una che è e che è impossibile che non sia, è la strada della persuasione poiché si accompagna alla verità, l’altra che non è e che è necessario che non sia, che ti dichiaro sentiero del tutto estraneo al sapere; mai potresti conoscere ciò che non è, né potresti parlarne, è cosa impossibile.
Le due vie: l’essere e il non essere L’intero discorso di Parmenide è costruito a partire da questa disgiunzione primaria e fondamentale: da una parte la via dell’essere – che dice l’essere e che va percorsa fino in fondo –, dall’altra quella del non essere, che va rifiutata come impossibile, appunto perché non è possibile né conoscere né nominare il non essere. Dire e pensare il non essere comporta, da una parte, la perdita di ogni riferimento (dire e pensare il nulla), dall’altra, il naufragio nella contraddizione (dire di una cosa che non è, significa attribuire ad essa contemporaneamente l’essere, in quanto ‘è’ una cosa, e il non essere, in quanto ‘non è’). La difficoltà Che cosa significa tutto ciò? È davvero difficile, forse addirittura impossibile, dell’interpretazione stabilirlo con esattezza. Parmenide si esprime in un linguaggio fortemente conciso; ogni parola può venire intesa in modi differenti, e lo fu effettivamente già a partire da Platone e Aristotele. La ragione della difficoltà che i frammenti di Parmenide comportano risiede anche nel fatto, sopra segnalato, che in lui l’aspetto logico, quello ontologico e quello epistemologico risultano strettamente connessi, mentre noi siamo portati a distinguerli. Le affermazioni contenute nel frammento sopra riportato devono la loro difficoltà anche all’assenza dell’indicazione del soggetto al quale si riferiscono. Per fortuna, in un frammento successivo, l’ottavo, Parmenide indica esplicitamente il soggetto del suo discorso: si tratta dell’ente o essere (to eòn). Qui la dea, dopo avere ancora una volta messo in guardia il suo ascoltatore dal pensare e dal dire il non essere, afferma: L’impossibilità del non essere
T18
Parmenide
Sulla natura, fr. 8
46
[…] resta soltanto una via, ossia che è. Su questa ci sono numerosi segnali: che l’essere è ingenerato e senza morte, tutto intero, di un unico genere, immobile e non è mai stato incompiuto o lo sarà, perché è tutto insieme ora, uno, continuo. Quale nascita, infatti, cercherai di esso? Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non essere non ti concedo né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare che non è. Quale necessità lo avrebbe mai costretto a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla? Perciò è necessario che sia per intero o che non sia per nulla. […] Per questa ragione né il nascere né il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo dalle catene, ma saldamente lo tiene. La decisione intorno a tali cose sta in questo: o è o non è. Si è quindi deciso come necessario che una via si deve lasciare […]
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
E come l’essere potrebbe esistere nel futuro? Come potrebbe essere nato? Infatti, se nacque, non è; e neppure esso è, se mai dovrà essere in futuro. […] E neppure è divisibile, perché tutto intero è simile a sé; né esiste da qualche parte un di più che possa impedirgli di essere unito, né c’è un di meno, ma tutto intero è pieno di essere. Perciò è tutto intero, continuo: l’essere infatti si stringe con l’essere. […] E rimanendo identico nell’identico, in sé medesimo giace, e in questo modo rimane saldo.
L’essere L’interpretazione cosmologica dell’essere
L’identità dell’essere con se stesso
Il divieto di dire e pensare il non essere
Dunque il discorso di Parmenide verte sull’essere. Ma che cosa rappresenta questo essere? E che cosa significa che esso è, e poi che è ingenerato, eterno, intero, di un unico genere, immobile? Anche qui le interpretazioni divergono. L’essere di cui parla Parmenide potrebbe indicare il cosmo, ossia l’universo; e il significato delle affermazioni ad esso relative potrebbe consistere nel fatto che l’universo, al di là di tutte le sue apparenti molteplici articolazioni (le cose che lo occupano), è in realtà unitario, immobile, ingenerato. Questa, più o meno, fu l’interpretazione che diede alle parole di Parmenide Melisso, l’ultimo grande rappresentante dell’eleatismo (vedi p. 49). Ma Parmenide potrebbe anche voler sostenere che ogni cosa, per essere veramente una cosa, deve risultare unitaria, identica a se stessa, perfettamente immobile, ossia del tutto inalterabile. Solo così essa potrà anche risultare perfettamente conoscibile, perché solo ciò che è (vale a dire che è ingenerato, immobile, di un unico genere, cioè dotato di un’unica caratteristica) può essere conoscibile e nominabile. Se si negassero le caratteristiche dell’essere – cioè quelle qualità che Parmenide chiama i segnali, gli indicatori (sèmata) – entrerebbe inevitabilmente in scena il non essere. Infatti, se fosse generato, l’essere dovrebbe, prima di generarsi, risultare non essere; allo stesso modo, se non fosse di un unico genere (cioè se avesse molte caratteristiche), l’essere sarebbe composto anche dal non essere, dal momento che una certa qualità non è identica a un’altra. In tutti questi casi l’essere si trasformerebbe in non essere, infrangendo il perentorio divieto di dire e pensare il non essere. Si cadrebbe così in contraddizione, affermando in qualche modo che il non essere è, determinando così il naufragio della logica e dello stesso pensiero. Come si vede, la filosofia di Parmenide sembra articolarsi intorno al divieto di dire e pensare il non essere. Vedremo come una simile radicale posizione non fu priva di influenza nella successiva indagine sulla natura, che del non essere (inteso come divenire, come mutamento e come molteplicità) sembrava non poter fare a meno. Ma lo stesso Parmenide ammette che la maggior parte degli uomini (i «mortali»), seguono la seconda via: quella che porta all’errore di accettare la molteplicità della realtà e il divenire nel tempo, e quindi ammette il non essere. Questa via è imposta dall’inganno dei sensi, che ci mostrano cose molteplici e mutevoli: si tratta non di «verità» ma di «opinione» (dòxa). Nella seconda parte del suo poema, dedicata appunto alla dòxa, Parmenide espone al suo discepolo una versione se non vera, almeno verosimile del mondo dell’opinione. Alla maniera dei fisiologi egli costruisce quindi una concezione della natura come derivata dal contrasto (e dalla mescolanza) fra la luce e la tenebra (o, nell’interpretazione che ne diede Aristotele, fra il caldo e il freddo); la cosmologia ‘verosimile’ di Parmenide appare quindi una versione di quella pitagorica, basata sui due principi del limite e dell’illimitato. 47
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3 L’inventore della dialettica
Zenone: la difesa logico-argomentativa di Parmenide Allievo e seguace di Parmenide è Zenone di Elea. Il senso dell’opera di questo affascinante autore (una raccolta di complessi argomenti miranti a confutare gli avversari del suo maestro) consiste nel tentativo di difendere Parmenide dagli attacchi che inevitabilmente vennero mossi a un pensiero, quello contenuto nel poema, tanto radicale quanto controintuitivo (ossia contrario, o diverso, da come ci aspetteremmo che fosse a intuito). Per questa ragione Zenone viene considerato da Aristotele (e in qualche misura già da Platone) come l’inventore della dialettica, ossia del metodo confutatorio.
La vita e le opere Zenone (490-440 a.C., ma la data della morte non è sicura) nacque a Elea e fu allievo di Parmenide, con il quale forse si recò ad Atene. La dimostrazione per assurdo
La non esistenza del movimento
Il paradosso di Achille: la dimostrazione dell’immobilità dell’essere
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Scrisse un’opera in prosa, di cui restano solo cinque frammenti, nella quale difende il pensiero del maestro attraverso argomentazioni che riducono all’assurdo le tesi dei suoi avversari.
Zenone procede pressappoco in questo modo. Prende uno degli assunti di Parmenide, cioè una delle affermazioni di quest’ultimo relative alla natura dell’essere (i famosi sèmata); poi si mette nei panni di un avversario di Parmenide e nega questo stesso assunto, sostenendo, per esempio, che l’essere non è uno ma molteplice, oppure che non è immobile ma in moto; quindi dimostra che dalla negazione di questo assunto discendono conseguenze assurde, oppure in contrasto con la stessa premessa, o semplicemente paradossali; in questo modo può concludere che l’assunto parmenideo, dal momento che la sua negazione determinava esiti inaccettabili, deve essere per forza vero. Per inciso, occorre segnalare che la dimostrazione della verità dell’affermazione A attraverso la messa in luce della falsità dell’affermazione contraddittoria non-A rappresenta la struttura del metodo dialettico, e in questa forma verrà ripresa da Platone e Aristotele. Vediamo alcuni degli esempi più noti. Per soccorrere l’affermazione parmenidea relativa alla non esistenza del movimento (cioè la tesi che l’essere è immobile), Zenone inizia con l’ammettere per ipotesi che il movimento esiste. Dunque, se c’è movimento, il mobile M partendo dal punto A raggiungerà il punto B. Per raggiungere B, però, dovrà prima arrivare al punto C collocato esattamente a metà strada da A e B; prima che in C dovrà inevitabilmente arrivare in D, che si trova tra A e C e così via all’infinito. È evidente che l’argomento di Zenone mira a dimostrare che il movimento neppure può iniziare, perché per raggiungere qualsiasi punto occorre trovarsi in un punto precedente e così via all’infinito. Ancora più celebre dovette essere il paradosso di Achille e della tartaruga. Se il movimento esiste, ossia se l’essere non è immobile (come invece postulava Parmenide), Achille ‘piè veloce’ raggiungerà la tartaruga. Poniamo allora che Achille si trovi nel punto dello spazio S0 e che la tartaruga sia un poco più avanti in S1; nel tempo (T1) in cui Achille ha raggiunto il punto S1 in cui si trovava la tartaruga, questa avrà compiuto un piccolo movimento e si sarà spostata in S2, evitando così di essere raggiunta; anche nel lasso di tempo successivo (T2) Achille non riuscirà a raggiungere la tartaruga perché questa si sarà spostata, sia pure di pochissimo. Il processo è destinato a proseguire all’infinito, senza che Achille riesca mai a raggiungere la tartaruga.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici S = Spazio
paradosso di IlIlParadosso di Achille Achille e la tartaruga e la tartaruga
T = Tempo
S0
S1
S2
S3
S4
T1 T2 T3 T4 0 0S1,1 S1 1S2,2 S2 2S3,3 … e, per percorrere Per raggiungere la tartaruga Achille deve percorrere gli infiniti segmenti S Per raggiungere la tartaruga Achille deve percorrere gli infiniti segmenti S S , S S , S S ,... e, per percorrere infiniti la tartaruga. tartaruga. infiniti segmenti, segmenti, dovrà dovrà impiegare impiegare un un tempo tempo infinito: infinito; Achille Achille dunque dunque non non raggiungerà raggiungerà mai mai la
Dunque Zenone può concludere che il movimento è impossibile o che la sua ammissione conduce a conseguenze ancora più ridicole di quelle derivanti dall’ipotesi dell’immobilità dell’essere. Dall’indagine Analoghi ragionamenti fa Zenone a proposito del molteplice e del divenire. In sulla natura generale di lui si può dire che sposta l’indagine sulla natura dal piano fisico e alla dialettica sensibile (nel quale l’avevano collocata i fisiologi ionici) a quello logico-dialettico, radicalizzando spunti effettivamente presenti nel poema di Parmenide.
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Melisso: l’essere è il cosmo L’ultimo rappresentante dell’eleatismo (anche se forse non soggiornò mai a Elea) è Melisso di Samo.
La vita e le opere Melisso (485-430 ca. a.C.) nacque a Samo, dove svolse attività politica. In seguito a una rivolta del partito aristocratico la città si ribellò ad Atene nel 442 a.C. e Melisso guidò la flotta contro quella ateniese, comandata L’essere in senso fisico-cosmologico
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Melisso
Sulla natura o sull’essere, fr. 1a
da Pericle, sconfiggendola. Egli si inserisce nella scuola eleatica, anche se non sappiamo se abbia avuto contatti diretti con Parmenide. Ci restano alcuni frammenti della sua opera in prosa intitolata Sulla natura o sull’essere.
La sua operazione è esattamente inversa a quella di Zenone. Se quest’ultimo ha fornito un’interpretazione del pensiero di Parmenide di carattere logico-dialettico, Melisso intende l’essere parmenideo in senso fisico-cosmologico. Per lui l’essere altro non è che il cosmo, ossia l’universo. Tuttavia questo essere, per poter risultare effettivamente unico, dovrà inevitabilmente essere anche privo di limite, ossia illimitato (àpeiron) e infinito (a differenza dell’essere parmenideo che era invece equiparato a una sfera perfetta, e che risultava dunque finito); l’essere è per Melisso privo di limiti non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Scrive infatti all’inizio del suo trattato Sulla natura o sull’essere: Sempre era e sempre sarà, perché se fosse generato sarebbe necessario che, prima che fosse generato non fosse nulla, ma se prima era nulla, per nessuna ragione nulla si sarebbe potuto generare dal nulla. 49
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Parte prima L’età antica Nulla può nascere dal nulla
➥ Sommario, p. 61
L’interesse di questa affermazione risiede soprattutto nel fatto che in essa si trova la prima esplicita formulazione del principio secondo il quale «nulla può nascere dal nulla» (nihil ex nihilo). Per comprendere quanto questo principio, in qualche modo implicito già nel poema parmenideo, abbia influito sulla riflessione naturalistica successiva, sarà sufficiente leggere la prossima sezione.
Empedocle, Anassagora, Democrito: il naturalismo dopo Parmenide
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I testi Empedocle Sulla natura: fr. 8, T20; frr. 21 e 26, T21 Purificazioni: fr. 117, T22
Anassagora Sulla natura: fr. 1, T23; frr. 12 e 13, T24 Democrito Sulla natura: fr. 11, T25; fr. 9, T26
L’irruzione dell’eleatismo nel pensiero greco non è davvero senza conseguenze per il successivo corso della riflessione sulla natura. Si può anzi dire che le dottrine di Parmenide (e dei suoi seguaci) sconvolgono come un vero e proprio terremoto il modo di accostarsi all’indagine naturalistica. Ci si rende immediatamente conto che non sarebbe stato più possibile condurre la ricerca intorno alla phy`sis (alla sua struttura, ai processi che la attraversano) con i metodi dei fisiologi ionici. Bisogna tenere conto del perentorio divieto di Parmenide relativo al non essere e al divenire, che rappresenta pur sempre, come abbiamo visto, una forma di non essere. «Mai potrai conoscere e nominare il non essere, è cosa impossibile», dichiara, implacabile, il venerando e terribile Parmenide; «nulla si può generare dal nulla», aggiunge, sulla medesima linea, Melisso, non facendo che esplicitare una posizione largamente implicita nel poema parmenideo. Come può la natura L’applicazione alla natura della stringente logica eleatica comporta dunque il riessere mutevole? fiuto tanto della generazione, ossia della nascita, dal nulla, quanto del divenire, cioè della trasformazione di qualcosa in qualcos’altro. E ancora: l’essere parmenideo è uno, perché, se fosse molteplice, concederebbe diritto di cittadinanza anche al non essere, infrangendo il divieto. Ma la natura – lo vediamo tutti noi – manifesta continuamente processi di generazione e di trasformazione, e appare intrinsecamente molteplice. Come è possibile indagare sensatamente intorno ad essa negandole i tre aspetti (generazione, trasformazione, molteplicità) che sembrano caratterizzarla in quanto natura (non si dimentichi che, come detto, la parola phy`sis deriva dal verbo phy`o, che significa appunto «nascere, generarsi»)? L’influenza dell’eleatismo nella riflessione sulla natura
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici Logica eleatica e osservazione della natura
1 Naturalista, mago, filosofo, medico e politico
Non è azzardato vedere nell’intero corso del naturalismo posteleatico il tentativo di conciliare, almeno in parte, i divieti parmenidei con la possibilità di indagare effettivamente intorno alla natura. La concezione elementaristica di Empedocle, la dottrina dei semi originari di Anassagora e la teoria atomistica di Leucippo e Democrito non rappresentano altro che lo sforzo di inglobare la riflessione logica di Parmenide nel cuore dell’indagine naturalistica, tentando di conciliare due esigenze apparentemente opposte: il rigore della logica eleatica e il carattere molteplice e diveniente della natura.
Empedocle: tra antichi e nuovi saperi Empedocle di Agrigento, discendente da una famiglia prestigiosa e influente, rappresenta forse la figura più straordinaria – o semplicemente la più complessa – tra quelle che si affacciarono nel teatro della filosofia nelle prime fasi della sua storia. Egli è un grande naturalista (erede della tradizione fisiologica ionica); ma è anche un sapiente alla maniera di Eraclito e di Pitagora (dal quale riprende i tratti oracolari del mago e dello sciamano, e la teoria della trasmigrazione delle anime); ha contatti con l’eleatismo (da cui eredita l’attenzione per gli aspetti logico-razionali dell’indagine sulla natura); ma è anche medico e guaritore; e uomo politico, visto che ha un ruolo significativo nel processo di transizione alla democrazia che interessa anche la sua patria; infine, come detto, è anche adepto del pitagorismo. Come si vede, una figura complessa, ricca di tensioni e forse di ambiguità; ma proprio per questo capace di affascinare gli uomini di ogni tempo.
La vita e le opere Empedocle (493-432 ca. a.C.) nacque ad Agrigento da una famiglia ricca e prestigiosa di parte democratica. Aveva fama di mago, taumaturgo e naturalista; secondo la tradizione era sempre seguito da gruppi di discepoli. Sulla sua morte sorsero varie leggende, la più famosa
Conciliare naturalismo ed eleatismo
➥ Laboratorio di lettura, p. 68
delle quali, riferita da Diogene Laerzio, narra che si uccise gettandosi nel cratere dell’Etna. Le sue opere sono in versi e ce ne sono pervenuti circa quattrocento del suo poema Sulla natura, dedicato alla cosmologia, e centoventi del poema Purificazioni o Carme lustrale in cui viene espressa una concezione mistica ispirata alla religione orfica e al pitagorismo.
L’opera più significativa di Empedocle, un poema in esametri dal titolo Sulla natura, intende rifarsi alle due grandi tradizioni della riflessione precedente, tentando di conciliarle: quella naturalistica di matrice ionica (presente nel tema dell’opera, la natura appunto) e quella parmenidea (in qualche modo evocata nella scelta del genere letterario, quello della poesia in esametri). Empedocle si propone dunque di inglobare la riflessione parmenidea nel cuore dell’indagine naturalistica. Per prima cosa, dunque, egli accetta i divieti eleatici relativi all’inammissibilità del non essere e della generazione dal nulla. Ma tenta di adattarli a una ricerca che sia immune dall’astrazione e dal radicalismo di Parmenide e di Zenone. Per Empedocle è vero che nulla si genera dal nulla, ed è anche vero che il divenire 51
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Parte prima L’età antica
(ossia la trasformazione di qualcosa in qualcos’altro) a rigore non esiste. Non è vero, invece, che l’essere presenta una configurazione del tutto unitaria, perché, se così fosse, non si comprenderebbe la ricchezza della natura e dell’universo.
I quattro elementi, l’Amicizia e la Contesa Le quattro radici: acqua, aria, terra e fuoco
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Empedocle
Sulla natura, fr. 8
Empedocle postula l’esistenza di quattro radici (rìzai) fondamentali, i celebri quattro elementi (stoichèia) della tradizione successiva; quindi afferma che tutte le cose non sono che una mescolanza di questi quattro elementi primari: l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco (già individuati, almeno in parte, dai fisiologi ionici). Ciò che gli uomini comuni chiamano generazione e divenire altro non è che la mescolanza di questi quattro elementi, i quali, aggregandosi e disgregandosi, danno origine alle diverse realtà individuali. Non esiste dunque una vera e propria nascita, perché i quattro elementi (i quali corrispondono in qualche modo all’essere parmenideo) sono eterni e ingenerati; le cose appaiono originarsi e dissolversi, ma in realtà ciò che esiste veramente, ossia le radici fondamentali, non è soggetto a nascita e a morte, ma soltanto a mescolanza (mìxis) e a separazione (diàllaxis). Con uno stile maestoso e oracolare Empedocle dichiara: Ma ti dirò un’altra cosa: non esiste generazione di nessuno fra tutti i mortali, né termine alcuno di morte funesta, ma solo esiste mescolanza e separazione di quanto si è mescolato; ma queste cose dagli uomini sono chiamate generazione.
È molto ingenuo – tipico dei fanciulli, dice Empedocle – ritenere che i processi naturali consistano in nascita e morte; il sapiente è in grado di cogliere ciò che permane al di là dell’apparente divenire delle cose. L’essere parmenideo si è trasformato in Empedocle nelle quattro radici, le quali di quell’essere possiedono più di una caratteristica: sono ingenerate e incorruttibili, sempre esistenti (come l’essere di Melisso), identiche a sé, dotate, ciascuna, di un’unica caratteristica. La differenza rispetto a Parmenide sembra consistere nel fatto che esse sono molteplici, ossia quattro; perché solo ipotizzando una molteplicità originaria e irriducibile, Empedocle crede di poter salvaguardare il carattere molteplice e articolato della natura. Amicizia e Contesa: All’ammissione dei quattro elementi originari Empedocle aggiunge l’ipotesi che forze cosmiche i processi di aggregazione (cioè di mescolanza) e di disgregazione (ossia di seprimordiali parazione) delle radici siano causati da due forze cosmiche primordiali, alle quali egli assegna il nome di Amicizia o Amore (Philìa) e Contesa o Odio (Nèikos). La prima agisce come una sorta di forza di attrazione, la seconda come un principio di repulsione e allontanamento. Secondo Empedocle l’azione di Philìa determina l’aggregazione degli elementi e la formazione delle cose, mentre la presenza di Nèikos è causa dei processi di disgregazione e scomposizione. L’azione di questi due principi non è limitata alla formazione delle singole cose, ossia dei corpi individuali; essa si estende sul piano cosmico. A questo livello Empedocle sembra individuare due fasi estreme: quella del dominio assoluto dell’Amicizia, che comporta l’unità assoluta e perfetta degli elementi (i quali risultano compressi e unificati in una sfera); e quella in cui si impone la Contesa, la quale determina il totale isolamento delle quattro radici. Il ritmo del Le radici originarie e incorruttibili
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
processo cosmico è scandito da queste due fasi estreme, tra le quali si collocano gli stadi intermedi in cui il dominio di una delle due forze primarie non è assoluto (in una di queste fasi si situa l’attuale momento della storia del mondo). Afferma Empedocle:
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Empedocle
Sulla natura, frr. 21 e 26
Durante il regno della Contesa ogni cosa ha forma distinta e sta separata, mentre quando regna Amicizia si uniscono e si desiderano l’una con l’altra. Da essi infatti tutte quante le cose erano, sono e saranno: hanno avuto origine gli alberi, uomini, donne, e fiere, e uccelli, e pesci che vivono in acqua; ed anche gli dèi dalla lunga vita, eccellenti nel rango: solo queste, infatti, sono le cose che esistono veramente. Corrono l’una attraverso l’altra, diventano oggetti di vario aspetto: tanto vasto è lo scambio prodotto dalla mescolanza. […] Solo queste [le quattro radici] sono le cose che esistono; precipitando l’una nell’altra, nascono gli uomini e le altre stirpi di fiere, una volta riuniti ad opera dell’Amicizia in un solo cosmo, una volta separati ciascuna per sé ad opera dell’Odio che nasce dalla Contesa. Fino a che, intimamente congiunti, il tutto torni ad essere uno.
Il ciclo cosmico in Empedocle Unità assoluta e perfetta dei quattro elementi. Dominio assoluto di Amicizia
Azione di Contesa e di Amicizia
Inizia la disgregazione: gli elementi cominciano a separarsi
Prevale Amicizia
Il mondo attuale è in una di queste due fasi
Prevale Contesa
Gli elementi iniziano nuovamente ad aggregarsi
Azione di Amicizia e di Contesa
Massima disgregazione: fino all’isolamento delle quattro radici. Dominio assoluto di Contesa
La concezione dei quattro elementi non riveste, per Empedocle, solamente una funzione fisico-cosmologica. Ai suoi occhi essa è in grado di spiegare anche i processi conoscitivi. A lui si deve la prima formulazione del principio secondo il quale «il simile viene conosciuto dal simile»; dunque, se noi conosciamo le cose, le quali sono composte dalle quattro radici fondamentali, è perché noi stessi di queste radici siamo formati: con l’acqua che è in noi percepiamo l’acqua presente nelle cose, con il fuoco conosciamo il fuoco ecc. La trasmigrazione Empedocle – lo si è detto – è una personalità complessa e variegata: naturadelle anime lista, ma anche mago e adepto della concezione orfico-pitagorica della metempsicosi. Il titolo della sua seconda opera parzialmente conservata (ci restano una quarantina di frammenti) è sintomatico di quest’altro aspetto del La teoria della conoscenza: il simile conosce il simile
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Parte prima L’età antica
suo pensiero: Katharmoì significa infatti «Purificazioni» (siamo, come si vede, in un contesto tipicamente pitagorico). Qui troviamo affermata la credenza nella concezione della trasmigrazione delle anime (anche se Empedocle preferisce forse parlare di demoni); in un frammento il poeta arriva a dire di se stesso:
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Empedocle
Purificazioni, fr. 117
Una volta già io nacqui ragazzo, ed un’altra fanciulla, ed arbusto ed uccello e muto pesce del mare. Come per i pitagorici, anche per Empedocle esiste una sostanziale comunanza fra tutti gli esseri viventi (le cui anime trasmigrano da un corpo all’altro); ma se è così, si impone inevitabilmente il divieto di cibarsi di carne e di fare sacrifici animali. L’anima di chi è vissuto secondo le norme di purificazione ascetica finirà per uscire dal ciclo delle reincarnazioni e tornerà a unificarsi col mondo divino da cui proviene. Al contrario, le anime «impure» si reincarneranno in forme di vita sempre più basse e degenerate. Empedocle, naturalista alla maniera ionica e mago alla maniera pitagorica, esprime in sé le tensioni e le ambiguità della riflessione presocratica, ma anche il fascino e la grandezza di questo pensiero.
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Anassagora: i semi infiniti e l’Intelletto
Anche Anassagora, esattamente come Empedocle, si pone il problema di conciliare i divieti logici parmenidei con un’indagine sulla natura che sia sensata e in qualche modo rispettosa dei dati fenomenici. A lui, tuttavia, le radici empedoclee devono apparire insufficienti a dare conto della infinita varietà del mondo e delle cose che lo abitano. I semi originari Per questo postula una sorta di stadio primordiale in cui tutto si trova in tutto; si e la loro aggregazione tratta di un magma primitivo costituito di un numero infinito di semi originari (sèmata), i quali esprimono le qualità delle cose. In questo stadio primordiale si trovano i semi di tutte le cose, per esempio, dell’oro, del grano, della carne, della pelle ecc.; attraverso la separazione dalla massa primordiale e l’aggregazione dei semi della stessa specie si sono originate le cose, così come noi le conosciamo. Tuttavia, spiega Anassagora, le cose di cui il mondo è fatto non sono mai purissime, dal momento che non sono costituite solo dai semi che le caratterizzano. Per esempio, in un pezzo di carne ci saranno in prevalenza semi di carne, ma non solo; in verità in quel pezzo si trovano i semi di tutte le cose, anche se a prevalere sono naturalmente quelli di carne. Così è per qualsiasi altra cosa.
La vita e le opere Anassagora (500-428 a.C.) nacque a Clazomene, in Ionia, non lontano da Mileto. La sua importanza è soprattutto legata al fatto che fu il primo filosofo attivo ad Atene, dove la sua opera venne letta e discussa. Qui Anassagora fece parte del gruppo di intellettuali che gravitavano intorno a Pericle, leader del partito demo-
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cratico. Questo legame costò ad Anassagora l’espulsione da Atene, formalmente determinata dall’accusa di empietà, dovuta al fatto che egli considerava gli astri, invece che divinità, corpi composti di terra (la Luna), e di fuoco (il Sole). Morì a Lampsaco in Asia Minore. Ci restano diversi frammenti della sua opera intitolata Sulla natura.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici Molteplicità e trasformazione
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Anassagora
Sulla natura, fr. 1
In questo modo Anassagora ritiene di essere in grado di spiegare alcuni fenomeni apparentemente paradossali, come, per esempio, il fatto che il pane, una volta ingerito, si trasformi in ossa, sangue ecc. Come è possibile che una cosa si trasformi in un’altra qualitativamente così diversa? La risposta di Anassagora è semplice e ingegnosa: nel pezzo di pane che mangiamo sono contenuti, in quantità minima, anche semi di tutte le altre cose; dunque semi di carne, di sangue, di ossa ecc. In questo modo si spiega il fatto che ingerendo un certo alimento, esso si trasformi, andando ad accrescere le parti del nostro corpo: in quell’alimento sono semplicemente contenuti i semi delle parti del corpo. Insomma, per Anassagora la molteplicità delle cose è spiegabile solo postulando che essa si trovi già nello stato originario del cosmo e poi in tutte le fasi dello sviluppo di questo, e soprattutto in tutti gli oggetti che lo compongono. Il trattato Sulla natura si apre con un’affermazione clamorosa: Tutte le cose erano insieme, illimitate per quantità e per piccolezza, perché anche il piccolo era illimitato. E stando tutte insieme, nessuna era discernibile a causa della piccolezza. Su tutte predominavano l’aria e l’etere, essendo entrambi illimitati: sono infatti queste nella massa totale le più grandi per quantità e per grandezza.
Dal momento che l’elemento più diffuso nell’universo è l’aria, di aria dovevano risultare un gran numero dei semi originari. Per Anassagora, tuttavia, l’ipotesi dei semi non è ancora sufficiente a spiegare come i corpi si siano formati. Essa è sufficiente a dare conto della varietà delle cose (perché la varietà è già data nello stadio primordiale) e del fatto che una possa trasformarsi in un’altra (perché in ogni composto sono presenti i semi di tutte quante le cose). Ma sul piano cosmico occorre postulare una sorta di motore che interviene sul magma originario, dando avvio al processo di separazione dei semi e all’aggregazione di quelli simili in modo da formare le cose così come noi le vediamo. L’Intelletto ordinatore Per Anassagora questo motore – ma sarebbe più corretto parlare, come il nostro autore effettivamente fa, di un ordinatore – è l’Intelletto (nous). Anche esso è composto di semi, tuttavia non mescolati, ma puri, nel senso che è formato dai soli semi di intelletto non mischiati a quelli delle altre cose. Afferma perentoriamente Anassagora a proposito di questo Intelletto:
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Anassagora
Sulla natura, frr. 12 e 13
Tutte le altre cose hanno parte a tutto, mentre l’Intelletto è qualcosa di illimitato e di separato e a nessuna cosa è mischiato, ma solo, lui in se stesso […] Dopoché l’Intelletto dette inizio al movimento, dal tutto che era mosso cominciavano a formarsi le cose per separazione, e quel che l’Intelletto aveva messo in movimento, tutto si divise.
Se per Empedocle il mondo, e le cose che vi si trovano, nascono quando gli elementi si mescolano, per Anassagora ciò si produce in primo luogo quando i semi si separano dal magma originario, per poi unirsi (in base al principio della somiglianza) grazie all’intervento dell’Intelletto ordinatore. Ma anche per Anassagora, esattamente come per Empedocle, non esiste veramente generazione e corruzione delle cose, ma solo trasformazione, dal momento che ciò che veramente esiste, ossia i semi, non nascono né periscono, essendo eterni e immortali. Un modello politico- Non è mancato chi ha voluto ricondurre l’ipotesi anassagorea dell’Intelletto ordisociale per il nous? natore a un’esigenza di natura politico-sociale. Per alcuni, infatti, il nous che seLa trasformazione dei semi eterni
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Parte prima L’età antica
para e ordina i semi rappresenta qualcosa di analogo all’artigiano (fabbro, calzolaio) che modella e ordina la materia; Anassagora, esponente del partito democratico di Pericle, non avrebbe fatto altro che costruire un’immagine cosmica dell’artigiano ateniese del V secolo, referente politico e sociale della democrazia periclea. Il mondo di Anassagora Nous separato, immortale ed eterno, che ordina il magma
Dà inizio al movimento e alla generazione
Magma originario composto da un numero infinito di semi eterni e immortali
Si formano le cose, ma ognuna contiene tracce di ogni seme
3 La nascita dell’atomismo
Democrito: gli atomi e il vuoto Il terzo grande tentativo di produrre una riflessione sulla natura che sia rispettosa dei divieti formulati dagli eleati, si deve a Democrito e al suo maestro Leucippo (seconda metà del V secolo a.C.). La concezione atomistica da loro proposta costituisce l’esperimento intellettuale più compatto e sistematico tra quelli emersi nei primi secoli della filosofia greca. La sua influenza sul pensiero antico fu considerevole, visto che l’atomismo venne ripreso e approfondito in epoca ellenistica da Epicuro (vedi Unità 6, p. 347 ss.), e grazie alla scuola epicurea si affermò nel mondo greco e soprattutto in quello romano (per merito della mediazione del grande poeta latino Lucrezio, I secolo a.C.).
La vita e le opere Democrito (460-380 ca. a.C.) nacque ad Abdera, sulle coste greche nord-orientali; visse a lungo e compose molte opere, di cui conserviamo i titoli e circa trecento frammenti (per lo più molto brevi). Numerose e ampie Gli atomi e i caratteri dell’essere
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sono le testimonianze, che consentono di ricostruire il suo pensiero con una certa precisione. Aveva moltissimi interessi (fisica, cosmologia, etica, politica, linguaggio, società), ma è nel campo della fisica e della cosmologia che il suo contributo appare più significativo e influente.
Secondo Democrito i caratteri dell’essere parmenideo (eternità, assenza di generazione, immodificabilità, assoluta identità con sé ecc.) appartengono agli atomi (il termine àtomos significa «indivisibile»). Questi ultimi rappresentano entità piccolissime, invisibili e impossibili da percepire, e l’assoluta indivisibilità costituisce la loro caratteristica principale. Essi rappresentano i ‘mattoni’ fondamentali di cui sono costituite le cose, ossia i corpi che possiamo vedere. In effetti, questi ultimi si formano a partire dall’aggregazione di atomi e cessano di esistere nel momento in cui gli atomi si disgregano per dare origine a una nuova aggregazione, vale a dire a un nuovo corpo. Gli atomi, però, sono sottratti tanto alla generazione quanto alla dissoluzione, essendo appunto eterni e ingenerati (come le radici di Empedocle e i semi di Anassagora).
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici Forma, direzione e ordine degli atomi
Il vuoto
Un universo meccanico e necessario privo di finalità
Il mondo di Democrito
Dal momento che le cose presentano caratteristiche diverse le une dalle altre, occorre postulare, secondo Democrito, una differenza originaria che concerne i loro costituenti, ossia gli atomi. Questi sono infiniti di numero e si distinguono gli uni dagli altri sulla base di tre fattori: la forma, la direzione e l’ordine. Per forma (in greco schèma, che significa anche «figura»), A si distingue da N; per posizione (thèsis) o direzione, N si distingue da Z (essendo la figura la medesima, ma mutando appunto l’orientamento); per ordine, infine, il composto AN si distingue da quello NA. L’ultimo parametro menzionato è in grado di spiegare come due composti costituiti dagli stessi atomi possano presentare caratteristiche differenti. Perché gli atomi si possano aggregare dando così origine alle cose è però necessario postulare l’esistenza del vuoto. Nel vuoto infatti gli atomi si muovono, si incontrano e si scontrano. Sembra che, a differenza degli atomi di cui parlerà un secolo dopo Epicuro, gli atomi di Democrito siano sprovvisti di peso. Essi si muovono anche spinti da un vortice che talora si determina (per esempio a causa del vuoto improvviso di una certa regione dello spazio). È molto importante tenere presente che i processi cui i movimenti atomici danno luogo (con le aggregazioni e le disgregazioni corporee) risultano del tutto privi di un fine; l’universo democriteo (che era costituito da infiniti mondi) è ateleologico (privo di un tèlos, ossia di un fine); si tratta di un universo meccanico e necessario, ma senza una finalità (tanto interna, quanto imposta dal di fuori). L’universo coincide con lo spazio
Presenza del vuoto che crea improvvisi vortici
Nello spazio ci sono infiniti atomi: eterni, ingenerati, immodificabili, uguali a se stessi; distinguibili per forma, direzione, ordine
Aggregazione e disgregazione degli atomi. Il cosmo risulta essere dominato dalla necessità e privo di ogni scopo
La teoria della conoscenza democritea La natura fortemente sistematica del modello atomistico si manifesta nel tentativo di spiegare il maggior numero di fenomeni ricorrendo alla dottrina degli atomi. Un caso emblematico è rappresentato dalla teoria della percezione. Gli èidola Secondo Democrito la percezione si produce in virtù del fatto che dagli oggetti si staccano incessantemente atomi sottilissimi, chiamati immagini (èidola), i quali 57
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Parte prima L’età antica
conservano e riproducono la configurazione delle cose alle quali appartengono; questi èidola raggiungono gli organi di senso, entrando nel nostro corpo attraverso i pori di cui la superficie di quest’ultimo è cosparsa. Se nel corso del loro tragitto queste immagini non subiscono modificazioni, esse danno luogo a percezioni sostanzialmente corrispondenti all’oggetto quale realmente è. Per Democrito anche fenomeni percettivi come il gusto e il tatto hanno una spiegazione all’interno della teoria atomistica. Il sapore aspro, per esempio, viene prodotto dalla presenza di atomi aguzzi e dotati di angoli; al contrario il dolce rimanda ad atomi di forma tondeggiante. Da Parmenide Democrito sembra riprendere la distinzione tra un sapere autentico e uno solo doxastico, ossia opinativo (da dòxa, «opinione»). Egli afferma infatti:
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Democrito
Sulla natura, fr. 11
Vi sono due forme di conoscenza, l’una genuina e l’altra oscura; e a quella oscura appartengono tutte quante queste cose: vista, udito, odorato, gusto, tatto; l’altra forma è genuina e gli oggetti di questa sono nascosti. Quali siano gli oggetti di questa conoscenza genuina si sarà facilmente capito. Si tratta naturalmente degli atomi e del vuoto, come Democrito spiega in un altro frammento:
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Democrito
Sulla natura, fr. 9
Una prima distinzione fra qualità primarie e secondarie
La percezione e le diverse qualità secondo Democrito
Convenzione il dolce, convenzione l’amaro, convenzione il caldo, convenzione il freddo, convenzione il colore; verità gli atomi e il vuoto. Così egli anticipa in qualche modo la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, destinata a fare la sua comparsa in forma sistematica nell’ambito della filosofia europea del Seicento. La dimensione profonda e autentica della realtà è costituita dalle configurazioni degli atomi (la loro forma e grandezza), che sono inaccessibili ai sensi e conoscibili solo attraverso la facoltà intellettuale (il nous); mentre l’universo delle sensazioni si limita a restituire un livello derivato, ossia secondario, della realtà (i colori, i sapori ecc.).
Livello epistemologico (ciò che conosciamo)
Livello ontologico (ciò che è)
Sensazioni Percezione qualitativa: odori, sapori, colori ecc. Qualità secondarie: soggettive e non misurabili. Corpi composti di atomi
Eìdola (ombre) emessi dal corpo
Organi di senso Ragione Percezione quantitativa: forma e grandezza degli atomi. Qualità primarie: misurabili e oggettive.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Democrito si interessa anche di etica e morale. Ma i frammenti relativi alle opere da lui dedicate a questi temi sono eccessivamente brevi e le dottrine appaiono di non facile ricostruzione. Accenna probabilmente alla distinzione tra natura e legge, spiegando che le differenze nel linguaggio e nei costumi tra i diversi popoli si giustificano in virtù del loro carattere convenzionale (è questo un motivo destinato ad assumere una rilevanza centrale nell’ambito della riflessione della sofistica). La tranquillità Nel campo della morale Democrito stabilisce il fine dell’uomo nel conseguimendell’animo to della tranquillità dell’animo (euthymìa), ossia in una sorta di controllo e misurazione delle passioni (va tenuto presente che per lui anche l’anima è composta di atomi, sia pure molto sottili). Con Democrito dovettero fare i conti sia Platone (nel Timeo, vedi Unità 3, p. 148 ss.) sia Aristotele (nella Fisica e nel Cielo, vedi Unità 4, p. 216 ss.), a conferma dell’importanza di questo autore, la cui influenza, grazie all’epicureismo, sarà ➥ Sommario, p. 61 enorme su tutto il pensiero antico, e non solo su quello.
La convenzionalità delle leggi
Luoghi e protagonisti della filosofia presocratica (VI-V secolo a.C.) Qui si rifugiò e morì Pitagora
Vi nacque e visse Democrito, uno dei fondatori dell’atomismo
Vi nacque Senofane
Vi si stabilì Senofane e qui nacquero Parmenide e Zenone
Abdera Elea
Lampsaco Metaponto Crotone
Agrigento
Vi nacque e visse Empedocle
Qui morì Anassagora
Pitagora di Samo vi fondò la sua scuola. Nel 470 a.C. vi nacque Filolao
Anassagora vi si trasferì e vi venne processato per empietà ed esiliato
Tebe
Clazomene Colofone Efeso Corinto Atene Samo Micene Mileto Argo Sparta
Vi nacquero Melisso, nel 685 a.C., e Pitagora
Vi nacque e visse Eraclito
Vi nacque la riflessione dei primi filosofi: Talete, Anassimandro, Anassimene. Nella seconda metà del V secolo a.C. vi nacque Leucippo
Vi nacque Anassagora
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Parte prima L’età antica Suggerimenti bibliografici I frammenti e le testimonianze di tutti i presocratici sono raccolti e tradotti in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 20048. Una rigorosa introduzione al pensiero dei primi fisiologi ionici è offerta da R. Laurenti, Introduzione a Talete, Anassimandro e Anassimene, Laterza, Roma-Bari 19953. Su Pitagora e i pitagorici è agile e preciso il testo di B. Centrone, Introduzione ai Pitagorici, Laterza, Roma-Bari 19992. Un’introduzione sintetica e rigorosa al pensiero di Parmenide è offerta da A. Capizzi, Introduzione a Parmenide, Laterza, Roma-Bari 19953. Un testo corposo ed esaustivo su Empedocle è quello di R. Laurenti, Empedocle. Saggio critico, testimonianze e frammenti, D’Auria, Napoli 1999. Un’agile e attuale introduzione complessiva a Democrito è offerta da S. Martini, Democrito: filosofo della natura o filosofo dell’uomo?, Armando, Roma 2002. Ai presocratici è stata dedicata anche una serie di lezioni, tenute da alcuni dei maggiori storici degli ultimi decenni, nell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche edita dalla Rai, reperibile in videocassetta. I brani antologizzati sono tratti da: Aristotele, Sul cielo, trad. di F. Ferrari. Anassimandro, Sulla natura, in I Presocratici, Testimonianze e frammenti, cit. Simplicio, Commento alla Fisica, trad. di F. Ferrari. Eraclito, I frammenti. Eraclito, trad. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano 1989. Senofane, Silli, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. Senofane, Sulla natura, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. Parmenide, Poema sulla natura: i frammenti e le testimonianze indirette, trad. di G. Reale modificata leggermente da F. Ferrari, Bompiani, Milano 2003. Melisso, Sulla natura o sull’essere, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. Empedocle, I frammenti. Empedocle, trad. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano 1987. Anassagora, Sulla natura, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. Democrito, Sulla natura, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. Il brano di Erodoto citato a p. 41 è tratto da Erodoto, Storie, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1994, 2 voll.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Sommario 1. CHI
SONO I PRESOCRATICI?
In Grecia, tra il VII e il VI secolo a.C. nasce una nuova forma di pensiero, legata alla tradizione sapienziale ma nel contempo innovatrice. Questo movimento rappresenta le radici della nascita della filosofia in senso stretto, che avviene con Socrate e con Platone; per tale ragione gli esponenti di queste nuove forme di pensiero sono convenzionalmente detti «presocratici». Abbiamo molte difficoltà a ricostruire il loro pensiero poiché delle loro opere ci sono pervenuti soltanto frammenti e testimonianze. [par. 1] 2. LA SCUOLA DI MILETO E LA COSIDDETTA PHYSIOLOGHÌA
Le prime tracce del pensiero filosofico si trovano a Mileto, nella Ionia (attuale Turchia), dove si inizia a indagare la natura, la phy` sis. Per questa ragione Aristotele definisce i pensatori ionici «fisiologi»: essi cercano i principi in grado di spiegare l’origine e lo sviluppo dei fenomeni naturali. Il primo è Talete, che individua il principio, ovvero l’archè, di tutte le cose nell’acqua. [par. 1] Seguono Anassimandro, che indica come origine il principio dell’«illimitato», l’àpeiron, [par. 2] e poi Anassimene, che spiega la natura a partire dall’aria. [par. 3] 3. ERACLITO L’OSCURO
Non lontano da Mileto, a Efeso, visse Eraclito, soprannominato «l’oscuro» per la sua scelta di esprimersi attraverso aforismi brevi ed enigmatici. Il suo pensiero, sia dal punto di vista etico che politico, ha un taglio decisamente aristocratico: egli contrappone diametralmente la figura solitaria del saggio alla stoltezza della massa. All’origine di tutto Eraclito colloca il lògos che rappresenta la legge cosmica unitaria; al di là dell’apparente contrapposizione degli opposti, è così rinvenibile un’armonia insita nel continuo divenire del tutto (espresso dalla formula pànta rèi). Il lògos eracliteo, sul piano fisico, si incarna nel fuoco, in cui vita e morte si compenetrano incessantemente. 4. L’ANIMA
E IL NUMERO:
PITAGORA
E IL PITAGORISMO
A Samo, un’isola della Ionia, nasce Pitagora, fondatore della scuola omonima a Crotone, nella Magna Grecia. La cerchia pitagorica, una sorta di setta religiosa, seguiva uno stile di vita (bìos) rigidamente regolato dagli insegnamenti del maestro e svolgeva un’intensa attività politica. La dottrina pitagorica ha due fondamentali nuclei tematici: la concezione dell’anima immortale, sottoposta al ciclo delle reincarnazioni [par. 1]; e la teoria del numero, rappresentato geometricamente e posto a principio della realtà. Questo secondo aspetto è probabilmente frutto dell’elaborazione interna alla scuola nella
quale, fin dalle origini, i discepoli si dividevano in acusmatici (semplici uditori) e matematici (coloro che conoscevano la verità). [par. 2] 5. L’ESSERE
E LA VERITÀ:
PARMENIDE
E L’ELEATISMO
Un’altra corrente presocratica è l’eleatismo, anticipato da Senofane, un pensatore che in nome della ragione criticava la tradizionale concezione antropomorfa degli dèi greci. [par. 1] Il vero iniziatore è però Parmenide, che in un linguaggio sapienziale formula la sua dottrina: l’unica realtà è l’essere, mentre il non essere è impossibile, quindi impensabile. L’essere è eterno, unitario, immobile, ingenerato mentre qualsiasi cosa sembri avere le qualità opposte (molteplicità, movimento, generazione) non è. [par. 2] Difendendo le tesi di Parmenide, il discepolo Zenone elabora argomentazioni dialettiche che dimostrano l’impossibilità del movimento, del molteplice, del divenire. [par. 3] Melisso di Samo invece dà dell’eleatismo un’interpretazione fisico-cosmologica identificando l’essere con il cosmo e affermando l’impossibilità della generazione dal nulla. [par. 4] 6. EMPEDOCLE, ANASSAGORA, DEMOCRITO: IL NATURALISMO DOPO PARMENIDE
La riflessione sulla natura viene condizionata dai due divieti eleatici: non pensare né dire il movimento, il divenire; la generazione dal nulla è impossibile. Empedocle postula l’esistenza di quattro radici o elementi eterni la cui mescolanza e separazione producono la realtà apparentemente mutevole. Su di essi operano due forze cosmiche, Amicizia e Contesa, il cui avvicendarsi spiega l’eterno ciclo del cosmo. La dottrina dei quattro elementi è anche alla base della sua teoria della conoscenza, tale per cui il simile conosce il simile. Empedocle abbraccia anche credenze orfico-pitagoriche come la trasmigrazione delle anime. [par. 1] Anassagora spiega la realtà attraverso un numero infinito di semi, che mescolandosi originano le differenze fra le cose: tutti sono presenti in tutto. Al di sopra di questi principi fisici egli pone un Intelletto (nous) separato e ordinatore che governa il cosmo. [par. 2] L’ultima grande filosofia presocratica è l’atomismo, iniziato da Leucippo e da Democrito: la realtà è composta da infiniti piccoli corpi immodificabili e indivisibili, gli atomi, diversi per qualità, distinguibili secondo i tre fattori della forma, della posizione e dell’ordine. Essi formano aggregati grazie alla presenza del vuoto. L’immagine che ne consegue è quella di un cosmo meccanico e necessario, privo di ogni finalità. Dal movimento degli atomi Democrito deriva anche una teoria della conoscenza fondata sulla percezione sensibile degli atomi stessi. [par. 3]
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Parte prima L’età antica
Parole chiave Anima. Traduzione del greco psychè, «anima» deriva dal latino anima (dal greco ànemos, «vento»), che significa «respiro, soffio vitale». Indica quel principio della vita che in alcune religioni antiche (orfica, egiziana, babilonese) è distinto e contrapposto al corpo. Riprendendo tale contrapposizione, i pitagorici esasperano il conflitto tra anima e corpo, adottando uno stile di vita incentrato sulla purificazione del corpo ed elaborando una dottrina incentrata sulla trasmigrazione (metempsicosi) delle anime. Antropomorfismo. Dal greco ànthropos («uomo») e morphè («forma»), significa «che ha una forma umana». Indica la tendenza dell’uomo a pensare altre realtà (la natura, la divinità, le forze fisiche ecc.) modellandole su se stesso e attribuendo loro il proprio comportamento. Una delle prime critiche a tale atteggiamento è quella di Senofane, incentrata sull’antropomorfismo delle antiche divinità greche. Archè. Termine greco che significa «principio, origine». Viene usato, a partire da Platone e Aristotele, per indicare una duplice realtà: «ciò che viene prima per importanza, per valore»; «ciò che viene prima in senso temporale». La ricerca di questo principio è, nell’interpretazione inaugurata da Aristotele ma ancor oggi attuale, il punto di partenza della riflessione dei presocratici. Atomo. Dal greco a- (prefisso che indica privazione) e il tema di tèmnein, «tagliare», significa «ciò che non può essere tagliato, diviso» e indica le particelle elementari, i principi di Leucippo, Democrito e poi di Epicuro, posti alla base della realtà fisica. Dialettica. Dal greco dialèghesthai, «discutere, argomentare». Indica l’arte della discussione e del confronto che, secondo Aristotele, nasce con il metodo argomentativo di Zenone di Elea.
le tesi del maestro. Nell’ultimo grande esponente dell’eleatismo, Melisso, l’essere viene a coincidere con il cosmo fisico. Fisiologi / Phy` sis. I physiòlogoi sono coloro che studiano la phy`sis, ovvero la natura. Il termine è utilizzato da Aristotele per riferirsi ai pensatori ionici, i cui interessi sono essenzialmente incentrati sulla natura nel senso più ampio del termine. La parola phy`sis comporta infatti un riferimento all’insieme dei processi di nascita, di generazione (il verbo phy`o, da cui deriva il sostantivo phy`sis, significa infatti «nascere, generarsi») e in generale di movimento delle cose. Generazione / Dissoluzione. Opposizione che indica i due momenti estremi, l’originarsi e il terminare, di un fenomeno fisico. Mescolanza / Separazione. Opposizione che nella teoria di Empedocle indica i due momenti, l’aggregazione e la disgregazione degli elementi, che spiegano il mutamento e la molteplicità della realtà. Nous. Termine greco che significa in origine «intuizione, comprensione immediata», e viene poi a indicare ciò che è usualmente tradotto con il termine «intelletto», «pensiero». Anassagora designa con nous l’Intelletto ordinatore che dà origine al movimento e sovrintende all’ordine dei fenomeni. Paradosso. Termine greco formato da parà («contro») e dòxa («opinione») ossia «ciò che va contro l’opinione». Zenone, designato da Aristotele come inventore della dialettica, costruisce argomentazioni i cui esiti paradossali, ovvero assurdi, mostrano l’erroneità delle tesi da cui tali paradossi discendono logicamente.
Divenire. Fin dalla riflessione delle origini indica il flusso ininterrotto delle cose, opposto a ciò che è immutabile, immobile.
Presocratici. Definizione storiografica e culturale con cui si indicano i filosofi che precedono Socrate, non tanto dal punto di vista cronologico (alcuni sono a lui contemporanei), quanto per la loro riflessione che si colloca prima della ‘rivoluzione socratica’.
Essere / Non essere. L’essere è ciò che è, ciò che esiste ed è privo di ogni determinazione. In Parmenide l’essere indica la totalità immobile e identica in sé, il principio unico e unitario del reale; è contrapposto al non essere, che risulta impossibile e dunque impensabile. L’allievo di Parmenide, Zenone, costruisce dei celebri paradossi tesi a dimostrare la correttezza del-
Principio di ragion sufficiente. Principio logico che venne rigorosamente definito e formulato per la prima volta da Leibniz nel XVII secolo ma è in verità presente fin dal pensiero presocratico. Una sua formulazione può essere la seguente: «niente esiste, accade o può essere considerato vero senza una ragione sufficiente».
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Questionario CHI
1
LA
Lavoriamo sui testi
SONO I PRESOCRATICI?
In un massimo di 2 righe spiega chi erano i presocratici.
13
In T2 quale fenomeno è collegato per analogia alla giustizia e quale all’ingiustizia, secondo Anassimandro? (max 2 righe)
14
In quali categorie suddivide gli uomini Eraclito nei frammenti T4, T5 e T6? (max 2 righe)
15
Perché, secondo Senofane in T13 e T14, la concezione greca degli dèi è da condannare? (max 2 righe)
16
Spiega in un massimo di 4 righe qual è la relazione fra lògos e divenire nel pensiero di Eraclito.
Quale divieto esprime Parmenide in T17? (max 1 riga)
17
Attraverso quale forma letteraria Eraclito esprime il suo pensiero? Per quali motivi sceglie tale forma? (max 3 righe)
Sulla base di quale principio Parmenide nega che si possa attribuire la nascita all’essere in T18? (max 2 righe)
18
Qual è la conclusione dell’argomentazione di Melisso in T19? (max 2 righe)
E IL NUMERO:
19
Che cos’è che gli uomini chiamano «generazione» secondo Empedocle in T20? E così facendo sbagliano o ragionano correttamente? Motiva la tua risposta. (max 10 righe)
20
Secondo Empedocle in T21 quali sono le uniche cose che esistono? (max 2 righe)
21
Anassagora in T23 dice che in origine nessuna cosa era discernibile; per quali ragioni? (max 3 righe)
22
In T25 Democrito distingue due forme di conoscenza. Quali sono? Di quali oggetti si occupa il secondo tipo? (max 5 righe)
SCUOLA DI
2
3
MILETO
E LA COSIDDETTA PHYSIOLOGHÌA
In un massimo di 6 righe indica quali erano le caratteristiche comuni e quali le differenze tra i filosofi della scuola di Mileto. In alternativa puoi costruire uno schema di confronto. Illustra in 1 riga che cos’è l’àpeiron di Anassimandro.
ERACLITO L’OSCURO 4
5
L’ANIMA
PITAGORA
E IL PITAGORISMO
6
Esponi in un massimo di 4 righe la teoria pitagorica dell’anima.
7
Che cosa intendono i pitagorici affermando che il numero è l’origine di tutte le cose? Quali caratteristiche attribuiscono ai numeri? (max 10 righe)
L’ESSERE 8
9
E LA VERITÀ:
PARMENIDE
E L’ELEATISMO
Illustra in un massimo di 3 righe le differenze fra essere e non essere secondo Parmenide. Spiega in un massimo di 10 righe il paradosso di Achille e la tartaruga e quali sono le sue conseguenze per il problema del movimento.
EMPEDOCLE, ANASSAGORA, DEMOCRITO: IL NATURALISMO DOPO PARMENIDE 10
Illustra in un massimo di 10 righe quali sono i tratti eleatici e quali quelli naturalistici della concezione del mondo naturale di Empedocle.
11
Qual è la differenza tra gli elementi di Empedocle e i semi di Anassagora? (max 4 righe)
12
Spiega in un massimo di 3 righe come ha origine il movimento degli atomi secondo Democrito.
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Parte prima L’età antica
Laboratorio di lettura Eraclito, Sulla natura Lo scritto di Eraclito di Efeso raccoglie una serie di brevi e misteriose sentenze. Lo stile oracolare che lo anima manifesta l’intento dell’autore di nascondere alla maggior parte degli uomini le verità profonde che contiene. Gli aforismi sono attraversati dai motivi fondamentali della riflessione di questo affascinante e misterioso pensatore: la contrapposizione tra l’unico saggio e la moltitudine degli stolti; l’idea che, al di là dell’apparente pluralità delle cose (le quali sembrano possedere un’individualità propria), esista un’unità di fondo; la concezione del lògos (legge cosmica, ragione, discorso sapienziale) come principio profondo e unitario della realtà; la convinzione che tutte le cose siano coinvolte in un divenire incessante, che rappresenta l’unico elemento di stabilità nel mondo; l’idea, infine, che questo lògos profondo (e quasi inaccessibile) si presenti fisicamente nella forma del fuoco cosmico.
Il lògos, unica legge della realtà La voce del lògos
2. Bisogna seguire ciò che è comune. Comune è il lògos vero, ma la maggior parte degli uomini vive come se possedesse una saggezza privata. [A]
La stoltezza dei più
4. Se la felicità consistesse nei piaceri del corpo, potremmo dire felici i buoi quando trovano delle lenticchie da mangiare. 9. Sceglierebbero gli asini paglia piuttosto che oro. [B] 10. Relazioni: intero non intero, concordante discordante, consonante dissonante, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose. 13. Ricavano piacere i porci più dal fango che dall’acqua limpida. 22. Quelli che cercano l’oro scavano molta terra e poco ne trovano.
Commento e interpretazione
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A. Il frammento 2 esprime il nucleo della riflessione eraclitea: gli uomini si muovono, pensano e si comportano come se vivessero in tanti universi privati e non sanno ascoltare la voce del lògos, che è unica per tutti. Questa voce contiene il messaggio fondamentale della filosofia di Eraclito: esiste una sola legge e una sola ragione nel mondo (vedi anche fr. 41). B. I frammenti 4 e 9, insieme a molti altri (per esempio 13, 29, 34, 49 e soprattutto 121), esprimono la tonalità fortemente elitaria del messaggio eracliteo. Per il filosofo di Efeso gli uomini comuni sono simili agli asini che si accontentano della paglia e rinunciano all’oro della vera saggezza. C. Il lògos universale, la legge che regola tutto il divenire cosmico, si manifesta fisicamente sotto forma di fuoco. Il fuoco rappresenta l’elemento fisico che meglio esprime la natura contraddittoria e costantemente in divenire della realtà. Esso è insieme vita e morte, e soprattutto è movimento incessante. Si tratta di una legge che non è prodotta dalle rappresentazioni soggettive degli uomini e che neppure un dio può modificare. Negando
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
27. Attendono gli uomini quando muoiono cose che non sperano né credono. 29. Preferiscono i migliori un’unica cosa a tutte le altre, fama perenne su tutte le cose mortali; la maggioranza pensa invece a saziarsi come bestie. Il fuoco perenne
30. Quest’ordine universale, che per tutte le cose è il medesimo, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma sempre era ed è e sarà, fuoco perenne, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne. [C] 34. Ascoltando privi di intelligenza somigliano ai sordi; a loro si riferisce il detto, che «pur presenti, sono assenti».
Tutto scorre
36. Per le anime è morte divenire acqua, per l’acqua è morte divenire terra; ma dalla terra nasce l’acqua, e dall’acqua l’anima. [D]
Contro la falsa sapienza
40. Il molto sapere non insegna ad avere intelletto. L’avrebbe infatti insegnato a Esiodo, a Pitagora, e poi a Senofane e a Ecateo. 41. Esiste una sola cosa saggia: conoscere la ragione, la quale tutto governa attraverso tutte le cose. 42. È degno di Omero di essere espulso dagli agoni e frustato, e così pure Archiloco. [E]
L’anima e il lògos
45. I confini dell’anima, per quanto tu vada, non potrai trovare, dovessi pure percorrere tutte le strade; essa possiede un lògos così profondo. [F] 49. Uno per me vale diecimila, purché sia il migliore. 50. Prestando ascolto non a me, ma al lògos, è saggio convenire che tutte le cose sono uno.
Unità e armonia degli opposti
51. Non comprendono come, pur differendo, in realtà concordi con se stesso. Armonia di entrambe le parti, come quella dell’arco e della lira.
che la legge cosmica, il fuoco perenne, sia il prodotto di una divinità, Eraclito sembra polemizzare con le concezioni che ammettono l’intervento divino nei processi fisici. D. Vita e morte non sono che due facce di una medesima medaglia e non possono venire trattate separatamente. Ciò che è vita per un elemento è morte per l’altro (fr. 76). Nulla permane se non l’incessante processo del divenire: pànta rèi, «tutto scorre». E. Nei frammenti 40, 41 e 42 Eraclito polemizza con la cosiddetta polymathìa, ossia con la pretesa di identificare il sapere con la conoscenza di molte cose (vedi anche fr. 57). La saggezza autentica è, ai suoi occhi, qualcosa di più profondo e al contempo di più semplice: essa si identifica con l’ascolto della legge universale, dell’unico lògos (valido per tutti e per tutte le cose), del fuoco cosmico. F. Qui forse Eraclito intende dire che l’anima possiede il medesimo lògos dell’universo, ossia la stessa legge e la stessa razionalità. Proprio per questo essa, se si pone all’ascolto della voce profonda che si trova in lei, può conoscere quell’unica legge che regola tutte le cose. Sul tema dell’ascolto del lògos vedi anche il frammento 50. 65
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53. Conflitto è padre di tutte le cose, di tutte è re: alcuni dimostrò essere dèi e altri uomini, alcuni fece schiavi e altri liberi. [G] 54. Più potente è l’armonia nascosta di quella che appare. Identità degli opposti: giorno e notte
57. La maggior parte degli uomini ebbe per maestro Esiodo, ed è sicura che egli sapesse moltissime cose, lui che non conosceva neppure il giorno e la notte; sono infatti una sola cosa. 60. Una e la stessa è la via che sale e la via che scende. 61. Il mare è l’acqua più pura e più impura: per i pesci potabile e fonte di vita, imbevibile e mortale per gli uomini. 62. Immortali mortali, mortali immortali: vivono gli uni la morte degli altri, e muoiono questi la vita dei primi. 66. Il fuoco sopraggiunge, giudicherà e condannerà tutte le cose. 67. Il dio è giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame: muta come il fuoco quando si unisce agli odori, e prende il nome del sapore di ognuno di quelli.
Ciò che è vita per un elemento è morte per l’altro
76. Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra dell’acqua. Nascita del fuoco è morte per l’aria, e morte dell’aria è nascita per l’acqua. Morte della terra è divenire acqua, morte dell’acqua divenire aria, e il fuoco dell’aria, e così di nuovo. G. I frammenti 51, 53, 54, 60, 61, 62, 67, 80 e 88 contengono riferimenti al tema dell’unità degli opposti. Vita e morte, veglia e sonno, gioventù e vecchiaia, sono facce di una stessa medaglia. Sia perché nessuno di questi termini esisterebbe senza l’altro; sia perché nell’incessante processo del divenire cosmico l’uno si trasforma nell’altro. Per questo Eraclito può affermare che il conflitto (pòlemos, che significa propriamente «guerra») è il padre di tutte le cose. In una simile ottica, però, gli opposti rappresentano poli di una totalità armonica. L’armonia, quella profonda e invisibile (fr. 54), è infatti uno degli aspetti della legge universale. H. Di nuovo il motivo della contrapposizione tra i desti e i dormienti. Questi ultimi vivono in universi privati e non sono in grado di riconoscere l’unità del tutto. Con accentuazioni e modalità diverse il motivo della contrapposizione tra il saggio e la massa degli stolti ritorna spesso tra i pensatori presocratici (oltre che in Eraclito, lo troviamo in Parmenide, nel pitagorismo e anche in Empedocle). Si tratta di una delle strategie discorsive attraverso le quali viene costruita la figura del maestro di verità. I. Si tratta di una delle sentenze più celebri di Eraclito. Il fluire incessante della realtà non consente una vera e propria stabilizzazione, per cui la stessa identità delle cose viene messa in discussione. L’immagine del fiume le cui acque continuano a scorrere e non consentono di considerare il fiume come un’entità stabile e ri-identificabile, esprime in modo plastico e suggestivo l’idea eraclitea del perenne flusso delle cose. Radicalizzando questo motivo si potrebbe arrivare a dire – come in effetti alcuni eraclitei dissero – che neppure l’individuo che entra nel fiume è sempre lo stesso, perché risulta anch’esso sottoposto alla legge del divenire universale.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
80. Occorre sapere che il conflitto è comune, che la contesa è giustizia, e che tutte le cose accadono secondo contesa e necessità. 82. La più bella delle scimmie, paragonata al genere umano, è brutta. 83. Il più sapiente degli uomini appare una scimmia di fronte a dio, sia per sapienza che per bellezza. 88. La medesima cosa il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando sono quelli, e quelli di nuovo mutando questi. Desti e dormienti
89. Per coloro che sono svegli il cosmo è comune e unico, ma quando dormono ciascuno si rivolge a ciò che gli è proprio. [H] 90. Con il fuoco si scambiano, in alterna vicenda, tutte le cose, e tutte le cose con il fuoco; come i beni con l’oro e l’oro con i beni.
Il flusso continuo
91. Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume. [I] 102. Per la divinità tutte le cose sono belle e buone e giuste, gli uomini invece alcune le considerano ingiuste, altre giuste. 103. Come è nel cerchio il principio e la fine. 113. Pensare è comune a tutti. 116. A tutti gli uomini è consentito conoscere se stessi ed essere saggi. 121. Sarebbe bello che gli Efesi vadano tutti a impiccarsi, quanti sono di età adulta, e lascino lo stato ai fanciulli, essi che hanno mandato in esilio Ermodoro, l’uomo fra loro più abile, dicendo: «Non ci sia fra di noi un singolo uomo che sia più abile di tutti; e se per caso ve n’è uno, vada a stare altrove e con gli altri». (aforismi tratti da Eraclito, I frammenti, trad. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano 19912)
Questionario sull’argomentazione 1
Che cosa esprime Eraclito attraverso le opposizioni presenti nei frammenti 4, 9, 10, 13, 22, 27, 29? (max 3 righe)
2
In cosa consiste l’armonia di cui Eraclito parla nel frammento 54? (max 2 righe)
3
Nel frammento 76 Eraclito si esprime attraverso
l’idea del passaggio fra vita e morte, nel frammento 88 attraverso l’idea di identità. Cosa accomuna queste due diverse immagini? (max 3 righe) 4
A quali altri frammenti puoi collegare il frammento 121? Qual è la posizione politica di Eraclito e che legame c’è tra essa e la sua filosofia? (max 4 righe) 67
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Parte prima L’età antica
Laboratorio di lettura Empedocle, Sulla natura Il poema di Empedocle rappresenta uno dei documenti più affascinanti che il pensiero presocratico abbia prodotto. In esso convergono la tradizione naturalista (sorta in Ionia) e quella sapienziale (sviluppatasi soprattutto nell’Italia meridionale). Del resto la stessa figura di Empedocle, «scienziato» e «mago», sembra compendiare magnificamente questi due indirizzi. L’oggetto della sua indagine è il medesimo dei naturalisti, ossia la phy`sis (la totalità del cosmo, i processi che lo percorrono, le cose che lo abitano); il metodo è, almeno in parte, quello del grande Parmenide, dal quale Empedocle eredita l’esigenza di sottoporre ogni discorso alle ferree leggi della logica e del principio di non contraddizione (la nascita, in quanto passaggio dal non essere all’essere, non è pensabile); lo stile, infine, è quello iniziatico di Eraclito, ma anche di Parmenide, dal quale Empedocle riprende la forma poetica (maestosi esametri omerici) del suo scritto.
L’eterno ciclo del divenire Tesi: la generazione non è altro che mescolanza e separazione
8. Ma ti dirò un’altra cosa: non esiste generazione di nessuno fra tutti i mortali, né termine alcuno di morte funesta, ma solo esiste mescolanza e separazione di quanto si è mescolato; ma queste cose dagli uomini sono chiamate generazione.
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9. Essi, quando in forma di uomini gli elementi si mescolarono alla luce eterea, oppure d’animali silvestri, o d’arbusti, o di uccelli, questo ritennero che fosse generarsi; allorché poi si separano nuovamente, era questo all’opposto sventurato destino. Danno nomi così come è d’uso, ed anch’io a tale legge acconsento.
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Antitesi: la falsa credenza della maggioranza
11. Bambini! Certo non appartengono loro lungimiranti pensieri, essi che attendono il generarsi di ciò che innanzi non era, e che qualcosa possa morire e si distrugga del tutto.
Commento e interpretazione
A. I frammenti 8, 9, 11 e 12 contengono il medesimo pensiero. Si tratta del rifiuto di considerare i processi di generazione e corruzione che avvengono nel cosmo come se fossero vere e proprie nascite e morti. Questo è semplicemente il punto di vista della maggioranza, che si comporta come fanno i fanciulli. Empedocle recepisce da Parmenide e da Melisso il principio per cui nulla può generarsi dal nulla (nihil ex nihilo). Dunque, ciò che si presenta come un processo di generazione non è altro che la trasformazione di qualcosa in qualcos’altro; o meglio, è la mescolanza e la separazione delle uniche realtà veramente esistenti, ossia i quattro elementi primordiali: acqua, aria, terra e fuoco. Di conseguenza, per Empedocle tutte le cose – uomini, piante, animali – costituiscono il prodotto della mescolanza (mìxis) e della separazione (diàllaxis) delle radici cosmiche, le quali, invece, esistono sempre, ossia sono eterne (proprio come l’essere degli eleatici). B. L’ultima parte di questo lungo frammento riprende quasi alla lettera espressioni contenute nel frammento 8 di Parmenide (vedi p. 46 s.). Anche per Empedocle la generazio-
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici Tesi: nulla può generarsi dal nulla
12. Infatti da ciò che mai è esistito è inattuabile il generarsi, e vano e impensabile è che perisca quello che esiste; in eterno infatti sarà, dove ogni volta qualcuno lo avrà collocato. [A]
Argomenti: unione e dissoluzione, mescolanza e separazione degli elementi L’eterno ciclo del divenire
17. Doppia sarà la mia esposizione; ora infatti l’uno si accresce dal molteplice derivando, ora all’inverso il molteplice dall’uno si genera. E doppia è la nascita dei mortali, doppia la dissoluzione. L’unione infatti di tutti gli elementi genera la nascita e a un tempo la fa perire, e all’inverso l’unione, separandosi gli elementi, dilaniata si dilegua. E queste cose mutando eternamente non si fermano mai, in un tempo convengono tutte quante nell’uno per opera dell’Amicizia; in un tempo sono travolte al contrario, separatamente ciascuna, dall’inimicizia che nasce dalla Contesa. E poi di nuovo, dissolvendosi l’uno, risultano molti; in questo modo divengono, e non è immota la loro eterna durata. Ma poiché interamente mutando non si fermano mai, immobili in questo modo sono in eterno, secondo il ciclo. Ma orsù, ora ascolta queste parole; il sapere ti arricchisce l’animo. Così come dissi anche prima chiarendo i limiti del mio discorso, doppia sarà la mia esposizione; ora infatti l’uno si accresce dal molteplice derivando, così da essere solo, ora all’inverso il molteplice dall’uno si genera, fuoco e acqua e terra e l’immensa altezza dell’aria, e la Contesa funesta a parte di essi, simile ovunque; e l’Amicizia in essi, uguale in altezza e in ampiezza; tu guardala con la mente e non lasciarti sbigottire dagli occhi. [...] Questi elementi infatti si equivalgono tutti, ed hanno avuto generazione coeva, ciascuno si occupa del suo compito, secondo quanto spetta ad ognuno, e a vicenda governano il ciclo del tempo. E oltre ad essi nessuna cosa si genera né alcuna cosa finisce: fossero infatti perite completamente, ora non sarebbero più. Oppure questa cosa che è l’universo potrebbe in qualche modo aumentare? E giungendo da dove? E come potrebbe perire se solitaria non è nessuna di queste cose? Ma solo queste sono le cose che esistono, correnti l’una verso l’altra a vicenda si generano, sempre uguali in continuo. [B]
La forza attrattiva dell’Amicizia e la forza dissolutrice della Contesa
Gli elementi sono eterni perciò l’universo non può né diminuire né aumentare ma soltanto trasformarsi di continuo
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115. Esiste, come fatto di necessità, un antico decreto degli dèi, sigillato con ampiezza di giuramenti, se uno contamina nei delitti le proprie membra con il sangue, ed è questo: colui che macchiato di colpa violò il giuramento promesso […] tre volte diecimila stagioni dai beati dovrà allonne dal nulla è impensabile, così come è impensabile che l’universo si accresca o diminuisca, ossia che sorgano in esso cose che prima non c’erano e scompaiono cose esistenti. Dunque il divenire non può essere altro che mescolanza e separazione degli elementi. Per Empedocle, tuttavia, l’ipotesi dei quattro elementi non è sufficiente a spiegare i processi che avvengono nel cosmo. Occorre postulare l’azione di due cause, che determinano la formazione e la dissoluzione delle cose. Queste forze cosmiche sono rappresentate dalla Amicizia (philìa, che significa anche «Amore») e dalla Contesa (nèikos, che vuol dire anche «Odio»). L’Amicizia agisce come una sorta di calamita che attrae gli elementi dando così origine alle cose; l’Odio funge da forza di repulsione e determina l’allontanamento degli elementi e il dissolversi dei composti (naturalmente non può non colpire la nostra sensibilità il fatto che le due forze cosmiche presentino caratteri quasi psicologizzati). Empedocle sembra immaginare il divenire cosmico come l’alternarsi di fasi in cui predomina l’unità e di fasi in cui il molteplice prende il sopravvento: quando la forza di attrazione 69
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Parte prima L’età antica
tanarsi, errabondo, nascendo nel tempo in figura di ciascun essere mortale, percorrendo i sentieri di una vita penosa. Infatti il potere del cielo con violenza li sospinge nel mare, il mare li risospinge nel suolo terrestre, la terra contro i raggi sfavillanti del sole, e questi li scaglia in vortici d’aria. Con alterna vicenda essi li accolgono, ma ciascuni li aborre. Ed ora anche io sono fra costoro, bandito da dio e vagabondo, fedele dell’odio impazzito. [C]
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(brani tratti da Empedocle, I frammenti. Empedocle, trad. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano 19912)
generata dall’Amicizia si impone senza resistenza, tutto si unifica e nasce lo Sfero (in cui il cosmo si presenta come un’unità perfetta); quando, invece, il dominio viene esercitato dalla forza di repulsione prodotta dalla Contesa, gli elementi si isolano tra loro. Bisogna però aggiungere che la natura dei processi cosmici, e in particolare il tipo di effetti che l’azione dell’Amicizia e della Contesa producono sul piano cosmico, sono ancora oggi oggetto di accese dispute tra gli studiosi, i quali non sembrano giunti a risultati del tutto concordanti. C. Questo frammento deriva dall’opera Purificazioni, in cui Empedocle riprende la concezione pitagorica della metemsomatosi, ossia della trasmigrazione delle anime. Pitagorico dovrebbe essere il divieto di macchiarsi di sangue, ossia di uccidere (anche gli animali), formulato nelle prime righe. Senza dubbio pitagorica è poi la credenza che le anime impure subiscano un lungo processo di incarnazioni in corpi sempre diversi (non solo di animali ma anche di piante). Del resto, lo stesso Empedocle aveva dichiarato di essere stato «ragazzo, fanciulla, e arbusto e uccello e muto pesce del mare» (fr. 117, p. 54). Interessante è qui la concezione secondo la quale gli ambiti in cui le anime si possono incarnare corrispondono sostanzialmente agli elementi di cui è costituito l’universo: mare = acqua, terra, sole = fuoco, vortice = aria.
Questionario sull’argomentazione 1
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In che senso la generazione viene spiegata attraverso i concetti di mescolanza e di separazione nel frammento 8? (max 2 righe) Qual è il principio eleatico ripreso da Empedocle nel frammento 12? (max 2 righe) 70
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Qual è il ruolo di Amicizia e Contesa nell’universo descritto nel frammento 17? (max 4 righe)
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Quali sono i quattro ambiti nei quali per Empedocle avviene la trasmigrazione delle anime (metemsomatosi)? (max 5 righe)
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
1. Il luogo della filosofia: Atene
2. Il metodo filosofico socratico 3. Il rapporto tra virtù, conoscenza, felicità
2. I sofisti 1. Protagora e il relativismo 2. La potenza della parola: Gorgia
4. Il bene, la vita e la felicità del filosofo 5. L’eredità di Socrate: le cosiddette «scuole
socratiche»
3. La sofistica e l’illuminismo greco
3. Socrate e la filosofia 1. Il programma filosofico socratico
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Gorgia, Encomio di Elena
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Parte prima L’età antica
Il luogo della filosofia: Atene
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I sofisti e Atene
La supremazia di Atene
Clistene e le riforme
Pericle e la svolta democratica
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Per comprendere lo sviluppo della riflessione filosofica nel periodo che va dalla seconda metà del V fino alla prima parte del IV secolo a.C. occorre avere presenti le linee essenziali del quadro storico al cui interno questa riflessione si colloca. E prima di tutto occorre conoscere il luogo in cui essa si svolge; perché qui sta il punto: la filosofia di questo periodo non è dissociabile dalla città in cui si sviluppa. E questa città è naturalmente Atene. È vero che alcuni dei principali protagonisti di questa fase della riflessione filosofica non sono ateniesi (basti pensare ai due maggiori sofisti, Protagora e Gorgia); ma è altrettanto vero che essi soggiornano nella capitale dell’Attica e qui conseguono fama e prestigio (soprattutto Protagora, perché Gorgia, come vedremo, rimane ad Atene per poco tempo). Ancora più importante è però il fatto che i sofisti formano una vera generazione di intellettuali, allievi e adepti, la cui attività – politica e culturale – si svolge unicamente ad Atene. Risulta dunque fondamentale fornire una breve descrizione del contesto storico in cui sorge il pensiero sofistico (e, di riflesso, quello socratico e platonico). Nel corso del V secolo Atene era andata acquisendo una posizione di primo piano nell’ambito delle città-stato, le pòleis, greche. Il ruolo che essa giocò nelle vittoriose guerre contro i persiani (490-478 a.C.) le consentì di ottenere una posizione di supremazia, che nei decenni successivi venne rafforzata attraverso una spregiudicata politica di stampo ‘imperialista’ (diremmo noi oggi), ossia attraverso il sostanziale assoggettamento (politico ed economico) di altre città e regioni (attuato soprattutto per mezzo di un accorto sistema di alleanze, nelle quali Atene si attribuiva una funzione egemone, mentre i suoi partner risultavano in posizione subordinata). Imperialismo ed egemonia rappresentarono solo una faccia della medaglia. Atene conobbe per una lunga fase del V secolo una vera e propria svolta democratica della sua politica interna. In effetti già a partire dalla fine del VI secolo, con le riforme di Clistene, la città si era dotata di una serie di istituti di stampo tendenzialmente democratico. Particolarmente significativa fu, per esempio, l’introduzione della Boulè, un’assemblea generale formata, per elezione democratica, da cinquecento membri; ancora più importante fu l’estensione dei diritti politici a tutti i cittadini (naturalmente maschi, maggiorenni e liberi); le cariche pubbliche, ossia le magistrature, potevano venire affidate, per sorteggio o per votazione, a chiunque; dunque, un minimo di competenza politica era richiesto a tutti. Per questo lo Stato prevedeva un piccolo indennizzo (lontano antenato delle nostre indennità di rappresentanza) per quei cittadini che partecipavano alla vita pubblica (e che erano dunque costretti a tralasciare momentaneamente i loro affari). Se le riforme di Clistene – giunte al termine di un lungo processo di democratizzazione della vita cittadina che era iniziato quasi un secolo prima con Solone – garantirono, per così dire, il quadro istituzionale della trasformazione in senso democratico di Atene, solo con Pericle (al potere quasi ininterrottamente dal 460 al 429 a.C.) si impose nella politica ateniese una vera e propria svolta democratica anche di natura sostanziale.
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
Una contraddizione apparente
L’esigenza del consenso politico
➥ Sommario, p. 98
Pericle, leader del partito democratico, fu una sorta di autocrate che governò Atene sostanzialmente nell’interesse dei ceti subalterni (artigiani e in generale lavoratori), relegando ai margini l’aristocrazia tradizionale. Atene fu dunque imperialista nella politica estera e democratica in quella interna. Si tratta di una contraddizione? Solo apparentemente. Perché in realtà fu proprio l’atteggiamento aggressivo in politica estera che rese possibile all’interno una relativa pace sociale. I proventi economici che derivavano dalla politica egemonica nei confronti di molte regioni della Grecia (sia continentale che colonizzata) consentirono infatti di sostenere i cosiddetti ‘costi della democrazia’. Il pagamento delle indennità e la stessa realizzazione del complesso di iniziative collegate alla vita democratica (per esempio la costruzione di imponenti opere pubbliche, come il Partenone, l’allestimento di grandi feste e di spettacoli teatrali) furono resi possibili proprio grazie alla natura aggressiva della politica estera. L’elemento più significativo della democrazia dal punto di vista politico-culturale fu però rappresentato dal sorgere di una nuova esigenza: quella di acquisire il consenso. In effetti, in un regime democratico la legittimazione al potere non viene più garantita dall’appartenenza a una determinata famiglia particolarmente prestigiosa e influente, ma deve essere conquistata attraverso l’ottenimento del consenso intorno alle proprie idee e alle proprie proposte. In una parola, bisogna essere in grado di persuadere gli altri cittadini nelle assemblee e nei tribunali; bisogna acquisire una competenza che renda capaci di condurre nel migliore dei modi la vita pubblica e quella privata.
I sofisti
2 I testi
Platone Teeteto: L’uomo è misura di tutte le cose, T1 Gorgia: La «giustizia di natura» secondo Callicle, T2
L’arte della persuasione
Crizia Sisifo: L’astuta invenzione della religione, T3
Non ci dovrebbe risultare difficile comprendere che in un simile quadro – del tutto nuovo per la vita ateniese – cominciano ad assumere un ruolo sempre più rilevante coloro che sono in grado di insegnare (dietro compenso) ai cittadini l’arte di discorrere nelle assemblee e nei tribunali, l’arte cioè di persuadere. Costoro altri non sono che i famosi «sofisti». Essi si presentano come gli unici capaci di insegnare l’arte politica (la tèchne politikè), ossia l’insieme delle competenze – soprattutto linguistiche, ma anche comportamentali – che consentono a un cittadino di svolgere nel migliore dei modi la sua attività all’interno della vita associata. I sofisti si vantano di sapere «rendere forte un discorso debole», vale a dire di argomentare in modo così efficace da trasformare una tesi inizialmente poco ap73
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Parte prima L’età antica
Professionisti della cultura
Dall’indagine della natura all’indagine dell’uomo
La rivoluzione culturale e filosofica dei sofisti
Ambito Trasferimento dell’indagine filosofica dalla natura all’uomo e all’ambiente sociale in cui vive (la città)
1 L’uomo «misura di tutte le cose»
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petibile in una attraente (inducendo la maggioranza dei cittadini di un’assemblea o dei giudici di un tribunale a preferirla). Ma chi sono i sofisti? Si tratta di veri e propri professionisti (la parola sofista significa «maestro di sapere» e, dunque, «sapiente») della cultura, i quali prestavano i propri servigi ricevendo in compenso del denaro (i loro clienti erano generalmente i rampolli delle famiglie più facoltose). In un primo tempo i sofisti più popolari provengono da fuori Atene (i già menzionati Protagora e Gorgia); ma non tarda a formarsi una vera e propria generazione autoctona di sofisti (Crizia, Antifonte e altri ancora, come Ippia che, seppure non ateniese di nascita, ad Atene acquisisce fama e prestigio). Dalle descrizioni contenute all’interno dei dialoghi di Platone sembra di poter concludere che i sofisti divengono vere e proprie star mediatiche, e che la loro presenza domina la vita culturale ateniese per alcuni decenni. Sarebbe sbagliato tuttavia vedere nella sofistica una scuola o un indirizzo filosofico unitario e compatto. Si tratta piuttosto di un movimento, di un indirizzo generale, che i singoli autori sviluppano poi in maniera autonoma (non mancano divergenze anche significative su questioni importanti). Detto ciò, si possono comunque individuare alcuni denominatori comuni, che sembrano applicabili a quasi tutti i sofisti. Una diffusa tesi storiografica (in buona parte rispondente al vero) attribuisce, per esempio, al movimento sofistico il merito (o la colpa) di avere trasferito l’indagine filosofica dalla natura alla città e all’uomo. Si sostiene, infatti, che, se i fisiologi ionici e poi i naturalisti posteleatici si sono interessati principalmente della natura (dei processi che vi accadono, degli elementi che la compongono), i sofisti rivolgono la loro attenzione essenzialmente all’uomo (alle condizioni e ai modi della sua vita associata) e al linguaggio, ossia allo strumento principale della comunicazione umana. Come detto, questa immagine è in larga parte rispondente al vero, anche se non mancarono tra i sofisti coloro che proposero tesi relative alla struttura (o alla mancanza di struttura) del mondo. Un altro motivo che sembra accomunare molti sofisti consiste nella tendenza a collocare il fine della riflessione nell’utilità pratica (soprattutto sul piano politico e giudiziario) piuttosto che nella conoscenza teoretica. Quella sofistica è, come vedremo, una vera e propria rivoluzione culturale (prima ancora che filosofica), dalla quale non potranno prescindere neppure coloro che ad essa si opporranno tenacemente, ossia Socrate e soprattutto Platone. Strumento Centralità dello studio del linguaggio e delle sue potenzialità come strumento di intervento sul reale
Scopo Il fine della riflessione filosofica non è soltanto conoscitivo bensì (e soprattutto) pratico
Protagora e il relativismo Protagora di Abdera è senz’altro il sofista più celebrato e popolare. Platone lo presenta come un vero e proprio maître à penser, e non c’è dubbio che egli eserciti un ruolo significativo nella cultura ateniese dell’età di Pericle. La sua opera più importante si intitola Verità (Alètheia). Essa si apre con una sentenza che è
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
rimasta famosa: «di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono». Quella centralità dell’uomo di cui si diceva sopra sembra esplicitamente evocata nelle parole di Protagora.
La vita Protagora nacque ad Abdera nel 485 circa a.C. Egli esercitò ben presto un ruolo significativo sia sulla vita culturale che sulla scena politica ateniese. Secondo la tradizione tramandataci egli aderì infatti alla fazione democratica capeggiata da Pericle, il quale gli affidò incarichi delicati e importanti, come quello di redigere la costituzione della colonia panellenica di Turi (fondata
Non esistono verità assolute
Relativismo conoscitivo e relativismo etico
T1
L’uomo è misura di tutte le cose Platone, Teeteto, 166 D-167 D
nel 444 a.C.). Esercitò dunque ad Atene la professione di sofista per oltre quarant’anni. Tuttavia, a causa delle sue tesi agnostiche riguardo alla divinità, le sue opere vennero pubblicamente bruciate nell’agorà ed egli fu condannato all’esilio con l’accusa di empietà (come Anassagora, suo contemporaneo). Morì nel 420 circa a.C. in un naufragio, mentre si stava recando in Sicilia come esule.
Ma in che senso l’uomo sarebbe misura di tutte le cose? E poi, di quali cose esattamente? Bisogna riconoscere che una risposta univoca a questi due interrogativi non si presenta affatto agevole (del resto gli stessi antichi forniscono soluzioni diverse). A un primo livello la sentenza intende negare l’esistenza di verità e di norme assolute; le cose – così è stata spesso interpretata la formula protagorea – sono solo come e nel momento in cui appaiono agli uomini: non esistono un bene assoluto, un giusto assoluto, ma un bene e un giusto per gli uomini, e dunque un bene e un giusto che si modificano nella misura in cui cambiano i soggetti che li giudicano. È possibile che Protagora intendesse sostenere anche una sorta di sensismo universale, in base al quale le cose sono così come appaiono di volta in volta alla percezione dei singoli individui. Ma dietro le parole del sofista si cela quasi certamente un preciso significato politico: l’uomo, di cui si dice che rappresenta la misura di tutte le cose, non è solo il singolo individuo, ma anche una determinata comunità. Dunque, a questo livello, Protagora sostiene che ciò che appare giusto e buono per una certa comunità (ossia per i cittadini di una città), costituisce anche la norma per la suddetta comunità. Insomma, il sistema dei valori (cioè delle cose) vigente ad Atene (valido per gli uomini di Atene) non è lo stesso che circola a Sparta e al quale si uniformano gli spartani. Il relativismo di Protagora, come si vede, non concerne solo la dimensione conoscitiva, ma – e forse soprattutto – il piano etico e morale. Egli si dimostra consapevole che nel campo delle cose umane non si può acquisire una conoscenza certa e assoluta; bisogna accontentarsi del giudizio che appare di volta in volta migliore. Il compito del sofista consiste allora, secondo Protagora, nell’educare gli uomini a scegliere l’opzione che di volta in volta apparirà migliore, ossia più conveniente. Leggiamo un brano del dialogo Teeteto nel quale Platone immagina che sia Protagora stesso a parlare: Io affermo che la verità sta così come ho scritto: e cioè che ciascuno di noi è misura tanto delle cose che sono, quanto di quelle che non sono, e che noi siamo enormemente diversi l’uno dall’altro, perché per uno appaiono e quindi sono alcune cose, mentre per un altro appaiono e sono altre cose. Sono ben lungi dal dire, poi, che non esistano sapienza e uomini sapienti: definisco tale, piuttosto, colui che, trasformando uno di noi, per il quale una cosa appaia e sia brutta, riesca a fargliela apparire ed essere bella. E tu non attaccare di nuovo il mio ragionamento, prendendolo alla lettera. Cerca di comprendere ancora più chiaramente, piuttosto, ciò 75
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Parte prima L’età antica
che intendo dire. Ricordati, infatti, di quel che si è detto nei ragionamenti precedenti: a una persona malata appare amaro ciò che mangia e, in effetti, così è per lei, mentre per una persona sana è e appare il contrario. Nessuno dei due va considerato più sapiente – non è nemmeno possibile, infatti – e non si deve affermare che chi è malato è ignorante, perché ha simili impressioni, mentre chi è sano è sapiente, perché ne ha di diverse: è necessario, piuttosto, far sì che questa condizione muti nell’altra, dato che la seconda è migliore. E così anche nell’educazione: bisogna cambiare un certo carattere in un altro migliore; solo che il medico attua il mutamento attraverso i farmaci, mentre il sofista adopera i discorsi. Perché non è che qualcuno abbia fatto sì che un’altra persona, che prima aveva impressioni false, dopo il mutamento ne abbia di vere. E non è possibile formarsi opinioni su ciò che non è, né provare impressioni diverse da quelle che si provano: queste ultime, invece, sono sempre vere. Credo piuttosto che, migliorando la sua disposizione d’animo, si siano fatte avere opinioni diverse a una persona che, proprio a causa della sua cattiva disposizione d’animo, aveva opinioni conformi a questa condizione: e alcuni, per inesperienza, chiamano vere queste nuove apparenze, mentre io definisco le une migliori delle altre, ma nient’affatto più vere. […] Ciò che a ciascuna città sembra essere giusto e bello, tale è anche per essa, fintanto che continui a pensarla così: ma il sapiente ha fatto sì che, per i cittadini di ognuna di quelle città, siano e appaiano giuste cose convenienti invece di cose cattive. Secondo lo stesso ragionamento, anche il sofista, capace di fornire questa educazione ai suoi allievi, è sapiente e degno di ricevere ingenti retribuzioni da parte di coloro che ha educato. Dal relativismo al pragmatismo
Il relativismo di Protagora
In questa pagina Platone espone dunque efficacemente la tesi del relativismo e di conseguenza del pragmatismo di Protagora. Se lo stesso cibo appare dolce al sano e amaro al malato, non si può dire che la situazione del primo sia vera e la seconda falsa: sono in effetti entrambe «vere» nella misura in cui il soggetto prova queste esperienze (cioè ne è la «misura»). Ma siccome lo stato di salute è migliore (cioè praticamente preferibile) di quello della malattia, il medico cercherà di riportare le sensazioni del malato a quelle del sano. Così, le decisioni politiche e morali su ciò che è giusto e buono dipendono dalle valutazioni dei singoli e da quelle collettive delle città: anche qui, non si può dire che una di queste decisioni sia più «vera» di un’altra (per esempio: i greci seppelliscono i loro morti, altri popoli bruciano i cadaveri). Il compito del buon consigliere (cioè il sofista) è quello di convincere individui e comunità a prendere non le decisioni più vere (che sarebbe impossibile) ma quelle più utili, più efficaci ai fini della prosperità personale e collettiva («pragmatismo»).
«Di tutte le cose è misura l’uomo»
Non esistono verità o norme assolute indipendenti dall’uomo
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Relativismo conoscitivo
Relativismo etico-politico
«sensismo universale»: essere = apparire
«buono» e «giusto» sono relativi a una certa comunità
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
La natura democratica della città Protagora sembra sostenere la tesi secondo la quale tutti gli uomini sono in grado di prendere parte all’attività politica, in quanto tutti possiedono la virtù politica (aretè politikè). Questa tesi – che taluni hanno considerato una sorta di principio di legittimazione della democrazia ateniese – viene probabilmente sostenuta da Protagora attraverso il celebre mito di Prometeo ed Epimeteo (magnificamente esposto da Platone nel dialogo che porta il nome del grande sofista). Zeus – racconta dunque Protagora – aveva affidato a Epimeteo (che significa «poco preveggente») il compito di distribuire agli esseri viventi le dotazioni naturali con le quali avrebbero affrontato la vita. Con scarsa accortezza costui aveva esaurito tutte le dotazioni (forza, velocità, folto mantello per proteggersi dal freddo) distribuendole tra gli animali, e si era trovato senza più capacità da attribuire all’uomo. Gli era allora giunto in soccorso Prometeo (colui che «vede prima» e che dunque è previdente), il quale aveva assegnato agli uomini l’abilità tecnica, che nel mito prendeva la forma del dono del fuoco. Anche così, tuttavia, gli uomini non erano in grado di sopravvivere per la semplice ragione che non erano portati ad associarsi tra di loro formando delle comunità (tendevano anzi a entrare in conflitto gli uni con gli altri). Intervenne infine Zeus, il quale distribuì a tutti gli uomini (dunque non solo ad alcuni) la giustizia (dìke) e il rispetto reciproco (aidòs), che vengono a formare, secondo Protagora, la virtù politica. Quest’ultima, dunque, non appartiene a un gruppo circoscritto, ma a tutta l’umanità, o meglio a tutti i cittadini di una pòlis. Tutti sono perciò in possesso di quella minima competenza politica che li rende in grado di prendere parte agli affari pubblici. L’educazione impartita dal sofista consisterà in una sorta di affinamento di questa disponibilità alla vita politica che tutti gli uomini possiedono. Una posizione di questo tipo verrà contestata radicalmente da Platone (vedi Unità 3). Le «antilogie» Protagora compone anche uno scritto dal titolo Antilogie, in cui dimostra, probae l’agnosticismo bilmente per confermare la sua tesi circa la natura relativa della verità, che per ogni questione è possibile fornire due lògoi, ossia due ragionamenti, in contrasto fra loro. Questo atteggiamento scettico deve caratterizzare anche l’opera Sugli dèi, nella quale è contenuta una coraggiosa professione di agnosticismo. Afferma infatti Protagora: «intorno agli dèi non posso sapere nulla, né che esistono né che non esistono, e neppure di che natura sono, opponendosi a tale conoscenza molte cose: in particolare l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita».
Il mito di Prometeo ed Epimeteo: il dono della virtù politica
2 L’opera principale e le tre tesi
La potenza della parola: Gorgia Tra i sofisti solo Gorgia di Lentini può competere con Protagora per profondità filosofica e per influenza sulla tradizione successiva. Lo scritto Sul non essere o sulla natura manifesta già nel titolo l’intento che doveva animarlo; si tratta di un’opera polemica indirizzata contro l’eleatismo, e in particolare contro Melisso (il cui scritto ha per titolo Sulla natura o sull’essere, vedi p. 49). Gorgia vi sostiene tre tesi: 1) nulla è (o nulla esiste); 2) se anche qualcosa esistesse, esso sarebbe inconoscibile; 3) se anche fosse conoscibile, risulterebbe comunque incomunicabile. 77
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Parte prima L’età antica
La vita e le opere Gorgia nacque a Lentini, presso Siracusa, nel 480 circa a.C. Secondo alcune fonti egli fu per un certo periodo discepolo di Empedocle, anche se abbandonò ben presto gli interessi naturalistici che caratterizzano il maestro. Viaggiò moltissimo, per lo più in tutta la Grecia e soggiornò ad Atene, dove guidò forse un’ambasciata per conto della sua città. Fu uno scrittore estremamente proPrima tesi: nulla esiste
Seconda tesi: se anche qualcosa esistesse, sarebbe inconoscibile
Terza tesi: se anche qualcosa esistesse e fosse conoscibile, sarebbe incomunicabile
lifico, grazie anche alla sua estrema longevità. Assieme a Protagora divenne ben presto uno degli esponenti di spicco della sofistica. Compose numerosi manuali di retorica che ebbero grande diffusione negli ambienti filosofici e letterari del tempo. Di lui ci restano ampie sezioni della sua opera maggiore, Sul non essere o sulla natura, nonché dell’Encomio di Elena e dell’Apologia di Palamede. Morì nel 370 circa a.C.
Proviamo ad analizzare distintamente le tre tesi sopra indicate. Per Gorgia, dunque, nulla esiste. È probabile che egli intenda sostenere che intorno a nessuna cosa possiamo affermare un predicato determinato, possiamo cioè dire che possiede una certa qualità piuttosto che un’altra. Se qualcosa esistesse – afferma Gorgia – esso sarebbe, per esempio, o generato oppure ingenerato. Se fosse generato, dovrebbe essersi generato dal nulla; ma, come sappiamo proprio da Melisso e da Parmenide, nulla si può generare dal nulla; tuttavia non può neppure risultare ingenerato, perché, se lo fosse, non avrebbe principio e dunque sarebbe infinito; e ciò che è infinito (nello spazio e nel tempo) non può essere in nessun luogo. Dunque, conclude Gorgia, nulla è. Ammesso (e non concesso) che qualcosa fosse (ossia esistesse e possedesse una qualità determinata), non sarebbe però conoscibile. Secondo Gorgia, infatti, il nostro pensiero risulta del tutto inadeguato a cogliere l’esistenza di qualcosa che si trova al di fuori di esso. Questo sarebbe dimostrato, tra l’altro, dal fatto che molte nostre rappresentazioni mentali (per esempio cocchi che corrono sul mare, oppure chimere ecc.) non corrispondono a qualcosa di effettivamente esistente. Essere e pensiero appartengono per Gorgia a due universi in qualche modo incomunicabili. Ammesso (e naturalmente non concesso) che qualcosa esistesse e fosse conoscibile, esso non sarebbe però comunicabile, per la semplice ragione che il linguaggio rappresenta un dominio estraneo alla realtà. Per comunicare ci serviamo di nomi; ma questi sono irriducibili alle cose. Esiste insomma, agli occhi di Gorgia, uno scarto ineliminabile che separa l’ordine della realtà e l’ordine del discorso intorno ad essa. Siamo, come si sarà capito, agli antipodi dell’eleatismo (per il quale l’essere è, è perfettamente conoscibile dal pensiero e limpidamente comunicabile dalla parola). Non è chiaro quale forza dimostrativa Gorgia attribuisca effettivamente a questi argomenti e che genere di filosofia (relativistica, scettica, oppure nichilista) miri a costruire tramite essi, ma è molto probabile che egli li consideri persuasivi almeno quanto quelli opposti degli eleati, finalizzati a dimostrare la necessità dell’essere, la sua assoluta conoscibilità e il legame inscindibile tra esso e il linguaggio. Utilizzando procedure di tipo deduttivo molto simili a quelle di cui si è servito per esempio Melisso, Gorgia si propone di dimostrare la possibilità di pervenire a risultati del tutto opposti, che siano comunque ugualmente persuasivi.
La funzione persuasiva del linguaggio Linguaggio e realtà
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Per il grande sofista siciliano, tuttavia, il fatto che il linguaggio (il lògos) sia eterogeneo e incommensurabile rispetto alla realtà (o a ciò che presumiamo essere tale) non costituisce un elemento di debolezza; anzi rappresenta in un certo senso la ragione della sua straordinaria forza.
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Questo perché, secondo Gorgia, il linguaggio viene svincolato dalla realtà: non è più costretto a riprodurla, ma può muoversi liberamente e costruire qualcosa di simile a degli ‘universi paralleli’. In particolare la parola, ormai svincolata dall’obbligo di dire la realtà, può rivolgersi all’anima di chi ascolta, allo scopo di persuaderla, di commuoverla, di calmarla, di infonderle coraggio e naturalmente anche di spaventarla. In un simile contesto si comprende facilmente come la retorica, ossia l’arte della parola, acquisisca una rilevanza assoluta, finendo per rappresentare la disciplina più importante. Per Gorgia la parola è il «gran dominatore» («che con un piccolissimo corpo sa compiere cose divinissime») perché da essa, e dalla capacità di usarla, dipendono i destini dell’uomo (e in qualche modo anche la possibilità di raggiungere la felicità). Uno straordinario esempio di capacità di usare la parola viene fornito da Gorgia nel suo splendido Encomio di Elena. L’Encomio di Elena Costei, come è noto, era considerata la responsabile dello scoppio della guerra di Troia e dunque dei terribili lutti che essa arrecò ai greci e ai loro avversari troia➥ Laboratorio di lettura, ni. Gorgia mostra con il suo encomio di poter smontare questa accusa, dimop. 101 strandone l’infondatezza. Elena, sostiene Gorgia, non è responsabile di ciò che ha fatto, perché la causa del suo comportamento, ossia l’abbandono del tetto coniugale a seguito dell’amante Paride, risiede: 1) nel disegno del caso (ty`che); oppure 2) nel volere degli dèi; oppure 3) nel decreto della necessità; oppure ancora 4) nella violenza di chi la rapì; oppure 5) nella potenza irresistibile di Eros (ossia del richiamo amoroso); oppure, infine, 6) nelle capacità persuasive del lògos. In tutti questi casi Elena non è affatto responsabile e non può venire accusata. L’Encomio di Elena rappresenta uno degli esempi più suggestivi dell’abilità retorica dei sofisti e della loro straordinaria capacità di mettere in discussione ciò che veniva considerato vero e affidabile in virtù di una tradizione consolidata e apparentemente inattaccabile.
3
La sofistica e l’illuminismo greco
Protagora e Gorgia sono i massimi rappresentanti del movimento sofistico, ma non gli unici. La ricchezza e l’originalità di questa tendenza culturale non si esauriscono con loro. Figure come Prodico di Ceo, Ippia di Elide, Trasimaco di Calcedonia, Crizia, Antifonte e altre ancora, segnano profondamente la vita culturale e politica dell’Atene della seconda metà del V secolo. Del resto, come si è detto, la sofistica non è una vera e propria scuola filosofica, bensì un movimento complesso al cui interno convivono, accanto a importanti denominatori comuni, anche divergenze altrettanto significative. La separazione Uno dei motivi teorici intorno a cui si sviluppa la riflessione di molti sofisti è sentra natura e legge za dubbio costituito dalla consapevolezza della separazione tra «natura» (phy`sis) e «legge» (nòmos), o meglio della irriducibilità della seconda alla prima. A originare (o forse solo a rafforzare) questa consapevolezza intervengono sicuramente i contatti con altre popolazioni, determinatisi a seguito delle guerre con i persiani. Ci si rende inevitabilmente conto di quanto differiscano non solo le leggi (che dunque non sono affatto naturali), ma addirittura gli stessi codici morali degli uomini. Ciò che appare giusto per un popolo, viene considerato profonda79
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Parte prima L’età antica
Antifonte: l’opposizione tra le tendenze naturali umane e le norme giuridiche
mente ingiusto (e perciò perseguito) da un altro. Questo vale, come detto, sia per le leggi sia per i valori. L’autore di un’operetta dal titolo Discorsi doppi (Dissòi lògoi) può affermare: «se si ordinasse a tutti gli uomini di radunare in uno stesso luogo tutte le cose che essi ritengono vergognose, e una volta fatto ciò si ordinasse poi a ciascuno di prendere dal mucchio ciò che ritiene bello, non ne resterebbe neppure una, ma tutti si dividerebbero tutto». Una professione più esplicita di ‘relativismo culturale’ non potrebbe davvero venire formulata. La sofistica, al cui ambiente l’autore di questo trattato appartiene, sembra sostituire l’oggettivismo etico di matrice arcaica (per cui i valori sono dati nella natura) con un vero e proprio relativismo descrittivo che investe tutti gli aspetti (bene-male, giusto-ingiusto, vero-falso, bello-brutto). La riflessione intorno al rapporto tra natura e legge assume in alcuni sofisti un’importanza davvero centrale. Antifonte, per esempio, oppone in forma radicale i due termini, sostenendo che la legge prescrive una serie di norme che sono sostanzialmente contrarie alla tendenza naturale degli uomini.
La vita e le opere Antifonte nacque nella seconda metà del V secolo a.C. ad Atene, dove operò e insegnò negli anni della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), in un periodo di contrasti molto accesi tra opposte fazioni che ebbe certo un ruolo nell’elaborazione delle sue teorie sulla natura umana e
La sopraffazione, principio guida degli individui
Il patto sociale
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sulla vita in società. Sostenitore della netta contrapposizione tra convenzione (quindi legge) e natura, scrisse un’opera su La verità, forse in due libri, e una su La concordia. Fu anche matematico: secondo la testimonianza di Aristotele si deve infatti a lui il primo tentativo di soluzione del problema della quadratura del cerchio.
Gli uomini, secondo Antifonte, sarebbero portati per natura ad acquisire il massimo di soddisfazione e di benessere personale, anche a scapito degli altri individui. I sistemi giuridici, invece, frenano questa tendenza naturale, costringendo gli uomini a non danneggiarsi a vicenda. Di conseguenza ciascuno di noi si attiene a queste norme non perché le reputa naturali (e dunque consone al proprio intimo sentire), ma solo perché teme di subire le conseguenze che deriverebbero dalla loro trasgressione. Se si potesse commettere ingiustizia – pare che arrivasse a sostenere Antifonte – senza doverne pagare le conseguenze (per esempio rendendosi invisibili), lo si farebbe senza alcuna remora morale. Questo perché gli uomini sono naturalmente portati a sopraffarsi, essendo il principio naturale che guida le loro azioni quello della pleonexìa, ossia appunto della sopraffazione. Tuttavia, temendo di finire vittime della sopraffazione altrui, essi decidono di stipulare una sorta di «patto di non aggressione», che viene garantito dalle norme giuridiche. Sembra, insomma, che Antifonte argomenti più o meno in questo modo: i sistemi giuridici (cioè le leggi) rappresentano il frutto di un patto tra gli uomini, i quali, temendo gli effetti che si produrrebbero nel caso di un perenne conflitto di tutti contro tutti (che è la condizione naturale), decidono di stipulare delle norme finalizzate alla loro conservazione. Tutto ciò significa che gli uomini rispettano le leggi solo perché temono le conseguenze derivanti dalla loro trasgressione; tuttavia, se avessero la certezza dell’impunità, seguirebbero i loro istinti naturali, dando libero sfogo alla tendenza a sopraffarsi a vicenda. Il «patto sociale» viene dunque percepito come una violenza imposta alla natura. Non è sicuro che Antifonte sviluppi per intero il ragionamento che abbiamo riportato; non ci sono però dubbi che a partire dalla distinzione, da lui accettata e
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
approfondita, tra natura e legge, tesi come quelle appena menzionate circolassero negli ambienti culturali della sofistica e siano state riprese e confutate da Platone (vedi Unità 3, p. 116 ss.).
L’estremizzazione del dibattito su natura e legge Callicle: critica radicale della democrazia
Le posizioni sopra ricostruite vengono ulteriormente radicalizzate da alcuni sofisti. Si arriva, per esempio, a sostenere che le leggi non sono solamente una dolorosa necessità alla quale gli uomini ricorrono per scongiurare i rischi di un perenne conflitto generalizzato, ma addirittura che esse rappresentano una vera e propria perversione della natura, dal momento che consentono a coloro che sono naturalmente più deboli di imporsi sugli individui più forti. Una tesi di questo genere viene attribuita da Platone al misterioso Callicle, la cui esistenza storica non è sicura, ma che deve costituire, agli occhi del grande filosofo, il prototipo del radicalismo sofistico. Secondo Callicle (o chi per lui) le leggi non sono altro che ipocriti stratagemmi orchestrati dai più deboli allo scopo di sottomettere i più forti, impedendo loro di dare libero sfogo alla superiorità naturale di cui sono dotati. La norma naturale, che le leggi ipocritamente riescono a pervertire, prevede invece il dominio dei più forti, ossia di coloro che sono in grado di imporre il loro istinto di sopraffazione. Merita di venire riportata la pagina del Gorgia in cui Platone riassume le tesi del misterioso Callicle.
T2
Che le cose stiano così [ossia che i più forti debbano per natura comandare sui più deboli] è facilmente dimostrabile; basta guardare quel che succede fra gli animali e fra gli uomini, sia nelle città che nelle famiglie, per capire che questo è il criterio di giustizia: chi vale di più comanda a chi vale di meno, e possiede più cose. Per esempio, con quale criterio Serse fece una spedizione contro la Grecia e suo padre contro gli Sciti? […] Ti dico, per Zeus, che chi agisce così agisce secondo la natura della giustizia, ossia secondo la legge della natura, anche se forse non secondo la legge convenzionale degli uomini. Infatti che cosa facciamo noi uomini? Prendiamo i migliori e i più forti fra noi, e cerchiamo di addestrarli fin da piccoli, come si fa con i leoncini: con formulette e incantesimi li trasformiamo in schiavi, insegnando che tutti devono avere la stessa parte e che il bello e il giusto consistono in questo. Ma se nascesse uno con le doti adatte, un vero uomo, si strapperebbe di dosso, spezzerebbe e allontanerebbe tutte queste pastoie: calpesterebbe le nostre scritture, i trucchi e gli incantesimi e tutte le leggi contro la natura. Lui, lo schiavo, alzerebbe la testa e diventerebbe il nostro padrone, e allora brillerebbe la giustizia di natura.
La «giustizia di natura» secondo Callicle Platone, Gorgia, 483 D-484 B
Attacco più radicale alle tesi democratiche non potrebbe davvero venire portato. La sofistica, che è nata in un contesto sostanzialmente vicino alle posizioni democratiche (basti pensare a Protagora), presenta nella sua seconda generazione tesi di chiara impronta aristocratica, a ulteriore dimostrazione della natura variegata e non monolitica di questo straordinario movimento di pensiero. Trasimaco: la giustizia Sulla linea teorica cui fanno riferimento le posizioni appena ricostruite, ma opecome l’utile rando un’ulteriore radicalizzazione, si muove Trasimaco di Calcedonia, il grande del più forte avversario di Socrate nel I libro della Repubblica (vedi Unità 3, p. 118 s.). 81
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Parte prima L’età antica
La vita e le opere Nato nel 459 a.C. a Calcedonia, in Bitinia, antica regione situata nella parte nord-occidentale dell’Asia Minore, Trasimaco visse nell’Atene della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e la scelse come sede della sua attività di
Il diritto è dunque fondato sulla forza, ossia sul potere
Crizia: la religione come strumento del potere
maestro di oratoria; suo campo di interesse furono infatti, in particolare, l’oratoria civile e lo studio della politica. Fu noto nel mondo antico soprattutto per le sue conoscenze di tecnica retorica, tema su cui scrisse un manuale, il Trattato oratorio o Grande trattato.
Secondo Trasimaco la giustizia consiste effettivamente nell’osservanza delle leggi; giusto, dunque, è fare ciò che nei vari Stati le leggi prescrivono. Tuttavia, osserva Trasimaco, questo è solo il primo passo verso la comprensione del fenomeno. Perché a stabilire di volta in volta che cosa è giusto, ossia a formulare le norme giuridiche, è sempre il più forte (il più ricco, il più potente, o semplicemente la maggioranza). Dunque, chi detiene il potere (in quanto è il più forte) decide che cosa è giusto e lo fa nel proprio esclusivo interesse. Si comprende così la celebre tesi di Trasimaco secondo la quale la giustizia non è altro che «l’utile del più forte». Di conseguenza, se in una determinata città i più forti sono gli aristocratici, costoro stabiliranno delle leggi a proprio vantaggio, ossia delle leggi di carattere aristocratico; ma la medesima situazione si determina in un regime democratico, dove la maggioranza, che detiene il potere, emanerà normative di stampo democratico, al solo scopo di conservare e rafforzare il proprio potere. Il diritto dunque, secondo Trasimaco, si fonda in realtà sulla forza, ossia sul potere. Sostenere che le leggi possiedono un carattere neutrale rispetto ai conflitti reali costituisce, per Trasimaco, un’ingenuità intollerabile, oltre che una profonda falsità: la legge non regola i conflitti, bensì dipende da questi ultimi (e si limita a codificare il risultato di rapporti di forza reali). Nel contesto di radicalismo teorico e politico di cui stiamo ragionando si inserisce anche la riflessione di Crizia, zio di Platone e membro influente del partito oligarchico.
La vita e le opere Aristocratico di nascita e membro di una delle famiglie più nobili di Atene, Crizia vi nacque nel 455 a.C. Non praticò l’insegnamento ma finalizzò la sua abilità retorica all’esercizio della politica. Ebbe infatti un ruolo rilevante negli avvenimenti politici dell’Atene degli ultimi anni del V secolo. Nel 411 fece parte del governo oligarchico, caduto il quale fu costretto all’esilio. Soggiornò in Tessaglia, dove continuò ad appoggiare l’oligarchia e Sparta contro la de-
mocrazia ateniese. Rientrò ad Atene, sconfitta da Sparta e dai suoi alleati, nel 404; qui fu uno dei Trenta tiranni che insanguinarono la città ed ebbe l’incarico di stendere la nuova costituzione a carattere oligarchico-spartano. Perse la vita nel 403 in seguito alla rivolta contro i tiranni organizzata dal democratico Trasibulo. Fu scrittore molto fecondo e compose opere di argomento morale e politico, nonché poesie liriche e drammatiche. Si ricordano le quattro tragedie Tennes, Rabdamanto, Piritoo, Sisifo.
Secondo Crizia, la stessa religione, ossia la credenza nell’esistenza degli dèi e nelle punizioni che attendono i malvagi dopo la morte, non è altro che uno strumento di cui il potere si dota allo scopo di preservarsi. Chi governa si serve della paura che la religione trasmette agli uomini per indurre i governati al rispetto delle leggi (stipulate forse nel solo interesse dei governanti medesimi). Ecco come Crizia argomenta la sua tesi nel dramma Sisifo:
T3
L’astuta invenzione della religione Crizia, Sisifo
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Dal momento che le leggi non bastavano a tenere gli uomini lontani dal commettere violenze […] ma essi continuavano a commetterne di nascosto, ritengo che allora per la prima volta un uomo astuto e saggio nella mente inventò per i mortali il timore degli dèi, così da ingenerare timore nei cattivi anche se facessero o dicessero o semplicemente pensassero qualcosa di nascosto. […]
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
Così credo che all’origine qualcuno persuadesse gli uomini a credere che esista il divino.
L’universalismo conoscitivo di Ippia
I sofisti e l’«illuminismo greco»
➥ Sommario, p. 98
Agli occhi del sofista, dunque, la religione costituisce una sorta di instrumentum regni («strumento del potere assoluto»), finalizzato a estendere il potere coercitivo delle leggi anche dove esse rischiano di risultare impotenti (ossia nelle coscienze e nell’oscurità dei comportamenti sottratti alla visibilità pubblica). Di questa grande stagione di intellettuali fa parte anche Ippia che, a dare retta a Platone, assume la fisionomia di una vera star. Nato nel 443 circa a.C., in Elide, nel Peloponneso, fece molti viaggi ad Atene, Sparta, Olimpia e in Sicilia per conferenze e per impegni politici, in qualità di ambasciatore. Brillante e colto, è il prototipo dell’universalismo conoscitivo, dal momento che pretende di essere esperto in tutti i campi del sapere (si vanta, tra l’altro, di essere in grado di fabbricarsi da solo i propri vestiti e calzari). La sua abilità oratoria dipende soprattutto dal possesso della capacità di imparare a memoria interi discorsi (a lui si deve la formulazione di una vera e propria mnemotecnica). A proposito del movimento sofistico si è parlato di «illuminismo greco». In effetti, molti sofisti mettono in discussione convinzioni radicate, nel campo della realtà (soprattutto Gorgia), della conoscenza (ancora Gorgia e Protagora), della politica e in particolare della natura del potere (Antifonte, Callicle, Trasimaco), della religione (Protagora e Crizia), imponendo in tutti questi ambiti i diritti della ragione. Si tratta, molto spesso, di una ragione spregiudicata, che finisce per mettere in discussione (e addirittura per sconvolgere) schemi teorici e comportamentali profondamente radicati nella tradizione. La fase successiva della riflessione filosofica si impone l’obiettivo di ricostruire un orizzonte teorico e politico consistente, in grado di fare fronte alla grandiosa sfida lanciata dai sofisti. Esattamente a questo compito di rifondazione si accinsero Socrate e soprattutto Platone. I luoghi dei principali sofisti Città d’origine di Trasimaco, uno dei più spregiudicati esponenti della sofistica, celebre per la sua concezione della giustizia come utile del più forte
Città di nascita del sofista Protagora (e, in precedenza, di Democrito). Protagora si spostò poi ad Atene dove risiedette a lungo prima di esserne bandito, forse per le sue dottrine agnostiche; è sua la tesi relativistica per cui «l’uomo è misura di tutte le cose» Città di nascita di Gorgia, che viaggiò poi moltissimo, pressoché in tutta la Grecia, soggiornando per un breve periodo ad Atene; anche grazie alle sue eccezionali doti retoriche, egli divenne uno dei sofisti in assoluto più celebri
Calcedonia Abdera
Atene Lentini
Regione di nascita di Ippia; giunto ad Atene, vi riscosse uno straordinario successo, divenendo il prototipo dell’universalismo conoscitivo proposto dai sofisti
Elide
Sono di Atene Crizia, uno dei Trenta tiranni e zio di Platone, e Antifonte, celebre per la sua teoria del «patto di non aggressione»
Nel corso del V secolo, anche per il ruolo giocato nelle vittoriose guerre contro i persiani, Atene raggiunse una posizione di supremazia sulle altre città-stato greche. Con Pericle, al potere dal 460 al 429 a.C., essa giunse a una piena democrazia
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Parte prima L’età antica
Socrate e la filosofia
3 I testi
Platone Fedone: Socrate: l’incantamento della filosofia, T4 Apologia: Socrate: l’interpretazione dell’oracolo delfico, T5; Quel qualcosa di divino e demoniaco…, T6
Senofonte Memorabili: Socrate contro Antifonte: la felicità del filosofo, T7
Socrate è probabilmente il filosofo più famoso dell’intera storia del pensiero occidentale. La sua vita, il suo insegnamento e soprattutto la sua morte ne fanno una sorta di profeta della filosofia. A Socrate si sono rifatte pressoché tutte le correnti successive della filosofia antica: in qualche misura «socratici» furono i cinici, i cirenaici, i megarici, e poi, durante l’ellenismo, gli scettici e gli stessi stoici; e successivamente sia i medioplatonici che i neoplatonici e perfino i tardi pitagorici. A fare da contrappunto a questa straordinaria influenza interviene l’assoluta mancanza di certezza circa il suo reale pensiero. Socrate non scrisse nulla (come Pitagora); e il suo pensiero venne interpretato in modi diversi già dai suoi allievi diretti (Platone, Antistene, Senofonte, Euclide di Megara, Aristippo di Cirene). Come se non bastasse, i resoconti più importanti intorno all’attività e alla riflessione di Socrate offrono immagini tra loro diverse e a tratti perfino contrastanti: Aristofane, il grande commediografo, nella sua opera Le Nuvole sembra dipingere Socrate come un sofista; Platone, al contrario, lo presenta come l’avversario più pugnace dei sofisti; Senofonte ne parla come se fosse il cittadino esemplare, sempre rispettoso della morale e dei costumi della pòlis; Aristotele lo dipinge invece come un filosofo iper-razionalista, sostenitore di tesi spregiudicate e paradossali soprattutto nel campo della morale e dell’etica. Chi ha ragione? Una personalità Probabilmente tutti. Socrate è queste cose insieme, perché il suo insegnamento poliedrica presenta effettivamente tratti che possono venire intesi in ciascuno dei sensi sopra elencati. Con i sofisti condivide, per esempio, la convinzione che la riflessione filosofica debba concentrarsi sull’uomo e sulle modalità del suo stare insieme agli altri uomini; ma è anche un avversario dei sofisti perché tenta di superarne il relativismo etico, stabilendo norme universali del pensare e dell’agire; inoltre si oppone tenacemente all’idea, tipicamente sofistica, secondo la quale la competenza politica risulta sostanzialmente generalizzata (avversa in questo modo la tendenza della democrazia ad affidare le cariche pubbliche a chiunque); è anche un cittadino modello, disposto ad accettare addirittura la condanna a morte, pur di non sottrarsi a una decisione della sua città; infine, egli si fa anche portavoce di un certo radicalismo intellettualistico nel campo dell’etica e della morale (vedi p. 90), secondo la presentazione che ne fa Aristotele (e che presenta numerosi punti di contatto con concezioni che lo stesso Platone attribuisce al suo maestro).
Il ‘caso Socrate’
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
La vita Socrate nacque ad Atene nel 470 a.C. da uno scultore e una levatrice, come ci è testimoniato da Platone (Teeteto, 149 A). Trascorse la sua gioventù in quel crocevia culturale che fu l’Atene di Pericle, interessandosi inizialmente alla filosofia del tardo naturalismo ionico (Anassagora) e intrattenendo probabilmente alcuni rapporti con Parmenide e Zenone, nonché con l’ambiente pitagorico. Successivamente abbandonò l’orientamento naturalistico-metafisico per compiere ricerche sugli stessi temi dei sofisti (l’uomo, il linguaggio, la pòlis), attivi in Atene in questo stesso periodo, al punto che molti contemporanei guardarono a Socrate come a un sofista. Con i sofisti Socrate entrò tuttavia presto in polemica, negando recisamente il valore della loro sapienza e della loro educazione, e iniziando a partire dal 430 circa la propria ‘missione educativa’ nei confronti dei suoi concittadini, che ebbe luogo in modo informale (per strada, nelle case, nell’agorà, ossia nella piazza delle assemblee cittadine) e gratuito, a differenza dell’insegnamento sofistico. Durante la guerra del Peloponneso (431-404) prese parte come oplita alle operazioni militari, dando prova di
grande valore. Nonostante il suo atteggiamento di cittadino modello, ebbe rapporti abbastanza problematici, anche se mai veramente conflittuali, con il potere politico, sia democratico che oligarchico. Durante il regime dei Trenta tiranni (404) ebbe il coraggio di opporsi all’ordine di arrestare un loro nemico. Ma dai democratici fu spesso avvertito come un potenziale avversario, anche perché molti dei suoi discepoli furono importanti esponenti della fazione aristocratica. Durante il regime democratico che seguì a quello oligarchico dei Trenta gli venne intentata nel 399, da Anito e Meleto, l’accusa di corrompere i giovani, di non riconoscere le divinità tradizionali e di introdurne di nuove. Il processo politico e l’autodifesa di Socrate, narrati dal suo allievo Platone nell’Apologia, ci mostrano un cittadino-filosofo che, in nome della giustizia e della sottomissione alle leggi del suo Stato, accetta la condanna a morte rifiutando di patteggiare una pena alternativa (come pure sarebbe stato possibile). La sentenza venne eseguita nella primavera dello stesso anno con una bevanda a base di cicuta, che Socrate assunse mentre discuteva con i suoi discepoli sul destino dell’anima.
Si è osservato che le immagini di Socrate sorte immediatamente dopo la sua morte furono diverse e parzialmente contrastanti. Tutte, però, restituiscono aspetti e motivi effettivamente presenti nell’attività e nell’insegnamento di Socrate. Non c’è dubbio, comunque, che la testimonianza più significativa sia quella contenuta nei dialoghi platonici, soprattutto in quelli giovanili, che infatti vengono definiti «dialoghi socratici». Essi non restituiscono solo alcune specifiche concezioni sostenute da Socrate, ma anche (e soprattutto) un elemento centrale della sua attività filosofica: la straordinaria freschezza e mobilità del suo modo di intendere la filosofia. La stessa forma del dialogo – in cui gli interlocutori si incontrano in un ben preciso contesto e iniziano ad affrontare le questioni filosofiche quasi a partire da un grado zero di profondità teorica – rende nel modo migliore il modello di insegnamento socratico. La filosofia come cura Prima di dare avvio all’esposizione del pensiero socratico – almeno nella misura dell’anima in cui esso risulta ricostruibile – occorre fare una premessa di ordine generale. Occorre cioè precisare che l’intero discorso filosofico di Socrate è incentrato intorno a un protagonista ben preciso, un protagonista che aveva già fatto la sua comparsa sulla scena della riflessione greca. Si tratta dell’anima (psychè), alla quale già i pitagorici avevano assegnato una collocazione centrale. Per Socrate ciò che è veramente proprio dell’uomo, il suo sé, non è il corpo, non sono i beni che appartengono a quest’ultimo, bensì l’anima. La filosofia socratica assume i contorni di un grande progetto di cura dell’anima (epimèleia tes psychès). La testimonianza platonica
1 L’Apologia di Socrate
Il programma filosofico socratico Nell’Apologia di Socrate Platone riporta i discorsi che il suo maestro avrebbe pronunciato dinanzi ai giudici, per difendersi dalle accuse che gli erano state mosse. Questo scritto è stato spesso considerato come una sorta di testamento 85
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Parte prima L’età antica
spirituale di Socrate, ma esso è qualcosa di più: l’Apologia espone qualcosa di simile al programma filosofico di Socrate. A proposito di ciò di cui gli uomini devono veramente prendersi cura, Socrate afferma con decisione: «sono andato ad elargire in privato, individuo per individuo, quello che ritengo essere il massimo beneficio: ho cercato di persuadere ognuno di voi a non curarsi di alcuna delle proprie cose prima che di se stesso, del modo di diventare il più possibile buono e saggio, né delle cose della città prima che della città stessa» (Platone, Apologia, 36 C). In questa affermazione è condensato il senso del programma socratico, che sembra consistere nel tentativo di unificare due importanti tradizioni della riflessione precedente: quella pitagorica, dominata dalla cura per l’anima, e quella sofistica, incentrata sui temi della città. Il programma filosofico socratico
La concezione socratica dell’anima
T4
Socrate: l’incantamento della filosofia
Platone, Fedone, 114 D
Tradizione pitagorica Filosofia come cura dell’anima: ricerca della virtù e conoscenza del bene
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Tradizione sofistica Indagine sull’uomo in rapporto alla pòlis: definizione della giustizia e ruolo del cittadino nello Stato
Il sé di cui ciascun uomo dovrebbe primariamente curarsi non è altro che la sua anima. Socrate sembra condividere con i pitagorici tanto l’opinione che l’anima costituisca un’entità diversa ed eterogenea rispetto al corpo, quanto la convinzione che essa sopravviva alla morte del corpo e sia dunque immortale (athànatos). Le ultime ore di vita di Socrate – raccontate da Platone nel Fedone – sono interamente dedicate a convincere i suoi amici che ciò che l’attende, ossia la morte, non è in realtà un male, perché non riguarda ciò che lui ha di più proprio, vale a dire la sua anima. È difficile stabilire se le dimostrazioni dell’immortalità dell’anima che Platone attribuisce a Socrate in questo dialogo risalgano effettivamente al filosofo, e soprattutto se egli le ritenesse davvero definitive (le considerasse, cioè, vere e proprie dimostrazioni rigorose). Appare però certo che Socrate attribuisca alla credenza nell’immortalità dell’anima un valore morale, perché tale credenza si rivela ai suoi occhi un significativo sostegno al comportamento virtuoso. Poco prima di morire, dopo avere esposto un grande mito relativo ai premi e alle punizioni che attendono le anime degli uomini dopo la morte del corpo, Socrate precisa: Certo insistere a sostenere che le cose stiano proprio così come le ho esposte non si addice a persona che abbia senno; ma che sia così o qualcosa del genere riguardo alle anime nostre e alle loro dimore, dopo che è risultato che l’anima è immortale, questo mi pare si addica e anche che, per chi crede che le cose stiano così, valga la pena correre il rischio – giacché questo rischio è bello –; ed è indispensabile con cose di questo tipo quasi farsi l’incantamento, ed è per questa ragione che da un pezzo mi dilungo in questo mito. Il modo di fare filosofia di Socrate sembra presentarsi come un grandioso incantamento rivolto all’anima degli ascoltatori. Non si tratta però di un incantamento indirizzato agli elementi irrazionali, bensì alla ragione, perché, per Socrate, l’anima è essenzialmente ragione. La filosofia deve dunque persuadere, incantare, indirizzare l’anima verso la scelta della vita giusta.
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate L’oracolo delfico
Dai politici agli artigiani
La sapienza come «sapere di non sapere»
T5
Socrate: l’interpretazione dell’oracolo delfico Platone, Apologia, 21 B - 22 E
Nel presentare il proprio percorso filosofico Socrate spiega che esso ha preso inizio avendo un obiettivo preciso: quello di smentire la celebre sentenza dell’oracolo delfico, secondo il quale lui, Socrate, è il più sapiente degli uomini. Dal momento che egli ritiene di non sapere nulla, si mette in cerca di qualcuno che sia effettivamente sapiente, in modo da potere smentire il verdetto divino. Si rivolge allora ai politici, per rendersi subito conto che costoro si reputano sapienti, senza esserlo veramente perché non possiedono una precisa conoscenza intorno a ciò che è bello e buono. Quindi interroga i poeti per valutare il grado di conoscenza che essi hanno delle cose intorno alle quali scrivono; anche in questo caso comprende immediatamente che costoro risultano addirittura meno adeguati di chiunque altro a spiegare il contenuto delle loro opere, dimostrando così che a guidarli non è la sapienza (sophìa) ma semmai la dote naturale (phy`sis) e l’entusiasmo (enthousiasmòs). Infine si indirizza agli specialisti delle arti manuali, vale a dire ai technìtai, per rendersi conto che costoro erano sì sapienti, in quanto dotati di un sapere oggettivo controllabile e riproducibile, ma che perdono ogni diritto a essere considerati tali nel momento in cui pretendono, del tutto illegittimamente, di estendere il campo di applicazione delle loro conoscenze al di là dei limiti fissati dall’oggetto di cui si occupano. La loro è una conoscenza tecnica, che nulla ha a che fare con la virtù. Al termine di questa indagine Socrate si trova dunque costretto a riconoscere la validità del verdetto divino: egli è davvero il più sapiente degli uomini, ma la sua sapienza consiste essenzialmente nel riconoscimento della propria ignoranza, ossia nel «sapere di non sapere», inteso come punto di partenza di ogni indagine che voglia professarsi autenticamente filosofica. Socrate è ignorante esattamente come lo sono coloro che si proclamano sapienti; la sua sapienza dipende dalla consapevolezza della propria ignoranza. Vale la pena leggere questa celebre pagina dell’Apologia. Badate che vi racconto queste cose per spiegarvi finalmente donde è nata la calunnia contro di me. Allorché ho saputo di quel responso [quello che lo decretava il più sapiente degli uomini], naturalmente mi è venuto di riflettere: «Che mai vuol dire il dio, a cosa alluderà? Io per me sono consapevole di non essere affatto sapiente, per cui mi domando che cosa mai intende quando dichiara che sono il più sapiente di tutti: perché senza dubbio non sta mentendo, non gli è lecito». E dopo essere stato a lungo incerto sul significato del responso, alla fine, per quanto malvolentieri, mi decisi all’indagine di cui ora vi dirò. Andai da uno di coloro che hanno fama di essere sapienti, convinto che lì meglio che altrove, con la forza dell’evidenza, avrei potuto smentire l’oracolo: «Vedi, questo qui è più sapiente di me, mentre tu avevi detto che lo ero io». Esaminando dunque costui (non occorre che ne faccia il nome, era ad ogni modo uno dei nostri politici), mi parve che quest’individuo apparisse, sì, sapiente a molti e soprattutto a se stesso, ma non lo fosse realmente. Allora cercai appunto di fargli notare che si credeva sapiente senza esserlo, attirandomi così l’ostilità non solo sua ma di gran parte dell’uditorio. Nel tornarmene via mi resi conto che sì, più sapiente di quell’uomo lo ero: forse nessuno di noi due sapeva alcunché di bello e di buono, ma almeno, mentre lui riteneva di sapere e non sapeva, io non sapevo ma neanche presumevo di sapere: mi sembrava perciò di essere, come minimo, più sapiente di lui per il semplice fatto che, quel che non so, neanche m’illudo di saperlo. Recatomi poi da un altro, scelto fra quelli con fama di essere più sapienti del precedente, ne ricavai la stessa impressione e anche lì mi attirai l’ostilità sua e di parecchi altri. Dopodiché, 87
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già che c’ero, continuai il mio giro. Mi accorgevo sì, con tristezza e preoccupazione, che mi stavo rendendo antipatico, purtuttavia mi sembrava necessario tenere nella massima considerazione la parola del dio: ben occorreva andare da tutti quelli che avessero fama di sapere, tentando di capire il significato dell’oracolo. Per il cane! Ateniesi, vi devo dire la verità: mi è capitato che coloro che godevano della più alta stima risultavano a me, guidato dal dio nella mia ricerca, quasi i più inadeguati, là dove altri ritenuti mediocri erano di fatto più dotati intellettualmente. Bisogna davvero che vi descriva il mio vagabondare, le fatiche enormi affrontate per convincermi dell’irrefutabilità dell’oracolo. Dopo i politici, infatti, sono andato dai tragici, dai compositori di ditirambi e dagli altri poeti, aspettandomi di cogliere in flagrante me stesso, lì, come più ignorante di loro. E prendendo in mano, fra i poemi, quelli che mi parevano più elaborati, chiedevo loro di spiegarmeli, contando fra l’altro di imparare qualcosa. Ho qualche ritegno a confessarvi la verità, o cittadini, ma devo farlo: quasi tutti i presenti, si può dire, commentavano meglio di loro le cose che essi stessi avevano scritto! Non ci volle molto per capire che anche i poeti facevano quel che facevano non per sapienza, ma per un qualche talento naturale e trascinati dall’entusiasmo, come gli indovini e i vaticinatori, i quali dicono appunto molte cose belle, senza però saperne nulla. […] Alla fine andai dai lavoratori manuali: mentre per conto mio ero consapevole di non conoscere praticamente nulla, costoro prevedevo di trovarli in possesso di parecchie preziose conoscenze. E qui non mi sbagliavo, nel senso che possedevano nozioni a me ignote e in ciò erano più sapienti di me. Ma, Ateniesi, scoprii che anche i buoni artigiani incorrevano nello stesso errore dei poeti, ossia per il fatto di esercitare bene la propria arte, ognuno si credeva bravissimo anche in materie di massima importanza, con una presunzione che finiva per offuscare il loro effettivo sapere. Cosicché mi chiesi, per salvare il senso dell’oracolo, se preferivo rimanere così come ero, senza essere sapiente di quel loro tipo di sapienza ma neppure ignorante della loro ignoranza, o di condividerle con loro entrambe. A me stesso e all’oracolo, risposi che mi conveniva rimanere come ero. I limiti dei saperi diffusi e la nuova fondazione della morale
2 La critica dei falsi saperi
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Il risultato della lunga investigazione socratica è dunque negativo. I saperi diffusi nella città o non sono per niente saperi (come quelli del cui possesso si vantano i politici), o sono saperi limitati e irriflessi (come quelli dei poeti), oppure ancora sono circoscritti a un ambito tecnico e non concernono ciò che l’uomo ha di più proprio, ossia la sua anima (come nel caso degli artigiani). Ma questo risultato negativo può venire interpretato come il punto di partenza di ogni ricerca autentica. Il sapere di non sapere socratico si configura, dunque, come il presupposto (libero da presupposti) di qualsiasi indagine il cui scopo sia quello di fondare in modo del tutto razionale un comportamento morale, scelta o decisione che sia.
Il metodo filosofico socratico L’intera attività di Socrate sembra configurarsi come una radicale messa in discussione delle pretese di conoscenza avanzate dalle diverse figure intellettuali del tempo. Egli si impegna a dimostrare che il sapere di cui si vantano i suoi interlocutori (sofisti, uomini politici, poeti, esperti nelle varie tecniche) è un sapere non reale. Tre sono gli strumenti di cui il filosofo si avvale per conseguire que-
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
sto risultato: l’ammissione (ironica) del proprio non sapere, la maieutica e la confutazione (èlenchos). Ironia e maieutica Dichiarandosi ignorante, Socrate costringe i suoi interlocutori a mettere in gioco il loro presunto sapere. Essi non possono tirarsi indietro e infatti espongono con grande sicurezza la loro opinione sulla natura dell’oggetto intorno al quale verte la discussione: la virtù, il bene, il coraggio, la giustizia, la conoscenza. Socrate non si limita però ad ascoltare ciò che costoro hanno da dire. Egli li induce a un lavoro di introspezione, attraverso il quale essi estraggono dalla loro anima le opinioni che vi si trovano, e dichiara che, comportandosi in questo modo, egli è simile a una levatrice, la quale aiuta la partoriente a generare. La confutazione A questo punto entra in scena la procedura confutatoria, per mezzo della quale Socrate dimostra l’inconsistenza di queste opinioni. Lo fa inducendo i suoi interlocutori in contraddizione, mettendo in luce di volta in volta i falsi presupposti da cui le loro risposte dipendono, oppure ancora dimostrando il carattere parziale e non universalizzabile di queste risposte. Il risultato della confutazione socratica consiste nella messa in chiaro della natura solo apparente dei saperi diffusi nella città. Socrate si serve di un procedimento molto simile a quello utilizzato da Zenone (vedi Unità 1, p. 48): in un primo tempo egli accetta la tesi dell’interlocutore, poi ne esamina tutte le implicazioni, e infine la confuta, mettendone in luce l’intima contraddittorietà, oppure l’inaccettabilità delle conclusioni da essa ricavabili (si tratta di una delle possibili versioni del metodo dialettico). La ricerca dell’essenza Gli interlocutori di Socrate non conoscono veramente ciò di cui si pretendono esperti; essi non sono infatti in grado di fornire una definizione dei concetti sui quali ragionano, o meglio non fanno altro che presentare pseudo-definizioni del tutto inadeguate perché incapaci di cogliere il «che cosa è» (ti èsti) della cosa, ossia la sua essenza (ousìa). Quest’ultima deve possedere il carattere dell’universalità (to kathòlou, ma Socrate preferisce parlare di koinòn, cioè di «comune»), deve cioè risultare applicabile a tutti i casi particolari. Viceversa le varie definizioni proposte dai suoi interlocutori, quando non sono autocontraddittorie, risultano parziali e non generalizzabili: per esempio, definire la giustizia come «la restituzione di ciò che è stato prestato» non tiene conto del fatto che colui che ha prestato armi può nel frattempo essere impazzito e dunque causare danni qualora entrasse nuovamente in possesso delle stesse. Se non si conosce esattamente che cosa è una certa virtù, ossia se non si è capaci di fornire un discorso proposizionale (lògos) relativo ad essa, non si può stabilire se un’azione sia o meno virtuosa, vale a dire se soddisfi le condizioni richieste da quella definizione. Se non so che cosa è la giustizia, per esempio, come posso pretendere, oltre che di insegnarla (come molti sofisti facevano), di stabilire se quella determinata azione sia o meno giusta? Il metodo socratico
Ammissione ironica del proprio non sapere
L’interlocutore espone le proprie opinioni
Maieutica
L’interlocutore è indotto all’introspezione
Confutazione
Viene dimostrata l’inconsistenza delle opinioni prima sostenute
Ricerca dell’essenza
Si giunge a una definizione universale (o ‘comune’) dei concetti in gioco
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3 Conoscenza della virtù e comportamento virtuoso
➥ Laboratorio sul lessico, Bene / buono, p. 105
La tesi della virtù come conoscenza e la questione dell’incontinenza
L’intellettualismo etico socratico
La conoscenza del bene implica la sua attuazione
➥ Percorso tematico, p. 415
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Il rapporto tra virtù, conoscenza, felicità L’esigenza, da Socrate costantemente manifestata, di conoscere ciò di cui si parla rinvia a un altro dei motivi centrali della sua riflessione. Secondo Socrate il comportamento virtuoso non può prescindere dal sapere. Solo se si conosce che cosa è la virtù, si possono attuare comportamenti veramente virtuosi, ossia fondati su una piena consapevolezza del proprio agire. Sembra di poter dire che il fondamento di ogni comportamento morale risieda nella conoscenza della virtù corrispondente a questo comportamento. Per essere autenticamente coraggiosi, occorre conoscere che cosa sia il coraggio, perché la virtù – ogni virtù – è collegata in modo inscindibile alla consapevolezza che il soggetto deve possedere nell’atto di agire. Essere coraggiosi senza saperlo equivale a non esserlo affatto, tanto che Socrate arriva a formulare il paradosso in base al quale è preferibile fare il male volontariamente piuttosto che il bene in modo inconsapevole (appunto in considerazione del fatto che, per lui, chi conosce il bene, è irresistibilmente portato a farlo). Su questo punto è però opportuno soffermarsi brevemente. Sembra che per Socrate la conoscenza della virtù (e dunque del bene) sia di per sé sufficiente a essere virtuosi e buoni. Chi conosce il bene non può non attuarlo; se assume comportamenti non virtuosi, è solo perché non sa che cosa siano la virtù e il bene. Si tratta della controversa tesi secondo la quale «la virtù è conoscenza», una tesi che valse a Socrate l’accusa, mossagli da Aristotele, di avere ignorato il fenomeno dell’incontinenza o debolezza della volontà (akrasìa), che fa sì che, pur conoscendo il bene, spesso gli uomini mettano in atto comportamenti malvagi (o comunque non virtuosi) secondo il motto latino: video meliora, proboque, deteriora sequor («riconosco le cose migliori, le approvo, ma poi seguo le peggiori»). Secondo Socrate la forza di attrazione del bene risulta così pressante che è sostanzialmente impossibile sottrarvisi. La ragione per cui si compie il male risiede nell’ignoranza del bene: se un certo individuo si comporta ingiustamente, è perché non conosce che cosa sia la giustizia; se lo sapesse, non potrebbe che attuarla. Questa forma di intellettualismo (l’intelligenza, ossia la conoscenza, è sufficiente alla virtù) comporta, come detto, una serie di paradossi, divenuti celebri. Uno di questi recita: «nessuno compie il male volontariamente», che implica appunto la tesi secondo la quale l’errore morale dipende in ultima analisi da un deficit conoscitivo. Si tratta di posizioni effettivamente sostenute da Socrate nei dialoghi di Platone; esse rinviano, come detto, alla convinzione che il bene, una volta conosciuto razionalmente, non possa che venire attuato praticamente. Per questo, se l’uomo compie il male, lo fa solo per ignoranza del bene. Se un certo individuo sa che x è per lui bene, compie x; se egli mette invece in atto l’azione y, è perché crede erroneamente che y sia per lui un bene. Scegliendo y anziché x, egli reputa erroneamente che y gli procurerà più piaceri di x; in questo modo, un simile individuo risulta vittima di una sorta di confusione, prodotta in realtà dalla sua ignoranza intorno a ciò che è per lui veramente bene. Si tratta dell’errore tipico in cui incorre, per esempio, l’edonista, il quale crede che sia per lui bene abbuffarsi di cibo e non tiene conto (per ignoranza) dei danni che un simile comportamento è destinato a procurargli.
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate Conoscenza del bene e comportamento virtuoso
Assioma
Corollario 1
Corollario 2
Se x è un bene e A lo conosce, allora A (necessariamente) compie x (intellettualismo etico di Socrate: conoscenza → bene)
Se A non compie x, allora o x non è un bene oppure A non lo conosce (se si conosce il bene è impossibile non compierlo)
Se y è un male e A compie y, allora A crede erroneamente che y sia un bene (se si compie il male è solo per ignoranza del bene)
Quanto detto finora a proposito del bene e della virtù deve essere riferito, come si è visto all’inizio, non al corpo bensì all’anima, che costituisce il vero protagonista del discorso socratico. Socrate non parla di un bene del corpo o di una virtù del corpo, ma del bene e della virtù dell’anima. Il suo ragionamento dovette essere pressappoco il seguente: gli uomini desiderano essere felici; in effetti il conseguimento della felicità costituisce il fine di ogni comportamento (in questo senso Socrate si pone all’origine delle etiche eudaimonistiche, le quali sostengono che il fine dell’azione risiede nell’acquisizione della eudaimonìa, cioè della felicità); la felicità non è separabile dal bene; e in particolare da ciò che è buono per l’anima, visto che il sé dell’uomo è rappresentato dalla sua anima; dunque, per essere felici, si deve essere buoni e virtuosi, ossia realizzare il bene dell’anima, che si identifica con la virtù. Virtù e felicità tendono, per Socrate, a coincidere, e in ogni caso formano una coppia di elementi non separabili. Il problema dell’unità Un altro tema centrale della riflessione socratica dovette essere quello dell’unità della virtù della virtù. Egli si chiese se la virtù è unica oppure se esistono molte virtù tra loro diverse: saggezza, coraggio, giustizia, santità, temperanza sono nomi diversi di una medesima cosa, la virtù appunto, o sono invece parti di un concetto generale, oppure ancora entità indipendenti l’una dall’altra? La risposta socratica fu probabilmente articolata e non priva di una certa raffinatezza. Egli sostenne la tesi secondo la quale esiste una sorta di coimplicazione pragmatica tra le virtù. In parole più semplici, affermò che le virtù sono diverse l’una dall’altra per quanto concerne il loro contenuto concettuale (la definizione del coraggio, per esempio, è diversa da quella della giustizia o della temperanza); tuttavia, le virtù nella pratica si implicano, nel senso che chi ne possiede una, possiede anche le altre: non si può essere coraggiosi, senza contemporaneamente essere anche giusti e temperanti. Noi diremmo che l’unità della virtù va intesa in senso estensionale e non intensionale: la virtù non è unica in senso intensionale (perché le definizioni delle singole virtù sono differenti), ma l’estensione è la stessa, perché pragmaticamente, ossia nei casi concreti, l’individuo coraggioso è anche temperante e giusto, dal momento che le virtù nella prassi si implicano vicendevolmente. Il «dèmone» socratico Tra l’anima, la virtù e il bene sembra che Socrate collocasse un’altra, importante figura teorica. Si tratta del celebre dèmone (daimònion), al quale egli deve la pesante accusa di introdurre nuove divinità. Socrate allude infatti a una sorta di voce interiore (precorritrice forse della nostra coscienza), derivante direttamente dalla divinità, che lo mette in guardia dal compiere determinate azioni. Leggiamo, a pagina seguente, quanto Socrate racconta, per esempio, a proposito della rinuncia a svolgere direttamente attività politica. La convergenza di virtù e felicità
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Quel qualcosa di divino e demoniaco… Platone, Apologia, 31 C-D
Potrà sembrare forse strano, che io vada in giro e mi impicci degli affari altrui dando i miei consigli in privato, mentre in pubblico non oso farmi avanti, al cospetto della vostra assemblea, per consigliare la città. Il motivo di questo comportamento, cui mi avete sentito accennare spesso e in più luoghi, è che c’è in me qualcosa di divino e demoniaco (a questo certo si sarà riferito Meleto, prendendosi gioco di me, nel testo dell’accusa). Mi capita fin da quando ero ragazzo, sotto forma di una specie di voce che, quando si fa sentire, è sempre per distogliermi dal fare quello che sto per fare, mai per incitarmi. È questo che si oppone a che io mi impegni nell’attività politica. Con il richiamo al dèmone Socrate pare collegare l’ambito dell’anima, di cui il dèmone sembra rappresentare una sorta di parte o istanza divina, a una dimensione superiore, quasi a stabilire una relazione privilegiata tra la ragione e la divinità. Per Socrate, dunque, il fine dell’azione consiste nel conseguimento della felicità. E tale acquisizione dipende dalla conoscenza – e dalla conseguente inevitabile messa in pratica – della virtù e del bene (magari prestando ascolto alla voce divina del dèmone).
4 Che cosa è il bene?
Il bene come ricerca razionale delle condizioni dell’agire morale
Il dialogo: attuazione della ricerca filosofica e strumento maieutico
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Il bene, la vita e la felicità del filosofo Ma che cosa è il bene che l’uomo dovrebbe conoscere e attuare? Che cosa è la virtù corrispondente a questo bene? Finora non lo si è detto. Si tratta però di un silenzio non dipendente da una nostra colpa, perché è Socrate stesso a non avere definito chiaramente il bene. Egli preferisce impegnarsi a confutare i punti di vista dei suoi interlocutori piuttosto che sostenere una tesi in forma assertoria. Ma ciò non significa che non avesse un’opinione precisa sulla natura del bene. In un passo dell’Apologia questa opinione emerge in maniera abbastanza esplicita laddove il filosofo afferma: «Ancora meno mi crederete se vi dico che il più grande bene dato all’uomo è proprio questa possibilità di ragionare quotidianamente sulla virtù e sui vari temi su cui mi avete sentito discutere o esaminare me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta dall’uomo» (Platone, Apologia, 38 A). Ecco dunque il bene al quale deve aspirare ogni uomo: la ricerca razionale delle condizioni dell’agire morale; una ricerca che metta in gioco tutti i presupposti, che non sia mai paga dei risultati di volta in volta conseguiti, comporta già di per sé l’acquisizione della virtù e del bene, perché, come Socrate dichiara, una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. Si comprende allora la scelta socratica del dialogo come strumento della ricerca del bene e della virtù. Si tratta di uno strumento che nella concreta attività filosofica di Socrate rischia di identificarsi con il fine per il quale viene utilizzato. Ma per Socrate il dialogo non è solo il movimento effettivo della filosofia, intesa come ricerca incessante delle condizioni razionali dell’agire in modo virtuoso. Esso è il metodo che consente di estrapolare dall’anima degli interlocutori ciò che di autentico essa nasconde. Socrate dichiara, come si è visto, di non avere opinioni proprie, ma di essere capace, come una levatrice, di aiutare a nascere
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
Il lascito: il modello di vita socratico
La testimonianza di Senofonte
L’accusa di Antifonte
Gli argomenti di Socrate
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Socrate contro Antifonte: la felicità del filosofo Senofonte, Memorabili, 1,6
le opinioni degli altri. In questo senso la filosofia socratica si configura come maieutica, ossia esercizio di recupero di quella dimensione veritativa (cioè razionale e virtuosa) che si cela dentro ciascuno di noi. Come si sarà capito, l’eredità socratica si presenta, da un lato, davvero imponente, ma, dall’altro, estremamente difficile da gestire. Socrate incarna per secoli il modello della vita filosofica, ossia il bìos philosophikòs (un modello di vita opposto al tipo di vita attiva del politico). Nella sua stessa vicenda biografica è del resto facilmente leggibile lo scontro con la città, i suoi valori, le sue dinamiche associative e i suoi meccanismi di consenso. Socrate è stato dunque per secoli il modello del saggio isolato, messo a morte dalla città, ma mai veramente sconfitto dai suoi tribunali. Questo tipo di eredità è raccolto in larga parte dalle scuole socratiche (vedi p. 95) e attraverso di esse passa nella filosofia ellenistica, dominata dalla figura del saggio autarchico. Tuttavia, questa immagine isolata e autosufficiente della saggezza è anche avvertita come la ragione della sconfitta storica del socratismo. In questa direzione si muove il maggiore degli allievi di Socrate, Platone, il quale tenta di ricalibrare l’insegnamento del maestro in direzione di un progetto complessivo in cui la virtù del singolo individuo sia inserita in un quadro più ampio, quello della città giusta: l’etica (l’esistenza virtuosa dell’individuo) troverà allora compimento nella politica (la vita associata con gli altri uomini). Lo storico ateniese Senofonte (430-355 a.C.) fu uno dei principali allievi di Socrate, e nei suoi Memorabili offrì una preziosa testimonianza della vita e del pensiero del maestro. Sebbene assai meno filosoficamente profonda dell’interpretazione che di Socrate dette Platone, la testimonianza di Senofonte fornisce l’immagine di un Socrate ‘morale’ che influenzò profondamente le successive generazioni di socratici ‘minori’ (s’intende rispetto a Platone). Nel dialogo con il grande sofista Antifonte riportato sotto, Socrate si difende dall’accusa di essere un «maestro di infelicità» perché è povero, non ha alcun successo sulla scena sociale, non monetizza il suo insegnamento vendendolo dietro compenso. A queste accuse Socrate risponde con una serie di argomenti, centrati sull’idea della libertà e dell’autonomia del saggio, che con la sobrietà della sua vita si mette al riparo dal ricatto della ricchezza e dei piaceri. Riducendo i falsi bisogni, il filosofo si libera dalla dipendenza sociale, può dedicarsi ai veri amici e al bene della comunità, ai piaceri semplici di una vita sobria. La «virtù» del saggio gli garantisce così la vera felicità, che non consiste nel possesso e nel consumo di ricchezze, ma nell’autonomia, nella radicale libertà di pensiero e di azione. Queste convinzioni socratiche influirono profondamente sulla morale dei cinici e successivamente su quella degli stoici. Leggiamo dunque il brano. Merita anche che non si dimentichino le sue discussioni con Antifonte sofista. Antifonte infatti una volta si recò da Socrate con l’intenzione di portargli via i compagni e, alla presenza di questi ultimi, gli disse: «Io pensavo che quelli che si dedicano alla filosofia, o Socrate, dovessero diventare più felici; ma mi pare che dalla filosofia tu ottenga risultati opposti. Per esempio, tu conduci un tipo di vita, come non la sopporterebbe neanche uno schiavo messo a rigore dal padrone. Mangi e bevi cibi e bevande modestissimi, indossi un mantello che non solo è di cattiva qualità, ma è lo stesso estate e inverno e vivi costantemente senza scarpe e senza chitone [la tunica]. E per di più non accetti il denaro, che porta 93
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gioia a chi lo acquista e fa vivere in modo più conveniente a un uomo libero e più piacevole chi lo possiede. Se dunque, come i maestri delle altre discipline fanno diventare i propri scolari loro imitatori così intendi anche tu con i tuoi, sappi che sei un maestro di infelicità». E Socrate in risposta: «Mi pare, o Antifonte, che tu presuma che la mia vita sia così insopportabile, che sono sicuro tu preferiresti morire piuttosto che vivere come me. Allora, via, vediamo che cosa hai trovato di tanto brutto nella mia vita. Forse il fatto che mentre quelli che accettano denaro hanno l’obbligo di fare ciò per cui sono pagati, io invece, che non ne accetto, non sono costretto a discorrere con qualcuno se non lo voglio? O disprezzi il mio stile di vita perché mangio alimenti meno sani di te o che danno meno vigore? O perché i miei cibi sono più difficili da reperire dei tuoi, in quanto rari e pregiati? O perché quelli che ti procuri ti danno più piacere di quanto ne diano a me i miei? Non sai che colui che mangia con più appetito ha meno bisogno del condimento e chi beve con più gusto prova meno desiderio della bevanda che non c’è? Quanto poi ai mantelli, tu sai che quelli che li cambiano lo fanno per via del caldo e del freddo, e indossano calzature perché i piedi non siano impediti nel camminare da qualcosa che possa far loro dolore. Hai mai notato allora che io sia rimasto a casa più a lungo di altri per via del freddo, o che a causa del caldo abbia litigato con qualcuno per l’ombra, o che non sia andato dove volevo perché avevo male ai piedi? Non sai che, se si esercitano, quelli che sono fisicamente più deboli, negli esercizi in cui hanno fatto allenamento, diventano superiori ai più robusti, che non si sono allenati? E non pensi che io, che mi esercito a sopportare qualunque cosa capiti al mio corpo, sia capace di sopportare tutto più facilmente di te, che non fai questo esercizio? Credi che ci sia qualcosa di meglio per evitare la schiavitù del ventre, del sonno e della lascivia che non avere altri piaceri, più gradevoli dei primi e tali che non procurino gioia solo nel momento in cui li si vive, ma offrano anche speranza di benefici durevoli? Tu sai certamente che quelli che credono che niente andrà bene per loro, non provano gioia, ma quelli che pensano che le cose procederanno per loro con successo, nell’agricoltura, nella navigazione, o in qualsiasi altra opera si trovino a intraprendere, essi sono contenti perché si aspettano un buon esito. Credi dunque che da tutti questi godimenti ti verrà un piacere tanto grande quanto quello che viene dall’idea di pensare di migliorare se stessi e di acquistare amici migliori? Io vivo appunto con questo pensiero. Se poi gli amici o la città hanno bisogno di aiuto, ha forse più disponibilità per impegnarsi in questo, chi vive come me ora o chi vive nel modo che tu definisci felice? Chi potrebbe partecipare a una spedizione militare con più facilità, chi non può vivere senza uno stile di vita lussuoso o uno a cui basti quello che c’è? E chi si potrebbe espugnare più in fretta, chi ha bisogno delle cose più difficili da reperire o chi si contenta di utilizzare ciò che è più facile da ottenere? Mi sembra, o Antifonte, che tu creda che la felicità sia lusso e ricercatezza, io credo invece che non avere bisogno di niente sia proprio degli dei e l’aver bisogno del meno possibile sia la condizione più vicina al divino e siccome il divino è il migliore, ciò che è più vicino a lui è più vicino al migliore». In un’altra discussione con Socrate Antifonte disse: «O Socrate, io penso tu sia un uomo retto, ma sapiente proprio per nulla. E mi sembra che tu stesso te ne renda conto; infatti non accetti denaro in cambio della tua compagnia. Tuttavia certamente il mantello, la casa o qualunque altra cosa possiedi, poiché pensi che valga del denaro, non la cederesti a nessuno, non dico gratis, ma neanche rice94
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vendo un prezzo inferiore al suo valore. È chiaro dunque che se attribuissi un qualche valore alla tua compagnia, anche per essa pretenderesti un prezzo corrispondente al valore. Perciò tu puoi ben essere giusto, perché non imbrogli per avidità, ma sapiente no, perché ciò che tu sai non vale nulla». E Socrate rispose: «O Antifonte, presso di noi è convinzione diffusa che della bellezza e della sapienza allo stesso modo si possa disporre in maniera decente e indecente. Se uno vende infatti la sua bellezza per denaro a chi la vuole, lo chiamano prostituta, se uno invece si fa amico qualcuno che sa essere amante virtuoso, lo giudicano assennato. Lo stesso vale per quelli che mettono in vendita la propria sapienza a chi la vuole in cambio di denaro: li chiamano sofisti; invece chi insegna ciò che ha in sé di buono a uno che conosce essere naturalmente dotato e se lo fa amico, pensiamo che costui faccia quello che conviene a un cittadino e a un gentiluomo. Come un altro, o Antifonte, si compiace di un bel cavallo, o di un cane o di un uccello, così, e ancora di più, io traggo piacere dai buoni amici, e se so qualcosa di buono lo insegno loro e li introduco presso altre persone dalle quali credo otterranno benefici per il conseguimento della virtù; e i pensieri preziosi dei sapienti del passato, che essi hanno lasciato scritti sui loro libri, li ripercorro leggendoli e commentandoli con gli amici. E quando troviamo qualcosa di valido, lo scegliamo e consideriamo un gran guadagno il diventare reciprocamente amici». Certo quando sentivo questi discorsi mi pareva che egli fosse felice e che conducesse i suoi ascoltatori alla virtù.
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L’eredità di Socrate: le cosiddette «scuole socratiche»
Platone è senza dubbio il più importante dei discepoli di Socrate, ma non l’unico. Come detto, l’eredità del socratismo è complessa e articolata. Essa ha dato vita a delle correnti di pensiero autonome, le quali riprendono e sviluppano motivi effettivamente presenti nell’insegnamento del maestro. Si è soliti indicare questi indirizzi con l’espressione «scuole socratiche», aggiungendo spesso l’aggettivo «minori» (ovviamente allo scopo di distinguerle da Platone e dalla sua scuola). In generale va osservato che tali scuole (ma sarebbe più corretto parlare di indirizzi di pensiero) recuperano l’eredità individualista della riflessione socratica, concentrando quasi tutte la loro attenzione sull’idea del saggio, inteso come figura autonoma e indipendente nei confronti sia dei beni esterni sia delle istituzioni cittadine. La ricerca Il più anziano dei discepoli «minori» di Socrate è probabilmente Antistene dell’universale (436 ca. - 366 ca. a.C.). Egli si concentra in particolare su due aspetti dell’indi Antistene segnamento socratico: la ricerca dell’universale, ossia della definizione delle realtà intorno alle quali verte la discussione (la virtù, il bene, l’uomo ecc.), e l’idea del saggio come individuo autarchico, privo di bisogni e di ambizioni. Lo studio del problema della definizione, ossia la ricerca del «che cosa è» ciascuna cosa, lo porta a negare la possibilità stessa di formulare vere e proprie definizioni universali. Sembra che sia arrivato a sostenere che di ogni cosa è legittimo solo ripetere il nome, senza pretendere di fornirne una definizione. Si scaglia dunque contro la teoria platonica delle idee (vedi Unità 3, p. 132 ss.), affermando, secondo una testimonianza, «o Platone, vedo il cavallo, ma non la cavallinità».
Le scuole socratiche minori e l’idea del saggio
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Nel campo della morale Antistene sostiene un ideale molto radicale, che, partendo dall’identità tra virtù e felicità (stabilita da Socrate), nega con decisione la desiderabilità dei beni esterni (la ricchezza, la bellezza ecc.). Ancora più in là si spinge il suo allievo Diogene di Sinope (413-323 ca. a.C.), al quale si deve il nome di «cinismo», che solitamente viene usato per indicare questo movimento. Sembra che Diogene conducesse un’esistenza simile a quella dei cani (in greco ky`on, da cui il nome «cinici»), noncurante delle consuetudini e delle norme civili: era solito mangiare e bere senza ciotola e addirittura svolgere davanti a tutti le proprie funzioni fisiologiche. Al di là di questi aneddoti, l’elemento più significativo dal punto di vista filosofico consiste nel rifiuto delle convenzioni (e dunque delle dinamiche associative ad esse connesse) e nella fiducia assoluta attribuita alla virtù interiore, intesa come unica via per il conseguimento della felicità. L’edonismo di Aristippo Apparentemente diverso è il percorso intrapreso da Aristippo di Cirene (in Libia, e dei cirenaici 435-366 a.C.) e dal movimento che a lui si richiama (quello dei cirenaici). Anche Aristippo partì dall’equazione socratica tra virtù e felicità, ma ne ricava conclusioni sostanzialmente opposte a quelle dei cinici. Socrate aveva stabilito che il bene possiede una forza di attrazione alla quale non è possibile resistere (tanto che, per lui, la conoscenza del bene costituisce una garanzia della sua realizzazione); Aristippo osserva che il bene al quale gli uomini tendono è rappresentato dal piacere (hedonè), che costituisce dunque il principale centro di attrazione dei comportamenti individuali: bene e piacere perciò vanno senz’altro identificati. Per questo si è soliti vedere in Aristippo il primo rappresentante della tradizione edonistica dell’etica greca, destinata a venire sviluppata e approfondita nel corso dell’ellenismo da Epicuro (vedi Unità 6). Tutto ciò sembra fortemente antisocratico; occorre però precisare che per Aristippo l’uomo non deve essere dominato dai piaceri, bensì dominarli, ossia non diventarne mai schiavo, ma saperne godere, restando padrone di se stesso (e quest’ultimo motivo lo riconduce nell’alveo del socratismo).
Da Antistene a Diogene: il cinismo
Le scuole socratiche
Antistene
Diogene
Indirizzo cinico Ricerca dell’universale
Rifiuto dei beni esterni
Rifiuto delle convenzioni e perseguimento della sola virtù interiore
Aristippo
Cirenaici e tradizione edonistica
Bene = piacere, controllo di sé
Ricerca del piacere
Indirizzo cirenaico
Centralità e autonomia del saggio
➥ Sommario, p. 98
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Al di là delle autonome prospettive sviluppate, il tratto che accomuna le scuole socratiche minori risiede senza dubbio nella centralità attribuita all’individuo e nell’idea che il saggio sia autonomo dalle istituzioni cittadine e dal corso degli eventi esterni. Proprio a questo livello si situa ciò che del socratismo è destinato a essere ereditato dalle filosofie ellenistiche.
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate Suggerimenti bibliografici Per un’introduzione agile ed esaustiva vedi G.B. Kerferd, I sofisti, il Mulino, Bologna 1997. Un’ampia e distesa trattazione dell’intera sofistica è offerta da M. Untersteiner, I sofisti, Bruno Mondadori, Milano 1996 (seconda edizione ampliata e riveduta). Un’ormai classica introduzione al pensiero socratico, precisa e sintetica, è quella di F. Adorno, Introduzione a Socrate, Laterza, Roma-Bari 1999 (nuova edizione ampliata e aggiornata). Prospettive ardite e stimolanti sono offerte in G. Vlastos, Socrate. Il filosofo dell’ironia complessa, La Nuova Italia, Firenze 1998. I brani antologizzati sono tratti da: Platone, Teeteto, trad. di L. Antonelli, Feltrinelli, Milano 1994. Platone, Gorgia, trad. di G. Zanetto, BUR, Milano 1994. Crizia, Sisifo, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 20048. Platone, Fedone, trad. di P. Fabrini, BUR, Milano 1996. Platone, Apologia, trad. di M.M. Sassi, BUR, Milano 1993. Senofonte, Memorabili, trad. di A. Santoni, Rizzoli, Milano 1989.
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Parte prima L’età antica
Sommario 1. IL
LUOGO DELLA FILOSOFIA:
ATENE
Dalla seconda metà del V secolo fino alla prima parte del IV secolo a.C. lo sviluppo della filosofia risulta strettamente dipendente dai mutamenti politici e culturali che ebbero luogo ad Atene. In particolare, lo sviluppo in senso democratico della pòlis (culminato con Pericle) apre la strada a una folta schiera – abbastanza eterogenea quanto a orientamenti teorici e metodologici – di ‘professionisti della politica’, i sofisti. Al centro del loro insegnamento, rivolto ai giovani che volessero (e potessero) intraprendere la carriera politica, vi è la retorica, ossia l’arte di persuadere l’interlocutore. La riflessione filosofica dei sofisti risulta incentrata sull’uomo e sul suo rapporto con la pòlis. Ciò determina una certa rottura con la stagione filosofica dei presocratici, interessati soprattutto alla natura. 2. I
SOFISTI
Il tema della centralità dell’uomo trova in Protagora, il sofista più celebre assieme a Gorgia, la sua piena teorizzazione. La sua sentenza «di tutte le cose è misura l’uomo» esprime una forma di relativismo sia conoscitivo, secondo il quale non esistono verità assolute, sia etico, secondo il quale non esistono norme morali o giuridiche valide per ogni cultura o società. Compito del sofista è dunque quello di educare gli uomini a scegliere l’opzione (teorica o pratica) più conveniente rispetto alle circostanze concrete; il sofista deve quindi adottare una forma di pragmatismo. L’orientamento democratico di Protagora lo porta anche a sostenere che tutti gli uomini possiedono la virtù politica, e che dunque tutti sono in grado di accedere alle cariche pubbliche. [par. 1] La riflessione filosofica di Gorgia si incentra soprattutto su due questioni (interrelate): la polemica contro la scuola eleatica e la riflessione sulla natura del linguaggio e le sue potenzialità. Quanto alla prima questione Gorgia sostiene, contro gli eleati e in particolare Melisso, la tesi dell’inesistenza, inconoscibilità e incomunicabilità dell’essere. Quanto alla seconda, egli sostiene una sostanziale incommensurabilità tra linguaggio e realtà che, lungi dall’essere una limitazione per la parola, fonda il potere stesso della parola di creare universi indipendenti dalla realtà, all’interno dei quali la retorica può plasmare l’animo dell’ascoltatore. [par. 2] Uno dei nodi teorici attorno a cui si orienta la riflessione di molti sofisti è quello del rapporto tra natura (phy`sis) e legge (nòmos). Sebbene tutti i sofisti accettino la distinzione tra questi due concetti, diverse sono le loro concezioni riguardanti il cittadino, il potere, la funzione delle leggi. Antifonte sostiene un sostanziale conflitto tra tendenze naturali umane e norme giuridiche e vede lo Stato come il risultato di un «patto di 98
non aggressione» stipulato tra gli uomini. Posizioni più radicali sono quelle di Callicle, per cui le leggi sono una perversione dell’ordine naturale; di Trasimaco, per cui la giustizia consiste nell’utile del più forte; di Crizia, per cui la religione è uno strumento di potere. [par. 3] 3. SOCRATE
E LA FILOSOFIA
Socrate non scrisse nulla. Il suo pensiero deve perciò essere ricostruito dai resoconti della sua vita e dei suoi discorsi. Il ‘caso Socrate’ è inoltre complicato dal fatto che anche il suo pensiero è difficilmente incasellabile: se è vero che egli pone al centro della sua riflessione la cura dell’anima, è anche vero che il suo programma e il suo metodo filosofico si prestano a interpretazioni divergenti. La cura per Socrate significa anzitutto rendere prima se stesso e poi i propri concittadini più buoni, più saggi, più giusti. Concezione che poggia su una dottrina dell’immortalità dell’anima. Questo programma viene realizzato a partire dalla sentenza dell’oracolo delfico secondo la quale Socrate sarebbe l’uomo più sapiente; interpretata nel senso che egli è consapevole della propria ignoranza, alla luce del detto di «sapere di non sapere». [par. 1] A partire da questo nodo, Socrate sviluppa il suo metodo filosofico per eccellenza: il dialogo, condotto rigorosamente attraverso domande e risposte. Grazie ad esso egli può mostrare la falsità e l’inconsistenza dei saperi diffusi. Operazione che realizza attraverso gli strumenti dell’ironia, a iniziare dall’esplicita dichiarazione di ignoranza, della maieutica, con la quale aiuta figurativamente l’interlocutore a partorire le opinioni insite nella propria anima, e infine della confutazione, ovvero della demolizione delle tesi avversarie. In questo procedimento resta centrale la ricerca di una definizione dei concetti in grado di cogliere l’essenza della cosa, ovvero il carattere universale o ‘comune’ del concetto in gioco. [par. 2] Sul piano morale, Socrate stabilisce una fondamentale coincidenza tra sapere e bene, tale per cui la conoscenza, ovvero la verità, conduce necessariamente ad agire bene (intellettualismo etico). La virtù inoltre tende a coincidere per Socrate con la felicità. [par. 3] Rispetto al concetto del bene cui aspirare, Socrate sostiene infine una posizione tale per cui è la stessa ricerca razionale delle condizioni dell’agire morale a determinare la meta ultima della sua filosofia e del suo stile di vita. [par. 4] Eredi del pensiero e del modello socratico di vita filosofica sono sia la scuola cinica di Antistene e Diogene, incentrata soprattutto sulla ricerca della virtù interiore, sia quella di Aristippo e dei cirenaici, per i quali il bene coincide con il piacere (edonismo). [par. 5]
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
Parole chiave Agnosticismo (dal greco a-, prefisso che indica privazione, e gnòsis, «conoscenza»). Dottrina filosofica che afferma l’incapacità umana di conoscere l’assoluto, in quanto fuori dalla portata della ragione. Per quanto riguarda gli dèi – sostiene l’agnostico – non possiamo affermare con certezza né la loro esistenza né la loro inesistenza, poiché entrambe queste risposte vanno al di là delle capacità della ragione. Anima (in greco: psychè). L’oggetto principale della filosofia socratica in quanto ‘cura dell’anima’. Per Socrate, che riprende in questo l’insegnamento pitagorico, l’anima costituisce un’entità diversa ed eterogenea rispetto al corpo ed è immortale. Essa è vista come ciò che costituisce il vero ‘sé’ di ogni individuo, ciò di cui ogni individuo dovrebbe primariamente prendersi cura. Confutazione. Procedimento attraverso cui Socrate, nel corso del dialogo, arriva a mostrare l’insostenibilità della tesi dell’interlocutore, o perché essa ha conseguenze assurde o perché si rivela contraddittoria rispetto ad altre tesi sostenute dall’interlocutore stesso. Definizione. Espressione verbale che coglie l’essenza di ciò che è l’oggetto della discussione. Socrate spinge continuamente l’interlocutore a fornire una definizione che abbia il carattere dell’universalità, ossia che possa essere applicabile a ognuno dei singoli oggetti che ricadono sotto il concetto di cui si sta parlando. Dialogo (dal greco diàlogos). Per Socrate il dialogo è il metodo stesso della filosofia. In esso l’interlocutore viene stimolato continuamente a precisare le proprie tesi al fine di stabilirne la validità o meno, in un processo di ricerca della verità che si configura come mai finito. Essenza (in greco: ousìa). È il «che cos’è» di un cosa, ciò che fa sì che una cosa sia quello che è; in altri termini, ciò che è comune a un certo insieme di cose. Ironia (dal greco eironèia). È l’atteggiamento attraverso cui Socrate si pone di fronte al proprio interlocutore fingendosi assolutamente ignorante in merito all’argomento che verrà affrontato nel corso del dialogo. Linguaggio (in greco: lògos). Per il sofista Gorgia l’incommensurabilità tra il linguaggio e il reale, ossia l’incapacità del linguaggio di rendere conto della realtà delle cose e di rapportarsi ad esse, lungi dal costituire una limitazione per il linguaggio, rappresenta il suo punto di forza. Il linguaggio difatti, svincolato dalla realtà, è assurto a strumento principe per la costruzione di ‘universi paralleli’, capaci di stimolare in
molteplici modi l’anima dell’ascoltatore. Anche in Socrate il linguaggio ha un ruolo centrale in quanto strumento per il dialogo; esso è però teso non alla persuasione ma alla conoscenza della verità. Maieutica (dal greco maieutikè tèchne, «arte ostetricia»). In senso figurato, tecnica del dialogo socratico. Attraverso domande precise Socrate cerca di far ‘partorire’ all’interlocutore quelle conoscenze che sono già presenti nella sua anima ma che egli non sa di possedere. Il termine allude anche al fatto che la ricerca della verità può essere un processo doloroso, nel senso che non siamo facilmente disposti a disfarci delle nostre credenze. È significativo che la madre di Socrate fosse una levatrice. Pòlis. «Città-stato» della Grecia classica. Le pòleis sorgono attorno al VII-VI secolo a.C. e sono caratterizzate dai sistemi di governo più disparati. Atene, in particolare, costituisce nella sua fase di transizione democratica (V-IV secolo a.C.) il principale teatro in cui si sviluppa la filosofia dei sofisti e di Socrate. Relativismo / Pragmatismo. Il relativismo rifiuta l’esistenza sia di verità assolute sia di norme valide universalmente; nel primo caso si parla di relativismo teoretico o conoscitivo; nel secondo di relativismo morale. L’atteggiamento relativista, adottato da Protagora, lo condusse a sostenere una forma di pragmatismo: individui e comunità non debbono mirare ad assumere delle decisioni che siano «vere», ma piuttosto che risultino infine utili ed efficaci rispetto agli obiettivi perseguiti. Retorica (dal greco retorikè tèchne, «arte dell’eloquenza»). L’eloquenza come disciplina del parlare o dello scrivere bene, finalizzata alla persuasione dell’interlocutore. In quanto tale costituisce il nucleo dell’insegnamento impartito dai sofisti e la sua potenza viene esaltata sia da Protagora che da Gorgia. Virtù (in greco: aretè). In generale, essa rappresenta nel pensiero della Grecia classica ciò che rende qualcosa o qualcuno ciò che dovrebbe essere, ossia che realizza la sua essenza. Nell’ambito della filosofia socratica l’essenza dell’uomo, ciò che egli ha di veramente proprio, è la sua anima, che ha un carattere razionale. La virtù per Socrate si configura dunque come conoscenza del bene, da ricercare tramite il metodo del dialogo con tutti gli strumenti che esso comporta. Vita filosofica. Lo stile di vita del saggio, dedito alla ricerca filosofica. Socrate, seguito poi dalle scuole socratiche minori, incarna il modello di tale stile di vita, sostenendo che la ricerca della verità è ciò che, sola, rende la vita degna di essere vissuta. 99
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Parte prima L’età antica
Questionario IL
LUOGO DELLA FILOSOFIA:
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2
I
ATENE
Come sono da mettere in relazione tra loro l’evoluzione in senso democratico delle pòleis nel V secolo a.C. e il diffondersi dell’insegnamento sofistico? (max 5 righe) Quali discipline erano al centro dell’insegnamento dei sofisti e a chi si rivolgevano? (max 3 righe)
SOFISTI
3
4
In che senso la famosa affermazione di Protagora secondo cui «di tutte le cose è misura l’uomo» può essere considerata una professione di relativismo? (max 2 righe) Attraverso quale genere di argomento Protagora difese la propria concezione democratica della politica? (max 2 righe)
5
Qual è il rapporto tra il linguaggio e la realtà secondo Gorgia e cosa ne consegue dal punto di vista dell’utilizzo della lingua? (max 3 righe)
6
Come si configura il rapporto tra natura (phy`sis) e legge (nòmos) nel pensiero di Antifonte e cosa consegue da tale rapporto? (max 4 righe)
7
8
In che senso le posizioni di Callicle e Trasimaco rappresentano, ognuna a modo proprio, delle posizioni estreme rispetto alla natura delle leggi? (max 5 righe) Illustra brevemente la tesi sostenuta da Crizia riguardo alla genesi delle credenze religiose. (max 4 righe)
SOCRATE 9
14
Qual è la tesi fondamentale difesa da Protagora in T1, e quali sono gli argomenti principali che la sorreggono? (max 10 righe)
15
Qual è il rapporto tra la legge della natura e la legge degli uomini secondo la concezione di Callicle così come essa emerge in T2? (max 5 righe)
16
Qual è la conseguenza dell’invenzione della religione dal punto di vista del governo, secondo quanto sostiene Crizia in T3? (max 4 righe)
17
A quale «rischio» si riferisce Socrate in T4, e perché sostiene sia un bene correrlo? (max 6 righe)
18
In che cosa consiste la sapienza di Socrate così come risulta in T5? (max 1 riga)
19
Sempre in riferimento a T5, in cosa consiste l’ignoranza di coloro (politici, poeti, artigiani) che si ritengono sapienti? (max 2 righe)
20
In cosa consiste il ‘vantaggio conoscitivo’ di Socrate rispetto ai suoi interlocutori, stando a quanto emerge in T5? (max 3 righe)
21
Qual è il passo di T5 in cui Socrate mostra di avere finalmente compreso il significato dell’oracolo? (max 2 righe)
22
In cosa consiste la funzione della «voce interiore» di cui Socrate parla in T6? (max 2 righe)
23
Qual è l’apparente contraddizione riguardo al proprio comportamento cui Socrate allude in T6? (max 3 righe)
24
In cosa consiste la prima accusa avanzata da Antifonte nei confronti di Socrate e quali sono i principali argomenti che egli adduce a sua difesa stando a T7? (max 12 righe)
25
Qual è la tesi principale che sorregge la seconda critica di Antifonte, in T7, e come si sviluppa la strategia difensiva adottata da Socrate? (max 8 righe)
E LA FILOSOFIA
In che senso la filosofia socratica si configura come un grande progetto di «cura dell’anima»? (max 2 righe)
10
Che ruolo svolge l’oracolo delfico nel programma filosofico socratico? (max 2 righe)
11
In che rapporto stanno nel dialogo socratico i tre strumenti dell’ironia, della maieutica e della confutazione? (max 5 righe)
12
Che cosa si intende con «intellettualismo» socratico a proposito del rapporto tra conoscenza e virtù? (max 4 righe)
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Da quale caratteristica risultano accomunate le scuole socratiche minori? (max 2 righe)
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Lavoriamo sui testi
www.edusophia .it
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
Laboratorio di lettura Gorgia, Encomio di Elena
➥ Laboratorio di lettura, p. 264
Nella tradizione culturale greca, Elena – che aveva abbandonato il marito Menelao, re di Sparta, per seguire Alessandro (altro nome di Paride) a Troia, determinando quindi la spedizione di rappresaglia dei greci – era considerata responsabile di aver suscitato la guerra di Troia. Il grande sofista Gorgia, con una provocatoria arringa difensiva in un immaginario processo storico, si propone di far assolvere Elena da questa accusa dimostrandone l’irresponsabilità. Il comportamento di Elena può infatti essere stato determinato da uno di questi fattori: 1) il volere ineluttabile della divinità o un destino altrettanto ineluttabile; 2) la costrizione della forza (il rapimento); 3) la persuasione esercitata dalla potenza invincibile della parola; 4) l’amore suscitato dal fascino irresistibile di Alessandro. In ognuno di questi casi, Elena avrebbe ceduto a una forza cui non poteva opporsi, e dunque la sua decisione non può venire considerata libera e perciò responsabile. Nel linguaggio giuridico moderno, Elena sarebbe da considerarsi come «incapace di intendere e di volere». È facile vedere come nella brillante retorica di Gorgia sia implicito un importante problema filosofico: solo l’azione liberamente decisa può essere considerata moralmente responsabile e giuridicamente imputabile. Ma si può dire che noi siamo veramente liberi di decidere delle nostre azioni, visto che siamo esposti alla costrizione del destino, della forza altrui, del condizionamento persuasivo, della potenza incontrollabile di passioni, emozioni, desideri? Vedremo nell’Unità 4 come Aristotele, riprendendo la discussione sul problema della libertà, volontarietà e responsabilità dell’azione, elaborerà una soluzione assai diversa da quella del grande sofista.
Gorgia: non siamo responsabili delle nostre azioni Esordio
Tesi: Elena è accusata ingiustamente
Analisi delle cause del comportamento
(1) È decoro allo stato una balda gioventù; al corpo, bellezza; all’animo, sapienza; all’azione, virtù; alla parola, verità. Il contrario di questo, disdoro. E uomo e donna, e parola e opera, e città e azione conviene onorar di lode, chi di lode sia degno; ma sull’indegno, riversar onta; poiché è pari colpevolezza e stoltezza tanto biasimare le cose lodevoli, quanto lodare le riprovevoli. (2) È invece dovere dell’uomo, sia dire rettamente ciò che si addice, sia confutare i detrattori di Elena, donna sulla quale consona e concorde si afferma e la testimonianza di tutti i poeti, e la fama del nome, divenuto simbolo delle fortunose vicende. Pertanto io voglio, svolgendo il discorso secondo un certo metodo logico, lei così diffamata liberar dall’accusa, e dimostrati mentitori i suoi detrattori e svelata la verità, far cessare l’ignoranza. […] (5) Ma chi fu, e per qual motivo, e in che modo appagò l’amore colui che conquistò Elena, non lo dirò: ché il dire, a chi sa, ciò che sa, aggiunge fi-
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Parte prima L’età antica
Prima causa: Elena non si è potuta sottrarre alla volontà di forze imperscrutabili
Seconda causa: Elena ha subito violenza, quindi chi l’ha rapita è colpevole
Terza causa: la potenza della parola e la sua fascinazione hanno soggiogato Elena
Commento e interpretazione
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ducia, ma non porta diletto. E però, varcato ora, col discorso, il tempo d’allora, mi rifarò dal principio del discorso propostomi, ed esporrò le cause per le quali era naturale avvenisse la partenza di Elena verso Troia. (6) Infatti, ella fece quel che fece o per cieca volontà del Caso, e meditata decisione di Dèi, o decreto di Necessità [A]; oppure rapita per forza; o indotta con parole, o presa da amore. Se è per il primo motivo, è giusto che s’incolpi chi ha colpa; poiché la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire. Naturale è infatti non che il più forte sia ostacolato dal più debole, ma il più debole sia dal più forte comandato e condotto; e il più forte guidi, il più debole segua. E la Divinità supera l’uomo e in forza e in saggezza e nel resto. Che se dunque al Caso e alla Divinità va attribuita la colpa, Elena va dall’infamia liberata. (7) E se per forza fu rapita, e contro legge violentata, e contro giustizia oltraggiata, è chiaro che del rapitore è la colpa, in quanto oltraggiò, e che la rapita, in quanto oltraggiata, subì una sventura. Merita dunque, colui che intraprese da barbaro una barbara impresa, d’esser colpito e verbalmente, e legalmente, e praticamente; verbalmente, gli spetta l’accusa; legalmente, l’infamia; praticamente, la pena. Ma colei che fu violata, e della patria privata, e dei suoi cari orbata, come non dovrebbe esser piuttosto compianta che diffamata? ché quello compì il male, questa lo patì; giusto è dunque che questa si compianga, quello si detesti. [B] (8) Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l’animo, neppur questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi così: la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà. E come ciò ha luogo, lo spiegherò. (9) Perché bisogna anche spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere. Ma via, torniamo al discorso di prima. (10) Dunque, gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell’anima, la potenza dell’incanto, questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell’animo e in inganni della mente. (11) E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando un
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A. Gorgia indica qui tre modi possibili per individuare la subordinazione delle vicende umane a forze imperscrutabili che reggono il mondo: o la volontà deliberata degli dèi, o la cieca opera del caso (Ty`che), o un destino universale e necessario (Anànke). Ad ogni modo, l’individuo non può sottrarsi al potere di queste forze, che determinano anche gli eventi della sua vita. B. Se Elena è stata vittima di una violenza umana, la colpa dei fatti non ricade su di lei, ma sul rapitore che le ha usato violenza (Gorgia potrebbe però ripetere la sua arringa difensiva anche a favore di Alessandro, sostenendo per esempio che questi non poteva resistere all’attrazione amorosa suscitata in lui dalla bellezza di Elena). C. È questa la parte più interessante del discorso gorgiano. La parola persuasiva può esercitare una fascinazione irresistibile sui suoi ascoltatori, condizionandone le decisioni. Ne
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
La forza della persuasione più forte della volontà di Elena
Quarta causa: Elena non si è potuta sottrarre alla forza irresistibile dell’amore
finto discorso! Che se tutti avessero, circa tutte le cose, delle passate ricordo, delle presenti coscienza, delle future previdenza, non di eguale efficacia sarebbe il medesimo discorso, qual è invece per quelli, che appunto non riescono né a ricordare il passato, né a meditare sul presente, né a divinare il futuro; sicché nel più dei casi, i più offrono consigliera all’anima l’impressione del momento. La quale impressione, per esser fallace e incerta, in fallaci ed incerte fortune implica chi se ne serve. (12) Qual motivo ora impedisce di credere che Elena sia stata trascinata da lusinghe di parole, e così poco di sua volontà, come se fosse stata rapita con violenza? Così si constaterebbe l’imperio della persuasione, la quale, pur non avendo l’apparenza dell’ineluttabilità, ne ha tuttavia la potenza. Infatti un discorso che abbia persuaso una mente, costringe la mente che ha persuaso, e a credere nei detti, e a consentire nei fatti. Onde chi ha persuaso, in quanto ha esercitato una costrizione, è colpevole; mentre chi fu persuasa, in quanto costretta dalla forza della parola, a torto vien diffamata. (13) E poiché la persuasione, congiunta con la parola, riesce anche a dare all’anima l’impronta che vuole, bisogna apprendere anzitutto i ragionamenti dei meteorologi, i quali sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un’altra, fanno apparire agli occhi della mente l’incredibile e l’inconcepibile; in secondo luogo, i dibattiti oratorii di pubblica necessità [politici e giudiziari], nei quali un solo discorso non ispirato a verità, ma scritto con arte, suol dilettare e persuadere la folla; in terzo luogo, le schermaglie filosofiche, nelle quali si rivela anche con che rapidità l’intelligenza facilita il mutar di convinzioni dell’opinione. (14) C’è tra la potenza della parola e la disposizione dell’anima lo stesso rapporto che tra l’ufficio dei farmachi e la natura del corpo. Come infatti certi farmachi eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; così anche nei discorsi, alcuni producon dolore, altri diletto, altri paura, altri ispiran coraggio agli uditori, altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l’anima e la stregano. [C] (15) Ecco così spiegato che se ella fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata. Ora la quarta causa spiegherò col quarto ragionamento. Che se fu l’amore a compiere il tutto, non sarà difficile a lei sfuggire all’accusa del fallo attribuitole. Infatti la natura delle cose che vediamo non è quale la vogliamo noi, ma quale è coessenziale a ciascuna; e per mezzo della vista, l’anima anche nei suoi atteggiamenti ne vien modellata. [D]
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vengono addotte numerose prove: la commozione suscitata dalla poesia; le paure e le speranze destate dai discorsi sul futuro; i dibattiti politici e giudiziari, nei quali prevale chi meglio sa usare non la verità ma la persuasione retorica; persino le stesse discussioni degli scienziati (che qui Gorgia chiama «meteorologi», cioè studiosi dei fenomeni celesti), che possono distruggere o sostenere tesi facendo credere persino l’incredibile, e quelle dei filosofi, che fanno mutare di opinione con grande facilità grazie all’abilità retorica. Come i farmaci, i discorsi possono dunque «avvelenare l’anima». D. Gorgia menziona infine il desiderio d’amore, destato in primo luogo dall’affascinante visione della bellezza: una passione (Eros) che condivide secondo i greci la potenza degli dèi, e alla quale dunque nessuno può resistere.
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Parte prima L’età antica La vista ha un ruolo nel suscitare sentimenti negativi e positivi
L’amore ha la potenza degli dèi
Conclusione: Elena è, in ognuno dei casi esaminati, esente da colpa
(16) Per esempio, se mai l’occhio scorge nemici armarsi contro nemici in nemica armatura di bronzo e di ferro, l’una a offesa, l’altra a difesa, subito si turba, e turba l’anima, sicché spesso avviene che si fugge atterriti, come fosse il pericolo imminente. Poiché la consuetudine della legge, per quanto sia salda, viene scossa dalla paura prodotta dalla vista, il cui intervento fa dimenticare e il bello che risulta dalla legge, e il buono che nasce dalla vittoria. (17) E non di rado alcuni, alla vista di cose paurose, smarriscono nell’attimo la ragione che ancora possiedono: tanto la paura scaccia e soffoca l’intelligenza. Molti poi cadono in vani affanni, e in gravi malattie, e in insanabili follie; a tal punto la vista ha impresso loro nella mente le immagini delle cose vedute. E di cose terribili molte ne tralascio; ché sono, le tralasciate, simili a quelle anzidette. (18) D’altro lato i pittori, quando da molti colori e corpi compongono in modo perfetto un sol corpo e una sola figura, dilettano la vista. E figure umane scolpite, figure divine cesellate sogliono offrire agli occhi un gradito spettacolo. Sicché certe cose per natura addolorano la vista, certe altre l’attirano. Ché molte cose, in molti, di molti oggetti e persone inspirano l’amore e il desiderio. (19) Che se dunque lo sguardo di Elena, dilettato dalla figura di Alessandro, inspirò all’anima fervore e zelo d’amore, qual meraviglia? il quale amore, se, in quanto dio, ha degli dèi la divina potenza, come un essere inferiore potrebbe respingerlo, o resistergli? e se poi è un’infermità umana e una cecità della mente, non è da condannarsi come colpa, ma da giudicarsi come sventura; venne infatti, come venne, per agguati del caso, non per premeditazioni della mente; e per ineluttabilità d’amore, non per artificiosi raggiri. (29) Come dunque si può ritener giusto il disonore gettato su Elena, la quale, sia che abbia agito come ha agito perché innamorata, sia perché lusingata da parole, sia perché rapita con violenza, sia perché costretta da costrizione divina, in ogni caso è esente da colpa? (21) Ho distrutto con la parola l’infamia d’una donna, ho tenuto fede al principio propostomi all’inizio del discorso, ho tentato di annientare l’ingiustizia di un’onta e l’infondatezza di un’opinione; ho voluto scrivere questo discorso, che fosse a Elena di encomio, a me di gioco dialettico.
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(da Gorgia, Encomio di Elena, trad. di M. Timpanaro Cardini, in G. Giannantoni, a cura di, I presocratici, Laterza, Roma-Bari 1993, vol. 2)
Questionario sull’argomentazione 1
Qual è la tesi generale avanzata da Gorgia e quale la conclusione a cui perviene? (max 5 righe)
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Con quali argomenti Gorgia dimostra la potenza della parola? (max 8 righe)
Quali sono le principali cause che spiegano secondo Gorgia il comportamento di Elena, mostrandone la non colpevolezza? (max 10 righe) 104
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Che funzione svolge la figura di Eros nella strategia argomentativa di Gorgia? (max 6 righe)
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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana BENE / BUONO 1. «Bene» e «buono» come valutazione positiva Il termine «bene» e il corrispondente aggettivo «buono» rientrano senz’altro tra le parole più comunemente usate nel linguaggio quotidiano. E pur ammettendo tutte le ambiguità, le ambivalenze e le difficoltà che possiamo incontrare nel loro uso, normalmente questi termini vengono usati per esprimere valutazioni positive, per lodare, per raccomandare, ossia per pronunciare giudizi di valore positivi. Ciò che è bene, ciò che è buono è valutato positivamente: questo è l’uso più generale che si possa immaginare. Naturalmente, è sempre possibile trovare usi di questi termini che non siano valutazioni («Ha lasciato ai poveri tutti i suoi beni»), ma l’uso valutativo è sicuramente prevalente, e anche all’interno di quest’uso ci sono molte differenze. Valutazioni morali «Bene» è in generale ciò che merita l’aggettivo «buono», ovvero ciò che possiee non morali de la bontà, senza naturalmente che questa attribuzione della bontà debba avere un significato morale. In generale, queste parole vengono utilizzate per attribuire un valore positivo a qualcosa o a qualcuno, e in particolare si può dire che nella maggior parte delle occasioni in cui le utilizziamo non pensiamo a un significato morale, che corrisponde piuttosto a un uso molto particolare. E i due usi vanno distinti attentamente. Non c’è niente di «morale», per esempio, nel pronunciare il giudizio «Queste ciliege sono buone», mentre è del tutto verosimile che io stia esprimendo un giudizio morale quando pronuncio l’espressione «Maria è buona».
Problemi: 1) esiste il bene in sé? 2) è un unico bene o sono più beni? 3) qual è o quali sono?
2. Bene in sé e bene in vista di altro La prima distinzione importante quando si parla del bene e del termine «buono» non è tuttavia quella tra bene morale e bene non-morale, sulla quale torneremo, ma la distinzione tra ciò che è bene in sé e ciò che è bene in vista di altro, o come strumento per raggiungere un altro bene (che potrebbe essere un bene in sé) o come qualcosa che contribuisce, come parte, a un bene più ampio, per esempio una nota all’interno di un pezzo musicale. Questa distinzione è molto importante, ma non è completamente scontata. A questo riguardo ci possiamo infatti porre tre tipi di problemi. Ci possiamo innanzitutto chiedere, infatti, se in realtà ci sia qualcosa che è un bene in sé, indipendentemente dal rapporto con qualcos’altro. E non manca chi lo nega. Ma per quanto riguarda questo aspetto del bene, ci possiamo anche chiedere, in secondo luogo, se, ammettendo che esista qualcosa che è un bene in sé, un bene assoluto, si tratti di un unico bene o se invece non possano essere più beni a costituire, ciascuno di essi, un bene in sé. Un terzo problema potrebbe poi essere quello di indicare quale sia questo bene in sé o quali siano, se devono essere più d’uno. Le indicazioni possono naturalmente essere molto diverse. Si può per esempio pensare che il piacere, ivi inclusa l’assenza di dolore, abbia questo carattere di assolutezza, ma qualcuno po105
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Parte prima L’età antica
trebbe pensare invece che l’unica cosa che abbia valore in se stessa sia la virtù morale, o la bellezza, o l’amore. Nel caso, poi, che i beni in sé siano più di uno, la verità potrebbe consistere nell’esistenza di diverse cose che siano beni in sé, assoluti, e che l’errore sia proprio volere indicare un unico bene in sé, dando ad esso un’assolutezza che invece spetterebbe a ciascuno di una molteplicità di beni. Il problema Al problema appena visto si collega del resto anche il problema dell’oggettività dell’oggettività del bene del bene: il bene – o i beni – è qualcosa che nasce nelle valutazioni che vengono date, è quindi una creazione della valutazione, per quanto importante, oppure è qualcosa di valido anche indipendentemente dalle valutazioni, e che le valutazioni sono in grado semplicemente di scoprire, perché è indipendente dai soggetti che valutano e giudicano?
Oggetto della valutazione morale è l’individuo o il gruppo nelle componenti della sua personalità
Il motivo dell’azione è alla base del giudizio di «bontà» della stessa ➥ Laboratorio sul lessico, Giustizia / giusto, p. 191
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3. Bene morale e bene non morale Un’importante distinzione nel modo di usare le parole «bene» e «buono» consiste, come si è detto, nella distinzione tra un uso morale e un uso non morale. L’attribuzione di bontà o di valore nel caso morale e nel caso non-morale si distingue però almeno per due diversi aspetti. Innanzitutto, nei due casi sono diversi gli oggetti che chiamiamo «buoni»; inoltre, sono diversi i criteri, e quindi le ragioni che vengono date per un giudizio di valore di tipo non morale in confronto con un giudizio di valore di tipo morale. Di regola, quando attribuiamo la bontà morale la attribuiamo agli esseri umani e quando parliamo della bontà degli esseri umani parliamo della bontà morale. Anche in questo caso, è possibile prevedere eccezioni. Se per esempio un dialogo si svolge tra cannibali, il giudizio di valore «Maria è buona» potrebbe volere indicare qualcosa di diverso dalla sua bontà morale, ma bisogna ammettere che si tratta di un’ipotesi che fuoriesce dalle interpretazioni probabili o verosimili, almeno per la nostra cultura. In particolare, noi pensiamo che possano essere detti moralmente buoni gli esseri umani nella loro individualità o anche gruppi di esseri umani. E cos’è che valutiamo degli esseri umani, quando li chiamiamo «buoni»? Di solito, si parla della bontà morale degli esseri umani riferendoci a qualche elemento della personalità, a qualche tratto specifico di essa. Quando diciamo «Maria è buona» intendiamo riferirci a qualche tratto della personalità morale di Maria, per esempio al suo carattere, o alle sue intenzioni in un comportamento determinato che ha magari avuto un esito negativo (è, questo, il significato di «buono» nel proverbio «di buone intenzioni è lastricato l’inferno»), ai motivi del suo agire. Il riferimento, in generale, al motivo per cui si compiono le azioni, sembra essere uno degli elementi principali grazie ai quali diciamo di qualcuno che è buono in senso morale. Non sembra bastare, cioè, per essere «buono», un comportamento corretto, quello che qualcuno chiamerebbe un comportamento «giusto»: secondo un esempio che viene fatto spesso, è un’azione giusta, e secondo alcuni un dovere, aiutare una signora anziana ad attraversare la strada. Si può essere tutti d’accordo che si tratti di un’azione giusta, che rimane tale qualunque sia lo stato d’animo del soggetto che compie l’azione. Ma per giudicare la bontà di quest’azione, il riferimento decisivo è proprio a questo stato d’animo: se la signora è stata aiutata per vanagloria, l’azione rimarrà giusta, ma se questo è il motivo (e, naturalmente, se siamo in grado di scoprirlo) non sarà più considerata buona.
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Laboratorio sul lessico Bene / buono Ragioni e criteri della valutazione morale
La condivisione dei criteri
Gli oggetti della valutazione non morale: qualsiasi cosa o persona
Esseri umani buoni in senso non morale
Valutazione non morale e criteri di eccellenza
L’oggetto della valutazione morale, e quindi del bene morale, è allora, come si è detto, un aspetto particolare che consiste in qualche elemento della personalità di un essere umano o di più esseri umani. Ma sono particolari, nelle valutazioni di tipo morale, anche le ragioni o i criteri che noi adduciamo per spiegare la nostra valutazione: questi sono giustificazioni, argomenti di tipo morale, che magari consideriamo impliciti e che crediamo, spesso, che siano condivisi da chi ci ascolta, se non ci soffermiamo a spiegarli ulteriormente. La ragione o la giustificazione che diamo di un certo giudizio di bontà morale presuppone quindi che si accettino certi criteri di bontà morale. Se mi venisse richiesto di fornire una ragione per avere giudicata «buona» l’azione della persona che accompagna la signora al di là della strada, probabilmente risponderei che questa «bontà» che attribuisco a quell’azione e, di conseguenza, a quella persona, consiste nel suo essere altruista o, più esplicitamente, nell’avere questa persona procurato un sollievo o attenuato un disagio alla signora aiutandola ad attraversare la strada. Naturalmente, ciò è valido in un contesto in cui gli altri, chiunque questi siano, condividono i criteri ai quali io dichiaro di ispirarmi e che adduco come ragione per il mio giudizio. Se gli altri non condividono questi criteri o questo orizzonte di valori, la mia ragione, molto semplicemente, non sarà una ragione, non sarà cioè una giustificazione o una spiegazione del mio giudizio, o almeno non lo sarà per gli altri. Ciò che qui si vuole dire è però innanzitutto che il giudizio sulla bontà morale deve essere giustificato con ragioni a sua volta morali, secondo certi criteri che hanno natura morale. La maggior parte delle volte che noi utilizziamo i termini «bene» e «buono» non li intendiamo in senso morale, ma in un senso non morale. È per esempio in questo significato che noi pronunciamo il giudizio «Queste ciliege sono buone». E qui emerge ancora la distinzione a cui si è accennato sopra: gli oggetti del giudizio sono le ciliege, e le ragioni che adduciamo sono ragioni di tipo non morale, per esempio che queste ciliege sono molto dolci, consistenti, saporite. Gli oggetti del giudizio, comunque, nel caso di un giudizio di bene non morale, sono molto, infinitamente, più numerosi di quelli del giudizio di bene morale, che sono invece limitati alla natura delle componenti della personalità. Molte cose e molti oggetti possono essere giudicate / giudicati buone / buoni in questo senso. Naturalmente, non è affatto detto che i giudizi sul bene non morale non abbiano come oggetto del giudizio degli esseri umani, ma in questo contesto gli esseri umani oggetto del giudizio lo sono per caratteristiche che non sono di tipo morale. Un buon professore, un buon pilota o un buon dentista possono tutte essere persone che non sono «buone» in senso morale, ma rimangono buoni professori, piloti e dentisti, in un giudizio di valore che noi adesso dobbiamo giustificare non attraverso criteri morali, perché non sono questi, qui, i criteri rilevanti, ma attraverso un altro tipo di ragioni riferite in modo specifico ad aspetti non morali come le qualità del professore, del pilota e del dentista: il buon professore non sarà necessariamente un buon pilota o un buon dentista, perché le caratteristiche del buon professore sono diverse da quelle del pilota e del dentista, e se anche lo fosse sarebbe un caso, non qualcosa che ci aspetteremmo come ovvia, e nemmeno come probabile. Il giudizio di bene non morale è in questo caso relativo a un oggetto determinato ma anche a un certo criterio di, chiamiamola così, eccellenza di quel tipo di oggetto. Nel giudizio non morale parlare di uomini non è la caratteristica più importante: il giudizio di bontà viene dato costantemente su un oggetto o un’istitu107
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Parte prima L’età antica
zione qualunque, ed è un giudizio che accomuna una buona ciliegia, una buona automobile, un buon coltello o un buon pilota. Tutti questi sono oggetti che, nella propria categoria di oggetti e soltanto in essa, vengono detti «buoni». Naturalmente, le ragioni che vengono date presuppongono anche in questo contesto una condivisione di criteri con coloro ai quali le ragioni vengono date: come non è una ragione il criterio dell’altruismo per coloro che non riconoscono l’altruismo come criterio della bontà morale, così non è una ragione per valutare come «buono», per esempio, un professore, il criterio della capacità di spiegare bene la propria materia per coloro che credono che un buon professore non si valuta secondo questo criterio ma, per esempio, secondo il criterio di saper mantenere la disciplina, o secondo il criterio di vestire in giacca e cravatta. Giudizi di valore: I giudizi di valore o di bontà, di qualunque tipo essi siano, presuppongono semoggettività pre criteri comuni di giudizio, se questo giudizio vuole essere condiviso da altri. e criteri comuni Qui torna a essere importante, se si è alla ricerca di criteri condivisi, il problema accennato sopra dell’oggettività dei giudizi che riguardano il bene, cioè dei giudizi di valore: c’è un bene oggettivo e assoluto che qualcuno è in grado di riconoscere e che, se non viene riconosciuto da altri, implica che questi ultimi siano in errore? Oppure il giudizio sul bene è un giudizio che non scopre il valore, ma lo attribuisce, ed è quindi un giudizio che dipende, per la sua validità, dal soggetto che pronuncia il giudizio?
Esercitiamoci sul bene 1. Rifletti e completa
BENE = ciò che merita l’aggettivo «____________»
Concetto problematico BUONO: aggettivo corrispondente a «____________»
Giudizi di valore positivi _______________________ ci sono eccezioni (usi diversi), ma è prevalente l’uso valutativo di «bene» e «buono» Giudizi di valore morale: uso morale di «bene» e «buono»
Giudizi di valore non morale: uso non morale di «bene» e «buono»
Oggetto: solo aspetti della personalità di esseri umani
Oggetto: può essere qualsiasi cosa o persona
Criteri (giustificazioni, ____________, _________) di tipo morale
Criteri (giustificazioni, ____________, _________) di tipo non morale
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Bene (buono) in sé (assoluto)
Parte di _____________ ____________________
Bene (buono) in vista di altro
_______ per raggiungere ____________________
Problema dell’oggettività delle valutazioni
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Laboratorio sul lessico Bene / buono
2. Spunti per il dibattito: io e… il bene 1
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Dopo aver letto il testo e completato la mappa rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – Ritieni possibile ammettere l’esistenza di almeno un bene morale assoluto o ‘in sé’? Quale? – Secondo te è possibile che ciò che rende una persona buona in un senso non morale ne faccia allo stesso tempo una persona non buona in senso morale? Se sì, come ti regoleresti in un simile caso di conflitto tra giudizi di valore di tipo diverso? Immagina che qualcuno ti chieda di giustificare i tuoi giudizi morali ‘a oltranza’. Ogni volta che tu dai una risposta, ti viene chiesto di nuovo il perché: «perché questo è buono?». Ogni volta sei invitato a menzionare un bene più grande di cui quello che hai citato fa parte, o un bene ulteriore, da considerare come il fine del bene citato (per esempio: «È bene fare l’elemosina» «Perché?» «Perché è bene essere generosi» ecc.). – Quanto potresti andare avanti a rispondere? – Pensi che un dialogo di questo tipo possa procedere all’infinito o abbia comunque un termine? – Supponi ora di essere tu a fare le domande e un altro a rispondere. Quando il soggetto interrogato arriva a una risposta che per lui è l’ultima, dopo la quale non sa più cosa dire, pensi che que-
sto voglia dire necessariamente che quello, almeno per lui, è buono ‘in sé’? 3
Considera il caso di un uomo singolarmente sfortunato: ogni volta che intraprende un’azione importante, con le migliori intenzioni e in perfetta buona fede, ottiene degli effetti catastrofici per sé e per molte altre persone. – Le sue azioni possono ancora definirsi moralmente buone? – Supponi che una di queste catastrofi fosse stata accuratamente prevista da un suo amico e che l’uomo, nonostante ciò, abbia voluto agire secondo quello che a lui pareva il bene. Questo cambierebbe qualcosa nella tua valutazione?
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Supponi che gli abitanti di un piccolo paese si siano messi d’accordo tra loro per violare sistematicamente le regole del codice della strada. – Quella che fuori da quel paese è una buona manovra è ancora una buona manovra all’interno del paese? – Parlando tra loro, gli abitanti di un paese confinante, hanno l’abitudine di dire «quelli là sono dei pessimi guidatori». Hanno ragione? – E se un abitante del paese incriminato si presentasse da loro e dicesse «io guido bene, perché è mia intenzione non seguire il codice» avrebbe ragione?
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Unità 3 Platone 1. Platone e le ragioni della filosofia 2. Il maestro, il dialogo, la maturità 3. Virtù, desiderio, felicità 4. La giustizia nella pòlis: i filosofi-re 5. L’anima e la giustizia 6. Verità, conoscenza e discorso: le idee 7. Dialettica, idee, principi 8. Il cosmo e le sue cause 9. Eros e filosofia: alla ricerca di una mediazione 10. L’eredità: l’Accademia
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Il Fedro ♦ Tesi a confronto: Platone: governo totalitario o governo democratico?
I testi Gorgia: Callicle: la virtù dei forti e la temperanza dei mezzi uomini, T1; Contro la quiete socratica, T2 Repubblica: Trasimaco: l’utile del potere costituito, T3; Il patto dei deboli, T4; La divisione del lavoro, T5; Poeti al bando, T6; L’onda più grande T7; Le insidie della proprietà privata, T8; «Mio» e «non mio», T9; Sudditanza e costrizione, T12; Filosofi veri e falsi, T13; Matematica e dialettica, T15; Il segmento quadripartito T16; Ascesa e discesa del filosofo, T21
Fedone: Le passioni del corpo, T10 Fedro: Il mito della biga, T11 Simposio: Dal bel corpo all’idea del bello, T14; Eros: ruvido, misero, instancabile cacciatore di sapienza, T20 Parmenide: La contrarietà: dalle cose alle idee, T17 Sofista: Il diverso ovvero il non essere, T18 Timeo: Modello, copia, verosimiglianza, T19
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Parte prima L’età antica
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Platone e le ragioni della filosofia
Chiunque legga anche poche pagine dei dialoghi di Platone è in grado di comprendere – e forse di condividere – il celebre giudizio del logico e matematico inglese Alfred North Whitehead (1861-1947), secondo il quale l’intera tradizione filosofica occidentale non è altro che una serie di note a Platone. In effetti, leggendo gli scritti di Platone sembra davvero di assistere a qualcosa di simile all’atto di nascita della filosofia. E si tratta di una nascita con la quale hanno poi fatto i conti pressoché tutti i successivi sviluppi, anche quelli degli autori che si sono proposti di criticare e superare Platone. Sostenere che con Platone ha inizio la speculazione filosofica occidentale significa affermare che nei suoi scritti la filosofia entra per la prima volta nel proprio terreno. Questo è vero per due ordini di ragioni: 1) perché Platone sembra formulare e tentare di risolvere tutti i problemi che siamo abituati a considerare filosofici (che cosa e come esiste? che cosa posso conoscere? perché devo comportarmi bene? quali principi devono regolare il mio rapporto con gli altri uomini?); 2) perché nei suoi dialoghi viene per la prima volta costruita l’immagine del «fare» filosofico, inteso come un’attività peculiare che possiede un linguaggio, un metodo, uno stile di pensiero propri, differenti da quelli di altre forme di sapere e conoscenza come la scienza, l’arte, la poesia. I concetti, protagonisti I grandi protagonisti teorici della filosofia platonica sono anche i grandi protagonisti del pensiero filosofico del pensiero filosofico in quanto tale: l’essere, la verità, la giustizia, l’anima, l’uomo, in quanto tale la città e il cosmo. I dialoghi di Platone contengono il primo grandioso tentativo di organizzare in un complesso unitario e coerente (ma non per questo sistematico) i rapporti tra questi protagonisti: il che significa che in essi trovano posto, spesso strettamente connesse le une alle altre, l’ontologia (teoria dell’essere), l’epistemologia (teoria della scienza e della conoscenza), l’antropologia, la psicologia, l’etica, la teoria politica e la cosmologia, prima ancora di diventare discipline autonome. L’inizio della speculazione filosofica occidentale
La sfida della sofistica
Il relativismo sofistico di Gorgia
Protagora: l’uomo misura di tutte le cose
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In verità questo spettacolare progetto filosofico rappresenta una formidabile risposta alla sfida che nel corso del V secolo i sofisti lanciarono alla cultura tradizionale (vedi p. 73 ss.). Per poter parlare nuovamente di essere, verità, bene, giustizia, occorreva respingere il poderoso attacco che la sofistica aveva mosso a queste nozioni, operandone una sostanziale relativizzazione. Un autore come Gorgia aveva negato, come si è visto, la stessa esistenza di una realtà oggettiva esterna al soggetto, e comunque la possibilità per l’uomo di conoscerla e di comunicarla agli altri uomini. Se non esiste la realtà, non esiste una verità assoluta che si riferisca ad essa. Ma se le cose stanno in questi termini, anche il linguaggio sarà svincolato dalla realtà e potrà costituirsi come un universo indipendente e a sé stante. Il destinatario del suo messaggio sarà l’anima, ma il contenuto di questo messaggio non avrà più vincoli oggettivi esterni ai quali obbedire. In poche parole: l’eliminazione del riferimento del discorso alla verità apre la strada al suo uso efficace, come strumento disponibile a chiunque per convincere gli altri ad agire come si desidera, cioè alla persuasione retorica. Anche Protagora aveva scosso dalle fondamenta l’idea di una verità assoluta, valida per tutti. Ai suoi occhi l’uomo (inteso sia come individuo sia come comunità politica) costituiva la vera misura delle cose.
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Unità 3 Platone
L’obiettivo del discorso del sofista non è in Protagora quello di affermare la verità delle cose, ma di persuadere gli ascoltatori, eventualmente di spingerli a scegliere ciò che è bene non in assoluto bensì per loro, cioè a scegliere l’utile. Conseguenze Gli esiti di un’impostazione di questo tipo potevano però essere ancora più radiincontrollabili cali. Quando il criterio dell’utile acquista un’importanza tanto rilevante, la radelle teorie sofistiche gione in base alla quale si agisce in un modo piuttosto che in un altro può diventare quella del soddisfacimento indiscriminato dei propri desideri e dei propri impulsi, fino ad arrivare a una vera e propria sopraffazione degli altri. Abbiamo visto come alcuni rappresentanti della sofistica, quali Antifonte, Callicle e Trasimaco, arrivarono ad affermare con vigore le ragioni del potere e della forza, finendo addirittura per identificare la giustizia con l’utile del più forte. Del resto una posizione del genere rispecchiava in larga misura la situazione di perenne conflitto in cui si agitava la vita politica dell’Atene del V secolo, dominata dallo scontro tra ricchi e poveri, oligarchici e democratici. Venuta meno una realtà oggettiva da conoscere, sfumati i valori pubblici da condividere e ai quali conformarsi, l’individuo rischia di smarrire anche la propria identità. L’anima – che da qualche decennio era diventata il protagonista di questa identità – diviene preda del discorso più seducente, dell’oratore più abile, e finisce così con l’adeguarsi in modo acritico ai valori che di volta in volta le vengono presentati.
Diagnosi e terapia filosofiche
Il progetto platonico: guarire verità, città e anima attraverso il discorso filosofico
➥ Sommario, p. 157
2 La gioventù e il maestro
Malata è, dunque, la verità; ma malate sono anche la città (in preda a conflitti non mediabili) e l’anima (ormai vittima di un conformismo irrazionale). Solo tenendo presente questo quadro, si può comprendere il senso del progetto filosofico di Platone. Per rispondere alla sfida dei sofisti, ai quali egli addebita in larga misura le cause della crisi appena descritta, occorre essere in grado di approntare una grandiosa terapia filosofica che guarisca verità, città e anima. Occorre sostituire all’universo soggettivistico e parcellizzato dei sofisti un mondo unitario, stabile e coeso. Ma agli occhi di Platone occorre anche predisporre un discorso che sia in grado di persuadere le anime alle quali si rivolge. Del resto la filosofia non è assimilabile né all’atto di dare la vista a un cieco né al riempimento di un vaso vuoto, ma richiede necessariamente il concorso di chi apprende, perché prevede un vero e proprio rivolgimento dell’anima. In questo risiede il nocciolo della risposta di Platone alla grande sfida sofistica: nella costruzione di un discorso che riesca a persuadere, indirizzando le anime verso la conoscenza (finalmente dotata di oggetti stabili), verso la virtù (fondata su valori assoluti, criteri di valutazione non soggettivi) e verso la politica (definitivamente rifondata). I dialoghi di Platone intendono attuare questo grande progetto filosofico.
Il maestro, il dialogo, la maturità Platone nacque intorno al 428-427 a.C. da una delle più prestigiose, ricche e autorevoli famiglie dell’aristocrazia ateniese. La madre apparteneva a una famiglia di cui aveva fatto parte il grande legislatore Solone, mentre il padre poteva addi113
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rittura vantare una discendenza che risaliva fino a Codro, leggendario ultimo re di Atene. Zio materno di Platone era Crizia, importante politico di parte aristocratica e membro del regime dei Trenta tiranni (404-403) destinato a insanguinare Atene alla fine della guerra del Peloponneso. L’impegno politico era dunque parte integrante dell’ambiente familiare e sociale in cui Platone nacque e trascorse i primi tre decenni della sua vita. Tuttavia due eventi segnarono in modo decisivo il corso della sua esistenza e determinarono in lui il rifiuto di prendere parte attiva alla vita politica ateniese: il sanguinoso governo dei Trenta tiranni (che mise a nudo l’arroganza e la ferocia dell’oligarchia) e il processo intentato dal regime democratico a Socrate (che evidenziò i limiti anche di questa parte politica). Quest’ultimo evento, in particolare, che portò alla condanna a morte del maestro nel 399, condizionò l’esperienza intellettuale di Platone e le ragioni stesse del suo progetto filosofico.
Il dialogo
La pòlis, teatro del dialogo
Socrate protagonista dei dialoghi con la confutazione
L’immedesimazione tra lettore e personaggi: un invito al pensiero filosofico
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L’Atene della fine del V secolo si presentava agli occhi di Platone come una città drammaticamente scissa, lacerata da profondi conflitti sociali ed economici, culturalmente e moralmente degenerata, malata. Solo una radicale rifondazione delle ragioni del vivere insieme, dei valori e dei fini dell’agire, in una parola dell’etica e della politica, poteva consentire di rigenerarla. La decisione di scrivere dialoghi, anziché trattati sistematici, è perfettamente riconducibile a tale prioritaria esigenza: i dialoghi platonici sono rivolti anzitutto ai suoi concittadini, ed è per questo che ad Atene sono ambientati e che i protagonisti che li animano sono spesso ateniesi o personaggi comunque noti al pubblico ateniese. Quasi sempre Socrate vi recita il ruolo principale. Molto spesso il dibattito si presenta nella forma di una confutazione operata dal maestro sulle opinioni dei suoi interlocutori. Costoro – uomini politici, generali, sofisti, retori, esperti in una qualche particolare tecnica – credono di conoscere un determinato tema, del quale sono reputati specialisti. Tuttavia le incalzanti domande di Socrate, brevi e dirette, dimostrano in modo inequivocabile che si tratta di un sapere solo apparente: i sostenitori delle diverse opinioni cadono continuamente in contraddizione, dimostrando nel migliore dei casi di conoscere solo alcuni esempi del campo di cui si vantano di essere esperti: i sofisti che affermano di sapere che cosa sia la virtù, in realtà riescono solo a fornire alcuni casi di comportamento virtuoso, non generalizzabili. In questo modo essi dimostrano di non sapere che cosa sia realmente la virtù. Platone, mettendo in scena il presunto sapere di personaggi facilmente riconoscibili dai suoi lettori, induce questi ultimi a mettere in discussione le proprie certezze, che sono poi perlopiù quelle maggiormente diffuse nella società ateniese. Il dialogo produce, dunque, un effetto di identificazione o quantomeno di riconoscimento tra il lettore e i personaggi che vi prendono parte. Quando un lettore assiste alla confutazione di un’opinione che lui stesso reputa vera, viene in un
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certo senso confutato insieme a quell’opinione e al personaggio che nel dialogo la sostiene; inoltre, questo lettore viene anche avviato da Platone (attraverso Socrate) alla filosofia, intesa come modo corretto e razionale di porre e tentare di risolvere i problemi. Si può dunque dire che l’insieme dei dialoghi platonici costituisce contemporaneamente un grande sforzo di confutare le opinioni correnti, l’immagine di un percorso di apprendimento che interessa i personaggi che vi prendono parte e insieme a loro il lettore, e un vero e proprio invito al pensiero filosofico.
La maturità: l’Accademia, l’impegno politico, la scienza
L’Accademia come centro di ricerca filosofica e di formazione politica
L’impegno politico: i viaggi a Siracusa e i tentativi di fondazione della città giusta
La problematica scientifica: i dialoghi dialettici
➥ Sommario, p. 157
Il dialogo non è tuttavia l’unico strumento al quale Platone ha affidato il compito di rifondare la città avviando i suoi concittadini alla filosofia. I dialoghi sono in un certo senso il primo stadio del progetto di cui si è detto. Poi viene la scuola, che vorrebbe contemporaneamente essere un centro di ricerca filosofico-scientifica e un luogo di formazione delle classi dirigenti, ossia dei politici. All’età di circa quarant’anni (nel 388-387), Platone fonda l’Accademia. Si tratta di un’istituzione che si presentava esteriormente come una fondazione religiosa deputata al culto delle Muse (il nome Accademia deriva da Academo, una sorta di eroe locale al quale era intitolato il bosco in cui l’Accademia si trovava). In realtà, all’interno di questa istituzione Platone teneva veri e propri seminari in cui venivano sviluppati e approfonditi i temi filosofici e scientifici contenuti nei dialoghi. Inoltre, vi veniva proposto il programma educativo che, secondo le indicazioni formulate nella Repubblica, avrebbe dovuto formare i celebri filosofi-re (vedi p. 120 ss.). In questo senso l’Accademia costituisce qualcosa di simile a una moderna «scuola di partito», in cui si preparavano coloro che avrebbero dovuto gestire il potere nella città rifondata. La prova che l’obiettivo di creare le condizioni per realizzare effettivamente uno Stato nuovo, fondato sul sapere e sulla filosofia, rappresentò una preoccupazione costante e mai abbandonata dell’impegno filosofico di Platone, è fornita in modo inequivocabile dai tre viaggi a Siracusa che egli intraprese nell’arco di quasi tre decenni, successivi alla fondazione dell’Accademia. Con l’appoggio di un suo allievo, Dione, imparentato con i tiranni di Siracusa (Dionisio I e suo figlio Dionisio II), Platone tentò a più riprese di instaurare nella città siciliana un regime improntato ai principi filosofici esposti nella Repubblica. I tre tentativi fallirono – non da ultimo a causa delle invidie che Platone suscitò presso la corte siracusana – ma testimoniano di quanto a Platone premesse l’attuazione concreta (e non solo la teorizzazione) della kallìpolis, ossia della città perfetta e giusta. Naufragato anche il terzo tentativo di instaurare un potere filosofico a Siracusa (361), Platone si ritirò definitivamente ad Atene, consacrando gli ultimi decenni della vita alla stesura di importanti dialoghi in cui risultavano dominanti la problematica teoretica e scientifica (come il Parmenide, il Timeo, il Sofista, il Filebo), senza però abbandonare la questione del governo razionale e dell’ordinamento della città, temi ai quali dedicò rispettivamente il Politico e i dodici libri delle Leggi, che costituiscono l’ultima sua opera, l’unica da cui Socrate risulti del tutto assente. 115
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La vita Platone nacque ad Atene intorno al 428-427 a.C. da una importante famiglia aristocratica. Da giovane prese probabilmente parte a tre campagne militari (409-407) e, all’incirca ventenne, divenne discepolo di Socrate (408407). I suoi interessi politico-filosofici e la sua stessa esistenza furono tragicamente segnati prima dal sanguinoso governo dei Trenta tiranni (404) poi dal processo e dalla condanna a morte del maestro Socrate (399). Dopo un periodo di intenso studio praticato ad Atene e dedicato a questioni eminentemente morali, in questi anni scrisse i cosiddetti dialoghi «socratici». Pressoché quarantenne (389-388), compì un viaggio a Taranto, dove incontrò Archita, filosofo pitagorico. Proseguì poi per Siracusa, dove soggiornò presso il tiranno Dionisio I; qui si legò di strettissima amicizia all’allievo Dione, parente del tiranno. Questo viaggio, al quale ne seguiranno altri due (nel 367-366 e nel 361-360), attesta quanto a Platone premesse rifondare il vivere comune secondo i principi filosofici esposti nella Repubblica. Come spiega lui stesso: la prima volta salpò convinto che «mai le generazioni degli uomini avrebbero potuto liberarsi dai mali, fino a che o non fossero giunti ai vertici del potere politico i filosofi veri e schietti, o i governanti della città non diventassero, per destino divino, filosofi» (Lettera VII, 326 A-B). Anziché aspettare il destino però, Platone osserva: «se mai avessi avuto una opportunità di sperimentare le mie idee in materia di legislazioni e costituzioni politiche, quella era l’occasione buona per tentare: convincere un solo uomo era sufficiente per assicu-
rare all’impresa il più felice degli esiti», anche perché, confessa, «mi vergognavo enormemente di rivelarmi a me stesso uomo capace solo di parole, ma inconcludente sul piano pratico» (Lettera VII, 328 B-C). Per realizzare i suoi principi Platone si espose dunque a gravissimi rischi – tra i quali una sorta di prigionia nella quale incorse nel secondo viaggio – anche se, fra intrighi, minacce, deposizioni, condanne e omicidi, tutti e tre i tentativi fallirono. Di ritorno dal primo viaggio Platone fondò l’Accademia (388-387), istituzione che avrebbe dovuto espletare una doppia funzione: intellettuale e politica. E fu nell’Accademia che, abbandonato infine il progetto siracusano (360), Platone si ritirò. Gli ultimi tredici anni della sua vita li dedicò soprattutto all’approfondimento di questioni scientifiche e teoretiche, scrivendo i dialoghi cosiddetti «dialettici», senza però abbandonare il terreno etico e politico, come mostra il suo ultimo grande dialogo, le Leggi. Platone morì ad Atene, all’incirca ottantenne (347), circondato dai suoi allievi.
Opere Per Platone, come per molti filosofi antichi, a causa della scarsità o incoerenza delle fonti, è assai difficile stabilire con precisione la datazione delle opere, e talvolta perfino la loro autenticità (questione importante per capire l’origine, lo sviluppo e le trasformazioni della sua filosofia). Uno schema approssimativo della cronologia dei principali dialoghi che riscuote un certo consenso tra gli specialisti è il seguente.
Cronologia presunta dei principali dialoghi Dialoghi giovanili o socratici, scritti presumibilmente nel periodo che dalla morte di Socrate giunge alla fondazione dell’Accademia:
Dialoghi maturi, dalla fondazione dell’Accademia al terzo viaggio:
Dialoghi tardi, dal definitivo ritorno ad Atene alla morte:
I fase: Ione; Ippia minore; Apologia di Socrate; Lachete; Eutifrone; Ipparco; Carmide; Critone; Liside; Ippia maggiore; Repubblica libro I; II fase: Protagora; Gorgia; Menesseno; Eutidemo
Menone; Fedone; Simposio; Repubblica libri II-X; Cratilo; Fedro; Teeteto; Parmenide
Sofista; Politico; Filebo; Timeo; Crizia; Leggi (ultimo); vanno aggiunte le lettere VII e VIII (di cui è discussa l’autenticità)
3 La giustizia e il desiderio
➥ Laboratorio sul lessico Giustizia / giusto, p. 191
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Virtù, desiderio, felicità In ampi settori degli ambienti intellettuali ateniesi della seconda metà del V secolo si era fatta strada l’idea che la virtù non paghi affatto in termini di felicità individuale. Il controllo virtuoso dei desideri veniva considerato in taluni casi come una manifestazione di debolezza; la pratica della stessa virtù politica (cioè interpersonale) per eccellenza, ossia della giustizia, poteva rappresentare, almeno per le frange più radicali del pensiero sofistico, un vero e proprio impedimento all’acquisizione della felicità individuale. Si arrivava ad ammettere che la giustizia fosse una sorta di male minore, che veniva accettato solo per scongiu-
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rare i rischi di un male ancora peggiore, consistente nel subire ingiustizia ad opera degli altri. La felicità per i sofisti: Nel Gorgia Platone assegna al sofista Callicle una serie di tesi da cui emerge l’il’appagamento dea che l’uomo è naturalmente portato a soddisfare i propri desideri e che la fedei desideri licità consiste in tale soddisfacimento. A Socrate, che aveva argomentato in favore della temperanza, della capacità di autoregolarsi tenendo a freno le passioni e i desideri, Callicle oppone la convinzione ➥ Percorso tematico, p. 415 che i cosiddetti temperanti sono in realtà gli individui più sprovveduti e infelici.
T1
Callicle: la virtù dei forti e la temperanza dei mezzi uomini Gorgia, 491 E-492 C
Come può essere felice un uomo che è schiavo di qualcuno? In tutta franchezza, il comportamento giusto e bello per natura si riduce a questo: chi vuol vivere bene deve lasciare che i suoi desideri crescano a dismisura, senza frenarli, e poi deve essere abbastanza coraggioso e intelligente da realizzarli, per grandi che siano; deve soddisfare qualunque capriccio gli salti in testa. È chiaro che la massa non è capace di agire così: e talora criticano quelli che ci riescono, e dicono che l’intemperanza è una cosa riprovevole; ma la verità è che si vergognano e cercano di nascondere la loro incapacità. Te lo dicevo anche poco fa: la gente vorrebbe domare gli uomini che hanno doti naturali superiori; siccome non sono capaci di soddisfare i loro piaceri, predicano la temperanza e la giustizia. Tutto perché sono dei mezzi uomini. Ma prendi quelli che fin dall’inizio hanno avuto la fortuna di essere figli di re o quelli che con le loro doti si sono costruiti una posizione di potere e sono diventati re o tiranni: per questi uomini, in realtà, che cosa potrebbe essere più brutto e più vergognoso della temperanza e della giustizia? Ma come? Possono avere tutto quello che vogliono, senza che nessuno glielo impedisca, e dovrebbero loro stessi imporsi un padrone e accettare le leggi della gente comune, le loro chiacchiere e le loro critiche? Non sarebbe una gran scalogna per loro vivere secondo giustizia e temperanza, che a te sembrano così belle? Non potrebbero in nessun modo favorire gli amici rispetto ai nemici, pur detenendo il potere nelle loro città? Visto che dici di amare la verità, Socrate, diciamola, questa verità: la virtù e la felicità consistono nel lusso, nella sfrenatezza e nella libertà, a patto beninteso di poterla realizzare. Tutto il resto, le belle chiacchiere e le convenzioni umane contro natura, non sono che buffonate senza valore. Si tratta di un attacco davvero formidabile all’idea socratica di virtù. Per Callicle, come per molti sofisti dell’epoca, la virtù di Socrate è adatta solo agli uomini deboli, ossia a coloro che non sono in grado di perseguire la vera felicità, che è data dal soddisfacimento pieno e continuo dei desideri, di qualsiasi tipo essi siano.
L’otre forato: il flusso dei piaceri Certo, Socrate tenta di rispondere a Callicle osservando che l’incessante soddisfacimento dei desideri non può produrre felicità perché è simile al riempimento di una botte forata, che richiede continuamente di essere riempita senza tuttavia raggiungere mai una condizione di pienezza. La felicità per Socrate: Invece, la felicità autentica dovrebbe consistere in uno stato di autonomia dai del’autonomia sideri esterni, simile alla condizione di una botte senza buchi, la quale non ha dai desideri bisogno di venire continuamente riempita. Per Socrate l’uomo di Callicle è simile al caradrio, un uccello talmente ingordo da mangiare mentre evacua. 117
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A un simile argomento il terribile Callicle può replicare che la felicità socratica rischia davvero di essere simile alla felicità che possono provare le pietre o i morti. Egli pensa infatti alla felicità come a una condizione dinamica e non statica.
T2
Contro la quiete socratica Gorgia, 494 A-B
Non mi persuadi, Socrate. Quel tale che ha riempito i vasi una volta per tutte, poi non prova più nessun piacere. È come ti dicevo prima: una volta che li hai riempiti, poi vivi come un sasso, senza godere e senza soffrire. E invece il piacere della vita consiste in questo, in un flusso continuo di beni. È indubbio che la risposta di Socrate presenta una certa analogia con quella che sarà la risposta di Platone. Anche per quest’ultimo la superiorità dell’uomo virtuoso, ossia giusto, di fronte a quello vizioso e ingiusto consiste in una certa quiete o autosufficienza dell’anima, ossia nel fatto che egli non ha bisogno di soddisfare continuamente bisogni determinati da una mancanza. Ma è altrettanto vero che Platone potrà pervenire a questa conclusione solo al termine di un complesso processo argomentativo nel quale viene fatta intervenire una nuova nozione di anima (tripartita e non unitaria) e viene introdotta l’idea che la virtù e la felicità individuali non possano prescindere dalla virtù e dalla felicità collettive, cioè della città.
La giustizia come legge del più forte L’attacco di Callicle all’idea socratica di virtù viene ripreso e radicalizzato da un altro personaggio dei dialoghi platonici, il celebre sofista Trasimaco. La sfida di Trasimaco: Costui arriva ad affermare che la giustizia non è altro che l’utile del più forte, giustizia = utile cioè di chiunque detenga il potere. Chi ha il potere (si tratti del più ricco o deldel più forte la maggioranza) è nella condizione di legiferare, ossia di promulgare leggi. E lo farà a proprio esclusivo vantaggio, con l’obiettivo di perpetuare il potere di cui è in possesso. Gli altri cittadini si adeguano alle leggi e in questo senso si comportano secondo giustizia, ma non ne hanno alcun tornaconto. Con una veemenza che non ha uguali negli altri personaggi platonici, Trasimaco sostiene la sua radicale tesi relativa all’equivalenza tra giustizia e utile del più forte (vedi anche Unità 2, p. 81 s.).
T3
Trasimaco: l’utile del potere costituito
Repubblica, 1,338 E-339 A
Ogni forma di potere stabilisce le leggi in funzione del proprio utile: la democrazia le farà democratiche, la tirannide tiranniche, e similmente le altre. E una volta stabilite, sanciscono che giusto per i sudditi è ciò che è utile ai detentori del potere, e puniscono i trasgressori come colpevoli di illegalità e ingiustizia. Questo è dunque, eccellente amico, ciò che io sostengo sia giusto nello stesso modo in tutte le città: l’utile del potere costituito.
È davvero difficile non essere colpiti dalla forza, ma per certi versi anche dall’attualità, delle posizioni esposte da Trasimaco. Si tratta di tesi che sembrano sviluppare in forma radicale un sentimento che doveva risultare abbastanza diffuso nei circoli intellettuali vicini alla sofistica. Eliminazione Il senso teorico dell’operazione trasimachea consiste in una sorta di neutralizzaziodella componente ne della componente morale della giustizia: essa non ha a che fare con il bene delmorale della giustizia la collettività, ma solo con l’utile di chi detiene il potere. Inoltre, la tesi di Trasimaco può essere considerata alla stregua di una sorta di «teorema generale del potere» 118
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perché prescinde del tutto dal tipo di governo, dal momento che pretende di essere valido per ogni forma costituzionale (la tirannide, l’aristocrazia e la democrazia). Per Callicle moderazione e giustizia non sono che ostacoli al conseguimento della felicità. Per Trasimaco la giustizia non è altro che l’utile di chi detiene il potere e non ha nulla a che fare con il bene comune; è solo uno strumento (abilmente camuffato) attraverso il quale chi governa si prefigge di perpetuare il proprio dominio.
Le leggi, un patto tra deboli Sulla medesima linea si collocano le tesi esposte dai fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto, nel II libro della Repubblica. Qui i sistemi giuridici, ossia gli insiemi delle leggi, vengono concepiti come il risultato di una sorta di patto al quale gli uomini pervengono al fine di evitare la condizione di belligeranza permanente nella quale essi per natura si trovano. Ogni individuo è naturalmente portato a conseguire il massimo di benessere per se stesso a discapito degli altri. L’impulso naturale che lo anima è dunque quello della sopraffazione (pleonexìa), che gli consente di soddisfare tutti i desideri, imponendosi sui suoi simili. Tuttavia, dal momento che anche gli altri individui sono mossi dal medesimo impulso, egli corre costantemente il rischio di venire sopraffatto, ossia di essere vittima della pleonexìa altrui. La condizione ideale consisterebbe nell’arrecare ingiustizia agli altri senza subirla a propria volta; ma il rischio più grande è naturalmente quello di essere vittima dell’ingiustizia degli altri senza potersi vendicare. Di qui l’esigenza di stabilire una sorta di patto che riduca al minimo questo rischio. Le leggi – e la giustizia che deriva dal loro rispetto – possono essere equiparate a una sorta di male minore, collocato a metà strada tra la suprema felicità data dall’attuazione dell’istinto a imporsi a danno degli altri e la massima infelicità prodotta dal subire ingiustizia. Un mito sulla giustizia: Tuttavia, se potessero praticare l’ingiustizia senza subirne le conseguenze (per l’anello magico di Gige esempio rendendosi invisibili), gli uomini lo farebbero senza indugio, come dimostra il mito del pastore Gige, il quale, trovato un anello che aveva il potere di renderlo invisibile, commise le peggiori scelleratezze, uccidendo il re, seducendone la moglie e impadronendosi del potere. Platone espone questo punto di vista con notevole rigore (vedi anche Unità 2, p. 80 s.). Glaucone e Adimanto: l’impulso umano alla sopraffazione e il patto per arginarla
T4
Il patto dei deboli
Repubblica, 2,358 E-359 B
Dicono che per natura il commettere ingiustizia è un bene, e subirla un male, ma che il male connesso al subire ingiustizia sia più grande del bene connesso al compierla. Sicché quando hanno reciprocamente commesso e subito ingiustizia, e hanno provato il sapore dell’una e dell’altra, a coloro che non possono sfuggire la seconda cosa e scegliere la prima, sembra vantaggioso stipulare il patto reciproco di non commettere né subire ingiustizia a vicenda. Dal quel momento in poi si cominciarono a stabilire leggi e patti fra gli uomini, e l’ordine imposto dalla legge fu chiamato legittimo e giusto. Affermano dunque che questa è la genesi e l’essenza della giustizia, che si trova ad essere intermedia tra la possibilità migliore – compiere ingiustizia senza pagarne il fio – e quella peggiore – subire ingiustizia nell’impotenza di vendicarsi. Il giusto allora, in quanto medio tra questi due estremi, non viene amato come un bene, ma è apprezzato perché manca la forza di recare ingiustizia, visto che chi potesse farlo e fosse dunque un vero uomo non stipulerebbe mai con nessuno il patto di non fa119
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re né subire ingiustizia: sarebbe davvero pazzo. La natura della giustizia è dunque questa e siffatta, e queste sono le condizioni onde essa si origina. L’aldilà
➥ Sommario, p. 157
4 La nascita della pòlis: consapevolezza di bisogni e divisione dei compiti
T5
La divisione del lavoro Repubblica, 2,370 B-371 D
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La vita ingiusta è dunque preferibile a quella giusta perché è la sola che possa garantire la felicità. Non solo in questo mondo ma addirittura nell’aldilà. Infatti, chi attraverso l’ingiustizia ha acquisito cospicue ricchezze può, tramite i sacrifici, ingraziarsi gli dèi, garantendosi in questo modo la felicità anche in un’eventuale vita ultraterrena. L’attacco alla virtù e alla giustizia è davvero formidabile e a Platone bisogna riconoscere il merito di avere esposto con grande obiettività e rigore le ragioni dei suoi avversari. La radicalità della sfida richiede un notevole impegno teorico che Platone profonde a piene mani nel grande dialogo dedicato al tema della giustizia, la Repubblica.
La giustizia nella pòlis: i filosofi-re La prima mossa di Platone intende rispondere direttamente alla tesi sofistica (probabilmente di Antifonte) relativa all’origine dello Stato, ossia dell’associazione tra gli uomini. Questi ultimi, secondo Platone, si riuniscono in società dandosi dei codici giuridici da rispettare (nei quali risiede la giustizia) non a causa della paura bensì del bisogno. Gli individui acquistano cioè consapevolezza del fatto di non essere autosufficienti rispetto ai bisogni elementari. Essi si rendono conto che è più economico (in termini di tempo e più in generale di efficienza) se ciascuno svolge solo il mestiere per il quale è naturalmente portato, scambiando poi l’eccedenza del suo lavoro con quella prodotta dagli altri lavoratori. In questo modo il calzolaio produrrà più scarpe di quante ne occorrano a lui e alla sua famiglia e scambierà questa eccedenza con gli abiti preparati dal sarto, i cibi forniti dal contadino, la casa costruita dal muratore. Per Platone il nucleo primordiale di ogni società sorge nel momento in cui gli individui cominciano a dividersi i compiti fondamentali. Le prime figure professionali saranno quelle dell’agricoltore, del muratore, dell’operaio tessile e del calzolaio, i quali potranno soddisfare i bisogni fondamentali dell’uomo: nutrirsi, abitare e vestire. Anche i commercianti avranno un ruolo decisivo in questa città primitiva dal momento che solo la loro esistenza consentirà di affrancare le altre figure dal compito di vendere i loro prodotti e renderà così più efficiente il sistema produttivo e distributivo. Ma dunque penso che anche questo sia chiaro: se ci si lascia sfuggire il momento opportuno per un lavoro, lo si rovina. Non penso perciò che l’opera potrà attendere il tempo comodo per chi la esegue, e che invece sia necessario che il produttore segua il suo lavoro fino in fondo, non a tempo perso. – È necessario. – Da questo risulta che si fa più, meglio e più facilmente allorché un solo uomo faccia una cosa sola, secondo la propria natura e nel momento opportuno, non dovendosi occupare di nient’altro. – È assolutamente così. – C’è bisogno dunque di più di quattro cittadini per soddisfare le esigenze di cui
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parlavamo. Il contadino infatti, a quanto pare, non si costruirà da solo l’aratro, se deve essere ben fatto, né la zappa, né gli altri strumenti utili all’agricoltura. E neppure il muratore. […] Ma se un contadino che porta al mercato uno dei suoi prodotti, o qualche altro artigiano, non vi arrivano contemporaneamente a coloro che hanno bisogno di far scambio con ciò che essi offrono, si siederanno in attesa nel mercato trascurando il loro lavoro? – Assolutamente no, disse lui. Vi sono invece persone che se ne avvedono e si assumono in proprio questo servizio; nelle città ben organizzate si tratta quasi sempre di chi ha il corpo più debole ed è inutile per qualsiasi altra funzione. Devono infatti restare lì, intorno al mercato, aspettando di comprare prodotti contro denaro da chi ha bisogno di vendere qualcosa, e viceversa di cedere prodotti contro denaro a quanti hanno bisogno di acquistare. – È dunque questo bisogno, dissi io, che determina la genesi dei commercianti nella nostra città. Non chiamiamo forse commercianti quelli che svolgono i servizi di acquisto e vendita stando installati nel mercato, mercanti invece quelli che si spostano di città in città? – Certo. Il principio collaborativo alla base della giustizia
Il principio in base al quale gli uomini si associano è dunque di natura collaborativa e non conflittuale: ci si riunisce in base a regole alle quali tutti devono conformarsi, non per paura ma per bisogno. Secondo Platone già a questo livello primordiale di organizzazione umana si può intravedere una traccia della giustizia. Si tratta del fatto che ognuno svolge solo l’attività professionale per la quale è naturalmente portato. La divisione del lavoro costituisce una forma embrionale di giustizia perché fa in modo che le capacità di ogni individuo siano finalizzate al bene comune. Per Platone, tuttavia, la divisione dei compiti può costituire solo una traccia di giustizia dal momento che prescinde ancora da tre fattori fondamentali: l’analisi dello sviluppo della città con la genesi di nuove figure professionali; l’esigenza, costantemente avvertita da Platone, di stabilire un vincolo stretto tra virtù (e dunque giustizia e felicità) e sapere; una nuova e rivoluzionaria concezione dell’anima. Vediamo nel dettaglio come vengono sviluppati questi tre temi.
La degenerazione della pòlis Lo sviluppo della città originaria determina il sorgere di nuove figure sociali, assenti dalla prima organizzazione sociale. Le patologie Alla città autosufficiente e frugale sopra descritta si sostituisce una città gonfia del superfluo di lusso, in cui non vengono più soddisfatti i soli bisogni primari (nutrirsi, vestirsi, abitare), ma anche quelli superflui. Si assiste allora alla nascita di nuove figure professionali, come gli specialisti della cosmesi, i parrucchieri, gli artigiani di prodotti di lusso e di suppellettili per la casa, i cuochi e infine i medici, incaricati di curare le malattie provocate dai nuovi eccessi alimentari. Non è difficile vedere in questa descrizione un’allusione, neppure troppo velata, all’Atene del V secolo, che agli occhi di Platone altro non è che una città gonfia di lusso e per questo profondamente malata (non bisogna dimenticare che nell’elenco delle nuove professioni Platone include anche i poeti, specialmente quelli tragici, emblema della vita culturale ateniese del V secolo). 121
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Parte prima L’età antica I militari, custodi della città
Con l’insorgere di nuovi bisogni si determina anche l’esigenza di allargare i confini del territorio cittadino, che appare ormai insufficiente a soddisfare le necessità nate nel passaggio dalla città primitiva a quella gonfia di lusso. Di qui la genesi di un’altra figura professionale, quella dei militari, il cui compito consiste sia nell’estendere il territorio della città, sia nel difendere quest’ultima dalle mire espansionistiche delle altre città.
La terapia: la paidèia Per sorprendente che possa apparire, secondo Platone proprio a partire dalla figura professionale del militare, sorta al culmine della città lussuosa e malata, può iniziare il processo che conduce alla città perfetta, ossia alla città fondata sulla giustizia. In effetti, se i membri del ceto militare vengono sottoposti a un rigoroso processo educativo, che ne rafforzi le doti fisiche, morali e intellettuali, essi possono rappresentare il punto di svolta nella direzione della costruzione della kallìpolis, la città bella e buona. L’educazione: al primo Il fondamento dell’educazione (paidèia) dei custodi o guardiani della comunità livello ginnastica (phy`lakes) deve essere costituito secondo Platone dalla ginnastica e dalla musie musica… ca alle quali spetta il compito di irrobustire rispettivamente le qualità fisiche e quelle morali e intellettuali dei nostri guardiani. Platone fa riferimento qui soprattutto alla letteratura (che è parte della musica, comprendendo questa al suo interno tanto il testo quanto il ritmo e l’armonia), proponendo un diverso modello di formazione letteraria che si fonda sulla clamorosa messa al bando della poesia epica e di quella tragica, che erano state entrambe fondamentali nella tradizione culturale ed educativa dei greci, e che vengono invece escluse dall’educazione dei futuri custodi. Entrambe sono colpevoli, agli occhi di Platone, di fornire un’immagine falsa e pericolosa degli dèi, ai quali vengono attribuiti sentimenti (come l’invidia) e comportamenti (come l’inganno) tipicamente umani. Inoltre la tragedia, con le storie drammatiche e gli eventi truci che racconta, rischia di provocare una vera e propria scissione dell’io (cioè dell’anima) dello spettatore, che si identifica con i personaggi della rappresentazione e come loro viene turbato e sconvolto. Platone si dimostra ancora una volta particolarmente attento ai rischi che l’ingresso dell’irrazionalità e delle passioni provoca alla salute dell’anima. Il ruolo dei militari nella costruzione della città giusta
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Poeti al bando Repubblica, 2,377 E-378 E
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Si deve criticare in primo luogo e soprattutto quando il discorso presenta una cattiva immagine di quel che sono dèi ed eroi, al modo di un pittore che dipinge ritratti per nulla somiglianti a coloro che voleva raffigurare. – E infatti, disse, è corretto criticare questo genere di cose. Ma in che senso facciamo questa critica e a cosa precisamente è rivolta? – In primo luogo, dissi, verso la menzogna maggiore e che riguarda le cose più importanti, di chi non bene ha mentito raccontando che Urano ha commesso le azioni attribuitegli da Esiodo, e come dal canto suo Crono si sia vendicato di lui. Quanto poi alle gesta di Crono e a quel che patì a causa del figlio, neppure se queste storie fossero vere penserei che si debbano così facilmente raccontare a dei giovani ancora privi della ragione ma che vadano per quanto possibile passate sotto silenzio; se poi ci fosse necessità di parlarne, le devono ascoltare in segreto pochissime persone. [Crono, figlio di Urano e Gaia, evirò il padre. Egli cercò
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poi di divorare il proprio figlio Zeus, che, scampato, riuscì infine a sconfiggere e a ridurre in catene il padre.] – E infatti, disse, questi discorsi sono ardui. – E comunque non vanno narrati, dissi, nella nostra città, come non va raccontato a un giovane ascoltatore che commettendo estrema ingiustizia, fosse anche per punire in ogni modo un padre ingiusto, egli non farebbe nulla di sorprendente, ma anzi si comporterebbe proprio come i primi e i più grandi fra gli dèi. – Ma per Zeus, disse lui, neanche a me sembra siano cose convenienti a dirsi. – E tanto meno, dissi, che gli dèi fanno guerra agli dèi e complottano e combattono tra loro, perché non è vero, se almeno i nostri futuri difensori della città devono ritenere estremamente vergognoso il lasciarsi facilmente andare ad odi reciproci. […] Le storie di Era incatenata dal figlio, di Efesto gettato giù dal padre mentre si accingeva a difendere la madre percossa, e tutte quelle battaglie degli dèi composte da Omero, non devono venire ammesse nella città, che abbiano o meno un senso nascosto. Un giovane infatti non è in grado di giudicare quel che è il senso nascosto e quello che non lo è, ma ciò che ha accolto a questa età tra le sue opinioni suole diventare incancellabile e inalterabile. Proprio in vista di questo bisogna far sì in ogni modo che i primi racconti da loro ascoltati siano i migliori possibili per indirizzare gli ascoltatori alla virtù. … al livello superiore matematica e filosofia
Secondo Platone la ginnastica e la musica (ormai depurata dalla poesia epica e da quella tragica) costituiscono solo il primo livello dell’educazione che occorre impartire ai guardiani. Esse occupano per così dire i gradini più bassi, quelli elementari, del programma educativo. Dopo ginnastica e musica i custodi devono venire introdotti in un rigoroso curriculum di studi matematici, formato dall’aritmetica, dalla geometria piana, dalla geometria solida, cioè dalla stereometria, dall’astronomia, dall’armonia musicale e infine dalla filosofia (o dialettica). Solo così potrà emergere all’interno del ceto dei guardiani un gruppo di individui particolarmente dotati dal punto di vista morale e intellettuale. Si tratta proprio dei celebri filosofi-re, ai quali va affidato il compito di governare le città. Come si vede, la paidèia, ossia l’educazione, immaginata da Platone risulta essenzialmente di natura matematica e non retorico-letteraria, e si oppone così a quella propagandata nello stesso periodo dall’oratore Isocrate, la cui scuola fu rivale e concorrente dell’Accademia platonica.
I filosofi-re Un progetto rivoluzionario
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L’onda più grande
Repubblica, 5,473 C-E
Platone si dimostra perfettamente consapevole della natura persino eversiva della sua proposta relativa al governo dei filosofi, ma non rinuncia per questo a esporla con grande chiarezza. – Eccomi giunto, dissi io, a quel punto che abbiamo paragonato all’onda più grande. Lo si dica dunque, anche se è probabile che come un’onda di derisione mi annegherà semplicemente nel ridicolo e nel disprezzo. Vedi quel che sto per dire. – Parla. – A meno che, dissi io, i filosofi non regnino nelle città, oppure quanti ora sono 123
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detti re e potenti non si diano a filosofare con autentico impegno, e questo non giunga a riunificarsi, il potere politico cioè e la filosofia, e ancora quei molti, la cui natura ora tende a uno di questi poli con esclusione dell’altro, non vengano obbligatoriamente impediti, non vi sarà, caro Glaucone, sollievo ai mali delle città, e neppure, io credo, a quelli del genere umano. Né mai prima d’allora questa costituzione, che il nostro ragionamento è venuto delineando, potrà nascere nei limiti della sua possibilità e vedere la luce del sole. Ecco dunque ciò che da gran tempo un’esitazione mi tratteneva dal dire, vedendo quanto paradossali sarebbero risultate le mie affermazioni: arduo è infatti comprendere che nessun altro tipo di città potrebbe essere felice né nella vita privata né in quella pubblica. Secondo Platone solo il governo dei filosofi, cioè degli individui intellettualmente e moralmente meglio attrezzati all’interno del gruppo dei custodi, può garantire, attraverso l’instaurazione della giustizia, la felicità della città. L’educazione dei filosofi-re
Primo livello
Secondo livello (matematica)
Terzo livello
Selezione finale
Musica epurata da poesia epica e tragica
Aritmetica Geometria piana Geometria solida (stereometria) Astronomia Armonia musicale
Filosofia o dialettica
Dal gruppo dei custodi vengono selezionati i pochi che hanno raggiunto, per doti morali e intellettuali, il più alto grado della conoscenza, ovvero i filosofi-re
Ginnastica
L’abolizione della proprietà privata Tuttavia, il nostro filosofo è ben consapevole dei rischi impliciti in ogni forma di potere. In particolare la brama di ricchezza gli appare come la principale fonte di pericoli per il benessere e la felicità collettivi. Del resto la stessa lezione del terribile Trasimaco andava esattamente in questa direzione: chi detiene il potere emana le leggi a proprio esclusivo vantaggio, con l’unico obiettivo di perpetuare il potere e consolidare la ricchezza. Per ovviare a questo genere di pericoli Platone arriva a stabilire il divieto per i governanti e per gli ausiliari (cioè i militari) di possedere qualsiasi forma di proprietà privata. Tutto in comune Si tratta di un divieto che non concerne solo i beni materiali (casa, terreno, deper il bene proprio naro), ma si estende addirittura agli affetti, ossia alla famiglia: governanti e cue della comunità stodi non potranno possedere né beni, né mogli, né figli. Tutto dovrà essere messo in comune. Alle spese per il loro sostentamento provvederanno gli altri cittadini, cioè i produttori, ai quali viene invece consentito l’accesso alla dimensione privatistica. La vita in comune che i governanti sono chiamati a condurre determinerà anche un rafforzamento dei vincoli di amicizia e solidarietà, garanzia di unità e coesione del gruppo dirigente, e grazie ad esso anche dell’intera comunità politica. I rischi del potere
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Le insidie della proprietà privata Repubblica, 3,416 D-417 B
In primo luogo nessuno possieda nessun patrimonio privato salvo lo stretto indispensabile: poi nessuno disponga di un’abitazione che non sia accessibile a chiunque voglia entrarvi. Quanto alle provviste […] ne riceveranno dagli altri cittadini, come compenso convenuto per la loro funzione di governo, in una quantità che basti loro per un anno, senza eccedere né scarseggiare. […] E così potranno salvarsi e salvare la città. Ma se essi possedessero privatamente terre e case e denaro, diventeranno amministratori di un patrimonio e agricoltori invece che difensori della città, padroni ostili anziché alleati degli altri cittadini; e passeranno la vita intera odiando, certo, e venendo odiati, tramando e subendo insidie, temendo molto di più i nemici interni piuttosto che quelli esterni, e allora correranno ormai verso la rovina imminente, loro e tutta la città. In un altro passo emblematico leggiamo:
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«Mio» e «non mio»
Repubblica, 5,464 C-D
➥ Sommario, p. 157
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La città nella quale i più dicono della stessa cosa e secondo lo stesso punto di vista proprio questo, «mio» e «non mio», non sarà quella meglio governata? […] Ma allora, tanto le norme stabilite in precedenza quanto quelle di cui ora stiamo discutendo non contribuiranno ancora di più a farne veri governanti, e a evitare che essi spezzino la città parlando del «mio» non in riferimento alla stessa cosa, ma a cose diverse l’uno dall’altro – sicché questo trascinerà nella propria casa ciò di cui ha potuto impadronirsi separatamente dagli altri, quello in una casa diversa e sua propria, e considereranno come propri moglie e figli diversi, che, vivendo essi nella privatezza, procureranno piaceri e dolori privati –, invece di condividere un’unica opinione su ciò che è «proprio», tendendo tutti allo stesso fine, in modo da provare nella misura del possibile le stesse esperienze di dolore e di piacere? Si è osservato come Platone fosse consapevole della natura paradossale della sua tesi relativa alla necessità del governo dei filosofi. In realtà, per poterla argomentare e comprendere compiutamente, occorre fare riferimento a un’altra celebre concezione platonica, quella relativa alla natura complessa e articolata dell’anima. Solo in questo modo risulterà più chiara la ragione per la quale i filosofi vengono investiti del compito di guidare lo Stato.
L’anima e la giustizia
Platone ereditò da Socrate e dai pitagorici l’idea che l’anima (psychè) sia un’essenza unitaria, e che in essa risieda la dimensione del valore e del bene per l’individuo. Il corpo Nel Fedone Socrate riprende la formula di origine pitagorica secondo la quale il carcere dell’anima corpo (sòma) è il carcere (sèma) dell’anima e che il conseguimento della virtù deve passare attraverso l’annullamento delle esigenze e dei desideri che provengono dal corpo. A quest’ultimo, infatti, appartengono i desideri (del cibo e del sesso, e anche del denaro), ma anche le paure e ogni forma di turbamento. Si tratta di veri e propri ostacoli alla conoscenza e all’acquisizione della virtù. 125
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Le passioni del corpo Fedone, 66 B-E
Ascetismo del corpo e virtù dell’anima
Infinite sono le inquietudini che il corpo ci procura per la necessità del nutrimento; e poi ci sono le malattie che, se ci capitano addosso, ci impediscono la caccia alle cose che sono; e poi esso ci riempie di amori e passioni e paure e immaginazioni di ogni genere e insomma di tante vacuità e frivolezze che veramente, finché siamo sotto il suo dominio, neppure ci riesce, come si dice, fermare la mente su alcuna cosa. Guerre, rivoluzioni, battaglie, chi altri ne è causa se non il corpo e le passioni del corpo? Tutte le guerre scoppiano per acquisto di ricchezze; e le ricchezze siamo costretti a procurarcele per il corpo e per servire ai bisogni del corpo. E così non abbiamo modo di occuparci di filosofia, appunto per tutto questo. […] Sicché insomma non è possibile, finché si è sotto l’influenza del corpo, vedere la verità: e ci appare chiaro e manifesto che, se mai vorremo conoscere alcuna cosa nella sua purezza, dovremo spogliarci del corpo e guardare con la nostra anima la realtà delle cose. Una simile posizione, con il rifiuto che essa comporta dell’elemento corporeo, finisce inevitabilmente per condurre a una concezione ascetica del conseguimento della virtù: solo nella sua assoluta purezza l’anima può acquisire la virtù e per fare questo essa deve abbandonare del tutto le ragioni della corporeità, con i desideri e i turbamenti che porta con sé. Una posizione del genere fu sostenuta dai pitagorici e quasi certamente anche da Socrate, il grande maestro di Platone.
La rivoluzione psicologica: l’anima scissa e conflittuale Lo studio dell’anima attraverso lo studio delle istanze del corpo
Il conflitto con se stessi risultato della scissione dell’anima
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Platone operò una mossa teorica tanto spettacolare quanto sconvolgente dal punto di vista della tradizione socratico-pitagorica, una mossa destinata a segnare il successivo corso del pensiero occidentale. Un’attenta analisi delle motivazioni che determinano l’agire umano lo condusse infatti a introdurre nel cuore dell’anima le istanze della corporeità. Platone osserva che, se l’anima è il motore delle nostre azioni, essa non può essere considerata come un’essenza unitaria, dal momento che appare spesso portatrice di esigenze tra loro opposte. Chi di noi non si è trovato, e certamente non una sola volta, in una situazione di apparente conflitto con se stesso, magari desiderando in modo irrazionale qualcosa e contemporaneamente valutando (questa volta in modo razionale) i rischi che comporta il soddisfacimento di quel desiderio? La nostra anima ci fa desiderare qualcosa di piacevole (per esempio abbuffarci di patatine fritte), ma la stessa nostra anima ci mette in guardia dai pericoli che la salute corre se ponessimo in atto questo proposito. Secondo Platone questa situazione di conflitto si spiega ipotizzando che nell’anima sono presenti elementi (che egli chiama «parti» o «specie») tra loro diversi: l’uno irrazionale che ci spinge a soddisfare desideri connessi al corpo (cibo, bevande, sesso); l’altro razionale e calcolativo che ci induce a valutare le conseguenze del nostro comportamento. Questo significa una sola cosa: che all’interno dell’anima è presente quell’elemento irrazionale che Socrate e i pitagorici avevano relegato nel recinto del corpo. L’analisi platonica opera poi un’ulteriore distinzione, anch’essa prodotta dall’osservazione delle motivazioni che determinano il comportamento umano.
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Platone osserva che non tutti i desideri irrazionali sono tra loro riconducibili a una medesima fonte: infatti non tutti sono desideri direttamente collegabili al corpo; esistono desideri di altra natura, come per esempio quelli collegati al riconoscimento sociale, all’ambizione di gloria e di successo. Anche in questo caso il confronto con la nostra esperienza può esserci di aiuto per comprendere il pensiero di Platone: chi di noi non ha desiderato il riconoscimento sociale derivante, per esempio, dal successo in qualche sport? Per esemplificare questo genere di desideri, Platone menziona il caso degli eroi omerici, soprattutto del più valoroso tra essi, il grande Achille, che in battaglia cerca gloria e riconoscimento. Si tratta anche in questo caso di pulsioni irrazionali, ma qualitativamente diverse da quelle legate al soddisfacimento degli istinti corporei. L’anima non è dunque unitaria, ma presenta al suo interno una struttura composta in cui sono riconoscibili tre elementi, ossia tre centri motivazionali: due irrazionali e uno razionale e calcolativo. I tre centri Quello connesso ai desideri corporei viene chiamato epithymetikòn, ossia promotivazionali priamente «desiderante» (da epithymìa, che significa «desiderio»); quello rivolto al riconoscimento sociale viene definito thymoeidès, cioè «impulsivo», «animoso», «volitivo» o anche «collerico» (da thymòs, che vuol dire «impulso animoso», ma anche «collera», «desiderio di vendetta»); l’elemento razionale, infine, è chiamato da Platone loghismòs o loghistikòn, ossia «elemento calcolativo» (lògos significa «ragione» e «calcolo razionale»).
I desideri irrazionali riconducibili a fonti qualitativamente diverse
La rivoluzione psicologica
Prima distinzione (Repubblica)
Seconda distinzione (Repubblica)
Anima
Anima
Elemento irrazionale: spinta al soddisfacimento dei bisogni
Elemento razionale: valutazione delle conseguenze dei comportamenti
Conflittualità
Elemento desiderante (irrazionale): desideri corporei
Elemento impulsivo (irrazionale): riconoscimento sociale
Elemento razionale: calcolo razionale
Conflittualità superabile
Scontri e alleanze nell’anima: la biga alata
Elemento razionale e impulsivo insieme contro elemento desiderante
La vita psichica di ogni individuo è dunque caratterizzata dal conflitto tra queste tre istanze. L’instaurarsi di una condizione virtuosa nell’anima è legata alla capacità dell’elemento razionale di imporsi sugli altri due. D’altra parte, Platone è perfettamente consapevole che la ragione è costantemente soggetta alle immani pressioni dei desideri e corre il rischio di soccombere. Essa tuttavia può trovare un alleato nell’elemento irrazionale non desiderante, ossia nella parte impulsiva e collerica, la quale, se guidata dal principio razionale, è in grado di tenere a freno le istanze della parte inferiore. Platone è infatti convinto che l’elemento impulsivo e impetuoso può venire persuaso dalla ragione e utilizzato da quest’ultima per le proprie finalità. 127
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Vedremo tra breve come questa convinzione abbia importanti ricadute di natura politica. La psicologia platonica assume dunque i caratteri di un sottile gioco di alleanze, che ha come posta in gioco l’acquisizione della virtù. Differenza tra elemento La differente natura dei due principi irrazionali, quello desiderante e quello imdesiderante e impulsivo pulsivo, in rapporto alla ragione emerge in tutta evidenza nella celebre immagine del carro alato e dei cavalli che lo conducono, attraverso la quale Platone si propone di esprimere in forma mitica, narrando il celebre viaggio dell’anima nell’iperuranio, la sua struttura tripartita.
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Il mito della biga
Fedro, 246 A-248 A
La biga alata
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Pensiamo, dunque, che l’anima assomigli a una forza per sua natura composta da un carro alato a due cavalli e di un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e discendono da buoni, invece quelli degli altri [cioè degli uomini] sono misti. In primo luogo, in noi l’auriga guida un carro a due cavalli; inoltre, tra i due cavalli, uno è bello e buono e discende da belli e buoni; l’altro, invece, deriva da opposti ed è opposto. Difficile e disagevole, di necessità, nel nostro caso, è la guida del carro. […]. Quando l’anima è perfetta e dotata di ali, vola in alto e governa tutto quanto il mondo. Ma una volta che ha perduto le ali, viene trascinata giù fino a quando non si aggrappi a qualcosa di solido […]. Zeus, il grande sovrano che sta in cielo, conducendo il carro alato, è il primo a procedere, ordina tutte quante le cose e si prende cura di esse. A lui tiene dietro un esercito di dèi e demoni, ordinato in undici schiere. […] Molti e beati sono, dunque, le visioni e i percorsi dentro il cielo, che compie la stirpe degli dèi beati, mentre ciascuno di loro adempie il proprio compito. Tiene dietro agli dèi chi sempre lo vuole e ne ha capacità: l’invidia rimane fuori dal coro divino. Quando essi vanno a banchetto per prendere cibo, procedono verso l’alto fino a raggiungere la sommità della volta del cielo. Là i veicoli degli dèi, che sono ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente; gli altri, invece, procedono con fatica. Il cavallo che è partecipe del male, infatti, cala, piegando verso terra e opprimendo l’auriga che non abbia saputo allevarlo bene. […] Questa è la vita degli dèi [la visione perfetta e completa delle virtù della temperanza, della giustizia e della conoscenza]. Quanto alle altre anime, una, seguendo il dio nel modo migliore possibile e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell’auriga verso il luogo che sta al di fuori del cielo e viene trasportata nel moto di rotazione, ma a stento contempla gli esseri, perché turbata dai cavalli. Un’altra anima, invece, ora solleva il capo, ora lo abbassa; ma poiché i cavalli le fanno violenza, vede alcuni esseri, altri invece no.
Auriga
Cavallo bianco
Cavallo nero
Parte psichica
Razionale
Impulsiva
Desiderante
Funzione corretta
Comando
Alleanza
Subordinazione
Immagine
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Mentre l’anima degli dèi è priva di elementi irrazionali e i suoi cavalli sono entrambi docili e soggetti al comando dell’auriga, il principio di razionalità, quella degli uomini è costantemente preda degli impulsi provocati dai due cavalli, ossia delle istanze irrazionali. Una di queste (quella indicata dal cavallo bianco, cioè buono) è però riconducibile al comando della ragione e può aiutare quest’ultima a reprimere le pretese dell’altra (quella espressa dal cavallo nero, cioè cattivo).
Il parallelismo tra anima e città
Tre tipologie caratteriali, tre diverse funzioni nello Stato
Il parallelismo tra anima e città
Le tre virtù: sapienza, coraggio e moderazione
Abbiamo già avuto modo di anticipare che la concezione dell’anima tripartita gioca un ruolo centrale nella teoria platonica dello Stato. È venuto il momento di approfondire la questione. Secondo Platone le anime di tutti gli uomini possiedono i tre centri motivazionali di cui si è detto. Ma tendenzialmente nell’anima di ogni uomo è una parte che prende il sopravvento sulle altre due. Questo fa sì che quell’uomo possa essere considerato, a seconda dei casi, razionale, impetuoso o desiderante. Platone fa poi un ulteriore passo. Afferma che esiste una sostanziale corrispondenza tra la natura psichica degli individui e l’attività professionale che essi sono chiamati a svolgere all’interno dello stato. Gli uomini nei quali è dominante la parte razionale dell’anima non potranno che essere quelli ai quali è affidato il compito di governare la città. Essi possiedono infatti le qualità raziocinanti e calcolative, oltre a quelle morali, che li rendono capaci di agire nell’interesse di tutti gli altri cittadini, ossia dello Stato nel suo complesso. Gli uomini in cui è dominante l’anima impulsiva e collerica vengono identificati con i guerrieri veri e propri, cioè con coloro ai quali viene affidato il compito di proteggere la città dai nemici esterni e di sedare eventuali rivolte interne (provenienti, per esempio, dal terzo gruppo). La stragrande maggioranza dei cittadini, infine, presenta un’anima che è dominata dalla parte desiderante; costoro sono per Platone i produttori (contadini, artigiani, commercianti), ossia coloro che sono deputati a fornire i beni necessari alla sopravvivenza materiale dell’intera comunità. Come si vede, Platone ha istituito una sorta di parallelismo tra anima e città. Entrambe presentano una struttura tripartita e la loro vita è caratterizzata da conflitto e alleanze. Infatti, come l’anima razionale può controllare i desideri della parte inferiore alleandosi con il principio volitivo e impetuoso, così i governanti (i filosofi-re) possono tenere a freno le pretese della maggioranza irrazionale e dominata dai desideri peggiori e riuscire così a guidare lo Stato nell’interesse di tutti i cittadini (non solo nel proprio), solo alleandosi con l’apparato militare. Allo scopo di rafforzare questa analogia tra microcosmo (l’anima) e macrocosmo (la città), Platone mette in evidenza un ulteriore parallelismo, consistente nel fatto che le virtù peculiari di ciascuna parte dell’anima sono le stesse dei gruppi sociali che corrispondono a queste parti. Così la virtù (aretè) propria dell’anima razionale (e dei governanti filosofi) sarà la sapienza (sophìa), ossia la conoscenza dei valori assoluti cui occorre ispirare la pratica politica; la virtù della parte impetuosa (e dei militari) non potrà che essere il coraggio (andrèia), cioè la capacità di sacrificarsi nell’interesse di tutta la 129
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città; infine, la virtù del principio desiderante (e del ceto produttivo) si identifica con la moderazione o temperanza (sophrosy`ne), che è la capacità di tenere a freno e controllare gli istinti corporei. A differenza delle altre due virtù, quest’ultima appartiene in realtà a tutti i cittadini, sia pure in modo diverso: infatti, mentre nel caso dei produttori la moderazione consiste nel controllo dei desideri e nell’accettazione del comando degli altri due gruppi, nel caso dei militari essa risiede nella capacità di obbedire agli ordini dei governanti e in questi ultimi nella disponibilità a prendere decisioni non nel proprio interesse bensì in quello della comunità. Il parallelismo anima-pòlis
Anima
Parte razionale
Parte impulsiva
Parte desiderante
Virtù
Sapienza
Coraggio
Temperanza
Città giusta
Filosofi-re
Militari
Massa dei lavoratori
L’essenza della giustizia
Il proprio compito naturale
Rapporto gerarchico e armonico tra le parti
Virtù, felicità, salute
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Questo lungo percorso attraverso la struttura dello Stato e dell’anima e attraverso le specifiche virtù delle loro parti conduce infine Platone a individuare l’essenza della giustizia, che era appunto l’obiettivo della nostra riflessione. La giustizia nell’anima sarà analoga alla giustizia nella città e consisterà nel principio in base al quale ciascuna parte (dell’anima e della comunità) svolge il compito per il quale è naturalmente portata. Così un’anima giusta sarà un’anima in cui governa la parte migliore, ossia quella razionale, e in cui il principio collerico si allea alla ragione per tenere a bada le istanze provenienti dalla parte desiderante. Allo stesso modo una città sarà giusta se a governarla saranno i filosofi, se il ceto militare seguirà le indicazioni dei governanti e se i produttori accetteranno il comando che viene imposto nel loro stesso interesse. Da tutto ciò risulta chiaro che agli occhi di Platone la giustizia – nell’anima come nella città – equivale a una sorta di rapporto gerarchico e armonico tra le parti, ossia a una condizione in cui ciascuna parte svolge la sua funzione naturale. Si tratta della celebre formula del «fare le proprie cose» (ta heautoù pràttein), cioè realizzare pienamente la virtù propria di ciascun elemento. A conclusione del suo ragionamento Platone può riprendere l’antica equivalenza socratica tra virtù e felicità, avendola però fondata su basi molto più solide e, in questo modo, resa immune dagli attacchi dei sofisti. A Callicle, il quale sosteneva che la felicità dell’uomo veramente libero consiste nel pieno soddisfacimento di tutti i desideri, Platone può ora rispondere che una simile condizione è in realtà quella in cui si trova chi è schiavo della parte peggiore di sé, ossia del principio desiderante. Il tiranno rappresenta l’individuo dominato dalla ricerca spasmodica e mai sod-
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➥ Tesi a confronto, p. 167
disfatta dei piaceri; ma proprio per questo egli è schiavo di se stesso, cioè dei propri desideri: la sua anima è incurabilmente malata. Sana, e dunque felice, è invece l’anima di chi riesce a imporre il governo della parte migliore, ossia della ragione. Discorso analogo vale naturalmente per lo Stato. Sarà felice, perché sana e veramente libera, solo quella comunità in cui governeranno coloro che sono naturalmente portati a governare: i filosofi-re. Gli altri individui potranno essere veramente liberi solo adeguandosi alle indicazioni che provengono dai governanti.
Libertà e sudditanza L’idea platonica di libertà non potrebbe risultare più lontana da quella implicita nella nostra sensibilità individualistica e democratica.
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Sudditanza e costrizione
Repubblica, 9,590 C-D
Aristocrazia del sapere
Ora, perché anche l’artigiano sia governato da un elemento simile a quello che governa l’individuo migliore, non dobbiamo dire che deve essere schiavo di quell’ottimo individuo che racchiude in sé il governatore divino? Con ciò non si deve credere che la sua sudditanza debba risolversi in un danno per lo schiavo, come pensava Trasimaco parlando dei sudditi. La ragione è che per ognuno è meglio essere governati da ciò che è divino e intelligente, soprattutto se si tratta di connaturato in lui; se non è così, se ne accettino le direttive dall’esterno, affinché, per quanto è possibile, siamo tutti simili e amici, retti dal medesimo principio. Come si vede, quella platonica è un’idea aristocratica della legittimità al potere. Non si tratta però di un’aristocrazia della nascita, bensì del sapere. I filosofi sono chiamati a governare non perché appartengono a una stirpe di antica nobiltà, ma perché sono gli unici in possesso del sapere che consente di dirigere lo Stato nell’interesse di tutti e di portarlo così al conseguimento della giustizia e della felicità.
Tra laicità e giudizio divino Giustizia = armonia = felicità
Le considerazioni svolte fin qui hanno dimostrato come Platone costruisca la sua risposta alla grande sfida portata alla giustizia e alla vita giusta dai sofisti. Egli riesce al termine di un lungo percorso teorico a dimostrare che la vita giusta è davvero preferibile a quella ingiusta in quanto paga in termini di felicità individuale. Come si vede, siamo all’interno di una prospettiva strettamente laica, perché la preferibilità della virtù è garantita da ragioni interne alla vita dell’uomo: l’uomo giusto è felice perché la giustizia equivale all’armonia e alla salute dell’anima, e un’anima sana è anche un’anima felice. Tutto ciò non è però ancora sufficiente a garantire alla giustizia una vittoria incontrovertibile sull’ingiustizia. Occorre fare un passo ulteriore e chiarire che anche nella vita dell’aldilà il giusto riceverà premi meravigliosi mentre l’ingiusto è destinato a patire ogni sorta di castighi. 131
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Parte prima L’età antica L’immortalità dell’anima
➥ Sommario, p. 157
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Per sostenere quest’ultima tesi Platone deve ovviamente anche dimostrare che l’anima è immortale e sopravvive alla morte del corpo. Quello dell’immortalità dell’anima rappresenta un tema tipicamente socratico, derivato, come si è visto, dal cuore della tradizione pitagorica. Nei dialoghi platonici si trovano numerosi tentativi di argomentare in favore dell’immortalità dell’anima, anche se bisogna ammettere che non sempre questi tentativi appaiono veramente convincenti. In realtà è difficile stabilire se e in che misura Platone li considerasse davvero definitivi. Probabilmente ai suoi occhi le cosiddette prove in favore dell’immortalità dell’anima hanno l’obiettivo di persuadere e indirizzare verso comportamenti virtuosi più che quello di convincere razionalmente. A questo proposito va tenuto presente ciò che Platone fa dire a Socrate alla fine della lunga sezione del Fedone dedicata ai premi e ai castighi che attendono le anime dopo la morte. Il filosofo spiega che sarebbe poco razionale pretendere che le cose stiano esattamente come sono state descritte nel mito; tuttavia, credere che l’anima sia immortale è un rischio che vale la pena di correre, non perché si sia certi che le cose stiano effettivamente così, ma perché ritenerlo aiuta a conseguire la virtù.
Verità, conoscenza e discorso: le idee
La ragione per la quale i filosofi vengono investiti del compito di dirigere lo Stato risiede, come si è visto, nel loro sapere, ossia nel fatto che essi soli sono in possesso della sapienza (sophìa). Essi dispongono di conoscenze eccezionali, ignote agli altri cittadini. Non si è ancora detto però in che cosa consista esattamente questo sapere. Che cosa conoscono veramente i filosofi che li rende adatti a governare le città? La risposta platonica a questo interrogativo è molto nota e viene di solito considerata una delle tesi più celebri e importanti del nostro pensatore. I filosofi conoscono i modelli perfetti e assoluti dei valori che occorre mettere in pratica nella vita dello Stato: in una parola essi conoscono le idee o forme. Solo se si conosce esattamente che cosa è la giustizia, si è poi in grado non solo di applicarla nella concreta attività politica, ma anche di stabilire se e in che misura un certo comportamento sia giusto. Funzione normativa In quanto paradigmi le idee hanno una duplice funzione: normativa (in quanto e parametrica stabiliscono le norme assolute dell’agire morale e politico) e parametrica (in delle idee quanto costituiscono i parametri in base ai quali valutare il valore di una certa azione). Come si ricorderà, i sofisti avevano posto in dubbio l’esistenza di valori autenticamente universali. Ai loro occhi il giusto, il bello, il bene e persino il vero, risultavano nozioni di carattere relativo che potevano mutare di significato a seconda dei contesti, delle situazioni, dei luoghi e dei tempi in cui occorrevano. Ciò che è giusto in un certo momento, per una certa persona o in una certa città non lo è più in un altro momento o in un’altra città. Platone è consapevole della potenzialità dirompente che l’affermazione di un simile relativismo (morale ed epistemologico) contiene in sé.
Il sapere dei filosofi
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Per questo avverte in modo pressante l’esigenza di stabilire in via definitiva la natura assoluta e non contrattabile dei valori.
Il bello in sé come paradigma Contro l’inconsistenza mediatica
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Filosofi veri e falsi Repubblica, 5,475 D-476 D
Se i sofisti, i retori, gli uomini politici dell’Atene del V secolo credono all’esistenza di molte cose belle, di molti comportamenti giusti e trascorrono il loro tempo a osservare questa molteplicità (nei tribunali, nei teatri, nelle riunioni di folla), il filosofo è invece colui che è davvero in grado di distinguere la natura unitaria del bello, del giusto e degli altri valori dalla molteplicità delle cose considerate belle e giuste. Le parole di Platone suonano attuali, perché sembrano alludere alla natura instabile e variegata del mondo dei mass media e dello spettacolo. – Tutti gli appassionati di spettacoli possono sembrare filosofi perché si rallegrano d’imparare, e poi gli appassionati di audizioni, gente certo ben strana da collocare fra i filosofi, che non vorrebbero proprio andare spontaneamente ad ascoltare discorsi razionali, ma che, quasi avessero affittato le orecchie, corrono dietro alle feste per ascoltare tutti i cori, senza trascurare né quelle di città né quelle di campagna. – Dunque tutti questi e quanti altri si applicano ad apprendere questo genere di cose ed altre tecnicucce, li chiameremo filosofi?, chiese Glaucone. – Su questa base, dissi io, opero la divisione, ponendo da una parte coloro che poco fa chiamavi appassionati di spettacoli, di tecniche e dell’attività pratica, dall’altra invece coloro su cui verte il discorso, i quali soltanto si possono correttamente chiamare filosofi. – Che cosa intendi? disse. – Gli appassionati di suoni e di spettacoli, risposi, amano certo la bellezza delle voci e dei colori e delle figure e di tutte le opere prodotte con questi ingredienti, ma quanto al bello in sé, il loro pensiero è incapace di vederne e amarne la natura. – È certamente così, disse. – Quelli invece che sono capaci di puntare diritto verso il bello in sé e di vederlo in se stesso non sono forse rari? – Rarissimi. – Ora, chi riconosce l’esistenza di cose belle ma non quella della bellezza in sé, e non è in grado di seguire chi lo volesse guidare verso la conoscenza di essa, ti sembra vivere nel sogno o da sveglio? Perché, vedi, il sognare altro non è se non ritenere, sia nel sonno sia nella veglia, che una cosa simile a un’altra non sia appunto simile, ma identica a quella cui assomiglia. – Quanto a me, disse lui, mi sembra proprio che sta sognando chi ritenga questo. – Ma allora, chi al contrario ritiene che vi è un bello in sé ed è in grado di vedere sia il bello stesso sia le cose che partecipano di esso, e non scambia queste per il bello, né il bello per le cose che ne partecipano, costui ti sembra a sua volta vivere desto o nel sogno? – Desto certamente, disse. – Il pensiero di costui, in quanto conosce, lo chiameremo dunque correttamente conoscenza, mentre quello dell’altro, opinione, in quanto egli opina? – Senz’altro. 133
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Parte prima L’età antica I filosofi sanno distinguere le idee dalle loro immagini
Per Platone, dunque, la legittimazione al governo deriva ai filosofi dal possesso di un sapere speciale, rivolto a oggetti speciali, le idee appunto. In realtà, Platone non sostiene che i filosofi conoscano solo le idee, ma afferma che essi sanno distinguere le idee e le cose che di queste partecipano. Ciò significa che anche la conoscenza delle idee va messa in rapporto con la questione dell’applicazione pratica di questi modelli, ossia con il problema di come, una volta distinta l’idea del giusto dalle molte azioni giuste, l’idea del giusto possa trovare applicazione nella vita della città.
La natura delle idee Ma cosa sono queste famose idee? Si tratta di entità unitarie e indivisibili, fuori dal tempo, immobili, ingenerate e imperiture, non percepibili con i sensi ma conoscibili con il solo pensiero. Esse costituiscono la vera realtà, sono cioè il vero essere. Le cose sensibili, che secondo la maggior parte degli uomini rappresentano l’unica realtà esistente, costituiscono per Platone solo delle copie e delle immagini delle idee. Soffermiamoci su queste tesi. Le idee sono invisibili, mentre le cose particolari sono visibili. Questo significa che le idee non possono venire percepite (con gli occhi o uno qualsiasi degli altri organi sensoriali); ciò non comporta, però, che esse risultino inconoscibili; il fatto è che le idee sono visibili per mezzo di occhi particolari, quelli dell’anima e dell’intelletto. Unicità dell’idea, Nella stessa parola greca èidos (e anche idèa) è contenuto un riferimento alla molteplicità delle cose visibilità (i due termini significano infatti «aspetto», «forma»); si tratta, per che ne partecipano Platone, di una visibilità intellettuale e non fisica. Le idee sono essenze unitarie e indivisibili. Questo significa che, mentre esistono molte cose belle, esiste una sola idea del bello; essa permane sempre identica a se stessa, a differenza delle molte cose belle, le quali possono trasformarsi in brutte. Quando Platone afferma che solo le idee sono veramente, mentre le cose particolari sono e non sono, egli intende sostenere che le idee sono interamente ciò che sono, mentre le molte cose sensibili possono essere un determinato carattere ma anche non esserlo: l’idea del bello è in se stessa bella, le molte cose belle sono e non sono belle. Definizione delle idee come vero essere
Perché le idee? Per comprendere meglio il significato della teoria delle idee è utile indicare due delle ragioni che hanno indotto Platone a postulare la loro esistenza. Conoscenza La prima ragione è relativa all’epistemologia, è legata cioè al tema della conocerta e universale: scenza. Platone parte dalla constatazione che esiste una conoscenza certa e uniun esempio matematico versale. L’esempio più evidente gli viene fornito dalle discipline matematiche. Noi sappiamo che una proposizione come la seguente «la somma degli angoli interni di un qualsiasi triangolo è uguale a 180°» è universalmente vera. Proprio per essere tale, tuttavia, una simile conoscenza non può rivolgersi a nessuno dei molti triangoli empirici, quelli cioè che disegniamo sulla lavagna o su un foglio di carta. Nessuno di essi possiede i caratteri di perfezione richiesti dalla definizione appena riportata. 134
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Ciò significa che quando sosteniamo che gli angoli di un triangolo sommano due angoli retti (180°), ci riferiamo in realtà a un triangolo ideale, un triangolo perfetto che realizzi completamente l’essenza dell’essere triangolo, la quale consiste appunto nel possedere angoli interni la cui somma equivale a 180°. Le cose sensibili sono per Platone mutevoli e instabili; questa è la ragione per la quale intorno ad esse non può esserci una vera e propria conoscenza, appunto perché mutano costantemente e non possono venire fissate da una proposizione avente validità universale. La conoscenza deve invece rivolgersi a entità stabili, sottratte al flusso delle cose sensibili: le idee (immobili, ingenerate, incorruttibili ed eterne) costituiscono appunto le realtà alle quali si rivolge il sapere scientifico. La predicazione La seconda ragione ha a che fare con la semantica, ossia con la questione del sipresuppone l’esistenza gnificato dei nomi che utilizziamo. dell’idea del predicato Quando assegniamo uno stesso predicato – per esempio «bello» – a molte cose, dicendo che una certa ragazza è bella, una statua è bella, una costituzione è bella, ci serviamo del predicato nominale «bello» assegnandogli implicitamente lo stesso significato. Per Platone ciò è possibile solo ipotizzando l’esistenza di qualcosa che è bello in se stesso, di qualcosa cioè che corrisponde al significato del predicato «bello»: questo qualcosa è esattamente il bello in sé, l’idea del bello.
Idee e mondo sensibile
– –
Caratteristiche
– – –
Epistemologia
Copie sensibili
Idee
Ontologia
Invisibili Indivisibili Ingenerate Imperiture Fuori dal tempo
Oggetti stabili
=
Conoscenza certa e universale (verità), scienza
– – – – –
Visibili Divisibili Generate Mutevoli Nel tempo
Oggetti instabili
=
Conoscenza incerta (verosimiglianza), opinione
Il bello in sé: l’ascesa erotica Nell’idea del bello la bellezza in se stessa
Per Platone l’unica realtà assolutamente bella è l’idea del bello perché, mentre le altre cose (un corpo, un discorso, una costituzione) sono belle in forma derivata, il bello in sé è bello in forma originaria. Inoltre, le altre cose possono risultare belle in quanto partecipano dell’idea del bello, e dunque possiedono la bellezza; viceversa il bello in sé non partecipa della bellezza, ma risulta in qualche modo identico ad essa: nell’idea del bello la bellezza non si trova più in altro, bensì in se stessa, come risulta dalla celebre concezione dell’ascesa erotica esposta dalla sacerdotessa Diotima nel Simposio. 135
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Parte prima L’età antica
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Dal bel corpo all’idea del bello Simposio, 210 A-211 C
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Ora, fino a questo grado dei misteri d’amore, o Socrate, tu avresti forse potuto iniziarti anche da te; ma in quelli perfetti e contemplativi […] non so se saresti capace. Te ne parlerò quindi io, e ci metterò tutto l’impegno: tu cerca di seguirmi, se ti riesce. Dunque, chi vuol tendere rettamente a tal fine deve cominciare fin da giovane ad andare verso i bei corpi, e anzitutto, se chi lo guida lo guida bene, amarne uno solo, e ivi generare bei ragionamenti; in seguito, comprendere che la bellezza di ogni corpo è sorella di quella di ogni altro corpo, e che quindi, se bisogna perseguire ciò che è bello nell’aspetto esterno, sarebbe grande stoltezza il non ritenere unica e identica la bellezza in tutti i corpi. Compreso questo, deve diventare un innamorato di ogni bel corpo, e calmare quella sua eccessiva passione per uno solo di essi, spregiandola e considerandola vile; poi, stimare più preziosa la bellezza che si trova nelle anime rispetto a quella che è nel corpo, sicché se uno, nobile d’animo, abbia un aspetto poco leggiadro, egli se ne contenti e lo ami e ne sia sollecito e crei e ricerchi ragionamenti tali, che rendano migliori i giovani: per essere così indotto a contemplare il bello che è nelle istituzioni e nelle leggi, constatando come esso è dappertutto affine a se stesso, e a ritenere quindi che quello corporeo non è che piccola cosa. Dopo le istituzioni, poi, deve passare alle scienze, affinché contempli la loro bellezza, e, mirando a questo bello ormai così vasto, e non servendo più, come uno schiavo, al particolare, nell’amore per un singolo fanciullo o uomo o istituto, cessi dall’avere animo vile e misero, e invece, rivolto al largo mare del bello, procrei, contemplandolo, molti belli e splendidi ragionamenti e pensieri, in un infinito amore di sapienza; finché, rafforzatosi e sviluppatosi in esso, non arrivi a scorgere quell’unica scienza che ha per oggetto tale bellezza. E ora cerca, disse, di fare attenzione a me più che puoi. Infatti, colui che sia stato edotto fin qui nella scienza relativa all’amore, attraverso la contemplazione progressiva e giusta del bello, giunto ormai al termine di questa sapienza, scorgerà una bellezza per sua natura meravigliosa, quella stessa, o Socrate, in grazia della quale erano stati sofferti tutti i precedenti travagli: una bellezza che anzitutto è in eterno, e non nasce né muore, e non cresce né diminuisce; e poi, non è bella per un verso e per un verso brutta, né ora sì e ora no, né bella rispetto a una cosa e brutta rispetto a un’altra, né qui bella e là brutta, come se fosse bella per alcuni e brutta per altri. Né, ancora, gli si raffigurerà questa bellezza come un volto o come mani o come null’altro in cui il corpo abbia parte, e neppure come un discorso o una scienza, né come qualcosa che stia in altro, per esempio in un animale o nella terra o in cielo o altrove; bensì essa stessa in sé e per sé, uniforme in eterno; e tutte le altre cose partecipino di essa in tal modo, che mentre queste nascono e muoiono, essa non cresce né diminuisce per nulla, né subisce alcuna mutazione. Dunque, quando uno […] cominci a scorgere questa bellezza, allora può dirsi che quasi tocchi la mèta. Perché in ciò risiede appunto il procedere rettamente, da sé o con la guida di altri, nella via dell’amore: cominciando dalle bellezze di quaggiù ascendere sempre più in alto, in vista di quella suprema, servendosi dei gradi inferiori come di gradini: da uno a due e da due a tutti i bei corpi, e dai bei corpi alle belle istituzioni, e dalle belle istituzioni alle belle scienze, finché dalle belle scienze si culmini in quella scienza che non è scienza di altro se non di quella pura bellezza, e così, pervenendo al termine, si conosce ciò che è, in sé, il bello.
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Per Platone, dunque, la stessa bellezza corporea, percepita dai sensi, rappresenta un primo passo in direzione della conoscenza dell’idea del bello; quest’ultima poi rappresenta in modo esemplare la conoscenza di tutte le idee.
La partecipazione del sensibile alle idee Partecipazione e causalità
Dal brano sopra riportato si ricava anche che le molte cose belle sono tali, come si è detto, in virtù della partecipazione (methèxis) all’idea del bello. Questo significa che l’idea del bello, come tutte le altre idee, esercita un ruolo causale nei confronti delle molte cose che di essa partecipano, perché risulta in qualche modo causa del fatto che esse possiedono una determinata proprietà. Non è facile tuttavia precisare in che senso le idee sono cause delle altre cose, anche perché Platone non lo dice con chiarezza. Si potrebbe ritenere che esse siano cause logiche, cioè che rivestano il ruolo di spiegazioni delle cose: le singole cose belle sono belle in quanto la conoscenza dell’idea del bello consente a noi di riconoscerle come belle, cioè come in possesso di quella determinata qualità. Ma si potrebbe anche sostenere che le idee sono cause in quanto producono effettivamente le proprietà delle cose che di esse partecipano: in questo caso l’idea del bello sarebbe in qualche modo presente nelle cose belle, causando in loro il possesso della proprietà di essere belle. La questione va comunque lasciata aperta, anche perché Platone potrebbe avere inteso la causalità delle idee in entrambi i modi menzionati.
La reminiscenza o anàmnesis Secondo Platone la conoscenza che noi abbiamo delle idee è di natura intellettuale e non sensibile. Tuttavia, egli sembra riconoscere che anche la sensazione può giocare un ruolo significativo nel processo che conduce alla conoscenza delle idee. Infatti, essa può risvegliare in noi una conoscenza sopita, ma in qualche modo presente nella nostra anima. Quando percepiamo due oggetti che crediamo uguali – osserva Platone – ci formiamo la nozione di uguaglianza. Quest’ultima, tuttavia, non può derivarci dalla percezione di due cose uguali appartenenti al mondo sensibile, per la semplice ragione che in questo mondo non si danno casi di uguaglianza perfetta. Secondo Platone, noi tendiamo a considerare uguali due realtà sensibili solo perché possediamo già una nozione di uguaglianza, la quale non può essere derivata dall’esperienza sensibile. Le nozioni a priori Si tratta di una nozione a priori, ossia indipendente dall’esperienza. Per spiegare come essa sia presente in noi, Platone sostiene, in forma mitica, che la nostra anima prima di incarnarsi in un corpo ha visto (conosciuto) il mondo delle idee, e dunque anche l’idea dell’uguale. Questa conoscenza si è poi sopita nel corso della vita e tuttavia essa può venire risvegliata dall’esperienza di casi sensibili di uguaglianza. Questi non possono essere perfetti e tuttavia risvegliano in noi il ricordo della vera uguaglianza, quella ideale. La conoscenza Così per Platone ciò che comunemente si crede conoscenza non è altro che il riè reminiscenza cordo o la reminiscenza (anàmnesis) di qualcosa di cui noi eravamo già da sempre in possesso, sia pure in modo inconsapevole. Ecco spiegata la celebre tesi secondo la quale la conoscenza è reminiscenza. Il ruolo della sensazione nella conoscenza delle idee
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Parte prima L’età antica
Dialettica e matematica a confronto
Metodo ipotetico della matematica: dalle ipotesi alle conclusioni
Metodo non ipotetico della dialettica: dalle ipotesi al principio assoluto alle conclusioni
Uso di figure sensibili nella matematica, di idee nella dialettica
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Matematica e dialettica Repubblica, 6,510 C-511 C
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La conoscenza relativa alle idee, ovvero la dialettica, costituisce per Platone la forma suprema di conoscenza. Essa presenta analogie con la matematica, dalla quale però si differenzia perché la razionalità matematica ha un andamento discorsivo (viene infatti chiamata diànoia, ossia «pensiero discorsivo»); la dialettica ha invece una natura intuitiva e noetica (solitamente viene indicata con il termine nòesis, cioè «intuizione intellettiva»). Ciò significa che vi sono due caratteristiche essenziali che distinguono il sapere matematico-dianoetico da quello filosofico-dialettico: la natura ipotetica o non ipotetica del metodo, e l’utilizzo di figure sensibili. La matematica è una disciplina ipotetica perché, spiega Platone, i matematici partono da ipotesi ammesse come evidenti (ossia i principi, i postulati, gli assiomi), e da esse deducono una serie di conseguenze (ovvero i teoremi), coerenti con le ipotesi poste all’inizio, ma proprio per questo da esse dipendenti. Ciò significa che tali conseguenze non possono essere considerate vere in assoluto, ma solamente nel caso in cui le ipotesi iniziali siano vere. Il matematico tuttavia, secondo Platone, non si preoccupa di stabilire se le ipotesi sono vere, ma si limita a servirsene, una volta che esse risultano evidenti e dunque accettate. Per questo il sapere matematico non può venire considerato una conoscenza nel senso autentico del termine (visto che non è certo di cogliere la verità), ma solo una sorta di convenzione (homologìa). Il dialettico, invece, risale al di là delle ipotesi verso un principio non ipotetico che dovrebbe garantire la verità delle ipotesi di cui di volta in volta si serve. Anch’egli parte da ipotesi ma, a differenza del matematico, non le considera come dei principi indimostrabili, bensì tenta di risalire al di sopra di esse, fino a raggiungere il principio non ipotetico, che, come si vedrà, è rappresentato dall’idea del bene. La differenza tra il filosofo e il matematico concerne quindi la direzione stessa del ragionamento messo in atto: entrambi partono dallo stesso punto (le ipotesi), ma il dialettico risale verso l’alto, ossia verso un’ipotesi superiore e non si ferma finché non ha raggiunto il principio assoluto, non più ipotetico; il matematico, invece, muove verso il basso e si limita a dedurre le conseguenze che derivano dalle ipotesi ammesse, senza preoccuparsi della verità delle stesse. La seconda differenza consiste nel fatto che i matematici, e specialmente gli studiosi di geometria, si servono nelle loro dimostrazioni di figure sensibili. Essi, per dimostrare un certo teorema, ricorrono a delle vere e proprie costruzioni (prolungano un lato, costruiscono una figura a partire da un’altra ecc.) e con ciò palesano il loro debito nei confronti della dimensione sensibile. Viceversa il dialettico opera sulla base delle sole idee, stabilendo tra esse relazioni di dipendenza, di inclusione ed esclusione, senza mai ricorrere alla sensazione e alla costruzione. Il brano in cui Platone spiega le differenze tra il pensiero dianoetico e quello dialettico è giustamente famoso. – Ricominciamo allora, io dissi: comprenderai più agevolmente quando avrò esposto queste premesse. Penso infatti che tu sappia che coloro che si occupano di geometria, di aritmetica e di scienze simili, dopo avere ipotizzato il pari e il dispari, le figure, i tre tipi di angolo, e le altre cose di questo genere secondo le esigenze di ciascuna disciplina, danno tutto questo per noto e lo assumono come ipotesi, né ritengono di doverne dar conto a se stessi e agli altri, quasi fosse chia-
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ro a tutti; partendo poi da queste ne svolgono le conseguenze e convengono sulle conclusioni intorno a ciò su cui verteva l’indagine. – Conosco perfettamente, disse, questo procedimento. – Dunque sai anche che si servono di forme visibili e su di esse conducono le dimostrazioni, pur non pensando a quelle ma alle forme cui esse assomigliano; le dimostrazioni cioè sono svolte in vista del quadrato in sé e della diagonale in sé, non di quella che disegnano, e così via per le altre […] – Capisco, disse, che ti riferisci al campo della geometria e delle tecniche che le sono sorelle. – Capisci dunque anche che intendo per l’altra sezione del noetico quella su cui la ragione stessa fa presa con la potenza del discorrere dialettico; essa non tratta più le ipotesi come principi, ma realmente come ipotesi, cioè come punti di appoggio e di partenza per procedere fino a ciò che non è ipotetico, verso il principio del tutto; e quando ha fatto presa su di esso, segue tutte le conseguenze che ne dipendono, e così ridiscende verso una conclusione, non servendosi mai di alcun dato sensibile, ma solo delle idee attraverso le quali procede e verso le quali si dirige, e conclude a idee.
I quattro gradi della conoscenza Secondo Platone l’intero universo della conoscenza presenta una simmetria rigida con il mondo dell’essere, perché a ogni forma di conoscenza corrisponde un ben determinato tipo di oggetti. Egli immagina di collocare lungo un segmento le quattro forme cognitive alle quali l’uomo ha accesso, e spiega come ciascuna di queste forme si rivolga a uno specifico genere di oggetti. In primo luogo divide il segmento in due parti, la prima corrispondente alla conoscenza intelligibile, la seconda a quella sensibile. Poi opera un’ulteriore partizione, spiegando che il segmento noetico si divide in due sottosezioni, la prima corrispondente alla conoscenza dialettica, la seconda a quella matematica; la dialettica si rivolge alle idee, mentre il sapere matematico, cioè la diànoia, ha per oggetto le entità matematiche (numeri e figure). Anche la sezione sensibile presenta due sottosezioni: nella prima si trova la credenza (pìstis), i cui oggetti sono costituiti dalle cose sensibili; nella seconda si colloca l’immaginazione (eikasìa) che dovrebbe rivolgersi alle copie degli oggetti sensibili, dunque, molto probabilmente, ai prodotti artistici, che sono appunto imitazioni delle cose sensibili. In generale, nella parte inferiore del segmento si trovano forme di conoscenza che appartengono alla opinione (dòxa), mentre nella parte superiore hanno posto le conoscenze vere e proprie (ragionamento matematico e sapere dialettico). L’epistemologia dipende Il punto veramente importante di questo schema consiste nella convinzione, dall’ontologia tipicamente platonica, che l’epistemologia, cioè il tipo di conoscenza, dipende dalla ontologia, ossia dalla natura degli oggetti ai quali essa si rivolge. Mentre noi siamo abituati a pensare che dello stesso oggetto si possano avere diverse forme di conoscenza (a seconda del metodo con il quale questo oggetto viene studiato), per Platone, a un livello generale, se ci sono due conoscenze diverse – per esempio l’una opinabile (doxastica), l’altra scientifica (epistemica) –, la causa risiede essenzialmente nel fatto che esse si rivolgono a due generi di oggetti differenti: nel nostro caso, rispettivamente, agli oggetti sensibili e alle idee. Il segmento
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Parte prima L’età antica Modalità e gradi della conoscenza Intellezione
Conoscenza Gradi di conoscenza Oggetti Ontologia
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Il segmento quadripartito Repubblica, 7,533 E-534 B
Opinione
Dialettica
Matematica
Credenza
Immaginazione
Idee
Enti matematici
Oggetti naturali
Manufatti artistici
Mondo soprasensibile, essere
Mondo sensibile, divenire
– È dunque accettabile, dissi io, chiamare, come abbiamo fatto prima, «scienza» la prima parte, «pensiero discorsivo» la seconda, «credenza» la terza, «immaginazione» la quarta; e le ultime due insieme «opinione», le altre due «pensiero»; dire che l’opinione verte sul divenire, il pensiero sull’essenza; il pensiero sta all’opinione come l’essenza sta al divenire, e la scienza sta alla credenza, il pensiero discorsivo all’immaginazione, come il pensiero sta all’opinione. […] Chiami inoltre «dialettico» colui che coglie la spiegazione razionale dell’essenza di ogni singola cosa? E di chi non la coglie, nella misura in cui non è in grado di renderne ragione a sé e agli altri, non dirai che non è in grado di pensarla? – E cosa potrei dire altrimenti? rispose.
L’idea del buono
L’idea del buono è la suprema categoria etica
L’idea del buono attiva le potenzialità conoscitive dell’individuo
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Nel corso di queste pagine si è spiegato a più riprese che il sapere dei filosofi è primariamente rivolto alle idee e che dal possesso di questo sapere dipende il loro diritto a governare lo Stato nell’interesse di tutti i cittadini. In verità, secondo Platone, a legittimare i filosofi a dirigere lo Stato è soprattutto la conoscenza di un’idea particolare, l’idea del buono (o del bene), che rappresenta il vertice dell’intero mondo delle idee. Il possesso di tutte le altre conoscenze, e in particolare il possesso delle virtù (giustizia, coraggio ecc.), acquista rilevanza solo se viene messo in rapporto alla conoscenza dell’idea del buono. Quest’ultima è infatti in grado di rendere utili, ossia applicabili, tutte le altre forme di virtù e conoscenza. In questo senso il buono costituisce la suprema categoria pratica perché rappresenta il principio in riferimento al quale i filosofi devono prendere le decisioni per il complesso della comunità dei cittadini. Inoltre il buono è il vero fine dell’azione, perché ogni attività ha in vista il bene, si pone cioè l’obiettivo di realizzare qualcosa che viene considerato come un bene, un bene però che non sia apparente, ma reale. L’importanza dell’idea del buono non è solo di natura etica: la stessa conoscenza delle idee è resa possibile dalla presenza dell’idea del buono. Quest’ultima si comporta nell’ambito del mondo intelligibile come il sole all’interno del mondo sensibile. La presenza del sole, il quale è causa della luce, consente ai colori di essere visti e ai nostri occhi di vederli; allo stesso modo agisce il buono: esso rende conoscibili le idee e permette alla nostra anima di conoscerle. Questo significa che l’idea del buono attiva la nostra potenzialità conoscitiva, induce cioè la nostra anima a rivolgersi verso il mondo delle idee. Essa è dunque causa di conoscenza e verità. Ma non solo.
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Unità 3 Platone Ontologia: causa trascendente
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7 Gli ultimi dialoghi: le interrelazioni tra le idee
Parmenide, Sofista, Politico, Filebo
La contraddittorietà delle idee
I predicati opposti
Come il sole è la causa della generazione delle cose sensibili, senza identificarsi con la generazione, il buono è la causa dell’essere delle idee, senza tuttavia identificarsi con l’essere, bensì trascendendolo, ossia collocandosi al di là di esso. Dunque, l’idea del buono è anche causa dell’essere, ossia causa ontologica. Quest’ultimo punto rappresenta uno dei nodi teorici più complessi e irti di difficoltà dell’intera filosofia platonica. Intorno al suo significato già gli interpreti antichi si scontrarono, e ancora oggi esso è oggetto di continue dispute tra gli studiosi. Platone vuole probabilmente dire che le stesse idee – che sono entità eterne, ingenerate e incorruttibili, perfette e identiche a sé – prevedono un principio, che risulta ad esse in qualche modo superiore. Si tratta però di una sorta di primus inter pares: per un verso il buono appartiene all’universo ontologico, in quanto è esso stesso un’idea (sia pure particolare); per un altro verso, invece, esso è superiore alle altre idee, probabilmente perché non presenta una struttura simile a quella di una normale idea. In questo senso si dovrebbe riconoscere che il buono è al di là dell’essenza (che è il carattere tipico di ogni idea), ma non al di là dell’essere. Il punto è che a questo livello teorico, cioè al vertice della filosofia platonica, sembrano coesistere elementi in parte contraddittori; ciò dipende dalla natura stessa di un principio – l’idea del buono appunto – che ha una funzione etica e ontologica: in quanto principio etico, cioè di valore, esso si colloca al di là dell’esistente (deve infatti rappresentare un fine non ancora realizzato); in quanto principio ontologico, invece, esso appartiene all’essere perché non può risultare causa di qualcosa con cui non ha alcun rapporto.
Dialettica, idee, principi I dialoghi successivi alla Repubblica sembrano indicare un certo spostamento di prospettiva teorica da parte di Platone; in particolare sembra assumere una rilevanza sempre maggiore la questione dei rapporti tra le idee. Gli scritti composti nella fase centrale della sua vita (Fedone, Simposio, Repubblica) trattano sovente della relazione tra le idee intelligibili e le cose sensibili, sostenendo che queste ultime partecipano delle idee, oppure che ne sono copie, immagini o manifestazioni spazio-temporali. In molti dei dialoghi composti da Platone negli ultimi tre decenni di vita (soprattutto Parmenide, Sofista, Politico e Filebo) il problema del rapporto tra idee e cose particolari, pur non scomparendo, perde leggermente di importanza e viene affiancato e talora sostituito dalla questione di come le idee entrino in relazione fra loro. Nell’ultimo periodo Platone sembra interessato soprattutto al fatto che la contraddizione, relegata alle cose sensibili ma di cui le idee apparivano immuni, si insinua nel cuore stesso dell’essere, cioè del mondo delle idee. Si è visto che le cose sensibili presentano una natura contraddittoria, in quanto ciascuna di esse è, e contemporaneamente non è: Elena, per esempio, è bella in rapporto a una comune donna, ma brutta nei confronti di una dea; viceversa, le idee dovrebbero risultare immuni da questa natura contraddittoria. A un esame più accurato, tuttavia, anche le idee presentano al loro interno una struttura contraddittoria, perché anch’esse possono possedere predicati opposti: 141
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Parte prima L’età antica
Le idee partecipano delle idee: il simile è dissimile, l’uno è molteplice
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La contrarietà: dalle cose alle idee
Parmenide, 128 E-130 A
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l’idea del simile, per esempio, è anche dissimile, appunto perché è dissimile da altre entità. Un altro esempio: l’idea dell’uno è anche molteplice dal momento che ammette più di una caratteristica (per esempio, oltre all’unità, l’esistenza) così come l’idea del molteplice è unitaria, appunto in quanto essa è una singola idea. Secondo Platone l’esistenza di una pluralità di determinazioni all’interno di ciascuna idea si spiega per mezzo della concezione della interrelazione tra le idee, ossia del fatto che non solo i sensibili partecipano delle idee, ma anche queste ultime hanno rapporti di partecipazione reciproca. In questo modo si spiega perché l’idea del simile sia anche dissimile: essa ricava infatti il possesso di questa proprietà dalla partecipazione all’idea della dissomiglianza, che la rende dissimile dalle altre idee. Analogamente l’idea dell’uno è molteplice perché partecipa dell’idea del molteplice. Insomma, per Platone a partecipare delle idee non sono solamente le cose sensibili ma le stesse idee (ciò corrisponde a una specie di «prodigio» teorico). Rispondimi su questo punto: non ritieni che esista una forma in sé e per sé della somiglianza, e un’altra ad essa contraria, ciò che è realmente dissimile; e che di queste due entità partecipiamo tu ed io e le altre cose che chiamiamo molte? E non ritieni che ciò che partecipa della somiglianza diventi simile in virtù di essa e nella misura in cui ne partecipa, e ciò che partecipa della dissomiglianza diventi dissimile, e ciò che partecipa di entrambe diventi entrambe le cose? Che cosa c’è di straordinario se tutte le cose partecipano di ambedue le forme, che sono tra loro contrarie, e in virtù di questa doppia partecipazione esse sono sia simili che dissimili a se stesse? Se si provasse, invece, che i simili in sé diventano dissimili e i dissimili simili, questo, penso, sarebbe un prodigio. Ma se si provasse che ciò che partecipa di entrambe queste entità risulta simile e dissimile, ebbene questo, Zenone [l’allievo di Parmenide], non mi sembra affatto assurdo, e neppure se si provasse che tutte le cose sono «uno» perché partecipano dell’uno, e che le stesse sono molte perché partecipano anche della molteplicità. Invece, se si dimostrerà che ciò che è uno, è esso stesso molti, e viceversa i molti sono uno, allora sì che avrò di che meravigliarmi. E questo ragionamento vale anche per tutte le altre cose: se si riuscisse a provare che i generi in sé e le forme risultano affetti in se stessi da queste proprietà contrarie, ecco che sarebbe legittimo meravigliarsi. Ma cosa c’è di straordinario nel dimostrare che io sono uno e molti, sostenendo, quando si vuole provare che sono molti, che una cosa è la parte destra un’altra quella sinistra, una cosa il davanti un’altra il dietro, e così diversi sono anche l’alto e il basso: questo perché, penso, partecipo della molteplicità; quando invece si vuole provare che sono uno, si dirà che tra noi che siamo sette io sono un uomo perché partecipo anche dell’uno. Così facendo si prova che entrambe le asserzioni sono vere. Dunque, se qualcuno tentasse di provare in riferimento a simili entità che la stessa cosa è molti e uno, mi riferisco a pietre, legni e cose di questo tipo, noi diremo che dimostra che una certa cosa è molteplice e unitaria, non che l’uno è molti e i molti sono uno, e che non afferma nulla di straordinario, ma cose sulle quali tutti potremmo essere d’accordo. Se invece, a proposito delle cose di cui parlavo poco fa, egli in primo luogo divide le forme in sé e per sé, considerandole separatamente, ad esempio somiglianza e dissomiglianza, molteplicità e uno, quiete e movimento, e tutte le altre di questo tipo, e prova che queste forme in se stesse hanno la capacità di mescolarsi e separarsi, ebbene, – disse – io ne sarei straordinariamente ammirato, Zenone.
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Unità 3 Platone
Ritengo che questi temi tu li abbia trattati con coraggio. Ma, come dico, sarei certamente molto più ammirato se si fosse in grado di dimostrare che questa stessa aporia è implicata in vari modi nelle forme stesse, di dimostrare cioè che si trova anche nelle cose conoscibili razionalmente, così come avete fatto a proposito delle cose visibili. Il principio della partecipazione viene dunque esteso anche alle idee. Esse si relazionano le une alle altre in un complesso intreccio di rapporti che è compito del dialettico ricostruire. In effetti, nei dialoghi posteriori alla Repubblica, non a caso chiamati spesso «dialettici», il tema della dialettica come studio delle relazioni interne al mondo delle idee acquista una rilevanza assolutamente centrale.
La dialettica come sintassi ideale Inclusione ed esclusione reciproca: idee che comunicano e idee che non comunicano
Se si accetta l’assunto secondo il quale le idee comunicano tra di loro, risulterà inevitabile concepire la dialettica – che è la scienza delle idee – come una sorta di sintassi eidetica, ossia come un’indagine relativa ai rapporti di inclusione ed esclusione reciproca tra le idee. Platone si chiede infatti quali idee comunichino tra loro e quali invece non possano comunicare. Egli osserva, per esempio, che l’idea di uomo può partecipare dell’idea di camminare, mentre non può avere rapporti di comunicazione positiva con l’idea di volare. La proposizione «Socrate vola» è falsa, prima ancora che per la sua evidente falsità empirica, perché l’idea di uomo (di cui Socrate costituisce una manifestazione) è logicamente inconciliabile con quella del volare, appunto a causa dell’assoluta assenza di una relazione di partecipazione tra le due. Si direbbe che lo studio dei rapporti di inclusione ed esclusione tra le idee rappresenti una sorta di analisi delle condizioni necessarie (ma non sufficienti) della verità delle asserzioni empiriche: prima ancora di stabilire se Socrate stia camminando oppure stia volando, occorre essere in grado di valutare se le idee in questione possono o meno comunicare tra di loro. L’eventuale comunicazione rappresenta la condizione necessaria (non sufficiente) della verità dell’asserto «Socrate cammina», mentre l’assenza di comunicazione è già in se stessa condizione necessaria e sufficiente della falsità dell’asserto «Socrate vola».
Generi e specie, divisione e ricomposizione Lo studio della natura attraverso il quadro teorico della dialettica
L’indagine delle relazioni di inclusione ed esclusione tra le idee riveste una notevole importanza nello studio delle realtà naturali perché l’analisi delle articolazioni dei generi nelle specie (e di inclusione delle specie nei generi) fornisce il quadro teorico generale per la conoscenza della natura. Platone e i suoi allievi dedicarono grande attenzione alle divisioni interne dei singoli generi, ossia a come un genere (per esempio animale) si divide nelle sue specie (per esempio vertebrati e invertebrati), e per converso all’appartenza di una specie a un certo genere (per esempio uomo ad animale): si tratta rispettivamente dei metodi della diàiresis, ovvero della divisione del genere nelle sue specie, e della sy`nthesis, ovvero della riconduzione della specie al proprio genere di appartenenza, che tanta fortuna hanno avuto nella scuola di Platone e poi in quella aristotelica. Secondo Platone la dialettica forni143
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sce, dunque, il quadro teorico di riferimento alle ricerche particolari. La meticolosità di queste ricerche ha suscitato la sarcastica reazione degli avversari di Platone, come dimostra un celebre aneddoto riportato dal comico Epicrate (in Ateneo, Deipnosofisti, 2,59 D-F). – Che mi dici di Platone, Speusippo e Menedemo? Di che vanno discutendo in questi tempi? Quali pensieri, quali discorsi vengono indagati nella loro scuola? – Sono in grado di dirtelo con certezza. Alle Panatenaiche ho visto un branco di ragazzotti […] e nel ginnasio dell’Accademia ho udito discorsi indicibili, incredibili. Analizzando la natura, dividevano le forme di vita degli animali, la natura degli alberi, i generi degli ortaggi. E in queste ricerche indagavano a che genere appartenesse la zucca. – E che definizione ne hanno dato, a qual genere appartiene la pianta? – All’inizio, tutti in silenzio, immobili, a testa china riflettevano a lungo. Poi all’improvviso, mentre ancora i giovanotti erano curvi sulla loro ricerca, uno disse che era un ortaggio rotondo, un altro un’erba, un terzo un albero. Li ascoltava un medico che veniva dalla terra di Sicilia, e mollò un peto per schernirli, come fossero fuori di testa. […] Ma i ragazzi non ci fecero caso. E Platone, che assisteva molto sereno, per nulla turbato, li invitò a ritentare dal principio di definire a quale genere appartiene la zucca. E quelli continuarono a dividere.
I cinque generi sommi I generi sommi, le idee presenti in tutte le idee
Essere, identico, diverso; moto e quiete
I generi sommi come le vocali
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Lo studio sistematico dei rapporti di partecipazione reciproca tra le idee conduce poi Platone a individuare alcune idee alle quali tutte le altre partecipano. Si tratta di idee generalissime, le quali sono presenti in tutte le idee, oltre che nelle cose sensibili. In virtù di questa loro generalità, le idee in questione sono state chiamate «generi sommi», mèghista ghène. Il ragionamento attraverso il quale Platone perviene a isolare queste idee, sebbene abbastanza complesso e tortuoso, può venire riassunto nei termini seguenti: 1) ogni idea, per il fatto stesso di essere (cioè di esistere e di essere quella determinata idea), deve partecipare del genere dell’«essere»; 2) essa, in quanto è identica a se stessa, deve partecipare anche del genere dell’«identico»; 3) dal momento che essa è anche diversa da tutte le altre idee, ha un rapporto di partecipazione con il diverso, cioè con l’idea della «diversità». Dunque, essere, identico e diverso costituiscono i primi tre generi sommi isolati. Differente il caso delle idee di moto e immobilità: esse sono meno inclusive perché, se una cosa partecipa del moto non può contemporaneamente partecipare anche dell’immobilità, e viceversa. Inoltre, moto e immobilità, a differenza di essere, identico e diverso, non possono ammettere una partecipazione reciproca. Platone arriva dunque ad ammettere cinque idee generalissime (i generi sommi): le prime tre assolutamente universali, ossia l’essere, l’identico, il diverso; le altre due, il moto e la quiete, dotate di un grado di universalità minore. La funzione di queste idee somme (e in particolare delle prime tre) è stata equiparata da alcuni studiosi a quella esercitata nelle nostre lingue dalle vocali, le quali sono presenti in tutte le parole. Come le vocali, anche i generi sommi sono presenti dappertutto e regolano la trama dei rapporti interni al mondo delle idee.
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Unità 3 Platone I cinque generi sommi
Assolutamente universali Universali
L’essere
L’identico Il moto
Il diverso La quiete
Il parricidio di Parmenide: la riammissione del non essere L’analisi condotta da Platone sui generi sommi e in particolare l’esame di uno di essi, il diverso, ha importanti conseguenze relative alla natura del non essere. Ricorderai che Parmenide aveva escluso ogni forma di non essere dal discorso vero (vedi p. 45 ss.). Egli era arrivato a formulare un vero e proprio divieto di dire e pensare il non essere. Platone giunge invece, al termine di un complesso ragionamento, a riammettere il non essere nel cuore del discorso filosofico. Il non essere relativo Non si tratta più, tuttavia, del non essere assoluto al quale si riferiva Parmenide, bensì di un non essere relativo, ossia del non essere di cui ci serviamo quando sosteniamo che una certa cosa non è una determinata altra cosa: il movimento, per esempio, non è l’immobilità, è cioè diverso da essa. A un livello più generale, poi, il fatto che una qualsiasi idea sia, ossia esista e sia quella determinata idea, significa immediatamente che essa è diversa da tutte le altre, cioè non è nessuna delle altre. Ecco perciò fare la sua comparsa il non essere, inteso non in senso assoluto, ma appunto relativo: essere diverso da / non essere una determinata cosa o qualità. Platone si rende conto della portata anti-parmenidea del suo ragionamento e infatti chiama «parricidio» (uccisione del padre), l’introduzione del non essere nel cuore della dialettica: Parmenide era considerato da Platone una sorta di proprio padre spirituale. Del resto, l’ammissione del non essere nel cuore dell’essere (cioè delle idee) sembra costituire l’esito inevitabile di una concezione che intende la dialettica come la scienza dei rapporti di inclusione ed esclusione tra le idee. Il punto di vista platonico presuppone l’idea che ogni determinazione implichi in qualche modo una negazione. Nel dialogo Sofista lo Straniero di Elea, il protagonista del dialogo al posto di solito assegnato a Socrate, afferma:
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Il diverso ovvero il non essere Sofista, 254 B-256 B
– Poiché dunque abbiamo convenuto che alcuni generi ammettono di entrare in comunicazione fra loro, altri no, e alcuni in brevi limiti, altri in una molteplicità di relazioni, e ancora ce ne sono alcuni che nulla impedisce a che si colleghino con tutti gli altri in tutte le cose, noi, tutti insieme, tiriamo le conseguenze del nostro ragionamento e vediamo, non certo per tutti i generi, per non essere noi tutti messi in confusione dalla loro moltitudine, ma scegliendo alcuni fra quelli che sono detti i più importanti, vediamo prima di tutto che cosa è ciascuno di questi che sceglieremo, e poi vediamo quale potenza di comunicazione reciproca essi hanno, affinché, anche se non possiamo cogliere con perfetta chiarezza ciò che è e ciò che non è, almeno non lasciamo in nulla incompleto il nostro discorso […] Tra i generi, dunque, i più importanti sono quelli di cui noi abbiamo trattato poco fa, ciò che è, in quanto tale, la quiete e il moto. […] E noi affermiamo che due di questi non si possono mescolare fra di loro. […] E ciò che è mescolabile a ambedue: ambedue infatti sono. […] Quindi vengono ad essere tre. […] Ciascuno di essi, allora, è diverso dagli altri due e identico a se stesso. […] 145
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– Ma che cosa abbiamo mai inteso dire ora, dicendo identico e diverso? Sono questi forse due generi, altri dai tre di prima, sempre necessariamente misti a quelli? Dobbiamo così ricercare su cinque e non su tre, perché sono appunto cinque, oppure invece noi ci inganniamo chiamando coi nomi di identico e diverso qualcuno di quei generi? – Forse. – Ma il moto e la quiete non sono per niente né il diverso né l’identico. – Perché? – Perché qualsiasi termine noi attribuiamo insieme sia alla quiete sia al moto, questo termine non può indicare né l’uno né l’altro di essi due, quiete e moto. […] Partecipano quindi ambedue dell’identico e del diverso. […] Non diciamo dunque che il moto è l’identico o il diverso e neppure, d’altra parte, diciamo così della quiete. […] Ma forse dobbiamo pensare come una sola cosa l’essere e l’identico? – Forse. – Ma se non significano nulla di diverso l’essere e l’identico, allora dicendo che sia il moto che la quiete sono, di nuovo noi verremmo così a dire che ambedue sono la stessa cosa. […] È quindi impossibile che l’identico e l’essere siano una cosa sola. […] Poniamo come quarto genere, oltre ai primi tre, l’identico? – Certamente. – Dobbiamo poi dire che il quinto è il diverso? O dobbiamo pensare che questo e l’essere sono due denominazioni che si riferiscono a un solo genere? – Forse. – Ma io credo che tu mi conceda che tra le cose che sono si danno due tipi, alcune si dicono essere quello che sono sempre in relazione a se stesse, altre sempre in relazione ad altro. […] Il diverso è sempre in relazione al diverso. […] – Ciò non avverrebbe se l’essere e il diverso non differissero totalmente; […] Dobbiamo dunque porre la natura del diverso come quinto fra i generi da noi prescelti. […] Ed essa è diffusa attraverso tutti gli altri, dobbiamo affermare; infatti ciascuno di essi è diverso dagli altri, non per sé, ma per il fatto che partecipa al carattere proprio del diverso. […] Allora bisogna che noi conveniamo, senza protestare, che il moto è identico e pure non identico. Infatti quando diciamo che esso è identico e non è identico, non diciamo ciò dal medesimo punto di vista, ma quando diciamo che è identico lo diciamo così per la sua partecipazione all’identico, quando diciamo che non è identico, lo diciamo per la sua comunicazione con il diverso.
Unità e molteplicità Le conseguenze dell’interconnessione tra le idee
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L’esistenza di una interconnessione tra le idee ha come inevitabile conseguenza che ciascuna di esse, pur essendo un’entità unitaria (le idee sono chiamate anche «monadi»), presenta una sorta di articolazione interna, determinata appunto dai rapporti di partecipazione con le altre idee. La concezione delle idee come entità complesse, strutturate dalla relazione con le altre idee, comporta l’importante conseguenza teorica di attenuare la rigida separazione fra le idee stesse e le cose empiriche, che era propria della forma originaria della teoria, in cui la «semplicità» invariante delle idee era contrapposta alla «pluralità»
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Unità 3 Platone
Idee e numeri: la ricerca delle determinazioni di ogni singola idea
mutevole delle cose. Ora, il mondo ideale resta certo distinto da quello delle cose sensibili, ma funge più da modello di pensabilità di queste che da alternativa ontologica rispetto ad esse. Per esempio, l’idea di uomo, che ha le proprietà di esistere, di essere identica a se stessa, diversa dalle altre, in moto o immobile, e che inoltre appartiene ai generi di «animale», «terrestre», «bipede» appare come uno strumento per la comprensione dell’essenza dell’uomo concreto piuttosto che un altro esemplare di «uomo» ideale senza rapporti con il primo. In quest’ultima fase della sua riflessione sembra inoltre che Platone abbia equiparato le idee ai numeri, proprio a causa della natura in qualche modo complessa della loro costituzione. L’idea di uomo, per esempio, è indubbiamente una realtà unitaria, esistente in se stessa, separata e indipendente dai molti uomini che di essa partecipano. Tuttavia, essa è anche in qualche modo molteplice, proprio in virtù del fatto che ammette relazioni con altre forme, per esempio quella di animale, o quella di bipede: l’essenza dell’uomo si definisce infatti come «animale bipede». Non è chiaro in che misura Platone abbia sviluppato l’equiparazione tra idee e numeri, ma è indubbio che in un dialogo tardo come il Filebo egli afferma con tutta chiarezza che il compito del dialettico consiste nello stabilire l’esatto numero di determinazioni che entrano a fare parte di ogni singola idea. Almeno in questo senso si può effettivamente dire che per l’ultimo Platone le idee sono numeri, cioè risolvibili e interpretabili in «formule» numeriche.
Le dottrine non scritte: l’uno e la diade La questione della natura complessa delle idee – e dunque del loro rapporto con i numeri – ritorna a proposito di un’altra questione. Si tratta del fatto che le idee ammettono in qualche modo dei principi ad esse superiori. In effetti, Aristotele sembra attribuire al suo maestro una concezione che non si trova formulata chiaramente nei dialoghi, ma che forse Platone espose nelle sue lezioni all’interno dell’Accademia. I principi superiori: In base a questa dottrina – che noi conosciamo soprattutto grazie alla testimol’uno e la diade nianza di Aristotele – le idee deriverebbero da due principi ad esse superiori: l’uno e la diade indeterminata. Dal momento che ogni idea è una realtà unitaria, essa partecipa dell’uno; poiché essa, d’altra parte, è anche molteplice, dipende da un principio di molteplicità, la diade appunto. Le idee dunque si generano (ove la generazione non è temporale ma logica) quando una molteplicità di determinazioni viene raccolta in un’unità, quella della singola idea. Aristotele aggiunge poi che l’uno sarebbe la causa del bene, la diade quella del male. Anche a proposito di questa affermazione bisogna dire che essa non si ritrova nei dialoghi. Ma, almeno per la sua prima parte (l’identificazione dell’uno e del bene), essa non sembra contrastare con ciò che Platone scrive nei dialoghi, soprattutto nella Repubblica, dove l’idea del buono presenta qualche analogia con il principio dell’unità. In ogni caso, bisogna riconoscere che gli sviluppi della riflessione platonica intorno alla natura complessa e articolata delle idee poté dar luogo alla teoria dei principi e alla concezione delle idee-numeri di cui parla Aristotele a proposito ➥ Sommario, p. 157 delle misteriose «dottrine non scritte» (àgrapha dògmata). 147
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Il Timeo La verosimiglianza criterio di indagine del cosmo
Prime relazioni tra mondo ideale e mondo sensibile
Il cosmo e le sue cause Lo studio approfondito delle relazioni logiche e ontologiche interne al mondo delle idee non ha fatto mai perdere di vista a Platone l’importanza di una trattazione filosofica del mondo fisico. A questo tema è dedicato uno dei suoi dialoghi più lunghi e complessi, il Timeo. Qui Platone si propone di indagare l’origine e la struttura del cosmo. A tale proposito occorre fare una considerazione preliminare, che è esattamente quella che fa anche Platone. Egli dichiara – fedele al principio epistemologico più volte richiamato – che la forma di ogni trattazione dipende dalla natura dell’oggetto intorno al quale essa verte. Questo significa che solo del mondo dell’essere, ossia delle idee, si potrà avere una trattazione propriamente scientifica che consenta di giungere alla verità; viceversa, del mondo fisico, il quale è soggetto a mutamento e instabilità, l’unico discorso possibile dovrà essere di natura probabile e verosimile: questo discorso è quindi presentato come un racconto mitico simile alla verità ma non coincidente del tutto con essa. Ove tra la verità e la verosimiglianza vige il medesimo rapporto che si stabilisce tra l’essere e la generazione, cioè tra le idee e il mondo sensibile. Si tratta per la precisione della relazione che lega il modello alla sua copia. Questo significa che come la generazione (copia) sta all’essere (modello) così la verosimiglianza (copia) sta alla verità (modello). Da tutto ciò consegue che i discorsi relativi al mondo fisico – che è per sua natura mutevole e instabile – non potranno che risultare essi stessi instabili e comunque privi del carattere della certezza, che compete solamente alla conoscenza delle idee. Idee
Modello
Essere
Verità
Cosmo
Copia
Divenire
Verosimiglianza
Il riconoscimento dell’esistenza di questi vincoli epistemologici non deve però indurre a ritenere che lo studio del mondo fisico rappresenti qualcosa di poco significativo, relegato all’ambito dell’azzardo. Nulla sarebbe più distante dal punto di vista di Platone. Egli si sforza anzi di fornire un’analisi accurata della struttura del mondo. È però un’analisi che non rinuncia mai a riconoscere i propri limiti, dipendenti appunto dall’oggetto di studio.
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Modello, copia, verosimiglianza Timeo, 29 B-D
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Ma la cosa più importante è cominciare ogni esame prendendo le mosse dal suo principio naturale. Così, dunque, bisogna distinguere fra l’immagine e il suo modello, poiché i discorsi sono congeneri a ciò di cui parlano: da un lato, dunque, i discorsi su ciò che è stabile, saldo ed evidente al pensiero, bisogna che siano anch’essi stabili e solidi […] e inconfutabili, invincibili e non mancanti di nulla; dall’altro, i discorsi su ciò che imita il modello, e che non è che una sua imitazione, bisogna che siano, rispetto ai primi, verisimili; l’essere è rispetto al divenire nello stesso rapporto in cui è la verità rispetto alla credenza. Se dunque, Socrate, non saremo in grado di proporti, su molti aspetti e riguardo a molte questioni, sugli dèi e sulla generazione dell’universo, dei ragionamenti perfettamente e compiutamente coerenti con se stessi e del tutto esatti, non stupirti; ma se ti presenteremo dei ragionamenti non
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meno verisimili di altri, dovremo esserne soddisfatti, ricordandoci che io che parlo e voi che siete i miei giudici apparteniamo alla natura umana, sicché, se ci si offre un racconto verisimile su questi argomenti, conviene non cercare ancora oltre.
Le cause dell’origine dell’universo
Il modello ideale, causa del cosmo
Il demiurgo, l’artigiano divino che fabbrica il cosmo
Lo spazio-materia e la copia imperfetta
Secondo Platone il fatto che l’universo sensibile sia una realtà generata comporta una importante conseguenza: esso deve avere una causa, proprio perché ogni realtà generata possiede una causa. La causa del cosmo è rappresentata dal modello ideale, cioè dal mondo delle idee. Tuttavia quest’ultimo va in un certo senso messo in movimento, va cioè attivato, perché solo in questo modo può effettivamente rappresentare la causa del mondo fisico. Per alludere al movimento causale del modello ideale Platone ricorre a una celeberrima immagine, quella del demiurgo. Egli dice che un artigiano divino, il demiurgo appunto, vuole che il cosmo sensibile assomigli il più possibile al modello intelligibile, cioè al mondo delle idee, e per questo fabbrica un prodotto che riproduce i caratteri di completezza e perfezione del modello. Il mondo, infatti, è una copia del modello ideale, fabbricato da un dio buono. Quest’ultimo non è però un dio creatore, come quello ebraico e cristiano (che infatti genera dal nulla), ma appunto un dio artigiano, che agisce su un materiale preesistente. Ecco in estrema sintesi il ragionamento di Platone. Il demiurgo è buono (forse perché partecipa dell’idea del buono); dal momento che è buono, risulta anche del tutto privo di invidia; ciò significa che egli desidera che l’universo generato sia anch’esso buono e bello; dunque lo fabbrica avendo come modello il mondo delle idee, che è infatti perfetto e divino. Tuttavia, il fatto di dovere agire su un materiale preesistente, una specie di spazio-materia, che è invece disordinato e instabile, lo costringe a fare i conti con una sorta di resistenza. Ciò fa sì che il mondo non sia del tutto identico al suo modello, ma solamente simile, sia cioè una copia inevitabilmente deformata.
Le due cause: intelligente e necessaria Vi sono, dunque, due cause fondamentali che spiegano la genesi e la struttura dell’universo. La prima è la causa intelligente, costituita insieme dal demiurgo e dalle idee. La seconda è una sorta di causa «necessaria», cioè indispensabile alla costituzione dei corpi ma dotata di una sua inerzia, che offre quindi una certa resistenza all’azione della ragione. Tutto ciò che è corporeo, irrazionale e disordinato nel mondo dipende dalla presenza di questa seconda causa, che esprime in qualche modo la dimensione della necessità, intesa come un ambito opposto a quello dell’intelligenza. Il principio intelligente Il mondo che noi conosciamo non è altro che il prodotto della mescolanza tra e la persuasione queste due cause, le quali non vanno però collocate sullo stesso piano, dal modella necessità mento che il principio intelligente e razionale (demiurgo e idee) esercita una certa prevalenza e riesce a «persuadere» la necessità (anànke). La formazione del mondo somiglia dunque, metaforicamente, all’opera del buon politico, che deve convincere i cittadini della bontà delle sue proposte. 149
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Parte prima L’età antica La formazione del cosmo
Stadio iniziale
Intervento del demiurgo
Mondo ideale completo e perfetto
Imitazione del modello
Materia corporea instabile e caotica
Tentativo di persuasione della materia
Cause Idee + demiurgo = causa intelligente Materia = causa necessaria
Stadio finale
Universo sensibile, copia imperfetta di quello ideale
La supremazia della razionalità La supremazia della causa razionale nei confronti di quella necessaria si esprime attraverso il ruolo giocato dall’anima. Il cosmo per Platone è un essere vivente. Come tale, possiede un’anima, oltre che un corpo costituito dai quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco. L’anima esercita il comando sul corpo e ne guida il movimento. La presenza di quest’anima cosmica risulta massimamente evidente al livello dei movimenti degli astri, che si comportano in conformità a precise leggi matematiche (razionali). Il ragionamento di Platone segue il seguente andamento: il cosmo sensibile è un essere vivente. Questo risulta palese dal fatto che esso si muove, ossia che al suo interno accadono processi (di crescita per esempio) e vere e proprie traslazioni locali (pensa al moto degli astri). Ma se un essere si muove lo può fare solo perché possiede un’anima. Dunque, il mondo ha un’anima. Quest’ultima è stata collocata dal demiurgo al centro del mondo, per guidarlo e regolarne i movimenti. Essa compenetra il corpo cosmico dappertutto e arriva ad avvolgerlo dall’esterno. In questo senso, l’anima cosmica assolve al ruolo di mediatrice tra la perfezione delle idee e il caos della materia precosmica (la quale costituisce un aspetto della necessità). I quattro elementi La prevalenza dell’intelligenza sulla necessità trova espressione in un secondo e i poliedri aspetto. Si tratta del fatto che i corpi fisici elementari, ossia i quattro elementi propri della fisica di Empedocle (vedi Unità 1, p. 52 s.), presentano al loro interno una struttura matematica, per la precisione geometrica. Ciascun corpo risulta difatti composto da poliedri regolari: il fuoco da tetraedri (piramidi), l’acqua da icosaedri, l’aria da ottaedri, la terra da cubi. Essi a loro volta risultano scomponibili in triangoli, che, infine, si formano a partire da due tipi di triangoli fondamentali, il triangolo isoscele rettangolo e il triangolo scaleno rettangolo. Ciò significa che la materia è in ultima analisi costituita da strutture geometrico-matematiche, dunque da entità intelligibili. È facile constatare come la fisica-matematica del Timeo si ponga in alternativa sia all’elementarismo di Empedocle sia all’atomismo di Democrito: per Platone la sfera della materia non è veramente autonoma ma rimanda a un piano fondativo ad essa superiore, rappresentato dalle figure geometriche, cioè da entità ideali. Una tesi come questa presenta più di un’analogia con posizioni della fisica del Novecento, e infatti alcuni fisici, come il premio Nobel Werner Heisenberg, hanno fatto del Timeo un punto di riferimento per le loro riflessioni filosofiche; per le stesse ragioni, molto prima, il grande dialogo esercitò un’influenza determinante nella Ri➥ Sommario, p. 157 voluzione scientifica seicentesca, quando, con Galileo, nacque la fisica moderna.
L’anima del cosmo ne guida il movimento
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Unità 3 Platone La struttura geometricomatematica della materia
Forme elementari
Triangolo scaleno rettangolo
Triangolo isoscele rettangolo
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Intervento del demiurgo Con sei triangoli scaleni rettangoli forma un triangolo equilatero
Con quattro triangoli isosceli rettangoli forma un quadrato
Con i triangoli equilateri forma:
Con sei quadrati forma:
Poliedri regolari
I quattro elementi
Tetraedro (piramide)
Fuoco
Ottaedro
Aria
Icosaedro
Acqua
Cubo
Terra
Eros e filosofia: alla ricerca di una mediazione
Nelle pagine precedenti si è visto come la riflessione platonica prenda le mosse dalla constatazione dell’esistenza di scissioni apparentemente inconciliabili: tra l’essere (le idee) e il divenire (le cose sensibili), tra l’intelligibile e il sensibile, tra la ragione e la sensazione, tra la conoscenza e l’opinione, tra l’anima e il corpo. Essa però è costantemente percorsa dal tentativo di mediare tra questi estremi, di stabilire dei punti di incontro tra gli opposti. La tensione Si direbbe anzi che l’essenza stessa della filosofia platonica consista esattamente neltra gli estremi l’immane sforzo di fare incontrare l’alto e il basso, l’intelligibile e il sensibile, ossia di innalzarsi verso l’‘alto’ della verità e dei valori, e poi di trasferire quaggiù ciò che si trova lassù: di conoscere le idee e di applicare nella città le norme ideali, di costruire nel nostro mondo un’imitazione della kallìpolis, cioè della città perfetta, ideale, dunque utopica, ma, proprio per questo, modello cui si deve orientare l’agire politico.
Conciliare l’inconciliabile
Eros demone mediatore La funzione mediatrice che Platone assegna alla filosofia trova l’espressione più straordinaria nella descrizione della figura di Eros, solitamente considerato il dio dell’amore. Secondo Platone, infatti, in Eros si manifesta la stessa natura del filosofo, che consiste nel riconoscimento della propria mancanza, del proprio deficit, e nello sforzo di colmare, ovviamente nei limiti del possibile, questa mancanza. Nel Simposio, il grande dialogo dedicato all’amore, Platone spiega che, contrariamente a quanto si è soliti ritenere, Eros non è un dio, quindi perfetto e autosufficiente, bensì un demone, ossia un’entità intermedia collocata tra gli uomini e gli dèi. Desiderio e mancanza: Questa intermedietà spiega l’aspetto più significativo di Eros, ossia la sua natura la tensione verso tensionale, il fatto che egli aspiri a qualcosa di cui non è in possesso. Eros deve la la conoscenza sua natura intermedia alla combinazione delle caratteristiche dei suoi genitori, il padre Pòros (espediente) e la madre Penìa (privazione, povertà). Dal padre Eros riceve il desiderio delle cose belle e buone e soprattutto la capacità di procurarsele; dalla madre egli eredita lo stato di mancanza, cioè l’assenza del bene e del bello. Ciò significa che Eros non è un dio – il quale possiede in modo perfetto e compiuto il bene e proprio per questo non deve aspirare ad esso – ma un demone, cioè un’essenza intermedia che desidera ciò che non ha ed è in possesso delle capacità che gli consentono di aspirare e di raggiungere l’obiettivo. Vediamo, nel testo che segue, come la sacerdotessa Diotima racconta a Socrate il mito della nascita di Eros. Simposio: Eros entità intermedia
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Eros: ruvido, misero, instancabile cacciatore di sapienza
Simposio, 203 B-204 A
In occasione della nascita di Afrodite, gli dèi si trovavano a banchetto, e tra questi c’era anche il figlio di Saggezza, cioè Espediente (Pòros). Dopo che ebbero pranzato, venne a chiedere l’elemosina, come accade quando c’è una festa, Povertà (Penìa); e stava vicino alla porta. Espediente, ubriaco di nettare (ché il vino ancora non c’era), entrato nel giardino di Zeus, era stato colto da un sonno profondo. Allora Povertà, escogitando, per la sua miseria, di avere un figlio da Espediente, gli si sdraia accanto e concepisce Eros. Ecco perché Eros, generato durante le feste natalizie di Afrodite, è fin dalla nascita suo seguace e ministro, ed è insieme, di sua natura, innamorato del bello, bella essendo anche Afrodite. E come figlio di Espediente e Povertà, ecco che destino gli è capitato. Anzitutto è povero sempre, e tutt’altro che delicato e bello, come credono i più, ma anzi è ruvido, ispido, scalzo e senza tetto; e abituato a sdraiarsi per terra senza coperte, per dormire sotto il cielo sulle soglie e per le strade: ritraendo in ciò dalla natura della madre, nella sua perpetua convivenza con la miseria. Per parte del padre, invece, è ardente insidiatore del bello e del buono, e valoroso, impavido e veemente, cacciatore formidabile, sempre occupato a tessere inganni, desideroso di conoscere e ingegnoso, tutta la vita intento a filosofare, terribile incantatore, esperto di filtri e sofista. […] Eros non è né povero né ricco. Anche tra sapienza e ignoranza egli sta nel mezzo. E la ragione è questa: nessuno degli dèi filosofa né aspira a diventare sapiente perché lo è già […]. D’altra parte nemmeno gli ignoranti filosofano, né desiderano diventare sapienti, perché proprio questo l’ignoranza ha di grave, che chi non è né onesto né saggio si crede perfetto. E chi non avverte la propria deficienza non può desiderare ciò di cui non sente il bisogno.
La filosofia come tensione erotica Il filosofo platonico non è, dunque, né il sapiente (sophòs) arcaico, alla maniera di Parmenide e di Eraclito, né l’uomo comune, ignorante e privo di tensione verso la conoscenza. Come indica la stessa parola, la philo-sophìa è amore e tensione verso la sapienza (philèin significa «tendere», «desiderare», «amare»; sophìa significa «sapienza»); essa è la constatazione di una condizione di insufficienza e mancanza, e contemporaneamente è il desiderio di colmare questa assenza. Il filosofo, come Eros, è in possesso delle capacità per realizzare il proprio obiettivo, perché in se stesso ha le qualità per superare la condizione di partenza e per accedere alla conoscenza. Fuor di metafora, questo significa che l’uomo possiede nella sua anima un principio, quello razionale, che, se correttamente valorizzato, gli consente di arrivare a conoscere il mondo delle idee e di applicare le norme di quel mondo anche alla vita politica. La filosofia, mediazione La filosofia comporta dunque per Platone un aspetto erotico, cioè tensionale. Estra mondo ideale sa è investita del compito di operare quelle mediazioni di cui si diceva. Si tratta e mondo reale di mediazioni sia verso l’alto, sia verso il basso. Verso l’alto: attraverso la conoscenza del bello corporeo si raggiunge il bello ideale, rappresentato dall’idea del bello; lo stimolo fornito dalla bellezza dei corpi e poi delle costituzioni politiche spinge l’anima a desiderare di conoscere la bellezza in se stessa. Verso il basso: la conoscenza delle idee induce il filosofo, giunto finalmente al termine del suo cammino ascensionale, ad applicare nel mondo di quaggiù la perfezione delle norme ideali; l’impegno politico del filosofo-re non è altro che l’esigenza di costruire nella città concreta un’immagine il più possibile simile alla città perfetta, giusta e felice pensata nel grande dialogo sulla giustizia, ossia nella Repubblica. Il filosofo come Eros: l’amore per la sapienza
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La caverna Per Platone la filosofia non è solo il cammino verso la conoscenza (delle idee), ma è anche lo sforzo di applicare nel mondo ciò che si è conosciuto. Questo aspetto emerge molto chiaramente in un altro grande mito platonico, quello della caverna. Repubblica: Platone immagina che la condizione esistenziale degli uomini sia simile a quella di la liberazione prigionieri incatenati nel fondo di una caverna. Alle loro spalle si trova un muretto dalle opinioni comuni sopra il quale altri uomini fanno passare delle statuette; un fuoco collocato dietro i prigionieri fa sì che le ombre delle statuette vengano proiettate davanti ai prigionieri. Costoro, incatenati fin da bambini, credono che la realtà consista solamente nelle ombre che vengono proiettate davanti a loro. Se uno di essi viene liberato dalle catene può rendersi conto, con grande sorpresa, che ciò che reputava essere l’unica realtà (le ombre) altro non è che il riflesso di qualcos’altro (le statuette), ossia l’immagine e la copia di qualcosa che è più reale. Se poi gli viene permesso di uscire dalla caverna, potrà vedere le cose effettivamente esistenti, ossia gli uomini veri e le altre cose naturali, potrà poi rivolgere lo sguardo agli astri del cielo e infine verso il sole. Si renderà così conto che la vera realtà è quella che si trova al di fuori della caverna. Attraverso questo celebre mito Platone intende alludere alla situazione dell’uomo rispetto alla conoscenza: la vera conoscenza è quella delle idee, relativa a oggetti che, esattamente come quelli collocati al di fuori della caverna, sono fuori dalla portata dell’uomo prigioniero delle opinioni comuni. Essa culmina con la visione dell’idea del bene, espressa nel racconto dal sole, che costituisce il punto culminante del processo conoscitivo. Il mito della caverna
Scrive Platone: «Immagina dunque degli uomini in una dimora sotterranea a forma di caverna; qui stanno fin da bambini, con le gambe e il collo incatenati così da dover restare fermi e da poter guardare solo in avanti, giacché la catena impedisce loro di poter girare la testa; fa loro luce un fuoco acceso alle loro spalle, in alto e lontano […]» (Repubblica, 514 AB); con queste parole si apre il mito che forse più di ogni altro ha segnato la storia del pensiero filosofico occidentale e dietro al quale si nasconde uno dei nodi concettuali più pregnanti della teoria delle idee platonica, quello dell’idea del buono.
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Il mito suggerisce un secondo elemento, del tutto fondamentale per il nostro discorso. Platone precisa che il prigioniero liberato, una volta conosciuta la vera realtà che si trova al di fuori della caverna, ha il dovere di fare ritorno nella caverna e tentare in tutti i modi di educare gli altri uomini sulla base delle conoscenze che egli nel frattempo ha acquisito. Il ritorno o discesa Ancora una volta per Platone non è sufficiente l’anàbasis, ossia il cammino verso del filosofo l’alto; occorre anche la katàbasis, cioè il percorso verso il basso, che è il sentiero nella caverna che il filosofo deve percorrere per applicare nel nostro mondo i principi acquisiti per mezzo della conoscenza delle idee. Platone arriva ad ammettere che colui che ha contemplato la vera realtà, ossia le idee e l’idea del Bene, preferirebbe trascorrere la sua vita contemplando questi oggetti; proprio per questo deve venire costretto a fare ritorno nella caverna, cioè nella città degli uomini, per educare anche questi ultimi. Nel riassumere il senso del mito della caverna Platone scrive:
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Ascesa e discesa del filosofo Repubblica, 7,517 B-E
Il dovere del ritorno per trasmettere il sapere agli altri
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– Questa immagine pertanto, caro Glaucone, io dissi, va applicata tutta intera a quel che dicevamo prima: la regione che ci appare tramite la vista è da paragonare alla dimora dei prigionieri, la luce del fuoco che sta in essa alla potenza del sole; ponendo poi la salita quassù e la contemplazione di quel che vi è quassù come l’ascesa dell’anima verso il luogo del noetico non ti ingannerai sulla mia aspettativa, dal momento che vuoi conoscerla. Dio solo sa se può esser vera. Questo è comunque quel che a me appare: all’estremo confine del conoscibile vi è l’idea del buono e la si vede a stento, ma una volta vistala occorre concludere che essa è davvero la causa di tutto ciò che vi è di retto e di bello, avendo generato nel luogo del visibile la luce e il suo signore, in quello del noetico essendo essa stessa signora e dispensatrice di verità e di pensiero; e che deve averla vista chi intenda agire saggiamente sia nella vita privata sia in quella pubblica. – Sono d’accordo anch’io, disse, almeno come mi è possibile. – Sì allora, dissi io: convieni anche su questo fatto, che non c’è da sorprendersi se chi è giunto fino a tal punto non voglia poi occuparsi delle faccende degli uomini, e la sua anima aspiri sempre a restare lassù: è in effetti del tutto verosimile che sia così, se anche questo sta nel modo descritto dalla nostra immagine. – Verosimile, certo, disse. – E allora pensi che in questo ci sia qualcosa di sorprendente, dissi io: che un uomo, passato da divine contemplazioni alle umane sventure, agisca goffamente e appaia molto ridicolo, se, quando ancora vede male perché non si è assuefatto abbastanza all’oscurità che lo circonda, viene costretto a contendere, nei tribunali o altrove, sulle ombre del giusto o sulle statuette che proiettano queste ombre, e a disputare sul modo in cui tutto ciò vien concepito da coloro che mai hanno visto la giustizia in sé? – Per nulla affatto sorprendente, disse. Platone è dunque consapevole delle difficoltà che il filosofo incontra nel mondo della politica. Ma è anche perfettamente convinto che solo tornando nella caverna, ossia nella città, chi ha contemplato le idee può essere utile agli altri uomini. Per questo arriva a stabilire per i filosofi una vera e propria costrizione al governo, anche contro la loro volontà. Con il grande racconto del ritorno nella caverna del prigioniero liberato Platone allude quindi al dovere del filosofo di tornare tra gli uomini e di guidarli sulla
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base dei modelli ideali da lui appresi. In questo modo la costrizione al governo, inizialmente presentata nella forma di un’imposizione (stabilita per legge), si trasforma in una sorta di dovere morale – quello di liberare anche gli altri uomini – al quale il filosofo non può sottrarsi.
Irrazionalità, persuasione, mito Tanto il mito della nascita di Eros quanto l’immagine della caverna esprimono in modo plastico la condizione del filosofo. In realtà Platone ricorre spesso allo strumento del mito per presentare in forma compiuta tesi che sarebbe difficile articolare ricorrendo alle normali procedure argomentative. Questo non significa però che ciò che Platone dice attraverso il mito non possa venire detto anche in forma assertiva. Il mito della caverna, per esempio, non fa che presentare in una visione d’insieme concezioni che erano già state formulate nel corso del dialogo. La forza del mito consiste piuttosto nella sua capacità di generare un maggiore coinvolgimento dell’ascoltatore e del lettore e, dunque, nella capacità di persuadere con più forza. Del resto, gli stessi miti relativi ai premi e alle punizioni che attendono l’uomo nell’aldilà hanno proprio la funzione di esortare alla virtù e lo possono fare con una forza maggiore di quella che è in grado di esibire una dimostrazione razionale. L’irrazionalità umana Il grande progetto di persuasione che percorre l’intera filosofia platonica non può lasciare fuori gli aspetti irrazionali; in questo senso, il mito assolve a una funzione ben precisa. Il richiamo a quest’ultimo aspetto testimonia di quanto Platone fosse consapevole della natura doppia dell’uomo: razionale e insieme irrazionale. La straordinaria potenza del discorso filosofico platonico risiede proprio nella capacità di indirizzarsi a tutti gli elementi in campo. La posta in gioco – che è la rifondazione dell’uomo (del suo sapere, dei suoi valori, del suo modo di vivere insieme agli altri uomini) – è troppo alta perché qualcosa di veramente importante venga lasciato ai margini. Per condurre l’uomo verso la verità, cioè verso la ragione e la co➥ Sommario, p. 157 noscenza, è inevitabile rivolgersi anche agli aspetti non razionali del suo essere. La forza persuasiva del mito
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L’eredità: l’Accademia
L’Accademia, l’istituzione fondata da Platone intorno al 388 a.C., costituiva, oltre che una sorta di scuola per la formazione dei futuri politici, un importante centro di ricerca filosofico-scientifica. Al suo interno vennero effettivamente condotte ricerche specialistiche di alto livello, soprattutto nel campo delle discipline matematiche, da Platone considerate un vero e proprio preludio alla dialettica, ossia alla filosofia. Tra le scienze matematiche studiate all’interno dell’Accademia un posto di primo piano spetta all’astronomia, di cui si occuparono in particolare Filippo di Opunte (l’autore dell’Epinomide) e il grande Eudosso di Cnido. Eudosso: lo studio A quest’ultimo si deve la formulazione del primo modello planetario su basi madel movimento tematiche. Eudosso tentò infatti di costruire un meccanismo matematico che fosdei pianeti se in grado di ricondurre i movimenti dei pianeti, apparentemente irregolari, alla composizione di più moti regolari e uniformi. Se un certo pianeta, per esempio Marte, presentava nel corso del suo moto intorno alla Terra (vista come il centro dell’universo) delle evidenti irregolarità (variazioni di velocità, retrogradazioLe discipline matematiche
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Speusippo: il primato delle entità matematiche
Senocrate: l’identità tra idee platoniche e numeri
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ni), Eudosso cercò di dimostrare come il suo moto fosse in realtà la composizione di più movimenti, ciascuno dei quali risultava in se stesso regolare e uniforme. Il sistema si presentava estremamente complesso dal punto di vista matematico, ma anche notevolmente raffinato. Altrettanto significativo fu l’apporto di Eudosso nel campo della matematica; a lui si deve sia la sistematizzazione della teoria delle proporzioni, sia la scoperta del metodo di esaustione, tramite il quale si arriva a calcolare lunghezze, aree e volumi di difficile determinazione. Entrambi i contributi verranno a far parte del grandioso edificio degli Elementi che Euclide costruirà di lì a pochi decenni (vedi anche Unità 5, p. 309 ss.). Alla morte di Platone, avvenuta come detto nel 348, la guida dell’Accademia fu assunta dal nipote di lui, Speusippo. Anch’egli manifestò un notevole interesse per le scienze matematiche. Arrivò anzi a considerare gli enti matematici (i numeri e le figure) come le uniche realtà intelligibili realmente esistenti. Ciò significa che Speusippo rifiutò le idee platoniche e le sostituì al vertice della gerarchia ontologica con le entità matematiche. Il successore di Speusippo, Senocrate, tentò invece una soluzione conciliatoria, sostenendo che le idee platoniche fossero in realtà identiche ai numeri matematici. In questo modo egli pose le basi di qualcosa di simile a un sapere universale (màthesis universalis), in cui tutti i rapporti ontologici (quelli studiati dalla dialettica di Platone) potessero venire espressi in forma matematica, cioè quantificati. Una posizione di questo genere verrà spesso ripresa dai platonici successivi, sia antichi che moderni, ma verrà anche combattuta da tutti coloro che non saranno disposti a rinunciare al carattere aperto e problematico del platonismo. L’affermarsi di soluzioni così differenti a proposito di una delle concezioni più importanti della filosofia platonica – quella delle idee che viene rifiutata da Speusippo e modificata in misura considerevole da Senocrate – dimostra quanto notevole fosse il grado di apertura che caratterizzava la vita dell’Accademia e soprattutto quanto Platone fosse aperto alla critica e alla messa in discussione delle proprie convinzioni filosofiche. Suggerimenti bibliografici Per avere una panoramica a trecentosessanta gradi sull’intero pensiero di Platone sintetica e aggiornata si può consultare M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003. Chiaro ed esauriente il libro di G. Cambiano, Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 1991. Sulla teoria delle idee è estremamente chiaro e agile il testo di D. Ross, Platone e la teoria delle idee, il Mulino, Bologna 2001. I miti platonici sono raccolti e commentati in F. Ferrari, I miti di Platone, BUR, Milano 2006. Sulla Repubblica un quadro completo e sintetico è offerto da M. Vegetti, Guida alla lettura della «Repubblica» di Platone, Laterza, Roma-Bari 1999. I brani antologizzati sono tratti da: Platone, Gorgia, trad. di G. Zanetto, BUR, Milano 1994. Platone, La repubblica, trad. di M. Vegetti, BUR, Milano 2007. Platone, Fedone, trad. di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 2000. Platone, Fedro, trad. di G. Reale, Mondadori, Milano 1998. Platone, Simposio, trad. di F. Ferrari, BUR, Milano 1985. Platone, Parmenide, trad. di F. Ferrari, BUR, Milano 2004. Platone, Sofista, trad. di A. Zauro, Laterza, Roma-Bari 1971. Platone, Timeo, trad. di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003. Il brano di Epicrate citato a p. 144 è tratto da Epicrate, in Ateneo, Deipnosofisti, trad. di F. Ferrari.
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Unità 3 Platone
Sommario 1. PLATONE
E LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA
I grandi protagonisti teorici della filosofia platonica sono anche i grandi protagonisti del pensiero filosofico in quanto tale: l’essere, la verità, la giustizia, l’anima, l’uomo, la città e il cosmo. Alla poderosa sfida della sofistica, con la sua relativizzazione dei concetti morali e dei criteri di verità, Platone risponde con la sua teoria delle idee, dottrina sulla quale imposta la propria terapia filosofica della verità, della città e dell’anima. 2. IL
MAESTRO, IL DIALOGO, LA MATURITÀ
La vita di Platone, segnata dall’incontro con Socrate, mostra un continuo e instancabile impegno filosofico, politico e culturale, caratterizzato nella maturità dalla fondazione dell’Accademia e dai tre viaggi a Siracusa. La scelta di scrivere dialoghi, anziché trattati, mostra inoltre il suo sforzo costante di modificare mentalità e comportamenti collettivi. 3. VIRTÙ,
DESIDERIO, FELICITÀ
La sfida della sofistica viene interpretata da Platone fino alle sue più estreme conseguenze. Le tesi di sofistipersonaggi quali Callicle (nel Gorgia) e Trasimaco (nella Repubblica) mostrano limpidamente come la giustizia fosse considerata nei crudi termini della utilità e del vantaggio del più forte, conformemente a un’antropologia e a un’etica che legittimavano pienamente la soddisfazione incontrollata dei desideri individuali e, quindi, la sopraffazione altrui (pleonexìa). 4. LA
GIUSTIZIA NELLA PÒLIS: I FILOSOFI-RE
L’analisi-diagnosi della nascita e della degenerazione della pòlis conduce Platone ad approntare una terapia incentrata sull’educazione (paidèia), tale da permettere la formazione di un ceto dirigente, e in particolare di filosofi in grado di governare la città, ovvero i filosofire; al loro interno viene abolita ogni forma di proprietà privata. 5. L’ANIMA
E LA GIUSTIZIA
La psicologia platonica presenta due stadi. Nel primo, elaborato nel Fedone, si presenta un irriducibile e insanabile conflitto tra l’anima e un corpo prigione (sòma-sèma). Nel secondo, elaborato nella Repubblica, l’anima viene invece analizzata attraverso le istanze della corporeità, individuando in essa una parte razionale e una irrazionale e articolandola in tre centri motivazionali. Il giusto equilibrio tra essi conduce insieme alla virtù e alla felicità. Platone istituisce poi uno stretto parallelismo tra anima e città: all’ordine gerarchico fra i tre centri dell’anima – razionale, impulsivo e desiderante –, deve corrispondere quello fra i tre gruppi nei quali viene articolata la città giusta, perfetta e utopica (la kallìpolis): rispettivamente governanti, militari, lavoratori.
6. VERITÀ,
CONOSCENZA E DISCORSO: LE IDEE
In risposta al relativismo della sofistica, la teoria delle idee postula delle entità, le idee o forme (da idèa o èidos), indivisibili, ingenerate, imperiture, che costituiscono il vero essere e che permettono la conoscenza della verità. Tale mondo rappresenta il modello o il paradigma del mondo sensibile, divisibile, generato e corruttibile, legato al primo da un rapporto di partecipazione (come nel caso dell’idea del bello). Il mondo ideale è accessibile grazie alla reminiscenza o anàmnesis. A tale dottrina corrisponde una partizione quadripartita dei gradi della conoscenza: dialettica, ovvero scienza delle idee, affine ma distinta dalla matematica, credenza e immaginazione. È infine centrale l’idea del buono, causa stessa dell’essere. 7. DIALETTICA,
IDEE, PRINCIPI
Negli ultimi dialoghi Platone affronta le possibili interrelazioni tra le idee, sviluppando un’analisi dei rapporti di inclusione ed esclusione reciproca tra le idee. Con ciò egli delinea anche le possibili articolazioni dei generi e delle specie della realtà naturale. Egli stabilisce altresì i cinque generi sommi, riammettendo la pensabilità del non essere inteso come «diverso». 8. IL
COSMO E LE SUE CAUSE
Nel Timeo Platone presenta un’analisi della realtà fisica, la cui validità epistemologica è quella della verosimiglianza, non della verità, secondo la quale il demiurgo, guardando al modello ideale, perfetto e completo (causa intelligente), plasma e persuade la materia (causa necessaria), generando così un cosmo per quanto possibile vicino al primo. I quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) vengono poi ricondotti a una struttura geometrico-matematica. 9. EROS
E FILOSOFIA: ALLA RICERCA DI UNA MEDIAZIONE
Le molteplici contrapposizioni dualistiche platoniche, quali essere e divenire, intelligibile e sensibile, trovano infine una mediazione. L’esempio più esplicito è fornito da Eros, demone mediatore tra il livello idee-verità e quello oggetti sensibili-credenza. Lo stesso filosofo (philò-sophos), in quanto aspirante alla sapienza della quale è privo, si configura quale figura intermedia, mancante e desiderante. Anche l’allegoria della caverna, imponendo al filosofo l’obbligo del ritorno o discesa (katàbasis) dopo l’ascesa conoscitiva (anàbasis), mostra come i due piani della giustizia ideale e delle norme legislative della politica debbano infine trovare una cruciale mediazione. 10. L’EREDITÀ: L’ACCADEMIA
La fortuna e i successi dell’Accademia successivi alla morte del suo fondatore mostrano quanto l’istituzione fosse fertile e aperta. 157
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Parte prima L’età antica
Parole chiave Anima-corpo. Traduzione del greco psychè-sòma. Nella prima fase, e soprattutto nel Fedone, Platone contrappone diametralmente e irriducibilmente le due sfere. Nella psicologia della Repubblica, invece, le istanze pertinenti alla sfera somatica vengono direttamente trasposte all’interno dell’anima stessa. Demiurgo. In greco «artigiano», «architetto», «scultore». Egli è colui che, imitando il mondo ideale e plasmando la materia fisica preesistenti, si sforza di costruire un mondo sensibile, il nostro, il più possibile simile a quello ideale, del quale risulta però essere una copia imperfetta a causa della materia sensibile. Desiderio. Il desiderio, traduzione di epithymìa, svolge un ruolo cruciale nella psicologia e nell’etica di Platone. Dal punto di vista psicologico, mentre nel Fedone esso è ricondotto prevalentemente alla sfera fisica, nella psicologia tripartita della Repubblica ogni istanza psichica ha desideri propri (quella razionale la giustizia, quella impulsiva la gloria, quella desiderante il piacere). Dialettica-credenza. Per Platone la dialettica è la scienza stessa (epistème), ovvero lo studio delle idee e dei loro rapporti reciproci. Essa è dunque l’unica via che conduce alla verità, raggiungendo i fondamenti ultimi dell’essere. Le altre forme di conoscenza, che non hanno a che fare con gli oggetti ideali, ricadono nel regno del verosimile, della credenza o opinione (dòxa). Dialogo. Per i suoi scritti Platone sceglie la forma del dialogo, anziché quella del trattato sistematico, per meglio rispondere all’esigenza di coinvolgere direttamente i propri lettori, grazie all’effetto di immedesimazione prodotto dalla forma dialogica, inducendoli a mettere in dubbio le proprie certezze. Eros. In greco vi è sia il dio o demone Eros, sia l’analogo del nostro «amore» o «eros». Anche in Platone ritroviamo i due tipi di eros. Come il demone Eros è un insaziabile amante del bello, così l’eros umano è quella energia che spinge senza posa alla ricerca della verità. Felicità. Traduzione del greco eudaimonìa, indica la vita buona o realizzata. La filosofia etico-politica di Platone, al contrario delle istanze individualistiche poste dalla sofistica, cerca strenuamente di far convergere la felicità individuale con il bene comune. Generi sommi. In greco mèghista ghène. Sono i cinque generi di idee delle quali tutte le altre partecipano: «essere», «identico», «diverso», «moto» e «quiete». Giustizia. Traduzione del greco dikaiosy`ne. La ricerca e la definizione della giustizia rappresenta uno dei temi centrali della filosofia platonica. Politicamente, es158
sa è garantita da un ordinamento della città ove ognuno fa le cose che gli sono proprie per natura. Dunque, i sapienti filosofi governano, e gli altri svolgono i compiti da loro affidatigli. Psicologicamente, è garantita dal governo intrapsichico della parte razionale. Idea del buono. È l’idea sulla quale si regge l’intera impalcatura morale platonica: è l’idea del buono a innervare ogni tipo di azione virtuosa, costituendone il fine. Essa gioca un ruolo di assoluta rilevanza anche sul piano epistemologico: la conoscenza stessa delle idee è resa possibile dall’idea del buono. Infine, sul piano ontologico, l’idea del buono è la causa dell’essere delle idee, pur trascendendole. Idea / Forma. Dal greco èidos o idèa, «forma», «figura», «idea». Le idee per Platone sono le realtà soprasensibili atemporali, invisibili, indivisibili e immutabili, sulle quali viene fondato, ontologicamente ed epistemologicamente, il mondo sensibile, copia di quello ideale. Esse inoltre forniscono il modello, il paradigma sul quale commisurare e rifondare sia il vivere politico-sociale sia la propria anima. Paidèia. La paidèia, in greco «educazione», assume in Platone un ruolo etico-politico nevralgico: è solo attraverso una corretta formazione che si può dar vita a una classe dirigente in grado di condurre la città verso la giustizia. Partecipazione. Traduzione del greco methèxis, essa esprime il rapporto che le cose sensibili intrattengono con le idee. Tale rapporto diverrà sempre più importante nella filosofia platonica, estendendosi anche ai rapporti reciproci tra le idee. Reminiscenza o anàmnesis. La teoria secondo la quale, essendo la scienza conoscenza delle idee, ed essendo le idee entità eterne conosciute dall’anima in una dimensione spazio-temporale pre-natale, la conoscenza è in verità ricordo delle idee precedentemente «viste». Utopia. Dal greco ou, «non», e tòpos, «luogo», ovvero «luogo inesistente». La kallìpolis delineata nella Repubblica ha carattere utopico ma anche normativo: il modello deve informare e innervare ogni agire politico, dimodoché la realtà possa avvicinarsi quanto più possibile al paradigma. Virtù. Traduzione del greco aretè, che vale anche «eccellenza»; essa esprime soprattutto qualità morali. Se i dialoghi socratici sono incentrati sulla ricerca delle definizioni di molteplici virtù, diverranno poi fondamentali le quattro virtù della sapienza (sophìa), del coraggio (andrèia), della temperanza o moderazione (sophrosy`ne) e della giustizia (dikaiosy`ne).
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Questionario PLATONE
A cosa si rivolge la terapia filosofica platonica? (max 2 righe)
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IL
VIRTÙ,
Per quali ragioni Platone scelse la forma del dialogo? (max 5 righe)
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Analizza le relazioni tra T1 e T3: in quale senso Trasimaco opera una radicalizzazione delle tesi di Callicle? (max 6 righe)
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Quali sono i concetti-chiave esposti in T5 che mostrano come per Platone gli uomini si riuniscano in comunità sulla base di un principio collaborativo e non conflittuale? (max 6 righe)
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Su quali basi in T6 Platone mette al bando i poeti classici? (max 5 righe)
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In che senso l’abolizione della proprietà privata per i guardiani può sottrarli ai rischi insiti nella detenzione del potere stando a T8 e T9? (max 7 righe)
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In T14 la sacerdotessa Diotima disegna una scala ascensionale che conduce gradualmente verso il bello in sé; riepiloga le singole fasi nelle quali essa si snoda. (max 10 righe)
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In T15 il matematico è detto rivolgersi alle figure in sé, tuttavia il suo procedere dimostrativo è differente da quello del dialettico, perché? (max 5 righe)
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In T17 viene mostrato come le problematiche legate alla contrarietà possano essere estese dalle cose alle idee; quali sono le differenze essenziali che distinguono i due ambiti? (max 10 righe)
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Qual è la differenza fondamentale tra i generi del moto e della quiete da una parte e i generi dell’identico e del diverso dall’altro esposta in T18? (max 5 righe)
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Ricostruisci uno schema che renda conto delle relazioni fondamentali esposte in T19 tra i sei concetti seguenti: modello, verità, copia, essere, divenire, verosimiglianza. (max 4 righe)
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In T21 l’idea del buono è paragonata al sole; Platone scrive che «una volta vistala» occorre giungere a una conclusione, quale? (max 5 righe)
DESIDERIO, FELICITÀ
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Quali i punti di contatto e quali le differenze tra le tesi di Trasimaco, di Callicle e il mito di Gige? (max 10 righe)
GIUSTIZIA NELLA PÒLIS: I FILOSOFI-RE
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L’ANIMA 5
VERITÀ, 6
Per quali ragioni Platone istituisce una rigida censura della poesia classica? Inoltre, quali sono i quattro livelli nei quali si articola il processo educativo (paidèia) che conduce alla formazione dei filosofi-re? (max 15 righe) E LA GIUSTIZIA
Esponi i cardini concettuali sui quali ruota la ‘rivoluzione psicologica’ che intercorre tra il Fedone e la Repubblica e spiega il rapporto tra l’immagine della biga alata del Fedro e l’anima tripartita della Repubblica. (max 20 righe) CONOSCENZA E DISCORSO: LE IDEE
Descrivi le caratteristiche fondamentali dell’idea del buono. (max 6 righe)
DIALETTICA, 7
IL
Lavoriamo sui testi
MAESTRO, IL DIALOGO, LA MATURITÀ
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LA
E LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA
IDEE, PRINCIPI
Platone compie un ‘parricidio’: riammette la pensabilità del non essere. Esso però non è più inteso, come in Parmenide, in senso assoluto, ma relativo; che cosa significa? (max 10 righe)
COSMO E LE SUE CAUSE
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EROS
Che cosa intende Platone con i concetti di «causa intelligente» e di «causa necessaria»? Quali sono i componenti fondamentali (geometrici) della materia? (max 10 righe)
E FILOSOFIA: ALLA RICERCA DI UNA MEDIAZIONE
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In che senso l’intera filosofia di Platone può esser letta quale immane tentativo di conciliare e mediare contrapposizioni apparentemente inconciliabili? (max 10 righe)
L’EREDITÀ: L’ACCADEMIA 10
Quali furono le discipline principali dell’Accademia dopo la morte di Platone? (max 3 righe)
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Parte prima L’età antica
Laboratorio di lettura Il Fedro Platone vive e scrive in una fase di passaggio, nella quale la cultura tradizionale fondata sull’oralità, ossia sulla trasmissione orale del sapere e delle conoscenze, viene lentamente affiancata (e solo dopo Platone definitivamente soppiantata) da quella scritta. Orale è la cultura dei poemi omerici, i quali vengono recitati da aedi nelle corti; orale è la cultura aristocratica della grande lirica (per esempio Pindaro), fondata anch’essa in larga parte sulla performance recitativa del poeta; ma orale è soprattutto la pratica di trasmissione delle informazioni utili alla vita e dei valori ai quali gli uomini dovrebbero conformarsi. Nel corso del V secolo a.C. questa situazione viene lentamente mutando; l’alfabetizzazione comincia a diffondersi, determinati saperi vengono trasmessi sempre più per mezzo della stesura di trattati scritti (pensa alla medicina con il corpus ippocratico o alla storiografia con le opere di Erodoto e Tucidide). Inoltre l’estensione della pratica della democrazia in città come Atene risultava inevitabilmente collegata alla diffusione di codici legislativi o almeno di leggi scritte che, da un lato presupponevano, dall’altro incoraggiavano, lo sviluppo dell’alfabetizzazione. Insomma: Platone sembra trovarsi in una situazione per certi aspetti analoga a quella nella quale ci troviamo noi; una situazione di passaggio tra una forma tradizionale di trasmissione del sapere, quella orale, e una nuova, quella fondata sul testo scritto (tavolette di cera e solo in un secondo tempo rotoli di papiro), proprio come noi stiamo vivendo una fase di passaggio segnata dall’avvento di nuovi strumenti di comunicazione del sapere e delle informazioni (internet, ma anche l’uso dei telefoni cellulari con gli SMS) che stanno soppiantando la cultura del libro. Platone si dimostra straordinariamente consapevole delle implicazioni che l’avvento, o meglio la definitiva affermazione di questo nuovo modo di trasmettere il sapere comporta. Nelle pagine conclusive del Fedro egli analizza le potenzialità e i pericoli della scrittura, e lo fa partendo dal racconto mitico dell’origine di questa pratica di comunicazione. La scrittura sarebbe nata – insieme ad altre arti come l’aritmetica, la geometria, l’astronomia, gli scacchi e i dadi – nell’antico Egitto, grazie alla scoperta del dio Theuth, il quale sottopone poi le sue invenzioni a Thamus, il re degli dèi. Il racconto dell’invenzione della scrittura costituisce uno dei brani più affascinanti e attuali di Platone, perché in esso il filosofo argomenta in favore di una tesi che anche noi siamo probabilmente disposti a condividere: l’idea cioè che il mezzo con il quale comunichiamo non è affatto neutrale rispetto al messaggio che intendiamo trasmettere.
Platone: l’invenzione della scrittura Esordio: il mito di Theuth e la scoperta della scrittura
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SOCRATE – Io posso narrarti una storia tramandataci dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO – La tua domanda è ridicola! Ma narrami questa storia che hai udito. SOCRATE – Ho udito, dunque, narrare che presso Naucrati d’Egitto c’era uno degli antichi dèi di quel luogo, al quale era sacro l’uccello che chiamano Ibis, e il nome di questo dio era Theuth. Dicono che per primo egli abbia scoperto i numeri, il calcolo, la geometria e l’astronomia e poi il gioco del tavoliere e dei dadi e, infine, anche in quel tempo, re di tutto l’Egitto era Thamus e abitava nella grande città dell’Alto Nilo. Gli Elleni la chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano Ammone il suo dio. E Theuth andò da Thamus, gli mostrò queste arti e gli disse che bisognava inse-
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Tesi di Theuth: la scrittura è un rimedio perché aiuta a ricordare Tesi di Thamus: la scrittura indebolisce la memoria perché chi se ne serve si accontenta di fermarsi ai segni senza appropriarsi interiormente del contenuto
Commento e interpretazione
gnarle a tutti gli Egizi. E il re gli domandò quale fosse l’utilità di ciascuna di quelle arti, e, mentre il dio gliela spiegava, a seconda che gli sembrasse che dicesse bene o non bene, disapprovava oppure lodava. A quel che si narra, molte furono le cose che, su ciascun’arte, Thamus disse a Theuth in biasimo o in lode, e per esporle sarebbe necessario un lungo discorso. Ma quando si giunse alle lettere dell’alfabeto, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza». E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora, essendo padre delle lettere, per affetto tu hai detto proprio il contrario di quello che esse valgono. La scoperta della scrittura, infatti, avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, essi crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con loro, perché sono diventati conoscitori di opinioni invece che sapienti». [A] FEDRO – O Socrate, ti è facile narrare racconti egiziani, o di quale altro paese tu vuoi. SOCRATE – Ma se ci sono stati alcuni, mio caro, che hanno creduto che i primi vaticini di Zeus venissero dai discorsi di una quercia! Gli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, nella loro semplicità, si accontentavano di ascoltare «una quercia o una rupe», purché dicessero la verità; ma per te, forse, fa differenza chi parla e di dove è; infatti, tu non guardi solamente a questo, se le cose stanno come egli dice oppure se stanno diversamente. FEDRO – Hai colpito giusto: anche a me pare che, riguardo alla scrittura, le cose stiano come dice il re tebano.
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A. Secondo il suo inventore Theuth, la scrittura è un rimedio (phàrmakon) della memoria, perché aiuta, mediante i segni scritti, a ricordare le cose apprese. Tuttavia per il re Thamus le cose non stanno affatto così. Essa non costituisce un vero ausilio alla memoria (mnème), anzi ne provoca un indebolimento, perché chi si serve della scrittura è portato a trascurare la memoria e, credendo di conoscere veramente ciò che sta scritto, non si impegna nello sforzo di appropriarsene con la sua anima. Platone vuole dire che il sapere che si accompagna alla scrittura è estrinseco all’anima, è cioè un sapere dell’esteriorità, mentre il vero sapere appartiene alla dimensione dell’interiorità, ossia all’anima. In altre parole, noi possiamo ripetere all’infinito il contenuto di un testo scritto, ma ciò non significa che lo abbiamo veramente appreso, vale a dire che ce ne siamo impossessati interiormente. Nel contrapporre l’elogio fatto da Theuth alle qualità della scrittura alla consapevolezza di Thamus dei limiti di questa forma di trasmissione del sapere, Platone allude alla distinzione fondamentale tra le tecniche di produzione (l’invenzione della scrittura) e le tecniche d’uso (la capacità di valutare con consapevolezza i rischi dell’utilizzo di una certa scoperta) e si schiera apertamente in favore della superiorità di queste ultime. 161
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Parte prima L’età antica Prima tesi di Socrate: lo scritto è utile soltanto a richiamare alla memoria di chi già lo conosce il sapere che in esso viene trasmesso Argomento: il discorso scritto non è commisurato alla capacità di comprensione del lettore e può quindi essere frainteso
Seconda tesi di Socrate: il discorso orale è superiore al discorso scritto Argomento: il discorso orale, il lògos tra maestro e discepolo, sa difendersi da sé e sa commisurarsi al suo destinatario
SOCRATE – E allora, chi ritenesse di poter tramandare un’arte con la scrittura, e chi la ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà trarre qualcosa di chiaro e saldo, dovrebbe essere colmo di grande ingenuità e ignorare veramente il vaticinio di Ammone, se ritiene che i discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un mezzo per richiamare alla memoria di chi sa le cose trattate nello scritto. [B] FEDRO – Giustissimo. SOCRATE – Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile, per la verità, alla pittura: le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa. E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi né di aiutarsi da solo. [C] FEDRO – Anche questo che hai detto è giustissimo. SOCRATE – E allora? Vogliamo considerare ora un altro discorso, fratello legittimo di questo? E vogliamo vedere in quale modo nasca, e, per sua natura, quanto sia migliore e più potente di questo? FEDRO – Qual è questo discorso, e in quale modo tu dici che nasca? SOCRATE – È il discorso che viene scritto, mediante la scienza, nell’anima di chi impara, e che è capace di difendersi da sé e sa con chi deve parlare e con chi deve tacere. FEDRO – Intendi dire il discorso di chi sa, il discorso vivente e animato, del quale il discorso scritto può dirsi, a buona ragione, un’immagine. [D] SOCRATE – Sì, appunto. Ora, dimmi un po’ questo: l’agricoltore che ha senno, farà sul serio seminando d’estate nei «giardini di Adone» i semi che gli
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B. La scrittura può avere solo una funzione di ausilio per chi già conosce il sapere che in essa viene trasmesso. Infatti essa non è un ausilio alla memoria (mnème), che anzi viene indebolita dalla pratica della scrittura, bensì del richiamare alla memoria (hypòmnesis), che consiste nell’atto di servirsi del testo scritto per farsi tornare in mente ciò che si è appreso con l’anima e dunque si conosce veramente. Chi già sa, può utilizzare un testo scritto allo scopo di rammentarsi di una conoscenza che egli ha effettivamente interiorizzato e che dunque possiede veramente. Viceversa, chi crede di potere acquisire ex novo una conoscenza servendosi della sola scrittura, si espone al rischio di ottenere l’apparenza esteriore del sapere (esteriore perché espresso nella forma di segni, appunto le lettere, esterne all’anima), che risulta agli occhi di Platone ancora più pericolosa dell’ignoranza. C. Secondo Platone il limite più significativo della scrittura consiste nella sua immobilità, ossia nel fatto che un testo scritto è incapace di commisurare la forma del messaggio alla natura del destinatario, cioè del lettore. Questa mancanza determina due conseguenze, entrambe devastanti. Da un lato, il testo scritto ripete sempre la stessa cosa, esso non è cioè in grado di modulare il messaggio a seconda delle capacità di comprensione del lettore. Questo significa che corre costantemente il rischio di venire frainteso. Se interpretato in modo scorretto, infatti, un testo scritto non può autocorreggersi, indicando quale sia l’interpretazione esatta. Inoltre – e veniamo alla seconda devastante conseguenza – una volta scritto un testo può finire nelle mani di chiunque, sia di chi è in grado di
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Argomento: con la dialettica si seminano discorsi che generano conoscenza
stanno a cuore e dai quali vuole che nascano frutti, e si rallegrerà nel vederli crescere belli in otto giorni, o lo farà per gioco e a motivo della festa, se pure lo farà? Invece, i semi dei quali si preoccupa sul serio li seminerà in luogo adatto, seguendo tutte le regole dell’arte dell’agricoltura, contento che quanti ne ha seminati giungano al loro termine in otto mesi? FEDRO – Così farà, Socrate, in quest’ultimo caso seriamente, nell’altro non seriamente, come tu dici. SOCRATE – E chi ha la scienza del giusto, del bello e del buono, dovremo dire che abbia meno senno di un agricoltore per le sue sementi? FEDRO – No, assolutamente. SOCRATE – E allora, se vorrà fare sul serio, non le scriverà sull’acqua nera, seminandole mediante la cannuccia da scrivere, facendo discorsi che non sono capaci di difendersi da soli col ragionamento, e che non sono nemmeno capaci di insegnare la verità in modo adeguato. FEDRO – No, almeno non è verisimile. SOCRATE – No, infatti. Ma i giardini di scritture li seminerà e li scriverà per gioco, quando li scriverà, accumulando materiale così da richiamare alla memoria per sé medesimo, quando giunga alla vecchiaia che porta all’oblio, se mai giunga, e per chiunque segua la medesima traccia, e gioirà nel vederli crescere freschi. E quando gli altri si dedicheranno ad altri giochi, passando il loro tempo nei simposi, o in altri piaceri simili a questi, egli allora, come sembra, invece che in quelli passerà la sua vita dilettandosi nelle cose che io dico. FEDRO – Ed è un gioco molto bello, Socrate, in confronto dell’altro che non vale nulla, questo di chi è capace di dilettarsi con i discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE – Così è in effetti, caro Fedro, ma molto più bello diventa l’impegno su queste cose, credo, quando si faccia uso dell’arte dialettica e con essa, prendendo un’anima adatta, si piantino e si seminino discorsi con conoscenza, discorsi che siano capaci di venire in soccorso a sé e a chi li ha
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comprenderlo e apprezzarlo, sia di chi non possiede questa capacità. È inevitabile, poi, che quest’ultimo finirà con il disprezzarlo e disprezzare con esso anche la filosofia. Il fatto è – spiega Platone – che un’opera scritta ha costante bisogno dell’aiuto (boètheia) del padre, ossia dell’autore, la cui presenza consentirebbe di evitare, o almeno ridurre al minimo, i rischi di fraintendimento connessi a una circolazione incontrollata. Il vero ‘difetto’ di una composizione scritta consiste allora nella sua assoluta incapacità di calibrare le modalità comunicative al livello di preparazione del destinatario: ripetendo sempre la stessa cosa, lo scritto non opera distinzione tra chi sa e chi non sa; in una parola: non è costitutivamente capace di commisurare il messaggio al fruitore. D. Esiste però un discorso (lògos) fratello di quello scritto, ossia simile a quest’ultimo, ma in grado di sfuggire, almeno in parte, ai limiti sopra evidenziati. Si tratta del discorso orale, ossia del vivo colloquio tra il maestro e i suoi discepoli, discorso di cui quello scritto è, per Platone, una copia (e in un certo senso gli stessi dialoghi sono un’imitazione di discorsi reali). Nel rapporto diretto con i discepoli il maestro, dietro il quale si può vedere il filosofo platonico, può stabilire con chi e in che modo parlare, evitando così i fraintendimenti ai quali si espone il testo scritto. Il maestro conosce l’anima del suo discepolo e dunque può stabilire che tipo di discorsi (lògoi), cioè di argomenti, utilizzare, in modo che essi siano effettivamente in grado di generare conoscenza nel destinatario. Inoltre, la parola orale è in grado di difendersi, appunto perché si avvale della presenza del padre, cioè dell’autore.
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Conseguenza: l’insegnamento filosofico deve basarsi su una conoscenza approfondita dell’oggetto del discorso e tenere conto della persona a cui si rivolge
piantati, che non restino privi di frutto, ma portino seme, dal quale nascano anche in altri uomini altri discorsi, che siano capaci di rendere questo seme immortale e che facciano felice chi lo possiede, quanto più all’uomo sia possibile. FEDRO – Molto più bello è questo che dici. [E] SOCRATE – E una volta d’accordo su questo, siamo ora in grado di giudicare, Fedro, le questioni di prima. FEDRO – Quali? SOCRATE – Quelle che volevamo chiarire e per cui siamo giunti a questo punto: esaminare il rimprovero fatto a Lisia circa lo scrivere discorsi, e i discorsi medesimi, quali fossero scritti a norma d’arte e quali fossero invece scritti senza arte. Quanto a ciò che sia a norma d’arte e quanto a ciò che non lo sia, mi pare che lo abbiamo chiarito in maniera conveniente. FEDRO – Sì, mi è parso. Ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE – Prima bisogna che uno sappia il vero su ciascuna delle cose sulle quali parla o scrive, e sia in grado di definire ogni cosa in se stessa, e, una volta definita, sappia dividerla nelle sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più ulteriormente divisibile; e dopo essere penetrato nella natura dell’anima, ritrovando allo stesso modo la specie adatta per ciascuna natura, bisogna che costruisca e ordini il suo discorso in modo corrispondente, dando a un’anima complessa discorsi complessi e che comprendano tutte le armonie, e a un’anima semplice discorsi semplici. Prima di questo, non sarà possibile che si tratti con arte, in quanto convenga per natura, il genere dei discorsi, né per insegnare, né per persuadere, come tutto ciò che si è detto in precedenza ci ha ricordato. [F] FEDRO – Su questo punto proprio questo risulta. SOCRATE – E poi, sulla questione se è bello o brutto pronunciare e scrivere discorsi, e quando il biasimo sia fatto a ragione e quando a torto, non ce l’ha forse chiarito il discorso che abbiamo fatto poco fa? FEDRO – Che cosa abbiamo detto? SOCRATE – Che se Lisia, o chiunque altro, ha scritto o scriverà su cose di interesse privato o di interesse pubblico, proponendo leggi, scrivendo ope-
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E. I «giardini di scrittura», ossia la pratica della composizione di opere scritte, appartengono alla dimensione del divertimento (paidià), non della serietà (spoudè), che è invece appannaggio dell’oralità. Questo non significa, tuttavia, che scrivere sia un’attività indegna di un filosofo. Il fatto è – spiega Platone – che la composizione di testi potrà costituire un’attività nobile solo se accompagnata dalla piena consapevolezza dei limiti di una simile pratica e della natura in qualche modo giocosa che la caratterizza. Del resto, Platone stesso ha scritto discorsi sulla giustizia (la Repubblica), sul bello (il Simposio) e sulle altre virtù; il valore di queste opere va tuttavia valutato alla luce dei limiti della scrittura e va comunque considerato inferiore rispetto all’attività dialettica vera e propria, che consiste nella capacità di scegliere un’anima adatta (cioè dotata per la filosofia) e di immettervi ragionamenti che siano in grado di fare sorgere in essa la vera conoscenza. Come si vede, ritorna il tema, molto caro a Platone, della natura attiva dell’apprendimento filosofico, che richiede una qualche forma di collaborazione anche da parte del discepolo. F. Platone tratteggia i caratteri che deve possedere l’insegnamento filosofico. Esso si deve basare su una conoscenza accurata dell’oggetto intorno al quale verte il discorso; non può che trattarsi dunque di una conoscenza dialettica, capace di definire l’oggetto e di dividerlo nelle sue specie. Inoltre occorre avere una nozione precisa dell’anima del destina-
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Prima conclusione: il vero filosofo è consapevole che lo scritto ha solo la funzione di richiamare alla memoria ciò che si sa già e che la vera conoscenza è quella che si scrive nell’anima di chi apprende
Seconda conclusione: è un filosofo dialettico colui che ha una conoscenza che va oltre le cose che ha scritto ed è capace di soccorrere il contenuto della sua opera
re politiche, nella convinzione che in queste opere scritte vi sia una grande stabilità e chiarezza, allora questo, per chi scrive, sarà di grande vergogna, sia che qualcuno lo dica sia che non lo dica. Intorno al giusto e all’ingiusto, al male e al bene, non distinguere la veglia dal sonno non può non essere vergognosissimo, anche se la moltitudine lo loda. FEDRO – Non può di certo. SOCRATE – Chi ritiene, invece, che in un discorso scritto, qualunque sia l’argomento su cui verte, vi sia necessariamente molta parte di gioco, e che nessun discorso sia mai stato scritto in versi o in prosa con molta serietà (e nemmeno sia mai stato recitato, come i discorsi che vengono recitati dai rapsodi, che senza possibilità di esame e senza nulla insegnare mirano solamente a persuadere), ma che, veramente, i migliori di essi non sono altro che mezzi per aiutare la memoria di coloro che già sanno; e ritiene che solamente nei discorsi detti nel contesto dell’insegnamento e allo scopo di fare imparare, ossia nei discorsi scritti realmente nell’anima intorno al giusto e al bello e al bene, ci sia chiarezza e compiutezza e serietà; e inoltre ritiene che discorsi di questo genere debbano essere detti suoi, come se fossero figli legittimi, e prima di tutto il discorso che egli reca in se stesso, se mai lo abbia trovato, e poi quelli che, o figli o fratelli di questo, sono nati in ugual modo in altre anime di altri uomini a seconda del loro valore, e saluta tutti gli altri e li manda a spasso; ebbene, Fedro, appunto un uomo di questo genere è probabile che sia colui che tu e io ci augureremmo di diventare. [G] FEDRO – Lo voglio davvero, e mi auguro quel che dici. SOCRATE – E per quanto riguarda i discorsi, abbiamo scherzato abbastanza. Ma tu va’ da Lisia e digli che noi due, discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe, abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di dire a Lisia e a chiunque altro componga discorsi, e a Omero e a chiunque altro abbia composto poesia senza musica o con musica, e, in terzo luogo, a Solone e a chiunque in discorsi politici, che chiama leggi, ha composto opere scritte, che se ha composto queste opere sapendo come sta il vero, ed è in grado di soccorrerle quando viene a difendere le cose che ha scritto, e quando parla sia in grado di dimostrare la debolezza degli scritti, ebbene,
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tario del discorso, in modo che le forme della trasmissione si adattino effettivamente alle capacità ricettive di chi si ha di fronte: a un’anima complessa – spiega Platone – si potranno assegnare ragionamenti (lògoi) complessi, mentre un’anima semplice dovrà venire avvicinata da argomenti semplici. L’educazione per Platone è una pratica situazionale e, per essere condotta in modo corretto, richiede una conoscenza adeguata della concreta situazione che si deve affrontare. G. Con questa descrizione Platone allude all’insegnamento dialettico. Il vero filosofo non è colui il quale compone opere scritte credendo che in esse sia contenuto un sapere solido e autentico. Se egli scrive – e abbiamo visto che Platone effettivamente ha scritto – lo fa con la consapevolezza che i suoi scritti potranno nel migliore dei casi servire da supplemento alla memoria di chi già sa, senza pretendere in alcun modo di indottrinare chi è a digiuno degli argomenti intorno ai quali queste opere vertono. Del resto la vera conoscenza è quella che si scrive nell’anima di chi apprende, e può venire suscitata solo da chi possiede un sapere autentico intorno al bene, al giusto e al bello (ossia alle idee) in chi è adatto a ricevere questo genere di conoscenze. Solo in questo modo si genererà un sapere affidabile, perché non destinato a scomparire con il tempo bensì in grado di rimanere per sempre nell’anima di chi lo ha acquisito.
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Parte prima L’età antica
un uomo del genere va chiamato non col nome che quelli hanno, ma con un nome derivato da ciò cui egli si è dedicato con verità. FEDRO – E quale è questo nome che tu gli dai? SOCRATE – Chiamarlo sapiente, Fedro, mi pare troppo, e che tale nome convenga solamente a un dio; ma chiamarlo filosofo, ossia amante di sapienza, o con qualche altro nome di questo tipo, gli si adatterebbe meglio e sarebbe più adeguato. FEDRO – E non sarebbe per nulla fuori luogo. SOCRATE – Invece, colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a quelle che ha composto o scritto, rivoltandole in su e in giù per molto tempo, incollando una parte con l’altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, o compositore di discorsi, o scrittore di leggi? FEDRO – E come no? [H]
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(da Platone, Fedro 274 C-278 E, trad. di G. Reale, Valla, Milano 1998)
H. In conclusione di questa approfondita discussione intorno all’opportunità di scrivere, viene fornita una risposta precisa alla questione se sia o meno corretto avere composto e comporre opere scritte. Tutto dipende dal tipo di conoscenza che si ha delle cose intorno alle quali si scrive e soprattutto dalla capacità di venire in aiuto ad esse. Il filosofo dialettico si distingue dall’oratore (come Lisia), dal poeta (come Omero) e dal grande legislatore (come Solone) perché possiede cose di maggior valore rispetto a ciò che ha scritto, e attraverso queste cose di maggior valore è in grado di soccorrere il contenuto della sua opera. Egli è cioè in grado di mostrare che ciò che ha scritto è un gioco – sebbene nel caso di Platone si tratti di un gioco meraviglioso – e che la serietà, ossia la vera conoscenza, può venire trasmessa solo all’interno di un rapporto diretto tra maestro e discepolo. Colui che è in grado di fare ciò non è un sapiente (sòphos), qualifica che spetta solo al dio, ma un filosofo (philò-sophos), ossia un amante della sapienza, che è esattamente la denominazione che spetta al dialettico.
Questionario sull’argomentazione 1
Che rapporto corre tra la tesi del re egizio Thamus e quella di Socrate? (max 5 righe)
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Quali sono gli argomenti adottati da Socrate per dimostrare i limiti del discorso scritto? (max 10 righe)
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Quali sono le caratteristiche principali del discorso orale e che rapporto corre tra esso e la dialettica filosofica? (max 10 righe)
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Con quali argomenti Socrate dimostra infine che il discorso orale è superiore al discorso scritto? (max 10 righe)
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Unità 3 Platone
Tesi a confronto Platone: governo totalitario o governo democratico? Karl Raimund Popper (1902-1994) è stato uno dei maggiori filosofi della scienza del secolo appena trascorso. Nel suo libro più noto, La logica della scoperta scientifica (1934), ha posto le basi di molti dei successivi sviluppi dell’epistemologia e della storia della scienza del Novecento. Ma, soprattutto a partire dagli anni cinquanta, Popper è stato anche uno dei massimi esponenti del liberalismo politico europeo. In realtà le sue tesi in favore del liberalismo, inteso come forma di governo che si oppone alle differenti varianti del totalitarismo (statalismo, fascismo, comunismo), furono esposte per la prima volta in un celebre libro, pubblicato sul finire della seconda guerra mondiale, La società aperta e i suoi nemici. Per Popper i grandi nemici della società aperta – che è appunto la società espressa dalle grandi democrazie liberali (Stati Uniti e Inghilterra soprattutto) – sono Platone, Hegel e Marx, i quali vengono accomunati nell’esaltazione del principio della superiorità dello Stato (o della classe) nei confronti dell’individuo. Il primo volume dell’opera di Popper si intitola non a caso Platone totalitario ed è in buona parte dedicato al grande filosofo ateniese. La critica Secondo Popper Platone, specialmente nella Repubblica, si sarebbe opposto a alla Repubblica quelle tendenze, in parte emergenti nell’ambito della riflessione sofistica, le quali miravano ad assegnare il primato all’individuo ed esprimevano in questo modo in forma embrionale un punto di vista vicino a quello delle moderne democrazie liberali. Agli occhi di Popper la Repubblica platonica sarebbe il grandioso tentativo di neutralizzare e sconfiggere questo liberalismo democratico nascente in favore di un collettivismo radicale. Gli strali del filosofo austriaco si indirizzano soprattutto contro la proposta platonica di un governo sottratto alle regole della democrazia e affidato a una casta di sapienti, i celebri filosofi-re, i quali governerebbero per conto degli altri cittadini, in se stessi incapaci di regolamentare razionalmente il proprio agire. Il vero e proprio incubo di Popper è il concetto di utopia, espresso per la prima volta nell’opera di Platone, inteso come un progetto di «ingegneria sociale»: cioè come un piano di trasformazione artificiale e forzosa della vita umana, inteso a migliorarla secondo criteri, metodi e valori che sono conosciuti soltanto da un piccolo gruppo di governanti-sapienti.
Popper, filosofo liberale
Prima risposta
I pericoli dell’utopia da Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario
L’ingegneria utopica platonica
La scelta del fine
È inerente al programma di Platone un tipo di approccio alla politica che è, a mio giudizio, estremamente pericoloso. La sua analisi è di grande importanza pratica dal punto di vista di una ingegneria sociale razionale. L’approccio platonico al quale alludo può essere considerato come tipico dell’ingegneria utopica […] L’approccio utopico presenta le seguenti caratteristiche. Ogni azione razio167
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Parte prima L’età antica
Lo Stato Ideale, fine politico ultimo
Utopia e dittatura
Autoritarismo e soppressione delle critiche
La questione della successione al potere
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nale deve avere un determinato fine. Essa è razionale nella misura in cui persegue il suo fine consapevolmente e coerentemente, e nella misura in cui stabilisce i suoi mezzi in funzione di questo fine. Scegliere il fine è quindi la prima cosa che dobbiamo fare se vogliamo agire razionalmente; inoltre dobbiamo far attenzione a determinare i nostri fini reali o ultimi, dai quali dobbiamo distinguere chiaramente quei fini intermedi o parziali che, di fatto, sono soltanto mezzi, o fasi lungo la via che porta al fine ultimo. Se rinunciamo a tale distinzione, dobbiamo anche rinunciare a chiederci se questi fini parziali sono verosimilmente idonei ad avvicinarci al fine ultimo e, quindi, non possiamo agire razionalmente. Questi principi, se applicati al campo dell’attività politica, richiedono da noi la determinazione del nostro fine politico ultimo, cioè dello Stato Ideale, prima che sia intrapresa qualunque azione pratica. Soltanto quando questo fine ultimo è determinato, almeno nelle sue linee essenziali, soltanto quando siamo in possesso di una specie di modello della società alla quale aspiriamo, soltanto allora possiamo cominciare a considerare i mezzi e i metodi migliori per la sua realizzazione e a stendere un piano per l’azione pratica. Questi sono i presupposti necessari di qualsiasi iniziativa politica che si possa chiamare razionale, e specialmente dell’ingegneria sociale. Questo è, in sintesi, l’approccio metodologico che chiamo ingegneria utopica. Esso è convincente e attraente. Di fatto, è proprio il genere di approccio metodologico che è capace di attrarre tutti coloro che o non sono influenzati dai pregiudizi storicistici o che reagiscono contro di essi. Ma appunto ciò lo rende ancor più pericoloso e rende ancor più necessaria la sua critica. […] Il tentativo utopico di realizzare uno stato ideale, usando un modello globale di società, è tale da richiedere un forte potere centralizzato di pochi e, quindi, da portare verosimilmente all’instaurazione di una dittatura. Questa, io la ritengo una critica dell’approccio utopico; infatti, ho tentato di dimostrare […] che un potere autoritario è la più contestabile forma di governo. […] Una delle difficoltà che incontra un dittatore buono è di stabilire se gli effetti delle misure adottate sono conformi alle sue buone intenzioni […]. La difficoltà deriva dal fatto che l’autoritarismo è per sua natura destinato a scoraggiare la critica e, quindi, il dittatore buono non verrà facilmente a conoscenza delle lamentele suscitate dalle misure che ha preso. Ma, senza siffatto controllo, egli non può sapere se le sue misure conseguono il desiderato fine buono. La situazione diventa necessariamente ancora peggiore per l’ingegnere utopico. La ricostruzione della società è una grossa impresa che deve determinare considerevoli incomodi a molti e per un considerevole periodo di tempo. Quindi, l’ingegnere utopico dovrà mostrarsi sordo a molte lamentele; in realtà, sarà parte del suo compito la soppressione di irragionevoli obiezioni. (Egli dirà, come Lenin: «Non si può fare una frittata senza rompere le uova».) Ma, insieme con esse, egli finirà inevitabilmente col sopprimere anche le critiche ragionevoli. Un’altra difficoltà dell’ingegnere utopico è quella connessa con il problema del successore del dittatore. […] L’ingegneria utopica solleva una difficoltà analoga, ma ancora più seria di quella che deve fronteggiare il buon tiranno
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Il modello alla prova del tempo
Difficoltà di applicazione dei presupposti platonici
Ideali realizzabili
che cerca di trovare un successore altrettanto buono […]. La portata stessa di una tale impresa utopica rende improbabile che essa possa conseguire i suoi fini durante la vita di un ingegnere sociale o di un gruppo di ingegneri. E se i suoi successori non perseguono lo stesso ideale, allora tutte le sofferenze patite dalla popolazione per amore dell’ideale risulteranno vane. Una generalizzazione di questo argomento porta a un’ulteriore critica dell’approccio utopico. Simile approccio, ovviamente, può avere valore pratico soltanto se partiamo dal presupposto che il modello originario, forse con alcuni aggiustamenti, resti la base del lavoro fino al suo completamento. Ma ciò richiederà del tempo. Sarà un tempo di rivoluzioni, sia politiche che spirituali, e di nuovi esperimenti ed esperienze in campo politico. Bisogna quindi aspettarsi che idee e ideali cambieranno. Quello che era apparso come lo stato ideale alle persone che elaborarono il modello originario, può non apparire più tale ai successori. Se si ammette ciò, allora l’intero approccio finisce in pezzi. Il metodo di stabilire dapprima un fine politico ultimo e poi di cominciare a muoversi verso di esso è vano, se ammettiamo che il fine possa essere considerevolmente modificato durante il processo della sua realizzazione. Può in qualsiasi momento risultare che i passi finora compiuti hanno di fatto allontanato dalla realizzazione del nuovo fine. E se noi cambiamo la nostra direzione in conformità col nuovo fine, allora ci esponiamo di nuovo allo stesso rischio. Nonostante tutti i sacrifici fatti, possiamo non approdare a nulla. Coloro che preferiscono un passo verso un ideale lontano alla realizzazione di un compromesso gradualistico dovrebbero tenere sempre presente che, se l’ideale è molto lontano, può riuscire anche difficile dire se il passo fatto ci avvicina o invece ci allontana da esso. Ciò, in modo particolare avviene se la marcia deve procedere a passi zigzaganti o, per dirla con Hegel, «dialetticamente» o se non è pianificata in maniera assolutamente chiara. […] Vediamo, a questo punto, che l’approccio utopico può essere riscattato solo dalla fede platonica in un ideale assoluto e immutabile, accompagnato da due altri presupposti: a) che ci sono dei metodi razionali in grado di stabilire una volta per tutte che cosa sia questo ideale; b) quali sono i mezzi migliori per la sua realizzazione. Soltanto codesti presupposti di vasta portata possono trattenerci dal dichiarare assolutamente futile la metodologia utopica. Ma anche lo stesso Platone e i più ardenti platonici devono ammettere che non è certamente vero che ci sia un metodo razionale per determinare il fine ultimo e che, ammesso che qualche metodo ci sia, esso si riduce solo a una qualche forma di intuizione. Qualsiasi differenza di opinione fra ingegneri utopici deve quindi portare, in mancanza di metodi razionali, all’uso della forza invece che della ragione, cioè alla violenza. Se qualche progresso si compie in determinati casi particolari, allora bisogna dire che ciò avviene a dispetto del metodo adottato e non grazie ad esso. Il successo può essere dovuto, per esempio, all’eccellenza dei leader; ma non dobbiamo mai dimenticare che eccellenti leader non possono essere prodotti da metodi razionali, ma solo dalla fortuna. È importante afferrare esattamente il senso profondo di questa critica: io non critico l’ideale proclamando che un ideale non può mai essere realiz169
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Parte prima L’età antica
L’impossibilità di una pianificazione globale
La replica di Schofield
Seconda risposta
zato, che sempre deve restare un’utopia. Questa non sarebbe una critica valida, perché sono state realizzate molte cose che erano state prima dogmaticamente proclamate irrealizzabili, per esempio l’instaurazione di istituzioni atte ad assicurare la pace civile, cioè la prevenzione del crimine all’interno dello stato; ed io penso che, per esempio, l’instaurazione di analoghe istituzioni per la prevenzione del crimine internazionale, cioè dell’aggressione armata, benché spesso dichiarata utopica, non sia in realtà un problema assolutamente insolubile. Quella che io critico sotto il nome di ingegneria utopica è la pretesa di una ricostruzione globale della società, cioè di cambiamenti di immensa portata, le cui conseguenze pratiche è impossibile prevedere, data la limitatezza delle nostre esperienze. Essa pretende di pianificare razionalmente la società nella sua interezza, benché non si disponga neanche in minima parte della conoscenza fattuale che sarebbe necessaria per legittimare una pretesa così ambiziosa. Noi non possiamo possedere siffatta conoscenza perché abbiamo insufficiente esperienza pratica di questo genere di pianificazione e la conoscenza dei fatti deve essere fondata sull’esperienza. Allo stato delle cose, la conoscenza sociologica per l’ingegneria in larga scala è semplicemente inesistente. Molti studiosi hanno replicato alle critiche di Popper, mostrando come esse non colgano in realtà il vero pensiero di Platone. Fra le risposte più recenti, e più efficaci, vi è quella di un importante studioso inglese di Platone, Malcolm Schofield, che in queste pagine insiste soprattutto su due punti: 1) l’utopia, come progetto di un mondo possibile, alternativa critica alla realtà presente, è una forma di pensiero necessaria al miglioramento delle prospettive storiche dell’umanità; 2) Platone non propone un modello coercitivo, un piano ingegneristico di trasformazione dell’umanità, ma solo un paradigma ideale, al quale ispirarsi nella concreta azione politica e morale. Al centro di questo modello non sta il «totalitarismo» condannato da Popper, ma un’idea forte della comunità. Condividere scopi, interessi e bisogni comuni, partecipare attivamente alla soluzione dei problemi di tutti (anziché rinchiudersi nell’individualismo egoistico) è ancora oggi, secondo Schofield, il modo migliore per realizzare davvero la democrazia. Quello di Platone, conclude Schofield, è dunque da considerare un utopismo realistico.
L’utilità dell’utopia da Malcolm Schofield, Plato. Political Philosophy
Contro l’utopia Un vicolo cieco?
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Ciò che tutti sanno della Repubblica è che è il primo grande lavoro di utopismo politico mai scritto – anche se fu soltanto 2000 anni più tardi che la parola «utopia» venne inventata (da Tommaso Moro, all’inizio del sedicesimo secolo). Già questo, per alcuni, equivale a un campanello d’allarme: non rappresentava la costruzione di un’utopia un vicolo cieco per il pensiero politico e (ancor di più) per la ricerca della felicità? E non è questa
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Gli orrori dell’utopismo
un’attività – letteraria o politica – di cui ci siamo finalmente liberati? […] L’utopismo talvolta sembra l’incubo nel quale, da più di due secoli, hanno preso forma molte delle vicende storiche europee – che ora è terminato, per venir sostituito da un diverso repertorio globale dei traumi politici e sociali del nostro tempo. Leggiamo qui di seguito un verdetto particolarmente sintetico e pregnante (C. Grey e C. Garsten, Organized and disorganized Utopias: An essay on presumption, in M. Parker, a cura di, Utopia, Ideology and Organization, Blackwell, Oxford 2002): Il sogno di una società razionale e organizzata fece presa non solo sugli stalinisti: fin dall’Illuminismo esso albergava infatti ostinatamente all’interno delle società occidentali. Come in Saint-Simon, la visione di una società controllata nella quale predomina l’efficienza è ciò che unisce i patriarchi vittoriani e i socialdemocratici del XX secolo, gli statalisti, i corporativisti e i tecnocrati. Il cimitero dove è stata sepolta questa versione dell’utopia è rappresentato dal lavoro schiavista e dai campi di sterminio di Auschwitz, Dachau, Treblinka, Bergen-Belsen e Ravensbruck – la lista completa dell’orrore che ha indelebilmente infangato e falsato le pretese di civilizzazione europee.
La presunzione di sapienza dell’utopismo
Il Platone di Popper
Gli autori citano quindi l’analisi di Zygmunt Bauman dell’olocausto come una espressione propria della civiltà moderna «nel suo genocidio industrializzato e burocratizzato». La tesi è che l’ideazione dell’olocausto, il suo sviluppo e la sua realizzazione sono in gran parte dovuti al prevalere di una concezione della società come di «un insieme di così tanti “problemi” da risolvere, come “natura” da “controllare”, “dominare” e “migliorare” o “rifondare”, come un legittimo target di ingegneria sociale, e in generale come un giardino da disegnare e mantenere con la forza nella forma pianificata.» Alla base di ciò che caratterizza la concezione utopista vi è una presunzione di sapienza: i suoi fautori presupposero un sapere intorno al mondo e rispetto a quanto è meglio per gli altri che non poteva essere mai messo in discussione né criticato (si può dire che ogni utopia è una distopia), e che ora, con il collasso finale del comunismo, è percepito generalmente come una illusione. L’interpretazione più nota del XX secolo della visione politica della Repubblica di Platone si colloca precisamente nel suddetto contesto. Il libro di Karl Popper La società aperta e i suoi nemici venne pubblicato per la prima volta alla fine della seconda guerra mondiale (1945); ed esso è, tra le altre cose, una risposta alle ideologie fascista e marxista di un profugo dell’Austria nazista: un tentativo di esporre ciò che egli considerò come il grave errore delle loro fondamenta intellettuali. Il primo volume dell’opera è in gran parte dedicato a Platone, poiché Popper vide nella Repubblica il primo progetto razionalizzato su vasta scala nella tradizione occidentale di una società chiusa e autoritaria. Egli considerò il dialogo come teso a patrocinare l’uso di metodi totalitari, anzitutto per fortificare un sistema di classe arcaico e regressivo, e poi per proteggerlo dalla possibilità di trasformazioni successive. Popper era certo che Platone delineasse un piano d’azione, in verità per prendere il potere nelle proprie mani in qualità di re-filosofo. […] 171
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Un futuro per l’utopia L’utopismo, un piano per un mondo ideale
Utopia come ricerca delle alternative migliori
Come interpretare la Repubblica?
La delineazione del modello
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Ora, il pensiero utopico deve necessariamente essere allontanato dal presente e collocato nel passato, così che la dimensione utopica della Repubblica risulti a noi aliena, non solo nei contenuti ma in quanto tale? Oppure – come io vorrei mostrare – il pensiero utopico sta semplicemente assumendo nuove forme, come del resto sarebbe logico aspettarsi se ci fosse una ragione per considerarlo un ingrediente irrinunciabile per la vita intellettuale di ogni società politica forte e raffinata? Iniziamo con una definizione. Io propongo, banalmente, che noi si definisca in linea di massima il pensiero utopico come l’immaginazione di un piano per un mondo ideale che ciò nondimeno si riferisca al giorno d’oggi e non escluda necessariamente, ma consideri secondarie le questioni inerenti alla sua praticabilità e legittimità. E ora l’argomento che avvalora l’idea che l’utopismo sarà sempre in noi. Potrebbe suonare così: il pensiero umano intrattiene sempre una relazione con il possibile così come con il reale. Dove il pensiero si impegna con la dimensione pratica – che cosa devo fare? Qual è, per noi, la cosa migliore da fare? – spesso non si tratta di una scelta ma piuttosto di una ricerca delle alternative. Prospettarsi possibilità alternative è una delle fondamentali attività umane, è qualcosa in cui noi tutti, virtualmente, siamo continuamente impegnati, si tratti di giungere a delle decisioni concernenti noi stessi, la famiglia, gli amici, e talvolta il paese, o le nostre professioni e occupazioni come idraulici, dottori, rappresentanti di cellulari, musicisti, ingegneri o qualsiasi altra cosa. Il pensiero utopico potrebbe essere considerato come un esercizio particolarmente ambizioso e pregnante nell’immaginare delle alternative: il tentativo di prevedere come l’intera struttura della società – la sua organizzazione spaziale, i suoi sistemi di comunicazione, i suoi modelli di lavoro e di utilizzo del tempo libero, il ruolo che essa assegna alla scelta individuale – possa essere fondata in modo diverso e migliore. Senza la dimensione utopica, la speranza è esposta al rischio di essere troppo modesta per il nostro proprio bene. […] Senza dubbio taluni scrittori utopisti, in periodi diversi, hanno formulato quanto essi concepirono come un piano di azione, anche se i loro critici li giudicarono nello stesso modo in cui vi si riferì, sprezzantemente, Karl Marx: «ricette […] per le trattorie dell’avvenire», oppure, per dirla con la più prosaica formulazione di Hegel: «istruzioni su come il mondo dovrebbe essere». Eppure talvolta (e talvolta simultaneamente), sull’utopismo è stata fatta una presupposizione contraria – se è corretto descrivere come utopistico un insieme di idee, allora ciò implica che esse siano impossibili da realizzare nella pratica: «dovere» qui non implica «potere». La presupposizione può o meno essere congiunta con l’opinione secondo la quale gli autori utopisti intesero soltanto comporre una fantasia. Quali opzioni interpretative sono suggerite dal testo della Repubblica? Una volta posta la questione, diventa subito chiaro che al suo stesso autore era più che familiare la possibilità che le idee comuniste introdotte nel libro V potessero apparire fantastiche, come in una commedia di Aristofane. […] Ora, le cose più importanti che Platone ha da dire rispetto alla possibilità di realizzare l’utopia emergono nel brano del dialogo che precede quello
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in cui Socrate introduce l’idea dei re-filosofi (5.472B-473B). In risposta alle sempre più pressanti domande di Glaucone inerenti alla questione della possibilità [di realizzare il progetto], Socrate gli ricorda il nodo dell’intera discussione. Presentando un’indagine che verte su che cosa è la giustizia, e su come sarebbe l’uomo perfettamente giusto qualora esistesse, essi hanno tentato di delineare un modello o paradigma: non per mostrare che il modello possa esistere, bensì per giungere ad un accordo quanto al fatto che colui che si avvicina il più possibile ad esso sarebbe anche colui che si avvicina il più possibile alla felicità. Similmente alla città buona (472D-E): – E allora? Non possiamo dire anche noi di aver tracciato nel discorso un modello di una buona città? – Certo. – E pensi che da questo punto di vista si sia meno ben detto, se non fossimo in grado di dimostrare che è possibile che una città sia governata così come siamo venuti dicendo? – Certo no – disse.
La centralità dell’idea della comunità e della partecipazione
Prassi, discorso e verità
Un modello fantastico o realizzabile?
Qui, inoltre, Socrate suggerirà (473A-B) che una approssimazione sarà sufficiente. In quanto tale questo passaggio, collocato com’è in posizione cruciale nell’argomentazione di Platone, è sufficiente a controbattere l’interpretazione della Repubblica sia di Popper sia di Strauss [secondo quest’ultimo Platone intendeva negare la realizzabilità del modello]. Per Popper e per Strauss in modo eguale, infatti, il nodo centrale dell’interpretazione è l’applicabilità o l’inapplicabilità del suo ideale politico alla società umana. Popper considera il dialogo come un manifesto per l’azione. […] Il brano del dialogo tra Socrate e Glaucone appena riassunto e citato rende però assolutamente chiaro che la questione della possibilità o impossibilità non è, in definitiva, ciò su cui noi dovremmo concentrarci. Allora, che cos’è ciò su cui dovremmo invece concentrarci? In una parola: la comunità – l’idea della comunità (koinonìa); l’idea – articolata in tutte le specifiche caratteristiche del libro V – che la partecipazione è ciò che rende una città reale o buona. Come per la giustizia, così avviene per la città buona: la cosa principale che la Repubblica si sforza di offrire è la comprensione filosofica. È nella natura delle cose, dice Socrate (473A), che la prassi si accosti alla verità meno del discorso (il dialogo filosofico) – la verità è evidentemente ciò che più lo interessa. […] Ma perché, nell’altra parte del brano cruciale intorno alla verità (473A-B), Socrate insiste su varie questioni inerenti alla possibilità, non solo alla desiderabilità, in modo talmente ostinato? Ciò è spiegato dall’apprensione che egli manifesta in merito al fatto che la sua idea possa essere accantonata come niente più di una fantasia. Platone si trova così a navigare tra Scilla e Cariddi. Per mostrare che le sue proposte comuniste rappresentano un serio contributo alla comprensione della vita sociale e politica, ha bisogno di dimostrare che esse sono più o meno realizzabili. Allo stesso tempo però egli deve sottolineare che il punto centrale del dialogo filosofico rappresentato nella Repubblica non è di fornire una garanzia sul fatto 173
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Un arduo compito
che la loro esecuzione possa essere programmata – poiché la praticabilità è soltanto un segno fallibile della verità, non ciò che la costituisce, anche nella sfera dell’etica e della politica. In breve, Platone sviluppa lo stesso tipo di problema che virtualmente affronta ogni filosofo che scrive (parla) di uguaglianza o giustizia o democrazia. Questi sono ideali che noi vogliamo perseguire nelle nostre attività sociali e politiche. Allo stesso tempo vogliamo riconoscerne la validità in quanto ideali, pur ammettendo che è immensamente difficile offrire una spiegazione adeguata di come una società egualitaria o giusta o democratica dovrebbe effettivamente essere o di come ciò possa essere effettivamente realizzato.
I brani antologizzati sono tratti da: K. Popper, La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario, Armando, Milano 19962, vol. 1, pp. 195-200. M. Schofield, Plato. Political Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2006, pp. 194-240.
Per seguire il dibattito 1
Qual è il presupposto dell’agire razionale nell’approccio utopico, secondo l’analisi di Popper? (max 5 righe)
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Qual è il presupposto dell’ingegneria sociale, utopica, secondo Popper? (max 5 righe)
3
Quali difficoltà incontra l’ingegnere utopico nella realizzazione dello Stato ideale, secondo Popper? (max 5 righe)
Secondo Schofield, alla base dell’interpretazione di Popper della Repubblica platonica come modello di 174
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attuazione di uno Stato totalitario vi è il principio utopico della «presunzione di sapienza». Spiegane il significato. (max 5 righe) 5
Qual è la definizione di utopia proposta da Schofield e in che cosa si differenzia da quella di Popper? Sottolinea il passo nel testo, poi scrivi le tue riflessioni. (max 5 righe)
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Qual è la questione centrale da ricercare nella Repubblica di Platone, secondo Schofield? (max 8 righe)
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Percorso tematico Che cos’è la giustizia?
1. Breve storia del termine «giustizia» 2. Platone: la necessità sociale e individuale della giustizia 3. Aristotele: giustizia, legge e natura
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Che cos’è la giustizia? Che cos’è la giustizia, nella vita individuale e collettiva? Che cosa permette di considerare ‘giusta’ una persona o un’azione? Queste domande si ponevano in modo particolarmente acuto in una società, come quella greca, in cui non esistevano né una forte autorità religiosa né un forte potere statale (che avrebbero imposto di rispondere: «giustizia è il rispetto dei comandamenti della religione», oppure «giustizia è ubbidire ai voleri del sovrano»). A queste domande, cui non era possibile dare risposte così semplici, se ne aggiungeva un’altra, tipicamente greca: perché dovrei essere giusto invece che ingiusto? In altri termini: c’è una remunerazione degli sforzi richiesti dal rispetto delle norme di giustizia, «la giustizia paga»?
Breve storia del termine «giustizia»
1 Omero: le norme condivise dalla comunità
Equivalenza tra «giusto» e «legale»
Platone: giustizia come virtù individuale e sociale
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Per comprendere gli sviluppi di questa riflessione, che è stata al centro del pensiero morale greco, bisogna prima di tutto chiarire il senso dei termini che vengono messi in questione. Giustizia (dìke) significa già in Omero l’insieme delle norme condivise da una comunità che regolano i comportamenti e i rapporti fra gli uomini, norme alle quali tutti devono dunque adeguarsi. Queste norme costituiscono i principi della condotta sociale, e chi non le accetta si pone al di fuori della società umana. Con la nascita della legislazione pubblica – che si fa risalire a Solone – «giustizia» indica quindi le regole preposte al funzionamento dei tribunali (dikastèria) e le sanzioni che essi comminano ai trasgressori della legge della città. Viene così a stabilirsi una stretta equivalenza fra «giustizia» e «legge» (nòmos): l’azione giusta è quella conforme alla legge, il «giusto» (dìkaion) e il «legale» (nòmimon) coincidono. Questa posizione era molto diffusa nel pensiero filosofico fra V e IV secolo, ed essa era accettata anche da un filosofo molto critico come Socrate. Sono da notare due aspetti importanti di questa tesi dell’equivalenza fra giustizia e legalità: da una parte, essa comporta una rilevante politicizzazione della giustizia (perché la legge è espressione della volontà della comunità, e i tribunali greci rappresentavano appunto l’intera comunità cittadina); dall’altra parte, la giustizia riguardava soprattutto la sfera dell’azione, e in particolare di quelle azioni che attenevano ai rapporti sociali. Gli sviluppi del pensiero morale greco, soprattutto con Platone, fecero in seguito della giustizia (ora indicata con un nuovo nome, dikaiosy`ne) anche una «virtù» individuale. Questo significa che il problema della giustizia riguardava non più
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soltanto le azioni compiute, ma il soggetto agente. Per comportarsi in modo giusto, occorreva essere una persona giusta, moralmente virtuosa. Platone avrebbe cercato di saldare l’aspetto soggettivo e quello sociale del problema della giustizia concependo anche la comunità politica (la pòlis) come un soggetto collettivo, che doveva essere giusto e virtuoso come l’individuo. Una città giusta si sarebbe di conseguenza comportata in modo giusto sia verso i propri cittadini sia verso le altre comunità. Questo era, come vedremo, un tentativo di rispondere a molte importanti questioni che erano state dibattute nella filosofia greca fra il V e il IV secolo; un dibattito che aveva mostrato l’insufficienza e la problematicità della semplice equivalenza fra «giusto» e «legale». Cominciamo qui con il darne un primo elenco orientativo. Quali sono le origini delle norme di giustizia? Esse corrispondono, o confliggono, con la natura originaria dell’uomo? Sono davvero necessarie alla vita sociale? Che cosa significa che giustizia equivale a legge, se possono esistere leggi ingiuste, come quelle che i tribunali ateniesi applicarono condannando a morte un uomo giusto come Socrate? Se le leggi sono espressioni della volontà politica di una città, e quindi possono mutare con il cambiamento di questa volontà e delle maggioranze che la esprimono, la norma morale della giustizia (se essa non è altro che osservanza della legge) è altrettanto mutevole? L’uomo giusto non sarà allora altro che chi è più pronto a conformarsi al corso variabile delle vicende politiche nella sua città?
Platone: la necessità sociale e individuale della giustizia
2 I testi
Platone Protagora: La legge di Zeus, T1 Repubblica: La giustizia è l’utile del più forte, T2; Il patto
1
reciproco e il desiderio di sopraffazione, T3; Le maschere dell’ingiusto, T4; Giustizia è una città che canta all’unisono, T5; La giustizia è equilibrio fra le parti dell’anima, T6
Origini e necessità della giustizia: il ‘mito’ di Protagora Nel suo dialogo intitolato Protagora, Platone introduceva fra i personaggi questo grande sofista, Protagora appunto, che narrava un ‘mito’ (cioè un racconto immaginario) sulle origini dell’umanità e sulla nascita della giustizia. È probabile che questo mito, benché naturalmente rielaborato da Platone, rappresentasse abbastanza da vicino le concezioni proprie del sofista (sul quale vedi Unità 2, p. 74 ss.). 177
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Nella sua forma narrativa, il mito contiene precisi elementi di una teoria sullo sviluppo dell’umanità e sulla formazione della società. Possiamo riassumerli in questo modo: 1) l’uomo per natura è un animale debole e indifeso di fronte agli altri animali e all’ambiente in cui vive («fase di Epimeteo»); 2) l’uomo è però in grado di inventare tecniche che lo proteggono dall’ambiente naturale, in primo luogo la costruzione di armi di offesa e di difesa. Ma l’uomo è per natura propenso all’ingiustizia, alla violenza e alla reciproca sopraffazione (in greco, pleonexìa). L’aggressività naturale mette dunque gli uomini gli uni contro gli altri, rendendo impossibile la convivenza nella società («fase di Prometeo»: secondo i miti greci, Prometeo era stato una figura semi-divina che aveva donato agli uomini il fuoco e con esso lo sviluppo delle tecniche); 3) gli uomini sono però in grado, nello sviluppo della civiltà, di acquisire le doti morali del reciproco rispetto (aidòs) e della giustizia (dìke), cioè dell’osservanza delle regole della convivenza sociale. Queste doti morali formano quella che Protagora chiama la «virtù politica»: grazie alla sua diffusione fra tutti gli uomini, possono nascere le comunità politiche (pòleis), basate sulla collaborazione e non sull’aggressività («fase di Zeus»). Giustizia e comunità Da questa visione sostanzialmente ottimistica della nascita del senso della giupolitica stizia, che permetteva il formarsi della civiltà e della società umana, Protagora traeva conseguenze di notevole rilievo: 1) poiché tutti gli uomini possiedono la virtù politica, essi hanno un pari diritto a partecipare alla formazione delle decisioni politiche della comunità cui appartengono: si tratta del principio base della democrazia greca; 2) con le sue istituzioni e le sue leggi, la città opera per l’educazione dei cittadini, in ogni fase della loro vita, in modo da consolidare lo spirito di giustizia da cui dipende la sua esistenza, e da prevenire il ritorno degli impulsi aggressivi e dell’ingiustizia reciproca. La giustizia è insomma per Protagora la condizione di possibilità della vita sociale. Il senso della giustizia viene progressivamente formandosi nel corso dello sviluppo della civiltà umana, e il fatto che esso sia stato acquisito è provato dall’esistenza delle comunità politiche.
Una teoria sulla nascita della società
T1
La legge di Zeus
Platone, Protagora, 321 B-323 A
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Orbene, Epimeteo, che non era troppo sapiente, non si accorse di aver esaurite tutte le facoltà per gli animali: ma a questo punto gli restava ancora la razza umana non sistemata, e non sapeva come rimediare. Mentre egli si trovava in questa situazione imbarazzante, Prometeo viene a vedere la distribuzione, e si accorge che tutte le razze degli altri animali erano convenientemente fornite di tutto, mentre l’uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme. E ormai si avvicinava il giorno segnato dal destino in cui anche l’uomo doveva uscire dalla terra alla luce. Allora, Prometeo, in questa imbarazzante situazione, non sapendo quale mezzo di salvezza escogitare per l’uomo, ruba a Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme col fuoco (senza il fuoco era infatti impossibile acquisire e utilizzare quella sapienza), e la dona all’uomo. In tal modo, l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era ormai più possibile entrare nell’acropoli, dimora di Zeus; per giunta, c’erano anche le terribili guardie di Zeus. Entra dunque furtivamente nella officina di
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Atena e di Efesto, in cui essi praticavano insieme la loro arte, e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e quella di Atena, la dona all’uomo. Di qui vennero all’uomo le sue risorse per la vita. […] Provvisti in questo modo, da principio, gli uomini abitavano sparsi qua e là, e non esistevano Città. Pertanto perivano a opera delle fiere, giacché erano molto meno potenti di esse, e la perizia pratica che essi possedevano era per loro un adeguato aiuto nel procurarsi il nutrimento, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, essi non possedevano ancora l’arte politica, di cui l’arte della guerra è parte. Pertanto, essi cercavano di raccogliersi insieme e di salvarsi fondando Città; ma, allorché si raccoglievano insieme, si facevano ingiustizie l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicché, disperdendosi, nuovamente, perivano. Allora Zeus, nel timore che la nostra stirpe potesse perire interamente, mandò Ermes a portare agli uomini il rispetto e la giustizia, perché fossero principi ordinatori di Città e legami produttori di amicizia. Allora Ermes domandò a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini la giustizia e il rispetto: «Devo distribuire questi come sono state distribuite le arti? Le arti furono distribuite in questo modo: uno solo che possiede l’arte medica basta per molti che non la posseggono, e così è anche per gli altri che posseggono un’arte. Ebbene, anche la giustizia e il rispetto debbo distribuirli agli uomini in questo modo, oppure li debbo distribuire a tutti quanti?» E Zeus rispose: «A tutti quanti! Che tutti quanti ne partecipino, perché non potrebbero sorgere Città, se solamente pochi uomini ne partecipassero, così come avviene per le altre arti. Anzi, poni come legge in mio nome che chi non sa partecipare del rispetto e della giustizia venga ucciso come un male della Città». Così, Socrate, e appunto per queste ragioni, gli Ateniesi, e anche gli altri allorché sia in questione l’abilità dell’arte di costruire o di qualche altra arte, ritengono che pochi debbano prender parte alle deliberazioni. E se qualcuno che non sia di questi pochi vuol dare consigli, non lo sopportano, come tu dici: e di buona ragione, aggiungo io. Ma quando si radunano in assemblea per questioni che riguardano la virtù politica, e si deve quindi procedere esclusivamente secondo giustizia e temperanza, è naturale che essi accettino il consiglio di chiunque, convinti che tutti, di necessità, partecipino di questa virtù, altrimenti non esisterebbero Città. Questa, Socrate, ne è la ragione.
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La giustizia come strumento del potere: la Repubblica
Nel I libro della Repubblica di Platone compare un personaggio, Trasimaco (vedi Unità 3, p. 118 s.), che va considerato come il portavoce di una corrente di pensiero critico ben presente nella cultura ateniese del IV secolo. Il teorema di Trasimaco Trasimaco accetta la tesi di Protagora e di Socrate secondo la quale la giustizia è conformità alle leggi della città, che costituiscono la condizione della vita sociale. Egli però formula un ‘teorema’ del tutto innovativo, e sconvolgente per la sua radicalità critica. Questo teorema è così articolato: 1) giustizia è rispetto della legge; 2) ma in ogni comunità politica (non importa se retta da un regime tirannico, de179
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mocratico o aristocratico) le leggi sono promulgate da chi detiene il potere e sono finalizzate alla conservazione di questo potere; 3) dunque il rispetto delle leggi da parte dei sudditi (in cui consiste la giustizia) è nell’interesse del potere e della sua conservazione da parte dei governanti, che detengono la forza; 4) la giustizia non è allora altro che l’utilità, o lo strumento, del potere e di chi lo detiene; i sudditi sono «giusti» per la costrizione delle leggi, ma questo per loro è un male (perché significa asservimento) mentre è un bene per i potenti. Confutare lo stringente teorema di Trasimaco è molto difficile anche per Platone. Egli pensa che la struttura dell’argomentazione sia valida; ritiene però che possa esistere un gruppo di governanti che non eserciti il potere nel proprio interesse, ma in quello della comunità. In questo caso, il rispetto delle leggi (la giustizia) non sarebbe utile al potere ma a tutta la comunità, sudditi compresi (vedi pp. 182-184).
T2
La giustizia è l’utile del più forte
Platone, Repubblica, 1,338 A-339 A
3
Ogni forma di potere stabilisce le leggi in funzione del proprio utile: la democrazia le farà democratiche, la tirannide tiranniche, e similmente le altre. E una volta stabilite, sanciscono che giusto per i sudditi è ciò che è utile ai detentori del potere, e puniscono i trasgressori come colpevoli di illegalità e ingiustizia. Questo è dunque, eccellente amico, ciò che io sostengo sia giusto nello stesso modo in tutte le città – l’utile del potere costituito. Ma è poi questo a essere forte, sicché ne segue per chi ragioni correttamente che dovunque giusto è lo stesso: l’utile del più forte.
La giustizia come convenzione
Nel II libro della Repubblica entrano in scena altri due personaggi, Glaucone e Adimanto (erano entrambi fratelli di Platone). Essi propongono una versione diversa della tesi di Trasimaco, sostenendo che si tratta di una teoria diffusa nella cultura dell’epoca; pur dichiarando di non condividerla personalmente, ritengono tuttavia che si tratti di una sfida importante, alla quale Socrate dovrebbe rispondere con argomenti adeguati. Glaucone: un patto La tesi esposta da Glaucone si può così riassumere: per frenare 1) come pensavano Protagora e Trasimaco, l’istinto primario, radicato nella natura l’ingiustizia umana, consiste nell’aggressività e nel desiderio di sopraffazione, che spinge ogni uomo a ‘recare ingiustizia’ a tutti gli altri, a far loro violenza, nell’intento di prevalere su di loro nella competizione per il potere, il successo, la ricchezza; 2) ma ogni uomo si rende conto che il rischio di subire ingiustizia e violenza da tutti gli altri è molto superiore alla sua possibilità di avere successo nella sopraffazione restando impunito. Per paura e debolezza, dunque, gli uomini hanno stretto un patto, in base al quale rinunciano al ricorso reciproco all’ingiustizia. Si stabilisce così l’obbligo della giustizia, sancito dalle leggi comuni; 3) ma questa rinuncia non cancella l’istinto primario della natura umana. Chiunque, se potesse commettere ingiustizia senza temere ritorsioni, lo farebbe. La giustizia è dunque solo una ‘maschera’ sociale che gli uomini sono costretti a indossare per paura, nascondendo la loro vera natura. Al contrario di quanto pensava Protagora, la nascita della comunità politica e della legge non cancella così le pulsioni aggressive e di sopraffazione (vedi anche p. 118 ss.). 180
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T3
Il patto reciproco e il desiderio di sopraffazione Platone, Repubblica, 2,358 E-359 C
Adimanto: l’ingiusto non teme neppure gli dèi
E ora ascolta ciò che avevo annunciato di voler discutere in primo luogo: quale sia e onde si origini la giustizia. Dicono che per natura il commettere ingiustizia è un bene, e subirla un male, ma che il male connesso al subire ingiustizia sia più grande del bene connesso al compierla. Sicché quando hanno reciprocamente commesso e subito ingiustizia, e hanno provato il sapore dell’una e dell’altra, a coloro che non possono sfuggire la seconda cosa e scegliere la prima, sembra vantaggioso stipulare il patto reciproco di non commettere né subire ingiustizia a vicenda. Da quel momento in poi si cominciarono a stabilire leggi e patti fra gli uomini, e l’ordine imposto dalla legge fu chiamato legittimo e giusto. Affermano dunque che questa è la genesi e l’essenza della giustizia, che si trova ad essere intermedia tra la possibilità migliore – compiere ingiustizia senza pagarne il fio – e quella peggiore – subire ingiustizia nell’impotenza di vendicarsi. Il giusto allora, in quanto medio fra questi due estremi, non viene amato come un bene, ma è apprezzato perché manca la forza di recare ingiustizia, visto che chi potesse farlo e fosse dunque un vero uomo non stipulerebbe mai con nessuno il patto di non fare né subire ingiustizia: sarebbe davvero pazzo. La natura della giustizia, Socrate, è dunque questa e siffatta, e queste sono le condizioni onde essa si origina, stando al discorso. Che poi anche chi la pratica lo faccia contro la sua volontà, per l’impotenza di commettere ingiustizia, ce ne accorgeremo nel modo più evidente se costruiremo col pensiero la seguente situazione: concediamo ad entrambi, il giusto e l’ingiusto, la possibilità di fare ciò che vogliono, poi seguiamoli osservando dove il desiderio conduce ciascuno dei due. Sorprenderemo dunque il giusto nell’atto di avviarsi per la stessa strada dell’ingiusto, a causa del desiderio di sopraffazione che ogni singola natura naturalmente persegue come un bene, mentre per la violenza della legge è ricondotta al rispetto dell’eguaglianza. Interviene a questo punto Adimanto, che trae le conclusioni dal ragionamento di Glaucone: 1) la cosa migliore è avere pubblicamente fama di essere giusti, in modo da godere la stima dei concittadini, e insieme tramare segretamente azioni ingiuste, usando persuasione e violenza per sopraffare gli altri senza doverne rendere conto; 2) non ha senso, sostiene Adimanto, agitare la minaccia delle punizioni divine contro gli ingiusti. Infatti si danno le seguenti possibilità: o gli dèi non esistono, o se esistono non si occupano delle cose umane (in questi casi, non c’è motivo di temerli); oppure gli dèi esistono e si occupano delle cose umane. Ma tutto quello che sappiamo di loro ci viene dai poeti come Orfeo, Omero ed Esiodo, e questi poeti ci dicono anche che gli dèi sono sensibili ai sacrifici, alle offerte votive, alle preghiere, ai riti di iniziazione: o non si crede affatto ai poeti, e si torna al primo caso, o si deve accettare anche questo. Dunque gli ingiusti, grazie alle ricchezze accumulate con le loro trame segrete, saranno più degli altri in grado di propiziarsi il favore divino, e non dovranno temerne le punizioni. Con questi argomenti, Glaucone e Adimanto, sulla scia di Trasimaco, propongono una formidabile sfida ai sostenitori della giustizia. Socrate (cioè Platone) dovrà dimostrare che la giustizia è desiderabile e vantaggiosa, sia nella sfera pubblica sia in quella individuale. 181
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Le maschere dell’ingiusto
Platone, Repubblica, 2,365 B-366 D
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Le opinioni diffuse dicono che se io sarò giusto, se non appaio anche tale, non me ne verrà alcun vantaggio, bensì fatiche e pene sicure; ma se sarò ingiusto procurandomi la fama di giustizia, si parla di una vita simile agli dèi. […] «Ma via, dice qualcuno, non è facile esser sempre cattivo in segreto». Infatti, risponderemo, nessuna grande impresa è agevole: ma tuttavia, se ci prepariamo ad esser felici, bisogna andare in questa direzione, dove ci portano le tracce dei discorsi. Per restar nascosti organizzeremo cospirazioni e società segrete ed esistono maestri di persuasione che offrono la capacità di parlare al popolo e nei tribunali – con tutto ciò, useremo ora la persuasione, ora la violenza, in modo da poter sopraffare senza renderne giustizia. «Ma non è possibile restar nascosti agli dèi né usar loro violenza». Ma allora, se gli dèi non esistono o se nulla loro importa delle cose umane, perché mai ci dovremmo preoccupare di restare nascosti? Se invece esistono e se ne occupano, li conosciamo o ne abbiamo sentito parlare da nessun’altra fonte se non dai costumi rituali e dai poeti autori di genealogie; ma questi stessi dicono che gli dèi sono disponibili a farsi influenzare e convincere da ‘sacrifici, amabili suppliche’ e offerte votive. Ad essi si deve prestar fede o su entrambe le cose o su nessuna delle due. Se dunque bisogna crederci, si commetta ingiustizia e si sacrifichi con i proventi delle ingiustizie. Essendo giusti, infatti, ci limiteremo a non subire le punizioni degli dèi, ma rinunceremo ai guadagni che vengono dall’ingiustizia; ma da ingiusti otterremo questi guadagni e insieme, pregando mentre commettiamo sopraffazioni e colpe, li convinceremo a lasciarci impuniti. «Ma nell’Ade pagheremo il fio delle ingiustizie commesse quassù, noi stessi o i figli dei figli». Però, amico, dirà calcolando razionalmente, di nuovo hanno molto potere le iniziazioni e gli dèi liberatori, come confermano le maggiori città e i figli degli dèi che sono diventati poeti e profeti, i quali attestano che le cose stanno così. Per quale altra ragione allora sceglieremo la giustizia invece della più grande ingiustizia, visto che, se riusciremo a praticarla insieme con gli orpelli della rispettabilità, realizzeremo le nostre intenzioni, e presso gli dèi e presso gli uomini, sia da vivi sia dopo morti, secondo il discorso condiviso dai più e dai più eccellenti? Sulla base di tutto quanto si è detto, Socrate, quale mai espediente resta perché voglia onorare la giustizia colui il quale disponga di un qualche potere d’anima o di corpo o di ricchezze o di stirpe, invece di mettersi a ridere sentendo le sue lodi? Sicché se qualcuno è tuttavia in grado di mostrare che quanto abbiamo detto è falso, e sa con sufficiente sicurezza che la giustizia è la cosa migliore, prova molta comprensione per gli ingiusti e non si adira con essi, bensì è consapevole […] che nessuno è giusto volontariamente, semmai biasima il compiere ingiustizia perché è incapace di farlo per mancanza di coraggio, vecchiezza o qualche altra debolezza. Che sia così è evidente: appena uno di tali uomini ne ottiene il potere, subito commette ingiustizia, nella misura in cui ne è capace.
La giustizia come ordine sociale Platone condivide in parte le tesi di Protagora, Trasimaco e Glaucone: è insita in effetti nella natura umana una tendenza alla sopraffazione, alla prepotenza, quindi all’ingiustizia. Ma secondo lui la giustizia imposta dal patto sociale non è soltanto uno strumento del potere o una maschera che cela questa tendenza insopprimibile.
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L’anima di ogni uomo è composta da tre parti: due sono irrazionali, e tendono rispettivamente alla soddisfazione insaziabile dei piaceri e all’affermazione aggressiva di sé, quindi all’ingiustizia. Ma c’è nell’anima anche una parte razionale, il cui impulso ci orienta verso comportamenti equilibrati e in armonia con se stessi e con gli altri. L’uomo in cui prevale questo principio razionale, a cui gli altri elementi si sottomettono in modo consensuale, è un uomo giusto, alieno dalla smodatezza dei piaceri e dall’istinto di sopraffazione, e invece attento a condurre una vita serena e rispettosa di sé e degli altri. La società tripartita Analogamente, la società è composta da tre tipi di uomini: quelli in cui prevale il principio razionale, quelli in cui comanda il principio aggressivo e prepotente, e infine quelli che sono dominati dal desiderio dei piaceri. Una società giusta – cioè in pace al suo interno e all’esterno – sarà quella in cui governa il primo tipo di uomini, con l’alleanza e il consenso, o almeno con la sottomissione volontaria, degli altri due tipi. A quello aggressivo si addice non l’attività di governo ma quella militare: essi dovranno dunque essere combattenti agli ordini dei governanti razionali. Al tipo dedito ai piaceri si addicono le attività rivolte al guadagno (commercio, industria, agricoltura) che dovranno comunque venir svolte sotto il controllo del gruppo razionale governante. Platone formula dunque il principio secondo il quale la giustizia, nell’individuo e nella società, consiste nel «fare le cose proprie»: cioè nell’accettazione, da parte di ogni componente dell’anima e della comunità, di svolgere il ruolo e la funzione per i quali è naturalmente dotato, senza pretendere di assumere posizioni di comando per le quali è inadatto. Insomma la giustizia consiste per Platone nell’instaurazione di una gerarchia di potere condivisa, cioè accettata anche dai sudditi, e governata da un gruppo che non agisce nel proprio interesse (come Trasimaco pensava fosse inevitabile) ma in quello di tutta la società. Giustizia è, in poche parole, un potere giusto esercitato con il consenso di tutto il corpo sociale. Le parti dell’anima
T5
Giustizia è una città che canta all’unisono
Platone, Repubblica, 4,431 A-434 C
– E ancora, se in una qualsiasi città i governanti e i governati condividono la stessa opinione su chi debba comandare, lo stesso accadrà anche in questa. Non credi? – Certo, disse, nel modo più assoluto. – E in quale gruppo di cittadini, quando si trovano in questa condizione, diresti che è presente l’atteggiamento di moderazione? nei governanti o nei governati? – In un certo senso in entrambi, disse. – Vedi dunque, dissi io, che poco fa eravamo bravi indovini supponendo che la moderazione sia simile ad una sorta di armonia? – Ma perché? – Perché, a differenza del coraggio e della sapienza, la cui presenza in una sola parte della città basta a renderla rispettivamente sapiente e coraggiosa, non così agisce la moderazione, bensì si estende senz’altro attraverso l’intera città, facendo cantare insieme all’unisono lo stesso canto ai più deboli e ai più forti e a quelli di mezzo, per intelligenza, se vuoi, o se vuoi per forza, o anche per numero o ricchezze o altre simili cose: sicché nel modo più corretto possiamo dire che questa concordia è moderazione, accordo conforme a natura fra chi è peggiore e migliore su chi debba comandare nella città e in ciascun individuo. […] – Allora senti, dissi, se c’è qualcosa in quel che intendo. Ciò che fin dall’inizio abbiamo stabilito si debba fare in ogni circostanza, quando fondavamo la città – in 183
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questo consiste, mi pare, o in qualche sua forma, la giustizia. Abbiamo in effetti stabilito, e ripetuto più volte, se ben ricordi, che ciascuno debba svolgere una sola delle attività comprese nella città, quella per la quale la sua natura risulti più adatta. – Lo si diceva, sì. – E dunque che la giustizia consista nel fare le proprie cose senza moltiplicare le proprie attività, questo almeno l’abbiamo sentito da molti altri e noi stessi l’abbiamo detto più volte. – L’abbiamo detto, infatti. – Proprio questo, amico, dissi io, il «fare le proprie cose», praticato in un certo modo, c’è il caso che sia la giustizia. Sai da quali indizi lo suppongo? – No, ma dimmi, rispose. – Mi sembra, io dissi, che quel che resta nella città dopo le qualità che abbiamo esaminato, moderazione, coraggio, intelligenza, sia ciò che assicura a tutte loro la possibilità di svilupparsi, e una volta sviluppate ne garantisce la salvaguardia finché è presente. D’altronde si diceva che quella restante, una volta che avessimo scoperto le altre tre, sarebbe risultata la giustizia. – Ed è necessario, disse. – E inoltre, dissi io, se si dovesse giudicare quale fra queste è più capace con la sua presenza di rendere buona la nostra città, sarebbe difficile decidere se si tratti del consenso fra governanti e governati, o della salvaguardia dell’opinione basata sulla legge che si è formata nei soldati circa ciò che è da temere o no, o la vigile intelligenza presente nei governanti, oppure se ciò la cui presenza nel bambino, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell’artigiano, nel governante, nel governato, è la più importante per render buona la città, consiste nel fatto che ogni singolo individuo svolga il compito che gli è proprio senza moltiplicare le proprie attività. – Decisione difficile, come no, disse. – Compete dunque a quanto pare per il primo posto nel contribuire alla virtù della città, insieme con la sua sapienza, la moderazione e il coraggio, l’attitudine di ciascun cittadino a svolgere il suo proprio ruolo. – Certo, disse. – E questa attitudine che compete con le altre verso la realizzazione della virtù della città non dovresti riconoscerla come giustizia? […] – Guarda ora se continui a concordare con me. Se un falegname si mette a fare il lavoro del calzolaio, o un calzolaio del falegname, scambiandosi magari i rispettivi strumenti e compensi, oppure se la stessa persona cerca di fare entrambi i mestieri, o insomma se tutto il resto viene scambiato, ti pare che ciò recherebbe un gran danno alla città? – Proprio no, disse. – Ma, penso, quando qualcuno che per natura è un artigiano o qualche altro tipo di affarista, e poi, esaltatosi per la ricchezza o il sostegno della massa o la forza o qualcos’altro del genere, tenta di passare nella forma del guerriero, uno dei guerrieri in quella di chi ha il potere di deliberare in difesa della città, pur essendone indegno; e se costoro si scambiano i rispettivi strumenti e le ricompense, oppure se la stessa persona tenta di fare contemporaneamente tutte queste cose, allora penso che anche tu ritenga che un tale sovvertimento, una tale proliferazione di attività, siano rovinose per la città. – È assolutamente così. – Poiché dunque vi sono tre gruppi, l’accavallarsi e lo scambio reciproco delle 184
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Percorso tematico Che cos’è la giustizia?
loro funzioni costituiscono il danno più grande per la città, che assai correttamente potrebbe venir chiamato senz’altro un delitto. – Senza dubbio. – E non dirai che il maggior delitto contro la propria stessa città è ingiustizia? – Come no?
5 Giustizia, armonia, felicità
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La giustizia è equilibrio fra le parti dell’anima
Platone, Repubblica, 4,444 D-C
La giustizia come garanzia di felicità A questo punto, Platone è pronto a rispondere alla sfida di Trasimaco e di Glaucone. La giustizia non è l’interesse dei forti, come pensava il primo, o la protezione dei deboli, come aveva suggerito il secondo, e non è, come credevano entrambi, contraria alla natura umana. In realtà secondo Platone la giustizia, intesa come ordine e come corretta distribuzione di ruoli secondo le capacità, è per l’anima individuale e per la comunità quello che la salute è per il corpo in cui ogni parte svolga la propria funzione. La salute dei corpi è l’equivalente, per l’individuo e la società, del benessere e della felicità. Vale dunque la pena di perseguire la virtù della giustizia nella vita privata e in quella pubblica, perché essa, in quanto ordine e armonia dei rapporti con se stesso e con gli altri, è l’unica garanzia della felicità. Insomma, sostiene Platone contro i suoi avversari, «la giustizia paga». – Ma produrre salute significa istituire fra gli elementi del corpo un rapporto reciproco, conforme a natura, di comando e sottomissione; malattia, invece, una situazione in cui gli uni esercitano e gli altri subiscono il potere contro natura. – È così. – E dal canto suo, dissi, produrre giustizia non significa istituire fra le parti dell’anima un rapporto reciproco, conforme a natura, di comando e sottomissione; ingiustizia, invece, una situazione in cui le une esercitano e le altre subiscono il potere contro natura? – Certo, disse. – La virtù dunque, a quanto sembra, è una sorta di salute, di bellezza, di vigore dell’anima, il vizio malattia, bruttezza, debolezza. – Così è. – E non accade anche che le belle attività conducano all’acquisizione della virtù, quelle vergognose al vizio? – Per forza. – Sembra che resti a questo punto da indagare se è vantaggioso compiere azioni giuste e dedicarsi a belle occupazioni, insomma esser giusti, che si sia o meno riconosciuti come tali, oppure commettere ingiustizia ed essere ingiusti, a condizione di non doverne pagare il fio (e quindi anche senza venir resi migliori dalla punizione). – Ma Socrate, disse, mi pare che a questo punto si tratti di un’indagine ridicola. Se, una volta guastata la natura del corpo, la vita non sembra più possibile neppure se accompagnata da tutti i cibi e le bevande, da ogni possibile ricchezza e potere, come si potrebbe vivere quando fosse sconvolta e corrotta la natura di ciò stesso grazie a cui viviamo, anche se si potesse fare tutto ciò che si vuole – salvo quello che potrebbe liberarci da vizio e ingiustizia e ci permetterebbe di acquisire giustizia e virtù: tanto più ora che la natura dell’una e dell’altra è risultata chiara dall’analisi che abbiamo condotta. 185
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Parte prima L’età antica
Aristotele: giustizia, legge e natura
3 I testi
Aristotele Etica nicomachea: La virtù del giusto e la legge, T7 Politica: La virtù del cittadino è la stessa dell’uomo buono?, T8
1 I tre ambiti della giustizia
La dimensione politica
Giustizia politica e giustizia secondo natura
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La giustizia ‘perfetta’: l’Etica nicomachea Aristotele fu il primo, tra i filosofi antichi, ad analizzare e distinguere le varie accezioni e i diversi significati con cui viene usato il concetto di giustizia. Egli tracciò dunque la distinzione tra sfera giudiziaria, o ‘giustizia correttiva’, relativa alle pene comminate dai tribunali a chi trasgredisce la legge; sfera economica, relativa all’equità dei rapporti nella società civile, o ‘giustizia distributiva’; infine, la ‘giustizia perfetta’, la giustizia in senso pieno, che si attua nella sfera della politica, cioè dei rapporti fra cittadini. Quest’ultimo aspetto della giustizia è trattato nei capitoli 2, 3 e 10 del V libro dell’Etica nicomachea. La tesi principale di Aristotele è che la giustizia consiste nell’osservanza della legge, perché questa prescrive le norme politiche e morali del comportamento avendo di mira la felicità collettiva e di conseguenza anche individuale. Nella dimensione politica, la giustizia è una virtù di relazione fra persone, ed è quindi un «bene per gli altri», come diceva Trasimaco, ma in un senso opposto al suo: chi agisce in modo giusto, cioè legale, reca vantaggio agli altri, oltre che a se stesso, mentre il sofista pensava che l’uomo giusto recasse vantaggio ai potenti e perciò danno a se stesso in quanto loro suddito. Aristotele ammette tuttavia che alcune leggi possono essere stabilite in modo non corretto, e questo può aprire un contrasto fra l’uomo giusto, che obbedisce alla legge in ogni caso, e l’uomo buono, che segue la virtù morale, come vedremo più avanti (pp. 187-189). Nel capitolo 10, Aristotele stabilisce un rapporto fra giustizia politica e giustizia secondo natura. Quest’ultima non è però contrapposta all’altra, come avevano sostenuto molti sofisti. La giustizia secondo natura ricade anch’essa nella sfera politica, ma si distingue per la sua generalità, nel senso che si applica agli uomini che vivono in società in ogni luogo e in ogni tempo. La giustizia legale invece può variare da luogo a luogo e secondo i tempi. In ogni caso, poiché per Aristotele l’uomo è per natura un «animale politico», e tende dunque a vivere in società politiche governate dalla legge, c’è una sostanziale coincidenza fra dimensione politica, legge come norma delle relazioni fra gli uomini, e giustizia come virtù morale che consiste nell’osservanza della legge.
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Percorso tematico Che cos’è la giustizia?
T7
La virtù del giusto e la legge
Aristotele, Etica nicomachea, 5,1129 B ss.
Si deve quindi comprendere in quanti modi si dice «l’uomo ingiusto». Pare che chi va contro la legge sia ingiusto, e lo sia anche chi è avido e disonesto, cosicché, chiaramente, sarà un uomo giusto chi rispetta la legge e chi è onesto; quindi ciò che è giusto corrisponde al lecito e all’onesto, mentre ciò che è ingiusto corrisponde all’illecito e al disonesto. […] Siccome si è detto che chi va contro la legge è ingiusto, e chi rispetta la legge è giusto, è chiaro che tutto ciò che è secondo legge è giusto, in un certo senso: ciò che viene stabilito dall’arte del legislatore è secondo la legge, e ciascuna di tali disposizioni la diciamo giusta. Le leggi si pronunciano su tutto e tendono all’utile comune, per tutti o per i migliori, o comunque per chi governa secondo virtù, o secondo qualche altro criterio consimile, di modo che, in uno dei sensi del termine, noi diciamo giusto ciò che produce e preserva la felicità, e le parti di essa, nell’interesse della comunità politica. La legge prescrive di compiere le opere tipiche dell’uomo coraggioso, per esempio non lasciare la schiera, non fuggire e non gettare via le armi, quelle tipiche del temperante, per esempio non commettere adulterio o violenza, o dell’uomo mite, per esempio non picchiare e non insidiare nessuno; allo stesso modo secondo tutte le altre forme di virtù e cattiveria, la legge prescrive le prime e proibisce le seconde, in modo corretto quando è stabilita correttamente, meno bene quando è stabilita in modo affrettato. Ora questo tipo di giustizia è virtù completa, non in generale, ma rispetto al prossimo. […] È virtù completa, soprattutto, perché è attuazione della virtù completa, ed è completa dato che colui che la possiede è capace di servirsi della virtù anche nei riguardi del prossimo, e non solo in relazione a se stesso; molti infatti sono in grado di far uso della virtù in ciò che li riguarda, ma non lo sono nei riguardi degli altri. […] Per questo stesso motivo la giustizia, sola tra le virtù, pare essere un bene per gli altri, perché è rivolta al prossimo, infatti il giusto compie azioni utili all’altro, sia esso un governante o un cittadino comune. Come l’uomo peggiore di tutti è colui che esercita la sua cattiveria sia verso se stesso sia verso gli amici, così il migliore non è colui che esercita la sua virtù in relazione a se stesso, ma colui che lo fa in relazione all’altro: questo è davvero un compito difficile. […] Non ci deve sfuggire che l’oggetto della nostra ricerca è sia ciò che è giusto in generale, sia ciò che è giusto relativamente alla sfera politica. Quest’ultimo è quello che riguarda coloro che vivono insieme per realizzare l’autosufficienza, liberi e proporzionalmente o numericamente uguali; di conseguenza tra le persone che non hanno tra loro questa forma di vita comune non si dà il giusto ‘politico’, nei loro rapporti reciproci, ma si dà una qualche altra specie di giusto, che è solo simile a quello. Infatti il giusto si dà nei rapporti di coloro che sono sottoposti alla legge, e la legge si dà per le persone tra cui si può avere ingiustizia, dato che la giustizia è il distinguere tra giusto e ingiusto; quindi per coloro tra cui si dà ingiustizia, si dà anche l’agire ingiusto. […] Per questo non permettiamo che governi una persona qualsiasi, ma diamo il potere alla ragione, perché l’uomo governa a suo vantaggio e si trasforma in un tiranno. Il governante è custode del giusto, e, se è custode del giusto, lo è anche dell’uguaglianza. Siccome si ritiene che il governante, se è uomo giusto, non de187
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ve avere per sé nulla di più degli altri – infatti non attribuirà a se stesso una quantità superiore di beni in assoluto, tranne nel caso in cui ciò conservi la proporzione rispetto al suo status, e per tale motivo è uno che lavora per gli altri; perciò la gente dice: «la giustizia è un bene per gli altri», come abbiamo ricordato anche prima – allora si deve dare al governante una ricompensa di un qualche tipo, la quale consisterà in onore e privilegi; chi non se ne accontenta, è di quelli che diventano tiranni. […] Il giusto relativo alla sfera politica si divide in naturale e legale. Naturale è quello che ha dovunque lo stesso potere e non dipende dall’opinare o dal non opinare, legale è quello che in origine non fa differenza se sia in un certo modo o in un altro, ma, quando viene formulato, fa differenza (per esempio, quando si stabilisce che il riscatto sia due mine, o di sacrificare una capra e non due pecore) e inoltre ciò che è stabilito legalmente riguardo ai casi singoli (come di sacrificare a Brasida) e quanto viene stabilito per decreto.
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Politica e morale
Come abbiamo visto, per Aristotele la giustizia politica («virtù perfetta») consiste sostanzialmente nell’ossequio alla legge della comunità. Nel trattato sulla Politica, Aristotele si pone però il problema del rapporto fra politica e morale. Il «buon cittadino» è colui che svolge il ruolo assegnatogli dalla comunità in cui vive, e ne rispetta le leggi: in questo consiste la sua «virtù». La virtù del buon cittadino è dunque diversa secondo le sue funzioni (il governo, la guerra, il lavoro e così via) e soprattutto secondo le forme costituzionali della comunità politica cui appartiene: in una democrazia sarà buon cittadino chi rispetta le leggi democratiche, in una tirannide colui che accetta le leggi tiranniche. La virtù morale (quella propria dell’«uomo buono») è invece unica e uguale per tutti; essa, per esempio, proibisce le azioni tiranniche imposte dal regime tirannico con le sue leggi, azioni che invece deve compiere il «buon cittadino» che vive sotto una tirannide. Ci sono casi, si chiede Aristotele, in cui sia possibile colmare questa separazione fra virtù morale e virtù politica, in cui cioè il buon cittadino coincida con l’uomo moralmente buono? Le possibilità indicate da Aristotele sono molto problematiche. L’identificazione fra morale e politica sarebbe possibile nella «costituzione perfetta», le cui leggi prescrivano solo ciò che è moralmente buono, e in cui tutti i cittadini siano buoni: ma Aristotele non sembra ritenere possibile una comunità politica di questo tipo, che era propria dell’utopia di Platone. Oppure, la coincidenza potrebbe essere possibile non in tutti i cittadini ma soltanto nei buoni governanti, abili politici e uomini virtuosi nello stesso tempo. Ancora una volta, è un’idea platonica, che però contraddice una tesi fondamentale della politica aristotelica, secondo la quale tutti i cittadini devono a turno essere governanti e governati; questa prospettiva introdurrebbe invece una differenza insuperabile fra i «buoni» governanti e gli altri cittadini, che non possono essere tutti altrettanto virtuosi. Il dilemma di Aristotele Aristotele lascia aperto questo grave problema, che deriva direttamente dall’accettazione del principio secondo il quale la giustizia è rispetto della legge. Rispettando questo principio, si è certamente buoni cittadini (cioè anche conforIl rapporto fra virtù politica e virtù morale
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Percorso tematico Che cos’è la giustizia?
misti), ma difficilmente uomini moralmente giusti, perché le leggi sono conformi alle costituzioni, e le costituzioni storicamente esistenti non rispecchiano di solito l’ideale della costituzione moralmente perfetta. O ci si pone (alla maniera platonica) il problema di rifiutare le costituzioni storiche per realizzare quella ideale, o ci si rassegna all’imperfezione delle leggi e quindi alla separazione fra «virtù politica» e «virtù morale»: questo sembra essere il dilemma entro il quale si muove Aristotele.
T8
La virtù del cittadino è la stessa dell’uomo buono?
Aristotele, Politica, 3,1276 B
Collegata a quanto si è detto adesso è l’indagine se la virtù dell’uomo buono si debba ritenere la stessa che quella del bravo cittadino o non la stessa. Ma se è giusto che questo punto sia sottoposto a esame, si deve prima fissare sia pure in abbozzo la virtù del cittadino. Ora, come il marinaio fa parte d’una comunità, così pure diciamo del cittadino. E sebbene i marinai abbiano funzioni diverse (uno è rematore, uno pilota, uno ufficiale di prua, un altro infine ha un’altra designazione del genere) è chiaro che la definizione più esatta della loro eccellenza riguarderà ciascuno in particolare, e tuttavia ce ne sarà una comune che si adatta a tutti. La sicurezza della navigazione è opera di tutti loro: a questo tende ciascun marinaio. Lo stesso riguardo ai cittadini: sebbene differenti tra loro, la sicurezza della comunità è opera loro e questa comunità è la costituzione: per ciò la virtù del cittadino è necessariamente in rapporto alla costituzione. Ma se ci sono più forme di costituzione, evidentemente non è possibile che esista una sola virtù del bravo cittadino, quella perfetta, mentre noi diciamo che l’uomo buono è tale in rapporto a una sola virtù, quella perfetta. È chiaro allora che si può essere buoni cittadini senza possedere la virtù per la quale l’uomo è buono. Non solo, ma, prospettando la difficoltà in altro modo si può pure studiare lo stesso problema in rapporto alla costituzione migliore. Se è impossibile che tutti i componenti dello stato siano buoni, tuttavia ciascuno deve assolvere bene la sua funzione in rapporto alle sue possibilità, e questo procede da virtù, ora, siccome è impossibile che tutti i cittadini siano uguali, non potrà essere una sola la virtù del cittadino e dell’uomo buono. Infatti la virtù del bravo cittadino deve trovarsi in tutti (perché in questo modo lo stato sarà di necessità il migliore) ma quella dell’uomo buono non lo può, a meno che i cittadini d’uno stato buono non siano tutti necessariamente buoni. Inoltre lo stato risulta di elementi differenti, come il vivente, ad es. d’anima e di corpo, e l’anima di ragione e d’appetito, e la famiglia di uomo e di donna, e la proprietà di padrone e di schiavo: allo stesso modo anche lo stato è formato di tutti questi elementi e, oltre essi, di altre specie differenti: è necessario quindi che la virtù di tutti i cittadini non sia una sola, come non lo è tra i coreuti, quella del corifeo e del parastato. È evidente da ciò che non è assolutamente la stessa la virtù dell’uomo buono e del buon cittadino. Ma ci sarà uno nel quale la virtù del bravo cittadino sia la stessa che la virtù dell’uomo bravo? Noi diciamo che il bravo governante è buono e saggio, che il cittadino, invece, non è di necessità saggio. […] Ora se la virtù del buon governante e dell’uomo buono è la stessa e se cittadino è pure chi è comandato, non sarà assolutamente la stessa la virtù del cittadino e dell’uomo, o solo d’un determinato cittadino: e, infatti, non è la stessa la virtù di chi comanda e del semplice cittadino. […] E tuttavia si tiene in pregio la capacità di comandare e di obbedire e ‘par’ che 189
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sia virtù del cittadino rispettabile un’adeguata capacità a ben comandare e ad obbedire. Ora se ammettiamo che virtù dell’uomo buono è quella del comando, e virtù del cittadino entrambe, le due virtù non saranno egualmente pregiate.
I brani antologizzati sono tratti da: Platone, Protagora, trad. di G. Reale, Bompiani, Milano 2001. Platone, La Repubblica, trad. di M. Vegetti, BUR, Milano 2007. Aristotele, Etica nicomachea, trad. di C. Natali, Laterza, Roma 2001. Aristotele, Politica, trad. di R. Laurenti, Laterza, Roma 1993.
Questionario 1
Sintetizza il mito raccontato da Protagora in T1 e spiega il significato politico-filosofico che il sofista gli attribuisce. (max 12 righe)
3
Ricostruisci l’argomentazione con cui Platone sostiene, in T6, che la giustizia è garanzia di felicità. (max 8 righe)
2
Quali sono i motivi che spingono gli uomini a contrarre un patto sociale delle leggi comuni esposti da Glaucone nel brano T3 tratto dalla Repubblica? (max 8 righe)
4
Quale tipo di virtù Aristotele attribuisce al buon cittadino in T8? Che cosa hanno in comune un buon cittadino e un marinaio? (max 10 righe)
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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana GIUSTIZIA / GIUSTO I termini «giustizia» e «giusto» si presentano di continuo nel linguaggio quotidiano, a proposito degli argomenti più diversi. La giustizia è tradizionalmente, nel cristianesimo, una virtù (una virtù «cardinale»), ma ci riferiamo alla giustizia anche quando parliamo, per esempio, della magistratura, o comunque dell’apparato repressivo e penale («assicurare un individuo alla giustizia», o «è stata una pena giusta») o della giustizia umana e, magari, divina, come una facoltà di giudicare, di punire e di premiare. Si parla spesso, poi, di un’azione giusta, di una persona giusta, di una legge giusta, di una società giusta (o più giusta di quella attuale), ma anche di una misura giusta di un vestito, di una giusta richiesta o di un giusto prezzo. Le accezioni Ci sono quindi molti modi per parlare di giustizia e di cose giuste, e molti sipiù rilevanti gnificati di questi termini, anche se non possiamo trattarli tutti. Qui ne affrontiamo solo alcuni che sembrano più importanti. Parlare della «misura giusta» di un vestito, per esempio, significa semplicemente parlare dell’adeguatezza del modo in cui è stata tagliata una certa stoffa rispetto a un certo corpo, il che, di regola, non sembra una cosa particolarmente importante nella vita di un individuo. Particolarmente importanti sono invece gli usi di «giusto» e «giustizia» che rimandano a due principali significati: la correttezza morale da un lato e la distribuzione (dei beni o di un trattamento) o la retribuzione (di una colpa o di un merito), dall’altro.
I molteplici usi dei termini
1. La giustizia come correttezza morale Quando diciamo che un’azione è giusta intendiamo dire che un’azione è conforme a certi criteri di valutazione morale o, più semplicemente, a certi criteri morali. Nella lingua italiana, il contrario di «giusto» in questo significato non è tanto «ingiusto» – che usiamo più frequentemente per un altro significato del termine – quanto «sbagliato». Si potrebbe addirittura dire che la coppia più adeguata da utilizzare per parlare del «giusto» o della «giustizia» in questo significato sia la coppia «moralmente corretto» / «moralmente sbagliato». Usi non morali Dire a qualcuno che ha compiuto un’azione giusta significa in questo senso dire di «giusto» a qualcuno che ha compiuto l’azione, o un’azione, moralmente corretta (anche se, naturalmente, questo significato di «giusto» come «corretto» ha un’applicazione anche al di fuori della morale, come quando si parla di un gioco e delle mosse «giuste» all’interno di esso, per esempio una mossa nel gioco degli scacchi o nel gioco del calcio: «era la mossa giusta da fare», «ha fatto il passaggio giusto», «da quella posizione era giusto tirare in porta», e così via). Giustizia e bontà Il giudizio su un’azione, quando si tratta di un giudizio morale («hai compiuto l’azione giusta»), riguarda di solito l’aspetto esterno delle azioni, ovvero la loro giu➥ Laboratorio sul lessico stizia e non la loro «bontà»: un’azione giusta rimane tale anche se non viene fatBene / buono, p. 105 ta con uno spirito o per un motivo particolarmente nobile. La «giustizia» o cor-
Azioni «moralmente corrette» o «sbagliate»
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Parte prima L’età antica
rettezza morale di un’azione non dipende dal fatto che dietro di essa ci sia un motivo buono, ciò che invece sarebbe importante per valutare la bontà dell’azione e quindi dell’individuo che la compie. Se l’azione giusta viene compiuta per interesse personale, vanagloria, esibizionismo, essa rimane un’azione giusta anche se esiteremmo – a dir poco – a giudicarla un’azione buona. 2. Assolutezza della giustizia Un problema che si può porre, se ci interroghiamo sulle azioni che possono essere giuste o sbagliate, è se ci siano azioni giuste assolutamente oppure se la valutazione morale, e in particolare la valutazione delle azioni, dipenda da un atteggiamento soggettivo di chi giudica o da una certa educazione o da una certa cultura e così via. Assolutismo Secondo una certa interpretazione della moralità, ci sono azioni che sono ase relativismo morale solutamente giuste o assolutamente sbagliate, e rimangono giuste o sbagliate in qualunque contesto e in qualunque situazione, anche se si dà raramente il caso che non si prevedano affatto eccezioni. Secondo alcuni, per esempio, è assolutamente sbagliato uccidere un essere umano, e quindi queste azioni sono vietate in modo assoluto, anche se poi ci sono almeno alcune eccezioni (nel caso del divieto di uccidere, molti di coloro che condividono l’assolutezza di questa norma riconoscono per esempio la possibilità, cioè il permesso morale, di uccidere per legittima difesa, se si è un soldato in guerra o un militante rivoluzionario o, se la si sostiene, nel caso della pena di morte). Un’interpretazione diversa è quella che vede invece la giustizia o meno delle azioni dipendere da fattori soggettivi, storici o culturali: qualcuno può giudicare in questo senso giusta, cioè corretta moralmente, un’azione che qualcun altro giudica sbagliata, con differenze anche radicali tra diverse persone, tra diversi periodi storici o tra diverse civiltà e culture (anche in uno stesso periodo storico). 3. Azione giusta e dovere «Giusto» e «doveroso» L’idea di un’azione giusta è senz’altro collegata con il concetto di «dovere». Suonerebbe in effetti paradossale e strano affermare che l’azione che in un certo contesto è un dovere non sia un’azione anche giusta, nel senso di «moralmente corretta»: tutti i doveri sono, per chi li considera tali, almeno azioni giuste, cioè moralmente corrette. Estensione dei concetti Ma non è detto che tutte le azioni giuste siano doveri, ovvero azioni obbligadi «giusto» e «dovere» torie: ci possono essere azioni giuste che non sono doveri. Può essere questo il caso, per esempio, di una situazione in cui ci sono diverse azioni giuste che io posso compiere, senza poterle compiere tutte: io ho il dovere di compierne una, ma non tutte queste azioni giuste sono doveri. Il mio dovere effettivo è compiere almeno una tra queste azioni. Ciò vale tanto più se il mio dovere è raggiungere un certo scopo o un certo risultato: se io devo – cioè ho il dovere di – nutrire mio figlio, ci possono essere diverse azioni alternative che sono altrettanto giuste e che fanno sì che io adempia con esse al mio dovere (per esempio scegliendo un’alternativa tra cucinare e portare mio figlio in trattoria). Detto in altre parole: il significato di «giusto» è più ampio di quello di «dovere», e ci sono più azioni «giuste», rispetto a quante ce ne siano che sono veri e propri doveri. 192
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Laboratorio sul lessico Giustizia / giusto
La giustizia come «equità»
Giustizia sociale e distribuzione dei beni
Il problema dei criteri della distribuzione
Uguaglianza di trattamento a parità di condizioni
4. A ciascuno il suo Un significato importante della «giustizia» e del termine «giusto» riguarda l’equità, ovvero l’idea di attribuire a ciascuno ciò che gli spetta, secondo una definizione tradizionale della giustizia. È un significato decisamente diverso da quello che abbiamo visto finora di «moralmente corretto»: ora si tratta di giudicare giusto quel comportamento o anche quell’uomo che realizzi un ideale di giustizia riguardante, per esempio, la distribuzione di determinati beni o la retribuzione con determinati premi o con determinate punizioni. È in questa circostanza che il contrario di giusto, almeno nella maggior parte dei casi, è più adeguatamente espresso con il termine «ingiusto». Nella lingua inglese, la giustizia nel senso della «correttezza morale» è detta rightness, mentre in questo secondo significato è detta justice. Anche nel primo caso appena descritto, quello della distribuzione dei beni, ci saranno numerosi pareri radicalmente discordanti tra loro, a seconda dei diversi ideali, appunto, di «giustizia»; è curioso che a questo proposito si accetti più facilmente una differenza di opinioni perché si pensa che sia abbastanza naturale che ci siano opinioni diverse in materie più esplicitamente dipendenti dalla divergenza di posizioni politiche: sembra diffusa l’opinione, infatti, che la morale sia qualcosa di necessariamente condiviso, e che il disaccordo su questioni politiche sia sostanzialmente meno grave. Si tratta in questo caso della distribuzione dei beni, e differenti concezioni della giustizia sociale prevedono diversi modi di distribuirli (ciò che spesso si chiama, in politica e in economia, «distribuzione del reddito»). Questo è un significato molto importante del termine «giustizia» che coinvolge molti aspetti della vita sociale, e che rientra nella concezione della giustizia come problema dell’assegnazione a ciascuno di quello che gli (o le) spetta: suum cuique tribuere, secondo un detto antico. È chiaro che la formulazione generale del problema enunciata nel detto non dice in che modo e secondo quali criteri si possa determinare che cosa o quanto concretamente spetti a ciascuno. Si può infatti pensare che a ciascuno spetti una certa quantità di beni uguale, approssimativamente uguale, oppure anche molto diversa, a seconda del criterio che viene utilizzato per stabilire che cosa sia «giusto». Ma questo significato non ha semplicemente una dimensione economica, può riguardare anche la giustizia nel trattare le persone. Di frequente ci troviamo a valutare come ingiusto un comportamento che per esempio, senza un’apparente giustificazione, tratti in modo diverso soggetti che in linea di principio ci sembrano avere diritto a un trattamento uguale: almeno secondo certi criteri in linea di principio ampiamente diffusi nelle società occidentali, tutti i cittadini hanno diritto a un trattamento analogo quando si trovino nelle medesime condizioni, salvo eccezioni motivate. E verrebbe di solito ritenuto ingiusto, per esempio, che a qualcuno venisse permesso di passare con il rosso a un semaforo, dato che tutti gli altri devono fermarsi al rosso e lasciare passare quelli che hanno il verde (un’eccezione motivata sarebbe che si trattasse di un’autoambulanza con la sirena accesa e un ferito grave a bordo). Un esempio classico di ingiustizia, vera o almeno percepita come tale, riguarda l’ambito familiare, e la consueta protesta da parte dei figli sulla disparità di trattamento: l’obiezione rivolta ai genitori è solitamente di essere «ingiusti» proprio nel senso di offrire un trattamento diverso a persone che hanno lo stesso status e le stesse pretese. Ma gli esempi e i parallelismi potrebbero continuare estendendosi a molte altre situazioni. 193
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Parte prima L’età antica Retribuzione di premi e punizioni
L’idea che a ciascuno spetti il suo è importante anche in un ambito particolare, quello della pena o della punizione: non è un caso che si parli di punizioni o di pene giuste e ingiuste e di premi giusti e ingiusti: normalmente, la giustizia o l’ingiustizia della punizione (o del premio) è valutata o rispetto all’effettivo compimento dell’azione o del comportamento da premiare o da punire, o rispetto all’entità del premio o della punizione. Lo stesso principio vale in ambito giuridico: per pene eccessivamente lievi o eccessivamente severe noi utilizziamo infatti l’aggettivo «ingiusto».
Esercitiamoci sulla giustizia 1. Rifletti e completa DOVERI
CORRETTEZZA MORALE
_______________ MORALE
(«corretto» contro GIUSTIZIA / GIUSTO
«__________________»)
RELATIVISMO MORALE
nella DISTRIBUZIONE (di __________________, EQUITÀ Usi quotidiani («giusto» come «___________» ecc.)
___________________ ecc.)
(«_________________» contro «ingiusto»)
nella _________________ (di denaro, premi, _________________ ecc.)
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Laboratorio sul lessico Giustizia / giusto
2. Spunti per il dibattito: io e… la giustizia 1
Dopo aver letto il testo e completato lo schema, rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – Credi vi sia qualcosa in comune tra tutte le azioni giuste? Se sì, che cosa? – Ritieni che i criteri per stabilire che cosa è giusto (o meno) siano gli stessi per chiunque, in ogni tempo e luogo? – Pensi che la giustizia di un’azione dipenda soltanto dalle conseguenze che tale azione comporta oppure dipenda anche dalle intenzioni di chi la fa? – Credi che sia sostenibile un’idea di giustizia ‘disinteressata’, ossia tale che non sia previsto alcun tipo di ‘premio’ (neanche sul piano psicologico) per chi la attua?
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Immagina due distinte situazioni, A e B. Nella situazione A un nipote assiste con cura la propria nonna, malata terminale, durante gli ultimi due mesi di vita e fa ciò mosso soltanto dal profondo affetto che nutre verso l’anziana parente. Nella situazione B, lo stesso nipote compie esattamente quanto messo in pratica nella situazione A, ma fa ciò mosso dalla speranza di essere designato dalla nonna quale erede di un ingente patrimonio. – Ti sentiresti di poter affermare che l’azione svolta nella situazione A è giusta mentre non lo è quella svolta nella situazione B? Perché? – Non si potrebbe sostenere che anche la mera gratificazione sul piano psicologico derivante dall’azione svolta nella circostanza A rappresenti già di per sé un ‘interesse’ da parte del nipote? – Supponi che il nipote in questione sia l’unico erede dell’anziana signora: vedresti ancora una qualche differenza tra la situazione A e la situazione B per quanto riguarda la giustizia dell’azione? Perché?
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Immagina che Paola abbia ricevuto da un amico la richiesta di aiutarlo a fare un trasloco (A) e dal fratello la richiesta di aiutarlo a preparare un’interrogazione di latino che avrà il giorno seguente (B). Paola non può fare entrambe le cose: – Quale pensi che sia, tra A e B, l’azione che è giusto compiere? Pensi che una delle due richieste sia più importante? – Supponiamo che Paola decida di fare A e, quindi, di non aiutare suo fratello. Il giorno dopo l’interrogazione va male; pensi che il fratello di Paola avrebbe ragione a dire che, non aiutandolo, Paola non ha fatto ciò che avrebbe dovuto fare? – Supponiamo che, prima di ricevere la richiesta di fare A, Paola abbia promesso di fare B e faccia B. Pensi che in tal modo si comporti in modo moralmente corretto?
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Immagina per un attimo due mondi possibili, M1 ed M2, identici tra loro da ogni punto di vista eccetto per il fatto che in M1 gli individui sono dotati di una volontà libera (o libero arbitrio), mentre in M2 no (qui essi sono rigidamente predeterminati nelle loro azioni). Tuttavia ogni azione compiuta da un qualunque abitante di M1 è identica all’azione compiuta nelle stesse circostanze dal corrispondente individuo di M2. – Pensi che nel mondo M2 continuerebbero ad avere senso i concetti di «dovere» e di «giusto» (sia nell’accezione morale che in quella distributiva e retributiva)? Perché? – Immagina che in M1 e in M2 sia in vigore lo stesso sistema di diritto penale: ti sembra ragionevole che tanto l’omicida in M1 quanto il corrispondente omicida in M2 subiscano lo stesso trattamento da parte della giustizia? Perché?
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Unità 4 Aristotele 1. Il primo professore 2. Le ragioni di Aristotele 3. L’edificio del sapere 4. La logica 5. Le categorie e il primato della sostanza 6. Il divenire del mondo: principi e cause 7. La struttura dell’universo: cosmologia e teologia 8. I viventi e l’anima: biologia e psicologia 9. La filosofia prima o metafisica 10. L’etica 11. La politica 12. La retorica e la poetica 13. La scuola di Aristotele: il Peripato 14. Un bilancio ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: L’Etica nicomachea ♦ Tesi a confronto: Aristotele: la natura ha un fine? I testi Dell’interpretazione: Suono, segno, significato, T1 Analitici secondi: La dimostrazione, T2; Principi propri e comuni, T3; L’intelletto principio della scienza, T5 Metafisica: Dire qualcosa di sensato, T4; Il primo motore immobile, T14; I requisiti della sapienza, T16; L’essere in quanto essere, T17; L’essere e la sostanza, T18; Causa è la forma, T19; La scienza teologica, T20 Categorie: Le dieci categorie, T6; Sostanze seconde, T7; Sostrato, specie e generi, T8 Fisica: Le cose per natura, T9; Le quattro cause, T10; Il fine nella natura, T11
Sul cielo: Movimenti rettilinei o circolari, T12; Il luogo degli dèi, T13 Le parti degli animali: La natura provvede al meglio, T15 Etica nicomachea: Il bene maggiore: la felicità, T21; L’opera propria dell’uomo, T22; Il medio tra eccesso e difetto, T23; La via di mezzo, T24 Politica: Le sei costituzioni, T25 Poetica: Poesia e storia, T26
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Parte prima L’età antica
1 La sistematizzazione del sapere
Il rapporto con Platone
➥ Percorso tematico, p. 275
Dal platonismo giovanile al naturalismo della maturità?
Distanze nella vicinanza
Il primo professore Nell’Unità precedente abbiamo visto che l’atto di nascita della filosofia risale a Platone. Ora si deve aggiungere che solo con il più grande allievo di Platone, Aristotele, la filosofia assume i contorni di un imponente edificio teorico, nel quale ogni singolo segmento di sapere occupa una posizione ben precisa nell’economia complessiva della conoscenza. In questo senso sembra di poter dire che, se Platone è il primo grande filosofo, Aristotele è senza dubbio il primo «professore di filosofia», perché è colui che tenta di organizzare in modo coerente e sistematico tutto il campo del sapere allora accessibile, in modo da rendere disponibile questo immenso patrimonio alle future generazioni. Se Platone scrive i dialoghi anche allo scopo di trasformare le anime e di indirizzarle verso l’amore per la filosofia, Aristotele compone i suoi trattati essenzialmente con l’obiettivo di insegnare, ossia di trasmettere un sapere in qualche modo consolidato. Naturalmente le differenze tra Aristotele e Platone non si riducono a quella appena richiamata. Esse sono numerose e verranno ampiamente evidenziate nel corso di questa Unità. Tuttavia, occorre precisare subito che tali differenze, anche quelle più radicali, non possono in alcun modo oscurare il fatto che Aristotele non cessa mai veramente di sentirsi e, per molti aspetti di essere, un platonico. In verità, nel momento stesso in cui si parla di Aristotele e dei suoi rapporti con il grande maestro, bisogna fare i conti con un’importante tesi storiografica, particolarmente in voga durante la prima parte del XX secolo. Secondo i fautori di questa tesi, il pensiero di Aristotele avrebbe nel corso dei decenni subito una radicale trasformazione: a un periodo iniziale caratterizzato da un’adesione pressoché totale al platonismo sarebbe succeduta una fase più matura, segnata invece da un distacco sempre più marcato dalle tesi platoniche. Insomma, mentre il giovane Aristotele, allievo di Platone presso l’Accademia, avrebbe aderito a tutte le principali dottrine del suo maestro (per esempio alla teoria delle idee e a quella dell’immortalità dell’anima), l’Aristotele maturo si sarebbe trasformato in una sorta di filosofo della natura fedele all’esperienza, cioè empirista, profondamente avverso al platonismo. Le ricerche condotte in questi ultimi decenni hanno però dimostrato che questa ipotesi storiografica non è più sostenibile. In realtà, già quello che sappiamo sulla produzione del giovane Aristotele dimostra che egli non è mai veramente «platonico», se con questo termine si intende indicare un pensatore che aderisce in modo completo alla filosofia di Platone (sappiamo, per esempio, che Aristotele criticò fin da subito la teoria delle idee). Egli tuttavia non si distanzia mai del tutto dal platonismo e dunque è sempre in certa misura «platonico», se con ciò ci si riferisce al modo complessivo di fare filosofia e soprattutto al riconoscimento di alcuni aspetti essenziali del platonismo.
La formazione, i viaggi, l’insegnamento Per comprendere lo sviluppo del pensiero di Aristotele è utile ricostruire le fasi principali della sua vita. Aristotele nacque nel 384 a.C. a Stagira, nel Nord della Grecia; suo padre, Nicomaco, era molto probabilmente medico della corte mace198
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Unità 4 Aristotele
L’Accademia
In viaggio
Il Peripato
Eubea
done, e alla famiglia reale macedone la vita di Aristotele rimase sempre legata. Se per Platone l’episodio decisivo della sua formazione fu l’incontro con Socrate, per Aristotele questo evento decisivo non poté che essere l’ingresso nell’Accademia platonica, avvenuto a soli diciassette anni. Qui Aristotele rimase per venti anni, dapprima come allievo e poi come collaboratore di Platone. Sappiamo che durante la sua permanenza nell’Accademia Aristotele non solo tenne lezioni di retorica e logica, ma compose anche alcuni importanti scritti (tra i quali si segnalano il trattato Sulle idee, molti libri della Fisica, lo scritto Sul cielo, alcuni libri della Metafisica, tra i quali il libro XII di cosmologia e teologia, e alcune tra le opere di logica, come le Categorie e i Topici). Alla morte di Platone, avvenuta nel 348 a.C., la direzione dell’Accademia venne assunta da Speusippo, nipote del maestro. Aristotele, che, in quanto meteco (ossia cittadino non ateniese), non poteva ambire a guidare l’istituzione fondata da Platone, lasciò Atene e trascorse più di dieci anni lontano dalla capitale dell’Attica. Sappiamo che soggiornò ad Asso, in Asia Minore, insieme ad altri accademici (riuniti grazie all’interessamento del tiranno Ermia); fu poi a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove conobbe il più importante dei suoi allievi, Teofrasto, e iniziò con lui un periodo di collaborazione destinato a durare tutta la vita; molto importanti furono poi gli anni trascorsi presso la corte macedone a Pella, dove venne chiamato dal re Filippo II come precettore del figlio Alessandro, futuro signore della Grecia e vincitore dei persiani. A questa fase itinerante risale la raccolta del materiale che darà origine alle grandi opere biologiche e zoologiche. Nel 335 a.C. Aristotele fece ritorno ad Atene, ormai sotto il controllo dei macedoni. Qui aprì una sua scuola, il Peripato (così chiamato per la presenza di una passeggiata, in greco perìpatos) e iniziò a tenervi regolari corsi di lezioni, oltre a organizzare un’attività di ricerca estremamente ricca e articolata. A questo periodo risale la composizione di alcuni tra i più importanti libri della Metafisica (IV, VI, VII-IX), dei libri più recenti della Politica, dello scritto Sull’anima, e la stesura dei grandi trattati biologici (Le parti degli animali, La generazione degli animali). Con la morte di Alessandro, nel 323 a.C., riprese vigore ad Atene il partito antimacedone e Aristotele preferì lasciare nuovamente la città (sembra che fosse accusato di empietà e volesse evitare di fare la fine di Socrate). Riparò in Calcide, nell’isola di Eubea, dove morì dopo un anno, nel 322 a.C.
Gli scritti e il loro ordinamento Prima di parlare degli scritti di Aristotele, bisogna premettere che la forma in cui noi oggi li leggiamo non è dovuta al loro autore (come invece accade per i dialoghi di Platone). In verità il corpus aristotelico deve la sua attuale struttura ad Andronico di Rodi, un seguace di Aristotele vissuto nel I secolo a.C. Egli sistematizza il materiale attribuito ad Aristotele allora in circolazione, lo ordina raggruppandolo in opere unitarie e lo dispone secondo una ben precisa sequenza. La logica L’edizione di Andronico si apre con le opere di logica, raggruppate sotto il titolo di Organon, cioè strumento: Categorie, Sull’interpretazione, Analitici primi in due libri, Analitici secondi in due libri, Topici in otto libri, Confutazioni sofistiche. La natura Seguono gli scritti dedicati alla natura e al mondo fisico: Fisica in otto libri, Sul e la Metafisica cielo in quattro libri, Generazione e corruzione in due libri, Meteorologia in quatL’ordinamento di Andronico
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Parte prima L’età antica
Etica, politica, arti e Costituzione
Il titolo «Metafisica»
Raggruppamenti arbitrari?
Appunti per le lezioni
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tro libri, Sull’anima in tre libri e poi una serie di operette minori di argomento vario; sempre a questo gruppo appartengono i grandi trattati dedicati alla biologia e alla zoologia: Ricerche sugli animali in dieci libri, Le parti degli animali in quattro libri, Il moto degli animali e La generazione degli animali in cinque libri. Nell’ordinamento di Andronico agli scritti consacrati alla fisica segue la Metafisica, un’opera in quattordici libri (di cui si dirà più avanti). Dopo la Metafisica trovano collocazione opere di argomento etico: Etica nicomachea in dieci libri ed Etica eudemia in otto libri; e politico: Politica in otto libri. Chiudono il corpus gli scritti consacrati alle scienze poietiche (pòiesis significa in greco «produzione»), ossia alle arti: Retorica in tre libri e Poetica di cui è conservato il solo I libro. Alla fine dell’Ottocento è stato rinvenuto un papiro contenente uno scritto di Aristotele dedicato alla Costituzione degli Ateniesi (che faceva parte di un’opera nella quale si dava conto di ben 158 costituzioni). Come si vede, la produzione di Aristotele è davvero sterminata; e le opere a noi pervenute (raccolte da Andronico) non sono che una parte di quelle effettivamente composte dal grande filosofo di Stagira. Il corpus degli scritti di Aristotele – lo si è già osservato – si presenta in una forma che non è quella stabilita dal suo autore. Il caso più clamoroso è certamente costituito dalla Metafisica, da molti considerata il capolavoro di Aristotele e uno dei libri più importanti dell’intera storia della filosofia. Se per avventura qualcuno di noi, dopo avere letto la Metafisica, incontrasse Aristotele e si complimentasse con lui per avere scritto quest’opera, il nostro filosofo rimarrebbe stupefatto, non solo perché lui non scrisse nessuna opera con quel titolo, ma soprattutto perché la parola stessa gli era del tutto ignota. In effetti, Metafisica è il titolo coniato (o utilizzato) da Andronico per indicare quell’opera che nella sua sistemazione segue gli scritti di argomento fisico (ta metà ta physikà significa infatti «cose che vengono dopo i libri di fisica»). È anche vero che molti dei quattordici libri che compongono la Metafisica sfiorano tematiche relative a questioni non fisiche (per esempio la questione dell’esistenza di sostanze immobili); da qui la parola «metafisica» ha preso a indicare anche un discorso che verte intorno a entità non fisiche, oppure intorno ai principi e alle cause delle realtà fisiche. Quello che vale per la Metafisica vale in realtà anche per le altre opere di Aristotele. Per la forma in cui ci sono oggi note, esse devono molto al lavoro di sistemazione di Andronico, il quale raggruppa i libri di argomento affine facendo di essi un’opera unitaria. Questo tuttavia non significa che gli scritti di Aristotele che noi leggiamo siano dotati di un’unitarietà del tutto estrinseca (derivata cioè dal difuori). In effetti già Aristotele ha avvicinato molti libri di argomento affine, considerandoli parti di una medesima trattazione. Bisogna però tenere presente che la forma attuale dei suoi scritti è essenzialmente il frutto dell’opera editoriale di un aristotelico vissuto oltre trecento anni dopo la morte di Aristotele. Il discorso appena fatto vale per le opere di scuola. In effetti, tutti gli scritti che compongono l’attuale corpus aristotelico non sono pensati e composti per venire pubblicati (alla maniera dei dialoghi platonici). Essi costituiscono in realtà appunti, schemi e canovacci approntati come ausilio all’attività di insegnamento, alla quale era destinata la maggior parte degli sforzi di Aristotele (che è, in questo senso, davvero il «primo professore di filosofia»). Ciò spiega un certo disordine che li caratterizza; spiega inoltre la presenza di ripetizioni e di uno stile che si adatta più alla lezione orale che alla trasmissione scritta. Si è soliti indicare
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Unità 4 Aristotele
questo tipo di opere con l’aggettivo «esoteriche» (destinate cioè all’interno della scuola: èso in greco significa «interno») o «acroamatiche» (da akròasis che significa «lezione», «ascolto»). I dialoghi perduti In verità Aristotele, soprattutto nel periodo della sua permanenza nell’Accademia di Platone, compone anche scritti destinati alla pubblicazione. Alcuni di questi sono dialoghi (come l’Eudemo), composti certamente sul modello di quelli platonici. Tuttavia nessuna di queste opere ci è pervenuta (possediamo solo ampi frammenti). Dunque, per una sorta di paradosso della tradizione, noi abbiamo le opere che Aristotele non ha pensato di destinare alla pubblicazione, ossia gli scritti esoterici, ma non possediamo quelli che sono stati composti per venire pubblicati, e che si è soliti definire essoterici, ossia destinati all’esterno della scuola (èxo in greco significa appunto «fuori»). La ragione di questo sta nel fatto che i dialoghi, considerati troppo inferiori a quelli platonici, non vennero più trascritti, mentre la scuola conservò i trattati per la loro ricchezza di ➥ Sommario, p. 255 dottrine.
La vita e le opere Aristotele nacque a Stagira, nella penisola Calcidica (Grecia settentrionale), nel 384 a.C., da genitori greci; il padre, Nicomaco, era probabilmente medico della corte macedone, la madre, Festide, era originaria di Calcide, nell’isola di Eubea. A diciassette anni Aristotele si recò ad Atene ed entrò a far parte dell’Accademia di Platone, ove restò per venti anni, fino alla morte del maestro (367348/347), vivendo sempre nella pòlis come meteco, ovvero come straniero residente stabilmente in città ma privo di diritti politici. Alla morte di Platone Aristotele si recò presso Ermia, tiranno di Atarneo (Asso), alleato del re macedone Filippo (ragione per la quale Ermia verrà ucciso nel 341 dai persiani), del quale sposò una parente chiamata Pizia. Nel 345/344 si recò a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove strinse amicizia con Teofrasto, il suo più brillante collaboratore. Nel 343/342 venne chiamato alla corte del re macedone Filippo, che gli affidò l’educazione del giova-
ne figlio Alessandro, il futuro Alessandro Magno, signore della Grecia e conquistatore dell’impero persiano. Probabilmente Aristotele lasciò la corte nel 335, quando, dopo la morte di Filippo, Alessandro gli succedette al trono. Tornato ad Atene, Aristotele, cinquantenne, vi fondò la sua scuola, chiamata Peripato (per la presenza di una passeggiata) o Liceo (perché sita nel giardino dedicato ad Apollo Licio). Alla morte di Alessandro, in Persia, nel 323, Aristotele, ormai più che sessantenne, subì la reazione del partito antimacedone ateniese, scontando così la storica vicinanza con Filippo e Alessandro, e soprattutto lo stretto legame con Antipatro, governatore di Atene per incarico del re; venne così minacciato un processo nei suoi confronti che lo avrebbe accusato di empietà. Temendo questa eventualità, Aristotele abbandonò Atene, trasferendosi nell’isola di Eubea, in Calcide, nella vecchia casa materna, dove morì l’anno successivo (322/321).
L’ordinamento del corpus di Andronico Logica (Organon) Categorie; Sull’interpretazione; Analitici primi in due libri; Analitici secondi in due libri; Topici in otto libri; Confutazioni sofistiche Natura Fisica in otto libri; Sul cielo in quattro libri; Generazione e corruzione in due libri; Meteorologia in quattro libri; Sull’anima in tre libri e una serie di operette minori di argomento vario; Ricerche sugli animali in dieci libri; Le parti degli animali in quattro libri; Il moto degli animali e La generazione degli animali in cinque libri Metafisica Metafisica in quattordici libri Etica Etica nicomachea in dieci libri; Etica eudemia in otto libri; le due etiche hanno in comune tre libri Politica Politica in otto libri; a questo gruppo va aggiunto lo scritto rinvenuto nel 1890 dedicato alla Costituzione degli Ateniesi (che faceva parte di un’opera nella quale si dava conto di 158 costituzioni) Opere poietiche Retorica in tre libri; Poetica in due libri, di cui è però conservato solo il primo
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Parte prima L’età antica
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Aristotele: avvicinare la filosofia alla realtà quotidiana
Salvare il mondo, non costruirne uno a parte
Le ragioni di Aristotele Prima di esporre in tutta la sua vastità l’impresa filosofica di Aristotele, è opportuno tentare di comprendere le ragioni che motivarono questo immenso sforzo intellettuale, e il suo senso nel quadro della costruzione della filosofia occidentale. Platone ha fondato la filosofia come ambito di sapere autonomo e come una nuova e specifica forma di razionalità. Ha inoltre conferito alla figura intellettuale del filosofo una legittimità culturale, un prestigio sociale, addirittura un’autorevole pretesa al governo della città. Ma, dal punto di vista di Aristotele, Platone ha corso, in questo suo sforzo di fondazione della filosofia, rischi eccessivi. Essi consistono soprattutto in una separazione della filosofia dal mondo in cui gli uomini vivono e di cui hanno esperienza. Dotare la filosofia di un suo ambito di sapere autonomo e alternativo (l’ambito delle idee), pretendere che la filosofia abbia il diritto e il dovere di cambiare radicalmente il modo di vita tradizionale degli uomini, evocare scenari estranei al comune patrimonio di conoscenze (la genesi demiurgica del mondo, l’immortalità dell’anima), tutto questo rischia secondo Aristotele di rinchiudere la nuova forma di sapere e di vita in una specie di ghetto, certamente nobile ma troppo lontano dalla realtà della vita. Per lui, occorre insieme «salvare la filosofia» ma anche «salvare il mondo» che l’esperienza comune ci permette di conoscere, salvare i saperi che intorno a questo mondo si sono venuti costituendo, le forme di vita collettiva che la tradizione ci ha consegnato: si tratta, in una parola, di far sì che la filosofia abiti nel nostro mondo e non in un suo mondo a parte costruito dalla potente immaginazione teorica del maestro.
I cinque capisaldi della filosofia di Aristotele
Un solo mondo, quello sensibile
Un mondo ordinato in sé
L’enciclopedia del sapere, computo della filosofia
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Questo straordinario programma aristotelico può essere anticipato in alcuni punti, che verranno in seguito esposti in modo più analitico. 1) C’è un solo mondo, quello che conosciamo attraverso i sensi, quello di cui parla il nostro linguaggio quotidiano; la conoscenza di questo mondo è stata progressivamente acquisita dagli uomini, ed essa si è accumulata nella tradizione del sapere. È illusorio e fuorviante introdurre, accanto o sopra a questo mondo, un altro livello di realtà, come quello delle idee platoniche. 2) Questo mondo è in sé ordinato; c’è una legalità insita sia nei processi della natura sia nella società umana. Questa legalità garantisce la regolarità dei fatti naturali e umani e il loro orientamento verso la condizione migliore possibile. Non c’è alcun bisogno di interventi esterni (come sono in Platone quello divino del demiurgo e quello umano del filosofo-re) per assicurare l’ordine del mondo. 3) Le conoscenze di cui disponiamo intorno al mondo possono venire organizzate in un’enciclopedia del sapere, in grado di spiegare la struttura di ognuno dei campi diversi in cui il mondo è diviso. Compito della filosofia è quello di costruire e chiarificare queste conoscenze, disporle ordinatamente nel piano generale dell’enciclopedia, individuare gli elementi concettuali che garantiscono l’unità e la coerenza del sistema dei saperi, e quindi del mondo che essi descrivono.
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4) La filosofia non deve cambiare il mondo né inventare mondi possibili, ma comprendere e spiegare l’unico mondo esistente: spiegare vuol dire capire le cause e le ragioni per le quali le cose stanno così come sono, sia nell’ambito dei processi naturali sia in quello dei comportamenti umani. La filosofia: una sobria 5) In questo modo, la filosofia non risulta più separata dal mondo, torna ad abisupremazia tare nel campo dei saperi sulla natura e sull’uomo; in quanto capace di organizzare e chiarificare questi saperi, mantiene la sua supremazia sulle conoscenze (come ha preteso Platone), ma non si presenta più come alternativa radicale rispetto ad esse, e rinuncia all’ambizione di governare direttamente la vita degli uomini. Il primato della filosofia è dunque in Aristotele meno ambizioso, più sobrio e misurato, rispetto alla pesante eredità trasmessagli dal ➥ Sommario, p. 255 maestro. Comprendere e spiegare cause e ragioni
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Autonomia dei saperi
La realtà e i suoi ambiti: la rinuncia a un sapere assoluto
L’edificio del sapere Per accostarsi in maniera corretta al pensiero di Aristotele occorre avere chiaro il modo in cui egli concepisce il complesso edificio del sapere. A differenza di Platone, il quale vede nella dialettica un sapere dotato di un carattere universale e in qualche modo egemone nei confronti di tutte le altre discipline, Aristotele stabilisce fin da subito un notevole grado di autonomia per le diverse forme di conoscenza. La realtà risulta ai suoi occhi divisa per generi, ossia per ambiti, relativamente autonomi (per esempio la natura vivente, le matematiche, i fenomeni celesti, l’etica e la politica). Questo fa sì che si debba rinunciare alla pretesa di individuare un sapere assoluto e universale. Ogni ambito dell’essere, cioè ogni genere della realtà, possiede suoi principi, del tutto indipendenti rispetto a quelli propri degli altri ambiti. Vedremo che Aristotele non rinuncia del tutto a proporre elementi di unificazione (e questo è senz’altro uno degli aspetti in cui si manifesta la sua fedeltà al platonismo); e tuttavia si tratta di un’unificazione indubbiamente più debole rispetto a quella cui ambisce la dialettica di Platone.
La classificazione delle scienze Si è detto dunque che per Aristotele il sapere, esattamente come la realtà che esso si propone di conoscere, si presenta articolato in diversi ambiti. In verità, se si osserva con attenzione la divisione degli scritti di Aristotele operata da Andronico, si può constatare che questo aristotelico del I secolo a.C. segue con scrupolo la classificazione delle scienze prospettata da Aristotele ed è dunque, almeno sotto questo aspetto, fedele al pensiero del grande filosofo. La tripartizione In effetti la successione delle opere di Aristotele presentata da Andronico predelle scienze vede, dopo le opere di logica (di cui si dirà tra breve): 1) l’insieme degli scritti concernenti le discipline teoretiche (fisica, cosmologia, biologia, metafisica); 2) le opere dedicate alle discipline pratiche, vale a dire essenzialmente l’etica e la politica; 203
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Parte prima L’età antica
Le discipline teoretiche: fisica, matematica, metafisica
Le discipline pratiche: l’universo del contingente
Le discipline poietiche: la produzione finalizzata al contingente
➥ Sommario, p. 255 La tripartizione delle scienze
4 Lo strumento dell’indagine
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3) le opere consacrate alle scienze poietiche, ossia alle arti (e qui il riferimento è alla retorica e alla poetica). Ora, questa tripartizione tra discipline teoretiche, pratiche e poietiche è esattamente quella sostenuta da Aristotele. Le discipline teoretiche (da theorìa, che significa «contemplazione») si occupano di quelle realtà che non possono essere diverse da come sono; si potrebbe dire che l’ambito al quale si rivolgono le scienze teoretiche è costituito dall’insieme degli enti necessari, cioè appunto quelli che sono necessariamente come sono. Secondo Aristotele le discipline teoretiche sono tre, ossia la fisica o filosofia seconda (che studia l’insieme delle cose che appartengono alla natura, cioè la phy`sis), la matematica (che si occupa degli enti matematici: numeri e figure) e la filosofia prima (che, come detto, prenderà in seguito il nome di metafisica). Se le scienze teoretiche studiano le cose che non possono essere diversamente da come sono, le discipline pratiche si rivolgono all’ambito dell’azione (pràxis appunto), che è esattamente costituito da cose che possono risultare anche diverse da come sono, in quanto hanno a che fare con la deliberazione, cioè la scelta, degli uomini. Io posso decidere di comportarmi in un certo modo (per esempio di votare un partito piuttosto che un altro, di andare o non andare a trovare un mio amico), mentre una realtà fisica (come una pianta) o una matematica (come un triangolo) non possono certamente essere diverse da come sono. In altre parole, le discipline pratiche attengono all’universo del contingente (ciò che può essere o anche non essere), mentre quelle teoretiche all’ambito del necessario. Mentre le azioni propriamente dette, oggetto delle scienze pratiche, hanno in se stesse il proprio fine (cioè nell’esecuzione stessa di una certa azione), le produzioni sono azioni che hanno il loro fine al di fuori di sé, ossia nella cosa che esse producono. Si tratta per Aristotele del campo delle tecniche, cioè delle arti. Discipline di questo tipo sono dette «poietiche» perché risultano finalizzate alla produzione di qualcosa (pòiesis significa «produzione»). Le produzioni, esattamente come le azioni, possono essere e non essere e appartengono dunque al dominio del contingente. Discipline teoretiche
Fisica o filosofia seconda, matematica, filosofia prima o metafisica
Concernono le realtà che non possono essere diverse da come sono (la theorìa è la «contemplazione»), dunque gli oggetti necessari
Discipline pratiche
Etica e politica
Concernono l’ambito dell’azione (pràxis) e dunque del contingente (non necessario)
Discipline poietiche
Retorica e poetica
Concernono l’ambito della produzione (pòiesis) dunque del contingente
La logica Dalla suddetta classificazione restano fuori, come avrai notato, le opere che si trovano all’inizio dell’ordinamento di Andronico, cioè gli scritti di argomento logico. Questo accade perché la logica non è una disciplina a parte, non si occupa cioè di una regione determinata dell’essere, ma costituisce lo strumento di cui si
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Unità 4 Aristotele
servono le altre discipline. Si spiega così la denominazione di Organon (òrganon significa «strumento») con cui si è soliti indicare l’insieme degli scritti logici di Aristotele. Il linguaggio, strumento Le scienze, tutte le scienze, si servono di discorsi, ragionamenti, inferenze, dedudi comunicazione zioni; e, ancora prima, esse si servono di nomi, verbi, proposizioni, cioè del lindella verità guaggio. La logica di Aristotele si propone esattamente di indagare la natura di tutte queste cose e in primo luogo del linguaggio, inteso come strumento di espressione e comunicazione della verità.
L’analisi delle proposizioni Il primo livello dell’analisi deve dunque riguardare i componenti elementari del discorso, ossia i termini di cui sono costituite le proposizioni (e di conseguenza i ragionamenti, le inferenze e le deduzioni). Nomi e verbi Ogni proposizione è formata da nomi e da verbi (gli aggettivi vengono considerati nomi).
T1
Suono, segno, significato Dell’interpretazione, 2,16a19-4,17a4
I discorsi dichiarativi gli unici o veri o falsi
Il nome è un suono emesso con la voce, significativo per convenzione, senza indicazione di tempo, di cui nessuna parte è significativa, presa separatamente dal resto. […] Il nome è significativo per convenzione, poiché nessuno dei nomi è tale per natura, ma si ha un nome quando un suono emesso con la voce diventa simbolo; infatti indicano qualcosa anche i suoni inarticolati, per esempio quelli emessi dalle fiere, nessuno dei quali però è un nome. […] Verbo è ciò che significa, in aggiunta, il tempo […] esso è un segno di cose che si dicono di qualcos’altro. Quando dico che significa, in aggiunta, il tempo, intendo dire, per esempio, che «salute» è un nome, «sta in salute» è un verbo: infatti ciò significa in più che la salute c’è ora. […] Il discorso è suono emesso con la voce, significativo, del quale una qualunque delle parti, presa isolatamente, è significativa, come espressione ma non come affermazione. Intendo dire che «uomo», per esempio, significa qualcosa, ma non che è o che non è [qualcosa]. […] Ogni discorso è significativo, ma non ogni discorso è dichiarativo, ma solo quello in cui vi è verità o falsità. Non in tutti i discorsi vi è verità o falsità; per esempio la preghiera è un discorso, ma non è né vera né falsa. Le ultime considerazioni contenute nel passo appena riportato sono di importanza straordinaria. Aristotele sostiene che non tutti i discorsi, ossia non tutte le proposizioni costituite da nomi e verbi, sono dichiarativi, ossia apofantici (apòphansis significa «dichiarazione»). Esistono infatti discorsi che non dichiarano nulla; per esempio la preghiera oppure il comando. Mentre le proposizioni dichiarative (o enunciative) sono soggette alla logica vero-falso, sono cioè o vere (se esprimono uno stato di cose reale) o false (se dicono qualcosa che non esiste nella realtà), i comandi e le preghiere risultano sottratti a questa dicotomia. Un comando può essere o non essere rispettato, ma di esso non si può dire che è vero o falso (se un tale dice che una persona sta mangiando un biscotto, io posso rispondergli che è vero o falso, ma se mi ordina di chiudere la porta io posso farlo o non farlo, ma certamente non posso dire che è falso). 205
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Parte prima L’età antica
La quantità delle asserzioni: universalità, particolarità e individualità
Rapporti di esclusione
Contrarie e contraddittorie
Universale affermativa (per esempio: «Ogni uomo è mortale») Subalterne
Il quadrato degli opposti
Stabilito che solo i discorsi dichiarativi sono soggetti all’alternativa vero-falso, Aristotele aggiunge che simili discorsi possono essere affermativi, se affermano qualcosa di qualcosa o qualcuno (per esempio «Socrate è bianco»), o negativi, se negano che a qualcosa o a qualcuno appartenga una certa caratteristica (per esempio «Socrate non è allievo di Platone»). Il discorso dichiarativo più semplice è quello nel quale a un nome viene assegnato un verbo (per esempio «Socrate corre»). Secondo Aristotele un discorso di questo genere è vero se esprime uno stato di cose esistente, ossia se collega cose che risultano collegate anche nella realtà (la proposizione «Socrate corre» è vera se Socrate effettivamente corre). Vera è però anche quella proposizione che nega un collegamento quando anche nella realtà questo collegamento non si dà (per esempio l’asserzione «Socrate non è nero» è vera perché nega un collegamento, quello tra Socrate e l’essere nero, che nella realtà in effetti non c’è). False sono invece quelle proposizioni che collegano ciò che non è collegato e negano un collegamento laddove esso esiste. Nell’analisi che Aristotele conduce della natura delle proposizioni, l’affermazione e la negazione costituiscono le qualità delle asserzioni. Molto importante è poi la quantità che ha a che fare con il grado di universalità del soggetto di cui si afferma o si nega qualcosa. Se dico, per esempio, che «tutti gli uomini sono bipedi» esprimo una caratteristica che si riferisce a un soggetto universale (tutti gli uomini); se invece affermo che «qualche uomo è nero» mi riferisco a un soggetto particolare (qualche uomo); se, infine, sostengo che «Socrate è bianco» sto parlando di un soggetto individuale (Socrate). Le proposizioni possono dunque essere, a seconda della loro quantità, universali, particolari o individuali. A partire dalle distinzioni appena menzionate, le quali attengono alla qualità (affermativa o negativa) e alla quantità (universale, particolare e singolare) delle asserzioni, Aristotele stabilisce poi dei rapporti di esclusione tra i giudizi relativi al medesimo soggetto. Egli osserva, per esempio, che le proposizioni universali affermative («tutti gli uomini sono bianchi») e le corrispondenti universali negative («nessun uomo è bianco») possono essere entrambe false, sono cioè contrarie, ma non contraddittorie (cioè necessariamente una vera e l’altra falsa). Le asserzioni particolari affermative («qualche uomo è bianco») e quelle particolari negative («qualche uomo non è bianco») possono risultare entrambe vere, e dunque non sono né contrarie (entrambe false) né contraddittorie (l’una vera e l’altra falsa). Contraddittorie, ossia una vera e l’altra falsa, devono invece risultare le proposizioni universali affermative («tutti gli uomini sono mortali») e particolari negative («qualche uomo non è mortale»), oppure quelle universali negative («tutti gli uomini non sono quadrupedi») e particolari affermative («qualche uomo è quadrupede»).
Particolare affermativa (per esempio: «Qualche uomo è mortale»)
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Contrarie orie ditt d a ntr Co Co ntr add itto rie
Non contrarie
Universale negativa (per esempio: «Nessun uomo è mortale») Subalterne
Le qualità delle asserzioni: affermazione e negazione
Particolare negativa (per esempio: «Qualche uomo non è mortale»)
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Unità 4 Aristotele
La teoria del sillogismo Una volta stabilita la natura delle asserzioni, Aristotele si impegna ad analizzare i rapporti che legano le asserzioni quando esse si collegano le une alle altre all’interno di un ragionamento. La teoria aristotelica del sillogismo (sylloghismòs significa appunto «ragionamento conclusivo»), sviluppata negli Analitici primi, costituisce senz’altro una delle concezioni più importanti del filosofo. Premesse e conclusione Il sillogismo è formato da tre proposizioni, due premesse e una conclusione, la quale deriva in modo necessario dalle premesse. Perché si dia un sillogismo è necessario che le due premesse abbiano un termine comune, il quale deve risultare soggetto in una e predicato nell’altra (almeno nel caso del sillogismo perfetto). Tale termine viene chiamato «medio», proprio in quanto collega, ossia media, i due estremi, i termini che si trovano in ciascuna delle due premesse per poi ricomparire insieme nella conclusione. Un esempio renderà facilmente comprensibile il meccanismo immaginato da Aristotele: Sillogismo di prima figura
La conclusione è una deduzione
La prima figura
La seconda figura
Sillogismo di seconda figura
Prima premessa
Medio (soggetto): Tutti gli animali
Estremo: sono mortali
Seconda premessa
Estremo: Tutti gli uomini
Medio (predicato): sono animali
Conclusione
Tutti gli uomini sono mortali
Come si vede, il termine «animale» compare nelle due premesse, e in posizione diversa, essendo soggetto della prima («tutti gli animali») e predicato della seconda («sono animali»). Esso fornisce dunque la mediazione tra i due estremi («uomini» e «mortali»), i quali vengono collegati nella conclusione. È molto importante tenere presente che la conclusione non rappresenta una novità rispetto alle due premesse, ma risulta in qualche modo implicita in esse. Il meccanismo del sillogismo si limita a esplicitarla attraverso un procedimento deduttivo. Questa è infatti la natura del sillogismo: di essere una deduzione che, date due premesse, ricava in modo necessario la conclusione che in esse è in qualche modo implicita. Aristotele si impegna poi in una complessa e articolata serie di distinzioni tra i differenti tipi di sillogismo. A seconda della posizione occupata e della funzione esercitata dal termine medio si hanno differenti tipi di sillogismo, che Aristotele chiama «figure». Se, come nell’esempio sopra riportato, il termine medio funge da soggetto della premessa maggiore (così chiamata perché più universale) e da predicato di quella minore, avremo un sillogismo di prima figura (ossia un sillogismo perfetto). Se invece il termine medio risulta predicato in entrambe le premesse, avremo un sillogismo di seconda figura. Ecco un esempio: Prima premessa
Estremo: Nessun uomo
Medio (predicato): è immortale
Seconda premessa
Estremo: Ogni dio
Medio (predicato): è immortale
Conclusione
Nessun uomo è un dio
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Parte prima L’età antica
Il termine medio, «immortale», è predicato in entrambe le premesse. Esso media, cioè lega, i due termini estremi, «uomo» e «dio», che ricorrono insieme nella conclusione. La terza figura Esiste poi una terza figura di sillogismo, ed è quella in cui il medio risulta soggetto in entrambe le premesse; per esempio il seguente sillogismo, dove il medio è il termine «greci»: Sillogismo di terza figura
Esplicitare, non scoprire
Prima premessa
Medio (soggetto): Tutti i greci
Estremo: sono bianchi
Seconda premessa
Medio (soggetto): Tutti i greci
Estremo: sono uomini
Conclusione
Qualche uomo è bianco
Al di là di queste distinzioni, la cosa veramente importante è rappresentata dalla natura consequenziale del ragionamento sillogistico. Nella conclusione non viene scoperto qualcosa di nuovo rispetto alle premesse, ma semplicemente esplicitato ciò che in esse risultava implicito (tra l’altro in un ragionamento sillogistico formalmente perfetto si può ricavare una conclusione falsa, se false sono le premesse). Questo significa che il sillogismo non rappresenta uno strumento euristico, ossia un mezzo per trovare nuove conoscenze, bensì un apparato dotato di finalità essenzialmente espositive. Attraverso il sillogismo, in particolare il sillogismo scientifico (di cui si parlerà immediatamente) noi non troviamo nuove verità, ma esplicitiamo quelle che sono contenute nelle premesse.
La dimostrazione e i principi delle scienze Secondo Aristotele il sillogismo – che è, lo ripetiamo, un ragionamento conclusivo – costituisce lo strumento espositivo principale di cui dovrebbero servirsi le scienze. Premesse vere In effetti, un tipo particolare di sillogismo è costituito dalla dimostrazione (apòe universali deixis), che si ha quando le premesse del sillogismo sono proposizioni vere, prime, universali e necessarie (oppure riconducibili in ultima analisi a premesse dotate delle caratteristiche appena menzionate). Se un ragionamento sillogistico, osserva Aristotele, parte da premesse vere e universali, allora esso potrà considerarsi una dimostrazione. La forma di conoscenza che si ha in questo caso è la scienza vera e propria (epistème).
T2
La dimostrazione Analitici secondi, 1,2,71b17-72a8
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Intendo per dimostrazione il sillogismo scientifico e chiamo scientifico il sillogismo in base al quale, per il fatto di possederlo, noi abbiamo scienza. Se dunque il sapere è quale abbiamo posto che fosse, è necessario che la scienza dimostrativa si costituisca a partire da premesse vere, prime, immediate, più note e anteriori rispetto alla conclusione e dunque cause di essa. In questo modo, infatti, anche i principi saranno propri di ciò che è dimostrato. Si potrà avere un sillogismo anche senza premesse di questo tipo, ma non sarà una dimostrazione, perché non produrrà scienza. […]
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Unità 4 Aristotele
Partire da premesse prime significa partire da principi appropriati. Dico, infatti, che primo e principio sono la stessa cosa. Principio è la premessa immediata di una dimostrazione, e immediata è quella premessa di cui non esiste altra anteriore. Premesse prime e principi
I principi propri a ciascuna scienza
I principi comuni, per analogia, a più scienze
T3
Principi propri e comuni Analitici secondi, 1,10,76a37-b10
Le premesse vere e universali sono per Aristotele principi della dimostrazione sillogistica. Esse rivestono anzi il ruolo di principi delle diverse scienze. Se le singole scienze presentano un andamento deduttivo, nel quale le conseguenze derivano dalle premesse e queste ultime sono a loro volta conclusioni di sillogismi precedenti, occorre riconoscere che al vertice di ogni scienza si collocano delle premesse prime e immediate, ossia non ulteriormente ricavabili da altre premesse. Queste premesse prime sono appunto i principi. Secondo Aristotele i principi delle scienze possono essere di diverso tipo. Esistono principi propri a ciascuna scienza, ossia principi che solo una determinata scienza possiede (tali sono, per esempio, l’assunzione di esistenza degli oggetti intorno ai quali la scienza verte, che Aristotele chiama ipotesi, oppure le definizioni di questi oggetti). Dal momento che, come si è già detto, la realtà si divide in generi, ossia ambiti, autonomi, i principi di ciascun genere non potranno essere derivati da quelli di un altro. Questo tuttavia non esclude che ci possano essere principi comuni a più scienze (per esempio, quello che afferma che «sottraendo uguali ad uguali si ottengono uguali», il quale trova applicazione sia nell’aritmetica che nella geometria). In questo caso, essi sono comuni «per analogia», nel senso che svolgono la medesima funzione in ambiti diversi. Scrive in proposito Aristotele: Alcuni dei principi dei quali si fa uso nelle scienze dimostrative sono propri di ciascuna scienza, mentre altri sono comuni, ma comuni per analogia, dal momento che di essi è utile solo quanto rientra nel genere sottoposto a quella scienza. Per esempio, principi propri sono che la linea sia tale e che il retto sia tale, mentre sono principi comuni che, se da eguali si tolgono eguali, i resti sono eguali. […] Sono principi propri quelli dei quali si assume che siano e a proposito dei quali la scienza studia le proprietà inerenti di per sé; per esempio, l’aritmetica studia le unità e la geometria i punti e le linee. Di queste, infatti, esse assumono che siano e che siano in un certo modo, mentre delle loro affezioni inerenti per sé assumono che cosa significhi ciascuna di esse; per esempio l’aritmetica che cosa significhino pari e dispari, […] mentre la geometria che cosa significhino l’intersecare o il convergere.
I principi comuni a tutte le scienze: principio di non-contraddizione e principio del terzo escluso Accanto ai principi propri a una singola scienza (per esempio la definizione di numero pari per l’aritmetica o quella di retta per la geometria) e ai principi comuni a più scienze (per esempio la citata norma che dice che «sottraendo uguali a uguali si ottengono uguali»), esistono addirittura principi comuni a tutte le scienze, ossia a ogni sapere. Si tratta del principio di non-contraddizione e del principio del terzo escluso (in realtà queste due denominazioni sono posteriori ad Aristotele). Ogni ragionamento sensato, e dunque anche il ragionamento scienti209
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Parte prima L’età antica
Il principio di non-contraddizione
Il «principio del terzo escluso»
Non deducibilità dei principi
La prova per via indiretta: la confutazione della negazione
T4
Dire qualcosa di sensato
Metafisica, 4,4,1006a 18-26
fico e la dimostrazione sillogistica (che è il metodo attraverso il quale prende forma la scienza), presuppongono questi due principi. Il primo principio, quello di non-contraddizione, afferma che «è impossibile allo stesso tempo e nel medesimo senso affermare e negare qualcosa in riferimento allo stesso soggetto», ossia è impossibile attribuire e non attribuire allo stesso soggetto l’identico predicato nello stesso tempo e nel medesimo significato (per esempio di Socrate dire che è bianco e che non è bianco nello stesso tempo e nel medesimo significato di «bianco»). Il secondo principio generale della logica, chiamato più tardi «principio del terzo escluso», sostiene che di un medesimo soggetto si deve affermare o negare il possesso di una certa determinazione, senza che ci sia una terza possibilità tra l’affermazione e la negazione (di Socrate si deve dire che è bianco o che non è bianco, senza che ci sia una terza possibilità). I principi della scienza – sia quelli propri sia quelli comuni a più scienze sia, infine, quelli comuni a tutte – non possono evidentemente venire ricavati da altri principi, perché, se così fosse, non sarebbero veramente principi (ossia premesse prime, essendo invece ricavabili da qualcosa di anteriore). La loro verità dovrà dunque venire garantita per mezzo di una procedura diversa dalla dimostrazione sillogistica. Nel caso dei principi comuni a tutte le scienze – ma sarebbe più corretto dire: comuni a ogni tipo di ragionamento sensato – Aristotele sostiene che la loro verità può essere provata per via indiretta, mostrando l’insostenibilità del loro rifiuto. Il principio di non-contraddizione, per esempio, viene difeso mostrando che anche colui che non lo accetta, ossia lo rifiuta, se ne serve in qualche modo, nel momento stesso in cui pretende di respingerlo. Infatti, sostiene Aristotele, ogni discorso sensato, e dunque anche il discorso che pretende di respingere il principio di non-contraddizione, deve presupporre questo principio, proprio in quanto intende essere un discorso sensato, ossia un discorso in cui le parole ricorrono sempre in un senso preciso. Insomma, è sufficiente che l’ipotetico avversario del principio di non-contraddizione dica qualcosa, e la sua stessa posizione viene confutata, perché egli è immediatamente costretto a usare le parole in un significato preciso (fosse anche un significato che solo lui conosce) e dunque a servirsi, sia pure implicitamente, del principio di non-contraddizione. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell’esigere che l’avversario dica che qualcosa o è oppure non è […] ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con gli altri; se, invece, l’avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E il responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra [il principio di non-contraddizione], ma colui che provoca la dimostrazione. Infatti, proprio allo scopo di distruggere il ragionamento […] egli si avvale di un ragionamento. Proprio in virtù dell’assoluta impossibilità di condurre un discorso senza ricorrere al principio di non-contraddizione, Aristotele definisce questo principio come l’archè bebaiotàte, ossia il principio più saldo.
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Unità 4 Aristotele L’argomentazione dialettica parte da opinioni
La dimostrazione della sua verità non viene attuata per via diretta (il che sarebbe, come si è detto, impossibile), bensì per via indiretta, ossia per confutazione della sua negazione. Una procedura di questo genere viene considerata da Aristotele, erede in questo di una tradizione che affonda le sue radici già nell’eleatismo (vedi gli argomenti di Zenone, Unità 1, p. 48 s.), di tipo dialettico. L’argomentazione dialettica, infatti, non parte da premesse vere e prime (come la dimostrazione sillogistica), bensì da opinioni, e per la precisione da opinioni diffuse o particolarmente autorevoli (che Aristotele chiama èndoxa). Esse devono risultare tali da poter essere accettate anche da colui con il quale si sta discutendo e che eventualmente si vuole convincere o confutare. Nel caso della dimostrazione dialettica del principio di non-contraddizione, il punto di partenza consiste addirittura nel concedere all’avversario di questo principio l’opinione che egli sostiene, ossia che il principio possa venire respinto. Nell’atto stesso in cui lo respinge, dicendo qualcosa, egli se ne serve, e dunque finisce con il confutare la sua stessa posizione iniziale.
I principi propri e comuni a più scienze: l’induzione Quale prova per gli altri principi scientifici?
I principi e l’atto dell’intelletto
Sensazione, ricordo, esperienza
Intelletto e universalizzazione dell’esperienza
Induzione e intelletto
Dunque i principi comuni a tutte le scienze vengono provati dialetticamente, ossia tramite la confutazione della loro negazione. E i principi propri a ciascuna scienza o comuni a più scienze? Ovviamente neppure essi possono venire dimostrati attraverso il sillogismo, perché, come si è detto, il sillogismo scientifico, cioè la dimostrazione, deve partire da premesse vere e prime, e in quanto prime esse non possono venire ricavate da altre premesse. Aristotele dimostra di essere perfettamente consapevole che i sistemi assiomatico-deduttivi non sono in grado di auto-fondarsi, dal momento che richiedono l’ammissione di principi esterni al sistema stesso (vedi Unità 5, p. 311 s.). Del resto, osserva Aristotele, se anche i principi primi fossero ricavabili da premesse ad essi antecedenti, si rischierebbe di proseguire all’infinito nella ricerca di un inizio. Se dunque i principi delle varie scienze non possono venire dimostrati, come si arriva a una conoscenza intorno ad essi? Ecco la risposta di Aristotele: egli sostiene che i principi vengono conosciuti per mezzo dell’intelletto (nous, vedi avanti, p. 227), ossia di un atto, in qualche modo infallibile, che giunge al termine di un complesso processo iniziatosi dalle sensazioni. Aristotele immagina un processo di questo tipo: la sensazione (àisthesis) si riferisce a realtà particolari (per esempio alla percezione della figura di Socrate); la ripetizione di molte sensazioni produce il ricordo (che gli uomini hanno in comune con altri animali), mentre la successione di ricordi inerenti a uno stesso oggetto genera l’esperienza (empeirìa), che è invece propria dei soli esseri umani. L’esperienza di un certo oggetto induce a cogliere in esso determinate caratteristiche universali: per esempio, l’esperienza, derivata dalla sensazione e dal ricordo, di molti uomini, induce a cogliere in essi la caratteristica universale che sono animali razionali o bipedi; l’intelletto consiste proprio nella capacità di cogliere l’aspetto universalizzabile di molte osservazioni. L’asserzione «l’uomo è un animale razionale», colta attraverso l’atto di universalizzazione dell’esperienza, cioè appunto attraverso l’intelletto, può valere come principio della dimostrazione scientifica. Aristotele chiama induzione (epagoghè) questo processo di universalizzazione che è in grado di cogliere, a partire da molti casi particolari, una caratteristica 211
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Parte prima L’età antica
universale. Ai suoi occhi l’intelletto, in quanto facoltà capace di determinare i principi della scienza, risulta in una certa misura superiore alla scienza stessa. Scrive infatti negli Analitici secondi: Poiché tra le disposizioni concernenti il pensiero, con le quali cogliamo la verità, alcune sono sempre vere, altre invece ammettono il falso, per esempio l’opinione e il ragionamento, mentre la scienza e l’intelletto sono sempre veri e poiché nessun altro genere di conoscenza è più esatto della scienza, eccetto l’intelletto, e i principi della dimostrazione sono più conoscibili e ogni scienza richiede il ragionamento, non sarebbe possibile una scienza dei principi. Ma poiché non è possibile che ci sia nulla di più vero della scienza se non l’intelletto, sarà l’intelletto a concernere i principi; da ciò risulta che principio della dimostrazione non è un’altra dimostrazione e che pertanto neppure principio della scienza è un’altra scienza. […] L’intelletto sarà principio della scienza. E questo sarà il principio del principio.
T5
L’intelletto principio della scienza Analitici secondi, 2,19,100b5-17
I principi delle scienze
Principi
Esempi
Metodo di conoscenza
Comuni a tutte le scienze
Principio di non-contraddizione e principio del terzo escluso
Argomentazione dialettica (principi provati per via indiretta)
Comuni a più scienze
Il principio per cui sottraendo uguali a uguali si ottengono uguali
Propri di ciascuna scienza
La definizione dell’uomo come bipede e razionale
Induzione (principi non dedotti)
Le scienze: struttura, pratica, esposizione Andamento dimostrativo e indimostrabilità dei principi
La scienza concreta non parte dai principi
Distinzione metodologica tra scoperta ed esposizione
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In questo modo Aristotele presenta un panorama epistemologico insieme complesso e coerente. Le scienze assumono per lui un andamento dimostrativo e si servono di sillogismi; le conclusioni dei sillogismi non fanno che esplicitare il contenuto informativo implicito nelle premesse. Ogni scienza deve però possedere premesse prime, ossia principi non dimostrabili sillogisticamente. Questi principi vengono conosciuti attraverso una disposizione esterna alla scienza, che Aristotele chiama intelletto, e che consiste in una sorta di universalizzazione induttiva dei dati empirici. Al termine di questo lungo discorso sulla struttura della scienza aristotelica bisogna però constatare che nella maggior parte delle sue opere scientifiche Aristotele non procede secondo i dettami epistemologici presentati negli scritti di logica. La scienza concreta praticata da Aristotele molto raramente assume la forma deduttiva propria della dimostrazione sillogistica (che parte da principi generali). In realtà questa discrepanza si spiega facilmente se si tiene presente che il metodo finora descritto riguarda un momento particolare della scienza, vale a dire il momento espositivo, ossia la presentazione dei risultati. Questi vengono effettivamente presentati nella forma di una catena deduttiva di proposizioni, connesse in modo consequenziale le une alle altre. Ma quando si tratta di scoprire nuove verità, ossia nell’ambito del momento euristico, Aristotele procede in ma-
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Unità 4 Aristotele
➥ Sommario, p. 255
5 La premessa nei Topici
La predicazione
Come definizione Come genere Come proprietà
Come accidente
niera sostanzialmente diversa. Egli parte dai fenomeni, sia quelli percettivi sia quelli linguistici, ossia le opinioni relative ai fenomeni, gli èndoxa; ed esamina attraverso argomentazioni di natura dialettica questi èndoxa, cercando di saggiarne la consistenza (per esempio valutando l’accettabilità delle conclusioni che derivano da certe assunzioni). In questo modo egli stabilisce, sia pure implicitamente, una fondamentale distinzione nell’ambito della scienza: la distinzione tra il momento euristico e il momento espositivo, cioè tra la scoperta e la presentazione dei risultati.
Le categorie e il primato della sostanza Alle opere di logica appartiene anche lo scritto Categorie, dal quale si possono ricavare importanti spunti circa la concezione aristotelica della realtà. Per comprendere la natura delle concezioni sviluppate in quest’opera, occorre però avere in chiaro il senso di alcune riflessioni che Aristotele presenta in un altro scritto di logica, i Topici. Aristotele si concentra sulla natura del rapporto di predicazione, quello nel quale di qualcosa (soggetto) si predica qualcosa (predicato). Al termine di un esame approfondito di tutti i casi possibili di predicazione, egli arriva a sostenere che un predicato può appartenere a un soggetto in uno di questi quattro modi: 1) come sua definizione, quando, per esempio, si dice che «l’uomo è un animale razionale»; 2) come suo genere, nel caso in cui si dice dell’uomo che è un animale (essendo animale genere della specie uomo); 3) come sua proprietà, ossia quando il predicato non esprime l’essenza, cioè la definizione, del soggetto, ma una proprietà, che, pur non essendo essenziale, appartiene solo a quel soggetto (se diciamo dell’uomo che è grammatico, ossia capace di scrivere e leggere, indichiamo una proprietà che appartiene solo all’uomo ma non a tutti gli uomini, anche se non ne costituisce l’essenza, che invece è animale razionale e appartiene a tutti gli uomini); 4) infine come suo accidente, cioè come una proprietà che può appartenere al soggetto, ma può anche non appartenergli (per esempio se diciamo dell’uomo che è bianco, ne indichiamo una proprietà che può appartenergli, ma anche non appartenergli, visto che l’uomo può essere anche nero, o diventare nero una volta che sia abbronzato).
Le dieci categorie I predicabili e le categorie
L’analisi dei tipi di predicazione non si ferma però qui. Aristotele arriva a sostenere – al termine di un esame accuratissimo dei modi in cui un predicato può relazionarsi a un soggetto nelle forme del linguaggio comune, cioè nel modo in cui noi parliamo spontaneamente delle cose –, che i quattro tipi di predicazione sopra menzionati (definizione, genere, proprietà e accidente) devono ricadere in uno di dieci casi generalissimi, ovvero in una delle dieci categorie aristoteliche (kategorìa significa appunto «predicazione»), ossia dei dieci modi in cui si può dire qualcosa di qualcos’altro, che sono: sostanza, quantità, qualità, relazione, 213
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Parte prima L’età antica
luogo, tempo, giacere, avere, agire, patire. Secondo Aristotele, dunque, i quattro predicabili ricadono per forza in una delle dieci categorie.
T6
Le dieci categorie
Categorie, 4,1b25-2a4
Delle cose che vengono dette [in se stesse] ciascuna significa o sostanza, o quantità, o qualità, o relazione, o dove, o quando, o giacere, o avere, o agire, o patire. In breve: sostanza è, ad esempio, «uomo», «cavallo»; quantità, ad esempio, «di due metri» […]; qualità, ad esempio, «bianco», «grammatico»; relazione, ad esempio, «doppio», «mezzo», «maggiore»; dove, ad esempio, «nel Liceo», «in piazza»; quando, ad esempio, «ieri» […]; giacere, ad esempio, «è sdraiato», «è seduto»; avere, ad esempio, «ha i calzari», «è armato»; agire, ad esempio, «tagliare», «bruciare»; patire, ad esempio, «essere tagliato», «essere bruciato».
Le dieci categorie Sostanza
La sostanza, la prima delle categorie, separata dalle altre
Quantità
Qualità
Relazione
Luogo
Tempo
Giacere
Avere
Agire
Patire
La natura delle categorie e il tipo di relazione che le lega viene investigato con scrupolo nello scritto dedicato a questo tema. Aristotele osserva che le dieci categorie non sono sullo stesso piano, dal momento che una di esse possiede una significativa priorità nei confronti delle altre. Questa categoria gode infatti di un’assoluta indipendenza, perché può esistere anche senza le altre, mentre queste non possono esserci senza di essa; ciò significa che una delle categorie risulta separata, ossia indipendente, dalle altre. Inoltre, aggiunge Aristotele, questa prima categoria non può venire detta delle altre, ossia non può venire predicata delle altre, mentre queste ultime sono dette, cioè predicate, di questa. In altre parole, la prima categoria è soggetto e non predicato (vedremo tra breve il caso in cui anche essa può risultare predicato), mentre le altre nove sono predicati di essa. A questo punto possiamo svelare il nome di questa categoria principale, che può essere senza le altre, mentre le altre non possono essere senza di lei (ciò significa che la presuppongono sempre). Si tratta della sostanza (ousìa). Scrive Aristotele: «Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto né si trova in qualche soggetto: ad esempio un certo uomo o un certo cavallo» (Categorie, 5,2a11-14).
Sostanze prime e seconde L’enfasi che Aristotele pone sulla natura primaria della sostanza, ossia sul fatto che essa è la prima delle categorie, è notevole. La sostanza prima: Ancora più importanti sono gli esempi di sostanza menzionati nel passo sopra riun individuo portato: «un certo uomo», «un certo cavallo». La sostanza è per Aristotele prideterminato mariamente un individuo, ossia una realtà singola (e non universale), un «questo» determinato. La struttura grammaticale del linguaggio (soggetto individuale + predicati) rivela così la struttura stessa della realtà oggettiva. Senza qualcosa di individuale e determinato verrebbe meno il termine di rife214
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rimento primario intorno a cui parlare e dire qualcosa. In effetti, senza il mio amico Alberto (sostanza), io non posso predicare che è bianco (qualità), che è alto un metro e ottanta (quantità), che è fratello di Paola (relazione), che si trova al bar dietro l’angolo (luogo), alle 12.30 del 28 gennaio (tempo), che sta giocando a biliardo (agire) e che per questo prenderà un’ammonizione dal professore (patire). Le sostanze seconde: Aristotele osserva però che non esistono solo le sostanze prime, ossia gli individui, specie e genere ma anche le sostanze seconde, le quali possono venire predicate delle sostanze prime (e solo di quelle). Per esempio, se del mio amico Alberto dico che è un uomo e dell’uomo che è un animale, predico di un soggetto (sostanza prima) la sua specie (sostanza seconda) e della specie il suo genere (ancora sostanza seconda, ma più generale). Il punto è che, per Aristotele, la priorità spetta alla sostanza prima, ossia all’individuo, nei confronti della sostanza seconda (specie e genere).
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Sostanze seconde
Categorie, 5,2a14-2b14
Sono invece dette sostanze seconde le specie nelle quali esistono quelle che vengono dette sostanze in senso primario; queste e poi i generi di queste specie. Ad esempio, un certo uomo esiste nella specie uomo, il genere di questa specie è animale. Pertanto sono queste che sono dette sostanze seconde, ad esempio uomo e animale. […] Se dunque non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose. Infatti tutte le altre cose o sono dette di queste o sono in esse; cosicché, se non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose. Delle sostanze seconde, la specie è maggiormente sostanza del genere, giacché è più vicina alla sostanza prima. Se infatti si esplicasse che cos’è la sostanza prima, se ne darà una nozione più precisa e più propria esplicando la specie piuttosto che il genere. Ad esempio, si darebbe una conoscenza più precisa di un certo uomo esplicando che è uomo piuttosto che animale – la prima cosa infatti è maggiormente propria di un certo uomo, la seconda è più comune – ed esplicando un certo albero si darà una nozione più precisa esplicando che è albero piuttosto che vegetale.
Questo brano mette in luce un aspetto molto importante della filosofia aristotelica. Nel momento in cui afferma che la specie (per esempio uomo) è più sostanza del genere (per esempio animale) in quanto più vicina alla sostanza prima (per esempio Socrate), Aristotele indica in modo chiaro l’indirizzo generale della sua impostazione, che consiste nel costante richiamo al primato dell’individuo, ossia della entità determinata e concreta, nei confronti delle entità universali. In questo motivo risiede indubbiamente uno degli elementi che lo allontanano dal suo maestro Platone, il quale ha manifestato la sua preferenza per l’universale nei confronti del particolare, quindi, in termini aristotelici, per i predicati nei con➥ Percorso tematico, p. 275 fronti dei loro soggetti. La sostanza, ossia il livello dotato di maggiore consistenza ontologica (ciò che è essere in senso primario e principale), è dunque rappresentata per Aristotele dall’individuo concreto (Socrate, questo cavallo determinato, il tavolo sul quale si trova il libro che sto leggendo). Il primo criterio che fa di una sostanza una sostanza è perciò la sua individualità, l’essere un individuo. La sostanza: soggetto Abbiamo anche notato che la sostanza si caratterizza per un elemento linguistio sostrato co, consistente nel fatto di essere soggetto e non predicato (con l’eccezione delIl primato dell’individuo, entità concreta e determinata
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le sostanze seconde che sono predicato di quelle prime: per esempio «uomo» di «Socrate»). Aristotele esprime questa idea affermando che la sostanza è soggetto o sostrato (hypokèimenon, che significa appunto «ciò che sta sotto», «ciò che soggiace») di predicazione:
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Sostrato, specie e generi Categorie, 5,2b15-22
Il linguaggio, via di accesso alla comprensione della struttura della realtà
➥ Sommario, p. 255
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Inoltre le sostanze prime, per il fatto di essere sostrato a tutte le altre cose e che tutte le altre si predicano di esse, per questo sono dette sostanze in senso principale. Ma come le sostanze prime si rapportano alle altre cose, così anche la specie si rapporta al genere: infatti la specie è sostrato al genere: poiché i generi sono predicati delle specie, mentre le specie non sono a loro volta predicati dei generi. Di conseguenza anche da queste considerazioni la specie risulta essere sostanza maggiormente del genere. Individuo, soggetto o sostrato di predicazione, indipendente dalle altre cose: la sostanza aristotelica è tutte queste cose. Vedremo più avanti come la teoria della sostanza subirà delle modifiche nel corso della riflessione aristotelica; si tratta però di modifiche che non metteranno in discussione questi tre parametri. In conclusione di questa esposizione della concezione delle categorie è necessario fare una considerazione di ordine generale. Avrai notato come Aristotele costruisca la sua dottrina delle categorie, e in particolare la sua concezione del primato della sostanza, a partire dall’analisi del linguaggio. La sostanza, egli dice, è soggetto e non predicato; la sostanza è ciò di cui si dicono le altre cose, ma essa non viene detta di queste. Per Aristotele l’analisi della struttura del linguaggio, ossia essenzialmente l’analisi della struttura soggetto-predicato, costituisce un’eccellente via di accesso alla comprensione della struttura della realtà. Questo dipende da una sua importante convinzione, quella secondo la quale il linguaggio rappresenta una sorta di specchio del mondo, nel senso che nella struttura del linguaggio si rispecchia in qualche modo la struttura ontologica della realtà. Per questo Aristotele assegna spesso allo studio dei fenomeni linguistici relativi a un certo ambito il ruolo di punto di partenza per la comprensione di quel determinato ambito della realtà.
Il divenire del mondo: principi e cause
A questo punto siamo nelle condizioni di dare effettivamente avvio all’esposizione delle dottrine aristoteliche relative al mondo. Nell’ordinamento degli scritti dovuto ad Andronico, dopo le opere di logica (che come ricorderai non riguardano un aspetto determinato della realtà, ma costituiscono uno strumento per lo studio di tutti i suoi ambiti) trovano posto i trattati di fisica, ossia gli scritti dedicati alla natura (phy`sis, appunto). La Fisica: gli aspetti La prima e più importante di queste opere è la Fisica, nella quale Aristotele pregenerali della natura senta gli aspetti più generali della sua concezione della natura (per riservare ad altri scritti lo studio dei singoli campi che la costituiscono). Prima di tutto occorre avere chiaro che cosa intenda Aristotele per «natura», o meglio a quali entità egli restringa l’ambito di ricerca della fisica. Ecco, nel brano che segue, come la questione viene impostata. 216
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Tra le cose che sono alcune sono per natura, altre per altre cause. Sono per natura gli animali e le loro parti, le piante e, tra i corpi, quelli semplici, cioè terra, fuoco, aria e acqua. Infatti diciamo che sono per natura queste cose e quelle a queste affini. Ma tutte queste cose manifestamente sono differenti rispetto a quelle che non sono costituite per natura. Ciascuna di esse infatti ha in se stessa il principio di mutamento e di stasi, alcune rispetto al luogo, altre rispetto alla crescita e alla decrescita, altre rispetto all’alterazione; un letto e un mantello invece, e qualunque altro tipo di cosa a queste affine, […] non hanno nessun impulso connaturato di cambiamento. […] Ciò sembra dire che la natura è una sorta di principio e causa del mutare e dello stare in quiete. […] Del pari nessuna delle altre cose che sono prodotte ha in se stessa il principio della propria produzione, bensì tale principio risiede in cose altre ed esterne.
Enti per natura ed enti per altre cause: il principio del mutamento
Per Aristotele gli enti per natura sono quelle realtà che hanno in se stesse il principio del mutamento (kìnesis, «movimento» / «mutamento»), o quello della stasi, e si distinguono dalle cose che non sono per natura, ma per altre cause, come per esempio in virtù dell’arte. Un prodotto dell’arte, ossia della tecnica (tèchne), è, per esempio, un letto; esso non ha in se stesso il principio del proprio essere, ossia del fatto di diventare un letto; infatti a fabbricarlo è il falegname. Viceversa una pianta rappresenta un ente «per natura» perché possiede in se stessa il principio del proprio divenire (da ogni seme di quercia nasce sempre una quercia). È molto importante tenere presente che per Aristotele il mutamento non è solamente il moto di traslazione locale, ossia il movimento spaziale; anche la crescita e la diminuzione sono una forma di mutamento, così come lo è l’alterazione (per esempio il fatto che i capelli da neri divengano bianchi). La fisica è la disciplina che si propone di studiare le realtà soggette a mutamento nel senso che abbiamo appena visto, ossia quelle entità che hanno in se stesse il principio e la causa del mutamento. Per Aristotele la conoscenza della natura, così come la conoscenza di qualsiasi altra cosa, coincide con la conoscenza delle cause e dei principi dell’ambito in questione. La fisica si propone dunque di stabilire i principi del movimento, essendo quest’ultimo il tratto che definisce le cose naturali.
Le cose per natura
Fisica, 2,1,192b8-29
Oggetto della fisica è la realtà soggetta al mutamento
Cause e principi
I principi del movimento Prima di indagare il numero e la qualità di questi principi, Aristotele deve sgombrare il campo dagli eccessi dell’eleatismo, il quale aveva negato che il divenire, ossia il movimento, facesse parte della natura (vedi Unità 1, p. 47 ss.). In realtà Aristotele non si imbarca in una vera e propria confutazione dell’immobilismo parmenideo; egli si limita a osservare che il movimento è parte integrante della phy`sis, come attestano ampiamente i sensi (l’accettazione dell’evidenza fenomenica costituisce uno dei punti in cui Aristotele si distingue da Platone). Indagine sui principi Stabilito che il mutamento (sia nel senso del movimento locale, sia in quello più del divenire: i contrari generale del divenire) costituisce l’elemento caratterizzante della natura, Aristotele ha il problema di reperire i principi (archài) di questo divenire. A tal fine, egli inizia con il prendere in considerazione le opinioni dei suoi predecessori, secondo un metodo di indagine per lui tipico. Egli constata che, per molti di coloro che pri-
In difesa del movimento
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I contrari secondo Aristotele: privazione e forma
Il sostrato o soggetto: ciò che permane nel processo del divenire
Il sostrato o sostanza
La materia: l’elemento soggiacente
I principi del divenire
ma di lui hanno indagato la natura, i principi del divenire sono i contrari (caldo e freddo, amicizia e contesa, condensazione e rarefazione). Dal momento che le opinioni – soprattutto se dotate di un elevato grado di condivisione – difficilmente risultano del tutto errate, anche a proposito dei principi del divenire la tesi che li individua nei contrari ha buone possibilità di essere, almeno in parte, corretta. In effetti, afferma Aristotele, i contrari sono principi del divenire. Non si tratta, tuttavia, degli elementi stabiliti dai suoi predecessori, ma di due contrari dotati della massima generalità. Dal momento che ogni processo di cambiamento presenta una fase iniziale, in cui l’entità che diviene è priva del carattere che acquisirà alla fine del processo, e una fase finale, in cui questo carattere risulta finalmente presente, Aristotele arriva a sostenere che la privazione (stèresis) e la forma (èidos) rappresentano i contrari al cui interno avviene ogni processo naturale. La forma è esattamente quella condizione che l’ente soggetto a divenire assume alla fine del processo, mentre la privazione costituisce lo stadio in cui questa forma è ancora assente. Tuttavia, sostenere che i contrari, ossia forma e privazione, sono principi del divenire non è ancora sufficiente. Aristotele osserva infatti che se non si ammette tra i principi anche ciò che diviene, il processo del divenire perderebbe di unità. Non basta dunque avere individuato la forma e la privazione; occorre postulare un terzo principio, ossia quel qualcosa che passa da una condizione di mancanza di forma, cioè di privazione, a una condizione di pieno possesso della forma stessa. Per Aristotele questo terzo principio è il sostrato o soggetto (hypokèimenon, vedi «Parole chiave», p. 256), ossia quel termine che permane nel passaggio dalla privazione alla forma. Se, per fare il solito esempio, dobbiamo spiegare il fatto che il nostro amico Alberto da bianco diventa nero (perché ha trascorso l’estate al mare), ossia dobbiamo individuare i principi di un determinato processo naturale, potremo dire che Alberto è il soggetto-sostrato del mutamento, che non-nero è la privazione e che nero è la forma, ossia la condizione finale assunta dal sostrato al termine del processo. Aristotele chiama il terzo principio anche sostanza (ousìa, vedi «Parole chiave», p. 256), riallacciandosi in questo modo alla teoria sviluppata nello scritto sulle Categorie. In effetti, il sostrato è proprio ciò senza di cui non si potrebbe parlare di mutamento, perché non esisterebbe nulla che muta. In questo senso si comprende la sua vicinanza con la nozione di sostanza, che è la categoria senza la quale neppure le altre potrebbero esistere. Per spiegare la natura del sostrato, che in un certo senso è anche la materia (hy`le) del divenire, Aristotele ricorre all’esempio della statua di bronzo: la figura che questa statua assume, per esempio quella del guerriero Achille, è appunto la forma; lo stato iniziale, ossia quello del bronzo non ancora lavorato, rappresenta la privazione, mentre il bronzo stesso è la materia, ossia ciò che permane dall’inizio alla fine del divenire (l’elemento soggiacente). Fasi del divenire
Principi contrari
Fase iniziale
Privazione (stèresis): stadio in cui la forma è ancora assente
Fase finale
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Forma (èidos): condizione che l’ente assume alla fine del processo
Elemento che permane (terzo principio): Sostrato (hypokèimenon) o sostanza (ousìa)
La natura del sostrato è in un certo senso anche la materia (hy`le) del divenire
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Unità 4 Aristotele Principi identici per analogia, ossia in senso funzionale
Un esempio
La ricerca della funzione, ossia il ruolo delle entità
È molto importante avere ben chiaro che i principi del divenire non sono vere e proprie entità, identiche in tutti i processi. Non si deve infatti credere che ci siano un’unica materia, un’unica privazione e un’unica forma. Questi tre principi sono gli stessi in tutti i processi solo per analogia, nel senso che l’elemento che funge da privazione in un certo processo non è lo stesso di quello che svolge la stessa funzione in un altro; essi, dice Aristotele, sono gli stessi non numericamente, ma per analogia, ossia funzionalmente. Tutto ciò risulterà chiaro con un esempio. Se devo spiegare il processo che riguarda il diventare grammatico di Socrate, ossia il fatto che Socrate impara a leggere e a scrivere, dirò che la forma è rappresentata dall’essere grammatico, la privazione dal non essere grammatico, mentre il soggetto-sostrato è ovviamente costituito da Socrate stesso. Se poi devo spiegare la formazione di una statua di bronzo raffigurante Zeus, dirò che la statua con la forma del dio è la forma, la massa di bronzo priva di forma è la privazione, mentre il bronzo stesso non può che identificarsi con la materia-sostrato. Come si vede, i principi dei due processi non sono i medesimi in senso assoluto, ma lo sono in senso funzionale, dal momento che, per esempio, il bronzo nel secondo processo svolge la medesima funzione di materia svolta da Socrate nel primo (e questo vale anche per gli altri due principi). Questo aspetto è molto importante, perché mette bene in evidenza la tendenza di Aristotele a interpretare la realtà attraverso un’analisi che potremmo chiamare trasversale. Non è tanto importante stabilire quali entità svolgano un certo ruolo, bensì il ruolo stesso, ossia la funzione.
Potenza e atto Quanto appena detto viene poi confermato dal fatto che Aristotele utilizza un’altra coppia di nozioni per comprendere i processi del divenire. Egli osserva, prima di tutto, che non ogni materia è destinata ad assumere qualsiasi tipo di forma finale: per esempio, un insieme di mattoni può diventare una casa, ma non una nave. Ciò significa, secondo Aristotele, che il divenire è in verità retto da una sorta di tendenza che trasforma una certa potenzialità in realtà; in altre parole, a diventare una casa potrà essere solo quella materia che è potenzialmente in grado di assumere quella certa forma. Potenza e atto Ecco dunque introdotte due ulteriori nozioni: quella di potenza (dy`namis) e quella di atto (enèrgheia o entelècheia). Una certa cosa assume una certa forma, ossia diventa qualcosa di determinato (per esempio una casa), se la materia da cui il processo è partito risulta potenzialmente in grado di diventare ciò che è diventata (nel nostro caso i mattoni sono in potenza ciò che diventeranno in atto, ossia la forma che assumeranno: nel nostro esempio una casa). Le tendenze della materia
Dalla potenza all’atto
Potenza (dy`namis)
Atto (enèrgheia o entelècheia)
Una certa materia è potenzialmente in grado di assumere una data forma
La materia assume la forma finale che possedeva in potenza
Esempio: i mattoni sono potenzialmente in grado di diventare una casa
Esempio: i mattoni formano effettivamente una casa
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Parte prima L’età antica Il divenire naturale tende a uno scopo (finalismo)
L’introduzione delle nozioni di potenza e atto è molto importante perché intorno ad esse Aristotele costruisce la sua concezione del divenire naturale, che ai suoi occhi è esattamente il passaggio dalla potenza all’atto, ossia la realizzazione di una potenzialità contenuta già nella materia. Vedremo, infatti, come i processi fisici che accadono nel mondo sono per Aristotele l’espressione di un finalismo o teleologismo (dal greco tèlos che significa «fine», «scopo») che caratterizza la natura, il quale si realizza nel passaggio dalla potenza all’atto. Ma prima di tornare su questo punto, è giunto il momento di esaminare da vicino la sua concezione delle quattro cause.
Le cause
La natura, come l’arte, muove in vista di un fine
L’arte imita la natura: stessa struttura causale Le quattro cause
Materiale Formale Motrice
Finale
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Le quattro cause Fisica, 2,3,194b23-35
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Il divenire si spiega dunque attraverso il ricorso a tre principi: la materia, la privazione e la forma. Secondo Aristotele, una comprensione ancora più approfondita della dinamica che regola il divenire, ossia la nascita e la trasformazione delle cose, può venire raggiunta per mezzo della teoria delle quattro cause, la quale non è che uno sviluppo della concezione dei principi. In effetti, l’introduzione della teoria delle cause consente ad Aristotele di mettere in luce la natura finalisticamente orientata dei processi fisici che accadono nel mondo. Il punto decisivo del ragionamento di Aristotele consiste nel richiamare il fatto che anche la natura, esattamente come l’arte, muove in vista di un fine (solo che nell’arte questo finalismo è immediatamente visibile, mentre nella natura appare in qualche modo celato). Il presupposto da cui prende avvio l’argomentazione di Aristotele è che l’arte imita la natura, ossia presenta una struttura causale simile a quest’ultima. Ma se è così, per comprendere come si comporta la natura, può essere utile indagare la struttura causale della produzione artistica, ossia della tèchne. Prendiamo dunque un qualsiasi manufatto. Per esempio, il tavolo sul quale è appoggiato il libro che sto leggendo. Secondo Aristotele il suo essere tavolo è prodotto in virtù dell’intervento di quattro cause: 1) la prima è la materia di cui esso è fatto, poniamo il legno: questa è la causa materiale; 2) abbiamo poi la forma che il tavolo assume, cioè la sua struttura formale (il modo in cui la materia è disposta): si tratta della causa formale; 3) il terzo componente che interviene è rappresentato da ciò che ha prodotto il tavolo, ossia da colui che ha impresso il movimento e ha fatto sì che quella data materia assumesse quella determinata forma (nel caso del tavolo sarà il falegname): si tratta della causa motrice o efficiente; 4) infine, gioca un ruolo fondamentale il fine per cui il tavolo è stato costruito (per esempio sorreggere libri e computer): e questa è la causa finale. Ecco come Aristotele presenta questa sua teoria: Ora, in un modo è detto causa ciò da cui, come costituente interno, una cosa viene ad essere: per esempio, il bronzo è causa della statua, l’argento del calice. […] In un altro modo sono detti causa la forma e il modello, cioè la definizione in cui consiste l’essere: per esempio il rapporto 2/1 e in generale il numero sono causa dell’ottava. […] Altrimenti ancora, è detto causa ciò da cui è dato il principio primo del cambia-
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mento: per esempio è causa chi ha preso la decisione, il padre del figlio, in generale ciò che produce di ciò che è prodotto e ciò che fa cambiare di ciò che cambia. Altrimenti ancora, è detto causa il fine, cioè «ciò in vista di cui»: per esempio, la salute del passeggiare. Infatti, perché uno passeggia? Rispondiamo: per essere sano, e così dicendo riteniamo di avere reso la causa. Ampiezza e completezza della nozione di causa
Le quattro cause
Da quanto appena detto, e soprattutto dalle parole di Aristotele sopra riportate, risulta chiaro che il grande filosofo aveva un’idea di causa sostanzialmente diversa da quella con la quale noi siamo abituati a fare i conti. La nostra idea di causa è limitata a ciò che produce qualche cosa come suo effetto; viceversa la nozione di causa aristotelica è molto più ampia e comprende tutte le componenti (materiali, formali, efficienti e finali) che fanno sì che una certa cosa esista (nel modo in cui esiste) o che un certo processo si sia determinato. Causa
Definizione
Esempio del tavolo
Materiale
La materia di cui l’ente è costituito
Il legno
Formale
La forma assunta dall’ente, ovvero il modo in cui la materia è disposta
La forma specifica (tonda, quadrata ecc.)
Motrice o efficiente
Ciò che ha determinato il mutamento
Il falegname che l’ha prodotto
Finale
Il fine, lo scopo per il quale è avvenuta la produzione
Il poter sorreggere qualcosa (un libro, un computer ecc.)
Arte e natura È altresì evidente che la dottrina delle cause rappresenta non un’alternativa alla concezione dei principi, ma uno sviluppo e un approfondimento; basterà notare che le due teorie sono strettamente connesse: il principio della forma racchiude in sé la causa formale e quella finale; il principio della materia-sostrato risulta sostanzialmente identico alla causa materiale; l’unica novità è costituita dalla causa motrice, la cui introduzione è dovuta, come detto, all’analogia con la produzione tecnica. Anche le cause, esattamente come i principi, non sono le stesse per tutte le cose, ma sono identiche solo per analogia (nel senso sopra spiegato per cui ciascuna delle quattro cause di una certa cosa, per esempio un letto, risulta funzionalmente analoga alla corrispondente causa di un’altra cosa, per esempio una casa: il legno corrisponde ai mattoni, il falegname al muratore, il sorreggere all’abitare). Enti naturali Secondo Aristotele il ricorso all’esempio dell’arte è funzionale a chiarire la nae manufatti tura delle cause che agiscono nell’ambito della natura (appunto perché l’arte non fa che imitare la natura). Gli enti naturali presentano dunque le medesime cause individuate nel caso dei manufatti. Un esempio Facciamo un esempio e prendiamo il nostro solito amico Alberto. Si tratta di un essere vivente, e dunque anche di un’entità fisica, ossia naturale (esistente per natura). Anche Alberto avrà una causa materiale: si tratta della materia di cui è fatto il suo corpo, cioè le ossa, il sangue, la pelle ecc.; la sua causa formale sarà
Stretta connessione tra principi e cause
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Parte prima L’età antica
La coincidenza di tre cause
Nella natura, come nell’arte, c’è un fine
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Il fine nella natura
Fisica, 2,8,199a15-32
➥ Tesi a confronto, p. 268
➥ Sommario, p. 255
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il modo in cui quella data materia è organizzata, ossia appunto il principio di organizzazione della materia; trattandosi di un essere vivente, questo principio di organizzazione non può che essere, come vedremo (p. 229 ss.), l’anima; la causa efficiente o motrice di Alberto sarà invece ciò che ha dato avvio alla sua generazione, il principio primo del movimento; nel suo caso i genitori, e in particolare il padre, il quale, secondo Aristotele, è il responsabile della trasmissione della forma specifica di Alberto (cioè del suo essere un uomo), mentre alla madre si deve la responsabilità della materia (da lei trasmessa per mezzo del sangue mestruale); infine la causa finale di Alberto non può che essere la piena realizzazione della sua forma, ossia dell’anima; questa piena realizzazione sarà, come vedremo più avanti, la felicità, che è il fine dell’uomo (oltre che, come per tutti gli esseri viventi, la riproduzione della specie). Aristotele non manca di osservare che nel caso degli esseri viventi tre cause su quattro finiscono con il coincidere. In effetti, la forma e il fine sono già immediatamente la stessa cosa, trattandosi dell’anima e della sua piena realizzazione (ossia del pieno sviluppo delle sue potenzialità); ma anche la causa motrice appartiene al medesimo ambito, perché, se è vero che il padre non è identico al figlio, è però vero che la forma, pur non essendo identica dal punto di vista numerico (l’anima del padre di Alberto non è la stessa di Alberto), è identica dal punto di vista della specie (essendo l’anima di un uomo). Dunque, dal punto di vista specifico, anche la causa motrice è identica a quella formale e finale. L’analogia tra natura e arte serve ad Aristotele soprattutto per dimostrare che anche nella natura è attivo un orientamento finalizzato, cioè teleologico. Nell’arte questo orientamento è chiaramente percepibile. Ma il fatto che nella natura sia meno immediatamente evidente, non significa che vi sia assente. Quindi l’agire tecnico è in vista di ciò che è naturale. In generale, talora la tecnica completa le cose che la natura non può portare a compimento, talora imita ciò che la natura compie. Quindi, se ciò che è secondo una tecnica è in vista di qualcosa, è chiaro che lo è anche ciò che è secondo natura. […] Ciò è manifesto soprattutto negli animali diversi dall’uomo, i quali fanno cose non per tecnica, né indagando, né deliberando. Di qui viene che alcuni sollevino la questione, se i ragni, le formiche e gli animali a questi affini operino con un’intelligenza o con qualcos’altro. Spingendosi un poco più avanti in questa direzione, anche nelle piante si vedono prodursi cose convenienti al fine (le foglie, per esempio, si producono per la protezione del frutto). Allora, se sia per natura sia in vista di qualcosa la rondine fa il nido e il ragno la tela, e se le piante fanno le foglie per i frutti e mandano le radici non in alto ma in basso per il nutrimento, è manifesto che c’è questo tipo di causa nelle cose che vengono ad essere per natura. E dato che la natura ha due aspetti, quello di materia e quello di forma, e quest’ultimo è il fine, mentre il resto è per il fine, la causa nel senso di «di ciò in vista di cui» sarà la forma. Dunque, ciò che accade nella natura accade in vista di un fine e la causa finale orienta il divenire naturale (al contrario di quanto pensavano gli atomisti, per i quali non esiste un fine nella natura). Vedremo (p. 229 ss.) come questa idea eserciti un ruolo decisivo nella concezione aristotelica degli esseri viventi e in generale della natura.
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La struttura dell’universo: cosmologia e teologia
Si è osservato che la nozione centrale dell’intera impalcatura della fisica aristotelica è quella di mutamento (kìnesis). Abbiamo anche constatato che per Aristotele il mutamento è di diversi tipi: accanto al movimento locale, ossia allo spostamento di luogo, c’è il mutamento secondo la sostanza, che equivale alla generazione di qualcosa che prima non esisteva (per esempio la nascita di un uomo o di un animale); il movimento può essere anche di natura quantitativa, interessare cioè la categoria della quantità (per esempio la crescita di un essere vivente); oppure di natura qualitativa e riguardare la categoria di qualità (pensa a un frutto che maturando cambia colore). Non c’è dubbio, comunque, che per Aristotele il movimento locale continua a occupare una posizione di primo piano nel complesso della sua trattazione. Tre nozioni Se il movimento è la nozione centrale della fisica aristotelica e se l’opera che si fondamentali: luogo, intitola Fisica si propone di studiare gli aspetti generali della natura, è ovvio che vuoto e tempo essa sia in larga misura dedicata al tema del movimento. In tale contesto si comprende come Aristotele si concentri a lungo su una serie di nozioni che riguardano il movimento, pur non essendo identiche ad esso. Troviamo così nella Fisica una lunga trattazione del luogo (tòpos), che rappresenta ciò in cui avviene il movimento; del vuoto, la cui esistenza viene, in polemica con gli atomisti, radicalmente negata; del tempo (chrònos), che Aristotele definisce come «il numero del movimento secondo il prima e il poi»; in effetti, senza la percezione da parte dell’anima del movimento di qualcosa non può esserci percezione del tempo, il quale risulta dunque inestricabilmente collegato al movimento.
Centralità del movimento nella fisica aristotelica
Dalla fisica alla cosmologia
Movimento circolare e rettilineo
La natura dei quattro elementi determina il tipo di moto
Gli strati dell’universo e i «luoghi naturali»
La teoria del movimento, e in particolare la concezione dei moti naturali, rappresenta poi l’ambito nel quale Aristotele tenta di stabilire una connessione tra la fisica e la cosmologia. Si tratta di una riflessione di importanza epocale, destinata a egemonizzare il pensiero occidentale fino alle porte dell’età moderna. Secondo Aristotele esistono due tipi di movimento naturale, quello circolare e quello rettilineo (stiamo ovviamente parlando del movimento di traslazione). Nel mondo terrestre i moti naturali sono di tipo rettilineo, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso (ogni altro movimento, per esempio quello parabolico, è forzato e non naturale, come nel caso del lancio di pietre o frecce). Dunque, nel mondo terrestre esistono solo due tipi di movimento rettilineo, quello dal centro (dal basso in alto) e quello verso il centro (dall’alto in basso). In questo stesso mondo ci sono, secondo Aristotele (che qui riprende una celebre concezione presocratica), quattro elementi primari, ossia quattro corpi semplici: l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco. Dunque, conclude Aristotele, la natura di ciascuno di questi corpi semplici determina il tipo di moto naturale delle cose composte in prevalenza di quell’elemento. Due di questi corpi tenderanno a muoversi verso l’alto (aria e fuoco), due verso il basso (acqua e terra). Aristotele immagina l’universo come una totalità piena di materia distribuita a strati. Il centro, ossia la parte più bassa, è occupato dalla terra; quindi si trova l’acqua; in alto hanno il loro luogo naturale l’aria e il fuoco (che è l’elemento si223
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Parte prima L’età antica
tuato più in alto). I moti naturali dei corpi si spiegano postulando il principio secondo cui gli elementi tendono a occupare il loro luogo naturale e ivi a restare. Dunque la terra e l’acqua (e i corpi che sono composti prevalentemente di esse, come le pietre, la pioggia, gli stessi organismi animali) tenderanno a dirigersi verso il basso, mentre il fuoco e l’aria verso l’alto (come le fiamme). Luoghi e movimento dei corpi
Luoghi naturali dei quattro elementi Alto
Fuoco (quello più in alto)
Movimento rettilineo dei corpi Verso l’alto (si allontana dal centro)
Aria Acqua Basso (centro dell’universo)
Il movimento circolare degli astri presuppone una diversa materia costitutiva
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Movimenti rettilinei o circolari
Sul cielo, 1,2,268b14269b17
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Terra (quello più in basso)
Verso il basso (va verso il centro)
Si è detto però che i moti naturali sono di due tipi: rettilineo (dal centro e verso il centro) e circolare. Ora, l’evidenza osservativa ci permette di constatare che gli astri (che sono corpi fisici) si muovono di moto circolare. Dal momento che il loro moto circolare non può che essere naturale (è infatti impensabile che gli astri si muovano perché forzati) e dal momento che il tipo di moto circolare dipende dalla natura del corpo di ciò che si muove, non si potrà evitare la seguente conclusione: gli astri sono composti di una materia diversa rispetto a quella di cui sono formati i corpi collocati nel mondo terrestre. Ecco il ragionamento di Aristotele: Noi diciamo che tutti i corpi e grandezze naturali sono di per sé capaci di mutamento di luogo; diciamo infatti che la natura è per essi principio di mutamento. Ogni mutamento di luogo è o rettilineo o circolare o misto di questi: soltanto questi due spostamenti infatti sono semplici. […] Circolare è lo spostamento intorno al centro, rettilineo quello verso l’alto e verso il basso. Chiamo «verso l’alto» lo spostamento che si allontana dal centro, «verso il basso» quello che va verso il centro. Di conseguenza ogni spostamento semplice è di necessità o dal centro o verso il centro o attorno al centro. […] Poiché tra i corpi gli uni sono semplici, gli altri composti di questi […], è necessario che anche i movimenti siano gli uni semplici, gli altri in qualche modo misti, e che i movimenti dei corpi semplici siano semplici, quelli dei corpi composti siano misti, ma determinati dalla componente dominante. Se dunque vi è un movimento semplice, il movimento circolare è semplice, e il movimento del corpo semplice è semplice e il movimento semplice è proprio di un corpo semplice (infatti, anche l’eventuale movimento semplice di un composto sarà determinato dalla componente dominante), di necessità vi è un corpo semplice tale da spostarsi del movimento circolare secondo la propria natura. Infatti è possibile che per una violenza un corpo si sposti di movimento proprio di un altro e diverso corpo, ma è impossibile che ciò avvenga secondo natura, se è vero che il movimento secondo natura di ciascuno dei corpi semplici è uno solo. […] E invero lo spostamento circolare è necessariamente anche primo. Infatti ciò che è compiuto precede nella natura ciò che è incompiuto. Ma il cerchio è una
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cosa compiuta, mentre nessuna linea retta lo è: non lo è la retta infinita (avrebbe infatti una fine e un compimento), né nessuna di quelle finite (infatti, poiché è possibile prolungare qualsiasi retta finita, tutte hanno qualcosa di esterno). Di conseguenza, se il movimento che precede è proprio di un corpo che precede nella natura, e se il movimento in linea retta è proprio dei corpi semplici (il fuoco si sposta infatti in linea retta verso l’alto, i corpi terrosi in basso verso il centro), di necessità anche il movimento circolare è proprio di uno dei corpi semplici: si è detto infatti che lo spostamento dei corpi è determinato dalla componente dominante nella mescolanza dei corpi semplici. Da queste considerazioni risulta chiaramente che oltre alle cose composte quaggiù vi è un’altra realtà corporea naturale, più divina di tutte queste e primaria rispetto a esse. La conclusione di Aristotele è abbastanza clamorosa. L’universo – questo è il senso del suo ragionamento – è diviso in due parti: il mondo terrestre, che viene solitamente chiamato «mondo sublunare» (ossia al di sotto della Luna), è materialmente composto dai quattro elementi della tradizione empedoclea; al di sopra di esso si trova il mondo astrale, che è costituito di una materia diversa da quella dei quattro corpi terrestri, il quinto elemento. Aristotele chiama questo quinto corpo etere; esso «è dotato di una natura tanto più nobile quanto più è distante dai corpi che si trovano quaggiù». A differenza dei corpi del mondo sublunare, l’etere non ha né pesantezza né leggerezza. Ma la cosa veramente importante è un’altra. Etere e incorruttibilità Abbiamo visto che l’ammissione dell’etere è anche motivata dall’esigenza di degli astri spiegare l’esistenza di un moto naturale, quello circolare, strutturalmente differente rispetto ai moti naturali del mondo sublunare (che sono rettilinei). In verità l’etere spiega un’altra caratteristica fondamentale dei corpi astrali, ossia la loro incorruttibilità. Astri eterni e divini Infatti – argomenta Aristotele – la composizione materiale dei corpi è causa non solo del tipo di movimento locale che li caratterizza, ma anche del mutamento in senso lato. I corpi terrestri, essendo costituiti dai quattro elementi empedoclei, risultano corruttibili (cioè suscettibili di trasformazione, decadenza, dissoluzione, nel caso dei viventi, di morte); viceversa, gli astri, composti di etere, sono incorruttibili. Questo significa che l’unico mutamento che conoscono è lo spostamento locale in circolo. Essi sono eterni, incorruttibili e per questo possono venire assimilati agli dèi. L’universo: mondo sublunare, costituito dai quattro elementi, e mondo astrale, costituito dal quinto elemento, l’etere
T13
Il luogo degli dèi Sul cielo, 1,3,270b4-24
È chiaro poi che sia il nostro discorso è testimone a favore delle opinioni comuni, sia queste lo sono a favore di quello. Tutti gli uomini infatti hanno una concezione degli dèi, e tutti assegnano al divino il luogo più in alto, sia Barbari che Greci (quanti almeno credono all’esistenza degli dèi), evidentemente in quanto pensano che ciò che è immortale è congiunto a ciò che è immortale; è impossibile altrimenti. Se dunque esiste – come esiste – un divino, anche ciò che si è detto ora sulla prima realtà corporea è stato detto correttamente. Anche l’osservazione sensibile è sufficiente a portare a questa conclusione: in tutto il tempo passato, infatti, in base alle memorie che gli uomini si sono tramandati gli uni agli altri, l’ultimo cielo [il cielo delle stelle fisse] non sembra avere subito nessun cambiamento né nel suo insieme né in nessuna delle parti che gli sono proprie. […] 225
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Parte prima L’età antica
Fu dunque in quanto pensavano che il primo corpo fosse qualcosa di diverso dalla terra, dal fuoco, dall’aria e dall’acqua, che essi chiamarono etere il luogo più alto, derivando per esso questa denominazione dal suo «correre sempre» [aèi thèin] per l’eternità.
Un universo pieno, finito e stratificato
Un universo unitario
L’eternità del mondo e la sua causa prima
Una causa eternamente in atto
La sfera delle stelle fisse
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Questa separazione tra terra e cielo sarà destinata a segnare l’intero corso della cultura e della scienza occidentali fino a Galileo, il quale si impegnerà a dimostrare che anche i corpi celesti (per esempio la Luna) sono composti dello stesso materiale della Terra. L’universo aristotelico è dunque un’entità piena (abbiamo visto che non esiste il vuoto), finita (per Aristotele non esiste neppure una sostanza infinita e dunque il mondo è, diversamente da quanto pensavano gli atomisti, finito) e in qualche modo stratificata. Nella regione sublunare si trovano, disposti dal centro alla periferia, la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco; al di sopra, nella sfera astrale, l’etere, che è la sostanza di cui sono composti i corpi celesti. Naturalmente le quattro zone del mondo sublunare non sono affatto separate le une dalle altre; esiste una comunicazione incessante, uno scambio di posto tra gli elementi, che sono portati a tornare al loro luogo naturale. I fenomeni meteorologici sono l’esempio più evidente di questi processi di trasformazione degli elementi terrestri. D’altra parte, secondo Aristotele, anche il mondo astrale esercita una qualche influenza sui processi fisici che accadono nel mondo sublunare. Pensa, per esempio, all’azione esercitata dalla Luna sulle maree o a quella del movimento annuale del Sole, che determina il cambiamento delle stagioni. L’universo, sebbene diviso in due regioni ben distinte, costituisce comunque una realtà unitaria, la cui caratteristica fondamentale è costituita, come più volte sottolineato, dal mutamento. Secondo Aristotele il mondo è eterno: non ha avuto inizio e non avrà fine. Eterne e immodificabili sono, come diremo meglio a proposito degli scritti biologici, le specie che lo abitano. Dal momento che è eterno e si trova in costante movimento (generazione e corruzione, moto locale, alterazione ecc.), per conoscerlo in modo autentico occorre individuare la causa (prima) di questo movimento (non dimenticare che conoscere qualcosa vuole dire per Aristotele conoscerne la causa). Se il mondo è eterno ed eterno è anche il movimento che lo attraversa, la causa di questo movimento non potrà che essere eterna. Inoltre dovrà essere una causa eternamente in atto, dal momento che, se fosse in potenza, avrebbe bisogno di qualcosa che renda possibile il passaggio dalla potenza all’atto (per Aristotele solo ciò che è in atto può mettere in moto qualcos’altro, ossia consentire il passaggio dalla potenza all’atto). Abbiamo visto che l’esistenza del divenire nel mondo sublunare dipende in qualche misura dal movimento del cielo, ossia del mondo astrale. E il primo movimento del cielo è quello della sfera delle stelle fisse. Aristotele, seguendo un’opinione dominante tra gli astronomi antichi (almeno a partire dall’Accademia), immagina che le stelle della volta celeste siano «incastonate» su una sfera. Per questo, diventa fondamentale individuare la causa del movimento della sfera delle stelle fisse, da cui dipendono in varia misura tutti i movimenti del cosmo (dei pianeti, del Sole, della Luna – considerati pianeti dagli antichi) e poi i movimenti del mondo sublunare.
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Unità 4 Aristotele
Dalla cosmologia alla teologia
Il motore immobile, causa prima del movimento degli astri
Il nous: primo motore immobile
«Pensiero di pensiero»
Il primo motore «muove in quanto amato»
Amore come desiderio di imitazione della perfezione
T14
Il primo motore immobile Metafisica, 12,7,1072a22-b30
La soluzione escogitata da Aristotele rappresenta certamente una delle sue teorie più controverse. Egli la espone in modo compiuto nel XII libro della Metafisica (composto quasi sicuramente in età giovanile). Il problema a cui occorre trovare soluzione è dunque il seguente. Quale realtà può muovere il cielo delle stelle fisse, restando però immobile, perché, se si muovesse, occorrerebbe trovare anche per essa un ulteriore motore? Dunque: che cosa è e come muove un motore immobile? Deve trattarsi di qualcosa di immateriale, perché, se fosse materiale, si muoverebbe anch’esso (abbiamo visto infatti che sia i corpi composti dai quattro elementi terrestri, sia quelli composti di etere si muovono). Questo motore deve dunque essere atto puro (e non potenza), forma pura (e non materia), eterno (come il movimento che deve spiegare), ma immobile. L’unica realtà che risponde a tutte queste caratteristiche, che Aristotele chiama il primo motore immobile, è la divinità, concepita però non come persona, alla maniera degli dèi omerici, bensì come Intelletto, ossia pensiero (nous). Il pensiero è una realtà fisicamente immobile, muove senza contatto e non è materiale. L’attività dell’Intelletto è quella di pensare. Si tratta di un pensiero eterno e mai interrotto (a differenza di quello umano, che è intervallato). Ma un pensiero rivolto a che cosa? Non a una realtà inferiore, perché, se così fosse, vedrebbe irrimediabilmente sminuito il suo statuto ontologico, ossia il suo prestigio. Il pensiero del primo motore immobile non potrà che rivolgersi alla realtà più alta in assoluto, cioè a se stesso: sarà – come scrive Aristotele – «pensiero di pensiero». Ma come muove il primo motore immobile? La risposta aristotelica è che questo motore (atto puro, forma pura, pensiero di pensiero) muove in quanto è oggetto di amore da parte del cielo. L’attrazione prodotta dall’amore e dal desiderio pare infatti ad Aristotele l’unica modalità in cui un motore può muovere qualcosa senza risultare lui stesso mosso: se desidero un oggetto mi muovo verso di esso o comunque faccio qualcosa in funzione di esso, senza che quest’ultimo si muova. Il primo motore immobile, dice dunque Aristotele, «muove in quanto amato». Ma amato da chi? Probabilmente dagli astri o meglio dalle sfere in cui essi si trovano (le quali dovranno, per potere amare, possedere un’anima). «Amore» significa qui desiderio di imitare la perfezione, cioè l’assoluta immobilità, del primo motore; le sfere astrali, in quanto composte della materia eterea, non possono essere del tutto immobili, ma si avvicinano a questa condizione grazie al loro moto circolare, che è uniforme ed eterno, senza principio né fine. Tutto ciò significa che la causa efficiente del movimento del cosmo (ossia il suo motore) è in realtà una causa finale (cioè il fine che genera movimento nelle altre cose). Ecco il ragionamento che conduce Aristotele, una volta ammessa la natura eterna del movimento del cielo, a indicare nel motore immobile, pensiero di pensiero, la causa di questo movimento: C’è qualcosa che sempre si muove di moto continuo, e questo è il moto circolare (ciò è evidente non solo dal ragionamento ma anche come dato di fatto); cosicché il primo cielo [quello delle stelle fisse] deve essere eterno. Pertanto, c’è anche qualcosa che muove. E poiché ciò che è mosso e muove è un termine intermedio, deve esserci, per conseguenza, qualcosa che muova senza essere mosso e 227
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che sia sostanza eterna ed atto. E in questo modo muovono l’oggetto del desiderio e dell’intelligenza: muovono senza essere mossi. Ora, l’oggetto primo del desiderio e l’oggetto primo dell’intelligenza coincidono: infatti oggetto del desiderio è ciò che appare a noi bello e oggetto primo della volontà razionale è ciò che è oggettivamente bello […] Dunque il primo motore muove come ciò che è amato, mentre tutte le altre cose muovono essendo a loro volta mosse. Ora, se qualcosa si muove, può anche essere diverso da come è. Pertanto, il primo movimento di traslazione [quello della sfera delle stelle], anche se è in atto, può tuttavia essere diverso da come è, almeno in quanto è un movimento. […] Ma poiché esiste qualcosa che muove essendo, esso medesimo, immobile ed in atto, non può essere in modo diverso da come è in nessun senso. Il movimento di traslazione, infatti, è la prima forma di mutazione, e la prima forma di traslazione è quella circolare: e tale è il movimento che il primo motore produce. […] Da un tale principio [il primo motore immobile] dipendono dunque il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente: è quel modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo. Invece in quello stato Egli era sempre. A noi questo è impossibile, ma a lui non è impossibile, poiché l’atto del suo vivere è piacere. […] Ora, il pensiero che è pensiero per sé, ha come oggetto ciò che è di per sé più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L’intelligenza pensa se stessa, cogliendosi come intelligibile: infatti essa diventa intelligibile intuendo e pensando sé, cosicché intelligenza e intelligibile coincidono. L’intelligenza è, infatti, ciò che è capace di cogliere l’intelligibile e la sostanza, ed è in atto quando li possiede. […] L’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole e di più eccellente. Se, dunque, in questa felice condizione noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente; e questo è meraviglioso. […] Egli è anche vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed Egli è appunto questa attività. E la sua attività […] è vita ottima ed eterna. Diciamo, infatti, che Dio è vivente, eterno e ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo è dunque Dio.
Un principio eternamente in atto Il primo motore immobile, causa motrice e finale Dio
Attività divina e attività filosofica
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Si tratta di una sequenza argomentativa davvero complessa e a tratti sconcertante. In estrema sintesi il suo significato filosofico potrebbe venire riassunto nei seguenti termini: 1) il divenire naturale, ossia il passaggio dalla potenza all’atto, necessita di un principio che sia eternamente in atto, cioè che sia sottratto al divenire stesso (il movimento ha bisogno di qualcosa che non si muova); 2) lo studio della natura culmina nell’ammissione di una sostanza non materiale, il primo motore immobile (che è pura forma senza materia), la quale costituisce la causa motrice e finale dell’intero movimento dell’universo e dunque dell’intera natura; 3) dal momento che il primo motore immobile viene senz’altro identificato con Dio, la cosmologia di Aristotele trova il suo apparente compimento in una sorta di teologia metacosmica (in quanto il principio supremo viene collocato al di là, in greco metà appunto, del cosmo); 4) la natura dell’attività della divinità è molto simile a quella del filosofo: Dio compie sempre e senza sosta ciò che il filosofo può fare solo in momenti limi-
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tati della sua vita (l’attività del pensiero, con la felicità che la accompagna); il Dio aristotelico sembra davvero rappresentare l’eternizzazione e la divinizzazione dell’attività del filosofo; Il divino e l’ordine 5) a differenza della divinità biblica e cristiana, quella aristotelica non crea il del movimento mondo e non lo ama (giacché pensa soltanto se stessa), e tanto meno interviene nelle sue vicende. Essa si limita ad assicurare l’ordine e la regolarità dei movimenti del cosmo: quelli degli astri in primo luogo, e tramite essi anche quelli del mondo sublunare (regolarità delle stagioni, del ritmo giorno / notte, ➥ Sommario, p. 255 della riproduzione delle specie animali).
8 Il finalismo e le specie viventi
I viventi e l’anima: biologia e psicologia Il carattere costitutivo della natura – lo si è detto più di una volta – è rappresentato dal suo finalismo, ossia dal fatto di essere orientata verso il bene o il meglio. Questo aspetto si manifesta sia a livello macrocosmico, ossia nel mondo considerato come totalità, sia a livello microcosmico, ossia nei singoli processi naturali e nella struttura delle singole specie viventi. A livello macrocosmico il finalismo è soprattutto evidente nella regolarità dei movimenti astrali, dai quali, come si è detto, dipendono anche i processi fisici del mondo sublunare. Ma l’orientamento teleologico della natura si esprime in modo massiccio e sistematico anche all’interno del mondo sublunare.
Biologia e zoologia
➥ Percorso tematico, p. 321
Indagini a tutto campo sulla materia costitutiva degli esseri viventi
Parti omogenee: i tessuti Parti non omogenee: gli organi
Per Aristotele la bellezza del mondo non è confinata all’ambito celeste, quello occupato dagli astri. Anzi, è proprio negli aspetti apparentemente più insignificanti del mondo sublunare che il finalismo (per Aristotele equivalente a ordine e bellezza) emerge in maniera più interessante. Proprio lo studio di quegli esseri che sembrano non presentare particolari attrattive offre «grandissime gioie a chi sia capace di comprenderne le cause», ossia a chi sia capace di cogliere la causa finale. È un merito indubbio di Aristotele quello di non avere confinato lo studio della natura agli aspetti più manifestamente «nobili»; in realtà, diversamente dal suo maestro, Aristotele ha mostrato di non disprezzare nessun aspetto della natura. Non si è fatto scrupolo di interrogare figure professionali solitamente poco considerate (se non addirittura disprezzate), come cacciatori, pescatori, macellai, pastori, allevatori, da cui ricavò una serie impressionante di informazioni su una quantità sterminata di specie viventi (inventariò oltre cinquecento specie animali). Secondo Aristotele la materia di cui sono costituiti gli esseri viventi si unisce in modo da dare luogo a due forme di organizzazione: 1) le parti omogenee, ossia quelle parti che, se suddivise, danno luogo a parti dello stesso tipo, e che vengono chiamate «omeomere» (ossia appunto parti simili) e corrispondono pressappoco ai nostri tessuti (le ossa, la carne); 2) le parti non omogenee («anomeomere»), le quali, se divise, non presentano parti simili al tutto (pensa, per esempio, alla mano, che si divide in dita e non in altre mani); le parti non omogenee corrispondono sostanzialmente ai nostri organi. 229
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Fine, funzione, organo
La natura non fa nulla invano
T15
La natura provvede al meglio
Le parti degli animali, 2,14,658a18-b2
È chiaro che la complessità di un essere vivente dipende dalla presenza in esso di un maggior numero di parti non omogenee, ossia di organi, i quali gli consentono di svolgere funzioni via via più complesse. È molto importante tenere presente che per Aristotele non è l’esistenza dell’organo a provocare lo sviluppo di una determinata funzione (non è la presenza dei denti canini a consentire lo sviluppo in certe specie animali dell’alimentazione carnea), ma accade esattamente il contrario: l’esigenza di adempiere a una certa funzione causa finalisticamente la presenza di quel determinato organo (al fine di poter mangiare carne certi animali hanno una dentatura appropriata). In poche parole: non sono gli organi a causare la nascita di determinate funzioni, ma al contrario sono le funzioni proprie di una certa specie a richiedere che essa possegga organi atti a compiere quelle funzioni. La natura, insomma, è finalizzata e – aggiunge Aristotele – non fa nulla invano. La struttura delle specie, ossia la configurazione che possiedono gli organismi, dipende finalisticamente dal tipo di attività che esse devono svolgere. Dal momento che una certa specie deve poter svolgere una determinata funzione, ecco che la natura dota quella specie di un organismo orientato a svolgere l’attività che le è propria. I peli, negli animali che ne hanno, servono da protezione: ora, nei quadrupedi il dorso richiede maggior protezione, mentre la parte inferiore, che è più importante, conserva comunque il suo calore grazie alla posizione reclinata; negli uomini invece, siccome a causa della posizione eretta le parti anteriori si trovano nella stessa posizione di quelle posteriori, la natura ha provveduto a portare aiuto alle parti più importanti: giacché sempre, nei limiti delle possibilità, essa è causa di ciò che è migliore. E per questo motivo nessuno dei quadrupedi ha ciglia sulla palpebra inferiore, né peli sotto le ascelle e nella zona del pube, come ne hanno gli uomini […]. Inoltre, negli animali che possiedono code di una certa lunghezza, la natura le ha ricoperte anch’esse di pelo, lungo per le code a stelo corto, come quelle dei cavalli, corto per quelle a stelo lungo, in rapporto comunque con la natura del resto del corpo: in ogni caso, infatti, quel che essa dà ad una parte lo toglie a un’altra. Gli animali cui la natura ha dato un corpo assai peloso mancano poi di peli sulla coda, come è, per esempio, il caso degli orsi.
L’impostazione finalistica della biologia e della zoologia conosce eccessi anche divertenti, almeno ai nostri occhi. A proposito della posizione della bocca degli squali (situata, come noto, nella parte inferiore del corpo), che di fatto rende più difficile la cattura di altri pesci, Aristotele osserva che anch’essa risulta stabilita dalla natura per il meglio; infatti, se lo squalo avesse una bocca che gli consentisse una facile introduzione di cibo, essendo il più potente e vorace dei pesci, non cesserebbe di abbuffarsi, con grave danno alla salute sua e alla sopravvivenza delle altre specie marine. La sopravvivenza Va tenuto comunque presente che per Aristotele la dinamica finalistica che goe l’eternità verna la natura agisce all’interno delle singole specie e non, salvo poche eccedella specie zioni, tra le specie. In altri termini, la struttura di ogni specie ha come fine la sopravvivenza della specie stessa e non quella di altre. Il mondo – lo si è detto – è per Aristotele eterno. Gli astri, composti di etere, sono individualmente eterni. I viventi del mondo sublunare, composti dei quattro
Un esempio curioso: lo squalo
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elementi tradizionali, non possono invece risultare individualmente eterni. Lo saranno però dal punto di vista della specie, che è infatti eterna e non soggetta a mutamenti (Aristotele non era certo un sostenitore dell’evoluzionismo).
Psicologia: l’anima Il principio di organizzazione della materia corporea
L’anima è atto: dal corpo in potenza all’essere vivente
L’anima è la forma dei viventi
Contro l’immortalità
Le tre funzioni vitali
Le funzioni dell’anima
Per comprendere la biologia e la zoologia di Aristotele occorre affrontare ora un altro importante tema: l’anima. Dal momento che gli esseri viventi sono tali in virtù del fatto di avere la vita e che quest’ultima viene garantita loro dall’anima, è chiaro che lo studio di questo ambito della realtà non può prescindere dalla trattazione dell’anima. Ciò che caratterizza tutti i viventi è dunque la presenza dell’anima, intesa però non come sostanza separata e indipendente dal corpo (alla maniera platonica), bensì come principio di organizzazione della materia corporea. Per Aristotele l’anima è «atto di un corpo naturale che ha la vita in potenza»; ciò significa che la sua presenza fa sì che una certa materia, che ha la vita in potenza, diventi effettivamente un essere vivente. Secondo Aristotele i corpi che in potenza hanno la vita sono quelli dotati di organi adatti a esplicare le funzioni vitali: piante e animali. È importante tenere presente che l’anima di questi esseri viventi non è altro che il principio di organizzazione del corpo e, in quanto tale, non è separabile dalla materia corporea che organizza. Ricorderai che il principio di organizzazione di una data materia è per Aristotele la forma (èidos); ciò significa che l’anima è la forma degli esseri viventi. Contro Platone, dunque, Aristotele sostiene che non vi può essere alcuna immortalità dell’anima individuale; addirittura «ridicola» è poi considerata l’ipotesi della metempsicosi o reincarnazione delle anime: i corpi, osserva Aristotele, non sono vestiti che si possono indossare e cambiare, ma sono lo strumento di cui l’anima è la funzione: non c’è la vista senza l’occhio, né vita senza corpo. La vita presenta gradi e aspetti differenti, come l’osservazione fenomenica consente di constatare: accanto al livello riproduttivo, vegetativo e nutritivo, esiste un’attività vitale di tipo sensitivo e motorio e, da ultimo, addirittura intellettuale. Se le cose stanno in questi termini, non potranno che esistere diverse funzioni di organizzazione della materia corporea: una funzione vegetativa (propria delle piante), una sensitiva (caratteristica di tutti gli animali) e una intellettiva (propria dell’animale uomo): 1) la prima funzione, quella vegetativa, presiede all’attività di riproduzione, crescita e nutrimento; 2) la seconda, quella sensitiva e motrice, consente agli animali di percepire (tramite gli organi dei cinque sensi) e di muoversi; 3) la terza infine, quella intellettiva, permette agli uomini di pensare e di volere.
Funzione
Attività
Vegetativa
Riproduzione, crescita e nutrimento
Sensitiva
Percezione e movimento
Intellettiva
Pensiero e volontà
Esseri viventi Piante Animali Uomo
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Quando l’anima come principio di vita e organizzazione della materia è presente si ha un essere vivente, altrimenti si ha materia priva di vita (come una pietra oppure un cadavere, che è un corpo cui è venuto meno il principio di organizzazione vitale). La gerarchia funzionale Negli esseri in cui è presente una certa funzione superiore, sensitiva o intellettiva, è automaticamente presente anche quella inferiore. Così l’anima sensitiva degli animali comprende anche le funzioni dell’anima vegetativa (che è invece l’unica posseduta dalle piante); e analogamente nella funzione intellettiva sono attive anche le capacità funzionali dell’anima vegetativa e di quella sensitiva.
La percezione e l’intelletto L’attività dell’anima sensitiva
La percezione
Le analisi condotte da Aristotele nello scritto Sull’anima sono molto importanti, anche se non sempre facili da comprendere e riassumere in poche parole. Di notevole interesse risultano le sue considerazioni relative al fenomeno della percezione (che esprime l’attività dell’anima sensitiva). Essa avviene per opera dei cinque sensi e poi di un sesto senso, chiamato «senso comune», il quale consente di percepire stimoli comuni a più di un senso (per esempio il movimento). Secondo Aristotele la percezione consiste nell’assunzione da parte dell’organo di senso della forma sensibile dell’oggetto percepito; sia l’organo che la forma dell’oggetto sono in potenza, ossia, rispettivamente, l’uno è un senziente in potenza, l’altro un percepibile in potenza, e diventano in atto quando si incontrano. Nell’atto della percezione si forma nei nostri organi di senso un’immagine dell’oggetto percepito, un’immagine (phàntasma) che viene conservata dalla memoria. Soggetto
Atto della percezione
Oggetto
Organo di senso senziente in potenza
La forma sensibile viene assunta dall’organo
Oggetto sensibile la cui forma sensibile è percepibile in potenza
Nell’organo si forma una immagine (phàntasma) dell’oggetto percepito
L’immagine viene conservata nella memoria
Il pensiero, la formazione dei concetti
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Secondo Aristotele un procedimento pressappoco simile a quello della percezione avviene anche a proposito del pensiero (che, come si è detto, è una funzione propria ai soli uomini). I concetti, in effetti, si formano in maniera non dissimile dalle percezioni sensibili. L’intelletto (nous), che gioca a livello dell’intellezione un ruolo analogo a quello esercitato dai sensi nella percezione, è capace di cogliere nell’immagine sensibile delle cose la loro forma intelligibile (per esempio quella di «uomo» in Alberto). Ora, come i sensi sono senzienti in potenza e vengono attivati dall’incontro con la forma sensibile dell’oggetto percepito, allo stesso modo l’intelletto è in potenza e viene attivato nel momento in cui entrano in contatto con esso le forme intelligibili. L’intelletto viene assimilato da Aristotele a una tavoletta di cera, completamente liscia, ma disposta a ricevere le lettere
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che vengono in essa impresse (lo stadio in cui la tavoletta è vuota corrisponde evidentemente alla fase potenziale dell’intelletto). Intelletto passivo Fino a qui l’analogia con la percezione sensibile sembra esprimere abbastanza e intelletto attivo bene il funzionamento del meccanismo della formazione dei concetti. Ma a questo punto le cose si complicano ulteriormente e in un modo che sembra quasi impossibile da comprendere completamente. Infatti, Aristotele opera una successiva distinzione, davvero misteriosa. Egli sostiene che accanto all’intelletto passivo (nous pathetikòs), quasi certamente identico alla tavoletta di cera di cui si è appena detto, esiste anche un intelletto attivo, detto poi «produttivo» o «poietico» (da poièin, che significa «fare»), il quale sarebbe sempre in atto (e non passerebbe, come quello passivo, dalla potenza all’atto). Cos’è l’intelletto attivo? Ora, che cosa sia questo misterioso intelletto attivo è questione sostanzialmente ancora irrisolta (i commentatori aristotelici, sia antichi che moderni, hanno scritto montagne di pagine sulla questione, senza mai venirne completamente a capo). Si tratta di un intelletto separato, ossia indipendente dal corpo, mentre, come sappiamo, l’intelletto passivo è una funzione del corpo e non può esistere senza di esso. In quanto separato dal corpo e indipendente da esso, l’intelletto attivo potrebbe non essere individuale, potrebbe cioè non appartenere a ciascun uomo. Alcuni vi hanno voluto vedere un riferimento al primo motore immobile (che è infatti un intelletto separato ed eternamente in atto). Ma la questione non può dirsi veramente risolta. E forse non è poi così importante per la comprensione del percorso filosofico di Aristotele. Si può forse dire che quella dell’intelletto attivo è un’ipotesi necessaria a soddisfare lo schema atto-potenza che per Aristotele è indispensabile per spiegare qualsiasi attività (in questo caso quella del pensiero), come il motore immobile era un’ipotesi necessaria a spiegare l’e➥ Sommario, p. 255 sistenza del movimento nella natura del cosmo.
9 La Metafisica, opera composita
La filosofia prima o metafisica Più di una volta è accaduto, nel corso di questa esposizione, di accennare alla Metafisica, per dire, per esempio, che non si tratta di un’opera compiuta, ma di un insieme di trattati di argomento tra loro simile (ma non identico), raggruppati in uno scritto unitario dopo la morte di Aristotele. Si è anche osservato che la parola stessa «metafisica» è posteriore ad Aristotele. È arrivato il momento di analizzare più da vicino quest’opera e soprattutto le questioni filosofiche che essa tratta.
La natura della sapienza L’indagine sulle cause e i principi della sapienza
Nel I libro della Metafisica, che può essere considerato un’introduzione generale valida anche per numerosi altri libri, Aristotele dichiara che l’oggetto della sua ricerca è la natura della sapienza (sophìa), che corrisponde a un sapere dotato di una certa superiorità nei confronti delle altre forme di conoscenza. E dal momento che, come ben sappiamo, conoscere qualcosa significa per Aristotele conoscere le cause, anche la ricerca che egli si appresta ad affrontare dovrà riguardare le cause e i principi della sapienza. Ma che cosa è questa misteriosa sapienza? 233
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Parte prima L’età antica Difficoltà di definizione della sapienza
Le caratteristiche: universale e rivolta alle cose di rango superiore
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I requisiti della sapienza
Metafisica, 1,2,982a4-17
Diciamo subito che Aristotele chiama questa disciplina anche in altri modi: per esempio, la chiama filosofia prima (per distinguerla dalla filosofia seconda, che sarebbe la fisica); ma talvolta usa anche l’espressione «scienza ricercata», quasi per sottolineare che lui stesso, almeno all’inizio della ricerca, non sa bene dove la sua indagine andrà a parare, e in effetti molti libri della Metafisica presentano un andamento di ricerca e quasi aporetico (da aporìa, che significa «difficoltà», «incertezza»), non giungono cioè a una conclusione certa. In un’occasione, unica ma indubbiamente molto significativa, Aristotele definisce poi la disciplina di cui sta trattando con l’espressione «scienza teologica» (theologhikè epistème). Come si vede, la questione è complessa (molti nomi e forse molte caratteristiche) e va affrontata con grande prudenza. Prima di tutto bisogna stabilire quali sono le caratteristiche che questa disciplina deve possedere. A questo proposito Aristotele è abbastanza preciso. Egli dice, infatti, che la sapienza deve possedere, tra le altre, due proprietà ben definite; il problema è che queste due proprietà sembrano, almeno a prima vista, contraddirsi l’una con l’altra. Infatti la sapienza deve essere insieme: 1) universale e 2) occuparsi anche di oggetti dotati di rango superiore. Ma, se è universale, essa deve in un certo senso studiare tutte le cose in generale; se invece è rivolta alle realtà di rango superiore (più alte e dunque divine), deve limitarsi a studiare solo quel tipo di realtà. Ora, poiché noi ricerchiamo proprio questa scienza, dovremo esaminare di quali cause e di quali principi sia scienza la sapienza. […] Noi riteniamo, in primo luogo, che il sapiente conosca tutte le cose, per quanto ciò è possibile: non evidentemente che abbia scienza di ciascuna cosa considerata singolarmente. Inoltre riteniamo sapiente chi è capace di conoscere le cose difficili e non facilmente comprensibili per l’uomo (infatti la conoscenza sensibile è comune a tutti e, pertanto, è facile e non è affatto sapienza). Ancora, reputiamo che, in ciascuna cosa, sia più sapiente chi possiede maggiore conoscenza delle cause e chi è più capace di insegnarle ad altri. Riteniamo anche che, tra le scienze, sia in maggior grado sapienza quella che è scelta per sé e al puro fine di sapere, rispetto a quella che è scelta in vista dei benefici che da essa derivano. E riteniamo che sia in maggior grado sapienza la scienza che è gerarchicamente sopraordinata rispetto a quella che è subordinata.
Secondo Aristotele, dunque, la sapienza (o filosofia prima) deve essere una conoscenza in qualche modo universale (cioè di tutte le cose, sia pure non prese una per una); deve rivolgersi alle cose più difficili, cioè le più lontane da noi e perciò divine; deve poi essere conoscenza delle cause; inoltre, deve essere una conoscenza disinteressata, ossia non perseguita in vista di qualcosa, ma per se stessa (Aristotele dice a tal proposito che tutte le altre conoscenze sono più necessarie, ma nessuna è superiore ad essa); infine – e forse proprio per le ragioni appena menzionate – essa deve risultare anche superiore rispetto alle altre conoscenze. L’eredità platonica Come si è visto, la maggiore difficoltà che deve affrontare chi voglia comprendere la natura della sapienza consiste nel conciliare il carattere universale di questa disciplina e il suo contemporaneo rivolgersi a degli oggetti particolari (le cose più difficili e più alte, ossia divine). In verità, l’esigenza di fare convergere 234
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Unità 4 Aristotele
questi due aspetti in una disciplina filosofica non è una novità di Aristotele; si tratta di una ben precisa eredità di Platone. Ricorderai infatti che la dialettica platonica era contemporaneamente la scienza più universale e quella rivolta agli oggetti di rango più elevato, vale a dire le idee. Aristotele rifiuta però le idee e non può di conseguenza identificare la sua sophìa con la dialettica. È però inevitabile osservare che la filosofia prima di Aristotele eredita esigenze tipiche del platonismo, anche se tenta di soddisfarle in un modo sostanzialmente diverso da come aveva fatto Platone.
Lo studio dell’essere Cerchiamo ora di costruire uno dei possibili percorsi teorici che stanno alle spalle della concezione aristotelica della filosofia prima, tenendo però sempre presente che si tratta di un percorso che siamo noi in qualche modo a costruire (certo sulla base di ciò che Aristotele dice). L’oggetto della filosofia Si è visto che una delle caratteristiche della sapienza è quella di essere un saprima è l’essere pere in qualche modo universale, ossia relativo all’universale. La cosa più uniin quanto essere versale di tutte è senza dubbio l’essere. Dunque la nostra scienza ricercata deve studiare l’essere. Tuttavia non una sezione determinata dell’essere (per esempio l’essere materiale) o un modo determinato di essere (per esempio quello della fisica che studia gli esseri in quanto hanno in se stessi il principio del movimento). La filosofia prima deve studiare l’essere in generale, ossia, come dice Aristotele con una formula destinata a divenire celebre, «l’essere in quanto essere».
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L’essere in quanto essere Metafisica, 4,1,1003a20-32
C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere dal punto di vista universale, ma, dopo avere delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte. Così fanno, ad esempio, le matematiche. Orbene, poiché ricerchiamo le cause e i principi supremi, è evidente che questi devono essere cause e principi di una realtà che è per sé. […] Dunque, noi dobbiamo ricercare le cause prime dell’essere in quanto essere.
L’evidenza linguistica e quella fenomenica inducono Aristotele a concludere che «l’essere si dice in molti modi». Si tratta di una tesi importante. Ma che cosa significa? Affermando che l’essere si dice in molti modi, Aristotele intende prima di tutto sostenere che quella di essere non è una nozione univoca, ossia dotata di un solo significato, valido per tutte le sue applicazioni. Univoci – ma Aristotele preferisce definirli sinonimi – sono quei termini che hanno il medesimo significato in tutte le occasioni in cui li adoperiamo. Il termine animale è univoco, perché significa la stessa cosa quando lo riferiamo a uomo e a bue. L’essere non è una nozione univoca, perché quando la usiamo intendiamo dire cose molto diverse (in espressioni quali «Alberto è un uomo», «è giorno», «è così», «Alberto è marito di Chiara» è facile rendersi conto che il verbo essere è usato in sensi abbastanza differenti). Unitarietà e molteplicità Tuttavia, osserva Aristotele, l’essere non è neppure così molteplice da non avere dell’essere la minima unitarietà. Non è, cioè, una nozione del tutto equivoca (Aristotele L’essere non è una nozione univoca
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Parte prima L’età antica
avrebbe detto che l’essere non è meramente omonimo). Equivoci sono infatti quei termini che hanno in comune solo il nome, senza condividere nulla del significato. Se dico, per esempio, che mia nonna ha perso i denti e che la forchetta ha tre denti, uso la parola denti in significati del tutto differenti. L’essere per Aristotele non è così molteplice da risultare del tutto equivoco.
L’essere e la sostanza Il senso primario e l’unitarietà dell’essere
L’essere, dunque, non è univoco, ma neppure equivoco. Non possiede un’unità forte, ma neppure è del tutto privo di unità. Il fatto è, secondo Aristotele, che l’unità dell’essere è più debole di quella del genere, per esempio «animale» (che è univoco), ma più forte di quella dei termini equivoci. Egli dice che l’essere si dice in molti modi, ma tutti in relazione a un senso principale. Per farsi capire si serve di un esempio. Quando noi usiamo il termine «sano» – dicendo che sana è una passeggiata, sana una certa dieta, sana la medicina – pensiamo implicitamente a un senso primario a cui tutti questi usi si riferiscono: la salute.
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L’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad un’unità e ad una realtà determinata. L’essere, quindi, non si dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo «sano» tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la conserva, o in quanto la produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla. […] Così dunque l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento ad un unico principio: alcune cose sono dette esseri perché sono sostanze, altre perché affezioni della sostanza, altre perché vie che portano alla sostanza, oppure perché corruzioni, o privazioni, o qualità, o cause produttrici o generatrici sia della sostanza sia di ciò che si riferisce alla sostanza.
L’essere e la sostanza Metafisica, 4,2,1003a33-b10
La sostanza, senso primario dell’essere
La teoria del significato focale
La ricerca sulle cause e i principi della sostanza
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Ecco dunque il senso primario dell’essere al quale tutti gli altri si riferiscono e che tutti gli altri in qualche misura presuppongono: la sostanza (ousìa). Si tratta di una conclusione che non può però sorprenderci, perché già dalle Categorie sappiamo che la sostanza è la prima delle categorie, quella senza la quale nessuna delle altre può esistere. Oggi si è soliti definire la concezione aristotelica secondo la quale la sostanza rappresenta il senso primario dell’essere come «teoria del significato focale». In effetti, la sostanza è in un certo modo il «fuoco», ossia il centro, verso il quale convergono tutti gli usi della nozione di essere. Questo non significa – è bene precisarlo subito – che gli altri sensi dell’essere vengono dedotti dalla sostanza; significa però che essi presuppongono la sostanza: essere bianco, essere alto due metri, essere in riposo, essere parente di qualcuno ecc. presuppongono tutti che ci sia una sostanza alla quale appartengono e di cui vengono detti. Aristotele può dunque indirizzare la sua ricerca della sapienza o filosofia prima lungo una via più definita. Può dire, per esempio, che la ricerca delle cause e dei principi dell’essere in quanto essere – la quale appariva inizialmente così generale e indefinita – è in qualche modo circoscrivibile alla ricerca intorno alle cause e ai principi della sostanza, che è appunto il significato focale dell’essere. Chiedersi che cosa è l’essere – afferma Aristotele in modo perentorio – equivale a chiedersi che cosa è la sostanza.
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Unità 4 Aristotele
Lo studio della sostanza Limite della concezione di sostanza come individuo concreto
I candidati alla qualifica di sostanza
I criteri di sostanzialità: essere individuo, essere indipendente, essere soggetto
Esame della materia
Esame dell’universale
Esame del sinolo
Esame della forma o essenza
Ma che cosa è dunque la sostanza? Abbiamo già visto, studiando le Categorie, che la sostanza è qualcosa di individuale (è una cosa determinata); che è qualcosa che non si predica di altro, ma di cui le altre cose si predicano (è un soggetto e non un predicato). Insomma, le sostanze sono gli individui concreti che popolano il mondo (Alberto e non uomo in generale, Fido e non cane in generale). Aristotele non sembra però del tutto soddisfatto di questa concezione (che risale al periodo giovanile, quando si trovava nell’Accademia) e per questo la riprende con l’intenzione di approfondirla. Uno dei libri più importanti e difficili della Metafisica, il VII, è dedicato interamente alla questione di che cosa sia la sostanza. Aristotele esamina con grande scrupolo tutti i candidati possibili a questo titolo, analizzando, come è solito fare, le dottrine dei suoi predecessori. Secondo lui i candidati alla qualifica di sostanza (e dunque al titolo di senso primario e focale dell’essere) sono quattro: 1) la materia (sponsorizzata da alcuni filosofi presocratici); 2) la forma; 3) il sinolo (in greco sy`n-olon, cioè «totalità composita»), ossia l’unione di materia e forma; 4) l’universale (sponsorizzato da Platone). Aristotele rimane sempre convinto che la sostanza debba essere una realtà individuale. Inoltre continua a credere che essa sia separata, cioè indipendente, dalle altre cose (possa cioè esistere senza le altre, ma queste ultime non possano esistere senza la sostanza). Infine, non cessa di pensare che la sostanza sia un soggetto di predicazione e non un predicato. In base a questi tre fondamentali parametri, affronta l’esame dei quattro candidati al titolo di sostanza. Prima di tutto la materia. Per Aristotele essa è in qualche modo sostanza, come hanno creduto alcuni fisici presocratici (per esempio Talete con l’acqua e Anassimene con l’aria), perché è soggetto di predicazione, ma lo è in senso molto debole. La materia infatti non è separabile, non esiste in se stessa, ma è sempre accompagnata dalla forma (non è pensabile una «materia prima» del tutto informe: al massimo esistono gli elementi, in cui la materia ha già la forma di acqua, aria, terra o fuoco). Inoltre la materia non è veramente un individuo, ma può essere individuata solo dalla presenza di una forma. Il candidato più debole è senza dubbio l’universale, ossia l’idea platonica. Per Aristotele l’universale non è sostanza in nessun senso, neppure in quello tutto sommato debole della materia. Infatti, l’universale non è separabile (bianco non esiste senza quella determinata cosa bianca); è predicato e non soggetto e soprattutto non è e non può essere un individuo (l’universale è esattamente il contrario dell’individuo): Socrate può essere un uomo giusto, ma «giusto», detto di nessuno, non significa nulla. Restano dunque la forma e il sinolo di materia e forma. Tutti noi ci aspetteremmo da Aristotele una chiara e inequivoca presa di posizione in favore del sinolo, ossia dell’unione di materia e forma nella singola realtà individuale (il corpo e l’anima di Socrate costituiscono la sostanza Socrate). E in effetti Aristotele non ha nessuna difficoltà ad ammettere che il sinolo è sostanza in senso proprio. Tuttavia egli dedica una grande parte del libro VII della Metafisica a dimostrare che ancora più del sinolo di materia e forma è sostanza la forma o essenza. 237
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Parte prima L’età antica
La forma causa dell’essere Per potere pervenire a questo risultato, cioè che la forma o essenza è sostanza, il nostro filosofo deve fare intervenire un nuovo e fondamentale criterio di sostanzialità, oltre a quelli stabiliti nelle Categorie e confermati nella Metafisica: si tratta del fatto che la sostanza deve anche essere causa dell’essere della cosa di cui è sostanza. Ma se la sostanza è causa, allora sostanza in senso primario non è più l’unione di materia e forma, ma la forma, la quale riveste la funzione di causa del fatto che una certa materia assume le vesti di una determinata cosa. La forma organizza Perché – si chiede Aristotele – quell’insieme di materia formato da ossa, sane unifica la materia: gue, carne ecc. è il nostro amico Alberto? La risposta è chiara: perché una cerè causa dell’essere ta forma (nel caso di Alberto la sua anima) fa sì che quella materia si organizzi in quel determinato modo e dia origine a quell’individuo che noi conosciamo come Alberto. E ancora: perché quell’ammasso di mattoni e legno e acciaio è diventata la scuola che io frequento tutti i giorni? Perché quella materia è stata organizzata dalla forma della scuola ed è diventata questo determinato edificio. Insomma se una cosa è quello che è, lo deve primariamente alla forma, che organizza e unifica la materia, assumendo così la funzione di causa dell’essere. Nuovo criterio di sostanzialità: essere causa
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Causa è la forma Metafisica, 7,17,1041a6-b9
Ed ora diciamo, ancora una volta, che cosa si debba denominare sostanza e quale sia la sua natura, muovendo però da un diverso punto di partenza. […] Poiché, dunque, la sostanza è un principio e una causa, di qui dobbiamo prendere le mosse. Quando si ricerca il perché delle cose, si ricerca sempre il perché qualcosa appartiene a qualcos’altro. […] Per esempio, ricercare perché tuona equivale a ricercare perché si produce un rumore tra le nuvole. In questo modo, ciò che si ricerca è appunto questo: perché una cosa appartenga a un’altra. E, così, se si domanda: perché questo dato materiale, per esempio mattoni e pietre, sono una casa. È evidente dunque che si ricerca la causa. […] E poiché la cosa deve previamente essere data ed esistere, è evidente che si ricerca perché la materia sia una determinata cosa. Per esempio, questo materiale è una casa: perché? Perché è presente in esso l’essenza della casa. E si ricercherà così: perché questa data cosa è uomo? Oppure: perché questo corpo ha queste caratteristiche? Pertanto, nella ricerca del perché si ricerca la causa della materia, vale a dire la forma per cui la materia è una determinata cosa: e questa appunto è la sostanza.
La sostanza, in quanto identica alla forma, fornisce la ragione per cui una certa cosa è quella determinata cosa, per cui una certa materia è disposta in maniera tale da essere quella determinata cosa. Ma la forma di una cosa non è universale? La forma del tavolo, ossia ciò che consente al tavolo su cui è appoggiato il libro che sto leggendo di essere quel tavolo, non è la medesima del tavolo situato a fianco del mio? E se è la stessa, non si deve concludere che la forma è universale (essendo la medesima per due tavoli diversi) e non più individuale? Non aveva allora ragione Platone con le sue idee (che sono forme universali)? La forma è individuale: La risposta di Aristotele non lascia spazio a dubbi. Egli dichiara con molta netidentica per specie tezza che la forma è individuale (altrimenti non potrebbe essere sostanza). Cerma diversa per numero to, egli ammette che dal punto di vista della definizione la forma del tavolo A è identica alla forma del tavolo B, ma aggiunge che dal punto di vista numerico la La forma è universale o individuale?
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La forma rappresenta la sostanza perché individuale
La forma attua le potenzialità della materia
forma di A è diversa da quella di B. Insomma: esse sono identiche perché hanno la stessa definizione (sono cioè identiche per specie), ma diverse perché l’una non è l’altra. Del resto, basta pensare al caso degli esseri viventi, la cui forma sostanziale è l’anima. L’anima di Alberto non è la stessa di quella del suo amico Daniele, sebbene la definizione sia per entrambi la stessa (trattandosi di un’anima razionale). Per Aristotele la forma, ossia l’essenza di qualcosa, può rappresentare la sostanza, solo perché questa forma resta qualcosa di individuale (che è propria di un individuo e non comune a più individui). Sviluppando la sua concezione della forma come sostanza dell’individuo, Aristotele arriva a sostenere che la forma è anche atto, mentre la materia è potenza. Ma questo non può davvero sorprenderci: la forma è ciò che fornisce il principio di organizzazione a una data materia; se è così, allora la forma è proprio ciò che attua le potenzialità della materia, consentendo a quest’ultima di diventare qualcosa di determinato, ossia un individuo.
Una scienza teologica unificata?
Diversi tipi di sostanza: quale rapporto tra di loro?
La ricerca di ciò che è primo tra le sostanze
Una sostanza prima tra le sostanze materiali: la sostanza astrale
Il cammino di Aristotele verso la determinazione della natura della filosofia prima, la «scienza ricercata», si è snodato finora attraverso due tappe fondamentali: la dottrina dell’essere in quanto essere e la teoria della sostanza. Il collegamento tra queste due concezioni risulta abbastanza chiaro: l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in rapporto a un senso primario e principale, quello della sostanza; dunque, l’indagine intorno all’essere può legittimamente trasformarsi in un’indagine intorno alla sostanza. Ma le sostanze sono molte e diverse strutturalmente tra loro. Esistono sostanze fisiche soggette al movimento e alla corruzione, esistono sostanze fisiche prive di vita, esistono poi anche sostanze fisiche mobili ma incorruttibili (per esempio gli astri), ed esistono, forse, anche sostanze non fisiche, ossia né mobili né corruttibili. Qual è il rapporto tra queste sostanze? Esiste la possibilità di formulare una teoria unificata della sostanza? La risposta che Aristotele fornisce a quest’ultimo interrogativo non è chiara; o forse è semplicemente problematica, perché la domanda stessa è tale da non consentire una risposta inequivocabile. Vediamo con ordine. Anche a proposito della questione relativa ai rapporti tra le sostanze, Aristotele adotta il consueto metodo consistente nel tentare di individuare ciò che è primo in un certo ambito. Nel caso della trattazione dell’essere in quanto essere, egli aveva sostenuto che, poiché l’essere si dice in molti sensi, occorre individuare il senso primario e principale (che noi sappiamo essere la sostanza); a proposito della sostanza egli fa un ragionamento analogo: poiché esistono molte sostanze, occorre stabilire quali sono le sostanze prime, occorre cioè stabilire ciò che è primo nell’ambito delle sostanze. Sappiamo che esistono sostanze materiali, mobili e corruttibili: si tratta delle sostanze sensibili collocate nel mondo sublunare; sappiamo anche che esistono sostanze materiali, mobili e incorruttibili: si tratta dei corpi astrali, formati dall’etere. Tra questi due tipi di sostanza, a essere prima è senza dubbio la sostanza astrale incorruttibile, eterna e sempre identica a sé; tra l’altro, abbiamo anche visto che gli astri sono causa del movimento dei corpi del mondo sublunare. Se non 239
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Parte prima L’età antica
Le sostanze immateriali: i motori immobili
La scienza teologica studia le sostanze immobili
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La scienza teologica
Metafisica, 6,1,1025b251026a19
esistessero altre sostanze, la fisica (che studia i corpi fisici dotati di movimento) sarebbe la filosofia prima (e l’astronomia avrebbe una sorta di primarietà tra le discipline fisiche). Ma siamo sicuri – si chiede Aristotele – che non ci siano sostanze superiori a quelle fisiche? Siamo cioè sicuri che non ci siano sostanze immateriali e immobili? In verità noi sappiamo, proprio dalla trattazione della fisica e delle cause del movimento dell’universo (vedi p. 216 ss.), che queste sostanze immobili e incorruttibili in realtà esistono. Si tratta del primo motore immobile e degli altri motori (Aristotele crede infatti che ogni sfera abbia un motore immobile che la muova; e che il primo sia tale, perché è il motore della prima sfera, quella delle stelle fisse). Dunque, se queste sostanze immobili esistono – ed esse esistono – la filosofia prima non sarà la fisica, ma quella disciplina che studia queste sostanze: la sapienza, ossia la scienza ricercata. Dal momento però che queste sostanze sono divine (sono pure forme, puri atti e hanno la vita degli dèi), Aristotele arriva a dire che questa disciplina non è altro che la scienza teologica. Ecco il passo della Metafisica: Pertanto, se ogni conoscenza razionale è o pratica o poietica o teoretica, la fisica deve essere conoscenza teoretica, ma conoscenza teoretica di quel genere di essere che ha la potenza di muoversi e […] della sostanza considerata come non separabile dalla materia. […] Ma se esiste qualcosa di eterno, immobile e separato, è evidente che la conoscenza di esso spetterà certamente a una scienza teoretica, ma non alla fisica, perché la fisica si occupa di esseri in movimento, […] bensì a una scienza anteriore. Infatti la fisica riguarda realtà separate [ossia sostanze] ma non immobili […] invece la filosofia prima riguarda realtà che sono separate e immobili. Tre sono dunque le branche della filosofia teoretica: la matematica [che però non studia le sostanze, ma le astrazioni quantitative delle sostanze], la fisica e la teologia.
La sapienza sembra dunque identificarsi con la scienza che si occupa delle sostanze immobili, ossia delle forme che esistono senza materia: i motori immobili. Aristotele aggiunge poi che questa scienza è anche universale perché si occupa delle cause e dei principi dell’essere in generale. Infatti, i motori immobili sono esattamente le cause dell’essere delle altre sostanze e la sostanza è il primo dei significati dell’essere. Problemi aperti Bisogna però ammettere che questa conclusione non sembra risolvere tutti i problemi collegati alla definizione della filosofia prima e della scienza dell’essere. Aristotele si limita a sostenere che le sostanze fisiche dipendono da quelle non fisiche (in questo senso «metafisiche», ossia al di là di quelle fisiche); aggiunge che i motori immobili causano il movimento delle sfere astrali (per mezzo del desiderio che provocano in questi ultimi); ma poi non costruisce una vera e propria scienza teologica, ossia una scienza dei rapporti tra le varie sostanze immobili, né una teoria che enunci chiaramente in che senso esse siano «cause» dell’essere delle altre sostanze (certo non le creano, e neppure ne determinano la struttura, che è interamente dovuta agli autonomi processi fisici della natura materiale). Resta il fatto che l’enorme complessità del progetto della filosofia prima (che da allora noi siamo abituati a chiamare metafisica) presenta elementi di unificazio➥ Sommario, p. 255 ne, i quali, tuttavia, non portano mai a una vera e propria sistematizzazione.
Una prima conclusione: sapienza = metafisica
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Unità 4 Aristotele
10 Le azioni umane oggetto delle scienze pratiche
Una regolarità relativa
➥ Laboratorio di lettura, p. 258
Volontarietà e deliberazione delle azioni considerate dall’etica
Il fine delle azioni: il conseguimento del bene
L’etica Nell’ordinamento del corpus aristotelico dopo le opere dedicate alle discipline teoretiche si trovano gli scritti consacrati alle scienze pratiche. Si tratta, come abbiamo sottolineato, di quelle discipline che hanno per oggetto realtà che possono essere anche diversamente da come sono, cioè in generale l’ambito soggetto alla scelta e alla decisione. È chiaro dunque che le scienze pratiche, cioè le scienze dell’azione (pràxis), hanno a che fare con l’uomo e con i suoi comportamenti. Aristotele è consapevole che la trattazione delle azioni non potrà pretendere di acquisire l’esattezza propria delle discipline teoretiche (le quali si rivolgono a realtà necessarie, ossia che non possono esser diverse da come sono); tuttavia egli è convinto che anche nell’ambito delle azioni umane siano presenti regolarità e tendenze che un’indagine scientifica è in grado di determinare con una certa precisione. La prima della discipline pratiche è l’etica, ossia la scienza che si occupa del carattere (èthos) e del comportamento degli uomini. All’etica sono dedicati due scritti sicuramente autentici, l’Etica eudemia e l’Etica nicomachea. L’etica studia dunque le azioni degli uomini. Si tratta in particolare delle azioni volontarie e perciò responsabili; ciò che faccio perché costrettovi da altri non appartiene alla sfera della valutazione etica; vi appartiene invece quello che faccio in stato di ubriachezza, perché ho comunque deciso di ubriacarmi. Si tratta inoltre delle azioni che comportano una scelta e una deliberazione; non posso decidere sul corso del Sole, ma se andare al cinema o studiare questa Unità, e solo questo secondo caso è suscettibile di valutazione morale. La prima domanda che l’etica si pone non può che essere la seguente: perché gli uomini agiscono? Qual è il fine delle loro azioni? La risposta è abbastanza semplice. Tutti infatti concordano nel ritenere che il fine di ogni azione è il conseguimento di un bene. Potrà trattarsi di un bene solo apparente (ossia di qualcosa che appare tale all’agente), ma comunque di un bene sempre si tratta. Ora, l’osservazione empirica delle azioni degli uomini induce a ritenere che i beni siano molti, essendo molti i fini delle azioni. Ci saranno beni in se stessi e beni che vengono perseguiti come mezzi per l’ottenimento di altri beni.
Il bene supremo: la felicità
➥ Laboratorio sul lessico Felicità, p. 429
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Il bene maggiore: la felicità
Etica nicomachea, 1,2,1095a14-19
Ma quale è il bene a cui tutto tende? In altri termini: quale è il bene supremo in vista del quale, in ultima analisi, tutte le azioni umane vengono fatte? Anche qui – secondo Aristotele – esiste un sostanziale consenso tra gli uomini: il bene supremo è costituito dalla felicità (eudaimonìa). Gli uomini agiscono allo scopo di essere felici, come l’esperienza mostra in modo evidente (il richiamo alla validità del dato fenomenico costituisce, anche qui, una caratteristica del modo aristotelico di procedere). Riprendendo il discorso dall’inizio, esponiamo, poiché ogni conoscenza ed ogni scelta mirano a qualche bene, quale è quello a cui noi diciamo che tende la politica, ovvero quale è il più alto di tutti i beni che sono oggetto dell’azione. Ora, sul suo nome vi è pressoché accordo da parte della maggioranza degli uomini: infatti dicono che è la felicità sia il volgo che le persone raffinate, e concepiscono il vivere bene e l’avere successo come identici all’essere felici. 241
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Parte prima L’età antica Stili di vita e concezioni della felicità
➥ Percorso tematico, p. 415
Felicità e virtù: la realizzazione della propria natura
Felicità come sviluppo della capacità intellettiva
Felicità come vita contemplativa
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L’opera propria dell’uomo Etica nicomachea, 1,6,1097b22-1098a4
Felicità come esercizio della ragione
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Il disaccordo – e con esso i problemi – inizia quando si tratta di determinare che cosa sia la felicità. Per alcuni la felicità consiste nel piacere (hedonè); per altri nell’onore (timè); per altri ancora nella conoscenza e nella contemplazione (theorìa). In realtà queste tre opzioni esprimono tre differenti modi non solo di intendere la felicità, ma anche il senso stesso della vita. In effetti in questa contrapposizione è implicito il confronto tra forme di vita (bìoi) differenti: quella edonistica (dedita alla ricerca dei piaceri), quella politica (rivolta all’acquisizione dell’onore e del prestigio sociale) e infine quella teoretica o contemplativa (rivolta essenzialmente alla conoscenza). Per comprendere la scelta di Aristotele in favore di uno di questi stili di vita, occorre ricostruire il percorso che lo porta a quella conclusione. Prima di tutto, bisogna osservare che per lui la felicità consiste nella piena attuazione di una certa capacità; qualcosa è felice quando realizza pienamente la propria natura; in questo senso, è facile comprendere come la felicità sia collegata alla virtù (aretè), che coincide infatti con l’utilizzo pieno e perfetto di qualcosa. Dunque la felicità per l’uomo sarà la condizione completa di sviluppo delle capacità che gli sono proprie. Abbiamo visto che, in quanto vivente, l’uomo possiede un’anima, la quale presiede e organizza tutte le funzioni del suo essere. Abbiamo anche visto che l’anima umana sviluppa tre differenti funzioni: quella vegetativa (comune anche alle piante e agli animali), quella sensitiva e motrice (comune a tutti gli animali) e quella intellettiva (propria dei soli uomini). È dunque inevitabile concludere che la felicità per l’uomo dovrà corrispondere al pieno sviluppo della funzione più alta della sua anima, ossia quella intellettiva. Il senso del ragionamento di Aristotele sembra perciò il seguente: se la felicità è un’attività prolungata che consiste nell’esercizio pieno e perfetto delle funzioni dell’anima e se l’anima attiva differenti funzioni, la felicità suprema sarà quella consistente nell’esercizio della funzione più alta dell’anima. Dunque essa andrà identificata con la vita contemplativa o teoretica, ossia con l’esercizio pieno e perfetto dell’attività suprema dell’anima. Dire che la felicità è il bene supremo risulta certamente una cosa sulla quale si è tutti d’accordo, ma occorre esporre più chiaramente che cosa è. Forse questo potrebbe avvenire se si comprendesse l’attività propria dell’uomo. Infatti come per un suonatore di flauto e per uno scultore e per ogni artigiano e, in generale, per le cose di cui vi è un’opera ed un’azione, è nell’opera che, ad avviso unanime, risiedono il bene e la perfezione, se è vero che vi è un’opera proprio di lui. […] Come dell’occhio e della mano e del piede e, in generale, di ciascuna delle parti del corpo vi è manifestamente un’opera propria, così anche dell’uomo oltre a tutte queste si porrà un’opera propria. Pertanto quale mai potrebbe essere quest’opera? Infatti il vivere è in tutta evidenza una cosa comune anche alle piante, mentre si cerca ciò che è proprio dell’uomo. Bisogna dunque escludere la vita consistente nella nutrizione e nella crescita. Seguirebbe la vita sensitiva, ma è evidente che anch’essa è comune al cavallo ed al bue e ad ogni animale. Resta pertanto una certa attività della parte dell’anima che possiede la ragione. In verità nel passo che abbiamo appena letto Aristotele afferma che la felicità dell’uomo deve consistere nell’esercizio della ragione. Quest’ultima però non presenta un solo aspetto. Infatti è pratica e teoretica, in corrispondenza alla presenza di due elementi distinti: quello deliberativo (connesso alla dimensione pra-
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Unità 4 Aristotele
Diversi aspetti dell’animo, diverse virtù: virtù etiche e dianoetiche
tica) e quello propriamente conoscitivo (legato alla dimensione teoretica). Ma su questo punto si farà ritorno tra breve. Come si può arguire già sulla base di quanto detto finora, la virtù per Aristotele non può essere qualcosa di unico. Infatti esistono differenti aspetti dell’anima, ossia differenti modalità del suo agire; di conseguenza non potranno che esserci differenti virtù, ciascuna legata a un’attività propria dell’anima. In generale, l’anima presenta due funzioni principali, quella razionale e quella sensitiva o appetitiva (in cui si esprimono le nostre tendenze e i nostri desideri); dunque dovranno esserci due tipi di virtù: le prime proprie della funzione razionale e intellettiva – chiamate per questo «virtù dianoetiche» (da diànoia che significa «pensiero razionale») –, le seconde proprie invece della parte appetitiva – e definite «virtù etiche» (da èthos che significa «carattere»). Cominciamo da queste ultime.
Le virtù etiche Aristotele spiega che le virtù etiche costituiscono la piena realizzazione di una funzione dell’anima che non è propriamente razionale, ma che alla ragione può obbedire, seguendone i dettami. La virtù in generale rappresenta una disposizione stabile, ossia una sorta di abito perdurante (dunque non occasionale); la virtù etica costituisce per Aristotele una disposizione stabile capace di scegliere il giusto mezzo (mesòtes) tra due estremi. La scelta tra eccesso Si tratta di una delle concezioni più discusse di Aristotele. Per comprenderla, oce difetto corre pensare al campo dell’esperienza umana come a un continuum caratterizzato dalla presenza del più e del meno (pensiamo alla temperatura). In questo continuo di affezioni e passioni nel quale è immersa l’anima umana (non dimentichiamo che stiamo parlando della funzione appetitiva, cioè dei desideri che ci motivano all’azione), il soggetto deve essere in grado di cogliere il mezzo tra due estremi, l’uno segnato dall’eccesso, l’altro dalla mancanza. Partendo da questi presupposti, Aristotele arriva a considerare ogni virtù etica, ossia ogni virtù della parte appetitiva dell’anima, come un giusto mezzo tra due estremi, l’uno secondo l’eccesso l’altro secondo il difetto. Ecco il suo argomento: Funzione sensitiva e giusto mezzo
T23
Il medio tra eccesso e difetto Etica nicomachea, 2,5,1106a26-b4
Natura situazionale del giusto mezzo
Ora, in tutto ciò che è continuo, vale a dire divisibile, si può prendere il più, il meno e l’uguale; e queste determinazioni possono essere o secondo l’oggetto stesso o in relazione a noi. L’uguale è una sorta di medio tra l’eccesso e il difetto. Chiamo medio della cosa il punto che dista ugualmente da ciascuno dei due estremi, punto che è unico ed identico per tutti; chiamo invece medio rispetto a noi ciò che né eccede né difetta. Questo non è unico né identico per tutti. Ad esempio, se il 10 è troppo e il 2 è poco, si prende il 6 come medio secondo la cosa: infatti supera ed è superato di un’uguale quantità. Questo medio è secondo la proporzione aritmetica. Ma il medio rispetto a noi non va preso così: infatti se per un uomo mangiare 10 mine [antica unità di misura] è troppo e 2 mine è poco, il maestro di ginnastica non gli prescriverà 6 mine; forse infatti anche questa quantità è troppa o poca per la persona che la assorbe. Per Milone [un atleta famoso] infatti è poca, ma per un principiante di esercizi ginnici è troppa. Il giusto mezzo dell’etica aristotelica non è dunque di natura aritmetica, ossia quantificabile una volta per tutte. Si tratta, invece, di un giusto mezzo situaziona243
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le, connesso cioè al soggetto che agisce e alle condizioni concrete della sua azione. Un comportamento che risulta vizioso in un caso (per esempio fuggire di fronte all’avanzata dei nemici) può rivelarsi saggio, e dunque virtuoso, in un altro caso (se assume i caratteri di una ritirata tattica utile a preparare la controffensiva). Le singole virtù, giusto L’esame condotto da Aristotele delle diverse virtù etiche mira a mettere in luce mezzo tra due estremi come ciascuna di esse costituisca il giusto mezzo tra due estremi. Così il coraggio sarà il giusto mezzo tra la temerarietà (eccesso) e la codardia (difetto); la moderazione o temperanza sarà la medietà (situazionale e non aritmetica) tra l’incontinenza, ossia la ricerca sfrenata dei piaceri (eccesso), e l’insensibilità ai piaceri (difetto); la liberalità (o generosità) si collocherà in una posizione mediana tra la prodigalità (eccesso) e l’avarizia (difetto). Leggiamo alcuni esempi:
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La via di mezzo Etica nicomachea, 2,7,1107b4-1108a9
Esempi di virtù come giusto mezzo
Ambito
Difetto
Virtù (giusto mezzo)
Eccesso
Paure e ardimenti
Codardia (difetto di audacia ed eccesso di paura)
Coraggio
Temerarietà (eccesso di audacia)
Piaceri e dolori
Insensibilità (difetto nei piaceri)
Moderazione (temperanza)
Incontinenza (eccesso nei piaceri)
Ricchezze e averi
Avarizia (eccesso nel prendere e difetto nel dare)
Liberalità (generosità)
Prodigalità (eccesso nel dare e difetto nel prendere)
Onore e disonore
Meschinità
Magnanimità (fierezza)
Buffoneria
Ira
Indifferenza
Mitezza
Iracondia
Alimentazione
Anoressia
Dieta equilibrata
Ingordigia (bulimia)
Ruolo di abitudine ed educazione per l’esercizio della virtù
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Nel dominio dei piaceri e dei dolori […] la via di mezzo è la moderazione, l’eccesso l’incontinenza. Uomini che difettano in materia di piaceri non esistono affatto: per questo tali persone non hanno nemmeno ricevuto un nome, ma diciamo che sarebbero degli insensibili. Nel dominio del dare e del ricevere ricchezze la via di mezzo è la liberalità, l’eccesso e il difetto la prodigalità e l’avarizia. È in maniera opposta che in questi vizi si pecca per eccesso e per difetto. Il prodigo infatti eccede nel dare e difetta nel prendere, l’avaro invece eccede nel prendere e difetta nel dare. […] Nel dominio dell’onore e del disonore la via di mezzo è la magnanimità, l’eccesso quello che si può dire una sorta di buffoneria, il difetto la piccineria d’animo. […] Ci sono anche nel dominio dell’ira un eccesso, un difetto e una via di mezzo, ed essendo all’incirca queste disposizioni senza nome, poiché chiamiamo mite chi tiene il giusto mezzo, denomineremo mitezza la medietà. Di coloro che sono agli estremi, chi eccede chiamiamolo iracondo, ed iracondia il vizio corrispondente, chi difetta una sorta di indifferente ed indifferenza il difetto.
Secondo Aristotele – e siamo a un altro aspetto importantissimo della sua etica – a determinare la capacità di scegliere il giusto mezzo concorrono in maniera decisiva l’abitudine e l’educazione. In altre parole, per assumere un abito morale virtuoso è molto importante essere educati fin da piccoli alla virtù; è fondamentale poi che ci si abitui ad assumere determinati comportamenti, anche se, almeno inizialmente, essi non risultano del tutto interiorizzati. In ogni caso, per Aristotele la conoscenza di una certa virtù non garantisce affatto la sua realizza-
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Unità 4 Aristotele
Contro Socrate: conoscenza del bene e suo esercizio non coincidono
Imitazione e ruolo dei modelli
zione: si può sapere che cosa è la liberalità, senza poi riuscire a comportarsi in modo liberale. Non c’è dubbio che in quest’ultima posizione agisca una forte componente antisocratica (e anti-intellettualistica, vedi Unità 2, p. 90 ss.); Aristotele respinge l’idea che la conoscenza del bene sia garanzia di un comportamento virtuoso. Per lui è sempre possibile che il soggetto morale, pur conoscendo il bene, non lo persegua, a causa di una sorta di debolezza di carattere (esperienza, quest’ultima, che probabilmente ciascuno di noi nella vita avrà fatto). Nel contesto generale dell’etica aristotelica gioca un ruolo molto importante il tema dell’imitazione. Se un comportamento virtuoso può essere assunto anche grazie all’abitudine (almeno inizialmente), diventa decisiva la presenza di modelli concreti di comportamento virtuoso, ossia di cittadini che possano venire imitati dai giovani. In questo senso, la prima sfera pubblica in cui viene esercitata una forma di educazione alla virtù è senz’altro rappresentata dalla famiglia. Fondamentale diventa allora la funzione di modello del padre (tieni costantemente presente che per Aristotele il soggetto del discorso etico è un cittadino adulto, maschio e libero).
Le virtù dianoetiche Funzione intellettiva e saggezza
Saggezza e scelta
Saggezza come capacità pratica
Fini dell’azione e valori sociali condivisi
Il discorso fatto finora si riferisce sostanzialmente alle virtù etiche, ossia alle virtù della funzione sensitiva e appetitiva dell’anima. Abbiamo però visto che l’anima umana presenta anche una funzione dianoetica, ossia intellettiva. La virtù corrispondente a questa parte sarà in qualche modo superiore alla virtù etica, come la funzione intellettiva è superiore a quella appetitiva. In realtà, secondo Aristotele gli aspetti dell’anima intellettiva sono due, e due dovranno dunque essere le virtù ad essi corrispondenti: la sapienza (sophìa) e la saggezza (phrònesis). Qui diremo soprattutto della seconda. La saggezza (chiamata anche «prudenza») è la più importante delle virtù pratiche. Infatti, mentre la virtù dianoetica suprema, la sapienza, costituisce una sorta di ragione teoretica (di essa abbiamo parlato nel paragrafo precedente), in quanto si propone di conoscere le cose che non possono essere diversamente da come sono (cioè gli enti necessari), la saggezza costituisce la virtù conoscitiva relativa alle azioni e ai comportamenti umani, ossia alle cose che possono essere in un modo ma anche essere diversamente. In quanto virtù dianoetica, la saggezza sarà una forma di conoscenza; ed è una forma di conoscenza che ha per oggetto l’ambito della deliberazione, ossia quello della scelta. Ma in che cosa consiste precisamente questa suprema virtù pratica? La risposta di Aristotele è problematica. Egli sembra infatti considerare la saggezza come la disposizione permanente che consente a chi la possiede di individuare i mezzi atti al conseguimento di fini già stabiliti. Si tratta insomma di una capacità pratica (perché rivolta all’ambito delle azioni) che, accompagnata a una solida e duratura virtù etica, permette all’individuo di raggiungere la felicità, ossia il fine di ogni comportamento. Il problema – e in qualche modo la stessa natura aporetica di questa concezione – risiede nel fatto che, almeno apparentemente, l’ambito dello stabilimento dei fini viene sottratto alla razionalità pratica. I fini dell’azione sembrano infatti dipendere da un atto di volontà, che a sua volta dipende in larghissima misura dall’insieme delle tendenze e dei valori condivisi dal corpo sociale: da ciò che il padre, la legge, i cittadini insigni, la tradi245
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zione della società cui apparteniamo ci propongono come giusto e condivisibile. La decisione relativa alla bontà di una certa azione non viene prodotta da un ragionamento pratico (il quale si limita invece a stabilire i mezzi adeguati per conseguire un certo fine), ma viene presa da un soggetto morale che tende a conformarsi a ciò che la società reputa essere conveniente o virtuoso. Un’etica conservatrice Muovendo da considerazioni simili a queste, molti studiosi hanno accusato l’etie descrittiva? ca aristotelica di essere sostanzialmente conservatrice e comunque fortemente descrittiva. Conservatrice, perché si limiterebbe ad accettare come validi i valori condivisi da una data comunità (senza sottoporli al vaglio critico della ragione); descrittiva, perché si propone di descrivere come effettivamente si comporta il cittadino (eventualmente quello virtuoso), senza però prescrivere norme in grado di modificare in meglio lo stato delle cose (come ha fatto Platone). Normalità e normatività Si tratta di accuse che hanno una qualche legittimità. L’etica di Aristotele non manca infatti di una certa tendenza al naturalismo (a considerare cioè come naturale, cioè normale, immutabile e legittimo, ciò che esiste per il solo fatto che esiste). Bisogna però osservare che dalla sua idea di normalità (e dunque di naturalità) non è del tutto assente una certa normatività, ossia il tentativo di presentare, tra le varie opzioni in campo, quella che a lui appare effettivamente la migliore e dunque la preferibile (ossia quella che andrebbe messa in pratica nel ➥ Sommario, p. 255 caso non lo fosse al momento).
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L’uomo animale politico
La pòlis e la sua origine
La famiglia, primo nucleo associativo
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La politica Anche nel campo della sua riflessione politica Aristotele dimostra di essere contemporaneamente un erede e un critico di Platone. In ogni caso, il suo pensiero non sarebbe davvero comprensibile senza quello del grande maestro. Da Platone – e in polemica con molti autori vicini alla sofistica – Aristotele riprende l’idea secondo la quale l’uomo è naturalmente portato ad associarsi. La vita politica, ossia la vita comunitaria, non è dunque il frutto di un contratto (magari stipulato per paura di venire sopraffatti dagli altri), ma costituisce, in certa misura, la condizione naturale dell’uomo. Il quale – come recita una celebre definizione di Aristotele – è dunque un animale politico (zòon politikòn). Chi non vive con gli altri uomini – afferma perentoriamente Aristotele – è simile a un dio o a una belva, perché la condizione normale e naturale degli uomini è quella di vivere in forma associata. La forma di associazione politica che Aristotele ha in mente è quella costituita dalla pòlis, ossia dalla città-stato diffusa in Grecia da ormai qualche secolo. Tuttavia, la pòlis rappresenta la forma di associazione umana più complessa, ma non la prima, né in ordine di tempo né dal punto di vista strutturale. Infatti, la città rappresenta l’insieme di più villaggi e questi a loro volta nascono dal raggruppamento di più famiglie. Ciò significa che la famiglia costituisce il nucleo primitivo e fondamentale dell’associazione umana. La famiglia è fondata sul naturale istinto di un uomo e una donna a procreare, garantendo così la prosecuzione della specie. Essa è dunque composta, nella sua forma basilare, da un maschio adulto (che è capofamiglia), da una donna, dai loro figli (i maschi destinati a diventare a loro volta capi-famiglia) e da un numero variabile di schiavi.
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Unità 4 Aristotele Dipendenze e gerarchie, facoltà deliberativa e autorità
Famiglia ed economia
Contro Platone
➥ Percorso tematico, p. 275 Dalla famiglia alla pòlis: partecipazione politica dei cittadini liberi
Cittadini possidenti e capi-famiglia
Schiavi, donne, lavoratori non partecipano al governo
All’interno di questa struttura si vengono a instaurare relazioni di dipendenza naturale, che sono tuttavia diverse a seconda dei casi: l’uomo esercita il comando sulla donna, che è anch’essa libera e in possesso della facoltà deliberativa, ma che manca di autorità; il padre esercita la podestà sui figli, i quali, se maschi, sono destinati a succedergli; infine, il padrone comanda sullo schiavo, che è privo della facoltà deliberativa e che dunque ha interesse a essere comandato da chi la possiede; Aristotele ritiene infatti che gli schiavi siano dotati di ragione solo nella misura in cui questa serve loro per comprendere i comandi del padrone. Si deve osservare, di passaggio, che Aristotele sembra riconoscere alla schiavitù una sorta di naturalità (in realtà questo vale sostanzialmente per i barbari), anche se poi ammette che in alcuni casi gli schiavi sono tali non per natura ma per effetto di episodi determinati (per esempio i prigionieri di guerra). È molto importante tenere presente che per Aristotele la famiglia non è solo un nucleo di carattere affettivo; essa esercita anche una funzione economica fondamentale. L’òikos, ossia la casa comprensiva di tutti i suoi membri (schiavi inclusi) e dei beni materiali (terreni, attrezzi ecc.), costituisce agli occhi di Aristotele la cellula socio-economica fondamentale della città-stato (esiste anche una disciplina che la studia: l’oikonomìa appunto). In questo senso egli non manca di polemizzare anche aspramente con Platone, il quale, come ricorderai, aveva sostenuto l’esigenza di sopprimere la famiglia – sia sul versante affettivo (mogli e figli dovevano essere in comune) che su quello economico (la proprietà privata veniva eliminata) – dalla città perfetta (almeno per le classi dei governanti e dei guerrieri). Aristotele ritiene dannoso che tutto sia in comune, perché, se così fosse, nessuno se ne prenderebbe effettivamente cura. Se la famiglia costituisce la prima forma di aggregazione, lo Stato rappresenta certamente l’associazione umana compiuta e perfetta. La pòlis è per Aristotele una comunità composta da cittadini liberi, i quali esercitano a turno il comando. Tutti sono dunque impegnati nell’attività politica (la partecipazione è diretta e il potere non viene esercitato in forma rappresentativa, ossia attraverso dei rappresentanti democraticamente eletti, ma diretta, ossia dagli stessi cittadini); per poter svolgere attivamente le loro funzioni politiche, i cittadini devono disporre di un minimo di proprietà privata e soprattutto di schiavi in grado di lavorare al loro posto. L’intera riflessione politica di Aristotele sembra rivolgersi a cittadini mediamente abbienti, alieni da rivendicazioni economiche (tipiche di certe forme estreme di democrazia), non invidiosi della ricchezza altrui, e segnati dall’accettazione di un’ideologia sostanzialmente condivisa. Questi cittadini possidenti e capi-famiglia sono in grado, a turno, di governare i loro simili e di venirne governati. Esclusi dall’alternanza di potere sono invece, oltre che gli schiavi e le donne (per la loro carenza di un’autonoma razionalità politica) anche i lavoratori manuali (artigiani, operai, commercianti, contadini non proprietari). Essi sono necessari alla città per soddisfare i suoi bisogni materiali, ma non dovrebbero possedere i diritti politici di cittadinanza perché, secondo Aristotele, i lavori subalterni che essi svolgono non permettono loro di disporre di quel «tempo libero» necessario ad acquisire e a esercitare le virtù politiche (che si riconducono alla saggezza, phrònesis). Non sono cioè assimilabili, per carenza di qualità morale e di accettazione dei valori condivisi, al ceto dei veri «cittadini», dotati di prestigio sociale e della cultura indispensabile per governare. 247
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L’esercizio del potere: le forme costituzionali Il criterio guida: il numero di chi comanda
Monarchia, aristocrazia, politèia
Tirannide, oligarchia, democrazia
Lo schema delle costituzioni
T25
Le sei costituzioni
Politica, 3,7,1279a22-b10
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Al centro della riflessione politica di Aristotele si colloca, come già era accaduto in Platone, la questione dell’esercizio del potere, e in particolare il problema di chi debba comandare. Riprendendo e approfondendo posizioni platoniche, ma abbandonando decisamente l’idea platonica che i veri governanti siano i filosofi (ai quali può spettare il compito dell’analisi critica della politica, ma non il diretto esercizio del potere, perché essi sono dediti alla virtù teoretica e non a quella pratico-politica), Aristotele arriva a sviluppare una teoria delle forme costituzionali destinata a diventare classica. Egli individua un criterio fondamentale che gli serve per distinguere le differenti forme di governo: questo criterio è rappresentato dal numero di chi comanda. Se a governare è uno solo, avremo una monarchia; se a governare sono pochi e i migliori saremo di fronte a un regime di aristocrazia; se, infine, governeranno in molti, ossia la maggioranza dei cittadini, avremo una politèia, cioè una forma di costituzione mista nella quale sono presenti elementi aristocratici ed elementi democratici (che potremmo chiamare «governo ordinato della pòlis»). Queste tre forme di governo – monarchia, aristocrazia e politèia – si realizzano quando chi governa lo fa nel rispetto delle leggi e soprattutto nell’interesse della comunità (e non nel proprio). Viceversa, quando chi detiene il potere lo esercita a proprio vantaggio, si originano forme costituzionali degenerate: la tirannide (se governa uno solo nel proprio esclusivo interesse), l’oligarchia (se i pochi che hanno il potere lo gestiscono nel loro interesse) e la democrazia (se la maggioranza al potere comanda al solo scopo di avvantaggiare se stessa). È chiaro dunque che lo schema delle costituzioni immaginato da Aristotele presenta sei forme disposte in coppie di due (la prima forma di ogni coppia è sana, la seconda degenerata): monarchia-tirannide, aristocrazia-oligarchia, politèiademocrazia (vale la pena segnalare che per Aristotele la kallìpolis platonica rappresentava una forma di oligarchia). Stabilite queste premesse, bisogna indagare direttamente le costituzioni per stabilire quante e quali siano, annoverando prima le costituzioni rette, in quanto le degenerazioni verranno in luce dopo che saranno state definite le altre. Poiché costituzione e governo significano la stessa cosa ed il governo è il potere sovrano nella città, è necessario che il potere sovrano sia esercitato da uno solo, da pochi, o dai più. Quando uno solo, pochi o i più esercitano il potere in vista dell’interesse comune, allora si hanno necessariamente le costituzioni rette; mentre quando l’uno o i pochi o i più esercitano il potere nel loro privato interesse, allora si hanno le deviazioni. […] Abbiamo l’abitudine di chiamare regno quel governo monarchico che si propone il bene pubblico, e aristocratico il governo di pochi […] quando si propone il bene comune; quando la massa regge il governo in vista del bene pubblico, a questa forma di governo si dà il nome di politèia, con cui si designano in comune tutte le costituzioni. […] Le degenerazioni delle precedenti forme di governo sono la tirannide rispetto al regno, l’oligarchia rispetto all’aristocrazia e la democrazia rispetto alla politèia. Infatti la tirannide è il governo monarchico esercitato in favore del monarca, l’oligarchia mira all’interesse dei ricchi, la democrazia a quello dei poveri; ma nessuna di queste forme mira all’utilità comune.
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Unità 4 Aristotele Le costituzioni in Aristotele
Comando
Forma sana
Forma degenerata
Di uno
Monarchia
Tirannide
Di pochi
Aristocrazia
Oligarchia
Di molti
Politèia
Democrazia
Il quadro risulta in realtà leggermente complicato dalla questione della ricchezza. Aristotele osserva infatti che tanto l’oligarchia che la democrazia potrebbero venire definite non solo sulla base del numero di coloro che esercitano il comando, ma anche in riferimento alle condizioni economiche degli stessi; così l’oligarchia sarebbe il governo dei ricchi (anche nel caso – in realtà improbabile – in cui essi fossero la maggioranza), mentre la democrazia corrisponderebbe al governo dei poveri (anche nell’eventualità in cui essi fossero pochi a confronto della maggioranza dei ricchi). All’atto pratico, comunque, l’oligarchia finisce con l’essere il governo dei pochi ricchi esercitato nel loro esclusivo interesse, mentre la democrazia il governo della maggioranza dei poveri che prendono provvedimenti allo scopo di avvantaggiare se stessi. La superiorità Pur riconoscendo che, nel caso esistesse un singolo uomo straordinariamente dodella politèia tato, sarebbe giusto affidargli il potere monarchico, Aristotele sembra decisamente orientato a considerare la politèia, ossia la costituzione mista che governa la pòlis senza gli eccessi della democrazia radicale, come la forma migliore di costituzione. Essa consente meglio delle altre forme costituzionali un costante ricambio tra governati e governanti e per questo è la più adatta alla natura associativa e collaborativa dell’uomo. Optando per questo tipo di costituzione, Aristotele dimostra l’intento generale che anima la sua riflessione politica: quello di prendere le distanze tanto dal radicalismo progettuale della filosofia politica di Platone, quanto dagli eccessi ugualitaristi (soprattutto sul piano economico) di certe forme estreme di demo➥ Sommario, p. 255 crazia. Il criterio della ricchezza
12 Le discipline poietiche
La retorica e la poetica Nella classificazione delle conoscenze, dopo le discipline teoretiche (filosofia seconda, matematica e filosofia prima) e quelle pratiche (etica e politica) trovano posto le discipline poietiche, cioè produttive. Si tratta delle tecniche, ossia di quei saperi che hanno per fine non l’azione, ma la produzione di qualcosa (che deve essere esterno rispetto all’azione di produrlo). Due sono le opere dedicate alle discipline poietiche: la Retorica (in tre libri) e la Poetica (di cui è conservato solo il I libro).
L’arte della persuasione La retorica: persuasione e argomentazione
La retorica si propone di produrre discorsi persuasivi e, per questa ragione, risulta in qualche modo collegata alla politica (che di questi discorsi si serve). La 249
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Parte prima L’età antica
Gli strumenti della retorica: etica e dialettica
Deduzioni e induzioni abbreviate
Le applicazioni
persuasione alla quale la retorica tende si attua ovviamente attraverso la capacità di suscitare emozioni in chi ascolta; ma da essa non è aliena neppure la componente argomentativa, nel senso che la persuasione si attua anche grazie al ricorso ad argomentazioni (in questo senso essa presenta molti punti di contatto con la dialettica). L’effetto di persuadere viene prodotto secondo Aristotele sostanzialmente grazie a tre mezzi: le qualità morali dell’oratore (che dunque vanno costantemente sottolineate); i sentimenti di coloro che ascoltano (che vanno perciò ben conosciuti); e appunto la forza argomentativa del discorso. Per i primi due aspetti, ossia per le qualità morali dell’oratore e i sentimenti dell’uditorio, la retorica dipende largamente dall’etica, che infatti studia i caratteri e le passioni. Per quanto concerne, invece, il terzo aspetto, vale a dire la natura dell’argomentazione, la retorica si serve, esattamente come la dialettica, di procedure sillogistiche (ossia deduttive) e dell’induzione. Tuttavia, dal momento che il destinatario di un’orazione è meno preparato di quello al quale è rivolta un’argomentazione dialettica e che egli non interviene ma si limita ad ascoltare, le procedure retoriche devono risultare più semplici e in qualche modo abbreviate (le deduzioni semplificate sono chiamate «entimemi», mentre le induzioni abbreviate vengono definite «esempi» e consistono nel richiamo a casi particolarmente significativi). Il campo di applicazione della retorica è piuttosto vasto. Esso comprende i discorsi politici (cioè il genere deliberativo), quelli giudiziari (appunto il genere giudiziario) e i biasimi o le lodi pubbliche (ossia il genere epidittico o dimostrativo). Come detto, il sapere retorico esercita un’importante funzione trasversale, sia in quanto dipende da altri saperi, sia perché da altri saperi viene utilizzato.
La poesia tragica Poesia e imitazione
La tragedia, forma perfetta
Un racconto in forma drammatica
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Veniamo ora all’altra opera di argomento poietico. La Poetica è un’opera destinata a influenzare in modo duraturo per molti secoli la riflessione occidentale. Vediamo in estrema sintesi quali sono i punti principali toccati in questo scritto. La poetica è l’arte di produrre poesia. Aristotele riprende da Platone la convinzione che la poesia presenti una componente mimetica, sia cioè fondamentalmente imitazione (mìmesis). In realtà, la componente mimetica appartiene in modo essenziale all’essere umano; Aristotele osserva infatti che fin da fanciulli gli uomini sono portati a imitare (i bambini imitano gli atteggiamenti degli adulti) e che ricavano piacere da questo comportamento (che è, oltretutto, fonte per loro di conoscenza). Tra le forme di poesia mimetica la più perfetta e compiuta è secondo Aristotele la tragedia (senza dubbio la manifestazione sociale e artistica più significativa nell’Atene tra il V e il IV secolo a.C.). Pur accettando da Platone la tesi relativa alla natura mimetica della poesia e della produzione artistica in generale, Aristotele non si sente di condividere la clamorosa condanna inflitta alla poesia dal suo maestro (vedi Unità 3, p. 122 s.). Anzi, come vedremo, il giudizio aristotelico sulla poesia sembra sostanzialmente positivo. Ma procediamo con ordine. Per comprendere la natura e la funzione della poesia, si può tranquillamente limitarsi alla poesia tragica, la quale, come detto, rappresenta la forma più compiuta di poesia. Che cosa è dunque una tragedia? Prima di tutto essa è un racconto (my`thos), ossia un intreccio di eventi. I personaggi che vi appaiono com-
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Unità 4 Aristotele
La poesia, come conoscenza, sta tra filosofia e storia
L’universo del possibile ambito conoscitivo della poesia
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Poesia e storia
Poetica, 9,1451a36-b7
piono azioni serie, e si distinguono dai personaggi della commedia (alla quale era forse dedicato il II libro della Poetica, a noi non pervenuto), le cui azioni sono di poco conto e ridicole. La presentazione dei fatti e dei personaggi è ovviamente drammatica, ossia diretta (i personaggi prendono direttamente la parola), e non narrata come nell’epica. Ma in che cosa consiste l’elemento conoscitivo della poesia in generale e della tragedia in particolare? La risposta fornita da Aristotele a questo interrogativo è la seguente: la poesia si colloca, dal punto di vista del valore conoscitivo, a metà strada tra la filosofia e la ricerca storica (historìa). La filosofia e la ricerca scientifica in generale cercano di conoscere l’universale; la storia invece si interessa ai fatti singoli, ossia a casi particolari (gli eventi che sono effettivamente accaduti); la poesia ha per oggetto fatti singoli, ma nella loro portata universale. In altre parole essa conosce non ciò che è effettivamente accaduto, bensì ciò che potrebbe accadere: sequenze di eventi possibili, e le reazioni di fronte ad essi, che in ogni tempo sono proprie della natura umana. Come può reagire un uomo di fronte a una disgrazia, o a un’offesa, o a un destino imprevisto e crudele? Questo è quanto la tragedia ci insegna, ed essa è quindi utile a comprendere i segreti della natura umana. In questo senso la poesia e la tragedia possiedono una portata più universale rispetto alla conoscenza storica. Da ciò che si è detto è chiaro che il compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verisimiglianza o necessità. Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi (si potrebbero mettere in versi gli scritti di Erodoto e nondimento sarebbe sempre una storia, con versi o senza versi); si distinguono invece in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire. Perciò la poesia è cosa di maggior fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari.
La funzione conoscitiva non è però la sola esercitata dalla poesia. Secondo Aristotele infatti la poesia esercita anche un importante ruolo nel campo delle emozioni. Si tratta però di un ruolo tutt’altro che negativo, come invece credeva Platone. Per quest’ultimo, la poesia tragica andava bandita dalla città ideale anche in ragione del fatto che essa contribuiva a rafforzare le istanze irrazionali dell’anima (lo spettatore finiva con l’identificarsi con i personaggi tragici e pativa insieme a loro). Catarsi e formazione Al contrario, secondo Aristotele, proprio a questo livello si situa un elemento pomorale del cittadino sitivo della poesia tragica. È vero, infatti, che essa suscita nello spettatore passioni molto forti, come la pietà e il terrore; ma proprio nell’atto di suscitarle, essa mette in atto una sorta di processo di purificazione. Questa funzione catartica (kàtharsis significa «purificazione») dipende dal fatto che lo spettatore, assistendo alle sventure dei vari personaggi, prova per loro pietà (perché le considera ingiuste) e terrore (temendo di subirle lui stesso), ma il tutto depurato, per così dire, dall’aspetto egoistico: egli vede cioè che cosa può capitare a un essere umano, da quali terribili passioni può essere dominato, senza esserne lui stesso coinvolto personalmente. Comprendere dall’esterno la violenza delle emozioni può aiutare a controllarle meglio in noi stessi, e dunque la tragedia è utile per la stessa formazione morale del cittadino. L’unità dell’opera L’ultimo importante aspetto della Poetica di Aristotele che merita di essere seRuolo positivo delle emozioni
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Parte prima L’età antica
➥ Sommario, p. 255
13 Un Liceo enciclopedico
Teofrasto l’allievo e la tradizione dossografica
Teofrasto il maestro e l’interesse per il naturalismo
I successori
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gnalato, soprattutto per l’enorme influenza esercitata sulla tradizione drammatica posteriore (fino al Rinascimento), si riferisce al tema dell’unità dell’opera. Un testo drammatico, per risultare effettivamente unitario e organico, deve raccontare un’unica vicenda (principio dell’unità di azione), e deve farlo in modo che tutte le parti siano perfettamente inserite nel tutto: «Come nelle altre pratiche imitative l’imitazione unitaria è quella di un unico oggetto, così anche è necessario che il racconto, poiché è imitazione di un’azione, lo sia di un’unica e insieme intera, e che le parti siano così connesse che, trasposta o sottratta una parte, l’intero ne risulti mutato e alterato» (Poetica, 6,1450b30-35). Unica deve essere l’azione, così come unico il luogo e il tempo. A questi criteri si atterranno tutte le rappresentazioni fino al Rinascimento (ultimo esempio della straordinaria influenza esercitata da questo autore).
La scuola di Aristotele: il Peripato Aristotele fonda in Atene, verso il 335, una sua scuola, il Liceo o Peripato, che ha caratteri molto diversi dall’Accademia platonica. In questa, l’insegnamento centrale è dedicato alla dialettica e alle matematiche, e gli interessi teorici non sono mai separati dalle prospettive politiche di riforma della società. Nella scuola aristotelica, invece, l’insegnamento riguarda tutte le parti dell’enciclopedia del sapere tracciata dal maestro, con particolare attenzione per le discipline fisiche e biologiche, oltre che, s’intende, per la filosofia prima e la logica. Aristotele detiene una posizione indiscussa di caposcuola, ma affida le parti specialistiche dell’insegnamento ad allievi in esse preparati. La politica forma in questo quadro uno dei temi di studio teorico, ma è invece abbandonato ogni intento di intervento diretto nelle vicende della città (tra l’altro sia il caposcuola sia i suoi principali allievi sono stranieri in Atene, e non vi godono quindi di diritti politici). Alla guida della scuola viene nominato alla morte di Aristotele il più fedele e importante dei suoi allievi: Teofrasto di Asso (370-286 a.C. ca.). A lui si deve la composizione dei diciotto libri delle Opinioni dei fisici, una raccolta delle dottrine fisiche dei pensatori presocratici, dalla quale dipende una parte consistente della tradizione dossografica antica (vedi Unità 1, p. 32). Sappiamo che l’analisi e la discussione delle opinioni dei predecessori gioca un ruolo strategico nella filosofia aristotelica; si comprende dunque come il grande filosofo abbia potuto affidare al suo allievo più importante il compito di vagliare e raccogliere le opinioni di coloro che lo avevano preceduto nella ricerca della verità. Di Teofrasto sappiamo che ha spiccati interessi naturalistici. Scrive di botanica, biologia, meteorologia, fisica e anche di cosmologia e filosofia prima (compone per esempio un’opera dal titolo, certamente posteriore, di Metafisica, nella quale affronta problemi fisici, cosmologici e metafisici). Celebre è anche un suo scritto di argomento morale, I caratteri, nel quale fornisce una descrizione dei principali tipi umani. Nei due secoli successivi il Peripato non abbandona più l’impronta scientifica che gli ha dato Teofrasto. La figura forse più significativa è quella di Stratone di Lampsaco, successore di Teofrasto alla guida della scuola. Di lui sappiamo che si concentra sulla fisica (viene per questo soprannominato «il fisico»), interpre-
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Unità 4 Aristotele
tando i processi naturali soprattutto come il prodotto dell’azione del caldo e del freddo; sembra poi che Stratone abbia contatti con Alessandria, dove si trova il più importante centro scientifico dell’ellenismo. Peripatetico è anche Aristosseno di Taranto, la cui fama è legata ai suoi interessi musicali. Un’altra figura di rilievo è quella di Eudemo di Rodi, cui si deve, tra l’altro, un’importante storia della matematica. Rinascita e commento Una piena rinascita dell’aristotelismo in tutti i suoi aspetti si ha solo nel I-II secolo d.C. (anche a seguito della grande edizione di Andronico di Rodi), con personaggi come Alessandro di Afrodisia, che inaugura – ma sarebbe forse più corretto dire che sviluppa in modo decisivo – la stagione dei grandi commentatori ➥ Sommario, p. 255 delle opere del corpus aristotelico.
14 Il Filosofo
Ragioni della fortuna: pervasività, capacità persuasiva, apparente obiettività
Morte e rinascita
➥ Sommario, p. 255
Un bilancio Aristotele ha goduto nella tradizione occidentale di un’immensa autorità. Dante Alighieri lo chiamava «il maestro di color che sanno», e nel Medioevo ci si riferiva a lui semplicemente come al «Filosofo», quasi non ce ne fossero stati altri degni di portare questo nome. Non è difficile comprendere le ragioni di questo successo di Aristotele nella posterità. In primo luogo, esse stanno nella sua capacità di controllare tutti i campi del sapere, dalla fisica alla teologia, dall’etica alla poetica, e di offrire per ognuno di essi spiegazioni argomentate, ricche di analisi determinate e di prospettive d’insieme. In secondo luogo, lo stile filosofico di Aristotele è sempre improntato a una sobria ragionevolezza, che lo rende (almeno in apparenza) equilibrato, oggettivo, convincente. In terzo luogo, Aristotele mostra di riferirsi, in ogni campo, alla «natura» delle cose, cioè alla struttura invariante dei fenomeni e dei processi analizzati. In questo modo, egli dà l’impressione che i suoi risultati siano sottratti tanto ai mutamenti del tempo e della storia, quanto all’arbitrarietà dei punti di vista soggettivi. Il pensiero aristotelico è potuto quindi sembrare perennemente valido, perché non muta la natura del mondo che egli ha descritto. Noi oggi sappiamo, certamente, che anche la filosofia di Aristotele è il frutto di una determinata epoca storica, di specifici punti di vista che non possono venire considerati incontrovertibili. E, per uscire dal Medioevo, i filosofi del Rinascimento europeo hanno dovuto operare una vera e propria «rivoluzione» antiaristotelica. Ma ancora oggi molti filosofi (soprattutto nel campo dell’etica e della politica) si considerano «neoaristotelici», cioè continuano a condividere le idee fondamentali di Aristotele. E la sua logica è certamente una conquista altrettanto duratura quanto, per esempio, la geometria di Euclide.
Suggerimenti bibliografici Una esposizione esauriente, rigorosa e autorevole che spazia a trecentosessanta gradi è offerta in E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma-Bari 20043. Agilissimo, chiaro, talvolta quasi avvincente è J. Barnes, Aristotele, Einaudi, Torino 2002. Per chi volesse iniziare ad affrontare la Metafisica è sintetico e preciso P.L. Donini, La Metafisica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 20002.
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Parte prima L’età antica Sulla politica, conciso e autorevole è W. Kullmann, Il pensiero politico di Aristotele, Guerini e Associati, Milano 1992. I brani antologizzati sono tratti da: Aristotele, Dell’interpretazione; Analitici, in P.L. Donini, La filosofia di Aristotele, Loescher, Torino 1982. Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2002. Aristotele, Categorie, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1991. Aristotele, Fisica, libri 1-2, a cura di F. Franco Repellini, Bruno Mondadori, Milano 1996. Aristotele, Sul cielo, in F. Franco Repellini, Cosmologie greche, Loescher, Torino 1980. Aristotele, Le parti degli animali, in Aristotele, Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, UTET, Torino 1971. Aristotele, Etica nicomachea, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1994. Aristotele, Politica, a cura di C.A. Viano, Rizzoli, Milano 2002. Aristotele, Poetica, a cura di D. Lanza, Rizzoli, Milano 1994.
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Unità 4 Aristotele
Sommario 1. IL
PRIMO PROFESSORE
Con Aristotele la filosofia assume i contorni di un imponente edificio teorico caratterizzato dalla sistematicità dell’ordine dei saperi. 2. LE
RAGIONI DI
ARISTOTELE
Rispetto a Platone, Aristotele riavvicina la filosofia all’esperienza comune e affida alle scienze il compito di spiegare l’ordine del mondo. 3. L’EDIFICIO
DEL SAPERE
Le scienze, relativamente autonome, sono tripartite in discipline teoretiche, pratiche e poietiche (delle arti). 4. LA
LOGICA
La logica, strumento (òrganon) delle scienze, concerne anzitutto il linguaggio: Aristotele analizza le proposizioni, dividendole in dichiarative (portatrici di un valore di verità) e non, e i rapporti di opposizione inerenti quantità e qualità. Segue la teoria del sillogismo, concernente l’andamento deduttivo dei discorsi e la dimostrazione. I principi scientifici, non deducibili, vengono provati per via indiretta o conosciuti per induzione. 5. LE
CATEGORIE E IL PRIMATO DELLA SOSTANZA
L’analisi del rapporto di predicazione, e l’individuazione dei quattro predicabili (definizione, genere, proprietà, accidente), conduce Aristotele a individuare le dieci categorie e a isolare tra esse la sostanza, realtà singola, determinata, soggetto o sostrato di ogni predicazione, dunque differente dalle sostanze seconde (specie e generi), di essa predicabili. 6. IL
DIVENIRE DEL MONDO: PRINCIPI E CAUSE
I principi del mutamento, propri degli enti naturali, sono la privazione, la forma e il sostrato o sostanza, ossia ciò che permane nel passaggio dalla privazione alla forma, e che in un certo senso è anche la materia del divenire. Il mutamento è spiegato altresì tramite le nozioni di potenza e atto. Infine, il divenire ha quattro cause: materiale, formale, motrice o efficiente e finale; in ciò emerge il finalismo aristotelico: agli enti naturali, al pari dei manufatti, viene attribuito un fine. 7. LA STRUTTURA DELL’UNIVERSO: COSMOLOGIA E TEOLOGIA
Attraverso la teoria del movimento, in particolare rettilineo e circolare, Aristotele passa dalla fisica alla cosmologia; ne emerge un universo bipartito tra un mondo sublunare e un mondo astrale, composto dall’etere, e nell’insieme pieno (non esiste il vuoto), finito, stratificato ed eterno. Per spiegare il movimento degli astri, Aristotele elabora la teoria del primo motore immobile: il pensiero (nous) di pensiero, l’entità divina garante dell’ordine del cosmo.
8. I
VIVENTI E L’ANIMA: BIOLOGIA E PSICOLOGIA
Nella biologia, concernente tutti gli esseri viventi, emerge il finalismo aristotelico, sia nella priorità attribuita alla funzione rispetto agli organi, sia nel postulare la sopravvivenza di ogni singola specie (considerata eterna) come fine. L’anima, forma di ogni essere vivente, viene studiata a fondo: dalla sua tripartizione all’analisi della percezione e dell’intelletto (nous). 9. LA
FILOSOFIA PRIMA O METAFISICA
La filosofia prima o metafisica o sapienza è il sapere universale concernente gli enti superiori. Essa studia l’essere in quanto essere. Il senso primario in cui si dice l’essere è la sostanza, ovvero la forma: essa è infatti la causa dell’essere; forma individuale e atto della materia. Tra le sostanze, sono superiori i motori immobili (divini, eterni, incorruttibili); la filosofia prima diviene così una scienza teologica, concernente sostanze non fisiche ma «metafisiche». 10. L’ETICA
L’etica studia le azioni umane volontarie e deliberate; esse sono volte a raggiungere il bene supremo, la felicità. Le virtù etiche, inerenti alla parte sensitiva, si raggiungono grazie al giusto mezzo, e si formano tramite abitudine ed educazione. Le virtù dianoetiche, inerenti alle funzioni intellettive, sono sapienza e saggezza; soprattutto rispetto a quest’ultima, l’etica aristotelica si limita a descrivere i comportamenti. 11. LA
POLITICA
L’uomo è un animale politico, vive cioè per natura in comunità, della quale la pòlis è la forma compiuta; fondata sul nucleo familiare, allargato agli schiavi, e gerarchicamente ordinato sotto il comando del maschio adulto, libero e possidente. Contro Platone, Aristotele difende la proprietà privata e, individuate sei forme costituzionali, opta per la politèia che permette il ricambio al governo e tutela l’interesse collettivo. 12. LA
RETORICA E LA POETICA
Delle dottrine poietiche, la retorica pertiene alla produzione di discorsi persuasivi, la poetica tratta della poesia. Il racconto tragico, concernente non la storia ma l’ambito del possibile, grazie all’induzione della catarsi, ha un effetto moralmente positivo. 13. LA
SCUOLA DI
ARISTOTELE:
IL
PERIPATO
Il Liceo o Peripato si caratterizza per la sua impostazione enciclopedica; ad Aristotele succede Teofrasto. 14. UN
BILANCIO
Se molte dottrine di Aristotele sono state demolite, altre godono ancora oggi di ottima salute. 255
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Parte prima L’età antica
Parole chiave Anima. L’atto di un corpo naturale che ha la vita in potenza; in quanto forma, essa è il principio di organizzazione del corpo ed è da esso inseparabile. È divisa in tre funzioni – vegetativa (piante), sensitiva (animali), intellettiva (uomo) – disposte gerarchicamente. Cause / Finalismo. Il divenire è spiegato da quattro cause: 1) materiale, che concerne la materia dell’ente; 2) formale, il modo in cui la materia è disposta; 3) motrice o efficiente, ciò che imprime il movimento; 4) finale, il fine per cui avviene il mutamento. Il finalismo (o teleologismo, da tèlos) di tale concezione è esplicito nello stretto parallelismo tra arte e natura. Esso emerge anche nelle dottrine biologiche. Dimostrazione. La dimostrazione (apòdeixis) è un sillogismo scientifico: le premesse devono essere o vere, prime, universali e necessarie, o a queste riconducibili; in questo caso si ha vera e propria scienza. Essere. L’essere è il predicato più universale e in quanto tale («l’essere in quanto essere») è oggetto di studio della metafisica. Dei molti sensi in cui si dice l’essere, quello primario è la sostanza, ovvero la forma. Giusto mezzo. La virtù etica è una disposizione stabile capace di scegliere il giusto mezzo (mesòtes) tra i due estremi dell’eccesso e del difetto. Induzione. L’induzione (epagoghè) è così articolata: dalla singola sensazione (àisthesis), attraverso il ricordo, si genera l’esperienza (empeirìa) che l’intelletto (nous) universalizza. In tal modo si giunge ai principi comuni a più scienze o propri delle singole scienze, ovvero alle premesse prime. Metafisica / Sapienza / Filosofia prima. La parola «metafisica» deriva dal nome dato da Andronico alla raccolta dei libri che venivano «dopo quelli di fisica» («ta metà ta physikà»). Aristotele chiama «sapienza» (sophìa, che è anche una virtù dianoetica) o «filosofia prima» (la «filosofia seconda» è la fisica), il sapere universale concernente gli enti superiori; essa si delinea come scienza teologica. Mondo sublunare / Mondo astrale / Etere. L’universo aristotelico è bipartito: al centro vi è il mondo terrestre (o sublunare), composto dai quattro elementi tradizionali, e segnato da movimenti rettilinei; al di sopra si staglia il mondo astrale, contraddistinto da movimenti circolari e composto dal quinto elemento, l’etere, sì che gli astri risultano incorruttibili, eterni e divini. Mutamento / Privazione / Forma / Materia. Il mutamento (kìnesis), cui si dedica la fisica, è incentrato su 256
tre principi, identici per analogia: 1) la privazione (stèresis) è lo stadio iniziale, in cui la forma è ancora assente; 2) la forma (èidos) è la condizione che l’ente assume alla fine del processo; 3) il sostrato o sostanza è ciò che permane, in un certo senso la materia (hy`le) del divenire. Nous. Il nous indica sia il pensiero e l’intelletto, attivo e passivo, che contraddistingue l’essere umano, sia l’Intelletto divino, che coincide con il primo motore immobile. Potenza / Atto. Le nozioni di potenza (dy`namis) e atto (enèrgheia o entelècheia) si riferiscono al mutamento: nella materia è presente in potenza la forma finale che essa assumerà al termine del processo. Predicazione / Categorie. Il rapporto di predicazione (kategorìa) concerne quello tra soggetto e predicato; un predicato può appartenere a un soggetto come sua definizione, genere, proprietà e accidente. Questi quattro casi cadono necessariamente in una delle dieci categorie: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, giacere, avere, agire, patire. Primo motore immobile. Esso è forma pura, quindi priva di materia, atto puro, eterno, divino, pensiero (nous) di pensiero; è la causa prima del movimento degli astri, che muove pur restando immobile. Saggezza / Felicità. La virtù dianoetica della saggezza (phrònesis) consiste nell’individuare i mezzi atti a raggiungere la felicità (eudaimonìa). Vi sono tre forme di felicità: quella propria della vita edonistica, quella propria della vita politica, e quella propria della vita contemplativa, consistente nell’esercizio della funzione intellettiva. Sillogismo. Il sillogismo (sylloghismòs) è composto da tre proposizioni: due premesse, con un termine comune detto «medio», e una conclusione, nella quale compaiono i due «estremi» delle premesse. La conclusione è la deduzione necessaria di quanto è implicito nelle premesse. Sostanza / Sostrato. Rispetto alla predicazione, la sostanza (ousìa) è sempre soggetto, non può cioè essere predicata, e niente può essere predicato senza che vi sia una sostanza che funga da soggetto; essa è perciò detta anche sostrato (hypokèimenon) della predicazione. La sostanza prima è sempre una realtà individuale, singolare, determinata; le sostanze seconde (specie e generi) possono invece essere predicate della sostanza prima. Nell’ambito metafisico e teologico, sostanza è la forma e sostanze prime sono i motori immobili.
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Unità 4 Aristotele
Questionario IL
PRIMO PROFESSORE
1
LE
Qual è la caratteristica fondamentale dell’edificio teorico aristotelico? (max 4 righe)
RAGIONI DI
2
LA
Aristotele analizza il rapporto tra le proposizioni (asserzioni) servendosi della teoria del sillogismo. Indica da quali parti è costituito e definisci il particolare tipo di sillogismo rappresentato dalla dimostrazione. (max 10 righe) Quale delle dieci categorie all’interno delle quali Aristotele definisce i rapporti di predicazione tra il soggetto e il suo predicato ha una posizione prioritaria rispetto alle altre e perché? (max 10 righe) Quale coppia di nozioni usa Aristotele per spiegare i processi del divenire e quale principio ne costituisce il fondamento? (max 10 righe) Quali sono le differenze tra mondo sublunare e mondo astrale e quale ruolo riveste nel mondo astrale il primo motore immobile? (max 15 righe)
VIVENTI E L’ANIMA: BIOLOGIA E PSICOLOGIA
8
LA
LA
13
UN
Spiega il rapporto che intercorre nella biologia aristotelica tra funzioni e organi e perché si può parlare di finalismo. (max 10 righe)
FILOSOFIA PRIMA O METAFISICA
9
Perché la sapienza, o metafisica, o filosofia prima può essere considerata una scienza teologica? Quali oggetti concerne? (max 10 righe)
Quali sono le funzioni che Aristotele attribuisce alla poesia e perché essa ha un effetto moralmente positivo sull’individuo? (max 6 righe)
SCUOLA DI
ARISTOTELE:
IL
PERIPATO
Che impostazione ha il Liceo e chi ne prende la guida dopo Aristotele? (max 5 righe)
BILANCIO
14
Quali sono le ragioni del successo di Aristotele? (max 3 righe)
Lavoriamo sui testi 15
In che senso è possibile affermare che il filo rosso che lega i brani T1, T2, T3, T4 e T5 è l’analisi del linguaggio? (max 15 righe)
16
Qual è il rapporto tra sostanze prime e sostanze seconde così come si evince da T7? (max 5 righe)
17
Quali sono le cose per natura secondo T9 e qual è il principio che le definisce? (max 5 righe)
18
Aristotele paragona la natura all’arte al fine di dimostrarne un orientamento teleologico. Come viene espresso questo rapporto in T11? (max 6 righe)
19
La causa del movimento del cielo è il primo motore immobile. Spiega il ragionamento attraverso il quale Aristotele fa questa affermazione in T14. (max 10 righe)
20
Per quali ragioni la felicità rappresenta il bene supremo per l’uomo in T21 e T22 e che relazione essa ha con la teoria del giusto mezzo esposta in T23 e in T24? (max 15 righe)
STRUTTURA DELL’UNIVERSO: COSMOLOGIA E TEOLOGIA
7
I
12
Qual è la classificazione delle scienze aristoteliche, secondo la presentazione di Andronico, e quali sono gli ambiti che ognuna di esse concerne? (max 10 righe)
Analizza carattere, funzioni e scopo della famiglia nella teoria politica di Aristotele, sottolineando le differenze con la concezione di Platone. (max 10 righe)
RETORICA E LA POETICA
DIVENIRE DEL MONDO: PRINCIPI E CAUSE
6
LA
LA
DEL SAPERE
CATEGORIE E IL PRIMATO DELLA SOSTANZA
5
IL
11
LOGICA
4
LE
POLITICA
ARISTOTELE
Qual è la posizione di Aristotele rispetto alla teoria delle idee platonica? (max 10 righe)
L’EDIFICIO 3
LA
L’ETICA 10
In che senso si può dire che il giusto mezzo dell’etica aristotelica è di natura situazionale e non aritmetica? (max 6 righe) www.edusophia .it 257
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Parte prima L’età antica
Laboratorio di lettura L’Etica nicomachea (1) Per Aristotele la felicità (eudaimonìa) è un’attività secondo virtù; ciò significa che essa rappresenta la piena realizzazione della funzione propria di colui che agisce, dal momento che la virtù (aretè) di una cosa è esattamente costituita dalla realizzazione di ciò che è proprio e peculiare di quella determinata cosa. Ad agire è naturalmente l’anima; sappiamo però che l’anima presenta diverse funzioni e dunque diverse attività. La felicità sarà, dunque, la piena realizzazione dell’attività della funzione più alta dell’anima umana. Per Aristotele questa funzione è costituita dall’intelletto (nous); il che significa che la felicità sarà la piena realizzazione della funzione intellettiva dell’anima, ossia la contemplazione (theorìa). In effetti, secondo Aristotele, la funzione intellettiva dell’anima presenta almeno due aspetti: quello pratico, rivolto alle cose che possono essere anche diversamente da come sono (ossia le azioni), e quello teoretico o contemplativo, indirizzato invece alla conoscenza delle cose che non possono essere diversamente da come sono, ossia gli enti necessari. Si avranno allora due virtù dianoetiche, cioè due virtù della parte pensante e razionale dell’anima (appunto la diànoia). La prima, quella relativa alle azioni, è la saggezza (phrònesis); la seconda, cioè la virtù dianoetica suprema, è la sapienza (sophìa), la quale si esercita per mezzo della conoscenza, cioè della contemplazione, delle realtà immutabili. Si tratta, come ormai è evidente, del tipo di attività praticata esattamente dal filosofo e dallo scienziato. Per Aristotele, dunque, la felicità perfetta consiste nella conoscenza contemplativa, cioè nella sapienza. Essa possiede delle caratteristiche ben definite. È un’attività autosufficiente, ossia non bisognosa di altro, e in questo senso indipendente. Per esercitare le altre virtù, è necessario possedere una certa dotazione di beni (per esempio il denaro per praticare la generosità, la forza per praticare il coraggio); invece la conoscenza teoretica necessita in misura minima di beni esterni. Essa inoltre non viene praticata per gli eventuali vantaggi che può portare, ma solo per se stessa, ossia per il piacere che essa produce in chi la pratica. Infine, l’attività teoretica è direttamente collegata alla condizione della scholè, ossia alla mancanza di impegni e di oneri, che sono invece tipici di chi si dedica alla vita degli affari o a quella politica. Per tutte queste ragioni Aristotele può concludere che l’uomo, quando esercita l’attività contemplativa (acquisendo una condizione di perfetta felicità), è in un certo senso simile a un dio. In effetti, egli si allontana in qualche misura dalla condizione umana (caratterizzata per esempio dalla presenza della funzione appetitiva e desiderante dell’anima) per realizzare un tipo di vita simile a quella degli dèi: una vita affrancata dalla dimensione della prassi e della deliberazione (tipiche degli uomini), e scandita dalla pura contemplazione delle realtà eterne e immutabili.
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Unità 4 Aristotele
Aristotele: la superiorità della vita contemplativa Tesi: la felicità è l’attività secondo la virtù più alta
Primo argomento: l’intelletto è la facoltà più alta e il suo esercizio è l’attività più alta e la più continua Secondo argomento: l’esercizio dell’intelletto è anche l’attività più piacevole
Commento e interpretazione
Se la felicità è attività secondo virtù, è logico che sia secondo la virtù più alta; e questa sarà la virtù di ciò che vi è di migliore. Tanto dunque che questo sia l’intelletto, o qualcos’altro – qualcosa che, ad avviso di tutti, per natura comanda e dirige e ha conoscenza delle realtà belle e divine: o perché è in se stessa divina, o perché è la cosa più divina che è in noi –, l’attività di questa parte secondo la virtù che le è propria costituirà la felicità perfetta. Ora, che questa attività sia un’attività contemplativa è stato detto. Questa conclusione si accorda sia con i risultati precedentemente guadagnati sia con la verità. [A] Infatti questa attività è la più alta: giacché anche l’intelletto, di ciò che è in noi, è quel che vi è di più alto e, delle cose che sono oggetto di conoscenza, le più alte sono proprio quelle intorno alle quali verte l’intelletto. In secondo luogo questa attività è la più continua: infatti possiamo contemplare con più continuità che compiere una qualsiasi azione. [B] Inoltre noi riteniamo che il piacere deve essere mescolato con la felicità: ora, fra tutte le attività secondo virtù, la più piacevole è, per consenso unanime, quella della sapienza. Tutti riconoscono che la filosofia possiede piaceri meravigliosi per purezza e stabilità, ed è logico che trascorrere il tempo sia più piacevole per chi conosce che per chi ricerca. [C]
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A. Viene qui presupposta la concezione relativa alle differenti funzioni dell’anima (vedi p. 231 ss.): quella riproduttiva e vegetativa, quella sensitiva e motrice, e quella razionale. Se la felicità rappresenta la piena realizzazione di una funzione propria dell’anima e se le funzioni sono molteplici, essa non potrà che identificarsi con l’attuazione della funzione superiore. Ora, che quest’ultima vada individuata nella conoscenza intellettuale, ossia nella contemplazione, viene riconosciuto, secondo Aristotele, pressoché da tutti (e in primo luogo proprio da Platone). Dunque, se le opinioni diffuse hanno buone possibilità di cogliere la verità (almeno in larga misura), bisognerà concludere che la felicità si identifica con l’attuazione della funzione conoscitiva dell’anima, ossia con la contemplazione. B. La contemplazione è la più alta delle attività dell’uomo, perché costituisce la realizzazione della funzione intellettuale, che rappresenta la funzione più alta dell’anima umana. Aristotele si dimostra sotto questo aspetto del tutto fedele a Platone, per il quale l’intelletto (nous) e l’intellezione (nòesis) si collocavano al vertice delle forme conoscitive descritte nell’immagine della linea (vedi Unità 3, p. 139 s.). La contemplazione è anche l’attività più continua, perché è quella che risulta per così dire meno intralciata. Infatti, secondo Aristotele, la fatica cui dà luogo la realizzazione di una certa attività dipende dalla necessità di passare dalla potenza all’atto; ma nel caso della contemplazione, non essendoci materia, non ci sarà neppure potenza (vedi p. 219 ss. e p. 233 ss.): dunque l’attività contemplativa è atto puro e può risultare continua e incessante. Inoltre, essa è causa di godimento e felicità per chi la pratica e, quando si compie un’azione che reca felicità, non ci si affatica. C. Secondo Aristotele la felicità non può essere disgiunta da un certo piacere (hedonè); in questo senso egli si fa portavoce di un’etica senza dubbio meno radicale e più realistica di quella propugnata da certe tendenze socratiche e poi ripresa in epoca ellenistica dagli stoici, per i quali la felicità del saggio risulterà del tutto indipendente dal piacere. Egli aggiunge poi che è più felice chi conosce rispetto a chi ricerca. Con ciò intende sottolineare che l’aspetto veramente decisivo non è tanto costituito dalla ricerca della verità quanto dalla sua definitiva acquisizione: la ricerca – ogni ricerca – acquista significato solo nella misura in cui è in grado di raggiungere la sua meta, ossia la conoscenza della
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Quarto argomento: la sapienza è amata per se stessa Quinto argomento: le attività pratiche negano il tempo libero
Prima conclusione: la felicità coincide con l’attività dell’intelletto; una vita secondo l’intelletto, che è divino, è essa stessa divina
Ancora: quella che viene chiamata «autosufficienza» riguarderà soprattutto l’attività contemplativa: infatti sia il sapiente che il giusto che gli altri uomini hanno bisogno delle cose necessarie per vivere; ma, fra coloro che sono sufficientemente provvisti di tali cose, il giusto ha bisogno di persone verso le quali e con le quali agirà con giustizia, e similmente anche il saggio e il valoroso e ciascuno degli altri uomini virtuosi; il sapiente, invece, anche restando solo con se stesso, è perfettamente capace di contemplare; e ne è più capace quanto più è sapiente. Senza dubbio è meglio se ha dei collaboratori, ma in ogni caso è pienamente bastevole a se stesso. [D] Inoltre tutti convengono che essa sola è amata per se stessa; da essa infatti non deriva nulla al di fuori del contemplare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo, al di fuori dell’azione, un vantaggio più o meno grande. [E] Inoltre è comunemente ammesso che la felicità risieda nella vita lontana dagli affari: infatti ci applichiamo intensamente a delle occupazioni allo scopo di avere poi tempo libero dagli affari, e facciamo guerra per trascorrere poi i nostri giorni in pace. Ora, l’attività delle virtù pratiche si esplica nelle faccende politiche o in quelle militari; ma ad avviso di tutti, le azioni che concernono queste faccende rappresentano la negazione del tempo libero da occupazioni. [F] […] Pertanto tra le azioni conformi alle virtù quelle politiche e militari eccellono per bellezza e importanza, ma esse sono la negazione del tempo libero da occupazioni, e tendono a un fine, e non sono desiderabili per se stesse. Se invece l’attività dell’intelletto, la quale è attività contemplativa, eccelle – ad avviso di tutti – per la serietà e non tende a nessun fine all’infuori di sé medesima, e ha il proprio piacere […]; se infine l’autosufficienza, il tempo libero da occupazioni, la mancanza di fatiche (per quel che è possibile all’uomo), e tutti gli altri caratteri che si attribuiscono all’uomo
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verità. In altre parole, il momento negativo dell’aporìa, ossia del dubbio e dell’investigazione, risulta chiaramente finalizzato a quello positivo dell’euporìa, vale a dire del raggiungimento del risultato. D. Un’altra caratteristica fondamentale della contemplazione, sulla quale Aristotele farà ritorno più avanti (vedi la nota H), è costituita dalla sua autosufficienza. Mentre l’esercizio delle altre virtù necessita costitutivamente della disponibilità di elementi esterni (la giustizia, per esempio, richiede che ci sia qualcuno verso il quale indirizzare gli atti giusti), l’esercizio della teoria ha solo bisogno di quel minimo di beni materiali che consentano al sapiente di sopravvivere. D’altra parte, nel sottolineare l’importanza che l’attività contemplativa si realizzi anche con l’apporto di collaboratori, Aristotele dimostra chiaramente di pensare al tipo di attività che si svolge all’interno di una scuola (l’Accademia dove si è formato o il Liceo da lui stesso fondato), dove la ricerca si compie in modo collaborativo attraverso il concorso di un gruppo di filosofi e scienziati. E. Già nella Metafisica, presentando i caratteri della sapienza (vedi p. 233 ss.), Aristotele aveva osservato che essa si distingue in qualche modo dalle altre discipline per la sua inutilità. A tal proposito osservava che «tutte le altre sono più necessarie, ma nessuna è superiore». In effetti per Aristotele la speculazione vera e propria, ossia la teoria pura, è inutile; tuttavia, proprio questo aspetto le garantisce una sorta di superiorità, in quanto conferma la sua natura auto-orientata, ossia il fatto che essa non ha il fine fuori di sé (nell’utilità dei risultati o nel guadagno che da essa si può ricavare), bensì in se stessa, vale a dire nel piacere che reca in chi la pratica. F. In questo passo emerge molto chiaramente un aspetto tipico di una parte della cultura
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Unità 4 Aristotele
Sesto argomento: la vita secondo l’intelletto è ciò che è più peculiare all’uomo Settimo argomento: chi si dedica all’attività contemplativa non ha bisogno dell’aggiunta di beni esteriori
beato sono, in tutta evidenza, i caratteri che si realizzano secondo questa attività: ebbene, quest’ultima sarà la felicità perfetta dell’uomo, quando si estende per la lunghezza completa della vita. Infatti nessuna delle caratteristiche della felicità è incompleta. Però una vita siffatta sarà superiore alla condizione dell’uomo; infatti non è in quanto è uomo che vivrà in questo modo, ma in quanto in lui è presente qualcosa di divino. […] Di conseguenza se l’intelletto è una cosa divina rispetto all’uomo, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita dell’uomo. Non si deve dare ascolto a coloro che consigliano di dedicarsi, essendo uomini, a cose umane e non, essendo mortali, a cose immortali, ma, per quanto è possibile, si deve diventare immortale e compiere ogni cosa per vivere in modo conforme a quella che, tra le cose che sono nell’individuo, è la più alta. Seppure infatti essa è piccola per la massa, per potenza e dignità è di gran lunga superiore a tutte le cose. E si converrà anche che ciascun uomo è questa cosa, se è vero che essa è l’elemento principale e migliore. Sarebbe dunque un assurdo se l’uomo non si scegliesse la vita che ci è propria, ma quella di un altro essere. [G] Ciò che si è detto sopra si adatterà anche qui: infatti ciò che è proprio a ciascuno è per natura ciò che per ciascuno vi è di più alto e di più piacevole. E per l’uomo, dunque, sarà la vita secondo l’intelletto, se è vero che questo elemento è soprattutto l’uomo. Di conseguenza questa vita è anche la più felice. […] Si converrà anche che la virtù dell’intelletto in piccola misura ha bisogno dell’aggiunta di beni esteriori, o ne ha bisogno in misura minore rispetto alla virtù etica. Infatti tutte e due hanno bisogno delle cose necessarie per vivere – e ammettiamo pure, in egual misura (anche se chi vive in società deve curarsi maggiormente del corpo e di cose simili). Si avrà in-
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antica. Si tratta di privilegiare la condizione di scholè, ossia di affrancamento dai doveri e dagli affari. Aristotele arriva a sostenere che l’attività pratica risulta finalizzata alla sua stessa assenza: si fanno affari per poterne poi fare a meno, si fanno le guerre con l’obiettivo di instaurare la pace. Viceversa la teoria viene perseguita per se stessa, e non per la sua negazione. Del resto la stessa attività politica non ha per proprio fine se stessa; Aristotele spiega infatti che il suo fine consiste nell’assicurare la buona amministrazione della città e in ciò risiede il suo compimento. Viceversa, l’attività teoretica si compie nel momento stesso in cui viene praticata, e naturalmente nei risultati conoscitivi che questa pratica riesce a ottenere. G. In questo passo, e soprattutto nell’invito a immortalarsi, a rendersi cioè immortali (athanatìzo), è presente l’eco di posizioni platoniche. Prima di tutto Aristotele considera l’intelletto qualcosa di divino; e Platone, nel Timeo, aveva affermato che l’intelletto (nous) è per noi come un demone, che ci rende «piante celesti non terrestri». Nel momento in cui l’uomo si serve della funzione suprema della sua anima, egli in un certo senso cessa di essere uomo e si trasforma in un dio, comportandosi come quest’ultimo. In effetti, l’utilizzo della funzione intellettuale indipendentemente dagli altri elementi psichici, ossia gli aspetti pulsanti e desideranti dell’anima, rende l’uomo simile alla divinità, che è, per Aristotele, puro intelletto. D’altra parte, richiamando il motivo della natura in qualche modo divina dell’attività del filosofo, Aristotele si pone in linea di continuità con la grande tradizione del pensiero sacerdotale arcaico, che aveva avuto in Pitagora, Empedocle, Parmenide e in certa misura anche in Platone i suoi massimi rappresentanti (vedi Unità 1). Il filosofo teoretico di Aristotele finisce dunque per porsi come erede della condizio-
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vece molta differenza per quel che concerne la loro attività. Infatti l’uomo liberale avrà bisogno di ricchezza per compiere le sue opere di liberalità, ed anche il giusto per le restituzioni (infatti le volontà non sono manifeste ed anche coloro che non sono giusti fingono di voler agire con giustizia). E per parte sua il coraggioso avrà bisogno della forza, se compie alcuna delle azioni conformi alla sua virtù, ed il moderato avrà bisogno della possibilità d’agire liberamente: perché come sarà chiaro che si tratta o di un uomo dotato di questa virtù o di uno di quelli che possiedono le altre? Si discute se il fattore determinante della virtù siano la scelta deliberata o le azioni e si ritiene che essa consista in tutte e due. Ora, la perfezione si avrà evidentemente in entrambe, ma per compiere gli atti occorrono molte cose, e quanto più essi sono grandi e belli, cose in numero maggiore. All’opposto per chi contempla non vi è bisogno di nessuna di tali cose, ma, per così dire, esse gli sono addirittura di impedimento per la contemplazione. Ma, in quanto è uomo e vive con la massa della gente, sceglie di compiere ciò che è conforme alla virtù: quindi avrà bisogno delle cose di cui si è detto per vivere da uomo. [H] Ottavo argomento: Inoltre, che la felicità perfetta sia una certa attività contemplativa apparirà l’attività contemplativa chiaro anche da queste considerazioni. Noi immaginiamo che soprattutto è anche l’attività degli dèi gli dèi siano beati e felici. Ma quali azioni bisogna attribuire loro? Forse le azioni giuste? Ma, non apparirebbero ridicoli se stipulassero contratti e restituissero depositi? Saranno allora le azioni coraggiose: affrontare i pericoli esponendosi al rischio perché è bello? O le azioni liberali? Ma a chi elargiscono? E sarebbe davvero assurdo se essi avessero una moneta o
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ne sovrumana rivendicata da figure come Pitagora. Certo, il contesto in cui tutto ciò trova collocazione è più sobrio e accettabile ai nostri occhi; ma è indubbio che, se in Aristotele permane una qualche traccia della eredità della grande tradizione sapienziale, questa traccia è rinvenibile nel suo elogio della vita teoretica. H. Aristotele descrive con chiarezza i caratteri della vita filosofica, ossia della vita contemplativa, rispetto agli altri generi di vita. Egli precisa che essa richiede la presenza di un minimo di beni esterni (per esempio la salute e un certo benessere economico); tuttavia in misura minore rispetto alle altre attività: un politico, per esempio, dovrà curare maggiormente di uno scienziato il suo aspetto fisico e le sue doti oratorie. Questo non significa, tuttavia, che il filosofo non debba possedere anche le altre virtù e in particolare quelle etiche (ossia quelle relative alla parte appetitiva dell’anima). Nella mi-
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Unità 4 Aristotele
Nono argomento: solo l’uomo, tra gli animali, partecipa della contemplazione Seconda conclusione: la felicità consiste nella contemplazione, maggiore è questa più estesa sarà l’altra
qualcosa di simile. E gli atti di moderazione? Ma che significato avrebbe per loro? Non è forse grossolana la lode che essi non hanno cattivi desideri? Ora, facendo una rassegna, apparirà che tutto ciò che riguarda le azioni di poca importanza è indegno degli dèi. Ma non di meno tutti ammettono che vivono e che esercitano un’attività (giacché non si potrebbe certo ammettere che dormono, come Endimione). Pertanto, se a chi ha vita si toglie l’agire e, più ancora, il produrre, che cosa resta se non la contemplazione? Di conseguenza l’attività di Dio, la quale eccelle per beatitudine, sarà attività contemplativa. Pertanto anche fra le attività umane quella che le è più vicina sarà la più felice. [I] Ne è prova anche il fatto che gli altri animali non hanno parte alla felicità, essendo completamente sprovvisti di una attività di questo genere. Infatti per gli dèi tutta quanta la vita è beata, per gli uomini lo è nella misura in cui vi è in loro un’immagine di tale attività. Infatti nessuno degli altri viventi è felice, poiché non partecipa in nessun modo della contemplazione. Di quanto dunque si estende la contemplazione della stessa misura si estende anche la felicità, e coloro ai quali maggiormente compete il contemplare saranno anche maggiormente felici, non per accidente, ma in virtù della contemplazione stessa: giacché questa di per sé è degna di onore. Di conseguenza la felicità consisterà in una certa contemplazione.
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(da Aristotele, Etica nicomachea, 10,7-8,1177a12-1178b32, trad. di M. Zanatta modificata, Rizzoli, Milano 1986)
sura in cui egli è un uomo in mezzo ad altri uomini, sarà provvisto delle virtù tipiche del genere umano (giustizia, generosità, coraggio). Ma in quanto filosofo, cesserà in qualche modo di essere uomo e assumerà la virtù tipica degli dèi: la sapienza prodotta dall’attività teoretica. I. In effetti gli dèi non possono praticare le virtù tipiche degli uomini, ossia le virtù etiche. Il motivo è facilmente comprensibile: essi non hanno una parte appetitiva dell’anima da guidare ed eventualmente da tenere a freno. Sarebbe infatti del tutto assurdo lodare un dio perché tiene a freno i suoi desideri (epithymìai). Egli non ne ha, non essendo in possesso della funzione appetitiva e desiderante dell’anima. L’Endimione al quale allude Aristotele era, secondo la leggenda, un pastore e cacciatore bellissimo, figlio di Zeus e di Calice, che fu condannato, per avere mancato di rispetto a Era, al sonno perpetuo.
Questionario sull’argomentazione 1
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Qual è la tesi da cui parte l’argomentazione di Aristotele, e quali sono i singoli argomenti concatenati gli uni agli altri che la compongono? (max 10 righe) Analizza i primi cinque argomenti adottati da Aristotele esplicitando la correlazione che hanno rispetto alla prima conclusione. (max 12 righe)
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Con quali virtù etiche viene confrontata l’attività contemplativa e che nesso logico lega gli argomenti settimo e ottavo? (max 6 righe)
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Che relazione corre tra gli argomenti sesto, settimo, ottavo e nono e la loro conclusione, e tra quest’ultima e la prima conclusione? (max 15 righe) 263
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L’Etica nicomachea (2) ➥ Laboratorio di lettura, p. 101
Nell’Etica nicomachea Aristotele riprende la discussione sul problema della libertà, volontarietà e responsabilità dell’azione. Gorgia, nell’Encomio di Elena, partendo dal presupposto che solo le azioni volontarie comportano una responsabilità morale e giuridica, giunge a sostenere la non colpevolezza di Elena e, con ciò, la non responsabilità della maggior parte delle nostre azioni. Aristotele è d’accordo con Gorgia sul fatto che solo le azioni liberamente decise, cioè volontarie, vanno considerate moralmente e giuridicamente responsabili. Ma, al contrario di Gorgia, Aristotele ritiene che la maggior parte delle nostre azioni siano precisamente di questo tipo. Aristotele accetta uno solo dei casi di involontarietà, quindi di irresponsabilità, menzionati da Gorgia: quello in cui si agisce sotto costrizione. Ma anche questo va ristretto: costrizione vera e propria si ha quando non possiamo agire liberamente, per esempio se siamo legati o sotto la minaccia delle armi. Al contrario, le azioni che si compiono per esempio sotto la minaccia di un ricatto (se non fai questo verranno uccisi i tuoi parenti) secondo Aristotele vanno considerate come volontarie (almeno entro certi limiti) perché possiamo comunque decidere se subire o no il ricatto. Aristotele aggiunge a quelli previsti da Gorgia un altro caso di involontarietà: l’ignoranza delle circostanze. Tale è il caso di Edipo narrato da Sofocle nella tragedia Edipo re. Cresciuto presso genitori adottivi, Edipo non aveva mai conosciuto il padre naturale, Laio. Edipo incontra casualmente Laio, ne viene sfidato a duello per una banale questione di precedenza e lo uccide. Secondo Aristotele, Edipo non può venire accusato di parricidio, appunto perché ignorava che lo sfidante fosse suo padre. Anche qui, però, Aristotele introduce una restrizione. Le azioni compiute per esempio in stato di ubriachezza (in cui chi agisce non si rende conto di quello che sta facendo) vanno comunque considerate responsabili, perché chi le compie era libero di decidere se ubriacarsi o no, e quindi deve subire le conseguenze della sua scelta. Quanto agli altri casi di involontarietà elencati da Gorgia, Aristotele non discute neppure la possibilità dell’intervento divino o del destino, perché non crede che gli dèi o il fato abbiano alcun ruolo nella vita degli uomini, e respinge decisamente l’idea che la persuasione, l’attrazione di ciò che è piacevole, l’impetuosità suscitata dal desiderio possano essere considerati fattori di involontarietà. Noi possiamo cedere oppure resistere a queste pressioni e a questi impulsi, e la nostra eventuale debolezza irrazionale non elimina quindi la nostra responsabilità né giustifica le azioni che compiamo a causa sua. Secondo la severa analisi di Aristotele, dunque, noi siamo liberi di decidere le nostre azioni nella grandissima parte dei casi, perciò dobbiamo esserne considerati responsabili, e risultiamo meritevoli di approvazione se agiamo secondo i dettami della virtù morale, di biasimo e di punizione se ci comportiamo diversamente. Le opposte posizioni di Gorgia e di Aristotele hanno, come è facile vedere, conseguenze di grandissima importanza sia sul piano morale sia su quello giuridico: un tribunale che si comportasse secondo i principi gorgiani sarebbe disposto ad assolvere quasi ogni imputato, e al contrario un tribunale di ispirazione aristotelica sarebbe piuttosto incline alla condanna. La discussione fra queste due posizioni estreme è ancor oggi di grande attualità.
Aristotele: l’azione volontaria è responsabile Tesi: distinguere tra atti volontari e atti involontari è utile sia al filosofo sia al legislatore
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(1) Dato che la virtù riguarda le passioni e azioni, e che lodi e biasimi vengono attribuiti per le azioni e le passioni volontarie, mentre per quelle involontarie si dà perdono e, a volte, pietà, distinguere il volontario dall’involontario è certo necessario, per coloro che esaminano il campo delle virtù, ed è utile anche ai legislatori, per quanto riguarda i premi e le puni-
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Unità 4 Aristotele
Primo argomento: sono dubbie le azioni compiute per paura di mali peggiori o a causa di qualcosa di bello
Prima conclusione: sono le circostanze a determinare la volontarietà o la involontarietà delle azioni
Seconda conclusione: solo se la causa dell’azione è esterna e l’agente non vi contribuisce affatto si può parlare di involontarietà
Commento e interpretazione
zioni. Si pensa che siano involontarie le azioni compiute per forza o per ignoranza. È compiuto per forza un atto di cui è esterno il principio, ed è tale che a esso non contribuisce per nulla colui che agisce o subisce, come per esempio se siamo trasportati da un vento, o da persone che si sono impadronite di noi. [A] È dubbio se siano volontarie o involontarie le azioni che vengono compiute per paura di mali peggiori, o a causa di qualcosa di bello – come, per esempio, nel caso in cui un tiranno che si sia impadronito dei nostri genitori e dei nostri figli ci comandi di compiere qualcosa di turpe, e se noi lo compiremo quelli si salveranno, mentre saranno messi a morte se non lo compiremo. Qualcosa di simile accade anche nei casi in cui si gettano fuori bordo oggetti pesanti durante le tempeste: in generale, nessuno fa questo volontariamente, ma tutte le persone ragionevoli lo fanno, per la salvezza propria e degli altri. Ora, azioni del genere sono miste, ma somigliano di più a quelle volontarie. Infatti nel momento in cui vengono compiute sono frutto di una scelta, e il fine dell’azione dipende dalle circostanze. [B] Allora è sulla base delle circostanze che si deve dire se un’azione è volontaria o involontaria; nel caso citato l’agente agisce volontariamente, infatti in azioni del genere il principio del movimento delle parti strumentali del corpo è in lui: dipende da lui il compiere, o no, le azioni il principio delle quali è in lui. Quindi cose di questo genere sono volontarie, anche se, forse, in assoluto sono involontarie: nessuno mai sceglierebbe di compiere alcuna di queste per se stessa. […] In certi casi non si fanno elogi, ma si perdona: quando uno compie ciò che non si deve, per cause tali da superare la natura umana e cui nessuno si sottoporrebbe. Ma di certo alcune cose non possono mai essere imposte e piuttosto si deve morire, anche sopportando le cose più terribili; inoltre è evidente che i motivi che hanno costretto l’Alcmeone di Euripide a uccidere la madre fanno ridere. [C] A volte è difficile distinguere che cosa bisogna scegliere e a quale prezzo, e cosa si deve sopportare in vista di cosa, e anche più difficile è rimanere saldi nei giudizi, dato che per lo più i risultati sono dolorosi, e turpi le cose cui veniamo costretti. Da ciò nascono lodi e biasimi riguardo a coloro che hanno subìto la costrizione o non l’hanno subita. Quindi quali atti devono essere detti forzati? O non sono forse, in generale, tutti i casi in cui la causa è esterna e l’agente non contribuisce per nulla? Invece le cose che per sé sono involontarie, ma che sono scelte in questo momento, in cambio di tali risultati e il cui principio è in chi agisce, anche se per sé sono involontarie, in questo momento e in cambio di tali risultati risultano volontarie. […]
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A. È il caso dell’involontarietà per costrizione in senso stretto: queste azioni non sono responsabili. B. È il caso delle azioni compiute per costrizione in senso debole, che Aristotele tende, pur con qualche riserva, a considerare volontarie e quindi responsabili. C. Questo personaggio di Euripide aveva ucciso la madre perché il padre l’aveva pregato di farlo: giustificazione ridicola secondo Aristotele.
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Parte prima L’età antica Terza conclusione: dolore e piacere non escludono la responsabilità individuale
Primo argomento: occorre distinguere tra non volontario (che si fa per ignoranza) e involontario (che porta dolore e pentimento se lo si fa)
Secondo argomento: l’ignoranza del bene non esclude la volontarietà
Ma se uno affermasse che le cose piacevoli e quelle buone sono costrittive, dato che ci spingono necessariamente pur stando al di fuori, per costui le azioni verrebbero a essere forzate, infatti tutti fanno tutto in vista del piacevole e del bene. E chi agisce per forza e controvoglia lo fa con dolore, mentre chi agisce a causa del piacevole e del bello lo fa con piacere, quindi è ridicolo attribuire la responsabilità alle cose esterne e non a se stessi per essere facilmente preda di cose simili, ed è ridicolo anche attribuire a se stessi la responsabilità delle belle azioni e attribuire la responsabilità delle azioni turpi alle cose piacevoli. [D] Sembrerebbe quindi che ciò che è forzato sia ciò di cui il principio è esterno e cui non contribuisce affatto colui che viene costretto. (2) Tutto ciò che si fa per ignoranza è non volontario, ma involontario è solo ciò che porta dolore e che provoca pentimento: infatti chi compie una qualsiasi azione per ignoranza e non si sente affatto disgustato per la sua azione, sebbene non abbia agito volontariamente – infatti non sapeva quello che faceva – non ha agito nemmeno involontariamente, dato che non se ne addolora. Quindi, tra chi agisce per ignoranza, colui che lo fa con pentimento ci pare agire involontariamente, colui che non prova pentimento, dato che è diverso dal precedente, lo si chiamerà «uno che agisce non volontariamente». Infatti, essendo differente, è meglio che abbia un suo nome particolare. [E] Anche l’agire per ignoranza e l’agire ignorando sembrano essere cose diverse: infatti chi è ubriaco o infuriato non ci pare che agisca per ignoranza, ma agisce per una delle cause dette, ubriachezza o furore, senza sapere quello che fa, ignorandolo. Ora, tutti i cattivi ignorano ciò che si deve fare, e ciò da cui ci si deve astenere, ed è a causa di questo errore che diventano ingiusti e in generale viziosi; ma l’‘involontario’ non vuole essere attribuito al caso in cui uno ignori ciò che gli è utile. Infatti l’ignoranza che si annida nella scelta non è causa dell’involontarietà, ma della cattiveria, e nemmeno lo è l’ignoranza in universale, infatti la gente è biasimata a causa di questa ignoranza [F]; invece causa dell’involontarietà è l’ignoranza
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D. Qui Aristotele respinge il tipo di ragionamento gorgiano sulla forza irresistibile dell’attrazione per la bellezza e del desiderio amoroso. Con questo presupposto, verrebbe meno qualsiasi possibilità di valutazione morale e giudiziaria dei comportamenti. E. È interessante notare che Aristotele considera il pentimento per le azioni compiute nell’ignoranza delle circostanze (dopo che le si sia conosciute) come rilevante per la valutazione morale del soggetto (Edipo deve pentirsi una volta saputo che l’uomo che ha ucciso era suo padre). L’azione di chi si pente potrà venire considerata involontaria in senso pieno; se manca il pentimento, il soggetto, pur restando irresponsabile dell’atto compiuto, sarà meno degno di comprensione morale e di perdono. F. Qui Aristotele polemizza contro la nota tesi socratica secondo la quale «nessuno fa il male volontariamente», ma solo per ignoranza del bene. Questo tipo di ignoranza (al contrario di quella relativa alle circostanze) non elimina la responsabilità dell’azione. Ignorare il bene non giustifica l’azione cattiva, ma anzi costituisce il principio stesso della malvagità. Noi consideriamo cattivi, moralmente responsabili e giuridicamente punibili coloro che non sanno distinguere il bene dal male. La tesi socratica è inaccettabile secondo Aristotele perché in linea di principio l’educazione familiare, la società, le leggi mettono chiunque in grado di riconoscere le norme della giustizia e della virtù; ignorarle è dunque già in qualche modo l’esito di un atteggiamento immorale, ma non per questo meno responsabile.
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Prima conclusione: è involontaria l’azione di chi agisce per ignoranza dei singoli aspetti, e che causa a chi la commette dolore e pentimento; quindi l’azione volontaria è quella che ha il suo principio in chi agisce se chi agisce conosce gli aspetti nei quali l’azione si verifica
Seconda conclusione: pulsioni e desideri non escludono la responsabilità individuale
che riguarda i singoli aspetti, cioè le persone e le cose rispetto alle quali avviene l’azione: in questi casi, infatti, si danno pietà e perdono, dato che agisce involontariamente chi ignora qualcuno di questi elementi. […] Si dice quindi involontario l’agire secondo questo tipo di ignoranza, ma bisogna che in più l’azione produca dolore e ci getti in stato di pentimento. (3) Siccome è involontario ciò che avviene per forza o per ignoranza, il volontario ci sembrerà essere ciò il cui principio è in chi agisce, quando costui conosca i singoli aspetti nei quali l’azione si verifica. Infatti non dice bene di certo chi afferma che gli atti compiuti a causa dell’impetuosità o del desiderio sono involontari. Per prima cosa, infatti, più nessuno degli altri animali agirebbe volontariamente, e nemmeno i fanciulli; inoltre, forse che non compiamo volontariamente nessuna delle azioni causate da impetuosità e da desiderio, oppure compiamo volontariamente quelle belle, e involontariamente quelle turpi? Non è da ridere questa idea, dato che il responsabile è uno solo? Di certo è assurdo affermare che sono involontarie le cose cui si deve aspirare: infatti dobbiamo adirarci per certe cose, e provare desiderio di certe altre, per esempio di salute e di conoscenza. Pare d’altronde che le cose involontarie siano dolorose, quelle secondo il desiderio, piacevoli. Inoltre, che differenza c’è, riguardo all’essere involontari, tra gli errori compiuti a causa del ragionamento, e quelli compiuti per impetuosità? Si devono fuggire entrambi, ma pare che gli errori irrazionali non siano meno umani degli altri, di modo che non lo sono neanche le azioni dell’uomo che derivano da impetuosità e desiderio; assurdo quindi porre che siano involontarie. [G]
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(da Aristotele, Etica nicomachea, 3, 1-3, 1109b-111b, trad. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999)
G. Secondo Aristotele, infatti, animali e bambini agiscono non sulla base di decisioni razionali ma di pulsioni e desideri; ma questo non rende le loro azioni involontarie e irresponsabili. Se un bambino ruba la marmellata perché è goloso (senza averlo deliberato sulla base di un ragionamento), lo fa comunque volontariamente e perciò è meritevole di biasimo e punizione. Questo vale, a maggior ragione, per i comportamenti degli adulti determinati da impulsi irrazionali e dal desiderio del piacere.
Questionario sull’argomentazione 1
In che senso possiamo affermare che Aristotele distingue tra la costrizione in senso pieno e quella in senso debole? (max 7 righe)
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In che senso specifico le azioni compiute per ignoranza e a cui segue pentimento sono considerate da Aristotele involontarie? (max 8 righe)
2
Qual è, in sintesi, la definizione delle «azioni compiute per forza» e che rapporto esse hanno con i concetti di volontarietà e involontarietà? (max 9 righe)
4
Con quali argomenti Aristotele sostiene che le azioni dettate da desideri e impulsi irrazionali non escludono la responsabilità di chi le compie? (max 10 righe) 267
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Parte prima L’età antica
Tesi a confronto Aristotele: la natura ha un fine? Il finalismo della natura: realizzazione spontanea di un programma che è già in essa
Finalismo e scienza
Finalismo cosmico e finalismo teologico?
Aristotele: un avversario della scienza?
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Il centro della filosofia della natura di Aristotele consiste nell’idea di finalismo (o teleologia, una parola che deriva dal greco tèlos, «fine»). Finalismo significa concepire, e spiegare, tutti i processi della natura vivente (piante e animali) come diretti a uno scopo, e non, al contrario, dipendenti dal caso o dalla necessità. Questo modo di interpretare la natura deriva dal modello di spiegazione più spontaneo per i comportamenti umani, e in particolare per i procedimenti delle tecniche. Perché esco di casa? Per lo scopo (il fine) di andare a scuola, oppure al cinema. Perché il muratore dispone i mattoni in un certo modo? Allo scopo di costruire una casa. Allo stesso modo, secondo Aristotele, vanno interpretati i processi della natura vivente: nascita, crescita, alimentazione, riproduzione. In essi certi strumenti (gli organi) lavorano per svolgere le rispettive funzioni in vista di uno scopo. Ovviamente, fra comportamenti umani e processi naturali c’è una differenza di fondo. I primi dipendono da una decisione: posso decidere di non uscire affatto di casa, o scegliere dove andare; il muratore può decidere se costruire oppure no la casa. La natura invece non decide: i suoi processi sono la realizzazione ‘spontanea’ di un programma che inerisce ad essa (utilizzando la coppia di concetti di potenza e atto, si può dire che il programma è la potenza – cioè la possibilità inscritta nella natura – della sua compiuta realizzazione nel tempo). Così, il seme di una quercia contiene in sé il programma la cui attuazione porterà alla crescita della quercia (esso non può decidere di diventare un abete o un cane). Il finalismo, come principio di spiegazione scientifica della natura, porta in ogni caso a chiedersi, per tutte le strutture dei corpi viventi, a che cosa servono, e a spiegare le ragioni per cui esse sono fatte così in rapporto alla funzione che devono svolgere, allo scopo da realizzare (i denti devono essere ossei per masticare; denti molli non servirebbero a nulla). In generale, il corpo di un animale deve possedere organi adatti alla locomozione, all’alimentazione, alla riproduzione, alla percezione e così via. Il punto di vista finalistico rappresenta così un potente strumento di spiegazione delle strutture e dei processi naturali, delle ragioni e degli scopi che permettono di pensarli come un insieme di fenomeni dotati di senso e di ordine. Ma fin dove si spinge la spiegazione finalistica? I denti sono in vista dell’alimentazione, l’alimentazione è in vista della salute individuale e dell’accrescimento del corpo fino alla maturità, questa è in vista della capacità riproduttiva che garantisce la perpetuazione della specie. Ci sono passi ulteriori in questa catena finalistica? Si può dire che le specie sono in funzione di altre specie, per esempio gli animali dell’uomo, e che l’uomo è in funzione della divinità? C’è in altri termini un finalismo cosmico, che coinvolge in un unico processo l’intera natura, e un finalismo teologico, che concepisce la natura in vista della divinità? Tenendo conto che Aristotele nella Metafisica parla della ‘sua’ divinità, il primo motore immobile, come principio supremo di ordine del mondo e come causa finale universale, una lunga tradizione (che viene esposta nelle pagine qui citate
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Unità 4 Aristotele
dello scienziato Ernst Mayr) ha dato una risposta affermativa a queste domande; così interpretato, il finalismo aristotelico è stato perciò considerato come uno dei principali avversari della scienza moderna, che non accetta l’idea di natura come interamente organizzata in funzione di scopi che dipendano da cause, da finalità o da decisioni che vadano oltre i confini della natura stessa.
Prima risposta
La natura non ha un fine da Ernst Mayr, Un lungo ragionamento
La concezione teleologica delle cause finali
Il meccanicismo, le leggi della natura e il ruolo di Dio
Gli scienziati teologi e lo studio del disegno divino
La centralità dell’uomo e la creazione come processo dinamico
Fin dai tempi dei primi filosofi, si è creduto che l’universo debba avere uno scopo: non aveva forse detto Aristotele: «La natura non fa niente invano»? Quell’affermazione veniva fatta propria dai pensatori di ispirazione cristiana, per i quali tutto risponderebbe a un disegno divino. Ogni cambiamento che avviene nel mondo – ripetevano – è dovuto a «cause finali» che spingono quel particolare oggetto o fenomeno verso una meta ultima. Da Aristotele in poi, lo sviluppo di un organismo, dall’uovo fecondato fino allo stadio adulto, è stato spesso citato come illustrazione di questo tendere a un fine. E «teleologi» o «finalisti» sono stati appunto chiamati coloro che aderivano a questa concezione. I protagonisti della rivoluzione scientifica del Cinque e Seicento erano affascinati dal movimento: l’enunciazione delle leggi della caduta dei gravi o del moto dei pianeti intorno al Sole. Il mondo di Galilei e Newton era un mondo di movimento, controllato da leggi eterne, le stesse che Dio aveva stabilito una volta per tutte all’atto della creazione. Egli restava la causa finale di tutto, ma si limitava a governare il mondo mediante le leggi, senza interventi continui. Cartesio fu uno dei principali interpreti di questa concezione rigidamente meccanicistica, che fu soprattutto dei fisici, ma venne fatta propria in varia misura anche da naturalisti come Buffon e portata alle sue estreme conseguenze da Holbach. […] L’insoddisfazione per una visione totalmente deterministica del mondo spinse taluni a ricercare uno schema esplicativo diverso: a Dio veniva assegnato un ruolo di gran lunga maggiore, al punto che ogni minimo mutamento verificatosi dalla creazione in poi risponderebbe al Suo volere. Ai teologi naturali ripugnava l’idea che Dio possa abdicare al suo ruolo di supremo reggitore dell’universo e che a sostituirlo possano bastare le «cause efficienti» delle Sue leggi. Del pari inaccettabile era per loro l’idea che l’armonia osservata in natura e tutti gli adattamenti reciproci degli organismi siano dovuti a una semplice causa meccanica. L’accento veniva dunque posto sulla complessità del disegno originario del mondo ben più di quanto avessero fatto i meccanicisti. Ovunque volgiamo lo sguardo, asserivano, troviamo nella natura le prove dell’infinita saggezza del Dio creatore, cosicché lo scienziato, che ne studia l’opera, è egli stesso un teologo, al pari di chi ne studia il Verbo (la Bibbia). A partire da John Ray (1691) e da William Derham (1713), lo studio della natura divenne teologia fisica o teologia naturale. Diventò lo studio del disegno divino. C’erano altri due elementi che rafforzavano la credenza nelle cause finali. Uno era la convinzione, sempre più forte, che l’universo sia stato creato nell’interesse esclusivo dell’uomo: un’idea che viene prefigurata in un pas269
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Parte prima L’età antica
La scienza dopo la sintesi evoluzionistica: la negazione della causa finale dell’evoluzione
Riepilogo e conclusione: la scienza moderna nega che la natura abbia un fine
Le nuove interpretazioni di Aristotele: limitazione del campo di applicazione del finalismo
so di Aristotele – «Se la natura non fa niente d’incompleto e niente invano, se ne deve dedurre che essa ha creato tutti gli animali nell’interesse dell’uomo»1 – e alla quale affermazioni analoghe nella Genesi prestavano autorevole avallo. L’altro elemento era l’affermarsi di una nuova teoria della creazione in conseguenza di quanto le osservazioni dei naturalisti andavano via via rivelando sulla storia della Terra, vista ora come un sistema dinamico, in perenne divenire. Secondo questa concezione, la creazione non fu un evento istantaneo né ebbe luogo in sei giorni, ma fu un processo graduale e lentissimo, culminato con la comparsa dell’uomo. […] Quando, negli anni quaranta del Novecento, si arrivò alla sintesi evoluzionistica, non rimase praticamente nessun biologo evoluzionista, di fatto nessun biologo competente, che credesse ancora a una causa finale dell’evoluzione. I pochi biologi che mantennero questa opinione o erano legati a un’impostazione teologica, come Teilhard de Chardin, o non avevano compreso le nuove scoperte della biologia nel Novecento, come Lecomte de Noüy. Per i non addetti ai lavori, tuttavia, le cause finali sono molto più plausibili e soddisfacenti del processo casuale e opportunistico della selezione naturale. Per questa ragione, la credenza nelle cause finali ha avuto una vita molto più lunga fuori della biologia che al suo interno. […] Fin dall’antichità classica, l’idea che vi sia «una finalità in tutto ciò che è e che accade in natura» (Aristotele) è stata condivisa dai più grandi filosofi. Questo concetto di teleologia cosmica, particolarmente quando si combinò con il dogma cristiano, finì col diventare la concezione dominante. È proprio questa teleologia che la scienza moderna rifiuta con decisione. Non esiste né è mai esistito alcun programma in base al quale si sarebbero verificate l’evoluzione cosmica o l’evoluzione biologica. A spiegare l’apparente progresso nell’evoluzione biologica, dai procarioti di due o tre miliardi di anni fa agli organismi superiori, basta infatti la considerazione delle pressioni selettive generate dalla competizione tra individui e tra specie e dalla colonizzazione di nuove zone adattative. Le più recenti tendenze nell’interpretazione di Aristotele (espresse con molta chiarezza nelle pagine del filosofo Jonathan Barnes) negano tuttavia che gli si debba attribuire questa concezione del finalismo naturale. Il ricorso alla spiegazione finalistica vale cioè per Aristotele solo all’interno del singolo organismo e della singola specie vivente: esso significa che ogni individuo, vegetale o animale, è organizzato nel modo migliore per sopravvivere e riprodursi nel suo specifico ambiente naturale. Insomma, dire che ‘la natura è organizzata secondo un fine’ significa soltanto dire che ogni organismo vivente è spiegabile, nella sua struttura e nei processi che lo riguardano, dal punto di vista dell’insieme delle funzioni che deve svolgere data la sua particolare forma di vita. Alla crescente complessità di funzioni corrisponde dunque una proporzionale complessità di strutture: animali immobili, come le ostriche, non hanno bisogno di occhi, che sono invece necessari agli animali che si muovono; animali che vivono in società, come soprattutto gli uomini, hanno bisogno di un linguaggio per comunicare fra di loro, e dei relativi organi, oltre che della facoltà del pensiero. 1. Politica, 1,8,1256a
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Unità 4 Aristotele Seconda risposta
I singoli organismi hanno un fine da Jonathan Barnes, Aristotele
La spiegazione delle cause finali in funzione del ‘bene’
L’esempio dei denti
Nel capitolo introduttivo delle Parti degli animali, Aristotele espone la sua cosiddetta concezione teleologica della natura. Le cause finali intervengono nelle opere di natura non meno che nei prodotti dell’abilità umana, e per spiegare i fenomeni naturali dobbiamo ricorrere a ‘ciò al fine di cui’ qualcosa avviene. La spiegazione in termini di cause finali è una spiegazione in funzione del ‘bene’, perché se le anatre hanno zampe palmate al fine di nuotare, allora è bene – cioè, bene per le anatre – avere zampe palmate. L’importanza preminente delle cause finali deriva dal loro identificarsi con ‘la spiegazione della cosa’: poter nuotare è parte dell’essenza dell’anatra, e una spiegazione appropriata di ciò che significa essere un’anatra dovrà tener conto della sua capacità di nuotare. Le cause finali non sono giustapposte alla natura per considerazioni teoriche; sono osservate in natura: ‘Possiamo osservare più di un tipo di causa’ (il termine «teleologia» è legato al greco tèlos, che Aristotele usa nel senso di ‘fine’: la spiegazione teleologica è quella che fa ricorso a fini o cause finali). In tutto il corso delle opere biologiche Aristotele è sempre alla ricerca di cause finali. Perché i denti, a differenza delle altre parti dure della struttura animale, continuano a crescere? La causa di questa crescita, nel senso del fine per cui avviene, deve essere cercata nella loro funzione. Infatti, essi si logorerebbero rapidamente, se non avessero una crescita costante – come avviene in certi animali vecchi che sono grandi mangiatori ma hanno denti piccoli, che i denti siano completamente logorati, perché si consumano più rapidamente di quanto crescano. Questa è la ragione per cui anche in questo caso la natura ha prodotto un eccellente rimedio; poiché fa sì che la caduta dei denti coincida con la vecchiaia e la morte. Se la vita durasse mille o diecimila anni, i denti dovrebbero essere inizialmente enormi e ricrescere spesso; perché anche se crescessero in continuazione, verrebbero nondimeno completamente appianati, e sarebbero perciò inutili alla loro funzione. Ecco la spiegazione del fine per cui essi crescono2.
Necessità e finalità non si escludono
[…] Spesso le cause finali sono contrapposte alla «necessità», in particolare ai vincoli imposti dalla natura materiale degli animali o delle parti degli animali in questione. Ma anche dove un fenomeno viene spiegato ricorrendo alla necessità, rimane sempre spazio per la spiegazione in termini di cause finali. Perché gli uccelli acquatici hanno zampe palmate? Per tali cause, li hanno di necessità; e per quanto riguarda la finalizzazione al meglio, hanno zampe simili in funzione del loro modo di vita, cosicché, vivendo nell’acqua, dove le loro ali sono inutili, hanno zampe adatte al nuoto. Infatti esse sono come i remi per il rematore o le pinne per i pesci; per tale ragione se ai pesci vengono tolte le pinne, o agli uccelli acquatici le membrane palmari, non possono più nuotare3. 2. Generazione degli animali, 2,6,745a27-b3 3. Parti degli animali, 4,12,694b6-12
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Parte prima L’età antica Non sempre esiste una causa finale: le parti senza scopo
La natura come artefice?
Il fine come funzione
Riepilogo e conclusione: nella natura vi sono fini / funzioni indispensabili per la sua conoscenza
La teleologia di Aristotele a volte viene riassunta nello slogan «la natura non fa nulla invano», e lui stesso fa spesso uso di aforismi di questo tenore. Ma benché Aristotele ritenga che si debbano ricercare cause finali in ogni aspetto del mondo naturale, non devono essere cercate letteralmente dappertutto. «La bile nel fegato è un residuo, e non ha alcuno scopo – come i sedimenti nello stomaco e negli intestini. Ora, la natura a volte utilizza anche i residui a scopi vantaggiosi; ma non c’è ragione di cercare una causa finale in ogni circostanza»4. Il libro V della Generazione degli animali è interamente dedicato a simili parti senza scopo degli animali. Il comportamento e la struttura naturale hanno di solito cause finali – perché la natura non fa nulla invano. Ma le cause finali sono vincolate dalla necessità – la natura fa il meglio che può fare «date le circostanze»; e a volte non c’è alcuna causa finale da scoprire. […] Ci sono parecchi passaggi in cui Aristotele parla della natura come dell’artefice intelligente del mondo naturale. «Come un buon economo, la natura non scarta nulla di cui si possa fare buon uso»5. Passaggi del genere non devono essere sottovalutati. Ma la teleologia di Aristotele non può ridursi all’idea della natura quale Artefice; perché nelle molte minuziose spiegazioni teleologiche che si possono trovare nei suoi scritti biologici raramente egli fa intervenire i piani della natura o gli scopi di un Grande Architetto. […] In generale, la maggior parte delle caratteristiche strutturali e dei tratti comportamentali di animali e piante hanno una funzione. Vale a dire, servono a svolgere attività essenziali, o comunque utili, per l’organismo – se l’organismo non svolgesse tali attività non sopravvivrebbe, o sopravvivrebbe solo con difficoltà. Per arrivare alla comprensione di una vita animale, dobbiamo individuare le funzioni associate al comportamento e alle parti della creatura. Anche sapendo delle anatre che hanno zampe palmate e che possono nuotare, non se ne possiede ancora una comprensione completa – ci si deve rendere conto, in aggiunta, che avere zampe palmate aiuta il nuoto, e che il nuoto è parte essenziale della vita delle anatre. Aristotele esprime questo punto dicendo che una risposta alla domanda «Perché le anatre hanno zampe palmate?» è «Al fine di nuotare». Se il suo «al fine di» ci suona strano è solo perché noi associamo eminentemente «al fine di» con l’azione intenzionale. Aristotele lo associa eminentemente con la funzione, e nella natura vede funzioni. Ha sicuramente ragione. Gli oggetti naturali contengono in effetti parti funzionali, e mostrano un comportamento funzionale; lo scienziato che ignori queste funzioni ignora una parte importante del suo oggetto di studio. «La natura non fa nulla invano» è un principio regolativo per la ricerca scientifica. Aristotele sa che certi aspetti della natura non hanno una funzione. Ma riconosce che la comprensione delle funzioni è indispensabile per la conoscenza della natura. I suoi slogan sull’accortezza della natura non sono residui di superstizioni infantili, ma un memento sul compito fondamentale dello scienziato naturale.
4. Parti degli animali, 4,2,677a14-18 5. Generazione degli animali, 2,6,744b16-17
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Unità 4 Aristotele Un limite all’aristotelismo: il finalismo non dipendente dalla provvidenza
Terza risposta
La suddetta limitazione dell’ambito del finalismo, che non lo fa dipendere dalla ‘provvidenza’, cioè dal disegno intenzionale di una divinità creatrice (a differenza di quanto ritiene il pensiero teologico ebraico e cristiano), è considerata da alcuni autori un limite e un errore della filosofia di Aristotele, che per questo può venire contrapposta al Platone del Timeo (è il parere dello storico Giovanni Reale nella pagina qui riprodotta).
Soltanto Dio rende conto del fine della natura da Giovanni Reale, Introduzione a Aristotele
Causa finale, scopo e ragione del divenire
Il fine della natura si giustifica solo con l’Assoluto
La modernità di Aristotele nella vicinanza al pensiero scientifico moderno
Materia e forma sono cause intrinseche del divenire. Causa esterna è, invece, l’agente o causa efficiente: nessun mutamento ha luogo senza questa causa, perché non ci può essere passaggio da potenza ad atto senza che ci sia un motore già in atto. Infine, occorre la causa finale, che è lo scopo e la ragione del divenire. La causa finale indica sostanzialmente il senso positivo di ogni divenire che, agli occhi di Aristotele, è fondamentalmente un progredire verso la forma e un realizzare la forma. Lungi dall’essere l’ingresso del nulla, il divenire appare ad Aristotele come la via che porta alla pienezza dell’essere, cioè la via che le cose percorrono per attuarsi, per essere pienamente ciò che sono, per realizzare la loro essenza o forma (e in tal senso ben si comprende perché la phy`sis aristotelica sia, in ultima analisi, questa forma). A questo proposito va notato che la teleologia aristotelica resta monca […] per l’irrisolta aporia metafisica di fondo, per cui il mondo esiste non per un disegno dell’Assoluto, ma per un quasi meccanico e fatale anelito di tutte le cose alla perfezione, che dallo Stagirita è intuito e affermato, ma non è rigorosamente giustificato. Sulla ragione di fondo del finalismo universale l’ultimo Platone, con la dottrina del Demiurgo del Timeo, aveva visto più a fondo: e, in effetti, o si ammette un Essere che progetta il mondo e che lo fa essere in funzione del bene e del meglio, oppure il finalismo universale non regge. Da un altro punto di vista, infine, si può ritenere che proprio la suddetta limitazione avvicini sensibilmente la filosofia aristotelica della natura al pensiero scientifico moderno; il finalismo ha perciò costituito, nelle mani di Aristotele, un potente strumento concettuale per costruire un sapere biologico destinato a rimanere insuperato fino alle soglie della scienza moderna, e anche oggi ricco di interesse e di notevoli potenzialità esplicative. È difficile spiegare un oggetto senza chiedersi ‘a che cosa serve’, cioè a quale funzione è destinato, e comprendere un comportamento, naturale o umano, senza chiedersi quale sia il suo scopo: questo tipo di domande, e di spiegazioni, fanno parte dell’orizzonte proprio del finalismo aristotelico.
I brani antologizzati sono tratti da: Ernst Mayr, Un lungo ragionamento, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 63-65, 79-81. Jonathan Barnes, Aristotele, Einaudi, Torino 2002, pp. 111-115. Giovanni Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 76-77.
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Parte prima L’età antica
Per seguire il dibattito 1
In che cosa consiste l’idea di finalismo (o teleologia) propria della filosofia della natura di Aristotele? (max 3 righe)
4
Quale limitazione del finalismo aristotelico consente di avvicinarlo al pensiero scientifico moderno, secondo l’esposizione di Barnes? (max 5 righe)
2
Il finalismo come principio di spiegazione scientifica della natura quali principali domande pone? (max 5 righe)
5
Qual è il rapporto tra cause finali e bene per Aristotele, secondo quanto scrive Barnes? (max 3 righe)
3
Perché il finalismo aristotelico, inteso come finalismo cosmico e teologico, è considerato uno dei principali avversari della scienza moderna? Sintetizza le tesi esposte da Mayr. (max 10 righe)
6
Perché il finalismo aristotelico costituisce un limite della filosofia aristotelica secondo Reale e perché gli preferisce Platone? (max 6 righe)
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Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto
I testi Aristotele Etica nicomachea: La verità sopra ogni cosa, T1; Il bene non è uno, T7 Categorie: La sostanza prima è una cosa individuale, T2 Metafisica: A che giovano le idee?, T3; Scienze matematiche e cose sensibili, T5
Platone Timeo: Il principio geometrico dei corpi, T4 Aristotele Etica eudemia: Il bene si dice in molti modi, T6 Politica: Bene dello Stato e interesse personale, T8
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Parte prima L’età antica
Platone e Aristotele: un confronto 1 Due vie filosofiche esemplari
Divergenze nella continuità
L’eredità platonica: stessi mattoni, nuovo edificio
Prescrizione platonica contro descrizione aristotelica
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Platone è amico ma ancora più amica è la verità Platone e Aristotele non furono solamente i maggiori filosofi dell’antichità. In un certo senso essi rappresentano due modi diversi ed emblematici di concepire la pratica filosofica. Come abbiamo visto, Platone e Aristotele fondarono due scuole filosofico-scientifiche destinate a durare quasi tre secoli. Ma anche dopo la chiusura di queste, all’inizio del I secolo a.C., continuarono a esistere platonici e aristotelici, e per molti secoli (nell’antichità ma anche dopo, nel Medioevo e agli inizi dell’età moderna) molti pensatori trovarono quasi naturale profilarsi come filosofi definendosi «platonici» o «aristotelici». Ci furono fasi in cui platonismo e aristotelismo si affrontarono in modo polemico, e le divergenze presero il sopravvento sulle convergenze (agli inizi della filosofia moderna Galileo, per esempio, come si dirà sotto, si servì del platonismo in funzione anti-aristotelica); ma non mancarono periodi in cui platonici e aristotelici fecero prevalere le ragioni della continuità e della convergenza tra i due grandi filosofi (basta pensare agli autori neoplatonici del IVVI secolo, i quali tentarono di armonizzare le due filosofie). In effetti, questi due atteggiamenti, pure tra loro opposti, non fanno che riflettere una condizione oggettiva, dal momento che anche le divergenze più marcate tra Platone e Aristotele, ossia i punti in cui quest’ultimo prese maggiormente le distanze dal suo maestro, si inseriscono in un contesto filosofico che accomuna i due pensatori. La maniera più efficace per affrontare la questione delle convergenze e delle divergenze tra Platone e Aristotele consiste nel valutare in termini generali l’atteggiamento filosofico di quest’ultimo, il quale – non dimentichiamolo – fu per venti anni (dai 17 ai 37) allievo e collaboratore di Platone all’interno dell’Accademia. Introducendo Aristotele nel capitolo a lui dedicato, abbiamo osservato che egli non fu mai del tutto platonico, se con questo termine pensiamo a un’adesione incondizionata al pensiero del maestro, ma in un certo senso lo fu sempre, se invece ci riferiamo al modo di porre i problemi, al linguaggio e alle categorie filosofiche utilizzati, e perfino all’attribuzione alla filosofia di un certo primato nei confronti delle altre discipline (sia pure mitigato rispetto a Platone). Con un’immagine che può forse aiutarci a comprendere il senso del rapporto di Aristotele con Platone, si può dire che l’allievo ereditò dal maestro i mattoni con cui quest’ultimo aveva costruito il suo edificio filosofico, ma li dispose in forma sostanzialmente differente, in modo da costruire un altro edificio. Le differenze tra i due grandi pensatori sono numerose e su alcune di esse ci soffermeremo in questo «Percorso tematico». Una però merita di venire segnalata subito, perché esprime in modo quasi emblematico la diversità dell’atteggiamento filosofico platonico e aristotelico, e proprio per questo è destinata a fare la sua comparsa in forme diverse tutte le volte che Aristotele prende le distanze da
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Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto
Cambiare il mondo o conoscerlo?
Conoscere l’ordine del reale
Il rifiuto della dottrina delle idee
T1
La verità sopra ogni cosa Aristotele, Etica nicomachea, 1,4,1096a11-17
Platone. Si tratta del fatto che Platone privilegia un atteggiamento di carattere prescrittivo o normativo, mentre Aristotele si muove solitamente all’interno di un’ottica descrittiva. Che cosa significa? In estrema sintesi significa che Platone considera compito fondamentale della filosofia stabilire norme e valori in riferimento ai quali modificare l’esistente; mentre Aristotele reputa che la filosofia debba essenzialmente conoscere (e descrivere) l’esistente, senza pretendere di trasformarlo. Insomma, per esprimerci con il linguaggio del filosofo ottocentesco Karl Marx (che affermò in una celebre frase: «I filosofi hanno soltanto variamente interpretato il mondo, ora però si tratta di cambiarlo»), Platone vuole cambiare il mondo, Aristotele solo conoscerlo e descriverlo. Molto spesso quando Aristotele si discosta dal suo maestro, lo fa rimproverandogli appunto l’attribuzione alla filosofia di un eccesso di pretese: laddove essa deve solo conoscere come stanno le cose, Platone pretende che le trasformi. Pretesa che appare tanto più insensata ove si constati, come fa Aristotele, che le cose (sia quelle naturali che quelle umane) stanno già bene come stanno, sono cioè ordinate e razionali, senza che intervenga un fattore esterno a modificarle o addirittura a rivoluzionarle. Se il distacco di Aristotele da Platone è espresso in termini generali dal rifiuto dell’atteggiamento prescrittivo di quest’ultimo e dalla sostituzione con una posizione tendenzialmente descrittiva, questo stesso distacco trova una manifestazione specifica nel rifiuto di una ben precisa dottrina platonica, quella delle idee, nella quale Aristotele vede, come si dirà sotto, proprio il sintomo dell’eccesso normativo in cui cade a suo avviso la filosofia del maestro. C’è un passo molto noto in cui l’atteggiamento generale di Aristotele nei confronti di Platone emerge molto chiaramente. Trattando del bene, Aristotele sa di non poter affrontare la questione senza menzionare la posizione di Platone, il quale aveva individuato nell’idea del bene (o buono) l’unico e autentico bene che gli uomini perseguono (o devono perseguire). Scrive dunque Aristotele: È senz’altro meglio esaminare il bene universale e porre la questione su che cosa si vuol dire con esso; anche se una tale ricerca è ardua a causa del fatto che gli amici filosofi hanno introdotto le idee. Ma tutti senza dubbio converranno che è meglio ed è un preciso dovere, quando si tratta della salvezza della verità, eliminare gli aspetti personali, soprattutto se si è filosofi. Benché infatti ambedue le cose [cioè l’amicizia e la verità] siano care, è giusto preferire la verità. Ciò che qui Aristotele afferma viene solitamente riassunto per mezzo di una celebre formula latina, risalente all’alto Medievo: Amicus Plato sed magis amica veritas («Platone è amico ma ancora più amica è la verità»). L’amicizia con Platone è importante, così come è importante il debito che occorre riconoscere nei suoi confronti. Ma ancora più importante è il compito di conoscere la verità, e per assolvere a un simile compito bisogna avere il coraggio di anteporlo all’amicizia e alla riconoscenza nei confronti di Platone. Si direbbe che ogni indagine di Aristotele sembra muoversi all’interno del quadro metodologico stabilito da questa regola: per lui l’esame di ogni problema non può prescindere da Platone, ma deve anche sapere andare oltre Platone, alla ricerca della verità. 277
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Parte prima L’età antica
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Priorità del soggetto e del mondo reale
Platone: le idee, unica vera realtà
Le cose sensibili copie dei modelli
Aristotele: è l’individuo l’essere in senso pieno
L’individuo, sostanza primaria
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Che cosa esiste veramente? Idee contro individui Fin da giovane, durante i primi anni di permanenza presso l’Accademia platonica, Aristotele manifestò le sue riserve nei confronti della teoria delle idee. Alla questione egli dedicò un’opera dal titolo Sulle idee (che è andata perduta ma di cui restano alcuni significativi brani) e sezioni di alcuni libri della Metafisica (soprattutto i libri I e XIII). Aristotele muove a Platone due accuse: lo rimprovera di avere invertito il corretto rapporto tra soggetto e predicato e tra individuo e genere (o universale), assegnando la supremazia al predicato nei confronti del soggetto e all’universale nei confronti dell’individuo; e poi lo accusa di avere separato le idee dal mondo reale, rendendole sostanzialmente inutili e negando al mondo quell’ordine e quella razionalità intrinseci che esso invece possiede. Vediamo di che cosa si tratta. Per Platone a possedere piena realtà non sono le singole manifestazioni della giustizia o della bellezza, l’azione giusta compiuta da qualcuno (per esempio il rispetto delle leggi della città), o la bellezza della mia compagna di banco, bensì l’idea della giustizia e l’idea della bellezza. È grazie ad esse che le singole azioni giuste e le singole cose belle sono ciò che sono, ed è grazie ad esse che io posso riconoscerle come tali, posso cioè attribuire a un’azione o a una ragazza rispettivamente i predicati «giusto» e «bello» (in quanto conosco l’idea della giustizia e della bellezza e riconosco in certe azioni o in certe cose la manifestazione di queste idee). Inoltre agli occhi di Platone le singole cose sensibili possiedono una forma di esistenza inferiore rispetto alle corrispettive idee. L’albero che vedo dalla finestra della mia classe è una copia del vero albero, ossia dell’idea di albero. Un simile discorso vale per Platone per tutte le entità sensibili, sia naturali (come l’albero) sia artificiali (come la sedia sulla quale sono seduto). Esse sono ciò che sono in virtù della partecipazione all’idea corrispondente, alla quale spetta dunque il primato ontologico. Ciò che è in senso pieno e compiuto (ossia perfetto) è l’idea, mentre il particolare sensibile è solamente in modo derivato, vale a dire come manifestazione in qualche modo mancante rispetto al modello. Aristotele rovescia un simile quadro. Ai suoi occhi l’essere in senso pieno è quello posseduto dall’individuo (il cane che sta abbaiando, il mio compagno di banco); i predicati che a questo individuo si possono eventualmente attribuire («fedele» nel caso del cane o «simpatico» nel caso del mio compagno) esistono solo in quanto esistono gli individui ai quali appartengono, ma non indipendentemente da essi. Insomma non esiste la fedeltà in sé (l’idea di fedeltà) separata dal cane Fido, oppure la simpatia in sé (l’idea di simpatia) separata dal mio compagno di banco. Allo stesso modo non esiste l’umanità in sé, l’idea di uomo, separata e indipendente dai singoli individui come Socrate o il mio compagno di banco. L’individuo esiste in modo primario e indipendente, mentre i predicati (come «bello» o «brutto»), le specie (come «uomo» o «cane») e i generi (come «animale») esistono in forma derivata, ossia dipendono dall’esistenza degli individui concreti. Come abbiamo visto, per Aristotele questi individui meritano il titolo di sostanza (ousìa), cioè di essere, proprio quel titolo che in Platone spettava alle idee.
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Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto
T2
La sostanza prima è una cosa individuale Aristotele, Categorie, 5,2a11-3b13
3 Il secondo errore di Platone: la separazione
Aristotele: le idee sono forme immanenti alla realtà
Le idee come cause formali
Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente; essa né si dice di qualche soggetto [cioè non si predica di qualcos’altro] né si trova in qualche soggetto. Sostanza è, ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo. Invece sono dette sostanze seconde le specie [che si predicano delle] sostanze in senso primario; sono sostanze seconde queste e i generi di queste. Ad esempio, un certo uomo esiste nella specie uomo, e il genere di questa specie è animale. Queste pertanto sono dette sostanze seconde: uomo e animale. […] Tutte le altre cose o sono dette delle sostanze prime, le quali sono soggetti, o si trovano in esse, intese come soggetti. Questo è chiaro dai singoli casi che ci si presentano. Ad esempio, animale si predica di uomo [sostanza seconda], dunque anche di un certo uomo [sostanza prima]. […] Se dunque non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose. Infatti, tutte le altre cose o sono dette delle sostanze prime o sono in esse; cosicché, se non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose. […] Inoltre le sostanze prime, per il fatto di essere sostrato a tutte le altre cose e che tutte le altre cose si predicano di esse, per questa ragione sono dette sostanze in senso principale. […] Carattere comune a ogni sostanza è il non essere in un soggetto [ma di essere essa stessa soggetto]. Infatti, la sostanza prima né è detta di un soggetto [cioè non è predicato di qualcosa], né si trova in un soggetto. […] Ogni sostanza sembra significare un certo questo [cioè un individuo]. Ora, nel caso delle sostanze prime è indiscutibilmente vero che significa un certo questo, giacché ciò che è manifestato è una cosa individuale e numericamente una.
Che cosa sono le idee? Trascendenza contro immanenza Platone non è solo colpevole di avere invertito il rapporto tra individuo e universale e quello tra soggetto e predicato. Secondo Aristotele gli va mosso anche un altro rimprovero, quello di avere collocato l’ordine e la perfezione al di fuori del mondo sensibile (e precisamente nelle idee), finendo con il concepire quest’ultimo come qualcosa di disordinato e imperfetto (e dunque bisognoso di un ordine proveniente dal di fuori). L’errore fondamentale di Platone consiste per Aristotele nella cosiddetta «separazione», vale a dire in quell’operazione filosofica che estrapola dall’unico mondo realmente esistente i caratteri che esso possiede per poi separarli e collocarli in un mondo superiore, il mondo delle idee. Non è necessario, per Aristotele, immaginare un secondo mondo, perché l’ordine si trova già in questo mondo, anche perché le idee non esistono separatamente (cioè in se stesse), ma sono immerse nella realtà sensibile, e anzi costituiscono il principio di intelligibilità di questa realtà. Per Aristotele (e per gli aristotelici) infatti le idee non sono entità separate, ma costituiscono piuttosto forme immanenti (ènyla èide, cioè forme immerse nella materia), e in questo modo possono rappresentare l’essenza autentica delle cose sensibili. Infatti, l’essenza o la sostanza di una cosa non può risultare separata dalla cosa di cui è sostanza; solo se immanente alla cosa, la forma può rappresentare una causa di questa stessa cosa (si tratta ovviamente della causa formale). Il più grave difetto delle idee di Platone consiste nella loro inutilità; infatti, in quanto separate, esse si rivelano sostanzialmente inutilizzabili. Molte di queste critiche trovano espressione nel I libro della Metafisica, dove Aristotele presenta e critica la concezione platonica delle idee. 279
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T3
A che giovano le idee?
Aristotele, Metafisica, 1,9,991a9-b2
Ma la difficoltà più grande che si potrebbe sollevare è la seguente: quale vantaggio apportano le idee agli esseri sensibili, sia a quelli sensibili eterni [cioè gli astri], sia a quelli soggetti a generazione e corruzione [le realtà del mondo sublunare]? Infatti le idee, rispetto a questi esseri, non sono causa né di movimento né di alcuna mutazione. Per di più le idee non giovano […] all’essere delle cose sensibili, in quanto non sono immanenti alle cose sensibili che di esse partecipano. Se fossero immanenti, potrebbe forse sembrare che fossero causa delle cose sensibili, così come il bianco è causa della bianchezza di un oggetto. […] Dire che le idee sono modelli e che le cose sensibili partecipano di esse significa poi parlare a vuoto e fare uso di mere metafore poetiche. […] Inoltre, sembra impossibile che la sostanza esista separatamente da ciò di cui è sostanza; di conseguenza, come possono le idee, se sono sostanza delle cose, esistere separatamente dalle cose?
Come ci si rende conto dopo avere letto questo passo, Aristotele si contrappone a Platone anche dal punto di vista dello stile intellettuale. Egli infatti rimprovera al suo maestro l’uso di metafore, ossia l’abitudine di abbandonare il rigore concettuale per rifugiarsi in un linguaggio metaforico, non abbastanza preciso e controllabile. Qui in realtà un platonico potrebbe forse obiettare ad Aristotele che talora l’uso di metafore (come quella della partecipazione) risulta inevitabile, quando si vogliono esprimere nessi teorici (per esempio quello che concerne il rapporto tra l’intelligibile e il sensibile) estremamente complessi e astratti, e comunque impossibili da concettualizzare con i consueti strumenti filosofici (e del resto poi, all’atto pratico, lo stesso Aristotele non fu immune dall’utilizzo di metafore). Contro l’orizzonte Si è osservato sopra che uno dei discrimini più evidenti tra platonismo e aristonormativo telismo consiste nell’atteggiamento prescrittivo del primo e in quello descrittivo del secondo. Un rapido esame delle critiche mosse da Aristotele all’ontologia platonica non fa che confermare che anche nella concezione della realtà e dell’essere i due filosofi manifestano differenti punti di vista: Platone costruisce un orizzonte normativo, rappresentato dalle idee (che sono perfette e razionali, all’opposto delle cose sensibili), mentre Aristotele riconosce già in questo mondo la presenza di un ordine e di una razionalità, che il filosofo deve sapere individuare e descrivere.
Critica del linguaggio metaforico
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Che cosa si può conoscere?
C’è un aspetto in cui emerge però il debito di Aristotele nei confronti del suo maestro, anche in un quadro apertamente polemico. Si tratta del fatto che, pur riconoscendo esistenza piena e autentica ai soli individui (che sono infatti «sostanze prime»), Aristotele finisce con il negare (fedele in questo a Platone) che la realtà individuale possa venire conosciuta in modo compiuto. Dei diversi individui si può conoscere completamente solo la componente specifica o generica, mentre quella propriamente individuale resta confinata nel campo dell’indeterminatezza. Un esempio Io posso conoscere pienamente il mio compagno Alberto in quanto sono in gradi indeterminatezza do di fornire una definizione precisa del suo essere uomo, che però è contenuti-
Un debito concettuale: l’indeterminatezza dell’individuale
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Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto
sticamente identica alla definizione dell’altro mio compagno Luigi. Tuttavia non sono in grado di conoscere scientificamente le caratteristiche individuali di ciascuno di loro. Il livello compiuto di conoscenza al quale posso accedere riguarda la loro forma, il loro essere uomo, e non le caratteristiche individuali che ciascuno possiede. L’ambito individuale (ossia i caratteri individuali che Alberto e Luigi possiedono e che li distinguono) dipende dalla materia, non dalla forma (che è l’unico aspetto che può venire conosciuto pienamente). È vero, come si è visto nel capitolo su Aristotele, che la forma di Alberto è numericamente diversa da quella di Luigi, ma è altrettanto vero che la loro definizione è la stessa. Una critica ad Aristotele Tutto ciò ha indotto alcuni interpreti ad attribuire ad Aristotele una sorta di strabismo filosofico, dal momento che egli finirebbe con l’affiancare a un’ontologia degli individui (ossia una teoria dell’essere che riconosce pieno diritto di cittadinanza alle sole realtà individuali) un’epistemologia (platonizzante) degli universali (cioè una concezione del sapere che ammette la piena e compiuta conoscenza solo per cose comuni sotto l’aspetto della definizione).
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Matematica e fisica platoniche
La critica di Aristotele
Platone: la matematizzazione del reale
Che cosa sono i numeri e le figure geometriche? Esiste un altro motivo di divergenza tra Platone e Aristotele, la cui importanza non è limitata ai due grandi filosofi, ma attraversa l’intero corso della storia del platonismo e dell’aristotelismo. Si tratta del diverso atteggiamento nei confronti della matematica e dei suoi oggetti. Platone sembra sostenere non solo che le idee di entità matematica esistono (per esempio l’idea di triangolo o di quadrato, l’idea del 2 e del 3 ecc.), ma anche che la stessa realtà fisica risulta in ultima analisi riducibile a principi di ordine matematico (per l’esattezza a triangoli elementari). Aristotele rifiuta con decisione entrambe queste tesi. Prima di tutto nega che esistano idee di enti matematici (numeri e figure geometriche) per la semplice e ovvia ragione che egli rifiuta in blocco l’esistenza di idee separate. Inoltre, come vedremo, egli si oppone anche alla convinzione che gli enti matematici siano presenti in natura, e che anzi costituiscano i principi fondamentali della realtà naturale. Questa concezione, che tanto interesse ha suscitato sia nei protagonisti della rivoluzione scientifica del Seicento, come Galileo, sia nei fisici del Novecento, come Heisenberg, viene formulata da Platone nel Timeo (vedi Unità 3, p. 148 ss.). Qui si sostiene che la realtà materiale è analizzabile in prima istanza nei quattro elementi fondamentali della tradizione presocratica, ossia aria, acqua, terra e fuoco; tuttavia questi elementi non sono assimilabili alle lettere di cui è composta la realtà fisica, anzi, a rigore, non sono neppure simili alle sillabe. Infatti, prosegue Platone, ciascuno degli elementi fisici è scomponibile in poliedri regolari, e per la precisione il fuoco in piramidi, la terra in cubi, l’acqua in icosaedri e l’aria in ottaedri; questi poliedri risultano a loro volta composti da triangoli, i quali si costituiscono a partire da due tipi di triangolo fondamentali, il triangolo rettangolo isoscele e il triangolo rettangolo scaleno. Ciò significa che gli enti matematici, e in particolare quelli geometrici, rappresentano i principi costitutivi della realtà fisico-materiale, secondo una prospettiva che non doveva essere estranea al pitagorismo. Leggiamo, a pagina seguente, uno dei passi più significativi del Timeo. 281
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Il principio geometrico dei corpi
Platone, Timeo, 53 C-D
Aristotele: gli enti matematici sono astrazioni
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Scienze matematiche e cose sensibili
Aristotele, Metafisica, 13,2-3,1077a9-1078a5
Gli enti matematici non sono sostanze
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In primo luogo, certo, credo che sia chiaro a chiunque che fuoco, terra, acqua e aria sono corpi; ma ogni specie di corpo ha anche profondità. D’altra parte, è del tutto necessario che la profondità contenga la natura piana; ancora, la superficie piana e retta è composta da triangoli. Tutti i triangoli derivano da due triangoli, ciascuno dei quali ha un angolo retto e due acuti; di tali triangoli, l’uno ha da ogni parte una porzione di angolo retto diviso da due lati uguali, l’altro, invece, ha due porzioni disuguali di angolo retto diviso da lati disuguali. Supponiamo quindi che questo sia il principio del fuoco e degli altri corpi, procedendo secondo un ragionamento verosimile congiunto a necessità. Il pitagorismo implicito in questo schema teorico viene risolutamente rifiutato da Aristotele, il quale ritiene che gli enti matematici, numeri e figure, non siano sostanze, ossia non posseggano un’esistenza piena e compiuta, ma costituiscano astrazioni ricavate dalle sostanze. In altre parole, secondo Aristotele, le figure geometriche, triangoli e poliedri, non esistono veramente nella realtà fisica, ma vengono astratti concettualmente per mezzo di un’operazione del pensiero umano. Proviamo a fare un esempio: dalla realtà materiale io posso astrarre la forma del triangolo, la quale però non esiste in se stessa (come pensava Platone), ma solo nell’atto del mio astrarre e comunque non possiede esistenza separata, cioè indipendente, dalle cose in cui si trova. Il punto che ad Aristotele preme sottolineare è che gli enti matematici non esistono in quanto sostanze, ma solo in modo diverso e più debole. Essi esistono nella forma di astrazioni delle sostanze. Ecco alcune delle riflessioni aristoteliche in proposito. Per conseguenza, è evidente che, nell’ordine della sostanza, ciò che è risultato di astrazione non è superiore [a ciò che non lo è]. […] Si è dunque dimostrato a sufficienza che gli enti matematici non sono sostanze in più alto grado dei corpi […] e infine che essi non possono esistere separatamente [dai corpi]. […] Pertanto, poiché si può dire in generale e con verità che non solo le sostanze separate esistono, ma che anche le cose non separate esistono […], si potrà dire in generale e con verità anche che gli oggetti matematici esistono [ma in forma inferiore alle sostanze]. E come si può dire, in generale e con verità, che anche le altre scienze riguardano non ciò che è accidente nel loro oggetto (per esempio non il bianco [ma il sano] se il sano è bianco e la scienza in questione [la medicina] ha per oggetto il sano), ma che riguardano l’oggetto che è peculiare a ciascuna di esse (per esempio il sano se la scienza in questione ha per oggetto il sano), così si dirà anche per la geometria: anche se gli oggetti in questione hanno per accidente la caratteristica di essere sensibili, essa non li considera, tuttavia, in quanto sensibili [ma in quanto sono triangoli, poliedri ecc.]. Così le scienze matematiche non saranno scienze di cose sensibili, ma non saranno neppure scienze di altri oggetti separati dai sensibili [saranno cioè scienze di oggetti sensibili ma considerati non in quanto sensibili, bensì astratti dall’elemento sensibile]. Se la forma più alta di esistenza consiste nella separazione, ossia nell’esistere in modo indipendente da altro, gli enti matematici non possiedono questo tipo di esistenza. Ciò significa che essi non sono sostanze (alla maniera dei corpi fisici o dei motori immobili). La loro esistenza è prodotta da un atto di astrazione, che, se da un lato garantisce loro una certa forma di essere (non dimenticare che per
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Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto
Aristotele l’essere si dice in molti modi), dall’altro li esclude senza appello dal novero delle cose che esistono in senso primario (ossia le sostanze). Il libro della natura Il diverso atteggiamento di Platone e Aristotele nei confronti della matematica e di Galileo e il linguaggio dei suoi oggetti è destinato, come si è detto, ad attraversare molti secoli di storia della matematica del pensiero. Vale la pena di menzionare almeno il caso forse più celebre, quello della rivoluzione scientifica del Seicento, in cui un grande fisico come Galileo si richiamerà a Platone (e ai pitagorici) in funzione anti-aristotelica, proponendo di studiare la natura fisica attraverso i numeri e le figure, ossia la matematica, da lui concepita come la lingua con la quale il «libro della natura» è stato effettivamente scritto.
6 La critica a Platone in ambito etico e politico
Il Bene platonico compendio di tutte le prospettive filosofiche
Aristotele: non esiste un unico bene
Prescrivere o descrivere? Il bene Se c’è un campo del sapere dove più incisiva fu la critica di Aristotele al normativismo platonico, questo ambito è senza dubbio quello della filosofia pratica, comprendente l’etica e la politica. Aristotele non si stanca di polemizzare con le pretese platoniche di modificare l’esistente stabilendo principi normativi ai quali gli uomini e le città dovrebbero conformarsi. Anche in questo caso, Aristotele respinge l’idea che il valore e la razionalità siano collocati al di fuori del mondo, in un altro mondo (quello delle idee e della ragione). Tanto nel dominio dei valori morali ed etici che in quello delle costituzioni politiche, Aristotele rimprovera a Platone il mancato riconoscimento dell’esistenza di una razionalità intrinseca al reale, che merita di venire rintracciata e valorizzata (senza pretendere di stabilire norme assolute e trascendenti). Inoltre, agli occhi di Aristotele, a Platone fa difetto lo sforzo analitico volto a comprendere la complessità e l’articolazione della realtà. Un caso emblematico è rappresentato dalla celebre concezione del Bene (o Buono). Per Platone, come si è visto, il bene supremo e unico (l’unico che abbia senso perseguire) è costituito dall’idea del Bene. Essa compendia in sé tutte le prospettive filosofiche: quella etica (in quanto è il valore supremo e il fine di ogni azione); quella ontologica (in quanto costituisce il principio generatore delle idee, ossia dell’essere); quella epistemologica (in quanto attiva le potenzialità conoscitive dell’anima e consente a quest’ultima di conoscere le idee); e quella politica (perché il riferimento all’idea del Bene consente di universalizzare le scelte dei filosofi chiamati a governare la città per il bene di tutti gli altri cittadini). Di fronte a questa formidabile compressione filosofica Aristotele si muove con il consueto sforzo di analiticità. La sua prima mossa consiste nel sottoporre la stessa nozione di bene al vaglio del sistema delle categorie. Ciò gli consente di osservare che non esiste un unico bene, assoluto e valido per tutte le cose; il bene è esteso come l’essere e dunque, proprio come l’essere, si dice in molti modi. Esistono dunque molti beni, almeno tanti quante sono le categorie. Allora, dal punto di vista della prima delle categorie, la sostanza, il bene non potrà che identificarsi con Dio e con l’Intelletto supremo (ossia con il primo motore immobile); ma se analizzato dal punto di vista della qualità, il bene non sarà Dio (che è una sostanza), ma per esempio la virtù; nell’ambito della quantità bene sarà per esempio la misura, o meglio la giusta misura. Leggiamo, a pagina seguente, come Aristotele procede nel suo sforzo analitico volto a smontare il monolitismo del suo maestro. 283
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Il bene si dice in molti modi
Aristotele, Etica eudemia, 1,8,1217b14-1218b5
Cosicché il bene in sé sarebbe [per Platone] l’idea del bene; essa è appunto separata dalle cose che ne partecipano, come del resto anche le altre idee. Ora prendere in esame questa opinione è compito di un altro corso di studi, che avrà necessariamente un carattere più astrattamente dialettico; ma se bisogna pronunciarsi brevemente sull’argomento diciamo allora in primo luogo che affermare l’esistenza di un’idea non solo del bene, ma anche di qualsiasi altra cosa, equivale a dire cosa astratta e vacua. […] Poi, se anche ci sono realmente le idee e l’idea del bene, questa non è forse affatto utile per la vita buona né per le azioni. Il bene, infatti, si dice in molti sensi, tanti quanti sono quelli dell’essere. Come si è distinto in altra sede, l’essere significa o la sostanza, o la qualità, o il tempo e inoltre il muovere o l’essere mosso e il bene si trova in ciascuno di questi casi: nella sostanza è l’intelletto e il dio, nella qualità il giusto, nella quantità la misura, nel tempo l’opportunità e nel movimento chi insegna e chi riceve l’insegnamento. E come appunto nemmeno l’essere è qualcosa di uno nelle cose enumerate, così neanche il bene; né c’è una scienza unica né dell’essere, né del bene [come invece pensava Platone a proposito della dialettica]. Ma neppure i beni espressi nella stessa categoria spetta di considerarli a una sola scienza, per esempio una che studia l’opportunità o la misura; bensì una scienza diversa studia un’opportunità diversa, una scienza diversa una diversa misura: per esempio, quanto all’alimentazione, sono la medicina e la ginnastica che studiano l’opportunità e la misura, quanto alle azioni di guerra la strategia; e così c’è una scienza diversa per un diverso tipo di azione, sicché ben difficilmente proprio lo studio del bene in sé apparterrà a una sola scienza. […] Contro l’esistenza del bene in sé, dunque, ci sono difficoltà di questo genere e, inoltre, il fatto che non sarebbe utile alla politica, ma questa ha un suo bene particolare, proprio come anche le altre scienze, per esempio la ginnastica ha come bene la buona condizione fisica. […] Piuttosto il bene si dice in molti modi e c’è una parte di esso che è bella e un bene è oggetto di azione un altro no. In forma molto più concisa Aristotele esprime questo stesso punto di vista all’inizio dell’Etica nicomachea, l’altro suo scritto di argomento etico.
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Inoltre, poiché il bene si predica nella stessa estensione di significato dell’essere (infatti si predica nella sostanza, come Dio o come Intelletto; nella qualità, come virtù; nella quantità, come misura; nella relazione, come utilità; nel tempo, come opportunità; nel luogo, come residenza; e così via), è evidente che non potrebbe essere alcunché di comune, universale ed uno [come pensava invece Platone]: infatti non si predicherebbe in tutte le categorie, ma in una sola.
La molteplicità del bene nell’esistente
Nella scelta di sottoporre la nozione di bene alla griglia analitica del sistema delle categorie si misura la distanza di Aristotele da Platone: mentre quest’ultimo aveva fatto del bene (nella forma dell’idea del Bene) qualcosa di iperbolico ed eccedente, in quanto collocato costitutivamente in una dimensione altra rispetto all’essere e al sistema di valori degli uomini (il Bene era per Platone ciò che non è ancora, ciò che deve essere realizzato), l’allievo ricolloca questa nozione nel campo dell’esistente, ossia di ciò che è già, spiegando analiticamente la molteplicità dei suoi significati, ma smarrendone inevitabilmente la portata normativa e progettuale.
Il bene non è uno
Aristotele, Etica nicomachea, 1,4,1096a23-29
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Il ruolo politico-sociale della proprietà e della famiglia
Gli argomenti aristotelici contro il comunitarismo platonico
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Bene dello Stato e interesse personale Aristotele, Politica, 2,2-3,1261a12-1262a2
Prescrivere o descrivere? La città Il richiamo di Aristotele alle ragioni dell’esistente contro gli eccessi progettuali e normativi del platonismo conosce il suo culmine nell’ambito della riflessione politica. Alle pretese platoniche di abolire la proprietà privata e la stessa famiglia, Aristotele contrappone la convinzione che l’òikos, ossia la casa, il nucleo familiare (inteso sia in senso affettivo e parentale che in senso patrimoniale) non costituisce solamente un organismo naturale, ma riveste anche una funzione sociale importantissima, e non è affatto privo di un aspetto propriamente valoriale. In altre parole, che gli uomini sentano come propri la moglie e i figli, che siano in possesso di proprietà personali, non è solo naturale e perfino utile dal punto di vista socio-economico, ma si rivela per Aristotele anche giusto (e utile al conseguimento della virtù). Del resto – osserva Aristotele – se gli uomini non possedessero nulla di privato, non potrebbero esercitare per esempio la virtù della liberalità, non potrebbero cioè essere generosi. Inoltre, servendosi di un argomento destinato a venire ripreso tutte le volte che ci si proporrà di opporsi a progetti comunitari o propriamente comunisti, Aristotele osserva che gli uomini non dimostrano alcuna cura per le cose comuni, mentre si impegnano a salvaguardare e migliorare le cose che sono di loro proprietà. In generale ad Aristotele sembra davvero eccessivo il monolitismo platonico, ossia la pretesa che lo Stato sia uno, che gli uomini pensino e agiscano unitariamente, che tutto sia in comune. Nel II libro della Politica vengono esposti molti degli argomenti contro il comunitarismo platonico: Inoltre, rispetto al fine che egli [Platone] dice doversi assegnare allo stato, il suo piano è impossibile e non è precisato in che modo lo si deve interpretare: intendo cioè l’unità che lo stato intero deve raggiungere, come il suo bene supremo, la più completa unità […]. Eppure è chiaro che se uno stato nel suo processo di unificazione diventa sempre più uno, non sarà più neppure uno stato, perché lo stato è per sua natura pluralità e diventando sempre più uno si ridurrà da stato a una famiglia e da famiglia a singolo uomo: in realtà dobbiamo ammettere che la famiglia è più unitaria dello stato e l’individuo è più unitario della famiglia: di conseguenza, chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, poiché distruggerebbe lo stato. […] È evidente dunque da queste considerazioni che lo stato per sua natura non deve avere quell’unità di cui parlano alcuni e quel che si vanta come il più grande bene degli stati in realtà li distrugge. […] Ma se anche il bene supremo per una comunità fosse proprio di raggiungere l’unità più completa, tale unità non sembra dimostrarsi neppure dal modo di esprimersi dei cittadini, quando tutti dicano nello stesso tempo «è mio», «non è mio», il che, tuttavia, a parere di Socrate [cioè di Platone], è segno della perfetta unità di uno stato. […] Oltre a ciò, quel che si è detto presenta un altro inconveniente. Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno perché gli uomini badano soprattutto a quel che è proprietà loro, di meno a quel che è possesso comune o, tutt’al più, nei limiti del loro personale interesse: piuttosto se ne disinteressano, oltre al resto, perché suppongono che ci pensi un altro, come nelle opere dome285
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stiche molti servi talora eseguono gli ordini peggio che pochi. Così per ciascun cittadino ci sono un migliaio di figli, ma non nel senso che sono figli di ciascuno, ma uno qualunque sarà ugualmente figlio di uno qualunque, con la conseguenza che tutti ugualmente se ne disinteresseranno.
Un rischio delle critiche al platonismo: l’abbandono della portata critica del pensiero filosofico
Si tratta di argomenti indubbiamente sensati e per certi aspetti perfino condivisibili. Il richiamo alla dimensione privatistica, alla sua naturalità e utilità sociale non può non essere avvertito come uno dei tanti inviti alla ragionevolezza che attraversano le opere di Aristotele, in particolare nella sua polemica con Platone. Esiste tuttavia un rischio in questo come in simili richiami. Si tratta precisamente del pericolo di abbandonare la portata critica del pensiero filosofico. Nella convinzione che ciò che esiste sia di per sé razionale, che sia in possesso di una dimensione valoriale già data (i valori di una società hanno di per sé una componente razionale e positiva), si cela il rischio (corso forse più dagli aristotelici di ogni epoca che dallo stesso Aristotele) di smarrire la dimensione critica del pensiero filosofico. Di smarrire cioè il senso profondo del platonismo, che consiste proprio nella ricerca di qualcosa di altro rispetto all’esistente, di un luogo che sia altrove rispetto ai luoghi degli uomini e della storia.
I brani antologizzati sono tratti da: Aristotele, Etica nicomachea, trad. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1986. Aristotele, Categorie, trad. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1989. Aristotele, Metafisica, trad. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993. Platone, Timeo, trad. di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003. Aristotele, Etica eudemia, trad. di P. Donini, Laterza, Roma-Bari 1999. Aristotele, Politica, trad. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1996.
Questionario Quali sono i due atteggiamenti filosofici contrastanti che differenziano alla base il pensiero di Platone da quello di Aristotele? (max 5 righe)
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In che cosa si differenziano le concezioni di Platone e Aristotele rispetto alle scienze matematiche e agli enti da esse considerati? (max 10 righe)
Quali sono le principali critiche che Aristotele rivolge alla concezione delle idee di Platone e quali i punti salienti della sua teoria secondo la quale le idee sono immanenti alla realtà? (max 15 righe) 286
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Quali sono le principali differenze tra le concezioni etiche e politiche di Platone e quelle di Aristotele e perché è possibile, rispetto ad esse, parlare di atteggiamento descrittivo o prescrittivo? (max 20 righe)
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico
1. Scienze e filosofia 2. La medicina antica 1. 2. 3. 4.
Gli inizi e il Corpus Hippocraticum Il sapere medico come modello culturale Il sapere dei medici ippocratici La medicina ellenistica e la rivoluzione anatomica 5. Le scuole mediche 6. Galeno e la rifondazione della medicina
3. Matematiche e filosofia 1. I Greci e la matematica 2. Prima di Euclide: la nascita della matematica greca 3. La svolta assiomatica: l’Accademia platonica, Aristotele ed Euclide 4. L’astronomia matematica 5. L’assiomatizzazione dell’ontologia: Proclo e il neoplatonismo ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario
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Parte prima L’età antica
Scienze e filosofia
1 Interazione tra scienza e filosofia
➥ Percorso tematico, p. 321 Platone e la medicina come modello per la filosofia
Le matematiche e la filosofia platonica delle idee
Applicazioni delle matematiche e sviluppo tecnologico
Aristotele scienziato
➥ Sommario, p. 318
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Il pensiero scientifico giocò un ruolo decisivo nella formazione e nello sviluppo complessivo della cultura greca. Non ci fu, nell’ambito di questa, nulla di simile a quella che nel mondo di oggi viene chiamata la separazione fra «le due culture»: da una parte quella umanistica e filosofica, dall’altra quella scientifica. Ci fu invece fra pensiero scientifico e pensiero filosofico un rapporto molto stretto, un’interazione sempre produttiva anche se talvolta polemica (come vedremo in seguito). Platone vide per esempio nella medicina un sapere dotato di un metodo razionale e insieme efficace, capace di intervenire positivamente sulle vicende umane, e di usare il suo potere sui pazienti non nel proprio, ma nel loro interesse. La medicina offriva così alla filosofia un modello di sapere e di potere buono, razionale ed efficace: un modello, quindi, in grado di orientare la costruzione di una filosofia non solo teoricamente solida ma anche praticamente in grado di esercitare il potere sulla città (Platone paragonava spesso i filosofi ai medici di cui la società malata aveva bisogno). D’altra parte, anche le matematiche, con il loro rigore intellettuale, con la loro capacità di esercitare la mente al pensiero astratto, costituivano per Platone un modello decisivo per la sua concezione della filosofia come conoscenza di idee eterne e immutabili. È anche vero, reciprocamente, che l’invito rivolto da Platone alle discipline matematiche a diventare sempre più teoricamente rigorose, esercitò un profondo influsso sul loro sviluppo verso la costruzione di un sapere fortemente organizzato in senso assiomatico-deduttivo. Legate così da una parte alla filosofia, soprattutto platonica, le matematiche non cessarono mai dall’altra parte di avere stretti rapporti con le applicazioni tecnologiche. I grandi sviluppi della tecnologia antica, fra il III e il I secolo a.C., dall’architettura alle macchine da guerra, dai sistemi di sollevamento e trazione a quelli per la misura del tempo, fino alla costruzione di sorprendenti dispositivi automatici, non sarebbero stati possibili senza un massiccio ricorso ai metodi matematici di misura e di calcolo: basta riferirsi, in questo campo, alla grande figura di Archimede. Quanto ad Aristotele, oltre che filosofo fu egli stesso un grandissimo scienziato: a lui si devono ricerche in campo cosmologico, meteorologico, fisico, e soprattutto la creazione di nuove discipline scientifiche in campo biologico, come la zoologia e l’anatomia comparata. Si può dire che l’intera concezione aristotelica della natura è ispirata dal sapere biologico, e che d’altra parte gli sviluppi della biologia e della medicina dopo Aristotele, e fino a Galeno, si svolgono lungo il percorso che egli aveva aperto. Non si può dunque comprendere la storia della filosofia antica senza tener conto del suo rapporto con i saperi scientifici, né, reciprocamente, si possono comprendere gli sviluppi di questi senza aver presente la loro costante interazione con la filosofia. Del resto, una parte importante della rivoluzione culturale e intellettuale che accadde fra il 1400 e il 1500, e che va sotto il nome di Rinascimento europeo, consistette proprio nella riscoperta dei grandi testi scientifici antichi che erano rimasti ignoti al Medioevo: da Euclide a Tolomeo, dalle opere biologiche di Aristotele a Galeno, fino ai grandi tecnologi come Erone. Fu a partire di qui che la cultura europea iniziò la costruzione del mondo moderno.
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico
Archimede: uno scienziato a tutto tondo Archimede, nato a Siracusa nel 287 a.C., dopo gli studi ad Alessandria con i successori di Euclide, tornò a Siracusa dove visse e lavorò. Dotato di una straordinaria capacità intuitiva, fu un matematico, un astronomo e un fisico originale, creativo e innovatore. Conseguì risultati notevolissimi in aritmetica, fisica e geometria, con la scoperta del π greco e del valore del peso specifico. Ma seppe anche applicare la propria intelligenza e le proprie conoscenze alla tecnologia, con invenzioni come gli specchi ustori, la catapulta e la vite a chiocciola e contribuì in modo molto rilevante alla difesa della città siciliana al tempo delle guerre puniche con l’ideazione di potenti macchine belliche. Ebbe fama di genio e sulla sua vita si raccontano numerosi aneddoti: celeberrimo quello secondo cui intuì la so-
luzione del problema del galleggiamento dei corpi – uno dei suoi maggiori contributi alla fisica – mentre faceva un bagno. Entusiasta saltò fuori dall’acqua correndo nudo ed esclamando «Èureka!» («Ho trovato!»). Dal punto di vista scientifico, oltre alle numerose scoperte, è notevole la sua originalità di metodo: nelle sue ricerche unì strettamente fisica e matematica e tra le altre novità introdusse nei suoi calcoli, per la prima volta nella storia, il concetto di infinitesimo. Alcune di tali idee sarebbero tornate in auge in epoca moderna, e con grande successo, ma nei secoli immediatamente successivi alla sua morte l’opera di Archimede non ebbe molto seguito, anche perché molti dei suoi scritti non furono più reperibili dopo l’incendio della Biblioteca di Alessandria. Morì a Siracusa nel 212 a.C. durante l’assedio della città da parte dei romani.
La medicina antica
2 I testi
Corpus Hippocraticum Luoghi dell’uomo: Autopropaganda della medicina «ippocratica», T1 Ippocrate Epidemie: Il compito del medico, T2 Platone Leggi: Il medico dei liberi e il medico degli schiavi, T3 Ippocrate Il giuramento: «Giuro su Apollo medico…», T4 Le arie, le acque, i luoghi: Ambiente e malattie, T5
1 Il medico nei poemi omerici
Platone Repubblica: La terapia dei ricchi e la terapia dei poveri, T6 Ippocrate Prognostico: La centralità della prognosi, T7 Galeno Procedimenti anatomici: L’affermazione a Roma, T8; Lo spettacolo anatomico, T9 I miei libri: A confronto con i testi dei maggiori anatomisti, T10; Contro Marziale, T11 Come riconoscere il miglior medico: Competizioni tra medici, T12 Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi: La terapia dell’anima, T13; La malvagità involontaria, T14
Gli inizi e il Corpus Hippocraticum Pratiche di cura e di guarigione erano certo esistite da sempre nella società greca. Ne abbiamo qualche traccia nei poemi omerici: nell’Iliade si parla di due guerrieri-chirurghi, Podalirio e Macaone («che dardi estraggono, che ferite leniscono con farmachi succhi», cioè con estratti vegetali: 11,514). Nell’Odissea invece il medico compare in una veste più umile: si tratta di un artigiano itinerante, come l’indovino o il falegname, che va di villaggio in villaggio per offrire i suoi servizi ai malati (17,381 ss.). È certo che fra questi medici vaganti molti saranno 289
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➥ Percorso tematico, p. 321 Un percorso di formazione privato
Aspetti negativi e positivi
L’assoluta libertà di ricerca
La svolta del V secolo: i testi ippocratici e le associazioni professionali
stati i ciarlatani e i guaritori magici contro cui si scaglia la polemica del testo ippocratico sul Male sacro; c’erano poi i sacerdoti guaritori che operavano nei santuari di divinità come Apollo e più tardi di Asclepio. La formazione di questi primi medici era certamente del tutto privata: l’arte si trasmetteva, oralmente, nel rapporto fra padre e figlio, maestro e allievo. Una situazione, questa, che nel mondo antico non sarebbe mai del tutto cambiata. Va infatti tenuto presente che né nella società greca né in quella romana sono mai esistite facoltà di medicina, ospedali, o comunque istituzioni pubbliche che garantissero della formazione del medico, né una legislazione che ne regolasse l’attività. Chiunque lo desiderasse, e quale che fosse la sua preparazione professionale, poteva dunque presentarsi ai pazienti nella veste di medico. Questa situazione, per noi sorprendente, aveva effetti negativi ma anche positivi. Gli effetti negativi sono chiari: la professione medica era accessibile anche a chi era privo di qualsiasi competenza, a imbroglioni e orecchianti, con i relativi rischi per i pazienti che si affidavano loro. Ma gli aspetti positivi compensavano ampiamente quelli negativi. Per distinguersi dai loro concorrenti, i medici professionali dovevano mostrare di possedere una rigorosa preparazione scientifica, dedicandosi dunque per l’intera vita allo studio della medicina, e dovevano inoltre dotarsi di un preciso codice morale, cioè di una deontologia medica, come vedremo meglio più avanti. Un altro effetto positivo della mancanza di una regolamentazione legale consistette per la medicina antica in una piena e assoluta libertà di ricerca. Nella cultura egizia, la professione medica era minuziosamente regolamentata da un apposito sacerdozio, e ogni trasgressione alle norme stabilite una volta per tutte poteva venir punita anche con la morte. Nulla di simile per i medici greci e romani, del tutto liberi di esplorare nuovi metodi di cura, di elaborare teorie in conflitto fra loro, affidandone il successo solo al prevalere degli argomenti e all’efficacia terapeutica. Verso la metà del V secolo a.C. si assistette però a un mutamento radicale nel campo dell’elaborazione e della trasmissione del sapere medico. Gruppi di medici, che operavano nei centri di Cnido e soprattutto di Cos (dove dominava l’autorità del fondatore, il grande Ippocrate) cominciarono a mettere per iscritto le conoscenze fino ad allora accumulate. Venne così a formarsi una collezione di scritti medici (che furono più tardi tutti attribuiti allo stesso Ippocrate, onde il nome di Corpus Hippocraticum, anche se noi non sappiamo di quali opere egli sia stato realmente autore), che fornivano un punto di riferimento più sicuro e più unitario per l’esercizio e l’insegnamento della medicina, di quanto fossero state in precedenza le nozioni trasmesse oralmente e personalmente da maestro a discepolo. Si formò anche nello stesso periodo un’associazione professionale (o ‘corporazione’) dei medici, che presero il nome di «Asclepiadi» da Asclepio, la divinità guaritrice per eccellenza.
Ippocrate: la vita e le opere Ippocrate nacque a Cos nel 460 a.C. circa. Non esistono molte notizie attendibili sulla sua vita, se non che viaggiò a lungo in Grecia e altrove e che fu un medico di grande successo e un caposcuola. Si adoperò fortemente per rendere la medicina più ra-
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zionale e svincolata da pratiche rituali magiche e/o religiose. Fu considerato l’autore di circa settanta scritti di medicina; fra le opere autentiche sono forse da annoverare Antica medicina, Prognostico, Male sacro, Le arie, le acque, i luoghi. Morì a Larissa nel 370 a.C. circa.
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico Manualistica e propaganda
2 Prestigio culturale e ricerca del consenso
T1
Autopropaganda della medicina «ippocratica» Corpus Hippocraticum, Luoghi dell’uomo, 46
I più antichi scritti medici si possono dividere in due gruppi principali. Il primo comprende testi di carattere manualistico, promemoria per medici che viaggiano lontano dal loro caposcuola: si tratta quindi di raccolte di casi clinici esemplari, di prontuari sui sintomi e sulla relativa prognosi, di indicazioni terapeutiche. Il secondo gruppo include invece testi dal carattere per così dire propagandistico, destinati ad affermare presso il pubblico colto e i potenziali pazienti il prestigio e la competenza dell’arte medica emergente, in polemica contro i suoi rivali nel campo della guarigione e della conoscenza della natura umana.
Il sapere medico come modello culturale La medicina «ippocratica» ebbe presto un vastissimo impatto culturale, conquistandosi un rilevante prestigio nella cultura della seconda metà del V secolo. Essa si presentava come un sapere competente ed efficace nel campo più importante della vita umana, quello della salute e della malattia. Si trattava di un sapere interamente basato su procedure e metodi razionali, pubblicamente controllabili (al contrario della magia), e trasmissibili attraverso l’insegnamento; si trattava inoltre di una professione che veniva dotandosi di un rigoroso codice morale. In una prima fase, l’autopropaganda della medicina assume toni enfatici, proclamando l’infallibile successo terapeutico della nuova arte, che non ha affatto bisogno della buona sorte per venire a capo delle malattie. Leggiamo questa proclamazione in uno dei testi più antichi del Corpus Hippocraticum. Io credo invero che la medicina sia stata ormai tutta scoperta: la medicina così costituita da insegnare in ogni caso le forme e le opportunità. Chi conosce in questo modo la medicina non riposa per nulla sul caso, ma è in grado di agire correttamente sia con la fortuna che senza la fortuna. La medicina ha basi solide in ogni sua parte e le migliori conoscenze di cui consta non sembrano affatto aver bisogno della sorte: la sorte infatti è autonoma, non si lascia comandare e non le è proprio esaudire le preghiere. La scienza invece si lascia comandare ed ha buona fortuna, quando lo scienziato se ne vuole servire. E poi perché la medicina avrebbe bisogno della sorte? Se vi sono farmaci sicuri per le malattie, non aspettano certo la fortuna per risanarle, penso, se appunto i farmaci esistono. Se invece giova somministrarli con l’aiuto della sorte, allora non guariscono più i farmaci dei non farmaci, se si somministrano facendo affidamento sul caso.
Tuttavia, l’evidenza dei ripetuti insuccessi terapeutici – il più clamoroso fu riscontrato nel corso della pestilenza che colpì Atene nel 430-429, di fronte ai cui catastrofici effetti i medici si provarono del tutto impotenti – rese necessario un atteggiamento più cauto da parte dei medici. Da un lato, essi rinunciarono alla tesi che la medicina fosse ormai tutta scoperta, insistendo invece sul fatto che era stato scoperto il metodo corretto, seguendo il quale, «in lungo corso di tempo», la medicina sarebbe giunta alla sua compiuta realizzazione. Il rapporto tra medico Dall’altro lato, i medici fecero valere il loro impegno professionale e morale, e paziente lo sforzo di prendersi totalmente in carico la vita del paziente prima e duran-
Insuccessi terapeutici e certezza del metodo
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te la malattia. Leggiamo nello scritto ippocratico Epidemie queste bellissime parole:
T2
Il compito del medico
Ippocrate, Epidemie, 1,11
Descrivere il passato, comprendere il presente, prevedere il futuro: questo è il compito. Tendere nelle malattie a due scopi, giovare o non essere di danno. L’arte ha tre momenti, la malattia e il malato e il medico. Il medico è il ministro dell’arte: si opponga al male il malato insieme con il medico. Questa assidua collaborazione tra il medico e il suo malato sarebbe stata ben compresa da Platone, che nelle Leggi contrapponeva l’intervento frettoloso del medico degli schiavi all’opera paziente del ‘medico dei liberi’, attento a comprendere i problemi dei pazienti e a ‘educarli’ alla guarigione.
T3
Il medico dei liberi e il medico degli schiavi
Platone, Leggi, 4,720a ss.
La morale medica ippocratica
T4
«Giuro su Apollo medico…» Ippocrate, Il giuramento
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E certo hai anche notato che, essendovi nelle città malati sia schiavi sia liberi, di solito sono in effetti gli schiavi a curare gli schiavi, recandosi in giro oppure restando negli ambulatori; nessuno di tali medici dà ai servitori spiegazioni razionali sulla malattia di cui ognuno di essi soffre, né esse son richieste: poi, dopo aver prescritto quanto la pratica suggerisce loro, quasi ne avessero una rigorosa conoscenza, e con un’arroganza da tiranni, corrono a visitare un altro servitore malato, permettendo così al medico loro padrone di dedicarsi con calma alla cura dei suoi malati. Il medico libero, invece, cura e tien d’occhio di solito le malattie degli uomini liberi: egli le esamina a fondo fin dall’inizio e secondo il loro naturale sviluppo, e, discorrendo con il paziente stesso e con i suoi amici, da una parte s’informa personalmente presso i malati, dall’altra i malati stessi istruisce per quanto è possibile; nulla poi prescrive di cui non sia ben convinto egli stesso. Ed è allora, continuando a tenere il malato tranquillo grazie alla persuasione e a predisporlo favorevolmente, che egli cerca di completare la sua opera riconducendolo alla salute. Un documento interessante della morale medica è offerto dal famoso Giuramento ippocratico. Lo riportiamo qui integralmente; va tenuto conto che non si tratta di una posizione comune a tutti i medici dell’epoca (come provano il rifiuto dell’aborto e di operare i calcoli, procedure invece entrambe comuni nella pratica medica di quel tempo). Molto importante, tuttavia, è il rispetto quasi religioso che viene mostrato nei riguardi sia dei maestri sia dei pazienti. Giuro su Apollo medico e su Asclepio e su Igea e su Panacea e sugli dèi tutti e le dee, chiamandoli a testimoni, di tener fede secondo le mie forze e il mio giudizio a questo giuramento e a questo patto scritto. Riterrò chi mi ha insegnato quest’arte pari ai miei stessi genitori, e metterò i miei beni in comune con lui, e quando ne abbia bisogno lo ripagherò del mio debito e i suoi discendenti considererò alla stregua di miei fratelli, e insegnerò loro quest’arte, se desiderano apprenderla, senza compensi né impegni scritti; trasmetterò gli insegnamenti scritti e verbali e ogni altra parte del sapere ai miei figli così come ai figli del mio maestro e agli allievi che hanno sottoscritto il patto e giurato secondo l’uso medicale, ma a nessun altro. Mi varrò del regime per aiutare i malati secondo le mie forze e il mio giudizio, ma mi asterrò dal recar danno e ingiustizia. Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se richiestone, né mai proporrò un tale consiglio: ugualmente non darò alle donne pessari [supposte] per provocare
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l’aborto. Preserverò pura e santa la mia vita e la mia arte. Non opererò neppure chi soffre di mal della pietra, ma lascerò il posto ad uomini esperti di questa pratica. In quante case entrerò, andrò per aiutare i malati, astenendomi dal recar volontariamente ingiustizia e danno, e specialmente da ogni atto di libidine sui corpi di donne e uomini, liberi o schiavi. E quanto vedrò e udirò esercitando la mia professione, e anche al di fuori di essa nei miei rapporti con gli uomini, se mai non debba essere divulgato attorno, lo tacerò ritenendolo alla stregua di un sacro segreto. Se dunque terrò fede a questo giuramento e non vi verrò meno, mi sia dato godere il meglio della vita e dell’arte tenuto da tutti e per sempre in onore. Se invece sarò trasgressore e spergiuro, mi incolga il contrario di ciò.
3
Lacune scientifiche
La struttura della medicina ippocratica
La medicina ippocratica e la ‘scatola nera’ del corpo umano
Il sapere dei medici ippocratici Se dunque la medicina degli inizi costituiva per la cultura dell’epoca un modello affascinante, tanto per il rigore dei metodi quanto per l’atteggiamento morale, quali erano poi i suoi effettivi contenuti scientifici e i suoi procedimenti terapeutici? Per rispondere a questa domanda, occorre prima di tutto tener conto di due fondamentali carenze del sapere medico nell’epoca ippocratica (V e IV secolo a.C.). In primo luogo, i medici non avevano alcuna conoscenza anatomica e fisiologica, insomma ignoravano struttura e funzionamento degli organi interni del corpo. Questa lacuna verrà colmata, come vedremo, solo nel III secolo a.C. In secondo luogo, essi non disponevano di rimedi farmacologici di tipo chimico, come quelli cui siamo abituati, e non potevano far altro che ricorrere a estratti e decotti di origine vegetale (piante curative), o più di rado animale (a questi si aggiungevano naturalmente gli interventi chirurgici, come l’amputazione delle parti infette o la cauterizzazione delle ferite). Queste due lacune aiutano a comprendere la particolare struttura della medicina ippocratica. I medici conoscevano gli elementi in ingresso nell’organismo (cibi, bevande, aria inspirata). Supponevano che all’interno del corpo – una sorta di ‘scatola nera’ per la fisiologia ippocratica – avvenisse un processo di ‘cottura’ di questi elementi, che li trasformava nei fluidi organici principali, gli «umori». Questi umori venivano riconosciuti in uscita: si trattava soprattutto di sangue (visibile nelle emorragie e nelle ferite), di flegma (muco o catarro), e della bile gialla e nera (riconoscibili nelle urine e nelle feci). Nello stato di salute, questi umori si presentavano in quantità proporzionata, fusi tra loro, non nocivi. Nella malattia invece l’organismo non riusciva a trasformare (‘cuocere’) adeguatamente gli elementi in entrata, che perciò si presentavano all’uscita in quantità eccessive e non bilanciate (bisogna pensare che i principali quadri patologici della medicina ippocratica erano costituiti dalle malattie dell’apparato respiratorio e di quello digerente). Elementi in ingresso Cibi Bevande Aria inspirata
Organismo
? (Processo di cottura)
Umori (principali fluidi organici) riconoscibili in uscita Sangue Flegma Bile gialla Bile nera
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Parte prima L’età antica Cause della malattia
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Ambiente e malattie
Ippocrate, Le arie, le acque, i luoghi, 1-2
La terapia del regime di vita
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L’insorgere della malattia era dovuto a una vasta gamma di fattori: la stagione, il clima, l’età, il tipo di alimentazione e il modo di vita del paziente. L’ambiente (per le arie inspirate e l’acqua bevuta) aveva una particolare importanza nello sviluppo delle patologie individuali e collettive, come appare in questa interessante pagina dello scritto su Arie, acque, luoghi, che è destinato al medico itinerante e che costituisce il più antico testo di medicina ambientalistica. 1. Chi voglia correttamente condurre indagini mediche, ha di fronte a sé questi problemi: in primo luogo deve studiare le stagioni dell’anno, gli influssi che ognuna di esse può esercitare (per nulla infatti si rassomigliano, ma molto differiscono reciprocamente sia in se stesse sia nei loro mutamenti); e inoltre i venti e caldi e freddi, innanzitutto quelli comuni a tutti i luoghi, poi anche quelli che sono tipici di ciascuna regione. Deve ancora indagare le proprietà delle acque, perché così come esse differiscono nel gusto e nel peso, altrettanto ne sono ben diverse le proprietà. Sicché quando un medico giunge a una città che gli è ignota, deve riflettere sulla sua posizione, sull’orientamento sia rispetto ai venti sia rispetto al sorgere del sole. Non ha davvero le stesse proprietà la città volta a settentrione di quella volta a mezzogiorno, né quella volta a levante di quella volta a ponente. Tutto ciò occorre indagare a fondo, e ancora quale sia la situazione riguardo alle acque, se ne sono usate di molli e stagnanti o piuttosto dure e scaturenti da luoghi elevati e pietrosi, o crude e ricche di sali, e il suolo, se è spoglio e arido o fertile di boschi e di acque, se è basso e soffocante oppure elevato e freddo; e quale modo di vita gradiscano gli abitanti, se sono amanti del vino e del cibo e avversi alle fatiche, o se invece amano l’esercizio ginnico e gli sforzi, mangiano molto e bevono poco. 2. Fondandosi su questi riferimenti, si devono studiare le singole questioni. Se infatti un medico ben li conosce, meglio se tutti, o almeno per la maggior parte, giungendo ad una città che gli sia ignota non gli sfuggirebbero né le malattie tipiche del luogo né la natura di quelle più comuni: e così non sarà incerto e non commetterà errori nella terapia, come senz’altro avviene se non si affrontano i singoli casi con una preliminare conoscenza di tali riferimenti. E col trascorrere del tempo e dell’anno egli sarà in grado di dire quali malattie epidemiche colpiranno la città e d’estate e d’inverno, e quali, proprie di ciascuno, rischieranno di derivargli da un mutamento del modo di vita. Conoscendo infatti i mutamenti delle stagioni e il sorgere e il tramontare degli astri, e in qual modo tutto ciò accada, prevederà la natura dell’annata a venire. Così chi abbia riflettuto e compreso in anticipo le circostanze del tempo, possiederà una piena conoscenza di ogni singolo caso, e molto otterrà nel difendere la salute e non piccoli successi conquisterà nella sua scienza. A qualcuno può sembrare che queste sian questioni di meteorologia: ma se cambiasse parere, apprenderebbe che non piccolo, grandissimo anzi, è il contributo che l’astronomia reca alla medicina. Insieme con le stagioni, infatti, mutano per gli uomini anche le malattie e le condizioni dell’apparato digerente. Il medico ippocratico, per prevenire la malattia o per curarla quando fosse insorta, doveva dunque agire sugli elementi in entrata nell’organismo, in primo luogo stabilendo una dieta alimentare accurata. Poteva inoltre migliorare la capacità di funzionamento dell’organismo stesso, ricorrendo alla regolazione degli esercizi fisici, dei bagni, del modo di vita nel suo insieme. La medicina si confi-
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gurava così come cura attenta ed estensiva del regime di vita del paziente, prima, durante e dopo la malattia, prendendosi in carico la sua intera esistenza. Bisogna pensare dunque a una situazione in cui il medico fosse interamente disponibile per uno o pochi pazienti, e che questi avessero il tempo e i mezzi per conformare l’intera giornata alle sue minuziose prescrizioni (l’ora del bagno, della passeggiata, della palestra, i diversi pasti accuratamente regolati, i massaggi e così via). Perplessità di Platone In una pagina della Repubblica, Platone avrebbe espresso la sua disapprovazione sulla terapia del regime per questo tipo di medicina, che finiva per distogliere i ricchi, cioè gli uomini cui di vita spettava la maggiore responsabilità politica e sociale, dai loro impegni pubblici, per dedicarsi soltanto alla cura interminabile delle proprie malattie presenti o future. Meglio, secondo Platone, la terapia dei poveri, che mirava a restituirli rapidamente alle loro attività lavorative, oppure, se questo era impossibile, li abbandonava al loro destino.
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La terapia dei ricchi e la terapia dei poveri
Platone, Repubblica 3,406c ss.
– Se si vive sotto una buona legge nella città a ciascuno è assegnata una funzione particolare che è necessario assolvere, e a nessuno è lecito di vivere in ozio da malato limitandosi a curarsi. È ridicolo che ce ne accorgiamo a proposito degli artigiani, e invece non ce ne accorgiamo se si tratta di ricchi che sembrano esser felici. – In che senso? –, disse. – Un falegname – dissi io, – se si ammala chiede al medico che gli faccia bere un farmaco emetico o un purgante in modo da evacuare la malattia, oppure che lo liberi da essa ricorrendo ad una cauterizzazione o a un’incisione. Ma se gli si prescrive una lunga dieta, gli si copre la testa con berretti di lana e via di seguito, dice subito che non ha tempo per restare malato e che non ci guadagna niente a vivere così, pensando solo alla malattia e trascurando il lavoro che lo aspetta. E dirà «arrivederci» a un tal medico, dopo di che tornerà alla sua dieta consueta, guarirà e vivrà occupandosi delle sue proprie mansioni; oppure, se il suo corpo non è in grado di resistere, morirà liberandosi dei suoi problemi. – E, almeno per un uomo di questo genere, par giusto servirsi così della medicina –, disse. – E non è forse perché – dissi io – gli è prefisso un compito, e se non lo assolve non gli giova più vivere? – Chiaro – disse. – Il ricco invece, stiamo dicendo, non ha di fronte a sé nessun compito tale che la sua vita sarebbe impossibile se fosse costretto a rinunciarvi. – In effetti non se ne sente parlare. – Perché – dissi – non ascolti quel che dice Focilide: una volta guadagnato il necessario per vivere, bisogna esercitare la virtù. – Anche prima, penso io –, disse. – Non litighiamo su questo con lui, – dissi – ma cerchiamo di spiegare a noi stessi se la virtù è cosa cui il ricco debba dedicare il suo impegno (salvo, in caso contrario, passare una vita insopportabile), o se l’«allevamento delle malattie», per la dedizione mentale che richiede, è d’impedimento per la falegnameria e le altre tecniche, ma non ostacola per niente il precetto di Focilide. – E sì, per Zeus –, disse lui – anzi si può dire che è l’ostacolo più grande di tutti questa smisurata cura del corpo che va ben oltre i limiti della ginnastica. Ed è d’impaccio sia per l’amministrazione della casa sia per gli impegni militari e quelli di governo nella città. 295
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La centralità della prognosi Ippocrate, Prognostico
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Nonostante la critica platonica, non del tutto immotivata, l’aspetto igienico, profilattico, dietetico, restò per secoli quello dominante, e il più efficace, nella medicina antica (ad esso si aggiungevano farmaci vegetali purganti, depurativi, astringenti). A fianco di questa straordinaria cura per il regime individuale dei loro pazienti, i medici ippocratici svilupparono un altro eccezionale talento, quello prognostico. L’osservazione dei segni o sintomi (l’aspetto del paziente, i suoi sudori o escrementi, il suo comportamento), li metteva in grado di prevedere con incredibile precisione il decorso della malattia (bisogna tener conto che si trattava spesso di febbri ricorrenti di tipo malarico). L’importanza di una prognosi esatta non serviva soltanto a basare su di essa l’intervento terapeutico. La previsione del futuro sviluppo della malattia (e anche dei precedenti clinici del paziente, che il medico doveva indovinare: di qui la curiosa espressione «predire il passato») serviva, se si provava esatta, a ottenere la fiducia del malato e dei suoi familiari, cioè ad assicurarli che il medico fosse un vero professionista e non un ciarlatano. La bellissima pagina iniziale del Prognostico ippocratico testimonia dell’importanza della prognosi per il medico antico, e la straordinaria penetrazione del suo sguardo clinico (qui viene descritta tra l’altro la celebre facies hippocratica, cioè l’aspetto del moribondo). 1. Per il medico – mi sembra – è cosa ottima praticare la previsione: prevedendo infatti e predicendo, al fianco del malato, la sua condizione presente e passata e futura, e descrivendo analiticamente quanto i sofferenti stessi hanno tralasciato, egli conquisterà maggior fiducia di poter conoscere la situazione dei malati, sicché essi oseranno affidarglisi. E potrà progettare un’eccellente terapia se avrà previsto i futuri sviluppi a partire dai mali presenti. Impossibile guarire tutti i malati: e questo sarebbe ancor meglio che prevedere il corso futuro degli eventi. Ma poiché gli uomini muoiono, gli uni soggiacendo alla forza del male prima di aver chiamato il medico, gli altri spirando subito dopo averlo chiamato (sopravvivono alcuni un giorno, altri poco più a lungo), prima che il medico con la sua scienza possa fronteggiare ciascuna malattia, occorre dunque di tali malattie sapere la natura, e di quanto soverchiano la resistenza del corpo, e imparare a prevederle. In tal modo si sarà giustamente ammirati e si diventerà buoni medici; tanto meglio infatti ci si potrà prender cura di chi è in grado di sopravvivere, quanto più tempo si avrà avuto per prepararsi a far fronte agli eventi, e ci si metterà al riparo da ogni rimprovero se si sarà previsto e predetto chi è destinato a perire e chi invece a salvarsi. 2. Nelle malattie acute occorre condurre l’indagine in questo modo: in primo luogo osservare il viso del malato, se è simile a quello dei sani, ma soprattutto se è simile a se stesso in condizioni normali, ché questo sarebbe il caso migliore, tanto più grave invece quanto più è dissimile. In quest’ultimo caso si presenterebbe così: naso affilato, occhi cavi, tempie infossate, orecchie fredde e contratte e con i lobi rivolti in fuori, la pelle del viso rigida e tesa e secca, il colore del viso tutto giallastro o nero. Se dunque all’inizio della malattia il viso si presenta in tal modo e non è ancora possibile formulare congetture sulla base degli altri sintomi, occorre chiedere al malato se ha trascorso notti insonni, se ha avuto evacuazioni molto liquide, o se avverte i morsi della fame. E se risponde affermativamente a taluno di questi quesiti, meno grave si considererà il male: vengono a crisi questi stati entro un giorno e una notte, se per tali ragioni il viso era così alterato. Ma se egli non confer-
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico
ma nessuna di esse, e se non si riprende nel tempo predetto, sappi che questo è sintomo mortale. Se poi, pur durando la malattia da più di tre giorni, il viso presenta lo stesso aspetto, si pongano gli stessi quesiti che già prima ho stabilito, – e s’indaghino gli altri sintomi, e quelli del corpo tutto e quelli degli occhi: se infatti rifuggono dallo splendore della luce, o lacrimano involontariamente, o si distorcono, o l’uno diviene più piccolo dell’altro, se hanno il bianco arrossato e livido o vi compaiono venuzze nere e catarro attorno alla pupilla, se sono irrequieti o sporgenti o troppo infossati, se il colore del viso intero trasmuta, tutti questi segni van considerati negativi e funesti. Anche occorre osservare la parte dell’occhio visibile nel sonno: se fra le palpebre chiuse s’intravvede una zona del bianco, e non ne è causa una diarrea o un purgante né l’abitudine del malato a dormir così, sfavorevole è il sintomo e del tutto mortale. Se poi, insieme con qualcuno degli altri sintomi, le palpebre o le labbra o il naso s’incurvano o s’illividiscono, bisogna sapere che il malato è prossimo a morte. Segno mortale è anche che le labbra si rilassino e restino pendenti e gelide e pallide. Il successo delle prognosi
4 La svolta anatomica e fisiologica
La fondazione aristotelica della zoologia
La Biblioteca e il Museo di Alessandria
Per questi diversi motivi, la capacità di interpretazione prognostica dei sintomi raggiunse nei medici ippocratici livelli davvero eccezionali. Ancora sette secoli più tardi, Galeno, che per la sua capacità di previsione veniva accusato di stregoneria da parte dei suoi rivali invidiosi, poteva semplicemente rispondere: «Nessuna stregoneria; ho soltanto studiato il Prognostico di Ippocrate».
La medicina ellenistica e la rivoluzione anatomica All’inizio del III secolo a.C. si verificò una svolta radicale nella storia della medicina antica: la scoperta anatomica della struttura interna del corpo, e dei relativi grandi processi fisiologici. Questa svolta – che portava a un decisivo progresso di conoscenze rispetto alla medicina dei tempi di Ippocrate – fu resa possibile da due fattori convergenti, benché molto diversi fra loro. Il primo di essi fu costituito dalla zoologia aristotelica: fondando questa nuova scienza, Aristotele aveva per la prima volta nella storia fatto ricorso in modo sistematico alla dissezione dei corpi degli animali, scoprendo in questo modo forma e funzioni degli organi interni. Cervello, polmoni, cuore, fegato, vene, muscoli, ossa diventano ora il nucleo centrale della ricerca biologica, in luogo degli «umori» che avevano dominato la fisiologia ippocratica. Pur limitandosi agli animali, Aristotele aveva dunque indicato l’anatomia come la principale via d’accesso alla comprensione della struttura e delle funzioni degli organismi, e anche la medicina non avrebbe più potuto sottrarsi a questo percorso d’indagine. Il secondo fattore fu invece di carattere istituzionale. A partire dall’inizio del III secolo a.C. regnava in Egitto un generale erede di Alessandro Magno, Tolomeo, cui era toccata questa parte dell’impero fondato da Alessandro. Per dare lustro al proprio regno, Tolomeo fondò nella capitale, Alessandria, due grandi istituzioni culturali: la Biblioteca, in cui venne progressivamente raccolta tutta la produzione libraria antica (compresi i testi medici attribuiti a Ippocrate), e il Museo, un luogo in cui i maggiori scienziati del mondo greco venivano invitati a risiedere per condurvi liberamente i loro studi a spese del re. 297
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Parte prima L’età antica Le ricerche anatomiche di Erofilo ed Erasistrato
Le nuove scoperte: sistema nervoso centrale, vene e arterie, pulsazione
La frattura tra nuovi saperi e vecchie pratiche terapeutiche
5 I medici «dogmatici» o «razionalisti» sulla scia di Erofilo ed Erasistrato
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Fu proprio nell’ambito del Museo che i grandi medici del III secolo a.C., Erofilo ed Erasistrato, poterono condurre le loro rivoluzionarie ricerche anatomiche. Qui essi disponevano del tempo e dei mezzi per dedicarsi agli studi senza la necessità di praticare quotidianamente la loro professione, come avevano sempre fatto i medici itineranti dell’epoca ippocratica; il re consentiva loro inoltre la dissezione dei cadaveri umani, fino ad allora proibita, nonché, per un certo periodo, anche la vivisezione dei corpi di criminali condannati a morte. Tutto ciò rese possibile raccogliere la sfida che Aristotele aveva lanciato alla medicina, e conseguire straordinarie scoperte che per molti aspetti superavano lo stesso Aristotele. Ne elenchiamo solo le principali: 1) venne scoperto il sistema nervoso centrale, con i suoi due sottosistemi, sensorio e motorio, che collegavano al cervello rispettivamente gli organi di senso e il sistema tendini-muscoli. Il cervello veniva così riconosciuto (contro Aristotele, che aveva assegnata questa funzione al cuore) come l’organo centrale della sensazione, del movimento e quindi di tutti i processi psico-fisiologici, compreso il pensiero; 2) venne riconosciuta la distinzione fra arterie e vene, e la connessione di entrambi questi sistemi ai diversi ventricoli del cuore, cui veniva assegnata la funzione di ‘pompa’ per il movimento del sangue nell’organismo; 3) venne riconosciuta l’importante funzione diagnostica della pulsazione (‘polso’); furono costruiti strumenti per la misura della temperatura corporea (‘termometri’). Queste scoperte resero possibili notevoli miglioramenti nelle tecniche chirurgiche per la cura delle malattie a carico del sistema nervoso e cardiovascolare. Va però detto che nella cura delle malattie tradizionali anche la medicina di epoca ellenistica non introdusse sostanziali innovazioni rispetto alle vecchie terapie ippocratiche. Profilassi, igiene, dieta, regime di vita, osservazione prognostica dei sintomi, continuarono a restare al centro delle pratiche terapeutiche, senza essere troppo influenzate dalle nuove scoperte in campo anatomico e fisiologico. Si veniva così producendo una frattura fra il livello teorico del sapere medico, rivoluzionato dalle innovazioni alessandrine in campo anatomico e fisiologico, e il livello pratico, terapeutico, che restava più o meno invariato rispetto alla tradizione ippocratica.
Le scuole mediche La frattura tra teoria e pratica determinò, a partire dal III secolo a.C., la formazione di diverse scuole o tendenze (‘sette’) nell’ambito della medicina antica. Sulla scia delle scoperte di Erofilo ed Erasistrato si formò la corrente dei «dogmatici» (o «razionalisti»). Essi sostenevano che i sintomi visibili (esterni) delle malattie andavano spiegati sulla base delle loro cause invisibili (interne), note attraverso l’anatomia; la cura doveva riguardare queste cause e non i sintomi. Per esempio, una febbre o un’emorragia potevano essere dovute a un’eccessiva pressione del sangue in certe vene, e quindi andavano curate diminuendo la quantità di sangue (mediante la riduzione dell’alimentazione o il salasso praticato incidendo le vene nei punti opportuni). L’anatomia e la fisiologia diventarono quindi
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico
I medici «empirici» della scuola di Filino di Cos
I medici «metodici» della scuola di Tessalo
parti integranti della formazione del medico, rendendola molto più lunga, difficile e naturalmente anche costosa. Ai dogmatici razionalisti si oppose la corrente dei medici «empirici» (fondata nel III secolo a.C. da Filino di Cos). Essi sostenevano che la pratica medica poteva basarsi sulla sola esperienza, senza alcun bisogno di ricorrere alla spiegazione causale e allo studio anatomico. L’esperienza – quella personale del medico, e soprattutto quella depositata nei testi della tradizione ippocratica – bastava a conoscere quali fossero i rimedi efficaci di fronte ai diversi quadri sintomatici: se in tutti i casi noti, o nella maggior parte di essi, un farmaco astringente o un impacco freddo erano serviti a fermare l’emorragia, perché andare alla ricerca delle sue cause? La formazione del medico doveva dunque concentrarsi, invece che sulle difficili ricerche anatomiche, sullo studio dei testi della tradizione medica (gli empirici furono perciò autori di una vasta serie di commenti alle opere del Corpus Hippocraticum). Del resto, osservavano a ragione questi medici, i rimedi praticati dai dogmatici non erano poi molto diversi da quelli delle tradizionali terapie ippocratiche, il che confermava secondo loro l’inutilità delle conoscenze anatomiche in medicina. In ambiente romano, nel I secolo a.C., si formò infine una terza tendenza, quella dei «metodici» (il cui principale esponente, nel I secolo d.C., fu Tessalo, contro il quale Galeno polemizzò con violenza). Essi erano drasticamente ostili all’intera tradizione medica, che secondo loro aveva inutilmente complicato il quadro delle conoscenze richieste per la formazione del medico. Un buon medico poteva venire preparato in sei mesi, secondo i metodici, che in questo modo venivano incontro alla richiesta di un crescente numero di medici nelle grandi metropoli dell’impero. Le malattie in effetti potevano essere ridotte a due stati dell’organismo: quello «costipato» (da cui dipendevano per esempio tossi secche, stitichezze, anemie) e quello «rilassato» o «fluido» (responsabile di raffreddori, diarree, emorragie). Questi stati potevano venire diagnosticati a prima vista, e le relative terapie individuate immediatamente: fluidificanti per gli stati costipati, coagulanti per quelli fluidi. I metodici furono oggetto, per la faciloneria dell’approccio, per il rifiuto della tradizione medica, e anche per la dequalificazione dello statuto sociale della professione (cui potevano accedere, vista l’inutilità di studi lunghi e costosi, anche persone di umile condizione), di critiche feroci sia da parte dei razionalisti sia da parte degli empirici, ma la loro corrente sembra abbia ottenuto un notevole successo fino al II secolo d.C.
Dogmatici, empirici e metodici
Principi di metodo
Terapia
Dogmatici o razionalisti
Empirici
Metodici
La medicina si deve basare sulle conoscenze anatomiche e fisiologiche del corpo umano
La medicina si deve basare sull’esperienza terapeutica tramandata e su quella del medico
La medicina è ridotta alla diagnosi dello stato fluido o costipato
La terapia interviene sulle cause interne
La terapia interviene sui sintomi esterni
La terapia è limitata alla prescrizione di coagulanti per gli stati fluidi e di fluidificanti per gli stati costipati
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Parte prima L’età antica
6 Contro la divisione in sette
Galeno e la rifondazione della medicina L’esistenza di sette rivali nell’ambito della medicina appariva uno scandalo a Galeno, che fu il maggiore medico e uno dei più importanti filosofi-scienziati del II secolo d.C.
La vita e le opere Galeno era nato a Pergamo, in Asia Minore, nel 129 d.C. Suo padre, Nikon, era un architetto colto e facoltoso. Insegnò personalmente al figlio le matematiche, che restarono sempre per Galeno il modello di un sapere dimostrativo, unitario, esente da dispute settarie. Lo avviò poi agli studi di filosofia, che comportarono la frequentazione dei corsi tenuti dai maestri delle principali scuole (platonica, aristotelica, stoica ed epicurea): Galeno apprese molto da questi filosofi, ma restò anche disgustato dalle interminabili discussioni che opponevano fra loro le diverse scuole. Verso il 146 Galeno iniziò gli studi di medicina, prima a Smirne, poi ad Alessandria, dove, durante un lungo soggiorno, fu in grado di perfezionare le sue competenze anatomiche. Uno straordinario anatomista
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L’affermazione a Roma
Galeno, Procedimenti anatomici, 1,1 K 2.218
Giunse a Roma verso il 163, e qui iniziò una dura competizione con i medici rivali per la propria affermazione personale e per diffondere quell’ideale di una medicina rifondata al quale avrebbe dedicato la sua esistenza di studioso. Il successo arrise a Galeno quando, verso il 168, entrò nella cerchia dell’imperatore Marco Aurelio, che gli affidò la cura del figlio Commodo. Gli anni trascorsi a corte permisero a Galeno di dedicarsi alla scrittura dell’immenso corpo di opere che gli sono dovute: ci risultano 153 titoli di suoi scritti, alcuni dei quali molto ampi, dedicati soprattutto alla medicina e alla filosofia, ma anche alla letteratura e alla retorica. Tra i più diffusi e usati, soprattutto durante il Medioevo, ricordiamo il Metodo terapeutico detto anche Ars Magna, e l’Ars medica detta anche Ars Parva. Galeno morì nella città natale di Pergamo verso il 200 d.C.
Galeno riscosse un grande successo nel competitivo ambiente romano del II secolo d.C. e la ragione principale di ciò fu probabilmente la sua straordinaria abilità anatomica (appresa ad Alessandria) nella dissezione e anche nella vivisezione degli animali. Lo racconta egli stesso in diversi passi autobiografici. Qui ne citiamo alcuni. Venni a Roma, dove feci per Boeto, console romano, moltissime dissezioni, in presenza sempre di Eudemo, il filosofo peripatetico, di Alessandro di Damasco, che ora ha l’onore di insegnare pubblicamente ad Atene la dottrina peripatetica, e spesso di altri uomini titolari di cariche, come l’attuale prefetto della città di Roma, persona che primeggia per le sue opere e per la dottrina filosofica, il console Sergio Paolo. Galeno è perfettamente consapevole del carattere altamente spettacolare di queste dimostrazioni anatomiche. Consigliando a un allievo la miglior procedura da seguire per dimostrare mediante la vivisezione la connessione dei nervi costali con la fonazione, egli scrive:
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Lo spettacolo anatomico
Galeno, Procedimenti anatomici, 8,4 K 2.669
Dimostrazione pratica e filosofia
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se fai una dimostrazione è meglio che tu abbia preparato l’animale mettendo il filo di lino sotto i nervi senza averli legati: l’animale infatti colpito in questo modo grida, poi all’improvviso resta senza voce, appena si stringono i nervi col filo di lino, e impressiona gli spettatori perché sembra una cosa meravigliosa che la voce vada perduta per dei lacci messi attorno a piccoli nervi del dorso. La dimostrazione ha anche un valore filosofico, perché smentisce la connessione della voce con il cuore, supposta dal cardiocentrismo stoico, per riferirla invece al cervello attraverso il sistema nervoso centrale.
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico La competizione tra medici a Roma
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A confronto con i testi dei maggiori anatomisti
Galeno, I miei libri, 2 K 19.21-2
Lo spettacolo anatomico gioca anzitutto un ruolo essenziale nelle pubbliche competizioni fra medici, perché si presta a essere giudicato tanto dai competenti quanto dai colti curiosi delle arti della natura. Invitato dagli amici, che lo stimolano a replicare alla denigrazione dei suoi rivali, Galeno compare a Roma nel tempio della Pace, «dove era uso radunarsi per tutti coloro che praticavano le arti razionali»: quando comparvi in pubblico per mostrare che non avevo detto cose false negli appunti anatomici misi in mezzo i libri di tutti gli anatomisti dando ai presenti la facoltà di proporre la dissezione di qualsivoglia parte. Mi venne proposto il torace, e io, cominciando dai più antichi, presi in mano i loro libri, ma alcuni dei medici famosi che sedevano nei primi posti mi chiesero di non perdere tempo, e, dato che Lykos di Macedonia, discepolo di Quinto, l’eccellente anatomista, aveva scritto tutte le scoperte fino al suo tempo, lasciassi stare tutti gli altri e esaminassi, in confronto ai miei, i soli scritti di Lykos [nasce, da queste dimostrazioni, il trattato Su quanto Lykos ignorava nelle dissezioni]. Racconta Galeno in un’altra occasione:
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Contro Marziale Galeno, I miei libri, ivi
Mentre commentavo pubblicamente una volta i libri degli antichi medici mi fu proposto il libro di Erasistrato Sullo sputo di sangue, lo stilo fu piantato nel rotolo secondo l’abitudine e indicò quella parte del libro che sconsiglia la flebotomia. Ne feci un lungo commento per dispiacere a Marziale che si faceva passare per erasistrateo. […] Un mio amico che ce l’aveva con Marziale mi pregò di dettare quel discorso […] affinché, se fosse tornato in patria o a Roma, potesse pronunciarlo contro Marziale nelle sue visite ai malati. Ancora prima che a Roma, occasioni simili si erano proposte a Pergamo, e avevano garantito a Galeno i suoi primi successi professionali di fronte ai rivali.
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Competizioni tra medici
Galeno, Come riconoscere il miglior medico
Il progetto di un sistema
➥ Percorso tematico, p. 321
Una volta ho partecipato a una pubblica riunione destinata a controllare le conoscenze dei medici. Ho compiuto molte dimostrazioni anatomiche davanti agli spettatori (vivisezionando una scimmia e chiedendo di richiuderne visceri e vene agli incapaci avversari). Noi abbiamo allora provveduto al trattamento, rendendo chiaro agli intellettuali presenti che i medici che possiedono capacità come la mia devono essere scelti per la cura dei feriti. Il progetto cui Galeno dedicò la sua immensa produzione scientifica era quello di fare della medicina un sistema di sapere organico e unificato. Doveva essere sempre possibile risalire dai sintomi visibili alle loro cause, che stavano nelle strutture anatomiche e nella composizione materiale dei corpi; poi derivare dalla conoscenza delle cause le opportune indicazioni per la diagnosi, la prognosi e la terapia delle malattie. I due pilastri su cui doveva basarsi il nuovo sistema del sapere medico erano la ragione (cioè la conoscenza teorica dei corpi e delle cause, e la capacità di costruire deduzioni dimostrative a partire da esse), e l’esperienza (cioè la conoscenza effettiva dei sintomi, dei decorsi delle malattie, dell’efficacia dei rimedi). Senza esperienza, la sola ragione restava astratta e vuota, incapace di sapere ‘che cosa’ fare; senza ragione, l’esperienza si risolveva in una pratica incapace di sapere ‘il perché’ dei propri procedimenti. 301
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Parte prima L’età antica
Dogmatici ed empirici avevano dunque entrambi ragione, ma solo a metà: ognuna delle due sette doveva comprendere le esigenze dell’altra, e quindi accettare di confluire in una scienza medica riunificata (dalla quale restavano comunque esclusi i metodici, per la loro inaccettabile semplificazione della teoria medica e per il loro rifiuto della tradizione sia ippocratica sia anatomica). Una medicina riunificata avrebbe costituito, secondo Galeno, al tempo stesso una scienza della natura forte, capace di superare le sterili dispute tra le scuole filosofiche, e un sapere terapeutico in grado di indicare in modo incontrovertibile i metodi di cura e di guarigione delle malattie. Grazie a tutto questo, la medicina avrebbe finalmente recuperato il prestigio sociale e culturale, il rango di sapere elevato ed esemplare, che essa aveva perduto dopo l’epoca gloriosa di Ippocrate. Primo livello: Il sistema del sapere medico delineato da Galeno era articolato in più livelli. gli elementi e la teoria I tessuti corporei sono formati dai quattro elementi base della fisica aristotelica, dei temperamenti e dalle rispettive «qualità»: acqua / liquido, terra / secco, fuoco / caldo, aria / freddo. Questi elementi / qualità danno luogo a mescolanze («temperamenti») in proporzioni variabili. Esiste un solo temperamento ottimale, perfettamente equilibrato, e otto tipi deviati, a seconda della prevalenza di un elemento o di una coppia di elementi. I temperamenti deviati sono predisposti alle malattie. Innestando la teoria umorale ippocratica sulla fisica aristotelica, Galeno fa dipendere dallo squilibrio degli elementi la prevalenza nel corpo di singoli umori o coppie di umori. Di qui i temperamenti flegmatico (prevalenza di flegma), melancolico (prevalenza di bile nera), collerico (prevalenza di bile gialla) e sanguigno (prevalenza di sangue). Un’unica scienza medica
La teoria dei ‘temperamenti’ di Galeno
Elementi Acqua Terra Fuoco Aria
Qualità: Liquido Secco Caldo Freddo
Combinazioni nei tessuti
Diversi equilibri tra i quattro umori: sangue flegma bile gialla bile nera
Temperamento equilibrato
Flegmatico: prevalenza di flegma
Melancolico: prevalenza di bile nera
Collerico: prevalenza di bile gialla
Sanguigno: prevalenza di sangue
La teoria dei temperamenti ebbe in seguito grande successo anche sul piano psicologico, ma la sua conoscenza secondo Galeno è indispensabile tanto per le misure profilattiche (ogni temperamento richiede un regime dietetico diverso a seconda delle stagioni), quanto per la diagnosi e la terapia delle malattie che derivano da ognuno di essi. Le cause delle malattie sono infatti di solito esterne (dipendendo dall’alimentazione, dal clima, dal modo di vita, da lesioni traumatiche), ma le conseguenze cui danno luogo variano secondo il temperamento specifico del singolo malato. Secondo livello: Dopo il livello della composizione elementare e umorale dei corpi e dei loro tesgli organi suti, viene il livello degli organi, che è di competenza del sapere anatomico e fisiologico, cui Galeno dedicò alcune delle sue opere maggiori (Procedimenti ana302
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico
tomici, L’utilità delle parti, Le teorie di Ippocrate e Platone). Questo è il campo dove si manifesta con chiarezza la finalità naturale, l’ordine provvidenziale che governa la natura adattando perfettamente gli organi alle funzioni: si può dire che in un certo senso l’anatomo-fisiologia, pur avendo anche un’utilità terapeutica, è il sapere del corpo sano, ‘normale’, cioè secondo natura, mentre la teoria dei temperamenti è la conoscenza degli squilibri patologici che intervengono nei corpi (in questo modo Galeno ripeteva la scissione che gli anatomisti alessandrini non avevano superata fra livello dell’anatomo-fisiologia e livello della patologia e della terapia). Articolazione del sistema medico di Galeno
Primo livello: i tessuti
Teoria dei temperamenti
Conoscenza degli equilibri e squilibri tra gli umori
Secondo livello: gli organi
Anatomia-fisiologia
Conoscenza delle finalità delle parti del corpo
La psicofisiologia di Galeno presenta un particolare interesse anche da un punto di vista filosofico. Galeno accetta la tripartizione platonica dell’anima: c’è dunque nell’anima una parte razionale, una emotiva o passionale, una desiderante, legata alle pulsioni del corpo. Seguendo il Timeo, e utilizzando contro il cardiocentrismo di Aristotele e degli stoici le scoperte dell’anatomia alessandrina, Galeno localizza l’anima razionale nel cervello, quella emotiva nel cuore, quella desiderante nel fegato. Ma che cosa significa che le parti dell’anima hanno sede nei rispettivi organi? Non si tratta evidentemente di inquilini che abitano in un appartamento. Piuttosto, secondo Galeno (che qui riprendeva Aristotele) il rapporto fra corpo e anima è quello fra organo e funzione: come la vista è la funzione dell’occhio, così l’intelligenza e la morale sono la funzione del cervello, l’emozione del cuore, il desiderio del fegato. Il nesso tra malattia Ma, proseguendo su questo ragionamento, si può dire allora che stupidità e follia e moralità sono conseguenze di lesioni o malformazioni del cervello, l’eccesso nelle passioni dipende da disfunzioni del cuore, quello nei desideri da malformazioni del fegato, proprio come la cecità è una conseguenza di malattie dell’occhio. Se però le devianze intellettuali e morali dipendono da malattie organiche, la loro cura non spetterà più all’educatore, al filosofo e al moralista, ma esclusivamente al medico. Queste malattie dipendono da tre tipi di cause. Esse possono essere dovute a errori dietetici, a regimi di vita sregolati, a climi malsani: in questi casi il medico potrà intervenire, curando gli organi e con essi anche le loro funzioni, quindi migliorando l’intelligenza e la moralità del paziente. Galeno, l’anima tripartita e il suo rapporto con il corpo
T13
La terapia dell’anima
Galeno, Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi, 9
Noi sappiamo bene che ciascun cibo è prima assorbito nello stomaco, viene in esso preelaborato e quindi, accolto attraverso le vene che vanno dal fegato allo stomaco, produce gli umori del corpo, dei quali si nutrono tutte le altre parti e con esse il cervello, il cuore e il fegato, e proprio nel nutrimento diventano più caldi, freddi e umidi di prima assimilandosi alla facoltà degli umori dominanti. Talché almeno ora coloro che non accettano che il cibo abbia la capacità di rendere gli 303
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uni più temperanti, gli altri più intemperanti, alcuni più padroni di sé, altri meno, e coraggiosi, vili, miti, amanti di controversie e di liti, si rinsaviscano e vengano da me a apprendere cosa debbono mangiare e cosa debbono bere. Riceveranno un gran giovamento per la filosofia morale e oltre a questa, divenuti più intelligenti e con più memoria faranno progredire la loro virtù con le facoltà dell’anima razionale. Oltre ai vari tipi di nutrimento e alle bevande insegnerò loro anche i venti, i temperamenti dell’ambiente e ancora le regioni, quali conviene scegliere e quali evitare. Dalla diagnosi infausta alla sentenza di morte
Altre malattie sono però congenite, essendo dovute allo sviluppo embrionale, e quindi incurabili. In questi casi di diagnosi infausta, il medico non può che chiedere la messa a morte del deviante, non perché sia responsabile di una malvagità che non deriva da una scelta ma da una lesione somatica irreversibile, ma perché socialmente pericoloso. In queste pagine di Galeno, che derivano da un’argomentazione rigorosa ma la portano a conseguenze preoccupanti e difficilmente accettabili, la medicina antica giunge a rivendicare il suo diritto di pronunciare diagnosi che si trasformano in sentenze inappellabili (una conseguenza estrema, dunque, del controllo sul regime di vita già rivendicato dalla medicina ippocratica).
T14
Questo discorso non elimina dunque le cose belle che dà la filosofia, ma ne è una guida e un’illustrazione, benché esso sia fino a un certo punto ignorato da taluni filosofi: sia infatti quelli che ritengono che tutti gli uomini siano capaci di virtù, sia coloro che ritengono che nessuno sceglie la giustizia in sé, sia gli uni che gli altri non vedono che una metà della natura umana. Non tutti infatti nascono nemici della giustizia, né tutti amici, gli uni e gli altri divengono così per i temperamenti dei corpi. In che modo allora, dicono, si può approvare, biasimare, odiare, amare una persona che è cattiva o buona non di per sé, ma per il temperamento, che chiaramente gli deriva da altre cause? Perché, risponderemo, è in noi tutti desiderare il bene, ricercarlo e amarlo, allontanare, odiare e fuggire il male, senza avere ancora considerato se esso è generato o non generato dall’esterno. Per lo meno, sopprimiamo gli scorpioni, le tarantole e le vipere che sono malvagi per natura e non per propria scelta. Logicamente perciò odiamo gli uomini malvagi, senza considerare il motivo che li rende tali, e al contrario desideriamo e amiamo i buoni, sia che siano divenuti tali per natura, per educazione e insegnamento o per volontà e costumi. E uccidiamo gli irrimediabilmente malvagi per tre buone ragioni: affinché non facciano del male, da vivi; perché incutano ai loro simili il timore che saranno puniti per i mali che faranno, e, terzo motivo, è per loro meglio morire, essendo essi così corrotti nell’anima da non poter essere educati dalle Muse stesse né migliorati da Socrate o da Pitagora. A questo proposito mi meraviglio degli stoici, che pensano che tutti gli uomini siano adatti all’acquisizione della virtù, ma vengano pervertiti dai compagni. Per lasciare da parte tutti gli altri argomenti che sovvertono il loro discorso, porrò una sola questione, sui primi uomini, che non avevano nessuno prima di loro; il pervertimento di dove venne loro e da chi? Non potranno rispondere, come naturalmente non potrebbero essere in grado di dire, anche per il nostro tempo, vedendo dei bambini veramente malvagi, chi gli ha insegnato la malvagità, soprattutto
La malvagità involontaria Galeno, Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi, 11
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quando i bambini siano molti, nutriti dello stesso nutrimento dagli stessi genitori, maestri o pedagoghi, ma di natura completamente contraria gli uni dagli altri. Che c’è infatti di più contrario al bambino invidioso del bambino generoso, a quello che gode del male di quello compassionevole, a quello coraggioso di quello vigliacco, al più intelligente di quello più stupido, e a quello che ama la menzogna di quello che ama la verità? Eppure i bambini, anche se sono nutriti dagli stessi genitori, maestri e pedagoghi, chiaramente differiscono fra loro secondo le sopraddette opposizioni. […] In effetti, se qualcuno, senza essere un mascalzone e un attaccabrighe, volesse osservare i fatti con giudizio libero come gli antichi filosofi, troverà proprio pochi ragazzi ben disposti per natura alla virtù e smetterà di ritenere che tutti noi siamo buoni per natura, ma veniamo pervertiti dai genitori, dai pedagoghi e dai maestri; i bambini infatti non frequentano altre persone. […] C’è un seme di malvagità in noi: e noi tutti dobbiamo, non tanto evitare i malvagi, quanto cercare coloro che ci purifichino e impediscano la crescita della malvagità nostra. In effetti, la massa della malvagità non entra dal di fuori, come dicono gli stoici, nelle nostre anime, ma la parte più grande gli uomini malvagi ce l’hanno da sé, e la parte che viene dal di fuori è molto più piccola. Da questa derivano alla parte irrazionale dell’anima le cattive abitudini, e alla parte razionale le false opinioni, come pure, quando siamo educati da persone buone e oneste, abbiamo opinioni vere e buone abitudini, e dai temperamenti dipendono nel più e nel meno l’intelligenza e la stupidità nella parte razionale dell’anima; i temperamenti stessi dipendono poi dalla prima formazione e dai regimi dotati di umori buoni, di modo che tutti questi fattori si aiutano a vicenda. […] Coloro che ritengono che l’anima non riceve giovamento e danno dal temperamento del corpo, non sanno cosa dire delle differenze dei bambini e dei vantaggi derivanti dal regime non sanno fornire una causa, come non sanno fornire una causa delle differenze dei caratteri, per la quale alcuni sono evidentemente vivaci, altri senza spirito, e gli uni intelligenti, gli altri no. Il progetto galenico di rifondazione della medicina culminava così nell’assegnarle non soltanto un rinnovato prestigio culturale e sociale, ma addirittura il compito di controllare la salute morale e intellettuale della società, sostituendo in questo – ma su basi scientifiche – il ruolo cui tradizionalmente aveva aspirato la filosofia. Percezione della crisi Galeno si rendeva però perfettamente conto di situarsi, verso la fine del II secolo sociale e culturale d.C., su di una posizione di crinale. Se da un lato egli poteva raccogliere la grande eredità del pensiero filosofico e scientifico antico, in un contesto sociale ancora solido e prospero, egli avvertiva i segni di una crisi imminente della società e della cultura che avevano espresso quel pensiero. Il declino di un’epoca «Nessuno degli uomini della nostra epoca», egli scriveva, «cerca seriamente la verità, ma le ricchezze, il potere politico e le infinite voluttà del piacere. Se non si produrrà una grande e divina mutazione nello stato delle cose umane, tutto ciò che vi è di bello si corromperà, e le grandi scienze andranno perdute». Galeno fu in questo buon profeta: il declino della società imperiale andò di pari passo con quello delle scienze, e in particolare della medicina, che a partire dal III secolo ➥ Sommario, p. 318 d.C. non conobbe più alcuno sviluppo significativo.
Il nuovo ruolo sociale della medicina
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Parte prima L’età antica
Matematiche e filosofia
3 I testi
Euclide Elementi: Le definizioni aritmetiche di Euclide, T15; Le definizioni geometriche di Euclide, T16
1 La geometria euclidea come modello di razionalità
L’importanza della sistematizzazione euclidea
I limiti della geometria pre-euclidea
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Aristotele Analitici secondi: Principi indimostrabili, T17
I greci e la matematica Galeno narra che il filosofo Aristippo, naufragato sulle coste siracusane, vedendo sulla sabbia il disegno di una figura geometrica, si rianimò, rendendosi conto di essere giunto tra popolazioni greche e non barbare, ossia tra genti che conoscevano la geometria, uno dei cardini del sapere dei greci. Del resto, quando pensiamo alla grande eredità del pensiero greco, anche noi siamo automaticamente portati a vedere nella matematica, e in particolare nello straordinario edificio contenuto negli Elementi di Euclide (composti tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C.), una sorta di modello della razionalità prodotta da questa cultura. E non solo noi. Proprio Galeno considerava lo stile assiomatico-deduttivo della geometria euclidea il modello di un sapere finalmente sottratto alle dispute tra le sette, che invece imperversavano tra i filosofi e i medici. La geometria si presentava come un sapere oggettivo, fissato nelle linee generali una volta per tutte, dotato di una straordinaria coerenza interna, un sapere nel quale da premesse vere e necessarie derivavano conclusioni altrettanto vere e necessarie, proprio all’opposto della filosofia e della medicina, continuamente impelagate in dispute senza fine intorno alla natura dei principi e al metodo migliore per acquisire un sapere certo e universale. Bisogna riconoscere che l’immagine euclidea della matematica, e in particolare della geometria, ebbe un’influenza enorme sul pensiero greco. Essa finì, come vedremo, per essere presa a modello non solo dalla medicina (con Galeno), ma dalla stessa filosofia, che tentò, per esempio con Proclo (vedi Unità 7, p. 461), di trasferire lo stile assiomatico-deduttivo della geometria euclidea nella metafisica, proponendo un sapere dell’essere (ossia un’ontologia) fondato su principi assoluti e inderivati, da cui venivano fatti discendere, in forma strettamente deduttiva, tutti i livelli della realtà. Bisogna però anche dire che la matematica greca non fu sempre una matematica euclidea, ossia un sistema assiomatico-deduttivo perfettamente omogeneo e coerente. Nei secoli che precedettero la grande sistematizzazione euclidea, si sviluppò un sapere abbastanza diverso, fondato sui problemi piuttosto che sui teoremi e soprattutto di natura meno sistematica, nel senso che i principi utilizzati avevano una funzione ‘locale’ e non universale (come quelli di Euclide). Come si vedrà immediatamente, le poche testimonianze relative alla geometria pre-euclidea sembrano riferirsi a procedure in cui le proposizioni che fungevano da principi nella soluzione di un determinato problema potevano poi perde-
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re quel carattere nell’ambito di un altro problema. Mancava insomma una distinzione chiara (e valida una volta per tutte) tra le premesse e le conseguenze da esse derivate.
2 Le origini: geometria egiziana e astronomia babilonese
I pitagorici e l’universalità della conoscenza matematica
L’eredità dell’eleatismo
Prima di Euclide: la nascita della matematica greca È probabile che la matematica sia stata importata dai greci attraverso i numerosi contatti che essi ebbero con le popolazioni che abitavano la parte orientale del bacino del Mediterraneo: la geometria egiziana e l’astronomia babilonese fornirono certamente un input decisivo allo sviluppo di queste discipline in Ionia, con figure come Talete e Anassimandro. Tra l’altro l’origine pratica di molti problemi geometrici (per esempio la determinazione di certe aree e la divisione dei campi) continuò a esercitare un ruolo significativo anche tra i primi geometri greci; e lo stesso studio dell’astronomia non fu affatto estraneo a finalità pratiche (sappiamo, per esempio, che Talete si servì delle sue conoscenze astronomiche, oltre che per determinare la data di un’eclissi, anche per prevedere un raccolto di olive particolarmente generoso, il che gli permise una vantaggiosa speculazione, ottenuta facendo incetta di frantoi per l’olio). Non c’è dubbio però che solo all’interno della scuola pitagorica la matematica (sia l’aritmetica che la geometria) acquisì una rilevanza straordinaria, tanto da identificarsi con la stessa filosofia. Per i pitagorici (vedi Unità 1, p. 41 ss.) tutte le cose sono numero, e i principi del numero risultano essere anche i principi di tutte le cose. È all’interno della scuola pitagorica che la matematica assunse un carattere relativamente astratto e cominciò a imporsi con una certa sistematicità la pretesa di sviluppare dimostrazioni ad alto grado di universalità. Non si trattava più di dimostrare che in un determinato caso le cose stavano in un certo modo, ma che questo valeva per tutti i casi riconducibili alla medesima fattispecie (per esempio la proposizione che afferma che la somma degli angoli interni di un triangolo equivale a due angoli retti è valida per tutti i triangoli e la dimostrazione doveva essere in grado di cogliere questa dimensione universale). Nell’ambito di questo processo di astrazione e universalizzazione dei risultati delle ricerche matematiche dovette giocare un ruolo significativo l’uso di procedure forse ereditate dalla filosofia, e in particolare dall’eleatismo (vedi Unità 1, p. 45 ss.). Sappiamo che Zenone era solito confermare le tesi di Parmenide in modo indiretto, ossia dimostrando l’insostenibilità delle tesi contrarie. La negazione parmenidea del movimento veniva, per esempio, dimostrata attraverso l’ammissione, in via ipotetica, dell’esistenza del moto, dalla quale si ricavavano conseguenze assurde o contraddittorie. Analogamente, la celebre dimostrazione dell’incommensurabilità tra il lato e la diagonale di un quadrato fu ottenuta dai pitagorici partendo dall’ipotesi della loro commensurabilità; così anche l’irrazionalità di √2, ossia l’impossibilità di trovare una coppia di numeri interi a e b che soddisfacessero l’equazione a : b = √2, venne provata per via indiretta, ammettendo l’esistenza di questa coppia e poi ricavandone la conseguenza, evidentemente assurda, che uno stesso numero era sia pari che dispari (si tratta della celebre reductio ad absurdum). È probabile tuttavia che solo in una fase abbastanza tarda, con Filolao di Crotone e soprattutto Archita di Taranto, tra la fine del V e l’inizio del IV secolo, la matematica pitagorica abbia acquisito un assetto relativamente astratto e universale. 307
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Parte prima L’età antica Linea di sviluppo storico della matematica greca
VI secolo a.C.
La geometria ipoteticoproblematica di Ippocrate di Chio
Lo statuto dei principi dipende dalla loro utilità per la soluzione del problema
3 La geometria nei dialoghi platonici
308
V secolo a.C.
IV secolo a.C.
III secolo a.C.
Le origini: ripresa della geometria egiziana e dell’astronomia babilonese, studi dei filosofi ionici
Sviluppi pre-sistematici: pitagorici ed eredità dell’eleatismo
Euclide, Elementi Geometria euclidea
Soluzione di problemi pratici
Astrazione e universalizzazione
Scienza assiomatico-deduttiva
Abbiamo visto che lo stile degli Elementi di Euclide è di tipo assiomatico-deduttivo. Abbiamo anche premesso che la geometria greca non fu sempre dominata da questo stile. Sappiamo che prima di Euclide furono composti almeno altri tre scritti dal titolo Elementi, il primo e più importante dei quali è dovuto a Ippocrate di Chio, attivo nella seconda metà del V secolo a.C. (gli altri furono composti da matematici appartenenti all’Accademia di Platone). La geometria di Ippocrate rappresenta probabilmente il caso emblematico di geometria non assiomatizzata. Sappiamo che egli partiva da un problema di cui cercava la soluzione; egli tentava di ricondurre il problema da risolvere a uno già noto, ossia di cui si conosceva già la soluzione; quest’ultimo assumeva la funzione di principio rispetto al problema posto inizialmente. Questo significa che Ippocrate procede in modo inverso rispetto a Euclide: quest’ultimo stabilisce dei principi, ossia delle premesse, e da queste deduce una serie di conseguenze; Ippocrate parte invece dal problema che intende risolvere e va in cerca delle proposizioni che ne garantiscono la risolvibilità (le quali assumono dunque la funzione di principi). Ma l’aspetto più interessante è un altro: mentre nell’edificio euclideo la collocazione di una certa proposizione in posizione di principio viene stabilita una volta per tutte in base a un ordine di priorità logico-geometrico definito e immodificabile, negli Elementi di Ippocrate l’assegnazione a una certa proposizione dello statuto di principio dipende dalla sua diretta utilità per la soluzione del problema in questione. Sappiamo che Ippocrate applicò questa procedura di carattere ipotetico-problematico alla questione della determinazione dell’area delle lunule, che sono figure delimitate da una sezione della circonferenza del cerchio. Egli ricondusse anche il problema della duplicazione del cubo a quello della ricerca di due medie proporzionali in proporzione continua tra due rette date. In sostanza, ridusse un problema tridimensionale, relativo ai cubi, a una soluzione bidimensionale, relativa a rette e segmenti, con grande vantaggio della geometria e della matematica successive. Il panorama dei primi secoli della matematica greca è quindi estremamente variegato e composito. L’affermazione dell’ordine sistematico presente negli Elementi di Euclide (inizio III secolo a.C.) è ancora lontana. Le premesse decisive furono gettate solo nel corso del IV secolo, in particolare grazie alla riflessione, sia propriamente matematica sia metodologica, sviluppatasi all’interno dell’Accademia di Platone.
La svolta assiomatica: l’Accademia platonica, Aristotele ed Euclide Nei dialoghi di Platone si trovano accenni sia al metodo per problemi utilizzato da Ippocrate di Chio sia alle procedure assiomatizzate che caratterizzano gli Elementi di Euclide. Nel Menone, per esempio, Platone accenna al metodo consi-
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stente nella risoluzione di un problema attraverso la determinazione delle sue condizioni di risolvibilità, ossia per mezzo dell’individuazione di una proposizione alla quale il problema è riconducibile e che è già nota. Si tratta, come si è visto, di relazioni di dipendenza tra proposizioni valide a livello locale, ossia non estensibili al di fuori del problema in questione.
La vita e le opere Le notizie sulla vita di Euclide sono molto scarse. Sappiamo che operò e insegnò nel Museo di Alessandria nel III secolo a.C., durante il regno di Tolomeo I (367 a.C. 283 a.C.). Fu autore degli Elementi, il più celebre e fortunato manuale di matematica di tutti i tempi, suddivisi Gli assiomi come ipotesi nella Repubblica
Il metodo dialettico: oggettività e assolutezza della conoscenza
Richiamo ai principi di Euclide: le definizioni
T15
Le definizioni aritmetiche di Euclide
Euclide, Elementi, 7
in tredici libri, nei quali la geometria si presenta come scienza autonoma fondata su un metodo assiomatico-deduttivo. Altri suoi scritti celebri sono Dati, (collegati agli Elementi), Ottica, Catottrica, Fenomeni (sulla descrizione della sfera celeste), Questioni di armonia (un trattato di musica).
Nel VI e nel VII libro della Repubblica, invece, Platone sembra presupporre una matematica (in particolare aritmetica e geometria) ormai dotata di un assetto assiomatizzato (vedi Unità 3, p. 138 ss.). Egli spiega infatti che i matematici assumono determinate ipotesi, che essi considerano alla stregua di principi. Non si tratta tuttavia di ipotesi dotate di una funzione locale, ossia finalizzate alla soluzione di un singolo problema, ma di proposizioni che sembrano assolvere al compito di principi assoluti del campo di cui fanno parte. Platone aggiunge poi che i matematici, una volta stabiliti questi principi (considerati evidenti a tutti), derivano da essi complessi sistemi deduttivi, i quali risultano del tutto in accordo con le premesse poste all’inizio, cioè con i principi. Tuttavia, precisa il filosofo, tali sistemi conservano una coloritura ipotetica, dal momento che i principi da cui essi derivano sono solo ipotizzati e non veramente fondati, ossia giustificati. Questo aspetto determina il carattere in qualche modo convenzionale del sapere matematico, il quale, secondo Platone, non si affranca mai del tutto dalla natura ipotetica delle sue premesse. È noto che per Platone la situazione metodologica della dialettica risulta diversa; essa, pur partendo come le discipline matematiche da ipotesi, non procede in modo deduttivo verso il basso, ossia verso le conclusioni, ma cerca di risalire a ipotesi sempre più generali (o fondanti rispetto alle ipotesi di partenza), fino ad arrivare a un principio non più ipotetico, vale a dire al celebre principio anipotetico, che corrisponde quasi certamente all’idea del Buono. Ciò fa sì che la dialettica, ossia la filosofia, non rappresenti una semplice convenzione, bensì un sapere vero e proprio, cioè una conoscenza oggettiva e assoluta. Ma quali sono, secondo Platone, le ipotesi che i matematici collocano in posizione di principi al vertice delle loro discipline? Bisogna riconoscere che le indicazioni presenti nei dialoghi non sono molto precise; Platone allude «al pari e al dispari, alle figure, alle tre specie di angolo e a cose simili a queste». Ma è chiaro che ha in mente qualcosa di analogo alle definizioni, agli assiomi e in generale alle proposizioni che nel sistema di Euclide occupano la posizione di principi. Per esempio la trattazione euclidea dell’aritmetica partiva dalla definizione di numero pari e numero dispari, che seguiva immediatamente alla definizione di unità e di numero. 1. Unità è ciò in virtù di cui ciascun ente è detto uno. 2. Numero è una pluralità composta di unità. 3. Un numero è parte di un altro numero, il minore di quello maggiore, quando esso misuri [cioè divida] il maggiore. 309
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5. Un numero maggiore è multiplo di un numero minore, quando sia misurato [cioè diviso] dal minore. 6. Numero pari è quello che è divisibile in due parti. 7. Numero dispari è quello che non è divisibile in due parti uguali, ossia quello che differisce di un’unità da un numero pari. 11. Numero primo è quello che è misurato [cioè diviso] soltanto dall’unità. 12. Numeri primi tra loro sono quelli che hanno soltanto l’unità come misura comune. Le definizioni (hòroi) degli oggetti intorno a cui verte la disciplina costituivano l’inizio anche della trattazione geometrica: Euclide inizia la sua opera con 23 definizioni dei principali oggetti della geometria (punto, linea, cerchio, retta ecc.).
T16
Le definizioni geometriche di Euclide
Euclide, Elementi, 1
La dimostrazione geometrica come modello di scienza in Aristotele
La dimostrazione sillogistica
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1. Punto è ciò che non ha parti. 2. Linea è lunghezza senza larghezza. 3. Estremi di una linea sono i punti. 4. Linea retta è quella che giace egualmente rispetto ai suoi punti. 5. Superficie è ciò che ha soltanto lunghezza e larghezza. 6. Estremi di una superficie sono le linee. 8. Angolo piano è l’inclinazione reciproca di due linee su un piano, le quali si incontrino tra loro e non giacciano in linea retta. 9. Quando le linee che comprendono l’angolo sono rette, l’angolo si chiama rettilineo. 10. Quando una retta innalzata su un’altra retta forma gli angoli adiacenti eguali tra loro, ciascuno dei due angoli eguali è retto, e la retta innalzata si chiama perpendicolare a quella su cui è innalzata. 11. Angolo ottuso è quello maggiore di uno retto. 12. Angolo acuto è quello minore di uno retto. È dunque probabile che Platone intendesse riferirsi proprio a questo genere di proposizioni quando parlava dei principi ipotetici collocati dai matematici al vertice dei loro sistemi assiomatizzati. Se nei dialoghi di Platone si trovano le prime evidenti avvisaglie dell’affermazione dello stile assiomatico-deduttivo nell’ambito delle discipline matematiche, non ci sono dubbi che l’impulso decisivo in questa direzione venne fornito dalle riflessioni epistemologiche contenute nelle opere di Aristotele. A lui si deve la prima indagine sistematica sulla natura della scienza, sulle sue procedure, sui principi da cui essa prende le mosse. Nel descrivere i caratteri della scienza (epistème) Aristotele si servì come modello di riferimento proprio della matematica, e in particolare della geometria, la cui struttura dimostrativa (costituita di assiomi e teoremi) egli intendeva estendere, almeno programmaticamente, a tutte le altre scienze (fisica, biologia ecc.). Per Aristotele (vedi Unità 4, p. 207 ss.) l’abito (hèxis), ossia lo stile, della scienza è rappresentato dalla «dimostrazione» (apòdeixis), e in particolare dalla dimostrazione sillogistica. Essa consiste nella procedura attraverso la quale, stabilite determinate premesse, vengono ricavate da esse conclusioni necessarie, implicitamente contenute nelle premesse stesse. Il sillogismo scientifico, ossia dimostrativo, si caratterizza per il fatto che le premesse da cui parte sono vere e universali, oppure riconducibili a premesse vere e universali.
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico
Ora, è chiaro che le premesse di cui si servono le dimostrazioni scientifiche costituiscono, nella maggioranza dei casi, a loro volta conclusioni ricavate da una precedente dimostrazione; ma, per evitare una procedura circolare e soprattutto per evitare il regresso all’infinito, occorre ammettere, secondo Aristotele, l’esistenza di premesse prime, ossia di veri e propri principi (archài), da cui prendono le mosse le dimostrazioni delle singole scienze. Questi non possono venire ricavati sillogisticamente da altre premesse (appunto perché sono primi e inderivati), ma vengono conosciuti per mezzo di una facoltà particolare, l’intelletto (nous), qualcosa di simile a un’intuizione immediata e intellettuale. La conoscenza intuitiva Dal punto di vista epistemologico l’elemento più significativo delle riflessioni aridegli assiomi stoteliche consiste nell’approfondimento della distinzione, già presente in Platone, tra la forma deduttiva che assumono le procedure dei matematici e il carattere in qualche modo intuitivo delle premesse, ossia dei principi da cui prendono le mosse i loro edifici deduttivi. Un simile impianto teorico viene chiamato assiomatico-deduttivo, perché si fonda sull’individuazione di alcuni assiomi fondamentali (le premesse che svolgono la funzione di principi) e da questi deduce in modo necessario una complessa e articolata serie di conseguenze. La chiara distinzione tra i principi (indimostrabili) e ciò che da essi deriva (dimostrabile a partire dai principi) viene formulata da Aristotele negli Analitici secondi: Le premesse prime e il ruolo dell’intelletto
T17
Principi indimostrabili
Aristotele, Analitici secondi, 1,10. 76a31-38
Assioma, tesi, definizione e ipotesi
Intendo per principi in ciascun genere quelli dei quali non è possibile dimostrare che sono. Si assume, dunque, che cosa significhino sia i principi sia le loro conseguenze, ma che siano per i principi è necessario assumerlo, mentre per le loro conseguenze, è necessario dimostrarlo – per esempio che cosa significhino unità, retto, triangolo; ma è necessario assumere che l’unità è e che la grandezza è, il resto invece è necessario dimostrarlo. Aristotele distingue due tipi di premesse: quelle comuni a più generi, ossia a più ambiti scientifici, e quelle proprie a un solo genere; chiama le prime «assiomi» e le seconde «tesi». Le tesi sono per lo più costituite dalle definizioni degli oggetti intorno a cui verte la disciplina (dunque numero, pari e dispari per l’aritmetica, punto, linea, superficie, cerchio, retta ecc. per la geometria); un celebre esempio di assioma comune a più discipline è quello che afferma che «sottraendo uguali da uguali si ottengono uguali» (che è valido sia per i numeri sia per le grandezze geometriche); esistono poi assiomi validi per tutti i generi, ossia per tutto l’essere, come, per esempio, il celeberrimo principio di non-contraddizione (vedi Unità 4, p. 210). Anche se non esiste una corrispondenza perfetta tra i concetti aristotelici di assioma, definizione, ipotesi (che consiste nell’ammissione di esistenza dell’oggetto intorno a cui verte una certa disciplina) e i principi di cui si serve Euclide nei
Il modello assiomatico-deduttivo in Aristotele
comuni a più generi (più ambiti scientifici)
=
Assiomi (ovvero principi indimostrabili)
proprie a un solo genere (uno specifico ambito scientifico)
=
Tesi (per lo più definizioni)
Premesse
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Parte prima L’età antica
Contributo contenutistico dell’Accademia
Eudosso di Cnido e le grandezze incommensurabili
suoi Elementi (nozioni comuni, definizioni e postulati), non ci sono dubbi che l’impianto complessivo di quest’opera riproduce la struttura teorizzata da Aristotele nei suoi scritti e in particolare negli Analitici secondi. Si è detto che l’apporto dell’Accademia platonica all’assiomatizzazione della matematica non fu solo di natura metodologica, ma anche contenutistica. Sappiamo che a Teeteto, un membro della scuola di Platone scomparso prematuramente, si deve una teoria allargata dei numeri irrazionali, ossia lo studio dei casi di irrazionalità fino a √17; due matematici accademici, Leone e Teodosio, composero libri dal titolo Elementi, nei quali presumibilmente si trovavano ulteriori tracce di quel processo di assiomatizzazione che ha preceduto l’opera di Euclide. Non ci sono dubbi, però, che la figura più significativa vada individuata in Eudosso di Cnido, al quale si devono, oltre che la formulazione del primo modello di astronomia matematica (vedi sotto), alcuni contributi fondamentali nel campo della teoria delle proporzioni, che egli definì in modo rigoroso includendovi anche le grandezze incommensurabili, e una rivoluzionaria scoperta come il metodo di esaustione, fondamentale per la determinazione di grandezze (numeriche e geometriche) di difficile calcolo (impossibili da determinare con i metodi consueti perché irrazionali e incommensurabili). Le definizioni di rapporto (lògos) e proporzione (analogìa) contenute nel V libro degli Elementi di Euclide risalgono quasi certamente a Eudosso. E a lui si deve una certa rigorizzazione delle procedure di approssimazione, già presenti in Ippocrate di Chio, Anassagora e Democrito, volte a determinare appunto grandezze difficili da calcolare (per esempio l’area di circonferenze). Se è vero che Euclide non fu un innovatore, ma un grande sistematizzatore, è probabile che proprio all’interno dell’Accademia platonica si venne definendo in forma quasi definitiva il complesso delle acquisizioni matematiche poi confluite nel grande edificio degli Elementi.
La vita e le opere Astronomo e matematico, Eudosso di Cnido (408 a.C. ca. 355 a.C.) fu in Asia e in Egitto, dove approfondì le sue conoscenze in campo astronomico. Ancor prima di recarsi ad Atene per conoscervi Platone aveva già fondato una sua scuola a Cizico, colonia milesia sul mare di Marmara. Oltre
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al suo fondamentale contributo alla spiegazione dell’irregolarità dei moti celesti, che egli risolse proponendo un sistema di sfere omocentriche ripreso da Aristotele, partecipò nell’Accademia al dibattito sull’etica, con discussioni sul tema del piacere, a cui prese parte Platone col Filebo e di cui si trova traccia nell’Etica nicomachea di Aristotele.
L’astronomia matematica
Un posto a parte nell’esposizione della storia della matematica greca merita l’astronomia. Anche per la sistematizzazione di questa disciplina le riflessioni sviluppate all’interno dell’Accademia giocarono un ruolo decisivo. Nel programma di studi matematici ai quali i futuri filosofi dovevano, secondo Platone, sottoporsi, l’astronomia occupava una posizione di rilievo: venendo dopo l’aritmetica, la geometria piana e la geometria solida (o stereometria), essa si dedicava allo studio dei solidi dotati di movimento e precedeva l’armonia musicale. Il modello platonico Platone aveva stabilito le norme generali al cui interno un’astronomia che potesse dell’universo considerarsi scientifica doveva muoversi (vedi Unità 3, p. 148 ss.). Si trattava di a due sfere principi collegati alla visione complessiva del mondo che il grande filosofo aveva L’astronomia nell’Accademia
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elaborato anche sulla base delle riflessioni maturate nei decenni precedenti (soprattutto in ambito pitagorico). Ma ciò che più conta è che Platone sembra aver gettato le basi del cosiddetto «universo a due sfere», ossia dell’immagine del cosmo destinata a esercitare un vero e proprio dominio per quasi due millenni (fino alla pubblicazione nel 1543 del De revolutionibus orbium caelestium di Copernico). Il modello cosmologico antico prevedeva due sfere fondamentali: l’una, al centro dell’universo, era rappresentata dalla Terra immobile (tra gli antichi, solo Aristarco di Samo propose un modello che attribuiva la posizione centrale al Sole); l’altra, collocata agli estremi confini del cosmo, era costituita dalla sfera delle stelle fisse. La struttura e il movimento (sia complessivo sia parziale, ossia dei singoli corpi astrali) dell’universo vennero pensati all’interno di questo schema complessivo, che, pur nelle differenze – anche sostanziali – dei modelli cinematici che lo hanno percorso, è rimasto il quadro cosmologico fondamentale lungo l’intero arco del pensiero antico (vedi Figura 1). Figura 1
Modello cosmologico antico. Le orbite planetarie approssimative nell’universo a due sfere.
Il problema dell’irregolarità dei moti celesti
Dal momento che gli astri sono sostanze in qualche modo divine, i loro movimenti devono risultare circolari (essendo il cerchio la figura perfetta), regolari e uniformi, ossia razionali. Tuttavia l’osservazione, anche macroscopica, fa emergere una serie di deviazioni del comportamento degli astri e dei pianeti rispetto a questi principi di ordine filosofico. Si può dire che l’intera astronomia antica, con i diversi modelli planetari che l’hanno attraversata, è stata segnata, almeno a partire dall’Accademia platonica, dal tentativo di ricondurre l’irregolarità apparente dei moti planetari alla combinazione di una serie di movimenti, ciascuno dei quali doveva possedere i caratteri «platonici» (e pitagorici) della circolarità, della regolarità e dell’uniformità. Sebbene l’attestazione appaia dubbia, sembra di poter dire che il senso complessivo dell’astronomia matematica antica venga restituito da una testimonianza del neoplatonico Simplicio (VI secolo d.C.), il quale attribuì a Platone il programma di salvare i fenomeni, ossia di individuare i movimenti uniformi e ordinati che potessero spiegare le apparenti anomalie dei movimenti degli astri. 313
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Ma quali erano queste anomalie? Si trattava, per esempio, del fatto che il moto annuale del Sole lungo il circolo dell’eclittica (cioè il circolo massimo della sfera celeste percorso dal Sole in un anno) risulta non uniforme (più veloce in certi punti e più lento in altri); del fatto che il moto di rivoluzione di tutti i pianeti intorno alla Terra presenta addirittura delle vere e proprie retrogradazioni (essi interrompono il moto verso est per invertire la marcia verso ovest e per poi nuovamente dirigersi verso est). Dunque, variazioni di velocità e inversioni di marcia costituivano le anomalie più vistose, ma certamente non le uniche. Il modello delle sfere Eudosso, il grande matematico dell’Accademia, propose un complesso modello omocentriche matematico che mirava a ricondurre ciascuno di questi moti irregolari alla compodi Eudosso sizione di più movimenti, in se stessi circolari, regolari e ordinati. Egli ipotizzò che ciascun pianeta fosse mosso da una serie di sfere (più o meno numerose, a seconda della complessità del suo moto apparente) concentriche alla Terra (da qui prese il nome il suo sistema, chiamato delle sfere omocentriche, vedi Figura 2). Si immaginava che il pianeta si trovasse sulla sfera più interna di un certo sistema di sfere e che il moto di questa fosse determinato dalla composizione dei moti dell’insieme di queste sfere concentriche, anche diversamente inclinate (in modo da spiegare le diverse inclinazioni che assume il movimento del pianeta); dunque il movimento apparente del pianeta veniva dato dalla risultante dei movimenti (circolari e regolari) delle sfere collegate alla sfera nella quale esso si trovava. Il modello di Eudosso non prevedeva l’esistenza fisica delle sfere, ma si limitava a collocarsi sul piano dell’ipotesi matematica; esso intendeva rispondere alla domanda: quali e quanti movimenti ordinati occorre ipotizzare per rendere ragione del movimento apparentemente disordinato di un certo pianeta? Un simile modello venne ripreso da Aristotele, il quale, però, assegnò consistenza fisica alle sfere, affermando che esse sono costituite di etere (vedi Unità 4, p. 223 ss.). Esempi di anomalie
Figura 2 Sfere omocentriche. Nel sistema a due sfere (a), la sfera esterna produce la rotazione giornaliera e la sfera interna muove il pianeta (Sole o Luna) con velocità regolare verso est attorno all’eclittica. Nel sistema a quattro sfere (b), il pianeta P giace fuori del piano del disegno, all’incirca su di una linea che va dalla Terra T all’occhio del lettore. Le due sfere più interne generano un moto a forma di nodo, mentre le due sfere più esterne producono e il moto giornaliero e lo scorrimento medio del pianeta in direzione est.
Punti deboli del modello di Eudosso: la distanza fissa dei pianeti
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Nonostante l’alto grado di raffinatezza matematica, il sistema eudossiano delle sfere omocentriche ebbe una vita relativamente breve e fu sostituito (o affiancato) da altri modelli, che riuscirono meglio a spiegare alcune anomalie dei moti planetari. Il modello eudossiano non era in grado, per esempio, di spiegare la variazione di luminosità di certi pianeti, che induceva a ritenere che essi nel corso della loro rivoluzione intorno alla Terra talora si avvicinassero a quest’ultima (apparendo più luminosi), per poi distanziarsene. L’incapacità dello schema eudos-
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siano di rendere ragione di questo fenomeno dipende evidentemente dal fatto che in tale modello il pianeta veniva per così dire fissato su una sfera, rimanendo dunque sempre alla medesima distanza dalla Terra. Modelli alternativi: Nell’ambito dell’astronomia ellenistica, probabilmente con Apollonio di Perga e Ipgli eccentrici parco di Nicea, si impose un modello alternativo (o anche semplicemente coesistente), quello fondato sugli eccentrici e sugli epicicli. Il modello eccentrico immaginava che il pianeta (per esempio il Sole, che per l’astronomia antica era un pianeta) si muovesse circolarmente e in modo uniforme ma intorno a un centro che non era rappresentato dalla Terra, bensì da un punto eccentrico, situato nei pressi della Terra; in questo modo si spiegava come il pianeta potesse trovarsi più vicino o più lontano dalla Terra, pur muovendosi lungo un’orbita perfettamente circolare (vedi Figura 3). Figura 3
Modello eccentrico. Il pianeta, in questo caso il Sole S, si muove descrivendo una circonferenza perfetta, il centro della quale non è però rappresentato dalla Terra T, bensì da un punto O, eccentrico rispetto alla Terra.
Gli epicicli
Figura 4
La sintesi di Tolomeo
➥ Percorso tematico, p. 321
Il modello degli epicicli, invece, ipotizzava che il pianeta si muovesse (ovviamente di moto circolare e uniforme) lungo un circolo piccolo, chiamato epiciclo, il quale si muoveva a sua volta (sempre di movimento circolare e uniforme) lungo un circolo maggiore (il deferente), il cui centro poteva trovarsi sulla Terra, ma poteva anche risultare eccentrico rispetto ad essa (vedi Figura 4). Questo sistema, oltre a spiegare in modo facilmente comprensibile il moto retrogrado dei pianeti, era anche in grado di rappresentare visivamente la maggiore vicinanza o lontananza di esso dall’osservatore situato sulla Terra. Modello epiciclo deferente. Il pianeta P viene fatto orbitare (di moto circolare e uniforme) sulla circonferenza di un epiciclo, il cui centro si trova su una circonferenza maggiore, il cui centro è costituito dalla Terra T. Ciò consente di rappresentare in modo chiaro sia il moto retrogrado del pianeta, sia la sua maggiore vicinanza o lontananza dall’osservatore situato sulla Terra.
Tutte queste spiegazioni incorporarono al loro interno anche un elevato grado di tecnicità matematica, di cui qui non è possibile dare conto. Esse furono poi raccolte e definitivamente sistematizzate nel II secolo d.C. nel grandioso edificio della Composizione matematica (Sy`ntaxis mathematikè) dovuta a Tolomeo. Lo scritto è conosciuto con il titolo arabeggiante di Almagesto (significa «il grandissimo [libro]»), e insieme agli Elementi di Euclide formò l’eredità più straordinaria e duratura del pensiero matematico greco. 315
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5 Un modello di riferimento
Le scoperte di Archimede e l’estensione della conoscenza matematica
Proclo: la struttura assiomatico-deduttiva applicata allo studio della realtà
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L’assiomatizzazione dell’ontologia: Proclo e il neoplatonismo All’inizio di questa Unità si era osservato come la natura assiomatico-deduttiva della matematica, l’assenza nella storia di questa disciplina, almeno a partire da Euclide, di controversie laceranti sui principi e sul metodo, il carattere sostanzialmente coeso e omogeneo della comunità degli studiosi, abbia fatto di questa branca del sapere un vero e proprio modello di riferimento al quale avrebbero dovuto uniformarsi, secondo Galeno, sia i medici sia i filosofi. Ciò che della storia della matematica risultava particolarmente attraente era la natura omogenea e cumulativa delle scoperte, le quali sembravano appartenere effettivamente al medesimo corpo di dottrine: per esempio, la teoria delle curve coniche di Apollonio di Perga, sviluppata nel III secolo a.C., rappresentava un’aggiunta al sistema degli Elementi euclidei, che arricchiva senza alterarne i presupposti. Bisogna tuttavia osservare che la matematica greca, anche dopo Euclide, fu forse meno monolitica di quanto si è portati solitamente a ritenere. È vero che l’assetto assiomatico-deduttivo che costituiva l’essenza del capolavoro di Euclide fu riproposto in pressoché tutti i trattati di matematica successivi; ma è altresì vero che un autore come Archimede, la cui profondità e influenza non furono certamente inferiori a quelle di Euclide, si dimostra perfettamente consapevole della necessità che la scoperta scientifica sia sottratta ai vincoli metodologici del sistema assiomatico-deduttivo. Per raggiungere nuovi risultati, ossia per far crescere la disciplina, non esistono per Archimede percorsi definiti e univoci; egli non rinunciava a servirsi di strumenti meccanici per procedere nella sua indagine. Introducendo nozioni come quelle di centro di gravità, di peso e di equilibrio, il grande matematico del III secolo a.C. giunse alla soluzione di problemi antichissimi, come quello della quadratura e della cubatura. Anche Archimede, però, quando si trattava di esporre i risultati conseguiti nelle sue ricerche, si rivolse al metodo euclideo dell’assiomatizzazione. Non c’è dubbio, comunque, che lo stile assiomatico della matematica, con l’omogeneità e l’assenza di conflitti ad esso connesse, suscitò l’ammirazione e forse l’invidia dei filosofi. Con il tardo neoplatonismo si arrivò ad avvertire l’esigenza di trasferire in qualche modo questo assetto assiomatico-deduttivo nella presentazione della struttura della stessa realtà. A compiere questo passo fu, non a caso, Proclo di Atene (412-485), il quale manifestò in misura maggiore di altri neoplatonici un interesse eccezionale per la storia della matematica, e in particolare per la geometria. A lui si deve il Commento al primo libro degli Elementi di Euclide, un’opera nella quale il grande filosofo neoplatonico dimostra la sua straordinaria competenza nel campo di questa disciplina. Lo studio degli Elementi lo portò ad approfondire la natura metodologica della matematica e poi a tentare di trasferire il rigore che aveva ritrovato in essa anche nel campo della filosofia, e in particolare nell’esposizione della genesi e della struttura dell’essere, ossia della realtà. Del resto la filosofia neoplatonica si prestava più di ogni altra a un’operazione di questo genere: la realtà vi era concepita come un insieme di livelli gerarchici derivanti da un unico principio, l’Uno, collocato al di là dell’essere; si potrebbe così dire che una qualche forma di deduttivismo era già implicita nella stessa concezione neoplatonica della realtà, ossia nel sistema derivativo di tutto l’essere dall’Uno (che poteva in effetti richiamare l’impianto assiomatico delle matematiche in cui dai principi venivano dedotte tutte le altre proposizioni). Proclo dun-
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que si limitò a codificare una tendenza in qualche modo connaturata alla filosofia neoplatonica. Un’opera come la Teologia platonica, scandita in principi, proposizioni fondamentali e proposizioni derivate, sembra davvero riprodurre su larga scala, ossia nella totalità del reale, l’assetto assiomatico-deduttivo che ormai da qualche secolo caratterizzava lo stile espositivo dei grandi trattati di matematica. Il parallelismo Proclo-Euclide
Il rivolgimento neoplatonico
➥ Sommario, p. 318
Modello matematico euclideo
Genesi e struttura della realtà in Proclo
Assiomi (indimostrabili)
Uno (principio assoluto al di là dell’essere)
da cui si deducono
da cui deriva
tutte le altre proposizioni
l’intera realtà
L’esperimento neoplatonico di assiomatizzazione del mondo è forse l’ultimo grande episodio di quella lunga vicenda di relazioni reciproche tra matematica e filosofia che ha attraversato il pensiero antico. In esso, per uno dei curiosi paradossi della storia delle idee, viene rovesciato uno degli assunti centrali dell’epistemologia di Platone (al quale invece Proclo pretendeva richiamarsi): Proclo applica alla filosofia proprio quel metodo assiomatico-deduttivo che agli occhi di Platone andava confinato nel campo delle matematiche, essendo inadatto alla problematicità e all’apertura costitutiva del pensiero dialettico.
Suggerimenti bibliografici La migliore esposizione complessiva della scienza antica è quella di G.E.R. Lloyd, La scienza dei Greci, Laterza, Roma-Bari 1978. Per una ricostruzione generale della storia della scienza antica, vedi l’antologia commentata: G. Cambiano, Filosofia e scienza nel mondo antico, Loescher, Torino 1976. Per l’astronomia vedi l’antologia commentata F.F. Repellini, Cosmologie greche, Loescher, Torino 1980. Per una panoramica sul pensiero scientifico che dalla zoologia di Aristotele giunge fino alla medicina di Galeno vedi M. Vegetti, Il coltello e lo stilo, il Saggiatore, Milano 19962. Per approfondire la figura di Archimede si segnala la recente biografia: M. Geymonat, Il grande Archimede, Teti, Roma 2006. I brani antologizzati sono tratti da: Opere di Ippocrate, a cura di M. Vegetti, UTET, Torino 19962. Platone, Leggi, trad. di A. Zadro, Laterza, Bari-Roma s.d. Platone, Repubblica, trad. di M. Vegetti, BUR, Milano 2007. Galeno, Procedimenti anatomici, trad. di I. Garofalo, Rizzoli, Milano 1991. Galeno, I miei libri e Le facoltà dell’anima seguono il temperamento del corpo in Id., Opere scelte, a cura di I. Garofalo e M. Vegetti, UTET, Torino 1978. Galeno, Come riconoscere il miglior medico, trad. di M. Vegetti (non pubblicata). Euclide, Elementi, trad. di A Frajese - L. Maccioni, UTET, Torino 1970. Aristotele, Analitici secondi, in Filosofia e scienza nel mondo antico, a cura di G. Cambiano, Loescher, Torino 1976.
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Sommario 1. SCIENZE
E FILOSOFIA
La cultura scientifica nel mondo greco non è affatto divisa da quella filosofica, con cui anzi interagisce costantemente, anche se a volte in modo polemico. Due ambiti di ricerca scientifica hanno in particolare un grande sviluppo e una forte interazione con la filosofia greca: la medicina e la matematica. 2. LA
MEDICINA ANTICA
Agli inizi la medicina greca era caratterizzata dall’assenza di regolamentazione e quindi dalla libera concorrenza tra medici che si autoproclamavano tali e dalla creazione di tradizioni terapeutiche orali. Una prima svolta arriva nel V secolo a.C. con la raccolta di una serie di testi medici di riferimento, attribuiti a Ippocrate e, nello stesso periodo, grazie alla creazione di associazioni professionali. [par. 1] La medicina ippocratica ha una grande affermazione nella cultura greca per il metodo razionale, la relazione personale stretta e collaborativa con il paziente, l’efficacia terapeutica e il severo codice morale di autoregolamentazione (la deontologia medica), espresso nel celebre Giuramento. [par. 2] I medici ippocratici, privi di conoscenze di anatomia e di fisiologia, elaborano una teoria incentrata sugli elementi in ingresso e in uscita dall’organismo, quella degli umori. La terapia in questo tipo di medicina consisteva essenzialmente in una regolamentazione del regime di vita del paziente determinata a partire da un’accurata prognosi. [par. 3] All’inizio del III secolo a.C. assistiamo a una svolta decisiva della medicina antica. Grazie all’eredità della zoologia aristotelica, incentrata sulla dissezione degli animali, e al grande centro culturale di Alessandria d’Egitto (con la Biblioteca e il Museo), si sviluppa la conoscenza dell’anatomia del corpo umano e dei relativi grandi processi fisiologici. I medici alessandrini Erofilo ed Erasistrato proseguono così su questa strada scoprendo sia il sistema nervoso centrale sia quello cardiovascolare. [par. 4] In seguito i medici si dividono in due grandi scuole: i «dogmatici» o «razionalisti», che basano la terapia sulle conoscenze anatomo-fisiologiche; e gli «empirici», che vogliono ricondurre tutta la medicina all’esperienza terapeutica, limitandosi allo studio dei testi ippocratici. In epoca romana sorge una terza scuola, quella dei «metodici», che tentano di semplificare drasticamente la medicina. [par. 5] Il maggior medico e uno dei più importanti filosofiscienziati del II secolo d.C. è Galeno. Dopo gli studi ad Alessandria si reca a Roma, dove riscuote un successo straordinario. Il grande progetto di Galeno è quello di fare della medicina un sapere organico e unificato, che superi le contrapposizioni tra scuole differenti; un sapere in grado di risalire dai sintomi visibili alle loro 318
cause, da rinvenire nelle strutture anatomiche; quindi derivare da tale conoscenza le indicazioni per la diagnosi, la prognosi e la terapia. Un modello, dunque, che coniuga razionalità ed esperienza. Uno dei pilastri del sistema di Galeno consiste nella teoria dei temperamenti, ovvero delle mescolanze tra gli umori della scuola ippocratica. Oltre a questo livello, concernente i tessuti, Galeno si dedica allo studio del livello anatomico e fisiologico, concernente gli organi. Il grande medico elabora infine una psicofisiologia di matrice platonico-aristotelica dalle significative quanto gravose conseguenze etico-morali. [par. 6] 3. MATEMATICHE
E FILOSOFIA
Nel pensiero greco le matematiche (aritmetica e geometria) hanno conosciuto sviluppi di estrema rilevanza sia nei metodi che nei risultati. Il maggior contributo in questo campo è rappresentato dagli Elementi di Euclide, un’opera scritta tra il IV e il III secolo a.C. che ha rappresentato un ideale di scienza oggettiva, dai risultati definitivi e indiscutibili, grazie alla rigorosa applicazione del metodo assiomatico-deduttivo. [par. 1] Non è questo comunque l’unico metodo presente nella storia delle matematiche greche: prima di Euclide emergono infatti diverse questioni di matrice sia pitagorica sia eleatica, come quella dell’incommensurabilità, nonché l’elaborazione di un metodo ipotetico-problematico, in cui mancava una distinzione fissa e immutabile tra i principi o le definizioni e le conseguenze. Euclide ha raccolto in forma di sistema assiomatico il sapere geometrico acquisito nei secoli precedenti. [par. 2] Del metodo assiomatico-deduttivo si trovano già accenni in Platone, che lo confrontava criticamente con il metodo dialettico, mentre Aristotele ne ha tracciato i principali lineamenti logici ed epistemologici mostrando che esso permette, partendo da conoscenze universalmente valide, di dedurne coerentemente le conseguenze. [par. 3] Tra le applicazioni della matematica nel mondo greco la maggiore è l’astronomia, con i sofisticati tentativi di ricostruire la struttura geometrica dell’universo e di calcolare posizioni, distanze e movimenti dei corpi celesti, culminati nella sintesi di Tolomeo. Il tratto fondamentale della concezione del cosmo del mondo antico, da Platone in poi, è la struttura a due sfere concentriche, quella terrestre e quella celeste. Dentro questa tradizione si collocano la teoria delle sfere omocentriche di Eudosso e quelle ad essa alternative degli eccentrici e degli epicicli. [par. 4] Nell’ambito del neoplatonismo si è avuto il maggiore tentativo di sistematizzazione della filosofia su un modello di derivazione matematica con l’opera di Proclo, che ha tentato di presentare in forma assiomatico-deduttiva il proprio sistema ontologico in cui tutto l’essere deriva dall’Uno. [par. 5]
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico
Parole chiave Anatomia fisiologica. La conoscenza dell’anatomia umana e dei relativi grandi processi fisiologici è stata la grande svolta della medicina ellenistica. Assiomatico-deduttivo. Ragionamento o sistema di conoscenze che procede per mezzo di deduzioni di conseguenze (teoremi) a partire da principi primi assunti come validi (assiomi); il metodo ha trovato vasta applicazione nella matematica greca, giungendo al suo apice negli Elementi di Euclide. Definizione. Spiegazione del significato concettuale di una parola; in un sistema assiomatico-deduttivo come gli Elementi di Euclide le definizioni figurano tra i principi primi e determinano gli oggetti del sistema. Deontologia medica. Tema molto presente nella medicina greca; l’esigenza di definire precisi codici di comportamento emerse nel momento in cui la professione medica si andava istituzionalizzando. Celebre la deontologia ippocratica che trovò espressione nel Giuramento. Dissezione. Insieme alla vivisezione, la pratica di sezionare i corpi fu lo strumento conoscitivo fondamentale per l’individuazione della struttura e del funzionamento degli organismi prima animali, nella zoologia aristotelica, e poi umani, nell’anatomia ellenistica. Eccentrici. Ipotetici punti vicini alla Terra intorno ai quali ruotavano i pianeti; la loro introduzione fu uno dei tentativi teorici compiuti in epoca ellenistica per salvare la tesi del moto circolare uniforme dei pianeti dalle smentite dell’osservazione del cielo.
renza di un cerchio, rappresentano un’anomalia e un problema poiché non possono essere espresse né da un numero intero né da un rapporto tra numeri interi (occorrono i numeri irrazionali). Ipotetico-problematico. Metodo di ragionamento alternativo rispetto a quello assiomatico-deduttivo; ha trovato una delle sue maggiori espressioni negli studi geometrici di Ippocrate di Chio, caratterizzati dall’assumere principi di volta in volta diversi, in funzione del problema da risolvere. Principi. Le prime premesse, le proposizioni da cui parte una deduzione; sono diversamente caratterizzabili a seconda dello stile di ragionamento: assoluti in un sistema assiomatico-deduttivo, relativi in una matematica di stile problematico-ipotetico. Prognosi. Concetto chiave della medicina ippocratica, nel cui ambito furono sviluppate formidabili capacità di previsione del decorso delle malattie sulla base dell’esame esteriore del corpo, specialmente del viso e delle escrezioni corporee. Sfere omocentriche. Complesso modello matematico dei moti planetari, elaborato da Eudosso, che cerca di mantenere in accordo con le osservazioni empiriche del cielo la teoria del moto circolare uniforme dei pianeti attorno alla Terra. Sistema cardiovascolare. La sua conoscenza fu un’altra delle grandi acquisizioni dell’anatomia ellenistica, con il riconoscimento, per la prima volta, della distinzione tra arterie e vene e della funzione del cuore.
Efficacia terapeutica. La prova empirica della capacità di una terapia di ottenere risultati positivi fu un elemento cruciale del successo o dell’insuccesso delle scuole mediche antiche.
Temperamenti. Nella medicina di Galeno è così chiamata la teoria della mescolanza tra gli umori della medicina ippocratica tale da generare temperamenti equilibrati, quindi sani, o patologici (flegmatico, melancolico, collerico, sanguigno).
Epicicli. Circoli descritti dal movimento dei pianeti lungo orbite a loro volta circolari che hanno come centro la Terra; come gli eccentrici, furono ipotizzati in epoca ellenistica per salvare la tesi della natura circolare uniforme dei moti celesti dalle smentite empiriche.
Umori. Nella medicina ippocratica sono così chiamati i fluidi organici principali del corpo umano riconoscibili in uscita: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Veniva loro attribuita grande importanza per la conoscenza dello stato di salute del paziente e quindi per la terapia.
Incommensurabili. Concetto fondamentale della matematica antica: le grandezze non riconducibili a una misura comune, per esempio il raggio e la circonfe-
Zoologia. Scienza della vita animale fondata da Aristotele sulla base di una lunga serie di osservazioni empiriche compiute anche attraverso dissezioni.
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Parte prima L’età antica
Questionario SCIENZE
LA
E FILOSOFIA
1
Quali furono i due saperi scientifici che Platone assunse come modelli? (max 2 righe)
2
A quale sapere scientifico è ispirata la concezione della natura di Aristotele? (max 2 righe)
17
Quale esigenza filosofica si trova dietro i modelli astronomici delle sfere omocentriche, degli eccentrici e degli epicicli? (max 5 righe)
18
Quale fu la novità del neoplatonismo nella vicenda dei rapporti tra filosofia e matematica nel mondo greco? (max 3 righe)
MEDICINA ANTICA
3
Esisteva la professione medica in Grecia prima della scuola di Ippocrate? (max 1 riga)
4
In che modo gli insuccessi terapeutici hanno indotto i medici «ippocratici» a modificare le loro dichiarazioni propagandistiche? (max 4 righe)
5
La morale medica che si esprime nel Giuramento ippocratico rappresenta le convinzioni di una scuola medica o di tutti i professionisti greci del tempo? (max 4 righe)
6
Quali tipi di conoscenze mancavano del tutto ai medici ippocratici? (max 3 righe)
Lavoriamo sui testi 19
Perché secondo i medici ippocratici, in T1, il loro intervento non ha bisogno della sorte? (max 5 righe)
20
Qual è la differenza fondamentale, in T3, tra il medico dei liberi e il medico degli schiavi secondo Platone? (max 5 righe)
21
Come viene considerato e a quale figura viene paragonato il maestro del medico nel Giuramento ippocratico in T4? (max 4 righe)
22
Quali sono i principali fattori ambientali, descritti in T5, che influenzano la salute delle persone secondo la medicina ippocratica? (max 6 righe)
23
Per quale motivo Platone, in T6, scrive che i ricchi vivono «da malati» cioè passano gran parte del loro tempo a curarsi? (max 6 righe)
24
Stando a T7, su quali parti e tratti del corpo del malato si concentra l’attenzione del medico ippocratico in fase di prognosi? (max 6 righe)
25
Che rapporto stabilisce Galeno, in T13, tra la sua terapia dell’anima e la filosofia? (max 6 righe)
26
Con quali argomenti Galeno, in T14, difende la tesi per la quale la medicina può arrogarsi il diritto di emettere diagnosi che hanno il valore di sentenze inappellabili? (max 8 righe)
7
Perché la medicina ippocratica dava tanta importanza all’osservazione dei sintomi? (max 5 righe)
8
In quali modi l’istituzione del Museo di Alessandria ha influito positivamente sulla storia della medicina antica? (max 5 righe)
9
Nel III secolo a.C. quanto influirono le nuove scoperte anatomiche e fisiologiche sulla prassi medica del tempo? (max 5 righe)
10
Qual è il punto centrale della controversia tra dogmatici razionalisti ed empirici? (max 5 righe)
11
Che cosa pensavano i metodici della formazione medica? (max 5 righe)
12
Quale posizione prende Galeno rispetto alla controversia tra dogmatici ed empirici? (max 4 righe)
27
Come concepisce Galeno la struttura dell’anima? (max 6 righe)
Su quali oggetti aritmetici vertono le definizioni di Euclide esposte in T15? (max 1 riga)
28
Su quali oggetti geometrici vertono le definizioni di Euclide esposte in T16? (max 2 righe)
29
Su quale punto si differenzia la conoscenza dei principi da quella delle conseguenze nel brano T17 di Aristotele? (max 2 righe)
13
MATEMATICHE
E FILOSOFIA
14
Quali sono le premesse fondamentali del sistema geometrico euclideo? (max 5 righe)
15
Perché nella concezione platonica il metodo dialettico risulta più oggettivo di quello assiomatico-deduttivo? (max 5 righe)
16
In un sistema assiomatico-deduttivo, come si differenziano le modalità di conoscenza degli assiomi e dei teoremi? (max 4 righe)
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Percorso tematico Le ragioni della scienza
1. Medicina, biologia e filosofia 2. Le matematiche
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Medicina, biologia e filosofia
1 I testi
Ippocrate Il male sacro: Un male che sacro non è, T1 Antica medicina: Il «manifesto» della nuova medicina, T2 Aristotele Le parti degli animali: Anche qui vi sono dèi, T3
Galeno Il miglior medico è anche filosofo: Virtù e sapere del vero medico, T4 L’utilità delle parti: La saggezza dell’artefice e la melma di carni e umori, T5
Intorno alla metà del V secolo a.C. la medicina greca – erede di una secolare tradizione di pratiche di cura e di guarigione – venne compiendo la sua definitiva trasformazione in una vera e propria tèchne, cioè in un campo di sapere autonomo. Questo comportava, da una parte, il consolidamento di un insieme di conoscenze teoriche sulla natura delle malattie e sulle relative procedure terapeutiche; dall’altra parte, la costituzione di un gruppo di professionisti dell’arte medica, dotati di competenze specialistiche e di una complessa formazione professionale. Punti forti della nascente arte medica erano il carattere razionale delle sue conoscenze e delle sue pratiche di cura, che quindi potevano venire pubblicamente esposte, giustificate e trasmesse attraverso un regolare processo di insegnamento. Il passaggio Un aspetto essenziale di questo sviluppo di una medicina razionale e autonoma alla scrittura: stesura fu il passaggio alla scrittura, cioè la trasformazione dell’insieme di conoscenze dei testi medici accumulate dalla tradizione e trasmesse fino ad allora oralmente, in una serie di testi scritti, pubblici, che si potevano studiare, commentare, criticare e migliorare. La comparsa dei testi medici fu una delle grandi novità intellettuali della seconda metà del V secolo, e garantì alla medicina un notevole prestigio culturale e sociale, oltre che strettamente professionale. Ma il sapere e la professione medica nascenti incontravano sulla loro strada avversari formidabili, con i quali dovevano fare i conti nel loro sforzo rivolto a conquistarsi uno spazio intellettuale e terapeutico autonomo. La trasformazione della medicina in tèchne
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La medicina contro la superstizione: il caso dell’epilessia
Il primo di questi avversari era costituito dal gruppo molto composito dei guaritori privi di sapere scientifico e legati invece alla superstizione religiosa, alle pratiche pseudo-terapeutiche degli incantesimi e degli esorcismi. Questo gruppo comprendeva veri e propri impostori e ciarlatani, ma anche preti itineranti autoproclamatisi guaritori, e gli stessi sacerdoti che operavano nei santuari delle divinità «guaritrici», come Apollo e Asclepio. Lo scritto ippocratico La medicina nascente doveva sgombrare il campo da questi rivali, marcando la Il male sacro propria differenza e la propria superiorità scientifica. L’importante scritto sul MaIncantesimi ed esorcismi
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Percorso tematico Le ragioni della scienza
L’epilessia: cause naturali e ignoranza dei ciarlatani
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Un male che sacro non è Ippocrate, Il male sacro
le sacro, che la tradizione ha attribuito allo stesso Ippocrate, sceglieva per questo confronto polemico un caso molto difficile: quello dell’epilessia, che veniva chiamata appunto «male sacro» per il suo carattere misterioso e incomprensibile. Era facile pensare che questa malattia fosse inviata dagli dèi, e dunque andasse curata con pratiche di incantesimo e di esorcismo rivolte a placare la divinità. La strategia scelta dallo scritto sul Male sacro ha due aspetti: 1) mostrare come questa malattia, come tutte le altre, ha cause naturali, dipendendo da una patologia del cervello, e quindi può essere curata razionalmente dai medici competenti; 2) mostrare come le pratiche guaritrici basate sulla superstizione sono solo un pretesto per mascherare l’ignoranza dei ciarlatani che le seguono, e come esse non hanno nulla a che fare né con la medicina né con la divinità. Si tratta di pagine emozionanti, in cui la vivacità della polemica mostra lo sforzo intellettuale con cui un nuovo campo di sapere scientifico tenta di affermare le proprie ragioni e la propria validità contro una tradizione superstiziosa e irrazionale. 1. Circa il male cosiddetto sacro questa è la realtà. Per nulla – mi sembra – è più divino delle altre malattie o più sacro, ma ha struttura naturale e cause razionali: gli uomini tuttavia lo ritennero in qualche modo opera divina per inesperienza e stupore, giacché per nessun verso somiglia alle altre. E tale carattere divino viene confermato per la difficoltà che essi hanno a comprenderlo, mentre poi risulta negato per la facilità del metodo terapeutico col quale curano, poiché è con purificazioni e incantesimi che essi curano. Ma se per quanto ha di meraviglioso questo male è ritenuto divino, molte allora saranno le malattie sacre e non una soltanto, ché io ne mostrerò altre che non sono meno meravigliose né straordinarie, e che pure nessuno ritiene essere divine. Così le febbri – e quotidiane e terzane e quartane – per niente mi sembrano essere meno sacre e generate da un dio di questo morbo, eppure non incutono stupore; e ancora vedo uomini impazziti e in preda al delirio senza alcuna causa manifesta, che si abbandonano a vari gesti inconsulti; e so di molti che nel sonno gemono e urlano, questi si sentono soffocare, quelli perfino balzan dal letto e fuggono via finché siano destati, e poi tornano normali e assennati proprio come prima – ma ne restano pallidi e deboli –, e tutto ciò non una volta soltanto, ma spesso. E ancora vi sono casi numerosi e d’ogni genere, ma raccontare di ciascuno farebbe lungo il discorso. 2. In verità io ritengo che i primi a conferire un carattere sacro a questa malattia siano stati uomini quali ancor oggi ve ne sono, maghi e purificatori e ciarlatani e impostori, tutti che pretendono d’essere estremamente devoti e di veder più lontano. Costoro dunque presero il divino a riparo e pretesto della propria sprovvedutezza – giacché non sapevano con quale terapia potessero dar giovamento –, e affinché la propria totale ignoranza non fosse manifesta, asserirono che questo male era sacro. E raccontando appropriati discorsi stabilirono una cura rivolta alla propria stessa sicurezza; distribuivano purificazioni e incantesimi, ingiungevano di astenersi dai bagni e da molti cibi che non è opportuno i malati mangino: fra i pesci di mare, la triglia, il melanuro, il muggine, l’anguilla (che sono infatti assai pericolosi); fra le carni, quelle di capra e di cervo e di maiale e di cane (queste carni sono le più nocive all’intestino); fra gli uccelli il gallo, il piccione, l’ottarda e tutti quelli che son ritenuti più pesanti; fra i vegetali, la menta, 323
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l’aglio e la cipolla (perché cibi pungenti non giovano a un malato); e vietarono di portare abiti neri (giacché il nero è segno mortale), e di giacere su pelli di capra o di indossarle, e ancora di porre un piede su un piede o una mano su una mano (tutti questi infatti sono impedimenti). Questo dunque hanno prescritto a causa dell’origine divina del male, quasi vedessero più a fondo, ed esponendo altri motivi, così che, quando il malato guarisca, loro sia la fama di destrezza, quando invece muoia, abbiano pronte e sicure discolpe, adducendo quasi causa razionale che non essi, ma gli dèi ne sono responsabili: e chi potrebbe ritenere essi responsabili, se non hanno fatto mangiare né bere alcun farmaco, né hanno ordinato dei bagni? Io invero suppongo che fra i Libi dell’interno nessuno goda buona salute, giacché dormono su pelli di capra e di carni di capra si nutrono, visto che non possiedono né coperte né indumenti né calzari che non siano caprini: e infatti non hanno altro bestiame che capre. Ammesso comunque che il mangiare e il somministrare queste cose generi il male e lo accresca, e il non mangiarle lo curi, non ne è più il dio la causa, né le purificazioni la cura, ma sono i cibi che giovano o nuocciono, e svanisce così l’azione del dio. 3. Così coloro che pongon mano a curare questa malattia in tale modo mi sembra proprio che non la considerino né sacra né divina: ove infatti venga rimossa da codeste purificazioni e da codesta terapia, che cosa mai impedisce che sia generata e rivolta contro gli uomini da artifizi di tal genere? sicché il divino non ne sarebbe affatto responsabile, ma alcunché di umano. Chi infatti operando purificazioni e magie sia in grado di stornare questo male, parimenti potrebbe richiamarlo escogitandone altre, e il divino da questo discorso sparisce. Raccontando e architettando cose di tal genere pretendono di vedere più a fondo, e ingannano gli uomini prescrivendo di mondarsi e purificarsi, mentre il loro discorso ricade continuamente sul divino e sul demonico. Al contrario, in verità io ritengo che i loro discorsi non hanno nulla a che fare con la devozione, come essi pensano, ma piuttosto con l’empietà, e significano che gli dèi non sono; e che la loro devozione e religiosità sono empietà e miscredenza, come io dimostrerò. 4. Se dunque asseriscono di sapere come trascinar giù la luna, far svanire il sole, causare e tempesta e bel tempo, e pioggia e siccità, rendere il mare invalicabile e sterile la terra, e ogni altra cosa di siffatto genere, sia che affermino coloro che vi si adoperano che ciò può avvenire per mezzo di riti, sia di qualche sapienza o pratica occulta, costoro, ne son certo, vivono nell’empietà e credono che gli dèi o non sono o non hanno potere alcuno o non si astengono dalle azioni più estreme. Facendo tutto ciò, come potrebbero non incutere terrore agli dèi stessi? Che se un uomo con magiche arti e sacrifici trascinasse giù la luna e facesse svanire il sole e causasse tempesta e bel tempo, certo io più non crederei che qualcuno di questi fenomeni sia divino, bensì umano, giacché invero il potere degli dèi sarebbe vinto e fatto schiavo dalla sapienza di un uomo. Forse però le cose non stanno proprio così, ma uomini che han bisogno di campare escogitano molte fole dai colori sgargianti, a proposito di questa malattia come di tante altre cose, per ogni forma del male attribuendo la causa a un dio (infatti non le imputano a uno solo una volta per tutte, ma le ripartiscono fra molti). Così se il malato imita una capra o fa versi ferini o ha convulsioni dalla parte destra, ecco dicono che è responsabile la Madre degli dèi. Se lancia grida più acu324
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te e sonore, lo paragonano a un cavallo, ed accusano Poseidone. Se poi lascia passare le feci, come spesso accade a chi è vinto dal male, gl’impongono il soprannome di Enodia: se sono più frequenti e leggere, come quelle degli uccelli allora è Apollo Nomio. Se ha schiuma alla bocca e sferra calci, Ares ne ha colpa. E quando di notte son presi da incubi e terrori e delirio e balzano sgomenti dal letto e fuggono fuori, dicono che si tratta di agguati di Ecate e di assalti degli eroi. Si valgono così di purificazioni e incantesimi, e compiono a parer mio un’azione quanto mai empia ed atea. […] 5. A me dunque questa malattia non pare affatto esser più divina delle altre, bensì ha una base naturale comune a tutte, e una causa razionale dalla quale ciascuna dipende: ed è curabile, per nulla meno delle altre, a meno che per il lungo tempo trascorso si sia rafforzata al punto da soverchiare i farmaci somministrati. Essa ha origine, come anche altre malattie, secondo l’eredità: se infatti da un flegmatico nasce un flegmatico, da un bilioso un bilioso, da un tisico un tisico, da uno splenetico uno splenetico, che cosa impedisce che, avendo il padre o la madre questa malattia, anche qualcuno dei figli ne sia colpito? giacché il seme proviene da tutte le parti del corpo, dalle sane sano, e dalle malate malato. E v’è un’altra grande prova che questa non è più divina delle altre malattie: insorge ai flegmatici per natura: ma non colpisce i biliosi: mentre se fosse più divina delle altre, in tutti egualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza distinguere tra biliosi e flegmatici. 6. Ma di fatto responsabile di questo male è il cervello, come anche delle altre malattie più importanti: e in qual modo e per qual causa essa insorga, lo dirò chiaramente.
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La medicina contro la filosofia della natura: il problema di Empedocle
Il secondo grande avversario dell’autonomia del sapere medico era la filosofia della natura, costruita dai grandi pensatori presocratici come Empedocle. Questa filosofia (o physiologìa) pretendeva di spiegare l’intera gamma dei fenomeni e dei processi della natura sulla base di pochi «principi» o «elementi», come l’aria, il fuoco, la terra e l’acqua, e le rispettive «qualità» (il freddo, il caldo, il solido e il liquido). Di qui Empedocle e i suoi seguaci, come Filistione di Locri, pensavano di poter derivare anche una completa dottrina medica: se una malattia era causata dal freddo, andava curata con il caldo, e viceversa. Lo scritto ippocratico A questa invasione del campo della medicina da parte della filosofia della natuAntica medicina ra replicava vigorosamente il medico ippocratico autore dello scritto Antica medicina (da attribuire forse allo stesso Ippocrate). I fenomeni naturali relativi alla malattia e alla salute sono infinitamente più complessi degli schemi proposti dalla filosofia, e spetta alla competenza della medicina conoscerli e trarne le opportune indicazioni terapeutiche. I metodi di conoscenza Questo medico rivendica orgogliosamente l’esistenza di una tradizione autonoma della sua arte, e la necessità di proseguirne le ricerche lungo la via tracciata da questa tradizione. La medicina non ha ancora raggiunto conoscenze definitive, ma sarebbe un errore abbandonare i suoi metodi di conoscenza per imboccare la Elementi e qualità
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scorciatoia delle «ipotesi», come egli chiama i «principi» della filosofia della natura, che non sono controllabili né riscontrabili nell’esperienza. Si tratta, anche in questo caso, di pagine memorabili, che anche la medicina moderna ha spesso richiamato come il proprio «manifesto» inaugurale.
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Il «manifesto» della nuova medicina Ippocrate, Antica medicina
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1. Quanti si sono accinti a parlare o a scrivere di medicina, fondando il proprio discorso su un’ipotesi, il caldo o il freddo o l’umido o il secco o quale altra abbiano scelto, troppo semplificando la causa originaria delle malattie e della morte degli uomini, a tutti i casi attribuendo la medesima causa, perché si basano su una o due ipotesi, costoro sono palesemente in errore su molte cose e persino nelle loro affermazioni; ma soprattutto sono da biasimare perché sbagliano intorno ad un’arte di fatto esistente, della quale tutti fruiscono nelle circostanze più gravi e molto ne onorano i buoni praticanti e professionisti. Vi sono in effetti medici dappoco, altri molto superiori: ora, se la medicina non esistesse affatto e nel suo ambito nulla si fosse indagato né scoperto, ciò non sarebbe possibile, ma tutti, a proposito di essa, sarebbero parimenti sprovveduti di esperienza e di scienza, e dal caso sarebbe governato tutto quanto riguarda i malati. Ora però non è così, e, come in tutte le altre arti i professionisti differiscono molto fra loro per abilità manuale e per valore intellettuale, lo stesso avviene anche nella medicina. Perciò io non ho davvero ritenuto che ad essa occorresse una nuova ipotesi alla stregua delle cose inesperibili e inesplicabili, per le quali è necessario, se qualcuno s’accinga a parlarne, servirsi di un’ipotesi, ad esempio le cose celesti o sotterranee: se qualcuno pronunciasse giudizi intorno ad esse e alla loro condizione, né a lui stesso che parla né a chi lo ascolta sarebbe chiaro, se essi siano veri o no. Non vi è infatti alcun punto di riferimento grazie al quale raggiungere la certezza. 2. Ma la medicina da gran tempo ormai dispone di tutti gli elementi, e il principio e la via son stati scoperti, grazie ai quali in lungo corso di tempo sono state fatte molte ed egregie scoperte, e il resto nel futuro sarà scoperto, se qualcuno, in grado di farlo e a conoscenza di quanto già è stato scoperto, da questo prendendo le mosse porterà avanti la ricerca. Chi invece, scartato tutto ciò e rifiutandolo, lungo un’altra via e secondo un altro schema s’accinge alla ricerca e asserisce di aver trovato qualcosa, si è ingannato e s’inganna: perché è impossibile. E per quali necessarie ragioni sia impossibile, io cercherò di dimostrarlo dichiarando e dimostrando che cosa è l’arte. Da ciò risulterà chiaro che sono impossibili scoperte ottenute per altre vie che questa. Soprattutto mi sembra che si debba, parlando di quest’arte, discutere di cose note ai profani: non d’altro infatti si deve far questione e discorso se non dei mali che costoro stessi subiscono e soffrono. Per essi – che son sprovveduti – non è certo facile comprendere i loro propri mali, come sorgano e cessino e per quali ragioni s’accrescano o scemino, ma se da altri tutto ciò è stato scoperto e viene esposto, allora riesce agevole; perché ciascuno, ascoltando, null’altro fa se non ricordare ciò che è accaduto a se stesso. Chi poi mancasse la presa sulla comprensione dei profani e non conducesse gli ascoltatori in tale disposizione, sulle cose stesse mancherebbe la presa. Dicono certi medici e filosofi che non sarebbe in grado di conoscere la medicina chi non sapesse «che cosa è l’uomo», e che questo appunto deve apprendere chi desidera curare correttamente gli uomini. Ma il loro discorso ricade nella filosofia, come appunto quello di Empedocle e di altri, che hanno scritto «sulla natura», descrivendo «dal principio» ciò che è l’uomo e come in origine è apparso e di quali elementi è formato. Dal canto mio io penso che quanto da filosofi o da medici è sta-
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to detto o scritto sulla natura, è meno pertinente alla medicina che alla pittura1. Io ritengo invero che una scienza in qualche modo certa della natura non possa derivare da nient’altro se non dalla medicina, e che sarà possibile acquisirla solo quando la medicina stessa sarà stata tutta quanta esplorata con metodo corretto; ma da ciò si è molto lontani, dico dal conquistare un esatto sapere su ciò che è l’uomo, sulle cause che ne determinano la comparsa, e altre simili questioni. Questo almeno mi sembra necessario che il medico sappia sulla natura e faccia ogni sforzo per sapere, se vuol adempiere in qualche modo ai suoi doveri, e cioè che cos’è l’uomo in rapporto a ciò che mangia e a ciò che beve e a tutto il suo regime di vita, e quali conseguenze a ciascuno da ciascuna cosa derivino.
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La rivalutazione della natura vivente
L’ordine finalistico governa la natura
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Anche qui vi sono dèi
Aristotele, Le parti degli animali, 1,5
L’elogio della biologia e della scienza della natura: Aristotele Oltre che grande filosofo, Aristotele fu il fondatore di nuove scienze in campo biologico, che andavano molto oltre il sapere medico formatosi nell’ambito della medicina «ippocratica»: la zoologia e l’anatomo-fisiologia comparata. In questa bellissima pagina della sua grande opera Le parti degli animali, Aristotele rivendica l’importanza degli studi biologici, polemizzando contro «l’infantile disgusto» che i platonici avevano mostrato nei riguardi delle indagini sulla natura vivente, e contro il privilegio esclusivo che essi avevano concesso ai saperi matematici e astronomici. Aristotele non nega il fascino degli studi sulle «realtà eterne», come gli astri; ma sostiene che nel campo biologico noi possiamo ottenere molte più conoscenze, e che queste ci rivelano l’ordine che regna anche nelle parti più «umili» della natura. I processi della natura vivente sono infatti governati dalla finalità (che adegua perfettamente gli organi alle rispettive funzioni, e rende l’organismo nel suo insieme in grado di sopravvivere nel suo ambiente e di riprodursi, in modo da rendere eterna la specie cui appartiene). La scienza biologica è dunque importante, ricca di conoscenze e altrettanto «bella» delle matematiche e dell’astronomia, perché è in grado di mettere in luce l’ordine finalistico (o teleologico) presente in tutti gli strati del mondo naturale. Delle realtà che sussistono per natura, alcune, ingenerate e incorruttibili, esistono per la totalità del tempo, altre invece partecipano della generazione e della distruzione. Circa le prime, che sono nobili e divine, ci tocca di aver minori conoscenze, giacché pochissimi sono i fatti accertati dall’osservazione sensibile a partire dai qua-
1. Empedocle paragonò la formazione della realtà a partire dai quattro elementi al lavoro del pittore, che con pochi colori crea raffigurazioni infinite: «Come allora che i pittori svariano di colori le tavolette votive, / artefici per la loro saggezza ben esperti dell’arte, / essi, trascegliendo i succhi multicolori, / li mescono in armonia, più o meno prendendone d’ognuno, / e ne foggiano figure simili ad ogni cosa, / creandone alberi ed uomini e donne, / belve ed uccelli e pesci cui nutre l’onda, / e numi longevi, per lor pregio supremi; / così non ti irretisca l’inganno che altrimenti sia / la fonte degli esseri mortali» (DK B 23, trad. E. Bignone). 327
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li si possa condurre l’indagine su tali realtà, cioè su quanto aneliamo di sapere. Quanto invece alle cose corruttibili, piante e animali, la nostra conoscenza di esse è più agevole grazie alla comunanza di ambiente: molte conoscenze relative a ciascun genere può infatti ottenere chi voglia adoperarvisi adeguatamente. Ma entrambi i campi di ricerca hanno la loro bellezza. Per quanto poco noi possiamo attingere delle realtà incorruttibili, tuttavia, grazie alla nobiltà di questa conoscenza, ce ne viene più gioia che da tutto ciò che è intorno a noi, così come una visione pur fuggitiva e parziale della persona amata ci è più dolce che un’esatta conoscenza di molte altre cose per quanto importanti esse siano. Le altre realtà, però, grazie alla possibilità di conoscerle in modo più profondo e più esteso, danno luogo a una scienza più vasta; inoltre, giacché sono più vicine a noi e più familiari alla nostra natura, ristabiliscono in qualche modo l’equilibrio con la filosofia vertente sulle cose divine. Poiché di queste ultime abbiamo già trattato, dichiarando quanto a noi appariva, resta da parlare della natura vivente per quanto possibile nulla trascurando, umile o elevato che sia. E perfino circa quegli esseri che non presentano attrattive sensibili, tuttavia, al livello dell’osservazione scientifica, la natura che li ha foggiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo. Sarebbe del resto illogico e assurdo, dal momento che ci rallegriamo osservando le loro immagini poiché al tempo stesso vi riconosciamo l’arte che le ha foggiate, la pittura o la scultura, se non amassimo ancor di più l’osservazione degli esseri stessi così come sono costituiti per natura, almeno quando siamo in grado di coglierne le cause. Non si deve dunque nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso. E come Eraclito, a quanto si racconta, parlò a quegli stranieri che desideravano rendergli visita, ma che una volta entrati, ristavano vedendo che si scaldava presso la stufa di cucina (li invitò ad entrare senza esitare: «anche qui – disse – vi sono dèi»), così occorre affrontare senza disgusto l’indagine su ognuno degli animali, giacché in tutti v’è qualcosa di naturale e di bello. Non infatti il caso, ma la finalità è presente nelle opere della natura, e massimamente: e il fine in vista del quale esse sono state costituite o si sono formate, occupa la regione del bello. Se poi qualcuno ritenesse indegna l’osservazione degli altri animali, nello stesso modo dovrebbe giudicare anche quella di se stesso; non è infatti senza grande disgusto che si vede di che cosa sia costituito il genere umano: sangue, carni, ossa, vene, e simili parti.
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Galeno: la medicina si confronta da pari con la filosofia
Il grande medico del II secolo d.C., Galeno di Pergamo, perseguì un grandioso progetto di ricostruzione della dignità scientifica e del prestigio culturale della medicina, che a suo avviso si erano ai suoi tempi deteriorati, ad opera della corruzione dei cattivi medici, dopo i gloriosi inizi «ippocratici». Il medico-filosofo La medicina non deve soffrire di alcun complesso di inferiorità nei riguardi della filosofia. Nulla manca infatti a chi è veramente medico per essere considerato 328
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anche filosofo, sostiene Galeno nella sua operetta intitolata Il miglior medico è anche filosofo. Il medico deve infatti conoscere i principi e le leggi generali della natura, cioè la fisica; deve essere in grado di costruire dimostrazioni scientifiche, e quindi conoscere la logica; dev’essere moralmente ineccepibile, praticando così l’etica. E sono appunto queste le parti utili e valide della filosofia (Galeno non considerava tali quegli aspetti della filosofia che si sottraevano alla possibilità di dimostrazione scientifica, come la teologia e la cosmologia).
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Virtù e sapere del vero medico
Galeno, Il miglior medico è anche filosofo, 1
Alla maggioranza dei medici succede qualcosa di simile a ciò che capita alla maggioranza degli atleti che desiderano riuscire vincitori alle Olimpiadi, ma non si danno cura affatto per conseguire tale scopo. Certo, elogiano Ippocrate e lo stimano il primo di tutti [i medici], ma quanto a diventare simili a lui, fanno tutto tranne che questo. Egli afferma che l’astronomia contribuisce non in piccola parte alla medicina e ovviamente la geometria che necessariamente precede quella; quelli non solo non apprendono né l’una né l’altra ma biasimano anche coloro che lo fanno. Egli, naturalmente, postula l’esatta conoscenza della natura del corpo dicendo che essa è il principio di tutto il discorso della medicina; essi studiano anche questo in modo tale che non sanno non solo la sostanza di ciascuna delle parti o la loro struttura, conformazione o grandezza o comunanze con le parti vicine, ma neppure la posizione. E che dal non saper distinguere per specie e generi le malattie succede ovviamente ai medici di sbagliare gli obbiettivi della cura è stato detto da Ippocrate nel suo invito a esercitare la teoria logica. I medici di oggi sono tanto lontani dall’essere esercitati in questa che rimproverano coloro che vi si esercitano come se praticassero una attività inutile. […] I medici moderni sono carenti dunque in entrambi i campi per non mettere né capacità né volontà adeguata nell’esercizio dell’arte, o l’una ce l’hanno, l’altra manca loro? Che non nasca nessuno con una capacità spirituale adatta a seguire un’arte così umanitaria non mi pare ragionevole, essendo il mondo uguale allora e ora e non essendo mutato l’ordine delle stagioni né essendo cambiato il periodo solare né altro astro o fisso o vagante avendo avuto qualche cambiamento. È ragionevole pensare che sia a causa dell’allevamento cattivo cui si sottopongono gli uomini d’oggi e del fatto che la ricchezza è più pregiata della virtù, che non nascono più un Fidia fra gli scultori, un Apelle fra i pittori o un Ippocrate fra i medici? Eppure l’esser nati dopo gli antichi e il ricevere le arti già fatte progredire al massimo da loro non sarebbe piccolo vantaggio. Sarebbe facile imparare in pochissimi anni le cose scoperte da Ippocrate in moltissimo tempo per applicare il rimanente tempo della vita alla scoperta di quelle che restano. Non è però possibile supponendo la ricchezza più preziosa della virtù e imparando l’arte non a beneficio degli uomini ma per lucro raggiungere il fine di essa. Non è certo possibile ricercare insieme il guadagno e esercitare una così grande arte, ma è necessario che colui che si impegna di più in una delle due cose disprezzi l’altra. Possiamo forse dire di qualcuno degli uomini d’oggi che brami l’acquisto di averi solo nella misura di far fronte con essi ai necessari bisogni del corpo? C’è qualcuno capace non solo di forgiare a parole ma di insegnare nei fatti il limite della ricchezza secondo natura che giunge fino a che non si ha fame, sete, freddo? Sicché bisogna che la persona che vorrà diventare tale non solo disprezzi le ricchezze ma che sia estremamente amante delle fatiche. Non è possibile che sia 329
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amante delle fatiche uno che si ubriaca o si riempie di cibo o si dà ai piaceri venerei o per dirla in breve serve ai genitali e al ventre. Si è trovato perciò che il vero medico è compagno della temperanza come della verità. Inoltre bisogna esercitare il metodo logico al fine di conoscere quante sono tutte le malattie secondo le specie e i generi e come per ciascuna bisogna giungere alle indicazioni dei rimedi. Questo stesso metodo insegna la stessa natura del corpo, quella che deriva dai primi elementi che sono mescolati interamente fra di loro, e quella che deriva dai secondi elementi, le parti sensibili, che si chiamano anche omogenee, e, terza, oltre a queste, quella derivante dalle parti organiche. Ma quale sia l’utilità per l’animale di ciascuna delle cose dette e quale l’azione (anche queste cose bisogna crederle non senza prova ma con dimostrazione) è insegnato proprio dal metodo logico. Cosa manca dunque ancora perché il medico non sia filosofo, il medico che esercita l’arte in modo degno di Ippocrate? Infatti se per scoprire la natura del corpo e le varietà di malattie e le indicazioni di rimedi occorre essere esercitati nella teoria logica; se, perché persista con amore delle fatiche nell’esercizio di tali cose occorre disprezzare le ricchezze e coltivare la temperanza, avrà già tutte le parti della filosofia, la logica, la fisica e l’etica. Non c’è timore infatti che disprezzando le ricchezze e coltivando la temperanza commetta qualche ingiustizia: infatti tutte le imprese che gli uomini osano ingiustamente le fanno convinti dell’avidità di ricchezze o affascinati dal piacere. Perciò è necessario che abbia anche le altre virtù: esse vanno tutte assieme e non è possibile che, se se ne conquista una, non si abbiano di seguito tutte le altre come legate ad una sola corda. Pertanto se ai medici è necessaria la filosofia per l’apprendimento iniziale e per il successivo esercizio è chiaro che chi è un vero medico, è sempre anche filosofo. Sul fatto che ai medici abbisogni la filosofia per adoperar bene l’arte non credo abbia bisogno di dimostrazione chi ha visto spesso che gli avidi di ricchezze, sono spacciatori di droghe non medici e usano l’arte per fini opposti a quelli a cui è destinata per natura. La medicina e l’ordine razionale del mondo
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La saggezza dell’artefice e la melma di carni e umori Galeno, L’utilità delle parti, 17
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Riprendendo e sviluppando Aristotele (vedi sopra, pp. 327-328), Galeno sostiene che solo la medicina è in grado di dimostrare scientificamente l’ordine che governa la natura, quindi l’opera della provvidenza e dell’intelligenza divina nel mondo. L’ordine provvidenziale del mondo, che la filosofia senza la scienza non può provare, e che i culti religiosi ammettono in modo però oscuro e irrazionale, trova invece la sua espressione rigorosamente razionale nel sapere dell’anatomia e della fisiologia mediche. Esse quindi costituiscono, oltre che decisive conoscenze scientifiche, anche le basi per un’autentica filosofia e una «teologia rigorosa». Ciò non concluderà immediatamente che una intelligenza in possesso di una meravigliosa potenza venuta sulla terra ne pervade tutte le parti? certo in ogni parte si vedono nascere animali che hanno tutti una meravigliosa struttura. Eppure quale delle parti dell’universo è più ignobile della terra? Tuttavia anche qui appare giunta una intelligenza dai corpi superiori; a chi li guarda vien fatto improvvisamente di ammirare la bellezza della loro sostanza, del sole, in primissimo luogo, e dopo questo, della luna, poi degli astri, nei quali è probabile che, quanto la loro essenza corporea è più pura, abiti una intelligenza tanto migliore e più perfetta di quella che abita nei corpi terreni. Se infatti nel fango, nella melma, nelle paludi, nelle piante e nei frutti putrescenti nascono tuttavia animali
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che recano meravigliosa indicazione dell’intelligenza che li ha costruiti, che si deve pensare dei corpi superiori? Si può vedere la natura dell’intelligenza degli uomini pensando a Platone, a Aristotele, a Ipparco, a Archimede e a molti altri uomini siffatti. Io so bene che anche tu penserai tutte queste cose se indagherai accuratamente e equamente sull’arte che è stata adoperata sugli animali. Sicché chiunque osservi i fatti con giudizio libero, vedendo che in siffatta melma di carni e di umori abita tuttavia una intelligenza, e vedendo anche la struttura di un qualsiasi animale – tutti portano il segno del sapiente artefice – comprenderà l’eccellenza della intelligenza celeste: e ciò che prima ti sembrava piccola cosa, la trattazione sulla utilità delle parti, diventerà veramente principio di una rigorosa teologia, che è cosa molto più grande e molto più nobile di tutta la medicina. La trattazione sull’utilità delle parti non sarà dunque utile solo al medico, ma molto più che al medico, al filosofo che si sforza di acquistare la conoscenza di tutta la natura, e a questi misteri io credo, devono essere iniziati tutti gli uomini che onorano gli dèi di tutte le nazioni e di tutti i ceti, misteri che nulla hanno di simile con quelli di Eleusi e di Samotracia. Questi danno infatti deboli prove di ciò che intendono insegnare: quelle della natura sono invece evidenti in tutti gli animali. Non devi infatti supporre che siffatta arte, che il mio discorso ha precedentemente illustrato, sia presente nell’uomo soltanto; al contrario, qualunque altro animale tu voglia sezionare ti mostrerà ugualmente sia l’arte che la saggezza dell’artefice, e quanto più sarà piccolo tanto maggiore sarà la meraviglia che ti infonderà, come gli oggetti che gli artigiani intagliano in minuscoli corpi.
Le matematiche
2 I testi
Platone Repubblica: Puro pensiero verso la verità stessa, T6
Galeno I miei libri: Salvato dall’aporia, T8
Tolomeo Almagesto: La superiorità del sapere matematico, T7
La sistematizzazione dei saperi matematici
«Matematiche» significa in greco l’insieme di aritmetica, geometria piana e solida, astronomia, armonia musicale. Anche i saperi matematici iniziarono verso la metà del V secolo a.C. a costituirsi in un insieme teorico solidamente organizzato, con i suoi trattati specialistici, e questo processo raggiunse il suo cul331
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mine, per quanto riguarda la geometria, fra IV e III secolo, con gli Elementi di Euclide. Un rapporto privilegiato A differenza della medicina, le matematiche godettero fin dall’inizio di un rapcon la filosofia porto privilegiato con la filosofia. I pitagorici le posero al centro della loro speculazione, e anche filosofi naturalisti come Anassagora e Democrito nutrirono un forte interesse per questi saperi. Ma fu certamente Platone a fare delle matematiche la premessa indispensabile ed esemplare per la filosofia stessa. L’influenza del pensiero platonico si sarebbe poi fatta sentire lungo tutta la storia della matematica greca, dallo stesso Euclide fino a Tolomeo (II secolo d.C.).
1
L’utilità delle matematiche per la filosofia
Esclusione delle applicazioni pratiche
T6
Puro pensiero verso la verità stessa Platone, Repubblica, 7, 524d ss.
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Platone: l’importanza formativa degli studi matematici I futuri filosofi, destinati a governare la città, avrebbero dovuto secondo Platone conseguire, durante dieci anni di studi, una completa formazione in tutte le discipline matematiche, prima di intraprendere lo studio della dialettica filosofica vera e propria. La necessità di questi studi consiste nel fatto che le matematiche impongono una vera e propria «conversione» intellettuale: esse ci allontanano dall’attenzione verso i fatti «materiali» dell’esperienza quotidiana, e costringono la mente a ragionare su concetti astratti, su enti ideali (come l’unità numerica o le figure geometriche), e a studiarne le proprietà in modo puramente razionale, senza fare alcun ricorso alla sensazione. L’intelligenza di chi è esperto in matematica supera di gran lunga quella di chi la ignora. In questo senso, le matematiche sono un preliminare indispensabile alla dialettica filosofica, che verte anch’essa su entità «pure», cioè non empiriche (le «idee»), e segue metodi altrettanto astratti e razionali. Per poter servire a questo scopo, le matematiche devono però a loro volta purificarsi, cioè abbandonare gli interessi per le applicazioni pratiche, come il calcolo o le pratiche geometriche di misurazione. L’invito platonico alla rigorizzazione e razionalizzazione dei saperi matematici esercitò un profondo influsso sugli sviluppi successivi di questi saperi. Anche Platone ammette però almeno un uso pratico delle matematiche. Poiché i futuri filosofi dovranno essere anche i capi politici e militari della città, essi potranno far uso di aritmetica e geometria nello schieramento e nelle manovre degli eserciti. – Alcune cose sono stimolanti per il pensiero, altre no, definendo come stimolanti quelle che vengono percepite insieme con i loro contrari, come invece non atte a risvegliare il pensiero, quelle che non si comportano così. – Ora comprendo – disse – e sono della stessa opinione. – E allora: il numero e l’uno a quale dei due gruppi pensi appartengano? – Non saprei – disse. – Ma ragiona in analogia con quel che s’è detto – dissi. – Se l’uno è colto adeguatamente in se stesso dalla vista o da qualche altro senso, non è atto ad attrarci verso l’essenza, proprio come abbiamo detto a proposito del dito; se invece insieme con esso si percepisce sempre simultaneamente qualche contraddizione,
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sicché non appare affatto come uno più che come il suo contrario, allora si rende necessario un criterio di giudizio, e l’anima è costretta a farsene un problema, a indagare, mettendo in opera le proprie capacità di riflessione, e a chiedersi che cosa sia l’uno in sé. In tal caso lo studio relativo all’uno sarebbe fra quelli atti a fungere da guida per la conversione verso la contemplazione di ciò che è. – Ma allora – disse – questo vale soprattutto per la visione dell’uno: vediamo infatti la medesima cosa, simultaneamente, come una e come infinitamente molteplice. – Se dunque è così per l’unità – dissi io – lo stesso accade per ogni altro numero? – Come no? – Ma la scienza del calcolo e dell’aritmetica verte tutta sul numero. – Certo. – E questo sembra atto a guidare verso la verità. – Certo, in modo straordinario. – Farà dunque parte, a quanto pare, dei saperi che cerchiamo: all’uomo di guerra è necessario apprendere queste cose per schierare l’esercito, al filosofo perché, emergendo dal mondo del divenire, egli deve afferrare l’essenza; altrimenti non saprà mai ragionare. – È così – disse. – E il nostro difensore si trova a essere a un tempo guerriero e filosofo. – Sì. – Conviene dunque, Glaucone, prescrivere per legge questa disciplina, e convincere coloro che devono assumere le massime cariche nella città a orientarsi verso la scienza del calcolo e a impadronirsene, non da profani ma fino a giungere col puro pensiero all’osservazione della natura dei numeri; non già a occuparsene come mercanti e bottegai, in funzione della compravendita, bensì in vista della guerra e per facilitare quella conversione dell’anima stessa dal mondo del divenire alla verità e all’essenza. – Parli benissimo – disse. – E proprio adesso – dissi io – parlando del sapere relativo al calcolo, vengo rendendomi conto di quanto esso sia raffinato e per quanti aspetti sia utile ai nostri progetti, qualora venga coltivato a scopi conoscitivi e non commerciali. – In che senso? – disse. – Nel senso di cui ora parlavamo: esso guida efficacemente l’anima verso l’alto e la costringe a discutere sui numeri in se stessi, non tollerando che se ne discuta proponendole numeri dotati di un corpo visibile e tangibile. Sai bene che gli esperti in questo campo, se qualcuno si prova a dividere a parole l’uno stesso, lo deridono e non lo ammettono; e se tu lo frazioni, quelli lo moltiplicano, nel timore che l’uno appaia non più come uno ma come la somma di molte parti. – Verissimo – disse. – Secondo te, Glaucone, se si chiedesse loro: «o illustri, di quali mai numeri state discutendo, in cui l’uno è quale voi pensate debba essere, un’unità uguale a tutte le altre senza la minima differenza e assolutamente priva di parti?», che cosa pensi risponderebbero? – Questo, a mio avviso: che essi parlano di quei numeri che sono accessibili soltanto al pensiero e che non è possibile trattare in nessun altro modo. – Vedi, dunque – dissi – amico mio, che in realtà questa disciplina rischia di esserci necessaria, perché è chiaro che essa costringe l’anima a valersi del puro pensiero in direzione della verità stessa. – E davvero – disse – lo fa con grande efficacia. 333
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– E non hai mai osservato che chi ha una disposizione naturale per il calcolo dimostra un’altrettanto naturale acutezza praticamente in tutti i saperi, mentre le persone lente d’ingegno, se vengono istruite ed esercitate in questo campo, anche se non ritraggono altri vantaggi, almeno migliorano tutte divenendo più acute di quanto non fossero prima? – È così – disse. – Del resto, penso che non sarebbe facile trovare molte discipline il cui apprendimento e la cui pratica comporti più sforzi di questa. – No di certo. – In vista di tutto ciò, questa disciplina non va trascurata, anzi le migliori nature devono esservi educate. – Sono d’accordo – egli disse. – Adottiamo dunque – dissi – questa prima disciplina; vediamo ora se una seconda, che le consegue, convenga ai nostri propositi. – Quale? intendi forse la geometria? – disse. – Proprio questa – dissi io. – Nella misura in cui essa concerne le cose di guerra – disse – è chiaro che ci conviene: riguardo alla disposizione degli accampamenti, alla presa delle piazzeforti, al concentramento e allo spiegamento dell’esercito, a tutti gli schemi di manovra nelle battaglie stesse e nelle marce, per un generale farebbe una bella differenza l’essere esperto di geometria piuttosto che non esserlo. – A tale scopo tuttavia – dissi – basterebbe una preparazione anche parziale nella geometria e nel calcolo; bisogna piuttosto indagare se la parte principale e più avanzata della geometria tenda a quel nostro fine, ad agevolare cioè la visione dell’idea del buono. Noi affermiamo che tende in questa direzione tutto ciò che costringe l’anima a rivolgersi verso quel luogo nel quale si trova la parte più felice dell’essere, che essa deve in ogni modo vedere. – Esatto – disse. – Se dunque questo sapere costringe a contemplare l’essenza, esso conviene, se invece il divenire, non conviene. – È ciò che affermiamo. […] – E non bisogna convenire anche su quest’altro punto? – Quale? – Che essa verte su ciò che sempre è, non su ciò che volta a volta nasce e perisce. – Se ne può facilmente convenire – disse. – La geometria è infatti conoscenza di ciò che sempre è. – Dev’esser dunque atta, nobile amico, a trainare l’anima verso la verità e a produrre pensiero filosofico, per rivolgere verso l’alto lo sguardo che ora a torto teniamo in basso. – Quanto mai adatta – disse. – È dunque quanto mai opportuno – dissi io – disporre che i cittadini della tua bella città non trascurino in alcun modo la geometria. Del resto essa presenta vantaggi marginali non trascurabili. – Quali? – egli chiese. – Da un lato – dissi io – quelli di cui tu parlavi riguardo alla guerra, dall’altro, ai fini di una miglior comprensione di ogni altra conoscenza, sappiamo quale totale differenza vi sia fra chi ha afferrato la geometria e chi no. – Totale davvero, per Zeus – disse. 334
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Tolomeo: il valore dell’astronomia
Tolomeo, il grande astronomo del II secolo d.C., rivendica per la sua scienza un ruolo del tutto speciale nel campo dei saperi più elevati. Egli parte dalla divisione, tracciata da Aristotele, delle conoscenze teoriche in teologia, fisica e matematiche, ma ne rovescia per certi aspetti l’ordine gerarchico. La teologia e la fisica non possono disporre di dimostrazioni rigorose, la prima perché verte su oggetti (la divinità) invisibili e difficilmente comprensibili, la seconda perché i suoi oggetti (i corpi naturali) sono materiali e quindi instabili, soggetti al mutamento. Solo le matematiche possono quindi offrire il modello di un sapere certo e rigorosamente razionale. La posizione Al loro interno, l’astronomia gode di uno speciale privilegio, perché comunica privilegiata con entrambi gli altri campi del sapere teorico. Da un lato, infatti, gli astri sono dell’astronomia eterni e immutabili, e sono prossimi per questo, come avevano insegnato Platone e Aristotele, alla natura della divinità. Dall’altro lato, i movimenti degli astri costituiscono anche un modello per comprendere quelli dei corpi fisici. Oltre che ponte fra teologia e fisica, l’astronomia ha anche un valore morale: l’ordine e la bellezza dei cieli costituiscono anche un fattore di armonizzazione etica e psicologica per chi li contempla. Revisione della gerarchia aristotelica
T7
La superiorità del sapere matematico
Tolomeo, Almagesto, 1,1
Aristotele molto appropriatamente divide la parte teoretica della filosofia in tre primi generi: fisico, matematico, teologico. In effetti tutte le cose sono costituite da materia, forma e movimento, e ciascuna di queste componenti non può essere vista nel proprio soggetto separatamente, cioè senza le altre, ma separatamente può essere soltanto pensata. Se allora si mira a cogliere nella sua semplicità la prima causa del primo movimento della totalità, si penserà a Dio invisibile e immobile, e la parte della filosofia che compie questa indagine è il genere teologico; siffatta attività può essere concepita soltanto in una lontananza che è oltre le cose più alte del mondo, e come assolutamente separata dalle realtà sensibili. Il genere poi che indaga sulle qualità materiali e sempre mobili, e che verte sul bianco, sul caldo, sul dolce, sul molle e sulle cose siffatte, sarà chiamato fisico; la realtà di questo tipo rientra tra ciò che si dissolve ed è al modo del per lo più, e si aggira al di sotto della sfera lunare. Il genere poi che mostra le qualità relative alle forme e ai movimenti locali, e indaga sulla figura, la quantità, la grandezza, e ancora sul luogo, il tempo e le cose affini, sarà definito matematico; la realtà di questo tipo ha una collocazione, per così dire, intermedia tra le altre due, non soltanto perché può essere concepita sia per mezzo della sensazione sia indipendentemente dalla sensazione, ma anche perché è attributo di tutte le cose assolutamente, delle mortali e delle immortali: cambia insieme alle cose che sempre cambiano rispetto alla forma (che è loro inseparabile), mentre nelle cose eterne e di natura eterea perdura immobile nell’immutabilità della loro forma. Di qui ho tratto queste considerazioni: agli altri due generi della parte teoretica si potrebbe attribuire piuttosto il carattere di congettura che quello di apprensione scientifica; al teologico, per la sua assoluta invisibilità e inconcepibilità, al fisico, per l’instabilità e l’oscurità della materia – sicché non si può sperare che tra i filosofi si giunga in questi due generi a un accordo. Il solo genere matematico, se lo si affronta con rigore, offre solida e certa scienza a chi lo coltiva, in quanto la dimostrazione sia aritmetica che geometrica è prodotta con procedimenti incontrovertibili. Perciò mi sono risolto a dedicarmi soprattutto, per quan335
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to mi è possibile, a questo genere di teoria nel suo insieme, ma con particolare preferenza per quella sua parte che ha di mira le cose divine e celesti, perché questa sola è rivolta all’indagine sulle cose che sono sempre senza mutare, e perciò anch’essa è capace, nella sua propria chiara e ordinata apprensione, di essere sempre senza mutare – ciò che è la caratteristica della scienza – e inoltre è capace di fornire alle altre scienze un apporto non inferiore a quello che ciascuna fornisce a se stessa. Essa infatti in modo preminente può aprire la via al genere teologico, dato che essa sola può correttamente approssimarsi all’attività immobile e separata, muovendo dalla vicinanza a questa, in cui si trovano quelle sostanze, che sono sì sensibili e moventi e mosse, ma eterne e prive di modificazioni quanto agli spostamenti e all’ordine dei movimenti. E al genere fisico non concorre in modo irrilevante: infatti le proprietà generali della realtà materiale ci si rivelano in base al carattere proprio del loro movimento locale. Ciò che si dissolve ci si rivela dal suo moto rettilineo, ciò che non si dissolve dal suo moto circolare; il pesante e il leggero, o ciò che subisce e che agisce, dal moto verso il centro e dal centro. Per ciò che concerne la nobiltà delle azioni e del carattere, questa scienza più di ogni altra ce ne renderà intelligenti, per la similitudine, l’ordine, la simmetria e l’assenza di vanità che si contemplano nelle cose divine, e renderà chi la coltiva amante di questa divina bellezza, così che attraverso l’abitudine una disposizione d’animo affine a questa bellezza diverrà quasi naturale. E così mi sforzo incessantemente di aumentare l’amore per la contemplazione delle cose che sono sempre senza mutare, apprendendo quelle, tra queste conoscenze scientifiche, che ci sono state tramandate da quei nostri predecessori che le hanno davvero indagate, e proponendomi di apportare anch’io un piccolo incremento, nella misura in cui lo consente il tempo trascorso da loro a noi.
3 Verità incontrovertibili delle dimostrazioni geometriche
T8
Salvato dall’aporia
Galeno, I miei libri, 11
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Galeno: le matematiche contro lo scetticismo Anche un grande medico come Galeno riconosce il valore esemplare della razionalità matematica. Le argomentazioni dei filosofi contrappongono tesi fra le quali è impossibile decidere, e giustificano quindi il dubbio degli scettici sulla possibilità di raggiungere verità definitive. Al contrario le dimostrazioni geometriche danno luogo a verità incontrovertibili, sia dal punto di vista teorico sia da quello delle applicazioni pratiche (in astronomia, nella misura del tempo, nelle tecniche architettoniche). Quindi occorre apprendere questi rigorosi metodi dimostrativi e applicarli anche nel progetto di ricostruire il sapere medico facendone un edificio di conoscenze ben organizzato ed esente da dispute fra scuole rivali, come erano appunto le matematiche. Vedendo che tutti gli uomini, nelle loro divergenze, dichiarano di fornire dimostrazioni e tentano di confutare gli altri niente mi sono studiato di apprendere, prima di tutto, come la teoria dimostrativa. Chiesi ai filosofi – sentivo dire che erano loro a insegnarla – di riservare per il futuro gli altri punti della parte logica della filosofia, ma di far cessare il dolore causato dal desiderio di dimostrazioni insegnando se esiste un metodo imparando il quale si possa esattamente ri-
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conoscere, quando un altro pronuncia un discorso dimostrativo, se questo è realmente tale o, come una moneta falsa, assomiglia a quello buono, ma in verità è sbagliato, e si possa per ciascuna questione, servendosi di una via, giungere alla scoperta di ciò che è in questione. Mi affidai dunque a tutti gli Stoici e i Peripatetici illustri dell’epoca e imparai molte dottrine logiche che, nell’esame successivo, ho trovato inutili alle dimostrazioni, e di contro pochissime loro ricerche che fossero utili e tendessero a ottenere lo scopo proposto; queste ricerche erano discordanti anche all’interno delle scuole, altre contrarie ai concetti naturali. Per gli dèi, se fosse dipeso dai maestri, sarei finito anch’io nell’aporia dei seguaci di Pirrone, se non avessi posseduto conoscenze di geometria, di aritmetica teorica e applicata, nelle quali discipline avevo fatto molti progressi per l’educazione impartitami da mio padre fin dall’inizio: egli aveva ereditato quella dottrina da mio nonno e dal mio bisnonno. Vedendo dunque che appariva chiaramente vero non solo ciò che riguarda le predizioni delle eclissi e la costruzione di orologi e clessidre ma anche tutti i ritrovati dell’architettura, ritenni più conveniente servirmi del modello delle dimostrazioni geometriche; riscontravo infatti che le persone più dialettiche e i filosofi non solo dissentivano fra di loro ma anche con se stessi, ma tutti allo stesso modo approvavano le dimostrazioni geometriche: intendo dire che i filosofi dissentono nella teoria logica, i Peripatetici, gli Stoici e i Platonici, e con loro stessi dissentono singolarmente in ciascuna scuola (i dissensi sono piccoli nei Peripatetici, grandi negli Stoici e nei Platonici). In questo potei capire ancora meglio che bisognava tenersi lontani dalle loro teorie e seguire il modello delle dimostrazioni geometriche.
I brani antologizzati sono tratti da: Ippocrate, Il male sacro, trad. di M. Vegetti, in Opere di Ippocrate, UTET, Torino 19962. Ippocrate, Antica medicina, trad. di M. Vegetti, in Opere di Ippocrate, cit. Aristotele, Le parti degli animali, in Id., Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, trad. di M. Vegetti, UTET, Torino 1971. Galeno, Il miglior medico è anche filosofo, in Id., Opere scelte, a cura di I. Garofalo e M. Vegetti, trad. di I. Garofalo, UTET, Torino 1978. Galeno, L’utilità delle parti, libro 17, in Id., Opere scelte, cit.. Platone, Repubblica, libro 7, 524d ss., trad. di M. Vegetti, Bibliopolis, Napoli 2002. Tolomeo, Almagesto, 1,1, trad. di F.F. Repellini, in Cosmologie greche, Loescher, Torino 1980. Galeno, I miei libri, cap. 11, in Id., Opere scelte, cit.
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Questionario MEDICINA,
BIOLOGIA E FILOSOFIA
LE
MATEMATICHE
1
Con quali argomenti, nello scritto ippocratico T1, l’epilessia è considerata una malattia che ha delle cause razionali? (max 15 righe)
3
Per quali ragioni Platone, in T6, scrive che lo studio delle matematiche sia non solo utile ma necessario nell’educazione dei filosofi? (max 15 righe)
2
Per quali ragioni Galeno, in T4, sostiene che la medicina pertiene, oltre che all’etica, anche alla fisica e alla logica? (max 15 righe)
4
Con quali argomenti Tolomeo sostiene la tesi, in T7, che il sapere matematico sia superiore a quello fisico e teologico? (max 15 righe)
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo 1. L’ellenismo 2. L’epicureismo 1. 2. 3. 4. 5.
Le ragioni di Epicuro Il sistema I principi della fisica L’annuncio di felicità L’eredità epicurea
4. L’etica 5. Lo stoicismo medio 6. Lo stoicismo romano
4. Scetticismi antichi 1. Le ragioni di Pirrone 2. Lo scetticismo nell’Accademia 3. L’eredità pirroniana
3. Lo stoicismo 1. Nascita e sviluppo dello stoicismo antico 2. La logica 3. La fisica
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: I Lineamenti pirroniani di Sesto Empirico
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Parte prima L’età antica
L’ellenismo
1 Dal 323 a.C. al 30 a.C.
I grandi regni
Alessandria e Atene
Nuove forme culturali
Le scienze
Si è soliti indicare con il termine «ellenismo» il periodo compreso fra la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e la definitiva conquista romana del regno d’Egitto (31-30 a.C.). Si tratta di una fase storica che vede il formarsi di un modello nuovo di civiltà, capace di sintetizzare con originalità elementi derivanti dal mondo greco e da quello orientale. Sul piano delle strutture politiche i profondi mutamenti avvenuti dopo le ampie conquiste di Alessandro Magno sono innegabili. In primo luogo, infatti, sullo sfondo di un generale declino delle città greche, sempre più lacerate da divisioni e conflitti interni, si assiste alla creazione all’interno del bacino del Mediterraneo di una serie di grandi regni, più o meno vasti e potenti. Fra di essi i maggiori furono quelli di Macedonia, di Pergamo, di Siria, d’Epiro e quello d’Egitto. In quest’ultimo soprattutto la capitale Alessandria diventa a poco a poco, grazie a strutture come il suo Museo e la sua imponente Biblioteca (vedi Unità 5, p. 297), il primo centro culturale del mondo antico. Dal punto di vista dell’insegnamento e della diffusione della filosofia, invece, la centralità di Atene resta salda, anche dopo l’affermazione graduale ma sempre più capillare della potenza romana, almeno fino al I secolo a.C. Questo mutato quadro geo-politico non resta senza conseguenze e investe tutti gli aspetti della vita e della cultura di questo periodo. Si affermano per esempio nuove forme artistiche; si diversifica e rinnova il panorama letterario (che si appoggia anche, elemento da non trascurare, alla diffusione di una lingua unificata o koinè diàlektos); sorgono culti e credenze, che affiancano o sostituiscono la tradizionale religione cittadina. In modo ancor più decisivo e sulla scia della prassi inaugurata da Aristotele nella sua scuola, si assiste a una progressiva specializzazione delle singole scienze, che acquisiscono metodologie e ottengono risultati capaci di rendere sempre più solida la loro autonomia (vedi Unità 5).
Le scuole filosofiche
La crisi del cittadino e il suo riflesso nelle scuole filosofiche ellenistiche
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Non fa eccezione, sullo sfondo dei cambiamenti complessivi appena descritti, lo sviluppo del pensiero filosofico: anch’esso è segnato dalla comparsa di scuole e tendenze che si differenziano dalla riflessione platonica e aristotelica; la stessa morte di Aristotele nel 322 a.C., del resto, viene quasi a coincidere, significativamente, con l’inizio convenzionale dell’età ellenistica. Secondo un’interpretazione a lungo sostenuta, e non priva di fondamento, le cosiddette filosofie ellenistiche sono una risposta insieme profonda e radicale alla crisi in cui sarebbe caduto l’individuo (o meglio il cittadino) greco a causa della perdita di autonomia e di potere decisionale della pòlis dovuta al sorgere di organismi statali monarchici autoritari e accentratori. Una simile situazione avrebbe indotto la riflessione filosofica a rivolgersi non più verso l’esterno, verso la costruzione di valori e strutture politiche comuni e condivise, quanto piuttosto verso l’interno della persona.
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo La ricerca della felicità e il ruolo consolatorio della filosofia
➥ Laboratorio sul lessico, Felicità, p. 429
Interesse morale quale tratto comune
Non solo etica: il confronto con le dottrine platoniche e aristoteliche
Un quadro articolato
La fecondità delle scuole ellenistiche
➥ Sommario, p. 402
L’obiettivo diventa insomma quello di assicurare la felicità all’uomo, garantendogli almeno tranquillità, imperturbabilità e salvezza di fronte a vicende e situazioni che sfuggivano al suo controllo, e sembravano in balia della sorte (ty`che). Alla filosofia tocca allora un compito di intima conciliazione o ancora più precisamente di consolazione, di offerta terapeutica di utili ‘ricette per vivere bene’. La meta ultima è la realizzazione di una virtù o perfezione individuale spesso incarnata nella figura più o meno ideale del saggio (o sophòs) capace di dominare le angosce derivanti dal mondo esterno. Come ogni generalizzazione, questa presentazione ha insieme pregi e difetti. Da una parte, infatti, essa sottolinea i tratti comuni delle scuole filosofiche ellenistiche, dipingendone giustamente l’accentuato interesse morale sullo sfondo della proposta di un’arte della vita, capace di assicurare un controllo soddisfacente di ogni aspetto dell’esistenza personale. Dall’altra, invece, oltre a enfatizzare forse eccessivamente gli aspetti negativi della realtà politica inaugurata dai regni ellenistici, questa immagine sembra lasciare nell’ombra lo sforzo di costruzione di sistemi filosofici complessivi e gli interessi molto più ampi che troviamo sicuramente attestati sia per lo stoicismo o l’epicureismo, sia per le prime forme di scetticismo. Si tratta di interessi rivolti alla riflessione non solo etica ma logica, epistemologica, fisica, teologica; essi erano probabilmente determinati anche da un confronto serrato con le posizioni platoniche e aristoteliche, nonché da una ripresa originale di dottrine di alcuni dei cosiddetti presocratici. Una ricostruzione attenta delle principali tesi sostenute all’interno delle filosofie ellenistiche – contrassegnate spesso da relazioni reciproche apertamente conflittuali, tipiche di uno scontro fra vere e proprie scuole o «sette» (hairèseis), ben consolidate nell’organizzazione e nelle convinzioni dottrinali – deve dunque tener conto dell’insieme di tutti questi aspetti. Nel far questo non si deve cadere nella rappresentazione di questa fase filosofica come un’età di povertà teorica o peggio ancora di decadenza (sulla scia, spesso, di pregiudizi anti-empiristici e anti-materialistici duri a morire). Se ne devono invece ribadire l’originalità e il valore, che giustificano pienamente la rinascita di interesse mostrato negli ultimi decenni rispetto a epicureismo, stoicismo e scetticismo ellenistici. Si tratta del resto di movimenti di pensiero capaci di produrre visioni del mondo e dottrine di validità universale, che lasceranno una traccia profonda non solo nel successivo sviluppo della filosofia pagana, ma anche nella complessa formazione del pensiero cristiano.
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Parte prima L’età antica L’impero di Alessandro Magno
Samarcanda
Danubio
Mar Caspio
Mar Nero
Alessandropoli
Gordio
Pella
Grecia Alicarnasso Tigri Alessandretta Eufrate Cipro Mesopotamia Opis Mar Mediterraneo Damasco Tiro Susa Alessandria Babilonia Cirenaica d’Egitto Oracolo del dio Amone
Bactra Alessandria del Caucaso
Ecatomoilo Ecbatana
Alessandria Proftasia
Tassila Nicea Alessandria Candaar
Persepoli Alessandria Sogdiana Alessandria Carmania Alessandria Perside Indo Orite Pura
Menfi
Egitto
Alessandria Escata
Arabia
Golfo Persico
Nilo
India
Mar Rosso
Roma alla fine dell’età repubblicana
Germania inferiore Belgica Gallia lugdunese
Rezia Norico Pannonia
Daci Aquitania Gallia narbonese Danubio Dalmazia Mesia Spagna Italia Lusitania Traci tarragonese Corsica Roma Macedonia Betica Sardegna
Mauritania
Sicilia
Acaia
Numidia Mar Mediterraneo Africa Cirenaica
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Regno del Bosforo
Mar Nero Ponto Bitinia
Armenia Cappadocia Asia Galazia Parti Cilicia Licia Siria Cipro Fenicia Giudea Egitto Nilo
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
L’epicureismo
2 I testi
Numenio di Apamea fr. 24 Des Places: La coesione dottrinaria, T1
Lucrezio La natura: Il clinamen, T6; Divino Epicuro, T15
Epicuro Epistola a Meneceo: Non ci si stanchi di filosofare, T2; La morte non è nulla, T10; Il calcolo dei piaceri, T11
Epicuro Epistola a Pitocle: La serenità e il verosimile, T7 Massime capitali: Paura e conoscenza, T8; La tetraphàrmakos, T12; L’amicizia, T14
Diogene Laerzio Vite dei filosofi: Le prolessi, T3 Sesto Empirico Contro i logici: L’esistenza del vuoto, T4 Epicuro Epistola a Erodoto: L’eternità di atomi e vuoto, T5
1 Nuove risposte per un mondo nuovo
La formazione, sulla linea di Democrito, Platone e Aristotele
Il Giardino, una scuola aperta a tutti
Sesto Empirico Lineamenti pirroniani: La negazione della provvidenza, T9 Epicuro Epistola a Idomeneo: Le gioie del ricordo, T13
Le ragioni di Epicuro La dottrina proposta da Epicuro appare senza dubbio come uno sforzo globale di trovare risposte adeguate a quelle domande, che noi oggi definiremmo esistenziali, suscitate dalla mutata situazione generale del mondo greco in età ellenistica. Epicuro intende offrire nuovi punti di riferimento per poter governare la propria vita in modo da renderla compatibile con la più ampia struttura politica e sociale in cui ora ci si trova a operare. Così facendo, egli elabora una filosofia in grado di competere con quelle di Platone e di Aristotele, con i quali anzi egli dialoga in modo critico e libero, costruendo così un modello alternativo di spiegazione del mondo naturale e umano. Nella formazione complessiva del suo pensiero, nonostante egli rivendichi con orgoglio di essere completamente autodidatta, sembra difficile negare una qualche forma di discepolato presso questo o quel filosofo (dal democriteo Nausifane al platonico Panfilo). Egli non trascura affatto anche altre figure e altre dottrine a lui precedenti, importanti ai suoi occhi per definire meglio, anche in senso critico, la fisionomia del suo sistema di pensiero. Le sue dottrine vanno dunque collocate lungo una linea insieme di continuità e di consapevole frattura nei confronti soprattutto di Democrito, ma anche, come già ricordato, di Platone o di Aristotele: solo così è possibile comprendere a pieno l’originalità della sua posizione. Luogo per eccellenza della diffusione del pensiero epicureo, dopo una serie di sedi periferiche (isola di Lesbo; Lampsaco), diventa infine, a partire dal 306 a.C., Atene. Qui, all’interno dello spazio topograficamente e giuridicamente ben individuato del cosiddetto Giardino o Kèpos, Epicuro fonda la sua scuola, accogliendo chiunque – perfino prostitute e schiavi – chiedesse di farne parte, senza distinzioni di età, sesso, ceto o preventiva formazione culturale. Si crea in tal modo una comunità retta da una profonda venerazione per il maestro e da una fe343
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Parte prima L’età antica
deltà completa alle sue teorie; così la descrive ancora nel II secolo d.C. un testimone più tardo, Numenio di Apamea, filosofo siriaco seguace del neopitagorismo:
T1
La coesione dottrinaria
Numenio di Apamea, fr. 24 Des Places
Verso la felicità attraverso la filosofia
T2
Non ci si stanchi di filosofare Epicuro, Epistola a Meneceo, par. 122
Gli epicurei […] non furono visti in nessun modo opporsi in qualche cosa ad Epicuro; avendo riconosciuto di avere la stessa opinione di un sapiente anch’essi per questo godettero a ragione di tale denominazione; e di conseguenza per lo più accadde anche ai successivi epicurei di non dire mai nulla di contrario né gli uni nei confronti degli altri né nei confronti di Epicuro, nulla, almeno, che fosse degno di essere ricordato. Ma per essi l’innovazione è una trasgressione, o piuttosto un sacrilegio ed è condannata. Perciò nessuno osa niente, in una profonda pace i loro dogmi rimangono saldi a causa dell’armonia che sempre regna tra di essi. La scuola di Epicuro somiglia ad una vera comunità, assolutamente priva di fazioni, con un solo animo ed una sola opinione. L’atteggiamento di apertura verso tutti che contraddistingue Epicuro non solo rappresenta un chiaro segnale di discontinuità rispetto al passato, ma incarna in modo evidentissimo una convinzione di fondo che sembra sorreggere l’intero impianto del suo messaggio. Egli è infatti assolutamente sicuro che esista uno strumento in grado di sostenere l’individuo nel suo quotidiano confronto con la vita, che si rivela spesso molto difficile, e condurlo alla meta indiscussa della felicità. Questo strumento è la filosofia, sulla cui efficacia in ogni età della vita egli insiste sin dalla pagina di apertura della sua Epistola a Meneceo. Né il giovane indugi a filosofare né il vecchio di filosofare sia stanco. Non si è né troppo giovani né troppo vecchi per la salute dell’anima. Chi dice che non è ancora giunta l’età di filosofare, o che l’età è già passata, è simile a chi dice che per la felicità non è ancora giunta o è già passata l’età. Cosicché filosofare deve e il giovane e il vecchio: questi perché invecchiando sia giovane di beni per il grato ricordo del passato, quegli perché sia a un tempo giovane e maturo per l’impavidità nei confronti dell’avvenire. Meditare bisogna su ciò che procura la felicità, poiché invero se essa c’è abbiamo tutto, se essa non c’è facciamo tutto per possederla.
Le accuse e le fonti Nonostante l’insistenza delle fonti nel dipingere un Epicuro ostile sì nei confronti dei suoi avversari, ma estremamente mite e ben disposto verso i suoi allievi, si deve registrare, tranne rare eccezioni, una costante avversione nei confronti della filosofia epicurea. In particolare deve essere ricordato il giudizio fortemente critico già attestato da Cicerone e diventato via via martellante da parte degli autori cristiani, che ha finito con il sommergere l’epicureismo sotto stereotipi tanto negativi quanto inaccettabili. Edonista e ateo Epicuro è stato infatti raffigurato come un edonista piatto e volgare, dedito solo al «piacere del ventre», laddove testi di diversa provenienza concordano invece nel ribadire la sua frugalità di vita, la sua generosità, la sua costante forza d’animo esibita e trasmessa a discepoli e amici. Ancora, e forse anzi soprattutto, è spesso emersa la volontà di trasformare Epicuro in un ateo radicale, un negatore eretico della funzione provvidenziale della divinità, nel principe di tutti coloro «che l’anima col corpo morta fanno», come dirà in modo perentorio Dante (Inferno, 10,15).
Stereotipi e condanne
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Si tratta di condanne storiografiche diffuse e persistenti, da cui è possibile liberarsi solo attraverso un riesame diretto, attento e privo di pregiudizi dei testi epicurei, che ci sono stati restituiti in modo forse non completo, ma senz’altro non totalmente lacunoso. Grazie ai fortunati ritrovamenti dei papiri di Ercolano, per esempio, abbiamo via via acquisito la possibilità di leggere in originale frammenti dell’opera maggiore di Epicuro, il Perì phy`seos o Sulla natura, in ben trentasette libri, che restituisce, con notevole uso di terminologia tecnica, dottrine di dettaglio su questo o quell’aspetto della concezione fisica epicurea. Per Epicuro e l’epicureismo, come per i primi filosofi, molto ci è restituito anche per tradizione indiretta, cioè sotto forma di citazione in opere di altri filosofi o eruditi. Le fonti Fondamentale è in questo senso l’apporto di Diogene Laerzio (scrittore greco del III secolo d.C.), il quale proprio a Epicuro ha dedicato tutto il X libro delle sue Vite dei filosofi, restituendoci per intero tre epistole dottrinarie (a Erodoto sulla fisica; a Pitocle sui fenomeni celesti; a Meneceo sull’etica), nonché quel genuino distillato della filosofia epicurea rappresentato dalle Massime capitali. Un altro estratto del pensiero epicureo, sempre sotto forma di massime, è offerto da un codice che conserva le sue sentenze morali, il cosiddetto Gnomologio Vaticano. Sulla tradizione indiretta e i frammenti vedi anche la scheda a p. 32. Le forme letterarie Sia nel caso dei compendi di dottrina epicurea o delle lettere, sia in quello delle brevi sentenze, emerge una caratteristica di fondo della produzione di Epicuro: la sua volontà di affidare il messaggio filosofico a forme letterarie e comunicative particolarmente adatte a facilitarne la memorizzazione, quasi una sorta di breviari da portare sempre con sé e da utilizzare in ogni occasione. Le fonti interne Vanno infine considerate altre fonti, interne alla scuola, come Filodemo, Lucrezio o Diogene di Enoanda, oppure ad essa esterne, totalmente o parzialmente ostili, come per esempio il già ricordato Cicerone o Plutarco da una parte, Seneca dall’altra: anch’esse hanno mantenuto traccia di una dottrina che per adesione o contrapposizione costituiva un oggetto di studio o polemica privilegiato.
Il riesame dei testi e la rivalutazione
La vita e le opere Epicuro nacque nel 341 a.C. a Samo. Dopo lunghi viaggi si trasferì ad Atene dove fondò, nel 306, la sua scuola. Morì nel 270 a.C. Dei molti scritti di Epicuro ci sono state tramandate, grazie allo scrittore greco del III secolo d.C. Diogene Laerzio, tre epistole dottrinali: a Erodoto, a Meneceo e a Pitocle, insieme alle Massime capitali. Restano inoltre le sentenze morali dello Gno-
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mologio Vaticano epicureo e numerosi frammenti delle lettere. Molti materiali sono stati recuperati grazie alla scoperta, intorno al 1750, dei papiri di Ercolano, tra i quali Sulla natura, in trentasette libri. Abbiamo altresì numerose testimonianze indirette, tra cui quelle dello scettico Sesto Empirico (vedi p. 397 ss.), di Cicerone (106-43 a.C.), Plutarco (45-125 d.C.) e del poeta latino Lucrezio (vedi p. 358).
Il sistema
Per comprendere adeguatamente il pensiero di Epicuro va detto in primo luogo che egli accetta la tripartizione della filosofia in logica, fisica ed etica, iniziata già all’interno dell’Accademia platonica e poi divenuta tipica nel periodo ellenistico. Egli si occupa dunque in modo specifico di questioni legate tanto alla fisica quanto all’etica, senza trascurare tuttavia di elaborare, in funzione quasi introduttiva, una sua logica. La logica come canone Quest’ultima ha una funzione specifica e va intesa come la dottrina fondamentale del «canone» o criterio, che si occupa del metodo più adatto con cui conosceLogica, fisica, etica
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Parte prima L’età antica
Il sensismo alla base del processo conoscitivo
La formazione delle opinioni
Le anticipazioni o prolessi: i concetti
Prolessi, esperienza, linguaggio
T3
Le prolessi
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, par. 33
L’uso della ragione nella riorganizzazione delle sensazioni
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re la realtà e agire al suo interno; come ci attesta ancora Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, 10,31): «Nel Canone Epicuro afferma che criteri della verità sono le sensazioni (aisthèseis), le anticipazioni (prolèpseis) e le affezioni (pàthe)». Rispetto al nostro modo di conoscere la realtà, la soluzione epicurea difende dunque una forma radicale di sensismo. Solo le sensazioni, infatti, attraverso un meccanismo percettivo inteso in modo materialistico, ‘fotografano’ immediatamente le cose. Per di più esse lo fanno senza cadere nell’errore, la cui origine va ricercata invece nella nostra opinione o dòxa, che pretende di oltrepassare il piano dei sensi e che aggiunge il nostro giudizio alle rappresentazioni fornite dai sensi. Se infatti le sensazioni sono massimamente evidenti, esse riproducono perfettamente la realtà / verità degli oggetti da cui provengono; se invece non lo sono, allora non si impongono immediatamente, ma vanno controllate, per esempio disponendo i nostri organi di senso nelle condizioni ideali o migliori perché possano percepire gli oggetti esterni. In questo processo di controllo e aggiustamento percettivo si fanno spazio le nostre opinioni, che possono essere o vere, se e quando confermate o comunque non smentite da ulteriori esperienze sensibili, o false, se e quando da queste ultime non confermate o smentite. La stessa centralità delle sensazioni è alla base del secondo criterio enunciato nel brano di Diogene Laerzio ricordato in precedenza: le anticipazioni (prolèpseis), in grado di facilitare o comunque rendere più rapidi i nostri processi cognitivi. Anche le anticipazioni o prolessi, infatti, hanno una solida radice sensistica: esse altro non sono che sensazioni, ripetute di continuo, condensate e poi conservate in virtù dell’ausilio fondamentale della memoria, fino a costituire quelli che possono essere forse definiti non impropriamente come «concetti». Esse sono a fondamento anche del linguaggio, nell’attribuzione di nomi comuni, mentre ci consentono di riconoscere e classificare gli oggetti che via via si presentano alla nostra esperienza, secondo un meccanismo così descritto nella dottrina epicurea: La prolessi dicono che è come un apprendimento o retta opinione, o idea, o nozione universale insita in noi, vale a dire la memoria di ciò che spesso si è presentato alla nostra mente dall’esterno come per esempio: quella cosa fatta in una determinata maniera è un uomo. Infatti, nel momento stesso che si dice uomo, grazie alla prolessi si pensa ai suoi caratteri secondo i dati precedenti delle sensazioni. Per ogni nome dunque ciò che immediatamente da esso è significato ha i caratteri dell’evidenza. E non potremmo mai ricercare alcunché se prima non ne avessimo avuto esperienza; come per esempio (quando ci domandiamo): «Quello laggiù è un cavallo o un bue?», bisogna che sia conosciuta già da prima la forma del cavallo e del bue, per mezzo della prolessi. Né potremmo mai nominare alcuna cosa se prima non ne conoscessimo per mezzo della prolessi i suoi caratteri. Le prolessi dunque sono chiare ed evidenti. Epicuro non esclude tuttavia la possibilità di riconoscere un ruolo conoscitivamente produttivo oltre che ai sensi anche alla dimensione della razionalità. Forte degli strumenti e dei risultati forniti dalla sensazione, infatti, egli descrive un quadro che lascia spazio a più raffinate operazioni legate all’uso dispiegato della ragione. Ad essa sembra infatti attribuito, grazie a un disciplinato uso dell’argomentazione per inferenza e analogia, il compito di raccogliere, di mettere a confronto e di ridistribuire in modo ordinato l’insieme delle sensazioni.
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo Oltre il visibile
Lo scopo è quello di elaborare modelli di spiegazione della realtà che sappiano spingersi oltre il piano della semplice evidenza per dar conto anche di ciò che non cade immediatamente sotto i sensi, di ciò che è costitutivamente impercettibile o àdelon (cioè «invisibile», «oscuro», «non evidente»). Si tratta di un tipo di argomentazione razionale che Epicuro ritiene di primaria importanza, al punto da sfruttarla per spiegare i fondamenti stessi della sua fisica.
Il sensismo di Epicuro Sensazioni
1) Nel loro processo di controllo, interpretazione e aggiustamento emergono le
opinioni
2) Attraverso la loro ripetizione e il loro ricordo si formano le
prolessi (o anticipazioni)
3) La loro raccolta, il loro confronto e la loro redistribuzione danno luogo alle
3 Atomismo e materialismo
inferenze che si spingono oltre il visibile
I principi della fisica Il nucleo basilare della fisica epicurea si richiama con forza, ma insieme con indubbia originalità, alla tradizione dell’atomismo, legata ai nomi di Leucippo e in particolare di Democrito (vedi Unità 1, p. 56 ss.). Il resoconto più ordinato e di facile memorizzazione è offerto dalla Epistola a Erodoto: in questa sorta di breviario della dottrina della natura (o physiologìa), Epicuro afferma infatti in modo radicale la sua visione materialistica, in una costante opposizione alle filosofie di Platone e di Aristotele.
Lo spazio atomico Il ragionamento che guida la riflessione epicurea ha sempre come punto di partenza le percezioni sensibili. Queste ultime ci mostrano in primo luogo tutto intorno a noi l’esistenza dei corpi, che sono più esattamente degli aggregati o composti, soggetti a formarsi e dissolversi di continuo. Sempre la sensazione, inoltre, ci attesta che nulla nasce dal nulla e nulla si distrugge nel nulla. In ogni processo naturale, sul modello delle realtà botaniche o più in generale biologiche, vediamo che lo sviluppo avviene a partire da semi o comunque da elementi di base, in cui poi ogni divenire si risolve. Gli atomi In virtù di queste osservazioni empiriche Epicuro postula l’esistenza di particelle di materia sicuramente invisibili e sottratte ai sensi, ma che sono i costituenti ultimi di ogni corpo o aggregato così come noi lo osserviamo. Tali particelle elementari hanno a loro volta la caratteristica, come già sai, di non essere ulteriormente scomponibili: sono insomma letteralmente degli «atomi» o indivisibili, da cui tutto deriva e in cui tutto si dissolve (in greco àtomos significa «indivisibile»; vedi «Parole chiave», p. 62). Il vuoto Oltre agli atomi, elementi ultimi (stoichèia) di ogni cosa, Epicuro pone anche un altro principio, che in modo complementare risulta indispensabile per la spiegazione fisica: il vuoto. Anche in questo caso è l’evidenza sensibile che consente di
Il divenire dei corpi
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inferirne la necessaria esistenza. La nota più evidente nella natura che ci circonda è infatti la presenza del movimento; se dunque i corpi si muovono, allora bisogna ammettere che ciò accade perché – contro l’ipotesi aristotelica di un universo assolutamente pieno – c’è un vuoto in cui essi possono muoversi. La dimostrazione Per gli epicurei una simile conclusione è frutto di una vera e propria dimostrazione, articolata nella forma di un ragionamento ipotetico.
T4
L’esistenza del vuoto
Sesto Empirico, Contro i logici 8,314
Le caratteristiche del vuoto
Le qualità primarie degli atomi
Invisibilità e quantità
La divisibilità degli atomi: i «minimi»
Ecco perché la descrivono anche così: «è dimostrazione un’argomentazione che, mediante premesse convenute, rivela, secondo una deduzione, una conclusione nonevidente», come, ad esempio, nel caso seguente: «se c’è movimento, c’è vuoto; ma certamente c’è movimento; dunque c’è vuoto». L’esistenza del vuoto è non-evidente, ma risulta disvelata mediante un procedimento deduttivo e in base a premesse vere, ossia in base a «se c’è movimento, c’è vuoto» ed a «ma c’è movimento». Il vuoto è dunque condizione imprescindibile per la spiegazione della realtà. Della sua natura Epicuro offre un’articolata descrizione, intendendolo in prima istanza come concetto generico, ovvero come «natura intangibile». Si tratta di una sorta di spazio geometrico o estensione tridimensionale, che sussisterebbe poi in tre modi: 1) occupato da un corpo, e perciò come «luogo»; 2) non occupato, dunque come «vuoto» in senso stretto; 3) percorso dai corpi, ovvero come «spazio». Lo sforzo teorico di Epicuro si rivolge in ogni caso soprattutto all’esame della struttura, delle proprietà o qualità primarie degli atomi, individuate principalmente nella triade figura / peso / grandezza. Proprio in questo ambito la dottrina epicurea sembra presentarsi come una novità rispetto alle originarie tesi atomistiche, soprattutto democritee, anche in virtù di un confronto critico con le teorie fisiche di Aristotele. Questo è vero forse già nel caso dell’introduzione del peso, ma risulta ancor più chiaro nel momento in cui Epicuro nega l’esistenza di atomi che superino la soglia della visibilità. Contemporaneamente, pur ammettendo per ogni atomo un numero infinito di esemplari, egli considera il numero delle loro figure o tipi non infinito, ma finito, anche se inconcepibile per la nostra mente. Ancora più netta è la discontinuità nel caso della innovativa dottrina dei «minimi» (elàchista): benché infatti venga ribadita l’indivisibilità fisica degli atomi, viene esplicitamente ammessa una loro divisibilità teorica o matematico-geometrica, che tuttavia non va all’infinito, ma si ferma appunto a delle parti minime. Esse diventano così a loro volta gli elementi ultimi che il pensiero pone alla base degli atomi; nell’incrocio possibile delle loro combinazioni, esse servono poi a giustificare il fatto che gli atomi hanno grandezze diverse, ma non infinite né infinitamente grandi, tali cioè da diventare addirittura visibili.
Il moto atomico Per misurare fino in fondo l’originalità delle soluzioni fisiche epicuree (e apprezzarne nello stesso tempo l’attualità), bisogna infine esaminare la spiegazione del moto atomico. In primo luogo va ribadito che Epicuro assume come premessa indiscutibile il carattere eterno tanto degli atomi quanto del vuoto. 348
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
T5
L’eternità di atomi e vuoto Epicuro, Epistola a Erodoto, parr. 43-44
Il tutto infinito
1) Moti perpendicolari
2) Il rimbalzo
3) La declinazione (clinamen)
T6
Il clinamen
Lucrezio, La natura 2,216-224 e 284-293
Gli atomi poi hanno moto continuo e eterno e alcuni rimbalzano via lontano gli uni dagli altri, alcuni invece trattengono lì il loro rimbalzo quando siano compresi in un aggregato o impediti da altri atomi intrecciati; infatti la natura del vuoto che separa gli uni dagli altri è causa di tale fenomeno non essendo tale da opporre resistenza, e d’altra parte la solidità, che è loro propria, è causa del loro rimbalzare negli urti nei limiti in cui l’eventuale presenza di un intreccio di atomi non li rimette nella primitiva posizione turbata da tali urti. Non c’è un inizio di questi moti, essendo eterni sia gli atomi che il vuoto. I componenti ultimi della realtà esistono da sempre e per sempre e vanno a formare un tutto (to pan) infinito rispetto al quale non pare legittimo porsi domande sul presunto principio o inizio del moto. Per essere ancora più precisi, non ha senso andare a cercare un perché del moto, visto che esso è caratteristica coessenziale degli atomi una volta che li si pensi collocati nel vuoto. Alla luce di queste premesse teoriche, è probabile che in un primo momento Epicuro indicasse due soli tipi di moto. Così nell’Epistola a Erodoto si descrive dapprima il moto ininterrotto di caduta perpendicolare degli atomi verso il basso, con l’opportuna precisazione che in uno spazio infinito si può parlare di «basso», di «alto» o di «centro» solo in senso relativo (ovvero in riferimento all’osservatore e al punto che egli occupa nell’universo infinito) e non certo assoluto. A questo primo tipo di movimento atomico si affianca poi quello per rimbalzo, fondamentale per rendere conto delle possibilità di intreccio fra i vari atomi e dunque della formazione degli aggregati che sono sotto i nostri occhi. Solo in un secondo momento, forse anche pressato dalle critiche o dalle richieste di ulteriori precisazioni avanzate da avversari o nate all’interno del Giardino stesso, Epicuro sente il bisogno di analizzare in modo ancora più approfondito la questione, introducendo un terzo tipo di movimento degli atomi. Su questa dottrina siamo informati non solo attraverso le testimonianze, sicuramente non disinteressate e spesso malevole, di alcuni avversari dell’epicureismo (da Cicerone a Plutarco, per esempio), ma soprattutto grazie a una fonte interna. Nel suo poema filosofico La natura, infatti, Lucrezio presenta in modo ordinato e quasi con scansione logica i tre tipi di moto. Egli affianca dunque a quello rettilineo (per caduta dovuta al peso, secondo una «pioggia» perpendicolare caratterizzata nel vuoto da una uguaglianza di velocità, in greco isotàcheia, che rischierebbe di impedire ogni contatto o intreccio fra atomi) e a quello già ricordato per rimbalzo, la cosiddetta «declinazione» (clinamen). Ma nel tema ch’io tratto desidero che tu sappia anche questo: i corpi primi, quando in linea retta per il vuoto sono trascinati in basso dal proprio peso, in un momento del tutto indefinito e in un punto incerto deviano un po’ dal percorso quel tanto che basta per dire che è mutato il movimento. Se non solessero così declinare, tutti verso il basso come gocce di pioggia cadrebbero per il vuoto profondo, né sarebbe nato uno scontro né un urto si sarebbe prodotto fra i princìpi: così la natura non avrebbe creato mai nulla. […] Per questo, anche negli atomi è necessario tu ammetta che esiste oltre agli urti ed al peso un’altra causa di movimento, donde è in noi questo innato potere; poiché vediamo che niente può formarsi dal niente. Il peso infatti impedisce che tutto si produca per gli urti, quasi per forza esterna. Ma che la stessa mente non 349
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segua in ogni sua azione una necessità interna né, come sopraffatta, sia costretta a subire e a patire, questo ottiene la lieve declinazione degli atomi, in un punto indeterminato dello spazio e in un momento incerto.
Uno scarto casuale
Il valore etico del clinamen: l’autonomia della scelta
La descrizione del clinamen si articola nella testimonianza lucreziana verso due direzioni ben precise. Da un lato viene precisato che la deviazione si limita a uno scarto piccolo ovvero minimo, casuale e spontaneo dell’atomo in caduta, che avviene senza possibilità alcuna di determinarne tempo e localizzazione spaziale; questo scarto produce l’incontro e l’aggregazione degli atomi che danno luogo ai corpi. La dissoluzione di queste aggregazioni (cioè la «morte» dei corpi) è dovuta al continuo ‘bombardamento’ che essi subiscono da parte del moto degli atomi. D’altro canto il ricorso al clinamen sembra oltrepassare i confini della spiegazione fisica per assumere senso e valore etico. Esso dovrebbe infatti servire a negare ogni forma di determinismo fisico, portando la libertà fin nel cuore della materia. Il comportamento libero della mente verrebbe così giustificato non facendo ricorso a elementi esterni ed estranei alla struttura fisica del mondo, ma individuando la radice dell’autonomia delle nostre scelte nella stessa composizione materiale degli aggregati atomici, con una soluzione «indeterministica» ritenuta ancor oggi estremamente valida e produttiva.
Il moto atomico
1) Moti perpendicolari I tre movimenti degli atomi nello spazio
Gli atomi cadono in linea retta verso il basso, sempre inteso in senso relativo
2) Rimbalzo
Rimbalzando, gli atomi si aggregano tra loro
3) Clinamen (declinazione)
Cadendo gli atomi subiscono delle deviazioni casuali; sono esse, in verità, a permettere la loro aggregazione
Fenomeni celesti e tranquillità d’animo Altrettanto attuale e feconda all’interno della fisica epicurea, si mostra anche un’altra dottrina. Si tratta di quel particolare modo di intendere i cosiddetti fenomeni celesti (ta metèora), che costituisce l’oggetto privilegiato della Epistola a Pitocle e che si fonda sul criterio delle «spiegazioni multiple». Di fronte a specifici eventi meteorologici (moti degli astri, eclissi, terremoti, tuoni, fulmini, grandine, neve, e così via), Epicuro non vuole adottare un’unica soluzione, che potrebbe rischiare di cadere nella proposta assurda di cause mitiche per i fatti naturali; egli rifiuta inoltre, contro Platone e Aristotele, ogni lettura finalistica di tali fenomeni, sottratti dunque al governo e all’intervento degli dèi. Il pluralismo Preferisce piuttosto optare per una metodologia aperta e più produttiva sul piaepistemologico no conoscitivo, in grado di vagliare e presentare più spiegazioni contemporaneamente, a patto che esse si muovano in accordo con i fenomeni, nel senso di essere attestate dalle sensazioni o quanto meno da queste non smentite. Dalla fisica all’etica Questa scelta si rivela inoltre utile per garantire ancora una volta il vero obiettivo di ogni ricerca, che è il raggiungimento della piena tranquillità d’animo.
Le spiegazioni multiple e la negazione dell’intervento degli dèi
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
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La serenità e il verosimile
Epicuro, Epistola a Pitocle, parr. 86-87
Questo non si verifica nei fenomeni celesti, i quali hanno molteplici cause del loro verificarsi e della loro essenza molteplici determinazioni in accordo con le sensazioni. Non bisogna indagare la scienza della natura secondo vacui assiomi e legiferazioni, ma come richiedono i fenomeni. Perché la nostra vita non ha bisogno di irragionevolezza e di vuote opinioni, ma di trascorrere tranquilla. E si ottiene la massima serenità riguardo a tutti i problemi che vengono risolti secondo il metodo delle molteplici spiegazioni in accordo coi fenomeni, quando si ammetta in proposito, come è conveniente, il verosimile.
La psicologia L’anima e gli atomi
L’unione di anima e corpo
L’anima e gli èidola: la percezione
Le qualità secondarie
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Non mancano, all’interno della fisica epicurea, altri elementi di notevole rilievo, che si estendono a campi importanti della ricerca filosofica. Prendiamo per esempio la dottrina psicologica: Epicuro considera l’anima, al pari di ogni altra realtà, come un aggregato di atomi, come «un corpo sottile, sparso per tutto l’organismo, assai simile all’elemento ventoso e avente una certa mescolanza di calore, e in qualche modo somigliante all’uno, in qualche modo all’altro» (Epistola a Erodoto, par. 63). A contatto con il mondo esterno il particolare composto atomico dell’anima subisce affezioni e modificazioni, determinate dai processi percettivi, e nello stesso tempo trasmette al resto del corpo gli impulsi che ne guidano le reazioni. Si tratta di un meccanismo di interazione reciproca dell’insieme anima / corpo che funziona e regge se e fino a quando esso permane unito; come precisa Epicuro «non si può infatti concepire come senziente [l’anima] se non in questo complesso [di anima e di corpo], né che possa più avere quei moti, quando il corpo che la contiene e la circonda non sia più tale com’è ora, stando nel quale tali moti possiede» (Epistola a Erodoto, par. 66). Restando nell’ambito della percezione sensibile si deve ricordare che anche i processi di acquisizione dei dati dall’esterno vengono spiegati in maniera coerentemente materialistica. Un ruolo fondamentale viene in questo caso riconosciuto ai simulacri o èidola: si tratta di pellicole atomiche, che conservano la stessa forma degli oggetti da cui si staccano. Questi simulacri, di incredibile sottigliezza, si producono e si muovono con una velocità inconcepibile, secondo un flusso continuo che si riversa nell’ambiente circostante e va a colpire gli organi di senso, lasciando in essi una ben precisa impronta fisica. In questa interazione fra gli apparati percettivi del soggetto conoscente e la struttura atomica dell’oggetto conosciuto, fedelmente riprodotta dagli èidola, è infine possibile, secondo Epicuro, determinare anche lo spazio delle qualità cosiddette secondarie degli aggregati. Si tratta di caratteristiche (come per esempio colore, odore, sapore ecc.) non certo immutabili, ma anzi inevitabilmente soggette a variazione, nella misura in cui sono legate ai mutamenti che possono riguardare tanto il soggetto quanto l’oggetto.
L’annuncio di felicità Al di là del valore teorico e dell’interesse che può avere – forse ancor oggi – la spiegazione atomistica della realtà, bisogna tenere sempre presente l’esatta collocazione che Epicuro attribuisce alla sua fisica. Essa non può infatti essere con351
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Parte prima L’età antica
siderata autonoma, ma costituisce una sorta di introduzione al nucleo basilare della riflessione epicurea: l’etica. Ataraxia e aponìa Quest’ultima è contrassegnata dal tentativo di raggiungere il vero obiettivo per ➥ Laboratorio sul lessico, cui vale la pena compiere ogni sforzo: la felicità, intesa come piacere puro, assiFelicità, p. 429 curato dalla contemporanea assenza di turbamento nell’anima, l’atarassia (ataraxìa), e di dolore nel corpo (aponìa). Al riguardo Epicuro si esprime con chiarezza e precisione in due Massime capitali.
T8
Paura e conoscenza
Epicuro, Massime capitali
XI. Se non ci turbasse la paura delle cose celesti e della morte, nel timore che esse abbiano qualche importanza per noi, e l’ignoranza dei limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura. XII. Non era possibile dissolvere i timori riguardo a ciò che è più importante ignorando che cosa fosse la natura dell’universo ma vivendo in sospettoso timore per i miti. Così non era possibile senza lo studio della natura avere pure gioie. Studiare «la natura del tutto», dunque, non rappresenta un esercizio conoscitivo disinteressato e, in termini aristotelici, puramente teoretico. La fisica ha piuttosto un altro compito, che svolge bene solo se aiuta l’uomo a liberarsi da alcuni timori sempre in agguato.
Liberarsi dalle paure Gli dèi
Beatitudine e indifferenza divine
La presenza del male esclude l’intervento divino
T9
La negazione della provvidenza Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, 3
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In primo luogo la fisica deve renderci liberi dal terrore degli dèi, che pure secondo Epicuro sicuramente esistono. Ciò è confermato non solo dal generale consenso fra gli uomini, che li dipingono come esseri dalla forma umana, perfetti e massimamente felici, ma soprattutto dal fatto che in particolari condizioni, per esempio nel sonno, i loro simulacri si presentano alla nostra percezione mentale. Anche gli dèi sono fatti di atomi, ma sono indistruttibili, sottratti alla corruzione, eterni, perché in condizione di reintegrare continuamente la loro composizione materiale con l’apporto di nuovi atomi. La caratteristica fondamentale su cui Epicuro insiste di più, tuttavia, è la loro assoluta beatitudine. Gli dèi vivono infatti un’esistenza priva di qualsiasi dolore, negli spazi che si trovano fra un mondo e l’altro (o intermundia); non provano né generano alcun affanno, poiché non si occupano delle vicende cosmiche e delle faccende umane. Questa negazione di ogni provvidenza è chiaramente elaborata in polemica con la filosofia stoica (vedi p. 359 ss.), nonché probabilmente con quella platonica e, almeno in parte, aristotelica. Allo scopo di liberare gli uomini dalla paura di un intervento punitivo degli dèi (qui o in una presunta altra vita), inoltre, Epicuro offre una raffinata e stringente argomentazione, elaborata a partire dalla dolorosa constatazione della presenza del male nell’universo. (9) […] Chi afferma che una divinità esiste o dice che essa provvede a ciò che si trova nel cosmo o che non provvede, e se provvede, o a tutte le cose o ad alcune. Se tuttavia provvede a tutte le cose, non vi potrebbe essere nel cosmo male alcuno né malvagità; essi affermano però che tutte le cose sono piene di malvagità; pertanto non si affermerà che la divinità provvede a tutte le cose. (10) Se invece provvede ad alcune, perché provvede a queste e non a queste al-
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tre? O infatti e vuole e può provvedere a tutto, o vuole ma non può, o può ma non vuole, o né vuole né può. Se tuttavia e volesse e potesse, provvederebbe a tutto; ma in base a quanto precedentemente detto non provvede a tutto; dunque non risulta che e vuole e può provvedere a tutto. Se poi vuole, ma non può, è più debole della causa per cui non può provvedere alle cose a cui non provvede; (11) ma è contro la nozione di divinità l’esser più debole di qualcosa. Se poi può provvedere a tutto, ma non vuole, si dovrebbe credere che essa è invidiosa. Se infine né vuole né può, è sia invidiosa sia debole, e affermare ciò è proprio di chi è empio riguardo alla divinità. Pertanto la divinità non provvede a ciò che si trova nel cosmo. Come secondo obiettivo la corretta conoscenza della natura consente di evitare ogni angoscia rispetto all’insopportabile peso della mortalità. Una volta stabilita la corporeità dell’anima e una volta ricondotto alla sensazione ogni contatto con il mondo esterno, infatti, è possibile abbandonare le stolte speranze di immortalità e considerare la morte semplicemente per quello che è: un evento fisico, che sancisce la fine dell’uomo come aggregato atomico e senziente. La vita buona La motivazione che Epicuro offre per questo ridimensionamento della paura della morte mira a trasformarsi in una sorta di benefica abitudine mentale. Innanzi tutto essa rassicura sull’impossibilità di una compresenza reciproca fra il nostro vivere e il nostro morire e invita inoltre a valutare la nostra esistenza sul piano non della quantità, ma della qualità: davvero importante non è vivere tanto, ma vivere bene.
La paura della morte
T10
La morte non è nulla
Epicuro, Epistola a Meneceo, parr. 124-126
Abìtuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere più. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per quelli non c’è, questi non sono più. Ma i più, nei confronti della morte, ora la fuggono come il più grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i più abbondanti, ma i migliori, così del tempo non il più durevole, ma il più dolce si gode.
Conquistare il piacere e neutralizzare il dolore ➥ Percorso tematico, p. 415
Lo sforzo di chiarificazione offerto dalla fisica non ha solo la funzione di spazzare via l’elemento negativo della paura. Esso ha anche un aspetto costruttivo e si rivela indispensabile per persuaderci 353
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La centralità del piacere
Il piacere in quiete
La scelta dei piaceri
➥ Percorso tematico, p. 415
T11
Il calcolo dei piaceri
Epicuro, Epistola a Meneceo, par. 129
La classificazione dei desideri
Naturali, necessari e non
La scelta dei desideri: naturali e necessari
Piacere e dolore
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della piena conquistabilità del vero fine verso cui indirizzare ogni nostro sforzo morale: il piacere. È infatti innegabile che il messaggio epicureo insiste nel porre come criterio etico centrale il piacere, partendo dall’osservazione del comportamento degli esseri viventi (animali e uomini) sin dal loro primo istante di vita: ogni neonato, infatti, ricerca naturalmente tutto ciò che dà sensazioni piacevoli, fuggendo invece ogni cosa o evento che possa arrecare dolore. Questo tipo di piacere non va tuttavia inteso nel senso dello sfrenato godimento dei sensi, né come movimento privo di limiti o confini, che rischierebbe di rinviare all’infinito il possesso della vera felicità. Il piacere di Epicuro non è insomma un piacere in movimento (o «cinetico»), bensì in quiete (o «catastematico»), per descrivere il quale spesso viene utilizzata la metafora della bonaccia sul mare. Un simile piacere viene del resto presentato – quasi a voler riproporre in modo originale le linee di fondo di quella scienza della misura («scienza metretica») descritta da Socrate nel Protagora – come il risultato di un «sobrio ragionamento», che sa operare un calcolo attento del peso specifico da attribuire a ogni singolo momento di godimento o stato di dolore. E poiché questo [cioè il piacere] è il bene primo e connaturato, per ciò non tutti i piaceri noi eleggiamo, ma può darsi anche che molti ne tralasciamo, quando ad essi segue incomodo maggiore; e molti dolori consideriamo preferibili ai piaceri quando piacere maggiore ne consegua per aver sopportato a lungo i dolori. Tutti i piaceri, dunque, per loro natura a noi congeniali, sono bene, ma non tutti sono da eleggersi; così come tutti i dolori sono male, ma non tutti sono tali da doversi fuggire. In base al calcolo e alla considerazione degli utili e dei danni bisogna giudicare tutte queste cose. Talora infatti sperimentiamo che il bene è per noi un male e di converso il male è un bene. Alla base di questo esame attento delle condizioni di scelta del bene e del male sta un’altrettanto accurata classificazione del campo dei nostri possibili desideri, sentiti da Epicuro come condizioni di privazione e mancanza, che possono provocare, se non soddisfatti adeguatamente, sofferenza e dolore. I diversi tipi di desiderio vengono elencati con chiarezza in un’altra Massima capitale (29): «Dei desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali ma non necessari, altri poi né naturali né necessari, ma nascono da vana opinione. [Epicuro considera naturali e necessari quei desideri che ci liberano dai dolori del corpo, come bere quando si ha sete; naturali ma non necessari quelli che non sottraggono il dolore del corpo, ma solo variano il piacere, come i cibi opulenti; né naturali né necessari quelli come il desiderio di corone o di statue in proprio onore]». All’interno di questo complesso insieme di desideri occorre operare una drastica scelta: solo quelli naturali e necessari, la cui soddisfazione è del resto facile, alla portata di tutti e dunque priva di angoscia, meritano la nostra attenzione e il nostro impegno etico. È questo il quadro entro cui interpretare correttamente il richiamo al tanto disprezzato «piacere del ventre», che nasce dall’appagamento dei soli bisogni primari o essenziali. Il raggiungimento del piacere, di questo tipo elementare e addirittura frugale di piacere, non può del resto essere mai separato dalla convinzione che il suo op-
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posto, il dolore, non rappresenta un evento insopportabile o assoluto. Al contrario, proprio di fronte alla sofferenza è possibile e legittimo adottare una strategia che aiuta insieme a sopportarla e a neutralizzarla. Il dolore neutralizzato Nella spiegazione (e nella consolazione, si potrebbe aggiungere) che Epicuro fornisce due sono infatti le alternative: quando il dolore è forte, anzi fortissimo, conduce alla morte, ma allora non è più nulla per noi, né costituisce motivo di angoscia; quando invece si trasforma in una presenza durevole o cronica, diventa poca cosa e ci accompagna, trasformandosi quasi in un quotidiano compagno di viaggio della nostra esistenza.
La vita felice Sono queste le linee di fondo del «quadruplice rimedio» o tetraphàrmakos, proposto da Epicuro come ricetta di una vita felice, la cui presentazione viene efficacemente condensata nelle prime quattro Massime capitali.
T12
La tetraphàrmakos
Epicuro, Massime capitali
I. L’essere beato e immortale non ha né procura agli altri affanni; così non è soggetto né all’ira né alla benevolenza. Queste cose infatti sono proprie dell’essere debole. [In altre opere dice che gli dèi sono conoscibili solo con la mente; alcuni sussistono nella individualità materiale, altri nella somiglianza di forma, prodotti dal continuo flusso di simulacri simili volti a costruire lo stesso oggetto]. II. Nulla è per noi la morte; perché ciò che è dissolto è insensibile, e ciò che è insensibile non è niente per noi. III. Il limite in grandezza dei piaceri è la detrazione di ogni dolore. E dovunque è piacere, e per tutto il tempo che persiste non c’è né dolore fisico né spirituale né ambedue. IV. Non dura ininterrottamente il dolore della carne, ma il massimo rimane il minimo tempo, e quello che appena supera il piacere della carne non dura molti giorni; anzi le lunghe malattie danno alla carne più piacere che dolore.
La tetraphàrmakos Liberarsi dal timore degli dèi Il quadruplice rimedio
Liberarsi dalla paura della morte Vita felice Conquistare il piacere Neutralizzare il dolore
Si tratta di precetti che, se applicati adeguatamente, consentono a chi risponde all’appello esistenziale epicureo di vivere «come un dio fra gli uomini», secondo l’efficace slogan che chiude l’Epistola a Meneceo. Appare qui tutta la forza terapeutica del messaggio filosofico, più volte ribadita nella visione epicurea di una filosofia come cura dell’anima. È su questo sfondo che emerge l’orizzonte quasi ‘salvifico’ offerto alla riflessione umana da Epicuro. La virtù strumentale Esso guarda alle condizioni della nostra esistenza nella loro assoluta semplicità, al conseguimento rendendole così immediatamente fruibili e godibili. Di fronte alla facilità del videl piacere vere non serve richiamarsi a presunti valori superiori, neppure alla tanto celebraCome un dio
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ta virtù, cui Epicuro sembra riconoscere un valore unicamente strumentale e funzionale al raggiungimento del vero fine che è il piacere (Sul fine): E se vorranno ciarlare di virtù e saggezza nient’altro indicheranno se non quella via per cui si conseguono i piaceri che ho detto: […] Si onori il bello e le virtù e le altre cose del genere se procurano piacere, se non lo procurano lasciamole andare in pace.
Sembra dunque che la filosofia epicurea miri a spogliare la nostra esistenza di ogni pregiudizio, per ridurla al richiamo essenziale di una sorta di grado zero della soddisfazione, come si legge con sintesi estrema, ma efficacissima in una sentenza che è quasi un monito perenne di felicità: «Grida la carne: non aver fame non aver sete non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle, anche con Zeus può gareggiare in felicità» (Gnomologio Vaticano, 33). Vivere nel presente L’etica epicurea può essere compresa ancora meglio se si coglie adeguatamente un altro aspetto significativo, legato al fattore temporale. Epicuro raccomanda infatti continuamente di vivere fino in fondo la dimensione positiva del presente, senza tuttavia attribuire alcun peso angosciante al futuro e riconoscendo al passato, se vissuto secondo i precetti della retta filosofia, la capacità di produrre gioia, al punto da lenire perfino i più forti dolori in cui possiamo imbatterci. L’ultima lettera scritta da Epicuro – da un Epicuro afflitto da un male incurabile e ormai morente – ce lo conferma in pieno.
Essenzialità della soddisfazione
T13
Le gioie del ricordo
Epicuro, Epistola a Idomeneo
Era il giorno beato e insieme l’ultimo della mia vita quando ti scrivevo questa lettera. I dolori della vescica e dei visceri erano tali da non poter essere maggiori; eppure a tutte queste cose si opponeva la gioia dell’anima per il ricordo dei nostri passati ragionamenti filosofici. Tu ora, come è degno della buona disposizione che hai avuto fin da giovinetto per me e per la filosofia, abbi cura dei figli di Metrodoro.
Vivi nascosto Ben lontano da eccessi, il progetto etico epicureo è retto da un estremo equilibrio, da un razionale autocontrollo, da una serena accettazione dei limiti e insieme delle opportunità della nostra condizione umana. In questo suo sforzo di positiva integrazione nel flusso del reale, inoltre, l’uomo formatosi alla scuola di Epicuro prende la decisione di «vivere nascosto». Rispetto delle norme Ciò non significa che egli si tiene lontano da qualsiasi coinvolgimento nella vita e idea di giustizia politica o associata. È vero che quest’ultima è ormai sottratta al suo pieno dominio, ma la sua utilità viene riconosciuta sulla base del rispetto delle norme giuridiche stabilite convenzionalmente. Sullo sfondo di un diritto nato dal reciproco accordo degli uomini per non avere né creare danni trova spazio anche un’idea di giustizia che ha perso il carattere assoluto, ideale e normativo, attribuito ad essa soprattutto da Platone o ancora in parte da Aristotele: «Non è la giustizia un qualcosa che esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di non recare né ricevere danno» (Massime capitali, 33). Gli affanni della gloria Secondo Epicuro vanno comunque fuggite quelle forme di partecipazione politica che mirano senza tregua al raggiungimento della gloria o all’esercizio del potere; queste ultime, infatti, sono un pericolo costante sulla via della felicità, poi356
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ché si rivelano fonte unicamente di affanno o di turbamento. Una simile scelta, che sicuramente rappresenta anche una risposta alla difficile situazione venutasi a creare in età ellenistica, non si risolve tuttavia nel rifiuto di qualsiasi rapporto interpersonale. Invece di investire in estrinseci, artificiali o improduttivi nessi sociali e politici, Epicuro indica una strada diversa. Valore dell’amicizia La sicurezza e la completezza nelle relazioni umane può essere garantita da quel bene grandissimo che è l’amicizia interna al Giardino. Non si tratta di un legame passeggero o di un rapporto ancorato a situazioni effimere; abbiamo piuttosto a che fare con un valore nel senso più forte del termine. L’amicizia nasce senz’altro dall’utilità, ma è desiderabile di per sé, perché è proprio essa che «percorre danzando la terra, recando a noi tutti l’appello di destarci e dire l’uno all’altro: felice!» (Gnomologio Vaticano, 52). È una valutazione piena di entusiasmo, riproposta nelle Massime.
T14
L’amicizia
Epicuro, Massime capitali
Ridere e filosofare
5
XXVII. Di tutti quei beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia. XXVIII. La medesima persuasione che ci rassicura che nessun male è eterno o durevole, ci fa anche persuasi che in questo breve periodo della vita esiste la sicurezza dell’amicizia. L’accettazione dei precetti epicurei non si risolve in un mero esercizio di scuola; essa costituisce la via maestra per una trasformazione a tutto tondo dell’uomo. Quell’annuncio di felicità, rimeditato e attuato con serena costanza, consente infatti di raggiungere la perfezione, incarnata nella figura del saggio o sophòs (su questo tema vedi avanti, p. 372 ss.). Si tratta di una condizione mai assoluta, anzi sempre relativa, perché segnata dal tempo definito e limitato della nostra esistenza; ma si tratta anche di una condizione alla portata di tutti e soprattutto capace di garantire una reale integrazione fra la scelta di una filosofia (quella epicurea, ovviamente) e ogni aspetto della nostra vita quotidiana, poiché: «bisogna ridere e insieme filosofare e attendere alle cose domestiche e esercitare tutte le altre nostre facoltà, e non smettere mai di proclamare i detti della retta filosofia» (Gnomologio Vaticano, 41).
L’eredità epicurea
La secolare vicenda della scuola epicurea, come già ricordato, è tutta incentrata intorno alla figura del maestro e fondatore. Restando sempre fedeli al suo insegnamento, tutti i suoi successori e seguaci mantengono un atteggiamento di sostanziale ortodossia e di profondo rispetto per le dottrine basilari. Esse, oggetto di ripetizione o assidua memorizzazione, vengono sottoposte a modifiche solo marginali o utilizzate per esplorare terreni nuovi, senza tuttavia allontanarsi dal solco tracciato da Epicuro. Un esempio L’esempio forse estremo di questa venerazione è offerto da un tardo discepolo in di devozione una lontana provincia dell’impero romano, Diogene di Enoanda. Ancora nel II secolo d.C. egli arriva a far realizzare su di un alto muro nella piazza della sua cittadina un’iscrizione, che offra a tutti un compendio della filosofia epicurea.
Ortodossia della scuola epicurea
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Parte prima L’età antica L’epicureismo a Roma
Filodemo di Gadara
L’opera di Lucrezio
La svolta epicurea: razionalità contro superstizione
Epicuro come Prometeo
T15
Divino Epicuro Lucrezio, La natura, 5,1-12 e 18-21
➥ Sommario, p. 402
Questo quadro è confermato nelle sue linee di fondo dall’esame delle poche notizie relative alle figure dei primi successori di Epicuro; esso diventa ancora più chiaro e ricco quando nel I secolo a.C. l’epicureismo approda a Roma, dove emergono in primo piano soprattutto due personalità. Da una parte abbiamo infatti il greco Filodemo di Gadara (110-35 ca. a.C.), che tenta di sistemare la dottrina epicurea e insieme di ampliarla verso ambiti nuovi: per esempio verso l’analisi logica dei processi inferenziali a base empirica nello scritto Sui segni o ancora verso l’esame, sorretto da numerosi spunti polemici, di una serie di atteggiamenti etici particolari nell’opera Sui vizi e sulle virtù. Dall’altra si deve ricordare l’eccezionale lavoro di sintesi operato da Lucrezio con i sei libri del suo poema La natura. Allo strumento efficace e duttile di una grande poesia egli affida il compito di divulgare i principi basilari della filosofia epicurea: dalle nozioni elementari della fisica a quelle relative ai fenomeni celesti, dalle condizioni di possibilità per una vita felice alla descrizione del processo di progressivo incivilimento dell’umanità. Sullo sfondo di questa esposizione, spesso sorretta da una partecipazione emotiva fortissima, Lucrezio intende celebrare il ruolo unico di Epicuro, vero spartiacque ai suoi occhi fra un «prima», segnato da atteggiamenti di superstizione, credulità e ignoranza, e un «adesso» in cammino verso un «dopo» sempre più positivo, rischiarato da un esercizio pieno e maturo della razionalità, che elimina ogni timore e costruisce le solide basi di un futuro di serenità. I versi lucreziani propongono dunque in più punti l’immagine di un Epicuro dalla fisionomia divina, benefattore supremo degli uomini, secondo uno schema che ancora il filosofo ottocentesco Karl Marx, nella sua dissertazione su Democrito ed Epicuro, avrebbe ripreso, assimilando l’antico filosofo alla figura mitica di Prometeo, liberatore dell’umanità dalle catene della servitù intellettuale. Questa raffigurazione è esemplificata nella Natura. Chi può con ingegno potente comporre un degno canto, che adegui la maestà delle cose trattate e queste scoperte? O chi vale tanto con la parola, da esprimere lodi convenienti ai meriti di colui che ci lasciò tali doni, cercati e conquistati dal suo intelletto? Nessuno ci sarà, io credo, fra i nati di corpo mortale. Che se dobbiamo parlare come esige la maestà conosciuta del vero, un dio fu, un dio, o nobile Memmio, chi primo scoprì la norma di vita ora chiamata sapienza, e con la dottrina da così alti flutti e da tenebre così fonde trasse la vita e la collocò in un porto così tranquillo e in così chiara luce. […] Ma vivere bene non si poteva senz’animo puro; tanto più a ragione, dunque, ci appare un dio quest’uomo grazie al quale anche ora, sparsi tra i grandi popoli, acquietano gli animi i dolci conforti della vita.
La vita e le opere Tito Lucrezio Caro nacque nel 98 circa a.C. Della sua vita sappiamo pochissimo; compose il poema filosofico in versi La natura, in sei libri, che alla sua morte venne
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pubblicato da Cicerone. Il poema rivela una fortissima vicinanza alla filosofia di Epicuro; probabilmente, infatti, la fonte principale di Lucrezio dovette essere l’opera epicurea Sulla natura. Il poeta morì nel 54 circa a.C.
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Lo stoicismo
3 I testi
Diogene Laerzio Vite dei filosofi: L’unità del sapere filosofico, T16; Le due rappresentazioni, T17; I cinque ragionamenti indimostrati, T22; La natura del cosmo, T23; L’unitarietà delle virtù, T26 Sesto Empirico Contro i logici: La rappresentazione comprensiva, T18; La centralità dell’esperienza, T20 Cicerone Lucullo: Il paragone di Zenone, T19 Sesto Empirico Lineamenti pirroniani: Gli argomenti dimostrativi, T21 Plutarco In Stoici antichi: La ragione divina, T24 Nemesio In Stoici antichi: Il ritorno dell’identico, T25 Stobeo In Stoici antichi: La grandezza del saggio, T27
Ippolito In Stoici antichi: Il cane e il carro, T28 Cicerone De finibus: La mitezza di Panezio, T29 Galeno In Testimonianze e frammenti: L’anima tripartita, T30 Seneca Ricerche sulla natura: Sulla morte, T31; La natura distruttrice, T32 Lettere a Lucilio: Il potere della filosofia, T33 Epitteto Manuale: Le cose in nostro potere e le altre, T34; Tener fermi i principi, T35 Marco Aurelio A se stesso: L’abisso del tempo infinito, T36; L’incessante dileguarsi dell’esistente, T37
Per comprendere fino in fondo la fisionomia dell’altra grande scuola filosofica ellenistica, quella stoica, segnata da una netta rivalità nei confronti dell’epicureismo, bisogna in primo luogo tener conto delle radici socratiche e ciniche, che sicuramente la caratterizzano ai suoi inizi e che altrettanto sicuramente ritroviamo in alcune delle sue più note dottrine. Nel suo sviluppo ampio, sia dal punto di vista cronologico sia da quello geografico, inoltre, questa scuola ebbe modo di assimilare ulteriori stimoli, determinando così al suo interno una grande varietà di proposte e di riflessioni. Le tre fasi La lunga storia dello stoicismo antico viene di consueto divisa in tre periodi: 1) stoicismo antico; 2) stoicismo medio; 3) stoicismo tardo o romano, sviluppatosi ben oltre i limiti cronologici dell’età ellenistica, per arrivare fino alla piena età imperiale, nel II secolo d.C.
Le radici dello stoicismo
1
Nascita e sviluppo dello stoicismo antico Rispetto alla fase iniziale dello stoicismo il primo nome da ricordare è quello del fondatore Zenone di Cizio, che intorno al 300 a.C. apre la scuola in una zona centrale di Atene, scegliendo come sede il «portico dipinto» (stoà poikìle). 359
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Zenone di Cizio Dopo essersi ‘convertito’ alla filosofia, come ci narrano alcune fonti, grazie alla lettura dei Memorabili di Senofonte e soprattutto grazie al suo discepolato diretto presso uno dei grandi nomi del cinismo dell’epoca, Cratete di Tebe, Zenone, forse anche sotto l’influsso di Platone, elabora inizialmente, soprattutto nella sua Repubblica, l’immagine di una città ideale di sapienti, fondata su tesi politiche e sociali decisamente radicali. La politica Egli arriva infatti a proporre l’abolizione di istituzioni consolidate (come la moneta o il matrimonio) e ad ammettere perfino la legittimità di comportamenti lontani dalle norme comunemente accettate, come per esempio l’incesto o l’antropofagia: il presupposto di queste tesi è che tutto ciò che fa chi è veramente «saggio» è moralmente accettabile, anche se appare scandaloso agli occhi degli sciocchi (perché per esempio gettare via i cadaveri se essi possono servire a nutrire i vivi?). La dialettica Dopo questo primo periodo Zenone ridimensiona la sua adesione al cinismo e si volge più intensamente allo studio della dialettica, dedicandosi a un’opera di consolidamento della propria scuola. Si tratta di un compito particolarmente complicato, sia in virtù della dura polemica avviata contro Zenone da parte dello scetticismo accademico con Arcesilao (vedi p. 388 ss.), sia per le posizioni eterodosse assunte anche da personalità interne alla scuola. Aristone di Chio Importante al riguardo è soprattutto Aristone di Chio, pronto a un recupero ancor più radicale del cinismo e per questo convinto di dover limitare l’analisi filosofica alle sole questioni etiche, con una sottolineatura del ruolo unico della virtù per la conquista della felicità. La formazione
La vita e le opere Zenone di Cizio nacque a Cizio (Cipro) nel 334/333 a.C.; di origine e di lingua fenicia, si trasferì nel 313 ad Atene, dove frequentò le lezioni dell’accademico Polemone, del megarico Diodoro Crono e del cinico Cratete. Fondò la sua scuola nel 300 circa, e morì nel 262/261. Tutti i suoi scritti sono andati perduti; sappiamo tuttavia che compose le seguenti opere: La Re-
pubblica, I segni, Il discorso, La vita secondo natura, Le passioni. Aristone di Chio visse nel III secolo a.C.; fu discepolo di Zenone, del quale però abbandonò la scuola per fondarne una propria; ci sono pervenuti alcuni frammenti delle seguenti opere: Lezioni, Paragoni, Repliche alle critiche di Alessino.
I successori e le fonti Con i successori di Zenone la scuola torna ad assumere una struttura più forte, aperta a indagini di più ampio respiro ed estesa ad ambiti diversi. È ciò che accade con Cleante di Asso, particolarmente interessato agli aspetti fisici e teologici della riflessione filosofica, affrontati in veste poetica soprattutto nel suo Inno a Zeus, in cui dichiara che «tutto procede da Zeus e da Zeus ha inizio» (l’incipit dell’inno diviene un tòpos poetico più volte citato nella letteratura successiva). Crisippo di Soli Più tardi, Crisippo di Soli, forte della sua abilità nel discutere e della sua capacità di scrittura (come mostrano gli oltre settecento scritti a lui attribuiti, tutti perduti), si preoccupa di raccogliere la sfida scettica e di rinsaldare le basi teoriche della propria dottrina, al punto da essere considerato una sorta di ‘secondo fondatore’ dello stoicismo.
Cleante di Asso
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Dopo Crisippo si segnalano dibattiti e discussioni interne alla scuola, che vedono in primo piano personalità come quelle di Diogene di Seleucia e di Antipatro di Tarso. Essi si impegnano particolarmente nella definizione più corretta del vero fine dell’azione morale, chiudendo la fase dello stoicismo antico. Il problema delle fonti Nonostante le fonti ci lascino intuire, per questi autori così come per i successivi esponenti della scuola stoica, dottrine, prese di posizione e spunti polemici di grande profondità, quasi nulla dei loro scritti, purtroppo, è giunto direttamente fino a noi. Il loro pensiero, con difficoltà e con paziente lavoro insieme filologico e storico, può dunque essere ricostruito solo sulla base di materiale di seconda o terza mano, estremamente frammentario, spesso proveniente da fonti ostili o quanto meno da ricostruzioni manualistiche non sempre approfondite e accurate. Il dibattito successivo
La vita e le opere Cleante di Asso nacque nel 331 a.C.; succedette a Zenone nella direzione della scuola nel 264, rimanendovi fino alla morte, nel 230/229, che secondo la tradizione avvenne per inedia. Tra i vari frammenti delle opere a noi pervenuti spicca un Inno a Zeus, del quale abbiamo un brano di quaranta versi.
Crisippo di Soli nacque a Soli (Cipro) nel 280/276 a.C.; fu allievo di Cleante per quasi trent’anni, quando, alla morte del maestro, gli succedette nella direzione della scuola; morì ad Atene nel 208/204. Delle settecento e più opere da lui scritte, che gli conferirono una grande fama nell’antichità, ci restano pochi frammenti.
Il sistema Relazione sistematica tra logica, fisica, etica
T16
L’unità del sapere filosofico
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 7,39-40
L’ordinamento di Zenone
Nonostante la suddetta difficoltà, è possibile cogliere fin dall’inizio una caratteristica basilare della dottrina stoica. Accogliendo la tripartizione della filosofia in logica, fisica ed etica, infatti, gli stoici intendono sin da Zenone accentuarne il carattere sistematico, con paragoni che mostrano la relazione indissolubile fra le sue parti. Con gli stoici si impone dunque una concezione della filosofia come realtà organica costituita da parti non separabili l’una dall’altra, a nessun livello e da nessun punto di vista, come emerge chiaramente da questa testimonianza di Diogene Laerzio: Gli Stoici paragonano la filosofia ad un essere vivente: alle ossa ed ai nervi corrisponde la Logica, alle parti carnose l’Etica, all’anima la Fisica. Oppure la paragonano ad un uovo: la parte esterna, il guscio, è la Logica, la parte seguente, il bianco, è l’Etica, la parte più interna, il tuorlo, è la Fisica. Oppure la paragonano ad un fertile campo: la siepe esterna è la Logica, il frutto è l’Etica, la terra o gli alberi la Fisica. Oppure la paragonano ad una città ben munita di mura e razionalmente amministrata. E nessuna parte è separata dall’altra, come pur dicono alcuni Stoici, ma sono tutte piuttosto strettamente congiunte fra loro. Anche l’insegnamento veniva trasmesso congiuntamente e non separatamente. Altri danno il primo posto alla Logica, il secondo alla Fisica, il terzo all’Etica: tra costoro è Zenone nel libro Sulla Logica, oltre a Crisippo, Archedemo ed Eudromo. Fra le varie soluzioni proposte all’interno della scuola rispetto all’esatto ordine da attribuire, in vista di una più chiara esposizione e spiegazione, alle tre parti dell’indagine filosofica, la scelta più appropriata appare forse quella inaugurata già da Zenone. Il primo posto spetta allora alla logica, il secondo alla fisica e il terzo all’etica, culmine e completamento di una trattazione genuinamente sistematica. 361
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Parte prima L’età antica Il sistema di Zenone
La tripartizione del sapere
Primo posto: logica
2 Le differenze da Aristotele
Allargamento dell’ambito di indagine
Retorica e grammatica
Il ruolo primario della dialettica
Secondo posto: fisica
Terzo posto: etica
La logica Se esiste un tratto caratteristico della logica stoica questo è senz’altro costituito dal fatto che essa si mostra decisamente, e consapevolmente, differente rispetto alla trattazione aristotelica (vedi Unità 4, p. 204 ss.). Questo vale subito sul piano terminologico, visto che sono proprio gli stoici a utilizzare per primi il termine «logica», quasi a voler rimpiazzare la denominazione di «analitica» scelta da Aristotele per questo tipo di indagine. Anche rispetto al ruolo più generale riconosciuto alla logica come studio di quel lògos che è insieme discorso e ragione, Zenone e i suoi successori ritengono che essa sia una parte basilare e degna di stare alla pari di ogni altra parte della filosofia, contro il valore introduttivo o comunque «strumentale» che ad essa assegnava Aristotele. Il modo in cui gli stoici intendono la logica ne allarga inoltre notevolmente il campo di indagine. Essa, esaminando i discorsi o lògoi in ogni senso, non si limita a indagare gli oggetti tradizionalmente attribuiti all’ambito della retorica o della dialettica, ma si occupa di qualsiasi aspetto legato all’espressione in forma linguistica della ragione umana. Essa si estende dunque a ricerche che oggi definiremmo di fonetica, di grammatica, di linguistica e, ancor più importante, di epistemologia. Gli stoici riconoscono una funzione centrale alla «scienza del ben parlare» di tipo retorico, applicata in particolare ai discorsi lunghi e articolati; vari esponenti della scuola, inoltre, definiscono per primi alcuni aspetti essenziali della grammatica, distinguendo le parti del discorso e individuando per esempio i casi della declinazione. Al di là di questi aspetti, però, è soprattutto all’esercizio della dialettica che gli stoici, fedeli alla centralità del dialogo di lontana origine socratica, assegnano un ruolo primario. La dialettica ha dal canto suo un duplice obiettivo: da una parte la scoperta del vero, dall’altra la sua difesa contro ogni stravolgimento o attacco polemico. In questa direzione si muove soprattutto Crisippo, che vuole precisare sempre meglio, anche in funzione antiscettica, i meccanismi che determinano la verità, rafforzando dunque le armi della dottrina stoica della conoscenza.
Dalla sensazione alla scienza Sul piano conoscitivo va segnalato che tutta la scuola stoica accetta e difende il valore basilare della sensazione. È utile leggere al riguardo ancora un brano di Diogene Laerzio, che ripropone alcuni punti salienti della gnoseologia stoica. 362
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
T17
Le due rappresentazioni Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 7,45-46
Passività e rappresentazione comprensiva
T18
La rappresentazione comprensiva
Sesto Empirico, Contro i logici, 7,248
Assenso e comprensione
La piena scienza
I quattro gradi
T19
Il paragone di Zenone
Cicerone, Lucullo, par. 145
La rappresentazione è un’impressione nell’anima: è qui adottato in senso traslato un termine proprio in quanto propriamente l’impressione è l’effetto delle impronte che l’anello col sigillo imprime nella cera. Di rappresentazioni ve ne sono due: l’una [comprensiva] che coglie immediatamente la realtà [phantasìa kataleptikè], l’altra [non comprensiva] che coglie la realtà con scarsa o nessuna distinzione [akatàleptos]. La prima, che essi definiscono criterio della realtà, è determinata dall’esistente, conforme all’esistente stesso ed è impressa e stampata nell’anima. L’altra non è determinata dall’esistente oppure se procede dall’esistente non è determinata conforme all’esistente stesso: non è quindi né chiara né distinta. Sottolineando la passività che caratterizza il momento iniziale del processo conoscitivo (significativo, in proposito, il paragone, destinato a lunga fortuna, fra la nostra mente e una tavoletta di cera vergine, pronta ad accogliere dall’esterno la pressione esercitata dai sensi), gli stoici individuano dunque in un particolare tipo di rappresentazione il genuino criterio di verità. Si tratta della cosiddetta rappresentazione comprensiva (phantasìa kataleptikè), così definita dagli stoici: Comprensiva è «quella rappresentazione che proviene da un oggetto esistente e che è impressa ed improntata nel soggetto in conformità con lo stesso oggetto esistente, ed è tale da non poter derivare da un oggetto che non esista»; e, invero, gli Stoici ci assicurano che questa rappresentazione riesce a recepire in alto grado gli oggetti reali e che ne porta impresse in modo tecnico tutte le proprietà, e affermano che essa ha in possesso le proprietà degli oggetti. Solo questo tipo di rappresentazione sarebbe in grado di ‘fotografare’ la realtà esistente così come essa è e di restituirla con immediatezza, distinzione e chiarezza tale da consentire a un soggetto conoscente con i sensi perfettamente integri di non cadere in errore. Nella successiva tappa del processo conoscitivo, fin qui ancora segnato da una condizione di passività rispetto al mondo esterno, inizia il ruolo almeno parzialmente attivo dell’uomo, che riconosce la corrispondenza di quella rappresentazione alla realtà. Egli concede allora il proprio assenso alla rappresentazione comprensiva, che del resto si mostra così forte, come amano dire gli stoici con un’immagine molto efficace, da «trascinare per i capelli» verso l’assenso stesso. Da questo incontro mediato fra esterno e interno nasce la vera comprensione (katàlepsis), l’atto conoscitivo completo. Quando poi più atti di questo tipo si coordinano in un sistema saldo, stabile e immutabile, assumendo una regolarità tecnica, si passa a un livello ancora superiore: quello della piena scienza (epistème). Questa tappa conclusiva è estremamente difficile da raggiungere, aperta solo a pochi, anzi in realtà solo al saggio. Per fissare con forza nella memoria questi crescenti gradi della conoscenza, già Zenone proponeva un paragone molto fortunato, conservato da Cicerone. Ma invece voi dite che nessuno sa nulla, fuorché il sapiente; e ciò Zenone lo illustrava col gesto. Infatti, quando spiegava in faccia ad altri, con le dita tese, il palmo della mano, diceva: «Cosiffatta è la rappresentazione»; quando poi aveva chiuso un po’ le dita stesse, diceva: «Di tal fatta è l’assenso»; serrate poi insieme le dita completamente, e fattone un pugno, diceva che questa appunto era la com363
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Parte prima L’età antica
prensione; e in conformità di tale paragone fu da lui messo anche alla cosa il nome, che prima non c’era, «katàlepsis». Infine, accostava a quel pugno destro la mano sinistra, e lo comprimeva ancor più strettamente e con gran forza, e diceva che cosiffatta è la scienza della quale non è possessore nessuno se non il sapiente. Il processo della conoscenza
I quattro gradi della conoscenza 1) Rappresentazione comprensiva
L’anima subisce un’impressione fedele e veritiera di un oggetto esterno
2) Assenso
La ragione concede il proprio assenso all’impressione ricevuta
3) Comprensione
La ragione giunge quindi all’atto della vera comprensione
4) Scienza
Quando più atti comprensivi si coordinano in un sistema si giunge alla scienza
La formazione dei concetti Il fondamento empirista
Un altro aspetto importante della dottrina della conoscenza degli stoici ribadisce la loro fiducia nell’esperienza legata ai sensi. Si tratta della spiegazione sulla natura e sulla formazione dei concetti, intesi sia come anticipazioni (o prolèpseis) sia come nozioni comuni (koinài ènnoiai). La posizione stoica esprime, forse per la prima volta, quello che diventerà un punto fermo di qualsiasi futura filosofia empiristica: non esiste nulla nell’intelletto che prima non sia dato nei sensi. I meccanismi attraverso cui è possibile combinare i dati dell’esperienza per costruire concetti sempre più raffinati vengono accuratamente studiati dagli stoici e possono essere ripercorsi grazie a un passo di Sesto Empirico:
T20
(56) Difatti ogni pensiero è prodotto o per mezzo di una sensazione o non senza una sensazione, o per mezzo di un evento dell’esperienza o non senza un evento dell’esperienza. […] (58) E, in linea generale, non è possibile trovare nel pensiero un qualcosa che uno non possegga come già noto a lui mediante un evento dell’esperienza. Questo qualcosa, infatti, verrà recepito o per somiglianza con le cose che ci sono apparse durante un evento dell’esperienza o per accrescimento o per diminuzione o per composizione. (59) Per somiglianza, ad esempio, quando, per aver guardato un’immagine di Socrate, noi concepiamo quel Socrate che non abbiamo visto; per accrescimento, quando noi, partendo dall’uomo comune, ne concepiamo, ad esempio, uno come quello che non sembrava «uom che di pan si nutrisse, bensì promontorio selvoso / d’alta montagna» [Omero, Odissea, 9,191]; per diminuzione, allorché, al contrario, ridimensionando la grandezza dell’uomo comune, concepiamo un pigmeo; per composizione, quando da uomo e da cavallo noi pensiamo l’ippocentauro, che non ci è mai capitato dinanzi. Ogni concetto, dunque, deve essere preceduto dall’esperienza sensibile; perciò, se noi eliminiamo le cose sensibili, viene necessariamente eliminata insieme con esse ogni nozione.
La centralità dell’esperienza
Sesto Empirico, Contro i logici, 8
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Segni e significato La sezione del sistema stoico dedicata alla logica è molto ricca e offre anche soluzioni innovative tanto sul piano della dottrina dei segni (o semiotica) quanto su quello della dottrina del significato (o semantica). I segni (semiotica) Nel primo caso gli stoici cercano di scoprire quei segni che consentono un’effettiva crescita delle nostre conoscenze. Questo tipo di indagine si fonda sull’esistenza di due tipi di segni: quello rammemorativo e quello indicativo. Segno rammemorativo Il primo è fondato sull’associazione nella memoria di due eventi connessi in modo evidente e costante nell’esperienza, secondo rapporti di contemporaneità, anteriorità o posteriorità cronologica, come per esempio nello schema seguente:
Fumo
Fuoco; Cicatrice
Ferita; Ferita / Colpo al cuore
Morte
Il secondo è invece ritenuto dagli stoici, come anche da altri filosofi e da esponenti della scuola medica razionalistica, in grado di condurre «per natura» da ciò che è evidente a ciò che non lo è, come per esempio nei due casi seguenti: 1) dai movimenti del corpo all’ammissione dell’esistenza dell’anima; 2) dal sudore alla necessaria presenza di pori nella pelle, non visibili, ma ‘intelligibili’. Soprattutto su quest’ultimo tipo di segno insistono gli stoici, poiché esso, a loro avviso è in grado di far conoscere, per via di inferenza, anche ambiti che apparentemente si sottraggono all’esperienza immediata. Ancora un esempio: «se questa donna ha latte, allora ha partorito di recente». Il significato In ambito semantico, invece, è molto importante, nella formulazione delle nostre (semantica) conoscenze e più in particolare nel processo di attribuzione dei nomi, la centralità che gli stoici conferiscono al significato o lektòn. Significante e referente Si tratta di un’entità incorporea, ma in grado di mediare fra gli altri due elementi, entrambi corporei, che entrano in gioco nel linguaggio: il nome o significante, da una parte, e la cosa, o oggetto reale designato («referente»), dall’altra. Per esempio: cavallo (nome) è il significante, l’animale che vediamo e tocchiamo il referente, l’affermazione, o «ciò che è detto» di quell’oggetto (per esempio «quadrupede appartenente alla specie degli equini»), il significato (incorporeo, a differenza del primo e del secondo). Abbiamo qui una teoria di grande interesse ed efficacia, talmente importante, per esempio agli occhi di Crisippo, che egli arriva a definire la stessa dialettica come «scienza delle cose significate e significanti». Segno indicativo
La logica proposizionale Sempre in relazione alle riflessioni sul significato va inoltre ricordato un altro aspetto originale della logica stoica. Poiché l’uomo possiede come caratteristica distintiva non solo un discorso (lògos) interiore, ma anche e soprattutto un discorso verbalmente espresso (lògos prophorikòs), articolato in una lingua, ogni sua conoscenza verrà formulata sotto forma di proposizioni. Proposizioni incomplete Queste vengono a loro volta suddivise dagli stoici in due grandi categorie: quele complete le incomplete, in cui troviamo elementi linguistici fra loro sconnessi («corre» / 365
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Parte prima L’età antica
Le proposizioni complete: le asserzioni
Asserzioni vere e false
Sillogismo e verifica degli schemi argomentativi
I connettivi
«Socrate»), e quelle complete, costituite da nessi organici, il più semplice dei quali risulta dall’unione di un nome e di un verbo («Socrate corre»). Nel secondo caso abbiamo a che fare, in senso stretto, con le asserzioni (axiòmata): esse enunciano qualcosa, ma sempre in riferimento a eventi o situazioni singolari e non certo a presunte realtà universali, che, in chiara polemica con Platone o Aristotele, non hanno alcuna reale sussistenza nella dottrina stoica. Diventa allora impossibile accogliere definizioni universali del tipo «l’uomo è un animale razionale mortale», perché ogni asserzione va riferita a un soggetto o evento singolare e dunque formulata così: «se questo è un uomo, allora è un animale razionale mortale». Più in generale, insomma, se le asserzioni (axiòmata) descrivono qualcosa che corrisponde al modo in cui stanno effettivamente le cose, allora esse sono vere; in caso contrario sono invece false. La logica stoica mostra anche in questo caso una netta differenza rispetto alla teoria aristotelica. Essa ha come obiettivo quello di fissare in modo coerente le condizioni di validità delle relazioni che si possono legittimamente stabilire fra le proposizioni stesse. Da ciò deriva un modo nuovo di intendere il sillogismo, che si occupa della validità degli schemi argomentativi e del tipo di nesso esistente fra le premesse e la conclusione. In questa indagine vengono esaminati soprattutto quei nessi fra proposizioni che, grazie all’utilizzazione di alcune particelle (i cosiddetti connettivi logici: «e», «o», «se… allora»), si esprimono sotto forma di congiunzione («è giorno e c’è luce»), di disgiunzione («è giorno o è notte») e soprattutto di implicazione («se è giorno, allora c’è luce»). Attraverso un minuzioso lavoro di incroci possibili fra questi nessi proposizionali gli stoici mettono ordine fra i vari schemi argomentativi, distinguendoli in un modo che può essere così schematicamente rappresentato: Argomenti
non concludenti
concludenti
non veri
veri
non dimostrativi
dimostrativi
Argomenti e processi dimostrativi Un ruolo particolare rivestono gli argomenti dimostrativi, la cui funzione appare vicina a quella svolta dai segni indicativi: infatti anch’essi, secondo gli stoici, hanno la capacità effettiva di accrescere la nostra conoscenza, poiché nel loro caso la conclusione rivela qualcosa di nuovo, che non era già contenuto nelle premesse di partenza. Leggiamo, alla pagina seguente, quanto riferisce a questo proposito Sesto Empirico. 366
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
T21
Gli argomenti dimostrativi
Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, 1,140
I ragionamenti anapodittici
T22
I cinque ragionamenti indimostrati
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 7,79-81
3 Il materialismo: l’essere è corporeità
E ancora, degli argomenti veri alcuni sono dimostrativi, altri non dimostrativi, e dimostrativi quelli che conducono a qualcosa di non evidente per mezzo di cose evidenti, non dimostrativi quelli che non sono tali. Ad esempio un argomento di tal fatta «se è giorno, vi è luce; ma è giorno; dunque vi è luce» non è dimostrativo: il fatto che vi è luce, che rappresenta la sua conclusione, è infatti evidente. Uno siffatto, invece, «se il sudore scorre attraverso la superficie, esistono pori intellegibili; ma il sudore scorre attraverso la superficie; dunque esistono pori intellegibili» è dimostrativo, trovandosi a essere non evidente la conclusione: «esistono pori intellegibili». L’insieme di queste classificazioni, che culmina nei processi dimostrativi, trova il suo solido fondamento nell’esistenza di cinque ragionamenti cosiddetti indimostrabili (o indimostrati: anapodittici). Essi hanno una tale evidenza logica da imporsi immediatamente e da costituire un punto di partenza o riferimento a cui è possibile ridurre ogni altra forma argomentativa. Vale la pena leggere la presentazione che ne dà Diogene Laerzio, ricordando che essi saranno usati dalla logica successiva (anche contemporanea, soprattutto per la forza presente nei primi due, in seguito denominati rispettivamente modus ponens e modus tollens). Il primo ragionamento indimostrato è quello in cui tutto il ragionamento consiste di un giudizio ipotetico e di una premessa con cui comincia il giudizio ipotetico, mentre l’enunciato finale è la conclusione. Es.: «se il primo è, anche il secondo è; ma il primo è, dunque il secondo è». Il secondo ragionamento indimostrato consiste di un giudizio ipotetico e dell’opposto dell’enunciato finale, in quanto ha come conclusione l’opposto della premessa. Es.: «se è giorno, c’è luce; ma è notte, dunque non è giorno». Qui la premessa è costituita dall’opposto dell’enunciato finale e la conclusione è costituita dall’opposto della premessa. Il terzo ragionamento indimostrato ha una combinazione di proposizioni negative per premessa maggiore ed una delle proposizioni così combinate per premessa minore e l’opposto della proposizione rimanente per conclusione. Es.: «non è possibile che Platone sia morto e che Platone sia vivo; ma Platone è morto, dunque Platone non è vivo». Il quarto ragionamento indimostrato ha come premessa una proposizione disgiuntiva e uno dei due membri della proposizione disgiuntiva e come conclusione ha l’opposto dell’altro membro. Es.: «o è A o è B; ma è A; dunque non è B». Il quinto ragionamento indimostrato è quello in cui tutto l’argomento è costituito da una proposizione disgiuntiva e dall’opposto di uno dei due membri della proposizione disgiuntiva ed ha per conclusione l’altro membro. Es.: «o è giorno o è notte; ma non è notte, dunque è giorno».
La fisica Nel caso dell’indagine sulla natura delle cose e sui loro legami anche la spiegazione stoica, in analogia con la soluzione epicurea, si basa su di un rigoroso materialismo. Le tesi stoiche sembrano inoltre in qualche modo legate alla posizione materialistica già presentata (e criticata) da Platone nel Sofista, in virtù della 367
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Parte prima L’età antica
Sussistenza dei casi di incorporeità
Il genere sommo e la predicazione
La materia e il Lògos
quale l’essere verrebbe risolto interamente nella capacità di agire e di patire (esiste ciò che ha la capacità di produrre effetti su altro e di subirne). Alla luce di tali influssi va dunque interpretata l’affermazione stoica che riconduce l’essere alla sola corporeità, definita a sua volta grazie al concorso di caratteristiche come la tridimensionalità e la resistenza (antitypìa). Una simile dottrina nega anche, e inevitabilmente, ogni dualismo fra sensibile e intelligibile, benché ammetta poi l’incorporeità in pochi, ma significativi casi: per esempio quello già citato del significato (lektòn); quello del vuoto che avvolge il cosmo; quello dello spazio in cui sono racchiusi i corpi; infine quello del tempo, tutte entità incorporee che non possono essere considerate «esistenti» in senso pieno, ma soltanto «sussistenti» sul piano concettuale o linguistico. Per comprendere fino in fondo questo aspetto del sistema stoico bisogna accennare almeno al fatto che esso si regge sull’ammissione di un genere sommo. Si tratta del qualcosa (ti oppure, come traduce Seneca, quid) sotto il quale vengono ricompresi non solo gli incorporei (di cui abbiamo parlato, dotati di una forma di quasi-esistenza e utili per spiegare meglio alcuni aspetti di ciò che agisce e patisce), ma soprattutto i corpi. Solo essi possiedono una vera esistenza e a loro volta sono predicabili, in virtù di una dottrina delle categorie semplificata rispetto a quella aristotelica: non più dieci possibili predicati o modalità di esistenza, ma solo quattro («sostrato», «qualità», «modo d’essere», «modo d’essere relativo»). Nella loro spiegazione rigorosamente materialistica gli stoici ammettono comunque una distinzione – solo concettuale e non reale – fra un principio passivo, la materia, e uno attivo. Quest’ultimo viene identificato con la divinità, che è anche il Lògos universale, legge o ragione del tutto e immanente al tutto cui dà forma. Per dimostrarne l’esistenza, che traspare comunque immediatamente dalla perfetta struttura del cosmo, gli stoici si affidano poi sia a raffinati argomenti razionali, soprattutto di tipo cosmologico (dall’ordine riscontrabile nell’universo risalgono per esempio alla necessaria esistenza del suo ordinatore), sia alla forza dell’accordo generale o consensus omnium.
Lògos e Fato La costituzione del Lògos
T23
La natura del cosmo
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 7,142-143
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Nella descrizione più specifica della divinità ricompaiono toni apertamente materialistici: il Lògos universale, infatti, forse anche attraverso una rilettura di tesi già avanzate da Eraclito (vedi Unità 1, p. 36 ss.), è in primo luogo «fuoco artefice» e quindi, come ritengono per esempio Cleante e Crisippo, soffio vitale e caldo (pnèuma), misto di fuoco e aria, capace di penetrare ogni minimo aspetto della realtà e di dare ad esso la giusta tensione materiale (tònos). Proprio perché tutto è attraversato e retto da tale elemento pneumatico materiale, il cosmo è come un unico, grande organismo vivente, caratterizzato da una dinamica tensione interna. Che il cosmo sia un essere vivente e razionale e animato e intelligente è sostenuto da Crisippo nel primo libro Della provvidenza, da Apollodoro nella Fisica e da Posidonio: essere vivente nel senso che il cosmo è una sostanza animata, che ha la facoltà della percezione sensibile. L’essere vivente è superiore all’essere non vivente; nulla è superiore al cosmo; dunque il cosmo è un essere vivente. Il cosmo è animato, come risulta evidente dalla natura dell’anima, che è un frammento di esso.
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
In un cosmo di questo tipo non esistono parti isolate o sconnesse rispetto a tutte le altre. Da ciò deriva la nota dottrina stoica della «simpatia» cosmica (sympàtheia), che vede qualsiasi elemento della realtà inscindibilmente legato al tutto in un gioco di corrispondenze e influenze reciproche. La divinazione È l’esistenza di questi legami, del resto, che serve ad ammettere e giustificare la possibilità stessa di prevedere eventi futuri, grazie a pratiche divinatorie, non esclusa quella astrologica. C’è una serie infinita di nessi causa-effetto, che sta alla base di ogni fatto o evento. Il Fato: la provvidenza Il cosmo stoico può essere dunque raffigurato, in ultima istanza, come una enorcosmica me rete di nessi materiali e vitali costituiti da una catena ininterrotta di cause ed effetti, nella quale sono inseriti anche il ruolo dell’uomo e lo spazio concesso alla sua autonomia e libertà. Ogni stato del mondo contiene in sé tutto il passato, perché è l’effetto di cause precedenti, e anche tutto il futuro, perché contiene le cause che ne produrranno lo sviluppo. La connessione di queste catene causali è necessaria, cioè governata da un Fato o destino, che gli stoici identificano con la provvidenza cosmica.
La «simpatia» cosmica
L’azione del Lògos e l’uomo La fisica stoica si occupa tanto della formazione del cosmo e del suo processo di sviluppo, quanto di questioni antropologiche, relative alla specifica natura e posizione dell’uomo al suo interno. Generazione La generazione delle singole cose, regolata dal principio divino materiale, ave provvidenza viene grazie alla presenza di ragioni seminali o lògoi spermatikòi, principi materiali (come i semi delle piante), dotati inoltre di una sorta di «programma» o «codice» da cui dipende il loro successivo sviluppo. Questo sviluppo dà luogo alle diverse configurazioni dei vari ambiti della realtà. Esso non viene affidato al caso (che del resto per gli stoici è solo un vuoto nome, dietro cui si nasconde l’ignoranza delle vere cause delle cose), ma ha e mantiene una direzione verso il meglio. Ciò accade grazie all’azione provvidenziale del Lògos, in virtù della quale perfino la presenza del male trova un sua giustificazione e acquista un senso, come argomenta Crisippo (il passo ci è restituito da Plutarco, I-II secolo d.C.):
T24
La ragione divina
Plutarco, in Stoici antichi, 2,937,2
Il ciclo cosmico: l’eterno ritorno dell’identico
Crisippo concede libertà di espressione al vizio, perché lo considera non solo un prodotto derivato dal fato e dalla necessità, ma anche conforme alla ragione di dio e alla perfezione della natura. Questo lo si deduce da quanto egli dice: «essendo la natura universale dovunque diffusa, tutto ciò che avviene in qualsiasi modo nell’universo o in qualche sua parte sarà conforme ad essa e alla sua ragione, senza soluzione di continuità. Non c’è nulla infatti che al di fuori di essa può opporsi all’economia dell’universo, né d’altra parte qualcuna delle sue parti potrebbe assumere un atto o uno stato che siano differenti da quelli della natura universale» […]. Nel corso del tempo si sviluppa così una vicenda cosmica di carattere ciclico, in cui a una fase, giunta alla sua piena maturazione e segnata come suo evento conclusivo da una conflagrazione universale (ekpy`rosis), ne segue un’altra, contrassegnata dal ripetersi al suo interno esattamente degli stessi eventi e delle stesse 369
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Parte prima L’età antica
situazioni, essendo ogni momento del ciclo in sé perfetto e perfettamente compiuto, in una sorta di eterno ritorno dell’identico. Infinità e ripetitività L’idea del ciclo concilia l’infinità del tempo con la chiusura della catena causale: se non ci fosse una ripetizione, il futuro del cosmo sarebbe indeterminato, cioè sfuggirebbe al governo dell’ordine provvidenziale o destino. È necessario che tutti gli eventi si ripetano in modo identico, perché se ci fosse differenza fra i cicli cosmici uno di essi risulterebbe migliore, l’altro peggiore, e in questo caso si avrebbe un impensabile fallimento della provvidenza divina che governa sempre la natura nel modo migliore possibile (il passo ci è restituito da Nemesio, IV-V secolo d.C.).
T25
Il ritorno dell’identico Nemesio, in Stoici antichi, 2,625
Poi, di bel nuovo, il cosmo si riformerà così com’era all’origine: gli astri seguiranno la loro consueta orbita, e la condurranno a termine allo stesso identico modo che nel precedente periodo. E torneranno a esserci Socrate e Platone e ciascun uomo coi suoi amici e concittadini; le medesime cose ci convinceranno e delle medesime cose ci serviremo; ogni città e villaggio, ogni campo, risorgerà uguale. La rigenerazione del tutto non sarà un caso unico, ma si ripeterà più volte; o meglio, le stesse cose si susseguiranno indefinitamente senza sosta […].
La dottrina stoica descrive dunque un universo organizzato nel migliore dei modi possibili dalla mano provvidenziale del Lògos. Al suo interno l’ordine e la perfezione sono garantiti soprattutto da una struttura gerarchica, da una vera e propria scala della natura; al culmine di essa, ben al di sopra di piante e animali, sta l’uomo con la sua anima, anch’essa materiale (quindi mortale), parte del soffio vitale che regge il tutto. L’anima e l’egemonico Gli stoici antichi ritengono che quest’anima sia una realtà unitaria, non tripartita come voleva per esempio Platone, anche se poi al suo interno operano alcune distinzioni. Nella struttura dell’anima ritroviamo così i cinque sensi, le facoltà di parlare e di generare, per chiudere poi con la facoltà più importante di tutte, quella razionale o direttiva: è il cosiddetto «egemonico» (heghemonikòn), situato nel cervello per Zenone e invece nel cuore, come già sosteneva Aristotele, per Crisippo. Gli stimoli ricevuti dall’esterno determinano nell’egemonico reazioni e processi, che costituiscono le tappe principali non solo dell’attività conoscitiva, ma anche del comportamento morale dell’uomo: dalla rappresentazione all’assenso e all’impulso, dal desiderio, che spinge all’azione, alle passioni. La scala della natura
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L’etica
Rispetto alle questioni etiche si registra forse la maggiore originalità e il più chiaro contributo filosofico della dottrina stoica, che in quest’ambito indica come suo sicuro punto di riferimento la natura, all’interno della quale va dunque ricercato il vero fine dell’agire umano. È proprio con la dottrina del fine o tèlos che gli stoici cercano di indicare la strada per raggiungere il sommo bene: la felicità, identificata con quel «corso armonioso di vita» verso cui tende ogni nostro sforzo. Zenone: la coerenza Zenone, in termini ancora socratici e forse ancora sotto l’influsso del cinismo, aveva definito il fine come «vivere coerentemente», cioè in vista della piena realizzazione della virtù di ciascun singolo individuo intesa come accordo e armoLa dottrina del fine
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Cleante: il fatalismo
Crisippo: l’armonia
Sul palcoscenico del mondo, ciascuno con il suo ruolo assegnato
nia interiore. Una simile formula fu forse ulteriormente chiarita dallo stesso Zenone nel senso del «vivere coerentemente alla natura». È stato poi soprattutto Cleante, accentuando l’aspetto fisico-teologico, a specificare che la natura va intesa come natura comune, in senso universale. Per lui, infatti, il corretto comportamento dell’uomo si risolve nel rispetto totale, davvero fatalistico, da parte dell’individuo della volontà di Zeus, il destino o Lògos unico ed eterno, celebrato con grande forza nei versi del suo Inno a Zeus. Cercando forse di mediare fra le posizioni di Zenone e di Cleante, Crisippo tenta di ricostituire, nel raggiungimento del fine e quindi nella conquista della felicità, un equilibrio fra la sfera naturale individuale da una parte e quella universale dall’altra. Egli è infatti convinto che gli sforzi conoscitivi degli uomini debbano essere indirizzati alla comprensione della struttura fisica del cosmo: solo così essi potrebbero garantire a se stessi un inserimento armonico e moralmente virtuoso nel «corso del mondo». Si tratta di una soluzione che fa emergere ancora una volta il carattere sistematico del pensiero stoico: la conoscenza dei nessi – spesso difficili a vedersi, ma assolutamente saldi – che legano ogni minima parte alle altre e al tutto chiarisce la legge razionale e universale di Zeus. All’interno di questa trama ciascuno, come un buon attore, ha un ruolo ben preciso, provvidenzialmente disegnato, da individuare e realizzare sul palcoscenico del mondo, senza poter tuttavia mutare il copione che gli è stato assegnato.
Passioni e virtù
Il vizio, perversione della ragione
Le quattro passioni
Giudizi errati
L’apàtheia, l’assenza di passioni
L’invito stoico a uniformare il proprio dover essere all’essere del tutto, ad accettare la necessità del destino, è un compito non facile, arduo, quasi una meta sovrumana. Esso è però in piena sintonia con la più generale concezione stoica della moralità, che appare, almeno inizialmente, molto radicale, se non rigida. L’etica stoica afferma infatti innanzi tutto il totale rifiuto del vizio, unico male. Esso consiste in una vera e propria distorsione o perversione (diastrophè) della ragione, causata dall’assenso concesso a rappresentazioni false e da negativi influssi esterni, legati per esempio a una cattiva educazione. Nell’ambito del male morale assumono un ruolo particolare, soprattutto da Crisippo in poi, le passioni, articolate nelle quattro forme basilari del dolore, del piacere, del desiderio e del timore. Non essendoci per gli stoici alcuna componente irrazionale dell’anima a sé stante, le passioni non sono niente altro che giudizi sbagliati, che consistono nel confondere il bene con il piacere, il male con il dolore. Questi giudizi sono eccitazioni e perversioni dell’anima, nel senso che il principio razionale è corrotto e allo sbando a causa della forza esagerata, sovrabbondante e travolgente di una valutazione erronea. Essi vengono formulati dalla ragione stessa e si presentano come il cedimento a un impulso che la fa deviare, spingendo chi ne è vittima ad abbandonarsi a comportamenti eccessivi e logicamente non giustificabili. Per evitare questa negativa condizione morale e garantirsi invece una vera tranquillità interiore, dunque, gli stoici indicano come condizione auspicabile quella apàtheia o assenza di passioni che coincide con la piena coerenza razionale dell’egemonico (la ragione nella nostra anima, che è un frammento della ragione divina universale). 371
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Parte prima L’età antica
In contrapposizione al vizio, del resto, l’etica stoica sottolinea il valore assoluto della virtù, che non si conquista progressivamente, ma in modo istantaneo o addirittura improvviso. È la virtù, materialisticamente presentata come la condizione fisica di un egemonico perfettamente disposto nel suo tono pneumatico, a essere considerata come l’unico vero bene. Essa, diversamente da quello che aveva affermato Aristotele, è necessaria e insieme sufficiente per una vita felice, senza ricorso ad altri presunti beni. Virtù come conoscenza Soprattutto la virtù coincide con una forma completa di conoscenza, è cioè socraticamente una vera e propria scienza dei beni e dei mali, insieme sapienza teorica e saggezza pratica. E altrettanto socraticamente, gli stoici sono convinti che chi possiede una virtù le possieda contemporaneamente tutte: La virtù, unico vero bene
T26
L’unitarietà delle virtù
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 7,125-126
[…] perché esse hanno un comune fondamento teorico […]. Il virtuoso non ha solo una formazione teoretica, ma sa anche tradurre in pratica le sue convinzioni dottrinali. La sua azione si articola con un senso preciso della dignità della scelta, della risoluta e ferma fedeltà alla dottrina e infine della rigorosa imparzialità, così che colui che realizza partitamente questi criteri è, al tempo stesso, prudente, coraggioso, giusto e moderato. Ogni virtù infatti costituisce un principio-base che guida alla realizzazione di un compito particolare. Così il coraggio riguarda ciò che deve essere difeso ad oltranza, la prudenza riguarda le azioni da compiere e le azioni da non compiere e le azioni che non devono essere né compiute né neglette. Così analogamente ogni virtù ha il suo ambito specifico. Alla prudenza sono subordinati il buon consiglio e l’intelligenza, alla moderazione l’amore dell’ordine e la disciplina, alla giustizia l’equità e la probità, al coraggio l’incrollabilità e la tensione.
Vizio e virtù
1) Dolore Vizio
Cedere alle quattro passioni
2) Piacere 3) Desiderio
Le passioni equivalgono a giudizi errati
4) Timore
Virtù
Assenza delle quattro passioni (apàtheia)
Piena coerenza razionale dell’egemonico
La virtù Chi possiede è una forma completa una virtù di conoscenza le possiede tutte
Il saggio: virtuoso, divino, libero Chi conquista la virtù è solo il saggio, l’uomo completamente buono, in grado ormai di compiere quelle azioni rette (katorthòmata), che qualificano come perfetto il suo comportamento, in ogni condizione e situazione, ben al di là di quelle azioni convenienti o appropriate (kathèkonta) sicuramente razionali e giustificabili, ma ancora condizionate dal rapporto con il mondo esterno e con il possibile insorgere delle passioni. Una volta stabilito il ruolo assolutamente primario della virtù, inoltre, ogni altra realtà risulta indifferente sul piano morale, perché può essere usata bene o male. Zenone: le cose Già Zenone, però, attenua una simile posizione, forse troppo rigida, individuanpreferibili e non do all’interno delle cose indifferenti (adiàphora) o intermedie fra virtù e vizio due Rigore assoluto
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Crisippo: la dottrina dell’appropriazione
Auto-conservazione e virtù
Lo stolto e il saggio
Il saggio divino
T27
La grandezza del saggio
Stobeo, in Stoici antichi, 3,567
Il sophòs: un ideale regolativo
categorie distinte. Da una parte ci sono infatti le cose comunque conformi a natura, definite «preferibili» o «prime cose secondo natura», come per esempio la salute, la bellezza e la ricchezza: esse sono dotate di un certo valore, sempre però relativo, restando pur sempre indifferenti per il conseguimento della virtù perfetta. Dall’altra parte abbiamo quelle contrarie alla nostra condizione naturale, ovvero «non preferibili», come per esempio la malattia, la bruttezza e la povertà. Questa posizione di Zenone, aspramente combattuta da Aristone di Chio, rischia tuttavia di dividere in modo artificiale i valori naturali e i valori morali. Crisippo cerca dunque di rielaborarla, formulando la dottrina dell’appropriazione (o oikèiosis). Essa individua nello sviluppo della natura umana due fasi, cronologicamente distinte ma poste senza fratture lungo la linea di una continua evoluzione. La prima, che va dall’infanzia al raggiungimento della maturità, è quella retta da una sorta di istinto di auto-conservazione, che ci spinge verso la ricerca e l’appropriazione, appunto, dei «primi beni secondo natura». La seconda, che compare con la piena realizzazione di quella razionalità che ci distingue dagli altri esseri viventi, attua in modo completo la virtù, operando una selezione adeguata dei beni esterni, e rendendo sempre più razionale la propria condotta attraverso la realizzazione di azioni appropriate alla disposizione naturale di ciascun individuo. Nonostante il progressivo abbandono di posizioni troppo rigoristiche e l’accettazione delle esigenze dettate dalla vita quotidiana, gli stoici sembrano avere mantenuto sempre fermo un punto: il mondo continua a essere popolato di stolti e solamente il saggio o sophòs ottiene il pieno successo nella vita morale. Fra la virtù del saggio, capace di comprendere la razionalità universale e di adeguarvisi, e il vizio dello stolto, preda delle passioni e della ricerca del piacere, non vi è alcun possibile rapporto. E neppure vi sono gradazioni interne alla «stoltezza»: si può annegare, dicevano gli stoici, tanto sotto cinquanta metri d’acqua quanto sotto una spanna. La figura del saggio assume così un carattere eccezionale e viene addirittura equiparata alla divinità, fino a ricapitolare in sé ogni perfezione. Il passo che riportiamo ci è restituito da Stobeo, V secolo d.C. Siccome il saggio fa tesoro delle sue esperienze di vita, agisce sempre bene, in quanto segue la saggezza, la temperanza e tutte le altre virtù; lo stolto al contrario fa tutto male. E poi il saggio è grande, imponente, alto e forte. Grande perché riesce ad attuare le sue scelte e a realizzare i suoi intendimenti; imponente perché è cresciuto sotto ogni aspetto; alto perché possiede quella grandezza che è tipica dell’uomo nobile e sapiente; forte, perché è dotato di una forza speciale che lo rende invincibile e insuperabile. Per questo egli non causa né subisce costrizione, né impedimento, né violenza, né soggezione, né fa danno né subisce, né trascina gli altri nel male né vi si fa trascinare; non inganna né è ingannato, non dice bugie; non c’è nulla che non conosca o nulla che gli sfugga, è totalmente estraneo alla menzogna. È al massimo della felicità e della buona sorte, della beatitudine, della ricchezza, della pietà e della religiosità, della stima; e poi è anche regale, abile stratega, politico, amministratore e affarista. Lo stolto invece ha i caratteri esattamente contrari a questi. Il ritratto che emerge da questo quadro assolutamente positivo è quello rassicurante di un individuo pienamente realizzato. Gli stoici, però, non si stancano di ricordare che per raggiungere una simile condizione è richiesto un sforzo incre373
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Parte prima L’età antica
Cittadino del mondo
Ruolo centrale delle intenzioni
Libertà e Lògos
Libertà e sapienza
L’allegoria del carro
T28
Il cane e il carro Ippolito, in Stoici antichi, 2,975
5 La filosofia greca a Roma
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dibile, una fatica che sembra andare oltre le capacità degli uomini normali. Per capire bene cosa rappresenta il sophòs bisogna allora intenderlo come una sorta di ideale regolativo, un modello di comportamento che forse non è mai esistito storicamente, ma che costituisce – e di fatto, soprattutto a Roma, costituì – un punto di riferimento altissimo. Ciò vale perfino sul piano della politica, per teorie stoiche di grande modernità e importanza: dalla nozione di diritto naturale, che garantisce una base giuridica comune su cui regolare le relazioni fra gli individui, a quella di cosmopolitismo, che elimina confini o differenze fra popoli e nazioni per proporre l’immagine dell’uomo – o più esattamente dell’uomo saggio – come cittadino del mondo, ovunque a suo agio e a casa sua. Questo ‘mito’ del saggio serve infine a rafforzare un altro cardine dell’etica stoica. Di fronte all’impossibilità di controllare e determinare le circostanze o gli eventi fuori di lui, retti da un destino che non è possibile mutare ma solo seguire, al vero sophòs resta aperta un’unica strada: la moralità delle sue azioni non si misura in base al loro successo esterno o ai risultati che esse raggiungono, ma è garantita unicamente dalla purezza e dalla piena razionalità delle sue intenzioni. In questa direzione il saggio si muove cercando in ogni luogo e tempo il pieno accordo fra il suo lògos e la Ragione universale che tutto regge e governa (Lògos). In questo consiste la vera libertà: nel sapersi inserire senza traumi nella catena fatale degli eventi, conoscendoli a fondo e armonizzando la propria natura (ovvero le cause interne dell’agire, come precisa Crisippo) con l’insieme dei motivi esterni indipendenti da noi, ma ugualmente inseriti nel grande disegno razionale della realtà. Siamo liberi quando usiamo la nostra sapienza filosofica per metterci in sintonia razionalmente con il Lògos provvidenziale che determina da sempre e per sempre la struttura della realtà; di conseguenza siamo schiavi non sotto questo o quel contingente sistema politico, ma quando rinunciamo a conoscere, quando restiamo nell’ignoranza e nel vizio. Questa condizione dell’uomo, che realizza la propria libertà accettando consapevolmente il necessario ritmo del tutto e non certo esercitando un’impossibile scelta fra molteplici alternative, è racchiusa in un’immagine felicissima, che ben illustra il senso del messaggio morale stoico (il passo ci è restituito da Ippolito, III secolo d.C.): Crisippo e Zenone dimostravano la tesi che tutto avviene secondo il fato ricorrendo a questo esempio. Se si lega un cane ad un carro, se il cane vuole seguirlo, ad un tempo segue ed è trascinato, compiendo così un atto di autonoma libertà e pure conforme a necessità. Se però si rifiuta di seguirlo, è trascinato e basta. Lo stesso vale per gli uomini: quand’anche non lo volessero seguire andrebbero comunque là dov’è il loro destino.
Lo stoicismo medio Già nel III e nel II secolo a.C. iniziano a circolare all’interno dell’aristocrazia romana alcune idee e teorie della cultura greca. Il loro influsso, soprattutto in campo filosofico, diviene però sicuramente più stabile e costante dopo la trasformazione della Grecia stessa, nel 146 a.C., in provincia romana.
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Del resto, già la famosa ambasceria di tre filosofi greci (il peripatetico Critolao, lo scettico-accademico Carneade e lo stoico Diogene di Babilonia, recatisi a Roma nel 155 a.C. per difendere gli interessi di Atene, multata per il saccheggio della città di Oropo), oltre a suscitare reazioni contrastanti (anche di netta ostilità, per esempio da parte di Catone il Censore), ha contribuito a una maggiore diffusione degli insegnamenti filosofici. Essi vengono considerati dalle classi più elevate della società romana un utile mezzo per acquisire una formazione più raffinata e culturalmente avanzata, grazie all’assimilazione del sapere greco, senza tuttavia rinunciare alla propria originalità. Gli Scipioni, Polibio Interessi di questo tipo vengono testimoniati soprattutto nel caso di una potentise Panezio sima famiglia romana, quella degli Scipioni, capace di creare intorno a sé un vero e proprio circolo culturale. Di esso fanno parte intellettuali impegnati in vari campi, fra i quali possiamo ricordare, per esempio, lo storico Polibio (208-126 a.C.), convinto difensore del ruolo assolutamente egemonico di Roma e della legittimità del suo dominio nel Mediterraneo, e soprattutto il filosofo stoico Panezio di Rodi. L’ambasceria
La mediazione di Panezio Panezio, scolarca della scuola stoica a partire dal 129 a.C., vive a Roma per molti anni, legato da un vincolo di stretta amicizia con Scipione Emiliano, che lo conduce con sé nei suoi viaggi e che ne apprezza la dottrina quasi come un rimedio all’asprezza del modo di vita romano. Come riferisce infatti Cicerone in una sua orazione: «Scipione […] era uomo tale che non si stancava mai di avere in casa il coltissimo Panezio, di cui l’eloquio e gli insegnamenti […] non lo rendevano più aspro ma, come ho saputo dagli anziani, di umore estremamente mite» (Pro Murena, 31,66). Un nuovo inizio Già dalle parole di Cicerone emerge uno dei tratti fondamentali della filosofia di Panezio, che spingono a considerarlo iniziatore di una nuova fase dello stoicismo. La sua dottrina sembra infatti staccarsi consapevolmente, innanzi tutto nelle questioni etiche, dalle più rigide prese di posizione dei primi filosofi stoici. Ancora Cicerone conferma questo nuovo corso, alludendo inoltre alla capacità di Panezio di confrontarsi con altri autori o tradizioni di pensiero e, se necessario, di assimilarne anche alcune conclusioni.
L’insegnamento di Panezio
T29
La mitezza di Panezio
Cicerone, De finibus, 4,28,79
Panezio, rifuggendo dalla durezza dei maestri, non approvava il rigore delle loro dottrine né le cavillosità polemiche; egli fu, in un certo senso, più ‘mite’ e in un altro più chiaro e persuasivo, citando sempre, come dimostrano i suoi scritti, Platone, Aristotele, Senocrate, Teofrasto, Dicearco. Panezio recuperò in effetti, all’interno del sistema stoico, alcuni aspetti della psicologia platonica e della fisica aristotelica, lavorando così a una parziale riunificazione della tradizione filosofica greca.
La vita e le opere Panezio nacque a Rodi nel 185 circa a.C.; studiò ad Atene presso lo stoico Diogene di Seleucia e dal 145 al 130 visse a Roma. Ritornò ad Atene nel 129, assumendo la
direzione della Stoà; morì, sempre ad Atene, nel 110 circa. Tra le sue opere, andate perdute, riscossero grande successo nell’antichità Della provvidenza, Sul conveniente, e un commentario al Timeo di Platone.
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Parte prima L’età antica Il carattere individuale
L’uomo comune
I doveri medi: equilibrio tra onesto e utile
Una morale meno rigida
Psicologia e fisica
L’anima e la sua parte irrazionale
L’eternità del mondo
Nella descrizione dei principi dell’azione morale Panezio, pur continuando a ritenere che il fine sia da porre in una vita conforme a natura, sostiene che il vero punto di riferimento debba essere non la natura in generale, ma più specificamente le doti, le qualità, perfino le inclinazioni del carattere individuale. Di conseguenza gli sembra necessario volgere l’attenzione non solo alla mitica figura del saggio, ma anche al comportamento dell’uomo comune, interessandosi più che delle intenzioni, dei concreti contenuti delle sue azioni e rivalutando la tesi di Aristotele circa l’apporto positivo dei beni esterni al raggiungimento della felicità. Non a caso, dunque, Panezio compone un’opera in tre libri, intitolata Sul conveniente (ampiamente riutilizzata da Cicerone nel suo scritto Sui doveri). Qui egli si sforza di definire in modo accurato non tanto la sfera delle azioni perfette, quanto piuttosto quella dei cosiddetti doveri medi, sullo sfondo di un raffinato equilibrio fra onesto e utile, cui possono attenersi tutti gli uomini, in determinate circostanze e a seconda della posizione sociale e politica da loro occupata. Un simile cambiamento di prospettiva conduce inoltre Panezio a rivedere la netta contrapposizione fra virtù e vizio teorizzata dai suoi predecessori e a riconsiderare la possibilità di un passaggio graduale, di un vero e proprio progresso nella realizzazione della vita buona. La revisione cui Panezio sottopone il patrimonio della propria scuola, quasi sicuramente anche con l’intento di rispondere e porre fine alle critiche radicali sollevate contro di essa da Arcesilao prima e da Carneade poi (vedi p. 388 ss.), appare ancora più evidente nell’ambito della psicologia e in quello della fisica. Nel primo caso egli nega che l’anima sopravviva seppur temporaneamente alla morte del corpo; attribuisce quindi la facoltà di generare non più all’anima, ma alla natura in generale; e soprattutto arriva ad ammettere, molto probabilmente sotto l’influsso di tesi platoniche e aristoteliche, che nell’anima dell’uomo vi sia una specifica parte irrazionale, abbandonando così il rigido monismo psicologico di Crisippo, che identifica l’anima con la sola ragione. Anche rispetto alle teorie fisiche, in particolare quelle relative alla struttura e alle vicende del cosmo, infine, le novità introdotte da Panezio non sono di poco conto. Egli rifiuta infatti la dottrina della conflagrazione universale, per sostenere invece, in linea con Aristotele, l’eternità e l’indistruttibilità del mondo, mentre critica il valore predittivo della divinazione e più in particolare dell’astrologia, forse anche con l’obiettivo di indebolire ogni forma di determinismo assoluto.
La revisione di Posidonio La scuola e i viaggi
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Sulla stessa linea di profonda rielaborazione delle originarie dottrine stoiche si pone anche Posidonio di Apamea, discepolo di Panezio. Egli fonda una sua scuola e mostra per tutta la vita uno spiccato interesse per i viaggi. Si sposta infatti in più luoghi del bacino del Mediterraneo, raccogliendo materiale per i suoi studi di etnografia, di storia (nelle sue Storie egli prosegue l’opera di Polibio) e di geografia (come per esempio nella sua importante opera intitolata L’oceano). Questa attività di Posidonio ben si inserisce del resto in un tratto di fondo della sua personalità: il gusto enciclopedico per ogni aspetto del sapere.
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
La vita e le opere Posidonio nacque ad Apamea, in Siria, nel 135 a.C. Allievo di Panezio ad Atene, si spostò poi a Rodi, dove fondò una sua scuola nella quale studiarono Cicerone e Pompeo. Le fonti antiche gli attribuiscono scritti e teorie su temi di matematica (con un’interessante distinzione
fra teoremi e problemi), di geometria (forse in polemica con Euclide), di astronomia (con la determinazione, per esempio, dell’esatta dimensione della Terra), di mineralogia, di grammatica. Delle ventitré opere a lui ascritte, tra cui Della divinazione e Del dovere, ci restano scarni frammenti o testimonianze. Morì a Rodi nel 51 a.C.
Dai materiali a noi pervenuti emerge la volontà costante di Posidonio di ricercare le vere cause degli eventi e dei fenomeni studiati. Una simile impostazione è molto probabilmente legata alla convinzione tipicamente stoica dell’esistenza di un legame universale fra tutte le cose, di una sympàtheia, che agli occhi di Posidonio, diversamente dal suo maestro Panezio, serve anche a giustificare l’esistenza e l’efficacia dei vari aspetti della divinazione. La psicologia: Se in questo caso l’accordo con la tradizione della scuola è evidente e forte, in l’anima tripartita altri ambiti si registrano alcune novità e differenze di un certo peso. Questo vale soprattutto per la dottrina psicologica: secondo la testimonianza di Galeno, infatti, Posidonio critica la concezione unitaria dell’anima propria di Crisippo e ammette invece l’esistenza di tre distinte facoltà.
La ricerca delle cause e la divinazione
T30
L’anima tripartita
Galeno, in Testimonianze e frammenti, A189
La revisione della teoria morale: ritorno a Platone e Aristotele
6 Una filosofia per la classe dirigente
[…] Posidonio, il quale, grazie agli studi di geometria, è lo stoico più rigoroso, su questo punto si è discostato da Crisippo: nel trattato Le passioni, infatti, sostiene che noi siamo governati da tre facoltà, la concupiscibile, l’irascibile e la razionale; Posidonio precisa che anche Cleante era della sua stessa opinione. Egli afferma anche che il discorso sulle virtù, se si basa su questi principi, giunge a conclusioni corrette, e dimostra questa sua tesi in un lungo trattato separatamente. Il motivo per cui Posidonio abbandona la posizione di Crisippo appare chiaro: essa non avrebbe infatti permesso di spiegare in modo adeguato l’origine del vizio. Quest’ultimo, come anche le passioni, non può derivare da una distorsione della ragione né semplicemente da influssi esterni, ma è legato all’attività della facoltà irascibile e di quella concupiscibile. Viene così esplicitamente ammessa la necessità di un ritorno a Platone e Aristotele, le cui tesi si integrano senza traumi nella filosofia stoica, al punto da riproporre perfino l’idea platonica di una terapia dei mali psicologici affidata a pratiche legate al piacere e comunque ritenute non razionali, come l’ascolto, fin da bambini, della musica o delle composizioni poetiche.
Lo stoicismo romano Con le filosofie di Panezio e di Posidonio si è affermata una forma di stoicismo sempre meno rigido e sempre più pronto a rispondere alle esigenze della vita quotidiana, verso un modello di comportamento capace di venire incontro soprattutto alle esigenze delle classi dirigenti del mondo romano. Dopo la progressiva affermazione del dominio di Roma su tutto il Mediterraneo, inoltre, in un clima segnato da relazioni con la cultura greca sempre più fitte e continue, i ceti aristocratici e comunque più ricchi hanno dal canto loro iniziato a considerare proprio 377
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Parte prima L’età antica
la dottrina stoica come parte integrante del bagaglio di formazione del buon cittadino romano. Lo stoicismo e l’impero Ecco perché, a partire dalla presa del potere da parte di Augusto alla fine del I secolo a.C. e quindi in modo ancor più deciso con la piena affermazione dell’impero dal I secolo d.C. in poi, la storia del pensiero filosofico vede affermarsi non poche personalità di filosofi legati allo stoicismo. Precetti pratici Il loro impegno, anche se non dà vita a teorie assolutamente originali o innovative, si volge a un’opera di lettura e commento dei grandi maestri stoici del passato. L’intento è quello di trarre da loro principi utili ed efficaci per la condotta di vita quotidiana all’interno di una società attraversata da conflitti evidenti fra il potere assoluto del principe e le rivendicazioni della classe senatoria. Passività o impegno La concezione fatalistica stoica, del resto, può produrre atteggiamenti diversi e alternativi, nel momento in cui viene applicata alle necessità reali della vita politica, spingendo o alla passiva accettazione della situazione corrente o al radicale impegno per indirizzare quella stessa situazione verso il meglio sul piano sociale e morale.
Seneca
La formazione e il trasferimento a Roma
L’esilio in Corsica e il rientro a Roma
Il ruolo di consigliere e la dottrina politica
Il più chiaro esempio del suddetto intreccio teorico e pratico è senz’altro rappresentato da Seneca, nella cui vita e nel cui pensiero ritroviamo elementi di continuità, di integrazione e insieme di novità rispetto tanto alla tradizione stoica quanto al contesto politico romano. Nato a Cordova nel 4 a.C., riceve un’educazione di alto livello, contrassegnata da un’iniziale vicinanza a dottrine pitagoriche e poi dalla consapevole adozione e rielaborazione di modelli stoici. Al di là delle posizioni filosofiche, Seneca è indirizzato soprattutto verso l’attività forense e politica: per esercitarla si trasferisce dunque a Roma, dove entra in contatto anche con la cerchia dell’imperatore Claudio. Dopo un’iniziale collaborazione, però, nel 41 d.C. Claudio condanna all’esilio (in Corsica) Seneca, accusato di aver avuto rapporti illeciti con una esponente della famiglia imperiale. Solo otto anni dopo egli riesce a rientrare a Roma, chiamato a fare da precettore al futuro imperatore Nerone, salito al potere nel 54 d.C. È questo il periodo di massimo coinvolgimento di Seneca nell’attività politica, come appare evidente soprattutto dalla sua opera Sulla clemenza. Qui, nella veste ufficiale di consigliere dell’imperatore, egli non solo ne celebra il ruolo direttivo di massima autorità, paragonato a quello della mente divina rispetto al cosmo, ma, invitandolo alla moderazione e al controllo di sé, cerca di indirizzarne l’azione verso una politica ferma e decisa, capace sì di mantenere l’ordine sociale e di punire i colpevoli, ma anche di rispettarli e di non sottoporli a inutili torture.
La vita e le opere Lucio Anneo Seneca nacque a Cordova, in Spagna, nel 4 circa a.C. Figlio di Lucio Anneo Seneca detto il Retore, ebbe come maestri, a Roma, il neopitagorico Sozione, il retore Papirio e lo stoico Attalo. Collaboratore di Clau-
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dio e poi precettore di Nerone, obbedì infine all’ordine di quest’ultimo di suicidarsi, nel 65 d.C., a Roma. Delle sue numerose opere, vanno ricordate perlomeno le Ricerche sulla natura, in sette libri, e le centoventiquattro Lettere a Lucilio, oltre ai Dialoghi in dodici libri.
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo Il ritiro e la morte
Questa sintonia con Nerone non è tuttavia duratura; nel 62 d.C., infatti, si arriva a una rottura e Seneca, adducendo anche motivi di salute e di vecchiaia, preferisce ritirarsi dalla scena politica per dedicarsi ai suoi studi e alla composizione di alcune importanti opere filosofiche. Nonostante questo volontario allontanamento, pochi anni dopo egli viene accusato, non sappiamo quanto a ragione, di aver fatto parte della famosa congiura dei Pisoni contro Nerone e alla fine viene spinto al suicidio.
L’etica Ripresa dei temi tradizionali dell’etica stoica
L’apertura al platonismo
La libertà di ricerca
La valorizzazione dell’interiorità
La libertà e la sorte
La volontà
Fino al suo disimpegno dalla vita politica attiva è possibile individuare nella ricca produzione di Seneca tutti i più importanti temi dell’etica stoica. Lo testimoniano senza ombra di dubbio già i titoli di alcuni suoi dialoghi, come per esempio La provvidenza, La costanza del saggio, L’ira, La vita beata, La tranquillità dell’animo, La brevità della vita. Si tratta di questioni che hanno a che fare con il modo corretto di agire e di comportarsi, fondato sulla capacità del filosofo di indagare se stesso, di prendersi cura della propria anima, di attribuire il giusto valore alle cose che lo circondano e al limitato tempo che gli è concesso. In questi dialoghi emerge la figura di un filosofo stoico che si pone come guida morale non solo dei suoi contemporanei, ma, grazie alla sua raffinata abilità di scrittura, perfino delle generazioni future. Il clima e lo sfondo filosofico sembrano invece mutare con una certa decisione nell’ultima parte della vita e della produzione di Seneca. Ormai lontano dagli affanni della politica, egli si dedica infatti a temi di più ampia portata teorica, affrontati non solo secondo la dottrina stoica, ma sotto il probabile influsso di altre filosofie, prima fra tutte quella platonica (o più esattamente medio-platonica, vedi Unità 7, p. 437). In tal senso egli mostra in modo sempre crescente la propria autonomia e il proprio distacco dalla tradizione della sua scuola, perché convinto che i filosofi del passato debbano essere considerati non certo padroni, ma guide, cui attingere con libertà piena: egli arriva al punto di rivalutare perfino la figura e le massime di Epicuro, non a caso considerato una sorta di alleato filosofico in punti salienti delle Lettere a Lucilio. All’interno di queste ultime, del resto, Seneca accentua la dimensione dell’interiorità; è questo l’unico luogo in cui può ritornare con piena consapevolezza ogni uomo, indipendentemente dal posto occupato nella società, e dunque anche nella condizione estrema di schiavo (una condizione che tuttavia Seneca non propone mai di eliminare sul piano giuridico e politico). Così si realizza la virtù intesa come superamento degli ostacoli e lotta contro ogni cedimento alla sete di potere o di gloria. In questa dimensione interna Seneca pone lo spazio della nostra libertà, identificandola con un’autosufficienza che sa ridimensionare il peso dei beni esterni, primo fra tutti la ricchezza, ed evitare ogni inutile conflitto con la sorte assegnataci nel piano complessivo della provvidenza. In questo sforzo di adattamento al mondo, tuttavia, egli fa sempre più spazio al ruolo della volontà, della bona voluntas, che integra e completa le nostre capacità razionali: non è più sufficiente, insomma, conoscere il bene per poterlo realizzare, perché c’è bisogno di volerlo, di mettere in moto la volontà verso il compimento delle azioni buone e dunque verso la conquista della felicità. 379
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Parte prima L’età antica La meditatio mortis
T31
Sulla morte
Seneca, Ricerche sulla natura, 6,32
Quando però nessuno sforzo riesce, contro circostanze esterne avverse, a proteggere la nostra virtù interiore, ci resta sempre, secondo Seneca – che in effetti la pratica personalmente –, la via del suicidio. Si tratta di una scelta estrema, che va compresa sullo sfondo del più generale atteggiamento nei confronti della morte. La morte è legge di natura, la morte è tributo e dovere dei mortali, la morte è rimedio di tutti i mali: chiunque ne prova timore l’ha pur desiderata. Lasciata da parte ogni altra cosa, pensa, o Lucilio, solo a questa, a non temere la parola morte: renditela familiare a forza di pensarci, in modo che, se sarà il caso, tu possa anche andarle incontro.
Cosmo e filosofia Contro gli eccessi del razionalismo stoico
Seneca mette in discussione il rigoroso razionalismo della tradizione stoica e arriva anche a criticarne alcuni eccessi. In questa direzione si muovono altri aspetti della riflessione dell’ultimo Seneca, soprattutto le Ricerche sulla natura. In quest’opera, notevole per le competenze scientifiche che è possibile rilevare fra le sue pagine, Seneca formula dubbi espliciti sul carattere assolutamente buono dell’ordine provvidenziale del tutto.
T32
(2) Così è. Nulla riesce difficile alla natura, specie quando s’affretta alla propria estinzione. Per dar vita alle cose fa parco uso della sua potenza e interviene con impercettibili accrescimenti; ma per distruggere giunge all’improvviso con tutta la sua veemenza. Quanto tempo è necessario perché il bambino, una volta concepito, si conservi fino alla nascita, con quante fatiche viene allevato, delicato com’è, con quale accurata alimentazione il fragile corpo finalmente si sviluppa! Ma quanto poco ci vuole perché scompaia! Molti anni occorrono per edificare una città, basta un’ora per distruggerla; in un attimo diventa cenere quello che a lungo fu bosco; tutto ciò che esiste e prospera richiede grandi attenzioni, rapidamente e all’improvviso si dissolve. (3) Una minima deviazione della condizione presente basta alla natura per annientare l’umanità. Dunque quando arriverà quel momento ineluttabile, il fato ricorrerà a più cause insieme. Un così grande cataclisma non può verificarsi senza un forte scuotimento del mondo.
La natura distruttrice
Seneca, Ricerche sulla natura 3,27
Come risulta chiaro da quest’ultimo accenno, le considerazioni non più ottimistiche di Seneca valgono soprattutto di fronte a eventi talmente catastrofici (come il diluvio destinato a chiudere un ciclo cosmico descritto forse sotto l’influsso dell’analoga trattazione di Lucrezio) da rendere non eliminabile, né forse più giustificabile, la presenza di un male inconciliabile con l’immagine della divinità interna al mondo, anzi identificata con esso. La frattura tra mondo La dottrina che Seneca non ritiene più difendibile è dunque quella della piena e Lògos continuità o meglio della indistinguibilità fra Lògos divino e cosmo. Egli, avvicinandosi forse a teorie di chiaro sapore platonico, sente ormai la divinità come un’entità profondamente diversa rispetto al mondo materiale, al punto da considerarla distinta da esso, sullo sfondo di una più generale separazione fra il piano intelligibile e quello sensibile. Il male e il divino
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In una simile prospettiva, infine, diventa nuovamente possibile (come sembra emergere anche in alcuni punti delle Lettere a Lucilio, specialmente nella 65), privilegiare l’ideale della vita contemplativa come unico atteggiamento in grado di farci oltrepassare i limiti strettissimi della nostra corporeità e della nostra contingenza. Fuga dagli affanni Solo una simile scelta, del resto, garantisce una forma di riposo o otium lontano dagli affanni della vita quotidiana, da Seneca sentita, nei suoi ultimi anni, come un vero carcere da cui evadere, anche e soprattutto grazie all’aiuto della filosofia, intesa come un’arte della vita fatta non di chiacchiere inutili, ma di precetti morali indispensabili al benessere dell’uomo.
La vita contemplativa
T33
Il potere della filosofia
Seneca, Lettere a Lucilio, 16,3
La filosofia non è già un’arte atta a procacciarsi il favore del popolo e di cui si possa fare ostentazione: essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni. […] la filosofia forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare, sta al timone e dirige il corso delle navi in balia delle onde attraverso i pericoli. Senza questa nessuno può vivere libero da timori e tranquillo; a ogni istante accadono innumerevoli fatti, i quali esigono consigli che solo essa può dare.
Epitteto: la riflessione sulla libertà Anche nel caso di Epitteto le vicende biografiche si intrecciano strettamente con la riflessione filosofica. Egli è infatti per lungo tempo schiavo e poi, dopo la sua liberazione, inizia a studiare la dottrina stoica presso Musonio Rufo, subendo però, probabilmente nel 93 d.C., il bando di espulsione decretato da Domiziano. La scuola e il Manuale Costretto ad abbandonare Roma, si rifugia a Nicopoli, in Epiro, dove apre una sua scuola, frequentata da personaggi molto in vista, fra cui il generale Arriano. Questi, proponendosi di fare con Epitteto ciò che Senofonte aveva fatto con Socrate, ne mette per iscritto gli insegnamenti nelle Diatribe, in otto libri, e poi in forma condensata e ridotta nel Manuale o Encheirìdion, così intitolato, ci spiega Simplicio, «perché dev’essere sempre a portata di mano e pronto per chi vuole vivere bene. E infatti anche l’encheirìdion [“pugnale”] militare è un’arma che deve essere sempre sottomano per chi la usa». La schiavitù e la formazione
La vita e le opere Epitteto nacque a Ierapoli, in Frigia, nel 50 d.C.; schiavo di Epafrodito, liberto di Nerone, venne liberato. Dopo la sua formazione stoica a Roma, presso Musonio Rufo, si trasferì a Nicopoli, dove morì nel 125/130 cir-
Orientamento pratico: ciò che dipende e ciò che non dipende da noi
ca. Il suo insegnamento ci è pervenuto grazie agli scritti di Arriano di Nicomedia: le Dissertazioni o Diatribe, in otto libri di cui quattro giunti fino a noi, e il Manuale, di cui è celebre la traduzione in italiano del poeta Giacomo Leopardi.
La dottrina di Epitteto ha soprattutto un orientamento pratico: ogni sua riflessione è indirizzata a rendere forte e felice la condotta umana. Pur ricollegandosi ai modelli degli antichi maestri stoici, egli assume una posizione ancora più netta: per garantire la piena autonomia dell’uomo, infatti, Epitteto distingue nettamente fra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi, come si legge nella prima massima del suo Manuale. 381
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T34
Le cose in nostro potere e le altre Epitteto, Manuale, 1
La libertà e la sorte
I fondamenti dell’etica di Epitteto
La realtà si divide in cose soggette al nostro potere e cose non soggette al nostro potere. In nostro potere sono il giudizio, l’impulso, il desiderio, l’avversione e, in una parola, ogni attività che sia propriamente nostra; non sono in nostro potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche pubbliche e, in una parola, ogni attività che non sia nostra. E ciò che rientra in nostro potere è per natura libero, immune da inibizioni, ostacoli, mentre quanto non vi rientra è debole, schiavo, coercibile, estraneo. Ricorda, allora, che se considererai libere le cose che per natura sono schiave, e tuo personale ciò che è estraneo, sarai impedito, soffrirai, sarai turbato, ti lamenterai degli dèi e degli uomini; se invece riterrai tuo solo ciò che è tuo, ed estraneo, come in effetti è, ciò che è estraneo, nessuno ti potrà mai coartare, nessuno ti impedirà, non ti lamenterai di nessuno, non accuserai nessuno, non ci sarà cosa che dovrai compiere contro voglia, nessuno ti danneggerà, non avrai nemici, perché non potrai patire alcun danno. Ora, se aspiri a così alta condizione, ricorda che non basta uno sforzo modesto per raggiungerla, ma ci sono cose che devi definitivamente abbandonare, altre che per il momento devi differire. […] Quindi esercitati fin d’ora a dire a ogni rappresentazione che ti colpisca per la sua asprezza: «sei soltanto una rappresentazione, non sei affatto ciò che sembri in apparenza». Poi analizzala e sottoponila alla valutazione degli strumenti in tuo possesso, accettando – il primo e più importante esame – se essa sia relativa a cose che ricadono in nostro potere ovvero a quelle che non vi rientrano; e in questo secondo caso abbi già pronta la conclusione: «per me non è nulla». Proponendo questa radicale bipartizione fra ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è, Epitteto identifica il primo ambito con quello della piena libertà, mentre nel secondo, affidato alla sorte e sottratto a ogni nostro intervento, vede la fonte di ogni schiavitù, sofferenza, angoscia o sconfitta.
Giudizio Elementi in nostro potere
Impulso Desiderio
Ambito della piena libertà
Avversione Corpo Elementi non in nostro potere
Patrimonio
Ambito della sorte
Reputazione Cariche pubbliche
Da questo punto di vista la libertà è allora legata allo sforzo dell’anima di concentrarsi sulle rappresentazioni, accogliendo solo quelle vere, e presuppone l’applicazione di una sorta di principio primo razionale: la scelta predeterminata (o proàiresis) fra ciò che è bene e ciò che è male, il corretto orientamento verso ciò che è conforme alla natura. Si tratta ovviamente di una scelta non arbitaria, ma inserita nel piano provvidenziale della divinità, le cui direttive devono essere accettate e seguite come fossimo buoni attori sul palcoscenico del cosmo. Esercizi di logica Per raggiungere questa condizione di libertà, per diventare insomma non schiavi, ma padroni delle circostanze Epitteto consiglia infine di esercitarsi con cura La scelta predeterminata
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nella logica, sempre funzionale o addirittura subordinata al buon esito dell’azione morale e capace di fornire strumenti adatti a rafforzare i nostri valori etici, per esempio a evitare il pericoloso rischio della menzogna, come si legge nella massima 52 del Manuale.
T35
Tener fermi i principi
Epitteto, Manuale, 52
In filosofia il settore primo e più necessario è l’applicazione dei principi; per esempio: non mentire. Il secondo sono le dimostrazioni; per esempio: perché non si deve mentire? Il terzo costituisce la conferma e la distinzione dei primi due: da dove deriva che questa sia una dimostrazione?, che cos’è una dimostrazione?, cos’è una conseguenza logica, una contraddizione?, e la verità, e il falso? Il terzo settore, quindi, è necessario per il secondo, e il secondo per il primo; ma il più necessario, quello su cui dobbiamo soffermarci, rimane il primo. Invece noi facciamo il contrario: indugiamo sul terzo e tutto il nostro impegno ruota intorno a quello; mentre del primo ci disinteressiamo totalmente. Per questo da un lato pratichiamo la menzogna, dall’altro teniamo sottomano la dimostrazione che non si deve mentire.
Marco Aurelio, il filosofo imperatore Il punto di contatto più alto ed evidente fra la dottrina stoica e il potere politico romano è senz’altro rappresentato dall’imperatore Marco Aurelio. Nonostante l’educazione retorica ricevuta alla scuola di Frontone, egli resta subito profondamente colpito e affascinato dalla filosofia stoica, a cui ispira le sue massime e i suoi pensieri, scritti in greco e raccolti in un’opera significativamente intitolata A se stesso.
La vita e le opere Marco Aurelio nacque a Roma nel 121 d.C.; divenne imperatore col nome di Marco Aurelio Antonino nel 161, e man-
tenne il titolo fino alla morte, avvenuta nel 180 a Vindobona, l’attuale Vienna. La sua raccolta di riflessioni A se stesso, altrimenti chiamata Ricordi, è suddivisa in dodici libri.
Si tratta di uno scritto che non presenta una visione sistematica della realtà, ma che offre una serie di riflessioni, brevi ed efficaci, nate dalla personale vicenda umana dell’imperatore. Marco Aurelio, infatti, sente sempre la sua funzione di guida politica come un impegno a cui è impossibile sottrarsi, come una forma di dovere pieno e totale cui è assegnato il compito, nei limiti del possibile, di riprodurre e mantenere sul piano sociale e umano l’ordine perfetto e razionale del cosmo. La solitudine Questa alta considerazione del proprio ruolo viene tuttavia ridimensionata in lui non solo da un acuto senso della solitudine, cui come imperatore egli si sente condannato, ma soprattutto dalla consapevolezza dei limiti insuperabili imposti a ogni singola esistenza umana. È questo un motivo sufficiente per respingere ogni forma di superbia e per sfuggire alla ricerca inutile e moralmente pericolosa della gloria.
L’uomo e il dovere
T36
L’abisso del tempo infinito Marco Aurelio, A se stesso, 4,3
Sarà forse il desiderio di una misera fama a tormentarti? Allora volgiti a guardare la rapidità con cui tutto cade nell’oblio, l’abisso del tempo infinito che si apre dall’una e dall’altra parte dell’esistenza, la vanità degli echi della fama, l’incostanza e la sconsideratezza di chi sembra distribuire le lodi e i limiti angusti dello spazio in cui questa fama è circoscritta. La terra intera, infatti, non è che un 383
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punto, e quale cantuccio di essa è questa parte che tu abiti? E anche qui, quanti e quali saranno quelli che tesseranno le tue lodi? E allora ricordati che hai la possibilità di ritirarti in questo tuo campicello, e prima di tutto non agitarti e non essere troppo teso, ma sii libero e guarda le cose come un vero uomo, come un essere umano, come un cittadino, come un essere mortale. Fra i principi da tenere più presenti, ai quali dovrai rivolgerti, vi siano questi due: in primo luogo le cose non toccano l’anima, ma se ne stanno fuori immobili, e gli affanni nascono solo dall’opinione che abbiamo in noi; in secondo luogo tutte queste cose che vedi in men che non si dica si trasformeranno e non esisteranno più; e pensa continuamente di quante trasformazioni tu stesso sei già stato testimone. Il cosmo è trasformazione, la vita è opinione. Il nous e il fluire delle cose
T37
L’incessante dileguarsi dell’esistente Marco Aurelio, A se stesso, 5,23
L’umanità del saggio
➥ Sommario, p. 402
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Sullo sfondo di queste riflessioni, Marco Aurelio riprende dunque in primo luogo la distinzione che già Epitteto ha proposto fra ciò che dipende da noi e ciò che è invece sottratto al nostro potere. L’unico spazio aperto al nostro controllo gli appare legato al dominio della mente o nous, che, ben diversamente dalle altre parti dell’anima, sa andare oltre la contingenza delle cose per tentare di realizzare una perfetta fusione con la razionalità dell’universo. Anche quest’ultimo obiettivo, però, si scontra con la mortalità della nostra condizione umana e, su un piano più generale, con la precarietà di tutte le cose, soggette a un fluire perenne, in cui è forse possibile vedere un’eco lontana di dottrine eraclitee. Pensa spesso alla velocità con la quale passano e si dileguano le cose che esistono e che nascono. La sostanza, infatti, è come un fiume che scorre perennemente, le attività sono soggette a continue trasformazioni, le cause assumono innumerevoli forme e quasi nulla è stabile, anche ciò che è vicino e a portata di mano. E pensa anche all’abisso infinito del passato e del futuro nel quale tutto si dilegua. E allora come non dovrebbe essere considerato un pazzo colui che si gonfia d’orgoglio, si angustia o si lamenta come se la sua pena avesse una durata considerevole e l’avesse tormentato a lungo? L’insieme delle massime di Marco Aurelio contribuisce quindi a disegnare una nuova immagine del saggio: non più quell’essere perfetto, modello insuperabile sempre e comunque, che hanno immaginato i primi stoici, ma un singolo fra singoli, debole e solo, impegnato però, nonostante il peso del tempo continuamente pronto a trasformare e rendere instabili le cose, non solo a rafforzare il proprio ‘campicello’, ma a dedicarsi agli altri, ad agire per loro e con loro, in una dimensione che vuole essere anche e sostanzialmente politica.
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Scetticismi antichi
4 I testi
Eusebio In Pirrone, Testimonianze: È e non è, T38
Cicerone Sul fato: Cause e volontà, T44
Diogene Laerzio In Pirrone, Testimonianze: Relativismo e distacco, T39
Sesto Empirico Lineamenti pirroniani: I dieci tròpi, T47; I cinque tròpi dell’epochè, T49; Terapie per i dogmatici, T51
Cicerone Dell’oratore: Il ritorno all’aporia socratica, T40 Varrone: Sospendere l’assenso, T41 Sesto Empirico Contro i logici: Rappresentazione e giudizio, T42; Verità incerte, T45; Rappresentazioni e circostanze, T46
Fozio Biblioteca: Si logorano invano, T48 Sesto Empirico Contro i matematici: Il linguaggio quotidiano, T50
Plutarco Cato Maior: Un ingegno sbalorditivo, T43 Obiettivi polemici comuni
La scepsi
Gli antecedenti
Specificità: ricerca e confutazioni
Pirrone e Arcesilao
Lo scetticismo è un insieme di posizioni di pensiero il cui obiettivo polemico è costituito dai grandi sistemi filosofici, come lo stoicismo e l’epicureismo, ma anche il platonismo e l’aristotelismo, con le loro pretese di costituire un sapere definitivo sul mondo, e di derivare da esso norme di vita universali e definitive. Per poter comprendere adeguatamente le vicende di questa corrente filosofica di età ellenistica, va chiarito in primo luogo che cosa si debba intendere per scetticismo. Il termine «scetticismo» è legato ai vocaboli greci skèpsis («indagine, ricerca») / skeptikòs e indica un atteggiamento di «ricerca» aperto e mai definitivo, di cui vanno tuttavia ben definiti i caratteri e i confini. Dichiarazioni di ignoranza o di dubbio sulle nostre capacità conoscitive o di pessimistico riconoscimento del carattere effimero della nostra condizione mortale erano state formulate sia da poeti sia da filosofi fin dagli inizi della tradizione culturale occidentale: si possono menzionare i nomi illustri di Omero o dei Sette Sapienti; di Archiloco o di Euripide; di Senofane, di Parmenide o di Zenone eleatico; di Eraclito o di Empedocle; di Ippocrate o di Democrito, di sofisti come Protagora e Gorgia, per chiudere naturalmente con Socrate o con lo stesso Platone. Ma il vero carattere e la specificità dello scetticismo antico, che va inteso come un movimento o un indirizzo di pensiero, consistono in due note distintive di fondo: 1) la convinzione che il vero scettico persevera senza sosta nella ricerca, secondo un atteggiamento di apertura mentale che diventa un vero e proprio fine del pensiero; 2) la raccolta sistematica e, se necessario, l’invenzione di argomenti, che mostrano l’impossibilità o l’infondatezza di qualsiasi pretesa conoscitiva e normativa rigida e fissata in dogmi. Se teniamo ben fermi questi due punti, è allora possibile individuare con esattezza quando tale atteggiamento si impone e consolida. Si tratta del dibattito filosofico iniziato fra IV e III secolo a.C. dalle riflessioni di Pirrone da una parte e di Arcesilao dall’altra. 385
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Parte prima L’età antica Due fondatori, due tradizioni
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Il riferimento non a uno, ma a due padri fondatori mostra come fin dall’inizio vi siano due forme diverse di scetticismo, fra loro non coincidenti e anzi spesso apertamente in contrasto: lo scetticismo pirroniano e quello accademico. Essi hanno una storia, un’evoluzione e vicende interne lunghe e complesse, i cui particolari non è facile ricostruire, spesso anche a causa della documentazione incompleta e frammentaria a nostra disposizione.
Le ragioni di Pirrone
La figura di Pirrone, nato in Elide e vissuto negli anni cruciali dei grandi cambiamenti storico-politici dell’età ellenistica, presenta subito alcune difficoltà. Egli non fonda infatti alcuna scuola filosofica, non ha quindi discepoli in senso stretto, anche se ha uditori e seguaci affascinati sia dalla sua capacità argomentativa sia dal suo modo di vita; soprattutto, come già ha fatto Socrate, egli non lascia nulla di scritto (a eccezione di un poema in onore di Alessandro Magno). La formazione Non è dunque facile determinare con esattezza i contorni della sua formazione intellettuale: sicuramente subisce l’influsso, tramite Anassarco, della tradizione democritea; altrettanto sicuramente ammira sempre gli insegnamenti letterari di Omero; un evento decisivo è infine per lui la partecipazione, fra il 334 e il 323 a.C., alla spedizione di Alessandro Magno in Oriente, dove quasi certamente ha modo di entrare in contatto con la saggezza indiana dei cosiddetti «sapienti nudi» (gimnosofisti, «fachiri»). La testimonianza Per poter ricostruire almeno le linee di fondo della filosofia di Pirrone dobbiadi Timone mo esaminare quel che ci dicono le testimonianze indirette, prima fra tutte quella del suo seguace più immediato, Timone di Fliunte. Egli si fa infatti ‘profeta’ di Pirrone, rielabora in modo teoricamente più raffinato alcuni spunti del suo pensiero e soprattutto lo trasforma nel punto di riferimento di alcuni scritti in versi e in prosa (Silli, Sulle apparenze, Pitone), conservati purtroppo in modo solo frammentario, ma sempre pieni di critiche e di satira violenta nei confronti degli altri filosofi.
Una figura sfuggente
La vita e le opere Pirrone nacque in Elide, nel Peloponneso, nel 360 a.C. e morì nel 270 circa a.C. Secondo la tradizione fu allievo del megarico Brisone e amico del democriteo Anassarco, insieme al quale si unì alla spedizione di Alessandro Magno, giungendo fino in India. Le principali testimonianze del suo insegnamento orale, oltre a quelle di Timone, ci sono pervenute grazie a Sesto Empirico, Diogene Laerzio ed Eusebio di Cesarea.
Il pensiero
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Timone nacque a Fliunte nel 320 a.C. e morì ad Atene nel 230 a.C. Trasferitosi a Megara, divenne discepolo di Stilpone e dal 295 circa di Pirrone; dopo la morte del maestro si recò ad Atene, dove rimase fino alla morte dedicandosi all’insegnamento di retorica e filosofia. Tra le sue opere ricordiamo il dialogo Pitone, i Silli e il trattato Sulle apparenze.
La lettura dell’insieme di queste testimonianze consente di definire meglio la posizione di Pirrone, al quale non è possibile attribuire la qualifica di scettico in senso stretto (nel senso cioè di instancabile «ricercatore» della verità). Egli non appare interessato, infatti, a perseguire senza sosta la ricerca e sostiene tesi che si pretendono definitive sulla realtà. In un passo importante riportato da Eusebio di Cesarea, Timone attribuisce a Pirrone le seguenti conclusioni.
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
T38
È e non è
Eusebio, in Pirrone. Testimonianze, 53
Afasia e imperturbabilità
Una metafisica negativa: non c’è nulla da conoscere
Contro il principio di non-contraddizione
L’etica
T39
Relativismo e distacco
Diogene Laerzio, in Pirrone, Testimonianze 1A,6
È necessario prima di tutto indagare sulla nostra conoscenza; se infatti per natura non conosciamo nulla, è superfluo indagare sul resto. […] Particolare forza nel dire ciò ebbe anche Pirrone di Elide, che però non lasciò nulla di scritto; ma il suo discepolo Timone afferma che colui che vuole essere felice deve guardare a queste tre cose: in primo luogo, come sono per natura le cose; in secondo luogo, quale deve essere la nostra disposizione verso di esse; infine, che cosa ce ne verrà, comportandoci così. Egli dice che Pirrone mostra che le cose sono egualmente senza differenze, senza stabilità, indiscriminate; perciò né le nostre sensazioni né le nostre opinioni sono vere o false. Non bisogna quindi dar loro fiducia, ma essere senza opinioni, senza inclinazioni, senza scosse, su ogni cosa dicendo: «è non più che non è», oppure «e è e non è», oppure «né è, né non è». A coloro che si troveranno in questa disposizione, Timone dice che deriverà per prima cosa la afasia [cioè il rifiuto di pronunciare giudizi], poi l’imperturbabilità [cioè il rifiuto di subire qualsiasi coinvolgimento emotivo di fronte agli eventi]. Stando a questo importantissimo resoconto, Pirrone sembra pronunciarsi in modo dogmatico sulla natura delle cose, che vengono definite, in modo negativo, come «senza differenze, senza stabilità, indiscriminate». Proprio questa indeterminatezza delle cose condiziona la nostra disposizione, lasciandoci «senza opinioni, senza inclinazioni, senza scosse»; da tutto ciò consegue «per prima cosa l’afasia, poi l’imperturbabilità»: questa si rivela dunque, come per altre scuole ellenistiche, il vero e ultimo obiettivo etico da perseguire. Una tale argomentazione ci presenta in ogni caso un Pirrone per nulla scettico, quanto piuttosto sostenitore di una sorta di metafisica negativa (assenza di differenze, in termini di valore e di realtà, fra le cose, tutte prive di stabilità). Sul piano conoscitivo egli non si ferma all’affermazione dubitativa, secondo cui non conosciamo nulla, ma sembra dichiarare piuttosto, senza esitazione, che nulla c’è da conoscere. Queste sue convinzioni lo portano a esprimersi, in modo coerente, secondo un linguaggio che non dà giudizi definitivi sulla realtà delle cose e che sfugge così anche al rigido principio logico aristotelico di non-contraddizione (di ogni cosa, infatti, bisogna dire che «è non più che non è», oppure «e è e non è», oppure «né è, né non è»). Solo chi percorre completamente tutte queste tappe potrà liberarsi da qualsiasi turbamento e raggiungere così la piena felicità. Proprio sul piano della condotta di vita, altre testimonianze ci mostrano un Pirrone pronto a negare valore assoluto a concetti fondamentali come quelli di bene e male; almeno su questo piano, dunque, bisognerebbe ammettere che egli fu in qualche modo scettico: potrebbero confermarlo tutte quelle testimonianze che presentano Pirrone come totalmente distaccato dai valori tradizionali, per nulla preoccupato dei pericoli del mondo esterno, indifferente perfino rispetto alle disgrazie di amici e seguaci, solitario e costante nei suoi atteggiamenti, come emerge da due testimonianze (il passo ci è restituito da Diogene Laerzio): […] diceva che nulla è né bello né brutto né giusto né ingiusto; e similmente di tutte le cose disse che nulla è secondo verità; e che gli uomini agiscono in tutto per convenzione ed abitudine; ogni cosa è non più questo che quello. […] si comportava in modo conseguente anche nella vita, nulla scansando e da nulla guardandosi, stando saldo di fronte a tutto, carri, se capitasse, precipizi o 387
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Parte prima L’età antica
cani, nulla affatto concedendo ai sensi. Ma veniva salvato […] dagli amici che lo accompagnavano. Indifferenza e imperturbabilità
2 La svolta scettica
Al di là di possibili esagerazioni e distorsioni, appare evidente una caratteristica della figura di Pirrone: egli non volle elaborare alcun sistema morale definito e definitivo, ma si preoccupò soprattutto di offrire a chi stava intorno a lui un modello di azione legato alle esigenze quotidiane; più una testimonianza diretta e visibile, attraverso il modo di vivere, di indifferenza e imperturbabilità di fronte agli eventi del mondo, dunque, che un vero e proprio insegnamento filosofico.
Lo scetticismo nell’Accademia Dopo gli sviluppi dogmatici che i primi successori di Platone (Speusippo e Senocrate; vedi Unità 3, p. 156) avevano dato alla sua filosofia, la storia dell’Accademia subisce un cambiamento profondo, anzi una vera e propria svolta scettica nel III secolo a.C. con la figura di Arcesilao.
Arcesilao, il primo scolarca scettico La formazione e l’insegnamento
Dopo un periodo di formazione nella sua città natale Pitane, dedicato allo studio della matematica, e dopo essersi recato ad Atene per approfondire gli studi filosofici come discepolo di Teofrasto, Arcesilao entra nell’Accademia platonica, divenendone scolarca.
La vita Arcesilao nacque a Pitane, in Eolia, nel 315 circa a.C.; è considerato il fondatore della Accademia di mezzo (così è chiamata la seconda delle tre fasi in cui è convenzionalmente divisa l’Accademia platonica). Divenutone Il pensiero
T40
Il ritorno all’aporia socratica
Cicerone, Dell’oratore, 3,17,67ac
scolarca nel 265 a.C., restò tale fino alla morte, avvenuta intorno al 240 a.C., dando all’Accademia un indirizzo scettico. I fondamenti del suo insegnamento orale ci sono pervenuti soprattutto grazie alle testimonianze di Cicerone, Plutarco e Sesto Empirico.
Poiché egli, seguendo l’esempio di Socrate, non ha lasciato nulla di scritto, non è facile ricostruire con esattezza assoluta il suo pensiero. Appare tuttavia infondato il tentativo di trasformare Pirrone nella fonte prima dell’atteggiamento scettico di Arcesilao. La vera sorgente della filosofia di Arcesilao va ricercata altrove. In questa direzione, di fondamentale importanza si rivela una testimonianza di Cicerone. In primo luogo Arcesilao, scolaro di Polemone, trasse soprattutto la convinzione, dai vari scritti di Platone e dai dialoghi di Socrate, che niente può essere appreso con sicurezza attraverso i sensi o la mente. Si dice che questo filosofo, parlando in modo estremamente piacevole, rifiutasse ogni valutazione proveniente dalla mente e dai sensi e stabilisse per primo (sebbene tale metodo fosse del tutto socratico) l’uso di non rivelare il proprio pensiero e di confutare invece le opinioni espresse da ciascuno dei suoi interlocutori. Questo passo ci mette sulla strada giusta: per capire Arcesilao e la sua posizione filosofica occorre collegarlo in primo luogo a Socrate e naturalmente poi a Pla-
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
La verità non è raggiungibile
Gli altri precursori
La sospensione del giudizio
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Sospendere l’assenso
Cicerone, Varrone, 45
tone. Questo richiamo diventa ancora più chiaro se viene interpretato alla luce di una sorta di slogan, che rappresentò per Arcesilao una regola stabile dell’esercizio filosofico: il «discutere nell’un senso e in quello contrario». È questa per lui la vera essenza di ogni pensiero, espressa in modo immediato dall’attività di Socrate e testimoniata con chiarezza a livello letterario soprattutto dal carattere inconcludente o aporetico dei cosiddetti dialoghi giovanili di Platone, come anche di alcuni suoi scritti più tardi, primo fra tutti il Teeteto. Lo studio attento di queste opere e una naturale abilità dialettica nell’esaminare le questioni da punti di vista contrapposti contribuisce a rafforzare la convinzione di Arcesilao per cui né la testimonianza dei sensi né l’uso della ragione sono in grado di farci conoscere la vera natura delle cose. Si tratta di una conclusione che egli non ritiene affatto di aver inventato per primo, ma le cui tracce crede invece di ritrovare già, prima ancora che in Socrate e in Platone, in altri pensatori (presocratici e non, fra cui vanno ricordati almeno Parmenide, Senofane, Anassagora, Empedocle, Democrito, Metrodoro di Chio, Stilpone, Diodoro Crono, Alessino, i cirenaici). L’atteggiamento filosofico di Arcesilao, anche se nasce dalla volontà di trovare la verità, si scontra però con l’uguale forza delle tesi opposte su di un medesimo tema e non può che sfociare, dunque, in una sospensione generalizzata del proprio assenso. Un passo ciceroniano riassume bene le linee di fondo di questa posizione. Pertanto Arcesilao dichiarava che non vi è nulla che si possa sapere, neppure quello che Socrate si era serbato, il sapere di non saper nulla: a tal punto tutte le cose gli sembravano nascoste nel buio; e così risolutamente pensava che non vi sia nulla che si possa scorgere o intendere. Per queste ragioni bisogna, secondo lui, che nessuno dichiari o affermi o approvi col suo assenso alcunché, e che ognuno freni sempre e trattenga da ogni pericolo di caduta la sua temerità, temerità che è grandissima quando si assente a una cosa falsa o sconosciuta; e non c’è niente di più turpe del caso in cui l’assenso e l’approvazione precorrono la cognizione e la percezione. In pratica, Arcesilao faceva quel che era concordante con la sua teoria: e così appunto disputando contro le opinioni di tutti, distoglieva i più dei suoi interlocutori dalla loro opinione, affinché, trovandosi nel medesimo argomento ragioni egualmente pesanti dalle due opposte parti, più facilmente si sospendesse l’assenso dall’una e dall’altra parte.
Alla base delle riflessioni filosofiche di Arcesilao vi sono quindi tesi genuinamente socratiche, e insieme una sostanziale fedeltà a un aspetto di fondo della filosofia di Platone: quello che insisteva sul carattere limitato delle capacità conoscitive dell’uomo. Su questo sfondo diventano comprensibili e vanno interpretati anche gli attacchi, già evidenti nel brano appena citato, portati da Arcesilao contro la pretesa di altre scuole rivali di poter raggiungere una conoscenza certa e assoluta, confidando per di più in modo primario nella testimonianza dei sensi. Contro gli stoici Così, prendendo di mira soprattutto il criterio della verità individuato dagli stoici nella rappresentazione comprensiva e nella solida comprensione che essa produce, egli adotta un tipo di polemica ad hominem, ovvero capace di sfruttare come punto di partenza le tesi stesse degli avversari da combattere. Gli argomenti In un primo momento egli accetta dunque il dogma stoico secondo cui il vero sapiente non formula mai opinioni, nel senso che non concede mai il proprio assenso a una rappresentazione falsa. Individua quindi una serie di esempi (dai ge-
I limiti dell’umana conoscenza
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melli alle uova alle monete con lo stesso conio, che possono facilmente venir scambiati l’uno per l’altro, per arrivare alle illusioni o alle allucinazioni che si producono in sogno o in stati di follia), che mostrano l’impossibilità di distinguere fra rappresentazioni vere e rappresentazioni false. La conclusione: Stando così le cose, il vero saggio, se davvero non vuole cadere vittima di opiil saggio sospende nioni, deve evitare di concedere il proprio assenso a qualsiasi rappresentazione il giudizio e dunque deve sospendere il giudizio in modo incondizionato. Arcesilao sviluppa questa serrata argomentazione polemica attraverso una serie di passaggi così articolati:
T42
Rappresentazione e giudizio Sesto Empirico, Contro i logici, 7
L’epochè
Le conseguenze etiche dell’epochè
Una morale minimale
Il criterio del ragionevole: un esempio
Le obiezioni allo stoicismo
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(154) In realtà la comprensione, se s’identifica con l’assenso della rappresentazione, non ha consistenza, in primo luogo perché l’assenso non nasce in relazione alla rappresentazione, bensì in relazione alla ragione (ché le varie specie di assenso si riferiscono a giudizi), in secondo luogo perché non si riscontra nessuna rappresentazione vera che sia tale da non poter diventare falsa, come risulta da molte e svariate evenienze. (155) Ma se non c’è rappresentazione comprensiva, non verrà ad esserci neanche comprensione, giacché questa risultava essere un assenso alla rappresentazione comprensiva. E non essendovi comprensione, tutte le cose saranno incomprensibili. Ma se tutte le cose sono incomprensibili, conseguirà che, persino secondo gli stoici, il saggio sospende il giudizio. Per Arcesilao non esiste, dunque, alcun criterio di verità, non si può comprendere nulla e bisogna rassegnarsi all’epochè, cioè alla sospensione del giudizio intorno alla verità e alla falsità di qualsiasi asserzione o rappresentazione. Se si giunge all’epochè, allora però, controbattevano gli stoici, il saggio descritto da Arcesilao non avrà alcun punto di riferimento per la propria azione e sarà costretto alla totale inattività. Per superare queste obiezioni e sfuggire a questa accusa Arcesilao propone in modo positivo una sua teoria morale. Il modello di comportamento da seguire è quello che in modo naturale indirizza verso il bene come ciò che è proprio; per metterlo in atto basta secondo Arcesilao il legame meccanico, quasi automatico fra la rappresentazione di un oggetto che si rivela appropriato e il relativo impulso, senza alcun bisogno di ricorrere all’assenso richiesto dagli stoici. Per esempio bere acqua quando si ha sete non richiede la formulazione di alcun giudizio del tipo «questo liquido è acqua; l’acqua è dissetante; dissetarsi è un bene; dunque berrò». L’azione che viene compiuta in questo modo è retta ed è la sola che, dopo essere stata compiuta, può essere spiegata razionalmente, ovvero secondo quel criterio del ragionevole, che ne costituisce una giustificazione a posteriori. Stoici
Scettici accademici
1) Rappresentazione comprensiva
Non vi è rappresentazione comprensiva, non potendosi distinguere le rappresentazioni vere da quelle false
2) Assenso
L’assenso nasce in relazione alla ragione, non alla rappresentazione
3) Comprensione
La comprensione risulta dunque inconsistente
4) Scienza
Tutte le cose risultano incomprensibili, si deve quindi sospendere il giudizio (epochè)
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Carneade: contro ogni dogmatismo La svolta scettica impressa alla storia dell’Accademia da Arcesilao non si esaurisce con lui. Dopo una serie di scolarchi di cui conosciamo a malapena i nomi, fu in particolare Carneade la personalità più impegnata a difendere lo scetticismo accademico. Contro Crisippo Egli polemizza soprattutto con lo stoico Crisippo, tanto da arrivare ad affermare: «nulla io sarei se non fosse esistito Crisippo» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 4,62). Il suo impegno filosofico e la sua capacità nel discutere le tesi degli avversari, mostrandone sia l’inevitabile contraddizione sia la reciproca discordanza, non solo sono frutto di uno studio costante e serio, ma gli garantiscono una fama sicura.
La vita Carneade nacque a Cirene nel 214 a.C. e morì ad Atene nel 129 a.C. Fu scolarca dell’Accademia platonica. Non lasciò nulla di scritto. Per ricostruirne le posizioni dobbiamo quindi affidarci a fonti più tarde, che proba-
L’ambasceria
T43
Un ingegno sbalorditivo
Plutarco, Cato Maior, 22
bilmente traevano le loro notizie dai molti libri, più di quattrocento, anch’essi perduti, di un suo allievo, Clitomaco, nato nel 187 circa a.C. e morto circa nel 110 a.C., che gli succedette nella direzione dell’Accademia per alcuni anni.
Anche per le doti sopra accennate, Carneade viene chiamato a far parte, insieme allo stoico Diogene di Babilonia e al peripatetico Critolao, della famosa ambasceria di filosofi greci che si reca a Roma nel 155 a.C. (vedi anche sopra, p. 375). In quest’occasione egli ha modo di dimostrare tutta la forza del suo modo di intendere la filosofia: con grande abilità dialettica, infatti, parla contemporaneamente pro e contro la giustizia e l’idea di diritto naturale, suscitando così nei suoi ascoltatori un sentimento enorme di ammirazione, come testimonia Plutarco. In particolar modo la grazia di Carneade, che possedeva un grandissimo potere e godeva di una fama non inferiore a questo potere, riuscì a conquistare un vasto pubblico di ascoltatori simpatizzanti e riempì la città di fragore, come una raffica di vento. E si diffuse la voce che un uomo dell’Ellade, superdotato di ingegno sbalorditivo, incantando e soggiogando ogni cosa, aveva suscitato nei giovani un terribile fascino, a causa del quale essi avevano disertato ogni altro piacere e divertimento e, come invasati, si davano alla filosofia.
Prendendo come punto di partenza le dottrine dei filosofi rivali, soprattutto stoici, Carneade elaborò un insieme impressionante di argomenti contro tutte le parti della cosiddetta filosofia dogmatica. Dalle fonti sappiamo infatti che egli attaccò aspetti essenziali della fisica degli stoici, concentrandosi in particolare su alcune loro posizioni teologiche, come per esempio: il peso e la funzione della provvidenza divina; l’uso e l’ambito di applicazione della divinazione; le presunte dimostrazioni sillogistiche dell’esistenza degli dèi; la visione fatalistica dell’universo. Libertà e volontà Su quest’ultimo punto egli sosteneva, come testimonia Cicerone, la tesi per cui la causa dei nostri atti liberi non è all’esterno di noi, ma all’interno e coincide con la nostra volontà non soggetta alla costrizione del fato.
Contro la filosofia dogmatica
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Parte prima L’età antica
T44
Cause e volontà Cicerone, Sul fato
Fallibilità dei sensi e rappresentazione comprensiva
T45
Verità incerte Sesto Empirico, Contro i logici, 7
Assensi occasionali
Giudizi probabili e persuasivi
La scala delle rappresentazioni
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(24) Orbene: noi facciamo abuso di un luogo comune quando affermiamo che qualcuno vuole o non vuole qualcosa senza una causa: usiamo l’espressione «senza una causa» per dire «senza una causa esterna e anteriore» e non già «senza una causa in senso assoluto». Così, quando usiamo l’espressione «vaso vuoto», noi non intendiamo darle il significato che le danno i fisici, i quali non ammettono l’esistenza del vuoto, ma per indicare, ad esempio, che il vaso è senza acqua o senza vino o senza olio; allo stesso modo, quando noi affermiamo che l’anima si muove senza causa, intendiamo dire che essa si muove senza una causa anteriore ed esterna, ma non senza una causa in senso assoluto. […] (25) […] Similmente per i moti dell’anima non bisogna mettersi alla ricerca di una causa esterna, giacché il moto volontario possiede in sé medesimo una siffatta natura da essere in nostro potere e da prestarci obbedienza; né ciò è senza causa, giacché la causa di questo fatto si identifica con la natura stessa. Non meno deciso è l’attacco di Carneade contro la dottrina della conoscenza degli stoici e in particolare contro il loro presunto criterio di verità. Ricorrendo a raffinate obiezioni, egli mette infatti in discussione non solo l’attendibilità conoscitiva dei sensi, ma soprattutto la possibilità stessa di individuare in modo certo rappresentazioni comprensive e, di conseguenza, la pretesa stoica di fondare su queste ultime il funzionamento stesso della ragione. Come ci riferisce Sesto Empirico infatti: (164) […] d’altra parte, poiché non c’è alcuna rappresentazione vera che sia tale da non poter diventar falsa, ma si riscontra l’esistenza di una qualche rappresentazione falsa che corrisponde ad ogni rappresentazione che sembra vera, il criterio verrà a prodursi in una rappresentazione avente in comune il vero e il falso. Ma la rappresentazione che ha in comune queste due cose non è comprensiva e, non essendo comprensiva, non sarà neppure criterio. (165) E non essendovi alcuna rappresentazione che sia in grado di giudicare, non sarà criterio neppure la ragione, giacché quest’ultima dalla rappresentazione deriva. Ed è naturale: difatti deve prima apparire alla ragione l’oggetto che viene giudicato; ma nulla può apparire, ove si prescinda dall’irrazionale sensazione; però né l’irrazionale sensazione né la ragione s’identificano col criterio. Appare evidente il carattere dialettico, anti-stoico, di questa argomentazione di Carneade, il quale tuttavia non arriva ad assumere la stessa, radicale posizione di Arcesilao. Rispetto a quest’ultimo, infatti, Carneade non accoglie a quanto pare la tesi di una sospensione generalizzata del giudizio; ammette anzi la possibilità che almeno occasionalmente il saggio conceda l’assenso e dunque formuli opinioni. Bisogna tuttavia chiarire bene il meccanismo di questo assenso, per evitare di trasformare Carneade in un pensatore dogmatico. Naturalmente egli esclude che si possa dare l’assenso a qualcosa di vero, accettando invece che si possa seguire ciò che si presenta al nostro giudizio come pithanòn ovvero, secondo la duplice sfumatura di significato di questo termine, come «probabile» e dunque «persuasivo». Specificando meglio questa sua convinzione e preoccupandosi in particolare dell’aspetto soggettivo dei meccanismi conoscitivi, Carneade arriva a formu-
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
lare una vera e propria scala progressiva delle rappresentazioni, distinguendole in: 1) persuasive; 2) persuasive e non contraddette; 3) persuasive, non contraddette e ben esaminate, in grado più di tutte le altre se non di essere, quanto meno di apparire vere. Prudenza del metodo Senza concedere valore assoluto alle nostre capacità conoscitive, Carneade sottolinea la necessità di indagare con cura, senza precipitazione e utilizzando tutto il tempo a disposizione ogni aspetto della realtà esterna. Solo mettendo in atto questo cauto metodo è possibile, a suo avviso, evitare la paralisi delle proprie azioni. Individuazione di regole Facendo uso delle rappresentazioni massimamente probabili e persuasive, apdi condotta provandole e cedendo alla loro forza convincente, infatti, si può ottenere un punto di riferimento o più precisamente un criterio, in virtù del quale regolare il proprio comportamento in ogni occasione. Diventa così possibile prendere decisioni appropriate di fronte alle situazioni, anche le più estreme, adattandosi alle circostanze mediante azioni per nulla casuali, ma dettate dalla capacità di riflettere e di confrontare i dati presenti al momento attuale con quelli già presentatisi nel passato; come testimonia Sesto Empirico, infatti:
T46
Rappresentazioni e circostanze Sesto Empirico, Contro i logici, 7
(185) […] essi [Carneade e i suoi seguaci] dicono che, come per cose tra loro differenti assumono una differente rappresentazione, così anche, secondo la diversità delle circostanze, non si attengono alla medesima rappresentazione. Essi, infatti, affermano di badare solamente a quella che è di per sé persuasiva in quelle questioni in cui la circostanza non ci offre l’opportunità una precisa contemplazione dell’oggetto. (186) Così, ad esempio, un uomo è inseguito dai nemici e, giunto in un fossato, si lascia attrarre da una certa rappresentazione a supporre che anche lì ci siano nemici in agguato contro di lui; quindi, indotto da questa rappresentazione che egli ritiene persuasiva, si scansa ed evita il fossato, seguendo il carattere persuasivo della rappresentazione, senza prima essersi accertato con precisione se davvero in quel luogo ci sia un’imboscata di nemici o non ci sia affatto.
La posizione complessiva di Carneade, anche per il fatto di non essere stata mai messa per iscritto, si presta a essere interpretata in direzioni diverse. Di fatto questo è ciò che accade fra i suoi immediati successori, che si dividono in due partiti ben distinti. Clitomaco e Metrodoro L’uno, che fa capo a Clitomaco (187-110 a.C.), presenta Carneade come campione di uno scetticismo radicale, impegnato unicamente in una battaglia dialettica con i rivali stoici. L’altro, legato alla figura di Metrodoro di Stratonicea (nato intorno al 160 a.C.), è invece più disposto a riconoscere un lato per così dire positivo della filosofia di Carneade e dunque a mitigarne le conclusioni scettiche. La revisione di Filone Di particolare interesse, ma di difficilissima interpretazione a causa dello stato di Larissa delle testimonianze che lo riguardano, appare infine la figura di Filone di Larissa (154-83 a.C.), che sembrerebbe rappresentare un nuovo punto di svolta all’interno della storia dell’Accademia scettica. È infatti probabile che proprio con Filone si sia realizzata una profonda revisione delle posizioni scettico-accademiche; egli non accetta più la tesi radicale di una totale incomprensibilità delle cose, poiché «[…] dal canto suo le cose sono incomprensibili stando al criterio stoi393
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co, ovvero alla rappresentazione comprensiva, comprensibili, invece, stando alla natura delle cose stesse» (Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, 1,235). L’alternativa È stato questo progressivo indebolimento delle posizioni scettiche sostenute all’interno dell’Accademia che ha determinato il tentativo di proporre una forma nuova di scetticismo, quella pirroniana, capace di reinterpretare in modo molto più radicale sia il senso dell’indagine filosofica sia l’intero panorama della storia del pensiero precedente.
3
L’eredità pirroniana
Dopo la scomparsa di Timone non sappiamo con esattezza se la posizione di Pirrone sia stata ripresa e abbia avuto un qualche sviluppo: ci mancano infatti dati testuali certi e attendibili per poterne ricostruire le vicende. Stando tuttavia alla testimonianza di Menodoto – noto medico empirico, da collocare intorno alla metà del II secolo d.C. – non vi sarebbe stata nessuna continuità nella tradizione pirroniana, poiché Timone «non ebbe alcun successore». La rinascita Menodoto vuole invece collegare la ripresa del pirronismo all’ambiente della medicina empirica (vedi Unità 5, p. 299). All’interno di questo incontro fra sapere medico e riflessione filosofica altre fonti riconoscono poi un ruolo di primo piano a Enesidemo. Il declino
La radicalità di Enesidemo Nonostante le notizie incerte e non sempre affidabili, ciò che sicuramente caratterizza la posizione di Enesidemo è una forte polemica contro i rappresentanti dell’Accademia dei suoi giorni, in primo luogo, forse, contro Filone di Larissa: essi si dicono infatti ancora scettici, ma il loro pensiero si rivela piuttosto «una lotta di stoici contro stoici» (Fozio, Biblioteca, Cod. 212). Secondo Enesidemo, quindi, non è all’interno della storia dell’Accademia che può essere individuato il vero atteggiamento scettico. Ritornare a Pirrone Occorre cercare altrove un padre fondatore; per questo egli si rivolge alla figura di Pirrone, che tuttavia interpreta – forse anche sotto l’influsso di Timone – come il portavoce di una filosofia completamente scettica, trasformandolo così in una sorta di modello ideale. I tròpi dell’epochè Al di là di questo aspetto di fondo, non è facile ricostruire nei dettagli la dottrina di Enesidemo; ciononostante emergono alcuni punti fermi. Egli è infatti il primo a raccogliere sistematicamente i tròpi (o «modi» o «schemi» o «argomenti» o «ragioni») della sospensione del giudizio (epochè), ovvero l’insieme delle varie argomentazioni specifiche e degli strumenti tecnici che la tradizione scettica aveva elaborato nel corso della sua storia per evitare di pronunciarsi dogmaticamente su qualsiasi tema di indagine.
Contro gli accademici
La vita e le opere Di Enesidemo sappiamo pochissimo: nacque probabilmente a Cnosso, fu attivo nella seconda metà del I secolo a.C. e insegnò ad Alessandria. Oltre che per Pirrone,
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nutrì grande ammirazione per Eraclito. Della sua opera principale, andata perduta, i Discorsi pirroniani, in otto libri, ci è pervenuto un riassunto redatto dal patriarca Fozio (IX secolo d.C.).
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo La classificazione delle opposizioni
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I dieci tròpi
Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, 1
Come testimonia Sesto Empirico, Enesidemo classifica le opposizioni possibili fra il modo in cui un oggetto appare (alla percezione sensibile o intellettuale) e ciò che esso è in realtà o secondo natura, raggruppandole appunto in dieci «modi», che sono nell’ordine: (36) […] primo quello legato alle differenze insite negli animali; secondo quello legato alla diversità fra gli uomini; terzo quello legato alle diverse condizioni degli organi di senso; quarto quello legato alle circostanze; quinto quello legato alle posizioni e agli intervalli spaziali e ai luoghi; sesto quello legato alle mescolanze; (37) settimo quello legato alle quantità e ai modi di preparazione delle cose; ottavo quello legato a ciò che è relativo; nono quello legato alla maggiore o minore frequenza degli avvenimenti; decimo quello legato ai modi di vita e alle consuetudini e alle leggi e alle credenze mitiche e alle concezioni dogmatiche.
La critica di Enesidemo colpisce in sostanza il carattere sempre relativo, non oggettivo, dei dati che la sensazione ci offre intorno alla realtà. L’occhio di una mosca vede un mondo diverso da quello dell’occhio umano; un malato percepisce i sapori in modo diverso da un sano; le diverse culture hanno concezioni diverse della vita, di ciò che è giusto o ingiusto. Non esiste alcun criterio assoluto per decidere quali di queste diverse rappresentazioni corrisponda alla realtà oggettiva. Verità, segno, Oltre a questi modi della sospensione del giudizio e oltre a una serie di argodimostrazione menti polemici contro coloro che vogliono fornire una spiegazione causale delle cose e degli eventi, Enesidemo attacca anche altri concetti fondamentali della riflessione filosofica dogmatica, come quelli di verità, segno, dimostrazione. L’insieme di queste critiche ha a suo avviso uno scopo ben preciso, come testimonia Fozio:
La relatività delle sensazioni
T48
Si logorano invano
Fozio, Biblioteca, 212
L’ataraxìa fine ultimo dell’uomo
[…] quelli che seguono gli altri indirizzi filosofici non si rendono conto, tra l’altro, di logorarsi invano e di sprecarsi in angustie continue, ignorando appunto questo, ossia di non aver compreso nulla di tutto ciò di cui sembra abbiano conseguito la comprensione. Invece il seguace della filosofia di Pirrone, tra i vari motivi della propria felicità, possiede la «saggezza» di rendersi soprattutto conto che egli non ha compreso nulla con certezza. Senza definire nulla come oggettivamente vero, e accettando di parlare solo di ciò che gli appare, Enesidemo ritiene di restare fedele al messaggio filosofico di Pirrone, al quale si ispira anche, forse, per stabilire che da un simile atteggiamento non deriva frustrazione o angoscia, ma al contrario la conquista della felicità, individuata in una forma completa di imperturbabilità o ataraxìa, fine ultimo di tutti i nostri sforzi, tanto intellettuali quanto morali.
La rete scettica di Agrippa Dopo Enesidemo si è di nuovo costretti a fare i conti con testimonianze che non sono abbondanti né sempre lineari e coerenti. Un’eccezione sembra essere costituita da Agrippa, vissuto forse nel I secolo d.C. 395
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Parte prima L’età antica I cinque tròpi
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I cinque tròpi dell’epochè
Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, 1
Se è vero che non abbiamo notizie sulla sua vita e sulle sue opere, sappiamo però che, andando oltre Enesidemo e rendendo ancora più acuta la sua polemica, egli elabora cinque modi o tropi – 1) discordanza, 2) regresso, 3) relatività, 4) ipotesi, 5) diallele ovvero circolarità della prova – pensati come una potentissima «rete scettica» capace di bloccare ogni mossa dei dogmatici, secondo meccanismi argomentativi opportunamente descritti in questo passo di Sesto Empirico: (164) Gli scettici più recenti trasmettono i seguenti cinque tropi della sospensione del giudizio: primo quello che deriva dalla discordanza, secondo quello che si spinge all’infinito, terzo quello che deriva dalla relatività, quarto quello ipotetico, quinto il diallele. (165) E quello che deriva dalla discordanza è quello in base al quale, intorno all’argomento proposto, scopriamo sussistere, secondo la vita da una parte e secondo i filosofi dall’altra, un indirimibile dissenso, a causa del quale, non essendo capaci di scegliere o rigettare qualcosa, concludiamo alla sospensione del giudizio. (166) Quello che deriva dal regresso all’infinito è quello in cui diciamo che ciò che viene addotto a prova dell’argomento proposto ha (esso stesso) bisogno di un’altra prova, e quello di un’altra ancora e così all’infinito, cosicché scaturisce di conseguenza la sospensione del giudizio, poiché non possediamo un punto da cui cominciare a fondare (il nostro discorso). (167) Quello che deriva dalla relatività, come abbiamo già detto, è quello in cui, relativamente a chi giudica e alle cose che si colgono unitamente all’oggetto, la realtà esterna appare in questo o quel modo, mentre sospendiamo il giudizio su cosa essa sia per natura. (168) Quello a partire dall’ipotesi si ha quando i dogmatici, risospinti all’infinito, prendono avvio da un punto per il quale non offrono fondamento, ma che, in base a una concessione, reputano di poter accogliere semplicemente e senza dimostrazione. (169) Il tropo del diallele si produce quando ciò che deve far da prova della cosa indagata ha a sua volta bisogno della conferma derivante (proprio) dalla cosa indagata; donde, non essendo in grado di accogliere nessuno dei due a conferma dell’altro, sospendiamo il giudizio su entrambi.
Soprattutto efficace si prova questo argomento del diallele, o «circolarità» dell’argomento. Esso vale in primo luogo a confutare il concetto di causa, e quindi la visione dogmatica (stoica) del mondo come una rigida catena di cause ed effetti. Se A deve essere considerato causa dell’effetto B, è necessario che questo effetto esista perché A possa essere la sua causa (nessuno è padre prima di avere un figlio). Perciò, B è causa dell’esser causa di A (il figlio è causa dell’esser padre del padre). Causa ed effetto risultano quindi logicamente intercambiabili. L’inconcludenza L’argomento può venire rivolto anche contro le pretese dimostrative del sillogidel sillogismo smo aristotelico. Consideriamo questo sillogismo: (A) tutti gli uomini sono mortali; (B) Socrate è un uomo; (C) dunque Socrate è mortale. Ma (A) è vero solo se (C) è vero; dunque la conclusione del sillogismo è in realtà premessa della premessa sulla base della quale doveva venire dimostrata; l’argomento è circolare e perciò inconcludente.
La circolarità: intercambiabilità logica di causa ed effetto
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo La circolarità dei sillogismi
A (premessa) Tutti gli uomini sono mortali
A è però vero soltanto se C è vero, dunque la conclusione risulta essere premessa della premessa
B (premessa) Socrate è un uomo
Il sillogismo risulta essere circolare, dunque inconcludente
C (conclusione) Socrate è mortale
Sesto Empirico, l’ultimo grande pirroniano Sulla scia dei suoi predecessori, facendo tesoro soprattutto delle posizioni espresse da Enesidemo e da Agrippa, si muove infine l’ultima grande figura a noi nota della tradizione pirroniana: Sesto Empirico, che è anche la nostra più importante sorgente di informazioni in merito al pirronismo antico. Poche notizie, Al di là della professione medica e della sua probabile appartenenza alla setta molti scritti medico-empirica, ben poco sappiamo di lui, e per quanto riguarda la cronologia e rispetto ai luoghi in cui nacque e visse. Fortunatamente solo una piccolissima parte della sua ricca produzione, però, è andata perduta.
La vita e le opere Sesto Empirico probabilmente visse tra il 180 e il 220 d.C.; verosimilmente si mosse fra Alessandria, Atene e Roma. Il soprannome «Empirico» pare sia dovuto alla sua appartenenza alla scuola di medicina empirica. Sotto il nome di Sesto ci sono state tramandate le seguenti opere, probabilmente composte nell’ordine che segue: i Lineamenti pirro-
niani, in tre libri; l’Adversus mathematicos («Contro i matematici») che comprende l’Adversus dogmaticos («Contro i dogmatici»), in cinque libri e l’Adversus mathematicos propriamente detto, che si potrebbe tradurre Contro i professionisti della cultura, in sei libri (tra cui Contro i logici), specificamente rivolti contro le arti liberali esercitate da grammatici, retori, matematici, geometri, astrologi, musici.
Proprio la lettura dell’insieme di queste opere consente di valutare meglio le caratteristiche di fondo sia del pirronismo antico in generale sia più in particolare di Sesto Empirico come autore originale e in parte indipendente, visto che egli non è un mero copista della tradizione a lui precedente. A Sesto va in ogni caso riconosciuta una funzione importantissima: quella di vera miniera di informazioni riguardo non solo al suo indirizzo di pensiero e a tutte le correnti che caratterizzano lo scetticismo antico (da quello accademico a quello verosimilmente sviluppatosi in ambito medico), ma anche a quasi tutte le scuole filosofiche dogmatiche da lui combattute. Gli argomenti Nelle sue opere polemiche Sesto raccoglie infatti numerosissime argomentazioni contro i dogmatici contro la filosofia dogmatica, esaminata e combattuta nella sua tradizionale tripartizione, ovvero sul piano della logica (con particolare attenzione alle nozioni di criterio, vero e verità, segno, dimostrazione, sillogismo, induzione, definizioUna miniera di informazioni
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Parte prima L’età antica
Il manifesto scettico ➥ Laboratorio di lettura, p. 405
I punti di riferimento I tratti originali
Dogmatismo e scetticismo autentico
ne, divisione, sofisma), su quello della fisica (dove l’attacco si rivolge a categorie basilari come quelle di causa, corpo, moto, mutamento, luogo, tempo, numero ecc.) e infine su quello dell’etica (con la distruzione di ogni bene e male assoluti, della presunta arte della vita e di qualsiasi forma di pedagogia). Gli aspetti filosoficamente più interessanti della posizione di Sesto emergono soprattutto, almeno per grandi linee, nel I libro dei Lineamenti pirroniani. Qui, proponendo una coerente autogiustificazione filosofica, Sesto vuole difendere l’indirizzo pirroniano da accuse e fraintendimenti più o meno malevoli. Nel far questo egli propone anche un vero manifesto programmatico del proprio movimento di pensiero, il cui intento è duplice: 1) chiarire i punti di riferimento teorici, linguistici e pratici che ne guidano la riflessione e l’azione; 2) delineare il ruolo, unico e assolutamente originale, dello scetticismo rispetto alle scuole filosofiche precedenti e contemporanee, con particolare attenzione a evitare ogni confusione con tutte quelle figure e correnti (da Eraclito a Democrito, dai cirenaici a Protagora, da Platone e dall’Accademia scettica alla medicina empirica), che sono state impropriamente caratterizzate come scettiche. Partendo dal comune sforzo verso la ricerca della verità, Sesto suddivide nettamente in due il campo della filosofia: 1) da una parte ci sono due forme inaccettabili di dogmatismo: quello positivo e quello negativo, attribuito quest’ultimo agli scettici accademici, in particolare Carneade e Clitomaco; 2) dall’altra lo scetticismo vero o, se si preferisce, il suo genuino pirronismo.
Lo scetticismo genuino L’essenza: contrapposizione tra ciò che appare e ciò che è pensato
Il criterio dell’apparenza soggettiva
Il fine e la prassi
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Della forma autentica di scetticismo Sesto individua per così dire l’essenza in una dy`namis o abilità, che «consiste nel contrapporre in qualsivoglia modo le cose che appaiono e quelle che vengono pensate»: «a causa dell’ugual forza (isosthèneia) presente nei fatti e discorsi contrapposti, giungiamo dapprima alla sospensione del giudizio (epochè), subito dopo all’imperturbabilità (ataraxìa)» (Lineamenti pirroniani, 1,8). Questo atteggiamento filosofico di ricerca ininterrotta e mai conclusa non paralizza affatto il pirroniano né gli impedisce di descrivere e comunicare la propria condizione intellettuale ed esistenziale. Ciò è possibile perché anche il pirroniano si richiama, sempre in senso debole e non dogmatico, a un «criterio», che per lui consiste in ciò che appare o phainòmenon, anzi per essere più precisi nella sua rappresentazione o phantasìa. Per esempio lo scettico non dirà «il miele è dolce», ma «gustando il miele provo una sensazione di dolcezza», cioè descriverà non la natura delle cose ma la soggettiva impressione che egli prova di fronte ad esse. Se dunque anche lo scettico pirroniano può esibire un criterio, in virtù del quale orientarsi nel mondo, allora non hanno senso né fondatezza le accuse spesso avanzate dai dogmatici, soprattutto dagli stoici, secondo cui egli sarebbe condannato alla totale inattività o apraxìa. Non solo questo non è vero, ma il pirroniano può addirittura e senza contraddizione proporsi un fine verso cui indirizzare il proprio comportamento.
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Andando in questo oltre le posizioni di Pirrone e di Enesidemo, Sesto parla anzi più esattamente in proposito di un doppio fine: esso consiste contemporaneamente nel raggiungimento della imperturbabilità o ataraxìa nell’ambito delle opinioni e nel moderato patire o metriopàtheia di fronte alle necessità ineluttabili che si impongono dal mondo esterno. L’epochè e i tròpi Per conquistare questi obiettivi, oltre alla passiva accettazione dei limiti della nostra condizione umana, Sesto propone in primo luogo l’esercizio della sospensione del giudizio o epochè, per nulla casuale o disordinato, ma affidato a schemi argomentativi ben consolidati, ovvero ai già ricordati dieci modi di Enesidemo o ai cinque modi di Agrippa, veri e propri cavalli di battaglia della polemica pirroniana. Ataraxìa e metriopàtheia
Lo scetticismo in Sesto Empirico
Punto di partenza
Conseguenza immediata
Doppio fine da raggiungere
Criterio della condotta pratica
Uguale forza (isosthèneia) di fatti e discorsi contrapposti
Epochè (sospensione del giudizio raggiunta attraverso i tròpi)
Ataraxìa (imperturbabilità nell’ambito delle opinioni)
Attenersi all’apparenza soggettiva, ovvero alla sua rappresentazione (phantasìa)
metriopàtheia (moderato patire)
La convenzionalità del linguaggio
T50
Il linguaggio quotidiano
Sesto Empirico, Contro i matematici
In secondo luogo Sesto rifiuta ogni concezione del linguaggio come strumento capace di rivelare l’essenza della realtà, accettandolo invece unicamente perché in grado di registrare, qui e ora, le nostre affezioni e reazioni, accentuandone dunque l’aspetto comunicativo, convenzionale e mutevole. (178) Come, invero, in una città ove sia vigente un certo costume locale, colui che si conforma a questo riesce ad eseguire i propri affari senza impacci, mentre colui che non accetti quei costumi, ma si mette a coniar moneta per conto proprio e voglia dare ad essa corso legale, è semplicemente uno stupido, così anche nei rapporti umani chi non vuole seguire quella parlata che, come una moneta, è abitualmente accettata, ma intenda crearsene un’altra secondo la propria taglia, è a pochi passi dalla follia. (179) Perciò […] bisogna […] affermare, altresì, che chi vuole parlare correttamente, deve rispettare la parlata immediata e semplice della vita quotidiana e osservare le norme della comune consuetudine della maggioranza.
Proprio perché non crede in alcuna verità assoluta, lo scettico potrà dunque accettare di comportarsi secondo i principi della società in cui vive; non dirà che le sue leggi sono «oggettivamente» giuste o sbagliate, non seguirà quindi fanaticamente alcuna posizione religiosa, morale o politica, ma accetterà in modo tollerante l’esistenza di una pluralità di posizioni diverse, nessuna delle quali può aspirare alla verità definitiva. Potrà dunque vivere serenamente nel suo ambiente sociale senza pretese (di tipo platonico) di riformarlo radicalmente, e senza la presunzione (aristotelica o stoica) che esso sia il migliore possibile. La filantropia Sul piano più generale dell’atteggiamento filosofico di fondo, infine, nonostante Sesto adotti una complessa e spesso molto dura strategia polemica, il suo intento non è affatto aggressivo, ma dichiaratamente «filantropico» e terapeutico. È con questo spirito, infatti, che egli chiude i Lineamenti pirroniani, affermando senza ipocrisia quanto riportato nel brano seguente.
Pluralismo e tolleranza
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Parte prima L’età antica
T51
Terapie per i dogmatici
Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, 3
(280) Lo Scettico, essendo filantropo, intende curare con il ragionamento, nei limiti del possibile, la vanità e la precipitazione dei dogmatici. Come dunque i medici delle affezioni corporee possiedono rimedi diversi per potenza e fra questi somministrano quelli forti a quelli che fortemente patiscono, quelli leggeri a coloro che (patiscono) in modo leggero, anche lo Scettico presenta in tal modo argomenti diversi per forza, (281) e rispetto a coloro che sono malati di precipitazione grave usa quelli solidi e in grado di eliminare vigorosamente la malattia dogmatica della vanità, quelli più leggeri, invece, rispetto a coloro che hanno la malattia della vanità allo stadio superficiale e facile a guarirsi e in grado di essere eliminata da argomentazioni persuasive di minor peso. Perciò colui che prende le mosse dalla scepsi non esita, a bella posta, a proporre argomenti talora vigorosi quanto a persuasività, talora addirittura apparentemente alquanto fiacchi, poiché spesso sufficienti, per lui, a raggiungere quanto si propone.
Da buon medico, dunque, egli mira a «curare» con ogni mezzo l’animo umano, liberandolo da ogni precipitosa adesione a opinioni infondate e non giustificabili, cercando così di rendere il più possibile accettabile l’inevitabile peso legato alla fatica del nostro vivere e promuovendo una filosofia intesa come positiva «arte della vita». L’eredità Dopo Sesto la vena scettica sembra dissolversi, così come sembra scomparire ogni interesse a tracciare sottili distinzioni fra scettici accademici e pirroniani, al punto che essi finiscono con l’essere accomunati dai tardi commentatori neoplatonici quali usurpatori del titolo stesso di filosofo. Cristianesimo Questo progressivo esaurimento dello scetticismo e, in aggiunta, la critica sollee scetticismo vata contro la sua versione accademica da Agostino nel Contro gli Accademici vanno del resto compresi alla luce del mutato quadro teorico determinato dall’affermazione della dottrina cristiana. Essa rende difficile, se non impossibile, lo sviluppo di forme compiute di scetticismo in età medievale, tranne forse qualche rara eccezione (come mostrano alcuni spunti presenti nel Policraticus di Giovanni di Salisbury o in Enrico di Gand, volti a recuperare la funzione ‘costrutti➥ Sommario, p. 402 va’ di uno scetticismo moderato e compatibile con la fede, vedi Unità 9).
La terapia dell’anima
Le scuole filosofiche dell’ellenismo
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Epicureismo
Stoicismo
Scetticismo
Membri Epicureo, Diogene di Enoanda, Filodemo di Gadara, Lucrezio
Membri Stoicismo antico: Zenone di Cizio, Aristone di Chio, Cleante di Asso, Crisippo di Soli, Diogene di Seleucia, Antipatro di Tarso; Stoicismo medio: Panezio, Posidonio; Stoicismo romano: Seneca, Epitteto, Marco Aurelio
Membri Scetticismo pirroniano: Pirrone, Timone di Fliunte; Scetticismo accademico: Arcesilao, Carneade, Clitomaco, Metrodoro di Stratonicea, Filone di Larissa, Enesidemo, Agrippa, Sesto Empirico
Concetti chiave Anticipazione o prolessi; sensismo, atomi, vuoto, moto atomico; tetraphàrmakos, atarassia, aponìa
Concetti chiave Rappresentazione comprensiva, segno e significato, logica proposizionale, ragionamento dimostrativo; Lògos principio divino, simpatia, Fato, ciclo cosmico; apàtheia, saggio divino; anima tripartita, volontà, libertà individuale e sorte
Concetti chiave Afasia, atarassia, metafisica negativa, epochè; tròpi dell’epochè; circolarità dei sillogismi, convenzionalità del linguaggio
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo Suggerimenti bibliografici Un’ampia introduzione alle filosofie ellenistiche è offerta in A. Long, La filosofia ellenistica. Stoici, epicurei, scettici, il Mulino, Bologna 1996. Per un’ampia panoramica sull’epicureismo vedi G. Giannantoni e M. Gigante (a cura di), Epicureismo greco e romano, Bibliopolis, Napoli 1996. Sull’epicureismo vedi anche W.P. Schmid, Epicuro e l’epicureismo cristiano, Paideia, Brescia 1984. Per un’introduzione alla filosofia stoica vedi M. Isnardi Parente, Introduzione a Lo stoicismo ellenistico, Laterza, Roma-Bari 2004. Una classica e sempre valida panoramica sullo scetticismo è in M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Laterza, Roma-Bari 19752. Per un’aggiornata introduzione allo scetticismo pirroniano vedi E. Spinelli, Questioni scettiche: letture introduttive al pirronismo antico, Lithos, Roma 2005.
I brani antologizzati sono tratti da: Numenio di Apamea, fr. 24 Des Places in M. Capasso, Comunità senza rivolta. Quattro saggi sull’epicureismo, Bibliopolis, Napoli 1987. Epicuro, Opere, a cura di G. Arrighetti, Einaudi, Torino 1973. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, trad. di M. Gigante, Laterza, Roma-Bari 1976. Sesto Empirico. Contro i logici, a cura di A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1975. Lucrezio. La natura, a cura di A. Fellin, UTET, Torino 19762. Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, trad. di E. Spinelli (in preparazione). Cicerone, Lucullus, in Le dispute accademiche, a cura di R. Del Re, Mondadori, Milano 1976. Stoici antichi. Tutti i frammenti, a cura di R. Radice, Rusconi, Milano 1998. Cicerone, Pro Murena, De finibus, in Panezio di Rodi. Testimonianze, a cura di F. Alesse, Bibliopolis, Napoli 1997. Posidonio. Testimonianze e frammenti, a cura di E. Vimercati, Bompiani, Milano 2004. Seneca, Ricerche sulla natura, a cura di P. Parroni, Mondadori, Milano 2002. Seneca, Lettere a Lucilio, a cura di U. Boella, TEA, Milano 1994. Epitteto, Manuale, introd., trad. e note di E.V. Maltese, Garzanti, Milano 1990. Marco Aurelio, Scritti, a cura di G. Cortassa, UTET, Torino 1984. Pirrone. Testimonianze, a cura di F. Decleva Caizzi, Bibliopolis, Napoli 1981. Cicerone, Dell’oratore, a cura di E. Narducci, BUR-Rizzoli, Milano 1994. Cicerone, Varrone, Le dispute accademiche, a cura di R. Del Re, A. Mondadori, Milano 1976. Cicerone, De fato, in Scettici antichi, a cura di A. Russo, UTET, Torino 1978. Fozio, Biblioteca, in Scettici antichi, cit. Sesto Empirico, Contro i matematici, a cura di A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1972. Plutarco, Cato Maior, in Scettici antichi, cit. La citazione da Sul fine di Epicuro a p. 356, è tratta da Epicuro. Opere, a cura di G. Arrighetti, cit.
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Parte prima L’età antica
Sommario 1. L’ELLENISMO
I movimenti filosofici dell’età ellenistica (323 a.C. 31/30 a.C.) mirano a trovare delle risposte agli interrogativi, etici ma non solo, posti dai nuovi assetti politico-sociali, nel contesto di un confronto serrato con le posizioni platoniche e aristoteliche. 2. L’EPICUREISMO
La filosofia di Epicuro, spesso ingiustamente criticata fin dall’antichità, mira essenzialmente a sostenere l’individuo nella sua vita quotidiana. [par. 1] Il sistema – tripartito in logica, fisica ed etica – incarna un sensismo radicale, anche in virtù della centralità attribuita alle anticipazioni (o prolessi). [par. 2] La fisica adotta un radicale atomismo: i corpi sono formati da atomi (invisibili e indivisibili); essi si muovono in uno spazio che contempla l’esistenza del vuoto secondo tre tipi di moto: perpendicolare, per rimbalzo, e attraverso la declinazione o clinamen. L’epistemologia epicurea, articolata secondo le spiegazioni multiple, oltre che coniugarsi all’etica, contempla anche lo studio dell’anima e in particolare il fenomeno della percezione e delle qualità secondarie degli atomi. [par. 3]
L’etica è incentrata sulla conquista della felicità, che consiste, come prescritto dal quadruplice rimedio (tetraphàrmakos), nella liberazione dagli affanni e dalle paure, in particolare degli dèi e della morte, – sì da giungere all’atarassia –, nella conquista del piacere e nella neutralizzazione del dolore (aponìa). Ove il piacere indicato è quello che consegue da una scelta attenta e prudente. Emerge così un’etica che, accantonato qualsivoglia intervento divino, privilegia una vita semplice e serena, ancorata al presente, attenta a rispettare le norme del vivere comune e a valorizzare fattori quali quello dell’amicizia. [par. 4] Dopo la morte di Epicuro, i suoi seguaci mantengono sempre un atteggiamento ortodosso rispetto al suo pensiero, ivi incluso il grande poeta latino Lucrezio. [par. 5] 3. LO
STOICISMO
Lo stoicismo antico (fine IV - fine III secolo a.C.), segnato dalla figura di Zenone, il fondatore, e dai successori Cleante di Asso e Crisippo di Soli, presenta una fondamentale tripartizione sistematica in logica, fisica, etica. [par. 1] Nell’ambito di una logica ampliata e rinnovata rispetto a quella aristotelica, la dottrina scientifica, di matrice empirista, presenta quattro gradi principali: rappresentazione comprensiva, assenso, comprensione, scienza. Viene altresì elaborata un’articolata logica
402
proposizionale e del ragionamento dimostrativo. [par. 2] Posto un materialismo di fondo, la fisica contempla un principio divino, il Lògos, che regge l’unità del cosmo, concepito come un organismo vivente, e segnato dalla simpatia e dal Fato. Il cosmo è altresì caratterizzato dalla infinita ciclicità delle sue nascite e distruzioni. [par. 3]
Contraddistinta dal suo rigorismo, l’etica postula una netta contrapposizione tra il vizio, indotto dalle passioni, e la virtù, unitaria, rappresentata dalla loro assenza (apàtheia). Ne emerge la figura di un saggio dai tratti divini, dal valore regolativo, che tenta di conciliare la libertà del volere al destino. [par. 4] Lo stoicismo medio, prima con Panezio, poi con Posidonio, è caratterizzato da un approccio meno rigido all’etica, con un ritorno a Platone e Aristotele. [par. 5] Nello stoicismo romano, con Seneca, viene accentuato il valore della dimensione interiore, in particolare della volontà, e riconsiderata la presenza del male nel mondo e il rapporto che esso ha con il divino. Con Epitteto viene rimarcata la netta frattura tra la libertà individuale e la sorte. Infine, con Marco Aurelio, lo stoicismo assume tonalità di natura esistenziale che richiamano alla memoria malinconicamente la condizione effimera dell’umano. [par. 6] 4. SCETTICISMI
ANTICHI
Lo scetticismo si configura fin dall’inizio diviso in due filoni: quello più antico (metà IV secolo a.C.), inaugurato da Pirrone, e quello fondato dallo scolarca dell’Accademia Arcesilao (inizio III secolo a.C.). Pur essendo per noi una figura sfuggente, sappiamo che Pirrone adotta una concezione mirata a raggiungere afasia e atarassia e intimamente segnata da una forte propensione al relativismo e all’indifferenza e imperturbabilità più assoluta. [par. 1] Lo scolarca Arcesilao ritorna alle aporie socratiche, e, criticato l’impianto epistemologico degli stoici, giunge infine alla sospensione del giudizio, ovvero all’epochè. L’allievo Carneade, anch’egli scolarca, rivolge una critica feroce al dogmatismo stoico: dalla difesa della libertà contro il fato, alla tesi dell’incertezza della verità. Egli difende altresì un’etica incentrata sulla dottrina della persuasività delle rappresentazioni. [par. 2] Con Enesidemo rinasce il pirronismo. Soprattutto grazie ai dieci tròpi, egli giunge a un relativismo radicale; concezione ripresa e sviluppata da Agrippa: grazie ai suoi cinque tròpi egli giunge a criticare anche il sillogismo aristotelico. L’ultimo grande scettico antico, Sesto Empirico, rielabora il criterio dell’apparenza soggettiva, rimarca la convenzionalità del linguaggio, ed elabora un’etica filantropica. [par. 3]
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Parole chiave Afasia. Dal greco aphasìa, in filosofia indica l’atteggiamento di chi si rifiuta di pronunciare giudizi, ovvero il non pronunciamento linguistico specificamente indirizzato a mettere in discussione l’esistenza di presunti valori o disvalori assoluti. Anticipazioni (prolessi). Sono sensazioni che, ripetute di continuo, condensate e poi conservate nella memoria, costituiscono i nostri concetti. Sono a fondamento del linguaggio e della conoscenza. Atomismo / Clinamen. Per Epicuro i corpi sono composti da particelle invisibili e indivisibili, cioè da atomi (in greco à-tomos significa «non divisibile»). Uno dei loro moti è il clinamen («declinazione»), ben descritto da Lucrezio: cadendo verso il basso gli atomi deviano casualmente, e quindi possono aggregarsi. Il clinamen garantisce altresì di sfuggire, sul piano etico, al determinismo. Epochè. È il punto di arrivo della dottrina della conoscenza scettica. Attestato che non esiste alcun criterio assoluto di verità, si deve sospendere l’assenso, ovvero il giudizio, rispetto alla verità o falsità di ciò che percepiamo, ovvero alle rappresentazioni, e, di conseguenza, di ciò che pensiamo e asseriamo. Fato. La stretta concatenazione causale del cosmo, che contiene il passato e determina il futuro, è governata da un Fato o destino, necessità suprema e ineluttabile, identificato con la provvidenza. Felicità / Atarassia. Per Epicuro, la felicità è data dal piacere puro, assicurato dalla contemporanea assenza di turbamento nell’anima, l’atarassia (ataraxìa), e di dolore nel corpo (aponìa). Libertà. Posta la presenza del Lògos universale, che tutto governa, e del Fato, per gli stoici la libertà umana consiste nella capacità del saggio di armonizzare, grazie alla sua sapienza, le cause interne dell’agire con il grande disegno razionale della realtà, con la sorte e il destino da noi indipendenti, da doversi accettare «stoicamente». Lògos / Simpatia. Il Lògos universale, divino, è la legge o ragione del tutto, immanente al tutto cui dà forma. Esso è fuoco artefice, soffio vitale e caldo (pnèuma), misto di fuoco e aria, capace di penetrare ogni minimo aspetto della realtà e di dare ad esso la giusta tensione materiale (tònos). Esso rende così il cosmo un unico, grande organismo vivente, caratterizzato da una dinamica tensione interna; ne conse-
gue la dottrina stoica della «simpatia» cosmica (sympàtheia): ogni elemento della realtà è inscindibilmente legato al tutto in un gioco di corrispondenze e influenze reciproche. Passioni / Apàtheia. Per gli stoici le passioni, ovvero dolore, piacere, desiderio e timore, rappresentano la radice del vizio. Esse sono giudizi sbagliati: in quanto eccitazioni e perversioni dell’anima, tali giudizi sono formulati dalla ragione stessa, che, corrotta, subisce il cedimento a un impulso che la fa deviare. Viceversa, la virtù è assicurata dall’apàtheia ovvero dall’assenza di passioni, coincidente con la piena coerenza razionale dell’egemonico, cioè la ragione nella nostra anima. Piacere. Il piacere, opposto al dolore, rappresenta per Epicuro il criterio etico centrale; egli non intende però il piacere quale sfrenato godimento dei sensi ma il piacere in quiete («catastematico»), frutto di un calcolo attento e prudente (in senso socratico). Rappresentazione comprensiva. In greco phantasìa kataleptikè, essa proviene da un oggetto esterno e si imprime nel soggetto conoscente in conformità all’oggetto, sì da permettergli di fotografare la realtà esistente così come essa è, senza quindi cadere in errore. È alla base dell’edificio scientifico stoico. Saggio. In greco sophòs, è l’uomo assolutamente virtuoso, tanto da assumere, soprattutto nello stoicismo antico, tratti divini irraggiungibili; egli rappresenta perciò piuttosto un ideale regolativo, un modello, che non un essere umano concreto. Tale figura verrà resa meno rigida e lontana, più umana, nelle fasi successive dello stoicismo. Sensismo. Approccio adottato da Epicuro tale per cui le sensazioni sono poste alla base del processo conoscitivo: attraverso un meccanismo percettivo inteso in modo materialistico, esse ‘fotografano’ immediatamente le cose; le false conoscenze sono quindi da attribuire alle opinioni, che vanno oltre il piano dei sensi. Tròpi. Enesidemo fu il primo a raccogliere sistematicamente i tròpi ovvero i «modi» o «schemi» dell’epochè: l’insieme delle argomentazioni elaborato dalla tradizione scettica per evitare di pronunciarsi dogmaticamente su qualsiasi tema di indagine. Agrippa ne individuò successivamente cinque: discordanza, regresso, relatività, ipotesi, diallele ovvero circolarità della prova, attraverso la quale dimostrò l’inconcludenza del sillogismo aristotelico.
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Parte prima L’età antica
Questionario Lavoriamo sui testi
L’ELLENISMO 1
Quali sono i due eventi storici che determinano convenzionalmente l’inizio e la fine dell’età ellenistica? (max 3 righe)
L’EPICUREISMO 2
LO
Qual è il messaggio che sorregge l’intera filosofia epicurea? (max 3 righe)
3
Perché la filosofia epicurea rappresenta una forma radicale di sensismo? (max 6 righe)
4
Quali sono le caratteristiche fondamentali degli atomi e come viene spiegato il moto atomico? (max 15 righe)
5
In quali forme specifiche la felicità epicurea è il frutto della tetraphàrmakos? (max 10 righe)
6
Quale fu l’atteggiamento dei seguaci di Epicuro? (max 3 righe)
STOICISMO
16
Che relazione unisce le prolessi alle sensazioni in T3? (max 5 righe)
17
Con quali argomenti Lucrezio, in T6, giustifica il clinamen? (max 6 righe)
18
Con quali argomenti Epicuro nega la provvidenza divina in T9? (max 10 righe)
19
Quali sono i punti salienti del quadruplice rimedio esposto in T12? (max 6 righe)
20
A che cosa viene paragonata la filosofia stoica in T16, e che senso hanno tali paragoni? (max 8 righe)
21
Come potresti sintetizzare la rappresentazione comprensiva stando a T17, T18 e T19? (max 5 righe)
22
Per quali ragioni, a tuo avviso, l’immagine del carro di T28 ha riscosso nel tempo grande successo? (max 5 righe)
7
Qual è la fondamentale tripartizione dello stoicismo antico? (max 3 righe)
8
Quali sono e che cosa rappresentano i quattro gradi in cui si articola il processo conoscitivo degli stoici? (max 10 righe)
23
Quali sono gli argomenti cruciali adottati da Epitteto per distinguere le cose in nostro potere da quelle che non lo sono in T34? (max 8 righe)
9
Come puoi definire i concetti di Lògos, simpatia e Fato? (max 9 righe)
24
Quale messaggio fondamentale emerge dai due brani di Marco Aurelio T36 e T37? (max 6 righe)
10
In che senso le passioni rappresentano il vizio e perché il saggio deve raggiungere l’apàtheia? (max 10 righe)
25
In che termini Pirrone, in T38, sostiene che «né le nostre sensazioni né le nostre opinioni sono vere o false»? (max 5 righe)
11
Traccia un profilo delle principali figure dello stoicismo medio. (max 10 righe)
26
12
Che rapporto viene istituito, nello stoicismo romano, tra la libertà e la sorte? (max 10 righe)
Quali sono gli argomenti cruciali, nella dimostrazione di T42, che mostrano la necessità di giungere all’epochè? (max 8 righe)
27
Che ruolo svolge la dottrina stoica della rappresentazione comprensiva in T45? (max 8 righe)
28
Quali differenze corrono nelle due teorie dei tròpi esposte in T47 e in T49? (max 8 righe)
SCETTICISMI
ANTICHI
13
In che senso Pirrone persegue afasia e atarassia, giungendo a un relativismo e a una indifferenza assoluti? (max 10 righe)
14
In che senso l’epochè rappresenta l’elemento fondamentale che avvicina le dottrine scettiche di Arcesilao e di Carneade? (max 10 righe)
15
Per quali ragioni e con quali funzioni la dottrina dei tròpi compare in Enesidemo, Agrippa e Sesto Empirico? (max 12 righe) www.edusophia .it
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Laboratorio di lettura I Lineamenti pirroniani di Sesto Empirico I Lineamenti pirroniani sono una sorta di manuale introduttivo allo scetticismo genuino. Fu questa, probabilmente, la prima opera composta da Sesto Empirico, prima sia dei libri Contro i dogmatici (Adversus Dogmaticos VII-XI, in cui vengono riprese, ampliate, ma anche modificate le argomentazioni contro la logica, la fisica e l’etica dogmatiche presenti nei libri II e III dei Lineamenti), sia di quelli Contro i professionisti della cultura (Adversus Mathematicos I-VI). Essa si inserisce in una tradizione di scritti pirroniani che risale già a Enesidemo, con i suoi Discorsi pirroniani (in otto libri), capace di offrire una presentazione sintetica ma completa dei punti più importanti condivisi da quel movimento filosofico. La volontà di fare chiarezza rispetto alle posizioni pirroniane è particolarmente evidente nel I libro dei Lineamenti; al suo interno sono soprattutto i primi trenta paragrafi, qui di seguito riportati quasi per intero, a far emergere non solo la fisionomia del pirronismo antico nella sua fase più matura, ma anche, in più punti, l’apporto originale di Sesto Empirico.
Sesto Empirico: introduzione allo scetticismo La fondamentale differenza fra le filosofie Tesi di fondo: i tre atteggiamenti fondamentali dell’indagine filosofica sono: scoperta, negazione, ricerca
Commento e interpretazione
(1) Per coloro che indagano una qualche questione è verosimile vi sia come conseguenza o la scoperta o la negazione della scoperta e l’ammissione di incomprensibilità oppure la perseveranza nell’indagine. (2) Per questo motivo, probabilmente, anche presso coloro che indagano in ambito filosofico alcuni affermarono di aver trovato il vero, altri dichiararono non esser possibile comprenderlo, altri lo cercano ancora. (3) E sembrano averlo trovato coloro che sono detti propriamente dogmatici, come ad esempio Aristotele ed Epicuro e gli stoici e alcuni altri; intorno alle cose incomprensibili si pronunciarono invece Clitomaco e Carneade e altri accademici, mentre gli scettici proseguono la loro indagine. [A]
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A. Sesto individua con molta cautela tre possibili atteggiamenti che risultano per chi intraprende una determinata indagine: 1) o la scoperta dell’oggetto indagato; 2) o la negazione di tale scoperta, cui tuttavia si accompagna la dichiarazione di impossibilità a comprendere (compare qui il termine tecnico «incomprensibilità», in greco akatalepsìa, che era una sorta di parola d’ordine dell’Accademia scettica); 3) o infine il persistere nella ricerca. Questa generale tripartizione introduttiva, che vale probabilmente anche per ‘l’uomo della strada’, viene più specificamente utilizzata, sempre con una certa cautela in verità, per classificare anche i filosofi di professione. Alcuni di loro affermano infatti di aver trovato il vero. Si tratta dei dogmatici in senso stretto, fra i quali Sesto menziona innanzitutto e quasi come paradigmi Aristotele, Epicuro, gli stoici oltre a non meglio specificati «alcuni altri». Vi sono poi quelli che, con una affermazione dogmatica di segno opposto, ma altrettanto decisa, dichiarano l’incomprensibilità di tutte le cose: i nomi sono in questo caso quelli di Clitomaco, di Carneade e di «altri accademici»; la presenza insistente di espressioni legate al verbo «comprendere» (katalambànein) e alle sue negazioni riporta senz’altro al dibattito gnoseologico accademicostoico. Infine, a mantenere costante la necessità della ricerca, compaiono gli scettici. 405
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Parte prima L’età antica Conseguenza: le tre filosofie fondamentali sono: a) dogmatica, b) accademica, c) scettica
(4) A ragione, dunque, le fondamentali filosofie sembrano essere tre: dogmatica, accademica, scettica. Mentre converrà ad altri parlare di quelle (due), dell’indirizzo scettico daremo noi al momento presente una delineazione sommaria, dopo aver fatto questa premessa: riguardo a nessuna delle cose che saranno dette stabiliremo in modo dogmatico che essa sta esattamente così come ne parliamo, ma riguardo a ciascuna forniremo un resoconto, secondo quanto ora ci appare, in virtù di un’esperienza personale. [B] […]
Cosa è la scepsi Prima tesi: caratteristica dello scetticismo è l’abilità scettica, che contrappone le cose che appaiono e quelle che vengono pensate
(8) L’abilità scettica consiste nel contrapporre in qualsivoglia modo le cose che appaiono e quelle che vengono pensate; da essa, a causa dell’ugual forza presente nei fatti e discorsi contrapposti, giungiamo dapprima alla sospensione del giudizio, subito dopo all’imperturbabilità. [C] (9) La chiamiamo «abilità» non per eccesso di sottigliezza, ma semplicemente in luogo di «avere la capacità». Al momento presente accogliamo «le cose che appaiono» nel senso di cose percepite dai sensi e per questo opponiamo a esse le cose percepite mentalmente. L’espressione «in qual-
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B. Sesto ribadisce all’inizio del paragrafo 4 che le filosofie più importanti si possono con ragionevole probabilità tripartire in dogmatica, accademica e scettica. In realtà in più punti delle sue opere egli mostra di dividere sostanzialmente in due il campo di scontro filosofico: dogmatici, siano essi positivi o negativi, da una parte; pirroniani genuini dall’altra. Non è escluso che la tripartizione sestana possa essere stata qui pensata e proposta per ribadire immediatamente la contrapposizione fra l’Accademia scettica e il proprio movimento pirroniano. Sesto riconosce che raccontare la storia delle correnti dogmatiche e accademico-scettiche spetta forse ad altri; egli ci tiene tuttavia a rivendicare solo alla sua opera il compito di presentare ‘ufficialmente’ l’indirizzo pirroniano, seppur in sintesi e nelle sue linee generali. L’insieme dei Lineamenti pirroniani, quindi, anche i libri più scopertamente polemici e antidogmatici, serve un unico scopo: quello di far risaltare l’originalità e l’unicità del vero scetticismo. La seconda parte del paragrafo 4 fornisce in modo programmatico la chiave di lettura di tutta l’opera. Nessuna delle molte affermazioni presenti nei Lineamenti deve essere intesa come un’asserzione fermamente dogmatica intorno all’oggetto indagato, ma come una semplice registrazione di quanto al pirroniano appare in quel momento. Per dare maggior forza a tale precisazione iniziale Sesto impiega una serie di termini tecnici del vocabolario genuinamente scettico. Egli rifiuta di fissare conclusioni dogmatiche valide una volta per tutte, ammettendo invece per lo scettico solo un atteggiamento di testimonianza e cronaca delle proprie disposizioni o affezioni, che si limita ad annunciare o semplicemente registrare ciò che, in questo preciso momento, gli appare (ovvero to phainòmenon). C. Per indicare la definizione essenziale dello scetticismo Sesto esordisce fornendo nel paragrafo 8 la descrizione di una «abilità», di un «saper fare» filosofico. Tale abilità, oltre a riproporre un metodo già adottato da Enesidemo, sembra ricollegarsi ad alcune caratteristiche di fondo del pirronismo, che consistono nella capacità: 1) di portare avanti un’indagine (o «zetetica»), in grado di rilevare e insieme rivelare intenzionalmente – ovunque essa si presenti o possa essere costruita – la contrapposizione fra oggetti della sensazione e oggetti del pensiero, fra stati di fatto e affermazioni che li riguardano; 2) di sollevare difficoltà (o «aporetica»), la cui causa è l’ugual forza che sembra caratterizzare fatti e discorsi nella loro opposizione; 3) di approdare alla sospensione di ogni giudizio (o «efettica»), proposta in prima battuta come inevitabile risultato dell’impossibilità di pronunciarsi a favore dell’una o dell’altra alternativa e in seconda battuta come condizione
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo Conseguenza: l’abilità scettica sfocia nella sospensione del giudizio e nell’imperturbabilità
Definizioni: i discorsi contrapposti sono discorsi in conflitto tra loro; ugual forza è quella persuasiva; sospensione del giudizio è quella della mente che non sceglie né rifiuta; imperturbabilità è assenza di affanno
sivoglia modo» la si può applicare sia ad abilità, al fine di accettare il termine, come abbiamo precisato, nel suo significato semplice, sia all’espressione «contrapporre cose che appaiono e cose pensate». Poiché infatti in vario modo le opponiamo fra loro, giustapponendo o cose che appaiono a cose che appaiono o cose pensate a cose pensate o viceversa, specifichiamo «in qualsivoglia modo» per abbracciare tutte le antitesi. Oppure all’espressione «cose che appaiono e cose pensate», affinché non indaghiamo in che modo appaiono le cose che appaiono o in che modo vengono concepite le cose pensate, ma semplicemente le accogliamo. [D] (10) Consideriamo «contrapposti» i discorsi non nel senso di affermazione e negazione, ma semplicemente in luogo di «reciprocamente in conflitto». Diciamo «ugual forza» l’uguaglianza riguardo alla presenza o meno di forza persuasiva, così da non preferire alcuno degli opposti discorsi come maggiormente degno di fede rispetto all’altro. «Sospensione del giudizio» è una condizione della mente in virtù della quale non scegliamo né rifiutiamo qualcosa. «Imperturbabilità» è assenza di affanno e quiete di bonaccia nell’anima. Nella sezione Sul fine ricorderemo in che modo insieme alla sospensione del giudizio sopraggiunge l’imperturbabilità. [E] […]
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per il raggiungimento della genuina tranquillità, almeno sul piano delle opinioni umane. D. Sesto vuole liberare da ogni possibile ambiguità tutti i termini che compaiono nella precedente «definizione essenziale» del suo pirronismo. Il modo in cui egli procede è estremamente accurato e ordinato. Rispetto al termine «abilità» (dy`namis), egli ne restringe il significato e lo intende come «potere», «essere in grado di», «avere la capacità di», adeguandosi così all’uso semplice del linguaggio comune. Quanto alle «cose che appaiono» o «fenomeni» (phainòmena), Sesto le identifica ora con gli oggetti dei sensi. Nota in questo caso la chiara restrizione temporale, che lascia aperta la possibilità di utilizzare il termine in sensi diversi in altri momenti e contesti (come infatti accade in più punti delle sue opere). La funzione e la collocazione attribuite alla formula «in qualsivoglia modo», poi, sono un altro segno evidente della libertà che Sesto rivendica sul piano linguistico per evitare ogni rigida posizione dogmatica. Quello che colpisce, infatti, è la possibilità che quella espressione, svolgendo il compito generale di restringere il senso dei termini cui si accompagna, può essere liberamente riferita a più elementi della definizione di partenza: ad «abilità», per ribadirne il significato ‘debole’; o all’azione del contrapporre, in modo da giustificare la produzione del più ampio numero possibile di coppie di opposti (fenomeni contro fenomeni; noumeni contro noumeni, cioè oggetti di pensiero, fenomeni contro noumeni); o infine direttamente agli oggetti della contrapposizione, per approdare alla semplice accettazione di fenomeni e noumeni indipendentemente da qualsiasi questione relativa al loro modo di esistere o di essere conosciuti. E. Anche il tipo di opposizione fra asserzioni negative e positive in merito alla medesima questione va inteso nel senso di una generica conflittualità, piuttosto che nel senso tecnico e rigido di una vera e propria contraddizione. Rispetto ad alcuni termini-chiave dell’attitudine scettica, infine, Sesto fornisce importanti chiarimenti. In primo luogo gli opposti discorsi o argomenti in campo hanno una «ugual forza» (isosthèneia) perché presentano un pari grado di persuasività, senza tuttavia presupporre alcuna opposizione vero / falso. Quanto alla «sospensione del giudizio» o epochè essa equivale a una sorta di stagnazione intellettiva, di blocco della capacità di decisione o di scelta. Forse sotto l’influsso di immagini provenienti dalla più antica tradizione pirroniana (in particolare da Timone), infine, Sesto presenta l’imperturbabilità o ataraxìa in termini di «assenza di affanno» e «quiete di bonaccia», sottolineando dunque la calma interiore che essa è capace di garantire. Le ultime due linee del paragrafo 10 rinviano alla sezione Sul fine e in
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Parte prima L’età antica
I punti di partenza della scepsi Seconda tesi: l’obiettivo dello scetticismo è l’ataraxìa, che si raggiunge contrapponendo a ogni discorso un discorso uguale
(12) La speranza di conquistare l’imperturbabilità diciamo che è il punto di partenza determinante l’indirizzo scettico. Tra gli uomini, infatti, quelli di nobile ingegno, turbati a causa dell’anomalia riscontrabile nelle cose ed essendo incerti a quali di esse bisognasse piuttosto concedere l’assenso, presero a indagare cosa vi fosse di vero e di falso nelle cose, in modo tale da raggiungere l’imperturbabilità grazie alla decisione su tali questioni. Punto di partenza della «costituzione» scettica, tuttavia, è soprattutto il contrapporre a ogni discorso un discorso uguale: muovendo di qui, infatti, sembra che finiamo con il non abbracciare opinioni dogmatiche. [F]
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Se lo scettico dogmatizzi Conseguenza: lo scetticismo pirroniano non può essere dogmatico
(13) Diciamo che lo scettico non dogmatizza non in base a quel significato del termine secondo cui, come affermano alcuni, per dogma si intende approvare in un senso alquanto generale qualcosa (lo scettico concede infatti il proprio assenso alle affezioni necessarie sorte in lui in virtù di una rappresentazione: non potrebbe ad esempio dire, una volta che sentisse caldo o freddo, che gli sembra di non sentir caldo o freddo). Diciamo invece che non dogmatizza nel senso in cui, come affermano alcuni, dogma è l’assenso a qualcuna delle cose oscure oggetto d’indagine nell’ambito delle scien-
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particolare all’analisi del «meccanismo» attraverso cui si concatenano «sospensione del giudizio» e «imperturbabilità» (vedi infra, parr. 26 ss.). F. In questo paragrafo vengono descritte le tappe attraverso cui nasce, si sviluppa e si consolida il vero atteggiamento scettico. Esse sono due. La prima – la causa scatenante – è la speranza di conquistare l’imperturbabilità. I più acuti e dotati fra gli uomini (ovvero, sembrerebbe legittimo dedurre, soprattutto i futuri scettici, che vengono così presentati quasi come un gruppo ristretto e privilegiato dotato di una sensibilità filosofica fuori dal comune) iniziarono a indagare sulla realtà, convinti che la serenità intellettuale potesse essere raggiunta solo una volta formulati indubitabili giudizi di verità o falsità sulle cose. Essi restarono tuttavia sconcertati di fronte alla confusione, all’incertezza e all’anomalia che caratterizza tanto i vari aspetti della realtà quanto gli strumenti conoscitivi a nostra disposizione. Il ripetersi costante di questo fallimento conoscitivo fu ed è dunque alla base della seconda tappa, che Sesto considera probabilmente ancor più importante della prima. Si tratta di quella che altrove egli chiama «disposizione» (diàthesis) scettica e che qui invece definisce, con un termine forse preso a prestito dal lessico tecnico della medicina, «costituzione» (sy`stasis). Essa consiste nella capacità di individuare o, se necessario, produrre discorsi in reciproco conflitto. Non è tuttavia necessario che questi ultimi vengano sentiti e presentati come contraddittori in senso forte, ma semplicemente come dotati di ugual forza persuasiva. Questo abito filosofico, una sorta di seconda natura per lo scettico, sembra infine rappresentare l’antidoto contro ogni forma di dogmatismo. G. Anche in questo paragrafo, uno dei più citati e discussi fra gli interpreti del pirronismo antico, Sesto è impegnato a definire meglio la fisionomia della filosofia scettica, sempre allo scopo di evitare fraintendimenti. Il primo passo di questa operazione, che è forse anche difensiva, consiste nell’accogliere la radicale opposizione, proposta da «alcuni» (probabilmente pensatori legati alla tradizione pirroniana), fra due significati del termine «dogma». 1) In base al primo, quello correntemente in uso nel linguaggio comune, esso indica il semplice approvare qualcosa, che, come chiarisce l’esempio addotto (sentir caldo o freddo), rientra nella sfera delle affezioni necessarie, che sorgono in noi in conformità alle nostre rappresentazioni. Di fronte ad esse anche il discorso scettico non può far altro che cedere e concedere l’assenso, senza che sorgano contrasti di opinione, reali o
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Corollario: il dogmatico dà l’assenso a cose oscure e parte da presupposti ‘certi’, ponendo come effettivamente sussistente ciò su cui dogmatizza
ze (il pirroniano, infatti, non dà l’assenso ad alcuna fra le cose oscure). [G] (14) Né del resto dogmatizza nel momento in cui enuncia le tipiche espressioni scettiche relative alle cose oscure, come ad esempio «non più» o «nulla definisco» o qualcun’altra di quelle di cui parleremo più avanti. Chi dogmatizza pone infatti come effettivamente sussistente la cosa su cui si esprime in modo dogmatico; lo scettico invece pone quelle espressioni non come effettivamente sussistenti in senso assoluto. Si rende infatti conto che come l’espressione «tutte le cose sono false» dichiara di essere essa stessa falsa al pari delle altre, e parimenti l’espressione «nulla vi è di vero», così anche la formula «non più» afferma che essa stessa, insieme alle altre, è non più (di quanto non è) e per questo motivo elimina se stessa unitamente alle altre. E la stessa cosa sosteniamo anche riguardo alle altre espressioni scettiche. [H] (15) Se dunque è il dogmatico che pone come effettivamente sussistente ciò su cui si pronuncia dogmaticamente, mentre lo scettico enuncia le proprie formule come tali che potenzialmente si eliminano da sé, allora di certo non si potrebbe dire che (lo scettico) dogmatizza nel formularle. E quel che più conta: nel formulare quelle espressioni egli riferisce quel che gli appare e riporta la propria affezione senza inclinazione dogmatica, nulla stabilendo in modo positivo intorno alla realtà esterna. [I] […]
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inventati. 2) Ben diverso è il caso della seconda accezione di «dogma». Essa infatti ha una circolazione molto più ristretta, poiché si riferisce principalmente al campo delle conclusioni o delle teorie scientifiche formulate dai dogmatici e soprattutto si risolve nella precipitosa operazione di concedere l’assenso a qualcosa di non evidente. Se accogliamo la distinzione appena richiamata, non possiamo più accusare gli scettici – come pure spesso è stato fatto in passato, ma anche in tempi recenti – di essere dogmatici nel sopracitato senso (2) del termine, perché essi si limitano ad accogliere opinioni unicamente nel senso (1). Lo scettico non sostiene del resto che la verità non potrà mai venire conseguita, ma che al presente essa non gli appare ancora esser stata conseguita. H. Dopo aver fatto chiarezza sulla questione del presunto dogmatismo scettico, Sesto offre importanti precisazioni sul piano dell’uso del linguaggio. Le espressioni pirroniane, infatti, non pretendono di fissare in modo dogmatico una corrispondenza stretta fra linguaggio e realtà, ma si limitano al semplice dire o proferire qualcosa, senza formulare o creare opinioni. Esse sono insomma degli strumenti che funzionano sul piano comunicativo in naturale accordo con la consuetudine linguistica. Ciò che caratterizza il vocabolario pirroniano, insomma, è una sorta di disincanto linguistico. Così rispetto a espressioni del tipo: (a) «tutte le cose sono false» o (b) «nulla vi è di vero», Sesto può ammettere senza problemi che esse sono rispettivamente: (a) falsa e (b) non vera (conseguenza obbligata se si considera che almeno (a) e (b) siano «vere»). Discorso analogo vale per la formula «non più», che deve essere applicata anche a se stessa, nel senso che anch’essa «è non più di quanto non sia». I. Lo scettico si spinge, dunque, fino al punto di sottoporre le sue stesse formule alle regole che esse enunciano e dunque a un’inevitabile forma di auto-confutazione o auto-eliminazione. In altri punti dei suoi scritti Sesto spiega questa originale caratteristica della filosofia del linguaggio pirroniana ricorrendo a due efficaci immagini. La prima è quella dei purganti (vedi Lineamenti pirroniani, 1,206, trad. di E. Spinelli): «Riguardo a tutte le espressioni scettiche, infatti, occorre presupporre questo, che non formuliamo asserzioni dogmatiche sul fatto che siano assolutamente vere, poiché invero sosteniamo che possono distruggersi addirittura da sé, eliminando se stesse insieme a quelle cose di cui si dicono, come i purganti, fra i farmaci, non solo espellono dal corpo gli umori, ma eli-
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Se lo scettico respinga i fenomeni Obiezione allo scetticismo: gli scettici respingono i fenomeni Risposta: gli scettici non mettono in dubbio il fenomeno ma quanto viene detto intorno ad esso
(19) Quelli che affermano che gli scettici respingono i fenomeni mi sembra non vogliano stare ad ascoltare quel che diciamo. Non confutiamo infatti le cose che, indipendentemente dalla nostra volontà, ci spingono all’assenso in virtù di una rappresentazione passiva, come dicevamo anche precedentemente: si tratta in questo caso dei fenomeni. Quando invece indaghiamo se l’oggetto esterno sia proprio tale quale appare, concediamo invero che esso appare, poiché indaghiamo non intorno al fenomeno, ma intorno a ciò che del fenomeno si dice e ciò differisce dall’indagare sul fenomeno stesso. (20) Ad esempio: il miele ci sembra esser dolce (questo lo concediamo: subiamo infatti un’affezione di dolcezza sul piano della sensazione), ma continuiamo comunque a indagare se, stando a quanto sostiene il ragionamento (dogmatico), esso è dolce; e in questo modo non si tratta del fenomeno ma di che vien detto intorno al fenomeno. [L] […]
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Il criterio dell’indirizzo scettico Prima conseguenza: gli scettici aderiscono ai fenomeni
(21) A partire dalle cose da noi affermate intorno al criterio dell’indirizzo scettico diviene evidente che aderiamo ai fenomeni. Criterio si dice dunque in due sensi: l’uno è quello che viene accettato a sostegno di un’effettiva esistenza o inesistenza, di cui forniremo un’esposizione a carattere
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minano anche se stessi insieme agli umori». La seconda – molto più fortunata anche grazie alla riproposizione che ne darà il filosofo novecentesco Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus, 6,54 – è forse ancora più chiara (vedi Contro i matematici, 8,481): «e di nuovo, come non è impossibile che chi è salito verso un luogo elevato per mezzo di una scala rovesci con il piede la scala dopo l’ascesa, così non è inverosimile che lo scettico, arrivato a stabilire il proprio argomento per mezzo di una scaletta, ovvero di un discorso che mostra che non esiste dimostrazione, proprio allora distrugga anche questo stesso discorso». L. Sesto offre qui delucidazioni sul modo di intendere «ciò che appare» (to phainòmenon), polemizzando direttamente con alcuni dogmatici, che erano soliti accusare gli scettici di privare di valore, anzi addirittura di negare i fenomeni. Dopo aver ribadito che tali critiche sono frutto solo di evidente sordità filosofica, egli le combatte con un ragionamento fondato sul seguente presupposto. Gli elementi correlati in qualsiasi attività conoscitiva sono due: da una parte l’oggetto in sé (indicato con un termine che non mette minimamente in discussione l’esistenza di una realtà esterna: to hypokèimenon, ciò che sottostà al mondo delle apparenze) e dall’altra ciò che di esso appare a noi (to phainòmenon). Ciò su cui lo scettico solleva difficoltà e obiezioni non è il fatto che qualcosa appaia; egli contesta invece la pretesa dogmatica di stabilire che cosa sia nella sua vera natura l’oggetto che sta dietro l’apparenza fenomenica e che rimane per noi «oscuro» (àdelon). Obiezioni, critiche, attacchi non vengono dunque mossi al fenomeno, visto che per fenomeno si deve intendere quella rappresentazione che passivamente riceviamo e che, in modo indipendente dalla nostra volontà, ci spinge a concedere (quasi istintivamente) l’assenso all’affezione che proviamo. Il vero bersaglio di Sesto sono le teorie che i dogmatici costruiscono a partire dai fenomeni per definire l’essenza delle cose, ciò che essi dicono sul fenomeno. Per rendere ancor più chiaro questo punto egli ricorre a un esempio molto noto. Al gusto il miele appare dolce e lo scettico concede senz’altro di subire un’affezione dolce a livello di sensazione. Oltre, però, egli non va, rifiutando l’ulteriore teoria dogmatica, secondo cui «il miele è dolce», poiché si tratta di un’affermazione forte, che passa in modo non giustificato dal piano dei fenomeni a quello delle cose per noi oscure.
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Seconda conseguenza: criterio dell’indirizzo scettico è la rappresentazione del fenomeno Conclusione: gli scettici vivono secondo le norme di condotta della vita quotidiana, in base a quattro categorie comportamentali: istruzione data dalla natura; necessità data dalle affezioni; tradizione; insegnamento delle arti
confutatorio e l’altro quello relativo all’agire, aderendo al quale alcune azioni le compiamo altre no in accordo con la vita (di tutti i giorni), e del quale parliamo ora. (22) Sosteniamo dunque che criterio dell’indirizzo scettico è il fenomeno, virtualmente intendendo, in questo modo, la rappresentazione : essa si sottrae all’indagine, consistendo in una condizione di passività e in un’affezione involontaria. Perciò nessuno, probabilmente, solleverà questioni sul fatto che l’oggetto esterno appare in tale o talaltro modo, mentre si indagherà se esso è proprio tale quale appare. [M] (23) Aderendo dunque ai fenomeni vivremo in modo non dogmatico secondo l’osservanza dettata dalla vita quotidiana, dal momento che non ci è possibile essere del tutto inattivi. L’osservanza dettata dalla vita quotidiana sembra essere essa stessa articolata in quattro parti e consistere in qualche modo nell’istruzione impartita dalla natura, nella necessità legata alle affezioni, nella tradizione di leggi e consuetudini, nell’insegnamento delle arti. [N] (24) È in base all’istruzione dettata dalla natura che siamo naturalmente capaci di percepire con i sensi e di pensare con la mente; è in base alla necessità legata alle affezioni che la fame ci induce a nutrirci, la sete a bere; è poi in base alla tradizione di consuetudini e leggi che consideriamo un bene l’esser pii, un atto di malvagità l’essere empi, in accordo con il vive-
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M. Questi paragrafi chiariscono l’ambito e la portata dell’adesione pirroniana al fenomeno inteso come criterio. Fin dall’inizio vengono distinte due accezioni possibili del termine «criterio». 1) In base alla prima, criterio è ciò in virtù del quale si pretende di stabilire l’effettiva sussistenza o insussistenza di qualcosa (e, di conseguenza, anche il suo esser vera o falsa; si tratta di un significato propriamente logico-epistemologico, di cui Sesto non si occupa qui ma nel II libro dei Lineamenti pirroniani). 2) In base alla seconda accezione, invece, si parla di criterio in senso pratico, ovvero come del punto di riferimento di ogni nostra scelta o rifiuto, in virtù del quale compiamo una determinata azione e non ne compiamo un’altra. Sesto dichiara che tale criterio è per lo scettico il fenomeno, precisando subito, però, che esso è da intendersi come «rappresentazione» (phantasìa). Una simile «rappresentazione» o «apparenza» non solo comprende tutto ciò che si mostra in modo indiscutibile e ovvio tanto sul piano sensibile che intellettivo, ma non può essere messa in discussione neppure dal perenne indagare dello scettico. Come viene di nuovo sottolineato nella parte finale del paragrafo 22, infatti, egli avanza obiezioni contro il tentativo dogmatico di raggiungere una conoscenza certa dell’essenza di un oggetto, non certo contro il suo apparire in questo o quel modo, visto che tale apparire determina unicamente un’affezione involontaria e del tutto passiva. N. L’adesione ai fenomeni rappresenta anche la migliore risposta all’accusa di inattività. Per non restare inattivo, infatti, lo scettico sceglie come guida solo quei fenomeni che si impongono perché necessari o meglio ancora indipendenti dalla nostra volontà, sottratti alla possibilità stessa della ricerca e dell’aporia. È uniformandosi a tali fenomeni che egli vive. La sua esistenza è apparentemente identica, all’esterno, rispetto a quella di tutti gli altri uomini. In realtà, però, ogni sua azione è compiuta (come anche ‘narrata’ sul piano linguistico) senza abbracciare alcuna opinione che pretenda di essere assoluta. Questo atteggiamento comporta il rifiuto di qualsiasi teoria dell’agire, sia essa frutto delle speculazioni dei filosofi o delle altrettanto dogmatiche convinzioni del senso comune. Ciononostante allo scettico resta la possibilità di regolare il proprio comportamento in base alle norme di condotta della vita quotidiana.
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re comune; è infine in base all’insegnamento delle arti che non siamo inattivi in quelle arti che tradizionalmente apprendiamo. Tutte queste cose, comunque, le affermiamo in modo non dogmatico. [O]
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Quale sia il fine dell’indirizzo scettico (25) A tutto ciò parrebbe coerente far seguire la trattazione intorno al fine dell’indirizzo scettico. Fine è dunque ciò in vista di cui vengono realizzate sul piano pratico o considerate su quello teoretico tutte le cose, non essendo invece esso stesso subordinato a nient’altro, oppure (è) il termine ultimo delle cose desiderate. Limitandoci al momento presente diciamo che fine dello scettico è l’imperturbabilità nelle questioni relative all’opinione e una forma di moderato patire in ciò che è dettato da necessità. [P] La causa: (26) Avendo infatti cominciato a filosofare per decidere e stabilire quali la sospensione del giudizio rappresentazioni fossero vere, quali invece false, così da raggiungere l’importa all’imperturbabilità perturbabilità, (lo scettico) si imbatté nella discordanza dotata di pari forza e, non essendo capace di dirimerla, si trovò a sospendere il giudizio. E a questo suo atto di sospensione del giudizio seguì casualmente l’imperturbabilità nelle questioni legate all’opinione. (27) È continuamente turbato, infatti, chi opina vi sia qualcosa di buono o cattivo per natura: sia quando non si trova ad aver sotto mano le cose che reputa esser buone, sia quando ritiene di essere perseguitato dai mali per natura e persegue i beni da lui considerati tali. Quand’anche li abbia ottenuti incappa in turbamenti ancora maggiori, sia perché inorgoglisce in modo irragionevole e smisurato, sia perché, temendo di mutar condizione, Terza tesi: il fine dell’indirizzo scettico è l’imperturbabilità e un moderato patire
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O. Le norme vengono qui ricondotte a quattro categorie fondamentali: 1) la guida della natura, un destino cui debbono sottostare gli esseri umani in quanto dotati di sensibilità e intelletto; 2) la necessità insita nelle affezioni elementari o bisogni primari, come fame e sete, e nelle reazioni istintive che esse producono; 3) la tradizione legata a leggi e costumi vigenti, che si impone come accettazione delle norme di condotta della propria comunità, al punto da far sì, per esempio, che anche lo scettico consideri la pietà in campo religioso un bene, l’empietà un male; 4) l’insegnamento delle arti, inteso come passivo apprendimento di un ‘saper fare’ promosso da alcune attività tecniche basilari (la medicina soprattutto, ma anche la grammatica elementare, un certo tipo di astronomia, l’agricoltura, la navigazione, come spiega Sesto altrove), la cui utilità consente di affrontare e risolvere le esigenze della vita quotidiana. Si può notare che, delle quattro categorie appena menzionate, le prime due sembrano insistere sul dato naturale, le seconde due su quello culturale, con cui ogni uomo, scettico o no, deve fare i conti ogni giorno e da cui non è possibile prescindere. Alla luce di queste considerazioni, se si volesse racchiudere la proposta morale di Sesto in uno slogan, si potrebbe affermare che essa costituisce una sorta di «ritorno allo stato di natura». La «natura» o phy`sis va in questo caso intesa come una realtà a più facce, caratterizzata contemporaneamente dal rispetto delle esigenze fisiologiche che ci caratterizzano come esseri umani, dall’accettazione delle convenzioni e delle regole etico-giuridiche della società in cui viviamo e infine dalla messa in pratica di un patrimonio culturale acquisito e consolidato. P. Dopo aver individuato il criterio pratico scettico e dopo aver chiarito l’adesione scettica ai fenomeni, Sesto sembra accettare implicitamente la tendenza eudaimonistica (rivolta alla felicità) propria delle filosofie (soprattutto ellenistiche) che egli combatte e
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Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo
Dimostrazione: l’esempio di Apelle mostra come lo scettico sia giunto per caso, attraverso la sospensione del giudizio, all’imperturbabilità
compie qualsiasi azione, per non perdere quelli che gli sembrano essere beni. (28) Chi invece resta nell’indeterminatezza quanto ai beni o mali per natura, non fugge intensamente qualcosa né lo persegue: per questo motivo è privo di turbamento. [Q] Allo scettico capitò dunque la stessa cosa che si narra a proposito del pittore Apelle. Dicono infatti che egli, avendo dipinto un cavallo e desiderando raffigurare nel quadro la schiuma della bocca del cavallo, ebbe così poco successo, che rinunciò e gettò contro l’immagine la spugna in cui detergeva i colori del pennello: (e dicono ancora che) questa, una volta venuta a contatto con il cavallo, produsse una rappresentazione della schiuma. (29) Anche gli scettici, dunque, speravano di impadronirsi dell’imperturbabilità dirimendo l’anomalia degli eventi sia fenomenici che mentali, ma, non essendo in grado di riuscirvi, sospesero il giudizio; e a questa loro sospensione seguì casualmente l’imperturbabilità, come ombra a corpo. Invero non riteniamo che lo scettico sia del tutto privo di affanno, ma affermiamo che è turbato da ciò che accade secondo necessità: e infatti concediamo che abbia talvolta freddo e sete e che patisca affezioni di questo genere. (30) In queste situazioni, però, gli uomini comuni sono tormentati da due negative condizioni, dalle affezioni stesse e non meno dal fatto che reputano quelle condizioni dei mali per natura; lo scettico, invece, rifiutando di opinare in sovrappiù che ciascuna di queste cose rappresenti un male per natura, si sente moderatamente sollevato anche in tali circostanze. Per questa ragione, dunque, affermiamo che fine dello scettico è l’imperturbabilità
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dunque ritiene coerente definire anche il fine o tèlos del proprio indirizzo di pensiero. Esso coincide con quel bene supremo considerato come punto più alto delle scelte etiche sin da Aristotele. Mantenendosi fedele alle cautele e alle restrizioni temporali indicate fin dall’inizio rispetto a qualsiasi eventuale affermazione pirroniana, Sesto presenta qui quello che, fino a questo preciso momento, è il fine da perseguire secondo i pirroniani. Esso è duplice e consiste da una parte nella mancanza di turbamento o ataraxìa rispetto alle questioni oggetto di opinione, dall’altra in una forma di moderato patire o metriopàtheia di fronte alle affezioni necessarie e sottratte al nostro controllo razionale. Q. Al di là della riproposizione di quanto già detto nel paragrafo 12, un punto forte dell’argomentazione di Sesto è rappresentato dal confronto fra l’atteggiamento dogmatico e quello scettico riguardo ai presunti beni o mali, rispetto ai quali possono nascere opinioni ingiustificate e moralmente pericolose. Quando infatti il dogmatico ancora non ha a disposizione quelli che egli reputa beni assoluti (per esempio la gloria o la ricchezza o il piacere o la saggezza), non solo li persegue, ma aggiunge l’opinione di essere in preda di mali assoluti. Qualora li abbia ottenuti, del resto, la situazione anziché migliorare, peggiora. I suoi turbamenti, infatti, aumentano, sia per un eccesso di orgoglio, sia perché, preso dal timore di perdere i beni acquisiti, è disposto a far di tutto pur di tenerseli stretti. Quest’analisi psicologica della complessa e dolorosa relazione che si crea per il dogmatico fra la conoscenza, il desiderio e il possesso (o la privazione) di valori (o disvalori) ritenuti oggettivi serve a Sesto per individuare quella che a suo avviso è la vera radice di ogni infelicità: l’intenso e ostinato perseguire o fuggire ciò che si crede essere bene o male per natura. Solo lo scettico si sottrae a questo rischio, poiché lascia del tutto indeterminata la questione dell’effettiva esistenza e conoscibilità di quei valori (o disvalori) in sé e dunque evita ogni scelta o rifiuto fondati su presunte teorie etiche assolute. 413
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Parte prima L’età antica
nelle questioni soggette a opinione, una forma di moderato patire in quelle dettate da necessità […]. [R] (da Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, parr. 1-4; 8-10; 12-15; 19-30, trad. di E. Spinelli)
R. Agli occhi di Sesto appare impossibile fornire argomentazioni razionali o addirittura dimostrazioni logiche a sostegno dell’atteggiamento etico pirroniano. Proprio per questo motivo egli si limita a illustrarne il meccanismo di produzione ricorrendo all’aneddoto del pittore Apelle. Si tratta senz’altro di una storia esemplare, legata a un singolo istante, non ripetibile o riproducibile all’infinito e volontariamente. Se la storiella di Apelle è applicabile per analogia anche allo sforzo scettico di conseguire l’imperturbabilità, lo è appunto perché tale sforzo risulta soddisfatto per caso, senza alcuna forma di necessità o di determinazione causale forte. Questo vale, però, solo per l’ambito delle questioni legate alle opinioni umane; altrettanto non si può dire qualora si abbia a che fare con affezioni involontarie e necessarie, con sofferenze che non possiamo in alcun modo cancellare o evitare, come per esempio il sentir freddo o l’aver sete. In questo caso nessuno può dirsi privo di affanni, neppure lo scettico. Egli tuttavia, a differenza di ogni altro uomo, soprattutto del cosiddetto «uomo della strada», riesce almeno a limitare e render più mite la propria sofferenza, perché non ritiene che essa sia un male in sé, ma semplicemente una conseguenza non eliminabile della sua condizione umana.
Questionario sull’argomentazione 1
Qual è la definizione essenziale dello scetticismo e quali sono i significati dei concetti fondamentali che la costituiscono? (max 12 righe)
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Quali sono le definizioni di «fenomeno», «rappresentazione», e «oggetto in sé», e quali le loro relazioni? (max 15 righe)
Nel commento al paragrafo 15 si usa l’espressione «auto-confutazione» riferita allo scetticismo proposto da Sesto Empirico: che cosa si intende con questa espressione? (max 5 righe) 414
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Con quali argomenti Sesto dimostra che l’atarassia preserva dai turbamenti che affliggono i dogmatici, e quale relazione essa ha con l’epochè?(max 15 righe)
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I testi Platone Protagora: L’arte di misurare i piaceri, T1 Gorgia: La superiorità della virtù, T2 Fedone: Il baratto dei piaceri, T3 Repubblica: Piaceri veri e illusori, T4 Filebo: La distinzione tra bene e piacere, T5
Aristotele Etica nicomachea: Tutti gli esseri tendono verso il piacere, T6; I piaceri propri dell’uomo, T7 Epicuro Epistola a Meneceo: Il sobrio calcolo dei piaceri, T8 Massime capitali: Piacere e dolore, T9
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Parte prima L’età antica
Che cos’è il piacere? Se gettiamo uno sguardo alla nostra esistenza quotidiana e alle vicende che la segnano o determinano in una direzione e nell’altra, subito ci rendiamo conto di quale ruolo possa giocare in essa la dimensione del piacere. È dunque legittimo attendersi che sin dall’inizio della riflessione filosofica si siano formate opinioni o teorie sul piacere, sentito come un’affezione importante, se non decisiva, nello sviluppo di ciascuno di noi, tanto rispetto alla sfera interiore quanto in relazione agli intrecci politici o pubblici della nostra vita. Ripercorrendo le tappe del pensiero antico, insomma, è possibile imbattersi non solo nella domanda fondamentale «che cos’è il piacere?», ma anche in una serie di risposte fra loro diverse, legate ad ambiti culturali e storici non uniformi, ma sempre decisive per fornire soluzioni di grande rilievo teorico.
1 L’eroe omerico e il piacere
La critica di Esiodo e il simposio
Gli spunti dei poeti
Le analisi dei presocratici
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Il piacere nella letteratura arcaica e nei presocratici Al di là dell’assenza del termine specifico, destinato a diventare d’uso comune o quasi generico per indicare il piacere (hedonè), già nei versi dei poemi omerici appare innegabile la centralità di una serie di atteggiamenti, tutti caratteristici della vita dell’eroe impegnato ad affermare e consolidare la sua posizione dominante all’interno della cerchia dei suoi pari: dal rallegrarsi per ciò che di positivo giunge inatteso all’ilarità legata a situazioni conviviali, dal godimento suscitato dalla piena soddisfazione di un desiderio alla voluttà che si accompagna al consumo del cibo o delle relazioni sessuali. Questa dimensione piacevole riconosciuta a momenti e condizioni della vita considerata perfino nei suoi aspetti più effimeri è messa in discussione da Esiodo: egli vuole infatti legare indissolubilmente il raggiungimento del piacere alla fatica del lavoro. Dopo di lui la poesia dei lirici torna a cantare le gioie della giovinezza, del vino o dell’amore, come accade anche nelle composizioni letterarie dedicate al simposio, luogo per eccellenza di un godimento che unisce l’aspetto della soddisfazione individuale alla prassi di regole o funzioni sociali ben stabilite, perfino a livello educativo. La sfera più ampia della produzione letteraria, anche nella successiva, raffinatissima elaborazione offerta dai poeti tragici e comici, si limita tuttavia a rappresentare casi o a proporre vicende paradigmatiche. Essa non giunge quindi a una compiuta teorizzazione in merito alla natura più profonda del piacere o ai principi che ne giustifichino la presenza e il funzionamento. Isolati spunti di riflessione si ritrovano in alcune delle massime dei cosiddetti Sette Sapienti, come per esempio in Solone, che ammonisce: «fuggi il piacere che procura dolore». È solo con l’articolata analisi dei primi filosofi presocratici, tuttavia, che possiamo trovare l’inizio di una trattazione più sistematica del piacere come problema da inquadrare in una più ampia interpretazione dell’intera realtà. Benché il pensiero di questi filosofi ci sia giunto in modo solo frammentario e al di là delle singole posizioni da loro assunte, sembra possibile ritrovare nel loro pensiero almeno alcune linee di fondo ben distinguibili.
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Percorso tematico Che cos’è il piacere?
Così il piacere, costantemente legato alla sensazione e articolato in modo diverso a seconda della fonte che lo determina, appare la condizione in cui viene ‘riempita’ o ristabilita una privazione o mancanza. Questo processo di riconquista di una situazione di pienezza non è casuale o disordinato, ma deve rispondere a una norma precisa e rispettare il criterio della misura. Solo così esso diventa parte integrante del cammino verso la felicità, presentata come condizione stabile, sottratta al rischio di un caotico fluire di momenti o situazioni fra loro slegati. La gerarchia dei piaceri È su questo sfondo che si muovono alcune correnti di pensiero presocratiche, soprattutto quelle legate alla dottrina pitagorica e forse anche eleatica; esse propongono una distinzione dei piaceri in base all’oggetto cui essi si rivolgono (rispettivamente: la sfera dei sensi; il mondo della vita associata o della politica; la pura contemplazione o theorìa) e di conseguenza una gerarchia di tipi di vita (ovvero: edonistica; politica; filosofica), la cui determinazione avrà conseguenze importanti nel successivo dibattito filosofico. Il piacere come ‘riempimento’
2 Gorgia e il piacere della parola
Prodico e la scelta di Eracle
Il Socrate virtuoso di Senofonte
Il Socrate di Platone: il bene è piacevole
La «scienza metretica»
Uno sguardo più profondo: i sofisti, Socrate, i socratici Lo scenario cambia, facendosi ancora più chiaro sul piano teorico, con l’irrompere della filosofia sulla scena di Atene e dunque in primo luogo con le raffinate dottrine antropologiche dei sofisti. Due figure meritano di essere ricordate. Da una parte abbiamo Gorgia, pronto a ribadire tutto il potere della parola ovvero di quel lògos che con i suoi incantesimi è capace di produrre piacere e allo stesso tempo di cacciar via il dolore (vedi Unità 2, p. 77). Dall’altra troviamo Prodico di Ceo, il quale presenta un’alternativa netta. Grazie a Senofonte (Memorabili, 2,1,21-34) possiamo seguire la sua argomentazione, tratta dallo scritto Eracle al bivio (e destinata ad avere grande fortuna più tardi soprattutto tra i filosofi cinici). A Eracle viene qui proposta una scelta che non ammette soluzioni intermedie: da una parte una vita, naturalmente da fuggire, dedita al consumo ininterrotto e dissoluto dei piaceri; dall’altra una, massimamente preferibile, pronta invece ad affrontare fatiche e difficoltà sulla via della virtù e del perfezionamento morale. Nonostante l’oggettiva difficoltà nel ricostruire il pensiero di Socrate (vedi Unità 2, p. 84), sembra innegabile che la riflessione sul piacere abbia rappresentato un oggetto privilegiato della sua filosofia. In alcune pagine significative di Senofonte gli viene attribuita la convinzione forte, secondo cui la libertà dell’uomo saggio si risolve in una forma di temperanza in grado di dominare ogni passione e dunque anche ogni pericoloso cedimento alle lusinghe di piaceri incontrollati. È tuttavia soprattutto in un dialogo giovanile di Platone, nel Protagora, che sembra comparire un primo abbozzo di vera e propria teoria sul ruolo etico del piacere, a cui viene riconosciuta non una totale identità, ma almeno una compatibilità rispetto alla virtù. Senza attribuire a Socrate una forma di pieno edonismo, si può dire che nella parte conclusiva del Protagora egli sembra difendere la tesi secondo cui il bene non può che essere piacevole: se infatti esso è davvero l’oggetto verso cui indirizzare la nostra scelta morale, allora «vivere piacevolmente è, dunque, un bene, spiacevolmente un male» (Protagora, 351b). Questa concezione del bene fonda e giustifica senz’altro il noto paradosso socratico, secondo cui nessuno compie il male volontariamente, ma solo perché igno417
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ra quel vero bene che, una volta conosciuto e apprezzato per il piacere che può dare, non può non essere perseguito e compiuto (vedi Unità 2, p. 90 ss.). Porre come obiettivo etico un bene che sia anche piacevole, tuttavia, non significa affatto che ogni forma di piacere sia immediatamente bene, dunque preferibile e da scegliere. Il Socrate del Protagora si preoccupa infatti di presentare una dottrina articolata, in virtù della quale scegliere i piaceri in modo adeguato. Si tratta di un’arte della misura o «scienza metretica», ovvero di un attento calcolo dei piaceri, che ci consenta di scartarne alcuni immediati in vista di un bene futuro più grande e addirittura di accettare dolori presenti, qualora siano in grado di assicurarci più avanti il godimento di piaceri duraturi e stabili.
T1
L’arte di misurare i piaceri
Platone, Protagora, 357 A-E
– Ebbene, uomini, poiché la salvezza della nostra vita si è rivelata consistere nella corretta scelta del piacere e del dolore, dei più numerosi e dei meno, dei più grandi e dei più piccoli, dei più lontani e dei più vicini, non si rivelerà altrettanto evidente ch’essa sarà, innanzi tutto, arte della misura, poiché si tratta, appunto, di una ricerca dell’eccesso e del difetto e della reciproca uguaglianza in cui si trovano piaceri e dolori? – Necessariamente. – Non solo, ma tale arte della misura non si risolverà necessariamente in un’arte e una scienza? – Saranno d’accordo. – Di quale arte e di quale scienza si tratti, lo vedremo in un secondo momento. Basti ora dire che è scienza: questo serve alla dimostrazione che io e Protagora dobbiamo darvi intorno a ciò su cui ci interrogavate. Se ricordate avete posto la domanda, allorché Protagora ed io fummo d’accordo nel sostenere che nulla v’era di più forte della scienza e che dovunque essa si trovi ha sempre in suo dominio il piacere, domina sempre tutto; voi, invece, sostenevate che il piacere ha sovente in suo domino anche l’uomo che sa, e poiché noi non eravamo d’accordo, voi ci chiedeste: «Protagora, Socrate, se tale situazione non è esser sopraffatto dal piacere, cosa è mai e cosa dite che sia? Ditecelo!». Se allora avessimo sùbito risposto: «l’ignoranza», avreste riso di noi; ora, invece, se rideste di noi, ridereste di voi stessi. Eh sì, ché anche voi avete riconosciuto che per difetto di scienza errano nella scelta dei piaceri e dei dolori, cioè dei beni e dei mali, quelli che errano, e non solo per difetto di scienza, ma di quella particolare scienza che, sopra, avete riconosciuto essere l’arte della misura. Ebbene, anche voi sapete che un’azione errata per mancanza di scienza è dovuta ad ignoranza. E allora, lasciarsi sopraffare dal piacere è suprema ignoranza […].
La posizione di Socrate rispetto al piacere non appare priva di oscillazioni e si presta a essere interpretata secondo sfumature diverse. È quanto accadde in effetti fra i suoi discepoli, fino al punto di generare posizioni opposte. Aristippo: tutti i piaceri Così Aristippo (vedi Unità 2, p. 96) difende la tesi per cui tutti i piaceri (o meglio: sono beni tutti i piaceri presenti e immediati, come preciseranno in seguito i filosofi cirenaici, rifacendosi a lui e rendendo ancora più radicale la sua posizione) sono beni. Essi sono movimenti lievi, perseguiti e scelti da tutti gli esseri viventi, e rappresentano dunque il vero fine delle nostre azioni. Siamo di fronte a una forma sicuramente forte di edonismo, che tuttavia vuole anche evitare ogni eccesso. Aristippo propone piuttosto un tipo di godimento inteso come capacità di controllo del piacere stesso, come mostra la nota affermazione relativa ai suoi rapporti con una donna, una nota 418
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etera del suo tempo, Laide: «posseggo Laide, non ne sono posseduto; è cosa eccellente non l’astinenza dalle passioni, ma il dominarle e il non esserne servi» (2,75). Antistene: la virtù Ben diversa è invece la soluzione proposta da Antistene (vedi Unità 2, p. 95). contro il piacere Egli, identificando completamente il bene con la virtù, del tutto sufficiente al raggiungimento della felicità, assume un atteggiamento di totale rifiuto di ogni forma di piacere che non tenga dietro allo sforzo e alla fatica morale. Le fonti gli attribuiscono in proposito una frase piena di disprezzo, divenuta poi quasi uno slogan antiedonistico: «vorrei piuttosto impazzire che sentir piacere» (6,3).
3
Il Gorgia: il piacere si oppone al bene
La risposta platonica: la vita secondo virtù
T2
La superiorità della virtù Platone, Gorgia, 506 C-507 C
Platone: piacere e vita buona Molto più complessa e forse soggetta anche a mutamenti nello sviluppo del suo pensiero è la reazione di Platone rispetto al peso da attribuire al piacere nella determinazione di una vita che possa dirsi davvero buona. Inizialmente egli sembra rifiutare qualsiasi funzione positiva al piacere. È una scelta rigoristica, che lo porta per esempio nel Gorgia a distinguerlo, anzi a opporlo radicalmente al bene. Lo scontro è qui soprattutto con Callicle, che eleva l’intemperanza a supremo principio morale e difende la tesi radicale per cui il bello e il giusto per natura consistono nella coltivazione e soddisfazione senza freni o limiti di tutti i desideri e di tutte le passioni (vedi Unità 3, p. 116 ss.). Platone mostra innanzi tutto l’infinita debolezza di una vita dedita al perseguimento di desideri sempre pronti a risorgere. Contro questa scelta di vita, condannata a una perenne insoddisfazione, egli oppone a Callicle la necessità di distinguere fra piaceri buoni e piaceri cattivi. Grazie a questa strategia argomentativa egli riesce a mostrare come il fine sia non il piacere in sé, obiettivo di una vita secondo retorica, ma piuttosto il bene, che è il vero scopo di una vita secondo filosofia. Nella parte finale del Gorgia Platone può dunque ricapitolare la sua posizione e ribadire la preferibilità assoluta di una vita secondo virtù, improntata all’ordine e all’armonia, contro ogni esaltazione della dissoluta intemperanza volta al raggiungimento di un piacere, che non appaga mai. – E tu ascolta: riprenderò fin dal principio il filo del discorso. Piacere e bene sono la stessa cosa? – No, come io e Callicle abbiamo convenuto. Ma è il piacere che deve essere usato in funzione del bene, o il bene in funzione del piacere? – Il piacere in funzione del bene. Piacere è ciò la cui presenza suscita in noi piacere, e bene è ciò la cui presenza ci rende buoni? – Esattamente. – Ma siamo buoni, noi e tutte le cose buone, per la presenza di qualche virtù? – Mi sembra necessario, Callicle! – Ma la virtù propria di qualsivoglia cosa, quella di un arnese, come quella di un corpo, di un’anima, di ogni essere vivente, non si forma a casaccio, ma grazie a un ordine, a una rettitudine, a un’arte, propri di ciascuna cosa: vero? – Direi di sì. – La virtù di ciascuna cosa, dunque, consiste in un ordine e in un’armonia risultante da una giusta proporzione? – Mi parrebbe di sì. 419
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– Un ordine, che si venga formando in una cosa, e che, perciò, le sia proprio, non la rende forse buona? – Mi sembra. – Anche l’anima, dunque, che sia ordinata, secondo il proprio ordine, è migliore di un’anima disordinata? – Necessariamente. – Ma l’anima che si venga ordinando secondo il proprio ordine è ordinata? – Senza dubbio. – E assennata è un’anima ordinata? – Assolutamente. – E un’anima assennata è un’anima buona. Amico Callicle, a tutto questo non ho nulla da obiettare, ma se tu hai da dire qualcosa in contrario, fammi sapere di che si tratta! – Parla pure, mio caro. – Bene, e dico che se è vero che un’anima assennata è buona, è altrettanto vero che un’anima, che sia stata determinata in modo opposto alla saggezza, è cattiva: e tale è l’anima dissennata e non castigata. – Perfettamente. – Non solo, ma l’uomo di senno si comporterà come deve di fronte agli dèi e agli uomini: non sarebbe saggio se si comportasse in altro modo. – Necessaria conclusione. – Agire nei confronti degli dèi è agire piamente, e chi agisce secondo giustizia e secondo pietà è necessariamente uomo giusto e pio. – Proprio così! – E altrettanto necessariamente è coraggioso, ché non sarebbe da uomo di senno ricercare e fuggire ciò che non deve ricercare e fuggire: ma di qualunque cosa si tratti, cose e uomini, piaceri e dolori, fuggirà e cercherà ciò che è bene cercare e fuggire, e, quando sia necessario, resisterà, tenendosi fermo al suo posto. Necessaria conseguenza, Callicle, è, dunque, che l’uomo di senno, come abbiamo detto, sia giusto, coraggioso, pio, e, perciò, perfettamente buono, e che, appunto in quanto buono, tutto quello che fa lo fa bene, virtuosamente, e che necessariamente beato e felice è chi agisce bene, mentre infelice è il malvagio in quanto agisce male; tale è chi sia l’esatto opposto dell’uomo di senno, quel dissoluto che tu dianzi esaltavi. Il Fedone: il piacere senza valore
T3
Il baratto dei piaceri
Platone, Fedone, 68 C-69 C
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Lungo questa linea, in modo forse ancora più netto, Platone arriva poi nel Fedone a privare di ogni valore il piacere (vedi Unità 3, p. 125 ss.). Lo sfondo è quello di una più radicale opposizione fra i veri beni dell’anima, fonte di moderazione e frutto della vita filosofica, e le false lusinghe del corpo. Queste ultime o sfociano in comportamenti del tutto intemperanti o producono una falsa forma di temperanza, legata alla paura di mali maggiori. – E dunque – egli disse – o Simmia, anche quella che si suol chiamare fortezza, non si addice particolarmente a coloro che hanno tale educazione di animo? – Precisamente – disse. – E anche la temperanza, quella che anche il volgo chiama temperanza, e cioè non lasciarsi turbare dalle passioni e anzi non farne conto veruno e vivere moderatamente, non si addice a coloro soltanto che più di ogni altra cosa tengono a vile il corpo e vivono in filosofia? – Necessariamente – disse.
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– E difatti – soggiunse – se tu vuoi riflettere un momento a quel che sono negli altri fortezza e temperanza, vedrai bene che son cose fuori di posto. – E come, o Socrate? – Tu sai bene – egli disse – che la morte tutti gli altri la mettono nel numero dei grandi mali; non è vero? – Certo – rispose. – Dunque, quelli di costoro che hanno forza di animo, se mai accade che affrontino la morte, l’affrontano per paura di mali maggiori; non è così? – È così. – Dunque, fatta eccezione dei filosofi, tutti gli altri sono coraggiosi perché hanno paura; sebbene sia una curiosa contraddizione dire che uno è coraggioso per paura e viltà. – Certamente. – E quelli di costoro che sono temperanti? Non si trovano anch’essi nel medesimo caso, che sono temperanti per loro intemperanza? Sta bene, diciamo pure che non è possibile; e tuttavia accade a costoro qualche cosa proprio di questo genere con quella loro temperanza da sciocchi: perché, per paura di restar privi di certi piaceri dei quali hanno più vivo desiderio, si astengono da altri, dominati come sono da quelli. Ora, questo lasciarsi dominare dai piaceri, lo chiamano, sì, intemperanza, ma il fatto è che a costoro, appunto perché dominati da certi piaceri, accade di dominarne altri: che è proprio il caso che si diceva or ora, di essere in certo modo temperanti per intemperanza. – Così pare. – O mio buon Simmia, stiamo attenti dunque se proprio questo sia, di fronte all’idea della virtù, il giusto baratto, barattare fra loro piaceri con piaceri e dolori con dolori e paura con paura, il più con il meno, come fossero monete; e non più tosto l’unica moneta di valore, quella per cui tutto ciò ha da essere barattato, sia il sapere, e soltanto le cose comperate e vendute al prezzo di questo e insieme con questo siano veramente fortezza e temperanza e giustizia; e insomma, non si abbia virtù vera se non è accompagnata dal sapere, ci siano o non ci siano piaceri e paure e tutte le altre passioni di questo genere. E quando codeste passioni siano scompagnate dal sapere e barattate fra loro, badiamo che allora cotale virtù non sia come uno scenario dipinto, virtù veramente da schiavi, senza nulla di saldo né di reale, e non siano invece temperanza e giustizia e fortezza – e questa è la realtà vera – una specie di purificazione da tutto codesto, ed esso stesso il sapere un modo o un mezzo di purificazione. Una simile contrapposizione fra bene e piacere attribuisce dunque a quest’ultimo una posizione del tutto negativa. Sembrerebbe confermarlo anche la sua collocazione, nella psicologia tripartita della Repubblica, all’interno della parte appetitiva dell’anima, l’epithymetikòn. Il piacere si confonde qui con la turba infinita dei desideri corporei, né può sfuggire al freno imposto dalla parte razionale e al severo controllo esercitato da quella coraggiosa (vedi Unità 3, p. 126 ss.). La rivalutazione Proprio nella Repubblica, tuttavia, questo rigido schema oppositivo inizia forse del piacere a essere messo in discussione. Platone si rende conto di dover recuperare una funzione positiva al piacere, che non può più essere negativamente circoscritto alla parte più bassa dell’anima. Esso deve piuttosto tornare a svolgere un ruolo di stimolo anche per chi si lascia guidare dalla ragione verso l’acquisizione di una vita davvero felice. Così nel IX libro, nel contesto tutto politico di una com-
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plessa argomentazione volta a dimostrare la somma infelicità della vita del tiranno, Platone riconosce per ciascuna parte dell’anima una forma di piacere. Risolvendo quest’ultimo in «amore o desiderio di qualcosa», può pertanto proporre una tripartizione accurata fra tre tipi di uomini, ben diversi a seconda dell’oggetto del loro amare o desiderare: gli amanti del sapere, della vittoria, del guadagno. Anche qui, è ovvio, resta sempre ben chiara la superiorità del primo tipo di uomo, ovvero di quel filosofo che può legittimamente essere l’unico vero arbitro dei piaceri. Piacere e conoscenza Il criterio per mettere ordine nel mondo dei piaceri, la cui presenza è ora estesa a tutti gli aspetti della realtà psichica, rimane insomma ben saldo: si tratta del possesso della vera conoscenza. Grazie ad essa si realizza un livello di godimento puro, lontano da quella zona intermedia inevitabilmente legata alla sfera bassa della corporeità. Mettendo da parte quella sorta di ‘trucco’ o ‘illusione ottica’ che ingannandoci ci fa identificare il piacere con la più o meno momentanea cessazione del dolore, Platone può descriverlo invece come piena esperienza delle cose che stanno in alto, delle cose che sono al massimo grado, della verità delle idee.
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Piaceri veri e illusori
Platone, Repubblica, 9,586 A-587 A
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– Dunque coloro che sono inesperti di intelligenza e virtù, ma che frequentano continuamente banchetti e simili, sono portati a quanto sembra verso il basso, e poi di nuovo verso il mezzo, e vagano in questo modo per tutta la vita; ma non hanno mai superato questo livello rivolgendo lo sguardo verso ciò che è veramente alto, né vi sono stati sollevati. Mai si sono riempiti di ciò che realmente è, né hanno gustato un piacere stabile e puro: piuttosto, alla maniera del bestiame, guardano sempre in basso, e, curvi verso la terra, pascolano nelle loro greppie, saziandosi e accoppiandosi; e per la bramosia di queste cose, si prendono fra loro a calci e cornate fino ad uccidersi con corna e zoccoli di ferro, a causa della loro insaziabilità: perché non hanno mai riempito con enti reali né ciò che in loro è né la sua dimora. – Socrate – disse Glaucone – hai reso un perfetto oracolo sulla vita dei più. – E non è allora anche necessario che essi pratichino piaceri mescolati a dolori, illusori simulacri del vero piacere, che sembrano dipinti a colori vivaci solo grazie all’accostamento reciproco, tanto da apparire violenti in entrambi i sensi; piaceri che generano in questi dissennati un furioso desiderio di provarli, fino a battersi per essi, come, secondo Stesicoro, ci si batté a Troia per il simulacro di Elena, nell’ignoranza del vero? – È del tutto necessario, che accada qualcosa del genere. – E poi, non è necessario che qualcos’altro di simile accada relativamente alla parte collerica dell’anima, quando si riesce a soddisfarla o con l’invidia per il desiderio di onori, o con la violenza per il desiderio di vittorie, o con la collera per l’aggressività, cercando di riempirla di onore, vittoria, collera senza ragionamento e pensiero? – È necessario – disse lui – che cose del genere accadano anche a proposito di questa parte. – E allora – dissi io – affermiamo senza esitare che anche i desideri relativi alle parti amanti di guadagno e di vittoria, che – seguendo scienza e ragione e cercando i propri piaceri insieme con loro – colgono quei piaceri che l’intelligenza indica, coglieranno i piaceri più veri, per quanto è loro possibile di coglierne di veri, poiché seguono la verità, e anche quelli loro propri, se ciò che per ogni cosa è il meglio è anche il più appropriato per essa?
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Percorso tematico Che cos’è il piacere?
– Ma certo – disse – il più appropriato. – Se dunque l’anima intiera segue la sua parte filosofica e non è conflittuale, ad ogni sua parte spetta, per il resto, di svolgere il proprio ruolo e di essere giusta, e al tempo stesso di godere i piaceri che le sono propri, i migliori e per quanto è possibile i più veri. – Senz’altro. – Quando invece domina una delle altre parti, ne consegue che essa non trova il piacere suo proprio, e che costringe le altre a perseguire un piacere estraneo e non vero. – È così – disse.
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Il Filebo: lo specchio delle dispute
La vita mista: intelligenza e piacere
Il piacere puro in vista del bene
T5
La distinzione tra bene e piacere Platone, Filebo, 54 A-55 A
Il dibattito nell’Accademia Le diverse spiegazioni fornite da Platone nella fase matura del suo pensiero rispetto alla natura e alla funzione etica del piacere si intrecciano con le posizioni molto diverse, anzi opposte assunte al riguardo da alcuni suoi discepoli. Una registrazione di tale dibattito interno all’Accademia si trova in un dialogo tardo, il Filebo. Qui Platone prende posizione tanto contro la tesi radicalmente antiedonistica (verosimilmente attribuibile a Speusippo; vedi Unità 3, p. 156) quanto contro la convinzione edonistica (da ricondurre storicamente alla figura di Eudosso; vedi Unità 3, p. 155 s.) di una sorta di centralità biologica del piacere, visto come primo e primario oggetto di desiderio di ogni essere vivente. Cercando di occupare uno spazio teorico intermedio e grazie a una serie di argomenti complessi, legati a una sempre più netta matematizzazione del mondo ideale, ma ormai lontani da preoccupazioni di carattere politico, Platone torna a interrogarsi sulla vera natura del bene. Rifiutando ogni astratta contrapposizione fra intelligenza e piacere, egli propone piuttosto di intendere il bene proprio dell’uomo come un misto di piacere e intelligenza e di individuare la causa di tale mescolanza nella mente. Se dunque una scelta è davvero alla portata dell’uomo, questa non può che indirizzarsi verso una forma equilibrata, misurata di «vita mista», posta all’intersezione del mondo puramente intelligibile e di quello meramente materiale. Essa si muove lungo quella direzione e secondo quell’ordine imposti dalla mente allo svolgersi dei fenomeni dell’universo, a partire da quei processi corporei che comunque contraddistinguono la nostra condizione umana. Sulla base di questa conclusione Platone distingue con cura vari tipi di piacere (dell’anima / del corpo; veri / falsi; misti), per arrivare infine a individuare una sfera del «piacere puro». Quest’ultimo è sì vicino al vero, ma non coincide con esso, perché comunque, come ogni piacere, non è sostanza, ma «generazione rivolta alla sostanza» (ghènesis èis ousìan), non è bene in senso assoluto, ma qualcosa che si produce in vista del bene inteso come vero fine. – Prendiamo allora queste due altre cose. – Quali? – L’una è la generazione, comunque ciò sia, di tutte le cose, l’altra il loro essere. – Accetto l’esistenza di queste due cose dette da te, l’essere e la generazione. – Benissimo. E quale dunque di queste due è in funzione dell’altra? Dobbiamo dire 423
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che la generazione è in funzione dell’essere o l’essere in funzione della generazione? […] – E perché, Socrate, non rispondi tu stesso a te stesso? – Non c’è nessuna ragione perché io non lo faccia, ma tu partecipa al discorso. – Senza dubbio. – Io dico allora che in funzione della generazione vengono preparati e procurati in generale i rimedi, tutti gli strumenti e tutto il legname e che ciascuna generazione avviene in funzione di ciascun determinato essere da essa diverso e che universalmente tutto il venir generato è in funzione di tutto l’essere. – Chiarissimo. – E allora il piacere, se è generazione e venir all’essere sarà generato necessariamente in funzione di un essere determinato. – Certo. – Ciò in funzione di cui sempre è generato ciò che è generato in funzione di qualche cosa appartiene alla natura del bene; ciò che è generato in funzione di altro è da porsi, carissimo, da un’altra parte. – Necessariamente. – Se dunque il piacere è generazione, noi faremo cosa giusta collocandolo da una parte diversa da quella del bene. – Giustissimo. – E allora, come dicevo in principio di questo discorso, non dobbiamo forse essere grati a chi mostra che il piacere è generazione, che non vi è assolutamente un essere del piacere? È chiaro infatti che chi dice così se ne ride di coloro che affermano essere un bene il piacere. – Sicuro. – E riderà certo questo stesso, ogni volta che ne abbia occasione, di quelli che nella generazione esauriscono i loro desideri e si sentono in essa soddisfatti. – Come dici e di chi parli? – Parlo di quanti guarendo dalla fame, dalla sete e simili, da tutto ciò cui la generazione è rimedio, godono di essa come fosse essa stessa un piacere ed affermano che non accetterebbero di vivere senza aver sete, fame e senza subire il resto, ciò che uno potrebbe dire la somma delle conseguenze di simili affezioni. – Almeno è verosimile che pensino così. – Ma tutti noi non diremmo forse che l’opposto dell’essere generato è il corrompersi? – Necessariamente. – Ed uno che scegliesse questa vita sceglierebbe il corrompersi e il generarsi e non quel terzo modo di vivere in cui non potrebbe godere e soffrire, ma potrebbe usare la sua intelligenza quanto più è possibile in modo limpido e puro. – Socrate, dalla ammissione che il piacere sia un bene per noi consegue, come è ormai evidente, grande assurdità.
5 Le analisi dell’Etica nicomachea
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Aristotele: il piacere è un bene Al dibattito interno all’Accademia platonica può essere ricondotta anche la posizione di Aristotele (vedi Unità 4, p. 241 ss.). Soprattutto in alcune pagine importanti dell’Etica nicomachea (7,11-14 e 10,1-5), egli, seguendo il suo consue-
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to metodo legato all’esame preliminare delle diverse soluzioni in campo, prende le distanze sia dall’antiedonismo di Speusippo, secondo cui nessun piacere è mai bene, sia dalla soluzione intermedia di Platone nel Filebo. Meno critico sembra invece nei confronti di Eudosso (con una rivalutazione perfino dei piaceri corporei, da mantenere sempre, comunque, entro limiti accettabili e senza eccessi).
T6
Tutti gli esseri tendono verso il piacere
Aristotele, Etica nicomachea, 1172b9-14
Ora, Eudosso riteneva che il piacere è il bene, perché diceva di vedere che ogni essere, sia razionale sia irrazionale, tende al piacere – in ogni caso l’oggetto della scelta è ciò che giova, e lo è al massimo grado la cosa più eccellente; che il fatto che tutti gli esseri sono portati verso il piacere indica che esso è per tutti la cosa migliore, infatti ciascuno si procura ciò che è bene per lui, come ad esempio il cibo, e quindi ciò che è bene per tutti, e che tutti perseguono, è il bene.
Per Aristotele appare insomma innegabile che ogni essere vivente fugge il dolore e tende al piacere, come mostra l’osservazione immediata del comportamento all’interno di una natura finalisticamente orientata al meglio. Il piacere è parte Il piacere, in ogni caso, si lega all’attività priva di ostacoli di un essere che agidella felicità sce conformemente alla propria natura, che realizza la propria virtù nel senso originario di eccellenza: esso è pertanto un bene, un elemento fondamentale della vera felicità. Ancor più precisamente, esso accompagna e perfeziona la disposizione di un essere che svolge in atto la propria funzione (o èrgon).
T7
I piaceri propri dell’uomo Aristotele, Etica nicomachea, 1174b321175a17 e 1176a3-29
Il piacere perfeziona l’atto, non come uno stato abituale immanente, ma come una perfezione sopraggiungente, come ad esempio lo splendore nella gioventù: quindi finché l’oggetto sentito o intuito e ciò che percepisce o contempla saranno tali quali si deve, il piacere sarà presente nell’atto, infatti, dato che ciò che subisce e ciò che agisce rimangono simili a se stessi e si comportano reciprocamente sempre nello stesso modo, si avrà naturalmente lo stesso risultato. E quindi com’è che nessuno prova piacere continuamente? Forse si stanca? Infatti tutto ciò che è umano non ha la possibilità di essere continuamente in atto, e quindi non si genera nemmeno un piacere continuo, dato che esso consegue all’attività. Per la stessa ragione vi sono cose che, da nuove, ci rallegrano, e poi non lo fanno più allo stesso modo, dato che il pensiero dapprima è stimolato ed è in atto intensamente verso di esse, come fa, nel caso della vista, colui che fissa qualcosa, poi l’attività non è più la stessa, ma diviene meno intensa, e per questo anche il piacere diminuisce. Uno potrebbe anche pensare che tutti tendono al piacere perché tutti vogliono vivere, dato che la vita è un certo tipo di attività, e ciascuno è in atto in relazione a quegli oggetti, e con gli strumenti, che sono anche l’oggetto principale del suo amore: per esempio il musico con l’udito e in relazione alle melodie, lo studioso con la ragione riguardo ai concetti, e allo stesso modo ciascuno dei rimanenti. Il piacere perfeziona l’atto, e anche il tipo di vita che si desidera; quindi a ragione si persegue anche il piacere, dato che per tutti esso rende perfetta la vita, ed è ciò che scegliamo. […] Pare che ogni specie animale, proprio come ha un’attività a lui propria, abbia anche un piacere suo proprio: è quello che prova sulla base della sua attività specifica. Questo potrà risultare chiaro a chi le esamina singolarmente, infatti 425
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sono diversi i piaceri di un cavallo, quelli di un cane e quelli di un uomo, come dice Eraclito: «gli asini preferirebbero scegliere piuttosto la paglia, che l’oro» (fr. 9 D.K.), dato che per gli asini il nutrimento è più piacevole dell’oro. Ora, i piaceri di esseri differenti per specie differiscono per specie, e sarebbe ragionevole pensare che i piaceri degli esseri identici per specie non siano differenti. Invece nel caso degli uomini i piaceri differiscono, e non poco: infatti per le stesse cose, alcuni godono e altri si addolorano; agli uni sono dolorose e odiose cose che sono dolci e amabili per gli altri. Lo stesso avviene per le cose dolci: cose diverse sembrano dolci al febbricitante e al sano, e nemmeno il caldo è identico per il debole e per l’uomo forte; lo stesso capita anche per le altre sensazioni. In tutti questi casi pare che sia vero ciò che appare evidente all’uomo eccellente; e se ciò è detto bene, come si crede, la virtù e l’uomo buono in quanto tale sono misura di tutte le cose, quello che a lui appare chiaramente un piacere, lo sarà anche, e piacevoli le cose di cui gode. Non vi è da meravigliarsi se le cose spiacevoli per l’uomo buono appaiono piacevoli a un altro, infatti gli uomini subiscono molte forme di degenerazione e peggioramento: non sono cose piacevoli davvero, ma lo sono per costoro, e per quelli che si trovano in tali condizioni. Così quelli che per voce unanime sono detti turpi, non devono essere considerati piaceri, tranne che per gente degenerata; ma tra tutto ciò che appare piacevole alle persone per bene, quali, e di quale specie devono essere detti «piaceri propri dell’uomo»? Non è forse chiaro che sono quelli che derivano dalle attività? Infatti i piaceri fanno seguito a esse. Sia quindi una sola, o siano più di una, le attività proprie di un uomo perfetto e beato, quelli che le portano a perfezione si potranno dire, in senso forte, piaceri dell’uomo, e i rimanenti saranno detti tali in secondo luogo, in terzo luogo e anche meno, proprio come le attività. Piacere e contemplazione
➥ Laboratorio di lettura, p. 258
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Poiché nel caso dell’uomo l’attività propria e perfetta è quella teoretica, il cui esercizio ci garantisce la felicità o sommo bene, per Aristotele risulta evidente che una simile attività non potrà che implicare il piacere. È un tipo di piacere che non nasce da una mancanza o carenza, frutto dunque di una tensione, di un processo o di un movimento, ma da quell’immobilità del tutto speciale che solo la contemplazione può garantire, consentendo agli uomini teoreticamente virtuosi al massimo grado di «rendersi immortali».
Epicuro: il piacere è l’unico fine
Proprio su questo punto, sul tentativo ‘laico’ di assimilare la vita dell’uomo, sicuramente non immortale ma altrettanto certamente beata, a quella di una divinità insiste anche il messaggio filosofico di salvezza lanciato da Epicuro. Chi seguirà infatti i precetti epicurei arriverà a vivere «come un dio fra gli uomini» (Epistola a Meneceo, 135), soprattutto se, liberatosi dagli assurdi timori degli dèi e della morte, saprà indirizzare tutti i propri sforzi verso l’unico fine degno di essere perseguito: il piacere (vedi Unità 6, p. 351 ss.). La forza biologica La soluzione epicurea è dunque, senza esitazioni, edonistica. Essa sembra voler del piacere consapevolmente superare sia le sottili distinzioni platoniche sia la superiorità gerarchica della vita contemplativa difesa da Aristotele. Epicuro torna piuttosto Come un dio fra gli uomini
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a sottolineare la forza biologica del piacere, come già Eudosso: basta infatti osservare un neonato nella culla per rendersi conto del fatto che gli stati piacevoli sono l’obiettivo di ogni suo sforzo, mentre quelli dolorosi sono fuggiti con ogni mezzo. Letture superficiali Bisogna tuttavia comprendere bene in cosa consista quel piacere, la cui conquista è per noi garanzia di felicità somma. Una lettura superficiale e malevola della dottrina di Epicuro, molto spesso attuata senza scrupoli dai suoi avversari tanto contemporanei quanto successivi (soprattutto cristiani), ha cercato di trasformarlo in un edonista piatto e volgare. Egli sarebbe insomma il difensore del «piacere del ventre» nel senso più basso e turpe del termine. Si tratta tuttavia di un’immagine falsa, smentita dalle chiare affermazioni dello stesso Epicuro.
T8
E per questo noi diciamo che il piacere è principio e termine estremo di vita felice. Esso noi sappiamo che è il bene primo e a noi connaturato, e da esso prendiamo inizio per ogni atto di scelta e di rifiuto, e ad esso ci rifacciamo giudicando ogni bene in base alle affezioni assunte come norma. […] Quando dunque diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto, non intendiamo i piaceri dei dissoluti o quelli delle crapule, come credono alcuni che ignorano o non condividono o male interpretano la nostra dottrina, ma il non aver dolore nel corpo né turbamento nell’anima. Poiché non banchetti e feste continue, né il godersi fanciulli e donne, né pesci e tutto quanto offre una lauta mensa dà vita felice, ma sobrio calcolo che indaga le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, che scacci le false opinioni dalle quali nasce quel grandissimo turbamento che prende le anime.
La selezione dei piaceri
Epicuro del resto non solo precisa con esattezza la vera natura del piacere inteso come fine, ma indica anche i confini legittimi entro cui esso va perseguito. Quasi in continuità con la posizione di Socrate nel Protagora, infatti, egli invita a selezionare con cura piaceri e dolori, in base a un calcolo che eviti ogni irrazionale fuga verso ciò che, in modo indiscriminato e di qualunque cosa si tratti, procura godimento. Per poter realizzare in modo adeguato un simile calcolo occorre avere ben chiaro quali siano i bisogni realmente importanti nella nostra esistenza: solo la loro soddisfazione può darci il vero piacere, privo di sofferenze o angoscia aggiuntive. Epicuro propone al riguardo una gerarchia rigida fra i desideri: bisogna considerare e dar seguito ai soli desideri naturali e necessari, legati ai bisogni primari della sopravvivenza (mangiare, bere, avere un tetto sulla testa), mettendo in secondo piano quelli naturali ma non necessari e scartando del tutto quelli né naturali né necessari, fonte unicamente di dolore e turbamento. Forse in polemica consapevole con Platone e con altri filosofi, inoltre, Epicuro non ammette uno stato intermedio fra il dolore, che secondo lui è del resto perfettamente sopportabile, e il piacere. Quest’ultimo si ottiene in modo completo, infatti, quando il dolore sia stato eliminato; non consiste dunque in una qualche forma di movimento, non è un piacere ‘cinetico’, ma è la conquista di una condizione stabile, di quel «piacere catastematico» o in quiete, non soggetto ad aumento o diminuzione, dato dall’assenza di sofferenza nel corpo (aponìa) e dalla mancanza di turbamento nell’anima (ataraxìa).
Il sobrio calcolo dei piaceri Epicuro, Epistola a Meneceo, parr. 129 e 131-132
La gerarchia dei desideri
Il piacere è una condizione stabile
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T9
Piacere e dolore
Epicuro, Massime capitali
III. Il limite in grandezza dei piaceri è la detrazione di ogni dolore. E dovunque è piacere, e per tutto il tempo che persiste non c’è né dolore fisico né spirituale né ambedue. IV. Non dura ininterrottamente il dolore della carne, ma il massimo rimane il minimo tempo, e quello che appena supera il piacere della carne non dura molti giorni; anzi le lunghe malattie danno alla carne più piacere che dolore. XVIII. Non aumenta il piacere nella carne una volta sia tolto il dolore per ciò che ci mancava, ma solo si varia. Il limite (posto da parte) dello spirito riguardo ai piaceri proviene da una accurata considerazione di questi stessi e di ciò che ad essi è simile, tutte cose che recano allo spirito le più grandi paure. XIX. L’infinito tempo e il finito hanno egual quantità di piacere, ove si misurino i limiti di esso con la ragione.
Chi agisce uniformandosi a questo tipo di piacere ammette e fonda, per così dire, una nuova ‘genealogia della morale’. Non soffrire la fame né la sete né il freddo, ricorrendo ai più semplici, frugali e immediati rimedi che la natura senza difficoltà ci offre al riguardo, e considerare questo il termine ultimo dei nostri sforzi significa accettare e praticare un rovesciamento dei valori. In tal modo, infatti, è la nostra stessa esistenza in sé, il nostro vivere al livello più elementare e basilare che diventa l’apice della nostra felicità. Vivere nel presente Senza tante speculazioni o teorie il vero piacere si identifica con il nostro essere o ancor più precisamente con il nostro esserci. Essendo confinati al qui e all’ora della nostra condizione mortale, dobbiamo imparare a vivere e godere nella dimensione del presente, di cui dobbiamo apprezzare tutta la forza, senza sciuparne il valore a causa del rimpianto per il passato o dell’assurda attesa di un futuro altro, nell’illusione che esso sia, magari, migliore. Una nuova morale
I brani antologizzati sono tratti da: Platone, Protagora, trad. di F. Adorno, in Id., Opere, Laterza, Bari 1966, vol. 1. Platone, Gorgia, trad. di F. Adorno, ibidem. Platone, Fedone, trad. di M. Valgimigli, ibidem. Platone, La Repubblica, trad. di M. Vegetti, Rizzoli, Milano 2007. Platone, Filebo, trad. di A. Zadro, in Id., Opere, cit. Aristotele, Etica nicomachea, trad. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 2001. Epicuro, Opere, a cura di G. Arrighetti, Einaudi, Torino 1973. I brani citati da Aristippo e Antistene a p. 419 sono tratti da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, trad. di M. Gigante, Laterza, Roma-Bari 1976.
Questionario 1
Quali sono le principali differenze nella trattazione del piacere tra i poeti antichi, i sofisti e Socrate (T1)? (max 15 righe)
Quali sono gli elementi fondamentali che mostrano il cambiamento di posizione di Platone rispetto al tema del piacere stando da una parte ai brani T2 e T3 e dall’altra a T4 e T5? (max 15 righe) 428
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Sulla base di T6 e T7, come puoi sintetizzare la posizione di Aristotele per cui il piacere si configura come uno dei beni necessari alla felicità? (max 15 righe)
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Quali tipi di piaceri conducono per Epicuro alla felicità (T8) e che tipo di rapporto intercorre tra il piacere e il dolore (T9)? (max 10 righe)
2
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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana FELICITÀ Un termine ‘positivo’
Un concetto indeterminato ➥ Laboratorio sul lessico, Bene / buono, p. 105
Una componente oggettiva: la causa o la ragione
Una componente soggettiva: lo stato mentale
Felicità individuali o nozione universale
Chiunque venga interpellato sulla parola «felicità», che si tratti della propria felicità o della felicità altrui, non ha incertezze nell’attribuire a questo termine un segno di valore positivo, e in effetti questo valore positivo è uno dei non molti tratti di questo concetto che sembra essere indubitabile. Il concetto di felicità è infatti un concetto indeterminato sia per quel che riguarda il problema dei mezzi per raggiungerla, sia per quello che riguarda il suo significato, ossia ciò che interessa qui. La felicità, se è un valore positivo, è quindi un bene. Nonostante la sua indeterminatezza, poi, possiamo comunque cercare di analizzarla e di vedere che cosa contenga. In generale, nel concetto di felicità possiamo isolare una componente oggettiva e una soggettiva: da un lato, quando parliamo della felicità di solito parliamo di uno stato di un soggetto dipendente da qualcosa di oggettivo (come la presenza di una persona, un quadro, un evento, delle note musicali, una serie di avvenimenti, e così via), cioè da una situazione oggettiva. Dall’altro, parlare di felicità significa parlare appunto dello stato mentale di un soggetto, quindi della sua soddisfazione o della sua consapevolezza di questo stato mentale positivo. Suonerebbe strano parlare della felicità di qualcuno sostenendo però che si tratta di uno stato di felicità del quale quel qualcuno non è consapevole (anche se, come vedremo, non si tratta di qualcosa di impossibile). Cerchiamo ora di mostrare che il termine di cui ci stiamo occupando racchiude molte tensioni, o addirittura opposizioni, all’interno del proprio significato. 1. Le felicità e la felicità Quando si parla della felicità di Tizio e della felicità di Caio, tendiamo a pensare che queste felicità specifiche, o per dire meglio individuali, abbiano qualcosa in comune, abbiano cioè certe caratteristiche che fanno sì che dai singoli fenomeni individuali della felicità sia possibile enucleare, o dedurre, o trarre una nozione universale di felicità. Ci si può legittimamente chiedere, però, se qualcosa di questo genere esista, anche soltanto sul piano dei concetti, ovvero se sia possibile identificare un significato di felicità che non sia il semplice stato di un individuo o di un altro. Si tratta in fondo del problema, enunciato in apertura, sul carattere indeterminato del concetto di «felicità». 2. Componente soggettiva e componente oggettiva Come si è accennato, noi tendiamo ad assegnare alla felicità una componente soggettiva accanto a una componente oggettiva; se si vuole: una componente di soddisfazione soggettiva accanto a una componente oggettiva che possa giustificare, spiegare o essere la causa di questa soddisfazione. Crediamo in altre parole, almeno di regola, che certe reazioni di fronte a un evento esterno siano adeguate, mentre altre non lo siano: c’è bisogno comunque di un aspetto oggettivo 429
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Parte prima L’età antica
Dal punto di vista del soggetto: l’illusione della felicità
Dal punto di vista dell’oggetto: il legame problematico con il piacere
Felicità e inconsapevolezza
della felicità. Anche queste due componenti che sembrano indispensabili, però, non sono del tutto immuni da problemi. Esaminiamo prima il lato della soddisfazione soggettiva. La soddisfazione di qualcuno che si illuda, per esempio, di vivere in una condizione che noi sappiamo in realtà inesistente (per esempio pensare di avere vinto alla lotteria, senza che questo sia vero) è probabilmente una condizione di grande soddisfazione, ma non è scontato che la si possa descrivere come la condizione di un uomo felice. E altrettanto può essere detto di qualcuno che si convinca di essere felice anche per proteggere se stesso e la propria serenità di fronte alle molte brutture del mondo, ma che noi riteniamo non abbia alcun motivo per essere felice davvero. Passiamo ora alla problematicità di definire una situazione oggettiva di vera felicità. Di solito, infatti, noi pensiamo che sia addirittura paradossale ritenere qualcuno felice e che questo qualcuno non sappia o non possa sapere di esserlo. Intuitivamente, la felicità sembra profondamente legata alla soddisfazione per il proprio stato. Vi sono però dei casi in cui questa soddisfazione può benissimo non coincidere con il piacere: il martire cristiano è – o ritiene di essere – felice, ma questa felicità, oltre che non consistere nel piacere, consiste nel contrario di esso, ovvero nel dolore patito in funzione della salvezza e della benevolenza divina. Naturalmente, dal punto di vista di un non-credente questa potrebbe essere una felicità del tutto illusoria, perché quest’ultimo potrebbe ritenere che la soddisfazione del martire sia fondata sull’equivoco dell’esistenza di un Dio e di un aldilà. Ma le cose, ancora una volta, non sono così semplici. Molto spesso, infatti, e proprio nel nostro uso quotidiano, tendiamo magari a rimproverare qualcuno, direttamente o indirettamente, che crediamo non sia consapevole, o non sia consapevole a sufficienza, della propria felicità. In questi casi, tendiamo a dire che questo qualcuno in realtà è felice, ma non è in grado di apprezzare la propria felicità, che costituirebbe la sua condizione oggettiva, per una mancata comprensione di essa, ovvero per una propria disposizione d’animo. Questo tipo di atteggiamento può ritrovarsi anche nel confronto con se stessi, per esempio ricordando momenti in cui eravamo felici ma non ne eravamo consapevoli a sufficienza.
3. La durata e l’intensità Problematica è anche la relazione della felicità con il tempo. Molto spesso si è ritenuto che la felicità fosse distinta dal piacere anche per la sua natura non contingente e non legata a un singolo momento o comunque a uno spazio di tempo particolarmente breve. Per la soddisfazione o per gli stati positivi di breve durata sarebbero allora più adeguati termini come «piacere» o «gioia». Felicità La felicità sarebbe allora, in questa prospettiva, qualcosa di caratterizzato da una come bilancio di vita durata prolungata, o addirittura che coinvolga l’intera vita: si potrebbe così parlare di felicità soltanto quando si prendesse in considerazione l’intera vita propria, o di altri, nel senso però del bilancio, del tirare le somme della soddisfazione rispetto a un complesso unitario di eventi e di situazioni, anche psicologici, che si sono attraversati. Cogliere l’attimo Ma anche in questo caso non ci troviamo di fronte a una caratterizzazione incontestabile: non è contraddittorio pensare alla felicità come a qualcosa che si raggiunga attraverso l’intensità e la qualità di una soddisfazione, e non attraverso la sua durata. Per alcuni, per esempio, questo è il tipo di esperienza che si prova in certe forme di contemplazione artistica sia nell’arte figurativa sia, per esem430
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Laboratorio sul lessico Felicità
pio, nella musica. Si tratta di una cultura o di un’affermazione del ‘cogliere l’attimo’, contrapposta a una concezione più ampia, più complessiva della felicità. Ma non è affatto detto che una concezione più attenta alla concentrazione e all’intensità del momento debba essere considerata di minor valore rispetto a un’altra che veda la felicità in una realizzazione più continuativa, più ampia, temporalmente più estesa.
Confuso ideale o obiettivo concreto
La pluralità dei bisogni
Ricerca della tranquillità
Ricerca dello straordinario
4. Felicità reale o come ideale Un’ulteriore questione potrebbe essere quella che vede nella felicità un’opposizione tra dimensione ideale e dimensione reale: la felicità è soltanto una sorta di confuso ideale che tutti, in un certo senso, tendono a realizzare, ma che rimane avvolto nella nebulosità di un concetto indeterminato, oppure è il concreto obiettivo da raggiungere una volta che si siano eliminati gli elementi più improbabili, o suggestivi, che si ritroveranno. 5. Soddisfazione di bisogni Se la felicità è la soddisfazione di bisogni, ci si può chiedere anche di quali tipi di bisogni essa sia la soddisfazione, per esempio se si tratti di bisogni di tipo materiale o di bisogni di altro genere, o se si tratti di bisogni che dipendono in modo decisivo dalla natura del soggetto che deve provare una soddisfazione. 6. Esperienza ordinaria o eccezionale Un aspetto che occorre spesso quando si riflette sulla felicità è cercare di capirne la natura anche nel senso della sua ‘intensità’. Secondo alcuni, la felicità è qualcosa che può essere facilmente colto nella vita ordinaria quotidiana, è una soddisfazione che può essere trovata, per esempio, in una situazione di tranquillità, con, sempre per esempio, una situazione serena dal punto di vista della vita amorosa o professionale o personale. Ma questa concezione della felicità è una concezione per altri troppo ordinaria: in realtà, quando parliamo della felicità parliamo di qualcosa di peculiare e di profondo che non può essere visto nello scorrere della vita quotidiana, ma contiene o indica qualcosa di eccezionale, di straordinario.
7. Il ruolo dello sforzo Un ultimo aspetto di tensione nella nozione di felicità è collegato al precedente e riguarda il tipo di atteggiamento dal quale dovrebbe derivare l’esperienza della felicità: si tratta di qualcosa che viene da sé e che è inestricabilmente legato alla fortuna oppure richiede uno sforzo per essere raggiunta; e magari fa parte della sua natura il fatto che sia necessario uno sforzo per raggiungerla, ovvero che siamo in grado di apprezzare maggiormente una felicità che sia costata impegno e sacrificio? Una nozione ricca Si possono trarre conclusioni da queste considerazioni altamente problematiche di significati sulla nozione di felicità? Probabilmente non molte, anche se è stato così possibile vederne, insieme con l’indeterminatezza, anche la ricchezza.
Fortuna o impegno
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Parte prima L’età antica
Esercitiamoci sulla felicità 1. Rifletti e completa
Concetto indubbiamente positivo
FELICITÀ
Concetto ricco di significati
Concetto indeterminato
Numerose alternative, talvolta opposte
Esempio: ______________________ ______________________
Condizione soggettiva
Condizione oggettiva
Esempio: ______________________ ______________________
Esempio: ______________________ ______________________
Obiettivo concreto
Ideale indeterminato
Esempio: ______________________ ______________________
Esempio: ______________________ ______________________
Realtà durevole
Esperienza momentanea
Esempio: ______________________ ______________________
Esempio: ______________________ ______________________
Esperienza ordinaria
Esperienza straordinaria
Esempio: ______________________ ______________________
Esempio: ______________________ ______________________
Ottenuta grazie alla fortuna
Ottenuta con sforzo
Esempio: ______________________ ______________________
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Laboratorio sul lessico Felicità
2. Spunti per il dibattito: io e… la felicità 1
Dopo aver letto il testo e completato la mappa rispondi alle seguenti domande: – Quali sono le principali caratteristiche della nozione di felicità? – Pensi che per determinarla conti maggiormente l’aspetto oggettivo o quello soggettivo? – Nella tua nozione personale di felicità quali, tra le varie alternative talvolta opposte, sono incluse?
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Immagina che due vecchi amici si incontrino di nuovo dopo molti anni. Uno ha lavorato per lungo tempo all’estero, viaggiando molto e facendo molte esperienze, alcune positive (si è arricchito; ha girato il mondo; ha fatto un lavoro impegnativo ma interessante), altre meno (ha subìto anche discriminazioni essendo straniero; si è trovato spesso in solitudine; ha avuto relazioni sentimentali e amicizie di breve durata ecc.); l’altro è vissuto prevalentemente nella propria città facendo una vita molto più convenzionale e piatta, sia dal punto di vista lavorativo che affettivo, ma complessivamente serena. Entrambi si dichiarano comunque felici della propria esistenza. – È possibile che due vite così diverse siano entrambe felici? – Secondo te, ci sono elementi comuni alla concezione di felicità dei due amici? Quali sono? – Ci sono delle differenze? Se sì, quali?
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Immagina di vivere all’interno di una società in cui tutti i bisogni fondamentali degli individui siano soddisfatti: tutti hanno cibo e cure in abbon-
danza; non esistono forme di criminalità particolarmente diffuse; ciascuno può scegliere un percorso educativo personale, può lavorare o studiare a seconda delle sue preferenze e anche la libertà personale è ampia. – Secondo te gli individui di questo tipo di società sono più felici che in ogni altra realtà? – E se non lo sono da cosa potrebbe dipendere? – Oppure pensi che non si possa fare un discorso generale e che si debba considerare soprattutto il modo soggettivo di provare soddisfazione? 4
Immagina due tuoi coetanei entrambi appassionati di calcio fin da piccoli e che hanno iniziato a giocare insieme. Uno, molto più dotato, è stato ben presto scelto da un club importante e ha giocato nelle squadre giovanili a livello nazionale, ma, in parte per le difficoltà di un’attività molto gravosa, in parte perché non si è impegnato abbastanza, dato che era abituato a fare tutto con grande facilità, adesso è tornato a giocare nella sua società originaria che milita in serie C. L’altro, pur non molto dotato, si è sempre impegnato migliorando costantemente e adesso gioca anche lui nella medesima squadra in serie C. – Secondo te alla domanda «sei felice?» che cosa risponderebbero rispettivamente i due ragazzi? – E, dal tuo punto di vista, si può dare una valutazione oggettiva del grado di felicità di entrambi? – Prova a esporre schematicamente le loro vicende utilizzando le categorie analitiche sui significati di felicità che hai incontrato nel testo.
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1. Platonismi a confronto: un campo di battaglia 2. Il medioplatonismo 1. La rinascita dello spirito sistematico all’interno della scuola 2. Dio e le idee: teologia e ontologia nel medioplatonismo 3. L’uomo e la sua anima: l’etica medioplatonica 4. Un terreno di scontro: il mondo è eterno o ha un inizio?
3. Plotino: tra innovazione e tradizione 1. Al di là dell’essere e del pensiero c’è l’Uno 2. L’Intelletto, l’Anima, il mondo 3. Il ritorno all’Uno
4. Il neoplatonismo dopo Plotino
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Le Enneadi
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Parte prima L’età antica
Platonismi a confronto: un campo di battaglia
1 L’assetto dottrinario di epicureismo e stoicismo
Lo scetticismo accademico e la sua crisi
La disputa tra Filone e Antioco sulla storia del platonismo
Il platonismo pitagorizzante di Eudoro di Alessandria
Conflitti e commistioni tra i diversi platonismi
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La storia del platonismo antico fu indubbiamente meno lineare rispetto a quella delle altre grandi scuole filosofiche, e in particolare dell’epicureismo e dello stoicismo. Queste ultime presentarono fin da subito un assetto in qualche modo definitivo, nel senso che le dottrine insegnate dal fondatore (nel caso dell’epicureismo) o dai grandi maestri del primo periodo (per lo stoicismo) assunsero il carattere di un vero e proprio sistema che i successivi adepti si limitarono a riproporre ed eventualmente a difendere dagli attacchi delle scuole rivali. Diverso fu il caso del platonismo. Con la prima metà del I secolo a.C. cominciò a entrare in crisi l’orientamento filosofico che per circa due secoli aveva dominato la vita della scuola, ossia lo scetticismo, professato all’interno dell’Accademia platonica, sia pure con sfumature diverse, dai tempi di Arcesilao (III secolo) fino a quelli di Filone di Larissa (II-I secolo). In realtà la crisi dello scetticismo accademico si sovrappose alla chiusura della scuola fondata da Platone, dal momento che l’ultimo scolarca (una sorta di direttore) di questa, Filone di Larissa, fu anche l’ultimo grande rappresentante del platonismo scettico. L’allievo di Filone, Antioco di Ascalona (130-68 a.C. ca.), sostenne un platonismo diverso da quello del maestro, un platonismo ormai distante dalle premesse scettiche ancora presenti in Filone, e sempre più infarcito di elementi stoici e peripatetici. Filone e Antioco furono anche protagonisti di una memorabile disputa storiografica intorno alla storia del platonismo: per Filone quest’ultima si era sviluppata interamente nell’ambito di una prospettiva filosofica non dogmatica, cioè scettica, e scettici furono a suo parere non solo Arcesilao e Carneade, ma anche Socrate e Platone; Antioco, viceversa, pensava alla storia del platonismo come a una vicenda tutt’altro che lineare, perché segnata da una brusca rottura, rappresentata appunto dall’ingresso dello scetticismo nel cuore di una tradizione che era (con Platone ma anche con Socrate) sostanzialmente dogmatica, ossia formata da dottrine (appunto dògmata) ben definite (le quali presentavano, secondo Antioco, molte affinità con quelle aristoteliche e stoiche). Nello stesso periodo, ad Alessandria d’Egitto (dove probabilmente Antioco ebbe anche una scuola, dopo avere abbandonato definitivamente Atene), iniziò a radicarsi un platonismo anch’esso dogmatico e propositivo: si tratta del tipo di filosofia che sembra ricavabile dalle testimonianze in nostro possesso relative a Eudoro di Alessandria. Anch’egli rifiutò la prospettiva scettica che fino a pochi decenni prima aveva dominato la storia del platonismo. Ma, a differenza di Antioco, Eudoro si rivolse senz’altro al pitagorismo, e propose una concezione filosofica tendente a conciliare il punto di vista di Platone con quello dei pitagorici, che proprio in quel periodo conobbero una vera e propria rinascita. Come si vede, nel corso del I secolo a.C. la situazione del platonismo non si presentava davvero uniforme. Accanto alle ultime resistenze dello scetticismo accademico – destinato lentamente a perdere influenza ma non a scomparire del tutto – si fronteggiavano un platonismo arricchito di elementi aristotelici, un platonismo di-
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Tratto comune: trasformazione del platonismo in una filosofia sistematica
➥ Sommario, p. 463
sposto a recepire spunti stoici, e infine un platonismo orientato verso il pitagorismo. Per i due secoli successivi, cioè sostanzialmente fino all’irrompere sulla scena filosofica del grande Plotino (205-270 d.C.), la storia del platonismo è percorsa dal conflitto ma anche dalla commistione di queste tendenze. Insomma, come scrisse un importante studioso tedesco, Heinrich Doerrie, il platonismo dei primi secoli dell’era imperiale si presentava come un vero e proprio campo di battaglia. In verità le dottrine professate da questi autori sono talora simili, ma talora divergono in misura anche considerevole. Esiste tuttavia un punto in comune, una sorta di minimo comune denominatore: si tratta del tentativo di trasformare il platonismo in una filosofia sistematica, ossia in un corpo abbastanza coerente e unitario di dottrine. Questo grandioso sforzo teorico conobbe un esito favorevole, se è vero che il platonismo (quello di Plotino e dei suoi successori neoplatonici) è destinato a divenire una sorta di filosofia ufficiale, a essere recepito dal cristianesimo e, attraverso quest’ultimo, a percorrere la filosofia medievale.
Il medioplatonismo
2 I testi
Plutarco La virtù etica: L’anima non è monolitica, T1
Una convenzione storiografica
1 Platone: scettico o dogmatico?
Ormai da circa un secolo gli studiosi sono soliti denominare la fase della storia del platonismo che va dalla crisi dello scetticismo, manifestatasi in autori come Antioco ed Eudoro (I secolo a.C.), all’irrompere della filosofia di Plotino (III secolo d.C.) con il termine «medioplatonismo». Si tratta – è bene precisarlo subito – di una convenzione storiografica, cioè di un termine coniato dagli studiosi moderni allo scopo di individuare un contenitore comune nel quale fare rientrare autori e orientamenti non del tutto omogenei. Questo significa naturalmente che quegli autori che noi chiamiamo «medioplatonici» tali non si sarebbero affatto reputati: essi si definivano e si consideravano semplicemente «platonici» e intendevano semmai distinguersi, oltre che dalle scuole filosofiche rivali (stoica ed epicurea in particolare), dai cosiddetti «accademici», ossia dai sostenitori dello scetticismo accademico.
La rinascita dello spirito sistematico all’interno della scuola In realtà era (è ancora e sarà forse sempre) proprio questo il grande interrogativo che concerne la filosofia platonica: Platone, il grande filosofo dei dialoghi, il divino Platone, è un pensatore scettico o dogmatico? Dai suoi scritti emerge un’ineliminabile tendenza alla critica, alla confutazione e dunque allo scetticismo; 437
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Parte prima L’età antica
I medioplatonici: interpretazione e manualistica
Dalle lezioni private alle cattedre istituzionali
Verso la specializzazione
Filone Ebreo: il platonismo e l’Antico Testamento
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oppure da essi si può ricavare un insieme di dottrine positive, le quali sarebbero in qualche modo celate al di sotto del carattere apparentemente aperto e problematico di questi dialoghi? Diciamo subito che i filosofi medioplatonici risposero in modo sostanzialmente unanime all’interrogativo sopra formulato: ai loro occhi Platone era un filosofo dogmatico; dai dialoghi si poteva effettivamente ricavare un insieme di dottrine positive (intorno alla realtà, all’uomo, alla sua anima). Si trattava di impegnarsi in un grandioso sforzo di interpretazione volto appunto a fare emergere quelle dottrine che risultavano in qualche modo celate nei dialoghi. Per questa ragione la filosofia divenne prima di tutto (sebbene non esclusivamente) esegesi, ossia interpretazione degli scritti del maestro. Ma i medioplatonici non si limitarono a comporre scritti di esegesi dei dialoghi platonici; essi approntarono anche veri e propri manuali scolastici nei quali la filosofia platonica, finalmente ridotta a sistema, veniva esposta. La stesura dei manuali appartiene dunque a un contesto eminentemente di carattere scolastico: sia i manuali espositivi che gli scritti esegetici trovarono il loro naturale luogo di destinazione (e per certi versi anche di produzione) all’interno di una scuola. Questo significa – e siamo a un’altra importante caratteristica comune alla maggior parte dei medioplatonici – che i filosofi di tendenza platonica attivi nei primi secoli dell’impero erano «professori», insegnavano cioè la filosofia platonica all’interno di una scuola. Essi radunavano intorno a sé, spesso nella loro stessa casa, un gruppo di allievi interessati a conoscere i fondamenti generali della filosofia platonica (anche se non dovettero mancare elementi tratti da altre filosofie). Queste scuole erano dunque di natura privata e non pubblica o istituzionale. Non si può escludere tuttavia che tali attività fossero, almeno in parte, sostenute dall’autorità pubblica, per esempio attraverso esenzioni fiscali. Solo a partire dal 176 d.C. si ha notizia di vere e proprie cattedre di filosofia (una per ciascuno degli indirizzi principali: platonismo, aristotelismo, stoicismo ed epicureismo) finanziate dal potere pubblico e in particolare dall’imperatore (l’istituzione di quattro cattedre imperiali di filosofia, nelle maggiori città dell’impero, è dovuta all’imperatore Marco Aurelio). Il carattere «scolastico» della filosofia medioplatonica contribuisce a spiegare due aspetti che la contraddistinguono: l’uso di un linguaggio tecnico, specializzato, sempre più distante dal linguaggio comune, che raggiungerà il suo culmine con il neoplatonismo; e, parallelamente, un progressivo distacco dall’interesse verso il mondo concreto (naturale e fisico da un lato, storico e politico dall’altro) e una concentrazione su temi strettamente «specialistici» (metafisica, teologia, logica, controversie tra scuole rivali, come il platonismo, lo stoicismo e l’aristotelismo). Se i principali filosofi medioplatonici furono Plutarco, Attico, Alcinoo, Apuleio e Numenio, una menzione a parte merita Filone Ebreo, detto anche di Alessandria, perché lì fu attivo tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C. Si tratta di una figura singolare e destinata a esercitare un ruolo importante nella storia del platonismo antico, o meglio in quella della ricezione del platonismo in ambito monoteista (e cristiano in particolare). A Filone si deve infatti il primo significativo tentativo di utilizzare il platonismo per interpretare i testi sacri, ossia, nel suo caso, l’Antico Testamento. Molte delle dottrine platoniche richiamate nell’immensa opera letteraria di Filone sono chiaramente concezioni medioplatoniche: in particolare l’idea che Dio sia assolutamente trascendente (cioè posto al di fuori e al di sopra del mondo) e che tra Lui e il mondo siano collocate entità intermediarie
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Unità 7 I platonismi e Plotino
presenta notevoli analogie con simili posizioni circolanti tra gli autori medioplatonici; anche la celebre dottrina delle idee come «pensieri di Dio», della quale diremo tra breve, venne sostenuta da Filone in modo abbastanza simile a come accadeva tra alcuni autori medioplatonici. Centralità di teologia Dal punto di vista dottrinario sembra di potere ravvisare due elementi comuni a e cosmologia: quasi tutti i filosofi medioplatonici. Si tratta della progressiva accentuazione delil richiamo al Timeo la prospettiva teologica e di quella cosmologica. I platonici di questo periodo fecero della divinità personale, un Dio vero e proprio (con più di una somiglianza con il Dio giudaico), il culmine dell’intera realtà (sostituendolo dunque alle idee di Platone). Essi inoltre considerarono il cosmo come il referente primario di ogni discorso filosofico e si impegnarono a collocare appunto rispetto al cosmo (al di sopra di esso, o al suo interno in una particolare posizione) ogni entità che introducevano (Dio, le idee, l’intelletto, l’anima ecc.). Entrambi questi motivi, quello teologico e quello cosmologico, avevano nel Timeo platonico il loro punto di riferimento principale: il Timeo è infatti il dialogo dedicato al cosmo (alla sua genesi e alla sua struttura) in cui si parla a lungo di Dio, ossia del famoso demiurgo. Tutto ciò spiega la centralità di quest’opera, che divenne infatti il dialogo più letto e commentato dai filosofi medioplatonici.
2 L’ordine gerarchico della realtà: dall’alto verso il basso
La gradazione antologica di Seneca
La supremazia di Dio sulle idee
La duplicazione del divino
Dio e le idee: teologia e ontologia nel medioplatonismo Una tendenza comune a tutti i filosofi medioplatonici sembra essere stata quella di pensare la realtà come disposta in un ordine gerarchico, procedente dall’alto verso il basso. Si tratta di un motivo che anticipa una tendenza tipica della filosofia posteriore, ossia del neoplatonismo. Tra i medioplatonici questo orientamento generale non conobbe la radicalità tipica dei neoplatonici (di Plotino e soprattutto dei suoi successori), ma appare già chiaramente delineato. Un primo esempio interessante di questa tendenza alla gerarchizzazione della realtà ci viene fornito dal filosofo romano Seneca (4 a.C. - 65 d.C.; vedi Unità 6, p. 378), il quale, pur non essendo un platonico (era in verità uno stoico), con il platonismo entrò in contatto. Riportando una classificazione dell’essere derivata forse da un commento al Timeo, Seneca espone una gradazione ontologica che doveva essere molto diffusa tra i platonici del suo tempo. Al vertice di questa «scala» si trova Dio; al secondo posto le idee trascendenti, cioè le idee separate di Platone; al terzo posto Seneca colloca le forme immanenti, ossia le qualità che si trovano all’interno delle cose sensibili (alla maniera delle forme o specie di Aristotele); il quarto livello dell’essere è occupato dalle cose comuni, cioè dalle realtà sensibili; infine, al quinto posto si trovano le cose che non esistono veramente, ma che possiedono pur sempre una certa forma, ancorché non piena, di realtà, ossia cose come lo spazio e il tempo. Lo schema presentato da Seneca si ritrova con leggere modifiche in molti testi platonici risalenti ai primi secoli della nostra era. Da esso sembra emergere un primo elemento significativo, consistente nella supremazia del Dio nei confronti delle idee. In effetti i filosofi medioplatonici sembrano sostanzialmente concordi nel collocare al vertice assoluto della realtà non le idee (come accadeva in Platone), ma un’entità superiore alle idee, che essi chiamavano «Dio». A tale proposito è però opportuno fare un’ulteriore precisazione. Si tratta del fatto che molto spesso (con qualche eccezione) i medioplatonici stabilivano una sor439
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ta di gerarchia anche all’interno dell’ambito propriamente divino, affermando che le divinità erano in realtà due: un primo Dio (spesso assimilato all’idea del Buono di Platone), trascendente e assolutamente separato, cioè senza alcun contatto con il mondo, e un secondo Dio, superiore al mondo, ma in contatto con esso, proprio in quanto suo demiurgo, cioè suo artefice. In effetti la tendenza di quasi tutti i platonici di questo periodo fu quella di duplicare la divinità, distinguendo un Dio assoluto, molto simile al Dio «pensiero di pensiero» di cui aveva parlato Aristotele, e un Dio cosmico, identificato di fatto con il «demiurgo» di cui aveva parlato Platone nel Timeo. La duplicazione I platonici non si limitarono a duplicare la divinità. Fecero la stessa cosa anche delle idee: trascendenti riguardo alle idee. Essi, sostanzialmente all’unisono, ipotizzarono l’esistenza, e immanenti accanto alle idee trascendenti (separate e senza contatto con la materia), anche delle forme immanenti di aristotelica memoria, entità che, pur intelligibili, risultavano in qualche modo immerse nella materia, di cui costituivano principi di ordine e di misura. Insomma, le idee erano fuori dalla materia (quelle trascendenti) e immerse nella materia (quelle immanenti). Al di sotto delle idee si trovavano le cose sensibili, le quali dovevano le loro caratteristiche alla presenza (fisica) in esse delle forme immanenti e alla partecipazione (metafisica) alle idee trascendenti. L’ordine gerarchico della realtà
Alto
Primo Dio = Bene in sé Idee trascendenti (separate dalla materia) Secondo Dio = Demiurgo Idee-forme immanenti (immerse nella materia)
Basso
La fabbricazione del cosmo: Dio, l’intelletto, le idee e la materia
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Cosmo
In sintesi, il primo Dio, molto simile all’intelletto di Aristotele, nell’atto di pensare se stesso, genera le idee, le quali sono dunque suoi pensieri (ossia prodotti della sua attività noetica); il secondo Dio, cioè il demiurgo, genera il cosmo sensibile. Questa operazione comporta due fasi, che di solito i medioplatonici considerano distinte solo dal punto di vista logico e non da quello temporale. Nella prima fase il demiurgo, che è anch’esso intelletto (un secondo intelletto inferiore al primo), rivolge il suo sguardo mentale verso il mondo delle idee (generato dal primo Dio); servendosi di questo mondo come di un modello, il demiurgo fabbrica il cosmo sensibile, e lo fa ordinando secondo il modello delle idee un sostrato materiale, solitamente chiamato dai medioplatonici con il termine aristotelico di materia (hùle). Il cosmo sensibile viene così concepito come una copia del mondo delle idee, una copia fabbricata artigianalmente dal demiurgo, il quale si serve del modello rappresentato appunto dalle idee. Queste ultime devono il loro essere all’attività di un Dio ancora superiore al demiurgo, un Dio supremo e lontanissimo, che quasi anticipa la concezione dell’Uno al di là dell’essere (e del pensiero) di cui parlerà di lì a qualche decennio Plotino (vedi avanti, p. 446 ss.).
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Unità 7 I platonismi e Plotino La fabbricazione del cosmo
Primo Dio genera per mezzo del pensiero le
osserva le
idee e se ne serve come modello
Demiurgo (secondo Dio)
fabbrica il plasma la
cosmo sensibile sul modello delle idee
materia
Come si vede, il mondo dei medioplatonici è una compagine fortemente gerarchizzata: al vertice si trova un Dio supremo, principio delle idee e dunque dell’essere (che per ogni platonico è identico al mondo delle idee); poi le idee trascendenti; quindi il demiurgo che fabbrica il mondo sensibile servendosi delle idee come di un modello; al di sopra delle cose sensibili si trovano le forme immerse nella materia, le quali costituiscono i principi di ordine delle cose sensibili.
3 L’anima tripartita: razionale, volitiva e desiderante
Contro gli stoici: le passioni devono essere controllate non represse
➥ Percorso tematico, p. 415
L’uomo e la sua anima: l’etica medioplatonica Il principio fondamentale dell’etica medioplatonica affonda le sue radici in una peculiare concezione dell’anima. I medioplatonici, polemizzando in modo esplicito con gli stoici, negano con decisione che l’anima dell’uomo sia un’entità unitaria e monolitica. Essi riprendono in realtà la vecchia concezione platonica (e in qualche modo anche aristotelica) secondo la quale l’anima presenta due parti fondamentali, una razionale e l’altra irrazionale, e distinguono poi la parte irrazionale in un elemento volitivo e impulsivo (legato al desiderio di affermazione sociale) e in uno propriamente desiderante (connesso al soddisfacimento dei desideri del corpo). Ora – osservano i medioplatonici – se l’anima presenta al proprio interno un elemento irrazionale e se questo elemento è naturalmente parte di essa (le appartiene cioè per natura), il fine della morale non può essere, come erroneamente reputavano gli stoici, la totale soppressione delle passioni (cioè degli impulsi irrazionali), appunto perché queste appartengono all’anima e non possono venire del tutto eliminate. L’ideale stoico dell’apàtheia, ossia della radicale soppressione delle passioni, risulta quindi irrealizzabile. Ad esso si sostituisce il principio della metriopàtheia, ossia del controllo e della misurazione delle passioni, un ideale che aveva avuto in Platone e Aristotele i suoi grandi fautori. In effetti – argomentano i medioplatonici – se la nostra anima fosse un’entità unitaria (e originariamente tutta razionale), sarebbe perfettamente legittimo pretendere da essa la totale soppressione delle passioni, perché queste ultime non appartengono costitutivamente alla sua natura. Tuttavia le cose non stanno affatto così: l’anima ha in se stessa una parte irrazionale, ossia una parte nella quale trovano spazio le passioni, sia sociali sia private. Dunque, non si può pretendere di eliminarle del tutto; ci si dovrà limitare a controllarle ed eventualmente a regolarle. Insomma: noi non possiamo non desiderare il successo sociale e non possiamo non desiderare un dolce alla panna; possiamo però, anzi dobbiamo, frenare e controllare questi desideri. 441
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Parte prima L’età antica La morale di Plutarco
T1
L’anima non è monolitica
Plutarco, La virtù etica, 3
Anima e passioni
Assimilarsi a Dio, nella misura del possibile
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Il documento più significativo dell’etica medioplatonica è il trattato La virtù morale di Plutarco di Cheronea. Plutarco (45-120 d.C. ca.), fu autore estremamente prolifico, a cui si devono, oltre alle celebri Vite parallele (biografie di personaggi illustri in cui venivano confrontate le vite di un greco e di un romano), i Moralia, operette di contenuto filosofico tra le quali spiccano alcuni scritti di notevole impegno teorico. Ecco come egli prima presenta e poi critica la concezione stoica dell’apàtheia, contrapponendole la sua idea del controllo e della misura delle passioni: Essi [gli stoici] credono che la facoltà passionale e irrazionale non sia distinta da quella razionale […] ma che quella medesima parte dell’anima che essi chiamano intelligenza ed elemento egemonico, subendo una completa trasformazione sotto la spinta delle passioni […] diventi vizio e pensano anche che non abbia in sé nulla di irrazionale, ma sia detta irrazionale quando, per l’eccedere dell’impulso, si volge a qualcosa di sconveniente, contro la scelta della ragione. […] Ma sembra che a costoro sia sfuggito il modo in cui ciascuno di noi è realmente duplice e composito; non si sono infatti accorti dell’altra dualità, ma solo di quella, più evidente, di anima e corpo. Che sia proprio dell’anima avere al suo interno un qualcosa di composto e formato di due nature diverse, poiché l’irrazionale, come un secondo corpo, è intimamente unito e accordato per una necessità naturale con la ragione […] L’anima umana […] non è semplice né soggetta alle stesse impressioni, ma risulta composta di un elemento intelligente e razionale, al quale spetta per natura il compito di dominare e governare l’uomo, e di uno passionale e irrazionale, errante, disordinato e bisognoso di educazione. Questo, a sua volta, si divide in due: l’uno, chiamato concupiscibile, tende per natura ad essere unito al corpo e a servirlo, l’altro, invece, impetuoso, ora si allea con il corpo, ora porta forza e vigore alla ragione. Stoici
Plutarco
L’anima è unitaria (tutta razionale)
L’anima è tripartita
L’anima deve reprimere le passioni del corpo
L’anima deve controllare le proprie passioni
L’ideale è l’assenza di passioni (apàtheia)
L’ideale è il controllo delle passioni (metriopàtheia)
L’etica medioplatonica, come si può constatare da questi rapidi cenni, si dimostra molto più rispettosa della natura umana (e delle sue esigenze) dell’etica stoica. Essa infatti riserva alla sola divinità l’assoluta imperturbabilità, che invece gli stoici pretendevano di assegnare al saggio. Del resto, il fine dell’uomo – dicono tutti i filosofi medioplatonici – consiste nel rendersi simile a Dio (l’«assimilazione a Dio»), ma poi aggiungono l’espressione «nella misura del possibile», sottintendendo in questo modo che l’uomo non è un dio e non può oltrepassare del tutto la propria natura, della quale l’irrazionalità rappresenta un elemento ineliminabile.
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➥ Percorso tematico, p. 633 La nascita del cosmo e i problemi lasciati dal Timeo
L’interpretazione temporale (letterale) dell’origine del cosmo nel Timeo
L’interpretazione metafisica (metaforica) dell’origine del cosmo nel Timeo
Un terreno di scontro: il mondo è eterno o ha un inizio? Esiste un problema al quale si sono applicati pressoché tutti i platonici antichi, e dunque anche i medioplatonici. Esso è destinato a esercitare un ruolo significativo nel platonismo tardoantico e nel pensiero cristiano (sia antico che medievale). Si tratta della questione relativa alla natura del mondo, se cioè esso sia eterno oppure abbia avuto un inizio nel tempo. La questione possiede, come si vede, un significato filosofico intrinseco; e ancora oggi può considerarsi irrisolta, nel senso che la cosmologia contemporanea non ha fornito una risposta definitiva all’interrogativo circa l’origine dell’universo. Nel caso dei platonici antichi il problema dell’origine o dell’eternità del mondo risulta complicato dal fatto che Platone, nel dialogo dedicato al cosmo, ossia nel Timeo, si era espresso in forma piuttosto ambigua. In effetti, egli dice esplicitamente che l’universo «è nato», cioè possiede una generazione (gènesis), ma poi non chiarisce come si debba intendere questa generazione, se si tratti cioè di una generazione fisica (ossia nel tempo) o semplicemente metafisica (ossia non-temporale). E i primi lettori del Timeo confermano questa ambiguità, dal momento che alcuni intesero la frase platonica in senso temporale (per esempio Aristotele), altri invece ne fornirono una lettura di tipo metafisico (per esempio Senocrate). Vediamo nel dettaglio di che cosa si tratta. Quando Platone afferma che l’universo è nato, egli può voler dire due cose, tra loro sostanzialmente diverse. Può voler dire che esso ha avuto un inizio nel tempo; ossia che a uno stato iniziale in cui non esisteva si è succeduto uno stadio finale nel quale il mondo è venuto all’essere. Questo passaggio è segnato dall’azione del demiurgo, il quale ha ordinato e plasmato un materiale preesistente (questo sì eterno), e ha dato così inizio all’universo. Pressappoco in questo modo ha inteso le parole platoniche Aristotele. Dopo di lui l’interpretazione temporale dell’origine del mondo è stata egemone durante l’epoca ellenistica; tra i medioplatonici essa fu accettata da Plutarco e da Attico, e naturalmente anche da Filone di Alessandria, il quale solo così poteva conciliare il Timeo con il racconto biblico della creazione del mondo ad opera di Dio. Tra i medioplatonici, comunque, fu senz’altro preferita l’interpretazione alternativa, la quale venne poi accettata da pressoché tutti i neoplatonici. Solo gli autori cristiani (fondamentale in proposito l’opera di Giovanni Filopono) riattualizzarono l’esegesi temporale, che si adattava alla concezione creazionistica formulata nei testi sacri. Se Aristotele può essere considerato il capostipite dell’interpretazione temporale – chiamata anche letterale (perché intende alla lettera le parole di Platone) –, a Senocrate si deve il primo consistente tentativo di interpretare in senso metaforico il passo platonico. Egli sostenne, infatti, che le parole del Timeo non vanno prese alla lettera; quando Platone dice che il mondo è generato, si esprime in modo metaforico e non intende dire che ha avuto un inizio, cioè che prima non esisteva e poi è venuto all’essere, ma che esso costituisce una realtà generata, ossia soggetta alla generazione e al divenire nel tempo. Secondo Senocrate – e poi secondo la maggior parte dei platonici antichi – dire che il cosmo è generato significa sostenere che esso si trova immerso in un incessante processo di generazione, dovuto al fatto che è una realtà che diviene, cioè che non rimane eternamente identica a sé, come accade invece alle idee. Ma tutto ciò non significa af443
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fatto che il cosmo sia nato nel tempo; esso è in realtà eterno, ma è anche eternamente in divenire, cioè eternamente soggetto alla generazione. Secondo i fautori di questa interpretazione, Platone si è espresso così (cioè ricorrendo a una metafora) a scopo didattico: temendo di non essere in grado di spiegare in modo sintetico la struttura del cosmo, egli l’ha sviluppata in forma analitica, dicendo, per esempio, che prima c’erano le idee, il demiurgo e la materia informe e che poi il demiurgo ha dato origine al cosmo plasmando la materia secondo il modello delle idee. Ma il prima e il dopo sono solo metafore introdotte per alludere a una dipendenza ontologica; l’universo è eterno, ma è anche una realtà costantemente in divenire e, come tutte le cose che divengono, esso ha dei principi: appunto il demiurgo, le idee e la materia. Insomma: Platone intendeva sostenere che il cosmo dipende, in quanto realtà in divenire, da una serie di cause (Dio, le idee), la cui azione non è limitata a un atto unico, ma procede incessantemente nel determinare la generazione del mondo. In altre parole: il prima e il poi hanno un significato logico (alludono a una dipendenza) non temporale. Provvidenza divina Lo scontro tra i fautori dell’interpretazione letterale (e temporale) e i sostenitori o inattività del divino? di quella metaforica (e metafisica) si fece più acuto proprio tra gli autori medioplatonici. In generale, l’argomento fondamentale dei primi consisteva nel richiamo alla provvidenza divina (ossia all’azione divina nel mondo), la quale verrebbe gravemente minacciata da una concezione in cui Dio non interviene direttamente nella generazione del mondo. I secondi, ossia i sostenitori dell’esegesi metaforica, cioè di un’origine metafisica e non fisica del mondo, potevano fare perno sull’esigenza di preservare l’immutabilità, e dunque anche la bontà, divina; se infatti la generazione del mondo fosse circoscritta a un solo evento, cioè a un solo attimo, occorrerebbe ammettere che Dio ha trascorso tutto il periodo precedente senza fare nulla e che poi improvvisamente ha cambiato idea e ha generato il mondo. Un simile cambiamento di atteggiamento venne considerato da molti platonici antichi come del tutto inconciliabile con la natura divina. Le due interpretazioni del Timeo
➥ Sommario, p. 463
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Interpretazione letterale
Interpretazione metaforica
Il cosmo ha un inizio temporale
Il cosmo è eterno
La diretta generazione del mondo da parte di Dio giustifica la provvidenza divina
Se Dio avesse generato il mondo in un dato momento temporale, verrebbero messe in discussione immutabilità e bontà divine
Sia gli argomenti in favore dell’unicità dell’atto divino (generazione temporale), sia quelli a sostegno della teoria dell’eternità del mondo (generazione metafisica) sono destinati a venire ripresi e riadattati in epoche successive, a testimonianza dell’importanza e della vitalità di una questione intorno alla quale gli autori antichi si sono a lungo confrontati.
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Unità 7 I platonismi e Plotino
Plotino: fra innovazione e tradizione
3 I testi
Plotino Enneadi: Discorsi antichi, T2; Tutti gli esseri sono esseri per l’Uno, T3; L’Anima è l’Uno?, T4; Al di sopra della dualità, T5;
Le rivoluzioni di Plotino e il suo legame alla tradizione
La ‘riscoperta’ delle verità contenute nei dialoghi platonici
T2
Discorsi antichi Plotino, Enneadi, 5,1,8
L’Uno: al di là dell’essenza, T6; Il principio che permane in sé e tuttavia genera altro da sé, T7; Il divenire del molteplice, T8; La genesi del tempo, T9
Plotino fu senza dubbio il più importante filosofo platonico dell’antichità (naturalmente se si esclude Platone). Egli fu insieme uno straordinario innovatore, ossia un pensatore di eccezionale originalità, e un tenace continuatore della tradizione filosofica precedente. Fu innovatore perché a lui si devono idee filosofiche assolutamente originali, del tutto nuove rispetto a quelle sviluppate dai platonici a lui precedenti. La dottrina delle tre ipostasi, ossia delle tre realtà originarie (Uno, Intelletto e Anima); la concezione secondo la quale il principio supremo della realtà, cioè l’Uno, si trova al di là dell’essere e del pensiero; la convinzione che l’anima umana è in eterno contatto con il mondo intelligibile, senza però risultare consapevole, ossia cosciente, di questo contatto; sono solo alcune delle concezioni rivoluzionarie che Plotino ha introdotto nella filosofia antica. Ma egli fu anche un pensatore legato a doppio filo alla tradizione precedente, perché presentò ogni sua dottrina, anche la più originale, come la ripresa di posizioni già contenute, magari in forma implicita, nelle opere del grande Platone e dei suoi commentatori, ossia soprattutto dei filosofi medioplatonici (Plotino fu un lettore accanito dei dialoghi di Platone, ma anche di Aristotele e di pensatori medioplatonici come Numenio). La grandezza di Plotino consiste proprio in questa costante commistione di innovazione e tradizione, ossia nello sforzo di reperire nei testi classici (e dunque in primo luogo nei dialoghi di Platone) i fondamenti di tesi filosofiche originali e innovative. In effetti agli occhi di Plotino la verità non va davvero ‘scoperta’, ma solo ‘riscoperta’, essendo essa già interamente presente nelle opere di Platone, magari in forma implicita ed enigmatica. Per questa ragione il lavoro del filosofo consiste per Plotino essenzialmente nell’esegesi, cioè nell’interpretazione, dei dialoghi di Platone. Si tratta però, come avremo modo di vedere tra breve, di un’esegesi attiva e produttiva, cioè di un’esegesi in cui le affermazioni del maestro vengono caricate di un significato in loro assente. Per comprendere il senso dell’operazione filosofica di Plotino è utile osservare come egli presenti il nucleo della propria concezione della realtà, ossia la celebre dottrina delle tre ipostasi (Uno, Intelletto e Anima). Si tratta di una concezione che non ha paralleli diretti nei dialoghi platonici, ma che il nostro filosofo crede di potere ricavare in qualche modo da essi. Dice dunque Plotino: Questi discorsi [la dottrina delle tre ipostasi] non sono nuovi, né si fanno soltanto ora, ma furono fatti anticamente, tuttavia non in modo esplicito. E le posizioni ora sostenute sono interpretazioni di questi discorsi. Che si tratti di dottrine antiche lo provano gli scritti del grande Platone. […] 445
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[Nel Parmenide] Platone, parlando in modo esatto, distingue tra di loro il primo Uno, che è più propriamente «uno», il secondo, che chiama «uno-molti», e il terzo, «uno e molti». Così si accorda anche egli con la [nostra] dottrina delle tre nature. Esattamente in questa tensione, incessante e in qualche modo irrisolta, fra tradizione e innovazione risiede la grandezza di questo filosofo, il cui pensiero è destinato a influenzare in modo durevole la storia della speculazione occidentale.
La vita e le opere Sulla vita di Plotino siamo ampiamente informati da Porfirio, che fu di lui il discepolo più importante (vedi avanti, p. 460). Porfirio scrisse una Vita di Plotino che collocò, come premessa, in apertura della edizione delle opere di Plotino. Sappiamo dunque che Plotino nacque a Licopoli, in Egitto, nel 205 d.C. Intorno ai ventotto anni avvertì il richiamo della passione per la filosofia e iniziò a seguire le lezioni di Ammonio Sacca, un importante filosofo platonico attivo ad Alessandria. Presso Ammonio rimase per circa dieci anni. Dopo una serie di peripezie Plotino approdò a Roma intorno al 245. Qui fondò una scuola filosofica frequentata, oltre che da veri e propri esperti della filosofia (come Porfirio e Amelio), anche da importanti uomini politici, da professionisti e perfino da un pittore. Sappiamo anche che ebbe rapporti molto stretti con la corte imperiale e fu amico dell’imperatore Gallieno e di sua moglie Solonina. All’inizio del soggiorno romano e per poco meno di dieci anni Plotino si limitò a tenere lezioni, e solo in un secondo momento iniziò a mettere per iscritto il frutto delle proprie riflessioni. Or-
1 La teoria dell’Uno-Bene di Plotino e le origini nei dialoghi di Platone
mai malato, trascorse gli ultimi anni della vita in Campania, presso un amico. Morì nel 270. Solo dopo la morte di Plotino, Porfirio cominciò a ordinare gli scritti del maestro approntando una vera e propria edizione. Il suo lavoro consistette nel radunare gli scritti tematicamente affini, nel fornire loro un titolo, nel sistemare e correggere la prosa di Plotino, spesso poco lineare ed eccessivamente compressa. Il risultato di questo lavoro editoriale è costituito dalle Enneadi, cioè sei gruppi di nove trattati ciascuno (ennèa in greco significa appunto nove). È probabile che nella scelta di un ordinamento di questo tipo Porfirio si fosse fatto guidare dalle concezioni aritmologiche dei pitagorici, i quali consideravano sia il 6 che il 9 come numeri sacri e dotati di particolari qualità. Come detto, ogni Enneade riunisce trattati affini dal punto di vista tematico: la prima contiene scritti di argomento etico; la seconda e la terza raggruppano trattati dedicati all’universo sensibile; la quarta contiene scritti sull’anima; la quinta è dedicata all’intelletto e alle idee; la sesta, infine, contiene nove trattati per lo più dedicati all’essere e all’Uno-Bene.
Al di là dell’essere e del pensiero c’è l’Uno Si è più volte osservato che Plotino ritiene di potere rintracciare negli scritti di Platone le premesse teoriche delle proprie concezioni filosofiche. Questo è vero, prima di tutto, per la più nota di esse, ossia la teoria dell’Uno. Secondo Plotino, infatti, anche Platone sostenne una concezione in base alla quale il principio supremo della realtà, l’Uno-Bene appunto, si trova al di là sia dell’essere sia del pensiero. In realtà negli scritti platonici non si trovano che vaghi accenni a qualcosa che possa forse richiamare la dottrina di Plotino. Si tratta di pochi passi contenuti nella Repubblica, nel Parmenide e nella VII Lettera (tutti, in verità, suscettibili di interpretazioni anche molto diverse da quelle plotiniane): ma per Plotino essi sono più che sufficienti per affermare che la concezione in questione fu già avanzata, sia pure in forma indiretta ed enigmatica, da Platone.
La fondazione della teoria dell’Uno Vediamo in estrema sintesi come Plotino arrivò a sostenere che il principio supremo della realtà è l’Uno e che questo Uno è collocato al di là dell’essere e del pensiero. 446
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Unità 7 I platonismi e Plotino
Egli parte dall’analisi – quasi fenomenologica – degli esseri. E osserva che ogni cosa, per risultare davvero una cosa, ossia per risultare un’entità, deve per forza essere anche una, cioè una cosa determinata. Una casa, un esercito, un corpo, un gregge: nessuna di queste cose sarebbe un essere, cioè una cosa determinata, se non fosse anche una cosa, ossia una singola realtà determinata. Insomma, senza l’Uno niente è veramente. Scrive Plotino all’inizio del trattato che ha per titolo Il Bene o l’Uno:
T3
Tutti gli esseri sono esseri per l’Uno
Plotino, Enneadi, 6,9,1
Qual è l’Uno? Il problema della molteplicità
L’unità e l’Anima
T4
L’Anima è l’Uno? Plotino, Enneadi, 6,9,1
Tutti gli esseri sono esseri per l’Uno, sia quelli che sono tali in primo grado [cioè le realtà intelligibili], sia quelli che si limitano a partecipare in qualche modo dell’essere. Che cosa sarebbero, infatti, se non fossero uno? Poiché ognuno di essi, privato della sua unità, non è più quello che è. Per esempio non ci sarebbe un esercito, se non fosse uno, non ci sarebbe un coro, un gregge, se non fossero uno. Ma neppure una casa o una nave che non avessero l’uno potrebbero esistere, perché la casa e la nave sono uno e, tolta l’unità, la casa non sarebbe più casa, né la nave più nave. Allo stesso modo le grandezze continue non sarebbero se in esse non fosse presente l’uno: infatti, se vengono divise, in quanto perdono l’unità, perdono il loro essere. Per Plotino, dunque, ogni essere, per risultare davvero tale (ossia un essere) deve possedere una qualche forma di unità. Si tratta di una sorta di constatazione primaria, nel senso che l’evidenza sembra mettere costantemente in rapporto l’essere (nel senso di essere qualcosa) con l’essere-uno (nel senso di essere una cosa). A questo punto per Plotino si pone il problema di individuare quest’uno che è presente in tutte le cose e fa in modo che ciascuna di esse sia quello che è. Per prima cosa il nostro filosofo osserva che nessuna delle cose sopra nominate – ossia un coro, un gregge, una casa, un esercito – è davvero identica all’uno. Tutte sono in qualche modo molteplici: il coro è composto da molti membri, il gregge da molte pecore, la casa da molte parti costitutive (mattoni, finestre ecc.). Ciò significa che nessuna di esse è l’Uno, ma tutte sono in qualche modo unitarie in quanto ricevono l’uno che è in loro da qualcosa d’altro. In generale Plotino constata che le cose sensibili possiedono un grado di unità abbastanza modesto; in effetti, esse sono per loro stessa natura divisibili e dunque molteplici. In realtà l’unità che possiedono deriva loro dall’Anima, perché quest’ultima costituisce il principio di unificazione del corpo, e dunque delle cose corporee (cioè materiali e sensibili). Un certo corpo è uno, ossia è una cosa, in quanto l’Anima unifica la dispersione della materia in un ente determinato. Il fatto che l’Anima rappresenti il principio unificatore del corpo, significa che essa è quell’Uno assoluto di cui stiamo andando in cerca? La risposta di Plotino è ovviamente negativa. Poiché dunque l’Anima conduce tutte le cose ad unità, fabbricando, foggiando, formando e ordinando, noi, una volta giunti ad essa, dobbiamo dire che essa è proprio l’Uno? Oppure […] bisogna credere che, se essa dà l’unità, la conferisce rimanendo altro rispetto ad essa e che faccia ogni cosa guardando all’Uno? Piuttosto, come l’Anima procura ai corpi le altre caratteristiche, per esempio configurazione e forma, senza tuttavia essere essa stessa ciò che dona […] così, se essa conferisce unità, bisogna ritenere che la dona come qualcosa di diverso da sé, e che è con l’occhio rivolto all’Uno che l’Anima rende una ciascuna cosa. 447
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Parte prima L’età antica L’Anima non è del tutto unitaria
L’Anima riceve l’unità dall’Intelletto, realtà più unitaria e superiore ad essa
Unità e molteplicità
Per Plotino l’Anima conferisce unità al corpo nel quale si introduce, ricavando questa unità da qualcosa d’altro. Ciò dipende dal fatto che l’Anima non è del tutto unitaria. Il nostro filosofo perviene a questa conclusione osservando l’attività propria dell’Anima: si tratta di un tipo di attività che tradisce la natura molteplice e complessa dell’entità che la produce. L’attività dell’Anima consiste essenzialmente nel pensiero discorsivo, ossia in quel genere di pensiero che si sviluppa per passaggi e per collegamenti. In questo ambito la componente della molteplicità sembra davvero connaturata all’Anima. Inoltre, osserva Plotino, l’anima presenta una serie di funzioni – il ragionare, il desiderare, il tendere, il percepire – che testimoniano in modo incontrovertibile la sua intrinseca molteplicità. È senza dubbio vero che essa unifica il complesso di queste funzioni, ma è altrettanto vero che, per farlo, deve servirsi di un’unità che non si trova in lei, bensì al di sopra. Secondo Plotino il principio che trasmette all’anima l’unità di cui essa è in possesso va individuato nell’Intelletto (o Pensiero), ossia in una realtà intrinsecamente più unitaria (e dunque superiore) rispetto all’Anima. In effetti, l’Intelletto (nous) manifesta un grado di unità superiore a quello dell’Anima: mentre quest’ultima pensa discorsivamente, ossia per passaggi e collegamenti, e inoltre presenta molte funzioni (pensiero, percezione, desiderio), l’Intelletto pensa in forma intuitiva, cioè immediata, e non ammette attività diverse da quella del puro pensiero. L’Intelletto è dunque più unitario dell’Anima e trasmette a quest’ultima l’unità di cui essa risulta in possesso.
Grado superiore di unità
Intelletto
= Pensa in forma intuitiva, cioè immediata
conferisce unità all’
Anima
= Pensa discorsivamente e presenta molte funzioni
conferisce unità alle Grado inferiore di unità
cose sensibili
= Tutte, in qualche modo, sono molteplici
Ipostasi e loro manifestazioni L’intelletto e l’anima individuali sono manifestazione di quelli universali
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Occorre a questo punto aprire una breve parentesi. L’Intelletto e l’Anima di cui stiamo parlando (e di cui parlava Plotino) non sono i singoli intelletti e le singole anime di cui noi uomini siamo in possesso. Si tratta invece di istanze superiori, di cui le nostre facoltà costituiscono manifestazioni derivate. Plotino infatti – applicando in questa circostanza un tipico argomento platonico – è convinto che se esistono molte manifestazioni particolari di una certa proprietà, questa medesima proprietà deve esistere in se stessa, separata dalle sue manifestazioni. Di
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Unità 7 I platonismi e Plotino
conseguenza, se esistono molte anime, deve esserci una sorta di Anima universale, separata e indipendente dalle anime particolari (e dalla quale queste derivano); allo stesso modo, dal momento che esistono molti intelletti (ciascuno di noi può pensare in modo intellettuale), allora deve esserci un Intelletto universale, di cui gli intelletti particolari sono semplici manifestazioni. L’Anima e l’Intelletto Plotino esprime questo motivo teorico affermando che l’Anima universale e l’Inuniversali sono ipostasi telletto universale sono ipostasi, ossia realtà sussistenti in senso pieno e assoluto (di qui l’uso dell’iniziale maiuscola). Ai suoi occhi si tratta in verità degli eredi rispettivamente dell’anima del mondo di Platone (da cui derivavano le anime particolari) e dell’intelletto divino, ossia di Dio, di cui aveva parlato Aristotele. Manifestazioni delle ipostasi
Ipostasi
Intelletto universale
Anima universale
Manifestazioni
Intelletti particolari
Anime particolari
L’Uno e l’Intelletto Unificazione di Intelletto e Uno nell’intuizione
Dualità di pensante e pensato nell’Intelletto
Nonostante Aristotele, l’Intelletto non è l’Uno
T5
Al di sopra della dualità
Plotino, Enneadi, 3,8,9
Torniamo all’Intelletto e alla sua natura. Anch’esso, secondo Plotino, pur manifestando un livello di unità superiore a quello dell’Anima, non può considerarsi del tutto identico all’Uno assoluto, quell’Uno di cui siamo in cerca. Infatti, l’attività intellettuale dell’Intelletto si esprime nella conoscenza noetica delle realtà intelligibili, cioè dell’essere autentico (il mondo delle idee). Questo essere viene conosciuto intuitivamente, ossia immediatamente dall’Intelletto, che risulta in qualche modo identico al suo oggetto. Secondo Plotino – che qui segue Aristotele – nel caso della conoscenza delle cose prive di materia (come le idee) il soggetto della conoscenza si identifica con l’oggetto. Dunque l’Intelletto è identico, cioè è uno, con l’essere (le idee). Tuttavia, per quanto siano unificati nell’atto dell’intuizione, si tratta sempre di due poli, uno soggettivo l’altro oggettivo. Ciò significa che anche l’intelletto che conosce noeticamente le idee presenta una certa, sia pure minima, forma di molteplicità: si tratta della prima forma di molteplicità, la dualità di pensante e pensato, di soggetto e oggetto. Insomma: il pensiero, anche nella sua forma più alta e pura (l’intuizione dell’Intelletto), si rivela in qualche modo molteplice. Ma se le cose stanno in questo modo – conclude Plotino – l’Intelletto non è l’Uno, con buona pace di Aristotele, il quale aveva fatto invece dell’intelletto supremo (pensiero di pensiero) la forma più alta di realtà. La presenza di una dualità rende l’atto dell’Intelletto in se stesso molteplice e perciò differente dall’Uno assoluto; infatti, spiega Plotino, «se [l’Intelletto] è il pensante e il pensato esso sarà duplice, non semplice e, di conseguenza, non potrà essere l’Uno» (Enneadi, 6,9,2). Le parole di Plotino non potrebbero essere più chiare: Tale è l’Intelletto. Per questo motivo esso non è al primo posto, ma è necessario che al di là di esso ci sia qualcosa intorno a cui si sono tenuti i precedenti discorsi. Prima di tutto perché la molteplicità viene dopo l’unità: quella è numero, mentre l’Uno autentico è principio del numero e della molteplicità. Quest’ultima è Intelletto e intelligibile insieme e perciò sono due. E dal momento che sono due 449
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è necessario che ci sia un principio anteriore alla dualità. Quale principio? L’Intelletto solo? Non è possibile perché all’Intelletto è sempre congiunto l’oggetto intelligibile: se si dovesse eliminare questo oggetto, l’Intelletto non sarebbe più tale. Se dunque non è Intelletto, ma è al di sopra della dualità, necessariamente sarà un termine anteriore alla dualità e al di là dell’Intelletto. […] Se non è né Intelletto né intelligibile, che cosa è? L’Uno assoluto, il principio di tutta la realtà
L’Intelletto e l’Uno assoluto
La risposta di Plotino a quest’ultimo interrogativo è molto celebre. Il principio dell’Intelletto (e dunque di tutta quanta la realtà), ciò che trasmette all’Intelletto (e a tutto l’essere) l’unità di cui esso risulta in possesso non è altro che l’Uno assoluto. Si tratta di un principio semplicissimo, assolutamente privo di molteplicità, anche di quella forma minima di molteplicità che è la dualità tra pensante e pensato, tra soggetto e oggetto. Questo significa che l’Uno assoluto non si identifica con il pensiero e neppure con l’essere intelligibile che il pensiero pensa. Anche se nel pensare l’Intelletto si unifica al pensato (le idee)
risulta tuttavia che
l’Intelletto (il pensante) e il pensato sono una dualità
dunque
l’Intelletto presenta una forma di molteplicità
in conclusione
Il principio dell’Intelletto, e dunque di tutta la realtà, è l’Uno assoluto, del tutto privo di molteplicità
L’indicibilità dell’Uno L’Uno: al di sopra dell’essere e del pensiero, al di là dell’essenza
T6
L’Uno: al di là dell’essenza
Plotino, Enneadi, 5,4,1
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Questo Uno si trova al di sopra dell’essere (cioè del mondo delle idee) e del pensiero (anche di quello intuitivo dell’Intelletto universale). Esso risulta in qualche modo anteriore a ogni forma di determinazione ontologica, ossia a ogni forma di specificazione. Per questa ragione l’Uno è privo di essenza (ousìa), cioè di una specifica determinazione contenutistica. Ciò fa sì che esso risulti anche al di sopra delle capacità del pensiero: quest’ultimo infatti, per pensare (ossia per conoscere in modo intellettuale), ha bisogno di un oggetto definito, cioè dotato di un’essenza determinata. Ma l’Uno precede ogni essenza, dal momento che si trova appunto «al di là dell’essenza» (epèkeina tes ousìas) – per usare una notissima formula platonica – e perciò stesso anche «al di là del pensiero» (epèkeina tou nou). La sua assoluta semplicità precede dunque ogni forma di qualificazione. Prima di ogni cosa, infatti, deve esistere qualcosa di semplice, anteriore a tutte le cose e diverso da tutto ciò che è dopo di Lui; deve essere in se stesso, non mescolato con gli enti che derivano da Lui […] In riferimento a Lui dire che è Uno è falso, perché di Lui non esiste né definizione né conoscenza, dal momento che di Lui si dice che è al di là dell’essenza. Infatti, se non fosse semplice, privo di qualsiasi aggiunta e composizione, realmente uno, non sarebbe Principio. Ma poiché è semplice, Egli è assolutamente indipendente e primo fra tutte le cose: infatti, ciò che non è primo ha bisogno di ciò che gli è anteriore e ciò che non è semplice ha bisogno delle cose semplici che si trovano in esso per poter derivare da esse.
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Unità 7 I platonismi e Plotino L’originalità di Plotino: l’Uno è indefinibile e al di là della conoscenza
Il termine «Uno» è inappropriato: la procedura analogica
L’Uno, il Buono e gli altri termini che esprimono il principio del tutto
L’Uno è indicibile, ossia indefinibile
La teologia negativa di Plotino: procedere per sottrazione
Leggendo quest’ultimo testo è difficile non rimanere colpiti dalla radicalità della posizione di Plotino. A differenza di Aristotele – per il quale il principio era sostanza (ousìa) e per la precisione pensiero – e in un certo senso anche a differenza di Platone – che aveva assegnato al Buono la qualifica di idea (considerandolo perciò conoscibile e in qualche modo anche definibile, appunto in quanto idea) – per Plotino il principio non può essere oggetto né di definizione né di conoscenza. Esso si colloca al di là della conoscenza (e del pensiero, che della conoscenza rappresenta la massima espressione) proprio in quanto non possiede una definizione che l’Intelletto possa cogliere e restituire in una proposizione. Plotino arriva addirittura a sostenere che neppure il termine Uno debba considerarsi veramente appropriato. Naturalmente egli usa costantemente il vocabolo Uno quando si riferisce al principio dell’essere, ma lo fa a scopo di chiarezza, essendo in realtà perfettamente consapevole che il principio è chiamato Uno più in virtù degli effetti che produce sulle altre cose che in virtù della propria essenza (di cui esso è in qualche modo privo). Infatti, il principio è causa dell’unità presente nelle cose che da esso derivano e proprio in virtù di questo suo essere causa, può venire chiamato Uno, con l’avvertenza di usare questo vocabolo non come una vera e propria definizione (l’essenza del principio è l’Uno), ma come una procedura analogica: del principio si dice che è l’Uno in quanto esso genera l’unità nelle altre cose. Un discorso analogo si dovrebbe fare per l’altro termine con cui Plotino è solito indicare il principio: cioè Bene (o Buono). L’Uno è uguale al Buono non perché la sua essenza sia il bene, ma perché esso è causa della bontà presente nelle altre cose. Del resto, Plotino ricorre a molti altri vocaboli per esprimere il principio del tutto; i più diffusi sono Dio, l’Altissimo, l’Ineffabile, il Trascendente, l’assolutamente Semplice e, naturalmente, il Primo. Quanto detto finora a proposito della natura del principio, dovrebbe metterci nelle condizioni di comprendere il senso della celebre concezione plotiniana che afferma l’ineffabilità dell’Uno. In effetti, per Plotino il principio non possiede nessuno dei caratteri che definiscono le altre cose: esso non ha dunque né genere né specie e di conseguenza non può venire appreso nella forma della conoscenza che distingue per generi e specie. Plotino si riferisce a questo stato di cose affermando anche che l’Uno è indicibile (àrrheton), ossia indefinibile. In realtà esso è appunto ineffabile e in un certo senso inconoscibile con i mezzi della logica tradizionale. Risulta però in qualche modo afferrabile per mezzo di una procedura del tutto particolare, consistente nella sottrazione (aphaìresis) di ogni predicato possibile. L’Uno, per Plotino, non è nessuna delle cose che sono; dunque, per giungere ad esso occorre togliere tutte le determinazioni: aphèle pànta, ossia «togli tutte le cose», invita a fare Plotino in una delle più celebri sentenze delle Enneadi. Una procedura di questo tipo viene solitamente chiamata «teologia negativa», perché stabilisce che il principio della realtà non è conoscibile per via diretta e positiva, ma solo attraverso la negazione di tutto ciò che le altre cose possiedono.
L’Uno L’Uno (il Bene o Dio)
è
al di là dell’essenza
quindi
al di là del pensiero
quindi
è indefinibile, inconoscibile con la logica tradizionale, indicibile
in conclusione si può giungere all’Uno soltanto per sottrazione di ogni predicato
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Parte prima L’età antica
La generazione della realtà
➥ Laboratorio di lettura, p. 466
La metafora della sovrabbondanza dell’Uno
Dalla sovrabbondanza del principio la nascita del molteplice
Le metafore della generazione e del permanere in sé
T7
Il principio che permane in sé e tuttavia genera altro da sé
Plotino, Enneadi, 3,8,10
Secondo Plotino, dunque, l’Uno rappresenta il principio assoluto della realtà. Da esso tutto dipende, in forma diretta e indiretta, ossia attraverso le altre ipostasi intelligibili (l’Intelletto e l’Anima). Ma – viene naturale domandarsi – come può un’ipostasi assolutamente perfetta, esistente in sé e del tutto autosufficiente come l’Uno generare altro da sé? Cioè, in altre parole: come si origina il molteplice dall’Uno, l’essere da ciò che si trova al di là dell’essere? Plotino affida la risposta a questo fondamentale interrogativo a metafore di straordinaria bellezza. Dal punto di vista teorico la maggiore difficoltà dell’interrogativo formulato sopra consiste nel problema di spiegare come possa l’Uno generare altro da sé e rimanere contemporaneamente in se stesso. Ecco come Plotino introduce il tema della generazione a partire dall’Uno: «L’Uno, perfetto in quanto non cerca nulla, non ha nulla, né ha bisogno di nulla, traboccò, in qualche modo, e la sua sovrabbondanza creò qualcos’altro. Il generato poi si volse verso l’Uno e ne fu riempito, e guardando verso di Lui divenne Intelletto» (Enneadi, 5,2,1). L’atto di nascita del molteplice dall’Uno – ossia l’atto di nascita della prima forma di molteplicità, quella costituita dall’Intelletto – è segnato dalla sovrabbondanza del principio. Esso possiede una sorta di potenza infinita che sgorga da sé e gli consente di generare altro da sé, senza che questo atto comporti una sia pure minima perdita. Come si è detto, Plotino ha il problema di rispettare una duplice esigenza: da un lato preservare la trascendenza del principio; dall’altro garantire che questo stesso principio generi qualcosa di diverso da sé. Si tratta in effetti di due aspetti non facili da conciliare. Per farlo Plotino ricorre spesso a metafore che descrivono l’uscita del principio da sé e dunque la generazione di altro, e contemporaneamente alludono al permanere di esso in se stesso. L’Uno viene paragonato al sole che emana luce senza perderne; a una radice infinitamente profonda da cui si sviluppa qualcosa di simile all’albero dell’essere; a una sorgente inesauribile da cui sgorga eternamente acqua; a una sostanza odorosa che emana profumo senza privarsene. Si tratta di splendide metafore che non cessano di affascinare il lettore anche a distanza di quasi due millenni: Immagina una fonte che non abbia un principio distinto da sé, che dia tutta se stessa ai fiumi, senza essere esaurita da questi, ma permanendo tranquillamente in sé. […] Oppure immagina la vita di un albero gigantesco, che lo percorre tutto pur rimanendo principio e non disperdendosi nel tutto, essendo come insediata nella radice. È pertanto questo principio a fornire all’albero tutta la vita nella sua abbondanza, ma lui stesso permane, perché non è molteplice ma principio del molteplice. […] Il principio non si suddivide infatti nel tutto; se fosse suddiviso, distruggerebbe anche il tutto, che non potrebbe neppure più nascere, se il principio non permanesse in se stesso. L’essenza del neoplatonismo inaugurato da Plotino consiste proprio nell’idea – del tutto originale rispetto alla forma mentis della filosofia classica (platonica e aristotelica) – che il principio costituisce una potenzialità infinita che genera altro da sé pur permanendo assolutamente in se stessa.
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Unità 7 I platonismi e Plotino
2 La nascita dell’Intelletto dall’Uno
Distacco e ritorno della «materia intelligibile»
Dalla semplicità dell’Uno alla molteplicità delle idee
T8
Il divenire del molteplice
Plotino, Enneadi, 3,8,8
L’Intelletto, l’Anima, il mondo Abbiamo visto, sia pure molto rapidamente, come avviene la nascita dell’Intelletto a partire dall’Uno. È giunto il momento di tornare più diffusamente sull’argomento, la cui rilevanza dipende dal fatto che il modo in cui l’Intelletto si origina dall’Uno costituisce il modello di ogni tipo di generazione ontologica. Dal principio, ossia dall’Uno, si stacca una sostanza illimitata, una sorta di «materia intelligibile» che l’Uno produce eternamente e senza sosta. Questa sostanza illimitata, che è naturalmente intelligibile, si rivolge alla fonte da cui deriva, cioè all’Uno. In questo modo essa viene in qualche modo dotata di un contenuto e dunque viene limitata e determinata. Il ritorno della sostanza illimitata alla sua fonte, cioè il ritorno di questa potenzialità pensante alla fonte che l’ha generata, segna l’atto di nascita dell’Intelletto. Per comprendere un simile processo, si può pensare di avere a che fare con una potenzialità visiva priva di un contenuto. Essa non vede nulla e rimane vista in potenza, ossia vista priva di oggetto. Ma nel momento in cui essa si rivolge a un oggetto, viene limitata e dotata di un contenuto, diventa cioè vista in atto. L’Intelletto è esattamente l’atto di determinazione della potenzialità intellettiva staccatasi dall’Uno. Tuttavia, osserva Plotino, questa potenzialità non è in grado di cogliere l’oggetto al quale si rivolge, cioè l’Uno, nella sua assoluta perfezione, ossia come unità semplice. Viceversa l’Intelletto spezza la semplicità assoluta nell’Uno distribuendola nella molteplicità del mondo delle idee. L’Intelletto infatti contempla le idee perché non è in grado di cogliere l’assoluta semplicità del principio. Anche per questo esso contiene in sé un’ineliminabile componente di molteplicità. Ora, se le due cose [il contemplante e il contemplato] sono una, com’è che questa unità è, a sua volta, molteplice? Poiché anche quando contempla l’Uno, non lo contempla come uno; altrimenti non diverrebbe Intelletto. Pur avendo cominciato come uno, l’Intelletto non è rimasto come era all’inizio, ma, senza accorgersene, è divenuto molteplice, come appesantito, e ha dispiegato se stesso nel desiderio di possedere ogni cosa – quando sarebbe stato meglio per lui non averlo voluto: così infatti è divenuto secondo – simile ad un cerchio che, essendosi dispiegato, si è fatto figura, superficie, circonferenza, centro, raggi.
Conoscenza, generazione dell’Anima e temporalità Unificazione di soggetto e oggetto nell’intuizione
La conoscenza di un’idea coincide con la conoscenza di tutte le idee
L’atto intuitivo dell’Intelletto possiede una caratteristica del tutto peculiare. Infatti, secondo Plotino (che qui riprende una celebre e misteriosa teoria di Aristotele), nel caso della conoscenza delle cose prive di materia il soggetto e l’oggetto si identificano. Dal momento che l’Intelletto conosce le idee (che sono ovviamente immateriali), con le idee esso risulta anche identico: nell’atto dell’intuizione intellettiva soggetto e oggetto si unificano. Ma questa è solo una delle caratteristiche della vita intellettuale. Secondo Plotino a livello dell’Intelletto si assiste a un altro fenomeno eccezionale: ogni singolo intelligibile è anche identico a tutto quanto l’Intelletto, ossia agli altri intelligibili. Quando l’Intelletto conosce un intelligibile determinato, ossia un’idea, esso li conosce immediatamente tutti, in quanto – dice Plotino – ogni intelligibile 453
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Parte prima L’età antica
La presenza del tutto nella parte: l’esempio della geometria
La nascita dell’Anima dall’Intelletto
La contemplazione in forma discorsiva
L’eternità dell’Intelletto e la temporalità dell’Anima
T9
La genesi del tempo
Plotino, Enneadi, 3,7,11
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è in atto se stesso e in potenza tutti gli altri. Come può darsi un fenomeno apparentemente così controintuitivo? Plotino – e noi con lui – prova a spiegarlo con un esempio. Egli osserva che il medesimo fenomeno di presenza del tutto nella parte si ha nel caso di una scienza, per esempio la geometria, e dei suoi teoremi. Ogni singolo teorema è infatti in qualche modo identico al complesso della scienza alla quale appartiene, in quanto questo teorema presuppone e implica altri teoremi e dunque anche tutta quanta la scienza. Scrive Plotino: «in un’unica scienza unitaria la suddivisione in singoli teoremi non provoca dispersione o frantumazione, ma ciascun teorema contiene in potenza l’intero, nel quale principio e fine coincidono» (Enneadi, 3,9,2). Nell’Intelletto ogni intelligibile è in potenza tutti gli altri. Dunque, quando si conosce intellettualmente un’idea, insieme ad essa si conosce anche tutto il mondo intelligibile, dal momento che in questa idea risultano implicate anche tutte le altre. In forma icastica Plotino ricorre al vecchio motto di Anassagora e afferma che nell’Intelletto «tutte le cose sono insieme» (homoù pànta). Se l’Intelletto nasce direttamente dall’Uno, dall’Intelletto deriva l’Anima. Anche in questo caso si tratta di una genesi prodotta dalla sovrabbondanza dell’ipostasi superiore. Come dall’Uno si staccava una potenzialità illimitata, che rivolgendosi alla sua fonte dava origine all’Intelletto, così da quest’ultimo si irradia un surplus di vita intellettiva, che nell’atto di contemplare il principio da cui è nato dà luogo alla nascita dell’Anima. Questa sostanza intellettuale non riesce a contemplare la sua origine in forma intuitiva e puntuale (ossia per mezzo di intuizioni immediate), ma solo in forma discorsiva, cioè sviluppando una determinata nozione in un complesso sistema di relazioni. Questo significa che, mentre l’Intelletto coglie immediatamente una determinata idea e con essa intuisce anche la totalità dell’intero mondo intelligibile che in questa singola idea si trova implicato, l’Anima conosce discorsivamente i suoi contenuti: ogni idea viene colta nella sua particolarità e viene messa in relazione alle altre. Insomma: se per l’Intelletto ogni idea è in potenza tutte le altre, per l’Anima ogni idea è se stessa ed è in relazione con le altre. Nell’Intelletto «tutto è insieme», nell’Anima ogni intelligibile esiste accanto agli altri (con i quali intrattiene naturalmente rapporti di inclusione ed esclusione). Secondo Plotino l’Anima si distingue dall’Intelletto anche per il genere di vita che in essa vige. Nell’Intelletto ogni atto intuitivo accade nella forma dell’eternità senza tempo, ossia in una puntualità assoluta; viceversa nell’Anima le conoscenze avvengono per relazioni e collegamenti, il che significa che la sua vita è scandita da una successioni di stati, avviene cioè nel tempo. All’eternità puntuale dell’Intelletto si sostituisce la temporalità dell’Anima. Il racconto della genesi del tempo (che parla in prima persona) dall’eternità costituisce uno dei passaggi più suggestivi delle Enneadi: […] esso [il tempo] direbbe di sé su per giù così: che prima, prima che avesse generato questa anteriorità e che avesse avuto bisogno del dopo, il tempo rimaneva con l’eternità nell’essere, non essendo però tempo, ma restava anch’esso immobile nell’eternità. Tuttavia una natura irrequieta [cioè l’Anima], desiderosa di comandare su di sé e di appartenere a se stessa, decise di andare in cerca di qualcosa di più rispetto allo stato presente e si mise in movimento e con essa si mosse anche il tempo. […] Poiché nell’Anima c’era una potenza inquieta, essa desi-
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derava trasferire ciò che vedeva lassù [cioè nell’Intelletto] e non era soddisfatta che tutta la realtà concentrata le fosse presente. Proprio come accade che da un seme immobile il principio, dispiegandosi, dà luogo a una ricca molteplicità, almeno così crede, ma in realtà la fa sparire per mezzo della divisione e invece di conservare l’unità che ha in sé, sperperandola fuori di sé procede verso un’estensione che è più debole, allo stesso modo l’anima, che dà origine al cosmo sensibile ad imitazione di quello intelligibile, […] dapprima si temporalizzò, creando, al posto dell’eternità, il tempo […] L’anima, svolgendo la sua attività, produce un atto dopo l’altro e poi un altro di nuovo in successione e genera insieme alla sua attività la successione. E insieme a un pensiero diverso rispetto a quello [cioè a quello dell’Intelletto], si faceva avanti ciò che prima non esisteva, perché il pensiero discorsivo non era in atto e neppure la vita che possiede ora è simile a quella che c’era prima di essa [cioè all’eternità, vita dell’Intelletto].
L’Anima e la materia I due aspetti dell’Anima: conoscitivo e ordinatore
Il contatto con la materia e le forme immanenti
La materia: specchio delle forme intelligibili
La questione del male
Secondo Plotino l’Anima non costituisce solamente un principio conoscitivo, ma anche ordinatore. Per la precisione essa ordina il cosmo sensibile, secondo la lezione di Platone, che nel Timeo aveva sostenuto che l’anima del mondo rappresenta il principio d’ordine dell’universo sensibile. Per Plotino l’Anima presenta dunque due aspetti: l’uno intellettivo – tramite il quale essa conosce discorsivamente le idee – e l’uno ordinatore – tramite il quale ordina il mondo. Questo secondo aspetto viene talora chiamato lògos (ragione) tal’altra phy`sis (natura), ma si tratta sempre dell’Anima, che entra in contatto con il mondo fisico. L’attività di ordinamento di quest’ultimo avviene per mezzo dell’introduzione di forme immanenti alla materia, che rappresentano, dunque, l’ultimo riflesso della presenza dell’intelligibile (cioè dell’Uno) nel mondo. Al di sotto delle forme Plotino ammette l’esistenza della materia, la quale tuttavia non ha una vera e propria autonomia ontologica (non è infatti un’ipostasi), ma costituisce semmai un concetto limite. Vediamo per sommi capi come viene articolata la concezione della materia. Per prima cosa Plotino osserva che la materia può venire considerata come l’elemento comune di tutti i corpi fisici, ossia qualcosa di analogo a un sostrato universale (alla maniera di Aristotele). In realtà, egli paragona la materia a uno specchio che riflette passivamente le immagini che provengono da fuori. In questo modo il nostro filosofo intende privare la materia di ogni consistenza ontologica: essa si limita a riflettere le immagini, cioè le forme provenienti dall’Anima, e in questo modo coopera alla generazione dei corpi, ma lo fa in modo sostanzialmente passivo, dal momento che l’elemento attivo viene fornito dall’esterno, cioè dall’Anima che trasmette le forme immanenti. È anche evidente che una simile posizione tende a considerare il mondo fisico come una sorta di riflesso del mondo intelligibile: un riflesso restituito appunto dallo specchio della materia. Trattando della materia Plotino si trova inevitabilmente costretto ad affrontare un problema filosofico importante, dotato ai suoi tempi di un significato teorico e culturale davvero notevole. Si tratta della questione del rapporto tra la materia e il male. Molti platonici prima di lui – Plutarco e Numenio sono gli esempi più eclatanti – ipotizzarono l’esistenza di una sorta di contro-principio, opposto al Bene; si trattava sostanzialmente di un’entità alla quale assegnare la causa del male 455
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presente nel mondo (e nelle anime degli uomini). La materia apparve spesso agli occhi di questi platonici come la candidata migliore ad assumere le funzioni di principio del male. Il male è assenza La posizione di Plotino è su questo punto estremamente netta: egli nega con vigore del bene che esista un principio del male, opposto e indipendente rispetto all’Uno, principio e causa del bene. Il male non ha una vera e propria sussistenza ontologica, ma può venire pensato solo come assenza del bene, cioè dell’Uno, ossia come una sorta di zona d’ombra non raggiunta dalla luce. La materia, dunque, non è la causa attiva del male (appunto perché non esiste una simile causa), ma costituisce il residuo non toccato dall’azione dell’Uno, il punto terminale del processo generativo.
3 La norma metafisica fondamentale: permanenza, processione e ritorno
La struttura dell’essere
Il ritorno all’Uno Tanto nella nascita dell’Intelletto dall’Uno, quanto in quella dell’Anima dall’Intelletto agisce la norma metafisica fondamentale della filosofia di Plotino. Si tratta della struttura fondamentale dell’essere, sulla quale tornerà in modo più approfondito Proclo; essa consiste in tre momenti: permanenza (monè), processione (pròodos) e ritorno (epistrophè). La permanenza indica il fatto che il principio generante, pur generando altro da sé, permane in se stesso (trascende cioè il prodotto della sua generazione); la processione si riferisce all’uscita del principio da sé, ossia alla sua sovrabbondanza che dà origine a una realtà inferiore; il ritorno, infine, consiste nel fatto che la potenza staccatasi dal principio tenta di contemplare la sua fonte e nel fare questo ritorna ad essa. Ogni essere, secondo Plotino, presenta una struttura triadica simile a quella appena descritta. È naturale comunque che tale struttura si riveli nella forma più chiara nella nascita delle ipostasi, cioè dell’Intelletto e dell’Anima.
Primo momento Permanenza
=
Il principio, pur generando altro da sé, permane in se stesso
Secondo momento Processione
=
Il principio esce da sé: la sua sovrabbondanza dà origine a una realtà inferiore
Terzo momento Ritorno
=
La potenza staccatasi dal principio contempla la sua fonte, ritornando ad essa
Per Plotino la stessa macrostruttura della realtà presenta un andamento analogo. In effetti, il processo di uscita dell’Uno da se stesso – processo che ha dato origine prima all’Intelletto e poi all’Anima (si tratta ovviamente di un prima e di un poi logici e non temporali) – può venire percorso a ritroso dall’Anima, la quale è in grado di ritornare alla fonte del tutto, ossia all’Uno. La natura stessa dell’Anima, la quale costituisce un’ipostasi mobile (capace cioè di percorrere diversi livelli ontologici), consente di invertire il senso di marcia che l’ha generata. Vediamo come. La duplicità Si è accennato al fatto che l’Anima presenta due aspetti, uno conoscitivo (rivoldelle anime: tra corpo to alle idee), e uno ordinatore (rivolto al mondo sensibile). Questa duplicità non e mondo intelligibile concerne solo l’Anima ipostasi, ossia l’anima del mondo, ma anche le anime parIl ritorno dell’Anima all’Uno
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Il contatto continuo e inconsapevole dell’anima con l’intelligibile
L’anima non discesa e l’inconscio superiore
Le tracce nascoste del contatto tra Anima, anime e mondo intelligibile
Il primo passo dell’ascesa: il conseguimento delle virtù civili
ticolari, cioè le anime degli uomini. Esse risultano infatti caratterizzate da una sorta di doppio orientamento: verso l’intelligibile e verso il sensibile. Il legame con il corpo, l’eccessiva cura che l’anima manifesta nei confronti della corporeità, costituiscono per Plotino l’espressione più evidente della caduta e la fonte principale del male morale. Si è detto, tuttavia, che il legame con il corpo rappresenta solo uno degli aspetti dell’attività di questa ipostasi (e degli individui che ad essa appartengono). Accanto all’orientamento verso la corporeità, l’Anima, e le anime, presentano un orientamento verso il mondo intelligibile. Anzi, a tal proposito Plotino arriva ad affermare qualcosa di più preciso e indubbiamente di più radicale. Egli sostiene infatti che esiste una parte della nostra anima che non si è mai staccata dall’Intelletto, una parte, cioè, che è sempre rimasta in contatto con il mondo intelligibile. Il fatto è che – osserva Plotino – noi non abbiamo consapevolezza di questo continuo contatto con l’essere, cioè con l’intelligibile. Si tratta – come il nostro filosofo riconosce esplicitamente – di una concezione in qualche modo originale, che nessun platonico prima di lui ha sostenuto esplicitamente, ma che si troverebbe, sia pure in forma implicita e velata, anche nei dialoghi di Platone. Per Plotino una parte della nostra anima non è mai discesa e continua a pensare noeticamente, ossia continua a conoscere intuitivamente le idee. Il fatto è che l’attività in questione non arriva alla coscienza, e ciò fa sì che noi non possiamo essere veramente consapevoli di questo straordinario stato psichico. Si potrebbe dire che, con la teoria dell’anima non discesa (nel corpo), Plotino abbia scoperto qualcosa di simile all’inconscio superiore: un livello di vita psichica che non si trova al di sotto della coscienza (come accade per certe istanze irrazionali che si esprimono per esempio nei sogni), e neppure a livello della coscienza (come succede alla normale vita psichica), ma al di sopra; insomma: attività psichica né razionale né irrazionale, ma forse sovra-razionale. La concezione dell’anima non discesa è stata ricordata allo scopo di richiamare l’attenzione sul fatto che l’Anima ipostasi, e con essa le anime particolari, non hanno mai perduto del tutto il contatto con il mondo intelligibile. In effetti, la teoria dell’anima non discesa rappresenta solo l’aspetto più evidente di un’idea più generale: si tratta della convinzione che il percorso di allontanamento dalla fonte del tutto, cioè dall’Uno, è disseminato di tracce che richiamano di volta in volta l’origine. L’Intelletto è un’immagine dell’Uno; l’Anima, a sua volta, è immagine e copia dell’Intelletto. In ogni livello c’è una traccia di quello superiore; questo significa che anche nella nostra anima deve esserci un’orma del principio. Il fatto è che questa orma è coperta e dunque nascosta dall’orientamento verso il corpo che caratterizza la vita degli uomini comuni. Ma questo significa anche che possediamo in noi stessi, ossia nella nostra anima, qualcosa di speciale – per certi aspetti di divino – dal quale può iniziare il cammino di ritorno verso l’Uno. La natura stessa dell’anima, la sua mai dismessa appartenenza al mondo intelligibile, rende di per sé più agevole il movimento di ascesa verso il principio del tutto. Vediamo come Plotino immagina questo percorso. L’uomo è composto di anima e corpo. Il primo passo non può che consistere nel moderare e poi nel sopprimere le istanze del corpo, le quali hanno nelle parti inferiori dell’anima il loro centro propulsivo (come aveva insegnato Platone). Nel momento in cui l’anima riesce a frenare e controllare le passioni del corpo, essa consegue le virtù tradizionali, ossia la temperanza, la giustizia, il coraggio. Si tratta, agli occhi di Plotino, del pri457
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Le virtù purificate
L’anima si racchiude in sé: le virtù paradigmatiche
L’anima esce da sé e diviene intelletto
La vetta: l’unificazione con il principio
L’ascesa dell’anima umana
Tra filosofia e mistica
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mo passo nel processo ascensionale: le virtù così raggiunte vengono da lui chiamate «civili» o «politiche», quasi per sottolinearne la natura inferiore rispetto alle virtù che si incontrano nei livelli superiori dell’ascesa. In effetti, quando l’anima si è completamente affrancata dalle esigenze del corpo, le virtù che essa acquisisce non sono più le stesse di prima: queste nuove virtù, che hanno gli stessi nomi di quelle civili (giustizia, temperanza, coraggio), non moderano più nulla perché non ci sono più pulsioni corporee da moderare; le virtù dell’anima non sono virtù civili, ma virtù purificate (dal corpo). Secondo Plotino, tuttavia, anche le virtù purificate dell’anima corrispondono a uno stadio relativamente iniziale del processo. In effetti, quando l’anima, ormai del tutto purificata dal corpo, si racchiude completamente in se stessa, essa privilegia la sua parte non discesa, ossia quella parte di sé che è sempre ed eternamente rimasta in contatto con l’Intelletto. Anche qui troviamo i consueti nomi delle virtù tradizionali, ma non più nella forma di virtù, bensì di modelli, ossia di idee: Plotino parla infatti di paradigmi o di virtù paradigmatiche. L’anima individuale, diventata un intelletto, ha cessato di essere un individuo particolare, perché, come si è detto, a livello dell’Intelletto tutto è in tutto. Si può dunque affermare che nell’eternità puntuale della vita dell’Intelletto l’anima cessa di essere un’essenza particolare ed esce da sé, entrando nell’universalità del mondo intelligibile. Ma anche nelle vette astratte del pensiero il processo di ascesa non ha ancora raggiunto il suo culmine. Il movimento di uscita da sé dell’anima, ossia il movimento di èkstasis (che significa appunto uscita), deve compiere un ultimo passo, consistente in un’ulteriore semplificazione (hàplosis), in una vera e propria unificazione (hènosis) con il principio. Si tratta di un passaggio che assomiglia ormai moltissimo all’unione mistica. Porfirio dichiara che Plotino stesso avrebbe avuto esperienza di questo stato divino solo quattro volte nel corso della vita.
Primo passo Controllo e inibizione delle passioni del corpo
Virtù tradizionali (civili o politiche)
Secondo passo L’anima è affrancata dalle passioni del corpo
Virtù purificate
Terzo passo L’anima, racchiusa in se stessa, entra in contatto con la sua parte non discesa
Virtù paradigmatiche o paradigmi
Quarto passo L’anima, uscita da sé, è diventata intelletto
L’anima entra nell’universalità del mondo intelligibile
Vetta L’anima si unifica con il principio (con l’Uno)
Esperienza mistica
Come si vede, la filosofia di Plotino culmina in un tipo di esperienza – l’unione con il principio del tutto – che sembra appartenere più alla dimensione religiosa che a quella propriamente filosofica. Questo aspetto ha fatto di Plotino uno degli autori più amati dai pensatori misticheggianti e in genere dai filosofi irrazionalisti. Bi-
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sogna però osservare che, se il salto finale verso il principio presenta indubbiamente caratteri misticheggianti, l’intero percorso che lo prepara appartiene all’ambito della filosofia. Certo, si tratta di una filosofia ormai amputata di molte sue parti: della politica, e per certi aspetti anche dell’etica. Ma forse questo nuovo modo di intendere la filosofia era l’unico appropriato all’epoca in cui visse Plotino, un’epoca che gli studiosi non hanno esitato a definire «l’età dell’angoscia». L’età dell’angoscia Si tratta di un periodo di profonda crisi, culturale, religiosa e ideologica: l’immagine compatta e razionale del mondo – del mondo divino, di quello naturale e infine di quello storico-politico – è ormai entrata in una crisi irreversibile. Le religioni della salvezza, prima fra tutte il cristianesimo, hanno trovato un humus fecondo per crescere e imporsi rapidamente. La filosofia di Plotino può essere anche vista come uno degli ultimi tentativi del pensiero speculativo (dunque del pensiero razio➥ Sommario, p. 463 nale e argomentativo) di fare fronte alla crescente ondata della religione rivelata.
Il neoplatonismo dopo Plotino
4 L’egemonia filosofica del platonismo e la rivalità con il cristianesimo
Tre indirizzi di sviluppo Le pratiche cultuali
La conciliazione tra Platone e Aristotele
Dopo Plotino il platonismo – ma sarebbe più corretto dire il neoplatonismo – proseguì lungo il sentiero indicato dal grande filosofo del III secolo. Nei tre secoli successivi, sostanzialmente fino alla conclusione dell’antichità, il platonismo assunse un ruolo egemone tra le filosofie di origine greca e fu l’unica a essere in grado di rivaleggiare con il cristianesimo, che, a partire dal IV secolo (grazie all’editto dell’imperatore Costantino nel 313) divenne la religione ufficiale dell’impero. Tre sembrano i motivi dominanti che caratterizzano gli sviluppi del neoplatonismo dopo Plotino. Il primo consiste in una crescente importanza assunta dalle pratiche cultuali. Radicalizzando alcuni elementi effettivamente presenti in Plotino, i platonici successivi si dimostrano particolarmente sensibili all’esigenza di rendere appetibile il loro messaggio anche a un pubblico interessato a certe forme di religiosità. È probabile che la necessità di fare concorrenza al cristianesimo, la cui influenza andava sempre più crescendo, abbia costituito un elemento trainante per l’affermarsi di queste attività rituali. A un contesto del genere appartengono anche le pratiche teurgiche, ossia le operazioni di tipo magico tramite le quali si pretendeva di presentificare (cioè rendere manifesta) la divinità in un certo oggetto («teurgia» deriva dal greco theòs = «dio» e èrgon = «operazione, attività»). Si tratta di tecniche (di carattere per lo più rituale) tramite le quali un presunto medium credeva di poter entrare in contatto con forze divine e di trasferirle nel mondo fisico. Il secondo motivo che ha percorso il neoplatonismo è sicuramente rappresentato dall’attitudine conciliatoria nei confronti della filosofia di Aristotele. Già a partire dal principale allievo di Plotino, Porfirio, i neoplatonici si servirono ampia459
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Parte prima L’età antica
Proliferazione delle ipostasi
Porfirio, l’integrazione di Aristotele e la polemica con il cristianesimo
Giamblico e la dottrina dei tre Uno
Giuliano e il platonismo in funzione anticristiana
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mente di Aristotele, cercando di conciliare la sua posizione filosofica con quella del grande Platone. Naturalmente un’operazione di questo tipo si presentava facilissima nel caso della logica, non esistendo una vera e propria logica platonica; più difficile nel caso dell’etica, che però consentiva effettivamente un’operazione di conciliazione (già tentata con successo dai medioplatonici); diverso il caso della metafisica, in cui i neoplatonici si trovarono di fronte al problema rappresentato dalle critiche che Aristotele aveva rivolto alla teoria delle idee e dei principi di Platone. In ogni caso l’interesse per Aristotele è testimoniato dal cospicuo numero di commentari interamente consacrati alle opere di questo pensatore: solo i dialoghi platonici potevano vantare un numero di commenti superiore a quello degli scritti di Aristotele. Il terzo denominatore comune ai filosofi neoplatonici concerne l’ambito propriamente teorico della loro riflessione. Si tratta del fatto che essi sembrano generalmente orientati ad aumentare il numero delle ipostasi, cioè delle entità dotate di piena consistenza ontologica. Praticamente ognuna delle ipostasi concepite da Plotino, ossia l’Uno, l’Intelletto e l’Anima, subisce un processo di divisione che dà luogo a una vera e propria proliferazione ontologica. Quel processo di gerarchizzazione della realtà iniziato dagli interpreti medioplatonici di Platone conosce dunque con i tardi pensatori neoplatonici il suo culmine. Ecco una panoramica sui principali filosofi neoplatonici. Porfirio di Tiro (232-305) fu il più importante collaboratore di Plotino, del quale curò, come abbiamo visto, anche l’edizione degli scritti. Della sua sterminata attività di erudito e di pensatore ci resta poco; abbastanza, comunque, per farci un’idea sufficientemente precisa dell’atteggiamento filosofico che lo animò. Rispetto a Plotino Porfirio si dimostra molto più indulgente nei confronti di Aristotele, e cerca in tutti i modi di integrarne la filosofia (soprattutto nel campo della logica) all’interno del sistema platonico costruito da Plotino. Inoltre, Porfirio fu un eccellente conoscitore della filosofia medioplatonica e non di rado sembra riprendere posizioni sostenute dai medioplatonici (Numenio e Plutarco in particolare) ma sostanzialmente lasciate cadere da Plotino. Molto importante fu la sua polemica contro il cristianesimo, al quale dedicò uno scritto, intitolato Contro i cristiani, andato perduto, ma di cui sopravvivono numerosi frammenti. L’attenzione per gli aspetti pratici e cultuali dell’insegnamento filosofico trovò la manifestazione più evidente nella proposizione di un’etica fondata sull’ascetismo (notevole il suo scritto L’astinenza dagli animali, in cui professava il rifiuto dell’alimentazione carnea). Allievo di Porfirio a Roma, almeno per un breve periodo, fu Giamblico di Calcide, in Siria (245-325 ca.). Giamblico fu quasi certamente il filosofo neoplatonico responsabile in misura maggiore di quella proliferazione di entità di cui si diceva sopra. Arrivò addirittura a distinguere un primo Uno, assolutamente ineffabile, ossia inesprimibile (di cui non si dovrebbe affermare neppure che è uno), da un secondo Uno, detto «semplicemente Uno» e poi da un terzo Uno, chiamato «UnoEssere». Analoga procedura divisoria Giamblico applicò a tutte le ipostasi, generando in questo modo un sistema estremamente complesso e ramificato. Anche la presenza del motivo religioso-cultuale è in lui ampiamente testimoniata. Sappiamo poi di un suo vivo interesse per la teurgia. Scrisse una Vita pitagorica, che prima ancora che una ricostruzione delle vicende biografiche di Pitagora rappresenta uno straordinario manifesto dello stile ascetico di vita della setta. Merita almeno un accenno la figura di Giuliano (331-363), che fu anche per un brevissimo periodo imperatore. La sua importanza per la storia della filosofia è
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Unità 7 I platonismi e Plotino
Ipazia, filosofa e matematica
Siriano contro le critiche alla metafisica platonica
Proclo, instancabile commentatore platonico
L’indirizzo teologico del neoplatonismo
I commentari di Proclo e la ricostruzione delle interpretazioni platoniche
legata al tentativo di rivitalizzare il pensiero greco (e in particolare il platonismo) in funzione anticristiana. Egli si rifiutò di aderire al cristianesimo (fu per questo definito «l’Apostata») e si rivolse al platonismo come all’alleato filosofico più adatto a ripristinare i culti pagani e a conferire loro dignità filosofica. Il tentativo fallì in ragione della sua precoce morte, dopo solo due anni di regno. Una rapida menzione la merita, se non altro per la sua singolarità, anche Ipazia, l’unica donna di cui resti consistente traccia nella storia della filosofia antica (ma profondi furono anche i suoi interessi nel campo della matematica). Ipazia professò un platonismo anticristiano e per questo fu linciata da una folla di cristiani ad Alessandria nel 415. Il platonismo conobbe poi nel corso del V secolo una vera e propria epoca d’oro, che si concentrò nell’antica patria di quella filosofia, ossia ad Atene. Il primo grande rappresentante fu Siriano (attivo nella prima metà del secolo: morì nel 437), al quale si deve un ulteriore approfondimento di quell’attitudine conciliatoria nei confronti della filosofia di Aristotele che aveva avuto in Porfirio il primo importante fautore. Per Siriano ad Aristotele va riconosciuto il primato nel campo della logica, dell’etica e della filosofia della natura, ossia della fisica. Ma le critiche che lo Stagirita rivolse alla metafisica platonica, cioè in particolare alla teoria delle idee e dei principi, risultano agli occhi di Siriano sostanzialmente inconsistenti e vanno dunque respinte. Il maggiore dei neoplatonici succeduti a Plotino fu comunque Proclo (412-485), direttore della scuola platonica di Atene. Allievo e successore di Siriano, Proclo fu un autore straordinariamente prolifico. Il suo discepolo Marino racconta che era solito scrivere non meno di settecento righe al giorno. Compose ampi commentari ai dialoghi platonici – tra i quali sono sopravvissuti, almeno in parte, quelli al Parmenide, alla Repubblica, al Timeo, al Cratilo e all’Alcibiade primo; notevole poi il suo commento sistematico al primo libro degli Elementi di Euclide, nel quale emerge tutto il suo interesse per la matematica; tra gli scritti sistematici, ossia propriamente filosofici (nei quali veniva esposto il sistema metafisico del platonismo), vale la pena menzionare la Teologia platonica e gli Elementi di teologia. I titoli degli ultimi due scritti ricordati tradiscono l’impronta generale del platonismo di Proclo, che esprime in modo quasi paradigmatico il senso profondo del neoplatonismo. Si tratta della curvatura teologica che la riflessione filosofica assunse ormai in modo irreversibile: per Proclo il platonismo è nella sua essenza discorso sugli dèi, ossia «teologia». In tale prospettiva egli moltiplicò il numero degli enti, accodandosi dunque a quella tendenza alla proliferazione ontologica inaugurata da Giamblico, e fece di ogni livello metafisico una divinità. Dal punto di vista propriamente teorico a Proclo si deve l’approfondimento della concezione ternaria della realtà, ossia di quella dottrina, presente in forma incoativa già in Plotino, la quale afferma che ogni essere, e dunque ogni livello ontologico, presenta tre momenti: quello della permanenza in sé (monè), quello dell’uscita, cioè della processione (pròodos), e quello del ritorno a sé, cioè della conversione verso l’origine (epistrophè). L’importanza di Proclo non è però solo di ordine teorico. I suoi grandi commentari ai dialoghi platonici costituiscono per noi un’autentica miniera di informazioni (altrimenti del tutto inaccessibili) sul platonismo dei secoli precedenti. Quando interpreta un passo di Platone, infatti, Proclo, prima di presentare la propria esegesi, espone il punto di vista di chi lo ha preceduto, mettendoci così nel461
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Parte prima L’età antica
Damascio e i divieti di Giustiniano
Simplicio, i commentari aristotelici e l’eternità del mondo
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le condizioni di ricostruire, almeno parzialmente, la storia delle interpretazioni antiche di Platone, che poi è sostanzialmente la storia del platonismo. Tra i neoplatonici attivi nel corso del VI secolo due sono le figure che meritano un cenno. La prima è quella di Damascio (462-538 ca.), al quale si deve un’interessante raccolta di Problemi e soluzioni sui primi principi; Damascio è importante anche perché durante il suo scolarcato l’imperatore Giustiniano vietò l’insegnamento della filosofia pagana, determinando così la chiusura della Scuola di Atene (529). I platonici furono costretti a un breve esilio in Persia, per poi fare ritorno dopo qualche anno ad Atene. Di Simplicio, l’ultimo filosofo antico meritevole di menzione, si deve ricordare la stesura di grandi commentari alle opere di Aristotele (Sul Cielo, Categorie, Fisica e Sull’anima), ricchi di notizie sulla filosofia dei secoli precedenti. Simplicio polemizzò aspramente con Giovanni Filopono intorno alla questione, già ricordata, dell’eternità del mondo. Secondo Filopono, cristiano di impronta neoplatonica, l’eternità del mondo andava senz’altro respinta, perché in contrasto con la rivelazione della Bibbia; viceversa Simplicio, più aderente ai canoni teorici del neoplatonismo, la affermò vigorosamente, sostenendo che essa risultava perfettamente aderente alla concezione della realtà come derivazione (logico-metafisica, non temporale) dal principio assoluto.
Suggerimenti bibliografici Un’esauriente e precisa esposizione della filosofia di Plutarco è offerta da F. Ferrari, Dio, idee e materia. La struttura del cosmo in Plutarco, D’Auria, Napoli 1995. Un’agile introduzione a Plotino è quella di M. Isnardi Parente, Introduzione a Plotino, Laterza, Roma-Bari 2002. Stimolante è il testo di P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, Einaudi, Torino 1999. Una lettura breve e attualizzante della filosofia di Plotino è offerta da V. Mathieu, Come leggere Plotino, Bompiani, Milano 2005. Testo preciso, rigoroso e di ampio respiro è quello di P. Donini, Le scuole, l’anima, l’impero: la filosofia antica da Antioco a Plotino, Rosenberg & Sellier, Torino 1982. I brani antologizzati sono tratti da: Plutarco, La virtù etica, trad. (modificata) di L. Becchi, D’Auria, Napoli 1990. Plotino, Enneadi, UTET, Torino 1997, 2 voll.
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Unità 7 I platonismi e Plotino
Sommario 1. PLATONISMI
A CONFRONTO: UN CAMPO DI BATTAGLIA
A partire dalla prima metà del I secolo a.C., il platonismo è segnato dalla crisi dell’orientamento scettico fino ad allora in esso dominante, cui si sostituisce il dogmatismo. 2. IL
MEDIOPLATONISMO
In questo periodo (dal I secolo a.C. al III secolo d.C.) prende corpo un eccezionale sforzo di esegesi dei dialoghi platonici, strettamente legata alla prassi scolastica e alla manualistica. Le questioni principalmente dibattute, in termini via via più specialistici, sono quelle concernenti la teologia e la cosmologia; il dialogo platonico privilegiato è il Timeo. [par. 1] Le filosofie dei medioplatonici sono accomunate dalla tendenza a stabilire un ordine gerarchico della realtà. Viene postulato un primo Dio, che converge con il Bene in sé, il quale genera le idee trascendenti. Segue un secondo Dio, equivalente al demiurgo platonico, che, osservando le idee trascendenti, plasma la materia; le idee vengono ora immerse nella materia, e perciò considerate immanenti ad essa. All’ultimo posto è collocato il cosmo (sensibile). [par. 2] L’etica medioplatonica presuppone una concezione dell’anima tripartita (platonica). Di contro all’etica stoica, incentrata sulla soppressione delle passioni (apàtheia), quella medioplatonica, in particolare di Plutarco, propone un controllo delle passioni (metriopàtheia). [par. 3] 3. PLOTINO:
FRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE
Il pensiero di Plotino è segnato dalla tensione tra la vicinanza alla tradizione dei dialoghi platonici e le originali innovazioni apportate alla stessa filosofia platonica. All’interno della concezione dell’Uno-Bene, articolata attorno ai concetti di unità e molteplicità, Plotino giunge a definire le tre ipostasi dell’Uno, dell’Intelletto e dell’Anima, disposte gerarchicamente in base al loro grado di unità. Dalle ultime due derivano gli intelletti e le anime particolari. Anche se l’Intelletto, grazie alle sue intuizioni, diviene identico agli oggetti conosciuti (le idee), presenta una minima forma di molteplicità. L’Uno invece, principio assoluto del tutto, si differenzia dall’Intelletto perché è assolutamente privo di molteplicità; esso risulta altresì al di là dell’essenza e del pensiero. L’Uno è perciò indefinibile e indicibile, dunque raggiungibile solo per sottrazione; da qui la cosiddetta «teologia negativa» di Plotino. Dall’Uno deriva, direttamente e indirettamente, tutta la realtà. Tale generazione avviene per «sovrabbondanza», concezione nella quale Plotino, anche grazie a di-
verse metafore, spiega il fatto che il principio pur permanendo in sé genera altro da sé. [par. 1] L’Uno genera l’Intelletto, che tuttavia non è in grado di cogliere la fonte alla quale si rivolge, cioè l’Uno, nella sua assoluta perfezione, e spezza così la semplicità assoluta nell’Uno distribuendola nella molteplicità del mondo delle idee. Nell’atto intuitivo, ovvero nelle intuizioni dell’Intelletto soggetto e oggetto, pensante e pensato coincidono; in questo modo l’Intelletto, con un solo atto intuitivo, coglie l’intero mondo intelligibile. L’Anima invece, derivata dall’Intelletto, conosce attraverso un processo di contemplazione discorsiva nel quale vengono preservate le differenze tra gli oggetti conosciuti (le idee). Tale contemplazione, a differenza delle intuizioni dell’Intelletto, che avvengono nell’eternità, è calata nel tempo. Oltre che principio conoscitivo, l’Anima rappresenta anche il principio ordinatore della materia. L’attività avviene attraverso l’introduzione di forme immanenti alla materia, che rappresenta una sorta di specchio che riflette passivamente le forme provenienti dall’Anima. Per Plotino la materia non è la causa attiva del male, concetto pensabile solo come assenza del bene, cioè dell’Uno. [par. 2] Per Plotino la norma metafisica fondamentale o struttura fondamentale dell’essere consiste in tre momenti. La permanenza: il principio generante, ovvero l’Uno, pur generando altro da sé, permane in se stesso. La processione: il principio esce da sé dando origine all’Intelletto. Il ritorno: la potenza staccatasi dal principio tenta di contemplare la sua fonte e nel fare questo ritorna ad essa. Questo processo, che dall’Uno conduce all’Intelletto, e da esso all’Anima, e che è a fondamento di ogni essere, può essere percorso a ritroso dall’Anima universale e da quelle particolari, cioè umane. Esse sono orientate sia verso il corpo che verso il mondo intelligibile, rispetto al quale mantengono sempre un contatto, anche se inconsapevole. Ripercorrendo le «tracce nascoste» del loro processo di generazione, attraverso un cammino graduale di ascesa e purificazione, le anime, uscite da se stesse, si muovono alla volta dell’Uno, facendovi «ritorno»; esse giungono così, infine, all’esperienza dell’unificazione con il principio. Concezione quasi mistica in linea con la profonda crisi culturale, religiosa e ideologica, e il dilagare del cristianesimo del periodo. [par. 3] 4. IL
NEOPLATONISMO DOPO
PLOTINO
A partire da Plotino fino al V secolo, il neoplatonismo diviene la corrente filosofica egemone, rivaleggiando con il cristianesimo, e tingendosi di sfumature sempre più intensamente mistiche e teologiche.
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Parte prima L’età antica
Parole chiave Anima. Per Plotino si tratta dell’erede dell’anima del mondo di Platone. L’Anima, una delle tre ipostasi, rappresenta sia un principio conoscitivo che ordinativo. Da essa derivano le anime particolari, umane. Apàtheia / Metriopàtheia. Il primo termine – letteralmente «impassibilità» – esprime l’ideale stoico di una vita nella quale le passioni vengono soppresse. Il secondo – letteralmente «moderazione nelle passioni» – esprime invece l’ideale etico medioplatonico di un controllo e di una misura delle passioni. Ascesa / Èkstasis / Unificazione. Per Plotino l’anima umana è orientata sia verso il corpo che verso il mondo intelligibile, con il quale resta sempre inconsapevolmente in contatto. Grazie a tale contatto l’anima può «ritornare» all’Uno: attraverso un’ascesa graduale l’anima ripercorre a ritroso il suo percorso di generazione, purificandosi, uscendo da sé (èkstasis), e giungendo infine all’esperienza quasi mistica dell’unificazione (hènosis) con l’Uno. Dogmatismo. Dal greco dògmata, ovvero «dottrine», il dogmatismo del medioplatonismo e del neoplatonismo si contrappone alla precedente interpretazione scettica della filosofia platonica. Ora ci si propone di ricostruire il pensiero positivo, sistematico, che si ritiene depositato nei dialoghi di Platone.
Ipostasi. Le tre realtà sussistenti in senso pieno e assoluto: l’Uno, l’Intelletto e l’Anima – di qui l’uso dell’iniziale maiuscola. Attraverso questi tre concetti Plotino ricostruisce l’articolazione e la generazione dell’essere e, più in particolare, le forme derivate o manifestazioni degli intelletti e delle anime particolari. Male. Per alcuni medioplatonici (Plutarco e Numenio) esiste un principio del male, opposto al Bene, riconducibile alla materia. Per Plotino invece non esiste un principio del male, opposto e indipendente rispetto all’Uno, principio e causa del bene. Il male non ha una vera e propria sussistenza ontologica, ma può venire pensato solo come assenza del bene, cioè dell’Uno. Materia. Al di sotto delle forme Plotino ammette l’esistenza della materia, la quale tuttavia non ha una vera e propria autonomia ontologica (non è infatti un’ipostasi), ma rappresenta piuttosto uno specchio che riflette passivamente le immagini, cioè le forme provenienti dall’Anima. Permanenza (monè). Uno dei tre momenti della norma metafisica fondamentale; indica che il principio generante, pur generando altro da sé, permane in se stesso, trascende cioè il prodotto della sua generazione.
Idee trascendenti / Forme immanenti. I filosofi medioplatonici e neoplatonici stabiliscono una separazione tra le idee. Un primo tipo è quello trascendente, completamente separato dalla materia, generato dal Dio supremo e considerato alla stregua dei suoi «pensieri». Un secondo tipo, affine al concetto aristotelico di forma, concerne le idee immanenti, ovvero immerse nella materia, della quale rappresentano il principio intelligibile.
Principio ordinatore. L’Anima costituisce un principio ordinatore della materia: essa ordina infatti il mondo sensibile. Questo aspetto viene chiamato lògos (ragione) o anche ph`y sis (natura), ma è comunque sempre l’Anima, che entra in contatto con il mondo fisico. Quest’ultimo viene ordinato per mezzo dell’introduzione di forme immanenti alla materia, che rappresentano, dunque, l’ultimo riflesso della presenza dell’intelligibile (cioè dell’Uno) nel mondo.
Intelletto. Sia per i medioplatonici che per i neoplatonici si tratta dell’erede dell’intelletto divino, ossia di Dio, di cui aveva parlato Aristotele. Per Plotino l’Intelletto è un’ipostasi che deriva direttamente dall’Uno. Dall’Intelletto, che ha una funzione eminentemente conoscitiva, deriva l’Anima.
Processione (pròodos). Uno dei tre momenti della norma metafisica fondamentale; la processione si riferisce all’uscita del principio da sé, ossia alla sua sovrabbondanza che dà origine a una realtà inferiore.
Intuizioni / Conoscenza discorsiva. Nell’atto dell’intuizione intellettiva soggetto e oggetto si unificano. Quando poi l’Intelletto conosce un intelligibile determinato (una idea), li conosce immediatamente tutti. L’Anima conosce invece in forma discorsiva: ogni idea viene colta nella sua particolarità e viene messa in relazione alle altre. Gli atti intuitivi accadono nell’eternità, la contemplazione discorsiva è calata nel tempo. 464
Ritorno (epistrophè). Uno dei tre momenti della norma metafisica fondamentale; il ritorno consiste nel fatto che la potenza staccatasi dal principio tenta di contemplare la sua fonte e nel fare questo ritorna ad essa. Uno (assoluto). Plotino costruisce un’originale concezione del principio del tutto, ovvero dell’Uno. Da esso, prima delle ipostasi, deriva l’Intelletto; poiché l’Uno è al di là dell’essenza e del pensiero, risulta indefinibile e indicibile, perciò raggiungibile solo per sottrazione.
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Unità 7 I platonismi e Plotino
Questionario PLATONISMI 1
2
IL
Lavoriamo sui testi
Che periodo della storia del platonismo designa il termine convenzionale «medioplatonismo»? (max 1 riga)
15
Qual è l’errore fondamentale che Plutarco, in T1, attribuisce alla psicologia degli stoici e quale la sua soluzione? (max 6 righe)
Perché la filosofia medioplatonica è dogmatica? (max 5 righe)
16
Con quali argomenti Plotino, in T3, mostra che tutti gli esseri, per esser tali, devono possedere una certa unità? (max 4 righe)
17
Come dimostra Plotino, in T5, che l’intelletto contiene una certa molteplicità? (max 6 righe)
18
Nella conclusione di T5 è detto che il principio deve essere «anteriore», a che cosa? (max 3 righe)
19
Che relazione viene stabilita, in T6, tra l’Uno e i concetti di «semplicità» e di «essenza»? (max 5 righe)
MEDIOPLATONISMO
3
Quali sono le due principali interpretazioni che vennero date del Timeo in merito alla questione dell’eternità del cosmo? (max 10 righe)
4
Qual è l’ordine gerarchico della realtà stabilito dai medioplatonici? (max 5 righe)
5
Qual è la differenza principale tra l’etica medioplatonica e quella stoica? (max 6 righe)
PLOTINO:
FRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE
6
In che senso Plotino è contemporaneamente tradizionalista e innovatore? (max 6 righe)
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Perché in T6 Plotino scrive che «In riferimento a Lui dire che è Uno è falso»? (max 5 righe)
7
Quali sono le tre ipostasi? (max 4 righe)
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8
Come può l’Uno generare la realtà e continuare a permanere presso di sé? (max 8 righe)
Con quali metafore Plotino, in T7, rende l’idea della generazione del reale dal principio? (max 4 righe)
9
Che differenza c’è tra gli atti intuitivi dell’Intelletto e la contemplazione discorsiva dell’Anima? (max 6 righe)
22
Qual è la relazione fondamentale stabilita in T7 tra permanenza e generazione? (max 5 righe)
23
Stando a T8, come può l’Intelletto divenire molteplice? (max 5 righe)
24
Come sono articolati i tre momenti della permanenza, della processione e del ritorno? (max 6 righe)
Che cosa spinge l’Intelletto, in T8, a divenire molteplice? (max 4 righe)
25
Qual è la scala gerarchica che permette all’Anima di ascendere fino all’unificazione con l’Uno? (max 8 righe)
Qual è il rapporto fra eternità e temporalità nella fase che precede la generazione del tempo in senso stretto stando a T9? (max 8 righe)
26
Che cosa spinse l’anima, stando a T9, a generare il tempo? (max 5 righe)
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IL
A CONFRONTO: UN CAMPO DI BATTAGLIA
In che cosa consiste la funzione ordinatrice del mondo svolta dall’Anima? (max 4 righe)
NEOPLATONISMO DOPO
PLOTINO
13
Chi sono i principali neoplatonici? (max 2 righe)
14
Quali sono le due direzioni principali assunte dalla filosofia platonica durante il neoplatonismo? (max 3 righe)
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Parte prima L’età antica
Laboratorio di lettura Le Enneadi Il trattato 2,9 delle Enneadi ha per titolo Contro gli gnostici e contiene un’aspra polemica contro le concezioni che questo indirizzo filosofico-religioso (diffusosi soprattutto tra il II e il III secolo) propugnò sulla divinità e sulla natura dell’universo. Lo gnosticismo fu una corrente sorta indipendentemente dal cristianesimo, ma poi sviluppatasi in larga misura intorno all’interpretazione del messaggio cristiano (vedi Unità 8, p. 491). Per gli gnostici, tra i quali si possono menzionare Valentino e Marcione (entrambi attivi a Roma), la salvezza non è una questione di fede, bensì di conoscenza (gnòsis significa appunto «conoscenza»). Non si tratta tuttavia di una forma di conoscenza assimilabile a quella filosofica (prodotta dall’argomentazione razionale), bensì di una conoscenza profonda e di natura misterica (per questo inaccessibile alla maggioranza degli uomini). In particolare gli gnostici distinguono nettamente il Dio nascosto (oggetto della conoscenza suprema e salvifica) dal Dio creatore dell’universo (che è poi il demiurgo platonico): il primo è buono, mentre il secondo è malvagio, così come è degradato e fonte di ogni perversione il prodotto della sua azione, cioè l’universo. Per gli gnostici il mondo va rifiutato in blocco, perché rappresenta l’ostacolo più consistente all’acquisizione della salvezza, che promana solo dal Dio supremo e nascosto. La condanna del mondo condusse gli gnostici a rifiutare tutte le pratiche ad esso connesse, e dunque anche la procreazione (che costituisce una sorta di conferma e prolungamento della vita nel mondo). Non è difficile comprendere le ragioni per le quali simili posizioni dovessero inevitabilmente suscitare la reazione polemica di Plotino. Agli occhi di quest’ultimo, infatti, l’universo rappresenta una sorta di emanazione derivante dall’Uno e dai principi intelligibili. Esso inoltre costituisce una copia e un’immagine del mondo noetico, secondo le indicazioni metafisiche contenute nei dialoghi platonici e largamente riprese da lui e dai suoi predecessori. L’universo non è il prodotto perverso di un demiurgo malvagio, ma la risultante dell’attività generante dell’Uno, di cui conserva pur sempre qualche traccia. Il male, infine, non è, come reputavano gli gnostici, l’effetto dell’azione di una causa attiva, il Dio demiurgico, bensì la semplice assenza del Bene, l’ombra non ancora raggiunta dalla luce metafisica dell’Uno.
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Unità 7 I platonismi e Plotino
La bellezza dell’universo: la polemica di Plotino contro gli gnostici Tesi di fondo: gli gnostici errano a criticare la natura dell’universo Argomenti: 1) La gerarchia del reale è fondamento della bellezza dell’universo 2) Si deve considerare l’anima degli astri, non solo il loro corpo
3) Gli astri, la cui anima è superiore a quella degli uomini, cooperano a dare ordine e regolarità all’universo
Commento e interpretazione
13. Dunque, colui che critica la natura dell’universo non sa quello che fa, né fino a dove lo conduce la sua impudenza. Questo accade perché non sanno che vi è un primo, un secondo e un terzo rango, in successione regolare, e così fino alle realtà estreme; e non sanno che non si deve oltraggiare ciò che è inferiore alle realtà prime, ma piuttosto accettare di buon grado la natura di tutte le cose, affrettandoci ai principi primi ponendo termine alla tragedia degli orrori che, secondo loro, avverrebbero nelle sfere dell’universo, quando esse, al contrario, per loro «preparano ogni dolcezza». [A] Perché cosa hanno queste sfere di così terribile da spaventare gente inesperta di ragionamenti, che non ha mai udito niente di una dotta e raffinata «gnosi»? Perché se anche i loro corpi sono di fuoco, non si deve certo temerli, dato che sono commisurati all’universo e alla terra; ma si deve guardare alle loro anime, poiché proprio per queste gli stessi si ritengono degni d’onore. E certo anche i loro corpi si distinguono per grandezza e bellezza, perché cooperano e collaborano con le cose che accadono secondo natura – che non potrebbero non accadere fintanto che esistono i principi primi – e perché sono parti integranti dell’universo e parti importanti dello stesso. E se gli uomini sono molto più stimabili rispetto agli altri esseri viventi, questi astri lo sono molto di più, perché sono nell’universo non per governarlo come tiranni, ma per dargli ordine e regolarità. D’altra parte, le influenze che si dice derivino dagli astri si devono considerare come presagi di avvenimenti futuri, ma le differenze che si manifestano negli accadimenti sono dovute al caso – non è infatti possibile che capiti a tutti lo stesso –, alle circostanze della nascita, alle estreme distanze dei luoghi e alle disposizioni delle anime. [B]
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A. Gli gnostici disprezzano il mondo perché non sono in grado di cogliere la struttura gerarchica intorno al quale esso si organizza. Non sanno, dice Plotino, che esiste un primo (ossia l’Uno), un secondo (l’Intelletto-Essere) e un terzo livello (l’Anima); non sanno, dunque, che la natura, di cui l’universo fa parte, costituisce un livello ontologico derivato dall’Uno e dalle altre ipostasi intelligibili e che da questa derivazione proviene il suo valore. L’esistenza di una gerarchia e di un ordinamento che parte da ciò che è superiore per giungere a ciò che è inferiore non comporta, secondo Plotino, una svalutazione dei livelli più bassi, perché essi derivano da quelli superiori e possono inoltre condurre l’uomo alla conoscenza di quelli. Infatti, spiega Plotino, la bellezza del mondo anticipa, per così dire, quella delle realtà intelligibili; citando Pindaro, egli sostiene che le cose sensibili e materiali «preparano ogni dolcezza». B. Gli gnostici non riconoscono dignità agli astri, sostenendo che rappresentano solamente corpi costituiti di fuoco. Così facendo, però, essi tralasciano, secondo Plotino, il fatto che gli astri possiedono anche un’anima, secondo l’insegnamento platonico. Le anime degli astri risultano poi superiori a quelle degli uomini, ai quali gli gnostici annettono invece un’importanza del tutto straordinaria. Gli astri infatti, spiega Plotino, regolano i movimenti cosmici, trasmettendo ordine e armonia; per questo le loro anime non possono che risultare superiori a quelle degli uomini, in quanto costituiscono un livello di razionalità
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Parte prima L’età antica 4) Il male non è un principio opposto al bene ma solo riduzione o assenza di esso
Seconda tesi: disprezzare l’universo non fa diventare buoni Argomenti: 1) Chi ama i principi intelligibili deve amare anche ciò che da essi deriva, ossia la realtà che ne contiene in sé le tracce
2) Disprezzando il mondo, gli gnostici vi negano l’intervento della provvidenza divina
D’altronde, non si deve esigere che tutti siano buoni, né dobbiamo – dato che questo non è possibile – essere pronti a criticare pretendendo che le cose terrene non siano differenti dalle cose di lassù; né bisogna ritenere che il male sia qualcosa di diverso da una mancanza di saggezza e da un bene minore, che diluisce sempre più. Sarebbe come se uno dicesse che la natura vegetativa è male perché non è sensazione, e che la facoltà sensitiva è male perché non è ragione. Altrimenti sarebbero costretti ad affermare che vi sono i mali anche lassù; infatti lassù l’Anima è inferiore rispetto all’Intelletto, e l’Intelletto lo è rispetto ad altro. [C] […] 16. Inoltre, disprezzare l’universo, gli dèi che vi si trovano e le altre cose belle, non ci porta a diventare buoni. Perché ogni uomo malvagio, anche prima di essere tale, avrebbe potuto disprezzare gli dèi; e anche se prima non li aveva disprezzati, per questo fatto solamente, pur non essendo malvagio per altro, sarebbe malvagio. E l’onore che dicono di voler tributare agli dèi intelligibili rivela in realtà mancanza di sentimento: infatti chi prova amore verso qualcuno rivolge lo stesso affetto verso tutti quelli che gli sono parenti, e se ama il padre ama anche i figli. Ma ogni anima è figlia di quel Padre. Ed anche le anime che si trovano nei corpi celesti sono intelligenti, buone e molto più unite agli esseri del mondo intelligibile di quanto lo siano le nostre anime. Come potrebbe dunque esistere questo nostro mondo separato da quello intelligibile? Come esisterebbero in esso gli dèi? [D] Ma di questo abbiamo già parlato prima. Adesso aggiungiamo che essi, disprezzando ciò che è imparentato con gli esseri intellegibili, non li conoscono neppure, ma li nominano soltanto. E inoltre, che sentimento di pietà religiosa sarebbe negare che la provvidenza si estenda alle cose di quaggiù o a qualsiasi essere?
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più vicina a quella del mondo intelligibile. Le anime degli astri, infatti, a differenza di quelle umane, non presentano elementi irrazionali; esse, agli occhi di Plotino (che riprende una celebre concezione platonica), esprimono in grado supremo l’azione regolatrice e ordinatrice dell’Anima del mondo. C. Non si può pretendere, osserva Plotino, che tutto l’universo sia ugualmente buono, per la semplice ragione che l’azione del Bene, ossia dell’Uno, mano a mano che ci si allontana dall’origine diminuisce di intensità; ma questo non significa che le realtà più lontane, cioè i corpi sensibili, siano malvagi e contengano in sé un principio negativo (come reputavano gli gnostici). Esse manifestano semplicemente una minore presenza di bene; il male non è infatti un principio causale opposto al Bene (il Demiurgo malvagio degli gnostici), bensì, dichiara Plotino, «è una mancanza di saggezza e un bene minore», vale a dire riduzione o assenza di Bene. Del resto, conclude Plotino, se la presenza di una gradazione tra un bene maggiore e un bene minore comportasse come conseguenza che il bene minore si identifichi con il male e la perversione, anche l’Intelletto e l’Anima (che sono ipostasi intelligibili derivate dall’Uno) sarebbero mali, visto che costituiscono realtà inferiori all’Uno, ossia al Bene assoluto. D. Il disprezzo che gli gnostici manifestano nei confronti del mondo sensibile segnala, secondo Plotino, un disprezzo nei confronti delle realtà intelligibili da cui questo mondo deriva. Non si può, dice Plotino, amare il Padre senza amare contemporaneamente i suoi parenti, ossia le realtà che egli genera (ovviamente per mezzo di una generazione eterna e non temporale). Che il mondo sensibile contenga delle tracce di quello intelligibile e
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Unità 7 I platonismi e Plotino 3) Tale negazione li mette in contraddizione con se stessi, generando dei paradossi
Conclusione: o Dio è presente a tutti o è assente da tutti, quindi anche dagli gnostici Corollario: 1) La provvidenza, grazie all’Anima, si manifesta nel tutto più che nelle parti 2) La presenza della provvidenza è dimostrata dall’essere saggio, nella sua totalità, dell’universo 3) Il rifiuto del mondo sensibile conduce gli gnostici a misconoscere quello intelligibile
E ancora, come possono essere in accordo con se stessi? Affermano infatti che la provvidenza divina vale solo per loro. Forse la provvidenza si occupò di loro solo quando erano nel mondo intelligibile? O se ne occupa solo quando sono quaggiù? E se si occupò di loro quando erano lassù, com’è che vennero quaggiù? Ma se si occupa di loro nel nostro mondo, perché sono ancor quaggiù? E come saprà che mentre sono quaggiù non la hanno dimenticata né sono diventati cattivi? Ma se conosce quelli che non sono diventati cattivi, conosce anche quelli che lo sono diventati, per poter distinguere questi da quelli. Pertanto Dio sarà presente a tutti e si troverà in questo universo, qualunque ne sia il modo; cosicché anche il mondo dovrà partecipare di lui. Se invece Dio è assente dall’universo, sarà assente anche da voi, e allora non potrete dire nulla di lui né degli esseri che vengono dopo di lui. [E] Ma sia che una particolare provvidenza giunga a voi dal mondo intelligibile, o sia come volete, ad ogni modo l’universo riceve qualcosa dal mondo intelligibile e non è stato né sarà abbandonato. Infatti la provvidenza si rivolge molto più al tutto che alle parti, e l’Anima ne partecipa in misura assai maggiore. Lo rende chiaro, del resto, l’esistenza dell’universo ed il suo esistere saggiamente. Infatti, chi tra questi uomini stoltamente superbi è così ben ordinato e tanto saggio come l’universo? Fare un paragone al riguardo è cosa ridicola e del tutto assurda; e chi proponesse il paragone non soltanto per il puro amore della discussione, non sfuggirebbe all’empietà. [F] Condurre poi ricerche su tali questioni non è certo da uomo saggio, ma è proprio di chi è cieco e completamente privo di sensibilità e intelligenza, ossia di chi è assai lontano dal contemplare il mondo intelligibile, perché non riesce neppure a guardare il mondo sensibile.
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del principio supremo della realtà viene, del resto, provato dalla presenza in esso delle anime, che sono parti dell’Anima del mondo, a sua volta derivata, attraverso l’Anima ipostasi, dall’Uno. In un simile contesto Plotino ribadisce l’importanza delle anime degli astri, che sono le più vicine agli esseri intelligibili. E. Nel rifiuto gnostico nei confronti del mondo è implicato anche il rifiuto della provvidenza divina. Se il mondo è malvagio, in esso non esiste provvidenza e dunque l’azione del Dio supremo si limita al mondo divino e intelligibile. Una simile posizione è fonte, secondo Plotino, di molti paradossi: per esempio, se la provvidenza divina è del tutto assente dal mondo sensibile, come possono gli gnostici acquisire la gnosi, ossia l’unica conoscenza che garantisce la salvezza? Bisogna tener presente, infatti, che per gli gnostici il Dio supremo si occupa solo degli uomini perfetti (da loro chiamati pneumatikòi, cioè spirituali); ma se è così, si domanda Plotino, perché ha permesso che finissero in questo mondo, malvagio e fonte di perversione? Pensare a una provvidenza assente dal mondo, ma presente solo nelle anime degli individui spirituali, è veramente assurdo. Se Dio è assente dall’universo, conclude Plotino, «sarà assente anche da voi [gnostici], e allora non potrete dire nulla di lui né degli esseri che vengono dopo di lui». F. La presenza di Dio, ossia dell’Uno, nel mondo è collegata alla presenza dell’Anima del mondo, che dall’Uno deriva attraverso l’Intelletto. Riprendendo una celebre concezione esposta da Platone nel X libro delle Leggi, Plotino spiega che la provvidenza divina si manifesta nel tutto piuttosto che nelle parti: nella sua totalità l’universo conduce una vita ordinata e saggia (determinata dalla guida dell’Anima del mondo); le parti possono pre-
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Parte prima L’età antica Prove: l’universo è una copia del mondo intelligibile, di cui riproduce l’armonia, suscitandone il ricordo in chi lo contempla
Conclusione: solo chi riconosce la natura del mondo sensibile (effetto) fa il primo passo verso la conoscenza del mondo delle idee (causa)
Perché che musico sarebbe chi, conoscendo l’armonia nel mondo intelligibile, non si commuovesse nell’ascoltare l’armonia dei suoni sensibili? Oppure, quale esperto in geometria e aritmetica non proverà piacere nel contemplare con i propri occhi la simmetria, la proporzione e l’ordine? Poiché anche nella pittura quelli che contemplano con i propri occhi le opere d’arte, non vedono le stesse cose nella medesima maniera; ma quando riconoscono nel sensibile un’imitazione di ciò che si trova nel loro pensiero, sono come presi da un turbamento e giungono a ricordarsi della realtà vera; proprio da queste esperienze nascono le passioni d’amore. Ebbene, chi contempla la bellezza ben riprodotta in un volto, è trasportato lassù; ma potrà esserci invece qualcuno così pigro di mente e passivo a qualsiasi sollecitazione che, pur contemplando tutta la bellezza sensibile, tutta la sua proporzione, questo grande e perfetto ordinamento, la forma che si manifesta negli astri, per quanto siano lontani, non risalirà con la mente, preso da venerazione, dalla qualità degli effetti alla qualità delle cause? Certo, costui non ha compreso questo mondo sensibile, né ha contemplato quello intelligibile. [G]
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(da Plotino, Enneadi, 2,9, Contro gli gnostici, 13, 16, trad. di M. Casaglia, UTET, Torino 1997)
sentare elementi di disordine e irrazionalità, ma si tratta di aspetti che confluiscono nell’ordine complessivo del tutto. Del resto, osserva Plotino, è sufficiente confrontare la saggezza del mondo (dipendente dall’Anima cosmica che lo guida) e la stoltezza degli gnostici, per concludere che il mondo è bello e razionale e che a essere irragionevoli sono invece le concezioni di questi filosofi (tanto radicali quanto lontane dal vero). G. Il rifiuto del mondo sensibile operato dagli gnostici comporta, secondo Plotino, il misconoscimento del mondo intelligibile. Infatti, l’universo non è altro che una copia del modello intelligibile; l’ordine e la razionalità di quest’ultimo si riverberano in qualche modo anche nel cosmo, la cui armonia riproduce, naturalmente in forma meno perfetta, quella intelligibile. Riprendendo una delle più note concezioni platoniche, Plotino arriva a sostenere che il riconoscimento della bellezza, dell’ordine e della razionalità del mondo sensibile costituisce il primo passo in direzione della conoscenza del mondo delle idee, ossia dell’essere. La relazione tra intelligibile e sensibile è quella tra causa ed effetto, per cui la conoscenza della prima è possibile a partire dal riconoscimento della natura del secondo.
Questionario sull’argomentazione 1
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Perché, per Plotino, il male deve essere considerato non come un principio a sé ma quale assenza o mancanza del Bene? (max 10 righe)
Quali sono le conseguenze che Plotino trae dalla tesi degli gnostici secondo la quale il mondo deve essere condannato e disprezzato? (max 12 righe) 470
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Qual è la conclusione con la quale Plotino chiude l’analisi della tesi suddetta? (max 6 righe)
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In che senso e in quale forma Plotino riprende la tesi di Platone per cui il mondo intelligibile si riverbera nelle copie sensibili? (max 11 righe)
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
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Mare del Nord
Dacia
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Oceano Atlantico
Colonia Aquisgrana
Parigi
Lione Aosta Milano Padova Tolosa Avignone Pavia Bologna Orvieto Saragozza Pisa Montpellier Toledo Valencia Siviglia
Roma
Cordova
Roccasecca Montecassino San Giovanni in Fiore Salerno Atene
Malaga Ippona
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Introduzione Dal mondo antico al Medioevo Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana: Verità Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino
Buhara
Percorso tematico Il mondo è eterno?
Mar
Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana: Essere Mar Nero
Caspio
Unità 11 Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo
Costantinopoli Nicea Baghdad
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Introduzione Dal mondo antico al Medioevo
1. I ‘confini’ del Medioevo 2. I percorsi della filosofia
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La parola al critico: Identikit della filosofia medievale
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
1 Un’età di mezzo?
Medioevo al plurale: il tempo
Medioevo al plurale: modi e luoghi
Le varianti interculturali: greco-bizantina, ebraica, arabo-islamica
Medioevo a più dimensioni
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I ‘confini’ del Medioevo Furono gli umanisti del XV secolo a introdurre la nozione di «Medioevo», dal latino medium aevum, «età di mezzo». Convinti di aver riscoperto l’autentico significato della cultura antica, gli umanisti volevano gettare un ponte diretto tra loro stessi e il mondo classico, mettendo fra parentesi mille anni di storia. Una «età di mezzo», appunto. Il problema è che il contenitore cronologico «Medioevo», creato artificialmente e per fini del tutto estrinseci, non identifica un’età storica dotata di caratteri unitari. Dire «Medioevo» non è come dire «Barocco» o «Risorgimento». Termini come questi, infatti, identificano periodi ben delimitati (di circa un secolo), con caratteri unitari ben riconoscibili. Il millennio medievale copre invece una pluralità di fenomeni storici e culturali fortemente eterogenei. Basta confrontare i regni romano-barbarici (V-VI secolo), l’età carolingia (IX secolo) e il periodo dei Comuni o quello delle monarchie nazionali (XIII-XIV secolo). Ma anche per quanto riguarda i modi e i luoghi della cultura (istituzioni scolastiche, problemi affrontati, stili di argomentazione, modi di produzione testuale) c’è grande differenza, poniamo, tra la cultura ancora grecizzante dell’aristocrazia romana nel V secolo, la cultura grammaticale ridotta ai minimi storici nel mondo feudale e la cultura delle università (come quelle di Parigi, Oxford, Bologna o Padova) nel XIII secolo. In altri termini, c’è grande differenza tra il mondo ancora tardoantico in cui si muovono Agostino e Boezio, quello altomedievale dei carolingi Alcuino ed Eriugena e quello bassomedievale di Tommaso d’Aquino e Guglielmo di Ockham. Il discorso diventa ancora più complicato (e interessante) se teniamo presente che oltre al mondo latinofono cristiano-occidentale esistono anche il mondo greco-bizantino, il mondo ebraico e il mondo arabo-islamico. Queste tre realtà hanno dinamiche ben diverse da quelle dell’Occidente latino, dinamiche alle quali non si può applicare in nessun modo la categoria di «età di mezzo». Eppure, come vedremo, non si tratta di contenitori a tenuta stagna. Anzi, si può senz’altro affermare che i più decisivi sviluppi della filosofia latina furono conseguenza di precisi fenomeni di ibridazione con le tradizioni greco-orientali e con gli inediti sviluppi che alla filosofia greca avevano dato pensatori del mondo islamico. Per questi motivi uno dei maggiori storici viventi della filosofia medievale, il francese Alain De Libera, all’inizio della sua voluminosa Storia della filosofia medievale scrive: «Lo studente che affronta il Medioevo per prima cosa deve imparare che il Medioevo non esiste». Formulazione provocatoria e paradossale, certo, che però ci aiuta a stabilire con chiarezza che non esiste un Medioevo unico, da cogliere esclusivamente nel quadro di riferimento occidentale, europeo, cristiano e latinofono. «Dunque lo storico della filosofia medievale, continua De Libera, deve partire dall’esistenza della pluralità: pluralità di religioni, pluralità di lingue, pluralità di centri di studio e della produzione dei saperi». Anche solo per comprendere le dinamiche di formazione del pensiero occidentale, non possiamo fare a meno di prendere in considerazione l’influenza che su di esso ebbero le filosofie bizantina, ebraica e musulmana.
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Introduzione Dal mondo antico al Medioevo
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Ellenizzazione del messaggio biblico
Scomparsa della figura del filosofo sotto l’imperatore Giustiniano
Dal V al XII secolo depotenziamento della filosofia
Filosofia greca nel giovane Islam
Una nuova biblioteca per l’Occidente latino
I percorsi della filosofia Nel millennio medievale la filosofia segue percorsi spesso tortuosi spostandosi su scenari diversi: dalle scuole neoplatoniche pagane alle scuole catechetiche cristiane, dai monasteri alle corti imperiali, dal mondo cristiano al mondo musulmano e poi di nuovo alle università dell’Occidente latino. Anche una ricostruzione schematica e parziale può darne l’idea. Le ultime fasi del pensiero filosofico pagano e del nascente pensiero cristiano si sovrappongono. Nello stesso arco di tempo in cui si dispiega la parabola neoplatonica (da Plotino, III secolo, a Proclo, V secolo), nasce e si sviluppa anche la teologia cristiana. È la fase dei «padri della Chiesa» (patristica), pensatori cristiani di lingua greca o di lingua latina che ripensano la loro fede attraverso le categorie della filosofia greca. Nelle loro opere la fede biblica inizia a parlare il linguaggio della filosofia, ma anche il dibattito filosofico impara a fare i conti con le prospettive della nuova religione. L’esempio forse più alto di interazione tra analisi interiore, indagine filosofica radicale e dialogo con Dio si raggiunge con Agostino (354-430) (vedi Unità 8, p. 497). È, tuttavia, un abbraccio pericoloso e quasi mortale per la filosofia. I pensatori cristiani, è vero, sono pronti ad assorbirla nella costruzione della loro teologia, ma al contempo pensano che nessun sapere che sia autonomo rispetto alla cultura cristiana abbia più senso. Significativamente la fine della filosofia greca cade, per convenzione degli storici, nel 529, quando Giustiniano, nel suo disegno politico di ricostituzione dell’impero romano su base cristiana, fa chiudere la scuola neoplatonica di Atene, vietando ai non cristiani l’insegnamento della filosofia. A questo punto scompare dal mondo occidentale la figura sociale e professionale del filosofo. Nei secoli che vanno dal V al XII (nonostante grandi figure, come Scoto Eriugena, IX secolo, o Anselmo d’Aosta, XI secolo) la filosofia, pur non scomparendo del tutto, sopravvive essenzialmente in tre forme depotenziate: in forma schematica nei compendi e nelle enciclopedie, in forma ancillare all’interno del discorso teologico, in forma parziale, e cioè ridotta ad alcuni problemi linguistici, nelle discipline del trivio (grammatica, retorica e logica), insegnate dai maestri di arti liberali (vedi Unità 9, p. 554). Ma in questi stessi secoli i veri eredi dell’esperienza filosofica greca sono altrove. Sono in Paesi che oggi si chiamano Irak e Iran. È uno dei più significativi passaggi di ‘testimone’ del millennio medievale: nel suo processo di espansione il giovane Islam (nato nel VII secolo) entra in contatto con zone, come la Siria e la Persia, dove sono ancora vive scuole filosofiche. Attraverso un processo di traduzione, commento e assimilazione, gli intellettuali musulmani si appropriano della filosofia e della scienza greca e ne diventano per almeno quattro secoli (dal IX al XII) i più avanzati continuatori. Autori come al-Farabi (IX-X secolo) e Avicenna (X-XI) ripensano la tradizione platonica e quella aristotelica alla luce dei nuovi interrogativi posti dal rigoroso monoteismo coranico (vedi Unità 9, p. 565). Poi con un ulteriore passaggio di testimone, il patrimonio filosofico e scientifico greco, con gli sviluppi apportati dai pensatori musulmani, entrerà a far parte della cultura dell’Occidente latino. Questo avviene fra XII e XIII secolo, quando le traduzioni forniscono una nuova biblioteca alle nascenti università. La «risco477
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
perta di Aristotele» è infatti accompagnata dalla traduzione delle parafrasi di Avicenna e dei commenti di Averroè. Nelle pagine del maggior pensatore cristiano del XIII secolo, Tommaso d’Aquino, le citazioni da Aristotele si intrecciano a quelle da Avicenna e Averroè e si affiancano a citazioni da Agostino e dagli altri padri della Chiesa (vedi Unità 10). Interculturalità Più in generale, per almeno quattro secoli (dal XIII al XVI) nelle lezioni a Pariuniversitaria gi, come a Oxford, come a Bologna o a Padova i professori (cristiani) di filosofia e teologia tengono lezione in latino analizzando testi autorevoli del greco Aristotele (pagano) e confrontandoli con le posizioni dell’arabo-andaluso Averroè e del persiano Avicenna (entrambi musulmani), dai quali inoltre ricavano informazioni su autori antichi non altrimenti disponibili. Qualcosa di simile avviene anche in medicina (accanto ai greci Ippocrate e Galeno, le massime autorità sono, ancora una volta, Avicenna e Averroè). La filosofia «scolastica» Si è soliti chiamare «scolastica» la filosofia delle università medievali (anticipata dalle scuole di arti liberali del XII secolo). Dapprima l’aristotelismo riscoperto entra in dialogo con l’onda lunga del platonismo cristiano (specialmente quello agostiniano), che era stato l’orientamento dominante dell’alto Medioevo (è quanto accade, in proporzioni diverse, in Tommaso e in Bonaventura). Successivamente, nel XIV secolo, la tecnicizzazione del linguaggio professionale universitario porta a una certa autoreferenzialità della filosofia, che si concentra su problemi di logica, linguaggio e metodo scientifico (com’è evidente in Ockham e negli ockhamisti, vedi Unità 11, p. 668 ss.). Proprio contro questo ipertecnicismo si solleverà la reazione degli umanisti nel XV secolo.
Suggerimenti bibliografici Dalla prima versione breve del 1922 all’ultima versione più ampia del 1944 è l’espressione più alta della medievistica tradizionale (latinocentrica e cattolica); rimane tuttavia insuperata per capacità di penetrazione teorica E. Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo (1944), trad. di M.A. del Torre, La Nuova Italia, Firenze 19905. Un tentativo di scrivere la prima ampia storia multicentrica delle filosofie nel Medioevo è A. De Libera, Storia della filosofia medievale (1993), trad. di F. Ferri, Jaca Book, Milano 1995. Una breve presentazione, organizzata non cronologicamente per autori, ma per temi è R. Evans, Tra fede e ragione. Breve storia del pensiero medievale da Agostino a Cusano (1993), trad. di S. Simonetta, Ecig, Genova 1996. Per capire in che modo il dibattito medievale teologico e filosofico ha preparato aspetti decisivi della scienza moderna: A. Funkenstein, Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento (1986), trad. di A. Serafini, Einaudi, Torino 1996; E. Grant, Le origini medievali della scienza moderna (1996), trad. di A. Serafini, Einaudi, Torino 2001.
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Introduzione Dal mondo antico al Medioevo
LA PAROLA AL CRITICO Identikit della filosofia medievale Lo studioso americano Paul Vincent Spade è uno dei massimi esperti di logica medievale. Riportiamo l’inizio della sua voce «Filosofia medievale», scritta per un’importante enciclopedia on line di filosofia. Spade dapprima mette in luce l’impossibilità di demarcare confini cronologici netti per il Medioevo, poi, in modo spiritoso, paragona le tradizioni filosofico-culturali del millennio medievale agli ingredienti di una ricetta di cucina.
La «ricetta» per un millennio da P.V. Spade, Filosofia medievale
Estensione geografico-culturale
Estensione cronologica: Fred C. Robinson Quale inizio?
Quale fine?
Si parla di «filosofia medievale» per indicare la filosofia nell’Europa occidentale del cosiddetto «Medio Evo». La nozione di un «Medio Evo» è stata introdotta nel XV secolo per designare il periodo tra il declino della cultura classica pagana e quello che si riteneva esserne la riscoperta durante il Rinascimento. Il primo uso documentato dell’espressione (nella forma «media tempestas» [tempo di mezzo]) è del 1469. Chi ha introdotto la nozione di Medio Evo pensava in primo luogo al cosiddetto «occidente latino», grosso modo l’area del Cattolicesimo romano. Se è vero che questa regione era abbastanza unitaria e culturalmente distinta dai suoi vicini, è altrettanto vero che la filosofia medievale fu decisamente influenzata da idee dell’oriente greco, della tradizione filosofica ebraica e dell’Islam. Se poi si ritiene che la filosofia medievale debba includere anche il periodo patristico – e io sono di questo avviso – allora dobbiamo estendere l’area fino a includere, almeno per i primi secoli, l’Europa orientale di lingua greca, nonché il Nord Africa e parti dell’Asia Minore. Anche i limiti cronologici della filosofia medievale non sono netti […]. Robinson [uno storico contemporaneo] riassume la situazione con arguzia: Gli studiosi hanno proposto diversi termini cronologici per definire il nostro periodo e non sembra che si possa stabilire un accordo o una base comune per una argomentazione ragionata su questi punti. C’è chi dice che il Medio Evo inizia con la morte di Teodosio nel 395, o con l’insediamento delle tribù germaniche nell’Impero romano, o col sacco di Roma nel 410, o con la caduta dell’Impero romano d’Occidente (solitamente datata al 476 d.C.), o anche più tardi con l’occupazione musulmana del Mediterraneo. E finisce […] con la caduta di Costantinopoli [in mano ai Turchi nel 1453], o con
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
La risposta di Robinson
La risposta di Spade: la dottrina cristiana come parametro
Gli ingredienti principali della filosofia medievale
Motori e strumenti
l’invenzione della stampa, o con la scoperta dell’America, o con l’inizio delle guerre in Italia (1494), o con la Riforma luterana (1517), o con l’elezione di Carlo V (1519). Su varie enciclopedie che ho consultato si dice semplicemente che il Medio Evo è terminato nel 1500 (magari nella notte di capodanno). Però spesso si fa terminare il Medio Evo quando inizia il cosiddetto «risveglio delle lettere», quell’era meravigliosa in cui gli studiosi «umanisti» avrebbero «scoperto» i testi classici restituendoli all’umanità dopo la lunga notte gotica. Noi specialisti di Medio Evo non possiamo che sorridere su queste «scoperte», perché sappiamo dove gli umanisti scoprirono questi testi classici, vale a dire nei manoscritti medievali, dove gli scribi medievali li avevano accuratamente preservati per secoli a vantaggio dell’umanità […] Alla luce di questo disaccordo circa la durata del Medio Evo, forse dovremmo limitarci a dire che il nostro periodo si estende dalla fine del periodo classico all’inizio del Rinascimento. E se poi i classicisti e gli studiosi del Rinascimento non sanno dove iniziano e finiscono i loro periodi, questo è un problema loro.
Tuttavia, è forse più utile pensare non che la filosofia medievale sia delimitata dai confini cronologici dei periodi filosofici ad essa adiacenti, ma che nasca quando i pensatori iniziarono a misurare le loro speculazioni filosofiche in rapporto ai requisiti della dottrina cristiana e che termini quando questa non è più stata la pratica prevalente. Questo modo di considerare le cose consente una sovrapposizione di filosofia tardoantica e protomedievale durante il periodo patristico; così Proclo (411-485) appartiene alla storia della filosofia antica, anche se è vissuto dopo sant’Agostino (354-430). Inoltre, questo modo di considerare le cose è in sintonia col fatto che la tarda scolastica è sopravvissuta e si è ulteriormente sviluppata ben oltre il Rinascimento. Così un Francisco Suárez (1548-1617), che presumibilmente può essere considerato il capitolo finale della storia della filosofia medievale, era contemporaneo di Francis Bacon (1561-1626). Ecco una ricetta per produrre filosofia medievale: prendete la filosofia classica pagana (prevalentemente greca, ma anche nelle sue versioni romane) e unitela con la nuova religione cristiana. Condite con aromi dalle tradizioni intellettuali ebraica e islamica. Mescolate e fate bollire per 1300 anni e anche più, fino a che non sia pronta. Questa ricetta produce un miscuglio forte ma anche volatile. Perché, di fatto, molti tratti caratteristici del cristianesimo non sono perfettamente compatibili con le teorie filosofiche classiche. […] I cristiani colti delle origini che cercavano di affrontare la propria religione nei termini delle uniche tradizioni filosofiche che conoscevano ebbero chiaramente un sacco di lavoro da fare. Queste tensioni possono essere considerate i «motori» che hanno portato avanti gran parte della filosofia lungo l’intero periodo medievale. Fu in risposta ad esse che si svilupparono nuovi concetti, nuove teorie e nuove distinzioni. Naturalmente, una volta sviluppati, questi strumenti rimasero e tuttora rimangono a disposizione anche per essere usati in contesti che non hanno niente a che fare con la dottrina cristiana. (Stanford Encyclopedia of Philosophy [http://plato.stanford.edu/entries/medievalphilosophy], 2004, trad. di S. Perfetti)
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino 1. Cristianesimo e filosofia tardoantica 2. La rivelazione biblica e il cristianesimo 1. I temi fondamentali della Bibbia ebraica 2. La predicazione di Gesù di Nazaret 3. Il Nuovo Testamento
2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
Credere e sapere Il giovane Agostino: l’ordine, il male e la felicità La teoria della conoscenza La teoria del tempo Teologia della storia e filosofia politica Etica e teologia morale L’eredità di Agostino
3. I padri della Chiesa 1. I padri apologisti 2. La scuola di Alessandria: Clemente e Origene 3. Impero e ortodossia nell’età dei concili
4. Agostino 1. Il percorso biografico e intellettuale
5. L’autunno della patristica: il corpus dionysianum ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Le Confessioni di Agostino ♦ Tesi a confronto: Predestinati o liberi?
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Cristianesimo e filosofia tardoantica
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Le ultime fasi della filosofia antica si svilupparono negli stessi anni in cui il cristianesimo sorgeva e si definiva dottrinalmente. All’inizio i filosofi guardarono con sospetto – se non con disprezzo – ciò che sembrava una nuova forma di superstizione giudaica, ma anche la nuova fede cercò di tenere distinta la propria posizione da ogni filosofia. A partire dal II secolo, però, un cristianesimo ormai impegnato nella strutturazione teologica della propria dottrina, finì per utilizzare sistematicamente molti strumenti filosofici. Il processo di integrazione tra filosofia e teologia si farà ancora più stretto nei secoli successivi, quando la Chiesa inizierà a formulare i suoi dogmi principali. Così, mentre progressivamente tramontava la filosofia antica, la nuova cultura cristiana ne assimilava metodi, problemi e dottrine, creando, in questa nuova sintesi, le premesse della filosofia medievale. I cardini Prima di esaminare la formazione della teologia filosofica cristiana dobbiamo del cristianesimo però mettere a fuoco i temi principali della rivelazione biblica e del messaggio ➥ Sommario, p. 518 cristiano.
I cristiani e la filosofia: verso l’integrazione tra teologia e filosofia
La diffusione del cristianesimo dalle origini all’editto di Costantino (313)
Britannia
Scizia Germania Salmazia
Gallia Lione
Rezia Norico Italia
Spagna
Mar Caspio
Pannonia Dalmazia
Mesia
Roma
Cartagine Madaura
Regioni con popolazione prevalentemente cristiana Regioni con presenza di forti minoranze cristiane
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Regno dei parti Ctesifonte Seleucia
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Gortina
Damasco
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Comunità cristiane presenti a partire dal II secolo
Mar Mediterraneo
Africa
Armenia
Filippi
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Regioni con esigua diffusione del cristianesimo
Siracusa
Mar Nero Sinope
Calcedonia Cizico Cappadocia Nicea Tessalonica Smirne Sarni Edessa Atene Laodicea Tarso Corinto Efeso Antiochia
Durazzo
Napoli
Mauritania
Dacia
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino
La rivelazione biblica e il cristianesimo
2 I testi
Antico Testamento Esodo: I dieci comandamenti, T1
1 La rivelazione biblica base del cristianesimo
Il monoteismo: Dio è unico, ingenerato, indipendente, incommensurabile
La creazione, un libero atto originario di Dio
L’alleanza, un patto reciproco tra Dio e l’umanità
La «Legge»
Nuovo Testamento Vangelo di Matteo: La casa sulla sabbia, T2; Beati quelli che…, T3 Vangelo di Giovanni: Il Lògos, T4
I temi fondamentali della Bibbia ebraica Il cristianesimo originario non deriva da dottrine filosofiche, ma dalla tradizionale fede religiosa del popolo ebraico, che i credenti ritenevano rivelata da Dio attraverso i libri della Bibbia ebraica, quelli che i cristiani successivamente chiameranno Antico Testamento. Ciò non toglie che il messaggio biblico presenti idee e nozioni destinate a interagire profondamente col pensiero filosofico. I temi fondamentali dell’Antico Testamento sono il monoteismo, la creazione e l’alleanza di Dio col suo popolo, di cui è massima espressione la Legge. A differenza delle religioni antiche politeistiche, la fede ebraica si caratterizzò per la proclamazione del Dio unico, un Dio che sta al di sopra della natura, del cosmo e di ogni legge, ingenerato e indipendente da tutto. A questo rigoroso monoteismo conseguivano il rifiuto di tutte le divinità adorate da altri popoli, dei culti di divinità secondarie o concorrenti e il radicale divieto di forgiare e adorare idoli. Ritenendo che Dio sia incommensurabile con le cose di questo mondo, si proibì anche di raffigurarlo mediante immagini. Secondo la concezione biblica il Dio unico non si è limitato a plasmare la materia pre-esistente e a imprimerle forma e ordine (come faceva il Demiurgo platonico), ma ha portato l’intera realtà dalla non-esistenza all’esistenza. Questa attività peculiare di Dio, che in un libero atto originario ha dato inizio al mondo e al tempo, non è paragonabile a nessun altro fare o produrre e si chiama, in senso proprio, «creazione». La creazione costituisce un’evidente alternativa al naturalismo antico o alla teoria aristotelica dell’eternità del mondo (e fornisce una risposta al fondamentale interrogativo filosofico: «perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?»). Il Dio unico, signore della realtà che ha creato, ha instaurato con l’umanità e col suo popolo di Israele un rapporto che la Bibbia chiama «alleanza» (in ebraico berit). L’alleanza è un patto di fedeltà reciproca per cui Dio sostiene il suo popolo nella concreta esperienza storica, anche nei momenti di maggiore difficoltà, ma chiede anche al suo popolo il rispetto dei comandamenti. C’è, in altre parole, una stretta relazione tra alleanza e Legge. Col termine «Legge» si rende solitamente l’ebraico torà, che più propriamente significa «istruzione» o «indicazione» di uno stile di vita. Infatti il nucleo della 483
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torà sono i dieci principi etico-religiosi (o «comandamenti») che Dio dà a Mosè sul monte Sinai:
T1
I dieci comandamenti Esodo, 20,2-17
Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dall’Egitto, dove tu eri schiavo. Non avere altro Dio oltre a me. […] Non usare il nome del Signore, tuo Dio, per scopi vani, perché io, il Signore, punirò chi abusa del mio nome. Ricordati di consacrarmi il giorno di sabato. […] Rispetta tuo padre e tua madre […]. Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non testimoniare il falso contro nessuno. Non desiderare quel che appartiene a un altro: né la sua casa, né sua moglie, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino.
I dieci comandamenti o «decalogo», riportati in due passi biblici (Esodo, 20,217 e Deuteronomio, 5,6-21), saranno mantenuti anche dal cristianesimo. Obbedienza e libertà Il fatto stesso che Dio ci chieda obbedienza ai comandamenti comporta in noi la libertà di obbedire o disobbedire. Potremmo dire che da una parte l’onnipotenza divina si autolimita per dare all’uomo lo spazio della libertà, dall’altra la libertà dell’uomo si realizza pienamente solo nell’obbedienza alla legge morale espressa dai precetti divini.
2 Iehoshua di Nazaret
Regno di Dio e conversione
Il compimento della Legge
L’amore reciproco
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La predicazione di Gesù di Nazaret Il cristianesimo è una dottrina religiosa nata nel I secolo della nostra era in seno al giudaismo della Palestina greco-romana. Trae origine dall’insegnamento di Iehoshua (Gesù) di Nazaret, che fu ritenuto dai suoi discepoli il «salvatore» annunciato dai profeti dell’Antico Testamento, ovvero il «messia» di Israele (dall’ebraico masiah, corrispondente al greco christòs, ossia «unto» in segno di consacrazione a Dio). Agli occhi di molti non dovette apparire troppo diverso da altri guaritori e falsi messia dell’epoca. Ci fu anche chi vide in lui un potenziale messia politico, che avrebbe avviato una rivoluzione contro i romani invasori. In realtà il nucleo del messaggio predicato da Gesù (in continuità con quanto annunciato dal precursore Giovanni Battista) è l’imminenza del «regno di Dio», inteso come una trasformazione della realtà in base alla giustizia che ciascuno deve essere pronto a esercitare in se stesso e verso gli altri (il «prossimo»). Per questo Gesù invitava ognuno alla penitenza e alla «conversione» (nel greco dei Vangeli metànoia, «cambiamento di mentalità»), ovvero a cambiare il proprio sistema di valori, mettendo al primo posto l’amore reciproco. Gesù visse la propria identità giudaica di fondo rimanendo sempre fedele alla Legge e presentò il proprio messaggio non come sostituzione, ma come compimento della legge mosaica. Gesù, però, orientò la Legge a un profondo rinnovamento dei rapporti interpersonali, ponendo l’accento sulla sincerità, la non violenza e l’amore (non solo verso gli amici, ma anche, paradossalmente, verso i nemici). L’invito di Gesù a superare l’ira, la vendetta e ogni forma di rancore e violenza
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per costruire un’umanità nuova, regolata dall’amore reciproco, è un radicale messaggio di liberazione dell’uomo dall’egoismo e dalle barriere emotive che nascono dal rancore e dall’assenza di amore. Gesù insegna ai suoi discepoli a pensare Dio come un padre amoroso e accogliente per tutti, per questo gli uomini devono, correlativamente, pensare i rapporti interpersonali in termini di uguaglianza e fraternità. Non più la massima antica di far bene agli amici e male ai nemici, ma una nuova prassi di solidarietà verso tutti. La fede si rivela L’adesione che Gesù chiede al proprio messaggio non è solo emotiva, rituale o innella prassi tellettuale, ma deve tradursi in azioni concrete di fratellanza che rendano visibile la fede.
T2
La casa sulla sabbia
Vangelo di Matteo, 7,21 e 26-27
Ribaltamento dei valori correnti
T3
«Beati quelli che…»
Vangelo di Matteo, 5,5-10
Non tutti quelli che dicono: «Signore, Signore!» entreranno nel regno di Dio. Vi entreranno soltanto quelli che fanno la volontà del Padre mio che è in cielo. […] Chi ascolta queste mie parole e non le mette in pratica sarà simile a un uomo sciocco che ha costruito la sua casa sulla sabbia. È venuta la pioggia, i fiumi sono straripati, i venti hanno soffiato con violenza contro quella casa, e la casa è crollata. Alla metànoia, il «cambiamento di mentalità» richiesto ai fedeli, corrisponde la promessa che Dio saprà apprezzare il ribaltamento dei valori correnti. Chi accetta di vivere nella non violenza, nella condivisione, nella sincerità e si fa operatore di pace sembra sconfitto dalle logiche di questo mondo ma viene ricompensato agli occhi di Dio. Gesù lo esprime con grande vigore nel «discorso della montagna». Beati quelli che non sono violenti: Dio darà loro la terra promessa. […] Beati quelli che hanno compassione degli altri: Dio avrà compassione di loro. Beati quelli che sono puri di cuore: essi vedranno Dio. Beati quelli che diffondono la pace: Dio li accoglierà come suoi figli. Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la volontà di Dio: Dio darà loro il suo regno.
Nell’imminenza del regno di Dio, ai seguaci di Gesù era chiesto di rinunciare anche alla propria famiglia e a ogni attaccamento terreno, in primo luogo quello per le ricchezze. Infatti chi vive nell’accumulazione dei beni materiali e nella ricchezza esaurisce la propria esistenza nel presente, non conosce l’amore per il prossimo e si priva così della tensione verso Dio: «Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché un giorno avrete fame» (Vangelo di Luca, 5,24-25). Vendi tutto e seguimi Al giovane ricco che voleva sapere cosa avrebbe reso perfetta la sua fede, visto che già osservava i dieci comandamenti, Gesù rispose: «“Per essere perfetto, vai a vendere tutto quello che hai, e i soldi che ricavi dalli ai poveri. Allora avrai un tesoro in cielo. Poi, vieni e seguimi”. Ma dopo aver ascoltato queste parole, il giovane se ne andò via con la faccia triste perché era ricco» (Vangelo di Matteo, 19,21-22). I beni in comune Non dobbiamo trascurare che le prime comunità cristiane presero sul serio questi insegnamenti, dato che i loro membri «vivevano insieme e mettevano in comune tutto quello che possedevano. Vendevano le loro proprietà e i loro beni e distribuivano i soldi fra tutti, secondo le necessità di ciascuno» (Atti degli apostoli, 2,44-45). Dalla parte degli ultimi Gesù non cercò segni di potenza mondana, ma scelse i suoi discepoli tra le persone umili e, senza curarsi delle tradizionali norme ebraiche su ciò che è puro e ciò che è impuro, passò molto tempo predicando anche a poveri, peccatori e prostitute, insomma alle classi più marginali. Contro la ricchezza
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo A Gerusalemme
La condanna
La resurrezione
Il superamento della morte
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Dopo aver predicato con alterni successi in Galilea (la regione settentrionale della Palestina in cui si trova Nazaret), Gesù scese a Gerusalemme, la capitale. Ma qui si inimicò sia l’autorità religiosa ebraica che la potenza di occupazione romana. La casta sacerdotale ebraica non poteva sopportare i suoi attacchi al formalismo morale dei farisei e dei sadducei (due correnti caratterizzate dall’osservanza stretta della precettistica religiosa tradizionale). I romani invece temevano che la sua insistenza sull’imminenza del «regno» potesse risvegliare nei suoi discepoli un disegno di rivolta politica contro la potenza di invasione. Così, dopo un interrogatorio presso il tribunale religioso ebraico, il Sinedrio, Gesù venne processato, in modo sommario, da un tribunale militare romano presieduto dal procuratore Ponzio Pilato e condannato alla morte per crocifissione (un supplizio capitale tipicamente romano). Questa ‘sconfitta’ di Gesù non indebolì a lungo la fede dei discepoli, che testimoniarono di aver visto nuovamente Gesù, risorto dai morti. Prese forma così, specialmente a opera dell’apostolo Paolo, una teologia della resurrezione, alla luce di cui vennero riletti l’esistenza e il messaggio di Gesù. La sofferenza e la morte persero il carattere di sconfitta, per diventare forme di partecipazione a Cristo, ora ritenuto come colui che ha sconfitto la morte. Così la resurrezione legittimò per tutti i credenti la speranza di poter vivere dopo la morte, salvati dalla fede in Cristo (mentre gli ebrei non credevano nella vita dopo la morte). È da tener presente che, mentre alcune tradizioni greche (come quella pitagorica e quella platonica) sostenevano che immortale è l’anima, una volta liberatasi dal carcere del corpo, il cristianesimo, invece, crede alla resurrezione dalla morte dell’intero individuo, corpo compreso.
Il Nuovo Testamento
Gesù non scrisse nulla. Il suo messaggio è affidato a una raccolta di scritti composti in greco entro il I secolo e raccolti nel Nuovo Testamento: i quattro Vangeli (Matteo, Marco, Luca e Giovanni), gli Atti degli apostoli (anch’essi di Luca), le Lettere (alcune effettivamente di Paolo, altre ascrivibili a tradizioni leggermente posteriori) e l’Apocalisse (attribuita a Giovanni, ma di autore diverso da quello del quarto vangelo). L’ordine cronologico In realtà l’ordine di composizione è diverso. Gli scritti più antichi sono le lettere autentiche di Paolo (la prima ai Tessalonicesi, le due ai Corinzi, ai Filippesi, a Filemone, ai Galati e ai Romani) composte negli anni cinquanta. I Vangeli di Marco, Matteo e Luca, pur basandosi su materiali precedenti, sono stati scritti tra il 65 e l’85 e risultano influenzati dalla teologia paolina della resurrezione (infatti le testimonianze storiche dell’operato di Gesù vengono interpretate teologicamente come preparazione del sacrificio in croce). Sono dell’ultimo decennio del I secolo il Vangelo di Giovanni e l’Apocalisse. Le fonti scritte del cristianesimo
Paolo di Tarso L’universalizzazione del messaggio
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Per quanto l’annuncio cristiano contenga un messaggio di liberazione potenzialmente rivolto a tutta l’umanità, tuttavia l’insegnamento di Gesù aveva avuto luogo esclusivamente entro i confini del mondo ebraico palestinese. Infatti i primi cristia-
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ni erano tutti ebrei che facevano riferimento alla comunità di Gerusalemme e continuavano a osservare i riti ebraici tradizionali. Chi liberò la carica universalistica del messaggio cristiano, rivolgendolo a tutti i popoli, fu Paolo, nato tra il 5 e il 10. Formazione In Paolo si univano formazione religiosa ebraica e formazione culturale greca. Lui e conversione che era stato in gioventù un accanito avversario del movimento cristiano, proprio durante una spedizione punitiva, sulla strada di Damasco, ritenne di aver ricevuto una chiamata divina, simile a quelle dei profeti dell’Antico Testamento, nella forma di una visione diretta di Gesù risorto. Per questo si sentì legittimato al ruolo di «apostolo» (cioè, dal greco, «inviato» ad annunciare il messaggio cristiano), come Pietro e gli altri discepoli diretti di Gesù. Nelle sue lettere, indirizzate alle diverse comunità per regolare contrasti dottrinali, Paolo getta le basi della dogmatica cristiana (il greco dògma significa «dottrina», «insegnamento», ma nel linguaggio ecclesiastico significa «principio di fede certo»).
La vita e le opere Paolo di Tarso nacque tra il 5 e il 10 a Tarso di Cilicia, oggi in Turchia; cittadino romano ebreo, frequentò la scuola del fariseo Gamaliele a Gerusalemme. Mentre partecipava attivamente alle persecuzioni dei cristiani si convertì, nel 38 circa. Da allora compì numerosi viaggi, fondando chiese aperte anche a cristiani di estrazione pagana, e incorrendo in condanne e prigionie. Secondo la tradizione morì
martire a Roma nel 67 circa. Il canone tradizionale attribuisce a Paolo quattordici lettere. Sono sicuramente autentiche: ai Romani, le due ai Corinzi, ai Galati, la prima ai Tessalonicesi, con dei dubbi sulla seconda. Un secondo gruppo, più tardo, comprende: a Filemone e ai Filippesi e, di dubbia autenticità, agli Efesini e ai Colossesi. Un terzo gruppo: le due a Timoteo, a Tito, molto probabilmente non autentiche; è sicuramente non autentica quella agli Ebrei.
Paolo si assunse il compito di portare l’annuncio di Cristo alle genti (cioè ai popoli pagani o «gentili»), fondando in tutto il bacino mediterraneo comunità cristiane nelle quali erano accolti credenti che provenivano sia dalla fede ebraica, sia dal mondo pagano. In contrasto con altri responsabili delle prime comunità cristiane, Paolo insistette che per i non ebrei bastava il battesimo e non erano necessarie la circoncisione e l’assunzione dei precetti rituali e di comportamento che la tradizione ebraica associava alla Legge. In altre parole, si poteva diventare cristiani anche senza essere ebrei. L’essere cristiani, per Paolo, supera ogni privilegio etnico, economico e di genere: «Voi tutti siete figli di Dio per mezzo di Gesù Cristo, perché credete in lui […]. Non ha più alcuna importanza l’essere ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo siete diventati un sol uomo» (Lettera ai Galati, 3,26 e 28). Giustificazione, Nell’Antico Testamento «giusto» è chi osserva la legge di Dio. Nelle lettere ai Ropeccato, grazia mani e ai Galati Paolo, invece, sostiene che l’impegno individuale, le buone azioni, l’osservanza scrupolosa della Legge non servono a rendere l’uomo «giusto» agli occhi di Dio. Ciò che «giustifica» il credente è la fede nella morte e resurrezione di Gesù. Al sacrificio di Cristo, opera della benevolenza divina («grazia»), che offre a peccatori indegni un perdono immeritato, Paolo contrappone il peccato del primo uomo, Adamo: «Adamo da solo, con il suo peccato, ha causato la morte di tutti gli uomini. Dio invece, per mezzo di un sol uomo, Gesù Cristo, ci ha dato in abbondanza i suoi doni e la sua grazia» (Lettera ai Romani, 5,15). Il peccato originale A partire da questa antitesi nascerà la dottrina del «peccato originale», che però sarà formulata solo nel V secolo (come vedremo più avanti), inteso come una colpa dei progenitori i cui effetti ricadono sui discendenti, per cui ogni individuo sarebbe peccatore non solo in ragione del suo effettivo comportamento (peccato «attuale»), ma già all’origine, in quanto essere umano (peccato «originale»).
L’apostolo delle «genti» e l’invito a diventare, tutti, cristiani
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I Vangeli e l’Apocalisse Il termine «vangelo», che deriva dal greco euanghèlion («buona notizia»), indica sia il messaggio di Gesù, sia i testi narrativi che raccolgono il suo insegnamento. I Vangeli sinottici I tre Vangeli attribuiti a Matteo, Marco e Luca presentano una struttura narrativa simile (derivata dalla primitiva redazione di quello di Marco), tanto da poter essere disposti su colonne parallele. Per questo sono detti «sinottici», ovvero che possono essere visti con «un solo sguardo» (è questo il senso del greco sy`nopsis). I principali nuclei narrativi riguardano la nascita di Gesù, la sua predicazione pubblica (dai trent’anni in poi) e il supplizio o «passione». I Vangeli, però, tacciono completamente sugli anni di formazione di Gesù. Il Vangelo di Giovanni Diversa è la disposizione narrativa del Vangelo di Giovanni, che è anche il più teologico e quello in cui si trovano spunti più vicini alla filosofia. Infatti non inizia con gli antefatti terreni della vita di Gesù (come la serie degli antenati o la predicazione di Giovanni Battista), ma con un prologo in cui si proclama la relazione tra Dio «padre» e il suo Lògos (o «Verbo»):
T4
Il Lògos
Vangelo di Giovanni, 1,1-5
In principio era il Lògos e il Lògos era presso Dio e il Lògos era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta.
A queste parole segue l’identificazione del Lògos con Gesù e di Gesù col messia preannunciato da Giovanni Battista. In questo modo la vicenda terrena di Gesù è posta all’interno di una più ampia vicenda cosmica e metafisica: il Lògos che ora si incarna nell’uomo Gesù, manifestandosi come «figlio», è lo stesso Lògos che preesiste eternamente presso Dio e in Dio, ed è il «pensiero-parola» di Dio che si è manifestato dapprima come lògos della creazione (come testimonia la Genesi, libro d’apertura della Bibbia). La ragione universale L’idea del Lògos come ragione universale che regge il cosmo si era già diffusa e gli archetipi nella filosofia stoica ed era passata anche al platonismo tardoantico. In particolare, Filone Ebreo, detto anche di Alessandria, filosofo ebreo di lingua greca attivo nella prima metà del I secolo, che ha combinato l’interpretazione della Bibbia con i concetti del Timeo di Platone, ritiene il Lògos come prima ipostasi derivata da Dio, col ruolo di contenere gli archetipi sui quali è modellata la creazione (vedi Unità 7, p. 438 ss.). Il pensiero di Filone e la teologia del Lògos di Giovanni preparano l’incontro fra Bibbia e platonismo che vedremo all’opera nei «padri della Chiesa» (vedi avanti). Luce e tenebre Il Lògos divino, incarnatosi in Gesù Cristo, offre a ogni persona la possibilità di cambiare la propria esistenza, abbandonando la vecchia vita «secondo la carne» per rinascere nello spirito e tornare così a Dio Padre. Solo nel Vangelo di Giovanni Gesù manifesta apertamente la propria identità con Dio («Io e il Padre siamo una cosa sola», 10,30) e dice di essere la via per il ritorno al Padre («Io sono la via, la verità e la vita», 14,6). Ma non tutti accolgono questo messaggio di salvezza. Di qui la contrapposizione tra luce e tenebre, tra ordine divino e disordine di un mondo dominato dal peccato. Il Lògos e la sua incarnazione in Gesù
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino La teologia del Lògos di Giovanni
Lògos eterno (pensiero di Dio) Dio (Padre)
genera
Figlio
che è
Lògos-parola (con cui Dio ha creato il mondo)
Lògos incarnato in Gesù Cristo
L’Apocalisse: una teologia della storia
➥ Sommario, p. 518
L’ultimo scritto del Nuovo Testamento è diverso da tutti gli altri, anche se rientra in un genere diffuso nella letteratura giudaica. Un’apocalisse è una «rivelazione» (dal greco apokàlypsis) che traduce le dinamiche storico-politiche in un linguaggio fortemente simbolico e ne cerca il senso nascosto. In questo modo le vicende contingenti vengono interpretate sul piano più ampio di una teologia della storia, che mostra l’assoluta signoria di Dio sugli eventi. Attraverso l’uso simbolico di numeri, animali e colori, l’Apocalisse collega la storia passata (la successione dei grandi imperi pagani) con la tensione del presente e con un futuro trionfo sul male ad opera di Cristo ritornato.
I padri della Chiesa
3 I testi
Giustino Seconda Apologia: Ricerca e Lògos, T5
Fede biblica e filosofia greca
Origene Omelie sulla Genesi: Animali allegorici, T6
Tra il II e il III secolo il cristianesimo si diffonde per tutto il mondo greco-romano, entrando a stretto contatto con la cultura classica. Gli autori ecclesiastici dei primi secoli che hanno chiarito e sviluppato le implicazioni teologiche della fede cristiana, vengono chiamati «padri della Chiesa». Nei loro scritti la fede biblica inizia a parlare il linguaggio della filosofia greca. Contemporaneamente la filosofia greca inizia a popolarsi di temi della cultura religiosa giudaico-palestinese. Si costituisce così un’ibridazione che tuttora perdura come ingrediente caratteristico della cultura occidentale. 489
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I padri apologisti
Alcuni autori attivi tra I e II secolo, che indirizzarono le loro opere alle comunità cristiane per spiegare aspetti della dottrina e dare istruzioni pratiche, vengono detti «padri apostolici» (o «subapostolici»), perché continuano l’operato degli apostoli. Le implicazioni filosofiche verranno però alla luce nel II secolo con i padri «apologisti», cioè «difensori» del cristianesimo. Giustificazione Sono quasi tutti intellettuali pagani convertiti al cristianesimo e si impegnarono a giue dialogo stificare la loro scelta di fede con argomenti adatti a detrattori che si erano formati, come loro, nella cultura classica. In un’epoca difficile per le comunità cristiane, prese com’erano tra il fuoco incrociato delle calunnie popolari, del disprezzo degli intellettuali e delle persecuzioni imperiali, i padri apologisti tentarono la via del dialogo.
Giustino: il cristianesimo è la vera filosofia La figura di maggior spicco tra gli apologisti è il filosofo di lingua greca Giustino; egli presenta la sua conversione cristiana non come un rifiuto della razionalità, ma come l’esito della sua ricerca della più vera scuola filosofica. Come egli stesso racconta, dopo peregrinazioni inconcludenti presso le scuole di stoici, peripatetici e pitagorici, approda al platonismo (ovvero al medioplatonismo), di cui ammira la spiritualità, la contemplazione rivolta al fondamento incorporeo e invisibile, il desiderio di unirsi a Dio spogliandosi delle cose del mondo. Ma, una volta avvertiti anche i limiti del platonismo, è solo nel cristianesimo che trova le risposte definitive agli interrogativi che nelle scuole greche hanno ottenuto una risoluzione imperfetta.
La vita e le opere Giustino nacque a Sichem (oggi Nablus) in Palestina da coloni romani nel 100 circa. Platonico per formazione, dopo la conversione aprì una scuola a Roma e qui fu mar-
tirizzato nel 165 circa, sotto l’imperatore Marco Aurelio. Scrisse due Apologie, la prima indirizzata a Antonino Pio e ai figli Marco Aurelio e Lucio Vero, e il Dialogo con l’ebreo Trifone.
Profeti e filosofi ispirati da un unico Lògos
Non deve poi stupire che già i pensatori antichi, non soccorsi dalla rivelazione, si siano talvolta avvicinati in parte alla verità.
T5
Tutto ciò che di buono in ogni tempo hanno affermato e trovato filosofi e legislatori in loro è frutto di ricerca e speculazione grazie ad una parte di Lògos. Ma poiché non conobbero nella sua interezza il Lògos, che è Cristo, hanno anche prodotto affermazioni contraddittorie fra loro […]. Infatti ciascuno di loro ha formulato teorie corrette nella misura in cui ha percepito ciò che è congenito al Lògos seminale divino.
Ricerca e Lògos Giustino, Seconda Apologia, 10 e 13
Parlando di Cristo come Lògos, Giustino non intende solo la sapienza e la parola di Dio, ma anche la razionalità in generale, radice e compimento dell’unica verità che anche i filosofi cercano. Appropriandosi della nozione stoica di «ragione seminale» (lògos spermatikòs, vedi Unità 6, p. 369), l’apologista conclude che quando alcune dottrine dei filosofi antichi hanno espresso una parte di verità, erano mosse da un seme dell’unico Lògos divino. La teologia della storia Con una visione teologica del progresso storico, Giustino vede in Gesù Cristo il punto in cui convergono storia ebraica e storia greca. Quel Lògos di Dio, che si è Lògos e razionalità
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manifestato ai profeti di Israele e che ha ispirato ai sapienti greci quanto di vero hanno espresso nelle loro dottrine, si è ora manifestato compiutamente in Cristo, Lògos incarnato. Non deve sfuggirci che nel momento stesso in cui Giustino presenta il cristianesimo come versione perfetta delle ricerche filosofiche precedenti, da una parte suggerisce l’armoniosa continuità tra sapienza antica e fede cristiana, dall’altra toglie ogni ulteriore spazio di autonomia per ogni filosofia che volesse ancora svilupparsi con strumenti umani, senza radicarsi nella rivelazione religiosa.
Le polemiche contro lo gnosticismo ➥ Laboratorio di lettura, p. 466
Dualismo divino / mondano e illuminazione degli eletti
La divinità suprema e gli eoni
L’eone Gesù Cristo, redentore degli illuminati
Tertulliano e l’antifilosofia
Atene o Gerusalemme?
Il cristianesimo del II secolo non si trovò impegnato solo a rendere comprensibile la propria dottrina a chi era stato educato secondo la cultura greco-romana, ma anche a prendere le distanze da deviazioni dottrinali dall’ortodossia religiosa (o «eresie») e da movimenti spirituali come lo gnosticismo, che aveva elaborato una lettura esoterica e iniziatica anche di elementi cristiani. Il tratto comune delle varie scuole gnostiche è il radicale dualismo tra sfera spirituale e sfera materiale, tra realtà divina e realtà mondana. Questo dualismo si riflette nell’anima umana che, spirituale per sua natura, in seguito a una misteriosa «caduta» originaria, si trova imprigionata nella dimensione corrotta del mondo e della materialità. Solo pochi eletti sarebbero in possesso della «conoscenza» (in greco gnòsis), intesa come illuminazione circa la loro affinità col divino ed estraneità rispetto a questo mondo. Con una ripresa eclettica di elementi di molte tradizioni di pensiero (religioni misteriche, dottrine magiche, Bibbia, qabbalah, «cabala»), gli gnostici affermano che questo mondo materiale non è stato creato dal dio supremo, ma da uno degli enti spirituali intermedi, detti «arconti» o «eoni». Questo dio inferiore, una sorta di demiurgo platonico, che è fatto corrispondere al Dio dell’Antico Testamento, inflessibile e legalistico, non è tuttavia ritenuto il padre del Cristo. In questo modo lo gnosticismo pone non già la continuità di ebraismo e cristianesimo, ma la loro antitesi. La scintilla divina presente nell’anima degli illuminati sarebbe ora chiamata ad accogliere il messaggio di conoscenza dell’eone redentore Gesù Cristo, che, avviando un cammino inverso alla caduta, riporterà gli illuminati nel Plèroma, ossia, dal greco, nella «pienezza» del divino. È da sottolineare che, per gli gnostici, l’eone Gesù non è veramente morto in croce, ma ha lasciato lì a soffrire l’apparenza di corpo materiale che aveva indossato. Lo gnosticismo, che conobbe vasta diffusione in tutto il Mediterraneo nei secoli II e III, ebbe le sue sette, le sue scuole e i suoi maestri (come Basilide, Valentino e Marcione). Alcuni padri apologisti, per opporsi allo gnosticismo e alle altre «eresie», utilizzarono una strategia apertamente anti-filosofica. Tertulliano (160 ca. - 240 ca.), apologista di lingua latina nato a Cartagine e convertitosi al cristianesimo dopo studi di retorica, difese la nuova fede in pagine vigorose e intransigenti. Le eresie, a suo avviso, nascono dai tentativi di razionalizzare i contenuti di fede, che, invece, dovrebbero essere accettati senza giudicare con i parametri di questo mondo. I cristiani hanno i loro maestri nei profeti, gli eretici nei filosofi greci. Con un sapiente gioco retorico di antitesi e anafore, Tertulliano scrive: «Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa l’Accademia e la Chiesa? Che cosa gli eretici e i cristiani? […] Ci pensino quelli che hanno inventato un cristianesimo stoico, platonico e dialettico; a noi […] non serve inda491
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gare dopo il vangelo». Tuttavia è da sottolineare che la posizione antifilosofica di Tertulliano costituisce l’eccezione e non la regola per la patristica greca e latina.
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La scuola di Alessandria: Clemente e Origene Nel III secolo l’ellenizzazione del cristianesimo proseguì e si sviluppò su un piano ancora più teorico nell’ambiente di Alessandria d’Egitto, grande centro culturale cosmopolita, in cui coesistevano giudaismo ellenizzato, cristianesimo e le forme più avanzate di platonismo.
Clemente: la filosofia al servizio della fede Formazione e insegnamento
Clemente, greco di nascita e intellettuale dalla vasta cultura, ad Alessandria si era convertito sotto la guida di Panteno, maestro di una scuola catechetica. Nel 190, alla morte del maestro, gli era succeduto nella conduzione di quella scuola, finalizzata all’educazione dei catecumeni, cioè degli adulti che si preparavano al battesimo, secondo il costume della Chiesa dei primi secoli.
La vita e le opere Clemente Alessandrino nacque in Grecia nel 151; succedette a Panteno nella direzione della scuola catechetica di Alessandria. Nel 211 circa si rifugiò in Cappadocia per
sfuggire alla persecuzione di Settimio Severo; morì nel 215 circa. Oltre a dedicarsi all’insegnamento orale scrisse il Protrettico ai Greci, il Pedagogo, in tre libri, e gli otto libri (l’ottavo incompiuto) noti con il titolo Stròmata.
Nel suo Protrettico ai Greci Clemente invita gli intellettuali pagani ad abbracciare la sapienza cristiana, presentata, sulle orme di Giustino, come la piena realizzazione di ciò che era imperfettamente accennato nella sapienza antica. Nel Pedagogo, opera rivolta a chi già crede, Clemente caldeggia la studio e l’impiego della sapienza greca come strumento per una più profonda comprensione delle verità di fede. Così, per esempio, il peccato può essere inteso, alla luce della psicologia tripartita di Platone, come una ribellione delle parti inferiori dell’anima (vegetativa e desiderativa) all’anima razionale. Oppure Gesù, per avere saputo pienamente dominare la carne che aveva assunto, appare la perfetta realizzazione dell’ideale stoico dell’impassibilità (apàtheia). La funzione ancillare Questa idea che la filosofia sia uno strumento per la comprensione delle verità di fede sarà spesso richiamata dalla cultura medievale con la formula philosophia ancilla theologiae: la filosofia è ancella della teologia. Clemente delinea inoltre un modello a due livelli della formazione cristiana: l’assenso della fede, che pone nella verità e dà a tutti il giusto orientamento morale; l’approfondimento dottrinale del dato di fede, che spetta ai più dotati. Poiché non mancavano ad Alessandria cristiani che criticavano Clemente per la sua filosofia cristiana e, anzi, vedevano nella filosofia il germe di tutte le deviazioni eretiche, egli scrisse gli Stròmata, un’opera eruditissima di teologia del Lògos, in cui sono passate in rassegna tutte le prefigurazioni greche delle verità bibliche. Lo scopo è mostrare che l’autentica sapienza antica, ispirata dall’unica ragione divina universale, non nutre gli gnostici, ma anticipa la fede cristiana. La sapienza greca strumento di comprensione delle verità di fede
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Origene: l’interpretazione organica della Bibbia Formazione e insegnamento
Ad Alessandria si formò un’altra figura di straordinaria statura intellettuale: Origene, un interprete biblico e teologo, che alla conoscenza profonda di tutta la filosofia greca unì quella delle tradizioni esegetiche giudaiche e del pensiero di Filone. Origene, che probabilmente frequentò anche la scuola del platonico Ammonio Sacca (dove avrebbe studiato anche Plotino), insegnò nel Didaskalèion, una scuola catechetica cristiana e, successivamente, fondò una nuova scuola a Cesarea.
La vita e le opere Origene nacque ad Alessandria nel 185 circa; figlio di un cristiano martirizzato nella persecuzione dell’imperatore Settimio Severo (202-203), insegnò a lungo nella città natale prima di venir condannato dal clero egiziano per esser stato nominato irregolarmente sacerdote e ritirarsi a Cesarea di Palestina, dove nel 230 circa fondò un’altra scuola. Al tempo delle persecuzioni di Decio venne arre-
L’interpretazione biblica
Significato letterale e spirituale Tipologico Morale Anagogico
Un’interpretazione allegorica
T6
Animali allegorici
Origene, Omelie sulla Genesi, 1,8
stato (250) e, non volendo rinnegare la propria fede, morì in seguito alle torture nel 253 circa. Delle ottocento opere che avrebbe composto, molte sono andate perdute in seguito alle condanne ecclesiastiche. Tra quelle rimasteci, ricordiamo gli Scoli, le Omelie e i Commentari alla Bibbia, Sui principi, in quattro libri, Contro Celso, in otto libri, e la Hèxapla (Bibbia ebraica e traduzione greca su sei colonne parallele), di cui ci sono giunti dei frammenti.
Origene è stato il primo padre cristiano ad applicarsi con un metodo organico all’interpretazione biblica. Non solo ne ha offerto una prova nelle Omelie e nei Commentari (purtroppo sopravvissuti solo in parte), ma ne ha anche sistematizzato teoricamente i criteri in un metodo che sarà osservato per tutto il Medioevo. Si tratta della distinzione tra due livelli (non antitetici, ma complementari) nel testo biblico: il significato letterale e il significato spirituale. Quest’ultimo si articola in tre significati: 1) significato tipologico, per cui gli eventi dell’Antico Testamento sarebbero prefigurazione di quelli del Nuovo Testamento; 2) significato morale, per cui gli eventi biblici sono riferibili anche alla lotta interiore tra il bene e il male; 3) significato anagogico (da anagoghè, «elevazione, induzione»), ossia di elevazione dell’anima alla contemplazione delle realtà divine. In questo modo anche gli episodi dell’Antico Testamento culturalmente più remoti, una volta liberati dal letteralismo, possono essere letti in chiave cristiana o come allusione a più profonde verità teologiche. L’interpretazione spirituale della Bibbia attraverso l’allegoria è forse il tratto più caratteristico del metodo di Origene. Un breve esempio dalle Omelie sulla Genesi può rendere l’idea: Origene commenta il passo relativo alla creazione di volatili e pesci nel quinto giorno. «E Dio disse: producano le acque rettili di anime vive e volatili volanti sopra la terra, lungo il firmamento del cielo. E così fu» [Genesi, 1,20]. Secondo la lettera, per il comando di Dio sono prodotti dalle acque «rettili» e «volatili» […]; ma consideriamo come queste stesse cose avvengano nel firmamento del nostro cielo, cioè nella solidità della nostra anima e del nostro cuore. Ritengo che, se la nostra anima sarà illuminata dal nostro sole, che è Cristo, in seguito verrà il comando di produrre dalle acque che sono in lei «rettili» e «volatili volanti», cioè di far emergere in piena luce i pensieri buoni e i pensieri cattivi, affinché vi sia il discernimento fra quelli buoni e quelli cattivi, che, entrambi, procedono dal cuore. 493
Int let es
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Il male e la salvezza Il trattato Sui principi e l’indagine concettuale sulla verità
Il bene originario
La caduta nel male
Nuovi cicli cosmici
Salvezza e apocatàstasi
3 Le comunità nell’impero
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L’interpretazione allegorica del testo biblico è finalizzata a trovare le verità morali e teologiche riposte sotto il livello letterale. Ma l’ulteriore compito del teologo è indagare concettualmente queste verità. È quanto Origene fa nel trattato Sui principi (Perì archòn), il cui titolo, che richiama le archài della filosofia antica, si riferisce sia ai principi del sapere, sia a quelli della realtà. Non si deve pensare, però, che quest’opera presenti un sistema di teologia dogmatica. La dogmatica cristiana in questo periodo è in via di formazione e il Perì archòn di Origene più che una cattedrale di dogmi è un cantiere di ricerche e ipotesi teologiche. Sono di particolare interesse le pagine sulla creazione e quelle sul diverso ruolo delle tre persone della Trinità. Ma in quest’opera anche un pagano colto avrebbe trovato, trattati col suo stesso linguaggio, temi come la natura del corpo e dell’anima, o l’inizio del mondo e della materia, o, ancora, il libero arbitrio. Contro la visione gnostica di un mondo intrinsecamente malvagio e di un destino di illuminazione e salvezza per pochi, Origene ribadisce che tutto il creato è intrinsecamente buono e che anche la scelta tra il bene e il male dipende dalla libera volontà degli agenti razionali (uomini e angeli). Tutte le creature in origine sono nel bene di Dio che le ha create. Ma, mentre in Dio il bene è costitutivo della sua stessa essenza, le creature posseggono il bene in modo accidentale, ovvero non lo hanno per loro natura, ma lo ricevono da Dio, dunque possono anche abbandonarlo. La «caduta» nasce da un peccato di orgoglio di quelle creature che vogliono affermare la propria individualità allontanandosi dalla fonte stessa del bene (come hanno fatto anche Lucifero e gli altri angeli ribelli). Ora «allontanarsi dal bene non è altro che cadere nel male, poiché il male è mancanza di bene». Che il male non abbia una sua realtà sostanziale ma sia piuttosto un’assenza (di bene o di essere) è una nozione che Origene condivide col neoplatonismo coevo di Plotino e che Agostino diffonderà nel mondo latino. Una delle dottrine più impressionanti di Origene, avanzata come ipotesi e non come dogma, nasce da una ripresa del tema stoico dei cicli cosmici, depurato del necessitarismo immutabile: l’intera realtà, una volta compiuto tutto il suo ciclo, si ridisporrebbe nelle condizioni di partenza e ripartirebbe, lasciando però ai singoli individui la possibilità di compiere scelte diverse rispetto al ciclo precedente. Il fine è l’apokatàstasis pànton, la «reintegrazione di tutte le cose» in Dio. Gli uomini (come tutte le altre creature razionali, cioè quelle angeliche buone e cattive, Satana compreso) ridurrebbero la loro distanza da Dio espiando il peccato in una serie di vite in cicli successivi di realtà. In questo modo il tempo ciclico greco viene inscritto nel tempo lineare cristiano del ritorno a Dio. Proprio per l’idea che il ciclo caduta-redenzione e l’incarnazione e sacrificio di Cristo si ripetano più volte, la dottrina dell’apocatàstasi, che i seguaci di Origene hanno professato con convinzione, sarà condannata in concili ecclesiastici dei secoli seguenti, anche se continuerà a esercitare la sua influenza.
Impero e ortodossia nell’età dei concili L’opera svolta fin qui dai padri della Chiesa era riuscita a rendere il cristianesimo compatibile con la cultura ellenistica dell’impero. Tuttavia i cristiani mante-
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L’editto di Costantino (313): verso il cristianesimo religione di Stato
nevano una fondamentale estraneità politica rispetto ai valori imperiali. Le comunità cristiane, che ormai avevano sviluppato un reticolo organizzativo sotto la guida dei vescovi, apparivano sempre più come uno Stato nello Stato, una società tenuta insieme non da vincoli di nazionalità, ma da un insieme di convinzioni religiose, una società dominata dalla gerarchia del clero, ma che univa persone di tutte le classi sociali, una società che, in seguito a donazioni, aveva acquistato anche un notevole peso economico. Di qui nascono le persecuzioni di Decio (250), Valeriano (257-258) e Diocleziano (303-304). La svolta decisiva avvenne con l’editto di Milano del 313 con cui l’imperatore Costantino riconosceva pieni diritti alla nuova religione, che si configurerà progressivamente come religione di Stato. Iniziò così una nuova epoca di rapporti tra Chiesa e Stato. L’autorità imperiale cominciò a svolgere azione repressiva non più contro i cristiani, ma contro i pagani. Il cristianesimo si diffuse, sviluppò le sue strutture e definì la propria ortodossia in una lunga stagione di controversie dottrinali.
I concili e l’arianesimo nel IV secolo Il concilio di Nicea (325): la ricerca della pace religiosa
Il risultato: il «Credo»
Ario e il rapporto ontologico tra Gesù e il Padre
La condanna dell’arianesimo
La ripresa ariana
Diocleziano aveva suddiviso l’impero romano in una metà di lingua latina a occidente e una metà di lingua greca a oriente. Costantino, che aveva fissato la capitale d’Oriente a Bisanzio, ribattezzata in suo onore Costantinopoli, nel 325 convocò nella vicina località di Nicea un «sinodo» (o «concilio») generale di vescovi, provenienti da tutte le regioni dell’impero (ma non venne il vescovo di Roma, che era troppo anziano e, in generale, su circa duecentocinquanta partecipanti, solo cinque vescovi erano occidentali). Costantino si attendeva dal concilio un risultato politico, ossia una pace religiosa ottenuta uniformando la dottrina in un’ortodossia valida in ogni parte dell’impero. Ne nacque il «Credo», sintesi dogmatica (più che preghiera), che, in una forma un po’ modificata, ancora oggi tutte le Chiese cristiane professano. Il punto chiave era stabilire in che senso Gesù è divino, dunque se è uguale o inferiore al Padre. Ario (256-336), un influente prete di Alessandria, sosteneva la tesi dell’inferiorità: Dio, ente unico e indivisibile, non può condividere la propria essenza (ousìa) con altri; anche il Figlio, dunque, non ha la stessa natura del Padre, ma è la prima creatura, perfetta, attraverso la quale tutte le altre sono state create. Ne consegue che non è stato Dio a incarnarsi, morire e risorgere. Questa dottrina di Ario (arianesimo), che si era diffusa in molte Chiese d’Oriente, fu condannata a Nicea. Il Credo, infatti, stabilisce che Gesù Cristo, il Lògos, è «generato, non creato», ed è «della stessa essenza del Padre» (homooùsios to patrì), o «della stessa sostanza del Padre», come dice la liturgia ricalcando il latino consubstantialis. I seguaci di Ario non accettarono le decisioni di Nicea: dire che il Figlio e il Padre hanno la stessa essenza sembra implicare che i due non siano veramente distinti, ma solo due aspetti della stessa realtà. Sostenuti dall’imperatore Costanzo, figlio di Costantino, stabilirono che il Figlio è, piuttosto, «di essenza simile al Padre» (homoioùsios to patrì). Anche sotto i successori di Costanzo, fatta eccezione per il breve regno di Giuliano, che tentò di restaurare il paganesimo, l’arianesimo si attestò come la forma di cristianesimo ufficiale dell’impero. Rimanevano tuttavia molte comunità in linea col «Credo» di Nicea. 495
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo Il concilio di Costantinopoli (381): una sostanza, tre persone
L’imperatore Teodosio cercò di riportare la concordia con un nuovo concilio a Costantinopoli (381), dove si stabilì che c’è una sola essenza per il Padre, il Figlio e anche per lo Spirito Santo (il Nuovo Testamento su questo non si pronuncia mai esplicitamente e anche i primi padri non avevano idee chiare al riguardo). La formula dogmatica era «una ousìa e tre ipostasi» o, in latino, «una substantia, tres personae», e serviva a riconoscere uguale divinità a tutte e tre le persone della Trinità.
Cristologia e ortodossia nel V secolo Le controversie cristologiche: le tesi monofisite e adozioniste
I concili di Efeso (431) e Calcedonia (451): due nature, una persona
Ortodossia, eterodossia, lessico
Il IV secolo era stato dominato dai dibattiti trinitari. Nel corso del V secolo divamparono le controversie cristologiche. Il problema era stabilire il rapporto tra umanità e divinità di Gesù. Per salvaguardare il primato del Lògos alcuni sostenevano che ad agire è sempre e solo il Lògos, che si sarebbe appropriato della carne di Gesù; così nel Lògos incarnato ci sarebbe una sola natura, quella divina. Questo non significava negare l’umanità di Cristo. Solo che si rifiutava di considerarlo uomo per essenza. Queste dottrine sono dette «monofisite», dal greco monè e phy`sis, «una sola natura», ossia quella divina. Altri teologi, invece, privilegiavano l’umanità di Gesù, sostenendo che era stato un semplice uomo adottato da Dio per svolgere il suo ruolo di messia. Questa tesi è detta «adozionista». Entrambe le tendenze nascevano dalla preoccupazione di non mescolare la trascendenza del Lògos con la particolarità dell’uomo Gesù di Nazaret. La dottrina ortodossa finale, fissata nei concili di Efeso (431) e Calcedonia (451), stabilisce che Cristo ha due nature (divina e umana) ma una sola persona. Lo stesso concetto di hypòstasis o persona (principio di identità individuale), che nelle definizioni trinitarie aveva articolato in tre la natura unica di Dio, serve ora a far convergere in unità le due nature di Cristo. I concili ecumenici hanno fissato progressivamente l’ortodossia attraverso definizioni dogmatiche. Questo non significa che tutte le comunità cristiane accettarono le decisioni conciliari, tant’è vero che ancora oggi esistono Chiese nestoriane (dal nome del patriarca di Costantinopoli Nestorio) o monofisite eredi dei partiti perdenti ai concili. La stagione dei concili, inoltre, ha trasformato parte del lessico filosofico. Infatti, termini come «ousìa», «natura», «ipostasi», «persona» hanno mutato il loro significato proprio in virtù dell’utilizzo tecnico che se ne era fatto in sede teologica.
I padri cappàdoci
Basilio, vescovo e teologo
Gregorio di Nissa, filosofo delle verità rivelate
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Nel IV secolo le figure di maggior rilievo della teologia di lingua greca sono Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa (padri originari della Cappadocia, una regione interna dell’Asia Minore, oggi in Turchia). Basilio (330 ca.-379) fu un energico vescovo e un coltissimo teologo. Come vescovo si impegnò a favore delle masse proletarie strette nella povertà dallo sfruttamento dei latifondisti e da un sistema iniquo di prelievo fiscale. Inoltre, con le sue due Regole, fondò il monachesimo cristiano orientale, ancor oggi detto «basiliano». Nelle sue Omelie sui sei giorni della creazione, il racconto biblico è analizzato e dettagliatamente confrontato con le dottrine cosmologiche e biologiche greche. Gregorio di Nissa (335 ca. - 395 ca.), fratello di Basilio, è il più filosofo dei padri cappàdoci, sempre alla ricerca di una traduzione concettuale delle verità ri-
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L’anima spirituale a immagine di Dio
Il peccato e la sessualità
➥ Sommario, p. 518
velate della fede cristiana. Questo è senz’altro evidente nel trattato Sulla costituzione dell’uomo, in cui, attraverso un confronto fra tradizioni biblica, platonica e stoica, discute della natura umana e cerca di chiarire in che senso l’uomo è stato creato «a immagine di Dio», il rapporto tra natura e soprannatura, il rapporto tra anima e corpo, il problema della materia e del male. L’idea fondamentale dell’opera è che l’uomo, culmine della creazione, è sintesi di terrestre e divino. La sua grandezza non consiste nell’essere un microcosmo, che assommi tutto ciò di cui è costituito l’universo. Una simile perfezione coinvolgerebbe solo il nostro livello fisico, comune con gli animali. La grandezza dell’uomo si rivela piuttosto nell’anima spirituale, in cui siamo «a immagine di Dio». Gregorio ipotizza che in origine Dio avesse concepito solo un uomo perfetto e spirituale, senza differenza di sesso. Solo dopo il peccato l’uomo avrebbe acquisito la dimensione animale, sessuata e soggetta alla generazione e alla corruzione. Questa dottrina del primato dell’uomo spirituale e ideale pone Gregorio nel solco del platonismo.
Agostino
4 I testi
Agostino Confessioni: La non-sostanzialità del male, T7; Il metodo dell’interiorità, T9 Musica: L’anima agisce su ciò che il corpo subisce, T8 La vera religione: La verità dimora nell’uomo interiore, T10
Sintesi di cristianesimo e neoplatonismo
La città di Dio: Due amori, due città, T11; Una banda di pirati su larga scala, T12 Il libero arbitrio: La volontà buona, T13 La natura e la grazia: La giustificazione viene da Dio, T14
Agostino, il maggiore dei padri della Chiesa di lingua latina, è una delle grandi figure del pensiero occidentale. Tra IV e V secolo, in un mondo tardoantico in cui le fonti filosofiche tradizionali venivano ripensate in ottica cristiana, Agostino ha elaborato una potente sintesi di cristianesimo e neoplatonismo. Nella sua prosa latina molto personale la consumata abilità retorica si unisce a un’inconsueta capacità di introspezione, come avviene nelle sue Confessioni, in cui il dialogo con Dio e la riflessione teologico-metafisica scaturiscono dall’analisi interiore e autobiografica. Agostino non è un pensatore sistematico e nelle sue opere torna continuamente su temi fondamentali con tormentati e appassionati approfondimenti. La Chiesa cristiana ha visto in lui una guida autorevole e la teologia successiva non ha potuto fare a meno di misurarsi costantemente con le sue idee. Ma anche la filosofia ha avuto da Agostino formulazioni innovative su temi come il male nell’universo, il senso della storia, l’analisi interiore, la distinzione tra tempo interiore e tempo oggettivo. 497
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
1 I tre periodi
Il percorso biografico e intellettuale I motivi principali del pensiero agostiniano si rispecchiano nelle tappe della sua biografia umana e intellettuale, che può essere suddivisa in tre grandi periodi: giovanile, della conversione, dell’episcopato.
Il periodo giovanile Gli studi di retorica
La scoperta della filosofia
Il manicheismo
Le letture
L’insegnamento a Cartagine, Roma, Milano
La Nuova Accademia
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Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste in Numidia (oggi in Algeria, allora nell’Africa romana), da una famiglia di piccoli proprietari agricoli. Il padre, Patrizio, gli fece frequentare le migliori scuole di Tagaste e Madaura, dove seguì quel percorso letterario-retorico preparatorio a una carriera come giurista o funzionario pubblico. Qui Agostino si formò interamente su autori latini (del greco arrivò a conoscere solo i rudimenti). Alla morte del padre (371) il ricco Romaniano si accollò le spese per fargli concludere gli studi di retorica e diritto a Cartagine. Agostino aveva iniziato a convivere con una donna (una relazione destinata a durare per quasi quattordici anni, dal 370 al 384) e da lei ebbe un figlio, Adeòdato. Nel 373 un Agostino diciannovenne, che ha completato gli studi, ma non ha ancora iniziato l’attività professionale, scopre la propria vocazione filosofica leggendo l’Hortensius di Cicerone (un’opera per noi perduta, di genere ‘protrettico’, ossia una esortazione a dedicare la vita alla filosofia). In un primo tempo credette di aver trovato una risposta ai suoi interrogativi nel manicheismo. Questo movimento religioso (fondato dal principe persiano Mani nel III secolo d.C.) esasperava i temi dell’antica religione di Zoroastro (o Zarathustra), in particolare il contrasto tra regno della luce e regno delle tenebre (o principio del bene e principio del male). Come lo gnosticismo, riteneva che soltanto i propri adepti fossero autenticamente illuminati, consapevoli e preparati a un grande evento cosmico che avrebbe cancellato questo dualismo. In questi anni Agostino compie inoltre letture filosofiche vere e proprie (le Categorie di Aristotele e trattati di arti liberali). Inizia anche a leggere la Bibbia, in traduzioni latine anteriori alla Vulgata di Gerolamo (ossia la traduzione latina, dall’ebraico, dell’Antico Testamento, realizzata all’inizio del V secolo), ma rimane deluso, perché la trova inelegante nello stile e ingenua nei contenuti. L’interesse filosofico-religioso del neofita manicheo non aveva interrotto l’attività professionale del retore. Agostino insegnò con successo a Cartagine e a Roma, dove si era trasferito con la madre Monica e con la concubina. La carriera di Agostino sembra inarrestabile: anche grazie alle raccomandazioni di influenti amici manichei riesce a superare una selezione per diventare professore di retorica a Milano. In questa città, sede della corte imperiale, cerca la realizzazione professionale ed economica, progettando di sposare una donna dalla dote cospicua (come racconta in Confessioni, 6). E tuttavia fin dall’inizio del soggiorno in Italia qualcosa è entrato in crisi: la sapienza dei manichei non resiste ai suoi interrogativi filosofici e si rivela costruita in modo rigido e dogmatico. Agostino è profondamente insoddisfatto e così, dopo quasi dieci anni di adesione al manicheismo, si avvicina alle posizioni scettiche della cosiddetta «Nuova Accademia» (quella di Carneade e Filone di Larissa; vedi Unità 6, p. 391 ss.), che conosce dalle opere di Cicerone.
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Il periodo della conversione L’incontro con Ambrogio e la lettura allegorica della Bibbia
La svolta esistenziale e culturale
La preparazione filosofica a Cassiciàco
Il battesimo
L’estasi di Ostia
Agostino arrivò a Milano nel 384, come professore di retorica, ma qui fece un incontro decisivo, quello col vescovo Ambrogio, di cui ascolta le prediche profondamente intrise di motivi neoplatonici. Anche Ambrogio (339-397) è un figura significativa di questo mondo che cambia: educato sui classici greci e latini, senatore, avvocato, alto funzionario imperiale, solo all’età di trentacinque anni, nel 374, era entrato nel sacerdozio, su sollecitazione del popolo milanese che lo aveva acclamato vescovo (una pratica impensabile per noi oggi, ma non inusuale allora). Nelle difficili controversie con gli ariani e nei contrasti tra vita ecclesiastica e potere imperiale, aveva saputo governare la Chiesa milanese con fermezza. Era un vescovo stimato e popolare, ma anche un raffinato esegeta biblico, a conoscenza degli ultimi sviluppi della patristica greca. Da Ambrogio Agostino imparò a interpretare la Bibbia in chiave allegorica, ad andare oltre il velo della lettera (che può sembrare grossolano o assurdo), per scoprire il senso spirituale profondo. Nel 385 Agostino lasciò la concubina, si fece catecumeno e si ritirò con alcuni amici a studiare. Ma a studiare che cosa? Non la Bibbia, come potremmo credere, ma i «libri platonicorum» («libri dei platonici»), vale a dire opere di Plotino e Porfirio (probabilmente nella traduzione latina di Mario Vittorino, un celebre retore, anch’egli di origine africana, che nel 355 si era convertito al cristianesimo). Ed è qui che muta radicalmente il suo orientamento esistenziale e culturale, con una definitiva conversione dalla retorica alla filosofia di tradizione platonica, che anticipa e prepara la conversione al cristianesimo dell’anno successivo. La ‘conversione’, o meglio il ritorno pieno e consapevole alla religione cristiana in cui l’ha allevato la madre, avviene nel 386. Agostino decise ancora una volta di lavorarci sopra filosoficamente; così si ritirò, con la madre, il figlio e alcuni amici, nella villa di un amico a Cassiciàco (forse l’attuale Cassago in Brianza o Casciago di Varese), dove visse in chiave cristiana l’ideale classico dell’ozio letterario e scrisse una serie di dialoghi filosofici, quasi ciceroniani, come Contro gli Accademici, La felicità e L’ordine. Nel 387, dopo aver scritto l’Immortalità dell’anima, finalmente ricevette il battesimo da Ambrogio e decise di ritornare in Africa per dedicarsi allo studio e alla meditazione. La partenza però non fu immediata (la stagione invernale e la chiusura dei porti per motivi militari la ritardarono di quasi un anno). Nel lungo periodo di attesa trascorse con la madre a Ostia alcuni giorni di intense conversazioni spirituali, che culminarono in una vera e propria esperienza di estasi spirituale e filosofica (raccontata nel IX libro delle Confessioni). La madre, però, morirà prima della partenza. In questi mesi scrive La grandezza dell’anima e il I libro del Libero arbitrio.
Il periodo dell’episcopato Nel settembre 388 Agostino fece finalmente ritorno in Africa, a Tagaste, vendette i propri beni e diede vita con gli amici più stretti a una comunità religiosa. Di questi anni sono opere come Il maestro, i libri II-III del Libero arbitrio e La vera religione. Sacerdote e vescovo La Chiesa locale non ci mise molto a notare questo intellettuale, che, recatosi a Ippona a Ippona (l’attuale Annaba, in Algeria) per fondare una comunità monastica, Il ritorno in Africa
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
venne dapprima convinto a farsi prete (391), per aiutare nella predicazione il vescovo Valerio; poi, alla morte di Valerio (395), venne fatto egli stesso vescovo. Così gli ultimi trentacinque anni della sua vita, anziché trascorrere nella meditazione, si intrecciano alle vicende della Chiesa cristiana d’Africa e buona parte delle posizioni teoriche nasceranno come reazioni polemiche contro posizioni giudicate eretiche (come quelle dei manichei, dei donatisti e dei pelagiani). Ancora negli ultimi anni della sua vita Agostino guidò con grande fermezza morale la sua comunità, mentre Ippona era assediata dai vandali. Morì il 28 agosto 430. Pochi mesi dopo la sua morte Ippona venne espugnata dai vandali di Genserico. Le grandi opere Nell’ultima fase della sua vita (dal 395 alla sua morte nel 430) Agostino vescodella maturità vo scrisse alcune delle sue opere più importanti. Possiamo citare la Dottrina cristiana; le Confessioni, in tredici libri iniziati nel 397 e terminati nel 400; la Trinità; La città di Dio, in ventidue libri, che è una meditazione teologica e filosofica sulla storia, sui valori cristiani e quelli pagani, composta all’indomani dello sconvolgente sacco di Roma compiuto dai visigoti di Alarico nel 410.
La vita e le opere Agostino nacque nel 354 a Tagaste; la sua vita può essere suddivisa in tre periodi. 1) Il periodo giovanile (354383), in cui si interessò alla filosofia in seguito alla lettura dell’Hortensius di Cicerone, aderì al manicheismo per nove anni (373-382), insegnò retorica a Cartagine e a Roma (383), poi, deluso, assunse una posizione scettica. 2) Il periodo della conversione (384-387), religiosa (al cristianesimo) e filosofica (al neoplatonismo), stimolata dall’incontro con Ambrogio, a Milano (384). È di questo periodo il ritiro filosofico a Cassiciàco (386) e la composizione delle prime opere. 3) Il periodo dell’episcopato (388-430): nel 388 ritornò in Africa dove venne coinvolto sempre più nella vita ecclesiastica con importanti ruoli pastorali (venne ordinato sacerdote nel 391 e
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vescovo nel 395); si impegnò in polemiche antieretiche con i donatisti e i pelagiani e scrisse le sue opere maggiori. Morì nel 430 a Ippona. Delle sue opere ricordiamo: Contro gli Accademici (386-387), La felicità (386-387), L’ordine (386-387), I soliloqui (386-387), Immortalità dell’anima (387), La musica (387-391), Il libero arbitrio (387/388-ante 395), Sulla genesi contro i Manichei (388-391), La vera religione (389-391), Sul battesimo contro i Donatisti (400-401), Confessioni (tredici libri, 397-401/403), La natura e la grazia (413-415), La Trinità (quindici libri, 399-post 420), La città di Dio (ventidue libri, 413-ante 427), La grazia e il libero arbitrio (426), Ritrattazioni (426-427), i Discorsi (391-430), Contro Giuliano (429-430).
Credere e sapere
Per Agostino fede e ragione, rivelazione biblica e indagine filosofica, non si oppongono, ma si implicano vicendevolmente; nasce infatti dalla nostra ragione la spinta iniziale a conoscere la verità, a comprendere come stanno le cose. Quando poi, però, ci rendiamo conto di non esserne pienamente capaci, la rivelazione ci soccorre insegnandoci quei contenuti ai quali non possiamo arrivare razionalmente. Entrano così in gioco il credere e la fede (cioè, dal latino fides, la «fiducia» nella testimonianza autorevole della Scrittura e della tradizione ecclesiastica). Ma in questo modo si apre per noi anche la possibilità di una più alta comprensione intellettuale delle ragioni della fede. Capire per credere, Questa reciproca implicazione di fede e razionalità può essere compendiata dalle forcredere per capire mule «capisci per credere» (intellige ut credas) e «credi per capire» (crede ut intelligas). In altre parole: «ci sono cose che se non le comprendiamo non le crediamo; altre che se non le crediamo non le comprendiamo» (Commento ai Salmi, 118,18,3). Fede e ragione
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino
La comprensione intellettuale delle ragioni della fede è cercata da Agostino mettendo al servizio della sapientia christiana i più avanzati strumenti concettuali delle diverse tradizioni filosofiche e delle arti liberali. Nella Dottrina cristiana (iniziata nel 396 e completata nel 427) Agostino perfeziona un programma già delineato dai primi padri della Chiesa: un’ideale riforma del sapere, in cui gli elementi della cultura classica rivestono importanza solo nella misura in cui si rivelano compatibili col messaggio cristiano. Le conoscenze liberali non vanno perseguite per se stesse (ciò sarebbe espressione di vana curiositas), ma in quanto possono essere riassorbite all’interno della sapientia christiana. Nelle parole di Agostino: «Se poi quelli che vengono chiamati “filosofi”, e in particolare i platonici, hanno per caso detto cose vere e consone alla nostra fede, non soltanto non dobbiamo temerle ma dobbiamo rivendicarle per noi, togliendole a loro che ne sono ingiusti possessori» (2,55,60). Come gli ebrei Agostino esprime questo programma di subordinazione con un’analogia: nel sercon le ricchezze virsi degli elementi migliori della cultura pagana, separandoli dagli errori, il criegiziane stiano fa come gli ebrei all’epoca della schiavitù in Egitto, che aborrivano le tasse pesanti imposte dagli egiziani, ma non esitarono a impadronirsi delle loro ricchezze quando riuscirono a fuggire.
La cultura classica al servizio del cristianesimo
3 Natura e origine del male
Disegno divino e ordine della realtà
La scala dell’essere: dalla pienezza alla povertà
Il male come privazione
Il giovane Agostino: l’ordine, il male e la felicità Per evitare di attribuire al Dio supremo la responsabilità del male, il manicheismo postulava due principi originari contrapposti, quello del bene e quello del male. Una volta abbandonata l’impostazione manichea, Agostino doveva elaborare una spiegazione del male alternativa, che fosse compatibile con l’esistenza di un unico Dio buono, onnipotente e provvidente. Se Dio è buono e creatore dell’intera realtà, c’è da chiedersi «da dove venga il male» (unde sit malum). Ma per rispondere a questo interrogativo bisogna capire qual è la natura del male (quid sit malum). In un’ottica neoplatonica il mondo non nasce dalla contrapposizione di due principi equipotenti. C’è, piuttosto, un ordine in cui realtà intelligibile (o spirituale) e realtà sensibile (o corporea) promanano dall’unica fonte dell’essere e del bene. La realtà intelligibile, che non è vincolata all’estensione o distribuzione nello spazio, è presente a tutto il mondo corporeo, al quale dà ordine e forma. Nel neoplatonismo cristianizzato di Agostino ciò si traduce in una compenetrazione tra disegno divino e ordine delle creature. Proprio perché voluta dalla pienezza della bontà di Dio, ogni creatura è buona per il solo fatto di esistere. Ma ciò non toglie che alcune creature siano migliori di altre. La realtà corporea rivela, infatti, un ordine che è digradazione progressiva di forma e di essere: ciò che è più in alto nell’ordine della realtà è più buono, in quanto più pieno di forma e di essere, mentre ciò che è in basso non è intrinsecamente malvagio, ma è povero di forma e di essere. Di qui nasce la concezione del male non come sostanza, ma come privazione (il latino privatio ricalca il greco stèresis, nel senso di «mancanza»). Nessuna creatura è intrinsecamente malvagia, ma, certamente, le creature che stanno più in basso nella scala dell’essere sono meno buone delle altre. Questo ‘male ontologico’ è in realtà una «privazione di bene» (privatio boni) o una «assenza di bene» (defectus boni), cioè una relativa mancanza di bontà, di forma e di essere. 501
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo Ciò che esiste è buono in diverse gradazioni
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La nonsostanzialità del male
Agostino, Confessioni, 7,12,18
In questo modo anche il male, inteso come relativa privatio boni, entra a far parte dell’ordine armonioso dell’universo ed esprime la digradazione di essere richiesta dall’ordine stesso della realtà. Tutto ciò che esiste è buono, sia pure in gradazioni diverse. Non è male nemmeno la materia informe, che, in quanto capace di ricevere la forma, è anch’essa un bene creato da Dio. E mi fu chiaro che le cose che si corrompono sono buone, giacché non si potrebbero corrompere né se fossero sommamente buone, né se non fossero buone: se fossero infatti sommamente buone, sarebbero incorruttibili; e se non fossero affatto buone, non vi sarebbe in esse nulla di corruttibile. La corruzione infatti è un danno, ma non vi è danno senza diminuzione di bene. Perciò, o la corruzione non danneggia, il che non può essere, oppure, com’è certissimo, tutte le cose che si corrompono sono private d’un bene. Se però fossero private di tutto il bene, non sarebbero affatto. Se invece fossero e non potessero corrompersi, sarebbero migliori, perché resterebbero incorruttibili. […] Perciò, quali che siano, sono buone, e quel male di cui mi chiedevo di dove venisse, non è una sostanza, perché, se fosse una sostanza sarebbe buono.
Dunque l’esistenza in generale è un bene, anche se l’essere delle creature non può essere pieno e perfetto (altrimenti sarebbero come Dio). Proprio questa limitazione di essere, che è propria di ogni creatura in quanto tale, è la causa di malattie e sofferenze, le quali sono tuttavia necessarie all’armonia dell’universo (come le ombre in un quadro servono a far risaltare luci e colori). Il male morale Finché intendiamo il male come limitazione di essere, questo rientra nella struttura stessa della realtà. Dobbiamo però fare un discorso diverso per il male dei nostri pensieri e delle nostre azioni, ossia il male morale. Piuttosto che imputarne l’origine alla corporeità e alla materia, come ha fatto Plotino, Agostino ritiene che questo derivi dall’instabilità dell’anima, che, anziché rivolgersi al bene immutabile, si volge ai beni mutevoli e pone in essi l’obiettivo di tutte le proprie appetizioni. Cercare i beni particolari non come tramite verso Dio, ma per se stessi, significa andare verso ciò che li connota come creature, dunque significa andare verso un limite, verso la privazione, «verso la mancanza, e ogni mancanza proviene dal nulla» (Libero arbitrio, 20,54,204). Quindi, al fondo del male morale stanno un mancato riconoscimento dell’ordine dell’universo e un movimento contrario a quello verso Dio in cui consiste la nostra felicità e realizzazione. Dalla gioventù Circa l’origine del male morale Agostino nel tempo modificherà sostanzialmente alla maturità il proprio parere. In questa prima fase il male morale e il peccato sono visti come espressione (distorta) del libero arbitrio, che va verso le creature, anziché verso il Creatore. A partire dal 396, nel corso della polemica contro i pelagiani, Agostino però annullerà quasi completamente il ruolo del nostro libero arbitrio, mettendo piuttosto l’accento sull’iniziativa di Dio, che accorderebbe la sua grazia solo ad alcuni, indipendentemente dai meriti morali (come vedremo alle pp. 512-515). Il male fisico
Felicità, virtù, contemplazione La felicità: felicità è ritorno a Dio
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In conformità con un ideale della filosofia antica ed ellenistica, Agostino ritiene che l’attività filosofica debba condurre l’uomo alla felicità. Nel La felicità si riconosce che questa beatitudo, o felicità, approdo in cui trova pace ogni nostro de-
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino
Virtù stoica e contemplazione platonica
Peccato come tensione verso le creature
Uso e fruizione
➥ Laboratorio sul lessico, Verità, p. 531
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siderio e ogni nostra attività, rimane irraggiungibile finché ci rivolgiamo a beni instabili e passeggeri. La felicità può esserci garantita solo se impariamo a regolare i nostri desideri, ad agire secondo virtù, orientando la nostra esistenza a conseguire stabilmente un bene che sia oggettivamente stabile e permanente. Questo bene, conclude Agostino, è solo Dio eterno e immutabile. Com’è evidente, in questo ideale di felicità si saldano la dottrina stoica, che identifica la felicità nell’esercizio della virtù, con l’ideale platonico della felicità come contemplazione dell’eterno. Già nel La felicità, inoltre, la felicità, intesa come piena realizzazione della natura autentica dell’uomo, si configura – in un modo che è al contempo neoplatonico e cristiano – come «ritorno a Dio». Dall’idea di Dio come approdo e termine della nostra ricerca e dell’intera nostra esistenza Agostino deriverà, in opere successive, la dottrina del peccato come un «allontanarsi da Dio» (aversio a Deo) e «rivolgersi alle creature» (conversio ad creaturas). Chi fa così, pur provando un piacere (delectatio) immediato, sulla distanza finisce per allontanarsi sempre più dalla propria natura umana, che è fatta per contemplare Dio. Del resto, osserva Agostino, il rapporto che possiamo avere con Dio è diverso da quello che abbiamo con le creature: delle creature, come di tutti gli oggetti che ci circondano, possiamo solo «servirci» (uti, infinito del verbo utor), cioè utilizzarle in vista di qualcosa; il rapporto con Dio, invece, è un «fruire» (frui), ossia amare Dio per se stesso. Naturalmente, ciò non comporta che io debba servirmi solo strumentalmente del prossimo, ma che la relazione con le creature è sempre finalizzata ad altro e che la gerarchia dei fini acquista significato solo se è rapportata al fine che perseguiamo per se stesso, cioè Dio: «È dunque con una sola e identica carità che amiamo Dio e il prossimo, ma amiamo Dio per se stesso, noi stessi, invece, e il prossimo per Dio» (La Trinità, 8,8,12).
La teoria della conoscenza
Nella fase di uscita dal manicheismo Agostino aveva brevemente aderito allo «scetticismo» della Nuova Accademia di Carneade, la cui dottrina fondamentale è che niente può essere conosciuto con certezza, perché né la percezione sensoriale né il pensiero sono interamente affidabili. In mancanza di un criterio di verità, ci si deve accontentare di opinioni solo probabili (vedi Unità 6, p. 391 ss.). Ben presto, però, Agostino arrivò a comprendere che ci sono alcune certezze inattaccabili dagli argomenti scettici. Certezza logica Seguiamo il ragionamento del dialogo Contro gli Accademici, del 387. Carneade ritiene che gli interminabili dissensi fra teorie filosofiche rivali siano una prova che non si può ottenere certezza su nulla. In realtà, osserva Agostino, anche se ci troviamo in una condizione di incertezza sulle diverse teorie filosofiche e scientifiche, è possibile comunque arrivare a qualche certezza, almeno sul piano logico. Se io prendo una proposizione complessa disgiuntiva, come «il mondo o è uno o è non uno», posso anche essere nel dubbio su quale delle due proposizioni semplici, di per sé presa, sia quella giusta (non so se il mondo «è uno» o se «è non uno»), tuttavia ho la certezza che l’alternativa espressa dalla disgiunzione stessa è vera (è vero che «il mondo è uno o non uno»).
La sfida agli scettici
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo Certezza logica ed esistenza del mondo percepito
Ma i sensi non si ingannano?
Infallibilità della sensazione
Se mi sbaglio, esisto
La certezza logica che «il mondo o è uno o è non uno» presuppone che il mondo esista. Ma uno scettico potrebbe obiettare che i sensi, ingannevoli come sono, non ci danno certezza che il mondo esista davvero. In realtà, risponde Agostino, forse gli scettici possono introdurre il sospetto che le cose in sé siano diverse da come appaiono, ma ciò non toglie che io sia legittimato a chiamare mondo tutte le cose che appaiono ai miei sensi, tutto ciò che percepisco. Anche chi dorme o è delirante può sì avere una percezione distorta di persone e circostanze, ma rimarrà vero anche per lui che «il mondo è uno o non uno» o che un mondo più altri sei fanno sette mondi. La conclusione è che l’inganno può aver luogo sul piano della percezione sensibile, non su quello delle conclusioni razionali. Tuttavia il fatto che ciò che è percepito dai sensi possa apparire diverso da come è in realtà non è un buon motivo per uno scetticismo conoscitivo a tutto campo. Se il remo immerso nell’acqua mi appare spezzato, questo non significa che i sensi si ingannano, ma semmai che un effetto di illusione ottica offre loro questa immagine. Ci sarebbe errore se prestassi un assenso sul piano razionale, concludendo che le cose stanno davvero così, che il remo è effettivamente spezzato in sé (e non solo per la mia percezione). Dunque la sensazione, come puro apparire di contenuti alla mia coscienza, è di per sé infallibile e ci testimonia l’esistenza di cose nel mondo (e del mondo stesso). Sarà poi la razionalità a esercitare il suo giudizio (o assenso) circa ciò che mi appare, per stabilire se le cose stiano davvero così. In altre opere Agostino enuclea un’altra certezza fondamentale inattaccabile dal dubbio scettico, ossia la certezza di esistere. Infatti, anche se sono in dubbio sul fatto di esistere veramente o no e anche se ho opinioni erronee al riguardo, nondimeno per il solo fatto di dubitare e ingannarmi non posso che esistere, almeno a livello mentale. «Non temo affatto gli argomenti degli accademici quando chiedono: E se ti sbagli? Infatti, se mi sbaglio esisto (si enim fallor, sum)» (La città di Dio, 11,26).
La percezione
Il modello fisiologico della percezione: sistema nervoso centrale e pnèuma
La percezione come attività e attenzione dell’anima
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Ricostruendo la polemica antiscettica si è parlato del mondo esterno e dei sensi; è arrivato il momento di capire come effettivamente funzionino le attività mentali che portano alla conoscenza, a partire dalla percezione sensibile. Agostino costruisce la propria teoria della percezione a partire da dottrine della medicina di età ellenistica e imperiale, come il riconoscimento del ruolo del sistema nervoso centrale (scoperto da Erofilo ed Erasistrato nel III secolo a.C. e sistematizzato da Galeno nel II secolo d.C.) e il modello secondo cui gli stimoli sensoriali vengono trasportati dentro di noi, fino al cervello, da un fluido sottile, il pnèuma, che media tra la fonte esterna e l’elaborazione interna. La prima dottrina mette in luce il ruolo del soggetto senziente nel prestare attenzione consapevole all’oggetto percettivo. La seconda esclude che ci sia un contatto diretto tra anima e mondo esterno: la consapevolezza percettiva non ha per oggetto le cose esterne, ma le modificazioni che queste hanno indotto nel corpo e che il pnèuma veicola al sistema nervoso centrale. A differenza del modello aristotelico, in cui la percezione è essenzialmente un’esperienza passiva di ricezione delle specie sensibili, per Agostino, come per Plotino, la percezione è un’attività che parte dall’anima e seleziona le impres-
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sioni esterne. Infatti Agostino non ritiene che il corpo e, in generale, ciò che è fisico possano agire sull’anima. Viceversa, è l’anima a esercitare attenzione verso le sensazioni di piacere o dolore che nascono, rispettivamente, dalla congruenza (convenientia) o incongruenza (inconvenientia) tra materiale percettivo e anima stessa. Quindi il percepire (o sentire) consiste nell’aver coscienza delle reazioni piacevoli o spiacevoli dell’anima alle impressioni corporee.
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L’anima agisce su ciò che il corpo subisce Agostino, Musica, 6,5,9-10
Dunque, tutti gli oggetti sensibili che sono introdotti nel corpo o gli si presentano dal di fuori producono non nell’anima, ma nel corpo, qualcosa che ostacola o favorisce l’azione dell’anima. Pertanto quando l’anima oppone resistenza a ciò che la ostacola e spinge con difficoltà la materia che le è soggetta nelle vie della sua azione, a causa della difficoltà diviene più attenta nell’azione. E a causa dell’attenzione non le si nasconde questa difficoltà: allora si parla di «sentire», ed è ciò che viene chiamato dolore o fatica. Quando invece ciò che si introduce o si avvicina è adeguato all’anima, lo porta con facilità, tutto o quanto è necessario, sui cammini del suo agire. E questa sua azione, con cui mette in contatto il suo corpo con un corpo esterno adeguato, non resta nascosta, perché è compiuta con più attenzione a causa dello stimolo esterno: ma, a causa del rapporto di congruenza, è avvertita con senso di piacere. […] E per non farla lunga, mi pare che quando l’anima prova sensazioni nel corpo, non subisce qualcosa dal corpo, ma agisce con maggior attenzione su ciò che il corpo subisce e queste azioni, facili se convenienti e difficili se non convenienti, non le sono nascoste. E tutto questo è ciò che si dice sentire.
Memoria, immaginazione, giudizio Le immagini mentali
La memoria e le operazioni mentali
Dalla memoria al giudizio
L’esperienza percettiva dà origine a immagini mentali che si fissano nella memoria. Oltre alle esperienze percettive la memoria conserva anche le nozioni che abbiamo appreso dall’insegnamento o dallo studio e le esperienze emotive passate. Combinando le nostre immagini mentali possiamo rappresentarci anche cose che non abbiamo mai visto realmente (Agostino, per esempio, aveva un’immagine vivida delle mura di Alessandria, che pure non aveva mai visto di persona). È dunque molto importante non scambiare questi fantasmi mentali con immagini derivanti da un effettivo processo percettivo. La memoria, dunque, è qualcosa di più che un semplice deposito e ci permette di richiamare le immagini mentali per operazioni di scomposizione e ricomposizione. Per esempio, possiamo richiamare un colore o un sapore scorporandolo dal contesto in cui l’avevamo percepito. Oppure possiamo confrontare odori o sapori diversi e, anche, cogliere la preferenza, poniamo «del miele rispetto al mosto, del liscio rispetto al ruvido». Tutto ciò ci fa capire che la memoria trasforma le affezioni originarie, le rende disponibili a complesse operazioni puramente mentali e ci permette di formulare giudizi. Basta pensare a quegli oggetti percettivi che si danno solo in una successione temporale. Che cos’è, per esempio, il brano musicale che penso in questo momento? Non certo un oggetto che esiste come tale nel mondo, ma un oggetto costituito dalla memoria combinando più stadi percettivi pregressi. Inoltre, solo grazie alla memoria ognuno di noi ha presente la vita che ha vissuto, l’esperienza esteriore e quella interiore. 505
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
La nostra mente non si limita a prestare attenzione alle impressioni esterne, a organizzarne le tracce nella memoria e a compiere le operazioni immaginative, ma esercita anche un’attività di giudizio. La facoltà mentale di riconoscere, confrontare e distinguere i fenomeni è la ragione (ratio), che giudica i dati sensibili sulla scorta di principi oggettivi, identici per ogni individuo e ci fa comprendere i limiti della percezione sensibile. È il giudizio della ragione che mi fa comprendere perché il remo nell’acqua che agli occhi appare spezzato, in realtà è diritto. Il giudizio ha per oggetto l’esperienza, ma non deriva dall’esperienza. Il giudizio è formulato da me in prima persona, ma, se è un vero giudizio razionale, si fonda su criteri oggettivi che vanno ben al di là della mia natura individuale. Il dubbio partecipa Già il semplice dubitare della verità, al modo scettico, presuppone comunque una della verità certezza, quella di dubitare. «Chiunque comprende di dubitare comprende qualcosa di vero (verum) ed è certo di questa cosa che comprende: dunque è certo di qualcosa di vero. Quindi, chiunque dubita se vi sia la verità ha in se stesso qualcosa di vero su cui non dubita; e ogni vero è vero solo per la verità (veritate)» (La vera religione, 39,73). Con un ragionamento tipicamente platonico Agostino osserva che ogni istanza particolare («qualcosa di vero») rimanda sempre al suo modello universale («la verità»). Dunque già il comprendere con certezza che il proprio dubitare è qualcosa di vero ci apre alla partecipazione con la verità stessa.
Il giudizio della ragione sull’esperienza in base a principi oggettivi
I gradi della conoscenza
Percezione
Memoria e immaginazione
Giudizio
Immagini mentali degli oggetti esterni percepiti
Deposito delle immagini percepite e…
Riconosce, confronta e distingue i fenomeni e…
… trasformazione delle affezioni necessarie per le operazioni mentali
… giudica i dati sensibili sulla base di principi oggettivi
Il fondamento della verità: l’illuminazione divina Criteri di verità
Le ragioni eterne o archetipi
Il principio superiore di verità
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Il fatto che l’uomo, immerso com’è in un’esperienza mutevole, possa conseguire una conoscenza certa comporta un fondamento di verità che sta al di sopra dell’esperienza e del mondo. Se poi pensiamo alle scienze, riconosciamo un gran numero di verità (specialmente matematiche e logiche) la cui universalità e immutabilità è indubbia. Queste verità non derivano né dal mondo sensibile (che semmai attraverso esse è giudicato), né dal pensiero umano (perché sono esse stesse i criteri che regolano il pensiero). In linea con la tradizione platonica, Agostino ritiene che gli oggetti sensibili ricevano la propria natura per partecipazione a idee immutabili, che del sensibile sono modello e causa. Ma non solo: anche le regole logiche, le regole aritmetiche, le leggi morali e i canoni della bellezza sono governate da archetipi o «ragioni eterne». Dunque l’uomo non ha soltanto il giudizio della ragione (che si applica agli oggetti sensibili), ma anche una conoscenza intellettuale che coglie direttamente le idee. Agostino non crede che la conoscenza si compia, aristotelicamente, come un processo di astrazione a partire dai dati sensibili. Piuttosto la stessa esperien-
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino
Illuminazione divina e conoscenza con verità
Cristo come Lògos in cui contempliamo gli archetipi
za sensibile ha senso solo se convalidata da un principio superiore di verità. Nella stessa linea della similitudine platonica del sole, anche Agostino pensa a una luce mentale, proveniente da Dio, che dia intelligibilità agli oggetti del pensiero. L’illuminazione divina non solo ci fa sapere qual è l’autentica natura essenziale di ciascuna cosa, ma ci rende anche consapevoli di conoscere le cose con verità. In un passaggio delle Confessioni Agostino considera il caso in cui, tra due interlocutori, uno riconosca la ragione dell’altro, e ne conclude che il fondamento del riconoscimento di verità deve essere in Dio: «Se entrambi vediamo che è vero ciò che dici tu ed entrambi vediamo che è vero ciò che dico io, dove lo vediamo? Non certamente io in te, né tu in me, ma entrambi nella verità immutabile, posta al di sopra delle nostre menti, […] questa luce del Signore Dio nostro» (Confessioni, 12,25,35). La teoria dell’illuminazione divina si lega alla dottrina, platonica e cristiana, secondo cui noi conosciamo con verità quando riusciamo a contemplare gli archetipi direttamente nella loro fonte divina. Agostino pensa a Cristo, sulla scorta del Vangelo di Giovanni, come Lògos, come eterno pensiero di Dio; e, sovrapponendo a ciò la dottrina plotiniana del nous, ritiene che il Lògos sia la fonte delle idee di tutte le realtà.
L’interiorità Interiorità e conoscenza
T9
Il metodo dell’interiorità
Agostino, Confessioni, 7,10,16
L’autentica interiorità
Da ciò Agostino deriva, coerentemente, una teoria della conoscenza diretta degli archetipi: io non conosco attraverso i sensi e le impressioni dalla molteplice realtà esterna, ma ritirandomi nell’interiorità, fino a trascendere anche me stesso e a contemplare direttamente gli archetipi in Cristo-Lògos. Ammonito da quegli scritti [dei neoplatonici] a tornare in me stesso, entrai nel mio intimo sotto la tua guida e ci riuscii, poiché ti facesti mio sostegno. Entrai e vidi con l’occhio della mia anima, quale che fosse, al di sopra di quel medesimo occhio della mia anima, al di sopra della mia mente, una luce immutabile, non questa, comune e visibile a ogni carne, e neppure dello stesso genere ma più grande, come se questa splendesse molto, molto più intensamente e tutto occupasse con la sua grandezza. […] Chiesi: «La verità è forse un nulla, dal momento che non si trova né negli spazi finiti né in quelli infiniti?». E tu gridasti di lontano «Anzi, io sono colui che sono [Esodo, 3,14]». E io udii, come si ode col cuore, e non avevo alcun motivo di dubitare, e avrei dubitato più facilmente della mia vita che dell’esistenza della verità, che «vediamo comprendendola dalle opere del creato» [Lettera ai Romani, 1,20]. L’interiorità di cui parla Agostino non è la mia realtà psicologica individuale, fatta di emozioni, ricordi, passioni e avversioni. Anzi, l’autentica interiorità si raggiunge solo se sappiamo mettere fra parentesi noi stessi, per cercare il principio sovraindividuale della realtà e della conoscenza. Per questo nelle Confessioni (3,6,14) ci si rivolge a Dio dicendo: «Tu eri più interno del mio intimo e più in alto della parte più elevata» («Tu autem eras interior intimo meo et superior summo meo»). 507
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo La sorgente dell’armonia
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La verità dimora nell’uomo interiore Agostino, La vera religione, 39,72
Platonismo e rapporto personale con Dio
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In un passaggio della Vera religione Agostino spiega con chiarezza cosa significa tornare in se stessi: già i piaceri e i dolori del corpo sono forme di vicinanza o allontanamento rispetto a un’armonia; si tratta di trovare la sorgente dell’armonia stessa dentro di sé, superando i livelli della nostra natura corporea, emotiva e anche razionale fino al termine ultimo di ogni nostro cercare, che è la verità stessa. Esamina che cosa avvince nel piacere del corpo; non troverai nient’altro che armonia. Giacché se i contrasti producono dolore, gli accordi producono piacere. Riconosci quindi quale sia l’armonia perfetta. Non uscire fuori da te, ritorna in te stesso. La verità dimora nell’uomo interiore. E se scoprirai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricorda, quando trascendi te stesso, trascendi l’anima razionale. Tendi pertanto là donde si accende il lume stesso della ragione. Dove giunge, infatti, ogni buon ragionatore se non alla verità? Poiché non è la verità a giungere a se stessa col ragionamento, ma, anzi, la verità è ciò che cerchiamo col ragionare. Vedi in ciò un’armonia che non ha pari e accordati ad essa. Riconosci che tu non sei ciò che essa è, poiché lei non cerca se stessa; invece tu sei giunto ad essa cercandola, non di luogo in luogo, ma con i passaggi della mente, in modo che l’uomo interiore si trovi in armonia non col basso piacere della carne, ma col piacere supremo dello spirito. Dunque Agostino è convinto, platonicamente, che la nostra conoscenza non si basi sull’esperienza del mondo, ma sugli archetipi eterni, che conosciamo direttamente nel Lògos. Solo che il Lògos non è più soltanto una rarefatta ipostasi, ma è anche colui che si è incarnato, ha annunciato il suo messaggio ed è morto in croce per la nostra salvezza. Qui il platonismo, insomma, si è ormai fuso col Vangelo di Giovanni. Anche il tema plotiniano del ritirarsi in se stessi per contemplare il fondamento approda ora all’incontro con una divinità che è persona, che, oltre a reggere il mondo, ci guida nella vita intellettuale e morale.
La teoria del tempo
Agostino sviluppa la sua teoria del tempo nell’XI libro delle Confessioni, in risposta a una provocazione dei manichei circa una presunta ingenuità antropomorfica nel racconto biblico dei sei giorni della creazione. Il libro della Genesi presenta la creazione come una sequenza di operazioni, scandite nel tempo e frutto di scelte da parte di Dio. Ma se la creazione avviene nel tempo, allora potremmo chiederci cosa facesse Dio prima di decidersi a creare questo mondo. Dio vive nell’eternità Un simile modo di ragionare (Dio a lungo inattivo, che a un certo punto decide di creare l’universo) presuppone erroneamente che Dio viva nel flusso temporale che va dal passato al futuro. In realtà Dio vive nell’eternità, in un eterno presente. La differenza tra tempo È importante mettere a fuoco la differenza radicale tra tempo ed eternità. Il temed eternità po fluisce, trascorre, è divisibile, in quanto composto di istanti e fasi diverse. L’eternità invece non è un flusso temporale allungato all’infinito, come si potrebbe credere ingenuamente, ma è l’assenza di flusso, è compresenza del tutto in un istante.
Contro la tesi manichea di un Dio inattivo
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino L’eternità in Plotino
Plotino aveva già detto che l’eternità è «una vita che permane in se stessa, a cui il tutto è sempre presente, che non è ora questo, ora quello […], ma un’indivisibile completezza, simile al punto in cui tutte le linee si riuniscono» (Enneadi, 3,7,3). Alla luce di questo, non possiamo più pensare a un Dio inattivo per tempi più o meno lunghi o intento a prendere decisioni (che comportano un ragionare nel tempo). Infatti Dio non vive nel tempo, ma nell’eternità. Il tempo, invece, scandisce il divenire dell’universo da lui creato.
Tempo dei corpi e tempo dell’anima Il paradosso del tempo: un quasi-nulla misurabile ➥ Laboratorio di lettura, p. 521
Memoria, attesa, attenzione
È la mente che misura
Tempo oggettivo e soggettivo
Il tempo mentale di Agostino
Noi sicuramente viviamo nel tempo e diamo per scontato, in una prospettiva ingenua, che il tempo sia la somma di passato, presente e futuro. Ma in realtà ciò che chiamiamo «il passato» ora non è più e ciò che chiamiamo «il futuro» non è ancora. Rimane così solo la dimensione del presente che stiamo vivendo. Non un presente eterno e immobile, ma un presente in divenire, che continuamente diventa passato e non è ancora futuro. In questo modo la natura del tempo sembra inafferrabile, ridotta com’è a un istante fuggevole che muta continuamente. Eppure questo quasi-nulla, inesistente al passato e al futuro, inafferrabile al presente, è misurabile, apprezzabile. Infatti possiamo dire che cento anni del passato (o del futuro) sono più lunghi di dieci. Ecco il paradosso del tempo, dimensione quasi inesistente, tuttavia misurabile. Agostino supera questa difficoltà interpretando il tempo in chiave mentale. Per cogliere la vera natura del tempo dobbiamo guardare dentro di noi e collegare le diverse dimensioni temporali alle nostre funzioni mentali. Il passato non è la realtà oggettiva passata, ma è questa realtà in quanto impressa nella memoria, cioè nella memoria presente: dunque la memoria è il presente del passato. Similmente il futuro è l’attesa presente di quanto immaginiamo che debba avvenire. E il presente è l’attenzione presente. Non sono i corpi e neppure gli astri con le loro rotazioni diurne a dare la misura del tempo. La fonte della misura del tempo è l’anima. Mentre Dio intuisce istantaneamente tutte le cose nel presente assoluto della sua eternità, noi cogliamo invece l’articolarsi temporale degli eventi con un «distendersi della mente» (distentio animi). Alcuni filosofi antichi identificavano il tempo con il movimento degli astri. Con Agostino il punto di vista cambia radicalmente: il tempo non dipende più dal movimento degli oggetti esterni, ma dall’attività misuratrice dell’animus. In questo modo viene espressa per la prima volta con chiarezza la distinzione tra tempo oggettivo e tempo soggettivo. Tuttavia non si tratta di un ripiegamento nel soggettivismo individuale, perché l’animus, l’interiorità del pensiero, è anche il luogo di incontro con Dio.
Passato
Presente
Futuro
La realtà vissuta impressa nella memoria presente
L’attenzione verso ciò che è presente
L’attesa presente di quanto immaginiamo debba avvenire
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
6 Il sacco di Roma del 410
Teologia della storia e filosofia politica Il 24 agosto 410 i visigoti di Alarico, dopo un assedio di due anni, invasero e saccheggiarono Roma. Anche se la città non era da tempo la capitale ufficiale dell’impero, il mondo pagano vide in questo evento la violazione di un luogo-simbolo e rinnovò le accuse che attribuivano al cristianesimo la decadenza di Roma. Agostino non scelse la strada del contraddittorio immediato, ma prese spunto da questa polemica per elaborare tra il 412 e il 427 una lunga opera in cui l’analisi politica è strettamente collegata sia alla psicologia individuale che alla visione teologica della storia e della destinazione dell’umanità. Si tratta della Città di Dio in ventidue libri.
Le due cittadinanze L’idea-guida di quest’opera è che ogni individuo di ogni epoca, società e cultura non può che collocarsi in una di due opposte città (o «cittadinanze», civitates): la città di Dio o la città terrena. Fa parte della prima chi mette al primo posto l’obbedienza a Dio e ai suoi precetti, della seconda chi orienta i propri disegni al solo successo terreno. Sarebbe però un errore identificare la città di Dio con la Chiesa e la città terrena con lo Stato. Due propensioni Infatti le due città non corrispondono a gruppi organizzati e visibili in questo interiori mondo. Anzi, all’interno di ogni istituzione mondana le due categorie di uomini si mescolano. Anche all’interno della Chiesa visibile, e magari con ruoli importanti, si trovano uomini fondamentalmente «terreni». Dunque la distinzione fra i due gruppi di individui si fonda su due orientamenti interiori, non sempre facilmente decifrabili dall’esterno, che Agostino chiama «amori», ovvero «propensioni»: amore di Dio e amore di sé. Città di Dio e città terrena
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Due amori, due città
Agostino, La città di Dio, 14,28; 15,1; 2
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Due amori hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. In ultima analisi, quella trova la gloria in se stessa, questa nel Signore. Quella cerca la gloria tra gli uomini, per questa la gloria più grande è Dio, testimone della coscienza. Quella solleva il capo nella sua gloria, questa dice al suo Dio: «Tu sei mia gloria e sollevi il mio capo» [Salmi 3,4]. L’una, nei suoi capi e nei popoli che sottomette, è posseduta dalla passione del potere; nell’altra prestano servizio vicendevole nella carità chi è posto a capo provvedendo, e chi è sottoposto adempiendo. La prima, nei suoi uomini di potere, ama la propria forza; la seconda dice al suo Dio: «Ti amo, Signore, mia forza» [Salmi 17,2]. […] In tutto il genere umano, quando all’inizio cominciarono a svilupparsi queste città con nascite e morti, prima è nato il cittadino di questo secolo, poi colui che è straniero in questo secolo ed appartiene alla città di Dio, predestinato e scelto dalla grazia, in virtù della grazia reso straniero sulla terra e cittadino nel cielo. […] Noi troviamo nella città terrena due modelli, l’uno che attesta la propria presenza, l’altro che per mezzo della sua presenza è simbolo della città celeste. La natura corrotta per il peccato genera perciò i cittadini della città terrena, mentre la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste.
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino Contro l’uso della religione come strumento politico
L’autentico universalismo nella città di Dio
Dalla storia all’eternità
Agostino, che in precedenza aveva ritenuto provvidenziale il ruolo dell’impero per la diffusione del cristianesimo, è ormai diffidente verso uno Stato che voglia accreditarsi come realizzazione o prefigurazione in terra della città di Dio, magari al fine di utilizzare la religione come strumento politico per uniformare e imporre l’obbedienza ai propri cittadini. Analogamente, l’imperatore non deve dirsi «imperatore cristiano» attribuendo alla benevolenza di Dio successi militari e politici (infatti sono risultati che anche gli adoratori di falsi dèi hanno conseguito), ma solo se governa con giustizia, se sa perdonare e se, in mezzo alle adulazioni, ricorda di essere solo un uomo e sottomette il proprio potere a quello supremo di Dio. Non è in questa linea però la storia della potenza romana: dagli eroi antichi ai recenti sovrani, tutti hanno costruito un mito della virtus («valore») romana che in realtà è l’alimento ideologico della libido dominandi, del «desiderio del potere». Dunque non sono fondate le pretese universalistiche dell’imperialismo politico romano. Il vero universalismo è quello della città di Dio che «chiama cittadini da tutte le nazioni, […] fra tutte le lingue, senza badare a diversità di costumi, di leggi, di istituzioni» (19,17). L’autentica Chiesa è la città invisibile di quanti vivono secondo Dio. Non corrisponde numericamente a quanti appartengono alla Chiesa visibile, ma a coloro ai quali Dio ha elargito la sua grazia, destinandoli alla vita eterna. Nella dimensione mondana e nel corso della storia la città di Dio e la città terrena non sono separate, anzi, sono così intrecciate che spesso è difficile distinguerle. Solo nel giorno del giudizio finale «Babilonia» e «Gerusalemme» saranno separate ed emergerà pienamente la comunità santa della città di Dio (formata dai beati e dagli angeli).
Stato, diritto, giustizia Peccato originale, condizione corrotta, organizzazione politica
Il diritto «positivo» e la «legge eterna»
Quando uno Stato è senza giustizia…
Agostino non sostiene che l’organizzazione statale sia un effetto del peccato originale, come credono alcuni storici. In realtà anche prima del peccato le nostre naturali aspirazioni all’autoconservazione e alla riproduzione della specie ponevano le basi della vita associata, a partire dal nucleo fondamentale dell’unione tra uomo e donna, con i conseguenti vincoli familiari, fino ai legami sociali e politici veri e propri. A seguito del peccato originale, però, l’uomo vive una condizione corrotta, cercando ciò che è utile e non ciò che è giusto. Così l’organizzazione politica deve assumere compiti coercitivi, per regolare l’uso dei beni e garantire la pacifica convivenza. In linea con gli stoici e con Cicerone, Agostino è convinto che vi sia una «legge eterna», cioè il modo in cui Dio pensa e ordina ogni aspetto della realtà. Tutte le realtà create e l’ordine stesso della natura rispondono alla legge eterna di Dio e costituiscono la sfera della legge naturale. È questa legge a stabilire ciò che è bene e ciò che è male. Le leggi «positive» (cioè le norme giuridiche che noi poniamo o disponiamo) e le nostre azioni particolari sono giuste solo nella misura in cui riflettono a loro volta i principi della legge naturale e della legge eterna. L’autentica giustizia, che è la capacità razionale di «dare a ciascuno il suo», è la traduzione della legge naturale nei concreti ordinamenti etico-giuridici dei diversi Stati, ordinamenti che sono storici e destinati a mutare nel tempo, per accordare meglio possibile i principi eterni e immutabili con i contesti storici mutevoli che via via si presentano. Troppo spesso, tuttavia, le organizzazioni statuali storicamente esistenti non si fondano sull’ordine voluto da Dio. In questo modo perdono il loro fondamento na511
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
turale e la giustizia, diventando qualcosa di simile a bande di briganti, anche se più grandi, meglio organizzate e, addirittura, protette dall’impunità.
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Una banda di pirati su larga scala
Agostino, La città di Dio, 4,4
7 Indipendenza della volontà dalla conoscenza
Una volta che si è rinunciato alla giustizia, che cosa sono gli stati, se non una grossa accozzaglia di malfattori? Anche i malfattori, del resto, non formano dei piccoli stati? Si tratta infatti di un gruppo di uomini comandati da un capo, tenuti insieme da un patto comune e che si spartiscono un bottino secondo una legge tacita. Se questo male si allarga sempre più a uomini scellerati, se occupa una regione, fissa una sede, conquista città e soggioga popoli, assume più apertamente il nome di regno, che non gli viene dalla rinuncia alla cupidigia, ma dal conseguimento dell’impunità. Questa la risposta, vera e opportuna, che un pirata catturato diede ad Alessandro Magno. Avendogli questi domandato perché gli sembrasse giusto infestare i mari, quello con spregiudicata fierezza rispose: «Per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra; ma poiché io lo faccio con una barca insignificante, mi chiamano malfattore, e poiché tu lo fai con una flotta eccezionale, ti chiamano imperatore».
Etica e teologia morale La tradizione filosofica antica aveva sottolineato il ruolo della razionalità non solo nell’ambito teoretico, ma anche nel campo dell’agire umano, nella sfera della prassi. La maturità morale, nella prospettiva filosofica greca, sta nella capacità di dominare col raziocinio i fattori irrazionali, come il desiderio. Questa prospettiva viene definita «intellettualismo etico». Per Agostino, invece, la riflessione etica deve fare i conti con la volontà intesa come una facoltà fondamentale dell’anima, indipendente dalla capacità di conoscere.
La volontà Ogni essere vivente, sia razionale che irrazionale, ha delle tendenze o «appetiti» (appetitus) fondamentali: all’autoconservazione, alla procreazione e all’azione. L’appetito all’azione è la volontà, nel senso più ampio del termine. Mentre negli esseri viventi irrazionali questa volizione è determinata ad unum (ossia, non può che indirizzarsi a una certa azione), la volontà degli esseri razionali comporta la capacità di volere o non volere una cosa. L’atto libero dell’agente Da qui nasce la dimensione etica dell’uomo, che è in grado di volere il bene imrazionale mutabile o di non volerlo (oppure di fare un uso buono o cattivo di qualcosa). Il nostro allontanarci da Dio per mettere al primo posto il desiderio di beni creati non è come la caduta di un sasso (che è come costretta, cioè determinata ad unum da leggi fisiche), ma dipende da noi, senza alcuna costrizione esterna. Agostino è lontano dall’intellettualismo etico dei greci (secondo il quale ci si comporta male solo quando non si sa cosa effettivamente è bene). Per Agostino la libertà non è una risoluzione della ragione, ma di una facoltà indipendente da essa, che è la volontà. Quindi, contrariamente a quanto credeva Socrate, è possibile che la ragione sappia cosa è bene, ma la volontà si indirizzi comunque a fare il male. I conflitti della volontà Le analisi autobiografiche delle Confessioni mettono poi chiaramente a fuoco i conLa volontà appetito all’azione
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flitti interni alla stessa volontà. Nell’VIII libro, un Agostino già pronto intellettualmente alla conversione, si sente ancora trattenuto da una catena interiore in cui «la volontà perversa genera la passione, l’abbandonarsi alla passione genera l’abitudine e il cedimento all’abitudine genera la costrizione» (8,5,10). È uno scontro tra la volontà carnale dell’uomo vecchio e la volontà spirituale dell’uomo nuovo.
Il giovane Agostino: libertà e volontà Volere il bene
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La volontà buona
Agostino, Il libero arbitrio, 1,12,25; 13,29
Uso distorto del libero arbitrio, male morale, infelicità
Il libero arbitrio nel giovane Agostino
La riflessione di Agostino sul tema della libertà umana conosce una progressiva trasformazione. Nelle prime opere (come il I libro del Libero arbitrio, del 387388) Agostino riconosce alla volontà la capacità di indirizzare «con facilità» le nostre scelte verso il bene. Che cos’è la volontà buona? È la volontà con cui desideriamo vivere in modo retto e onesto e giungere alla somma sapienza […] Il possesso o la mancanza di un bene così grande e così vero dipendono dalla nostra volontà. Infatti, che cosa c’è di più basato sulla volontà se non la volontà stessa? […] Ne consegue che chiunque vuole vivere in modo retto e onesto, se vuole davvero voler questo invece che beni fugaci, può ottenere un bene così grande con tanta facilità che il volere si identifica col possedere l’oggetto voluto. Dall’esercizio di questa volontà buona nasce la nostra felicità. È invece il cattivo uso del libero arbitrio (rivolto a beni passeggeri anziché eterni) che fa sorgere il male e produce la nostra infelicità. In questo modo, attribuendo il male morale alla libera scelta umana, Agostino intende confutare la tesi manichea secondo cui l’alto numero di azioni malvagie proverebbe che il creato non può essere opera di un solo Dio buono e onnipotente.
scegliere il bene
Virtù
Felicità
scegliere il male
Peccato
Infelicità
Io sono libero di
L’ultimo Agostino: Pelagio e il peccato originale Il sostegno della grazia contro l’ottimismo morale di Pelagio
Negli scritti dell’ultimo periodo (412-430) il quadro cambia profondamente e Agostino, in polemica contro l’ottimismo morale di Pelagio, sottolinea piuttosto l’insufficienza della volontà umana a compiere il bene, quando non sia assistita dalla «grazia» divina. Pelagio (354-427 ca.) era un teologo laico, di nazionalità britannica, che a Roma e, successivamente, a Cartagine aveva conquistato la stima di molti con l’esempio della sua vita e col suo insegnamento centrato sulla responsabilità morale: l’uomo è libero e ha il dovere di scegliere e realizzare il bene; il peccato di Adamo è solo un modello negativo, ma non ha compromesso la nostra libertà di giudizio e di scelta del bene. Dunque ogni uomo è in grado di compiere scelte etiche senza bisogno del soccorso della grazia divina. L’insegnamento di Pelagio si 513
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Agostino contro i pelagiani
Il peccato originale e l’incapacità dell’uomo di compiere da solo il bene
La schiavitù del libero arbitrio
Peccato originale e libero arbitrio
diffuse anche grazie a seguaci come Celestio e Giuliano, vescovo di Eclano (oggi Mirabella, in provincia di Avellino). Agostino vide chiaramente che la dottrina pelagiana modificava alla base la funzione del sacrificio di Cristo e riduceva il ruolo della Chiesa e dei sacramenti da essa amministrati. Per distruggere alla radice l’ottimismo morale pelagiano, Agostino non esitò a portare alle estreme conseguenze una visione opposta, secondo cui tutta l’umanità prende parte al peccato di Adamo, che si trasmetterebbe per via seminale, come un marchio genetico, rendendoci incapaci di autonome scelte morali rivolte al bene: «Dice [Ambrogio]: “C’è stato Adamo e in lui siamo stati tutti; è morto Adamo e in lui tutti sono morti”. Ma, dirai, non avrebbero dovuto morire per i peccati altrui. Altrui sì ma paterni e, per questa legge della trasmissione seminale, sono anche nostri (per hoc iure seminationis atque germinationis et nostra sunt)» (Opera incompiuta contro Giuliano, 1,48,70). Radicalizzando le idee di Paolo circa peccato, giustificazione e grazia, Agostino è convinto che ogni individuo porti le conseguenze di un «peccato originale», cioè di un vizio della natura umana che limita il volere e la libertà di scelta. La formula paolina secondo cui «in Adamo tutti hanno peccato» significa che ciò che Adamo ha compiuto per propria «volontà» diventa poi «natura» nei suoi discendenti, ovvero un’incapacità di compiere il bene con le sole proprie forze. Nell’attuale condizione, marchiata dal peccato originale, non abbiamo più la libertà di fare il bene senza l’aiuto di Dio. Anche quando non pecchiamo, questo non avviene per nostro merito, ma perché è Dio ad aiutarci a non peccare. Il massimo di libertà autonoma che ci è rimasta, aggiunge implacabilmente Agostino, è scegliere un peccato piuttosto che un altro. «Il libero arbitrio, diventato schiavo, non riesce che a peccare, ma non arriva alla giustizia, se non è libero e sorretto da Dio».
Il peccato di origine compiuto per volontà da Adamo
diventa natura corrotta nei discendenti
Soltanto con l’aiuto di Dio possiamo non peccare
Grazia e predestinazione La grazia, un dono divino
➥ Tesi a confronto, p. 526
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La giustificazione viene da Dio Agostino, La natura e la grazia, 2,2,2-5
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Per questa macchia originaria il genere umano è incapace di salvarsi se non viene soccorso dalla «grazia», ossia dalla benevolenza di Dio, specialmente attraverso l’opera salvifica di Cristo. Solo la grazia divina permette di restaurare la nostra natura degenerata in seguito al peccato originale. È solo per l’aiuto di Dio che alcuni sono «giustificati», cioè ‘resi giusti’, liberati dal peccato. Alcuni, non tutti. Come già in Paolo, la grazia è offerta in modo immeritato e non conquistata attraverso le nostre opere. In Agostino, poi, si accentua il carattere misterioso e imperscrutabile di questo dono divino. Se la giustificazione viene dalla natura, Cristo è morto invano. Ma se Cristo non è morto invano, allora la natura umana non potrà mai in nessun modo essere giustificata e riscattata dalla giustissima ira di Dio, cioè dalla sua punizione, se non mediante la fede e il sacramento del sangue di Cristo. È vero: la natura dell’uomo fu creata in origine senza colpa e senza nessun vizio; viceversa la natura attuale dell’uomo, per la quale ciascuno nasce da Adamo, ha ormai bisogno del Me-
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dico, perché non è sana. […] Questa grazia di Cristo, senza la quale né i bambini, né gli adulti possono salvarsi, non si dà per meriti, ma gratuitamente, ed è per questo che si chiama grazia. La predestinazione di pochi eletti
Un atto di clemenza divina non meritato
Gli effetti delle dottrine agostiniane
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Di questo passo Agostino sviluppa la teologia paolina della grazia fino a sostenere una teoria della «predestinazione», secondo cui ciascuno di noi, non per meriti o colpe personali, è destinato da Dio alla salvezza o alla perdizione fin da prima della nascita; la maggior parte, anzi, è destinata alla dannazione e solo pochi eletti si salveranno, predestinati da un misterioso giudizio divino. È difficile non ricevere l’impressione che ci sia qualcosa di sommamente ingiusto nel condannare la maggior parte degli individui, a prescindere dalle loro azioni. Agostino però parte da un punto di vista diverso: ritiene che l’intera umanità, segnata dal peccato originale, sia una «massa dannata» (massa damnationis); quindi Dio compirebbe un atto di clemenza gratuito e misterioso nel salvare anche un piccolo numero di individui, che rimarrebbero comunque non meritevoli di tanto dono. Agostino porta così a una durezza inaudita gli spunti della lettera ai Romani di Paolo e si allontana dalle parole inequivocabili della prima lettera a Timoteo (2,4): «[Dio] vuole che tutti gli uomini arrivino alla salvezza». Agostino, dunque, è convinto che Dio, pur potendo salvare tutti, non vuole farlo. Un sinodo di vescovi africani tenuto a Cartagine nel 418 condannò l’insegnamento di Pelagio e fece proprie le dottrine agostiniane sul peccato originale e la grazia. Nella Chiesa d’Occidente tali dottrine furono accettate solo gradualmente e dopo lunghi dibattiti. Il trionfo della dottrina del peccato originale avrà i suoi effetti anche nelle pratiche sacramentali. Il battesimo dei bambini, che in precedenza era praticato occasionalmente da alcune comunità, diventerà necessario (i bambini sono macchiati dal peccato originale fin dalla nascita) e sarà di qui in poi la forma normale del sacramento di iniziazione cristiana, scalzando la pratica, fino ad allora più diffusa, del battesimo conferito agli adulti, dopo un periodo di preparazione catechetica (o «catecumenato»).
L’eredità di Agostino
Di qui in poi, per tutto il Medioevo e fin oltre le soglie dell’età moderna, Agostino si attesterà come la maggiore autorità teologica e filosofica dell’Occidente medievale di lingua latina, punto di partenza imprescindibile per tutti gli autori. Si può senz’altro affermare che il Medioevo sarà dominato da tre orientamenti filosofici: platonismo, aristotelismo e agostinismo. Dobbiamo però tener presente che ogni orientamento, lungi dal presentarsi come un sistema monolitico e chiuso, si articola in correnti e scuole spesso divergenti su punti fondamentali. Ciò vale anche per l’eredità agostiniana. Letture molteplici Agostino, si è detto, non è un pensatore sistematico, ma torna più volte sugli stessi temi con mutamenti di prospettiva. Per questo nei secoli successivi si richiameranno al suo pensiero autori e correnti anche in conflitto tra loro. In altre parole, non ci sarà mai un agostinismo fatto di pura ripetizione, ma piuttosto un fondo di spunti agostiniani, anche assai divergenti, che verranno via via ibridati con altre forme di neoplatonismo o con l’aristotelismo. Nella modernità All’inizio dell’età moderna l’interpretazione agostiniana del pensiero di Paolo, e Nel Medioevo
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in particolare la sua teologia della grazia, saranno determinanti per la formazione della teologia luterana e delle altre confessioni protestanti. Anche il «giansenismo» del XVII secolo nasce da una lettura intransigente della teologia agostiniana del soccorso gratuito di Dio.
L’autunno della patristica: il corpus dionysianum
5 La Chiesa d’Oriente nel V secolo
Il corpus dionysianum: la cristianizzazione della filosofia neoplatonica
Il ciclo di processione e ritorno
Gerarchia angelica e gerarchia ecclesiastica
I linguaggi per parlare di Dio
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Nel V secolo la Chiesa d’Oriente conosce forti conflitti dottrinali (ariani, monofisiti, nestoriani ecc.) con polemiche condotte spesso con asprezza e intolleranza. In questo clima alcune etnie (come la siriaca e la copta), che avevano corso il rischio di scomparire sotto l’influenza ellenistica, si riappropriano della loro identità sviluppando un cristianesimo nelle lingue nazionali. La produzione patristica in lingua greca si assottiglia e finisce per essere praticata solo in ambienti monastici. Questa separatezza conferisce alla teologia un livello di tecnicismo e di astrattezza senza precedenti. Nel mondo di lingua greca la forma più avanzata di cristianizzazione della filosofia neoplatonica è espressa da un corpus di cinque opere, di cui non conosciamo il vero autore: Gli attributi divini, La gerarchia celeste, La gerarchia ecclesiastica, La teologia mistica e dieci Epistole. L’autore si presenta come quel Dionigi ateniese che, a differenza di altri suoi concittadini, accetta gli insegnamenti impartiti da Paolo di Tarso nell’Areòpago (come si legge in Atti degli apostoli, 17,34), un’attribuzione, questa, che ammantò le opere, di una speciale autorevolezza. In realtà, per i contenuti influenzati dal commento di Proclo al Parmenide di Platone, si deve pensare a una redazione assai più tarda, probabilmente ad opera di un monaco siriano, vissuto tra V e VI secolo. Lo pseudo-Dionigi ha una visione neoplatonica della realtà: tutte le realtà finite «procedono da» (ovvero, sono causate da) un Principio trascendente, infinito e perfetto al quale devono fare ritorno. Il ciclo di processione e ritorno è il modo in cui la Causa prima, ovvero Dio, si manifesta. Lo pseudo-Dionigi riprende inoltre dal neoplatonismo l’idea che l’intera realtà (sensibile e intelligibile) sia un’unica gerarchia (in greco hierarchìa significa «ordine sacro»), e, sul piano intelligibile, sostituisce ai livelli di emanazione neoplatonica le sostanze angeliche della tradizione biblica, distribuite in gruppi di tre: Serafini, Cherubini, Troni; Dominazioni, Virtù, Potestà; Principati, Arcangeli, Angeli. Questo sistema dei nove cori angelici si attesterà nella cultura occidentale, basta pensare alla Commedia di Dante. Nella sfera umana si ha la triade della gerarchia ecclesiastica, articolata in vescovi, preti e diaconi. Un secondo nucleo del pensiero dionisiano che influenzerà profondamente il pensiero medievale riguarda i modi per parlare correttamente di Dio, sottolineandone la trascendenza. Quando predichiamo un attributo di Dio positivamente («Dio è misericordioso», «Dio è sapiente») facciamo teologia positiva. Questo modo non è interamente sbagliato (anche la Bibbia lo pratica), ma non esprime abbastanza il fatto che Dio è al di là dell’essere e al di là di ogni perfezione finita.
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino Teologia negativa
Teologia superlativa
Teofania
L’influenza dello pseudo-Dionigi ➥ Sommario, p. 518
Per questo è preferibile una teologia negativa, in cui non si predicano attributi positivi, ma si asserisce negativamente ciò che Dio non è (dicendo, per esempio, che «Dio è non-sapiente», per sottolineare che la sua sapienza non è come la nostra). In questo modo, attraverso la via delle negazioni, si elimina ogni determinazione concettuale, fino ad arrivare al «nulla divino». Si apre così una strada che va oltre il linguaggio, ed è il silenzio in cui Dio non è pensato ma accolto. È la via della teologia mistica. Lo stesso risultato è raggiunto dalla teologia superlativa («Dio è superessenziale», è «più che verità», è «divinità al di là del divino»), in cui i predicati, anche se formalmente non negativi, esprimono la trascendenza di Dio rispetto a ogni determinatezza concettuale. Nel caratteristico linguaggio dionisiano: «Dio è l’affermazione di tutte le cose, la negazione di tutte le cose, e al di là di ogni affermazione e negazione». Nella consapevolezza di tutto ciò, l’intera realtà può essere letta in chiave metaforica e allegorica come una teofania, ossia una «manifestazione divina», che si diffonde in tutte le cose, ma chiede di essere superata in una dimensione trascendente. Il corpus dionysianum ebbe una straordinaria diffusione in tutto il Medioevo e nella prima età moderna, influenzando decisamente tutte le correnti della mistica cristiana.
Suggerimenti bibliografici Sulla nascita del cristianesimo in relazione alle pratiche religiose ebraiche: M. Sachot, La predicazione del Cristo. Genesi di una religione, Einaudi, Torino 1999. Un classico sull’ellenizzazione del cristianesimo è W. Jaeger, Cristianesimo primitivo e paideia greca, La Nuova Italia, Firenze 1999 (ediz. orig. 1961). Circa le diverse correnti gnostiche rimane di riferimento H. Jonas, Lo gnosticismo, SEI, Torino 1995 (ediz. orig. 1934). Una biografia rigorosa ma scritta con finezza, che colloca l’evoluzione di Agostino nel contesto della sua epoca: P. Brown, Agostino di Ippona, Einaudi, Torino 2005. Per un’articolata discussione delle teorie filosofiche di Agostino, anche nel quadro dei rapporti con il pensiero antico e tardoantico: V. Pacioni, Agostino D’Ippona. Prospettiva storica e attualità di una filosofia, Mursia, Torino 2004; C. Horn, Sant’Agostino, il Mulino, Bologna 2005. Sul rapporto tra Agostino e la fine dell’età classica: H.-I. Marrou, Sant’Agostino e la fine della cultura antica, Jaca Book, Milano 1994. I brani antologizzati sono tratti da: Le citazioni bibliche sono tratte da La Bibbia, traduzione interconfessionale in lingua corrente, Elle Di Ci, Leumann (TO) / Alleanza Biblica Universale, Roma 1985. Giustino, Seconda Apologia, trad. di A. Regaldo Raccone, in San Giustino, Le due apologie, Edizioni Paoline, Roma 1993. Origene, Omelie sulla Genesi, a cura di M.I. Danieli, Città Nuova, Roma 1992. Agostino, Confessioni, trad. di G. Chiarini, Valla-Mondadori, Milano 1994-1996. Agostino, Musica, trad. di M. Bettetini, Rusconi, Milano 1997. Agostino, La vera religione, a cura di O. Grassi, Rusconi, Milano 1997. Agostino, La città di Dio, a cura di L. Alici, Rusconi, Milano 1984. Agostino, Il libero arbitrio, trad. di R. Fedriga, in Sant’Agostino, La felicità. La libertà, Rizzoli, Milano 1995.
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Sommario 1. CRISTIANESIMO
E FILOSOFIA TARDOANTICA
Dopo una prima reciproca diffidenza, a partire dal II secolo cristianesimo e filosofia iniziano a integrarsi sempre più profondamente. 2. LA
RIVELAZIONE BIBLICA E IL CRISTIANESIMO
I temi fondamentali della Bibbia ebraica, successivamente chiamata dai cristiani Antico Testamento, sono il monoteismo, la creazione e l’alleanza, di cui la massima espressione è la Legge. [par. 1] Con la predicazione di Gesù di Nazaret nasce il cristianesimo; Gesù viene identificato con il messia dell’Antico Testamento, in greco christòs. Il suo messaggio si presenta come compimento della Legge e nel contempo come ribaltamento dei valori correnti; da qui l’esigenza della conversione (metànoia). [par. 2] Nel Nuovo Testamento, oltre ai Vangeli sinottici, sono raccolte le Lettere di Paolo di Tarso, «l’apostolo delle genti» che universalizza il messaggio cristiano e pone le premesse della dottrina del peccato originale. Nel Vangelo di Giovanni è presente la dottrina del Lògos, nell’Apocalisse una teologia della storia. [par. 3] 3. I
PADRI DELLA
CHIESA
Tra i padri apologisti spicca Giustino, per il quale il cristianesimo è la vera filosofia. Altri padri, nella lotta contro lo gnosticismo e la sua teoria degli eoni, adottano invece una strategia anti-filosofica, come Tertulliano. [par. 1] Della scuola di Alessandria eminenti esponenti sono Clemente Alessandrino, per il quale la filosofia deve avere una funzione ancillare rispetto alla teologia, e Origene, noto per le sue raffinate interpretazioni spirituali, sviluppate tramite allegorie, del testo biblico, e per la sua teoria dell’apocatàstasi. [par. 2] Con l’editto di Costantino, nel 313, il cristianesimo diviene la religione dell’impero; seguono una serie di concili che prima rispondono all’arianesimo e poi fissano i canoni dogmatici; nel IV secolo emergono le figure dei padri cappàdoci e, tra di essi, Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa. [par. 3]
Agostino persegue anzitutto l’obiettivo di mettere al servizio del cristianesimo la cultura classica (pagana). [par. 2]
In linea con la sua impostazione neoplatonica cristianizzata, Agostino pensa l’essere come buono, ma ordinato gerarchicamente secondo una scala di pienezza di forma ed essere tale per cui il male (fisico) risulta essere una mancanza di bene. Quanto al male morale, esso viene inizialmente ricondotto al libero arbitrio. Quanto alla felicità, Agostino combina la contemplazione platonica con la teoria della virtù stoica. [par. 3] Nella sua teoria della conoscenza egli sgombra il campo dai dubbi scettici ed elabora una teoria articolata in percezione, memoria, immaginazione e giudizio, il cui fondamento ultimo risiede nell’illuminazione divina e nell’autentica interiorità. [par. 4] Nella sua teoria del tempo, Agostino prima distingue l’eternità divina dallo scorrere del tempo, poi sostiene che la fonte di misurazione del tempo sia l’anima, riportando così il passato al ricordo, il presente all’attenzione e il futuro all’attesa. [par. 5] Agostino teorizza due cittadinanze: quella della città terrena e quella della città di Dio. Le due cittadinanze corrispondono all’amore per sé o all’amore per Dio. Quanto allo Stato, esso è giusto solo se rispecchia l’ordine divino delle cose. [par. 6] L’etica di Agostino si snoda a partire dal concetto di volontà: da giovane egli considera la volontà buona, o malvagia, come la causa che determina la nostra virtù o meno; è dunque soltanto grazie al libero arbitrio che l’uomo plasma il proprio destino. Nella fase più matura invece, opponendosi alle teorie di Pelagio, Agostino rielabora la teoria del peccato originale di Paolo. Egli sostiene allora che la natura umana è ormai macchiata da un vizio inestirpabile, tale per cui soltanto con l’aiuto di Dio, ovvero con la grazia, l’uomo può salvarsi. Tale aiuto concerne però soltanto i pochi eletti ad esso predestinati dall’insondabile volere divino. [par. 7] L’eredità di Agostino è stata enorme durante tutto il Medioevo, affiancandosi così a platonismo e aristotelismo, ed estendendosi poi ben oltre le soglie della modernità. [par. 8]
4. AGOSTINO
Il percorso biografico e intellettuale di Agostino è divisibile in tre periodi: giovanile, dal 354 al 383, in cui si avvicina al manicheismo e diventa professore di retorica a Cartagine e a Roma; della conversione, dal 384 al 387, segnata dall’incontro con Ambrogio a Milano e dal catecumenato; dell’episcopato, dal 388 al 430, vissuto in Africa e contraddistinto dalle grandi opere e dalle diatribe contro donatisti e pelagiani. [par. 1]
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5. L’AUTUNNO
DELLA PATRISTICA:
IL CORPUS DIONYSIANUM
Probabilmente tra V e VI secolo un monaco siriano scrive sotto il nome di Dionigi cinque opere, note come corpus dionysianum, di raffinata teologia neoplatonica cristianizzata, che hanno enorme influsso fino alla prima età moderna. In esso prende corpo la teologia negativa e mistica.
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino
Parole chiave Allegoria. Gli autori della scuola di Alessandria, come Origene, applicano alla Bibbia un’interpretazione spirituale, articolata in tre livelli (tipologico, morale, anagogico), che grazie all’uso di questa figura retorica consente di alludere a più profonde verità teologiche.
zione divina: in linea con il platonismo, la conoscenza degli archetipi è attivata dalla luce che la divinità irradia nelle nostre anime. Per questa ragione, chi vuole cogliere la verità non deve uscire fuori da sé ma raccogliersi in sé, nella propria autentica interiorità.
Apocatàstasi. Origene riprende la teoria stoica dei cicli cosmici, postulando però che al termine del ciclo i singoli individui possano compiere delle scelte differenti; il fine è l’apokatàstasis pànton, ovvero la «reintegrazione di tutte le cose» in Dio. La dottrina dell’apocatàstasi verrà in seguito condannata.
Legge. Con questo termine si rende l’ebraico torà, che più propriamente significa «istruzione» o «indicazione» di uno stile di vita. Le regole fondamentali sono i dieci comandamenti dettati da Dio a Mosè.
Arianesimo. La dottrina dei cristiani che si rifanno agli insegnamenti del prete alessandrino Ario (256 336), secondo il quale Cristo non sarebbe della stessa essenza di Dio Padre, ma la prima delle creature. Questa dottrina viene condannata dal Concilio di Nicea nel 325. Catecumeno. Nella Chiesa antica, l’adulto che si prepara al battesimo; il periodo di formazione si chiama «catecumenato». Il battesimo dei bambini, per quanto occasionalmente praticato anche in precedenza, si stabilizzerà solo nel V secolo, in seguito all’accettazione delle posizioni teologiche dell’ultimo Agostino sul peccato originale. Conversione (metànoia). In vista dell’imminenza del regno di Dio, Gesù invita ognuno alla penitenza e alla «conversione» (metànoia), ovvero a un cambiamento di mentalità in cui l’amore reciproco sia il primo valore in assoluto. Donatisti. Il vescovo di Cartagine Donato (morto nel 355) fonda una Chiesa africana ostile a quella cattolica. Tesi fondamentali: l’efficacia dei sacramenti dipende dalla dignità di chi li amministra; alla «grande» Chiesa cattolica, pronta ad accogliere chiunque, è preferibile una «piccola» Chiesa di cristiani convinti e di martiri. Vengono definitivamente condannati da un sinodo di vescovi riunito a Cartagine nel 411. Gnosticismo / Eoni. Le scuole gnostiche postulano un radicale dualismo tra sfera spirituale e materiale, tra realtà divina e mondana, che si riflette anche nell’anima umana. Solo pochi eletti hanno la «conoscenza» (in greco gnòsis) della loro affinità col divino. Per gli gnostici il Dio dell’Antico Testamento è un eone o arconte, ovvero un dio inferiore, mentre un eone redentore è Gesù Cristo, il cui messaggio ricondurrà gli illuminati alla pienezza divina. Illuminazione divina / Interiorità. Per Agostino il fondamento ultimo della verità risiede nell’illumina-
Lògos (o Verbo). Nel Vangelo di Giovanni, l’autore riprende la concezione stoica e platonica tardoantica del Lògos come ragione universale, coniugandola al monoteismo ebraico e al ruolo della Parola-pensiero di Dio: nasce così la figura Dio-Lògos-Cristo. Male. Per il giovane Agostino il male non è sostanza ma privazione (privatio boni) o assenza di bene (defectus boni) – il latino privatio ricalca il greco stèresis, nel senso di «mancanza». Ciò significa che tutto ciò che esiste è buono, sia pure in gradazioni diverse. Manicheismo. Movimento religioso fondato dal principe persiano Mani (216-277 d.C.). Si fonda su un radicale dualismo tra regno della luce e regno delle tenebre, principio del bene e principio del male. In un primo momento i due principi sono separati; in un secondo, le tenebre hanno invaso la luce; in un terzo, si ritorna al primo: gli adepti, illuminati, giungono così alla liberazione. Peccato originale / Grazia / Libero arbitrio. Per Paolo è solo la fede nella morte e resurrezione di Gesù a «giustificare» l’uomo di fronte a Dio; al sacrificio di Cristo, opera della «grazia» di Dio, Paolo contrappone quindi il peccato di Adamo. Tale antitesi viene ripresa da Agostino, che radicalizza la tesi di Paolo: ogni individuo porta le conseguenze di un peccato originale, cioè di un vizio della natura umana che limita il volere e la libertà di scelta. Ciò che Adamo ha compiuto per propria «volontà» diventa «natura» nei suoi discendenti, dunque un’incapacità di compiere il bene con le sole proprie forze. L’uomo non è dunque libero, cioè non dispone del libero arbitrio per poter scegliere e compiere il bene senza l’aiuto di Dio, ovvero senza la grazia. Pelagiani. I pelagiani (IV-V secolo) sostengono che l’uomo non è soggetto a un destino predeterminato: l’uomo è libero e ha il dovere di scegliere e realizzare il bene. Se pure il peccato di Adamo è un esempio negativo, ogni uomo è in grado di compiere scelte etiche senza bisogno del soccorso della grazia divina. 519
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Questionario CRISTIANESIMO 1
LA
I
E FILOSOFIA TARDOANTICA
A partire da che secolo il cristianesimo e la filosofia iniziano a integrarsi? (max 1 riga)
Lavoriamo sui testi 16
In quali macrocategorie potresti suddividere i dieci comandamenti esposti in T1? (max 6 righe)
17
Qual è il filo rosso, se c’è, che lega T2 e T3? (max 6 righe)
18
Che rapporto viene instaurato in T4 tra Dio e il Lògos, e a quale tradizione filosofica è riconducibile tale approccio? (max 8 righe)
19
Che relazione viene stabilita da Giustino, in T5, tra il Lògos e Cristo? (max 6 righe)
20
Precisamente come interpreta Origene, in senso allegorico, gli animali del quinto giorno della creazione in T6? (max 6 righe)
21
Con quali argomenti Agostino, in T7, dimostra che il male non è una sostanza? (max 8 righe)
22
In che senso l’anima, nel processo della percezione o sensazione, è attiva, stando a T8? (max 10 righe)
23
Che tipo di luce Agostino vede risplendere in se stesso in T9, e che significato ha l’immagine? (max 8 righe)
RIVELAZIONE BIBLICA E IL CRISTIANESIMO
2
Che cosa prescrive la «Legge» dell’Antico Testamento? (max 6 righe)
3
Perché nel messaggio di Gesù risulta fondamentale la conversione (metànoia)? (max 6 righe)
4
Come si può sintetizzare la teoria del Lògos contenuta nel Vangelo di Giovanni? (max 10 righe)
PADRI DELLA
CHIESA
5
Quali sono i principi fondamentali dello gnosticismo? (max 6 righe)
6
Che cosa contraddistingue una interpretazione allegorica? (max 5 righe)
7
Che cosa sancisce l’editto di Costantino del 313? (max 3 righe)
AGOSTINO 8
Quali sono i tre periodi principali che segnano la vita di Agostino? (max 3 righe)
9
In che senso per Agostino il male è considerato «privazione di bene»? (max 6 righe)
24
Qual è l’obiettivo cui mira l’indagine umana e quali i suoi metodi stando a T10? (max 10 righe)
10
Perché il fondamento ultimo della verità risiede nell’illuminazione divina? (max 6 righe)
25
Quali sono le caratteristiche fondamentali della città di Dio e di quella terrena esposte in T11? (max 10 righe)
11
In che senso per Agostino è l’anima la fonte di misurazione del tempo? (max 10 righe)
26
Che cosa intende dire Agostino citando l’aneddoto del pirata catturato da Alessandro Magno in T12? (max 8 righe)
27
Quali sono le caratteristiche e quali le conseguenze etiche attribuite alla volontà buona in T13? (max 8 righe)
28
Quali sono i punti cruciali dell’argomentazione esposta in T14 tale per cui soltanto la grazia può salvarci? (max 12 righe)
12
A quali propensioni interiori corrispondono le due cittadinanze? (max 6 righe)
13
In che cosa consiste il cambiamento di posizione di Agostino rispetto al libero arbitrio? (max 12 righe)
14
A quali altre tradizioni è confrontabile quella inaugurata da Agostino? (max 6 righe)
L’AUTUNNO 15
DELLA PATRISTICA: IL CORPUS DIONYSIANUM
A quando risale e da chi è stato scritto il corpus? (max 4 righe) www.edusophia .it
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Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino
Laboratorio di lettura Le Confessioni di Agostino Mentre i primi nove libri delle Confessioni sono scanditi dal racconto autobiografico fino alla conversione, negli ultimi quattro Agostino condivide col lettore la sua ricerca presente di Dio. In particolare, il X libro è centrato sulla memoria come via di accesso alla conoscenza di Dio; i libri XI-XIII sono dedicati alla comprensione del I capitolo della Genesi, a partire dal suo versetto iniziale («In principio Dio creò il cielo e la terra»). In questo modo la vicenda personale sfocia in una riflessione universale sul rapporto tra creatura e creatore e sul ritorno in Dio. Le pagine agostiniane sul tempo nella seconda parte dell’XI libro vanno intese in questo contesto di meditazione sul versetto iniziale della Genesi. Agostino sta preparando se stesso e il lettore a una più piena comprensione della dinamica della creazione, in cui si instaura un rapporto tra l’immutabile (Dio) e il mutevole (il divenire di tutte le cose). È ingenuo infatti pensare che il versetto biblico situi la creazione nel tempo: Dio vive nella sua eternità immutabile e compresente, dove niente trascorre; il tempo stesso, invece, è stato creato insieme all’universo. Dopo una prima parte, qui omessa, in cui si rileva il paradosso della creazione (passaggio dall’immutabiltà di Dio alla mutevolezza del mondo), ora, al fine di comprendere meglio la distinzione tra eternità di Dio e temporalità delle cose create, Agostino si interroga sulla natura del tempo.
Agostino: il tempo non è nelle cose ma nell’anima
La domanda iniziale: cos’è il tempo così familiare ma così difficile da definire?
Commento e interpretazione
17. Non c’è stato dunque un tempo in cui tu non abbia fatto qualcosa, poiché il tempo stesso è opera tua. E non c’è un tempo che ti sia coeterno, poiché tu permani; e se il tempo permanesse, non sarebbe più il tempo. [A] Cos’è infatti il tempo? Chi saprebbe coglierne, anche solo col pensiero, quel tanto che basta per tradurlo in parole? Eppure, vi è una nozione più familiare e nota, nei nostri discorsi, del tempo? […] Cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so. [B]
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A. Nella prima parte dell’XI libro, di cui si riporta qui il riepilogo conclusivo, Agostino ha stabilito che il tempo è stato creato insieme all’universo. Dunque non ha senso il provocatorio quesito manicheo su che cosa facesse Dio prima di creare il mondo. Nessun tempo, anche se fosse infinitamente allungato all’indietro e in avanti, potrebbe essere paragonato all’eternità divina, che è pura permanenza e compresenza, senza estensione alcuna. Per comprendere meglio questa differenza rispetto all’eternità divina, Agostino sviluppa di qui in poi una meditazione sulla natura del tempo, attraverso esperimenti concettuali che mostrano paradossi impliciti nelle nostre esperienze ordinarie. B. La nostra esperienza quotidiana è piena di riferimenti al tempo: pensiamo gli eventi nel tempo, parliamo del tempo, lo misuriamo, ci orientiamo in esso. Quando però cerchiamo di definire cosa è il tempo, sorgono difficoltà. Già tradizioni filosofiche precedenti, come stoicismo e scetticismo, avevano problematizzato l’inafferrabilità del tempo.
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo Prima risposta: il tempo è passato, futuro, presente Obiezione: il passato non è più, il futuro non è ancora, il presente è subito passato
Conseguenza: passato e futuro non sono misurabili, e così il presente, fatto di passato e di futuro
Com’è possibile misurare un presente che si vanifica?
Tuttavia, questo posso affermare con fiducia di sapere, che, se nulla passasse, non vi sarebbe un tempo passato, e se nulla venisse, non vi sarebbe un tempo futuro, e se nulla esistesse, non vi sarebbe un tempo presente. Ma allora questi due tempi, il passato e il futuro, come possono esistere, se il passato ormai non è più e il futuro non ancora? [C] Quanto al presente, se fosse sempre presente senza diventare passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente per essere tempo, diventa tale perché diventa passato, come possiamo dire anche di lui che esiste, se l’unica ragione del suo esistere è che non esisterà, non potendo cioè realmente dire che il tempo esiste se non in quanto tende a non esistere? [D] 18. Eppure parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendoci solo al passato o al futuro. Diciamo lungo, ad esempio, un tempo passato di cent’anni prima, e lungo un tempo futuro di cent’anni dopo; diciamo invece breve un passato, poniamo, di dieci giorni prima, e breve un futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o breve qualcosa che non esiste? Il passato infatti non è più, il futuro non ancora. […] Questo tempo passato che è stato lungo, è stato lungo quando era già passato o quand’era ancora presente? […] [E] 19. Vediamo allora, o anima umana, se il tempo presente può essere lungo: ti è stato dato infatti di percepire la durata e misurarla. Cosa mi risponderai? È forse lungo un presente di cento anni? Vedi innanzitutto se cento anni possono essere «presenti». Se infatti è in corso il primo di tali anni, esso è presente, ma i restanti novantanove anni sono futuri, e perciò ancora non sono; se invece è in corso il secondo anno, uno è già passato, uno è presente, gli altri futuri. E così per qualsiasi altro anno intermedio, tra i cento, che fissiamo come presente: i precedenti saranno passati, i seguenti futuri. Vedi, allora, se almeno l’anno in corso sia presente. […] L’anno […] è di dodici mesi dei quali quello in corso, quale che sia, è presente, gli altri o passati o futuri. Sebbene nemmeno il mese in corso sia presente, ma soltanto un solo giorno: se è il primo, i restanti sono futuri, se è l’ultimo, i restanti sono pas-
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C. Non ci sarebbe il tempo se non ci fossero cose che mutano, che divengono, che trascorrono. Ma, proprio per questo, il tempo è un passaggio di ciò che non è ancora (il futuro) verso ciò che non è più (il passato). Dunque, a ben considerare, passato e futuro si rivelano inesistenti. D. Mentre il futuro e il passato sono senz’altro inesistenti, il presente ha un’esistenza breve e inafferrabile, in quanto proviene dal futuro (inesistente) e continuamente si riversa nel passato, annullandosi in esso (se permanesse, senza mutare, non sarebbe tempo, ma eternità). Dunque non è inesistente, ma «tende a non esistere». E. Agostino affronta ora i paradossi quantitativi del tempo, ossia legati alla sua misurabilità: i tempi passati e futuri, che abbiamo visto essere inesistenti (perché non esistono più o non esistono ancora), sono però misurabili. Infatti diciamo che un passato di cento anni è più lungo di un passato di dieci giorni (e lo stesso per il futuro). Come è possibile misurare qualcosa che non esiste? E poi, un passato lungo cento anni è lungo ora o era lungo quando era presente? Quest’ultimo aporetico quesito conduce alla sezione immediatamente successiva sulla misurabilità del presente. F. Possono essere interamente presenti cento anni, un anno, un mese, un giorno? No, perché, in realtà, ogni porzione di tempo che consideriamo si rivela scomponibile, fino ad arrivare a un istante inafferrabile. Dunque com’è possibile misurare il presente, che è un istante senza durata, un istante che immediatamente trapassa dal futuro al passato? In questa se-
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Obiezione: noi misuriamo gli intervalli di tempo, anche se lo facciamo solo mentre il tempo passa
Argomenti: quando parliamo di passato e futuro in realtà evochiamo momenti presenti, grazie alle rappresentazioni della nostra mente
sati, se è uno qualsiasi degli intermedi, è tra giorni passati e giorni futuri. 20. […] Ma anche questo è da approfondire, perché nemmeno un giorno è mai del tutto presente. Un giorno completo è formato da ventiquattro ore […] E a sua volta un’ora è costituita da una serie di fugaci particelle, di cui ciò che è volato via è passato, ciò che resta è futuro. Se è pensabile una frazione di tempo che non possa essere suddivisa in ulteriori – sia pur minutissime – parti, essa sola è definibile come presente; ma anche questa trapassa così rapidamente dal futuro al passato, da non avere la benché minima durata. Se infatti durasse, sarebbe divisibile in passato e futuro, mentre il presente non ha alcuna estensione. Dov’è allora un tempo che possiamo definire lungo? […] [F] 21. E tuttavia, Signore, noi avvertiamo gli intervalli di tempo e li confrontiamo tra loro e li diciamo più lunghi o più brevi. Misuriamo anche di quanto un tempo sia più lungo o più breve di un altro e rispondiamo che l’uno è il doppio o il triplo, l’altro semplice, ovvero che ha la stessa durata. Noi però misuriamo il tempo mentre passa, poiché lo misuriamo avendone percezione; il passato invece, che ormai non è più, o il futuro, che non è ancora, chi può misurarli? […] [G] 23. Quando si raccontano fatti veri passati, dalla memoria si estraggono non le cose stesse, che sono passate, ma le parole ricavate dalle loro immagini, passate nella mente attraverso i sensi e rimastevi impresse come delle orme. La mia infanzia, ad esempio, che non è più, […] quando la richiamo per raccontarla, la vedo nel tempo presente, poiché continua a esistere nella mia memoria […] [H] 24. Chi […] afferma di vedere il futuro, non vede le cose stesse, che ancora non sono, ma piuttosto, forse, le loro cause, o i loro segni, che già sono e che dunque non sono futuri, bensì già presenti a chi vede, e grazie a loro la mente concepisce e predice il futuro. Queste concezioni già esistono, e chi predice le vede dentro di sé. Me ne dia un esempio tanta massa di cose. Contemplo l’aurora: preannuncio il sorgere del sole. Ciò che contemplo è presente, ciò che preannuncio futuro […] [I]
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zione Agostino sviluppa, con maestria retorica, spunti riconducibili allo stoico Crisippo e fatti propri già da Seneca (De brevitate vitae, 10,4). È da segnalare che nell’espressione «anima umana […] ti è stato dato […] di percepire la durata e misurarla» si anticipa quello che sarà il punto cruciale della soluzione: il ruolo dell’anima umana misurante. G. Risulta veramente paradossale la natura del tempo, oggettivamente inesistente o fuggevole, concettualmente indefinibile, eppure così familiare nel linguaggio, nel pensiero e nelle nostre misurazioni. Già Aristotele sottolineava che il tempo è collegato alla misurazione di ciò che muta («il tempo è la misura del movimento secondo il prima e il poi», Fisica, 2,11). Agostino mette al centro il ruolo del soggetto misurante. H. Del passato non sono le cose stesse a sussistere, ma le loro rappresentazioni mentali (che nascono dalle tracce passate, attraverso i sensi, alla mente). Il passato è una funzione della memoria, che lo riattualizza attraverso la parola e il racconto. I. Anche il futuro, che entro certi limiti è possibile prevedere, non consiste di cose, ma di rappresentazioni mentali: dai segni di cause presenti, e postulando la regolarità dei comportamenti naturali, posso prevedere un evento futuro. Per esempio, nei segni presenti dell’aurora colgo ora un’anticipazione della venuta futura del sole. A questo punto Agostino ha mostrato che sia il passato che il futuro non esistono in sé, ma come rappresentazioni della mia attività pensante presente.
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26. Almeno questo adesso è limpido e chiaro. Né il futuro né il passato sono, né è corretto dire: i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma forse sarebbe più proprio dire: i tempi sono tre, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste tre forme, infatti, sono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione (contuitus), il presente del futuro l’attesa. […] [L] 29. Ho sentito dire da un dotto che il tempo non è altro che il moto del sole, della luna e degli astri, ma non gli ho dato ragione. […] Se si fermassero i luminari del cielo e continuasse a girare la ruota di un vasaio, forse che non ci sarebbe più il tempo per misurare quei giri e dire se si susseguono a ritmo costante, o se alcuni vanno più lenti altri più veloci, alcuni più lunghi, altri più brevi? […] Dio, da’ all’uomo di vedere nel piccolo i concetti comuni delle piccole cose e delle grandi. Ci sono le stelle e i luminari del cielo a segnare i tempi, i giorni, gli anni. Ci sono, certamente; ma come io non pretendo di sostenere che il giro compiuto da quella piccola ruota di legno sia il giorno, neanche quel dotto oserà dire per questo ch’esso non sia un tempo. […] [M] Conseguenza: 33. Il tempo non è altro che un’estensione (distentio): di che cosa, non so, il tempo è estensione ma mi stupirei se non fosse un’estensione della mente stessa (ipsius animi). della mente (animus)… […] 36. È in te, mente mia (anime meus), che misuro il tempo. […] L’impressione che le cose lasciano in te al loro passaggio, e che rimane dopo che sono passate, è quanto io misuro presente, non le cose che sono pas-
Soluzione: i tre modi del tempo sono nell’animo: presente del passato (memoria), presente del presente (visione) e presente del futuro (attesa)
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L. Se considerato oggettivamente, il tempo appare inesistente (al futuro e al passato) o istantaneo e inafferrabile (al presente). Le tre determinazioni temporali (passato, presente, futuro) sono piuttosto in funzione di un agente misurante che distribuisce in esse gli eventi. Il passato e il futuro sono due forme di attività della mia mente, che ricorda e attende; entrambe esistono solo nella mia attività pensante presente. Dunque la memoria è l’esperienza presente del passato, l’attesa è l’esperienza presente del futuro, mentre la visione mentale diretta che ho in questo momento è il presente del presente. Così le aporie derivanti dall’oggettiva inesistenza del passato e del futuro sono risolte ponendo tutte le rappresentazioni mentali in rapporto all’attività presente del soggetto pensante. M. Nell’antichità erano state avanzate varie teorie che identificavano il tempo con il movimento dei corpi celesti. Il moto regolare degli astri era infatti considerato un parametro oggettivo di misurazione. In realtà, osserva Agostino, il moto degli astri è nel tempo, dunque manifesta il tempo, ma non è il tempo. Anche se Dio fermasse il moto celeste, come secondo la Bibbia qualche volta ha fatto, potremmo continuare a misurare il moto della ruota di un vasaio, a prescindere dalla rotazione degli astri. Questo prova che il principio misurante è posto altrove. N. Il tempo è in funzione dell’attività misuratrice della mia mente che si estende, ovvero si articola nelle tre dimensioni di presente, passato e futuro. La mente è, dunque, il luogo del tempo. È qui che io misuro non gli eventi stessi, ma le loro rappresentazioni mentali, distribuite nelle tre forme psicologiche dell’attesa (per il futuro), dell’attenzione (per il presente) e del ricordo (per il passato). O. È nella mente che gli oggetti percettivi dispersi nel flusso temporale vengono costituiti in unità. Mentre compio un’azione dotata di senso unitario (come cantare una canzone) tengo mentalmente insieme la memoria di ciò che è già avvenuto (la parte già eseguita), l’attenzione per l’istante esecutivo presente e l’attesa per la parte da eseguire ancora, che mi prefiguro mentalmente.
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… e in Dio l’uomo supera la propria ‘molteplicità’, la mancanza di unitarietà che si esprime nel tempo
sate per imprimerla; è questa che misuro quando misuro il tempo. E perciò o è questo il tempo, o non è il tempo che misuro. […] 37. Ma come può diminuire o consumarsi il futuro, che non è ancora, o crescere il passato, che non è più, se non perché nella nostra mente, sede dell’operazione, ci sono tre fasi? Essa infatti aspetta, osserva, ricorda. […] [N] 38. Mi appresto a cantare una canzone che conosco: prima di cantare, la mia attesa è rivolta all’intera canzone, ma dopo che ho cominciato, tutto quello che via via consegno al passato riempie la mia memoria, e dunque il corso di questa mia azione si divide, distendendosi nella memoria per la parte cantata, nell’attesa per quella ancora da cantare: ma presente è l’attenzione attraverso cui ciò che era futuro passa per diventare passato. […] [O] 39. Ma «poiché la tua misericordia è al di sopra di tutte le vite», ecco che la mia vita non è che distrazione (distentio), «e la tua destra mi ha raccolto» nel mio Signore, il Figlio dell’uomo, mediatore tra te solo e noi molti, in tante cose e in tanti modi, affinché «per suo mezzo io afferri colui dal quale sono stato afferrato», e lasciati i giorni antichi io rientri in me seguendo l’Uno, «dimentico delle cose passate», non distratto (distensus) verso le cose future, che passeranno, ma proteso (extensus) verso quelle che stanno avanti, e non con distrazione (distentio) ma «con tensione (intentio) inseguo la palma della chiamata celeste, quando udrò il canto di lode e contemplerò la tua gioia» che non viene e che non va via. [P]
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(da Agostino, Confessioni, 11,14,17-39, trad. di G. Chiarini, Valla-Mondadori, Milano 1996)
P. La distentio animi non è solo articolazione (funzionale e positiva) nelle tre dimensioni temporali, ma anche dispersione, cioè contrassegno della mancanza di unitarietà della creatura, se paragonata all’unitarietà di Dio. A differenza dell’eternità di Dio, perfetta e immobile, la creatura vive nella temporalità, dunque è dispersa nella molteplicità, nell’estensione. Solo attraverso la mediazione di Cristo la creatura si raccoglie in unità nel Principio, in Dio. Infatti nel Figlio, che è Lògos incarnatosi e poi tornato al Padre, è già pienamente realizzato l’incontro tra eternità e tempo. Ecco perché è il perfetto mediatore che guida l’uomo a superare la sua dispersione. Quando l’uomo non si protende più verso quel futuro temporale che rapidamente trapassa nel passato, ma verso le verità eterne che permangono, non vive più nella distentio (vista ormai come dispersione), ma nella tensione e proteso verso Dio. Per esprimere questo mutamento di prospettiva, che è il passaggio dal piano della temporalità a quello della propensione all’eternità sperata, Agostino ha buon gioco in latino utilizzando, con virtuosismo retorico e concettuale, composti del verbo tendere con diversi prefissi (dis-tentio, ex-tentio e in-tentio).
Questionario sull’argomentazione 1
Con quali argomenti Agostino mostra la natura paradossale del tempo? (max 8 righe)
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Qual è il fulcro concettuale della soluzione-conclusione proposta da Agostino? (max 6 righe)
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Quali sono i tre argomenti grazie ai quali Agostino dimostra che il tempo è in funzione di un agente misurante? (max 5 righe)
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Che rapporto corre tra la conclusione e i concetti di distrazione-dispersione, protensione e tensione? (max 8 righe) 525
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Tesi a confronto Predestinati o liberi? Agostino ha dedicato alla polemica antipelagiana gli ultimi vent’anni della sua vita e opere importanti come Lo spirito e la lettera (412), La natura e la grazia (415), La grazia e il libero arbitrio (427), fino al suo ultimo scritto, l’incompiuto Contro Giuliano (427-430). Pelagio, autore della Possibilità di non peccare, e il suo seguace Giuliano di Eclano, ritenevano l’uomo dotato di piena libertà, quindi di una piena capacità personale di perseguire il bene e tenersi lontano dal peccato. Agostino, ormai anziano vescovo di Ippona, temeva che queste dottrine potessero indebolire il valore del sacrificio di Cristo e il ruolo della Chiesa e dei sacramenti, perciò oppone all’ottimismo morale pelagiano una concezione sempre più pessimistica: a prescindere da meriti o demeriti individuali, l’intera umanità è peccatrice per una sorta di natura acquisita trasmessa dal peccato di Adamo (per via di propagazione biologica). Solo l’intervento misterioso della grazia di Dio può restituire il libero arbitrio e salva alcuni (pochi) predestinati, riscattandoli dalla «massa dannata». Una concezione così pessimistica della natura umana e della salvezza divina, imperscrutabilmente riservata a pochi, genera molti problemi alla nostra riflessione razionale. Potrebbe sembrare, infatti, una posizione accettabile solo per chi abbia un senso di personale inadeguatezza, che lo spinga a ritenersi immeritevole di alcunché e radicalmente incapace di scelte autonome e responsabili. Gli studiosi si sono interrogati sulla sostenibilità filosofica di queste posizioni. Presentiamo qui le voci di due interpreti tedeschi contemporanei. Flasch e la critica Nella sua monografia del 1980 su Agostino, Kurt Flasch considera l’opera A Simalla logica «disumana» pliciano del 396 come il punto di svolta. Fino ad allora la riconciliazione con Dio della grazia in Agostino era stata interpretata nel senso neoplatonico di una ricongiunzione col Principio primo, da effettuarsi nell’uomo interiore. Dopo il 396 Agostino modifica profondamente, in chiave teologica, le sue concezioni sul peccato, sulla natura corrotta dell’uomo, sulla radicale degenerazione della nostra capacità di giudizio e di scelta, portando così le idee di Paolo alle estreme conseguenze. Flasch arriva a qualificare come «disumana» l’idea che la nostra volontà, ormai corrotta, non possa che fare del male, quando non sia piegata in altra direzione e «in modo irresistibile» dalla grazia divina (concessa tuttavia a pochi eletti, indipendentemente dai loro meriti etici). I tentativi di alcuni interpreti di invocare una «superiore» sintesi tra libertà umana e grazia divina sono ritenuti da Flasch «ideologici», cioè giustificazioni razionalizzanti, costruite a posteriori, per nascondere la realtà dei fatti. La polemica antipelagiana e l’intervento della grazia
Prima risposta
L’uomo non è libero in quanto uomo ma solo se è salvato dalla grazia divina da Kurt Flasch, Agostino di Ippona
La svolta del 396. La grazia: da conciliazione a privilegio per pochi eletti
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La «grazia» era stato un argomento di cui si era parlato molto anche negli scritti ecclesiastici prima di Agostino. Ma il concetto aveva avuto allora un significato generale. Esprimeva la consapevole speranza di redenzione delle comunità primitive e la fede nell’attività onnicomprensiva di Dio: il sommo Bene ha fondato tutto ciò che è buono. Così Agostino poteva parlare nel 391
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Un uomo senza libertà propria
La predestinazione: intervento divino irresistibile
Tentativi infruttuosi di conciliare grazia e libertà
della gratia, intendendo la conciliazione con Dio attraverso Dio stesso. Come il figlio di Dio, seconda persona della Trinità, illumina tutti gli uomini, così lo Spirito Santo ci ricongiunge di nuovo con la nostra origine. […] Dal 396 in poi Agostino la interpretò in senso più stretto. Ora Agostino intendeva per «grazia» il privilegio concesso a pochi eletti. Prima aveva creduto che fosse in potere dell’uomo decidere, in quanto essere libero, di aderire alla fede, ora sosteneva che la fede sorge in noi solo attraverso la grazia, senza la nostra collaborazione. Prima che la grazia ci sia concessa la nostra volontà non è libera; l’umanità infatti ha perduto la libertà del volere in seguito alla caduta di Adamo; essa ha solo la libertà di fare il male. Questo vale per la stragrande maggioranza degli uomini. Infatti il Dio di Agostino non vuole che tutti gli uomini diventino felici. Se lo volesse, lo sarebbero tutti. […] Ancora più evidente è la rottura che Agostino provoca […] con la teoria della libertà. È libero colui che la grazia divina chiama alla libertà; l’uomo non è libero in quanto uomo, ma solo se appartiene alla schiera degli eletti. Così Agostino rinuncia di nuovo alla concezione della libertà con la quale si era sottratto al manicheismo. La nostra volontà deve essere «salvata» per diventare libera. […] Nel 412 la volontà resa libera e forte della grazia aveva ancora un proprio compito ineludibile: aderire all’appello divino o rifiutarlo. Nella sua ultima fase, 428/429, Agostino metteva in evidenza il fatto che la fede nasce e si alimenta crescendo ad opera di Dio e della nostra volontà. Tuttavia accentuò a tal punto la predestinazione che la grazia divenne irresistibile. Questa dottrina della predestinazione è l’aspetto più arduo e difficile del pensiero di Agostino. […] Certo Agostino non voleva negare la libertà del volere. Negli ultimi anni della sua vita ha cercato di contestare che la sua dottrina della predestinazione rendesse privi di senso ogni sforzo ed ogni aspirazione dell’uomo. Ma se noi possiamo fare il bene solo se Dio «predispone» la nostra volontà, se Dio intraprende questa preparazione solo in pochi uomini ed in questi inoltre agisce con effetto irresistibile, il concetto di libertà è liquidato, anche se Agostino verbalmente lo mantiene. […] La più elegante difesa della dottrina agostiniana della grazia che si possa tentare potrebbe essere questa: con l’aiuto dei passi filosofici più profondi, contenuti nelle opere tarde di Agostino, passi che trattano della semplicità e della sostanziale bontà divina, cercare di migliorare i testi più duri dedicati alla teoria della predestinazione e quindi superare i loro sprovveduti antropomorfismi. Se questo metodo viene coerentemente applicato fa sparire, assieme agli antropomorfismi anche la dottrina della grazia. […] Di solito i testi filosofici tedeschi su Agostino disdegnano di entrare in questo modo nel dedalo delle finezze interpretative. Essi «giustificano» la dottrina della grazia, così centrale in Agostino, passandola sotto silenzio oppure «conciliandola» in una «superiore» sintesi con il concetto di libertà. Ora lo stesso Agostino si è difeso contro il rimprovero che gli veniva rivolto di distruggere la libertà del volere. Ma egli pensava che la volontà di molti tra quelli che non hanno ricevuto la grazia è una volontà «prigioniera» poiché essa è libera solo di fare il male, mentre la grazia la rende veramente libera. Era un’idea disumana ma inequivocabile e chiara. Se si cerca di giustificare questa teoria attraverso il richiamo alla «dialettica» di libertà [umana] ed attività divina, si rinuncia ad essa in modo confuso. Tolto il velo della retorica non rimane altro che un semplice elemento di ideologia tedesca. 527
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo La replica di Horn e il ruolo dell’individuo nel disegno divino
Seconda risposta
Ascoltiamo ora la voce di Christoph Horn che nella sua equilibrata monografia su Agostino del 1995 denuncia i limiti dell’interpretazione di Flasch e suggerisce in che modo interagiscano grazia divina e libertà umana. Attraverso riferimenti puntuali ai testi agostiniani, Horn sottolinea il ruolo dell’individuo nell’accettare e assecondare l’iniziativa divina. I meriti individuali non scompaiono, ma consistono nel saper accogliere e assecondare la grazia divina. Tuttavia, anche se la dottrina del peccato originale può avere un fondamento biblico, rimane poco chiaro il modo della sua trasmissione da Adamo a tutti i discendenti. Parlando di trasmissione seminale, dunque biologica, Agostino compie un «errore categoriale», cioè spiega un livello della realtà (quello morale-spirituale) facendo appello a dinamiche di un altro livello di realtà (quello biologico) che non sembrano collegate al primo.
L’uomo ha la libertà di assecondare la grazia divina; grazia e libertà non si escludono a vicenda da Christoph Horn, Sant’Agostino
La grazia divina non annulla la libertà umana bensì si impone su di essa
Le tesi di Flasch: eliminazione di ogni azione reciproca tra Dio e l’uomo
L’uomo coopera con l’iniziativa divina perché è responsabile di credere o non credere e può respingere la grazia
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Con la dottrina della grazia […] Agostino non abbandona forse il principio dell’autonomia morale dell’uomo, proprio come pensava Pelagio? È noto ciò che l’Ipponate scrisse in tarda età: «Nella soluzione di questa questione mi sono dato molto da fare per sostenere il libero arbitrio della volontà umana, ma ha vinto la grazia di Dio» (Ritrattazioni II, 1, 1). Questa frase viene talvolta intesa come se affermasse che la grazia e la libertà si escludono rigorosamente a vicenda. Agostino, invece, vuole soltanto dire che la dottrina della grazia si è imposta su quella del libero arbitrio. Grazia e libertà, per Agostino, non si escludono affatto: la teoria della libertà espressa nel De libero arbitrio contiene il concetto della grazia, esattamente come la più tarda dottrina della grazia contiene quello della libertà. Per contro, Kurt Flasch ha bollato come inumana la posizione di Agostino, che egli ricostruisce in questi termini: in base all’assunto secondo cui è Dio a produrre ogni bene, e quindi anche le buone azioni umane, l’Ipponate avrebbe negato all’uomo qualunque capacità, anche la più modesta, di contribuire all’evento della redenzione e sostenuto, perciò, che anche il primo atto di conversione a Dio degli eletti dipenderebbe dalla gratia preveniens [la «grazia che anticipa» ogni nostra iniziativa buona], essendo anche la fede un dono divino […]. L’uomo, in questa prospettiva, non può opporsi alla grazia divina, né ottenerla di propria iniziativa: essa può certo agire per vie complicate, ma da ultimo la sua efficacia è irresistibile. Nella ricostruzione di Flasch, dunque, ogni possibilità di azione reciproca tra Dio e l’uomo è eliminata: Dio non ha nulla a che fare col peccatore, e nell’eletto è soltanto Dio che agisce. Si darebbe così una «doppia predestinazione»: la redenzione o la dannazione sarebbero stabilite per ogni uomo fin dal principio e senza la sua partecipazione attiva. Bisogna ammettere che, a partire da A Simpliciano, la dottrina della grazia non prende più in alcuna considerazione i meriti umani se non in quanto condizionati dalla grazia. In precedenza Agostino aveva sostenuto la dottrina secondo cui Dio, già al momento della creazione, prevede la futura conversione o l’allontanamento da lui da parte dell’uomo, limitandosi quindi ad assecondarne la moralità con la propria grazia.
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Imprescindibilità del sostegno divino nella dottrina del libero arbitrio e della grazia
La macchia del peccato originale e la giustificazione razionale della dottrina della grazia
Peccato originale e bontà di Dio
D’altro canto, anche nella successiva fase di pensiero Agostino concede all’uomo la possibilità di cooperare attivamente alla salvezza, poiché lo considera responsabile della sua disponibilità a credere o a non credere (cfr. per esempio A Simpliciano I, 1, 14); inoltre, Agostino è convinto che siano i meriti morali ciò che conduce ognuno dei redenti dalla chiamata iniziale ricevuta in vita («vocatio») all’elezione definitiva («electio») che ha luogo nel giudizio universale (Simpl. I, 2, 13). Ancora, è falso affermare che la grazia agisca in modo irresistibile, poiché resta sempre aperta la possibilità che essa venga respinta da parte dell’uomo (cfr. per esempio Lo spirito e la lettera, 31, 54). […] La dottrina del libero arbitrio sviluppata inizialmente e la posteriore dottrina della grazia non divergono, dunque, quanto ai loro concetti centrali, giacché entrambe negano che, senza il sostegno divino, la libera volontà dell’uomo possa mai raggiungere la propria mèta. La loro differenza consiste semmai nel fatto che, in base alla prima, Dio salva coloro di cui prevede, nella propria onniscienza, che si rivolgeranno a lui, mentre in base alla seconda, Dio li elegge in conformità a un suo giudizio insondabile. Il passaggio dalla prima posizione alla seconda non può essere spiegato in base a una presunta alternativa tra libertà e grazia, bensì mediante l’ecclesiologia di Agostino […]. Gli uomini prima della venuta di Cristo, ad esempio, erano esclusi dalla possibilità della salvezza? Agostino lo nega, sostenendo che il cristianesimo è sempre esistito, ancorché sotto denominazioni diverse (Ritrattazioni, I, 13, 3). Ma se le cose stanno in questo modo ci si deve chiedere, allora, perché mai un tale «cristianesimo senza nome» non potrebbe esistere anche dopo la venuta di Cristo. Agostino fatica a trovare una risposta convincente. Se la Chiesa è necessaria per la salvezza, chi sono quelli che Dio elegge a farne parte? E per quale ragione elegge proprio loro? Di fatto, l’Ipponate era posto di fronte a un dilemma: o (a) affermare che i meriti umani sono determinanti per la decisione divina – il criterio della meritorietà morale, però, non spiega per quale motivo possano appartenere alla Chiesa anche i neonati battezzati –, oppure (b) sostenere che Dio elegge o condanna un uomo senza una ragione comprensibile – ma in questo caso Dio assume le vesti di un tiranno spaventoso e crudele. La riflessione di Agostino su questo problema, nell’arco di tempo compreso tra il 391 e il 397, seguì un percorso assai complicato. Nel serrato confronto esegetico con la Lettera ai Romani (5-9) egli si imbatté, infine, nella via d’uscita prospettatagli dalla dottrina del peccato originale […]: il secondo corno del dilemma (b) apparirebbe infatti accettabile se fosse possibile affermare che l’insondabilità del decreto divino non riguarda l’alternativa di elezione e dannazione, bensì la sola elezione. Ma questo è proprio ciò che accade in presenza di una colpa comune a tutto il genere umano: Dio, se è vero che non salva o condanna ciecamente, bensì redime con giudizio insondabile alcuni fra la totalità dei reietti, non sarà più un tiranno che decide in modo arbitrario, bensì un giudice clemente che in modo inatteso risparmia alcuni fra la schiera dei colpevoli. Dunque, non si ha più il diritto di accusare Dio di ingiustizia; per contro, la sua bontà è attestata dagli stessi redenti, sottratti alla giusta pena, mentre i reietti non hanno alcuna ragione di lamentarsi del proprio destino. Dio sembra addirittura eleggere i peggiori peccatori, proprio al fine di annientare l’idea del merito umano. […] Agostino riteneva di avere scoperto nella dottrina 529
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La dottrina della trasmissione ereditaria della colpa e i problemi irrisolti della tesi agostiniana
del peccato originale una soluzione profondamente razionale per risolvere il problema della grazia, fondata altresì sul testo biblico. […] Agostino giunse alla conclusione che l’apostolo [Paolo] […] aveva inteso un coinvolgimento universale del genere umano nel peccato: tutti, senza eccezione, «muoiono in Adamo, a partire dal quale il peccato originale è passato in tutto il genere umano», ciò che ha corrotto permanentemente la natura dell’uomo (Simpl. I, 2, 16). La dottrina secondo cui l’umanità intera è colpevole in misura tale da meritare la dannazione non è affatto, però, tanto razionale quanto appariva ad Agostino. Come può, infatti, un solo uomo aver peccato in rappresentanza dell’intero genere umano? Come ci si deve immaginare la trasmissione di una colpa morale? Agostino sosteneva che in Adamo ha peccato la nostra natura […], ma escludeva una spiegazione del peccato originale nel senso di una responsabilità della stirpe: nessuno, per quanto legato al colpevole da vincoli di parentela, può mai essere chiamato a rispondere per un’azione compiuta da altri. Restavano allora due soluzioni possibili: (a) Dio, creando ciascuna anima umana, istituisce nel contempo un legame fra essa e la colpa di Adamo. Questa risposta di tipo creazionistico imputa però la trasmissione della colpa direttamente a Dio, sfigurandone l’immagine. Oppure (b) la colpa viene ereditata con l’atto sessuale. Questa concezione, denominata «traducianesimo», riduce però un problema morale a un problema biologico. Agostino, che indubbiamente scorse l’errore categoriale insito nella seconda soluzione, si attenne tuttavia a quest’ultima, senza peraltro fornire ulteriori spiegazioni circa il meccanismo di «trasmissione ereditaria» della colpa. […] Non vi è dubbio, dunque, che Agostino, con la dottrina del peccato originale, abbia assunto una posizione inconsistente dal punto di vista filosofico e insostenibile dal punto di vista etico.
I brani antologizzati sono tratti da: K. Flasch, Agostino di Ippona. Introduzione all’opera filosofica [1980], trad. di C. Tugnoli, il Mulino, Bologna 20022, pp. 180-222, con tagli ed eliminazione delle note. C. Horn, Sant’Agostino [1995], trad. it. di P. Rubini, il Mulino, Bologna 2005, pp. 30-32, con tagli, lievi modifiche ed eliminazione di alcuni riferimenti bibliografici.
Per seguire il dibattito 1
Qual è la tesi sostenuta dai pelagiani alla cui confutazione Agostino dedica gli scritti dei suoi ultimi vent’anni? (max 3 righe)
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In base a quali presupposti Horn contesta la tesi di Flasch secondo la quale tra uomo e Dio non c’è alcuna cooperazione? (max 6 righe)
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Secondo Flasch Agostino, con l’opera A Simpliciano del 396, passa dalla dottrina della grazia come conciliazione tra uomo e Dio attraverso Dio a quella della grazia che esclude la libertà dell’uomo. Spiega in base a quali presupposti avviene questo passaggio. (max 10 righe)
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La dottrina del libero arbitrio e la successiva dottrina della grazia mantengono, secondo Horn, il medesimo presupposto di fondo: quale? (max 4 righe)
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Agostino individua nel peccato originale commesso da Adamo ed ereditato dall’intera umanità per via biologica una giustificazione razionale alla propria dottrina della grazia. Quale problema pone una simile dottrina, secondo Horn? (max 5 righe)
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Che cosa significa che l’intervento divino è «irresistibile», secondo Flasch? (max 5 righe) 530
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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana VERITÀ 1. Alcuni usi di «verità« e «vero» Due generi di uso In quali sensi parliamo di «verità»? «Verità» (sostantivo) è la proprietà comune di «vero» a ciò che chiamiamo «vero» (aggettivo). A cosa riferiamo questo aggettivo? Se analizziamo i suoi usi più frequenti, possiamo individuare forse due gruppi principali di espressioni: 1) quelle in cui diciamo per esempio «il tuo racconto è vero», «questa teoria è vera», «è vero che 2 + 2 = 4», «nelle sue idee c’è qualcosa di vero», «quello che dice l’oroscopo non è vero» ecc.; 2) quelle in cui diciamo «questo è oro vero», «è un vero campione», «è stato un vero piacere», «è un vero caffè!» ecc. Nel primo caso stiamo usando «vero» come un predicato, stiamo cioè attribuendo la proprietà di «essere vero» a qualcosa: un racconto, una teoria, una proposizione ecc. Nel secondo caso stiamo modificando in qualche modo il senso di ciò cui attribuiamo l’aggettivo «vero»: è diverso dire «è un caffè» oppure «è un vero caffè».
Riferimento al linguaggio
Riferimento al mondo
Senso logico di «vero»
Senso ontologico di «vero»
2. Due classi di ‘cose’ e due sensi della parola «vero» Qual è la differenza tra questi due gruppi di espressioni? «Vero» non sembra significare in entrambi i casi la stessa cosa. E anzitutto non sembra riferirsi agli stessi tipi di cose. Nell’uso predicativo «vero» viene attribuito, abbiamo visto, a cose come racconti, teorie, idee, previsioni, credenze: a cose che possono essere dette, sostenute, enunciate. Si può parlare allora in questo caso di senso logico di «vero». Come aggettivo, nel secondo uso ricordato, «vero» si riferisce invece non a discorsi, ma a cose esistenti: può riferirsi a qualunque cosa, si può parlare di «una vera montagna», di «un vero vino», «un vero amico»… In questo caso parliamo di senso ontologico del termine. Si possono fare esempi che complicano un po’ le cose: come «questo diamante è vero», oppure «il mio dolore è vero», dove l’uso predicativo di «vero» non sembra corrispondere a un senso logico di vero: diamanti e dolori non si dicono, non sono credenze. Ma questi usi possono essere reinterpretati in modo diverso: può essere un buon esercizio farlo. Non è diversa però solo la classe di cose cui i due usi di «vero» si riferiscono, ma anche il senso che il termine assume. Se dico di una frase, una teoria, una credenza che sono vere (uso logico), sto dicendo che queste corrispondono a come stanno le cose, concordano con i fatti, enunciano qualcosa che è realmente così come viene detto. Della frase «il gatto è nero» dico che è vera perché il gatto è, in effetti, nero. Un teorema può essere vero in questo senso, può esserlo una diagnosi, una opinione: non, per esempio, un diamante, di cui possiamo però dire che «è un vero diamante». Nell’uso ontologico sto parlando invece di cose. Quando uso il termine in senso ontologico, come nel caso del diamante appena detto, sto intendendo invece un’altra cosa: che quel diamante è autentico, così come quando dico di qualcu531
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no che «è un vero campione» intendo dire che è un campione autentico; e quando dico di quello che ho bevuto che è «un vero caffè» intendo dire che è un caffè così come dovrebbe essere.
L’uso prevalente
L’adeguatezza a un modello come tratto comune
Accordo tra realtà e rappresentazione
L’uso ontologico di «vero» nel pensiero medievale
3. Tra senso logico e senso ontologico L’uso comune e anche quello filosofico odierno considerano prevalente il senso logico di «vero»: «vera» è propriamente una teoria o una frase; una cosa è vera invece solo nel senso improprio che è autentica. Non parliamo infatti della verità del diamante, ma della sua autenticità, non della verità di quello che consideriamo un amico, ma della sua autentica amicizia. Possiamo però chiederci: non c’è nulla in comune tra i due sensi? Se guardiamo le cose più da vicino, parlare di «vero oro» o «vero caffè» vuol dire pensare che queste cose siano, si diceva, proprio così come dovrebbero essere: che corrispondano a un modello, diremmo quasi a un archetipo rispetto a cui gli altri esempi sono imitazioni, copie inadeguate. Il vero oro è quello che corrisponde a come la mineralogia descrive l’oro; un vero caffè è quello fatto come vorremmo – secondo una scienza meno esatta, forse – fosse un caffè. Il senso ontologico e quello logico sembrano allora avere in comune l’idea di una relazione di «adeguatezza», di un corrispondersi tra qualcosa di reale e un suo «modello», seppure tale relazione venga considerata in due direzioni o due prospettive diverse: nel caso del senso logico di «vero», partendo da ciò che costituisce un possibile modello del reale (il linguaggio, la rappresentazione di uno stato di cose ecc.) e considerandone la corrispondenza con la realtà; nel caso del senso ontologico di «vero», partendo dalla cosa reale e considerando il suo accordarsi o meno con un modello. La verità, in quanto termine che indica la proprietà comune a tutto ciò che diciamo essere vero ha così a che fare con l’accordo tra la realtà e ciò che può in modi diversi rappresentarla: dunque tanto con la nostra possibilità di rappresentazione adeguata della realtà, quanto con la possibilità da parte della realtà di essere in qualche modo rappresentata, di manifestarsi, di rendersi accessibile alla conoscenza, essere ‘leggibile’ in essa. Diverse opzioni filosofiche privilegiano l’una o l’altra di queste dimensioni, o concepiscono in modo diverso il loro intrecciarsi (alcune vedono nell’identità tra esse l’aspetto proprio della verità). Si può ricordare che l’idea di «verità delle cose», di verità come proprietà delle cose, oggi obsoleta e quasi incomprensibile (se non nel senso improprio in cui si dice che qualcosa «è oro vero» per dire che è autentico oro), è stata invece nel pensiero antico e medievale di centrale importanza, in quanto per verità come proprietà delle cose si intendeva la loro accessibilità a un intelletto, la loro possibilità di manifestarsi ad esso (e in primo luogo, nel pensiero medievale, all’intelletto divino che le faceva essere: per cui «essere qualcosa» equivaleva a «essere vero» – ens et verum convertuntur, si diceva: l’ente e il vero si convertono l’uno nell’altro, risultano equivalenti). Il discorso sulla verità può riguardare allora non soltanto la comprensione di un rapporto ‘corretto’ tra linguaggio o rappresentazioni e mondo, ma anche la possibilità stessa di questo rapporto.
4. La verità esiste? Teorie filosofiche Queste due possibili direzioni di corrispondenza sono state tematizzate in divere vita quotidiana se teorie circa la verità. Esistono praticamente tante teorie della verità quante sono le teorie filosofiche, ma nel corso della nostra esistenza la verità si presenta 532
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Laboratorio sul lessico Verità
Verità e prassi: scetticismo riguardo alla verità
Il relativismo sulle verità etiche
Relativismo, assolutismo e intolleranza
come problema non in rapporto a teorie delle verità, cioè a dei modi di comprendere filosoficamente cosa sia, di cui possiamo non interessarci, ma per questioni diverse, che in certo modo finiamo invece inevitabilmente per porci: se vi sia effettivamente una verità e come raggiungerla, come stabilirla. La verità è per un verso un presupposto di moltissime delle cose che facciamo: non solo quando tentiamo di conoscere qualcosa, ma quando orientiamo la nostra azione in una direzione o nell’altra, lo facciamo sulla base di assunzioni ritenute vere, o almeno sulla base dell’assunzione che potremo trovare delle verità. In molti casi tuttavia, per un altro verso, la convinzione basilare che vi siano delle verità e che si possano raggiungere sembra vacillare, o può addirittura consolidarsi la convinzione opposta, in una posizione scettica. Si può andare dalla tesi estrema che la verità di per sé non esista – più consueta e difesa nel modo di pensare comune in ambito morale, dove non sono pochi coloro che ritengono che i valori esprimano in ultima analisi soltanto preferenze di individui o collettività, e che ad essi non corrispondano verità vincolanti – alla tesi meno estrema che la verità non sia conoscibile, per esempio in ambiti di discorso le cui coordinate e i cui vincoli sembrano meno cogenti, come in ambito religioso. La forma più diffusa oggi di messa in questione della verità è quella che va sotto il nome di «relativismo»: anche se esiste un relativismo che riguarda la conoscenza, quello più frequentato è il relativismo di tipo etico: la verità o validità di norme di comportamento vengono ricondotte a forme di vita, a ‘consuetudini’ o credenze proprie di una determinata cultura e giustificate storicamente, ossia come dati di fatto e non come qualcosa che abbia un suo diritto. Si tratterebbe cioè di norme utili a regolare le relazioni all’interno di una comunità, ma non esportabili al di fuori di essa. Chi difende una posizione relativista sottolinea come appellarsi all’esistenza di verità universali (assolute, in quanto contrapposte a quelle relative) produca soltanto il tentativo di imporre come vincolante per tutti una delle prospettive, priva di un maggiore diritto rispetto alle altre. Di fronte a ciò, la posizione relativista garantirebbe una maggiore tolleranza rispetto alla diversità delle culture. Le cose naturalmente non sono così semplici: non è detto che una posizione relativista garantisca tolleranza (l’intolleranza può esser frutto della convinzione nell’assolutezza delle proprie idee, ma anche della convinzione che non esista un punto di vista almeno possibile – non necessariamente già posseduto da qualcuno – con il quale tutte le convinzioni devono potersi commisurare e che tutte può porre in questione); né è detto che una concezione che ammetta la possibilità di una verità universale debba coincidere con l’affermazione di una posizione come assolutamente vera (è possibile pensare che una verità possa essere trovata, ma che non si possa mai essere assolutamente certi di averla raggiunta di fatto e dunque in diritto di chiudere la discussione o di pretendere l’assenso altrui). Probabilmente ogni discussione sull’esistenza o meno delle verità deve articolarsi maggiormente, cercando di individuare forme diverse di esperienza con forme peculiari di verità.
5. Forme e fonti di verità I molteplici ambiti Indipendentemente dalle diverse teorie sulla natura delle verità che si possono della verità abbracciare, sembra ragionevole pensare che non sia indifferente, per il nostro rapporto con la verità, la considerazione dei criteri con cui muoversi per rag533
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Verità «analitiche» e verità «sintetiche»
Verità nella giurisprudenza
Verità nelle scienze naturali
Verità in ambito etico
Verità, contesti del discorso e interpretazione
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giungerla. E può essere ragionevole anche ipotizzare che questi criteri possano variare in funzione delle forme di discorso o di esperienza di cui parliamo, in modo da modulare almeno sensibilmente che cosa è in gioco nei diversi casi in cui parliamo, apparentemente in modo unitario, di «verità». Una distinzione d’uso comune in filosofia, la cui validità assoluta pure viene talvolta contestata, è quella tra verità «analitiche» e verità «sintetiche». Verità analitiche sono quelle che non dipendono da come stanno i fatti, ma dai significati dei termini coinvolti, ovvero da leggi logiche (che un triangolo abbia tre lati, o che uno scapolo sia un uomo non sposato possono esserne esempi). Verità sintetiche sono quelle che dipendono da come stanno i fatti (per esempio da osservazioni empiriche). Il rispetto dei criteri analitici di verità o la rispondenza del discorso a leggi logiche sembra essere un prerequisito delle verità che ci interessano ma non è in grado da solo di procurarcene: sembra essere cioè solo la condizione di un pensiero coerente, ossia fedele alle proprie regole logiche e sintattiche, non ancora accertato come vero. Tuttavia, negli ambiti in cui la chiarificazione dei concetti in uso può essere sufficiente – dove si tratta di applicare norme la cui validità è già stabilita da altre fonti – il raggiungimento di verità analitiche o comunque interamente incentrate sulla coerenza logica del discorso può bastare. Un esempio può essere offerto da alcuni aspetti del ragionamento in ambito giuridico, come i controlli di legittimità della giurisprudenza in Cassazione: dove non conta stabilire i fatti, ma solo la coerenza del giudice di merito (quello che appunto valuta i fatti) nell’uso delle norme e nell’argomentazione. Nell’ambito delle scienze della natura la verità delle teorie sembra essere funzionale a un metodo di accertamento della stessa, che consente la verifica sperimentale di ipotesi. Questo tipo di verità sembra legato alla possibilità di riprodurre o di osservare il prodursi ripetuto dei fenomeni studiati, indicando le condizioni che debbono aver luogo perché la teoria risulti vera o falsa. Si è sostenuto anche che ciò che è più proprio delle teorie scientifiche sarebbe la loro falsificabilità piuttosto che la loro verificabilità, in quanto nessun prodursi anche ripetuto di condizioni può interamente confermare una teoria, che invece può essere falsificata anche da un solo evento empirico. L’essenziale in ogni caso per le verità scientifiche sarebbe non il fatto che derivino da (o si basino su) qualche tipo di contenuto certo, ma il fatto di disporre di una metodologia condivisa per dirimere il vero dal falso. I discorsi che cercano di stabilire norme di comportamento sembrano non poter sottostare agli stessi criteri di quelli che riguardano oggetti della natura: da un semplice fatto non può seguire una norma, in quanto questa deve indicare ciò che deve essere fatto, che potrebbe in linea di principio essere del tutto diverso da ciò che si fa. La ricerca di norme morali condivise non può allora, secondo questo modo di vedere, basarsi né su risultati né su metodi propri delle scienze naturali: i tentativi di ricavare da leggi naturali come per esempio quelle della selezione naturale darwiniana, o da scoperte relative alla neurochimica del cervello conclusioni riguardanti principi etici sembra fallace. Criteri come l’ottimizzazione dei benefici per il maggior numero, o la reciprocità, o la possibilità di universalizzare norme (la loro scelta dipende da quale teoria morale si voglia adottare) sembrano più adatti a regolare la ricerca della verità in ambito morale. Vi sono ambiti in cui l’accertamento di verità non consiste soltanto nello stabilire dei fatti, né delle leggi naturali, né norme, ma nell’individuare dei significati. Discipline molto diverse come la storia, l’antropologia, la sociologia, la filologia,
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Laboratorio sul lessico Verità
Verità nell’arte e nel bello
Verità in ambito religioso
o la giurisprudenza in ambito penale (in genere quelle che si fanno rientrare nelle «scienze umane»), possono usare e usano tecniche per accertare dei dati, e stabilire nessi di causa-effetto, tecniche quantitative (per esempio statistiche) per organizzare dati, ma non esauriscono il loro compito in questo. Chi studia un fatto storico, un caso criminale, i costumi di una popolazione, un’opera letteraria, deve far intervenire criteri che esulano dal solo stabilire cosa è successo o succede; i fatti o gli eventi o i documenti o le opere studiati hanno inoltre il carattere di essere non riproducibili e unici. In questo tipo di indagini fattori come l’attribuzione di intenzioni – dunque la considerazione di scopi – svolgono un ruolo decisivo, così come i contesti (impliciti ed espliciti) che attribuiscono senso agli oggetti studiati. Qui si rivela più delicato il problema della prospettiva conoscitiva, in quanto nell’attribuzione di significato gioca un ruolo non solo il complesso di contesti in cui si legge il dato, ma anche il contesto in cui è situato l’interprete stesso, così come la sua cultura, i suoi schemi concettuali. Questo non significa necessariamente riconoscere il relativismo, ma comporta una maggiore attenzione alla complessità e alla pluralità dei sistemi di significato coinvolti. Si può parlare di verità anche in relazione a un’opera d’arte, nel senso che un’opera d’arte può manifestare (può consentire di percepire) un accordo, un’affinità tra il soggetto e il suo mondo (o parti di esso): questo accordo non consiste di enunciati veri, ma è il quadro al cui interno possono nascere esperienze che rivelano tratti e dimensioni della realtà (che possono poi anche produrre enunciati veri e propri). Una poesia non ci dice qualcosa di verificabile, per esempio, su una montagna, ma può metterci nella condizione di fare esperienza di qualcosa attraverso cui la montagna ‘ci parla’, che la montagna ci rivela. Può avvenire anche l’inverso: l’esperienza estetica di una montagna ci può mettere in grado di comprendere (e di dire) qualcosa di noi che in questa forma si mostra. Le religioni sono forme di discorso che spesso – non sempre – hanno una particolare pretesa alla verità assoluta. Alcune religioni indicano come fonte della loro verità una rivelazione, che tuttavia ha valore soltanto se viene riconosciuta come tale. Anche in questi casi però, e dove siamo di fronte a un libro sacro considerato come espressione della rivelazione, il linguaggio non si presenta come fonte immediata di verità, in quanto viene riconosciuto che esso contiene anche un senso non letterale che pone, seppure in forme diverse, problemi di interpretazione analoghi a quelli che abbiamo ricordato per altri ambiti. Inoltre, non tutte le religioni propongono i propri contenuti come contenuti dottrinari o dogmi, ossia come forme di linguaggio che abbiano una verità analoga o uguale ad altre forme assertive di linguaggio. Il linguaggio religioso può essere inteso come manifestazione di esperienze del soprannaturale, come testimonianza di forme di vita e di rapporto col mondo più che come qualcosa di analogo a una teoria. La differenza tra le forme in cui si presenta l’unico carattere della verità può indurre a considerare con attenzione fino a qual punto e a quali condizioni un tipo di discorso può coniugarsi con un altro: concepire le diverse forme di verità come appartenenti a un unico e unitario universo di discorso può condurre a commistioni che portano a conclusioni indebite e a oscurare il senso che ogni verità può avere nel proprio ambito.
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Esercitiamoci sulla verità 1. Rifletti e completa CORRISPONDENZA tra il linguaggio (pensiero ecc.) e __________________ VERITÀ = ciò che è ________________ a tutto quanto diciamo essere «vero»
1) USO PREDICATIVO
SENSO ‘LOGICO’ Verità come proprietà di espressioni linguistiche, __________, __________, _____________ ecc.
Idea di adeguatezza a un ________________
«VERO»
2) USO AGGETTIVALE
Vari AMBITI DI APPLICAZIONE della verità
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1) 2) 3) 4) 5)
SENSO ‘ONTOLOGICO’ Verità come proprietà di _______________ («vero» = «autentico»)
ACCORDO tra certe cose esistenti e i ___________ che ne sanciscono l’autenticità
SCIENZE NATURALI (verità analitiche / verità sintetiche) ________________ (fatti e norme – relativismo e assolutismo etico) INTERPRETAZIONE (______________________________________) ________________________ (esperienza del bello e mondo interiore) RELIGIONE (verità e rivelazione – testi sacri)
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2. Spunti per il dibattito: io e… la verità 1
Dopo aver letto il testo e completato la mappa, rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte. Possiamo a tuo avviso collocare ogni verità allo stesso livello o vi sono verità in senso più o meno forte? Considera per esempio gli enunciati seguenti e prova a dar loro un ordine secondo un ‘grado’ di verità maggiore o minore: – l’acqua bolle a cento gradi centigradi; – ieri ho perso il treno; – 2 + 2 = 4; – Dio è onnipotente e onnisciente; – se Carla mi vuole davvero bene, allora me lo dimostrerà; – la Legge è uguale per tutti; – uccidere è immorale; – sbadigliare a tavola non sta bene; – la Gioconda di Leonardo è molto bella.
2
Fornisci due esempi a tua scelta di verità appartenenti a ognuno degli ambiti presi in esame nel testo che hai letto (scienze naturali, etica, estetica ecc.).
3
Pensa a come viene usato il termine «vero» nella vita quotidiana: – A tuo avviso risulta più frequente l’uso logico del termine o il suo uso ontologico? Fornisci degli esempi relativi ai due usi.
4
Supponi di camminare per strada e di scorgere un muro su cui qualcuno ha scritto la seguente frase: «questa frase è falsa». Prendi in considerazione l’ipotesi che tale frase – sintatticamente corretta – sia vera: – Che cosa accade? – E se supponi che sia falsa? – Prova a elaborare delle strategie che ti consentano di evitare il paradosso cui si va incontro in casi come questo.
5
Il nostro linguaggio quotidiano è pieno di espressioni di uso comune che, a un esame attento, si lasciano difficilmente definire in modo preciso. Nonostan-
te la ‘vaghezza’ di tali espressioni, noi le usiamo correttamente e nel farlo ci intendiamo nella comunicazione. Un esempio di tali espressioni è fornito dal sostantivo «mucchio». Siamo tutti d’accordo che 10.000 chicchi di grano formano un mucchio; e che, se 10.000 granelli formano un mucchio, allora anche 9.999 granelli formano sempre un mucchio. Ma è facile vedere che, se proseguiamo con questo ragionamento in modo coerente, arriviamo pian piano alla conclusione che un solo granello è un mucchio, il che sembra un nonsenso. Ma come stabilire allora la verità di asserzioni come «questo è un mucchio» e in generale di tutte quelle asserzioni che coinvolgono la parola «mucchio»? (Un problema analogo si pone con i termini «folla», «calvo» ecc.) – Prova ad avanzare alcune soluzioni o strategie che permettano di risolvere o aggirare il problema. 6
Supponi di vivere in un mondo identico in tutto e per tutto a quello attuale eccetto che per il fatto che in esso non esistono e non sono mai esistiti la parola «verità», né l’aggettivo «vero» (in nessuna lingua). (Nota bene che qui non stiamo facendo l’ipotesi che in tale mondo non esista qualcosa come la verità o la possibilità di dire la verità, bensì soltanto che non esista la parola «vero».) – Credi che ciò avrebbe delle ricadute sul modo di comunicare degli abitanti di tale mondo? E sulle loro pratiche di vita?
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Supponi di essere introdotto in una grande sala di un museo, dove sono presenti sia il «vero» Davide di Michelangelo che una sua copia, assolutamente identica all’originale. Supponi anche di sapere ciò, ma di non sapere quale sia la copia e quale l’originale. – Ti sentiresti di poter affermare in modo coerente che le emozioni che provi di fronte a una delle due statue sono diverse rispetto a quelle che provi di fronte all’altra? Sia in caso affermativo che in caso negativo giustifica la tua risposta.
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto 1. L’alto Medioevo: filosofia nei monasteri e nelle corti 1. 2. 3. 4. 5. 6.
V-VI secolo: i due ‘inizi’ del Medioevo Severino Boezio Compilazioni ed enciclopedie La rinascita carolingia Eriugena L’XI secolo e Anselmo d’Aosta
4. La filosofia politica di Giovanni di Salisbury 5. La teologia della storia di Gioacchino da Fiore
3. La filosofia islamica ed ebraica 1. 2. 3. 4.
Contesto storico e caratteri generali L’Islam orientale: al-Farabi e Avicenna L’Islam occidentale e Averroè La filosofia ebraica: ibn Gabirol e Mosè Maimonide
2. Abelardo e le scuole nel XII secolo 1. La civiltà urbana nel XII secolo 2. Pietro Abelardo 3. La filosofia della natura e il platonismo della scuola di Chartres
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
L’alto Medioevo: filosofia nei monasteri e nelle corti
1
I testi Eriugena Periphyseon: La divisione della natura, T1; Le cause primordiali, T2; Il ritorno in Dio, T3; Ragione e autorità, T4
1 Invasioni barbariche e caduta dell’impero romano d’Occidente (476)
L’Italia ostrogota sotto Teodorico
Giustiniano e la chiusura della scuola di Atene (529)
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Anselmo d’Aosta Proslogion: Credo per capire, T5
V-VI secolo: i due ‘inizi’ del Medioevo Al sacco di Roma da parte dei visigoti di Alarico (410), che aveva fornito lo spunto alla Città di Dio di Agostino, seguirono per tutto il V secolo continui attacchi di tribù germaniche contro l’impero romano d’Occidente. Agostino morì mentre alle porte di Ippona premevano i vandali che di lì a poco avrebbero conquistato buona parte dell’Africa settentrionale e della Spagna. Intorno alla metà del secolo gli unni invasero la Gallia e l’Italia. I franchi occuparono la Gallia, gli anglo-sassoni la Britannia. Infine l’impero romano occidentale di Romolo Augustolo capitolò nel 476 (data convenzionale di inizio del Medioevo). L’Italia divenne una provincia gotica, governata da sovrani di confessione cristiano-ariana. Il re ostrogoto Teodorico (493-526), affidando agli ostrogoti i compiti militari e all’aristocrazia romana i compiti amministrativi civili, cercò di instaurare un equilibrio tra componente germanica e componente romana. L’equilibrio si ruppe quando Teodorico iniziò a sospettare l’episcopato e l’aristocrazia romana di intese segrete con la corte bizantina. La repressione fu durissima e, intorno al 525, furono giustiziati i senatori Albino, Simmaco e Severino Boezio. La scomparsa di Teodorico (526) fece cadere in una crisi politica e sociale il regno ostrogoto, stretto com’era tra insoddisfazione romana e politiche di riconquista bizantine. In questo frangente l’imperatore bizantino Giustiniano (527565) riuscì a recuperare militarmente gran parte dei territori imperiali del Mediterraneo. Nell’ambito del suo programma di ricostituzione dell’impero romano su base cristiana, Giustiniano decretò nel 529 la chiusura dell’ultimo centro della filosofia pagana, la neoplatonica scuola di Atene, vietando ai non cristiani l’insegnamento della filosofia (data convenzionale della fine della letteratura greca e inizio della letteratura bizantina, ma anche data di inizio del Medioevo filosofico).
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto Regni e imperi nel VI secolo Mare del Nord
CELTI
ANGLI
CELTI ANGLI SASSONI
REGNO DEGLI SVEVI REGNO DEI VISIGOTI
Parigi
CELTI
Oceano Atlantico
REGNO DEI FRANCHI REGNO Tolosa DEI BASCHI
Toledo
SASSONI Treviri
Colonia
Regno dei burgundi Lione Arles
Aquileia Milano Ravenna
Tarragona
Corsica
Cordova
Sirmio
Regno degli ostrogoti
Narbona
Mar Nero Costantinopoli
Roma
Sardegna IMPERO ROMANO D’ORIENTE Cartagine
Sicilia
REGNO DEI VANDALI
Mar Mediterraneo
2
Creta
Cipro
Severino Boezio
Boezio visse tra il V e il VI secolo in un’Italia le cui istituzioni romane sopravvivevano entro la cornice del regno ostrogoto di Teodorico, ed esercitò l’attività politica fino ai massimi vertici (fu senatore, console e magister officiorum, cioè cancelliere, presso la corte itinerante di Teodorico). Compilò trattati di aritmetica, geometria, musica e astronomia. Tradusse e commentò opere logiche di Aristotele e Porfirio. Questi testi forniranno alla successiva cultura medievale, ormai interamente latinofona, l’accesso a una biblioteca minima di filosofia greca altrimenti inattingibile. Fu inoltre teologo cristiano, autore di opere cristologiche e di teologia trinitaria. La sua esistenza subì un tracollo nel 524, quando venne coinvolto in una congiura di palazzo. Dopo un periodo di carcerazione a Pavia, fu condannato e giustiziato nell’inverno dello stesso anno (o all’inizio del 525). Proprio durante la prigionia pavese Boezio compose la sua opera più nota, la Consolazione della filosofia. Platonismo e quadrivio Boezio faceva parte a Roma di un circolo di intellettuali cristiani, impegnati nell’acquisizione di metodi e contenuti delle scuole neoplatoniche. Così, sulla base di opere del pitagorico Nicomaco di Gerasa e di Tolomeo (II secolo) scrisse manuali di aritmetica, geometria, musica e astronomia, discipline che Boezio denominò «quadrivio». Infatti, in un’ottica platonica, l’interesse per le discipline matematiche prepara alla contemplazione delle realtà intelligibili e alla comprensione dei rapporti matematici con cui l’universo è strutturato (secondo la lezione del Timeo). Il progetto Avrebbe voluto tradurre e commentare tutto Platone e tutto Aristotele, con l’inplatonico-aristotelico tento di mostrare la concordia profonda tra i due autori e farne un patrimonio per i lettori di lingua latina. In questo modo Boezio mostrava di riallacciarsi al para-
Intellettuale a tutto campo e uomo di Stato
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
digma interpretativo inaugurato da Porfirio (connettere sistematicamente la logica aristotelica, come premessa, al ‘compimento’ metafisico platonico) e anche all’ideale ciceroniano di far parlare la filosofia greca in latino. Le opere di logica Per gli impegni politici e la fine prematura Boezio arrivò a realizzare solo una minima parte di questo progetto, arrestandosi alle opere logiche. Ci sono pervenuti le sue traduzioni e commenti dell’Isagoge di Porfirio (ovvero l’‘Introduzione’ alla logica aristotelica in uso nelle scuole neoplatoniche), delle Categorie e dell’Interpretazione di Aristotele, e il commento ai Topici di Cicerone. Inoltre Boezio scrisse due monografie Sui sillogismi categorici e Sui sillogismi ipotetici (nelle quali, ispirandosi a Porfirio, faceva il punto sulla teoria del sillogismo, inclusi gli sviluppi della logica stoica) e altri brevi opuscoli logici. Le opere logiche curate da Boezio, che saranno a lungo gli unici testi aristotelici studiati nel Medioevo latino, vengono dette logica vetus, cioè «logica vecchia», per distinguerle dal «nuovo» Aristotele riscoperto tra il XII e il XIII secolo (vedi Unità 10, p. 586 ss.). Gli ‘opuscoli teologici’ Boezio scrisse anche cinque brevi opere teologiche, quattro delle quali sono dedicate a questioni di dogmatica cristiana, trattate con i più avanzati strumenti logico-metafisici. Dietro l’apparente astrattezza stava il desiderio di contribuire, mediante la chiarificazione dottrinale, al riavvicinamento tra papato e patriarcato di Costantinopoli (in dissidio dal 484 al 519). Invece l’opuscolo intitolato De hebdomadibus applica all’ontologia il metodo assiomatico della geometria euclidea: la discussione si fonda, infatti, su un sistema di definizioni e proposizioni basilari autoevidenti, enunciate all’inizio. Nel formulare questi assiomi Boezio creò un innovativo linguaggio metafisico in latino, che farà scuola per tutto il Medioevo.
La vita e le opere Anicio Manlio Torquato Severino Boezio nacque probabilmente a Roma nel 476 circa. Sotto Teodorico, divenne console nel 510 e maestro di palazzo nel 523, seguendone la corte itinerante fra Ravenna e Pavia. Accu-
sato di tradimento, venne imprigionato e giustiziato, a Pavia, nel 524/525. Tra le sue opere, oltre alle traduzioni e ai commenti di Aristotele e Porfirio, vanno ricordati l’Istituzione aritmetica, l’Istituzione di musica, i cinque Opuscoli teologici, e la Consolazione della filosofia.
La Consolazione della filosofia L’opera boeziana più nota è la Consolazione della filosofia, un dialogo in cinque libri tra Boezio prigioniero a Pavia e la personificazione della Filosofia. Partendo dalla propria esperienza personale di condannato nel ‘braccio della morte’, Boezio la trasfigura in una riflessione universale sulla sofferenza dell’innocente e sul rapporto tra giustizia divina e giustizia umana. Malvagità e felicità Se Dio è il bene stesso che nella sua onnipotenza governa la realtà, perché in soggettiva contro virtù questo mondo azioni malvagie e violenze rimangano impunite (se non premiate)? e infelicità oggettiva In realtà, spiega Filosofia, anche i malvagi cercano il bene, ma lo cercano nelle forme sbagliate; il segno di ciò è che non sono completamente felici (come sosteneva Platone nel Gorgia). Sarebbe facile obiettare che (nel VI secolo come oggi) ci sono malvagi che ottengono pieno successo e sembrano decisamente felici. Filosofia però non pensa alla felicità come stato psicologico soggettivo (sentirsi felici), ma pensa a una ‘felicità oggettiva’, che consiste nel contemplare il principio primo e regolare di conseguenza la nostra vita. Chi è malvagio o, comunque, insegue falsi beni, in realtà sta depotenziando la propria umanità. Dunque il malvagio ‘di successo’ ha una potenza apparente, ma in realtà è ontologicaSofferenza, giustizia divina e giustizia umana
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
Come conciliare prescienza divina e libertà umana?
Dio vive nell’eternità, l’uomo nel tempo
L’autentica libertà
Un testamento filosofico
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mente debole perché «non guarda all’ordine della natura ma alle proprie passioni» e così si allontana dall’ordine profondo della realtà. Il virtuoso, invece, anche se ingiustamente perseguitato, è più potente e oggettivamente felice perché aderisce a valori perenni e non contingenti. Il suo premio, che nessuno può cancellare, è nell’agire in accordo col sommo bene. Si è detto che tutto (anche l’apparente disordine di un mondo in cui i malvagi prosperano e i buoni sono messi alle corde) è governato con giustizia da Dio entro il disegno della sua provvidenza. Sorge però un problema. In Dio, onnipotente e onnisciente, non c’è solo providentia (il disporre l’ordine della realtà), ma anche praevidentia (il conoscere in anticipo quello che faremo). Ma se le mie azioni future sono già note a Dio, non sono già in qualche modo predeterminate? Non viene meno così la nostra libertà? Se così fosse, non avrebbero più senso premi o castighi e neppure la speranza o la preghiera. Ma se, di converso, ammettiamo la piena libertà delle nostre scelte future, questo non scardina forse la prescienza divina? Il contrasto tra libertà umana e prescienza divina è solo apparente e nasce perché non teniamo conto della differenza radicale tra il conoscere di Dio e quello umano. Dio vive nell’eternità («possesso intero e simultaneo di una vita senza fine»), noi viviamo nel tempo. Ogni evento (che per noi è passato, presente o futuro) Dio lo vede nel suo eterno presente. Dunque non è vero che Dio sa ora quello che io farò domani. Dio non predetermina il corso delle azioni umane, ma vede nel suo eterno presente ciò che noi facciamo liberamente nel tempo. Tuttavia l’autentica libertà è intesa da Boezio non come espressione di inclinazioni individuali, ma come contemplazione di Dio e della struttura metafisica eterna della realtà. Il modello di libertà piena è quello dei corpi celesti, la cui libertà è seguire ciclicamente una regola divina, senza mai alcuna deroga. Questi sono alcuni dei temi del capolavoro boeziano: libro in prosa e versi (prosimetro), ma anche dialogo (in bilico tra modelli platonici e agostiniani); consolatio stoica, ma anche protrettico neoplatonico. È straordinario che Boezio scriva il suo testamento non da cristiano ma da puro filosofo. Non fa mai riferimento alla Bibbia o alla teologia rivelata cristiana, ma offre un percorso di teologia razionale platonica (con apporti di stoicismo e aristotelismo), quasi a suggerire un modello di concordia filosofica di fronte a un mondo tardoantico che sta andando in pezzi. Per questo la Consolazione, opera concepita nel corso di un’esperienza estrema sia sul piano individuale, sia sul piano storico, può essere considerata al contempo il testamento spirituale di un uomo e dell’intera filosofia antica.
Compilazioni ed enciclopedie
Boezio fu l’ultimo grande esponente di una cultura romana pienamente bilingue, in grado di accedere all’intero arco della filosofia greca. Dopo di lui, se escludiamo l’età carolingia, l’Occidente latino ebbe quattro secoli di stagnazione, fino all’XI, nei quali, più che produrre cultura, si limitò a preservarla e riassumerla. Sono i secoli dell’alto Medioevo, epoca in cui la filosofia non ha più una dimensione sociale riconosciuta, ma trova uno spazio (limitato) nella formazione monastica, dove perlopiù si cristallizza in formule schematiche all’interno di opere compilative ed enciclopediche. Figure di enciclopedisti Una figura emblematica in tal senso è Cassiodoro (490-580). Dopo una vita poFormazione monastica della filosofia altomedievale
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Il monachesimo, la regola benedettina e la costituzione di una rete culturale europea
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litica attiva (fu console e successore di Boezio nella carica di magister officiorum), si ritirò nel monastero di Vivarium, da lui fondato nella natia Calabria, e qui compose le Istituzioni delle lettere divine e umane, un’opera compilativa, che a una prima parte introduttiva allo studio biblico affianca una seconda parte di sintetica esposizione delle arti liberali del trivio (grammatica, retorica e logica) e del quadrivio, finalizzate ad aiutare i monaci nell’interpretazione biblica. Il vescovo Isidoro di Siviglia (560-636), protagonista della cultura iberica al tempo dei visigoti, è autore delle Etimologie, in cui, a partire dall’origine e dal significato dei termini, si raccolgono elementari informazioni di letteratura, filosofia, storia, medicina e scienze naturali. Quest’opera godrà notevole diffusione e si attesterà nei secoli successivi come uno scheletrico sostituto del sapere classico. Nei secoli dell’economia feudale anche la vita culturale risulta feudalizzata ed esercitata o nelle corti o, prevalentemente, in monasteri immersi in sistemi di produzione rurale. Il monachesimo cristiano era nato in Oriente nel III secolo, ad opera di persone che, in nome della loro fede, scelsero di vivere una vita isolata, fatta di preghiera e di ricerca della perfezione spirituale attraverso pratiche ascetiche (in greco monachòs è «colui che vive da solo», mentre àskesis significa «esercizio», «disciplina»). Nel mondo latino il centro propulsore fu il monastero di Montecassino, fondato nel 529 da Benedetto da Norcia. La Regula benedettina fissò i principi del monachesimo occidentale: «ora et labora» («prega e lavora»), ossia lavoro manuale, per mantenere materialmente la comunità, unito all’impegno spirituale della preghiera e dello studio basilare delle discipline utili alla comprensione della liturgia e della Bibbia. Per questo i monasteri benedettini, che in breve tempo si diffonderanno in tutta Europa, avranno, oltre a una scuola (di discipline liberali e teologiche), anche uno scriptorium e una biblioteca, dove confezionare e conservare i manoscritti. In assenza di altre istituzioni scolastiche, i monasteri benedettini costituirono per tutto l’alto Medioevo l’unica rete culturale europea e fu grazie ai codici copiati negli scriptoria monastici che si è trasmesso alle età successive gran parte del patrimonio classico.
La rinascita carolingia
I secoli VII e VIII sono filosoficamente poveri, ma pieni di trasformazioni storiche decisive. Nei primi decenni del VII secolo nasce la religione musulmana. Come quella ebraica e quella cristiana, si fonda su un libro, il Corano, che riflette la rivelazione che il profeta Muhammad (Maometto) avrebbe ricevuto. Nei suoi centoquattordici capitoli, detti sure, il Corano intende ristabilire un puro monoteismo (in polemica con le dottrine cristiane della Trinità e dell’Incarnazione). I califfi (i ‘successori’ di Muhammad), che erano capi religiosi, politici e militari, iniziarono una politica espansionistica, che portò l’Islam alla conquista dei territori dell’impero persiano, delle province romane di Siria, Palestina ed Egitto, dell’Africa settentrionale e della Spagna visigota. L’avanzata verso l’Europa del Centro-nord fu fermata solo nel 732 a Poitiers dai franchi di Carlo Martello. Carlo Magno Fu il nipote di Carlo Martello, ossia Carlo Magno (re dei franchi dal 768), a respingere i musulmani al di là dei Pirenei (ma non via dalla Spagna). Dopo una serie folgorante di imprese militari (vittorie su sassoni, bavari, avari, boemi, longobardi), il dominio dei franchi si estendeva dai Pirenei all’Elba e al Danubio,
Nascita ed espansione dell’Islam
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
Riorganizzazione del sistema scolastico e ruolo di Alcuino di York
Intellettuali a corte: la schola palatina
I successori di Carlo Magno e il ruolo di Rabano Mauro
dal mare del Nord all’Italia. L’incoronazione di Carlo Magno a imperatore del Sacro romano impero per mano del pontefice Leone III (800) segnò il culmine di una compenetrazione tra potere politico e identità religiosa cristiana cattolica (mentre la maggior parte dei popoli germanici sottomessi professava il cristianesimo ariano). Carlo Magno prese nelle proprie mani il controllo della vita politica ed ecclesiastica dei suoi sudditi. Stabilì un forte potere centrale che si diramava in una fitta struttura di amministratori in tutte le province. Intervenne in modo autoritario anche nei dibattiti religiosi e nominò personalmente vescovi, ma investì anche i più alti ecclesiastici di compiti di amministrazione secolare. Nell’età carolingia si riorganizzò il sistema educativo, al fine di formare i funzionari laici ed ecclesiastici. Così, presso i monasteri e le sedi vescovili, si consolidò un reticolo di scuole che impartivano un’istruzione fondata sulle discipline del trivio e del quadrivio, studiate sui manuali di Boezio e Cassiodoro. Presso la scuola cattedrale di York si formò il maestro di arti liberali Alcuino, il principale animatore della ‘rinascita carolingia’. Quando Carlo Magno lo chiamò presso la sua corte, Alcuino ispirò una riforma unitaria dell’istruzione scolastica di base da impartire presso monasteri e cattedrali; inoltre prese personalmente la guida della schola palatina («scuola di palazzo»). L’espressione schola palatina non designa un’istituzione scolastica vera e propria, ma riunioni periodiche nella corte itinerante di Carlo Magno tra l’imperatore e i suoi intellettuali, come lo storico Paolo Diacono, il grammatico Pietro da Pisa, il teologo Paolino di Aquileia e, naturalmente, Alcuino di York. In questi incontri si discutevano questioni esegetiche, astronomiche, grammaticali e teologiche (che spesso arrivavano a lambire tematiche propriamente filosofiche). Anche sotto Ludovico il Pio e Carlo il Calvo la vita culturale fu ricca, sia per i vivaci dibattiti teologici, che per le grandi opere di sintesi, come il De universo di Rabano Mauro (morto nell’856), in cui tutto il patrimonio scientifico degli enciclopedisti viene reinterpretato in chiave allegorica, per guidare il lettore a una ascesa dal mondo creato alla contemplazione della verità divina. Con questa e altre opere Rabano, che era arcivescovo di Mainz (Magonza), diede un chiaro indirizzo all’educazione in area tedesca, tanto da essere ricordato come praeceptor Germaniae («educatore della Germania»). L’impero di Carlo Magno Mar Baltico
Mare del Nord Regni Anglo-Sassoni
Sassonia Aquisgrana Reims
BRETONI
Marca di Neustria Bretagna
Oceano Atlantico
Aquitania
Treviri
Magonza
Austrasia Alamannia
Baviera
Borgogna Milano
Marca del Friuli Venezia
Passo di Roncisvalle Marca di Spagna
Pavia Regno díItalia
Corsica
Emirato di Cordova
Sardegna
Marca di Pannonia
AVARI
Ravenna Stato della Ducato di Chiesa Spoleto Roma Benevento Napoli Ducato di benevento
Mar Mediterraneo Sicilia Califfato Abbaside
Impero Romano díOriente
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
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Eriugena Il più geniale pensatore dell’età carolingia e dell’intero alto Medioevo è un irlandese vissuto nel IX secolo, Giovanni Scoto, detto Eriugena (cioè «nativo di Eriu», nome antico dell’Irlanda). Fu maestro di arti liberali alla corte di Carlo il Calvo e, in un’epoca in cui la cultura latina aveva perso dimestichezza col greco, arrivò a conoscerne abbastanza da tradurre, commentare e assimilare i teologi greci più neoplatonizzanti, come lo pseudo-Dionigi, Gregorio di Nissa (vedi Unità 8, pp. 516-517 e 496) e Massimo il Confessore.
La vita e le opere Giovanni Scoto detto «Eriugena» nacque in Irlanda nel IX secolo, ma non sappiamo quando, né sappiamo quando venne in Francia, alla corte di Carlo il Calvo; morì Il Periphyseon e la sintesi di neoplatonismo e cristianesimo
La realtà è un movimento dialettico
Le quattro «nature»
T1
La divisione della natura
Eriugena, Periphyseon, 1,441b-442a
nell’870 circa. Tra le sue opere ricordiamo il De praedestinatione (851), traduzioni da Massimo il Confessore, Gregorio di Nissa, oltre a quella del corpus dionysianum, e il Periphyseon, «La divisione della natura» (860-867).
La lettura degli autori sopra citati ispirò a Eriugena una potente sintesi teorica tra neoplatonismo e cristianesimo, di cui è testimonianza la sua opera maggiore, il Periphyseon, in cui i dati biblici e della fede cristiana vengono riletti in chiave allegorica e ricollocati all’interno di un sistema neoplatonico di emanazione della realtà da un primo principio e di ritorno ad esso. Eriugena si impegnò nella composizione di questa opera sistematica tra l’860 e l’867, subito dopo la traduzione del corpus dionysianum. Il fine di questo dialogo in cinque libri tra un maestro e un discepolo è mostrare che, attraverso l’applicazione rigorosa degli strumenti della dialettica (ossia della logica) all’analisi dei concetti, dell’esperienza e della rivelazione biblica, la filosofia può ripercorrere la struttura intelligibile della realtà, ovvero le tappe che da Dio portano alla generazione nel Verbo delle idee, dei generi, delle specie, giù fino alle forme degli enti particolari. La realtà non è un sistema statico, ma un processo. Ciò che la Bibbia rivela col suo codice allegorico nasconde un più profondo significato metafisico, che può essere descritto nei termini di una cosmogonia neoplatonica, in cui la realtà è un movimento dialettico, che emana dalla semplicità del Principio primo, si articola nella molteplicità del mondo intelligibile, fisico e storico, infine torna al Principio primo per annullarsi in esso. Per capire il titolo «Sulle nature» o anche «Sulla divisione della natura», dobbiamo tener presente che il termine «natura» è inteso da Eriugena in senso ampio e comprende sia il Creatore che il creato. Attraverso tutte le combinazioni dell’attivo e passivo del verbo «creare» e della negazione (un procedimento dialettico) si ottiene una divisione del termine «natura» nelle sue quattro accezioni. Mi pare che la natura si divida, attraverso quattro differenze, in quattro specie: di queste la prima è la natura che crea e non è creata, la seconda è quella che è creata e crea, la terza quella che è creata e non crea, la quarta quella che non crea e non è creata. Queste quattro specie si oppongono poi a due a due: infatti la terza si oppone alla prima, la quarta alla seconda. Non si tratta solo di uno schema logico, ma dell’articolazione delle quattro tappe di un processo in cui la natura si manifesta come exitus e reditus, come «uscita» dal
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
Principio primo e «ritorno» ad esso. Eriugena lo spiega così: 1) da Dio, Principio primo («natura creante e non creata») procede 2) la «natura creata e creante», ovvero il mondo intelligibile degli archetipi, che sono nel Verbo e sono coeterni a Dio; da queste cause primordiali procede 3) il mondo sensibile, spazializzato e temporalizzato («natura creata e non creante»). Infine 4) la «natura non creata e non creante», cioè il ritorno dell’intera realtà in Dio, fino ad annullarsi in lui. Uscita e ritorno in Dio
Dio (Principio primo), natura creante e non creata
Ritorno dell’intera realtà in Dio, natura non creata e non creante
procede Mondo intelligibile, natura creata e creante (archetipi)
Gli archetipi nel Lògos
T2
Le cause primordiali
Eriugena, Periphyseon, 3,683a-b
Bibbia e metafisica: il racconto biblico fonte di conoscenza della struttura ontologica della realtà
ritorna procede
Mondo sensibile, natura creata e non creante
La prima natura creata non è costituita dagli enti che ci circondano in questo mondo, ma dagli archetipi, o cause primordiali, contenute nel Verbo o Lògos. In un’ottica platonizzante, generi e specie posseggono una realtà maggiore e più originaria rispetto alle sostanze individuali che ne partecipano. Nel discutere la natura delle cause primordiali contenute nel Verbo, intermedie fra il Principio primo, che è al di là dell’essere e della pensabilità, e gli enti di questo mondo, Eriugena ricorre a tutto l’arsenale dello pseudo-Dionigi (teologia superlativa, negativa e teofanie): Poi, discendendo dalla sua natura super-essenziale, nella quale è detto non essere, Dio si crea nelle cause primordiali, e diventa principio di ogni essenza, di ogni vita, di ogni intelligenza e di tutto ciò che l’intelligenza conoscente considera nelle cause primordiali. Poi, discendendo dalle cause primordiali, che sono intermedie tra Dio e la creatura – cioè intermedie tra quella super-essenzialità ineffabile, che è sopra ogni intelletto, e la natura manifesta e visibile nella sua sostanza agli animi puri – perviene negli effetti delle cause e si manifesta chiarissimamente nelle sue teofanie. Nei libri III e IV del Periphyseon, dedicati alla «natura che è creata e non crea», Eriugena illustra la processione delle cause negli effetti e lo fa interpretando filosoficamente il racconto biblico della creazione (con tutti gli strumenti della dialettica e dell’allegoria). Di fronte al primo versetto della Genesi («In principio Dio creò il cielo e la terra») Eriugena non pensa al mondo naturale che cade sotto i sensi, ma alla creazione delle cause primordiali, che sono invisibili nella mente di Dio («il cielo»), ma visibili nei loro effetti («la terra»). La creazione della luce è poi intesa come la processione stessa delle cause negli effetti. Quando la Bibbia narra che Dio nel secondo giorno creò una grande volta (il «firmamento») che divide le acque superiori dalle acque inferiori, Eriugena ritiene che si stia alludendo ai quattro elementi, che sono un livello di realtà intermedio tra ciò che è corporeo («le acque inferiori») e ciò che è spirituale («le acque superiori»). Di questo passo, tutti gli eventi e le cose menzionati nel racconto biblico della creazione cessano di indicare semplicemente il mondo naturale che ci circonda, per significare, piuttosto, la struttura ontologica della realtà, dalle cause primordiali, giù per la scala dell’essere, fino alla platonica «anima del mondo». 547
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Il ritorno in Dio
L’uomo e la risalita logico-metafisica a Dio
Il peccato originale come errore di prospettiva
In Dio attraverso il Verbo
T3
Il ritorno in Dio Eriugena, Periphyseon, 5,876a-c
Dialettica, pensiero e realtà
Infine il Periphyseon tratta del ritorno (reditus, epistrophè) di tutte le cose in Dio. Ed è questo il fine della creazione, che i corpi ritornino alle loro cause incorporee, che il temporale ritorni nell’eterno, che il finito si dissolva nell’infinito. Per questo ritorno è cruciale il ruolo dell’uomo. La sua natura originaria, fatta per la contemplazione intelligibile, gli consentirebbe di percorrere la creazione in senso inverso, risalendo dal mondo a Dio (si tratta di una risalita logico-metafisica, che dagli individui si innalza alle specie, ai generi e agli archetipi nella mente di Dio). Ma questa risalita ci è resa difficile dal peccato originale, che Eriugena non intende come un fatto compiuto dai nostri progenitori, del quale saremmo in qualche modo gli sfortunati eredi, ma come l’errore in cui cadiamo, quando, anziché contemplare le essenze immutabili nel Verbo divino, ci distraiamo negli inconcludenti aspetti accidentali delle esperienze sensibili, mescolando così il vero e il falso. In questo senso va intesa l’allegoria biblica in cui il serpente (l’esperienza sensibile) confonde Eva (la parte debole dell’anima razionale) facendo così cadere anche Adamo (l’intelletto contemplativo). Il superamento della nostra confusione conoscitiva creaturale ci è reso possibile grazie al Verbo divino stesso. Infatti Cristo, che è Dio e uomo, incarnandosi, restaura la condizione ideale dell’uomo, permettendogli così di risalire la scala dell’essere fino ad arrivare alla quarta natura, che non è creata e non crea più. In una perfetta simmetria, il Verbo che si è fatto carne permetterà alla carne di farsi Verbo (almeno per gli eletti). La natura, ricondotta così alle sue cause primordiali, potrà infine farsi una cosa sola con Dio, in un annullamento ontologico della molteplicità in Dio, che cessa di essere creatore. Il primo ritorno della natura umana avviene quando il corpo si dissolve e si converte nei quattro elementi del mondo sensibile dei quali è composto. Il secondo si compirà nella resurrezione, quando ognuno riprenderà il proprio corpo dalla confusione dei quattro elementi. Il terzo avverrà quando il corpo si trasformerà in spirito. Il quarto avverrà quando lo spirito e, per dire più chiaramente, tutta la natura dell’uomo ritornerà alle cause primordiali, che sono sempre e immutabilmente in Dio. Il quinto avverrà quando la natura stessa, con le sue cause, si muterà in Dio come l’aria si muta in luce. Infatti Dio sarà tutto in tutte le cose, quando null’altro vi sarà se non Dio soltanto. Merita di essere sottolineato che per Eriugena la dialettica non è soltanto una disciplina linguistica (come la grammatica e la retorica), ma coglie la relazione speculare tra strutture del pensiero e strutture della realtà. Infatti la «divisione» dei generi fino alle specie infime rispecchia il processo discensivo, mentre l’«analitica», che dalle realtà particolari risale ai generi sommi, rispecchia il reditus. Sia nel conoscere che nella realtà al momento «diairetico» di dispersione nella molteplicità segue il momento analitico di risalita e ricongiunzione in unità.
Fede e ragione Il Periphyseon è dominato da una potente visione unitaria, basata sulla sovrapponibilità di dialettica e dinamica della realtà, narrazione biblica e processione 548
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metafisica, microcosmo e macrocosmo. Nella costruzione di questo sistema Eriugena utilizza molte fonti e molti metodi: la Bibbia, la teologia neoplatonizzante dei padri greci, la tradizione di Agostino e degli altri autori latini, le arti liberali, l’esegesi allegorica. Guidato dal suo indirizzo di insieme, Eriugena si muove con mano sicura tra le fonti patristiche e, di fronte alla divergenza di opinioni tra le auctoritates, non esita a sostenere il primato della ragione sulla semplice tradizione. Del resto, argomenta, quando una posizione tradizionale diventa autorevole, lo fa in virtù del processo razionale che l’ha generata.
T4
Ragione e autorità
Eriugena, Periphyseon, 1,513a-b
6 Crisi politica e stagnazione culturale tra IX e X secolo
La ripresa dell’XI secolo e i nuovi centri di elaborazione del sapere
DISCEPOLO – Mi costringi ad ammettere razionalmente queste cose, ma vorrei che tu mi adducessi qualche argomento per corroborarle con l’autorità dei santi Padri. MAESTRO – Non ignori, credo, che ciò che è primo in natura ha una dignità maggiore di ciò che è primo nel tempo. DISCEPOLO – Ciò è noto a quasi tutti. MAESTRO – Abbiamo imparato che la ragione è prima per natura, mentre l’autorità lo è nel tempo. Infatti, sebbene la natura sia stata creata con il tempo, tuttavia l’autorità non ha cominciato a esistere con l’inizio della natura e del tempo, mentre la ragione è nata da principio con la natura e il tempo. DISCEPOLO – Anche questo lo insegna la ragione stessa, poiché l’autorità è derivata dalla vera ragione; mai la ragione, invece, è derivata dall’autorità. Ogni autorità che non viene confermata dalla vera ragione è debole, mentre la vera ragione, poiché ferma e immutabile si avvale delle sue virtù, non ha bisogno di essere corroborata dall’apporto di alcuna autorità. La vera autorità non è altro che la verità scoperta dalla forza della ragione e tramandata dalle opere dei Santi Padri a utilità dei posteri. O ti sembra altrimenti? MAESTRO – Assolutamente no. E questo è il motivo per cui, in questo nostro argomentare, si deve prima usare la ragione, poi l’autorità.
L’XI secolo e Anselmo d’Aosta Tra la fine del IX e l’inizio del X secolo l’impero carolingio si ritrovò in piena crisi, per le invasioni dall’esterno e per la frammentazione interna a vantaggio di potentati locali (la cosiddetta «anarchia feudale»). Con la crisi politica, economica e sociale si esaurì anche l’impulso della rinascita carolingia e il X secolo conobbe una nuova stagnazione della cultura, mantenuta solo nelle forme ordinarie delle scuole conventuali e di alcune scuole urbane presso le principali sedi episcopali. L’anarchia feudale fu conclusa dall’incoronazione imperiale di Ottone I (962). Gli imperatori della casa di Sassonia si ritennero legittimati, per il bene della società cristiana, a interferire nella vita della Chiesa facendo pressioni sul papato e inscrivendo le nomine dei vescovi entro logiche di dipendenza feudale (i «vescovi-conti»), che garantivano maggiore fedeltà al potere centrale. La lotta per le investiture è uno dei motori della riflessione politica e teologica medievale sul rapporto tra potere civile e potere ecclesiastico. Col secolo XI inizia un’epoca di risveglio culturale, in cui alle scuole ecclesiastiche si affiancano nuovi centri di elaborazione del sapere. Per esempio la scuola di medicina di Salerno (anticipazione delle università che nasceranno due secoli più tardi), in cui la formazione trae alimento dalle traduzioni dei testi più 549
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Dialettici e antidialettici
Pier Damiani e la difesa della superiorità della fede
Berengario di Tours e la dottrina eucaristica
avanzati della tradizione medico-scientifica araba (che, a sua volta, perfezionava la medicina di Galeno). Anche gli studi delle arti liberali vengono fortemente coltivati e si spingono al di là dei loro confini tradizionali. Un esempio di ciò è l’impiego di tecniche della logica (allora chiamata dialectica) nelle questioni teologiche. La storiografia ha tradizionalmente delineato uno scontro tra due fazioni: i sostenitori di una piena applicabilità dell’analisi filosofica al dogma (i dialettici) e coloro che sostenevano l’inadeguatezza degli strumenti logici di fronte ai contenuti della fede (gli antidialettici). In realtà tutti i maggiori teologi dell’XI secolo fanno un uso abile della logica e dell’argomentazione e nessuno (nemmeno i cosiddetti «dialettici») ha la pretesa di risolvere interamente il dogma in una dimostrazione logica. Tra gli «antidialettici» dobbiamo ricordare Pier Damiani (1007-1072), che nelle sue opere utilizza tutto l’arsenale della dialettica per propugnare la superiorità della fede su ogni sapere liberale e mettere in guardia dalla tentazione di ridurre la libertà di Dio entro i limiti della logica umana. In un celebre passaggio del suo trattato Sull’onnipotenza di Dio egli arriva ad attribuire a Dio il potere di mutare ciò che è già avvenuto, ovvero far sì che «ciò che è stato non sia mai stato», superando così i limiti del principio di non contraddizione (per cui qualcosa non può essere p e non-p contemporaneamente e sotto lo stesso rispetto). Come esempio di trattazione dialettica di un importante tema teologico possiamo prendere le precisazioni sull’eucaristia del maestro di arti liberali Berengario di Tours (morto nel 1088). Alcuni teologi sostenevano che Cristo sarebbe realmente presente nell’ostia consacrata in virtù di una conversione sostanziale (la sostanza-pane diventerebbe sostanza-corpo-di-Cristo). A ciò Berengario oppone argomentazioni apertamente filosofiche, come la seguente: la logica aristotelicoboeziana insegna che le qualità sussistono in quanto sono accidenti di una sostanza; dato che le qualità percepibili del pane e del vino perdurano anche dopo la consacrazione, è evidente che non c’è conversione sostanziale. Tuttavia è da sottolineare che Berengario non nega il valore dell’eucaristia, ma ritiene che il pane e il vino siano soltanto un segno visibile dell’essenza reale del corpo e sangue di Cristo, questa sì realmente presente durante il sacrificio eucaristico. La dottrina eucaristica di Berengario sarà condannata in vari sinodi ecclesiastici e definitivamente sostituita dal modello della transustanziazione (IV concilio lateranense 1215 e Concilio di Trento 1551).
Anselmo d’Aosta: credere per capire Dialettica e chiarificazione razionale dei contenuti della fede
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L’idea che lo stile argomentativo della dialettica possa essere messo al servizio di una chiarificazione razionale dei contenuti della fede è il tratto che caratterizza il maggior pensatore dell’XI secolo, il benedettino Anselmo, figura-chiave della teologia monastica. Per quanto la sua produzione sia ampia, la fama di Anselmo è legata a due meditazioni teologiche dai forti risvolti filosofici, il Monologion (1076) e il Proslogion (1077-1078). Anselmo è convinto che ci sia un’armonia profonda tra i dati della fede e i risultati ottenibili con rigorose procedure filosofiche. Il punto di partenza è compendiato in due celebri formule: «la fede che cerca l’intelligibilità» («fides quaerens intellectum») e «credo per capire» («credo ut intelligam»). Infatti il suo metodo consiste nell’analizzare quelle stesse verità alle quali prestiamo assenso per fe-
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
de cercando però di dedurle con procedimenti puramente razionali («sola ratione»: «con la sola ragione»), dunque prescindendo del tutto dalle fonti della rivelazione e della tradizione patristica. Questo non significa che l’indagine razionale sia autonoma rispetto ai contenuti della fede, ma che la mente umana, una volta indirizzata dalla fede, può comprendere la corrispondenza tra dati rivelati e risultati ottenuti per via dimostrativa. In questo senso vanno le parole che introducono la prova dell’esistenza di Dio nel Proslogion (titolo grecizzante che significa «colloquio» con Dio).
T5
Credo per capire Anselmo d’Aosta, Proslogion, 1
Non tento, o Signore, di penetrare la tua profondità, poiché in nessun modo metto con essa a confronto il mio intelletto; ma desidero intendere in qualche modo la tua verità che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di intendere per poter credere, ma credo per poter intendere [neque enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam]. Benché profondamente influenzato dalla tradizione patristica e, in particolare, da Agostino, Anselmo riesce a formulare le sue più importanti dottrine con l’asciuttezza e il rigore dell’argomentazione filosofica. Questo non deve però far pensare a un astratto razionalismo. Infatti, chiunque legga le opere di Anselmo può vedere che i procedimenti razionali e argomentativi scaturiscono da un contesto di preghiera, di dialogo con Dio e di profondo radicamento nella meditazione biblica.
La vita e le opere Anselmo nacque ad Aosta nel 1033/1034. I francesi lo chiamano Anselmo di Le Bec, perché in questo luogo della Bretagna fu monaco (1060), priore (1063) e abate (1079) (l’abate è il monarca di una comunità monastica e ne dirige sia la vita materiale che la vita spirituale; il priore è chi fa le veci dell’abate). Nel 1093 divenne arcivescovo di Canterbury (per questo gli anglosassoni lo
chiamano Anselmo di Canterbury). Per i suoi progetti di riforma della Chiesa inglese entrò in contrasto dapprima con re Guglielmo II, poi con re Enrico I (i principali temi di contesa erano le investiture e l’uso da parte della corona dei beni ecclesiastici) e fu costretto ad alcuni periodi di esilio sul continente. Tornato nel 1106 in Inghilterra, morì a Canterbury nel 1109.
Il Monologion e le prove a posteriori dell’esistenza di Dio Il Monologion («soliloquio», ossia «meditazione con se stesso») fu composto nel monastero di Le Bec, su richiesta dei confratelli, come «esempio di meditazione sulla ragione della fede da parte di chi silenziosamente fra sé ricerca ciò che non conosce». Il tema dell’opera è l’esistenza di un sommo bene che dà ordine alle cose. Il fine è mostrare che al sommo bene si può arrivare analizzando razionalmente la struttura stessa della realtà, attraverso argomenti a posteriori, argomenti, cioè, che partono dagli effetti per risalire alle loro premesse. Per quanto Anselmo riconosca la propria sintonia con la tradizione teologica, qui seguirà un metodo puramente dimostrativo, basato sulla «sola ragione», dunque senza citazioni autorevoli dalla Bibbia o dai padri della Chiesa, ma solo col rigore delle definizioni e delle connessioni argomentative. La prima prova Questo è evidente fin dalla prova esposta nel primo capitolo, che possiamo riassumere nei seguenti punti: 1) Tutti vogliamo godere di cose che riteniamo buone. Però cos’è che le rende buone?
Dagli effetti alle premesse, secondo il metodo dimostrativo
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2) Non può trattarsi di qualcosa che è nelle cose stesse, perché più cose partecipano dello stesso attributo in gradi diversi. Ma, anche se varia il grado, l’attributo è nondimeno unico. 3) Dunque è necessario che tutte le cose buone siano buone per un unico ente sommamente buono. La seconda prova La seconda prova applica lo stesso schema alla grandezza, intesa non in senso quantitativo, ma come criterio di valore o dignità, e giunge così alla necessaria coincidenza tra il sommamente grande e il sommamente buono. La terza prova La terza prova è centrata sull’essere. Anselmo dipana il suo ragionamento con metodo divisivo e con riduzione ad assurdo di uno dei corni. 1) Ogni esistente è in virtù o di qualcosa o di nulla. Ma nulla è in virtù di nulla, dunque ogni esistente è in virtù di qualcosa. 2) Questo qualcosa, in virtù di cui tutte le cose sono, o è uno o sono molti. Ma la molteplicità presuppone l’unità (senza la quale il molteplice non sarebbe neppure pensabile). E se anche qualcuno parlasse di più principi primi dell’essere, ciascuno per sé, dovremmo chiamare in causa un principio superiore che li fa essere ciascuno per sé. E se qualcuno dicesse che sono l’uno in virtù dell’altro reciprocamente, questo «nessuna ragione lo tollera, perché è irrazionale pensare che qualcosa esista in virtù di ciò a cui dà l’essere». Dunque tutte le cose sono in virtù di uno. 3) Se tutte le cose esistono in virtù dello stesso uno, allora questo uno soltanto è per se stesso. La quarta prova La quarta prova riprende le prime due: dato che gli enti sono ordinati secondo una gradazione di perfezioni, deve esistere una natura sommamente perfetta. Queste quattro prove a posteriori sono molto simili alle cinque vie che Tommaso d’Aquino utilizzerà nel XIII secolo per dimostrare l’esistenza di Dio (vedi Unità 10, p. 594).
Il Proslogion e la cosiddetta prova «ontologica» Il Proslogion è costituito da un proemio e ventisei capitoli. La sezione più interessante è la famosa prova dell’esistenza di Dio contenuta nel capitolo 2. Mentre il Monologion era formato «da una concatenazione di molti argomenti» e risaliva dagli effetti alla Causa prima, qui Anselmo cerca «un unico argomento» che dimostri l’esistenza di Dio a partire dalla nozione stessa di Dio. La prova anselmiana in sostanza è questa: se intendiamo correttamente il significato del termine «Dio», sarà inevitabile pensare Dio come esistente. Anselmo sviluppa la sua prova come una reductio ad absurdum, ricavando, cioè, conseguenze contraddittorie della posizione di un ipotetico avversario (identificato con l’«insipiente» che, secondo i Salmi 14 e 53, «ha detto in cuor suo “Dio non esiste”»). Dio: ciò di cui non può 1) Il punto di partenza di Anselmo è un’esplicitazione del significato del termipensarsi niente ne «Dio»: «Noi crediamo che Tu sia qualcosa di cui non può pensarsi niente di maggiore di maggiore [aliquid quo nihil maius cogitari possit]». È importante tener presente che Anselmo non sta parlando della cosa più grande esistente (perché di questa è sempre pensabile qualcosa di più grande), ma di una sorta di concetto limite, del quale non possiamo pensare niente di maggiore. 2) Ora, anche chi non crede nell’esistenza di Dio, come l’insipiens biblico, com«Un unico argomento»
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
La controversia con Gaunilone
Contro il passaggio dal pensiero alla realtà
Dio, più grande di qualsiasi cosa si possa pensare
Contro il passaggio dalla formula al pensiero
La fede alla ricerca dell’intelligibilità
➥ Sommario, p. 578
prende la formula «ciò di cui non può pensarsi niente di maggiore», tuttavia ritiene che nessuna realtà corrisponda a questo pensiero. 3) Però, ribatte Anselmo, «ciò di cui non può pensarsi niente di maggiore» non può essere solo nel pensiero, perché, se fosse solo nel pensiero, ne potremmo pensare una versione esistente anche nella realtà e questa sarebbe maggiore. «Infatti, se esistesse nel solo intelletto, si potrebbe pensarlo anche nella realtà e questo allora sarebbe maggiore». Anselmo pose in appendice alla versione definitiva del Proslogion un interessante dossier in due parti: dapprima le obiezioni del confratello benedettino Gaunilone di Marmontier (che aveva scritto un Libro in difesa dell’insipiente), poi le sue stesse controrepliche. Gaunilone obietta che, posta un’idea nell’intelletto – sia pure dotata di tutte le perfezioni possibili – non si può passare con un semplice atto mentale dal pensiero alla realtà. Infatti, esemplifica Gaunilone, io posso pensare a un’isola sconosciuta in mezzo all’oceano, che sia dotata di tutte le perfezioni, ma questo non mi legittima a concludere che essa esista anche nella realtà. Anselmo risponde che la prova del Proslogion non deve valere per qualsiasi realtà che si supponga perfetta, ma solo per ciò che è al di sopra di ogni perfezione pensabile. Si vede chiaramente come l’argomento anselmiano è in linea con la teologia negativa: Anselmo non intende affermare che Dio è la cosa più grande che possiamo concepire, ma che è più grande di qualsiasi cosa possa essere pensata. Quindi noi non conosciamo direttamente l’essenza di Dio, ma possiamo coglierne, sola ratione, una definizione negativa, possiamo capire che è al di là di ogni pensiero possibile. Gaunilone osserva anche che non tutti gli enunciati, per quanto uditi, danno origine a pensieri corrispondenti, specialmente quando manca l’esperienza di ciò a cui ci si riferisce (e questo è il caso dell’insipiente rispetto a Dio). In altre parole, si contesta il passaggio dalla formula linguistica «ciò di cui non può pensarsi niente di maggiore» a un pensiero ad essa corrispondente (chi lo pensa, osserva Gaunilone, lo fa indipendentemente dalla formulazione). Su questo punto Anselmo è sostanzialmente d’accordo con Gaunilone: nel Proslogion non si tratta di convincere chi è incredulo (a questo servono meglio gli argomenti del Monologion), ma di accompagnare chi già crede nell’esercizio della comprensione intellettuale della propria fede, nello spirito della «fides quaerens intellectum».
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Abelardo e le scuole nel XII secolo
2 I testi
Abelardo Storia delle mie disgrazie: L’arrivo a Parigi, T6 Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano: L’anteriorità della legge di natura, T7; L’educazione forgia le credenze, T8
1 Espansione della società urbana ed economia mercantile
Intellettuale urbano e scuole cattedrali
Arti liberali e teologia
Il «metodo scolastico»
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Gioacchino da Fiore Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento: Le tre epoche storiche, T9
La civiltà urbana nel XII secolo Il XII secolo, epoca di crescita economica e demografica, conosce la piena espansione della civiltà urbana. In Italia è contrassegnato dal fiorire della civiltà comunale, delle repubbliche marinare e dallo sviluppo degli scambi tra Occidente e Oriente. Nelle sue funzioni economiche, politiche e spirituali la rinnovata realtà urbana richiede la formazione di amministratori preparati, ai quali offre opportunità di carriera e riconoscimento sociale. Se nel contesto feudale dei secoli precedenti la vita culturale era stata esercitata o a corte o in monasteri immersi in sistemi di produzione rurale, ora, nel XII secolo, lo scenario muta radicalmente e si sposta nel contesto dell’esperienza urbana. Come la trasformazione economica porta la figura nuova del mercante, così la trasformazione culturale vede nascere la figura dell’intellettuale urbano, che ormai opera in nuovi centri di produzione e trasmissione del sapere anch’essi inseriti nel tessuto della città. Il XII secolo è infatti caratterizzato dalla nascita e diffusione di scuole urbane, che spesso sono scuole cattedrali, così chiamate perché operano presso la chiesa episcopale della città (in cui si trova la cathedra, ovvero il trono del vescovo). A Parigi, per esempio, abbiamo la scuola di Nôtre-Dame nelle case dei canonici intorno alla cattedrale (i «canonici» sono gli ecclesiastici addetti al servizio di una cattedrale), ma anche Sainte-Geneviève e Saint-Victor sulla riva sinistra della Senna. Naturalmente le scuole urbane non nacquero dal nulla e in molti casi svilupparono e organizzarono meglio istituzioni preesistenti. Così la più importante scuola del XII secolo, quella di Chartres, è una prosecuzione su nuove basi della scuola episcopale fondata tra il X e l’XI secolo dal vescovo Fulberto (960-1028). Nelle scuole cittadine del XII secolo si insegnano ancora le sette arti liberali e la teologia. Ogni arte ha i suoi testi di riferimento. Per la dialettica (ovvero la logica), che per ora è l’unica parte della filosofia sistematicamente insegnata, il mondo di lingua latina studia ancora i testi della cosiddetta «vecchia logica» o logica vetus, vale a dire Categorie e Interpretazione (i primi due trattati dell’Organon di Aristotele), Isagoge di Porfirio (che era un’introduzione complementare ad Aristotele) e alcuni trattati di Cicerone e Boezio. È proprio nelle scuole cittadine del XII secolo che viene messo a punto il cosiddetto «metodo scolastico» di analisi testuale, scandito dalle tre tappe di lectio,
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
Differenze con il metodo delle scuole monastiche
La contrapposizione fra scuole urbane e scuole monastiche
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T6
L’arrivo a Parigi Abelardo, Storia delle mie disgrazie
La vita tormentata di un intellettuale
sensus e sententia. La lectio è la «lettura» integrale di un testo autorevole (di cui il maestro indica le articolazioni); il sensus è la spiegazione del senso letterale; la sententia (parola che in latino significa «modo di pensare» o «posizione teorica») è la spiegazione del senso dottrinale profondo. L’università del XIII secolo si approprierà di questo metodo perfezionandolo. Si tratta, com’è evidente, di un metodo ben diverso da quello della lectio divina («lettura della Sacra Scrittura») praticato nei monasteri, che era orientato alla meditazione (meditatio) e alla preghiera (oratio). È da osservare che «meditazione» significava ripetizione a voce bassa del testo, per esercitare «più che una memoria visiva delle parole scritte, una memoria uditiva delle parole ascoltate» (J. Leclercq); una ripetuta masticazione della parola divina, che i monaci designavano anche come «ruminazione» (ruminatio). Gli ordini monastici legati alla civiltà rurale non scomparvero. Anzi, anche nell’ambito culturale si profilò una contrapposizione tra rinnovamento legato alla città e tradizionalismo legato alla campagna. Lo testimonia Bernardo di Chiaravalle (Clairvaux), figura chiave dell’ordine monastico cistercense, che invita a fuggire le scuole della città per rifugiarsi nel deserto (del monastero). Tuttavia le scuole monastiche finirono per perdere il loro smalto, mentre le scuole urbane prepareranno il terreno per la più grande novità culturale del XIII secolo, ovvero la nascita delle università (vedi Unità 10).
Pietro Abelardo Giunsi finalmente a Parigi dove già da tempo gli studi di dialettica avevano raggiunto sviluppi eccezionali, e frequentai la scuola di Guglielmo di Champeaux, allora celebre, per preparazione e fama, in questo campo. Rimasi con lui per poco tempo, dapprima discepolo gradito, poi insopportabile, soprattutto da quando avevo cominciato a confutare le sue teorie e non temevo di dimostrargli che spesso era lui che sbagliava, tanto che il più delle volte chi usciva vincitore nelle nostre dispute ero io. […] Alla fine, sopravvalutando forse, data l’età, le mie reali capacità, aspirai, nonostante fossi poco più che un ragazzo, a dirigere una scuola. Subito cercai il posto dove intraprendere questa attività e mi parve adatta Melun, una cittadina allora famosa e per di più residenza regale. […] Dopo questo mio esordio nell’insegnamento, la mia fama nel campo della dialettica si diffuse enormemente e poco a poco oscurò non solo quella dei miei vecchi compagni di studio ma persino quella dello stesso Guglielmo. Ben presto i buoni risultati ottenuti mi indussero, cresciuta in me la presunzione, a trasferire la mia scuola a Corbeil, la cittadina vicino a Parigi, anche perché così potevo far sentire meglio la mia voce nelle varie dispute. Era dai tempi di Agostino che non possedevamo una testimonianza così sentita e vivida, in cui si intrecciano autobiografia e ricerca filosofica. La vicenda umana del bretone Pietro Abelardo incarna pienamente i contrasti di un’età in cui alla cultura monastica si affianca il rinnovamento delle scuole cittadine. Egli stesso infatti, come ci racconta in questa sua straordinaria lettera autobiografica, arrivò verso il 1095 a Parigi, per seguire le lezioni di Guglielmo di Cham555
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
La fondazione di scuole proprie
La dialettica come metodo
Eloisa
La scelta monastica e la fondazione del Paracleto
La condanna
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peaux presso la scuola cattedrale di Nôtre-Dame, dopo aver frequentato le scuole cittadine di Tours e di Loches. Non contento dei suoi maestri, anzi, convinto di essere superiore a loro, Abelardo fondò scuole in proprio, attirando studenti che spesso, per seguirlo, abbandonavano maestri più anziani. Del resto i curricula scolastici non erano ancora rigorosamente istituzionalizzati (come avverrà a partire dal secolo successivo, con la nascita delle università) e i maestri più carismatici si sentivano liberi di aprire nuove scuole, anche effimere, le une in concorrenza con le altre. Pienamente consapevole della propria forte personalità speculativa e appassionato dallo scontro intellettuale, Abelardo si gettò a capofitto in provocazioni culturali, nelle quali convivono intelligenza e arroganza. Dopo il periodo di Melun, dunque, Abelardo tornò a Parigi e fondò la sua scuola sulla collina di Sainte-Geneviève, alla periferia della città. Ma le peregrinazioni culturali non erano finite. Nel 1113 andò alla scuola di Anselmo di Laon, un grande maestro di teologia (sotto il quale aveva studiato anche Guglielmo di Champeaux). Anche qui Abelardo non seppe resistere e si mise a spiegare passi difficili del libro biblico del profeta Ezechiele in concorrenza col maestro. Ormai Abelardo si sentiva in possesso di un metodo sicuro e rigoroso, quello della logica (o «dialettica», come si diceva allora), che può essere applicato sia alle questioni logico-argomentative, sia a questioni teologiche e di interpretazione biblica. Così nel 1116 iniziò a insegnare sia dialettica che teologia a Parigi, nella scuola cattedrale di Nôtre-Dame. Abelardo era al culmine del successo quando incontrò una ragazza sedicenne fuori dall’ordinario, Eloisa, nipote di Fulberto, un canonico di Nôtre-Dame. La ragazza, oltre a essere bella, era straordinariamente intelligente e aveva un’inconsueta cultura nelle lettere classiche e nelle arti liberali (come testimoniano le sue lettere ad Abelardo). I due si innamorarono, ebbero un figlio e si sposarono segretamente (per non creare scandalo nell’ambiente di Nôtre-Dame), dopodiché Abelardo inviò Eloisa al monastero dell’Argenteuil. Eloisa accettò per amore questo doloroso allontanamento, per consentire ad Abelardo di continuare a dedicarsi a tempo pieno ai suoi impegni professionali. Fulberto, fraintendendo questo gesto come un ripudio, decise di punire Abelardo e mandò due scagnozzi a evirarlo durante il sonno. Abelardo scelse allora di diventare monaco e si ritirò nell’abbazia di Saint-Denis. Qui continuò a insegnare, dedicandosi alla teologia, ma la dottrina trinitaria della sua Teologia del Sommo Bene venne condannata in un sinodo a Soissons (1121). Nel 1123, data l’incomprensione degli altri monaci di Saint-Denis, Abelardo si trasferì a Troyes, dove fondò il Paracleto, un piccolo monastero con una scuola, e si dedicò alla revisione del Sic et non e della Teologia cristiana, completò la Logica nostrorum e scrisse l’incompiuto Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano. Nel 1128 Abelardo diventò abate del monastero di Saint-Gildas, ma nel 1133 ritornò a Parigi, dove tenne nuovamente scuola sulla collina di Sainte-Geneviève (fra i suoi scolari c’era anche Giovanni di Salisbury; vedi avanti p. 562) e si dedicò alla stesura di un commento alla Lettera di Paolo ai Romani, di un commento all’Hexaëmeron («I sei giorni della creazione»), alla Theologia scholarium e, forse, anche all’Etica. Il suo impiego rigoroso della logica nella teologia trinitaria gli guadagnò consensi ma anche sospetti. Così durante la quaresima del 1139 Guglielmo di SaintThierry, un celebre monaco cistercense e teologo, con una lettera, accompagnata da un elenco di proposizioni sospette, segnalò il caso al confratello Bernardo
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di Clairvaux e lo invitò a intervenire. Bernardo denunciò Abelardo e fece in modo che le sue opere venissero giudicate e condannate in un concilio a Sens (1140). Abelardo, privato del diritto di insegnare, avrebbe voluto raggiungere Roma per appellarsi direttamente al papa, ma ciò gli fu impedito da una malattia. Si ritirò così presso l’abbazia di Cluny, ospite di Pietro il Venerabile, e qui condusse una vita di rigorosa penitenza, dedicata alla preghiera, alle letture e alla scrittura. Quando le sue condizioni di salute si aggravarono venne inviato a cambiare aria nel piccolo monastero di Saint-Marcel, presso Châlon-sur-Saône, in Borgogna, dove morì a sessantatré anni, il 21 aprile 1142.
La vita e le opere Pietro Abelardo nacque a Le Pallet in Bretagna nel 1079. Si trasferì a Parigi nel 1095, poi a Melun, per poi tornare a Parigi, insegnandovi dialettica e teologia. Dopo la vicenda legata a Eloisa (1116-1118) divenne monaco e si spostò tra
vari monasteri; morì nel 1142. Tra le sue opere ricordiamo: il carteggio con Eloisa; Logica ingredientibus («Logica per principianti»); Teologia del Sommo Bene; Sic et non («Sì e no»); Teologia cristiana; Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano; Etica, ovvero «conosci te stesso».
Logica e ontologia Dalla logica alla filosofia
Il dibattito sugli universali
Il realismo di tradizione platonica
Il nominalismo estremo o vocalismo
Abelardo si era recato a Parigi, come lui stesso racconta, proprio perché qui si trovavano le migliori scuole di dialettica. La dialettica (ovvero la logica) era una delle discipline liberali del trivio (ne era il culmine, dopo la grammatica e la retorica) e si insegnava a partire dai testi della logica vetus, che per quanto riguarda i testi aristotelici si limitavano a Categorie e Interpretazione. I principali trattati logici, fisici, metafisici ed etico-politici di Aristotele, invece, non erano stati ancora latinizzati, e tuttavia l’acume di Abelardo gli permise di sviluppare in modo originale i temi delle opere logiche a disposizione, ricavandone anche conclusioni filosofiche di più ampio respiro. Dalla logica e dalla filosofia del linguaggio nasce un tema che ha importanti ricadute ontologiche, cioè la questione degli universali, ovvero dei termini (come generi e specie) che si predicano di più realtà particolari dotate di caratteristiche simili. Quando diciamo «Socrate è un uomo» e «Platone è un uomo» che natura ha questo termine «uomo» che predichiamo di due individui diversi? Ha qualche grado di realtà al di fuori del pensiero e del linguaggio? Nel dibattito del XII secolo si profilavano due soluzioni opposte. La prima era il cosiddetto «realismo». Questo termine, ovviamente, non ha il senso che gli diamo noi oggi, ma designa l’attribuzione di realtà ai concetti (alla maniera platonica). Dunque erano «realisti» quegli autori, come Guglielmo di Champeaux, secondo i quali i concetti universali, come generi e specie, sarebbero delle realtà, delle res, che esistono indipendentemente dal nostro pensiero e dal nostro linguaggio. In base a una tradizione di platonismo cristiano questi termini erano stati identificati con le idee nella mente di Dio, che sono i modelli degli enti particolari creati. Quindi, continuano i realisti, quando predichiamo un universale di un soggetto (per esempio «Socrate è un uomo»), non stabiliamo solo rapporti fra parole, ma anche rapporti fra cose nella forma della partecipazione del particolare (la cosa «Socrate») all’universale (la cosa «uomo»). La seconda soluzione, opposta al realismo, era il cosiddetto «vocalismo», sostenuto dal primo maestro di Abelardo, Roscellino di Compiègne, secondo il quale solo le cose individuali sono reali, mentre i termini universali sono segni lingui557
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stici convenzionali, che hanno la funzione di denotare più cose legate da qualche affinità, ma di per sé non posseggono alcuna realtà che vada oltre il flatus vocis, ovvero il soffio d’aria emesso quando si pronuncia una parola. Questa posizione verrà definita in seguito nominalismo estremo. Abelardo e la teoria La posizione di Abelardo si distingue sia dal realismo che dal vocalismo. Sedello status guiamo il suo argomento nella Logica ingredientibus. L’universale, come insegna Aristotele, è ciò che può essere predicato di molte cose simili. Così il termine «uomo» è predicabile singolarmente di Socrate, Platone, Aristotele e così via. Quindi non può essere una res, una cosa tra le cose (perché una cosa individuale non è predicabile di un’altra cosa individuale: infatti non dico che Socrate è Platone). Ma non può nemmeno ridursi a un puro fatto di linguaggio senza fondamento nelle cose di cui denota un carattere comune. In realtà quando noi predichiamo il termine «uomo» di più individui diversi, lo facciamo perché percepiamo un aspetto simile in più individui e ci riferiamo a ciascuno di questi individui, riconoscendo che ciascuno di essi ha lo status di uomo, cioè il fatto di essere uomini. E questo non comporta l’esistenza di un’ulteriore cosa universale (come l’essenza dell’uomo). Dunque l’universale non è né una ‘cosa’ particolare, né un semplice fatto linguistico, ma deriva dal nostro riconoscimento intellettuale (linguisticamente esprimibile) dello status reale di più individui, che sono per un verso simili, per altri versi dissimili. Le teorie degli universali
Realismo
Teoria dello status di Abelardo
Nominalismo estremo / vocalismo
Gli universali sono realtà indipendenti dal livello mentale o linguistico
Gli universali esprimono il riconoscimento dello status reale di più individui
Gli universali non posseggono alcuna realtà che vada oltre il flatus vocis
Teologia e razionalità filosofica Una delle caratteristiche più interessanti delle opere teologiche di Abelardo è l’impiego sistematico delle più avanzate tecniche logiche al fine di spiegare i dogmi cristiani. Anche se la ragione umana non può arrivare al fondo delle cose divine, nondimeno può chiarire il valore semantico e il contenuto intellettuale delle proposizioni teologiche e può eliminare quelle contraddizioni che nascono da un cattivo uso del linguaggio e da un’ignoranza della dialettica. Il Sic et non Chiunque esplori la ricchissima biblioteca della tradizione cristiana (la Bibbia, gli scritti dei teologi dei primi secoli detti «padri della Chiesa» e i decreti conciliari) può trovare affermazioni che sembrano in contraddizione tra loro. Abelardo è convinto che l’applicazione rigorosa di metodi dialettici e interpretativi consenta di eliminare i contrasti apparenti. Per questo allestisce un’opera, il Sic et non, che raccoglie sistematicamente sentenze (prevalentemente tratte dai padri della Chiesa) che si contraddicono, organizzate in 158 capitoli. Una riflessione Per noi è importante il Prologo, in cui Abelardo riflette con lucidità su questioni sull’ermeneutica di ermeneutica testuale, ovvero sulle regole che dobbiamo seguire per interpreLa logica contro le apparenti contraddizioni teologiche
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Non accettare acriticamente la tradizione cristiana
Le Sentenze di Pietro Lombardo
Ruolo del filosofo nel Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano
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L’anteriorità della legge di natura
Abelardo, Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano
Pratiche religiose nate dalla consuetudine
tare correttamente i diversi testi della tradizione dottrinale cristiana: verificare che lo scritto sia autentico e che l’autore non abbia ritrattato quelle posizioni in opere successive, accertare che in quel passo l’autore non abbia semplicemente riportato un’opinione comune della sua epoca o l’opinione di qualcun altro, considerare se nel contesto quel passo è proprio assertivo o semplicemente dubitativo, valutare, infine, se gli stessi termini non sono stati usati in sensi diversi da autori diversi. Se poi qualche contraddizione non viene eliminata con tutti questi accorgimenti interpretativi, si accoglierà il parere più autorevole per antichità e consenso. È da sottolineare, come tratto innovativo, che Abelardo non fa nessun appello all’interpretazione spirituale, né alla pluralità dei sensi della Scrittura. Le sue tecniche di ermeneutica biblica sono quelle del trivio. Inoltre il Prologo dice a chiare lettere che la tradizione cristiana non va accettata acriticamente in blocco, ma indagata e soppesata con tutte le tecniche delle arti liberali. Il modello del Sic et non testimonia un altro modo di accostarsi ai testi della tradizione cristiana, diverso dalla lettura meditativa e spirituale del mondo monastico. È un modo nuovo che si adatta ai metodi di insegnamento e dibattito delle scuole cittadine. Di qui a poco Pietro Lombardo (morto nel 1160), che era stato uditore di Abelardo e successivamente diventerà maestro e poi vescovo di Parigi, metterà insieme una compilazione sistematica di sentenze patristiche, il Liber sententiarum, con una finalità simile a quelle del Sic et non (permettere un confronto che elimini le contraddizioni apparenti), ma con un’architettura dei temi più sistematica: nel libro I Dio in sé (unità, trinità e attributi divini); nel libro II Dio creatore; nel libro III Dio redentore (legge e cristologia); nel libro IV sacramenti ed escatologia. Intorno alla metà degli anni venti, nel periodo del Paracleto (e non nell’ultimo periodo, come a lungo si è creduto), Abelardo ha composto un dialogo in cui immagina che un filosofo pagano, un ebreo e un cristiano si presentino da lui, chiedendogli di fare da arbitro nel loro dibattito. Non è il convenzionale confronto tra gli appartenenti a due religioni diverse. Ciò che muta il quadro è la figura del filosofo, che ha promosso questo dibattito: «È stata una mia iniziativa: è compito del filosofo, infatti, ricercare la verità attraverso ragionamenti [rationibus veritatem investigare] e in tutte le cose seguire non l’opinione degli uomini, ma la guida della ragione [rationis sequi ducatum]». Il tema in discussione è il rapporto tra legge naturale e religioni rivelate. Dice il filosofo: È mio compito porre a voi altri la prima domanda, anche perché mi accontento della legge naturale, che viene per prima. Vi ho riuniti per questo: per indagare sulle scritture che si sono aggiunte. Questa legge che seguo è prima, come ho detto, non solo nel tempo, ma anche secondo ragione. Tutto ciò che è più semplice, infatti, viene per natura prima di ciò che è complesso. La legge naturale, ossia la scienza dei costumi che chiamiamo etica, consiste soltanto in precetti morali, mentre la dottrina delle vostre leggi vi aggiunge dei precetti che consistono in segni esteriori che a me sembrano del tutto superflui. All’ebreo il filosofo obietta che anche prima che gli ebrei ricevessero le tavole della legge mosaica, si viveva in armonia solo sulla base della legge naturale, o etica, che consiste nell’amore di Dio e del prossimo. Grandi figure dell’Antico Te559
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stamento, come Abele, Noè, Abramo e Isacco, hanno osservato solo questa legge naturale e sono state per questo gradite a Dio. Perché dunque aggiungere precetti e segni estrinseci? Non sembra giustificabile razionalmente tutto ciò che la religione ha aggiunto alla legge naturale. Così il filosofo profila l’idea che le pratiche religiose siano in realtà delle consuetudini acquisite fin da bambini, poi naturalizzate e accettate acriticamente:
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L’educazione forgia le credenze
Abelardo, Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano
Il sommo bene e la vita virtuosa
È stata la ragione a portarvi verso queste dottrine di fede oppure avete seguito soltanto l’opinione degli uomini e l’affetto per la vostra stirpe? […] L’affetto per la propria stirpe e per coloro con i quali si cresce è così insito in tutti gli uomini, che essi respingono con orrore tutto ciò che si dice contro la loro fede. E trasformando la consuetudine in natura da adulti conservano con ostinazione ciò che hanno imparato da bambini. Discutendo col cristiano, il filosofo osserva che il sommo bene è stato cercato incessantemente anche dagli antichi filosofi pagani greci e romani. I cristiani dicono che raggiungere il sommo bene comporta la nostra beatitudine, i filosofi antichi parlano del sommo bene in termini di virtù o piacere («Quel che Epicuro chiama piacere, il vostro Cristo lo chiama regno dei cieli»). Ma queste sono solo differenze di linguaggio, perché in entrambi i casi si tratta di raggiungere la pace interiore attraverso l’esercizio di una vita virtuosa.
Etica, ovvero «conosci te stesso» L’origine del peccato
Inclinazione, consenso e azione
Valore determinante dell’intenzione
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Abelardo ha scritto un’opera di filosofia morale il cui titolo richiama il motto delfico caro a Socrate: Etica, ovvero «conosci te stesso». Contro tutte le posizioni legalistiche, che definivano i peccati in base agli schemi e ai casi descritti nei manuali per i confessori, Abelardo avanza una proposta innovativa, che riconduce il peccato (e il suo opposto, la virtù) al consenso libero e consapevole col quale aderiamo o no a una cattiva inclinazione. Nell’Etica, che è essenzialmente un trattato di morale teologica, Abelardo analizza la struttura morale del peccato. Le nostre debolezze, su base fisiologica o su base psicologica (per esempio un temperamento irascibile), possono costituire un’inclinazione al peccato, ma non sono ancora peccato. Il peccato lo compiamo nel momento in cui diamo il consenso a queste inclinazioni e a ciò che è illecito, manifestando così un disprezzo di Dio e del prossimo. È importante capire che il peccato in quanto tale si consuma interamente nel momento del consenso e che l’azione peccaminosa (che potrebbe anche essere impedita per motivi estrinseci) non aggiunge nulla che aumenti o diminuisca il peccato. Anche il piacere che può accompagnarsi a certe azioni peccaminose di per sé non è peccato. Ne è prova il fatto, argomenta Abelardo, che il piacere sessuale si accompagna sia a rapporti illeciti, sia a leciti rapporti matrimoniali: segno che di per sé non è peccaminoso. Con un’esplicita ripresa di un motivo evangelico (Matteo 15,11: «Non quello che entra dalla bocca contamina l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca»), Abelardo precisa che l’anima non viene mai contaminata né dal corpo, né dalle realtà materiali: «nulla può toccare l’anima se non ciò che procede da essa, pertanto solo
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
L’agire secondo coscienza e l’esempio dei persecutori di Cristo
Elementi innovativi
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il consenso è peccato e non gli impulsi che lo precedono, né il compimento dell’azione che lo segue». Dunque come il compimento non aggiunge nulla alla natura intrinseca del peccato, così anche un’azione apparentemente buona è veramente tale solo quando procede da un’intenzione interiore buona (in cui la mia coscienza si accorda col rispetto di Dio). Di conseguenza l’azione non ci acquista nessun merito presso Dio, «poiché Dio nel dare il premio guarda e pesa l’animo piuttosto che l’azione». Per far capire bene l’importanza dell’agire secondo coscienza, cercando sempre di essere in sintonia con la volontà di Dio, Abelardo sceglie la via del caso limite, dell’esempio storico paradossale: quello dei persecutori di Cristo e dei cristiani. Costoro, se hanno agito in coscienza, non hanno commesso peccato («anzi, avrebbero peccato più gravemente per colpa se li avessero risparmiati contro la propria coscienza»). Del resto, non avevano capito la natura della fede cristiana e la ritenevano contraria al vero culto di Dio. Dunque nelle loro azioni e, ancor prima, nelle loro intenzioni non hanno peccato. Infatti il peccato è per definizione «disprezzo di Dio» o «acconsentire a ciò a cui sappiamo di non dovere acconsentire». Ma i persecutori di Cristo non rientrano in nessuno di questi due casi. Sono molti i tratti innovativi dell’etica di Abelardo. Innanzitutto, il ricondurre le fonti della responsabilità morale all’intenzionalità della coscienza e al consenso o meno alle cattive inclinazioni. Poi il puntualizzare che l’azione, la traduzione pratica, non accresce il peccato, che si è già determinato nella sede della coscienza. Infine, addirittura, l’idea che la stessa azione commessa dallo stesso uomo in momenti diversi può essere buona o cattiva a seconda dell’intenzione che la anima.
La filosofia della natura e il platonismo della scuola di Chartres
Ancora prima che tutte le opere di Aristotele venissero tradotte in latino (come vedremo nell’Unità 10, p. 582), il XII secolo conobbe una prima assimilazione della scienza greco-araba (testi filosofici, scientifici, medici e astronomici), che ispirò un’analisi in termini puramente naturali (e non simbolici o allegorici) del mondo fisico che ci circonda. Le Questioni naturali Opera-manifesto del rinnovamento ‘scientifico’ nel XII secolo è il dialogo Quedi Adelardo di Bath stioni naturali di Adelardo di Bath, un maestro inglese che, dopo aver soggiornato in Francia, aveva lungamente viaggiato in Italia meridionale e nei Paesi di cultura islamica. All’interlocutore, il ‘nipote’, che gli chiede di parlare degli animali, Adelardo replica: «Per me è difficile parlare con te di animali. Io infatti, guidato dalla ragione [ratione duce], ho imparato dai maestri Arabi una cosa, tu, invece, preso dall’immagine dell’autorità, ne hai imparata un’altra che segui come un capestro». Adelardo prosegue formulando una serie di quesiti sugli animali (si va dal chiedersi perché alcuni animali ruminano e altri no, o «perché non tutti quelli che bevono urinano», fino alla possibilità di un’anima delle bestie), e tutti i quesiti vengono risolti in termini di fisica dei quattro elementi, delle quattro qualità fondamentali e dei quattro umori. Una nuova filosofia della natura
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
La vita e le opere Adelardo nacque a Bath, in Inghilterra, intorno al 1080 e studiò a Tours, in Francia, le arti liberali; dopo lunghi viaggi in Spagna, Italia, Palestina e Siria, tornò in patria
dove morì nel 1160. Tradusse opere scientifiche e filosofiche arabe, tra le quali gli Elementi di Euclide e le Tavole astronomiche di al-Khwaritzmi. Scrisse le Regole dell’abaco, le Questioni naturali e L’uguale e il diverso.
Questo nuovo modo di considerare la natura influenza anche autori dagli interessi più marcatamente teologici, come i pensatori della scuola di Chartres – Bernardo di Chartres (? - 1124/1130), Gilberto di Poitiers (1076 ca. - 1154), Guglielmo di Conches (1080 ca. - 1154 ca.) e Teodorico di Chartres (? - 1156 ca.) – che si propongono di dare un’interpretazione secundum physicam («secondo la fisica») dei dati presenti nel racconto biblico della creazione. Unendo inconsuete competenze umanistiche, scientifiche, teologiche e filosofiche, i maestri di Chartres leggono il racconto della Genesi attraverso la fisica dei quattro elementi e attraverso nozioni desunte dal Timeo di Platone (la sezione cosmologica di questo dialogo, 17a-53c, era l’unica opera platonica che il Medioevo latino conobbe, grazie alla traduzione commentata del neoplatonico cristiano Calcidio, IV secolo d.C.). Adattando questo complesso strumentario concettuale, gli chartrensi si impegnano nella descrizione di un sistema globale della realtà che integra cosmogonia e cosmologia, ovvero genesi e struttura dell’universo. Dio non ha prodotto le singole realtà, come sembrerebbe dire il linguaggio allegorico della Bibbia, ma ha creato solo i quattro elementi semplici, mentre tutto il successivo sorgere delle forme è ad opera del fuoco e del calore. Con una notevole sovrapposizione concettuale e culturale, Teodorico di Chartres identifica lo Spirito Santo con l’anima del mondo, di cui parla il Timeo platonico, la cui funzione nel sistema della natura è vivificare e conservare gli enti. Le diverse combinazioni degli elementi, regolate da principi fisico-matematici, sono sufficienti a spiegare la formazione degli astri, della terra e dei viventi. Nani sulle spalle L’ideale di un progresso del sapere, a partire dalla profonda conoscenza e armodei giganti nizzazione di tutte le fonti letterarie, filosofiche e scientifiche disponibili, è ben espresso da una similitudine di Bernardo di Chartres, riportata da Giovanni di Salisbury nel suo Metalogicon: «noi siamo come nani seduti sulle spalle dei giganti. Vediamo più cose degli antichi e più lontane non per una maggiore acutezza della nostra vista o per una maggiore statura, ma perché essi ci sollevano e ci innalzano di tutta la loro gigantesca altezza».
Timeo e Bibbia a Chartres: l’interpretazione della creazione «secondo la fisica»
4 Un testimone d’eccezione della sua epoca
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La filosofia politica di Giovanni di Salisbury L’inglese Giovanni di Salisbury (si pronuncia Sòlsbury) è un testimone di eccezione di questo secolo: si formò in Francia, dove seguì le lezioni di Abelardo a Parigi e continuò sotto i maestri di Chartres e sotto i migliori grammatici e teologi. Si dedicò poi alla diplomazia e alla politica, diventando segretario di Tommaso Becket, il vescovo di Canterbury fatto assassinare nella cattedrale dal re Enrico II. Dal 1176 alla morte, avvenuta nel 1180, fu vescovo di Chartres. Le diverse componenti della sua formazione (letteraria, filosofica, scientifica, teologica e politica) trovano espressione nelle opere maggiori, il Metalogicon (da cui abbiamo tratto la citazione su Bernardo di Chartres) e il Policraticus.
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In quest’ultimo, un testo di filosofia politica concepito nel solco degli specula principis (gli «specchi del principe», ossia manuali del retto governo) e scritto nel 1159, prima dell’assassinio di Tommaso Becket, Giovanni delinea la figura ideale del sovrano, che riassume nella sua persona la totalità dei sudditi «ed è consapevole che non deve dedicare la vita a se stesso e al proprio benessere ma agli altri». Il principe deve attenersi al senso di misura degli antichi sapienti ed esercitare una condotta pienamente virtuosa, così da essere un esempio per i suoi sudditi (specialmente nella gestione delle ricchezze). Se deve ricorrere a misure coercitive, cercherà di mediare tra giustizia e misericordia. Il principe e il tiranno La sovranità del principe deriva da Dio, si fonda sul rispetto delle leggi e si manifesta nell’equità della giustizia. Costituisce un ribaltamento del principe autentico la figura del tiranno, che nell’esercizio della sua sovranità distorta «non si cura della legge e si basa solo sulla forza». Infatti il tiranno non persegue il bene comune e non rispetta la legge (che calpesta o modifica a suo vantaggio). Il tirannicidio Nei casi estremi, quando la corruzione del despota non può più essere attenuata dai consigli dei membri del governo e si fa concreto il rischio di una degenerazione dello Stato, allora può diventare lecito il tirannicidio (come mostrano esempi dalle storie bibliche e dalla storia antica greca e romana). Il sovrano ideale
5 Movimenti religiosi e repressione ecclesiastica: valdesi e catari
La teologia della storia di Gioacchino da Fiore Fortissimi fermenti religiosi permearono la fine del XII secolo. Pietro Valdo (morto nel 1217), un ex mercante che aveva distribuito tutte le sue ricchezze ai poveri ed era diventato predicatore laico, aveva raccolto intorno a sé un’ampia comunità di cristiani che condividevano con lui l’ideale di un ritorno alla povertà evangelica degli apostoli e si allontanavano dalla Chiesa ufficiale, troppo legata a interessi mondani e a una visione autoritaria della gerarchia. Dal movimento di Valdo di Lione nascerà la confessione valdese, esistente ancora oggi. Inoltre, dalla Francia meridionale si diffuse il movimento dei càtari (ossia, dal greco, dei «puri»), detti anche Albigesi (dalla città di Albi), che, legati a un esasperato dualismo manicheo, propugnavano la liberazione dello spirito attraverso una vita ascetica, lontana da tutto ciò che è carnale, come l’amore fisico, il matrimonio, la procreazione e gli alimenti di origine animale. Anch’essi rifiutavano la Chiesa ufficiale (e la Chiesa li ricambiò condannandoli in vari concili, finché il papa Innocenzo III bandì una crociata che li sterminò tra 1209 e 1229). È in questo clima di ansie e attese per un rinnovamento storico e spirituale che si sviluppa la teologia della storia del calabrese Gioacchino da Fiore, già pellegrino in Oriente e monaco cistercense, infine fondatore di una comunità monastica contemplativa sulla Sila. Nelle sue opere maggiori, Gioacchino espone la sua teologia marcatamente escatologica (ossia centrata sui tempi finali della storia), nella convinzione che i tempi dell’anticristo siano imminenti.
La vita e le opere Gioacchino da Fiore nacque a Celico, Cosenza, nel 1135 circa; monaco cistercense nell’abbazia di Sambucina nel 1150-1152, passò poi al monastero di Santa Maria di Corazzo, del quale divenne abate nel 1177. Abbandonò
l’ordine nel 1190 circa, dando vita al nuovo ordine dei monaci florensi. Morì a San Giovanni in Fiore nel 1202. Le sue opere maggiori, tutte degli anni ottanta, sono: Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento; Commento all’Apocalisse; Salterio a dieci corde.
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo Trinità e storia: la profezia di Gioacchino
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Le tre epoche storiche
Gioacchino da Fiore, Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento
➥ Sommario, p. 578
Il fulcro del suo pensiero è l’individuazione di una corrispondenza tra le persone della Trinità e la successione delle epoche storiche. L’età del Padre, che corrisponde all’Antico Testamento, è contrassegnata dalla servitù alla legge divina; nell’età del Figlio si è raggiunto un rapporto filiale con Dio. Il terzo stadio è l’imminente ingresso nell’età dello Spirito, in cui alla Chiesa istituzionalizzata (secondo il modello del discepolo Pietro) si sostituirà una Chiesa come libera comunità dell’amore (secondo il modello del discepolo Giovanni) e andremo al di là della ‘lettera’ evangelica, fino a ottenere la piena comprensione spirituale della rivelazione. Ecco le parole di Gioacchino: Il primo [stadio fu] nella servitù servile, il secondo nella servitù filiale, il terzo nella libertà. Il primo nelle fruste, il secondo nell’azione, il terzo nella contemplazione. Il primo nel timore, il secondo nella fede, il terzo nella carità. Il primo è lo stato dei servi, il secondo dei liberi, il terzo degli amici. Il primo dei vecchi, il secondo dei giovani, il terzo dei bambini. Le dottrine del calabrese saranno condannate nel IV concilio lateranense del 1215, ma la fama di Gioacchino durerà a lungo. Dante lo ricorda (Paradiso, 12,140-141) come «il calabrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato».
I protagonisti della filosofia del XII secolo Vi nacque Adelardo di Bath
Vi nacque Giovanni di Salisbury
Bath
Giovanni di Salisbury vi ricoprì la carica di segretario del vescovo Tommaso Becket
Canterbury Salisbury
Vi studiò e insegnò Pietro Abelardo
Vi nacque Roscellino Compiègne Laon Parigi
Sede di un’importante scuola cattedrale
Chartres
Melun
Troyes Clairvaux
Sede della scuola del teologo Anselmo di Laon
Pietro Abelardo vi fondò il Paracleto
Cluny
Vi fondò una scuola Pietro Abelardo
Lione
Sede di una famosa abbazia
Albi
Sede di una grande abbazia cistercense Vi nacque il movimento valdese
Vi nacque Gioacchino da Fiore Principale centro cataro
San Giovanni in Fiore
Gioacchino da Fiore vi fondò il suo monastero
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Celico
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
La filosofia islamica ed ebraica
3 I testi
Avicenna De anima: L’uomo volante, T10
1 Il ‘passaggio di testimone’ dalla filosofia greca alla filosofia dell’Islam
Gli incontri tra fede coranica e pensiero greco
La politica culturale abbàside: presentare la civiltà musulmana come la vera continuatrice della civiltà greca
Mosè Maimonide La guida dei perplessi: Credere e pensare, T11
Contesto storico e caratteri generali Il millennio medievale conobbe alcuni importanti ‘passaggi di testimone’ culturale, nei quali la ricerca filosofica si trasferì da un’area culturale a un’altra o da una lingua a un’altra. Il caso della filosofia nell’Islam medievale ne è l’esempio più significativo. Nelle prossime pagine vedremo in che modo alcuni intellettuali musulmani si appropriarono della filosofia greca e ne diventarono per almeno quattro secoli (dal IX al XII) i più avanzati continuatori. Può sembrare paradossale, ma pensatori cristiani e latinofoni come Eriugena o Abelardo, per fare un esempio, finiranno per influenzare il successivo pensiero medievale cristiano meno di alcuni filosofi musulmani vissuti nei Paesi che oggi si chiamano Irak e Iran. Il fenomeno deve essere inquadrato nell’espansione del dominio musulmano su territori dove era ancora viva la tradizione culturale greca. Era ancora giovanissima la religione musulmana (il profeta Muhammad era morto nel 632) quando gli arabi nel VII secolo conquistarono Siria, Palestina ed Egitto, venendo così per la prima volta a contatto con i testi filosofici e scientifici greci. Anche nella Persia, che gli arabi avevano conquistato, era diffusa la filosofia greca, portata da filosofi neoplatonici come Simplicio e Damascio che, in seguito alla chiusura della scuola di Atene (ordinata nel 529 da Giustiniano), erano emigrati a Ctesifonte, sotto la protezione di Cosroe I. Dunque all’interno dell’impero musulmano ci furono molte zone di incontro tra fede coranica e sapere greco. Il passaggio decisivo avvenne nel 749, quando il califfato passò dalla dinastia degli Umàyyadi a quella degli Abbàsidi, che trasferirono la capitale da Damasco a Baghdad. Gli Abbàsidi favorirono un organico processo di acculturazione del mondo musulmano promuovendo la traduzione in arabo di buona parte dei testi filosofici, scientifici e medici greci. In special modo sotto il califfo al-Mamun (813-833) conobbe il massimo splendore la biblioteca califfale a Baghdad, detta «Casa della sapienza» (Bayt al-hikma), che era al contempo biblioteca pubblica e centro di traduzioni e di studi. Il progetto culturale abbàside si inscriveva in un più ampio disegno politico: continuare l’acquisizione della cultura greca già iniziata dagli imperatori sassanidi in Persia e porre, così, la civiltà musulmana (e non quella bizantina), guidata dal proprio imperatore sovranazionale (che era il califfo abbàside), come la vera continuatrice della civiltà greca. 565
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
La fàlsafa e l’opera dei falàsifa alla base della riscoperta della filosofia greca
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Aristotelismo neoplatonizzato
Circolazione di scritti apocrifi: la Teologia di Aristotele e il Libro delle cause
Al-Kindi e il ripensamento di Aristotele
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Si sviluppò così un imponente movimento di traduzioni dal greco e di stesura di originali opere filosofiche che continuarono l’esperienza del pensiero ellenico in un contesto mutato. Questa versione arabizzata della filosofia greca prese il nome arabo di fàlsafa, mentre gli intellettuali dediti all’opera di assimilazione e trasformazione vennero chiamati falàsifa. Così il pensiero filosofico-scientifico greco si innestò nel processo di acculturazione del mondo musulmano e qui si trasformò. Tutti i settori della filosofia e le discipline matematiche (come geometria, ottica, astronomia e algebra) arrivarono a livelli mai raggiunti prima. Quando il Medioevo di lingua latina, tra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo ‘riscoprirà’ la filosofia greca (in primo luogo Aristotele), lo farà innanzitutto attraverso le traduzioni dall’arabo che, insieme alla cultura ellenica, portano con sé tutti gli arricchimenti introdotti dai pensatori musulmani.
L’Islam orientale: al-Farabi e Avicenna La filosofia nell’Islam medievale ebbe due grandi poli di irradiazione: quello ‘orientale’ di Baghdad (e di zone ancora più remote), i cui massimi esponenti sono al-Kindi, al-Farabi e Avicenna, e quello ‘occidentale’ della Spagna musulmana (l’Andalusia), la cui figura di spicco è Averroè. La filosofia nel mondo islamico si pose in linea di continuità con la filosofia greca tardoantica, della quale adottò la tendenza a ricollocare le dottrine aristoteliche entro un quadro di riferimento platonico (come avevano già fatto in ambito greco i neoplatonici e i commentatori neoplatonici di Aristotele). Per esempio, alla Causa prima della realtà (cioè Dio) si attribuiscono non solo alcuni tratti aristotelici, come il fatto di essere primo motore dell’universo e di pensare (l’Uno di Plotino era invece al di là del pensiero), ma anche caratteri come la trascendenza, l’indicibilità e l’infinità, che richiamano l’Uno neoplatonico. Poi la Causa prima, oltre a essere il primo motore, coincide con l’essere stesso e conferisce l’essere a tutta la realtà, ossia fa ciò che nel linguaggio religioso si chiama «creazione». Infine, la Causa prima non si limita a pensare se stessa (il «pensiero di pensiero» aristotelico), ma pensa anche i suoi effetti, in modo da esercitare la propria provvidenza e attribuire premi e castighi. Già nel mondo antico accadeva che scritti più recenti venissero attribuiti ad autori importanti del passato (sono le cosiddette attribuzioni apòcrife). Analogamente, nel clima di conciliazione aristotelico-platonica della cultura araba, opere di contenuto neoplatonico presero a circolare sotto una falsa attribuzione ad Aristotele. Gli esempi più rilevanti sono la cosiddetta Teologia di Aristotele (parafrasi araba delle ultime tre Enneadi di Plotino) e il Libro delle cause (una compilazione di estratti dagli Elementi di teologia di Proclo e da Plotino). Simili opere permettevano di coronare con una metafisica platonizzante l’interpretazione in chiave platonica delle opere fisiche e metafisiche di Aristotele. Si ritiene che queste compilazioni siano state redatte nel circolo della prima figura significativa della filosofia islamica a Baghdad, al-Kindi (nato a Bassora nell’800 ca. e morto nell’870 ca.), autore fecondissimo dagli interessi enciclopedici. Con lui prese avvio il ripensamento arabo della filosofia aristotelica.
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto L’intelletto secondo al-Kindi: intelletto umano e Intelletto divino
Al-Kindi scrisse un breve trattato Sull’intelletto con cui iniziano i tentativi islamici di mettere ordine nella dottrina aristotelica del nous (vedremo le tappe successive in al-Farabi, Avicenna e Averroè). In particolare, riprendendo alcune distinzioni già tracciate dal grande aristotelico greco Alessandro di Afrodisia (II-III secolo), al-Kindi distingue tre livelli di intelletto umano e un Intelletto divino: all’inizio un puro intelletto potenziale che, grazie alle successive attività di astrazione di forme, diventa intelletto ‘come disposizione acquisita’ (detto anche in habitu), un deposito di pensieri in quiete (secondo livello). Solo a questo punto si ha il terzo livello, l’intelletto in atto, ossia la condizione in cui l’intelletto, che di per sé non ha alcuna forma, si identifica pienamente con i suoi contenuti intelligibili e in questo si autocontempla. Il processo di attualizzazione del nostro intelletto potenziale avviene per partecipazione alle forme intelligibili che si trovano nell’Intelletto agente divino, sempre in atto. In questo modo la teoria aristotelica dell’atto conoscitivo è saldata al tema platonico della partecipazione.
Al-Farabi Armonizzazione tra platonismo e aristotelismo
Nella Baghdad del X secolo si era formato un circolo di intellettuali musulmani e cristiani impegnati nello studio di Aristotele e della filosofia greca. In questo ambiente fiorì al-Farabi, il pensatore che la successiva tradizione filosofica arabo-islamica onorerà come «maestro secondo solo ad Aristotele» (le sue posizioni saranno conosciute anche nell’Occidente latino, che lo chiamerà Abumaser, dalle prime parole del suo nome arabo: abu Nasr). Come già Porfirio e Boezio in altri contesti culturali, anche al-Farabi è un neoplatonico convinto della sostanziale compatibilità di tradizione platonica e tradizione aristotelica.
La vita e le opere Al-Farabi (870 ca.-950), detto anche Abumaser, originario del Turkestan, si formò a Baghdad dove studiò esegesi coranica e filosofia (legandosi al centro dell’aristotelico cristiano ibn Yunus). Successivamente si spostò ad Alep-
po e a Damasco, dove morì. Tra le sue opere maggiori possiamo ricordare L’armonia tra le opinioni di Platone e Aristotele, l’Epistola sull’Intelletto e La città virtuosa. Scrisse inoltre opuscoli su vari temi filosofici e introduzioni e commenti a trattati aristotelici e dialoghi platonici.
L’armonizzazione tra le due tradizioni è particolarmente evidente nel suo sistema metafisico-cosmologico che è una sintesi di cosmologia aristotelica ed emanazionismo neoplatonico. Riallacciandosi alle intuzioni di al-Kindi e dei primi esponenti della fàlsafa, anche al-Farabi interpreta il rapporto tra Dio e creature nei termini neoplatonici di una relazione tra Principio Primo e gerarchia discendente dei gradi della sua emanazione; inoltre dà al Primo Principio (detto anche «Essere Primo», «Causa Prima» o semplicemente «Primo») alcuni tratti del primo motore immobile di Aristotele, come la perfetta e continua autocontemplazione, ovvero il pensiero di pensiero. Dal Primo, agli Intelletti, Proprio dalla autocontemplazione del Primo inizia un processo di emanazione alle realtà terrestri e, neoplatonicamente, questo processo avviene non per un atto di volontà, ma in modo necessario; inoltre non modifica in nessun modo il Primo né nasce da una sua mancanza o appetizione, ma dalla sua sovrabbondanza di essere. Struttura gerarchica della realtà
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
L’Intelletto agente e il passaggio dall’intelletto in potenza all’intelletto in atto
Il sistema metafisico-ontologico di al-Farabi
Il processo della conoscenza intellettuale
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Così dal Primo emana un secondo grado di realtà (cioè il primo Intelletto), il quale, per l’atto di contemplare il Primo, genera un terzo grado di realtà (che è il secondo Intelletto), ma per l’atto di autocontemplazione genera la sfera del primo cielo. Con processi simili (atti di pensiero che generano livelli di realtà) vengono prodotti i successivi Intelletti, a ciascuno dei quali corrisponde una sfera celeste (il cielo delle stelle fisse, quelli di Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio e Luna). La Luna, nono Intelletto, emana un decimo Intelletto (l’Intelletto agente, che i Latini chiameranno dator formarum, il «datore di forme»), anello di congiunzione tra le realtà celesti e quelle terrestri, che ha il duplice ruolo di far passare a intelligibile in atto ciò che nella nostra mente è intelligibile in potenza e di dare le forme a tutti gli enti sublunari. Com’è evidente, questo sistema della realtà apporta profonde trasformazioni ad alcuni capisaldi della fede coranica: la creazione dal nulla è reinterpretata in termini di emanazione neoplatonica; inoltre Dio non agisce direttamente, ma lo fa attraverso il digradare dei livelli di emanazione, cosicché nel mondo sublunare il ruolo attivo è riservato al decimo Intelletto, il «datore delle forme». Inoltre l’intero processo di emanazione non nasce dalla libera volontà di Dio, ma avviene necessariamente (al Primo «consegue necessariamente che vengano portate all’essere tutte le altre cose esistenti» non fatte dall’uomo).
Neoplatonismo
Corano
Principio Primo
Dio
Emanazione necessaria
come
Attività del decimo Intelletto
rimandano alla
Aristotele
come
Primo motore
Creazione
Creature
Nell’Epistola sull’Intelletto, e in altre opere, anche al-Farabi cerca di riorganizzare i tasselli della dottrina dell’Intelletto di Aristotele e Alessandro di Afrodisia (intelletto in potenza, intelletto in atto, intelletto acquisito più l’Intelletto agente sovraindividuale), modificandone in parte il ruolo. Il suo modello, diverso da quello di al-Kindi, è il seguente: l’Intelletto agente (separato e unico) ha, come abbiamo visto, la funzione di illuminare l’intelletto in potenza (di cui ogni uomo è dotato), che astrae le forme dagli enti sensibili e le riceve; proprio in quanto riceve queste forme, spogliate di ogni materialità e universalizzate, il nostro pensiero diventa intelletto in atto. Qualora poi il nostro intelletto diventi intelletto in atto rispetto a tutti gli intelligibili (e questa è una condizione riservata a pochi davvero), allora diventa intelletto acquisito e si autocontempla, ossia con un solo atto contempla tutti gli intelligibili in atto e contempla se stesso, intelligibile in atto identico ai propri contenuti.
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
La comunità politica ideale
Il governante tra contemplazione e rivelazione
Oltre a questo, l’intelletto acquisito è in grado di conoscere le pure forme delle sostanze separate fino ad arrivare al Principio Primo, in modo da contemplare l’intera struttura intelligibile della realtà. Ad al-Farabi si deve anche un’opera politica, La città virtuosa, che è una sorta di Repubblica platonica ripensata per la comunità politica islamica, regolata dalla legge religiosa. Di conseguenza, nella figura ideale di governante (raìs) ai tratti del filosofo-re platonico e del sapiente aristotelico si integrano quelli dell’imàm (la guida della comunità religiosa islamica). Come in un corpo sano ogni membro deve svolgere la propria funzione in una struttura piramidale che culmina nel cosiddetto «organo dominante» (ossia il cuore, secondo la fisiologia del tempo di derivazione aristotelica), similmente nella città virtuosa ogni tipo umano esercita la propria arte e il proprio mestiere in una struttura piramidale che conduce al governante. Questi non è sottoposto a nessuno e assomma in sé le virtù platoniche e aristoteliche del buon governante, tra le quali le buone doti fisiche e intellettuali, la disposizione innata al ruolo di guida, il disinteresse per i vantaggi materiali. È superiore agli altri per aver portato a perfezione la natura intellettuale dell’uomo, raggiungendo quell’intelletto acquisito che gli permette, contemplando se stesso, di contemplare la struttura profonda della realtà a partire dal Principio Primo da cui questa emana. L’unione con l’Intelletto agente gli consente di ricevere direttamente la rivelazione religiosa e di essere al contempo pienamente filosofo, pienamente imàm e profeta e pienamente governante, in grado di stabilire con verità i compiti specifici delle diverse classi di cittadini, realizzando così la propria felicità e quella della comunità.
Avicenna La «parafrasi» di Aristotele
L’integrazione di aristotelismo e neoplatonismo già sviluppata da al-Farabi viene proseguita e perfezionata dal medico e filosofo persiano ibn Sina, latinizzato in Avicenna, il maggior pensatore dell’Islam orientale. Fu autore di un’imponente opera filosofico-scientifica, il Libro della guarigione (Kitab al-Shifa’ ). All’interno di ognuna delle quattro sezioni dello Shifa’ (logica, filosofia della natura, matematica e metafisica) Avicenna espone con libertà i contenuti delle singole opere di Aristotele, dandone una versione aggiornata, che tiene conto dei progressi del sapere (questa tecnica di riscrittura aggiornata viene detta «parafrasi avicenniana» e si distingue dal commento letterale, come sarà quello di Averroè).
La vita e le opere Avicenna (980-1037), nome latino di ibn Sina, nacque a Bukhara (vicino a Samarcanda, oggi in Uzbekistan), ma dai vent’anni in poi girò le principali sedi culturali e le corti dell’Islam orientale, diventando una figura di spicco Essenza ed esistenza
come intellettuale e come medico. Fu autore di opere originali, come il Canone di medicina (che, latinizzato, rimarrà in uso nelle università fino al XVII secolo), e il Libro della guarigione (Kitab al-Shifa’) del quale nel XII secolo verranno tradotte la Logica, la Fisica e la Metafisica.
Nella sezione dello Shifa’ dedicata alla metafisica, Avicenna formula alcune importanti dottrine, come quella (già accennata da al-Farabi) della distinzione tra essenza ed esistenza in tutti gli enti tranne Dio. In un uomo, per esempio, le proprietà che fanno di lui un uomo sono distinte dal fatto che egli esista. Infatti, argomenta Avicenna, la nozione di ciò che una cosa 569
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Ente necessario ed ente possibile
L’indifferenza delle essenze
Essenza ed esistenza in Avicenna
è (o essenza) non implica necessariamente la sua esistenza, come possiamo capire dalla proposizione «una data essenza è una cosa esistente», che non equivale a una semplice tautologia (come se dicessimo che «l’essenza è»), ma aggiunge un contenuto informativo, cioè l’esistenza. Questo prova che l’esistenza di per sé non è contenuta nell’essenza. La distinzione tra essenza ed esistenza vale per tutti gli enti, ma non per Dio, che è ritenuto da Avicenna l’unico «esistente necessario», ossia l’unico ente in cui l’esistenza non si aggiunge all’essenza, ma si identifica con essa. In tutti gli altri enti, invece, l’essenza non comporta necessariamente l’esistenza, dunque sono «esistenti possibili» o «contingenti», che ricevono la causa del proprio esistere da altro, ovvero dall’ente necessario, Dio. Il rapporto tra Dio e i diversi gradi della realtà creata è poi spiegato da Avicenna con una sintesi di emanazionismo neoplatonico e cosmologia aristotelica simile a quanto abbiamo già visto in al-Farabi, che rischia di far intendere l’intera realtà in chiave deterministica, come un dispiegarsi necessario di tutti i gradi successivi al Primo. Un importante corollario della distinzione tra essenza ed esistenza è la dottrina dell’indifferenza delle essenze. Ogni essenza (come la natura dell’uomo o del gatto) si dà in due modi: come universale (per il pensiero che la pensa nella forma del concetto) e come particolare (nella realtà che la vede incarnata in individui concreti). Ma di per sé l’essenza non è né universale né particolare (cioè non ha una terza condizione d’essere diversa da quelle due). In altre parole, l’universalità non è un attributo in sé delle essenze, ma il carattere che queste hanno quando sono considerate dal nostro intelletto.
Dio
Esistente necessario
Essenza = Esistenza
Esistenti possibili (contingenti)
Essenza ≠ Esistenza
Causa dell’esistere degli
Enti
Corollario Indifferenza delle essenze
La sostanzialità dell’anima, indipendente da ogni sostrato fisico
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L’universalità non è un attributo in sé delle essenze
Pur partendo dall’impostazione del Sull’anima di Aristotele, Avicenna ne trasforma la dottrina sia per quanto riguarda la natura dell’anima, sia per quanto riguarda la natura delle facoltà mentali (sensi interni e intelletto). Del resto tutti i pensatori musulmani leggono la psicologia aristotelica in chiave platonizzante, dunque intendono l’anima non solo come forma del corpo, come insegna Aristotele, ma anche come sostanza indipendente dal corpo. Avicenna porta una prova a favore della sostanzialità dell’anima invitandoci a compiere un esperimento mentale, ossia immaginare un uomo volante, o meglio sospeso nel vuoto, senza la possibilità di attingere ad alcuna informazione sensibile, nemmeno proveniente dal suo corpo: proprio il fatto di poter sperimentare questa nuda attività di pensiero ci darebbe un’intuizione diretta dell’anima nella sua indipendenza da ogni sostrato fisico.
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
T10
L’uomo volante
Avicenna, De anima, 1,1
I cinque sensi interni
I quattro livelli dell’intelletto umano: dall’intelletto materiale all’intelletto acquisito
Bisogna immaginare che uno di noi sia stato creato istantaneamente e perfettamente, in modo tale, però, che la sua vista sia incapace di osservare le cose esterne, e sia stato creato sospeso nell’aria o nel vuoto, in modo tale che la consistenza dell’aria non lo urti costringendolo a percepirla, e le sue membra siano state disgiunte le une dalle altre, in modo tale che esse non si incontrino e non si tocchino. Questa persona, poi, considera se sia il caso di affermare che egli stesso esista, e non ha alcun dubbio sull’opportunità di farlo. Tuttavia egli non afferma l’esistenza di nessuna delle sue membra, di nessuno dei suoi organi interni, del suo cuore, del suo cervello, e di nessuna delle cose esterne. Egli afferma, invece, la propria esistenza, sebbene non affermi di avere lunghezza, larghezza e profondità. Se nella situazione suddetta egli fosse in grado di immaginare una mano o un altro membro, non li immaginerebbe come parti di se stesso o come condizioni di se stesso. Dunque possiamo ritenere, in accordo con la fede religiosa, che l’anima è una sostanza indipendente dal corpo, destinata all’immortalità. Dio la crea insieme al corpo, e in questo modo essa acquisisce un’individualità che le rimarrà anche una volta separata dal corpo. Tra la percezione sensibile e il pensiero intellettuale Aristotele pone i cosiddetti sensi interni (senso comune, immaginazione e memoria; vedi Unità 4, p. 232 s.). Anche sulla base degli sviluppi più recenti della ricerca filosofica e medica, Avicenna fissa un modello di cinque sensi interni col quale si misureranno tutti gli autori successivi (compresi quelli di lingua latina). Per Avicenna i cinque sensi interni sono: 1) il senso comune, che riceve le percezioni dei sensi e distingue tra i contributi dell’uno o dell’altro senso; 2) il ricettacolo delle immagini, che conserva le forme sensibili indipendentemente dalle stimolazioni dei sensi; 3) la facoltà immaginativa, che compone e separa le forme sensibili (e diventa facoltà cogitativa quando l’intelletto umano separa e compone i concetti); 4) la facoltà estimativa, che coglie aspetti non sensibili nelle cose particolari percepite (per esempio quando la pecora ‘sente’ che il lupo è pericoloso); 5) la memoria, che conserva gli aspetti non sensibili colti dalla facoltà estimativa. Per quanto riguarda la teoria dell’intelletto, anche Avicenna cerca di risolvere i problemi lasciati aperti da Aristotele (tenendo presenti le innovazioni introdotte da Alessandro di Afrodisia e al-Farabi), e spiega in quattro passaggi il processo della nostra conoscenza intellettuale. Il primo è l’intelletto materiale, pura potenzialità completamente vuota di forme intelligibili. Il secondo è l’intelletto in habitu, o «in disposizione», cioè dotato dei principi primi logici (per esempio che il tutto è maggiore delle sue parti) e di nozioni elementari come «cosa», «esistente» o «uno», che sono gli intelligibili primi fondamentali per acquisire gli altri intelligibili. Il terzo è l’intelletto in effectu, o «relativamente in atto», che ha acquisito gli altri intelligibili, anche se non li sta pensando. Infine si ha l’intelletto acquisito, che pensa in atto gli intelligibili in quanto si congiunge con l’Intelletto agente universale (che, come in al-Farabi, corrisponde al decimo Intelletto celeste) e che illumina le forme sensibili particolari dell’immaginazione rendendole intelligibili (dunque non ci dà gli intelligibili, ma ci aiuta a formarli per astrazione dai dati sensibili). 571
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
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L’Islam occidentale e Averroè
Fin dal 711 la Spagna era stata strappata ai visigoti da arabi di etnia berbera. Successivamente si erano succeduti, con capitale a Cordova, un califfato umàyyade (X secolo), poi la dinastia degli Almoravidi, che regnavano in Marocco e che inglobarono l’Andalusia nel loro regno (fine XI secolo) e, infine, gli Almohadi (XII secolo), che riunirono tutti i territori dell’Islam occidentale in un vasto impero. Un particolare impulso alle arti, alle scienze e alla filosofia fu dato dal califfo illuminato Abu Yaqub Yusuf (1163-1184). Ibn Tufayl: Il primo autore di età almohade che merita di essere ricordato è ibn Tufayl (XII Robinson arabo secolo), medico e filosofo, autore di un romanzo filosofico, Il vivente figlio del desto, in cui immagina che un bambino nasca per generazione spontanea dall’argilla di un’isola e qui impari da solo, esclusivamente con l’osservazione e la ragione, a conoscere il mondo che lo circonda e, successivamente, a innalzarsi alla contemplazione delle realtà metafisiche, fino ad arrivare, ormai cinquantenne, alla congiunzione mistica con l’intelletto divino. Quando un giorno un saggio gli fa visita e gli parla dei contenuti della religione insegnata da un profeta (cioè l’Islam), il solitario si rende conto dell’accordo profondo tra filosofia e fede islamica. L’opera fu successivamente tradotta in varie lingue europee e probabilmente suggerì a Daniel Defoe il personaggio di Robinson Crusoe.
La Spagna musulmana
Averroè Il maggior pensatore arabo-andaluso del XII secolo è indiscutibilmente Averroè. Filosofo, medico e giurista, è noto per i suoi commenti alle opere di Aristotele, che, tradotti in latino, saranno utilizzati in tutte le università europee nei quattro secoli successivi (veniva chiamato il «Commentatore», per antonomasia, e anche Dante, in Inferno, 4,144, lo ricorda come «Averoìs, che ’l gran comento feo»). Analoga fortuna ebbe anche un suo trattato di medicina (il Colliget). La ricchezza dei suoi interessi è testimonianata dalla vastità della sua produzione (si conoscono centootto titoli). Averroè era nato da una famiglia di giuristi e fu lui stesso qadi di Siviglia (cioè sovrintendente a tutta la magistratura, compresi i giudici religiosi). Godette della protezione del califfo Abu Yaqub Yusuf. Anzi, fu il califfo stesso che, lamentando l’oscurità e il tecnicismo delle opere di Aristotele, su suggerimento di ibn Tufayl, gli diede il compito di commentarle. Liberare Aristotele Il carattere distintivo del peripatetismo islamico orientale era la fusione di aridal neoplatonismo stotelismo e neoplatonismo, come abbiamo visto in al-Kindi, al-Farabi e Avicenna. Al contrario Averroè si propone di interpretare l’autentico pensiero aristotelico, liberandolo da ogni elemento neoplatonico. È quanto fa nei suoi commenti, che sono di tre tipi: commenti brevi (ovvero sommari), commenti medi e commenti grandi (in entrambi all’analisi letterale si accompagna l’approfondimento teorico). Nell’uno o nell’altro formato ci sono pervenuti commenti di Averroè a quasi tutte le opere di Aristotele. Non essendo disponibile nel mondo arabo-andaluso la Politica di Aristotele, Averroè commentò al suo posto il riassunto della Repubblica di Platone redatto da Galeno.
Il «Commentatore»
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
La vita e le opere Averroè, ovvero ibn Rushd (1126-1198), nativo di Cordova, studiò diritto, medicina, filosofia e astronomia, entrando poi nella corte almohade. Godette della protezione del califfo Abu Yaqub Yusuf, ma il successore di questi lo esiliò (1197) e lo richiamò nel 1198, anno in cui Averroè morì. Le opere di Averroè che più influenzeran-
L’Intelletto passivo unico ed eterno
L’intelletto nel Sull’anima di Aristotele
Gli Intelletti sovraindividuali
La conoscenza come attualizzazione dell’Intelletto unico
Struttura del pensiero e modello della visione
La mortalità dell’anima
no l’Occidente sono i commenti ad Aristotele (tradotti in latino). Tra i suoi numerosissimi scritti ricordiamo i trattati filosofico-teologici La distruzione della distruzione, Esposizione dei metodi dimostrativi relativi ai dogmi della religione e Trattato decisivo sull’accordo della Legge rivelata con la filosofia; conobbe straordinaria fortuna anche la grande opera di medicina Colliget.
Proprio all’interno del commento grande al Sull’anima, nel tentativo di mettere ordine nella teoria aristotelica dell’intelletto, Averroè avanza la sua tesi più nota, ossia che non solo l’Intelletto agente, ma anche l’Intelletto passivo sarebbe unico e sovraindividuale. Per capire il senso di questa dottrina dobbiamo ripensare alla teoria della conoscenza formulata nel Sull’anima di Aristotele (vedi Unità 4, p. 231 ss.). Al di sopra dei sensi l’immaginazione (o phantasìa) forma una copia mentale dell’oggetto sensibile. Questa immagine mentale, ancora particolare, è intelligibile e universale solo in potenza. Come si fa a farla diventare intelligibile in atto? Secondo Aristotele, in generale, perché qualcosa passi dalla potenza all’atto, ci vuole un agente già in atto, che imprima la forma, che egli già possiede, a ciò che è potenzialmente ricettivo di quella forma. Così, se l’immagine è intelligibile solo in potenza, occorreranno un intelletto agente, che la renda intelligibile in atto (come la luce rende sensibili in atto – cioè visibili in atto – i colori), e un intelletto passivo che riceva la forma (come la materia riceve le forme reali). Fin qui Aristotele (che, dal contesto, sembrerebbe parlare di facoltà residenti nell’uomo). La maggioranza degli interpreti tardoantichi e arabi (tra cui Alessandro, al-Farabi e Avicenna) riteneva però che l’Intelletto agente, dovendo essere sempre in atto e pronto ad attualizzare le forme intelligibili, fosse una facoltà sovrumana unica ed eterna da identificare con Dio o comunque con un Intelletto celeste. Averroè fa un passo ulteriore e propone l’ipotesi che anche l’Intelletto passivo (o ricettivo) sia unico ed eterno, ossia una sostanza sovraindividuale. In questa interazione super-individuale tra Intelletto agente unico e Intelletto passivo unico, il nostro ruolo umano è di fornire le forme dell’immaginazione che passano dall’intelligibilità potenziale a quella attuale e, in questa forma, vengono recepite dall’Intelletto passivo. In altre parole, Averroè prende sul serio l’indicazione aristotelica secondo cui la struttura del pensiero è analoga a quella a tre stadi della visione: come la luce illumina l’oggetto (rendendolo visibile) e questo trasmette la sua forma sensibile alla vista, similmente l’Intelletto agente illumina l’oggetto intelligibile (la forma dell’immaginazione) che, dopo l’attualizzazione, sarà ricevuto dall’Intelletto passivo. Certamente il ruolo delle facoltà sensibili e dell’immaginazione è importante, perché collega pensiero e realtà e perché dà a ciascuno di noi un’esperienza personale. Tuttavia la nostra piena realizzazione intellettuale, secondo Averroè, non avverrebbe nei singoli, ma nell’attualizzazione dell’Intelletto unico, separato ed eterno, al quale ognuno di noi partecipa occasionalmente e accidentalmente. In altri termini, ciò che rimane eternamente è il pensiero sovraindividuale, mentre il mio o il tuo contributo è limitato alle immagini mentali della phantasìa, che però sono legate al corpo e periscono con esso. Una soluzione del genere, che Averroè presenta non come teoria definitiva ma come ipotesi perfezionabile, indebolisce molto il ruolo dell’anima umana indivi573
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
duale e sembra negare la sua sopravvivenza dopo la morte (vanificando così il sistema delle pene e dei premi eterni). Nel pensiero di lingua latina del XIII secolo la dottrina dell’unicità dell’Intelletto troverà sostenitori, come Sigieri di Brabante, e avversari, come Tommaso d’Aquino (vedi Unità 10, pp. 590 e 603). L’intelletto
Aristotele
Tardoantichi al-Farabi e Avicenna
Intelletto agente (rende la forma intelligibile in atto)
Facoltà sovrumana unica ed eterna
Intelletto passivo (riceve la forma)
Averroè
Facoltà sovrumana unica ed eterna
Mortalità dell’anima individuale?
Fraintendendo il pensiero originale di Averroè, la cultura latina dei secoli successivi gli attribuirà la dottrina della doppia verità (la tesi, cioè, che la verità della fede e quella della ragione siano diverse e inconciliabili; vedi Unità 10, p. 590 ss. e «Parole chiave», p. 620). La posizione del filosofo andaluso in realtà è tutt’altra e viene esposta con chiarezza nel Trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia (un’opera che i Latini non conobbero). In essa Averroè cerca di definire il rapporto tra attività dei filosofi e collettività sociale. Aristotele insegna che esistono tre livelli del discorso: quello scientifico (che risponde alle regole della dimostrazione sillogistica), quello dialettico (in cui si parte da premesse solo probabili) e quello retorico (che ricorre al linguaggio figurato e ha come fine la persuasione). Analogamente esistono tre tipi umani e tre approcci alla realtà: i filosofi, che conoscono la vera struttura della realtà e la articolano scientificamente nel discorso dimostrativo; i teologi delle varie scuole che girano a vuoto nel confronto di opinioni egualmente probabili e non sanno cogliere la verità della Scrittura dietro il velo allegorico; il popolo, che dalla comprensione del livello letterale del Corano riceve un’istruzione adeguata al proprio livello cognitivo. Una sola verità, In altre parole, esiste una sola verità che Dio, in modo provvidenziale, ha comunidue approcci adeguati cato a tutti gli uomini attraverso il Corano. Di fronte a questa verità unica si danno due approcci adeguati: quello della massa, che si attiene al registro persuasivo del livello letterale del testo sacro, e quello dei filosofi, che sanno riformulare con rigore scientifico le profonde verità adombrate dal Corano in forma figurale. Approccio inadeguato e inconcludente è quello delle scuole di teologia che dibattono senza fine, perché non hanno un metodo rigoroso per dirimere le loro questioni. Gli ultimi anni e l’esilio Al califfo Abu Yaqub Yusuf succedette il figlio Abu Yusuf Yaqub al-Mansur. Questi finì per allearsi con i teologi tradizionalisti e far chiudere le varie scuole di filosofia. Anche Averroè fu dapprima esiliato (1197), poi richiamato (1198), ma nello stesso anno morì. La sua opera ebbe un’eclissi nel mondo musulmano (col venir meno del progetto almohade che l’aveva ispirata), ma di lì a poco si inseTre livelli del discorso, tre tipi umani, tre approcci alla realtà
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diò nella cultura universitaria latina, dove accompagnò la ricezione di Aristotele fino al pieno Rinascimento, suscitando adesioni e avversioni.
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Ibn Gabirol e l’ilemorfismo universale
La materia come principio di passività
La filosofia ebraica: ibn Gabirol e Mosè Maimonide Il giudaismo medievale, diffuso in molte zone del Mediterraneo, ebbe molti pensatori di rilievo, a partire da Isaac Israeli (IX-X secolo), fautore di una sintesi tra neoplatonismo e aristotelismo che richiama l’impostazione di al-Kindi. I risultati più originali sono raggiunti dall’ebreo andaluso ibn Gabirol (XI secolo), noto ai latini come Avicebron. Nella sua opera maggiore, La fonte di vita, un trattato di metafisica e cosmologia in cinque libri, composto in arabo, che circolò anche nei secoli successivi tradotto in varie lingue, ibn Gabirol sostiene la dottrina dell’ilemorfismo universale, ossia che, a parte Dio, tutti i livelli della realtà sono composti di materia e forma (in greco hy`le e morphè). Naturalmente ciò comporta che non si intenda ‘materia’ solo nel senso di materiale costititutivo degli enti fisici, ma nel senso più ampio di principio di passività del tutto privo di forma. Quindi c’è materia a tutti i livelli del reale: dalla materia prima universale, che è sostrato sia del mondo intelligibile sia del mondo corporeo, alla materia universale corporea, che riceve la forma della corporeità e la quantità, alla materia dei corpi celesti, dei quattro elementi, fino alla materia delle sostanze fisiche che ci circondano. Grazie al suo ilemorfismo universale ibn Gabirol riesce a distinguere con chiarezza la semplicità della causa prima dalla natura composta di tutti i gradi di realtà successivi ad essa. Nel XIII secolo l’ilemorfismo sarà avversato da Tommaso d’Aquino, ma ripreso da pensatori francescani, come Bonaventura.
Mosè Maimonide
La Guida dei perplessi e il disvelamento delle verità metafisiche della Bibbia
Una sapienza unificata in soccorso della fede
Il più noto pensatore dell’ebraismo medievale, Mosè Maimonide (1138-1204), nacque a Cordova, ma trascorse la sua vita adulta in Marocco, Palestina ed Egitto. Fu un pensatore colto, profondo e dagli interessi enciclopedici (scrisse opere filosofiche, giuridiche, mediche e di esegesi biblica). La sua opera più importante è la Guida dei perplessi, redatta originariamente in lingua araba, in cui la filosofia di Aristotele (e dei suoi commentatori tardoantichi) viene utilizzata per chiarire le profonde verità metafisiche celate dalla Bibbia dietro il velo dell’allegoria. I ‘perplessi’ cui allude il titolo sono quegli ebrei colti che conoscono anche la filosofia e le scienze, ma non riescono ad accordarle col messaggio biblico. Attraverso la discussione sistematica delle posizioni dei filosofi e un’esegesi razionalizzante di passi della Bibbia (e della tradizione rabbinica), Maimonide aspira a una sapienza unificata, che permetta di essere al contempo profondamente ebreo e profondamente filosofo. Per esempio, se la filosofia non viene in aiuto alla fede attraverso un’analisi concettuale delle nozioni di ‘unità’ e ‘semplicità’ divina, si corre il rischio di formulare solo verbalmente delle credenze alle quali non corrisponde alcun pensiero degno di questo nome o di cadere in credenze erronee (come ritenere che Dio abbia attributi tali da rompere la sua unità). 575
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T11
Credere e pensare
Mosè Maimonide, La guida dei perplessi
➥ Sommario, p. 578
Sappi che […] la credenza non è un concetto espresso con la voce, ma un concetto concepito nell’anima. […] Tu vedi per esempio molti stupidi che sostengono credenze per le quali non concepiscono assolutamente alcun pensiero. Se invece tu sei uno di quelli che aspirano ad ascendere a questo grado superiore, il grado della speculazione, e ad acquisire la certezza che Dio è uno solo e che la Sua unità è vera, al punto che in Lui non si trova assolutamente nulla di composto e non si può supporre assolutamente alcuna divisione, sappi che Egli non ha assolutamente e in alcun modo alcun attributo essenziale, e che, come è impossibile che Egli sia un corpo, così è impossibile che Egli sia dotato di un attributo essenziale. Chi invece crede che Egli sia uno ma che sia dotato di numerosi attributi, costui dice a parole che Dio è uno, ma in realtà crede nella sua mente che Egli sia molti: e questo è simile a ciò che dicono i Cristiani – ossia, che Egli è uno ma anche tre, e che i tre sono uno solo.
I protagonisti della filosofia islamica ed ebraica Ibn Gabirol (1020 ca. 1058 o 1069 ca.) nacque a Malaga, visse prevalentemente a Saragozza e poi a Granada, morì a Valencia
Averroè (1126-1198), nacque a Cordova e divenne sovrintendente della magistratura a Siviglia
I musulmani entrarono in contatto con la filosofia greca anche in Persia; qui fu importata da neoplatonici come Simplicio e Damascio, emigrati a Ctesifonte dopo la chiusura della Scuola di Atene (529)
Narbona
Mar Nero
Saragozza Corsica Toledo Barcellona Siviglia
Bisanzio
Ifrìqiya
Armenia
Impero bizantino Seleucia
Sicilia
Malaga
Gibilterra
Roma
Sardegna
Cordova
Il persiano Avicenna (980-1037) nacque a Bukhara; dai vent’anni in poi girò le principali sedi culturali e corti dell’Islam orientale. Morì a Isfhan, oggi in Iran
Tunisi
Kayrawàm
Siffìn
Mar Mediterraneo
Damasco Yarnuìk SIRIA
Sirte Maghreb
Cirenaica
Alessandria Al-Fustat (Il Cairo)
Mar Caspio
Ham
adà
Tigri
n
Regno dei Ctesifonte Sassanidi Kufah Bassora Bagdad Eufrate
n Bukhara
asa
or Kh
Samarcanda
Kabul
EGITTO Medina
Mosè Maimonide (1138-1204) nacque a Cordova. Emigrò in Marocco, si spostò poi in Palestina e si trasferì infine al Cairo, in Egitto
Badr
Nel 749 il califfato passò dalla dinastia degli Umàyyadi a quella degli Abbàsidi, che trasferirono la capitale da Damasco a Baghdad
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La Mecca
Al-Kindi (800 ca. - 870 ca.) nacque a Bassora ma fu molto attivo a Baghdad, dove guidò un circolo di intellettuali. Al-Farabi (870 ca. - 950), nato in Turkestan, insegnò a Baghdad, nel 942 si trasferì presso il sovrano di Aleppo
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto Suggerimenti bibliografici Perché nel mondo i peggiori hanno successo e i buoni vengono messi alle corde? Per imparare a lasciar da parte l’emotività individuale e ribaltare, in chiave neoplatonica, tutte le visioni ordinarie del successo mondano: A.M. Severino Boezio, La consolazione della filosofia, a cura di O. Dallera, BUR, Milano 1981. Per chi ama i rompicapo matematici e vuole misurare l’acutezza dei pensatori carolingi in questo campo: Alcuino di York, Giochi matematici alla corte di Carlomagno. Problemi per rendere acuta la mente dei giovani, a cura di R. Franci, ETS, Pisa 2005. Un’antologia commentata dell’intera tradizione platonica nel Medioevo latino, con una sezione dedicata a Eriugena è quella di B. Faes de Mottoni, Il Platonismo medievale, Loescher, Torino 1979. Una chiara presentazione del pensiero di Anselmo, anche delle cose di cui non si è parlato qui, come le teorie della verità e della libertà, è in S. Vanni Rovighi, Introduzione a Anselmo d’Aosta, Laterza, Roma-Bari 200212. Una classica interpretazione dell’argomento ‘ontologico’ di Anselmo d’Aosta è K. Barth, Anselmo d’Aosta. Fides quaerens intellectum, Morcelliana, Brescia 2001 (l’ediz. originale tedesca è del 1931). Per una chiara introduzione ad Abelardo: M.T. Beonio Brocchieri, Introduzione ad Abelardo, Laterza, Roma-Bari 1974. Per approfondire il rapporto fra tradizione platonica e cristianesimo: M. Lemoine, Intorno a Chartres. Naturalismo platonico nella tradizione cristiana del XII secolo, Jaca Book, Milano 1998. Per approfondire temi e protagonisti delle eresie medievali tra XI e XIV secolo si può consultare: G.G. Merlo, Eresie ed eretici, il Mulino, Bologna 2003. Per una ricchissima e aggiornata ricostruzione di contesti, figure e correnti del pensiero islamico medievale (insieme a una scelta di testi in traduzione): C. D’Ancona (a cura di), Storia della filosofia nell’Islam medievale, Einaudi, Torino 2005, 2 voll. Le principali figure della filosofia ebraica medievale sono presentate (insieme a una scelta di testi in traduzione) in M. Zonta, La filosofia ebraica medievale. Storia e testi, Laterza, Roma-Bari 2002. I brani antologizzati sono tratti da: Eriugena, Periphyseon, trad. it. in B. Faes de Mottoni, Il Platonismo medievale, Loescher, Torino 1979. Anselmo d’Aosta, Proslogion, trad. it. di L. Pozzi, BUR, Milano 1992. Pietro Abelardo, Storia delle mie disgrazie. Lettera prima, trad. di F. Roncoroni (modificata), in Abelardo, Storia delle mie disgrazie. Lettere d’amore di Abelardo e Eloisa, Garzanti, Milano 1983, pp. 9-10. Pietro Abelardo, Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano, trad. di C. Trovò (modificata), BUR, Milano 2000: p. 47 (T7), pp. 47-49 (T8). Gioacchino da Fiore, Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento, trad. it. in G. Potestà, Gioacchino da Fiore. Invito alla lettura, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999. Avicenna, De anima, trad. di A. Bertolacci (modificata), in C. D’Ancona (a cura di), Storia della filosofia nell’Islam medievale, Einaudi, Torino 2005, 2 voll., vol. 2, p. 617. Mosè Maimonide, La guida dei perplessi, a cura di M. Zonta, UTET Libreria, Torino 2005, pp. 184-185.
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Sommario 1. L’ALTO MEDIOEVO:
FILOSOFIA NEI MONASTERI
E NELLE CORTI
Il Medioevo ha un ‘inizio’ storico, convenzionalmente fissato nel 476, data della caduta dell’impero romano d’Occidente, e uno filosofico, nel 529, quando Giustiniano chiude la scuola neoplatonica di Atene. [par. 1] Boezio (V-VI secolo), intellettuale cristiano di orientamento platonico, conia il termine quadrivio ed elabora il progetto di tradurre e commentare tutto Platone e Aristotele, realizzandolo in parte. Nella Consolazione della filosofia affronta questioni inerenti alla sofferenza degli innocenti e al rapporto tra giustizia divina e giustizia umana. [par. 2] Nell’alto Medioevo è cruciale il fenomeno del monachesimo, grazie al quale si crea in Europa una rete culturale, e lo studio delle arti liberali del trivio. [par. 3] I secoli VII e VIII sono segnati dalla nascita dell’Islam e dalla figura di Carlo Magno, con le sue conquiste e l’istituzione della schola palatina. [par. 4] Eriugena (IX secolo), studioso e traduttore dei teologi greci cristiani di orientamento neoplatonico, elabora una sintesi teorica di cristianesimo e platonismo. In particolare, in Eriugena la natura si manifesta, in un processo articolato in quattro fasi, come exitus e reditus, ovvero come «uscita» dal Principio primo e «ritorno» ad esso. Il ritorno in Dio si configura come radicale annullamento della molteplicità. [par. 5] L’XI secolo è segnato dalle diatribe tra dialettici e antidialettici e dalla figura di Anselmo d’Aosta, il cui pensiero è permeato dalla convinzione che esista una profonda armonia tra i dati della fede e i risultati ottenibili con rigorose procedure filosofiche. Tale atteggiamento emerge sia nelle prove a posteriori dell’esistenza di Dio, sia in quella ontologica. [par. 6] 2. ABELARDO
E LE SCUOLE NEL
XII
SECOLO
Il XII secolo è caratterizzato dallo sviluppo dei centri urbani, al quale segue la nascita di scuole, presso le cattedrali, con temi e metodi nuovi. [par. 1] Abelardo, del quale conosciamo bene le vicende intellettuali e personali grazie alla sua autobiografia, si distingue nel dibattito sugli universali: respingendo sia il realismo platonizzante sia il nominalismo estremo o vocalismo, sostiene la teoria dello status. In ambito teologico Abelardo applica l’interpretazione razionale ai contenuti della fede ed esprime le regole di un’ermeneutica testuale, rifutando così sia la passiva accettazione della tradizione sia la lettura spirituale. Egli af-
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ferma inoltre l’anteriorità della legge di natura, che vale anche prima della rivelazione. In ambito etico Abelardo distingue fra inclinazione e consenso e rimarca la centralità dell’intenzione. [par. 2] Grazie anche all’opera dei traduttori, nel XII secolo si realizza un rinnovamento scientifico che influenza la stessa teologia, soprattutto la scuola di Chartres, e le sue interpretazioni platoniche della Bibbia. [par. 3] Giovanni di Salisbury delinea la figura del sovrano ideale: misurato, misericordioso, rispettoso delle leggi e giusto; ad esso oppone il tiranno, rispetto al quale legittima la ribellione e il tirannicidio. [par. 4] Tra i movimenti riformatori della Chiesa spiccano quello valdese e quello dei càtari. Emerge altresì la figura di Gioacchino da Fiore e la sua escatologia. [par. 5] 3. LA
FILOSOFIA ISLAMICA ED EBRAICA
Dal 749, con l’espansione araba promossa dagli Abbàsidi, inizia l’assimilazione della filosofia e della scienza greca da parte dell’Islam medievale. Il processo, che dà vita alla fàlsafa, toccherà il suo apice dal IX al XII secolo. [par 1] La filosofia nel mondo islamico tende a ricollocare le dottrine aristoteliche entro un quadro di riferimento platonico, a iniziare dal circolo di al-Kindi (IX secolo), che propone una sistematizzazione della dottrina dell’intelletto (nous) di Aristotele, articolata in Intelletto agente e Intelletto passivo; intento proseguito da al-Farabi (X secolo), che elabora inoltre una dottrina politica. Per Avicenna (X-XI secolo) solo Dio è l’esistente necessario in cui essenza ed esistenza coincidono, mentre negli altri enti sono diverse. Egli difende la sostanzialità dell’anima, fissa un modello di cinque sensi interni, e stabilisce quattro livelli dell’intelletto umano. [par 2] Nella Spagna araba medievale spicca Averroè (XII secolo), che si dedica al commento dei testi originali di Aristotele. È sua la tesi dell’Intelletto unico che mette in dubbio l’immortalità dell’anima individuale. La posizione di Averroè per cui esistono una sola verità (rivelata) e due approcci adeguati ad essa verrà ingiustamente interpretata nei termini della dottrina della doppia verità. [par 3] L’ebreo andaluso ibn Gabirol (XI secolo) è noto soprattutto per la sua dottrina dell’ilemorfismo universale. Mosè Maimonide (XII secolo) si adopera per una sapienza unificata nella quale le credenze per fede siano sostenute da concezioni razionali. [par 4]
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Unità 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto
Parole chiave Consenso / Inclinazione. Nell’etica di Abelardo il consenso è l’adesione volontaria alla propria inclinazione naturale, ovvero a ogni tendenza verso il peccato, fisiologica o psicologica, presente naturalmente nell’uomo. Escatologia. Dal greco èschatos, «ultimo», e il suffisso «-loghia», significa «scienza delle cose ultime». È la disciplina (religiosa, mitica, filosofica) che dà un’interpretazione del fine ultimo, dello scopo finale della storia umana e del mondo; ne è un esempio l’opera di Gioacchino da Fiore. Exitus / Reditus. In Eriugena l’exitus indica l’«uscita» dal Principio Primo, ovvero da Dio, e il reditus il «ritorno» ad esso. Tale concezione è articolata in un processo suddiviso in quattro fasi: da Dio, «natura creante e non creata» procede la «natura creata e creante»; da queste cause primordiali procede la «natura creata e non creante» e, infine, la «natura non creata e non creante» ritorna in Dio. Fàlsafa / Falàsifa. La fàlsafa è la versione islamizzata della filosofia greca; i falàsifa sono gli intellettuali musulmani dediti all’opera di traduzione, assimilazione e trasformazione della cultura filosofico-scientifica ereditata dai greci. Ilemorfismo universale. Dottrina sostenuta da ibn Gabirol in base alla quale, a parte Dio, tutti i livelli della realtà sono composti di materia e forma (dal greco hy`le, «materia», e morphè, «forma»). Intelletto agente / Intelletto passivo. In Aristotele l’Intelletto agente è la facoltà dell’anima che ricava dall’immagine la forma e la rende intelligibile in atto, permettendo con ciò di passare dalla conoscenza in potenza a quella in atto. L’Intelletto passivo è la facoltà che riceve la forma da parte dell’intelletto agente. Intelletto unico. A partire dalla dottrina dell’intelletto di Aristotele, al-Farabi e Avicenna sostengono che l’Intelletto agente sia una facoltà sovrumana, unica ed eterna. Averroè attribuisce queste stesse caratteristiche all’Intelletto passivo; anch’esso diviene così un Intelletto unico, sovraindividuale. Monachesimo. Dal greco monachòs, «colui che vive da solo», il monachesimo cristiano nasce in Oriente nel III secolo da religiosi che scelsero una vita isolata, fatta di preghiera e di ricerca della perfezione spi-
rituale attraverso pratiche ascetiche (dal greco àskesis, «esercizio», «disciplina»). A partire dal monastero di Montecassino, fondato nel 529 da Benedetto da Norcia, il cui principio è condensato nella regola «ora et labora» («prega e lavora»), i monasteri benedettini si diffonderanno in tutta Europa, rappresentando per tutto l’alto Medioevo l’unica rete culturale europea. Nominalismo / Vocalismo. Il nominalismo è la teoria secondo la quale i termini universali sono delle convenzioni linguistiche; essi di per sé non posseggono perciò quel grado di realtà che spetta invece agli individui particolari. Il vocalismo è una forma estrema di nominalismo: gli universali non posseggono alcuna realtà che vada oltre il fiato (flatus vocis, «soffio vocale») utilizzato per pronunciarli. Quadrivio / Trivio. Boezio coniò il termine «quadrivio» per designare le quattro discipline matematiche (aritmetica, geometria, musica, astronomia). Nel mondo culturale e scolastico medievale esse formeranno il sistema delle «arti liberali» insieme alle discipline linguistiche del «trivio»: grammatica, retorica e dialettica (o logica). Realismo. Teoria di matrice platonica secondo la quale gli universali sono realtà anteriori al loro riflesso mentale o linguistico. Nella tradizione platonico-cristiana gli universali vengono identificati con le idee esistenti da sempre nella mente divina, modelli degli enti particolari creati. Sostanzialità dell’anima. Avicenna e altri pensatori musulmani leggono la psicologia aristotelica in chiave platonizzante: l’anima è intesa non solo come forma del corpo, come insegna Aristotele, ma anche come sostanza indipendente dal corpo. Status. Per Abelardo gli universali non sono né realtà particolari, né convenzioni linguistiche, ma esprimono il riconoscimento dello status reale di più individui, ovvero di quelle caratteristiche simili a più individui che ciascuno di essi presenta singolarmente. Universali. Termini che si predicano di più realtà particolari dotate di caratteristiche simili, normalmente suddivisi in generi (per esempio «animale») e specie (per esempio «uomo», «cavallo»). Il dibattito sugli universali segna la logica, la filosofia del linguaggio ma anche l’ontologia elaborate nel XII secolo, ed è portatore di conseguenze anche per i secoli successivi.
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Questionario L’ALTO MEDIOEVO:
FILOSOFIA NEI MONASTERI
Lavoriamo sui testi
E NELLE CORTI
1
In che senso si può dire che il Medioevo abbia avuto due ‘inizi’? (max 5 righe)
16
Quali sono le quattro specie della natura proposte da Eriugena in T1? (max 6 righe)
2
Quali sono le quattro discipline denominate da Boezio «quadrivio»? (max 2 righe)
17
Quali sono le cause primordiali esposte in T2? (max 3 righe)
3
Quando nasce e come si sviluppa il fenomeno del monachesimo? (max 8 righe)
18
In quante fasi si articola il ritorno della natura umana in Dio stando a T3? (max 3 righe)
4
Quali sono i due principali eventi (religiosi e storici) che segnano i secoli VII e VIII? (max 3 righe)
19
Quali sono gli argomenti che corroborano la tesi sostenuta da Eriugena in T4? (max 8 righe)
20
Qual è e che cosa esprime la formula fondamentale espressa da Anselmo in T5? (max 6 righe)
21
Quali sono le prime tappe della carriera d’insegnante di Abelardo narrate in T6? (max 2 righe)
22
Qual è il contenuto della legge morale indicato in T7? (max 2 righe)
23
Quale relazione intercorre tra educazione e pratiche religiose, secondo Abelardo, stando a T8? (max 3 righe)
24
Quali sono le tre epoche storiche e quali le loro caratteristiche indicate da Gioacchino da Fiore in T9? (max 6 righe)
25
Che cosa mira a dimostrare l’esperimento mentale dell’uomo volante proposto da Avicenna in T10? (max 2 righe)
26
Qual è la tesi fondamentale sostenuta da Mosè Maimonide in T11? (max 2 righe)
5
Che cosa rappresentano in Eriugena i concetti di exitus e reditus? (max 8 righe)
6
Qual è la profonda convinzione che anima l’intero edificio teorico di Anselmo d’Aosta? (max 4 righe)
ABELARDO 7
8
LA
E LE SCUOLE NEL
XII
SECOLO
Qual è la principale caratteristica del XII secolo? (max 3 righe) Quali sono le principali posizioni nel dibattito sugli universali e qual è quella di Abelardo? (max 8 righe)
9
Che tipo di interpretazione biblica è privilegiato dalla scuola di Chartres? (max 3 righe)
10
Come potresti sintetizzare la filosofia politica di Giovanni di Salisbury? (max 8 righe)
11
In che senso Gioacchino da Fiore elabora una dottrina escatologica? (max 6 righe)
FILOSOFIA ISLAMICA ED EBRAICA
12
Quando nasce e che cosa è la fàlsafa? (max 6 righe)
13
Su quale dottrina di Aristotele insistono i pensatori islamici al-Kindi, al-Farabi e Avicenna? (max 6 righe)
14
Che cosa sostiene Averroè con la sua tesi dell’Intelletto unico? (max 6 righe)
15
Qual è il fulcro concettuale della dottrina dell’ilemorfismo universale di ibn Gabirol? (max 4 righe) www.edusophia .it
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino 1. Il XIII secolo: le traduzioni e le università 1. Il movimento delle traduzioni 2. La nascita delle università 3. La didattica universitaria
5. L’anima umana e la conoscenza intellettuale 6. L’etica: aristotelismo e cristianesimo a confronto 7. La politica: la naturale necessità della vita associata
5. Parigi e Oxford 2. L’eredità di Aristotele; Alberto Magno 1. La riscoperta di Aristotele 2. Alberto Magno
3. Gli «aristotelici radicali»
1. Bonaventura: il secondo fondatore dell’ordine 2. Roberto Grossatesta a Oxford: geometria e metafisica della luce 3. Ruggero Bacone: riforma del sapere e rinnovamento religioso
1. Sigieri di Brabante: da Averroè alle censure 2. Boezio di Dacia
4. Tommaso d’Aquino 1. 2. 3. 4.
Teologia e filosofia Che cosa significa «Dio»? Le cinque vie Ipsum esse subsistens: la natura di Dio L’essere di Dio e quello delle creature. Essenza ed esistenza. Il principio di individuazione
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Somma teologica: la verità secondo Tommaso d’Aquino ♦ Tesi a confronto: Come ha fatto Dio a creare il mondo?
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Il XIII secolo: le traduzioni e le università
1
Fino a qualche tempo fa gli storici attribuivano al XIII secolo il ruolo di «età d’oro» della filosofia medievale. Oggi la ricerca e la storiografia guardano con uguale interesse anche agli altri periodi del millennio medievale. Tuttavia la densità dei fenomeni culturali dell’Occidente latino nel XIII secolo non sembra avere paralleli. All’incremento demografico, allo sviluppo della vita politica ed economica urbana, al movimento di uomini e merci corrispondono novità decisive sul piano culturale. Innanzitutto il fenomeno delle traduzioni in latino, non solo di testi dell’antichità classica trascurati nei secoli precedenti, tra cui gran parte delle opere di Aristotele, ma anche di opere filosofiche e scientifiche arabe ed ebraiche. Poi la nascita delle università. I due fenomeni si influenzano reciprocamente, determinando condizioni nuove entro cui fare cultura, e lo stile stesso del pensiero filosofico ne risentirà profondamente. È in questo clima che si formano personalità del calibro di Tommaso d’Aquino, Bonaventura, Ruggero Bacone e Sigieri di Brabante. I nuovi ordini religiosi: Molti intellettuali del XIII secolo appartengono ai nuovi ordini religiosi «mendifrancescani canti» (chiamati così per l’obbligo di non possedere nulla e vivere di carità): i e domenicani francescani (o «frati minori») e i domenicani (o «frati predicatori»). A differenza dei tradizionali ordini monastici, che erano espressione di un mondo ruralizzato e feudale (infatti il monastero si trova in aperta campagna, al centro di un’isola di produzione agricola), i nuovi ordini «mendicanti» nascono nella realtà urbana e qui esercitano il loro apostolato. Il loro centro è il convento, situato in città (il termine latino conventus, da cum-venio, significa «luogo di incontro», mentre monastero, dal greco monastèrion, significa «luogo in cui si sta soli»). I frati degli ordini mendicanti rivolgono la loro azione pastorale specificamente ai nuovi ceti urbani, principalmente nella forma della predicazione, ma ben presto entrano anche nel campo della formazione superiore, dell’università.
Novità sociali, economiche e culturali nel XIII secolo
1
Il movimento delle traduzioni
A partire dal XII secolo la grande mobilità di uomini e beni (per i commerci e per le imprese militari) aveva creato anche le condizioni per l’acquisizione e trasmissione di nuovi libri che allargheranno la biblioteca dell’Occidente latino. In centri multiculturali e plurilinguistici, come la Toledo arabo-ispanica o la Sicilia arabo-greco-normanna e sveva, dove convivevano cristiani, musulmani ed ebrei, si creò un vero e proprio movimento delle traduzioni, grazie alle quali la cultura di lingua latina riscopre non solo gran parte delle opere di Aristotele trascurate nei secoli precedenti, ma anche quelle di filosofi neoplatonici, di matematici, medici e teologi greci; inoltre acquisisce i nuovi trattati arabi di ottica, geometria, astronomia, medicina e filosofia. Autori e libri riscoperti Nel XII secolo a Toledo Domenico Gundisalvi traduce dall’arabo Avicenna e ibn Gabirol; Gerardo da Cremona traduce dall’arabo opere di Aristotele e dei suoi Centri multiculturali e plurilinguismo favoriscono le traduzioni
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino
L’opera di Grossatesta e Guglielmo di Moerbeke
commentatori, ma anche, credendolo opera aristotelica, il neoplatonico Libro delle cause. Nello stesso secolo Giacomo Veneto frequentava le biblioteche bizantine e traduceva, questa volta dall’originale greco, molte delle opere aristoteliche che dopo Boezio avevano cessato di essere lette nel mondo latino (Analitici secondi, Topici, Confutazioni sofistiche, Fisica, Sull’anima, Metafisica). Nella prima metà del XIII secolo Michele Scoto, che dopo lunghi viaggi si fermò alla corte di Federico II, traduce dall’arabo molti commenti di Averroè. Il punto più alto e, per certi versi, conclusivo del movimento delle traduzioni è raggiunto intorno alla metà del secolo da Roberto Grossatesta e da Guglielmo di Moerbeke, ai quali si devono importanti traduzioni direttamente dal greco, svincolate dalla mediazione araba, di opere di Aristotele (e dei suoi commentatori greci), di trattati di Archimede, Erone, Tolomeo, Galeno, Proclo, di scritti teologici di Giovanni Damasceno e dello pseudo-Dionigi Areopagita. I centri di studio della filosofia medievale
Cambridge Oxford Canterbury
Colonia Liegi
Erfurt Praga Heidelberg
Chartres Angers Tours
Cracovia
Parigi Morimond
Orléans
Vienna Buda
Cluny Cahors Palencia Tolosa Coimbra
Valladolid
Lerida
Lisbona
Grenoble
Montpellier
Huesca Salamanca
Vercelli
Perpignano
Toledo
Vicenza Treviso
Pécs
Orange Pavia Padova Ferrara Avignone Bologna Firenze Pisa Arezzo Siena Perugia Roma
Siviglia
Montecassino Napoli Salerno
Università nate da scuole anteriori al XIII secolo Università fondate nel XIII secolo Università fondate nel XIV secolo Principali scuole urbane Principali scuole monastiche
2 L’università: una corporazione di studenti e maestri
La nascita delle università L’altra grande novità della cultura urbana del XIII secolo è la nascità delle università, un fenomeno senza antecedenti nell’età classica o paralleli nel mondo bizantino e islamico. Nel linguaggio giuridico medievale col termine universitas si intendeva, nel senso 583
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Le facoltà e il curriculum
Le sedi: Italia, Francia, Inghilterra
La composizione sociale degli universitari e i salari dei professori
La condizione clericale della popolazione universitaria
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più ampio, una collettività costituita come soggetto giuridico, in senso più ristretto una corporazione. In questo secondo senso il termine venne impiegato per designare una nuova figura giuridica: la corporazione di studenti e maestri, che mediante statuti regolava obblighi reciproci e fissava programmi di insegnamento. Le università medievali si articolarono in quattro facoltà: «Arti» (cioè discipline filosofiche), Diritto, Medicina e Teologia. Per ciascuna di esse era fissato un percorso di studio, centrato sull’analisi sistematica di testi classici (per esempio Aristotele per la filosofia o Galeno per la medicina) e sulla discussione dei nodi teorici e problematici che ne emergevano. A differenza di quanto accadeva con le scuole cittadine del XII secolo, gli statuti universitari fissavano la durata dei corsi e la tipologia delle prove di esame. Inoltre i titoli rilasciati erano giuridicamente riconosciuti dalle autorità civili ed ecclesiastiche ed erano ‘spendibili’ in tutta Europa. Nonostante ciò, ogni università si mantenne organismo autonomo sia nel reclutamento del corpo docente che nell’amministrazione. È impossibile fissare una data precisa di fondazione delle singole università, poiché molte di esse si svilupparono gradualmente, allargando le attività di scuole precedenti. Le prime università in senso proprio si organizzarono sul finire del XII secolo in Italia (Bologna, Salerno), in Francia (Parigi, Montpellier, Tolosa) e in Inghilterra (Oxford). Alcune importanti università sorsero poi per secessione di maestri che, in seguito ad attriti con l’autorità civile, decisero di impiantare la scuola altrove. Così Cambridge nacque nel 1209 per secessione da Oxford e Padova fu fondata nel 1222 da maestri che avevano lasciato Bologna. Molte sedi universitarie si distinguevano poi per l’eccellenza in una particolare disciplina. Per esempio Salerno e Montpellier erano rinomate per la medicina, Bologna per lo studio del diritto, Parigi e Oxford per gli studi filosofici e teologici. Ogni sede universitaria aveva comunque un carattere internazionale, con studenti e docenti di ogni nazionalità europea. Ciò che li univa era l’uso tecnico del latino, lingua culturale sopranazionale, impiegata a ogni livello dell’attività didattica, amministrativa e giuridica. Gli studenti avevano le provenienze sociali più varie: piccola nobiltà, borghesia, e artigianato; alcuni venivano anche dalla piccola nobiltà rurale e per loro l’università non rappresentava soltanto una vocazione intellettuale, ma anche una possibile promozione sociale ed economica. Gli studenti più poveri (particolarmente numerosi nella facoltà delle Arti e in quella di teologia) erano in parte dispensati dal pagamento delle tasse universitarie. A Parigi alcuni collegi li accoglievano (anche la Sorbona era in origine un collegio per studenti poveri di teologia). Tuttavia l’indigenza rendeva a molti di loro difficile seguire regolarmente le attività accademiche. Infatti studiare aveva un prezzo (tasse universitarie, acquisto di libri, onorario dei professori) e questo, se non gravava più di tanto sugli studenti di famiglie abbienti, costringeva invece molti altri addirittura a mettersi al servizio di uno studente più ricco o di un professore. Per quanto riguarda i professori, la situazione salariale media non era molto elevata (era paragonabile a quella di un operaio). Tuttavia il corpo universitario godeva del privilegio dell’esenzione fiscale. Le cose erano più difficili per i professori delle Arti, ma andavano decisamente meglio per i giuristi e i medici, i cui massimi introiti derivavano dall’attività professionale extrauniversitaria. Un tratto distintivo della popolazione universitaria era la condizione clericale. Nel linguaggio medievale il termine «clero» non è sinonimo di «insieme dei sacerdoti», ma designa coloro che hanno ricevuto la tonsura clericale, cioè un taglio ri-
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino
tuale di cinque ciocche di capelli, in seguito al quale da laici si diventava chierici. Questa condizione era la premessa per l’accesso agli ordini religiosi, ma di per sé non comportava particolari obblighi. Comportava, semmai, un privilegio: i chierici non erano più soggetti alla giustizia civile, e solo in parte lo erano a quella episcopale (avevano la possibilità, infatti, di appellarsi direttamente al papa). Soltanto una minoranza dei chierici accedeva al sacerdozio. La maggior parte di loro viveva come i laici, senza farsi mancare nemmeno il matrimonio. La differenza principale tra chierici e laici era che i primi avevano accesso a una formazione culturale, erano litterati. Di qui l’identificazione nel XIII secolo tra «chierico» e «intellettuale», in specie insegnante. La presenza dell’università e del ceto intellettuale, se comportava lustro per una città, portava con sé anche vivacità e tensioni, come nel 1229 a Parigi, quando in seguito agli scontri fra studenti e polizia del re, alcuni studenti finirono uccisi. Ne nacque uno sciopero, per cui l’università dovette sospendere quasi del tutto le sue lezioni per due anni. Le cose si normalizzarono quando il re riconobbe l’indipendenza dell’università e confermò tutti i privilegi.
3
La didattica universitaria
Nel sistema universitario medievale non esisteva una facoltà di filosofia. La nostra disciplina era insegnata nella facoltà delle Arti e fu proprio qui che il sistema tradizionale delle arti liberali fu ben presto integrato e infine soppiantato dall’irruzione delle opere di Aristotele, che vennero adottate come libri di testo nei vari settori. Varie ragioni possono spiegare il successo di Aristotele nell’università medievale. Sia pure con le difficoltà legate alla loro natura «esoterica», le opere di Aristotele erano trattati nati dall’insegnamento, coprivano quasi tutti i settori del sapere (logico, fisico, metafisico ed etico-politico), mostravano collegamenti tra di loro nei metodi e, soprattutto, nel linguaggio (basti pensare all’impiego pervasivo delle coppie concettuali materia / forma, potenza / atto, sostanza / accidente). Fare lezione di filosofia, insomma, significava commentare un testo di Aristotele, ormai chiamato «il Filosofo», per antonomasia. Questo titolo, però, non deve far pensare a un rapporto servile e ripetitivo nei suoi confronti. Infatti i commentatori potevano prendersi la libertà di esprimere il loro dissenso dallo Stagirita e molte delle dottrine più interessanti del XIII secolo comportano revisioni profonde, se non superamenti, del pensiero di Aristotele, da cui tutti partivano e con cui tutti si misuravano. Il metodo Gran parte della letteratura filosofica del XIII secolo (e dei tre secoli successivi) mostra stretti legami con le tecniche di insegnamento da cui deriva. Infatti l’università medievale mise a punto ben presto forme altamente strutturate di analisi testuale (la lectio) e di discussione teorica (la disputatio), dalle quali derivarono rispettivamente i generi letterari del commento e della quaestio. La lectio La lectio era l’analisi sistematica di un testo fondamentale secondo tre livelli di approfondimento progressivo: littera (la spiegazione letterale), sensus (una prima parafrasi del suo significato) e sententia (ovvero l’approfondimento della posizione teorica dell’autore). Già la spiegazione letterale era cruciale, dato che si avevano di fronte traduzioni estremamente letterali (verbum de verbo: «parola per parola») che rendevano necessari chiarimenti lessicali e grammaticali. La disputa e la quaestio L’altra pratica intellettuale tipica dell’università medievale è la disputa. Nella faL’irruzione di Aristotele nel sistema universitario
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
➥ Sommario, p. 620
coltà delle Arti e nella facoltà teologica (ma anche in medicina e in diritto) si tenevano dispute accuratamente strutturate intorno ai temi più rilevanti e problematici di ogni area disciplinare. Tutto partiva da un quesito del maestro formulato come interrogativa disgiuntiva, per esempio: «Ci si chiede se l’umiltà sia una virtù o no». Entravano poi in gioco due gruppi di studenti divisi nel gruppo del «no» e nel gruppo del «sì», che dovevano formulare i diversi argomenti, presentando, cioè, i dossier delle prove correnti a favore di entrambe le soluzioni. Solo a questo punto il maestro offriva la propria soluzione, replicando infine anche agli argomenti in contrario avanzati nel corso del dibattimento. A imitazione della struttura delle dispute orali nacque il genere letterario della quaestio (anche se non ogni quaestio giunta fino a noi nasce da dispute realmente tenute).
Pratiche d’insegnamento e generi letterari
Didattica Lectio
Spiegazione letterale (littera) Parafrasi (sensus) Aspetti dottrinari (sententia)
Disputa
Generi
]
Commento
Quaestio
L’eredità di Aristotele; Alberto Magno
2 I testi
Alberto Magno Fisica: Rendere comprensibile la fisica aristotelica, T1
1 La svolta tra XII e XIII secolo
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La riscoperta di Aristotele Severino Boezio aveva lasciato in eredità all’alto Medioevo le traduzioni con commento di alcuni scritti logici dell’Organon di Aristotele (in pratica le Categorie e l’Interpretazione; vedi Unità 9, p. 541 s.). Così dal VI all’XI secolo l’Occidente latino conosce essenzialmente un Aristotele logico, collegabile agli interessi per le discipline linguistiche del trivio. Le cose cambiano tra XII e XIII secolo, quando i traduttori latinizzano non solo il resto dell’Organon, ma anche opere fisiche e metafisiche (oltre a scritti di filosofi-scienziati arabi nei quali si fa ricorso a tut-
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino
Avicenna e il fondo neoplatonicoagostiniano della tradizione cristiana
L’inconciliabilità di alcune teorie di Aristotele con il cristianesimo ➥ Percorso tematico, p. 633
ta la produzione di Aristotele). In questo modo si riscopre la vastità degli interessi filosofici dello Stagirita, le cui opere, ancora prima di essere sistematicamente commentate nelle lezioni universitarie, entrano sotto forma di riferimenti e citazioni negli scritti dei maestri universitari della prima metà del Duecento. È quanto avviene anche nelle Summae («manuali sistematici») di maestri di teologia come Guglielmo di Alvernia e Filippo il Cancelliere. In queste prime interpretazioni di Aristotele si verifica un fenomeno di «precomprensione» (ossia il fenomeno per cui ogni volta che abbiamo delle informazioni su qualcosa che non conosciamo ancora direttamente il nostro approccio risulta già orientato, e mettiamo così sotto la lente alcuni aspetti sottovalutandone altri). La precomprensione era legata ad Avicenna, le cui opere, che spesso hanno gli stessi titoli delle opere aristoteliche di cui sono parafrasi-riscrittura, vennero ben presto tradotte dall’arabo e circolarono in latino ancora prima di Aristotele. In questo modo la miscela avicenniana di peripatetismo e neoplatonismo creava una precomprensione platonizzante, che rendeva le novità aristoteliche più facilmente armonizzabili col fondo neoplatonico-agostiniano della tradizione cristiana occidentale. Progressivamente, però, man mano che si chiarì la reale portata di alcune teorie aristoteliche (come quella dell’eternità dell’universo), risultò ben chiara la loro inconciliabilità con alcuni capisaldi della fede cristiana. Inoltre l’insieme delle opere di Aristotele aveva mostrato la possibilità di un intero sistema della realtà coerente e del tutto indipendente dai contenuti della rivelazione religiosa. Come ha scritto Gianfranco Fioravanti, uno studioso contemporaneo: è la prima volta, dalla fine dell’età antica, che un sistema coerente di pensiero filosofico viene presentato e discusso autonomamente; è la prima volta, cioè, che la filosofia viene presentata non come una rete di contraddizioni di fronte a cui sta, salda, la certezza della fede, ma come un mondo autosufficiente in cui le divergenze e le opposizioni sono un problema tutto ‘interno’ che solo il procedere filosofico, pienamente padrone di sé, ha il diritto e il potere di dirimere.
Ai conflitti tra ragione e fede, avvertiti con particolare intensità all’università di Parigi, si rispose con diverse strategie. La strategia praticata dall’autorità ecclesiastica (che aveva anche il controllo dei programmi di studio) parlava il linguaggio della censura. Rinnovando le limitazioni stabilite da un sinodo di vescovi tenuto a Parigi nel 1210, i successivi statuti dell’università, redatti nel 1215, prescrivevano che si facesse lezione su tutte le opere logiche di Aristotele, ma proibivano l’uso didattico della Metafisica, dei libri naturali e dei loro commenti arabi. Il conflitto parigino Il conflitto parigino tra autorità episcopale e maestri universitari portò a uno sciofra vescovo e maestri pero degli insegnanti, col risultato che molti maestri e allievi migravano verso l’università di Tolosa, dove si potevano utilizzare più liberamente i nuovi testi. Per frenare questa emorragia, che indeboliva la roccaforte stessa della formazione teologica occidentale, il papa Gregorio IX intervenne nel 1231 con la bolla Parens scientiarum («madre delle scienze», epiteto riferito a Parigi stessa) dove, pur ribadendo le precedenti proibizioni, veniva aperto uno spiraglio. Si stabiliva infatti che i «libri naturali» dei filosofi non devono essere impiegati didatticamente, «finché non siano stati esaminati e purificati dagli errori». La commissione incaricata della expurgatio («purificazione / censura») di fatto non concluse mai i propri lavori, ma in qualche modo fu superata dagli eventi stessi. La censura della Metafisica
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo La liberalizzazione dello studio di Aristotele
2 Il progetto albertino: la parafrasi di Aristotele in stile avicenniano
Gli statuti del 1255 della facoltà delle Arti di Parigi, infatti, prescrivono la lettura sistematica dell’intera opera di Aristotele, che viene in questo modo a coincidere con il percorso di formazione filosofica. Si conclude così una prima fase di proibizioni e censure. Il via libera all’aristotelismo nell’università corrisponde al periodo di massima produttività di maestri di teologia come i domenicani Alberto Magno e Tommaso d’Aquino (la loro strategia sarà il dialogo tra cristianesimo, neoplatonismo e aristotelismo), o dei maestri di Arti come Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia (che radicalizzeranno il loro aristotelismo).
Alberto Magno Il caso del domenicano Alberto Magno è un buon esempio di un teologo che cerca di attribuire i giusti spazi alle novità filosofiche. Alberto era uno stimatissimo maestro di teologia a Parigi quando, nel 1248, il suo ordine religioso lo incaricò di fondare a Colonia uno Studio Generale, vale a dire un’università per domenicani. Alberto andò, portando con sé, come assistente, anche il più brillante dei suoi allievi parigini, il giovane Tommaso d’Aquino. Proprio negli anni di Colonia Alberto decise di avviare un colossale progetto, ossia – come lui stesso dice – «rendere intelligibile ai Latini» l’intera opera di Aristotele, ossia commentare a tappeto tutte le opere dello Stagirita. Per fare questo, il metodo adottato sarà quello della parafrasi in stile avicenniano. Non un commento letterale, dunque, ma una riscrittura più piana, arricchita di chiarimenti e digressioni, che aggiornino Aristotele sulla scorta dell’evoluzione dei saperi.
La vita e le opere Alberto di Colonia, poi detto Alberto Magno (1206 ca. 1280), nacque a Lauingen in Svevia, studiò a Padova e qui, nel 1223, entrò nell’ordine domenicano. Insegnò teologia all’università di Parigi dal 1244 al 1248, poi nello Studio Generale domenicano di Colonia da lui fon-
dato. Delle sue opere ricordiamo i voluminosi commenti, redatti in forma di parafrasi, alle opere di Aristotele ma anche a Boezio e al corpus dionysianum; in ambito teologico Alberto scrisse il Trattato sulla natura del bene, una Somma teologica e il commento alle Sentenze di Pietro Lombardo.
Nel Prologo della sua esposizione alla Fisica il maestro domenicano spiega con chiarezza finalità e metodi del suo progetto.
T1
Rendere comprensibile la fisica aristotelica Alberto Magno, Fisica, Prologo
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Il nostro scopo nella scienza naturale è di dar soddisfazione, nella misura delle nostre possibilità, ai confratelli del nostro Ordine, che ci chiedono già da parecchi anni di scrivere per loro un libro sulla fisica nel quale essi possano trovare nella sua completezza la scienza naturale, e dal quale possano comprendere convenientemente i testi di Aristotele. Pur non reputandoci adeguati a un’opera di tal natura, poiché non osiamo sottrarci alle richieste dei confratelli, dopo averle ripetutamente disattese, abbiamo infine acconsentito e intrapreso a realizzarla, vinti dalle preghiere di alcuni di loro: in primo luogo per lodare Dio onnipotente, che è la fonte della sapienza, l’autore, il creatore e il governatore della natura; poi per renderci utili ai nostri confratelli, quindi a tutti coloro che leggeranno quest’opera, desiderando raggiungere la conoscenza della natura. Il nostro modo di procedere in quest’opera sarà di seguire l’ordine espositivo e le dottrine di Aristotele, dicendo tutto quanto sembrerà necessario a spiegarle e
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provarle, ma svincolandoci dalla citazione letterale dei suoi testi. Faremo inoltre delle digressioni, per chiarire i dubbi che nascono da questi testi e per completare ciò che nella dottrina del Filosofo è espresso in forma troppo concisa e la rende oscura ad alcuni. Divideremo poi quest’intera opera tramite i titoli dei capitoli, e laddove il titolo semplicemente mostra l’argomento del capitolo, significherà che quel capitolo ripropone la suddivisione dei libri di Aristotele; laddove invece nel titolo si preannuncia una digressione, lì si troverà ciò che viene da noi aggiunto per completare o provare le dottrine presentate. Procedendo in questo modo, porteremo a termine la stesura di altrettanti libri, e con gli stessi titoli, di quelli composti da Aristotele; e talvolta aggiungeremo anche quelle parti dei libri che sono rimaste incomplete, talaltra gli interi libri interrotti o mancanti, che Aristotele non ha scritto o che, se per caso ha scritto, non sono giunti sino a noi. Il metodo albertino: riscrivere, integrare, completare Aristotele
L’attenzione ai fenomeni naturali e l’osservazione in prima persona
Il fatto stesso di intraprendere un simile progetto presuppone un deciso riconoscimento del valore filosofico di Aristotele, anche nel percorso formativo di un ordine religioso. Poi, per quanto riguarda il metodo di lavoro, Alberto non intende compiere un semplice recupero antiquario di un filosofo del passato, ma intende attualizzarlo e lo fa in tre modi: riscrivendo le sue opere in un modo più accessibile, integrandole con capitoli digressivi che presentino gli sviluppi teorici elaborati da pensatori successivi, completando le parti mancanti dell’enciclopedia aristotelica con capitoli e trattati composti ad hoc (per esempio, Alberto arriva a scrivere un trattato Sui minerali, per aggiungere un tassello alle opere fisiche di Aristotele). Colpisce nelle opere del maestro domenicano la vastità delle conoscenze e delle informazioni. Trattando di questioni filosofiche le dottrine aristoteliche vengono affiancate da riferimenti ad al-Farabi, Avicenna e Averroè; trattando di questioni filosofico-naturalistiche entrano in gioco Plinio e le opere mediche di Galeno, Avicenna e Averroè. Nella sua vastissima parafrasi-riscrittura dei libri aristotelici sugli animali Alberto mostra poi una peculiare attenzione ai fenomeni naturali, riportando molte osservazioni compiute in prima persona sulla fauna del Nord-Europa (che vanno a integrare le osservazioni aristoteliche, prevalentemente incentrate sulla fauna mediterranea).
Teologia e filosofia: metodi distinti, reciproca autonomia Alberto Magno non fu il primo maestro universitario a commentare Aristotele, tuttavia fu il primo magister (maestro di teologia, poi, e non di Arti) a misurarsi con l’intera produzione di Aristotele. Per questo dovette affrontare un problema di fondo: come conciliare metodi e contenuti della filosofia aristotelica (in sé coerenti e del tutto autonomi rispetto alla rivelazione religiosa) con le pratiche della teologia? Teologia e rivelazione, Su questo punto la posizione di Alberto è netta: «le argomentazioni della teolofilosofia e ragione gia partono da principi completamente diversi da quelli della filosofia, perché si fondano sulla rivelazione e non sulla ragione; dunque non possiamo farne uso nel discorso filosofico». La filosofia è impresa umana, compiuta esclusivamente con strumenti razionali e condivisibili dalla collettività degli studiosi, si fonda sulle procedure rigorose del metodo dimostrativo, chiarisce in modo univoco i termini che impiega, rifiuta il linguaggio figurato. La teologia affronta temi decisivi per la nostra vita spirituale e per il nostro rapporto con Dio, ma lo fa partendo dal dono divino della rivelazione, di modo che i suoi principi non si offrono all’eviden589
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➥ Sommario, p. 620
za razionale, ma all’assenso della fede. In questo modo, nel momento stesso in cui è riconosciuta la superiorità di ciò di cui si occupa la teologia, è tuttavia legittimata l’autonomia dell’indagine filosofica, vista come impresa totalmente umana e razionale. Alberto stesso tenne fede a questa distinzione di metodi a seconda che scrivesse opere teologiche o filosofiche. Ma le conseguenze più radicali di questa distinzione furono tratte da maestri delle Arti parigini, come Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante, che sul riconoscimento dell’autonomia delle procedure filosofiche fondarono il loro «aristotelismo radicale». Teologia e filosofia in Alberto Magno
Teologia
Filosofia
Si fonda sulla rivelazione
Si fonda sulla ragione e sul metodo dimostrativo
Assenso della fede
Strumenti razionali e condivisi
Superiorità
Inferiorità, ma autonomia
Gli «aristotelici radicali»
3 I testi
Boezio di Dacia Il sommo bene: Il sommo bene possibile per l’uomo, T2; Sommo bene speculativo e sommo bene pratico, T3; La beatitudine, T4
La demarcazione tra teologia e filosofia, già profilata da Alberto Magno, con sottolineatura del carattere radicalmente razionale e laico del filosofare, divenne una sorta di manifesto per quei professori delle facoltà delle Arti il cui compito istituzionale si era ormai trasformato: non più insegnare le tradizionali discipline liberali, ma spiegare i testi di filosofia, i testi aristotelici, mettendosi dal punto di vista di Aristotele, dunque prescindendo dal sapere teologico e dalle convinzioni religiose. Si produsse così una riscoperta dell’autonomia del filosofare e una sorta di autocoscienza professionale dei maestri delle Arti, che tornavano a sentirsi filosofi, nel solco laico del pensiero aristotelico. Perché aristotelici Le figure più rilevanti di questo orientamento furono due maestri attivi alla facoltà «radicali»? parigina delle Arti tra 1266 e 1280, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia. Nella storiografia tradizionale sono spesso rappresentati come averroisti latini, sostenitori della dottrina della doppia verità, tendenzialmente eterodossi, se non antireligiosi. La storiografia contemporanea ha però messo in luce che non furono irreligiosi, né legati in tutto e per tutto ad Averroè. Per questo oggi si preferisce parlare di aristotelici radicali, a sottolineare il loro impegno a filosofare in prospettiDal punto di vista di Aristotele
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va puramente aristotelica, tenendo distinte la dottrina cristiana (alla quale anche i maestri radicali aderivano, a titolo personale, con un atto di fede) e le pratiche filosofiche fondate sulla ragione naturale e sulla logica della dimostrazione.
1
Sigieri di Brabante: da Averroè alle censure
Di Sigieri di Brabante (1240 ca. - 1281/1284), maestro originario del Brabante (una regione posta tra gli attuali Belgio e Olanda), si conservano diversi commenti e quaestiones su Aristotele, e anche alcuni trattati, come Necessità e contingenza delle cause e L’eternità del mondo. Nei suoi primi commenti al Sull’anima Sigieri si era mosso su coordinate pericolosamente vicine al monopsichismo di Averroè; per questo fu colpito dal fuoco incrociato dell’Unicità dell’intelletto di Tommaso d’Aquino (vedi p. 602 ss.) e dalle censure successivamente promulgate dal vescovo di Parigi (10 dicembre 1270). Sigieri cercherà di essere più accorto nelle opere successive, tracciando sempre sottili distinzioni tra sapere filosofico e dottrine teologiche. L’accusa a Sigieri Tuttavia, sul finire del 1276, dopo che erano stati fatti pesanti interventi censori sui temi da insegnare alla facoltà delle Arti, l’Inquisitore di Francia finì per citare in giudizio Sigieri e altri due colleghi; e questa volta era un’accusa formale e personale di eresia. Nel 1277, poi, il vescovo di Parigi condannò 219 tesi che circolavano nell’insegnamento universitario, alcune delle quali sembrano ascrivibili a Sigieri (vedi Unità 11, p. 656 s.). Forse per evitare l’inquisizione appellandosi direttamente al papa (una possibilità contemplata dal diritto canonico), Sigieri trovò il modo di raggiungere la corte pontificia, a Orvieto, dove morì, probabilmente nel 1284, in attesa di giudizio. Dante lo ricorda, facendolo elogiare per bocca di Tommaso d’Aquino, in Paradiso, 10,133-138. Le opere
2
Boezio di Dacia L’altro esponente di rilievo dell’aristotelismo radicale è un maestro di origine danese, Boezio di Dacia.
La vita e le opere Boezio di Dacia (termine con cui si indicava una regione che copriva le attuali Danimarca e Svezia) fu attivo a Parigi tra il 1270 e il 1280 e anch’egli, come Sigieri, venne coinvolto nelle censure del 1277. Oltre a vari commenti ad Aristotele e questioni di carattere logico e
linguistico, tra cui l’opera De modis significandi, ci rimangono anche due suoi brevi trattati, L’eternità del mondo e Il sommo bene, ovvero la vita filosofica, che probabilmente sono svincolati dalla pratica didattica e costituiscono precise prese di posizioni teoriche e metodologiche.
Pluralismo epistemologico Boezio contro la censura
Gli studiosi pensano che l’Eternità del mondo possa essere stato scritto nel 1272 in risposta agli statuti universitari del 1° aprile dello stesso anno, nei quali l’autorità ecclesiastica, che aveva il controllo anche sui programmi universitari, 591
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L’eternità del mondo: principi propri, proprie conclusioni
Verità relativa delle scienze, verità assoluta della fede
➥ Percorso tematico, p. 633
proibiva ai maestri delle Arti di disputare su temi di natura teologica e imponeva, qualora il maestro dovesse incontrare nei testi filosofici da lui commentati dottrine in contrasto con le verità di fede, possibilmente di confutare quei passi o, almeno, dichiararli falsi oppure ancora, come misura cautelativa di base, non affrontarli affatto. Questa censura (anche preventiva) limitava pesantemente la libertà di interpretazione e di argomentazione filosofica dei maestri delle Arti. È probabilmente in questo clima che Boezio stese il suo L’eternità del mondo, una lunga quaestio in cui il tema dell’eternità del mondo è quasi un pretesto emblematico (era uno di quei temi su cui la dottrina aristotelica, che pensava il mondo esistente da sempre, e la verità cristiana, che voleva il mondo creato nel tempo, sembravano entrare in collisione) per ridefinire gli spazi dell’autonomia filosofica. Il trattato L’eternità del mondo è centrato su un’esplicita affermazione di pluralismo scientifico e metodologico. Tra filosofia e teologia non si ha mai un vero e proprio contrasto, argomenta Boezio, perché ogni forma di sapere razionale (fisica, matematica, metafisica) raggiunge le proprie conclusioni a partire da principi suoi propri. Ne consegue che nessuno scienziato dimostra in assoluto, ma solo entro i limiti del sistema di cause e dell’ambito di realtà della sua disciplina. In altre parole, la verità di ogni scienza è solo relativa a quella scienza. La teologia, invece, fondandosi sulla rivelazione divina, si pone su un piano più alto e raggiunge la verità assoluta. E tuttavia, i dati della rivelazione, proprio per la loro eterogeneità epistemica, non possono entrare nel discorso filosofico e modificarne le conclusioni. Così, di fronte a una divergenza tra dottrina religiosa e conclusioni filosofiche lo stesso individuo potrà, in quanto scienziato, dichiarare inspiegabili entro i limiti del sapere fisico fenomeni come la creazione del mondo nel tempo, l’esistenza di un primo uomo o la resurrezione del singolo che da corruttibile diventa incorruttibile, ma, in quanto credente, potrà accettarli e riconoscerli come veri.
La felicità mentale Il sommo bene: «vita teoretica» e felicità
T2
Il sommo bene possibile per l’uomo Boezio di Dacia, Il sommo bene
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Il breve trattato Il sommo bene di Boezio di Dacia può essere considerato l’opera-manifesto dell’aristotelismo radicale. Qui il maestro danese sviluppa in tutte le sue conseguenze uno spunto aristotelico. Nell’Etica nicomachea Aristotele proponeva una nozione oggettiva di ‘felicità’ (eudaimonìa): non allegria o contentezza emotiva, ma realizzazione dello specifico di ogni ente; nel caso dell’uomo questo fine proprio non può essere di natura vegetativa (in quanto aspecifico e comune a tutti i viventi, piante comprese), né di natura emozionale (anch’esso aspecifico e comune agli altri animali); il fine proprio dell’uomo sarà dunque nella contemplazione filosofica e scientifica (la «vita teoretica»), che infatti costituisce l’esercizio di una facoltà specificamente umana. Boezio parte da queste dottrine, riformulandole con rigore sillogistico all’inizio del suo trattato. (M) Dato che per ogni specie di ente c’è un qualche sommo bene possibile, e (m) dato che l’uomo è una specie di ente, (C) occorre che ci sia un qualche sommo bene possibile per l’uomo (non parlo di sommo bene in assoluto, ma di sommo bene per l’uomo, perché i beni possibili per l’uomo hanno un limite e non si estendono all’infinito; così indagheremo razionalmente [per rationem] cosa sia questo sommo bene possibile per l’uomo).
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(M) Il sommo bene per lui possibile l’uomo lo raggiungerà attraverso la più alta delle sue facoltà (dunque, non attraverso l’anima vegetativa, che è propria delle piante, né attraverso l’anima sensitiva, che è propria degli animali; e infatti i piaceri dei sensi sono animaleschi); (m) ora, la più alta facoltà dell’uomo consiste in ragione ed intelletto (infatti il perfetto regime di vita è contemplare ed agire secondo ragione); (C) pertanto il sommo bene per lui possibile l’uomo lo raggiungerà attraverso l’intelletto. L’articolazione dell’intelletto
T3
Sommo bene speculativo e sommo bene pratico Boezio di Dacia, Il sommo bene
Verità e virtù
T4
La beatitudine Boezio di Dacia, Il sommo bene
Lettura in chiave intellettualistica dell’antropologia aristotelica
Ma l’intelletto si articola in due facoltà, quella speculativa (rivolta a ciò che è immutabile e indipendente dalla nostra azione) e quella pratica (che opera nella sfera dell’agire e del fare). Di conseguenza, anche il sommo bene si declina in una forma speculativa e in una forma pratica. Il sommo bene possibile per l’uomo in base alla facoltà speculativa dell’intelletto è la conoscenza del vero e il piacere [delectatio] che ciò procura. […] E chi ha provato questo piacere disprezza ogni piacere inferiore, come quello sensibile, che è veramente inferiore e più basso. Così l’uomo che sceglie i piaceri sensibili per se stessi è di più bassa condizione rispetto a chi sceglie il piacere speculativo. […] Il bene maggiore che l’uomo può ottenere attraverso l’intelletto speculativo è la conoscenza della totalità degli enti nella loro derivazione dal principio primo, e, attraverso ciò, la conoscenza del principio primo stesso […]. Invece il sommo bene possibile per l’uomo in base all’intelletto pratico è compiere il bene e il piacere che ciò procura. Infatti quale bene più grande può capitare all’uomo nella sfera pratica se non scegliere il giusto mezzo in tutte le azioni umane e ricavarne piacere? Conoscenza della verità e condotta virtuosa sono i due versanti in cui il filosofo, con una consapevolezza irraggiungibile dagli altri uomini, realizza pienamente le potenzialità della natura umana, sperimentando già in questa vita un’anticipazione della felicità o beatitudine futura. E poiché il sommo bene possibile per l’uomo è la sua beatitudine, ne consegue che la conoscenza del vero e il compimento del bene, col piacere che ciò procura, sia la felicità [beatitudo] per l’uomo. […] Questo è il bene maggiore che l’uomo può ricevere da Dio e che Dio può dare all’uomo in questa vita. Ed è ragionevole che desideri una lunga vita chi la desidera per rendersi più perfetto in questo bene. Perché chi è più perfetto nella felicità che sappiamo con la ragione [per rationem] di poter raggiungere in questa vita, costui è più vicino a quella felicità che aspettiamo con la fede [per fidem] nella vita futura. […] Pertanto il filosofo vive pienamente la natura umana, secondo l’ordine naturale, dato che in lui tutte le facoltà inferiori e le attività di queste sono ordinate alle facoltà superiori e alle attività di queste, e tutte nella loro totalità sono ordinate alla facoltà suprema e azione ultima, che è la contemplazione della verità, in specie della verità prima, col piacere che ciò procura. In altre parole, la filosofia non è soltanto una pratica intellettuale, ma un modello di vita preferibile a tutti gli altri, l’unico in cui l’uomo realizza veramente se stesso. Il sommo bene si conclude col riconoscimento che la riflessione sugli enti risale al principio primo dal quale ogni cosa proviene (modello neoplatonico) 593
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e al quale ogni cosa tende (modello aristotelico). Ciò induce nel filosofo una specifica ammirazione per il primo principio che può essere detta amor Dei intellectualis («amore intellettuale di Dio»). La condanna Questa impressionante lettura in chiave intellettualistica dell’antropologia aristotelica sarà duramente colpita dalla censura ecclesiastica. Infatti, quando il 7 marzo 1277 il vescovo di Parigi Tempier emette un Sillabo contenente 219 tesi teologiche e filosofiche di cui si vieta l’insegnamento a Parigi, pena la scomunica, la quarantesima tesi condannata recita: «non c’è condizione migliore che oc➥ Sommario, p. 620 cuparsi di filosofia». Il sommo bene in Boezio
Anima vegetativa (comune con le piante) Anima sensitiva (comune con gli animali)
Uomo
Anima razionale (propria dell’uomo, facoltà più alta)
Facoltà speculativa Conoscenza del vero e piacere che ciò procura
Facoltà pratica
Compiere il bene e piacere che ciò procura
Beatitudine-felicità come realizzazione della natura umana; propria del filosofo
Tommaso d’Aquino
4 I testi
Tommaso d’Aquino Somma teologica: Due argomenti contro la scientificità della teologia, T5; La teologia è scienza, T6; La prima via, T7; Salvaguardare l’interesse comune, T11; Il diritto dei poveri, T12
Dialettica tra teologia e filosofia
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Questioni sulla potenza di Dio: L’atto creatore di Dio, T8 L’unicità dell’intelletto: Il pensiero individuale, T9 Il governo dei principi: L’uomo animale sociale e politico, T10
I punti forse più alti della speculazione del XIII secolo sono raggiunti da Tommaso d’Aquino, un teologo domenicano allievo di Alberto Magno. Nelle sue pagine la filosofia non ha un ruolo esclusivamente strumentale o ancillare, ma si pone in un rapporto dialettico, in cui il quesito teologico porta alla trasformazione profonda di teorie epistemologiche, ontologiche o antropologiche. Così possiamo trovare costruzioni filosoficamente innovative non solo in scritti dichiaratamente
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filosofici (come L’ente e l’essenza o i commenti ad Aristotele), ma anche all’interno di scritti teologici. Si parla spesso di Tommaso come di un ‘concordista’ che ha tentato di armonizzare cristianesimo e aristotelismo. In realtà il quadro filosofico è più complesso: pur prendendo spesso lo spunto dalle tesi di Aristotele, Tommaso non esita a trasformarle, ispirandosi anche al peripatetismo arabo di Avicenna e a dottrine neoplatoniche.
La vita e le opere Tommaso nacque intorno al 1224-1225 a Roccasecca (a metà strada tra Roma e Napoli, nell’allora Regno di Sicilia). Essendo il più giovane dei figli del ramo secondario di una famiglia nobiliare, secondo gli usi dell’epoca i genitori lo affidarono all’abbazia benedettina di Montecassino, col desiderio di vederlo un giorno abate. Ma per Tommaso non si stava preparando una strada monastica e feudale. Durante i primi studi universitari a Napoli conobbe i frati predicatori (o domenicani), che, assieme all’altro ordine mendicante dei francescani, esprimevano una nuova vitalità intellettuale pienamente inserita nella civiltà urbana. Così, superate le resistenze dei familiari, entrò nell’ordine domenicano e si trasferì a Parigi dove completò i suoi studi universitari di Arti e, successivamente, di teologia, sotto la guida di Alberto Magno (1245-1248). Per qualche anno fu assistente di Alberto, che a Colonia stava organizzando uno Studio Generale del suo ordine, ovvero una università per domenicani (1248-1252), ma tornò ben presto a Parigi per insegnare nella facoltà di teologia. Dapprima fu baccelliere sentenziario (doveva cioè commentare le Sentenze di Pietro Lombardo, il testo base per la formazione teologica); poi fu maestro reggente (cioè un professore a tutti gli effetti). A questo periodo (1252-1259) risalgono il commento alle Sentenze, L’ente e l’essenza, I principi della natura, le Questioni sulla verità e il commento al De trinitate di Boezio. Trascorse gli anni 1260-1268 in Italia tra lo studium annesso al convento domenicano di Orvieto e quello romano di Santa Sabina. Qui concluse la Somma contro i gentili e stese, tra gli altri, i commenti al libro biblico di Giobbe, ai Nomi divini dello pseudo-Dionigi e al
1 È possibile una teologia scientifica? ➥ Laboratorio di lettura, p. 623
Sull’anima di Aristotele oltre alle Questioni sulla potenza di Dio e al Governo dei principi. Dal 1268 al 1272 tornò a Parigi, ancora come maestro reggente, e compose numerose opere, tra cui la parte centrale della Somma teologica, vari commenti biblici, molti dei maggiori commenti aristotelici e i due trattati L’unicità dell’intelletto contro gli Averroisti e L’eternità del mondo, nei quali prende posizione rispettivamente contro le tesi averroistiche e aristotelico-radicali che si erano diffuse nella facoltà parigina delle Arti e contro le tesi francescane sulla dimostrabilità della non-eternità del mondo. Negli ultimi due anni di vita Tommaso, non ancora cinquantenne, rientrò in Italia, a Napoli, e lavorò alacremente per buona parte del 1273, ma in dicembre uscì dalla celebrazione di una messa stravolto, incapace di lavorare e, quasi, di parlare. Al segretario Reginaldo da Piperno, che gli chiedeva spiegazioni, dopo molti giorni dirà: «tutto ciò che ho scritto mi sembra come paglia rispetto a ciò che ho visto e che mi è stato rivelato». Su questo episodio sono state avanzate ipotesi che spaziano dalla visione mistica al crollo psico-fisico. Senza più riprendere il suo lavoro intellettuale, morì il 7 marzo 1274. La maggior parte della sua vita fu dedicata allo studio, all’insegnamento e alla composizione delle opere (per redigere la quantità monumentale di scritti che ci ha lasciato, fu coadiuvato da molti segretari e scribi). La dedizione agli impegni intellettuali non gli impedì di prendere parte ai dibattiti istituzionali e filosofici della sua epoca, come la controversia con i maestri universitari che vedevano di malocchio la penetrazione di membri degli ordini religiosi nell’insegnamento universitario o i dibattiti universitari sull’unicità dell’intelletto e sull’eternità del mondo.
Teologia e filosofia Tommaso fu per tutta la vita un professore di teologia. Ma per un teologo, specialmente nel XIII secolo, fare teologia significava anche misurarsi con le teorie e i metodi della filosofia, che ormai era oggetto di insegnamento sistematico nelle università. Proprio in un passo della sua opera teologica più famosa, la Somma teologica, viene espressamente trattato il problema dei rapporti tra teologia e filosofia. Dobbiamo collocare questa pagina nel quadro di un dibattito in corso all’epoca circa la scientificità del sapere teologico: una volta assimilata l’epistemologia aristotelica, ci si chiedeva se era possibile fare una teologia che fosse ‘scientifica’ alla luce dei requi595
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siti del sapere dimostrativo formulati negli Analitici secondi di Aristotele. Il testo ha la struttura tipica della quaestio scolastica: inizia con la formulazione del problema da esaminare («se la sacra doctrina sia scienza o no»), cui seguono i motivi in contrario (cioè gli argomenti per cui la sacra doctrina non sembra essere una scienza).
T5
Due argomenti contro la scientificità della teologia Tommaso d’Aquino, Somma teologica, 1, q. 1, art. 2
Ci chiediamo se la dottrina sacra sia una scienza o no. Argomenti contrari 1. Sembra che la dottrina sacra non sia una scienza. Infatti ogni scienza procede da principi autoevidenti. Ma la dottrina sacra procede da affermazioni di fede, che non sono autoevidenti, infatti non tutti le accettano: «non di tutti è la fede», dice Paolo nella II lettera ai Tessalonicesi [3, 2]. Dunque la dottrina sacra non è scienza. 2. Inoltre la scienza non riguarda fatti singolari. Ma la dottrina sacra tratta di vicende particolari, come le gesta di Abramo, Isacco e Giacobbe e così via. Dunque la dottrina sacra non è scienza.
Come si può vedere, i due argomenti in contrario, esposti in forma sillogistica, si fondano (nelle loro premesse maggiori) su requisiti di scientificità propri dell’epistemologia aristotelica («ogni scienza procede da principi autoevidenti», «non vi è scienza di fatti singolari»), requisiti ai quali non sembra uniformarsi il sapere teologico: infatti gli articoli di fede non sono immediatamente evidenti e accettabili per tutti (argomento 1) e la rivelazione biblica sembra limitarsi a eventi particolari, privi del carattere di universalità (argomento 2). Due tipi di scienza Nonostante queste apparenze sfavorevoli, in realtà la teologia è una scienza (in senso aristotelico). Ma per capire come, dobbiamo tener presente che esistono due tipi di scienza, come mostra Tommaso nel respondeo (che è la soluzione al quesito iniziale): Gli argomenti in contrario
T6
La teologia è scienza
Tommaso d’Aquino, Somma teologica 1, q. 1, art. 2
Teologia e filosofia: la subalternatio scientiarum
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Rispondo che la sacra dottrina è una scienza. Ma bisogna tener presente che ci sono due tipi di scienza. Ce ne sono alcune che procedono da principi noti in virtù del lume naturale dell’intelletto, come aritmetica, geometria e simili; poi ce ne sono altre che procedono da principi noti in virtù del lume di una scienza superiore: in questo modo l’ottica procede dai principi che le offre la geometria, la musica dai principi offerti dall’aritmetica. E la sacra dottrina è scienza in questa seconda maniera, perché procede da principi noti grazie al lume di una scienza superiore, vale a dire la scienza di Dio e dei beati. Pertanto, come la musica accoglie i principi che le offre l’aritmetica, così la sacra dottrina accoglie i principi che le sono rivelati da Dio. La soluzione prende a modello la struttura gerarchica delle scienze (che all’epoca veniva detta subalternatio scientiarum). Esistono scienze superiori, in virtù della loro maggiore generalità e universalità, che forniscono i principi a scienze subordinate, ‘subalternate’. Per esempio, è la geometria a fornire i suoi principi all’ottica, che li assume e argomenta a partire da essi (ma non discute essa stessa dei fondamenti della geometria). Come una scienza subalternata non è tenuta a provare i suoi principi, in quanto ricevuti da una scienza superiore, così gli articoli di fede sono immediatamente accolti dal credente. In questo modo la teologia assume i suoi principi dalla rivelazione, ma, una volta che li ha accolti, costruisce dimostrazioni rigorose al pari di ogni altra scienza. Ecco che la teologia scientifica può porre in relazione sistematica tutto il contenuto della fede e quello delle verità filosofiche raggiungibili dalla ragione naturale.
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino Gli articoli di fede, verità fondamentali della rivelazione
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È da sottolineare che gli articoli di fede che possono valere come principi del discorso teologico non sono tutto ciò in cui crede un cristiano, ma solo le verità fondamentali contenute nel «Credo». Infatti al secondo argomento contrario (se la sacra dottrina si occupa di fatti particolari non può essere una scienza) Tommaso replicherà che «i fatti singolari non sono l’oggetto principale della dottrina sacra, ma vengono introdotti o come esempi di vita, come nelle scienze morali, o per illustrare l’autorevolezza dei personaggi attraverso i quali la rivelazione divina è giunta fino a noi».
Che cosa significa «Dio»? Le cinque vie
Un esempio di integrazione profonda tra discorso teologico e argomenti filosofici lo troviamo ancora nella Somma teologica, poche pagine dopo, nelle cosiddette cinque prove dell’esistenza di Dio (o «cinque vie»). A differenza di buona parte della tradizione teologica precedente, Tommaso non ritiene che l’uomo possegga una nozione innata o intuitiva dell’essenza di Dio, dalla quale ricavare una deduzione della sua esistenza. Infatti queste prove non partono dall’analisi della natura di Dio, ma dalla nostra esperienza del mondo fisico, per mostrare come questa postuli un principio primo, identificabile con Dio. Proprio perché partono dagli effetti, vengono dette prove a posteriori (cioè «a partire da ciò che è successivo»). La prima via: La prima via analizza il mutamento delle cose di questo mondo (è da tenere preil mutamento sente che quando il testo parla di «moto» intende, come già faceva Aristotele con kìnesis, non solo il movimento locale, ma ogni tipo di mutamento).
L’integrazione fra teologia e filosofia: le prove a posteriori dell’esistenza di Dio
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La prima via
Tommaso, d’Aquino, Somma teologica, 1, q. 2, art. 3
La prima e più evidente è la via che si ricava analizzando il moto. È certo e consta ai sensi che alcune cose si muovono in questo mondo. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da altro. Infatti una cosa può muoversi in quanto è in potenza ciò verso cui muove, mentre il motore esercita la sua azione in quanto è in atto. Infatti muovere non è altro che portare qualcosa dalla potenza all’atto; ma una cosa non può passare dalla potenza all’atto se non grazie ad un qualche ente che sia in atto (ad esempio, ciò che è caldo in atto, come il fuoco, rende caldo in atto il legno, che è caldo in potenza, e in tal modo lo muove alterandolo). Però non è possibile che la stessa cosa sia simultaneamente in atto e in potenza sotto lo stesso aspetto, ma soltanto sotto aspetti diversi (ciò che è caldo in atto non può essere simultaneamente caldo in potenza, piuttosto è simultaneamente freddo in potenza). È dunque impossibile che qualcosa sia simultaneamente movente e mosso nello stesso e identico rispetto. Dunque è necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da altro. Se dunque ciò da cui qualcosa viene mosso viene a sua volta mosso, è necessario che anche questo sia mosso da qualcos’altro, e così anche quest’ultimo. Ma qui non si può procedere all’infinito, perché così non ci sarebbe un primo movente, e di conseguenza neppure qualche altro movente, dato che i moventi secondi non muovono se non perché son mossi dal primo movente, come un bastone non si muove se non perché è mosso dalla mano. Dunque è inevitabile arrivare ad un qualche primo motore che non viene mosso da nessun altro. E questo è ciò che tutti intendono per Dio. 597
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La seconda via: la causalità
La terza via: il possibile e il necessario
La quarta via: i gradi di perfezione
Come insegna Aristotele, tutto ciò che si muove è mosso da altro («muoversi», cioè «mutare», significa passare dalla potenza all’atto grazie all’azione di un motore, di un agente della mutazione, che è già in atto). Ma non si può risalire all’infinito nella catena dei motori. Perciò è necessario ammettere che esista un primo motore non mosso, «che è ciò che tutti intendono per Dio». La seconda via analizza la nozione di causa efficiente. Il mondo è una concatenazione di cause efficienti ed effetti; ogni causa è a sua volta causata, ma il processo non può risalire all’infinito; perciò è inevitabile riconoscere che deve esistere una prima causa efficiente, «che tutti chiamano Dio». La terza via prende spunto dall’analisi del possibile e del necessario (ossia il cosiddetto «argomento modale» di Avicenna, già ripreso da Maimonide). Molte cose sono contingenti, possibili, cioè possono essere o anche non essere, possono venire a essere e venir meno, o addirittura non esistere affatto. Se gli enti fossero tutti di questo tipo, la realtà nella sua interezza non sarebbe mai venuta all’esistenza. Visto però che la realtà esiste, dobbiamo riconoscere l’esistenza di qualche ente necessario. Ora gli enti necessari sono di due tipi: possono avere la causa della loro necessità in altro o in se stessi; ma la serie degli enti necessari che hanno la loro causa in altro non può procedere all’infinito, «quindi bisogna porre qualcosa che sia necessario per sé e non abbia la causa della propria necessità altrove, ma che sia causa di necessità agli altri. E questo tutti lo dicono Dio». La quarta via prende in esame la gradazione delle perfezioni. Si dice, per esempio, che una cosa è più o meno buona (o vera o nobile) a seconda di quanto è vicina al sommamente buono (o al sommamente vero, o al sommamente nobile). Se esiste qualcosa che è il massimo in queste perfezioni, deve esservi anche il massimo ente. E se il massimo in ogni genere è causa di tutti i membri di quel genere, allora «c’è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di ogni perfezione. E questo lo diciamo Dio». La fonte di questa prova può essere rinvenuta in un passo di sapore platonizzante della Metafisica di Aristotele (2,1): Quando una determinazione unica, indicata con unico nome, appartiene a più cose, più che dalle altre è posseduta dalla cosa in virtù della quale le altre ce l’hanno: per esempio il fuoco è la cosa più calda, e infatti è causa di calore anche per le altre cose. Perciò anche ciò che fa sì che le cose che vengono dopo di esso siano vere è più vero. Per questa ragione i principi delle cose che sono sempre, sono sempre necessariamente i più veri: essi infatti non sono veri solo qualche volta, né c’è qualche altra cosa che sia la causa del loro essere, ma sono essi la causa dell’essere delle altre cose.
La quinta via: l’ordine finalistico della natura
Cinque modi per dire «Dio»
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È da notare che in Aristotele rimane aperta una prospettiva di pluralità di principi primi, mentre Tommaso, con curvatura neoplatonizzante, fa convergere tutto su un unico principio. La quinta via parte dall’ordine finalistico della natura. Ci sono cose, anche corpi fisici privi di intelligenza, che operano con regolarità e realizzano il fine della loro natura. Dei corpi privi di intelligenza non farebbero ciò se non venissero guidati e ordinati al loro fine «da qualcosa che abbia intelletto e conoscenza, come fa l’arciere con la freccia […]. E questo lo diciamo Dio». Dunque, ricapitolando, le cinque vie partono dall’analisi degli effetti che possiamo osservare in questo mondo e ci portano a postulare rispettivamente un primo motore immobile, una prima causa efficiente, un ente assolutamente necessario,
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un ente massimamente perfetto e causa di tutte le altre perfezioni e una causa ordinatrice di tutta la realtà. Sono questi alcuni dei tratti concettuali che designiamo col termine «Dio». Le cinque vie verso Dio
Vie razionali dal mondo a Dio
3 Il distacco da Aristotele e il neoplatonismo: Dio è l’essere stesso ➥ Laboratorio sul lessico, Essere, p. 647
Effetto
Principio
Esistenza di Dio come
Moto
«Tutto ciò che si muove è mosso da altro»
Primo motore immobile
Causa efficiente
«Ogni causa è causata da altro»
Prima causa efficiente
Possibile e necessario
«Molte cose sono contingenti e quindi potrebbe non esistere nulla, ma, visto che la realtà esiste, c’è un Ente necessario»
Ente assolutamente necessario
Gradazione delle perfezioni
«Esistono gradi di essere, di bontà e di perfezione, ci deve essere una causa dell’essere della bontà e della perfezione»
Ente massimamente perfetto
Finalità
«Ogni cosa realizza il proprio fine, ci deve essere un ente che governa ogni cosa con intelletto e conoscenza»
Causa ordinatrice
Si dice spesso che le cinque vie di Tommaso sono prove dell’esistenza di Dio. In realtà esse provano non tanto l’esistenza del Dio che si rivela nella Bibbia, quanto quella del Dio che si può mostrare a chi analizza la struttura del mondo con la ragione naturale. La ragione naturale ci fa scoprire che dovunque si ha una serie (di motori e mossi, di cause ed effetti, di enti che ricevono la loro necessità da altri, di gradi), se non vogliamo procedere all’infinito, è inevitabile porre un principio che dia inizio alla serie. Questo principio razionalmente enucleato, conclude Tommaso, è ciò che chiamiamo Dio. Così le cinque prove non ci fanno scoprire qualcosa della natura di Dio in sé, ma ci mostrano il ruolo di Dio in relazione agli effetti di cui è principio. Per capire qualcosa di più della natura divina in sé, dobbiamo rivolgerci alla dottrina tommasiana di Dio come ipsum esse subsistens («essere sussistente di per se stesso»).
Ipsum esse subsistens: la natura di Dio Con le cinque vie si parte dagli effetti per risalire al loro principio primo e causa, Dio. Ora, la causalità esercitata da Dio ha un carattere del tutto peculiare, perché non si limita a fare qualcosa modificando qualcos’altro (come tutte le produzioni umane), ma produce l’essere stesso degli enti. Dio può fare questo, perché egli stesso è puro essere, anzi, è l’essere stesso. Su questo punto Tommaso si allontana decisamente da Aristotele, per accogliere ed elaborare spunti che gli venivano dalla tradizione neoplatonica e dal platonismo già fatto proprio dalla patristica. 599
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo L’autosussistenza dell’essere
Per Aristotele l’essere e l’uno non sono sostanze
In Dio, puro essere, essenza ed esistenza coincidono Dio causa dell’essere degli enti: la creazione
➥ Tesi a confronto, p. 628 ➥ Percorso tematico, p. 633
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L’atto creatore di Dio
Tommaso d’Aquino, Questioni sulla potenza di Dio, q. 3, art. 1
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Se apriamo il XII libro della Metafisica di Aristotele vi troviamo che la divinità somma, il primo motore immobile, è un ente la cui essenza è pensare se stesso («pensiero di pensiero»). Tommaso invece considera Dio come «l’essere sussistente di per se stesso», ovvero l’ente per essenza, l’ente la cui essenza è l’essere stesso (e ritiene di trovare conferma a ciò in quel passo biblico, Esodo, 3,14, in cui Dio dichiara a Mosè di chiamarsi «Colui che è»). Conformemente al platonismo cristiano di Agostino e Severino Boezio, Tommaso pensa che Dio possa essere inteso metafisicamente come puro essere, privo delle determinazioni che lo articolano negli enti finiti. Questa idea della sussistenza del puro essere non è affatto aristotelica. Infatti Aristotele ritiene che l’essere esista solo nella realtà delle sostanze e dei loro attributi definiti dalle categorie, e rifiuta espressamente la dottrina platonica che vede nell’ente e nell’uno delle sostanze (in Metafisica 3,4 Aristotele osserva che se l’essere e l’uno fossero sostanze e non predicati, allora ogni altra cosa sarebbe non-essere e non-uno, in quanto diversa dall’essere stesso e dall’uno stesso; in questo modo si riproporrebbe il monismo ontologico di Parmenide). Era stata invece la linea neoplatonizzante di Porfirio, in primo luogo, seguito poi da Mario Vittorino, Agostino, Boezio e dallo pseudo-Dionigi Areopagita a identificare Dio con l’essere stesso (dottrina inaugurata da Porfirio, perché ancora in Plotino il principio primo, l’Uno, era considerato «al di là dell’essere»; vedi Unità 7, p. 446 ss.). Nell’assoluta semplicità del principio primo non c’è traccia di complessità o composizione, dimodoché essenza ed esistenza coincidono in Dio, puro essere, al di sopra di ogni forma e in sé ineffabile (come aveva insegnato la teologia negativa dello pseudo-Dionigi). Dio, principio primo e puro essere, è la causa dell’essere per tutti gli enti. Ora, causare l’essere significa trarre radicalmente le cose dal nulla alla realtà, e ciò non è spiegabile nei termini delle quattro forme di causalità enucleate da Aristotele o in quelli dell’emanazione neoplatonica. Per designare questo trarre radicalmente gli enti dal nulla si deve dunque usare un termine peculiare, che è quello di «creazione». Il pensiero di Tommaso sulla peculiarità dell’atto creatore divino è espresso chiaramente in un passo delle questioni disputate Sulla potenza di Dio (scritte nel 1265-1266, durante il soggiorno romano). Ogni causa agente agisce in quanto è in atto […]. Una cosa naturale però è in atto parzialmente e questo in due sensi: (i) rispetto a se stessa, perché non tutta la sua sostanza è atto, visto che le cose di questo tipo sono composte di materia e forma […]; (ii) rispetto alle cose che sono in atto: infatti in nessuna cosa naturale sono comprese le perfezioni e gli atti di tutte le cose che sono in atto, ma ciascuna di esse possiede l’atto limitato ad un determinato genere e ad una determinata specie. Per questo nessuna di esse è in grado di porre in atto un ente in quanto è ente, ma un ente in quanto è quest’ente particolare limitato a questa o a quella specie determinata. […] Dio però è, al contrario, interamente atto, sia in rapporto a sé, perché è atto puro, senza mescolanza di potenza, sia in rapporto alle cose che sono in atto, perché in lui si trova la perfezione di tutti gli enti, essendo lui l’origine prima e compiuta degli enti. Con la sua azione quindi egli produce la totalità dell’ente sussistente, senza presupporre niente, in quanto è colui che è il principio di tutto l’essere ed è in sé tutto. Per questa ragione egli può fare qualcosa dal nulla e questa sua azione si chiama creazione.
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino
4 L’indagine sulla struttura ontologica degli enti
L’ente e l’essenza: il rapporto tra essenza ed esistenza e la loro composizione
Una ontologia per tutte le sostanze: corporee e incorporee
La semplicità di Dio
Le sostanze incorporee
Le sostanze corporee
L’essere di Dio e quello delle creature. Essenza ed esistenza. Il principio di individuazione Dio è atto puro, pienezza di essere, principio semplice che dà l’esistenza a tutti gli altri enti. Ma che struttura ontologica hanno gli enti creati? Come si puo spiegare il carattere causato, contingente e composto di tutte le creature, distinguendolo dalla natura assolutamente incausata e semplice di Dio? Una soluzione diffusa era quella dell’ilemorfismo universale: tutti gli enti, tranne Dio, sono composti di materia e forma; anche le sostanze spirituali (come gli angeli) hanno una loro materia sui generis. Questa dottrina, formulata da ibn Gabirol nell’XI secolo (vedi Unità 9, p. 575), trovava sostenitori anche tra i contemporanei di Tommaso, come il teologo francescano Bonaventura. Tommaso invece propone una soluzione alternativa all’ilemorfismo e sostiene che la vera composizione universale – cioè valida per tutti gli enti creati – è quella tra essenza ed esistenza. Nell’Ente e l’essenza, un breve trattato scritto intorno ai trent’anni (durante il primo insegnamento a Parigi), Tommaso indaga il rapporto tra l’essenza di un ente e la sua esistenza, ossia tra la natura di qualcosa e il fatto che questa cosa esista, e mostra come questo rapporto cambi a seconda che si parli delle sostanze corporee, delle sostanze incorporee o di Dio. Come già sapevano al-Farabi e Avicenna (vedi Unità 9, p. 569 s.), nella nozione prima che concepiamo, quella di ente, si distinguono due componenti: l’essenza e l’esistenza. Infatti io posso pensare alla natura di qualcosa, senza che la cosa esista realmente. Dunque l’essenza di una cosa non implica necessariamente l’esistenza in atto di questa. L’esistenza piena, in atto, richiede una composizione di essenza ed esistenza. Potremmo dire che rispetto all’esistenza attuale (ossia effettiva), l’essenza è solo potenza. In una formula: essenza : esistenza = potenza : atto. L’ontologia di Tommaso non deve rendere conto solo della struttura delle realtà corporee, ma anche di sostanze come angeli e anime separate dal corpo. Dato che queste sono prive di materia, la composizione universale non può essere quella di forma e materia. E tuttavia nessuna creatura può essere del tutto semplice (altrimenti sarebbe come Dio). Ecco che la formula essenza : esistenza = potenza : atto ha il vantaggio di essere applicabile sia alle sostanze corporee (dotate di materia), che alle sostanze spirituali, le quali, pur essendo pure forme, tuttavia non sono completamente semplici, in quanto composte di essenza ed esistenza. Solo nella semplicità di Dio essentia ed esse coincidono. Tutti gli altri enti in cui essenza ed esistenza sono composti, dovranno ricevere il loro essere da altro (non potrebbero darsi ciò che per essenza non posseggono). Per non procedere all’infinito, dobbiamo ammettere una causa prima che non sia causa d’altro, né di se stessa, in cui l’essenza sia l’essere stesso, ovvero Dio. Nelle sostanze incorporee l’essenza è diversa dall’esistenza, coincide con la sola forma e non richiede la materia. Per questo motivo nelle nature angeliche a ogni specie corrisponde un solo individuo. Anche nelle sostanze composte di materia e forma, ovvero gli enti corporei di questo mondo, l’essenza è diversa dall’esistenza, ma in questo caso è ricevuta nella materia e questo determina la moltiplicazione di più individui all’interno di una stessa specie. 601
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo Il principio di individuazione: la materia signata quantitate
L’ontologia di Tommaso
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Per alcuni contemporanei di orientamento platonizzante era sufficiente dire che l’essenza è una pura forma e che è la materia a determinare l’individualità degli enti particolari. In altre parole, tutti gli individui di una stessa specie condividerebbero un’unica forma e si differenzierebbero perché la materia di uno non è la materia dell’altro. Tommaso invece ritiene che l’essenza (o quidditas) delle sostanze corporee non coincida solo con la forma, ma sia costituita di forma + materia, dato che deve comprendere tutto ciò che è enunciato nella definizione della cosa. Per esempio, la definizione di uomo comprenderà anche la carne e le ossa. Altrimenti la definizione di un ente fisico non sarebbe diversa da una definizione geometrica. Allora ciò che determina l’individualità del singolo ente («principio di individuazione») non è la materia astrattamente contenuta nella definizione (che è comune a tutti gli uomini), ma la materia signata quantitate (la materia «misurabile», effettivamente distribuita nello spazio). Se avessi davanti a me due oggetti assolutamente indiscernibili, fatti dello stesso tipo di materiale, si differenzierebbero proprio perché la materia signata quantitate posseduta dall’uno non è quella posseduta dall’altro.
Livello di realtà
Struttura ontologica
Puro essere (Dio)
Essenza ed esistenza coincidono
Sostanze spirituali (angeli e anime separate)
Pure forme composte di essenza ed esistenza
Sostanze corporee
Composte di essenza ed esistenza e di materia e forma
L’anima umana e la conoscenza intellettuale
Nel discutere della natura e delle funzioni dell’anima umana, Tommaso aveva di fronte uno scenario di posizioni teoriche non facilmente conciliabili: da una parte la nozione platonica dell’anima come sostanza (che sembrava accordarsi con la fede cristiana nell’immortalità dell’anima individuale), dall’altra l’impostazione aristotelica, che vedeva nell’anima la forma del corpo (quindi tendenzialmente destinata a finire con esso). A complicare ulteriormente le cose, la voce più autorevole del pensiero francescano, quella di Bonaventura, sosteneva la teoria (neoplatonizzante) della «pluralità delle forme», secondo cui ogni individuo sarebbe determinato da una serie progressiva di forme corrispondenti ai diversi livelli biologici e alle diverse funzioni (vedi p. 611 s.). L’unicità della forma Per Tommaso una simile dottrina fraintende completamente la nozione di forma: sostanziale: l’anima infatti la forma non comporta gradi di perfezionamento progressivo (come se fosintellettiva se un mutamento qualitativo), ma è principio unitario che governa tutte le attività di un ente. Di qui la tesi tommasiana dell’unicità della forma sostanziale: la nostra natura umana è governata da un’unica forma che presiede a tutte le fun602
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino
La tesi di Averroè sull’intelletto unico
Le obiezioni di Tommaso ad Averroè
Il processo conoscitivo: intelletto agente e intelletto possibile
zioni; e questa è la nostra facoltà più alta e peculiare, l’anima intellettiva, che assolve anche le funzioni inferiori dell’anima sensitiva e dell’anima vegetativa. Con la morte del corpo cessano le funzioni sensitive e vegetative, ma rimane l’anima intellettiva (che svolge la funzione sua propria – la conoscenza dei concetti universali – superando i limiti della condizione corporea, del ‘particolarismo’ dei sensi e dell’immaginazione). Dunque l’anima, pur essendo forma del corpo, in qualche modo lo eccede e sopravvive ad esso come ‘forma separata’ (e così Aristotele è messo in sintonia con la fede cristiana nella sopravvivenza dell’anima individuale). Nel suo commento al Sull’anima Averroè aveva avanzato l’ipotesi che gli atti di pensiero non siano compiuti propriamente dai singoli individui, ma che esista un’unica attività pensante sovraindividuale alla quale il singolo parteciperebbe con la sola facoltà immaginativa (vedi Unità 9, p. 573 s.). Ma se l’apporto del singolo al pensiero si riduce alle immagini della phantasìa e queste, legate come sono al corpo, periscono con esso, non si avrà nessuna permanenza della nostra individualità dopo la morte. Questa conclusione, avanzata da Averroè in maniera ipotetica e piuttosto cauta, aveva tuttavia un potere dirompente nel quadro dell’antropologia teologico-filosofica medievale, perché minava alla base la credenza nell’individualità dell’anima umana, nella sopravvivenza dell’individuo post mortem e nel sistema delle pene e dei premi eterni. Quando i maestri delle università latine intorno alla metà del XIII secolo colsero tutto il potere eversivo di questa dottrina, si determinarono diversi orientamenti. Alcuni maestri delle Arti, tra i quali sicuramente Sigieri di Brabante, sostennero la ragionevolezza, almeno sul piano filosofico (anche se non su quello della fede), della dottrina averroista dell’intelletto. Reagirono a questa posizione, con confutazioni sul piano filosofico, tra gli altri, Alberto Magno (L’unicità dell’intelletto, 1256) e Tommaso d’Aquino (nella Somma contro i gentili, dei primi anni sessanta, e nell’Unicità dell’intelletto contro gli Averroisti, del 1270). Tommaso rimprovera ad Averroè di aver modificato la dottrina aristotelica dell’anima come «forma del corpo» limitandone la portata all’anima vegetativa e all’anima sensitiva, mentre l’anima intellettiva, sostanza separata e sovraindividuale, non si unirebbe all’uomo come forma, ma solo operativamente, grazie al ruolo dell’immaginazione. Per Tommaso, al contrario, l’anima intellettiva del singolo è la forma unitaria che presiede a tutte le sue funzioni (vegetativa, sensitiva e intellettiva). Il fatto che sia «forma del corpo» non toglie però che essa abbia anche una facoltà che trascende il corpo, ovvero la conoscenza intellettuale. Ma se l’anima umana è principio di almeno un’operazione svincolata dal corpo, allora l’anima stessa dovrà essere una forma sostanziale indipendente dal corpo, dato che «operari sequitur esse» («l’operazione presuppone un modo d’essere»). La spiegazione di Averroè risulta poco lineare, perché, dopo aver distinto il piano delle immaginazioni dei singoli dall’intelletto unico sovraindividuale, deve preoccuparsi di instaurare un qualche legame – tutto da specificare – tra questi due piani. La conclusione di Tommaso è che possiamo sì parlare, come fa Aristotele nel Sull’anima, di intelletto «separato», ma non nel senso di una separazione ontologica: l’intelletto è separato in quanto non è atto di alcun organo corporeo. Per il maestro domenicano l’intero processo conoscitivo è un passaggio dalla potenza all’atto che avviene per astrazione nel singolo individuo: le immagini mentali che si formano dall’incontro tra sensi e oggetti sono ancora degli intelligibi603
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li in potenza; è l’intelletto agente (individuale) a spogliare le immagini di ogni traccia di particolarità, astraendo l’aspetto più universale di una cosa, per informarne l’intelletto possibile (individuale). Così si esprime Tommaso nell’ultimo capitolo dell’Unicità dell’intelletto:
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Il pensiero individuale
Tommaso d’Aquino, L’unicità dell’intelletto, 5,107-108
Il pensare è un’azione che ha luogo in colui che pensa […]; ne consegue che il pensare è conforme al modo di chi pensa, cioè secondo l’esigenza della specie mediante la quale il pensante pensa. Ma poiché questa viene astratta dai principi individuanti, non rappresenta la cosa secondo le condizioni individuanti, ma soltanto secondo la natura universale […]. È perciò uno ciò che è pensato sia da me che da te, ma da me è pensato mediante una cosa, da te mediante un’altra, cioè mediante un’altra specie intelligibile; e diverso è il mio intelletto dal tuo. Anche se l’oggetto è unico, sono diverse le specie intelligibili degli atti di intellezione compiuti dai diversi individui che pensano. In questo modo Tommaso salva il dato di autocoscienza secondo cui il singolo individuo (hic homo, «questo uomo particolare») sa di pensare in prima persona.
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L’etica: aristotelismo e cristianesimo a confronto
Le idee etiche di Tommaso hanno un punto di partenza aristotelico: fine della vita umana è la felicità, e la felicità per l’uomo non può ridursi al piacere, alle ricchezze, agli onori o ai beni materiali, ma consiste nell’esercizio della virtù specificamente umana, che è quella intellettuale. Fin qui il discorso ricalca l’Etica nicomachea (nell’ultimo libro, come sappiamo, Aristotele era giunto a teorizzare espressamente la superiorità della vita contemplativa; vedi Unità 4, p. 241 s.). La novità è che per Tommaso la nostra destinazione intellettuale si realizza appieno solo nel contemplare Dio. Dunque, a differenza di quanto ritengono gli «aristotelici radicali» della facoltà delle Arti parigina, la felicità di cui parla Aristotele è, a parere di Tommaso, solo una beatitudo imperfecta, ottenibile con le pratiche morali e intellettuali in questa vita, ma è soltanto nell’esperienza post mortem che l’intelletto dei beati viene completamente appagato dalla conoscenza diretta di Dio. Virtù aristoteliche Nella sua analisi delle virtù Tommaso ricalca a grandi linee il disegno aristotelie virtù cristiane: co dei libri II-V dell’Etica nicomachea, e tuttavia il mutato orizzonte dell’etica le virtù teologali cristiana lo spinge a una profonda revisione. Innanzitutto alla tavola delle virtù greche il cristianesimo ha aggiunto le tre virtù «teologali» di fede, speranza e carità. Il maestro domenicano ne offre un’analisi approfondita, enucleando per ciascuna di esse la nozione in sé, l’oggetto, gli atti propri e i vizi opposti. Per esempio, la carità è definita come un amore di benevolenza (distinto da quello «di concupiscenza») che rende gli uomini amici di Dio e permette di trovare in lui il principio stesso della bontà; il suo oggetto è l’amore non solo di Dio, ma anche del prossimo, poiché negli altri troviamo l’immagine di Dio (per lo stesso motivo, secondo Tommaso, non possiamo propriamente amare gli animali; invece i nemici e i peccatori sono senz’altro da amare, e questo non certo per le loro scelte di vita, ma in quanto sono anch’essi uomini a immagine di Dio). La carità ha tre effetti interiori (gioia, pace e misericordia) e tre effetti esterni (la beneficenza,
Felicità, virtù, contemplazione di Dio
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino
Le virtù etiche: l’umiltà, non virtù in Aristotele, virtù in Tommaso
Umiltà cristiana, magnanimità aristotelica
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cioè «fare il bene altrui», l’elemosina, e la «correzione fraterna», ovvero consigliare il bene a chi si comporta male). I vizi opposti alla carità sono l’odio, la pigrizia e l’invidia (opposti ad amore e gioia), la discordia e le contese (opposte alla pace) e lo «scandalo», cioè un cattivo esempio o un comportamento provocatorio che confonde le coscienze (opposto alla beneficenza). Anche per quanto concerne le virtù etiche in senso stretto, la visione cristiana a tutta prima non sembra perfettamente conciliabile con i modelli greci. Basta pensare che una delle peculiari virtù cristiane è l’umiltà, alla quale la tradizione teologica attribuiva un primato come antidoto alla superbia. Nell’analitica morale aristotelica, invece, l’umiltà non sembra nemmeno una virtù. Infatti, quando l’Etica nicomachea parla di corrispettivi greci come tapeinòtes o mikropsychìa li bolla come disvalori, come atteggiamenti da individuo pusillanime e rinunciatario; in quanto tali sono opposti alla vera virtù della megalopsychìa (la «magnanimità»), ossia l’aspirazione agli onori di chi sa di meritarli (Etica nicomachea, 4,3). Del resto l’umiltà non sembra nemmeno essere una medietà tra vizi opposti (carattere strutturale di ogni virtù, secondo Aristotele), ma semmai l’estremo opposto rispetto alla superbia. Tommaso cerca di risolvere l’incompatibilità passando per una sottile ridefinizione del concetto: l’umiltà è la virtù di saper frenare l’appetito per beni irraggiungibili e inadeguati, ovvero di saper riconoscere i propri limiti. Dunque non è il contrario della giusta ambizione, ma un suo complemento: il magnanimus può aspirare agli onori che effettivamente merita solo quando ha consapevolezza dei beni che sono fuori della sua portata. Intesa in questi termini, l’umiltà è compatibile con la megalopsychìa aristotelica. È invece una penosa contraffazione dell’autentica umiltà l’atteggiamento di chi indossa una maschera di sottostima delle proprie capacità o si convince di essere il peggiore dei peccatori (se tutti facessimo così, osserva acutamente Tommaso, saremmo convinti del falso tutti tranne uno; ma l’autentica virtù non può certo promuovere la falsità).
La politica: la naturale necessità della vita associata
La naturale dimensione politica dell’uomo
A differenza di Agostino, per il quale lo Stato è un vincolo reso necessario dopo il peccato originale, Tommaso acquisisce dalla Politica di Aristotele (tradotta in latino verso il 1267 dal domenicano fiammingo Guglielmo di Moerbeke) l’idea di una naturale dimensione politica dell’uomo. Nella pagina di apertura del Governo dei principi (un trattatello incompiuto del 1267, indirizzato al re di Cipro) Tommaso mostra come anche le funzioni culturali e politiche più elevate nascano dai limiti specifici della natura umana, e nel farlo compie una sorta di deduzione naturalistica della dimensione politica.
T10
L’uomo è per natura un animale sociale e politico, che vive in società più di tutti gli altri animali, come mostra la stessa necessità naturale. Agli altri animali, infatti, la natura ha provveduto il cibo, il rivestimento di peli, mezzi di difesa, come denti, corna, artigli o almeno la velocità nella fuga. All’uomo, invece, in luogo di tutto ciò è stata data la ragione; per mezzo di questa e con l’aiuto delle mani può procurarsi tutte queste cose, che un uomo da solo non potrebbe ottenere. Infatti un uomo da solo non potrebbe vivere in modo autosufficiente. Dunque è
L’uomo animale sociale e politico Tommaso d’Aquino, Il governo dei principi, 1,1
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naturale che l’uomo viva in società con molti altri. Inoltre, gli altri animali sono dotati di un istinto che permette di discriminare ciò che è loro utile o dannoso […]. L’uomo invece ha sì una cognizione naturale delle cose che sono necessarie alla sua vita, ma solo in generale. […] Ma non è possibile che un uomo da solo giunga con la ragione a tutte le cose di questo genere. Pertanto è necessario che l’uomo viva in società, in modo che l’uno sia aiutato dall’altro e le diverse persone impegnino la loro ragione in ricerche diversificate, ad esempio uno nella medicina, un altro in questo, un altro in quello. Ciò è reso ancora più evidente dal fatto che è peculiare dell’uomo servirsi del linguaggio verbale, con cui uno può esprimere completamente agli altri il proprio pensiero. La vita associata come necessità naturale
Il miglior regime politico: dalla monarchia alla forma mista
Le leggi umane devono rispecchiare la legge naturale
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Vi è dunque una necessità naturale, quasi ‘biologica’, della vita associata, che fonda la divisione dei compiti lavorativi, ancora prima che la necessità del potere sovrano. In Tommaso non vi è contrapposizione tra stato di natura e stato politico, perché la vita politica ha un fondamento naturale. La stessa diseguaglianza (di capacità e di compiti) non gli appare una corruzione dell’ordine naturale provocata dal peccato, ma risulterebbe pienamente inscritta nell’ordine naturale. Proprio perché la vita associata è naturalmente necessaria, è essenziale che «vi sia qualcuno che si prende cura di ciò che appartiene al bene di tutti, come il corpo dell’uomo o di un altro animale si disgregherebbe se non ci fosse una forza in grado di dirigere l’intero corpo, tendendo al bene comune di tutte le membra» (Il governo dei principi, 1,2) (ancora una volta il discorso politico è modellato sulla metafora che vede nella comunità politica un organismo composto di diverse membra). Ma chi deve reggere lo Stato? E qual è il migliore regime politico? Nel Governo dei principi Tommaso sembra propendere per la monarchia. Ma quando leggiamo le successive e più distese riflessioni nel commento alla Politica (1269-1272) e nella seconda parte della Somma teologica (1271-1272), troviamo che ciascuna delle tre strutture costituzionali discusse da Aristotele nella Politica (monarchia, aristocrazia e «politìa») può essere adottata, in relazione alle consuetudini di un popolo e alle circostanze storiche. Tommaso poi si spinge a suggerire una forma mista, in cui il monarca viene scelto dai cittadini per la sua eccellenza ed è affiancato nell’azione di governo da uomini virtuosi. Compito della comunità politica (civitas) e di chi la regge è promulgare le leggi che permettano la realizzazione del bene comune. Ora, le leggi, che regolano la vita negli Stati e stabiliscono doveri specifici, applicabili a situazioni particolari, sono leggi «positive» (cioè «disposte» da un’autorità civile) ovvero leggi umane. La legge positiva è «una prescrizione della ragione finalizzata al bene comune, promulgata da chi ha la cura della comunità» (Somma teologica, 1,2, q. 90, art. 4). Ma ogni legge promulgata da un’autorità umana è autenticamente legge solo nella misura in cui rispecchia la legge naturale, cioè l’inclinazione al bene naturale, che si esprime nell’autoconservazione, nell’unione di maschio e femmina, nell’allevare i figli, attività che l’uomo, a differenza dell’animale, compie con piena consapevolezza e collega a fini più ampi, come l’organizzazione della vita sociale, delle attività produttive e la ricerca scientifica. La nozione di legge naturale risale al pensiero stoico ed era stata trasmessa da Cicerone, fino a influenzare la tradizione stessa del diritto romano.
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino La disobbedienza civile
T11
Salvaguardare l’interesse comune Tommaso d’Aquino, Somma teologica, 1,2, q. 96, art. 6
La legge eterna: fondamento metafisico della legge naturale
Il fondamento delle leggi
Un caso limite: il furto per necessità
T12
Il diritto dei poveri
Tommaso d’Aquino, Somma teologica, 2,2, q. 66, art. 7
La verifica della conformità della legge umana rispetto alla legge naturale apre lo spazio alla disobbedienza civile: infatti, se una legge positiva non rispecchia la legge naturale e non è finalizzata al bene comune, è priva di valore e non deve essere rispettata. Inoltre possono darsi casi in cui il rispetto letterale della legge potrebbe anche portare a esiti contrari all’intenzione del legislatore. Se ad esempio in una città assediata una legge stabilisce che le porte della città rimangano chiuse, questo è utile agli interessi collettivi nella maggioranza dei casi; se tuttavia si verifica il caso che i nemici stiano inseguendo alcuni cittadini che possono salvare la città, sarebbe dannosissimo alla città che non si aprissero quelle porte; dunque in tal caso si devono aprire le porte, in deroga al dettato di legge, per salvaguardare l’interesse comune, che il legislatore ha di mira. La legge naturale è il riflesso di un principio più elevato, la legge eterna, ovvero «la ragione della sapienza divina, in quanto dirige ogni atto e movimento». Così, ogni cosa ha un senso e un fine nel quadro di un ordine complessivo della realtà voluto da Dio (con l’espressione «legge eterna» si intende ciò che la tradizione teologica chiama «provvidenza»). Così la filosofia tommasiana della legge inscrive l’ordine mondano in un contesto più ampio di fondazione metafisica e teologica. Legge eterna (Provvidenza)
=
Sapienza divina
Legge naturale
=
Inclinazione al bene naturale
Legge positiva (norme giuridiche)
=
Stabilita dall’uomo, cambia a seconda delle società
Il quadro generale e astratto della riflessione sulla legge non impedì al maestro domenicano di applicare questi principi anche a situazioni più particolari, talvolta con conclusioni sorprendenti. È il caso di una pagina della Somma teologica in cui Tommaso si chiede «se sia permesso rubare in caso di necessità». Le disposizioni del diritto umano non possono derogare al diritto naturale o alla legge di Dio. Ora, secondo l’ordine naturale, istituito dalla divina provvidenza, le realtà inferiori sono finalizzate a sovvenire alle necessità degli uomini. Pertanto la ripartizione e il possesso dei beni, che derivano dal diritto umano, non possono togliere l’obbligo di provvedere con essi alle necessità dell’uomo. Quindi le cose che alcuni hanno in sovrappiù, per diritto naturale devono servire al sostentamento dei poveri. […] Ma poiché gli uomini in stato di necessità sono molti, e non è possibile soccorrere tutti con un solo fondo, è affidata alla responsabilità di ognuno l’amministrazione dei propri beni, per soccorrere con essi chi è in stato di necessità. Se però la necessità è così urgente ed evidente da esigere il soccorso immediato con le cose che si hanno a portata di mano, co607
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me quando una persona si trova in un pericolo tale che non può esser soccorsa in altro modo, allora è lecito che uno soddisfi il proprio bisogno appropriandosi delle cose altrui apertamente o di nascosto. E ciò non ha propriamente natura di furto o di rapina. Il diritto positivo umano deve riflettere la legge naturale ed essere finalizzato al bene collettivo. La proprietà privata ha senso solo in quest’ottica. Ma quando la ripartizione e il possesso dei beni («rerum divisio et appropriatio») producono sperequazione e indigenza, è lecito che chi si trova in stato di necessità soddisfi i propri bisogni primari (è in questo senso l’analogia col pericolo di vita) sottraendo ciò che è ingiustamente detenuto da altri. Una sottrazione del genere non è nemmeno un furto, ma un piccolo passo verso il ristabilimento del diritto naturale; pertanto è lecita. La Chiesa: guida Se il destino dell’uomo si realizzasse completamente entro l’orizzonte mondano, spirituale dell’umanità la filosofia della vita umana associata si esaurirebbe nelle coordinate ‘naturali’ della scienza politica aristotelica. Di fatto, però, la vita sociale organizzata, la pace e l’equilibrio che conseguono a un’ottima gestione del potere preparano, come abbiamo visto, un fine ulteriore, che è la contemplazione di Dio, realizzazione dello specifico umano. Per questo, oltre al potere politico, che garantisce la pace e l’equilibrio sociale, è necessario un potere ulteriore che guidi l’umanità al proprio fine spirituale. Questo ruolo è assolto dalla Chiesa, dai sacerdoti e, specialmente, dal pontefice romano. Tommaso tuttavia non è tra i sostenitori della plenitudo potestatis («pienezza di potere») del papa. Se vi è una sorta di soggezione (subiectio) dei re della terra al vicario di Cristo, questa non fa che rispecchiare la gerarchia dei fini (fine anteriore e preparatorio quello politico, fine ultimo e realizzativo quello spirituale). Nella concreta esperienza storica la Chiesa ha una funzione direttiva delle coscienze, che si giustappone al naturale corso della vita politica, senza esautorarla (e tuttavia, in un gioco di fondazioni concentriche, l’attività politica trova la sua legittimità nella misura in cui rispecchia ➥ Sommario, p. 620 in forme concrete, contestuali e attuative i decreti eterni della legge di Dio). La ripartizione e il possesso dei beni: ingiustizie e correttivi
Parigi e Oxford
5 I testi
Bonaventura da Bagnoregio Riconduzione delle arti alla teologia: Molte luci, un’unica sorgente: Dio, T13
Figure, luoghi e orientamenti del pensiero francescano
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Ruggero Bacone I segreti della tecnica e della natura: Le straordinarie opere della tecnica, T14
Non fu soltanto l’ordine domenicano ad avere maestri importanti come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Anche l’altro grande ordine mendicante, quello francescano, ebbe i suoi eminenti maestri universitari, come Bonaventura, Ruggero Bacone e Duns Scoto. La loro teologia si muove nel solco platonico-agostiniano, ma accetta anche le sfide poste dalla nuova filosofia aristotelica, arrivan-
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do così a mettere a punto dottrine radicalmente innovative (una tendenza particolarmente evidente nei francescani britannici, come Ruggero Bacone, Duns Scoto e Guglielmo di Ockham). Natura e teologia I due centri che prenderemo in considerazione sono Parigi e Oxford. Mentre a Oxford l’orientamento filosofico dei francescani si caratterizza per una marcata attenzione all’esperienza naturale (come vedremo con Ruggero Bacone), a Parigi i Minori si occupano di filosofia nel quadro di un prevalente interesse teologico. I primi maestri francescani parigini erano stati Alessandro di Hales e Giovanni della Rochelle (entrambi morti nel 1245). Fu proprio l’inglese Alessandro di Hales a introdurre il commento sistematico alle Sentenze di Pietro Lombardo (vedi Unità 9, p. 559) come pratica fondamentale dell’insegnamento teologico.
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Bonaventura: il secondo fondatore dell’ordine Contemporaneo di Tommaso d’Aquino e, come lui, professore a Parigi, fu Bonaventura da Bagnoregio.
La vita e le opere Bonaventura (1217 ca. - 1274) nacque a Civita di Bagnoregio, nei pressi di Viterbo, e compì a Parigi gli studi di Arti (1235-1243) e teologia (1243-1248) sotto la guida di Alessandro di Hales e Giovanni della Rochelle. Fu quindi baccelliere biblico (1248-1250) e baccelliere sentenziario (1250-1252). Nel 1253 conseguì la licentia docendi e divenne maestro reggente nella facoltà di teologia, fino al 1257, anno in cui fu eletto ministro generale dei francescani. Per aver guidato l’ordine con grande moderazione, per aver scritto una significativa Vita di San Francesco e per aver presieduto il capitolo generale di Narbona del 1260, che codificò gli statuti legali dei
francescani, Bonaventura fu ritenuto il «secondo fondatore dell’ordine». Fatto cardinale da papa Gregorio X (1273), dedicò l’ultimo anno della sua vita a progetti di riunificazione delle Chiese di Occidente e di Oriente da discutere nel Concilio di Lione. Tra i suoi scritti brevi dobbiamo ricordare due opuscoli famosi, la Riconduzione delle arti alla teologia, che risale al periodo della reggenza parigina, e l’Itinerario della mente verso Dio del 1259. Le sue idee filosofiche si trovano trattate in forma diffusa in ampie opere di teologia e di esegesi biblica, come il Commento alle Sentenze e le Collationes in Hexaëmeron (commento al racconto biblico dei sei giorni della creazione).
Teologia e filosofia Bonaventura aveva ben chiaro che fare teologia a partire dalle dottrine aristoteliche non poteva che condurre a conclusioni inaccettabili per il cristiano. Secondo Aristotele, per esempio, le forme non sono pensieri di Dio (il dio di Aristotele – «pensiero di pensiero» – pensa solo se stesso). Ma negare, con Aristotele, che nella mente di Dio vi siano gli «esemplari» delle diverse realtà, comporta non solo che Dio non sia provvidente verso enti a lui sconosciuti, ma anche che egli non possa averli creati, visto che nemmeno li conosce. Inoltre, se viene meno il rap➥ Percorso tematico, p. 633 porto creazionale tra Dio e il mondo, si apre la strada al caso o al determinismo, secondo cui il mondo non è opera di una libera volontà divina, ma è sempre esistito e sempre esisterà, governato dall’inflessibile necessità delle leggi naturali. Un secondo errore Anche la teoria aristotelica dell’eternità del cosmo comporta conclusioni teologicadi Aristotele: l’eternità mente inaccettabili. Infatti, se il mondo è perpetuo, si profila un dilemma: o esiste del cosmo un’infinità attuale di anime (visto che dall’eternità devono essere esistiti infiniti uomini), oppure, per evitare un inconcepibile infinito in atto, si dovrà negare l’immorUn primo errore di Aristotele: le forme non sono pensieri di Dio
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Distacco dalla scuola domenicana e riaffermazione del primato della teologia
T13
Molte luci, un’unica sorgente: Dio
Bonaventura da Bagnoregio, Riconduzione delle arti alla teologia, 2-6
La filosofia è ancella della teologia
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talità dell’anima individuale; ma questo comporterebbe un ulteriore dilemma (con due corni ugualmente inaccettabili): se l’anima individuale non fosse immortale avremmo o la metempsicosi (un’anima che passa per più individui successivi) o il monopsichismo averroistico (una sola anima, ma sovraindividuale). Queste e altre erano, per Bonaventura, le derive della filosofia di orientamento aristotelico e nascevano da limiti di fondo di Aristotele stesso che, agli occhi del francescano, non era un vero e proprio metafisico, ma soltanto un physicus, un filosofo della natura. È proprio intorno ai rapporti tra filosofia e teologia che cogliamo con chiarezza la diversa impostazione rispetto alla scuola domenicana. Bonaventura avverte il rischio non solo di una filosofia che si renda autonoma e svincolata dalla sapientia cristiana, ma anche di una sacra doctrina che si allontani dalla meditazione della Scrittura per mettersi a produrre summae di teologia, strutturate secondo i requisiti del sapere dimostrativo aristotelico. Così, in un contesto culturale in cui i metodi aristotelizzanti si attestavano a Parigi sia presso i maestri delle Arti che presso i teologi domenicani, Bonaventura reagisce con un programma di riaffermazione del primato della teologia. Ne è manifesto l’opuscolo Riconduzione delle arti alla teologia, databile agli anni 1255-1257. I diversi saperi e discipline (artes) derivano da Dio, sorgente di ogni luce, e sono una progressiva preparazione alla verità di salvezza contenuta nella rivelazione. La prima luce, dunque, che illumina riguardo alle forme prodotte dall’uomo, che sono come a noi esterne e inventate per supplire alle manchevolezze del corpo, è detta luce dell’arte meccanica. Essendo questa, in qualche modo, ancella e lontana dalla conoscenza filosofica, si può, a ragione, definire esterna. Questa luce è di sette specie in relazione alle sette arti meccaniche che Ugo di San Vittore fissa nel Didascalicon [2,20]; esse sono: la lavorazione della lana, la costruzione delle armi, l’agricoltura, la caccia, la navigazione, la medicina e l’arte dei giochi e degli spettacoli. […] La seconda luce, che ci permette di apprendere le forme naturali, è quella della conoscenza sensibile. A ragione è detta inferiore, perché comincia da ciò che è inferiore e si realizza con l’aiuto della luce corporea. Questa luce si divide in cinque parti in corrispondenza con i cinque sensi. […] La terza luce, che ci illumina per farci penetrare le verità intelligibili, è quella della conoscenza filosofica; essa è detta interiore, perché ricerca le cause interiori e nascoste, servendosi dei principi delle scienze e della verità naturale insiti nell’uomo per natura. Questa luce si divide in tre parti: razionale, naturale e morale. […] Il quarto lume che ci illumina riguardo alla verità che salva è quello della Sacra Scrittura. Esso è detto superiore perché conduce alle realtà più elevate, rendendo manifeste le verità che oltrepassano la ragione, e anche perché non è frutto di una nostra scoperta, ma ci viene rivelato discendendo dal «Padre della luce» [Lettera di Giacomo, 1,17]. Come chiarisce Bonaventura nel Prologo del commento alle Sentenze, la teologia è al vertice di tutti i saperi ed è subalternata solo alla rivelazione, in questo modo: mentre la Scrittura accoglie contenuti che dobbiamo credere per fede, la teologia considera gli stessi contenuti nella misura in cui si rendono intelligibili all’esercizio della ragione. Si ripropone, insomma, un modello tradizionale di rapporto tra fede e ragione, in cui il compito della razionalità è orientato alla chiarificazione delle verità di fede.
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino
La struttura della realtà L’ontologia delle creature
Il ruolo della materia in Tommaso e in Bonaventura
Bonaventura: la materia come puro principio di potenzialità
Luce, materia e forma nella creazione
La pluralità delle forme: dalla forma basilare alla forma sostanziale
Discussioni e dissensi
A differenza di quanto sostiene Tommaso nell’Ente e l’essenza (vedi p. 601), Bonaventura ritiene che ogni creatura (angeli compresi) abbia una struttura ilemorfica (come aveva insegnato il filosofo ebreo andaluso ibn Gabirol: vedi Unità 9, p. 575). Lo schema di partenza del ragionamento di Bonaventura non è troppo diverso da quello di Tommaso: solo Dio è assolutamente semplice; tutti gli enti creati – sia corporei, che spirituali – sono composti e ricevono l’essere da Dio, passando così dal poter esistere all’esistenza effettiva. Ciò su cui i due pensatori divergono è il ruolo della materia. Per Tommaso l’ilemorfismo poteva valere ancora per i corpi, ma non per le sostanze separate (gli angeli), che, essendo pure forme immateriali, si differenzierebbero dall’assoluta semplicità di Dio non perché composte di materia e forma, ma di essenza ed esistenza (la composizione-base di tutte le creature). Per Bonaventura la condizione creaturale non consiste solo nella potenzialità o nel ricevere l’essere da Dio, ma principalmente nella materialità: tutte le creature – sia corporee che spirituali – sono composte di forma e materia (anche se le sostanze separate hanno una materia diversa da quella fisica). Infatti insistendo sull’immaterialità degli angeli, come fa Tommaso, si rischia di assimilarli troppo alla natura semplice di Dio. Invece, a ben considerare, anche gli angeli rivelano vari livelli di composizione: ricevono l’essere da Dio, sono composti di essenza ed esistenza, hanno facoltà in potenza rispetto all’esercizio in atto di esse, e così via. Questi livelli di composizione, che si trovano negli angeli come in ogni altra creatura, presuppongono un principio di passività e potenzialità che ne stia a fondamento. Di qui il ruolo della materia, che Bonaventura intende in un senso più ampio di quello fisico (cioè in senso metafisico), ovvero come potenza passiva allo stato puro, assoluta ricettività, radicale assenza di forma e di atto. Per questo la materia è il puro principio indistinto di potenzialità e passività che vale allo stesso titolo per tutte le creature, corporee e angeliche. Per quanto riguarda la materia fisica di questo mondo, Bonaventura non ritiene che Dio l’abbia creata fin dall’inizio articolata, specificata e individuata nella molteplicità degli enti che vediamo. Le stesse parole con cui Dio ha dato inizio al mondo secondo il racconto biblico – «Sia fatta la luce!» – significano che la luce è il principio primo informante, che dà alla materia un livello basilare di forma, la «forma della corporeità» (forma corporeitatis), che determina la materia come astrattamente corporea, estesa e visibile (in ciò Bonaventura si ricollega alla «metafisica della luce» di Roberto Grossatesta: vedi p. 614). Su questo primo livello di formalità si devono poi sovrapporre ulteriori forme perché si abbia questo o quel corpo. Arriviamo così a una dottrina tipica del pensiero francescano, quella della pluralità delle forme. Infatti, se analizziamo la struttura di un vivente, troviamo che i quattro elementi sono finalizzati alla forma del corpo «misto» (noi diremmo «inorganico»), la forma del corpo misto è finalizzata a quella del corpo organico, questa all’anima vegetativa, alla quale si unisce, nei viventi superiori, l’anima sensitiva, sopra la quale si ha, nel caso dell’uomo, il coronamento dell’anima razionale. L’ultima forma non elimina le forme precedenti, ma le completa e le collega organicamente. Si ha dunque una stratificazione di forme, una sequenza ordinata che dalla forma basilare della corporeità giunge alla forma sostanziale. Ogni funzione o facoltà di un ente è correlata a una delle sue forme. La dottrina della pluralità delle forme fu oggetto di discussione nel XIII secolo e incontrò il dissenso dei pensatori che sostenevano l’unicità della forma sostan611
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ziale, come Tommaso d’Aquino, per il quale l’unica forma sostanziale dell’uomo è l’anima intellettiva, pura forma, che dà ogni determinazione alla materia e non vi trova una serie di forme imperfette da completare (vedi p. 602 s.). Un secondo punto di divergenza di Bonaventura rispetto all’ontologia di Tommaso è che il principio di individuazione è posto dal francescano nella forma finale che dà ordine ai livelli precedenti e non nella materia. La ripresa della teoria L’idea bonaventuriana che nella materia si stratifichi una pluralità di determiagostiniana nazioni formali si salda con la dottrina delle «ragioni seminali» (rationes semidelle ragioni seminali nales), presente già in Agostino, che, a sua volta, ricalcava la teoria stoica dei lògoi spermatikòi (vedi Unità 6, p. 369). Secondo questa teoria, nella materia si trovano potenzialmente semi o germi di cose che essa produrrà successivamente. Così Bonaventura può conciliare il dato di fede per cui Dio ha creato tutte le cose simultaneamente con l’esperienza del divenire, che mostra l’emergere di progressive determinazioni formali nelle realtà create. Per spiegare il divenire non è necessario postulare continui interventi divini, perché Dio all’atto della creazione ha inserito nella materia semi potenziali di formalità, che poi si traducono in atto.
Conoscenza ed estasi La teoria della conoscenza: tra illuminazione divina e astrazione
Le due fonti della conoscenza umana e la rivelazione
L’Itinerario della mente verso Dio: l’interpretazione allegorica dell’estasi di Francesco
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Nella sua teoria della conoscenza Bonaventura tenta una conciliazione tra teoria agostiniana dell’illuminazione divina e teoria aristotelica dell’astrazione dai dati sensibili. A un primo livello è il nostro pensiero che trae dall’esperienza sensibile i contenuti formali intelligibili grazie agli intelletti agente e possibile, che sono facoltà dell’uomo (e non separate, come voleva Averroè). Ma a questo punto entra in gioco un principio regolativo più alto dell’intelletto umano. Il fatto stesso che più persone possano conoscere le stesse identiche verità comporta un fondamento superiore ai singoli atti di conoscenza. Il fondamento che garantisce verità alla conoscenza è lo stesso che assicura realtà alle cose, ossia il Verbo divino, che contiene le «ragioni eterne» di tutto. Quindi il conoscere per un verso si riferisce agli oggetti esterni, dai quali ricava per astrazione le species sensibili e intelligibili, per un altro verso trova la sua verità negli archetipi eterni (rationes aeternae) che la mente divina ci comunica per illuminazione. Finché la nostra anima è pellegrina sulla terra (in statu viae) deve servirsi di queste due fonti del conoscere e non può attingere direttamente alle ragioni eterne, «a meno che non trascenda questo stato in virtù di una speciale rivelazione, come avviene in coloro che sono rapiti in estasi e nelle rivelazioni di Dio ad alcuni profeti». L’opera più nota di Bonaventura è un densissimo opuscolo mistico e filosofico, l’Itinerario della mente verso Dio, che egli concepì nell’ottobre 1259, quando si era ritirato in meditazione sul monte della Verna, oggi in provincia di Arezzo, nel luogo in cui san Francesco aveva avuto la visione di Cristo come un Serafino a sei ali e aveva ricevuto le stimmate. Bonaventura interpreta allegoricamente le ali come sei vie per giungere a Dio, che riflettono la progressione delle facoltà dell’anima (senso, immaginazione, ragione, intelletto, intelligenza e «apice della mente»). Così le due ali più basse indicano la ricerca di Dio nelle tracce (vestigia) che cogliamo per mezzo delle cose, ossia considerando l’ordine del mondo sensibile (cap. 1), e nelle cose, ossia considerando le fa-
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coltà sensibili stesse (cap. 2). Le due ali intermedie indicano le tracce di Dio nelle operazioni naturali della mente, ossia nelle facoltà superiori dell’anima (memoria, intelletto e volontà) che sono immagine della Trinità (cap. 3) e nelle azioni delle virtù «riformate dalla grazia», immagine dell’azione divina (cap. 4). Dopo aver contemplato Dio fuori di sé e in sé, l’anima cerca di contemplarlo al di sopra di sé, dapprima nell’essenza divina unitaria che si rivela nella nozione di puro essere (cap. 5) e poi nella natura trinitaria che si rivela nella nozione di bene (cap. 6). L’estasi mistica Solo a questo livello dell’itinerario può aprirsi il culmine dell’estasi mentale e come culmine mistica, in cui «è necessario che si abbandonino tutte le operazioni dell’intelletdella conoscenza to e che l’apice dell’affetto sia per intero trasportato e trasformato in Dio. Questa condizione è mistica e del tutto segreta; non la può conoscere chi non la sperimenta, e non la riceve se non chi la desidera». È un’esperienza che, trascendendo ogni sapere e ogni dicibilità, può essere solo indicata con le parole di Dionigi Areopagita come «luminosa caligine di un sapiente silenzio». «Tutto ciò – conclude Bonaventura – fu svelato al beato Francesco nel rapimento dell’estasi sulle alture del monte» (cap. 7). L’opera, redatta in uno stile sintetico e potente, nasce dall’autentica esperienza contemplativa di Bonaventura e si rivela intessuta di spunti agostiniani e dionisiani (oltre a quelli biblici e francescani). L’itinerario verso Dio di Bonaventura
Luoghi e oggetti
Fuori di sé Vestigia
In sé Operazioni naturali della mente
Al di sopra di sé Natura di Dio
Azioni dell’anima Ricerca di Dio nell’ordine della realtà sensibile Ricerca di Dio nell’ordine delle facoltà sensibili Ricerca di Dio nelle facoltà superiori (memoria, intelletto, volontà) Ricerca di Dio nelle azioni delle virtù «riformate dalla grazia» Ricerca di Dio nell’essenza divina unitaria: puro essere Ricerca di Dio nell’essenza divina trinitaria: nozione di bene Estasi mentale e mistica
2 Scienze naturali e matematica
Roberto Grossatesta a Oxford: geometria e metafisica della luce Fortissima fu la presenza francescana a Oxford, il secondo grande polo di studi filosofici e teologici del XIII secolo. Questa università, fondata poco dopo quella di Parigi, si caratterizzò per una marcata attenzione verso le scienze della natura e la matematica. I nuovi testi aristotelici qui si incontrarono con una consolidata attenzione per il platonismo di Chartres e per l’astronomia, la geometria e l’ottica degli arabi. 613
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In questo senso una figura di spicco è Roberto Grossatesta (1170 ca. - 1253), che dopo aver studiato a Oxford e a Parigi tornò in Inghilterra, dove fu maestro di Arti liberali e teologia. Pur non essendo egli stesso un frate minore, insegnò teologia anche nello studium francescano di Oxford (1229-1235) e divenne infine vescovo di Lincoln (capoluogo della diocesi di cui anche Oxford faceva parte). Sapeva il greco (tradusse l’Etica nicomachea di Aristotele, commenti bizantini e gli scritti dello pseudo-Dionigi), commentò opere aristoteliche, dionisiane e libri biblici, e scrisse vari opuscoli (tra cui La luce, Le linee, gli angoli e le figure e L’arcobaleno). Nel suo pensiero confluiscono temi neoplatonici, aristotelici e apporti dei trattati di ottica arabi. La metafisica della luce Schematicamente la sua teoria è la seguente: la creazione divina è iniziata con e l’analisi matematica un punto luminoso, dalla cui irradiazione è derivato il mondo sensibile; la ludella realtà fisica ce è la «prima forma corporea» che, in continua espansione, ha mosso la materia prima fino a costituire le dieci sfere dell’universo: le nove sfere celesti, perfette e inalterabili, e la sfera sublunare, dove sono mescolati i quattro elementi che danno origine alle cose corruttibili. Questa sorta di sintesi tra la cosmogonia della Genesi e la cosmologia del Sul cielo di Aristotele, definibile come «metafisica della luce», è notevole per le sue ricadute epistemologiche: un universo concepito come estensione tridimensionale prodotta dalla moltiplicazione secondo rapporti numerici rende, infatti, la realtà fisica pienamente compatibile con l’analisi matematica offerta dall’ottica. Inequivocabili queste parole dell’opuscolo su Le linee, gli angoli e le figure: «L’utilità di considerare le linee, gli angoli e le figure è grandissima, perché senza di essi non si può conoscere la filosofia naturale. […] Infatti, tutte le cause degli effetti naturali sono date da linee, angoli e figure. Diversamente sarebbe impossibile conoscere ➥ Percorso tematico, p. 633 il loro perché». Grossatesta: neoplatonismo, aristotelismo, teorie ottiche arabe
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Ruggero Bacone: riforma del sapere e rinnovamento religioso L’influenza di Grossatesta si fece sentire su un’intera generazione di pensatori inglesi, il più importante dei quali è Ruggero Bacone.
La vita e le opere Prima di diventare francescano, Ruggero Bacone (1214 ca. - 1292) aveva studiato a Oxford e a Parigi. Dal 1240 al 1250 insegnò alla facoltà delle Arti parigina, commentando gran parte delle opere di Aristotele. Successivamente passò a insegnare a Oxford. Lo spartiacque nella vita di Bacone è il 1257, l’anno in cui si fece francescano, aderendo alla corrente degli Spirituali. Di qui in poi dedicò tutta la sua produzione matura all’ideale intreccio tra riforma del sapere e rinnovamento sociale e religioso. Per il suo radicalismo profetico e riformatore, spesso Bacone dovette fare braccio di ferro con i suoi superiori. Ottenne tuttavia l’appoggio di papa Clemente IV
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(1264-1268) e sotto l’invito di questo pontefice compose i suoi tre scritti maggiori – Opus maius, Opus minus e Opus tertium – completati nel 1267 e intesi come introduzione a un progettato Scriptum principale in cui riorganizzare il sapere, indicando l’accordo fra sapere scientifico oxoniense e Sacra Scrittura. La morte di Clemente IV (1268) fece mancare un determinante appoggio a Bacone, che, inviso al suo stesso ordine e presso la gerarchia ecclesiastica, conobbe le limitazioni di residenze coatte. Dell’ultimo periodo sono due opere violentemente polemiche (Compendio di filosofia, 1272; Compendio di teologia, 1290-1292) e studi di grammatica greca ed ebraica.
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino Contro il principio di autorità
Una riforma del sapere per la riforma della civiltà cristiana
La gerarchia dei saperi e la scienza sperimentale
Dimostrazione argomentativa ed esperienza
Esperienza esterna e interna
Conoscere e trasformare la natura
A Parigi, negli anni quaranta, Bacone era stato tra i primi a commentare opere aristoteliche. In seguito, tuttavia, aveva preso le distanze da questo modo di concepire gli studi filosofici. A suo avviso, l’enfasi posta sul principio di autorità e la mancanza di rigore scientifico stavano indebolendo dall’interno l’intera società cristiana, rendendola incapace di fronteggiare adeguatamente le nuove sfide politiche, sociali e culturali. In un mondo in rapida trasformazione (sviluppo dell’economia mercantile, nascita degli Stati nazionali, pressione di Saraceni e Tartari ai confini) e forse prossimo agli scenari apocalittici previsti da Gioacchino da Fiore per il 1260 (vedi Unità 9, p. 563 s.), si rendeva necessario un cambiamento della società cristiana fondato su una riforma degli studi e del sapere. Non più le discipline scolastiche chiuse in se stesse come infecondi edifici di parole, ma una scienza rigorosa e sperimentale, capace di interpretare il mondo e di trasformarlo, in modo da liberare gli uomini da sofferenze e ingiustizie e raggiungere il fine unitario voluto da Dio. L’ideale di una riforma della civiltà cristiana attraverso la scienza era inoltre finalizzato, nelle intenzioni del francescano, a mostrare anche a musulmani, ebrei e miscredenti il valore superiore del cristianesimo. Bacone non arriverà mai a realizzare un progetto così ambizioso. Tutte le sue opere, in fondo, sono voluminosi abbozzi preliminari alla stesura dell’enciclopedia sistematica. Ciò non toglie che contengano preziose indicazioni di metodo e risultati di puntuali indagini scientifiche. Secondo l’ideale baconiano il sapere ha una struttura gerarchica unificante, in cui ogni scienza dipende dai principi di una scienza superiore e la rivelazione biblica è la fonte di ogni scienza. La Bibbia è come la radice di un sapere che dispiega rami e frutti nelle discipline filosofiche e giuridiche. Gli strumenti del sapere sono per un verso le lingue (bibliche, come l’ebraico e il greco, e tecniche come l’arabo), per un altro verso le discipline geometrico-matematiche, in special modo l’ottica. Con questi strumenti è possibile organizzare l’autentica «scienza sperimentale» (scientia experimentalis). Le vie della conoscenza sono due: la dimostrazione argomentativa e l’esperienza. Argomentare significa esprimere linguisticamente operazioni mentali secondo regole di concatenazione logica. Ma la logica non ci dà la certezza che nasce da un rapporto diretto con la realtà. Questo rapporto si ha solo attraverso l’esperienza. Ma cosa significa esperienza? Bacone distingue tra esperienza esterna all’anima (ossia esperienza degli oggetti che ci circondano, ottenuta a partire dai sensi) ed esperienza interna, che è la nostra apertura all’illuminazione divina. Entrambe le forme di esperienza sono immediate. Quella interna è per molti versi ricalcata sul modello agostiniano. L’esperienza esterna parte dalla percezione sensibile di un fenomeno; questo deve essere riprodotto più volte secondo le tecniche disponibili allo scienziato (che può utilizzare anche quelle artes mechanicae disprezzate dalla maggioranza dei filosofi); a questo punto è possibile dare del fenomeno una spiegazione scientifica che lo ricolleghi coerentemente ai principi delle scienze superiori. Nel disegno baconiano l’esperienza non si limita a verificare come è fatta la realtà, ma la vuole trasformare. In questo senso va l’interesse di Bacone per saperi operativi, come medicina e alchimia, che possono direttamente giovare all’uomo (portando nuove cure e aumentando le ricchezze). Nel progettare que615
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sta connessione tra conoscenza dei segreti della natura e trasformazione di essa, al fine di rinnovare le condizioni di vita dell’umanità, Bacone spesso assume toni profetici e anticipa sviluppi scientifici e tecnologici di secoli ben successivi. Indicativo in tal senso è un passo dei Segreti della tecnica e della natura, che sembra prefigurare gli esperimenti di Leonardo sul volo o la fantascienza di Jules Verne.
T14
Le straordinarie opere della tecnica Ruggero Bacone, I segreti della tecnica e della natura, 4
Parlerò ora innanzi tutto delle straordinarie opere della tecnica e della natura, nelle quali non vi è nulla di magico, e quindi ne indicherò le cause e il modo di realizzarle, affinché si comprenda che ogni potere magico è inferiore e indegno rispetto a queste opere. Prima di tutto parliamo delle opere ottenute solo per mezzo della rappresentazione e del ragionamento inventivo. Si possono costruire strumenti per navigare senza rematori in modo che le navi, sia per mare che lungo i fiumi, siano condotte con la guida di un solo marinaio ad una velocità maggiore che se fossero piene di rematori. Così pure si possono costruire carri che si muovano ad una velocità straordinaria senza essere trainati da animali; di questo genere pensiamo dovessero essere i carri falcati con i quali combattevano gli antichi. Si possono fare anche congegni per volare, in modo che un uomo seduto nel centro della macchina azioni un congegno per mezzo del quale delle ali costruite artificialmente battano l’aria, come se si trattasse di un uccello che vola. Si può pure fare un attrezzo piccolo di dimensioni, ma atto a sollevare o calare pesi pressoché smisurati, e in certe situazioni nulla sarebbe più utile di ciò. Infatti, con un attrezzo non più grande di tre dita in altezza e altrettanto in larghezza un uomo potrebbe liberare se stesso e i propri compagni dal pericolo di qualsiasi tipo di carcere facendosi sollevare o calare. Si può fare con grande facilità anche uno strumento mediante il quale un solo uomo possa attrarre a sé mille uomini a forza contro la loro volontà, e allo stesso modo potrebbe attrarre qualsiasi altra cosa. Si possono pure fare strumenti per camminare sul fondo del mare o dei fiumi senza pericoli per la propria vita.
Nel sistema del sapere tratteggiato nella quarta parte dell’Opus maius il principio unificante è costituito dal metodo matematico. Infatti, ogni scienza ha una sua materia, ossia un proprio campo di indagine distintivo, ma per essere scienza deve ricondurlo alla forma matematica, che permette di controllare ogni scienza. L’autentico sapere rigoroso non è strutturato dalla logica sillogistica di Aristotele (derubricata da «strumento» di tutto il sapere a parte accidentale della filosofia), ma dagli assiomi della geometria euclidea. La scienza della quantità non è soltanto il fondamento delle discipline del quadrivio, ma è il sapere primo e trasversale che spiega la realtà, poiché la realtà stessa ha una struttura profonda di carattere matematico (questo matematismo ha radici bibliche: nel libro della Sapienza, 11,20, è detto che Dio «regolò ogni cosa secondo peso, numero e misura»). In linea con la dottrina di Grossatesta, Ruggero Bacone ritiene che l’ottica geometrica che spiega la diffusione della luce sia applicabile a ogni forma di causalità. Così nella quinta parte dell’Opus maius si mostra come tutta la realtà possa derivare da Dio in termini di leggi ottico-geometriche. La scienza morale Ma l’intero edificio del sapere scientifico, costruito sperimentalmente e con metodo matematico, è al servizio di un più alto sapere, che è quello morale, l’unico in grado di indirizzare il nostro sapere e il nostro fare. La nuova scienza morale, alla quale è dedicata la settima parte dell’Opus maius, si articola in due parti. La
Il metodo matematico principio unificante del sapere
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prima è rivolta ai fondamenti teorici di virtù e doveri; la seconda è rivolta agli aspetti pratici della vita morale ed è guidata da quell’arte della persuasione della retorica antica (già applicata da Seneca alla morale) che produce l’intima adesione ai valori ideali. Il sistema del sapere in Bacone
Rivelazione biblica: fonte di ogni scienza Sapere Strumenti del sapere Lingue
Discipline geometrico-matematiche Scienza sperimentale
Dimostrazione argomentativa (logica)
Esperienza interna ed esterna
Conoscenza della realtà
Il lascito: sapere operativo, esperienza e ampliamento dell’orizzonte teoretico
➥ Sommario, p. 620
Trasformazione della realtà (medicina; alchimia)
Del progetto baconiano non dobbiamo enfatizzare le consonanze, solo apparenti, con la scienza sperimentale galileiana e la scienza moderna in genere. Del resto Bacone, che spese la sua vita a costruire il progetto di una ipotetica riforma del sapere (anche operativo), alla fine non realizzò le meraviglie che aveva prefigurato. È tuttavia importante il suo superamento di un sapere puramente contemplativo, in direzione di un sapere operativo, affidato anche all’industria manuum («attività manuale»), in grado di modificare la natura per il vantaggio degli uomini. Su un piano più generale, sono poi rilevanti il richiamo all’esperienza diretta e l’interesse per ogni sorta di fenomeno: il primo condurrà al primato della conoscenza intuitiva su quella astrattiva, difeso da grandi pensatori francescani delle generazioni successive, come Duns Scoto e Ockham; il secondo è in piena sintonia con lo spirito francescano di attenzione e amore per tutti gli aspetti del mondo creato.
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo I luoghi della filosofia nel XIII secolo Sede di uno studio teologico retto dai francescani. Vi insegnarono Grossatesta e Bacone. Quest’ultimo probabilmente vi morì nel 1292 Vescovado a cui appartiene Oxford
Vi nacque nel 1175 Roberto Grossatesta Vi nacque, non sappiamo quando, Boezio di Dacia. Di lui si perdono le tracce dal 1280
Dacia
Lincoln Oxford
Vi nacque nel 1214 circa Ruggero Bacone
Llchester
Stradbrock
Brabante
Vi nacque nel 1235 circa Sigieri di Brabante
Colonia
Sede di università dove fu più acceso il conflitto fra ragione e fede. Vi insegnarono teologia Alberto Magno, Bonaventura, Tommaso. Dal 1266 al 1280 vi furono maestri delle Arti Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia. Vi trascorsero un periodo di studio Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone. Nel 1277 il vescovo Tempier vi condannò 219 tesi che circolavano nell’insegnamento universitario
Sede di uno studio teologico retto dai domenicani, fondato da Alberto Magno con l’aiuto di Tommaso. Vi morì nel 1280 Alberto Magno
Parigi
Lione
Vi nacque nel 1217 circa Bonaventura Orvieto Civita di Bagnoregio Roccasecca Montecassino
Vi morì nel 1274 durante un concilio Bonaventura
Napoli
Vi compì i primi studi Tommaso
Vi morì presso la corte pontificia fra il 1281 e il 1284 Sigieri di Brabante
Vi morì nel 1274 Tommaso Vi nacque nel 1224-1225 circa Tommaso
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino Suggerimenti bibliografici Sulle traduzioni filosofiche e sulla nascita e la struttura delle università medievali si possono leggere: L. Bianchi, L’acculturazione filosofica dell’Occidente e Le università e il decollo scientifico dell’Occidente, in L. Bianchi (a cura di), La filosofia nelle università. Secoli XIII-XIV, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1997, pp. 1-23 e 25-62; J. Verger, Istituzioni e sapere nel XIII secolo, Jaca Book, Milano 1996. Ricostruisce il dibattito sull’unicità dell’intelletto A. Petagine, Aristotelismo difficile. L’intelletto umano nella prospettiva di Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, Vita e Pensiero, Milano 2004. Per una panoramica complessiva su Tommaso vedi S. Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, Laterza, Roma-Bari 200511. Per conoscere meglio Ruggero Bacone si può partire da F. Alessio, Introduzione a Ruggero Bacone, Laterza, Roma-Bari 20023. I brani antologizzati sono tratti da: Alberto Magno, Prologo della Fisica, trad. di L. Bianchi (con modifiche), in M. Bettetini, L. Bianchi, C. Marmo, P. Porro, Filosofia medievale, Cortina, Milano 2004, p. 235. Boezio di Dacia, Il sommo bene, trad. di S. Perfetti, testo latino in Boethius de Dacia, Opuscula: De aeternitate mundi, De summo bono, De somniis, edizione a cura di N.G. Green-Pedersen e J. Pinborg, Gad, Copenaghen 1976, p. 369 (T2); pp. 370-371 (T3); pp. 371-372 e 375 (T4). Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, trad. it. di S. Perfetti, testo latino in Sancti Thomae de Aquino, Summa theologiae, Editiones Paulinae, Cinisello Balsamo (Milano) 19882 (T5, T6, T12). Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de potentia Dei, trad. di L. Tuninetti (con modifiche), in Id., La potenza di Dio, a cura di A. Campodonico, Nardini, Firenze 1991-1994-1995, 3 voll. Tommaso d’Aquino, De unitate intellectus, trad. it. di S. Perfetti, testo latino in Sancti Thomae de Aquino, Opera omnia iussu Leonis XIII P.M. edita, Editori di San Tommaso, Roma 1976, t. 43. Tommaso d’Aquino, De regimine principum, in Opera omnia, cit., t. 42. Bonaventura da Bagnoregio, De reductione artium ad theologiam, trad. di S. Martignoni (con modifiche), in Id., Itinerario della mente in Dio. Riconduzione delle arti alla teologia, a cura di L. Mauro, Città Nuova, Roma 1996. Ruggero Bacone, De secretis operibus artis et naturae, trad. con modifiche, da Id., La scienza sperimentale, a cura di F. Bottin, Rusconi, Milano 1990. Il brano di G. Fioravanti citato a p. 587 è tratto da L’aristotelismo latino, in Storia della Filosofia, 2. Il Medioevo, a cura di P. Rossi - C.A. Viano, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 300. Il brano di Aristotele citato a p. 598 è tratto da Aristotele, La metafisica, trad. di C.A. Viano, UTET, Torino 1992.
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Sommario 1. IL XIII
SECOLO: LE TRADUZIONI E LE UNIVERSITÀ
Nel XIII secolo prosegue il rinnovamento culturale dell’Occidente latino, favorito dall’espansione economica delle città e dalla diffusione degli ordini mendicanti (francescani e domenicani). Le due maggiori novità culturali sono il movimento delle traduzioni e la nascita delle università, articolate nelle facoltà di Arti, Diritto, Medicina e Teologia. [parr. 1-2] Si rinnova anche il metodo d’insegnamento con le due forme della lectio e della disputa. [par. 3] 2. L’EREDITÀ
DI
ARISTOTELE; ALBERTO MAGNO
Aristotele era stato recepito per molti secoli attraverso la mediazione di autori di orientamento neoplatonico. Nel XIII secolo, la riscoperta di alcuni suoi testi e teorie, come quella sull’eternità del mondo, mostra che la filosofia può essere autonoma e perfino inconciliabile rispetto alla teologia cristiana. Nonostante alcuni tentativi di censura, nel 1255 gli statuti dell’università di Parigi prescrivono la lettura integrale delle opere di Aristotele agli studenti delle «Arti» (ossia di filosofia). [par. 1] Uno dei primi a riscrivere, integrare e completare l’eredità aristotelica è Alberto Magno, che ne approfondisce gli aspetti naturalistici e sostiene la tesi della reciproca autonomia di filosofia e teologia, nei metodi e negli ambiti di indagine. [par. 2] 3. GLI «ARISTOTELICI
RADICALI»
La distinzione di ambiti fra teologia e filosofia viene interpretata in maniera radicale da alcuni filosofi «parigini», in particolare da Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, che giungono a sostenere la piena autonomia della ragione naturale e del metodo di dimostrazione razionale rispetto alla fede della teologia. Nonostante i due non sostengano mai la cosiddetta dottrina della doppia verità, vengono però infine condannati. Nel 1277 a Sigieri è imputato il suo monopsichismo mentre a Boezio l’affermazione che la vera beatitudine dell’uomo consiste nella conoscenza teoretica e in una condotta virtuosa, e che il filosofo può raggiungerle in questa vita. [parr. 1-2] 4. TOMMASO D’AQUINO
Allievo di Alberto Magno e professore di teologia a Parigi, Tommaso d’Aquino è il principale maestro domenicano. Il suo pensiero tiene conto delle tesi aristoteliche, ma le coniuga al peripatetismo arabo, in specie al neoplatonismo di Avicenna. Gli aspetti principali della sua dottrina sono: 1) la scientificità della teologia che assume i suoi principi dalla rivelazione (subalternatio scientiarum), ma opera attraverso dimostrazioni rigorose; [par. 1] 2) la dimostrazione dell’esistenza di Dio attraverso cinque prove a posteriori che partono dall’osservazione degli effetti del mondo fisico per risalire al620
la loro causa prima: moto, causa efficiente, possibile e necessario, gradi di perfezione, fini; [par. 2] 3) la definizione di Dio come puro essere sussistente creatore di tutti gli altri enti. A differenza degli altri enti, in Dio coincidono essenza ed esistenza. [par. 3] Per Tommaso le sostanze spirituali sono composte di sola forma mentre quelle corporee sono composte di materia e forma (è proprio la materia a determinare l’individualità degli enti corporei). [par. 4] Rispetto all’anima, Tommaso sostiene la teoria dell’unicità della forma sostanziale, secondo la quale l’intelletto non è separato in senso ontologico, come sosteneva invece Averroè. La conoscenza avviene grazie alla facoltà astrattiva dell’intelletto agente, che informa poi l’intelletto possibile; processo che mantiene un carattere individuale. In etica, Tommaso identifica la felicità perfetta con la contemplazione di Dio (contro gli aristotelici radicali). Egli cerca poi di mediare e riconciliare la dottrina etica di Aristotele con quella del cristianesimo, ovvero le virtù teologiche e quelle etiche della tradizione greca. [par. 5] Nella politica, Tommaso riprende la concezione aristotelica dell’uomo come animale sociale e politico, optando per una monarchia elettiva e controllata. Egli riconduce le leggi positive, ovvero le norme giuridiche, a una superiore legge naturale (in nome della quale ammette la disobbedienza civile); la legge naturale si riconduce alla legge eterna (la provvidenza), frutto della sapienza divina, di cui la Chiesa è interprete. [par. 6] 5. PARIGI
E
OXFORD
Nel XIII secolo si sviluppa un pensiero francescano che prosegue la tradizione agostiniana del neoplatonismo cristiano allontanandosi dall’aristotelismo. A Parigi Bonaventura da Bagnoregio afferma la superiorità della teologia sulla filosofia, sostiene l’ilemorfismo di tutte le sostanze e la pluralità delle forme, contro Tommaso, e adotta una concezione della materia come puro principio di potenzialità; recupera da Agostino la nozione di ragioni seminali. Nel suo Itinerario della mente verso Dio Bonaventura espone un cammino della mente verso Dio che, partendo dal mondo fisico, si chiude con l’estasi mistica. [par. 1] Il maestro dei francescani di Oxford è Roberto Grossatesta, a cui dobbiamo una sintesi cosmologica detta «metafisica della luce». [par. 2] Figura di spicco della teologia francescana in Inghilterra è Ruggero Bacone, la cui proposta per una riforma del sapere mette da parte gli argomenti di autorità per centrarsi invece sull’esperienza, adottando un modello matematico, e insistendo sulla capacità dell’uomo di trasformare la realtà grazie alla tecnica. [par. 3]
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino
Parole chiave Commento. Dalla lezione analitica condotta su testi autorevoli (lectio) si sviluppò il genere letterario del commento, che della lectio conservava le tre funzioni: suddivisione del testo, analisi letterale, interpretazione dottrinale. Credo. La professione di fede che sintetizza i principali dogmi («articoli di fede») cattolici ritenuti oggetto della rivelazione (unicità e trinità divina, creazione, natura di Cristo ecc.). Disputa. Nelle università medievali si tenevano dispute accuratamente strutturate intorno a quesiti dilemmatici («Il mondo è eterno o no?»). All’esposizione degli argomenti pro e contro seguiva la soluzione autorevole del maestro.
autori. Si articolava in: suddivisione del testo, analisi letterale, interpretazione dottrinale. Legge eterna / naturale / positiva. La prima è la sapienza divina che dispone l’ordine delle cose (la provvidenza); la seconda esprime l’inclinazione al bene naturale; la terza indica le norme giuridiche valide nelle singole società. Tommaso afferma che in caso di conflitto fra questi due ultimi ordini gli uomini devono seguire la legge naturale, di grado superiore. Maestro. Appellativo che nelle università medievali veniva assegnato a chi aveva conseguito la laurea, il più alto titolo di studio. Una volta ottenuta l’abilitazione all’insegnamento (licentia docendi) si diventava maestro effettivo (magister actu regens).
Dottrina della doppia verità. Dottrina che afferma la simultanea verità di proposizioni contraddittorie, una stabilita per mezzo della ragione filosofica e l’altra accettata per fede. È stata erroneamente attribuita sia ad Averroè che agli aristotelici radicali Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia.
Metafisica della luce. Teoria di Roberto Grossatesta secondo cui la struttura della realtà corporea si fonda sulla propagazione del punto luminoso, analizzabile in termini geometrici e ottici.
Ente. Dal latino ens, indica «ciò che è». Da Aristotele in poi l’«ente in quanto ente» è stato l’oggetto principale dell’indagine metafisica. Gli scolastici vi distinguono due componenti: l’essenza e l’esistenza.
Monopsichismo. Parola composta dai termini greci mònos («solo, uno») e psychè («anima»): indica la teoria che afferma l’esistenza di una sola e unica anima universale cui gli individui partecipano. Con questo termine si indica la tesi di Averroè sull’intelletto possibile (e agente) unico.
Esperienza. Nel pensiero di Ruggero Bacone incontriamo due forme distinte di esperienza: l’una, detta esterna, concernente il contatto sensibile con la realtà esterna; l’altra, detta interna, indicante l’apertura all’illuminazione divina. Essenza / Esistenza. Le due componenti che si possono distinguere in un ente. Si può infatti pensare alla natura di qualcosa, senza che la cosa esista realmente. Dunque l’essenza non implica necessariamente l’esistenza. Secondo Tommaso l’esistenza è la traduzione in atto della potenzialità dell’essenza. In una formula: essenza : esistenza = potenza : atto. Intelletto agente / Intelletto possibile. L’intelletto (termine che corrisponde al greco nous) è la facoltà di pensare i puri concetti. Da Aristotele e dai suoi commentatori gli scolastici ricavano la distinzione fra intelletto agente (o attivo) e intelletto possibile (o potenziale o passivo): il primo opera sulle forme dell’immaginazione rendendole intelligibili in atto; il secondo riceve le forme intelligibili. Lectio. Nelle università medievali era la lezione cattedratica in cui si affrontava la lettura e l’analisi degli
Prove a posteriori. Dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio che iniziano dall’osservazione degli effetti naturali per risalire ai principi primi o cause: permettono di risalire da ciò che è primo per noi e direttamente osservabile a ciò che è primo secondo l’ordine dell’essere. Quaestio. Genere letterario medievale che trasponeva in forma scritta la consuetudine didattica della disputa. Ragione naturale. La facoltà umana capace di conoscere le cose attraverso il discorso e i processi dimostrativi (dal termine latino ratio che, come il greco lògos, significa «discorso», «spiegazione», «calcolo» o «rapporto»). Si distingue dall’accettazione per fede di verità ricevute da una rivelazione religiosa. Virtù. Nel pensiero cristiano si afferma la distinzione fra virtù teologali o sovrannaturali, infuse da Dio (fede, speranza e carità) e virtù etiche o umane, fra le quali quattro (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) sono dette «cardinali» ossia fondamento di tutte le altre. 621
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Questionario IL XIII 1
2
SECOLO: LE TRADUZIONI E LE UNIVERSITÀ
Spiega in un massimo di 3 righe quale contributo ha dato alla vita intellettuale del XIII secolo la nascita degli ordini mendicanti. Quale funzione hanno svolto i centri multiculturali e plurilinguistici nella cultura del XIII secolo? E quale ruolo per la filosofia in particolare? (max 2 righe)
L’EREDITÀ 3
4
DI
14
Lavoriamo sui testi 15
Esponi il metodo di Alberto Magno che trovi formulato in T1. (max 5 righe)
16
Grazie a quale facoltà l’uomo può raggiungere il sommo bene possibile per se stesso, secondo Boezio in T2? (max 1 rigo)
17
Come argomenta Boezio in T3 e T4 il fatto che la conoscenza del vero e il compimento del bene sono, insieme, il sommo bene per l’uomo? (max 4 righe)
18
Tommaso indica due motivi contro la scientificità della teologia in T5. Quali sono? (max 4 righe)
19
Tommaso, in T7, esplicita il passaggio da ciò che muove a ciò che è mosso, ossia da ciò che è in atto a ciò che è in potenza con un esempio preso dalla natura. Quale? (max 3 righe)
20
In rapporto a quali cose in T8 Tommaso dice che una cosa naturale è in atto parzialmente? (max 3 righe)
21
In base a quale premessa Tommaso trae la conseguenza che «il pensare è conforme al modo di chi pensa» in T9? (max 1 rigo)
22
Per quali motivi l’animale uomo deve vivere in società mentre per gli altri animali questo non è necessario, secondo Tommaso in T10? (max 3 righe)
23
Qual è il fine ultimo di ogni legislatore secondo Tommaso in T11? (max 1 rigo)
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In T13, secondo Bonaventura, riguardo a che cosa ci illumina la luce dell’arte meccanica? (max 2 righe)
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Elenca i congegni meccanici che in T14 Bacone indica come realizzabili. (max 5 righe)
ARISTOTELE; ALBERTO MAGNO
Quali aspetti dell’aristotelismo, prima in ombra, vennero alla luce nel XIII secolo? (max 2 righe) In un massimo di 4 righe spiega qual è secondo Alberto Magno il rapporto fra teologia e filosofia.
GLI «ARISTOTELICI
RADICALI»
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Perché alcuni maestri dell’università di Parigi furono detti «aristotelici radicali»? (max 2 righe)
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In che senso la verità della scienza è relativa secondo Boezio di Dacia? (max 3 righe)
TOMMASO D’AQUINO 7
Perché la teologia è una scienza secondo Tommaso d’Aquino? In quale rapporto stanno in essa i principi della fede e le dimostrazioni della ragione? (max 4 righe)
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Perché Tommaso sceglie di dimostrare l’esistenza di Dio a posteriori invece che a priori? (max 2 righe)
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Quali sono le caratteristiche di Dio dal punto di vista ontologico per Tommaso? (max 3 righe)
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PARIGI
Per Tommaso la forma sostanziale è unica o plurale? Quali sono i motivi della sua scelta teorica? (max 4 righe) In un massimo di 8 righe esponi la teoria politica tommasiana. E
OXFORD
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Quali sono le caratteristiche della teologia francescana? Quali le maggiori differenze fra le università di Parigi e di Oxford? (max 4 righe)
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Sintetizza in un massimo di 4 righe le critiche di Bonaventura alla filosofia di Aristotele.
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Perché Bacone intraprende una riforma degli studi e del sapere? (max 2 righe)
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Laboratorio di lettura Somma teologica: la verità secondo Tommaso d’Aquino Nel pensiero arcaico greco la verità (alètheia) è prevalentemente intesa come «non nascondimento» delle cose, ossia come una caratteristica degli enti in quanto si manifestano a noi. Con Platone e Aristotele si attesta una nozione della verità come corrispondenza del pensiero e del linguaggio rispetto alla realtà. Nel Cratilo Platone scrive: «è vero il discorso che dice le cose come stanno, falso quello che le dice come non sono» (385 B). Aristotele accetta questa impostazione, precisando che «il vero e il falso non sono nelle cose […], ma solo nel pensiero » (Metafisica, 6,4,1027b25-27). Questo tuttavia non significa che sia un criterio interno al pensiero a determinarne la verità; piuttosto sono vere quelle predicazioni che collegano quanto è collegato anche nella realtà (9,10). In un orizzonte speculativo monoteistico e creazionistico queste nozioni devono essere ripensate tenendo conto che la mente di Dio contiene gli archetipi di tutti gli enti naturali e che questi dipendono ontologicamente da Dio. Analizzeremo qui un brano della prima parte della Somma teologica (1265-1268), in cui Tommaso torna sul tema della verità, che aveva già trattato diffusamente nelle Questioni sulla verità (1256-1259). Tipico della quaestio scolastica è introdurre in forma dilemmatica il problema da discutere. Qui si inizia col chiedersi se la verità dipenda dal fatto che le cose sono pensate o (alternativa sottintesa) se non sia piuttosto una proprietà intrinseca delle cose stesse.
La verità è nelle cose o nel pensiero? Domanda di partenza: la verità è solo nell’intelletto o anche nella realtà? Tre argomenti in contrario Primo argomento (secondo Agostino): vero è ciò che è
Commento e interpretazione
Ci si chiede se la verità sia solo nell’intelletto . 1
Sembra che la verità non sia solo nell’intelletto, ma piuttosto nelle cose. [A] 1. Infatti Agostino rifiuta questa definizione del vero: «vero è quello che si vede», perché, se così fosse, le pietre che sono nelle viscere della terra non sarebbero vere pietre, dato che non si vedono. E rifiuta anche quest’altra definizione: «vero è ciò che è così come appare a chi lo conosce, se egli vuole e può conoscerlo», perché ne segue che, se nessuno potesse cono-
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A. Secondo l’architettura tipica della quaestio scolastica, al dilemma iniziale seguono alcuni argomenti che sembrerebbero favorevoli alla soluzione negativa (la verità non sarebbe solo nell’intelletto, ma piuttosto nelle cose). Dei tre argomenti in contrario iniziali, il primo (da Agostino) e il terzo (da Aristotele) sostengono, almeno in apparenza, che la verità sarebbe piuttosto in rebus; il secondo (tesi presocratiche desunte da Aristotele) mostra le aporie cui si va incontro sostenendo che la verità sia in primo luogo nei pensieri.
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Secondo argomento (tesi presocratiche): vero è ciò che appare
Terzo argomento (Aristotele): la verità è più nelle cose che nell’intelletto
Risposta-soluzione agli argomenti: il criterio della verità proviene dall’intelletto alle cose e non viceversa
scere, niente sarebbe vero. Allora definisce il vero così: «vero è ciò che è». E così sembra che la verità sia nelle cose e non nell’intelletto. [B] 2. Inoltre, tutto ciò che è vero, è vero in base alla verità. Dunque se la verità è solo nell’intelletto, niente sarà vero se non in quanto è pensato; ma questo è l’errore di filosofi antichi, che dicevano che è vero ciò che appare. Ne seguirebbe che affermazioni contraddittorie sarebbero simultaneamente vere, perché potrebbero sembrare simultaneamente vere a persone diverse. [C] 3. Inoltre, come sostiene Aristotele negli Analitici secondi [1,2, 72a29]: «Ciò che causa in altri una data proprietà, deve possederla anch’esso e in misura maggiore». Ma nelle Categorie [5, 4b8-9] il Filosofo afferma: «che sia vera o falsa un’opinione o un’espressione deriva dal fatto che una cosa sia o non sia». Dunque la verità è più nelle cose che nell’intelletto. [D] Ma al contrario in Metafisica 6 [4, 1027b25] Aristotele afferma che «il vero e il falso non sono nelle cose, ma nell’intelletto». [E] Rispondo che, come il termine «bene» esprime ciò verso cui tende la facoltà appetitiva, così il termine «vero» esprime ciò verso cui tende l’intelletto. Ma tra la facoltà appetitiva e l’intelletto, o qualsiasi altra facoltà conoscitiva, c’è questa differenza, che la conoscenza si ha perché il conosciuto è in chi conosce; l’appetizione invece si ha quando chi desidera tende alla cosa desiderata. Così il termine della facoltà appetitiva, che è il bene, è nella cosa desiderata, mentre il termine della conoscenza, che è il vero, è nell’intelletto stesso. Ora, come il bene è nella cosa che è in relazio-
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B. Il primo argomento in contrario («vero è ciò che è» e «non quello che si vede») è tratto da un passo dei Soliloqui (2,5) in cui Agostino sembra propugnare una concezione marcatamente realistica della verità, in opposizione a chi vorrebbe farla dipendere dalla constatazione dei sensi. Altrimenti le pietre nascoste nelle viscere della terra, pertanto inaccessibili alla nostra percezione diretta, non sarebbero vere pietre. C. Il secondo argomento in contrario esplora le aporie che conseguono all’ipotesi opposta: se la verità non è nelle cose, allora è nei pensieri, ossia nel fatto che pensiamo le cose («niente sarà vero se non in quanto è pensato»). Ma in questa prospettiva la verità si ridurrebbe all’apparenza e all’opinione. Si avrebbe, così, una deriva relativistica, in cui più individui penserebbero contemporaneamente come vere delle assunzioni contraddittorie, violando così il principio di non contraddizione (come si preciserà nella replica finale a questo argomento, Tommaso ha qui in mente la confutazione logica delle posizioni relativistiche in Metafisica 4,5). Probabilmente Tommaso pensava proprio a Protagora, conosciuto attraverso l’esposizione aristotelica e forse anche agli accademici scettici, conosciuti attraverso Agostino. D. Il terzo argomento in contrario è costruito collegando due affermazioni aristoteliche: se (i) la causa possiede in misura maggiore quella proprietà che essa conferisce ai suoi effetti (Analitici secondi) e se (ii) la verità o falsità di un pensiero o di un’espressione dipendono dal fatto che una cosa è o non è (Categorie), allora la verità sembra essere in primo luogo nelle cose. E. Il «sed contra» («ma al contrario») è un momento rituale della quaestio scolastica, nel quale viene riportata, ma non discussa, una citazione autorevole che contraddice bruscamente gli argomenti iniziali. F. Il respondeo è il cuore della quaestio, in cui il magister avanza la propria soluzione. Per prima cosa Tommaso distingue il tipo di relazione con l’oggetto propria delle facoltà cognitive da quella che è propria delle facoltà appetitive: negli atti cognitivi (tra i quali l’intelletto è il più eminente) «cognitum est in cognoscente», ossia, la forma dell’oggetto conosciuto è compiutamente recepita dal soggetto conoscente (Tommaso intende, aristotelicamente, il conoscere come un «recepire le forme»); negli atti appetitivi, invece, «chi desidera tende verso la
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Corollario: l’oggetto conosciuto ha rapporti essenziali o accidentali con l’intelletto Conseguenza: la verità è in primo luogo nell’intelletto e in secondo luogo nelle cose
ne alla facoltà appetitiva e, per questo, la nozione di bene proviene alla facoltà appetitiva dall’oggetto, tanto che essa si dice buona in quanto tende al bene; così, essendo il vero nell’intelletto in quanto l’intelletto si adegua alla cosa conosciuta, necessariamente la nozione di vero proviene alla cosa conosciuta dall’intelletto, di modo che anche la cosa conosciuta si dice vera per il rapporto che ha con l’intelletto. [F] Ma l’oggetto conosciuto può avere con l’intelletto rapporti essenziali o rapporti accidentali. Ha rapporto essenziale con quell’intelletto dal quale dipende ontologicamente; accidentale con quell’intelletto dal quale può essere conosciuto. Come se dicessimo che una casa ha una relazione essenziale con la mente del suo architetto, ma una relazione accidentale con un intelletto da cui non dipende. [G] Ora, una cosa non si giudica in base a ciò che le inerisce accidentalmente, ma in base a ciò che le inerisce essenzialmente. Quindi ciascuna cosa si dice vera in assoluto per il rapporto che ha con l’intelletto da cui dipende. Ne consegue che i prodotti delle arti si dicono veri in relazione al nostro intelletto; vera si dice, infatti, quella casa che riproduce la forma che è nella mente dell’architetto; vere le parole, quando significano un pensiero vero. Così le cose naturali si dicono vere nella misura in cui realizzano la somiglianza delle specie che sono nella mente di Dio: per esempio, si dice vera pietra, quella che realizza la natura propria della pietra, secondo la concezione preesistente nella mente di Dio. Quindi, la verità in primo luogo è nell’intelletto, in secondo luogo nelle cose, per la relazione che esse hanno con l’intelletto come loro principio. [H]
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cosa desiderata». Ne consegue che mentre il bonum (oggetto dell’appetizione) e la ratio bonitatis sono nella cosa esterna, verso cui tendiamo, il verum (oggetto della conoscenza) e la ratio veri sono nell’intelletto stesso in quanto concepisce un pensiero adeguato alla cosa pensata. Quindi il criterio della verità sembra provenire dall’intelletto alle cose e non viceversa. G. Tommaso introduce, poi, una seconda e decisiva distinzione: il rapporto tra cosa pensata (res intellecta) e intellectus che la pensa può essere «essenziale» (per se) o «accidentale» (per accidens); è essenziale quello tra una res intellecta e quell’intellectus «da cui dipende secondo il suo essere» («a quo dependet secundum suum esse»), accidentale quello tra res intellecta e un intelletto che si limita a conoscerla. Una casa ha una relazione essenziale con la mente dell’architetto che l’ha concepita e progettata, mentre ha una relazione accidentale col pensiero di altre persone. H. A questo punto Tommaso può precisare il suo criterio di verità, privilegiando il rapporto «essenziale» e saldando la prospettiva cognitiva a quella onto-teologica: «ciascuna cosa si dice vera in assoluto per il rapporto che ha con l’intelletto da cui dipende»: il senso prioritario di vero è quello essenziale che lega una cosa al pensiero del suo responsabile ontologico. Ne consegue che i prodotti delle arti si dicono veri in rapporto al nostro intelletto (è vera la casa nella mente dell’architetto; sono vere le parole quando esprimono adeguatamente il pensiero di chi le ha formulate), ma gli enti naturali si dicono veri «in quanto attuano la somiglianza con le specie che sono nella mente divina» (la vera pietra è quella che ha la natura propria della pietra, secondo la concezione preesistente nella mente divina). Tommaso può dunque concludere che «la verità in primo luogo è nell’intelletto, in secondo luogo nelle cose, per la relazione che esse hanno con l’intelletto come loro principio»: è corretto affermare che la verità è in primo luogo nell’intelletto, ma non in quell’intelletto che si limita a rispecchiare o acquisire forme ‘eteronome’, bensì in quello che produce le forme e ne è principio. Vi è tuttavia anche nelle cose una verità derivata o secondaria, in quanto esse rivelano o esprimono adeguatamente l’intelletto che ne è principio. Questo significa che la verità dell’intelletto divino si riflette in primo luo625
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo Definizione conclusiva: la verità è adeguazione della cosa e dell’intelletto
Repliche ai tre argomenti in contrario: 1) la definizione «vero è ciò che è» esclude la nozione accidentale di verità
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Per questo la verità è stata definita in modi diversi. Infatti Agostino, nel De vera religione [36], afferma che «la verità è la manifestazione di ciò che è». E Ilario di Poitiers dice che «vero è ciò che dichiara o manifesta l’essere» [De Trinitate, 5]. Queste definizioni riguardano la verità in quanto è nell’intelletto. Invece circa la verità della cosa in base al rapporto che ha con l’intelletto è pertinente questa definizione di Agostino nel De vera religione [36]: «La verità è la piena somiglianza delle cose con il loro principio, senza nessuna dissomiglianza»; e questa definizione di Anselmo: «La verità è rettitudine percepibile con la sola mente» [De veritate, 11]; infatti è retto ciò che concorda col suo principio; e anche questa definizione di Avicenna: «La verità di ciascuna cosa è la proprietà del suo essere, quale le è stato assegnato» [Metafisica, 8,6]. L’affermazione: «la verità è adeguazione della cosa e dell’intelletto», può riferirsi ai due aspetti della verità. [I] 1. Agostino parla della verità delle cose, e dalla nozione di essa esclude ogni relazione col nostro intelletto. Infatti in una definizione non si ammette ciò che è accidentale. [L]
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go negli enti naturali e in subordine nei pensieri umani. Nelle questioni Sulla verità Tommaso è lapidario: «l’intelletto divino è misurante non misurato, l’ente naturale è misurante e misurato, mentre il nostro intelletto è misurato e non misura gli enti naturali, ma solo quelli artificiali» (q. 1, art. 2: potremmo qui intendere «misurare» come «dare il criterio» e «essere misurato» come «ricevere il criterio»). I. Le apparenti contraddizioni tra le definizioni di verità che incontriamo negli autori nascono dal fatto che queste talvolta sottolineano il pensiero di Dio sulle cose, talaltra la realtà che ne deriva. Le due prospettive possono però essere compendiate dialetticamente ricorrendo alla nota formula, ascritta al pensatore ebreo Isaac Israeli (IX-X secolo), secondo cui «la verità è adeguazione della cosa e dell’intelletto» («veritas est adaequatio rei et intellectus»). La nozione di adaequatio copre infatti sia il versante produttivo che il versante ricettivo, per così dire, della verità: è «adeguato» ossia conforme alle cose l’intelletto divino che le concepisce, ma sono conformi ad esso anche le cose che realizzano e manifestano le nature pensate da Dio. È importante tener presente che quando Tommaso parla di adaequatio non pensa a un’identità, ma a una relazione in cui si conservano le diverse prerogative del pensiero e della realtà: «la natura della verità consiste in un’adeguazione della cosa e del pensiero; però non si adegua a se stesso in un’identità, ma in un’eguaglianza di diversi (aequalitas diversorum)». Quindi «la nozione di verità nell’intelletto è in primo luogo quando l’intelletto comincia ad avere qualcosa di proprio che la cosa al di fuori dell’anima non ha, ma che corrisponde ad essa, in modo che tra le due cose possa stabilirsi un’adeguazione» (La verità, q.1, art. 3). L. Alla luce della determinazione raggiunta nel respondeo è più facile comprendere i tre argomenti in contrario iniziali e superarli. Quando Agostino nei Soliloqui sostiene che «il vero è ciò che è» e «non quello che si vede» lo fa per escludere dal suo discorso la nozione accidentale di verità. Infatti la verità di una cosa non sta nel suo accidentale essere vista o pensata da qualcuno, ma nel pensiero essenziale che di essa ha il suo artefice (e, nel caso delle realtà naturali, la verità delle cose è nell’intelletto divino). Del resto, quando definiamo la natura di qualcosa, ne fissiamo gli aspetti essenziali, non quelli accidentali. M. La seconda obiezione proveniva dai relativisti come Protagora, per i quali la verità si moltiplica nelle forme dell’apparenza e dell’opinione, dimodoché pensieri contraddittori sarebbero simultaneamente veri nelle opinioni di individui diversi. Già Aristotele denuncia le assurdità di questa posizione in Metafisica 4,5: i relativisti assumono a criterio della conoscenza la mutevolezza degli enti naturali e la variabilità delle opinioni personali (tra più
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2. Quei filosofi antichi sostenevano che le forme naturali non derivano da una intelligenza, ma dal caso: e poiché constatavano che il vero implica un rapporto con l’intelligenza, erano costretti a far consistere la verità delle cose nel loro rapporto col nostro pensiero. Ne risultavano tutti gli inconvenienti che Aristotele denuncia in Metafisica 4 [5,1009a6]. Ma non si incorre in questi inconvenienti, se si pone che la verità delle cose consiste nel loro rapporto con la divina intelligenza. [M] 3) La verità dell’intelletto 3. Sebbene la verità del nostro intelletto sia causata dalle cose, non è tutè causata dall’essere tavia necessario che la verità si trovi in primo luogo nelle cose, come la della cosa sanità non si trova nella medicina prima che nel vivente, perché è l’efficacia della medicina, e non la sua sanità, a causare la sanità, non essendo un agente univoco. Analogamente, è l’essere della cosa, e non la sua verità, a causare la verità dell’intelletto. Per questo Aristotele dice che «un’opinione o un’affermazione è vera perché la cosa è, e non perché la cosa è vera». [N] 2) I paradossi relativisti si annullano con il riferimento unificante all’intelletto divino
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(da Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 1, q. 16, art. 1, trad. di S. Perfetti)
individui o anche nel medesimo individuo in momenti diversi). In realtà, replica Aristotele, anche nel divenire degli enti permane un sostrato nel quale avvengono i mutamenti. La variabilità delle opinioni è legata alle sensazioni, ma compito del filosofo è indagare la struttura di fondo della realtà. Inoltre il mondo sensibile e mutevole è solo una porzione dell’universo, nel quale esistono realtà esenti da generazione e corruzione. Fin qui Aristotele. Tommaso precisa che questi pensatori hanno una concezione immanentistica della natura ed escludono a priori il ruolo di una intelligenza divina; ma, nondimeno, si rendono conto «che il vero comporta una relazione con l’intelletto». Ma gli inconvenienti di un’indebita moltiplicazione della verità per quanti sono i punti di vista degli uomini possono essere tolti se manteniamo il riferimento unificante ad intellectum divinum. N. Nella terza obiectio la citazione aristotelica per cui verità o falsità del pensiero o del linguaggio dipendono dal fatto che una cosa è o non è, veniva interpretata nel senso di un primato della realtà esterna sulle parole e sul pensiero. La risposta di Tommaso è giocata sulla dottrina dell’analogia di significazione, secondo cui è analogo quel termine che si predica in sensi diversi, ma non equivoci, ovvero sensi che si articolano da un senso principale a sensi da esso derivati: così, quando diciamo che un animale è sano, una medicina è sana e l’urina è sana, non sono in gioco tre diverse forme di ‘sanità’, ma, rispettivamente, il soggetto (la cosa di cui si dice che è sana o il sostrato cui la salute inerisce), la causa (ciò che fa essere sano) e il sintomo o segno dell’esser sani (per il medico che la esamina). Affermare che le cose causano la verità nel nostro intelletto non comporta che la verità si trovi in primo luogo nelle cose. Infatti la verità nel nostro intelletto non è causata dalla verità delle cose, ma dall’essere delle cose. Per questo Aristotele afferma che la verità di un (nostro) pensiero o di una (nostra) espressione dipendono «dal fatto che la cosa è, non dal fatto che la cosa è vera».
Questionario sull’argomentazione 1
Quali sono i tre argomenti in contrario esposti da Tommaso? (max 6 righe)
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In che modo Tommaso articola la sua rispostasoluzione? (max 10 righe)
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Qual è la citazione in contrario, tipica della quaestio, qui utilizzata? (max 2 righe)
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Quali sono le tre repliche finali di Tommaso ai tre argomenti in contrario? (max 6 righe) 627
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
TESI A CONFRONTO Come ha fatto Dio a creare il mondo? Il problema della concettualizzazione della creazione
Gilson: ontologia e partecipazione
I due metodi: teologia negativa e analogia
Dio, atto puro, crea liberamente e dal nulla
La creatura «partecipa» dell’atto puro
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Se Dio fa il mondo, in che modo lo fa? Il Dio biblico non è il «demiurgo» platonico, un divino artigiano che plasma la materia eterna in base a idee eterne; e non è neppure l’Uno neoplatonico, principio inesprimibile al di là dell’essere, dal quale derivano per emanazione gradi progressivi di realtà, dall’intelligibile alla materia. Il cristianesimo, nel solco della fede di Israele, pensa che la produzione del mondo da parte di Dio sia un atto di «creazione», ovvero un trarre tutte le cose dal nulla all’esistenza, un produrre radicalmente tutto l’essere delle cose. Come altri teologi scolastici del XIII secolo, anche Tommaso d’Aquino cercò di concettualizzare la causazione del mondo da parte di Dio riformulando i fondamenti della fede cristiana attraverso categorie filosofiche. Il primo brano che presentiamo è tratto da una classica esposizione del pensiero di Tommaso, ovvero La filosofia nel Medioevo, un manuale concepito nel 1922, poi ampliato nel 1944 dal francese Étienne Gilson (1884-1978). Qui troviamo il sapore tipico delle interpretazioni tomistiche dei primi sessant’anni del Novecento, vale a dire una lettura che sottolinea gli aspetti ontologici (teoria dell’essere e dell’ente) e partecipativi (la creatura riceve l’essere «partecipando» all’essere per essenza che è in Dio). Con la nostra mente, che è finita, non possiamo cogliere direttamente la perfezione infinita di Dio. Tuttavia possiamo averne un’intuizione approssimativa in due modi. Il primo è il metodo della teologia negativa: eliminare tutti gli attributi incompatibili con Dio (Dio è non-mutevole, non-composto e così via). Un altro metodo consiste nel considerare le realtà create di questo mondo come delle tracce che rivelano qualcosa della loro causa, così da risalire dalle perfezioni finite degli effetti alle perfezioni infinite della Causa prima. In questo modo possiamo intuire che in Dio sono presenti, in grado infinito, quelle perfezioni che si riscontrano in forma parziale negli enti creati (bontà, unitarietà, intelligenza, volizione…). Ricaviamo così l’idea di Dio come atto puro, completo di ogni perfezione, che non manca di nulla. Proprio per questo Egli crea il mondo in assoluta libertà e dal nulla (ovvero senza precondizioni materiali e formali). Per sottolineare la peculiarità ontologica del Dio tommasiano (inteso come atto puro ed essere puro), in altre sue opere Gilson utilizzò l’espressione «metafisica dell’Esodo». Lo storico francese intendeva suggerire che la riflessione ontologica su Dio come puro essere avrebbe la sua radice nel libro biblico dell’Esodo (3,14), quando Dio rivela a Mosè che il Suo nome è «Colui che è». Il rapporto tra creatura e Creatore è espresso da una nozione di origine platonica, quella di «partecipazione». Questo termine, lungi dal suggerire una soluzione panteistica (identificare la totalità degli enti con Dio), evita proprio la confusione fra creatura e Creatore. Infatti, rispetto alla pienezza di essere di Dio, ogni creatura è radicalmente contingente ed è portata all’essere non da se stessa, ma per aver ricevuto «il dono stesso dell’esistenza» da Dio atto puro.
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino Prima risposta
Dio, atto puro, crea dal nulla e la creatura ‘partecipa’ dell’atto puro da Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo
Andare a Dio con la via della negazione
Dall’effetto alla causa: le perfezioni infinite di Dio
Dio crea tutto l’essere dal nulla
Dio è atto puro che crea liberamente
Questo Dio di cui affermiamo l’esistenza non ci lascia penetrare ciò che egli è. Egli è infinito e le nostre menti sono finite; dobbiamo quindi cogliere di lui tante prospettive esterne quante potremo, senza mai pretendere di esaurirne il contenuto. Una prima maniera di procedere consiste nel negare dell’essenza divina tutto ciò che non può appartenerle. Scartando successivamente dall’idea di Dio il movimento, il cambiamento, la passività, la composizione, finiamo col porlo come un essere immobile, immutabile, perfettamente in atto e assolutamente semplice: è la via della negazione. Ma se ne può seguire una seconda e cercar di designare Dio secondo le analogie che sussistono tra lui e le cose. C’è necessariamente un rapporto, e di conseguenza una certa somiglianza, tra l’effetto e la causa. Quando la causa è infinita e l’effetto finito, non si può dire evidentemente che le proprietà constatate nell’effetto si ritrovino tali e quali nella causa, ma ciò che esiste negli effetti deve anche preesistere nelle loro cause, qualunque sia la sua maniera di esistervi. In questo senso, noi attribuiremo a Dio, ma portandole all’infinito, tutte le perfezioni di cui avremo trovato qualche ombra nella creatura. Così diremo che Dio è perfetto, supremamente buono, unico, intelligente, onnisciente, volitivo, libero ed onnipotente, riducendosi in ultima analisi ciascuno di questi attributi a non essere che un aspetto della perfezione infinita e perfettamente unica dell’atto puro di esistere che è Dio. Dimostrando l’esistenza di Dio col principio di causalità, noi stabiliamo al tempo stesso che Dio è il creatore del mondo. Poiché egli è l’esistere assoluto ed infinito, Dio contiene virtualmente in sé l’essere e le perfezioni di tutte le creature; il modo, secondo cui tutto l’essere emana dalla causa universale, si chiama creazione. Per definire questa idea, conviene prestare attenzione a tre cose. In primo luogo il problema della creazione non si pone per tale o talaltra cosa particolare, ma per la totalità di ciò che esiste. In secondo luogo, e proprio perché si tratta di spiegare il comparire di tutto ciò che è, la creazione non può essere che il dono stesso dell’esistenza: non c’è niente, né cose, né movimento, né tempo, ed ecco apparire la creatura, universo di cose, movimento e tempo. Dire che la creazione è l’emanazione totius esse [di tutto l’essere], significa dire che essa è ex nihilo [dal nulla]. In terzo luogo, se la creazione non presuppone, per definizione, nessuna materia, essa presuppone, ugualmente per definizione, un’essenza creatrice che, poiché è essa stessa l’atto puro di esistere, può causare degli atti finiti di esistere. Poste queste condizioni, si capisce che sia possibile una creazione, e si vede che essa deve essere libera. Infatti, l’Atto puro di esistere non manca di nulla se il mondo non esiste, e di nulla aumenta se il mondo esiste. L’esistenza della creatura è dunque radicalmente contingente in rapporto a Dio, ed è quanto si esprime dicendo che la creazione, se si verifica, è un atto libero. Ora essa può verificarsi perché, se si pone Dio come l’Atto puro, non soltanto del pensiero, come faceva Aristotele, ma della stessa esistenza, sono realizzate le tre condizioni richieste per una creazione: si tratta proprio 629
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
La partecipazione: legame e separazione tra creature e creatore
La pre-esistenza in Dio
Stump: rigore ed esperienza ordinaria
Due modelli di causalità efficiente: causazione univoca ed equivoca
La causazione analogica e Dio
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di una produzione dell’esistenza stessa di tutto ciò che è, si tratta quindi di una produzione ex nihilo, e la causa di questa produzione è nella perfezione dell’esistenza divina. Il rapporto tra la creatura e il creatore, quale risulta dalla creazione, si chiama partecipazione. Osserviamo subito che, ben lungi dall’implicare un significato panteistico, questa espressione mira invece ad eliminarlo. Partecipazione esprime contemporaneamente il legame che unisce la creatura al creatore, il che rende intellegibile la creazione e la separazione che impedisce loro di confondersi. Partecipare all’atto puro o alla perfezione di Dio significa possedere una perfezione che preesisteva in Dio, che vi si trova del resto ancora, senza essere stata né annullata né diminuita dall’apparizione delle creature, e che questa riproduce secondo il suo modo limitato e finito. Partecipare non significa essere una parte di ciò di cui si partecipa, significa possedere il proprio essere e riceverlo da un altro essere, e il fatto di riceverlo da lui è proprio la prova che non ci si identifica con lui. Così la creatura viene a porsi infinitamente al di sotto del creatore, così lontano che non c’è relazione reale tra Dio e le cose, ma soltanto tra le cose e Dio. Il mondo infatti nasce dall’essere senza che si sia prodotto nessun cambiamento nell’essenza divina […] Tutti gli effetti di Dio preesistono in lui, ma poiché egli è un’intelligenza infinita e la sua intelligenza è il suo stesso essere, tutti i suoi effetti preesistono in lui secondo un modo di essere intelligibile. Il brano successivo è tratto da una recente monografia su Tommaso della studiosa americana Eleonore Stump. Secondo la linea di molti interpreti anglosassoni contemporanei, l’autrice riformula gli argomenti di Tommaso impiegando un linguaggio tecnico rigoroso e, al contempo, cerca di far parlare al pensiero di Tommaso una lingua filosofica pienamente comprensibile anche dal lettore odierno (vanno in questa direzione gli esempi tratti dall’esperienza ordinaria o, addirittura, dalla scienza contemporanea). Come avviene spesso in Tommaso, anche qui entrano in gioco diversi elementi dottrinali di origine aristotelica, che vengono poi combinati a formare un quadro teorico innovativo. Il punto di partenza è la distinzione, con cui si aprono le Categorie, tra realtà omonime o equivoche (nome in comune, ma definizione diversa) e realtà sinonime o univoche (nome comune e definizione comune «come animale detto dell’uomo e del bue»). Questa distinzione è impiegata per identificare due modelli di causalità efficiente: è causazione univoca quella in cui un agente dotato di una forma provoca nel paziente esattamente la stessa forma (per esempio la forma «calore» che passa da un fornello all’acqua di una pentola). Nel caso invece, per esempio, del sole che indurisce la creta, non possiamo pensare che l’agente-sole possegga la stessa forma-durezza che provoca nel paziente. Si tratta, dunque, di una causazione equivoca (la forma-durezza è detta in un senso nel paziente e in un altro nell’agente). È invece causazione analogica (dalla parola greca analoghìa, che significa «rapporto» o «proporzione») quella in cui riconosciamo che la forma nella causa ha un rapporto inequivocabile con la forma nell’effetto. Il modello della causazione analogica artificiale (con cui pensiamo il rapporto tra la casa pensata dal costruttore e la casa concretamente realizzata) può essere esteso all’attività creatri-
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Unità 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino
ce di Dio. La causalità divina, infatti, non è univoca (perché la forma pensata intellettualmente è diversa dalla forma tradotta in realtà), ma neppure equivoca. Dunque Dio può essere definito la causa intellettualmente analogica della realtà.
Seconda risposta
Dio è causa intellettuale e analogica del mondo: il mondo è fatto a somiglianza della forma esistente nella mente divina da Eleonore Stump, Aquinas
La causazione univoca: la termopiastra di un fornello e il fondo di un pentolino sono ‘caldi’ in modo univoco a causa della forma calore
La causazione equivoca: il sole indurisce la creta ma il sole non è duro come la creta
La causazione analogica: il sangue ‘anemico’ lo è in quanto è anemico il campione preso in esame La causazione analogica artificiale: la forma della cosa preesiste nella mente del costruttore
Il concetto di analogia è importante nel pensiero di Tommaso. Viene spesso presentato, correttamente, in termini di predicazione analogica, però può essere spiegato, a un livello più basilare, in rapporto alla causazione. Lasciando da parte la causazione «accidentale» (ad esempio un giardiniere che scopre un tesoro sotterrato), Tommaso pensa che la causazione efficiente coinvolga sempre un agente (A), un paziente (P) e una forma (f ). Nella causazione efficiente non-accidentale, A ha anteriormente f, in qualche modo. Quando A esercita il suo potere causale su P, porta f in P, in qualche modo. Dunque la causa efficiente è A che agisce (o che esercita un suo potere), mentre l’effetto è P che ha f. Il fatto che A e P possano avere f in vari modi diversi lo esprimiamo dicendo «in qualche modo». Questo modello di causazione efficiente diretta Tommaso lo chiama causazione univoca: prima A e poi P hanno f esattamente nello stesso modo, dunque f può essere veramente predicato di entrambi esattamente nello stesso senso. La termopiastra di un fornello e il fondo metallico del pentolino che vi appoggio sopra sono entrambi detti caldi in modo univoco: la forma calore in questi due oggetti causalmente correlati è la stessa da un punto di vista specifico e differisce solo da un punto di vista numerico. Però Tommaso riconosce anche due tipi di causazione efficiente non-univoca. Il primo è la causazione equivoca, che caratterizza casi in cui non è chiaro in che modo la f portata a effetto in P si trovi anteriormente in A, e tuttavia c’è una connessione causale naturale (così come normalmente c’è una spiegazione etimologica per la predicazione equivoca). Se A è la potenza solare e il suo effetto è l’indurimento (f ) di un pezzo di creta (P), allora è ovvio che la potenza solare non è essa stessa dura come lo è la creta. Dire che cosa c’è nella potenza solare che indurisce la creta non sarà facile come spiegare il riscaldarsi del pentolino, e tuttavia l’indurirsi della creta deve, in qualche modo, essere stato determinato da quella potenza. Il secondo tipo ha luogo quando, ad esempio, un campione di sangue (P) è correttamente denominato «anemico», per quanto, ovviamente, il sangue stesso non ha l’anemia e non può essere letteralmente anemico. La fisiologia del donatore (A) comporta una condizione (f ) nel campione che è un inequivocabile segno di anemia in A e per questo giustifica la denominazione (analogica) del campione. Per le sue finalità teologiche, a Tommaso non interessa la causazione analogica naturale ma semmai quella artificiale: quella che coinvolge idee e volizioni, quella dell’artigiano: «In alcuni agenti, ossia in quelli che agiscono per natura, la forma di ciò che deve essere fatto accadere preesiste sul piano naturale: l’uomo genera l’uomo […]. In altri agenti, ossia in quel631
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… e la causazione divina: il mondo è stato fatto a somiglianza della forma esistente nella mente divina
li che agiscono intellettualmente, la forma preesiste sul piano intelligibile: il modello della casa preesiste nella mente del costruttore» [Summa Theol. I, q. 15, art. 1]. Dato che lo status della causazione interamente univoca dipende dal fatto che ci sia una differenza solo numerica tra la f in A e la f in P, allora è evidente che un agente intellettivo che porta ad effetto le proprie idee non è una causa univoca. Ma non si può neppure dire che tra la f antecedente e la f conseguente vi sia una differenza così ampia da costituire causazione equivoca. Di fatto il tipo di associazione tra l’idea e la sua manifestazione esterna è più stretto del tipo che troviamo nella causazione analogica naturale; e dato che, secondo Tommaso, «il mondo è stato prodotto non dal caso, ma da Dio che agisce attraverso l’intelletto […] è necessario che ci sia una forma nella mente divina, una forma a somiglianza della quale il mondo è stato fatto» (ibid.). Dio dunque è la causa efficiente non-univoca, non-equivoca, ma intellettualmente analogica del mondo.
I brani antologizzati sono tratti da: É. Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, trad. di M.A. del Torre, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 639-641. E. Stump, Aquinas, Routledge, Londra 2003, pp. 14-15, trad. di S. Perfetti.
Per seguire il dibattito parazione fra il creatore e le sue creature. Spiega il significato di questa affermazione contenuta nel testo di Gilson. (max 6 righe)
1
Da quale premessa partono i teologi scolastici del XIII secolo per concettualizzare la causazione del mondo da parte di Dio? (max 2 righe)
2
Quali sono i due modi di procedere attraverso i quali possiamo intuire la perfezione divina secondo quanto scrive Gilson? (max 8 righe)
5
Qual è la differenza tra causazione univoca e causazione equivoca secondo il testo di Stump? (max 6 righe)
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Quali sono le tre condizioni richieste perché si possa parlare di creazione secondo il ragionamento di Gilson? (max 10 righe)
6
Qual è l’esempio concreto riportato da Stump per chiarire il modello di causazione analogica artificiale che può essere esteso all’attività creatrice di Dio? (max 2 righe)
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La partecipazione è legame e, allo stesso tempo, se632
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Percorso tematico Il mondo è eterno?
I testi IV concilio lateranense: Dal principio del tempo e dal nulla, T1 R. Grossatesta Esamerone: Stiano attenti a non diventare eretici con Aristotele, T2 Bonaventura Commento alle Sentenze: Paradossi ed eresie dell’infinito in atto, T3 G. Peckham Sarebbe stato possibile creare il mondo dall’eternità?: Un mondo divinizzato?, T4
Tommaso d’Aquino L’eternità del mondo: Un’eterna dipendenza ontologica, T5; Inconsistenza di altri argomenti addotti dagli avversari, T6 Statuti del 1° aprile 1272: Limiti invalicabili, T7 Boezio di Dacia L’eternità del mondo: Credere o dimostrare?, T8
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Il mondo è eterno? Un dibattito teologico e filosofico del XIII secolo Fin dall’inizio della penetrazione delle opere aristoteliche nella cultura scolastica, ancora prima che queste fossero perfettamente assimilate, si poteva sapere che per lo Stagirita l’universo è eterno, ovvero è sempre esistito e sempre esisterà. Anche alcune fonti latine tradizionalmente disponibili, come la Consolazione di Severino Boezio (524-525), stavano ad attestarlo. Ovviamente una tesi del genere si rivelava ben poco armonizzabile con la visione cristiana, secondo cui «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Genesi 1,1) e questo universo, originato dalla parola creatrice divina, è destinato a venir meno alla fine dei tempi. Nei primi decenni del Duecento si cercò di neutralizzare l’eternalismo aristotelico, ipotizzando che questa tesi fosse stata avanzata in modo dialettico e non conclusivo, per amore di discussione. Però man mano che crebbe la dimestichezza con i testi del pensatore greco ci si accorse che senza dubbio Aristotele sosteneva dimostrativamente la tesi dell’eternità dell’universo. Nacque così un acceso dibattito de aeternitate mundi, che nel XIII secolo vide schierarsi su fronti opposti i maggiori filosofi e teologi del tempo. In queste pagine ascolteremo le voci dei protagonisti e incontreremo chi cerca di armonizzare Aristotele e la teologia, chi cerca di distinguerli e chi cerca di limitarsi a interpretare Aristotele. Come vedremo, dietro il problema scientifico trattato, c’è anche un’altra posta in gioco, ovvero la definizione del ruolo della ricerca filosofica e teologica di fronte alla politica dogmatica e pastorale della Chiesa.
1
Il dogma: il mondo ha avuto inizio (1215) L’incompatibilità tra ogni posizione ‘eternalista’, compresa quella di Aristotele, e la fede cristiana era diventata netta dopo che un solenne pronunciamento del magistero ecclesiastico, nel IV concilio lateranense del 1215, aveva stabilito come dogma di fede l’inizio temporale dell’universo. Leggiamo la sezione rilevante degli atti conciliari:
T1
Dal principio del tempo e dal nulla
IV concilio lateranense
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Crediamo fermamente e confessiamo semplicemente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente, immutabile, incomprensibile e ineffabile, Padre, Figlio e Spirito Santo, tre persone, ma una sola essenza, sostanza o natura semplicissima […], creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e materiali. Con la sua onnipotente potenza fin dal principio del tempo [simul ab initio temporis] creò dal nulla [de nihilo condidit] l’uno e l’altro ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo, e poi l’uomo.
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Percorso tematico Il mondo è eterno? La creazione secondo la Bibbia: fin dall’inizio del tempo, dal nulla
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Con le formule «fin dal principio del tempo» e «dal nulla» si fissano due aspetti della creazione che non sono affermati esplicitamente nel testo biblico. La sottolineatura del fatto che Dio fa scaturire l’intera realtà «dal nulla» segnala lo scarto del Dio cristiano, di fronte al quale non si dà niente di preesistente, da un modello di divinità come il demiurgo platonico, che plasma da una materia preesistente e sul modello di archetipi preesistenti. La formula «fin dal principio del tempo», sebbene non esente da qualche difficoltà concettuale (sono gli eventi a iniziare in un certo istante del tempo; come può iniziare il tempo stesso?), tuttavia, collegata alla nozione di creazione dal nulla, obbligava i teologi a pensare alla creazione come un dispiegarsi di estensione, di spazializzazione a partire da un istante iniziale, da un momento zero di nascita della temporalità stessa.
Grossatesta: Aristotele non è cattolico (1235)
Nei primi decenni del Duecento non erano mancati teologi che avevano cercato di stemperare il contrasto tra la posizione del magistero ecclesiastico e quella di Aristotele. Per esempio, Filippo il Cancelliere (morto nel 1236) e Alessandro di Hales (1185-1245) avevano formulato una distinzione di ambiti del sapere: il teologo si occupa dell’origine del mondo, il filosofo si occupa della sua struttura. Così il sapere filosofico, vincolato alla descrizione dell’esistente, può anche concludere che, fintantoché restiamo all’interno del sistema fisico del mondo, non è dimostrabile l’inizio della realtà. Questo però non significa averne dimostrato in modo conclusivo l’eternità, punto su cui il sapere naturale cede alla prospettiva più ampia del sapere teologico. Non vi sarebbe, dunque, alcun conflitto tra fisica aristotelica e teologia cristiana. L’inconciliabilità Questi e altri tentativi simili di armonizzazione furono denunciati impietosamente da Roberto Grossatesta (1170 ca. - 1253; vedi Unità 10, p. 613 s.), vescovo, filosofo ed esegeta finissimo di Aristotele (e, proprio per questo, indisponibile a compromessi pasticciati). Lui che aveva tradotto dal greco, tra le altre cose, il Sul cielo di Aristotele e il commento di Simplicio (VI secolo) alla Fisica non poteva che riconoscere la palmare inconciliabilità tra Aristotele e il cristianesimo su questo punto. Infatti nel suo commento biblico ai sei giorni della creazione, il suo Esamerone (completato nel 1235), proprio commentando il versetto iniziale della Genesi («In principio Dio creò il cielo e la terra»), mette alla berlina coloro che, con interpretazioni accomodanti, «vorrebbero trasformare Aristotele da eretico in cattolico». Vale la pena leggere per intero questo testo interessantissimo, in cui Grossatesta, piuttosto che appoggiarsi sulle fonti greche a lui note, ripercorre con ampie citazioni la biblioteca comune di lingua latina (Ambrogio, Agostino, Boezio…), per mostrare che anche gli interpreti ‘concilianti’, legati alla letteratura tradizionale dell’Occidente latino, non potevano non sapere. Tentativi di conciliazione
T2
Stiano attenti a non diventare eretici con Aristotele R. Grossatesta, Esamerone, 1,8,1-4
Fin dalla prima parola «In principio» viene espresso chiaramente l’inizio del tempo e che il mondo è stato fatto dall’inizio del tempo e che non va indietro all’infinito. Pertanto questa unica espressione che suona «In principio» elimina l’errore dei filosofi che hanno detto che il mondo non ha avuto un inizio del tempo, come ha detto e ha cercato di provare Aristotele nell’ottavo libro della Fisica; similmente Platone nel Timeo [23b] fa dire a qualcuno che in passato ci sono stati infiniti diluvi. 635
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Ci sono però alcuni moderni, che fanno filosofia in modo ben più incoerente di Aristotele e Platone o piuttosto sono stolidamente ignoranti ben più di loro, i quali sono sicuri che Aristotele non riteneva il mondo privo di un inizio del tempo, ma, anzi, su questo punto di dottrina era in sintonia con la fede cattolica, tanto da porre un inizio del mondo e del tempo. Ma costoro sono palesemente sconfessati dagli stessi testi di Aristotele, dagli argomenti che egli adduce e dall’ultima conclusione del suo libro, che è una prova del motore primo e della sua perpetuità. E poi anche tutti i commentatori di questo testo di Aristotele, tanto greci quanto arabi, espongono concordemente quel passo, come prova della perpetuità del moto del tempo e del mondo (vale a dire che entrambi durano infinitamente al passato e al futuro). Anche Boezio, nella Consolazione della filosofia, afferma chiaramente che sia Platone che Aristotele ritenevano che il mondo fosse privo di inizio. Infatti, dopo aver definito l’eternità [come «possesso simultaneo e perfetto di una vita senza limiti»], per mostrarne la natura «ancora più chiaramente mediante un confronto con le realtà temporali», dice: «ciò che è condizionato dal tempo, anche se, come ritiene Aristotele a proposito del mondo, non abbia mai iniziato ad essere e mai finisca e la durata della sua vita coincida con l’infinità del tempo, tuttavia non è ancora tale da poter essere a buon diritto ritenuto eterno. Esso, infatti, non comprende e non abbraccia nella sua totalità simultaneamente lo spazio di una vita infinita, perché non possiede ancora le cose future e non possiede più quelle passate» [5, pr. 6]. Da queste parole è manifesto che Aristotele riteneva che il mondo non ha avuto inizio e non verrà mai meno, ma è coesteso con l’infinità del tempo. Del resto, poco dopo nello stesso libro, Boezio dice: «commettono un errore coloro che, di fronte all’opinione di Platone che questo mondo non ha avuto un inizio di tempo e non verrà meno, pensano che per questo il mondo creato diventi coeterno al suo creatore. Altro infatti è estendersi per una vita senza termine – cosa che Platone attribuisce all’universo –, altro è abbracciare la presenza totale e simultanea di una vita senza limiti, cosa che evidentemente è propria della mente divina» [ibidem]. Agostino poi, nell’XI libro della Città di Dio afferma che secondo alcuni filosofi il mondo è eterno, senza alcun inizio; e che per questo costoro lo ritengono evidentemente non fatto da Dio, «chiudendo completamente gli occhi alla verità e in preda al morbo letale dell’empietà» [11,4]. Altri poi, continua Agostino, «ammettono che il mondo fu fatto [da Dio], ma non con un inizio temporale, bensì con un inizio creativo, per cui in qualche modo – non bene comprensibile – è stato sempre fatto». Alcuni Platonici antichi riportano anche un esempio, cui accenna Agostino nel libro decimo della Città di Dio [10,31], quando dice: «Sebbene Platone, a proposito del mondo e degli dèi creati da Dio nel mondo, scriva in modo esplicito che cominciarono ad esistere, anche se non avranno fine, ma dureranno in eterno per volontà potentissima del loro creatore [Timeo, 41b], tuttavia i Platonici hanno trovato un loro modo di intendere queste affermazioni e cioè che non è un inizio nel tempo, ma l’inizio di una sottomissione [ontologica]. Dicono: se un piede fosse dall’eternità nella polvere, vi sarebbe sempre sotto la sua impronta; eppure nessuno potrebbe dubitare che l’impronta sia stata prodotta dalla pressione del piede, né l’uno fu prima dell’altra, (anche se l’una fu prodotta dall’altro); similmente, concludono, sia il mondo che gli dèi in esso creati sono sempre esistiti, come è sempre esistito il loro autore, e tuttavia sono stati fatti» […]. 636
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Percorso tematico Il mondo è eterno?
Da queste testimonianze e da molte altre che non addurrò solo per evitare la prolissità, risulta evidente che moltissimi filosofi, insieme ad Aristotele, sostennero che il mondo è privo di un inizio temporale. Tutti costoro vengono spazzati via con una sola parola da Mosè, quando dice «In principio». Tutte le testimonianze fin qui addotte, però, erano contro quei moderni che si sforzano, contro Aristotele, contro i suoi commentatori, ma anche contro gli esegeti della sacra Scrittura, di trasformare Aristotele da eretico in cattolico. Questa è gente che, completamente cieca e presa dalla propria presunzione, ritiene di poter leggere Aristotele in una traduzione latina confusa e comprenderlo e interpretarlo con più chiarezza e verità di filosofi – pagani e cattolici – che conoscevano alla perfezione il testo originale greco. Non si illudano e non si sforzino invano di rendere cattolico Aristotele, se non vogliono perdere inutilmente il loro tempo e le loro forze intellettuali. E stiano anche attenti che, nel cercare di trasformare in cattolico Aristotele, non diventino eretici loro stessi. La distinzione tra eternità intensiva (divina) ed eternità estensiva (del mondo)
3 Dimostrazione filosofica dell’inizio del mondo nel tempo
In queste pagine vigorose Grossatesta polemizza con competenza e presenta in poco spazio un ventaglio di testi fondamentali. Il punto teorico più rilevante è la riconduzione della discussione entro le definizioni date da Boezio di eternità e temporalità. L’eternità non è una temporalità allungata indefinitamente all’indietro e in avanti. Per pensare correttamente l’eternità dobbiamo smettere di pensarla in termini di estensione, perché se l’eternità è, come precisa la Consolazione, «possesso simultaneo e perfetto di una vita senza limiti», questa compresenza della totalità della vita e del pensiero è propria esclusivamente della natura di Dio. Un mondo o un ente qualsivoglia, anche se durasse per sempre e da sempre, comunque non avrebbe il «possesso simultaneo di una vita senza fine», ma continuerebbe a trascorrere nel tempo, sia pure senza limiti. Una simile temporalità indefinitamente estesa, a rigore di termini, non può chiamarsi eternità, ma perpetuità. Purtroppo, nelle successive discussioni, i maestri continuarono a usare il termine eternità in modo equivoco, sia per l’eternità in senso stretto (quella divina intensiva), sia per la perpetuità (o «eternità estensiva»). Altrettanto faremo noi nelle pagine che seguono, per rispettare gli usi linguistici degli autori trattati (anche se il contesto rende chiara la differenza: per esempio, l’eternità del mondo, di cui tutti parlano, è solo ed esclusivamente una forma di perpetuità).
Bonaventura: Aristotele contro Aristotele (1251) Il dibattito sulla corretta interpretazione dei concetti temporali, sulla corretta interpretazione di Aristotele e sui tentativi, più o meno surrettizi, di «farlo cattolico», sulla distinzione tra ogni forma di mutamento naturale, compreso quello sostanziale, e la creazione prosegue intorno alla metà del secolo. Le posizioni si fanno ancora più nette e chiare nella polemica che oppone Bonaventura (e i suoi seguaci francescani) al domenicano Tommaso d’Aquino. Beninteso, nessuno di loro sosteneva tesi eternalistiche: tutti i teologi accettavano il magistero ecclesiastico del IV concilio lateranense, che vincolava i cristiani a credere nella verità fattuale di un inizio del mondo nel tempo. Però i francescani si spinsero oltre, su un terreno filosofico, arrivando a sostenere che l’inizio del mondo nel tempo non è solo una verità di fede, ma è anche dimostrabile in modo rigoroso. 637
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo Paradossi dell’infinito
T3
Paradossi ed eresie dell’infinito in atto
Bonaventura, Commento alle Sentenze, 2,d.1, p.1, a.1, q.2
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I primi passi in questo senso erano stati fatti da Bonaventura (vedi Unità 10, p. 609 ss.), che nel suo commento al II libro delle Sentenze di Pietro Lombardo, del 1251, aveva esposto una serie di argomenti centrati sulla nozione di infinito. In realtà Bonaventura riprende gli argomenti antieternalisti del filosofo cristiano alessandrino Giovanni Filopono (i contenuti del suo L’eternità del mondo contro Proclo, testo greco del 529, erano arrivati alla «biblioteca latina» attraverso il commento di Simplicio alla Fisica, tradotto da Grossatesta, e la Guida dei perplessi dell’ebreo Mosè Maimonide, latinizzata prima del 1230). La strategia era quella di confutare la tesi dell’eternità del mondo mediante l’altra tesi aristotelica secondo cui si dà solo un infinito potenziale, ma non in atto. Tutte le riformulazioni bonaventuriane non sono che variazioni di una struttura argomentativa di fondo, che possiamo rappresentare con un sillogismo: – premessa maggiore: un infinito in atto è impossibile; – premessa minore: un mondo eterno comporterebbe l’esistenza di un infinito attuale: il numero dei giorni trascorsi finora (visto che si va all’infinito nel passato), il numero delle anime umane (visto che da oggi all’infinito passato sarebbero esistiti infiniti individui); – conclusione: ergo, il mondo non può essere eterno. La premessa minore contiene due paradossi: 1) il numero dei giorni trascorsi finora sarebbe infinito, visto che dal momento attuale si va all’infinito nel passato; poiché però il numero dei giorni aumenterà ancora nel futuro, si arriva al paradosso di ipotizzare infiniti di diversa grandezza. 2) il numero delle anime umane sarebbe anch’esso infinito, visto che da oggi all’infinito passato sarebbero esistiti infiniti individui; ma questo comporterebbe una delle seguenti posizioni eretiche: o la metempsicosi, ovvero trasmigrazione della stessa anima in più corpi diversi (dottrina che nessuno sosteneva nel Medioevo, ma che era nota attraverso le testimonianze sui pitagorici, su Platone e sui manichei), o la dottrina dell’unicità dell’intelletto passivo, avanzata da Averroè nel commento al Sull’anima di Aristotele e ripresa dai maestri parigini delle Arti (vedi pp. 573 e 603). Vediamo direttamente gli argomenti nel commento di Bonaventura al II libro delle Sentenze di Pietro Lombardo. Questo è il primo argomento. È una verità autoevidente il fatto che è impossibile aggiungere qualcosa all’infinito [Aristotele, Sul cielo, 1,12,283a9-10], perché tutto ciò che riceve un’aggiunta diviene più grande, ma «niente è più grande dell’infinito». Ora, se il mondo è senza inizio, è già durato infinitamente; ma allora la sua durata non potrebbe ricevere aggiunte. Ma è evidente che ciò è falso perché una rivoluzione del Sole si aggiunge ogni giorno. Dunque, ecc. [I maestri scolastici utilizzavano questa formula ellittica (Ergo etc.), quando la conclusione dell’argomentazione era facilmente intuibile.] […] E ancora, per una rivoluzione del Sole ce ne devono essere dodici della Luna; dunque la Luna ha compiuto più rivoluzioni del Sole; ma il Sole ne compie un’infinità; ci sarebbe così un infinito più grande di un altro; ma questo è impossibile. Dunque, ecc. […] Quinto argomento. È impossibile che delle realtà di numero infinito esistano nello stesso tempo [Aristotele, Fisica, 3,5,204a20-25]. Ma se poniamo che il mondo sia eterno e privo di inizio, dal momento che il mondo non può esistere senza uomo (tutte le cose, infatti, sono in un certo senso per l’uomo [Aristotele, Fisica,
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Percorso tematico Il mondo è eterno?
3,5,204a20-25]) e che l’uomo ha una durata finita, allora dovrà essere esistita un’infinità di uomini. Ma per quanti sono stati gli uomini, altrettante sono state le anime razionali; dunque è esistita un’infinità di anime razionali. Ma per quante anime razionali ci sono state, altrettante ce ne sono, poiché sono forme incorruttibili; esistono dunque anime razionali in numero infinito. A questo punto sarai costretto a dire o che vi è una trasmigrazione delle anime oppure che vi è un’anima unica per tutti gli uomini. La prima ipotesi è un errore filosofico, perché, come sostiene il Filosofo, l’atto proprio è nella materia propria; quindi l’anima che è stata la perfezione di uno non può essere la perfezione di un altro, nemmeno secondo il Filosofo. La seconda ipotesi è ancora più erronea, perché è ancora meno vero che c’è una sola anima per tutti.
4
L’aristotelismo radicale
L’ortodossia francescana contro l’aristotelismo radicale
Giovanni Peckham: filosofare nella fede
Parigi: libertà di ricerca e ortodossia (1266-1270) Circa vent’anni più tardi le prove presentate pacatamente da Bonaventura come ragioni probabili ma non conclusive vengono riprese da alcuni dei suoi seguaci in una forma più aggressiva e, soprattutto, attribuendo agli argomenti dell’infinito un valore rigorosamente dimostrativo. Siamo sul finire degli anni sessanta e l’atmosfera culturale a Parigi sta cambiando. L’aristotelismo radicale dei maestri delle Arti, come Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia (vedi Unità 10, p. 590 ss.), mette al centro del dibattito temi come la superiorità della vita filosofica, l’unicità dell’intelletto e l’eternità del mondo. Beninteso, nessuno dei maestri delle Arti professava come convinzione personale la dottrina dell’eternità del mondo. Anche essi, personalmente, si proclamavano cristiani e, in quanto tali, accoglievano l’insegnamento della Chiesa circa l’inizio temporale dell’universo. Tuttavia, come professori di filosofia, ritenevano che la ricerca filosofica dovesse essere totalmente svincolata dalla dogmatica cristiana e che gli argomenti puramente razionali deponessero a favore dell’eternità del mondo. I teologi francescani intervengono nel dibattito, in primo luogo per condannare le novità dell’aristotelismo radicale dei maestri delle Arti (che insegnano dottrine eterodosse, senza preoccuparsi di esporre controargomenti a favore delle verità di fede), ma anche per denunciare quei maestri di teologia che si muovono su una linea troppo vicina ad Aristotele. La prima voce di denuncia è in una quaestio del 1266 sull’eternità del mondo di Guglielmo di Baglione (discepolo di Bonaventura e suo successore alla guida dell’ordine francescano), che non solo denuncia le derive dell’aristotelismo, ma ripropone i paradossi bonaventuriani dell’infinito conferendo ad essi valore dimostrativo. Bonaventura stesso, poi, nel 1267 e 1268 è a Parigi e, sebbene non insegni più all’università, impegnato com’è nella guida dell’ordine (di cui è ministro generale da dieci anni), in alcuni sermoni riprende la sua polemica contro gli aristotelici della facoltà delle Arti e denuncia gli errori di una filosofia condotta senza l’illuminazione della fede, che arriva a errori come il necessitarismo (la dottrina secondo cui tutto avviene per una catena necessaria di cause ed effetti), l’unicità dell’intelletto e l’eternità del mondo. Il terzo intervento importante di un francescano, e il più significativo da un punto di vista filosofico, è quello di Giovanni Peckham, anch’egli discepolo di Bonaventura, che nel 1270 occupa la cattedra francescana di teologia. Nella sua lezio639
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ne inaugurale parla proprio dell’eternità del mondo (di fronte a un ampio uditorio, di cui faceva parte anche Tommaso d’Aquino, ritornato a Parigi nel 1268). Non possediamo il testo di quella lezione, ma da altri testi di Peckham conosciamo le sue idee: i ragionamenti entro i limiti della pura ragione naturale sono di rango inferiore rispetto a quelli di una ragione illuminata dalla fede, quindi Aristotele è quasi inservibile per i temi che lambiscono le verità di fede; solo «filosofando nella fede» si può comprendere appieno quanto siano in realtà dimostrativi e concludenti gli argomenti della tradizione bonaventuriana. Oltre che sugli argomenti dell’infinito, i francescani insistevano su un altro punto: considerare il mondo eterno significa renderlo pericolosamente simile a Dio. Così si esprime Peckham:
T4
Un mondo divinizzato?
G. Peckham, Sarebbe stato possibile creare il mondo dall’eternità?
[…] l’essere del tempo avrebbe in modo estensivo una durata pari a quella che ha l’essere divino in intensione, e il suo svolgersi sarebbe di lunghezza pari alla semplicità dell’eternità. Ma questo è impossibile: sarebbe come trovare un mondo la cui massa sia grande come la potenza di Dio. Ci lasciano perplessi queste analogie di Peckham? Senza dubbio lasciarono perplesso Tommaso d’Aquino che nel suo Trattato sull’eternità del mondo (probabilmente del 1271) si tolse qualche sassolino dalla scarpa (non ci sarà certo sfuggito che, quando i francescani denunciano i maestri di teologia aristotelizzanti, pensano proprio ai domenicani e a Tommaso).
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Verità fattuale e ragionamento ipotetico
Non è contraddittorio dire che il mondo è «creato» e «da sempre»
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La risposta di Tommaso ai francescani (1271) Nel 1268 Tommaso è di nuovo a Parigi, dove lavora alla seconda parte della Somma teologica e commenta molte opere di Aristotele, tra cui la Fisica (vedi Unità 10, p. 594 ss.). Nel 1270 aveva scritto il Trattato sull’unicità dell’intelletto, polemizzando con gli averroisti della facoltà delle Arti. Nel 1271 scrive un Libro sulla possibilità dell’eternità del mondo, più noto come L’eternità del mondo, in cui l’obiettivo polemico non sono i maestri delle Arti, ma i teologi francescani che avevano additato nelle tesi di Tommaso una sorta di appoggio esterno all’aristotelismo radicale. Lo scopo di Tommaso non è difendere l’eternità del mondo. Anche lui si attiene al magistero ecclesiastico sul fatto che il mondo e il tempo del mondo hanno avuto un inizio. Tutto questo va creduto sul piano della fede (e in tal senso è da credersi come verità fattuale), tuttavia non comporta anche una palmare sostenibilità argomentativa. Anzi, il teologo può ben chiedersi, in via ipotetica, se Dio, nella sua onnipotenza, avrebbe potuto fare altrimenti. Vale a dire: posto che Dio ha di fatto creato il mondo «fin dall’inizio del tempo» come insegna il magistero ecclesiastico, è pensabile un modello razionale di creazione alternativo? È pensabile un modello che Dio avrebbe potuto porre in essere se avesse voluto diversamente da come ha voluto? Ecco, in sintesi, la strategia argomentativa di Tommaso: il mondo è stato creato insieme al tempo, come insegna il magistero (su questo siamo tutti d’accordo), ma non si tratta di una verità autoevidente o rigorosamente dimostrabile (i tentativi di alcuni in tal senso nascono da incompetenza filosofica). Inoltre un modello di «mondo creato eterno» non è filosoficamente contraddittorio; basta com-
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prendere bene cosa significhi ‘creato’: per Tommaso creazione significa produzione radicale dell’essere delle cose. In questo senso la creaturalità dell’universo, anche di un universo che fosse eterno, consiste nella dipendenza ontologica da un Primo Principio dell’essere, Dio. Quindi anche se volessimo ammettere un mondo sempiterno, questo non sarebbe troppo simile al suo creatore, perché sarebbe comunque eternamente dipendente da Dio. Pertanto, se avesse voluto diversamente da come ha voluto, Dio avrebbe potuto creare un mondo eterno, senza contraddizioni concettuali e senza scandalo teologico.
T5
Un’eterna dipendenza ontologica
Tommaso d’Aquino, L’eternità del mondo
La creazione «dal nulla» non comporta necessariamente inizio nel tempo
Alcuni testi di Agostino
[…] Tutta la questione consiste nel capire se essere creato da Dio in tutta la sostanza e non avere inizio nel tempo comportano incompatibilità concettuale o no. […] Dire che c’è incompatibilità non può essere se non per una o per entrambe le seguenti ragioni: o perché la causa agente deve precedere il proprio effetto nel tempo, o perché il non essere deve precedere l’essere nel tempo, dato che si dice che ciò che è creato da Dio viene ad essere dal nulla. Dapprima mostrerò che non è necessario che la causa agente, vale a dire Dio, preceda nel tempo il proprio effetto, se questa fosse stata la sua volontà. Tommaso elabora dunque il seguente sillogismo: – premessa maggiore: anche nel mondo fisico non ogni causa agente precede temporalmente il proprio effetto; esiste infatti anche la causalità istantanea (perfetta contemporaneità di causa ed effetto), come nel caso del fuoco o della luce che producono effetti istantanei (secondo la fisica medievale); – premessa minore: Dio, poi, non produce per motum, cioè attraverso un mutamento, dato che la sua volontà non passa attraverso la deliberazione (ossia per un pensiero riflessivo-discorsivo, che si sviluppa nel tempo); – conclusione: Dio crea istantaneamente, ovvero, non è necessario pensare Dio come precedente un proprio effetto che non è ancora. Il fatto è che la maggior parte dei mutamenti fisici che ci circondano sono processi che si svolgono nel tempo. Noi siamo abituati a questo tipo di processi e chi non ha riflettuto attentamente su modelli di causalità alternativi a quello fisico potrebbe indebitamente assumere quest’ultimo come il modello standard. Tommaso prosegue quindi nell’analisi: «Ci rimane da considerare se la nozione di una “cosa fatta ed esistente da sempre” sia concettualmente incompatibile con l’assunzione che il suo non essere dovrebbe necessariamente precedere nel tempo il suo essere, poiché si dice “è stato fatto dal nulla”». Alcuni teologi francescani insistevano sul fatto che la creazione presupporrebbe l’anteriorità del nulla rispetto all’essere. In una sua Quaestio de aeternitate Alessandro di Hales arrivava a dire: «ciò che è dal nulla ha l’essere dopo il non essere e così ha il principio». Con molta abilità Tommaso replica ai francescani utilizzando le loro fonti preferite. Prima Anselmo d’Aosta, esponente di primo piano della teologia monastica di ispirazione agostiniana dell’XI secolo, poi Agostino stesso e Boezio. Nell’VIII capitolo del Monologion Anselmo si pone il problema della corretta interpretazione dell’espressione «Dio fece tutte le cose dal nulla (ex nihilo)» e spiega che «dal nulla» significa «non da qualcosa». Dunque, conclude Tommaso, non c’è alcuna relazione tra le cose e il nulla, per la buona ragione che il termine «nulla» non designa una realtà, ma è una formula linguistica che serve a negare (non-da-qualcosa). Ecco come Tommaso utilizza Agostino: «Se vi fosse incompatibilità, è strano che Ago641
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stino non l’abbia scorta […]. E invece, quando combatte con molte ragioni l’eternità del mondo nella Città di Dio, ai libri XI e XII, omette completamente questa via». Poi Tommaso richiama il passo già citato da Grossatesta (10,31) con l’immagine neoplatonica di un’impronta eternamente calcata nella polvere, e commenta che, se il fatto di essere eterno (l’impronta-effetto) e il fatto di dipendere ontologicamente (dal piede-causa) fossero incompatibili concettualmente, Agostino avrebbe sollevato un’obiezione filosofica, ma Agostino si limita a opporre ai neoplatonici la verità della fede. Segno che nemmeno lui vi ravvisava un’incoerenza concettuale.
T6
Inconsistenza di altri argomenti addotti dagli avversari Tommaso d’Aquino, L’eternità del mondo
6 Inquietudine culturale
T7
Limiti invalicabili
Statuti del 1° aprile 1272
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Poiché certe citazioni autorevoli sembrano andare in loro favore, è opportuno mostrare come forniscano un puntello debole. Dice infatti Giovanni Damasceno, (La fede ortodossa) 1,8: «Ciò che è tratto dal non essere all’essere non ha la natura di essere coeterno a ciò che è senza principio ed è sempre». Ma il significato risulta chiaro da ciò che dice Boezio nell’ultimo libro della Consolazione: «commettono un errore coloro che, di fronte all’opinione di Platone che questo mondo non ha avuto un inizio di tempo e non verrà meno, pensano che per questo il mondo creato diventi coeterno al suo creatore. Altro infatti è estendersi per una vita senza termine – cosa che Platone attribuisce all’universo –, altro è abbracciare la presenza totale e simultanea di una vita senza limiti, cosa che evidentemente è propria della mente divina» [5, pr. 6]. Per cui è anche evidente che non ne consegue quanto alcuni obiettano, ossia che la creatura sarebbe uguale a Dio in durata. […] Aggiungono ancora degli argomenti in loro favore, che i filosofi hanno già affrontato e risolto. Tra questi il più difficile è quello dell’infinità delle anime: perché se il mondo è sempre stato, è necessario che vi siano infinite anime. Ma questo argomento non cade a proposito, perché Dio avrebbe potuto fare il mondo senza uomini e anime, oppure fare gli uomini nel momento in cui li ha fatti, anche se avesse fatto il mondo dall’eternità, e così, dopo i corpi, non rimarrebbe un numero infinito di anime. Inoltre non è ancora dimostrato che Dio non possa fare in modo che vi siano realtà infinite in atto. Vi sono anche altri argomenti, ai quali tralascio di replicare in questa sede, sia perché hanno ricevuto una replica altrove, sia perché alcuni sono talmente deboli che, in ragione della loro debolezza, sembrano rendere più probabile la soluzione contraria.
La prima censura della Chiesa: i decreti del 1272 Le prese di posizione dei teologi francescani e il successivo intervento di Tommaso sono testimonianza di anni inquieti nella politica culturale dell’università di Parigi. I maestri delle Arti toccano troppi temi dalle evidenti ricadute teologiche e l’eternità del mondo è uno di questi. Per l’autorità ecclesiastica, che ha il controllo anche sui programmi universitari, è arrivato il momento di intervenire. E così il 1° aprile 1272 vengono emessi degli statuti nei quali, tra le altre cose, si legge: Decretiamo e ordiniamo che nessun maestro o baccelliere della nostra facoltà pretenda di determinare e nemmeno di disputare una questione puramente teologica […] violando i limiti che gli sono assegnati poiché, come dice il Filosofo, è del tutto sconveniente che chi non è geometra disputi con un geometra. Se osa farlo […], sia escluso per sempre dal nostro collegio […].
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Aggiungiamo che se un maestro o un baccelliere della nostra facoltà insegna o disputa passi difficili o questioni che sembrino in qualche modo confutare la fede, confuti tale testo o tali argomenti, se vanno contro la fede; o almeno li dichiari falsi assolutamente e totalmente erronei; o altrimenti non si spinga a disputare o insegnare difficoltà di questo genere che si trovano nei testi, ma li eviti come totalmente erronei.
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Fede e scienza in Boezio di Dacia (1272)
In questo clima di compressione dello spazio della libera ricerca filosofica, per il tentativo ecclesiastico di fare della verità religiosa il criterio anche per la filosofia universitaria (almeno per quanto riguarda le questioni di confine), si situa L’eternità del mondo del maestro delle Arti Boezio di Dacia (vedi Unità 10, p. 591 s.), composto presumibilmente nel 1272 (c’è chi ha voluto vedere in esso una risposta ai decreti del 1° aprile). In questo trattato, che ha la forma di una lunga quaestio, il maestro danese non intende dare una soluzione di parte alla questione dell’eternità o meno del mondo. Un falso conflitto Piuttosto sembra assumerla come caso paradigmatico di un falso conflitto dei sadei saperi peri (teologico e filosofico), da risolvere mediante una distinzione dei metodi e degli ambiti di validità di ciascuna disciplina. Da una parte esistono le verità di fede, la cui fonte è la rivelazione religiosa (Lex); per queste la forma corretta di assenso è il credere, le forme scorrette sono il chiedere dimostrazioni razionali (che è stoltezza) o il rifiutare di credervi perché non vi sono dimostrazioni (che è eresia). Esistono poi realtà le cui cause, per quanto non manifeste, si possono spiegare razionalmente; per queste la forma corretta di comprensione è la dimostrazione filosofica; la forma scorretta è voler credere senza argomentare. Si profilano, insomma, due forme del sapere (non due verità) irriducibili l’una all’altra: fides e scientia, ovvero teologia e filosofia, sapere rivelato e sapere razionalmente conquistato. In breve, Boezio non vuole cadere nei modelli esplicativi «ad una sola dimensione», ma proporre un pluralismo epistemologico, come emerge fin dal Prologo all’Eternità del mondo, che qui riportiamo:
T8
Credere o dimostrare?
Boezio di Dacia, L’eternità del mondo, Prologo
Come è da stolti cercare argomentazioni razionali in ciò che deve essere creduto in virtù di una Legge rivelata senza poter essere argomentato (chi lo fa cerca qualcosa di irraggiungibile) ed è da eretici rifiutarsi di credervi in assenza di argomentazioni razionali, così non è da filosofi credere senza argomentare razionalmente in tutto ciò che non è di per sé evidente ed in cui un tale argomentare è possibile. Volendo dunque ricondurre a concordia la posizione della fede cristiana e la posizione di Aristotele e di altri filosofi circa l’eternità del mondo, affrontiamo razionalmente il problema se il mondo sia eterno. E lo facciamo per poter saldamente mantenere la posizione della fede anche se in alcuni punti non può essere dimostrata; per non cadere nella pretesa stolta di cercare una dimostrazione dove essa non è possibile e per non incorrere nell’eresia di non voler credere ciò che deve essere tenuto per fede solo perché non è dimostrabile (come fecero alcuni filosofi che rifiutarono ogni Legge rivelata perché i suoi articoli non erano dimostrabili); perché venga difesa anche la validità della posizione dei filosofi, 643
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nella misura in cui il loro ragionamento raggiunge una conclusione fondata (la loro posizione infatti in niente contraddice alla fede cristiana se non agli occhi di quelli che non la comprendono; essa infatti si fonda su dimostrazioni e su ogni altro tipo di argomentazione razionale possibile nelle materie di cui trattano; la fede invece si fonda su molti miracoli e non su argomentazioni razionali; infatti ciò che viene sostenuto in quanto conclusione di argomentazioni razionali non è più fede, ma scienza); perché infine risulti chiaro che la fede e la filosofia non sono in disaccordo circa l’eternità del mondo, e che quindi non hanno forza le argomentazioni con cui alcuni eretici sostengono, contro la fede cristiana, che il mondo è eterno. Pluralismo epistemologico
La linea di riflessione tracciata da Boezio non conduce all’affermazione di verità molteplici; semmai comporta l’assunzione di un pluralismo epistemologico: esistono più forme del sapere, ciascuna caratterizzata da fonti, metodi e risultati diversi. Così fides e scientia sono due forme del sapere indipendenti tra loro: la prima è completamente eteronoma (si fonda sulla rivelazione e sul sovrannaturale e richiede l’assenso del credere); la seconda è espressione dell’autonomia dell’indagine umana e richiede la chiarezza del metodo dimostrativo. Possiamo schematizzare come segue: Fonte
Forma del comprendere
Disciplina
Sacra Scrittura, miracoli
Credere
Fede (teologia)
Realtà argomentabili
Dimostrare
Scienza (filosofia)
Nel seguito del trattato Boezio, dopo aver passato in rassegna gli arsenali degli argomenti pro e contro, conclude che nessuna delle tre discipline teoretiche della filosofia (fisica, matematica, metafisica) può portare ragioni conclusive a favore dell’inizio del mondo nel tempo. Questo offre lo spunto per una riflessione sui metodi e i limiti di ogni scienza: nessuno scienziato dimostra in assoluto, ma sempre in base al sistema di cause e al settore della realtà che la sua disciplina indaga. In altre parole, ogni scienza indaga un ambito della realtà e produce risultati validi in base ai principi e ai metodi che si è data, ossia secundum quid («relativamente a»), non simpliciter («in assoluto»). Per questo una conclusione che rimane indimostrata in una particolare scienza può ricevere un trattamento conclusivo da un’altra disciplina. Contraddizione Tolto il quadro di riferimento di un sapere assoluto e sostituito ad esso il quadro apparente tra fede di un pluralismo dei saperi, risulta evidente che gli enunciati della filosofia e e filosofia quelli della fede non comportano antinomie vere e proprie, ma possono presentare soltanto delle contraddizioni apparenti. Infatti la logica aristotelica insegna che può esservi contraddizione solo tra proposizioni i cui predicati contrari sono presi nel medesimo rispetto; variando il secundum quid, variano i livelli di predicazione, dunque non si può avere contraddizione. È senz’altro una contraddizione affermare che «Socrate è bianco» e «Socrate è non-bianco», ma non è una contraddizione affermarlo sotto due aspetti diversi: «Socrate è bianco in volto (perché ha paura)» e «Socrate è non-bianco sul braccio (in un punto arrossato da una scottatura)». In conclusione, non c’è contraddizione tra le due conclusioni «il mondo è venuto a essere» (affermazione di fede da intendersi simpliciter, in
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senso assoluto) e «il mondo è eterno» (conclusione filosofica, coerente con i principi del sapere fisico e valida entro quei limiti). Uno studioso contemporaneo che ha dedicato molti studi a Boezio, Luca Bianchi, sintetizza così la posizione peculiare del trattato: L’originalità di Boezio
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Il magister artium danese si trova qui in perfetta sintonia con l’agnosticismo difeso, in quegli stessi anni, da Tommaso d’Aquino. Ma se la posizione è identica, diversissimo è il modo di raggiungerla e il significato che le si attribuisce. Per Boezio, che dà alla sua analisi un taglio squisitamente epistemologico […], il dovere di riconoscere alla fede il compito di insegnare quelle verità inaccessibili alla ragione filosofica non comporta alcuna svalutazione del ruolo e dell’importanza di quest’ultima, né il riconoscimento del diritto della teologia di esercitare su di essa una qualche forma di controllo: così, pur insistendo sui limiti della filosofia, Boezio rivendica la sua universalità, difende gelosamente la sua autonomia e rifiuta di assegnarle quella funzione «ancillare» rispetto alla sacra doctrina che la cultura cristiana le riservava da secoli. Il suo «concordismo» appare perciò lontanissimo non solo dalla bonaventuriana reductio artium ad theologiam [«riconduzione delle discipline alla teologia»], ma anche dalla prospettiva di Tommaso, perché l’accordo tra filosofia e religione cristiana che egli ricerca non si realizza né per subordinazione, né tramite uno sforzo di integrazione e di sintesi: la coesistenza pacifica di queste due, diversissime, forme di sapere viene piuttosto garantita da una netta separazione di ambiti, obiettivi e metodi.
La fine del dibattito: la condanna (1277) Se con il suo L’eternità del mondo Boezio aveva creduto di placare le contese grazie a una più consapevole capacità di distinguere campi e procedure dei diversi saperi, l’autorità ecclesiastica non fu dello stesso avviso. Il trattato infatti, insieme all’altro suo scritto Il sommo bene, divenne oggetto del pesante intervento censorio del 7 marzo 1277, quando il vescovo di Parigi Stefano Tempier vietò ai maestri universitari, pena la scomunica, di utilizzare alcuni testi filosofici e di professare 219 proposizioni giudicate lesive dell’ortodossia cristiana (vedi Unità 11, p. 656 s.). E alcune di queste proposizioni erano tratte proprio dall’Eternità del mondo di Boezio. Nell’introduzione al documento censorio Tempier non andò tanto per il sottile e riformulò il pluralismo epistemologico di Boezio con una logica così unidimensionale e schematica da trasformarlo nella famigerata tesi della «doppia verità»: «dicono che alcune cose sono vere secondo la filosofia, ma non lo sono secondo la fede cattolica, come se ci fossero due verità contrarie, come se la verità delle Sacre Scritture potesse essere contraddetta dalla verità dei testi di quei pagani condannati da Dio». Questa riformulazione è estremamente interessante, perché mostra come una dottrina aberrante che nessuno aveva effettivamente sostenuto nel XIII secolo (la «doppia verità») possa nascere dallo schematismo stesso di un atto di censura.
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo I brani antologizzati sono tratti da: R. Grossatesta, Esamerone, 1,8,1-4; testo latino in Robert Grosseteste, Hexaëmeron, edizione a cura di R. Dales e S. Gieben, Oxford University Press, Oxford 1982; trad. it. di S. Perfetti. Bonaventura, Commento alle Sentenze, 2, d.1, p.1, a.1, q.2; testo latino in S. Bonaventurae, Commentaria in quattuor libros Sententiarum magistri Petri Lombardi, a cura dei Padri del Collegio di San Bonaventura, Ex typographia Collegii S. Bonaventurae, Quaracchi 1932; trad. it. di S. Perfetti. G. Peckham, Utrum mundus potuit ab aeterno creari [«Sarebbe stato possibile creare il mondo dall’eternità?»], testo latino in R. Dales - O. Argerami, Medieval Latin Texts on the Eternity of the World, Brill, Leiden - New York - Copenaghen - Colonia 1991, pp. 73-87, p. 81. Tommaso d’Aquino, De aeternitate mundi, testo latino in S. Thomae Aquinatis, Opera omnia iussu Leonis XIII P. M. edita, tomo 43, Editori di San Tommaso, Roma, 1976, pp. 85-89; trad. it. di S. Perfetti. Boethius de Dacia, Opuscula: De aeternitate mundi, De summo bono, De somniis, edizione a cura di N.G. Green-Pedersen e J. Pinborg, Fr. Bagge, Copenaghen 1976; trad. it. di S. Perfetti. Il brano citato a p. 634 (T1) è tratto da G. Alberigo, a cura di, Decisioni dei concili ecumenici, UTET, Torino 1978, p. 221. Il brano citato a p. 642 (T7) è tratto da F.-X. Putallaz - R. Imbach, Professione filosofo. Sigieri di Brabante, trad. it. di A. Tombolini, Jaca Book, Milano 1998, pp. 114-115. Il brano citato a p. 645 è tratto da L. Bianchi, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, in M. Bettetini, L. Bianchi, C. Marmo, P. Porro, Filosofia medievale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 249-250.
Questionario 1
Quali sono le due formule che contraddistinguono l’interpretazione della creazione del mondo sancita nel dogma di fede del 1215 desumibili da T1? (max 3 righe)
Qual è l’accusa principale che Roberto Grossatesta rivolge in T2 a chi vuol rendere Aristotele cattolico? (max 2 righe) 646
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Quale strategia argomentativa è adottata da Bonaventura in T3? (max 6 righe)
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In che senso e per quali ragioni possiamo dire che il brano T8 di Boezio di Dacia rappresenti il suo pluralismo metodologico? (max 6 righe)
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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana ESSERE
Un concetto al di là di tutte le differenze
Ha senso occuparsi dell’essere?
1. Un problema astratto? Riguarda la nostra vita quotidiana il concetto di «essere»? Qualcuno potrebbe dire che, se già la filosofia si occupa di cose astratte, niente è così astratto come parlare dell’«essere». E avrebbe qualche ragione. «Astrarre» vuol dire prescindere da alcune caratteristiche per parlare solo di quelle che accomunano una classe di cose. Se parliamo di alberi «in astratto», o «in generale», stiamo prescindendo da quale tipo di albero si tratti (abete, faggio, pino, baobab…), e ancor di più se si tratti o no – «in concreto» – dell’albero del mio giardino o di quello ieri abbattuto dal vento. Se vogliamo proseguire su questa via e continuare ad astrarre, possiamo dimenticarci di ciò che fa di un albero un albero (a differenza dei cespugli, o degli ortaggi, o dei funghi ecc.) e parlare solo di «vegetali», in quanto distinti da animali e minerali. Vogliamo fare astrazione anche da questa distinzione? Animali, vegetali, minerali sono tutte cose della natura che si contrappongono alle cose non naturali: città, nazioni, per esempio – e cos’altro? Lasciamo in sospeso la domanda su quali siano le altre cose non naturali, e facciamo un altro passo di astrazione: non consideriamo ciò che distingue le cose naturali da tutte le altre cose che esistono, e chiediamoci: che cosa hanno in comune le une e le altre, qual è la caratteristica per parlarne insieme (come parliamo di alberi prescindendo dai faggi, o di vegetali prescindendo dagli alberi)? Forse a questo punto – cui siamo arrivati velocemente – ne troviamo una sola: che esistono, appunto, che sono. La caratteristica comune a tutte le cose, dunque la più astratta (perché astrae da tutte le differenze) è l’essere. Questa astrattezza implica una difficoltà, che sembra quasi portarci ai limiti di ciò che può avere un qualche significato. Le operazioni di astrazione dalle differenze sono tra quelle che ci aiutano a cogliere e definire il significato di un concetto. La filosofia aristotelica parla di definizioni per genere prossimo e differenza specifica, ma anche nell’uso comune spesso definiamo qualcosa attraverso il genere (più astratto) in cui rientra e la differenza che ne definisce l’aspetto più specifico: un albero è un vegetale con fusto e foglie, un vegetale è una cosa della natura dotata di vita, ma non di movimento autonomo, e così via in modo simile. Se volessimo però seguire questa strada per comprendere o definire che cosa vuol dire «essere», ci troveremmo privi di genere prossimo, ossia di un genere più ampio, di un concetto più vasto in cui l’«essere» possa rientrare. Di una cosa che ha solo la caratteristica di essere – in filosofia si parla di un «ente» – sembrerebbe non si possa dire altro che è. Non è molto. Anzi è così poco che l’impressione che si tratti di una questione priva di senso è forte, e questo rafforza anche l’idea che si tratti di un tema troppo «astratto», almeno nel senso corrente della parola: lontano dai problemi di tutti i giorni, privo di interesse per chi non voglia occuparsi di complicati giochi concettuali. In entrambi i casi l’essere 647
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
è, come diceva il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), «l’ultimo fumo della svaporante realtà». Proviamo a guardare la questione più da vicino, per capire se le impressioni di insensatezza e astrattezza siano davvero fondate.
Il problema dell’articolazione dell’essere in generi di cose
Ontologia e metafisica
Entità controverse
I problemi dell’esistenza necessaria e dell’esistenza possibile
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2. Che cosa c’è? Un modo per evitare le difficoltà date dal fatto che «essere» sembra un concetto non gestibile perché più generale di tutti è quello di non entrare nel problema della definizione del suo significato (che comunque non è detto che debba seguire la strada classificatoria di genere prossimo e differenza specifica), ma porsi invece il problema della sua articolazione: in altri termini, di ritornare ai tipi di cose che esistono di cui si parlava prima, per porsi in generale il problema: che cosa c’è? Si tratterebbe cioè – non potendo plausibilmente pensare di poter fare un elenco delle singole cose che effettivamente esistono – di chiedersi quali generi di cose esistono. Se si assume questa prospettiva, non interessa primariamente stabilire qual è il significato di «essere», ma stabilirne i significati: se ve ne sia uno legittimo o più d’uno diversi. Se si possa dire per esempio che esistono i numeri proprio come si dice che esistono gli alberi, oppure se lo si possa dire, ma in due sensi diversi. La disciplina filosofica che si chiede che cosa c’è, quali generi di cose esistono, può essere indicata col nome di ontologia, e considerata come una parte di una disciplina più vasta che si può chiamare invece metafisica, che si occuperebbe di indagare la natura, l’essenza di ciò che c’è. L’ontologia si occuperebbe allora di stabilire cosa fa parte dell’«arredo del mondo»: è una metafora forse non molto felice, perché implica l’idea – filosoficamente discutibile – del mondo come di uno spazio vuoto, indifferente a ciò che vi viene posto dentro, ma rende l’idea. Se siamo tutti – ma vi sono sempre eccezioni – disposti ad ammettere che dell’arredo del mondo facciano parte cose come alberi, animali, sedie, si può pensare a entità o presunte tali per le quali le cose si complicano. La sedia con le sue quattro gambe esiste. Ma il numero quattro, che ‘troviamo’ quando sommiamo due più due (o quando contiamo le gambe della sedia)? Si può ‘trovare’ qualcosa che non esiste? E se un tarlo ha fatto un buco nella sedia, quel buco che «c’è» nella sedia propriamente esiste? E, pensandoci meglio: possiamo dire che la sedia come tale esiste, o piuttosto esistono dei pezzi di legno, che noi chiamiamo «sedia» perché sono assemblati in un certo modo, o perché li utilizziamo per sederci? (Allora esiste il concetto di sedia?) Una sedia smontata è una sedia? Una sedia di marmo alta cinque metri è una sedia (o piuttosto un monumento, un’opera d’arte…)? E ancora: è davvero corretto dire che il legno esiste, o non si tratta che dell’assemblaggio di atomi e particelle subatomiche delle quali soltanto si può dire, propriamente, che ci sono? Si potrebbe proseguire: gli atomi che costituiscono il mondo esistono di fatto, ma potrebbero anche non esistere? Allora c’è qualcosa, un’entità, che invece esiste necessariamente (cioè che non potrebbe non esistere) e che determina la loro esistenza (per esempio quell’entità che alcuni chiamano Dio)? Oppure il mondo in quanto tale esiste necessariamente? O è solo una possibilità tra le altre? E in questo caso, cosa possiamo dire delle altre possibilità, degli altri mondi possibili? Sono possibili come il nostro?
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Gerarchia tra tipi di entità e riduzione ontologica
L’esempio dei buchi: le proprietà delle cose materiali
Menti e persone tra materia e immaterialità
Ridefinire l’organizzazione dei nostri concetti
3. Classificare e ordinare Come si vede dalle poche ma radicali domande formulate nel paragrafo precedente, il concetto di «essere» si può complicare e articolare in diversi modi. Sembra richiedere quanto meno una classificazione di generi di enti: per esempio enti materiali (sedie, legno, atomi…), enti non materiali (numeri, buchi, concetti, Dio…). Ma una classificazione corretta e ordinata non può procedere senza istituire anche appunto un ordine, e dunque una gerarchia. Approfondire le nostre classificazioni ontologiche vuol dire anche stabilire se ci siano dei tipi di entità propriamente esistenti, ai quali ricondurre alcuni apparentemente esistenti. Se siamo convinti, per tornare a uno degli esempi fatti prima, che propriamente esistono solo particelle atomiche e subatomiche, allora dobbiamo indicare i modi per «ridurre» entità solo apparenti (come sedie e tavoli) a modi di presentarsi di entità che effettivamente ci sono (particelle). Questo può essere abbastanza indolore nel caso di sedie e particelle: ma non del tutto, perché si discute molto se il modo di vedere comune – qualcuno parla di «immagine manifesta del mondo» – debba essere sostituito da quello scientifico – l’«immagine scientifica del mondo» – oppure abbia una sua, irriducibile, legittimità: un senso che, nell’immagine scientifica del mondo andrebbe irrimediabilmente perduto. Lo stesso problema può essere non particolarmente angosciante, anche se senz’altro complesso, per entità come i buchi: posso ridurre un’affermazione secondo la quale «c’è un buco nella sedia» a una diversamente formulata, secondo la quale «la sedia è bucata». In questo modo non mi impegnerei nella tesi che esistono entità immateriali come i buchi, ma solo in quella che esistono proprietà delle cose materiali. Seguendo questa ipotesi potrei parlare propriamente sempre di formaggio e mai di buchi (eppure per qualche autore questo non riesce fino in fondo). Comunque stiano le cose, la scelta, si diceva, non è drammatica. Ma per altri aspetti lo è, anche per la sensibilità non professionalmente filosofica. Per esempio sembra contare molto se tante almeno apparenti entità che non soltanto sono immateriali, come buchi o numeri, ma che chiameremmo mentali (cose come i pensieri, i sentimenti, i dolori, le speranze), siano o meno riducibili a sole entità materiali. Sembra derivarne molto circa il nostro posto nel mondo, il senso che le cose possono assumere per noi. Ci sono nell’«arredo» del mondo cose come le persone? 4. ‘Cambiare’ il mondo? Come si vede, stabilendo dei significati di «essere» e le loro reciproche relazioni si finisce quasi inevitabilmente per stabilire anche dei criteri e indicare cosa legittimamente può essere considerato esistente, e cosa no. Per questa strada è possibile ritornare anche al problema da cui partivamo, il significato di «essere», ponendoci la questione in modo leggermente eppure radicalmente diverso: è possibile non solo porsi il problema di capire cosa intendiamo quando parliamo di «essere», quando diciamo che qualcosa «c’è», ma possiamo – e forse dobbiamo – trovare ragioni per stabilire cosa si deve intendere, per escludere eventualmente alcuni significati o almeno alcune assunzioni di esistenza di uso comune. In questo modo il compito astratto dell’ontologia si traduce in quello molto concreto di precisare, oppure ridefinire, o addirittura rivoluzionare, il modo in cui noi organizziamo concettualmente il nostro mondo. 649
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L’ontologia ci porta inoltre a riflettere sul rapporto tra le nostre caselle concettuali e la realtà stessa. Fino a che punto siamo liberi nell’organizzare una classificazione di ciò che c’è nel mondo? A un certo livello le nostre classificazioni sono abbastanza arbitrarie: non c’è motivo per includere i pomodori tra le verdure e non tra la frutta, o meglio non si tratta di motivi che hanno un fondamento nella struttura delle cose. Anche classificazioni scientifiche importanti, come quella tra vivente e non vivente, hanno confini non sempre netti e possono essere ridefinite. Il problema Vale questo in tutti i casi? Tutte le classificazioni degli enti sono arbitrarie? Se degli universali fosse così, ciò che esisterebbe davvero sarebbero solo entità individuali i cui raggruppamenti in classi sarebbero solo il frutto di operazioni a loro esterne, come l’ordine delle merci in un supermercato, anche se non per questo immotivate. Se non fosse così, le classi, i cosiddetti universali, almeno alcuni dei più fondamentali, avrebbero un’esistenza reale: ci sarebbe nelle cose il fondamento di un’organizzazione in classi, così che la classificazione (se ben svolta) non sarebbe un atto estrinseco.
Le strutture concettuali e la struttura della realtà
Condizioni per attribuire l’esistenza
Uso predicativo e uso esistenziale del verbo «essere»
La concezione moderna: esistenza indipendente dall’attribuzione di proprietà
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5. Sensi dell’essere Già porsi il problema di quali (tipi di) cose propriamente esistano conduce come si è visto a conseguenze che vanno al di là di un semplice gioco di classificazione. Questa interrogazione può svolgersi anche presupponendo un senso ovvio e implicito di «essere», quello che applichiamo quotidianamente, senza preoccuparci di dare definizioni. Del resto, non è detto che di ogni concetto che usiamo si possano dare definizioni, né che sia necessario farlo per usarlo sensatamente. Né è pacifico, come si accennava, che stabilire un significato equivalga a procedere per inclusione in classi (definizione per genere prossimo e differenza specifica). In realtà per articolare la nostra comprensione di cosa vuol dire «essere» possiamo cercare di indicare, per esempio, quali sono le condizioni in cui lo usiamo, sotto quali condizioni attribuiamo esistenza a qualcosa. Partiamo dall’uso più comune. Se osserviamo l’uso di «essere» nel nostro linguaggio quotidiano, possiamo constatare almeno due aspetti: 1) in molti casi usiamo «è» in senso predicativo: diciamo che una rosa «è rossa», che una chiesa «è bella», che un caffè «è forte», e simili; 2) in altri casi lo usiamo in un senso diverso, esistenziale – non per attribuire proprietà, ma per attribuire l’esistenza: diciamo che qualcosa «c’è». Nel primo caso stiamo dicendo che cosa una cosa è, nel secondo semplicemente che è. (Alla luce della terminologia di cui abbiamo parlato, il primo compito sarebbe – se applicato a tipi di enti – proprio di una metafisica, il secondo di una ontologia.) Facciamo allora due esempi di modi alternativi di intendere il senso di «essere» che riguardano il rapporto tra questi due aspetti. Secondo un modo di vedere, che chiameremo per comodità moderno, il senso esistenziale di «essere» è del tutto indipendente da quello predicativo. Che qualcosa ci sia lo sappiamo perché in qualche modo ci imbattiamo in essa, la incontriamo, ne facciamo ‘esperienza’ in un’accezione non ristretta: faccio esperienza di una sedia urtandoci contro, ma faccio anche esperienza di un dolore provandolo. Sicuramente da un punto di vista logico il senso esistenziale di «essere» ha una natura del tutto peculiare: se dico che un unicorno esiste non sto attribuendo una proprietà (ulteriore) all’unicorno, ma sto dicendo qualcosa che si può più correttamente formulare così: «a una cosa esistente spettano le proprietà che
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La concezione classica: esistenza inconcepibile senza l’essenza
Problematiche connesse alle condizioni per l’attribuzione di esistenza
penso nel concetto di unicorno». Stabilire se una cosa è esistente non passa attraverso un’attribuzione di proprietà, e non ha bisogno di proprietà. Posso sapere che c’è qualcosa (perché mi ci imbatto) senza sapere in alcun modo che cos’è quella cosa. In questo senso l’esistenza è qualcosa di opaco, qualcosa al cui interno non vedo, che non penetro con strumenti concettuali. Secondo un altro modo di vedere, che chiamiamo per comodità classico, il significato esistenziale di «essere» non è concepibile senza quello predicativo: io non posso sapere in senso pieno che qualcosa è se non so anche che cosa (quale ragione interna) fa sì che questa cosa sia quello che è. Il semplice incontrare delle cose, l’avere a che fare con esse, non mi dice che esse in senso pieno sono: qualcosa è se ne colgo l’essenza, la ragione che fa sì che sia quella cosa determinata. Di qualcosa che non abbia tali qualità, che non risponda a una sua ragione interna per cui, per esempio, è un uomo e non un manichino, o di qualcosa che cambi natura senza averne mai una propria non si può dire che veramente e pienamente esiste. Dunque essenza (che cos’è una cosa) ed esistenza (il fatto che è) non sono ambiti in linea di principio così slegati: qualcosa è se è in qualche misura trasparente in ciò che è, se si lascia riconoscere in quanto tale. Altrimenti come potrei dire di qualcosa che esso è, senza saperne letteralmente nulla? Il discorso è naturalmente molto più complesso di quanto queste due apparenti alternative, che già coinvolgono strumenti concettuali difficili, possano indicare. È per esempio fondamentale chiedersi a quale livello devo collocare quel minimo di trasparenza (di «comprensione», o come dice qualcuno «precomprensione») che sembrerebbe necessario anche per attribuire ‘solo’ esistenza: per dire che la sedia contro cui urto al buio «c’è», devo riconoscerla come sedia? o solo come oggetto? o solo come causa del dolore (potrebbe sembrarmi di urtare, ma in realtà si è solo riaperta una ferita recente…)? o solo come cosa materiale? Ed è importante chiedersi quali altre condizioni io assuma – ossia implicitamente comprenda – per dire che una cosa, per esempio molto genericamente una cosa materiale, «c’è». Posso pensare che ce n’è una sola («al mondo»)? Oppure, se ce n’è una, devono essercene molte? devono essere tra di loro connesse? come? e i significati non materiali che hanno le cose materiali come si collegano con esse? la sedia che usavo da bambino è davvero quello che è senza i significati (affettivi, sentimentali, «storici») che sembrerebbero solo un colore estrinseco che noi possiamo attribuirle? Seguendo questa strada, l’ontologia, più che lavorare a un inventario di ciò che c’è, a stabilire l’arredo del mondo, il catalogo ragionato delle cose, cerca di comprendere lo «spazio» in cui le cose trovano posto: non ricerca con che cosa arredare il mondo, ma come abitarci. Approfondire il senso di una parola vuota e ovvia come «essere», distinguerne e collegarne gli usi implica molto di più di quanto ci si aspetti da un’analisi concettuale «astratta». Le risposte a questa questione sono in grado di decidere di molte cose che non possono non starci a cuore.
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Esercitiamoci sull’essere 1. Rifletti e completa
Uso esistenziale (esistenza)
– esistenza di fatto – esistenza necessaria – esistenza possibile
CRITERI DELL’ESSERE Domanda: In quali condizioni usiamo «essere»?
Uso predicativo (__________)
DEFINIZIONE DI ESSERE Domanda: ____________ _____________________? L’ESSERE Articolazione dei diversi significati di «essere» Domanda: ____________ _____________________?
Enti individuali
– enti materiali – enti mentali – Dio – numeri – proprietà – concetti
Classi Enti propriamente esistenti
Modi di presentarsi degli enti propriamente esistenti
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2. Spunti per il dibattito: io e… l’essere 1
Dopo aver letto il testo e completato la mappa rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – Perché è così difficile definire l’ente in astratto? – Quali di queste entità possono essere legittimamente considerate esistenti? Un sasso, un’immagine in un caleidoscopio, un taglio di capelli, una pausa di riflessione, una sensazione di disagio, il corpo di una persona, il carattere di una persona. – Quali delle seguenti proprietà fanno parte dell’essenza di una piazza? La superficie in metri quadrati, la collocazione all’interno della città, il nome, gli edifici che si affacciano su di essa, gli abitanti, gli eventi pubblici che vi si svolgono, la sua maestosità.
2
Immagina di aver ricostruito la figura di un albero usando dei mattoncini di plastica. – Sarebbe corretto dire che in realtà esistono soltanto i mattoncini e la scultura è solo un loro modo di presentarsi? – Che cosa si perderebbe staccandoli l’uno dall’altro e mettendoli alla rinfusa dentro un sacchetto? – E se ogni giorno tu smontassi e rimontassi una parte della scultura sostituendo alcuni mattoncini con altri nuovi, potresti dire che è la stessa scultura che continua a esistere?
3
Un istituto di ricerca ti ha assunto per fare un censimento un po’ particolare: devi contare le anime degli esseri umani. Ti si presenta un caso difficile: un uomo, dopo aver sofferto di una grave malattia che
l’ha tenuto in coma per un mese, si risveglia in seguito a una cura particolarmente ben riuscita, solo che ora non ricorda più nulla della sua vita precedente. Dopo un po’ di tempo riesce a riadattarsi alla vita normale, ma il suo carattere, le sue opinioni, il suo modo di parlare e di gesticolare sono completamente diversi e continua a non ricordare nulla del passato. Come affronti questo caso? – Diresti che quest’uomo ha un corpo e due anime? E se ora ha un’anima nuova, quella vecchia dov’è andata? – Si tratta di una persona o di due persone? – Se lui all’improvviso ricordasse tutto il suo passato ma continuasse a manifestare un carattere e dei modi del tutto diversi, e in più affermasse decisamente di considerare il suo sé precedente un completo estraneo, cambieresti idea? – Ha importanza per te sapere se la persona dice di chiamarsi in due modi diversi o se invece usa sempre lo stesso nome? 4
Supponi di incontrare un individuo che, pur avendo imparato a scuola che i cetacei sono dei mammiferi e quindi non sono dei pesci, insista nel dire che la balena è un pesce e che, anche se la scienza usa una classificazione diversa, lui nella sua vita quotidiana non ha nessuna ragione per smettere di pensare alla balena come un pesce. – Pensi che ci sia qualcosa di sbagliato nella sua posizione? – Con quali strumenti concettuali e con quali argomentazioni possono confrontarsi e discutere questa persona e un’altra persona che invece ha accolto la classificazione scientifica di buon grado?
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Unità 11 Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo 1. Le censure all’aristotelismo nell’università di Parigi 2. Tomismo e antitomismo 3. Giovanni Duns Scoto 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Teologia e filosofia Metafisica: l’univocità dell’essere Parlare metafisicamente di Dio La natura comune, gli individui e gli universali Intuizione e astrazione L’etica: volontà e libertà nell’uomo
2. 3. 4. 5.
Teoria della conoscenza I concetti universali Come funziona il discorso scientifico Il nesso causale e i limiti delle scienze naturali
6. L’eredità di Ockham 1. Il dibattito epistemologico 2. La nuova filosofia della natura
7. Il potere, lo Stato e la Chiesa 1. Dante Alighieri 2. Marsilio da Padova 3. Ockham politico
4. La mistica speculativa di Meister Eckhart 5. Guglielmo di Ockham 1. Ontologia: il primato degli enti singolari
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Le censure all’aristotelismo nell’università di Parigi
1 Le prime censure del XIII secolo
La censura delle tesi eterodosse del 1270
Centralità dei testi aristotelici e limiti alla discussione
Le condanne del 1277
Il Sillabo di Tempier
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L’introduzione delle opere di Aristotele nell’università non era stata immediata e pacifica. Specialmente nell’università di Parigi, che per statuto dipendeva dall’autorità del papa e dal controllo disciplinare del vescovo, si erano succeduti tentativi di limitazione dell’impiego didattico delle opere di Aristotele, per i contenuti eterodossi che potevano presentare. Le restrizioni del 1210, del 1215 e del 1231 erano però state in qualche modo disattese e, fin dalla metà del secolo, i maestri delle Arti avevano identificato la loro pratica didattica col commentare Aristotele. Il fatto, poi, che eminenti teologi (come Alberto Magno) o maestri delle Arti (come Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante) riconoscessero un’autonomia delle procedure filosofiche rispetto a quelle della teologia aveva legittimato una generazione di studiosi a fare filosofia rimanendo esclusivamente entro coordinate aristoteliche (magari arricchite dagli spunti dei suoi continuatori arabi Avicenna e Averroè). In questo modo, sotto l’ombrello di un aristotelismo puramente esegetico (che non intaccava, cioè, le personali convinzioni religiose dei maestri), si illustravano e si sviluppavano fino alle ultime conseguenze teorie inconciliabili con la tradizione teologica cristiana. In reazione a ciò, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, si moltiplicarono gli interventi polemici di membri della facoltà di teologia. Gli ambienti teologici più conservatori invocavano anche un intervento più deciso dell’autorità ecclesiastica. Così, con un atto censorio promulgato il 10 dicembre 1270, il vescovo di Parigi Stefano Tempier, già maestro di teologia, condannava una serie di tredici tesi filosofiche come erronee e comminava la scomunica a coloro che le avessero insegnate. Tra le posizioni condannate troviamo la dottrina dell’intelletto unico, quella dell’eternità del mondo e quella del determinismo (per cui tutti gli eventi deriverebbero dalla causa prima con una serie di passaggi necessari: una dottrina che contrasta con la tesi cristiana della libertà dell’agire divino). È comunque da sottolineare che questo intervento censorio, come quelli che lo seguiranno, non si rivolge più contro l’utilizzo dei testi aristotelici (che rimarranno saldamente al centro dei programmi universitari anche nei quattro secoli seguenti), ma contro alcune posizioni che da quei testi (e non solo da essi) potevano derivare. Nel 1272 furono approvati i nuovi statuti dell’università di Parigi, nei quali si proibiva espressamente ai maestri della facoltà delle Arti di discutere su temi di pertinenza teologica (la proibizione è un indizio che ciò avveniva e non solo occasionalmente). Le condanne più gravi furono quelle del 1277. Il 7 marzo il vescovo Tempier pubblica un Sillabo, cioè un ‘catalogo’, di 219 tesi ritenute erronee e in contrasto con la fede cristiana. In Inghilterra, undici giorni dopo, il 18 marzo, l’arcivescovo di Canterbury Roberto Kilwardby pronunciava una sua condanna, rivolta al mondo di Oxford. Le 219 tesi contenute nel Sillabo di Tempier colpivano esplicitamente le posi-
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Unità 11 Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo
La teoria della «doppia verità»
Accentuazione del ruolo della libertà divina: la dottrina dell’onnipotenza teologica
L’allargamento del discorso: i mondi possibili
➥ Sommario, p. 688
zioni degli aristotelici radicali e quelle dei teologi di tendenze troppo marcatamente aristoteliche (compreso Tommaso d’Aquino). Il vescovo accusa apertamente i maestri delle Arti di doppiezza intellettuale: «Essi dicono infatti che queste cose sono vere per quanto riguarda l’ambito filosofico, ma non per quanto attiene alla fede cattolica, come se vi fossero due verità contrarie e come se potesse esservi una verità dei filosofi pagani contrapposta alla verità della Sacra Scrittura». Tutte le calibrate distinzioni epistemologiche di Boezio di Dacia sono qui banalizzate e ridotte all’assurdo. Non più un’unica verità e una pluralità di sistemi scientifico-discorsivi, bensì due verità in contrapposizione. La teoria della «doppia verità» (vedi Unità 10, p. 590 ss.), che nessun maestro delle Arti sostenne mai, sembra nascere in questo documento proprio dalle semplificazioni dell’atto censorio che vuole condannarla. La banalizzazione, tuttavia, non è innescata dall’incompetenza filosofica di Tempier e della sua commissione di teologi, quanto dalla preoccupazione pastorale per gli effetti che simili sottigliezze potrebbero avere presso i comuni fedeli cristiani («affinché un incauto chiacchiericcio non induca in errore le menti di uomini semplici»). Rimane però indiscutibile che l’intervento pastorale del vescovo fu fatto interamente a spese della libertà di dibattito filosofico nell’università. Tempier aveva dato voce a una preoccupazione avvertita da molti teologi, ossia che ogni analisi della realtà costruita esclusivamente con gli strumenti della razionalità filosofica rimane ancorata ai nostri limiti e non arriva a cogliere la ricchezza della libertà e dell’onnipotenza divina. Proprio per neutralizzare il rischio di un determinismo tutto risolto entro le cause naturali, il pensiero teologico-filosofico dell’ultimo scorcio del XIII secolo accentuò il ruolo della libertà divina. Per esempio sostenendo che l’apparente regolarità naturale non è vincolante per Dio, che può anche volere diversamente da come noi prevediamo. Inoltre si argomentava che Dio, come un sovrano assoluto, può intervenire su ogni aspetto della realtà attraverso le cause naturali o cause «seconde» (così dette rispetto a Dio, che è causa «prima») o anche direttamente. Questa, che troviamo chiaramente delineata nel francescano Duns Scoto, è la dottrina dell’onnipotenza teologica (distinta dall’onnipotenza filosofica, secondo cui Dio non può prescindere dalla regolarità di comportamento delle cause seconde). Simili rivendicazioni della libertà divina hanno come conseguenza un allargamento dell’oggetto del discorso scolastico, che non si occupa più soltanto della realtà (ossia di ciò che realmente esiste), ma anche della più ampia sfera del possibile. In concreto ciò significa che molti pensatori, per indagare il campo infinito dell’onnipotenza di Dio, iniziarono ad analizzare modelli ipotetici di realtà possibili, anche in aperto contrasto con l’esperienza comune e la fisica aristotelica. Si iniziò così a discutere ipotesi che suonano incredibilmente moderne, come la possibilità che sia la Terra a muoversi intorno al Sole, la pluralità dei mondi e l’esistenza del vuoto. In passato alcuni storici della scienza (come Pierre Duhem e Edward Grant) credettero di vedere in queste congetture una sorta di prefigurazione della scienza moderna. In realtà i teologi medievali erano consapevoli di formulare congetture su mondi possibili (all’onnipotenza divina), ma proprio per questo molto diversi dalla realtà.
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Tomismo e antitomismo
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Antitomismo a Oxford
➥ Percorso tematico, p. 633
Le confutazioni dei francescani
Le repliche dei domenicani
Egidio Romano, continuatore di Tommaso: la composizione di ente ed essenza
➥ Sommario, p. 688
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Già mentre Tommaso era in vita i francescani avevano iniziato ad avversare molte sue dottrine, come la tesi dell’unicità della forma sostanziale o quella della conoscenza per astrazione (che escludeva l’illuminazionismo agostiniano; vedi Unità 8, p. 506 s.). Alla sua morte (1274) l’enorme lascito filosofico del domenicano continuava a suscitare adesioni, ma anche molte prese di distanza. A Oxford, il 18 marzo 1277, una condanna di trenta tesi, prevalentemente legate alle dottrine di Tommaso, fu pronunciata da Roberto Kilwardby, arcivescovo di Canterbury. La condanna era particolarmente significativa, perché Kilwardby, pur essendo anch’egli domenicano, apparteneva a una corrente interna all’ordine in qualche modo legata al tradizionalismo agostiniano. Alla morte di Kilwardby (1279) fu eletto arcivescovo di Canterbury il francescano Giovanni Peckham che si era già scontrato con Tommaso a proposito dell’eternità del mondo. Egli proseguì una politica culturale contraria agli eccessi dell’aristotelismo cristianizzato di Tommaso, in favore di un agostinismo aggiornato, in cui si intrecciavano anche francescanesimo oxoniense e spunti bonaventuriani. Ci fu poi un buon numero di autori francescani che scrissero opere espressamente dedicate alla confutazione di Tommaso. Tra queste la più nota, e programmatica fin dal titolo, è il Correttorio di frate Tommaso che Guglielmo de la Mare compose nel 1278. È una compilazione di 118 citazioni da Tommaso, puntualmente poi confutate con argomenti di autorità e argomenti di ragione. Di lì a poco il Correttorio fu adottato negli studia dei francescani come ‘filtro’ per accostarsi alle opere di Tommaso. Naturalmente i domenicani più legati agli orientamenti di Tommaso non stettero con le mani in mano e produssero una vasta letteratura di repliche al Correttorio, tutte con titoli simili. Possiamo ricordare gli inglesi Riccardo Knapwell (Correctorium quare) e Roberto Orford (Correctorium sciendum) e il francese Giovanni Quidort da Parigi (Correctorium circa). Contemporaneamente si prescrivevano le opere di Tommaso come libri di testo negli studia dei domenicani. Il più importante tra gli immediati continuatori del pensiero di Tommaso a Parigi fu il teologo Egidio Romano (1243/1247-1316), del nuovo ordine mendicante degli agostiniani (o eremiti di Sant’Agostino). A dire la verità, la sua impostazione appare come una creativa ibridazione tra un fondo dottrinale agostiniano e spunti filosofici tomisti riveduti e aggiornati. Così, nei suoi Theoremata de esse et essentia (redatti negli anni ottanta) Egidio riprende la dottrina di Tommaso che negli enti creati vi è composizione di ente ed essenza, ma dà un senso marcatamente realistico ai due termini, come se fossero due res che nella stessa creatura trovano un’unione temporanea e accidentale (simile a quella che, secondo Agostino, si ha nell’uomo tra anima e corpo). Sottolineando che l’esistenza è una res addita («cosa aggiunta») rispetto all’essenza, che ha un primato ontologico, Egidio si avvicina, dunque, alla dottrina avicenniana per cui l’esistenza è un accidente che si aggiunge all’essenza.
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Unità 11 Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo
Giovanni Duns Scoto
3 I testi
G. Duns Scoto Ordinatio: L’essere come concetto univoco, T1; L’indifferenza della natura comune, T2
L’originalità e la complessità di Duns Scoto
Questo teologo francescano, noto per la complicazione tecnica delle sue argomentazioni (per questo viene chiamato «dottor sottile»), ha incarnato in pieno lo spirito degli ultimi decenni del XIII secolo, elaborando teorie profondamente innovative in quasi tutti i settori della filosofia e della teologia. Basta pensare al fatto che egli propone una teoria unificata (e non analogica) dell’essere valida per le creature come per Dio, che formula un’originale prova modale dell’esistenza di Dio (basata, cioè, sulla possibilità), che fonda la certezza della conoscenza su atti cognitivi che colgono l’essenza direttamente nella realtà individuale e che si fa assertore di un primato della volontà sull’intelletto. Dal pensiero di Scoto è nata una tradizione scotistica, che ha sistematizzato le dottrine del maestro e nei secoli successivi è stata regolarmente insegnata nelle scuole di teologia. Gli scritti di Scoto, però, sono ben poco sistematici e spesso le posizioni personali si delineano progressivamente e faticosamente, rallentate da estese digressioni polemiche contro gli avversari (primo fra tutti Enrico di Gand).
La vita e le opere Giovanni Duns Scoto, scozzese (Scotus), nacque nel 1265 circa, forse nel villaggio di Duns. Studiò a Oxford (1288-1301) dove iniziò a insegnare come baccelliere, commentando le Sentenze di Pietro Lombardo. Passò poi all’università di Parigi (1302-1307) e, infine, allo studium francescano di Colonia. Ma qui, dopo un solo anno di insegnamento, morì a quarantatré anni, nel 1308. Le sue principali dottrine filosofiche si trovano
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Additiones magnae: La volontà come causa indeterminata, T3
nelle Questioni sottilissime sulla Metafisica e nei diversi corsi di commento alle Sentenze: la Lectura (che riflette l’insegnamento a Oxford), l’Opus oxoniense o Ordinatio (il corso di Oxford riordinato dall’autore per la pubblicazione a Parigi) e vari Reportata parisiensia (cioè appunti presi dai suoi studenti durante i corsi parigini). A queste possiamo aggiungere due opere dell’ultimo periodo: il trattato Sul principio primo e le Questioni su argomenti vari.
Teologia e filosofia
Una vecchia tradizione storiografica vedeva in Duns Scoto l’inizio di un irreparabile divorzio tra razionalità filosofica e teologia. In realtà le profonde innovazioni di Scoto si innestano nella tradizione del pensiero francescano (da Bonaventura a Bacone) e prendono, semmai, le distanze da un concreto impianto di integrazione tra filosofia e teologia come era quello di Tommaso. Contro aristotelici Di fatto Scoto si distanzia sia dagli aristotelici radicali, che vedevano la realizradicali e concordismo zazione umana nell’esercizio della razionalità filosofica, sia dai programmi concordisti dei teologi scolastici, secondo i quali la filosofia è preliminare al discorso teologico e fornisce anche metodi dimostrativi per strutturarlo. Scoto ricono659
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
La teologia come sapere pratico
I compiti della filosofia
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sce che il fine soprannaturale dell’uomo è indicato alla fede del cristiano attraverso la rivelazione religiosa, ma è consapevole che la verità di fede non può esser fatta valere nel discorso filosofico, in quanto estranea ad esso. Le verità teologiche, del resto, non sono deducibili con le procedure del pensiero scientifico-dimostrativo, perché la teologia si fonda su eventi che, in quanto voluti liberamente da Dio, non rientrano in una struttura necessaria, ma sono contingenti. In altri termini, i contenuti della rivelazione sono quelli che sono solo perché Dio li ha voluti così, ma avrebbe potuto volerli diversamente: non c’è alcuna necessità dell’incarnazione e morte del Figlio di Dio; Dio avrebbe potuto ottenere la nostra salvezza in altri modi, se avesse voluto. Pertanto i contenuti teologici devono essere creduti per fede e la teologia non è una scienza teoretica, ma un sapere pratico, il cui fine è dare all’uomo quegli insegnamenti che abituano la sua volontà ad agire rettamente e a prepararsi per la salvezza. Proprio perché trae i propri principi dalla rivelazione, la teologia si distingue radicalmente da ogni forma del sapere scientifico-filosofico, che è impresa puramente umana. Ma la distinzione tra i compiti della teologia e quelli della filosofia lascia, naturalmente, a quest’ultima la piena competenza nell’indagare sulle strutture della realtà, sulla conoscenza umana e anche, come vedremo, su alcuni aspetti di Dio.
Metafisica: l’univocità dell’essere
In ontologia Scoto parte dalla convinzione che l’oggetto della filosofia prima sia l’essere in quanto essere, cioè l’essere inteso come nozione prima del pensiero, a prescindere dalle sue ulteriori determinazioni. Infatti, tutto ciò che possiamo pensare comporta la nozione di essere, mentre l’essere in quanto essere non presuppone alcuna nozione anteriore. Per questa sua anteriorità e universalità l’essere deve avere un’accezione univoca. Come sappiamo, si dice «univoco» un termine che in ogni sua occorrenza ha sempre la stessa accezione. Pertanto quando Scoto parla di «univocità dell’essere» intende sostenere che la nozione di essere ha sempre lo stesso significato, sia che parliamo di Dio, sia che parliamo delle creature. Su questo punto Scoto si contrappone alla tradizione che vorrebbe analogici i sensi dell’essere e dei predicati attribuiti a Dio, dottrina sostenuta anche da Tommaso e, più recentemente, da Enrico di Gand. Critica all’analogia Tommaso riteneva che tra l’essere delle creature e quello di Dio ci sia un rapdell’essere porto analogico, ossia «proporzionale», di «relazione», come quello che si ha tra effetti e causa (vedi Unità 10, p. 599 ss.). Questo significa che, parlando di Dio, causa suprema, i predicati assumono un senso non radicalmente diverso, ma correlato rispetto a quando usiamo gli stessi predicati per le creature. Per esempio, se dico che un uomo è sapiente designo una qualificazione distinta dalla sua essenza e dalla sua esistenza; ma se lo dico di Dio, che è assolutamente semplice, indico una perfezione che coincide con l’essenza e l’esistenza divina, e che supera la nostra capacità di comprendere. Per Scoto tali correlazioni «analogiche» in realtà usano in modo «equivoco» uno stesso termine per indicare due realtà che comunque si ritengono diverse. Questa impostazione impedisce una scienza unitaria dell’essere. Univocità dell’essere Secondo Scoto, invece, anche il semplice fatto di predicare «per analogia» uno stesso termine di due realtà diverse comporta che esse abbiano qualcosa in coL’essere in quanto essere ha un’accezione univoca
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mune. Per esempio il fatto che Dio sia essere infinito e le creature siano essere finito, comporta che abbiano in comune l’essere. Questo può essere provato considerando che molti uomini non sanno con certezza se Dio è finito o infinito, ma riconoscono che è senz’altro un ente. Ciò significa che ‘essere’ è una nozione comune e anteriore alla sua articolazione in finito e infinito. Ecco le parole di Scoto nell’Ordinatio:
T1
L’essere come concetto univoco
G. Duns Scoto, Ordinatio, 1,3,1
3 Metafisica e indagine sugli attributi di Dio: l’argomento modale
Circolarità della via tommasiana
La prova «modale»: serie causali essenzialmente ordinate
La possibilità di un termine primo incausato e incausabile comporta la sua esistenza
[…] quando un intelletto è certo di un concetto e nel dubbio riguardo ad altri, possiede di ciò di cui è certo un concetto diverso da quelli di cui dubita […]. Ora, l’intelletto dell’uomo in questa esistenza terrena può essere certo che Dio è un ente, ma avere dubbi intorno all’ente finito o infinito, creato o increato; dunque il concetto di ente a proposito di Dio è diverso da questo o quel concetto, e così di per sé non è né l’uno né l’altro ed è incluso in entrambi. Dunque è univoco.
Parlare metafisicamente di Dio La ragione umana da sola non può raggiungere i contenuti più profondi della teologia, come la Trinità, che è la natura stessa di Dio. Per questi è imprescindibile la rivelazione. Ci sono però altri aspetti di Dio (esistenza, semplicità, infinità) che possono essere conosciuti dall’uomo anche attraverso le facoltà naturali. Di questi si occupa la metafisica. Volendo parlare degli attributi di Dio, chi sostiene l’analogicità dell’essere parte dalle proprietà degli esseri finiti, per risalire a Dio come fonte e causa di ogni aspetto della realtà. Il metodo di Duns Scoto, invece, non è un risalire dal creato a Dio alla maniera delle prime due vie tommasiane, quanto piuttosto provare l’esistenza di Dio con un argomento «modale» (cioè fondato sulla nozione di possibilità) e indagare la natura propria di Dio inteso come essere infinito. Scoto formula la sua prova analizzando dapprima la struttura della causalità efficiente. Tommaso, come sappiamo, aveva stabilito nella seconda via che, risalendo la catena degli effetti e delle cause, se non voglio continuare all’infinito, devo porre una causa prima non causata. In questi termini, però, la via non dimostra alcunché, perché incorre nella fallacia della petizione di principio, ovvero assume quel che dovrebbe dimostrare («non voglio andare all’infinito, quindi c’è un termine»). Per evitare questa circolarità, Scoto riformula la prova restringendola a serie causali «essenzialmente ordinate». Sono ordinate accidentalmente le serie in cui un livello di relazione causale non è la causa anche di quelli successivi (il fatto che mio nonno abbia generato mio padre non è la causa sufficiente perché mio padre abbia generato me). Sono ordinate essenzialmente le serie in cui i termini ultimi dipendono essenzialmente dall’intera sequenza dei termini anteriori (lo slancio dell’intero corpo che scarica sulla gamba che calcia il pallone), dimodoché la serie non è né aperta, né reversibile. Pensiamo ora la serie essenziale delle cause efficienti. È naturalmente possibile ipotizzare che abbia un termine primo incausato e incausabile (visto che la serie non può essere aperta). Ma se questo efficiente assolutamente primo, incausato e incausabile è possibile (in quanto pensabile senza contraddizione), da dove deriva la sua possibilità? Non da una causa anteriore, ovviamente. Non da un ipotetico se stesso ancora inesistente, perché nessun ente passa per virtù propria dal nulla all’esisten661
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za. Non da se stesso, perché allora non sarebbe più l’efficiente assolutamente primo e incausato. Quindi la possibilità del primo efficiente comporta che questo esista. La stessa linea argomentativa vale per le cause prime di ogni serie causale essenziale, cause che coincidono nella Causa prima incausabile che è l’ente infinito. Ricostruzione schematica della ‘prova modale’
Premessa: per ogni serie causale essenzialmente ordinata A, B, C, … è possibile postulare l’esistenza di una causa prima incausata K che è all’origine di ogni serie A, B, C, … Domanda: da dove deriva la possibilità di K? 1) da qualcosa che ne è la causa; 2) dal nulla; 3) da se stessa. Ma ognuno di questi tre casi risulta insostenibile. Prima conclusione: la possibilità di K deriva dall’esistenza di K. (Infatti, se X esiste allora X è anche possibile) Seconda conclusione: la causa prima incausata K è unica. (Da essa hanno origine tutte le serie causali A, B, C, …)
Scoto è consapevole di aver posto sotto una nuova luce l’argomento «ontologico» di Anselmo (coloratio Anselmi; vedi Unità 9, p. 552 s.): non si tratta di ricavare l’esistenza di Dio dal concetto di Dio, ma di scoprire che la possibilità di pensare senza contraddizione il maggiore in senso assoluto (cioè l’essere infinito) comporta necessariamente la sua esistenza. Il grado infinito In sintonia con la dottrina dell’univocità dell’essere, Scoto ritiene che Dio non delle perfezioni abbia una natura radicalmente diversa da quella delle creature. Solo che Dio possiede in grado infinito tutte le perfezioni che troviamo in modo parziale e disperso nelle creature. La differenza non è di qualità, dunque, ma di grado. Dobbiamo qui tener presente che nel pensiero del francescano la nozione di infinito non è intesa come «privazione» o negazione di limitazioni («infinito» come «non limitato da qualcosa»), ma è un carattere positivo, che denota una perfezione intrinseca. Se l’infinità delle perfezioni fosse un insieme di tratti accidentali che si aggiungono, sia pure in misura grandissima, a Dio, avremmo qualcosa di estrinseco. Ma l’idea di Scoto è che in Dio si abbia il vertice assoluto delle perfezioni inteso in maniera puramente qualitativa (senza misura e senza paragoni: pura infinità, appunto). Così intesa, l’infinità è un carattere intrinseco che non si aggiunge all’essere di Dio, ma si identifica con esso. La ripresa dell’argomento «ontologico» di Anselmo
4 Dio ente infinito, creatura ente finito
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La natura comune, gli individui e gli universali Proprio perché la nozione di ente è usata nello stesso senso a proposito di Dio e delle creature, diventa importante capire in che modo gli enti finiti, ossia le creature, si differenziano da Dio. Il punto di partenza di Scoto è che Dio, causa prima ed ente infinito, determina l’altro da sé – la creatura – come ente finito. La natura finita e individuale degli enti non è un fatto da dedurre aggiungendo qualcosa (un principio di individuazione, l’esistenza) a qualcos’altro (l’essenza). L’individualità degli enti creati è un dato basilare e non deve essere dimostrato.
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Unità 11 Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo La natura comune
T2
L’indifferenza della natura comune
G. Duns Scoto, Ordinatio, 2,3,1
L’haecceitas
La distinzione formale: aspetti diversi ma unitari
Gli universali
5 Due tipi di atto intellettivo per cogliere l’essenza dell’individuale
Scoto fa propria la teoria avicenniana secondo cui ogni essenza o «natura comune» di per sé non è né individuale né universale, ma si dà in due modi: universale per il pensiero che la pensa come concetto e individuale nelle singole sostanze extramentali. La natura comune non è di per sé universale, ma l’universalità le sopraggiunge come sua prima determinazione, in quanto è oggetto [del pensiero]; similmente nella realtà esterna, dove la natura comune si unisce alla singolarità, questa natura non è di per sé determinata per la singolarità, ma è per natura anteriore alla determinazione che la contrae in un singolo individuo. Proprio perché è per natura anteriore al singolo individuo che la contrae, non le ripugna essere senza di questo. L’individualità non è un carattere aggiunto all’essenza comune, ma la sua ultima perfezione, che Scoto intende come contrazione della natura comune nella sostanza particolare, in un modo che non è ulteriormente divisibile. Per indicare questa unità che non è tanto quella numerica, quanto quella della singolarità esistente, Scoto ha coniato il neologismo latino haecceitas, un sostantivo astratto ricavato dal pronome femminile haec («questa cosa qui»). In italiano suonerebbe come ‘questità’ e si contrappone all’essenza, che gli scolastici chiamavano quidditas, dal pronome quid («che cosa?»). Ferma restando l’unità reale dell’individuo, è tuttavia possibile distinguere in esso aspetti formali diversi, che corrispondono alle diverse funzioni (in linea con la dottrina bonaventuriana della pluralità delle forme). Non si tratta né di una distinzione reale (come se il singolo fosse fatto di più res), né di una distinzione soltanto razionale (cioè puramente concettuale), precisa Scoto, ma più propriamente di una distinzione formale (distinctio formalis), cioè una distinzione di aspetti unitari nella realtà, ma rispondenti a definizioni diverse. La dottrina delle formalitates, che peraltro gioca un ruolo strategico nella teologia di Scoto (per distinguere formalmente ma non realmente le tre persone della Trinità e gli attributi divini), sarà fortemente avversata da Ockham. La distinzione formale ci ha già introdotto nella teoria della conoscenza. Anche qui, infatti, Scoto parte dal dato di fatto dell’unitarietà dell’individuo, nel quale, tuttavia, si possono distinguere «formalità» diverse. In questo senso è possibile distinguere la differenza individuale dalla natura comune, scomponibili formalmente, perché la definizione dell’una non implica la definizione dell’altra. La natura comune è di per sé indifferente all’universalità e alla particolarità. Siamo noi a renderla universale attraverso un’operazione mentale che la pensa come concetto, astraendo l’aspetto formale dall’unità reale della cosa. Come precisa Scoto: «l’universalità non è un concetto metafisico, ma un concetto logico», funzionale alla conoscenza.
Intuizione e astrazione Scoto ha formulato una distinzione che verrà continuamente richiamata nel dibattito filosofico successivo, quella tra cognizione intuitiva e cognizione astrattiva (vedi la teoria della conoscenza di Ockham, p. 669 s.). Non si tratta dell’intuizione sensibile del singolare e dell’astrazione intellettiva del concetto universale, ma di due tipi di atto intellettivo, che hanno entrambi per oggetto l’essenza di ciò che è 663
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Possibilità della conoscenza intellettuale diretta dell’essenza
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individuale. Scoto ci arriva attraverso un parallelismo. Nelle facoltà sensibili si distinguono due livelli: quello dei sensi, che percepiscono l’oggetto sensibile in presenza di esso, e quello dell’immaginazione, che percepisce lo stesso oggetto in assenza di esso, astrattivamente, attraverso le specie sensibili. La stessa duplice funzione deve trovarsi nella facoltà superiore dell’intelletto. Dunque si ha cognizione intuitiva quando cogliamo l’essenza di un oggetto riconoscendola nel fatto che questo esiste (e prescindendo dalla mediazione dei sensi e delle immagini mentali); si ha cognizione astrattiva quando quell’essenza è pensata a partire dalle specie intelligibili mentali, astraendo dall’esistenza o non esistenza dell’oggetto. Ma la prima innovazione di Scoto è ritenere possibile la cognizione intuitiva dell’essenza, vale a dire una conoscenza intellettuale diretta, che riconosca la natura essenziale di un oggetto individuale prescindendo dalla mediazione delle immagini mentali. Se non ci fosse una cognizione intellettuale in grado di astrarre rispetto all’esistenza dell’oggetto, non potremmo avere conoscenza scientifica a partire dagli oggetti contingenti che ci circondano. In questo modo si allarga l’epistemologia aristotelica e la cognizione intuitiva può conferire certezza anche a proposizioni relative a ciò che è individuale e contingente. Questo primato dell’individuale sarà portato alle estreme conseguenze da Ockham e influenzerà profondamente le scienze naturali del XIV secolo (vedi p. 670 ss.).
L’etica: volontà e libertà nell’uomo
Per Tommaso la volontà è un «appetito intellettuale» che traduce in azione ciò che l’intelletto le presenta. Per questa dipendenza del volere da rappresentazioni intellettuali si definisce la posizione di Tommaso come intellettualismo etico. Per Scoto, invece, si ha un primato della volontà sull’intelletto, tanto che gli interpreti parlano di volontarismo. Come si arriva a questa posizione? Il primato Scoto assume che la libertà consista nel poter causare effetti opposti. Ora, l’indella libertà del volere telletto non possiede questa indeterminazione, perché, di fronte a un concetto o a un’asserzione vera, non può che assentire. La volontà, invece, può volere effetti opposti e causare effetti non solo meritori ma anche riprovevoli, e questo è il contrassegno della sua libertà. Non solo il poter peccare, poi, è indice di libertà, ma anche il fatto di compiere scelte giuste che però vanno contro al proprio benessere. Infatti la volontà non ha solo l’affectio commodi, che è l’inclinazione verso ciò che procura benessere, ma anche l’affectio iustitiae, che è l’inclinazione verso ciò che è giusto, a prescindere dal vantaggio personale. Possiamo ritrovare alcuni di questi spunti in una quaestio che il discepolo Guglielmo di Alnwick ha raccolto dalle lezioni oxoniensi di Scoto.
Dall’intellettualismo etico di Tommaso al primato della volontà di Scoto
T3
La volontà come causa indeterminata
G. Duns Scoto, Additiones magnae, 2,25
664
Nient’altro se non la volontà è causa totale della volizione nella volontà. […] Ci sono cose che avvengono in modo contingente, vale a dire in modo evitabile (altrimenti, se tutto accadesse in modo inevitabile, non ci sarebbe bisogno di prendere decisioni o di operare scelte, come dice Aristotele nel De interpretatione). Ma allora mi chiedo da dove e da quale causa sia prodotto ciò che accade in modo contingente. Non da una causa determinata, perché, nell’istante in cui questa determina, l’effetto non può avvenire in modo contingente. Allora da una causa indeterminata all’uno o all’altro degli opposti. Dunque: o questa causa può de-
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➥ Sommario, p. 688
Cause determinate e indeterminate
terminare se stessa in modo contingente verso uno degli opposti […] o non può, ma è determinata da qualcos’altro […]. Se il determinante determina in modo contingente ed evitabile ad uno degli opposti, in modo che potrebbe anche determinare all’altro, tale determinante non può essere che la volontà, perché ogni causa agente naturale è determinata a compiere un solo effetto.
Dalla causa naturale (determinata)
l’effetto (evento) segue necessariamente
può seguire l’evento (contingente) A Dalla volontà (causa indeterminata)
può seguire l’evento (contingente) B (≠ A)
La mistica speculativa di Meister Eckhart
4 I testi
Meister Eckhart Sermoni: La generazione interiore, T4; Liberi da Dio in Dio, T5
Il movimento mistico domenicano
L’influenza dei Sermoni sulle comunità spirituali laiche femminili
Meister Eckhart si può collocare in una corrente mistico-speculativa della teologia domenicana, nata dai commenti alle opere dello pseudo-Dionigi composti da Alberto Magno e da Tommaso. Il movimento mistico domenicano si era poi sviluppato soprattutto in Germania, nell’area intorno al Reno, come una ripresa dell’insegnamento di Alberto Magno, di cui accentuava i caratteri neoplatonizzanti. La figura di maggior rilievo fu Teodorico di Freiberg (morto nel secondo decennio del XIV secolo), il cui progetto filosofico tentava di coniugare aristotelismo e psicologia agostiniana su una struttura metafisica neoplatonica ricalcata sugli Elementi di teologia di Proclo. La teologia mistica, però, non esprimeva soltanto i vertici speculativi di alcuni maestri, ma andava anche incontro a una sensibilità del mondo religioso femminile, sia quello dell’ordine femminile domenicano, sia quello di nuove comunità laiche, collegate al movimento beghino. Per la loro indipendenza dalle strutture ecclesiastiche e per alcune novità di dottrina, queste comunità spirituali laiche apparvero troppo vicine ai movimenti ereticali e furono represse. Su questi movimenti esercitarono una forte influenza i Sermoni in lingua tedesca di Eckhart, che rendevano accessibile al mondo extrauniversitario una potente sintesi teori665
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ca fra tradizione neoplatonizzante domenicana e teologia mistica pseudo-dionisiana, tradotta però in un metodo contemplativo svincolato dai tecnicismi della filosofia tradizionale.
La vita e le opere Eckhart di Hochheim, in Turingia (1260 ca. - 1328), aveva studiato e successivamente insegnato a Parigi e a Colonia, ma all’attività di maestro universitario affiancò la predicazione in lingua tedesca e la direzione della formazione spirituale e culturale dei conventi domenicani femminili della zona renana.
L’unione con Dio nella profondità increata dell’anima
Il distacco da tutto alla ricerca della pura deità
Dio nel vuoto dell’anima
T4
La generazione interiore Meister Eckhart, Sermoni, 5b
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Questa pluralità di impegni è adeguatamente rappresentata dalla varietà dei suoi scritti, che si articolano in opere latine pensate per il mondo universitario (trattati teologici e scritti di esegesi biblica) e opere tedesche (in tedesco medievale o Mittelhochdeutsch), nate dalla sua predicazione, non solo al popolo, ma prevalentemente nei conventi.
Il tema fondamentale del pensiero eckhartiano è l’unione dell’anima con Dio. Ma questa unione non è raggiunta dal maestro tedesco invocando genericamente un’esperienza estatica o facendo appello all’affettività. È vero che, come avviene nel pensiero di molti autori mistici, anche Eckhart sottolinea l’annullamento, la spoliazione della creatura di fronte a Dio. Tuttavia, non solo nelle opere latine, ma anche nei Sermoni in lingua tedesca, emergono tratti che risentono sia della teologia negativa dello pseudo-Dionigi, sia del metodo agostiniano dell’interiorità. Già Agostino aveva detto che Dio è «più interiore della mia interiorità» («interior intimo meo»). Anche per Eckhart, il processo di unificazione con Dio avviene nel fondo dell’anima (grunt der sêle), quando la profondità increata della nostra anima viene a coincidere con la profondità di Dio. Per arrivare a questo l’uomo deve spogliare se stesso di tutte le cose, esteriori e interiori, e addirittura della propria volontà; deve cessare di cercare alcunché («né ricompensa, né utilità, né soddisfazione, né dolcezza, né fervore, né regno dei cieli, né volontà propria»). Ma non basta. Deve spogliare anche Dio da ogni concettualizzazione teologica, biblica e religiosa, così che rimanga la pura deità (gotheit), il puro fondo di Dio. Il tratto più caratteristico della via mistica eckhartiana, il distacco (abgescheidenheit), non è soltanto l’abbandono delle cose esteriori e di se stesso, ma è anche la ricerca di un vuoto interiore in cui possa pienamente rivelarsi la pura divinità, finalmente liberata dalle approssimazioni del pensiero rappresentativo. Infatti l’esperienza religiosa è ordinariamente veicolata da immagini o contenuti rappresentativi: pensare Dio come padre, come figlio, come spirito, pensare la croce, il sangue e così via. La via radicale indicata da Eckhart è quella di un distacco dalle immagini e dai concetti. Solo dopo aver eliminato ogni rappresentazione di Dio, ogni concezione storicamente determinata, in questo vuoto dell’anima entra Dio; non Dio in quanto pensato o rappresentato in qualche modo (padre, creatore, signore…), ma pura deità, ovvero Dio in sé e non in relazione ad altro, unità al di sopra di ogni molteplicità. In questo modo Dio non è pensato nella forma di una determinazione rappresentativa, ma si genera in noi, con un processo che Eckhart non esita ad avvicinare alla generazione del Logos / Verbum. Dio ha inviato il suo unico Figlio nel mondo [Prima lettera di Giovanni, 4, 9]. Non dovete intendere come mondo esterno, in quanto egli mangiava e beveva con noi, ma dovete intenderlo in relazione al mondo interiore. Così come il Padre, nella sua semplice natura, genera il Figlio, altrettanto naturalmente lo genera nella
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parte più intima dello spirito, e quello è il mondo interiore. Qui il fondo di Dio è il mio fondo, e il mio fondo è il fondo di Dio. […] Perché in verità, se qualcuno si immagina di ricevere da Dio nell’interiorità, pietà, dolce rapimento e grazia particolare più che presso il focolare o nella stalla, non fa altro che prendere Dio, avvolgergli un mantello intorno alla testa e cacciarlo sotto una panca. Infatti colui che cerca Dio secondo un modo, prende il modo e lascia Dio, che è nascosto nel modo. Ma chi cerca Dio senza modo, lo prende quale è in se stesso, e un tale uomo vive nel Figlio, ed è la stessa vita. […] Esci completamente da te stesso per Dio, e Dio uscirà completamente da se stesso per te. Quando entrambi escono da loro stessi, ciò che permane è l’Uno, nella sua semplicità. In questo Uno il Padre genera il Figlio nella più intima fonte. Alla ricerca dell’unità originaria dell’anima
T5
Liberi da Dio in Dio Meister Eckhart, Sermoni, 52
Sulla base di queste premesse possiamo comprendere meglio in che senso Eckhart arriva a dire «preghiamo Dio di diventare liberi da Dio» o «Dio non è né essere, né essere dotato di intelletto […] è privo di tutte le cose, e perciò è tutte le cose». Sono affermazioni del Sermone 52, centrato sull’aspirazione dell’anima a ritrovare l’unità originaria, anteriore all’individuazione, quando l’anima era in Dio, inconsapevole di Dio, in quanto incapace di pensarlo come altro da sé e concettualizzarlo. Finché l’uomo ha ancora in sé la volontà di compiere la dolcissima volontà divina, non ha ancora la povertà di cui parliamo. Infatti egli ha ancora una volontà con cui vuole soddisfare la volontà di Dio e questa non è la vera povertà. Perché l’uomo sia davvero povero, deve esser privo della propria volontà creata come lo era quando ancora non esisteva. […] Quando ero nella mia causa prima, non avevo alcun Dio, e là ero causa di me stesso; allora niente volevo né desideravo, perché ero vuoto essere […]. Ma quando, per libera scelta, uscii e assunsi il mio essere creato, allora ebbi un Dio; infatti Dio non era Dio prima che fossero le creature, ma era quello che era. Quando invece furono le creature e ricevettero il loro essere creato, Dio non era Dio in se stesso, ma era Dio in rapporto alle creature. […] Perciò preghiamo Dio di diventare liberi da Dio e di cogliere la verità e godere dell’eternità là dove l’angelo più alto, la mosca e l’anima sono uguali.
Non dobbiamo dimenticare che queste formulazioni, così estreme e fuori del consueto, Eckhart le presentava nella sua predicazione di lingua tedesca rivolta al popolo o, comunque, alle domenicane illetterate. Non c’è da stupirsi se l’autorità ecclesiastica intravide nella diffusione di formule come «Dio non è essere» o «Dio è tutte le cose» il rischio di derive eterodosse (irreligiose o panteistiche). Così nel 1326 l’arcivescovo di Colonia avviò un processo inquisitoriale contro alcune proposizioni estratte dalle prediche di Eckhart. Questi si difese con lucidità e convinzione, appellandosi al papa. Un anno dopo la morte di Eckhart, nel 1329, il pontefice avignonese Giovanni XXII nella bolla In agro dominico condannerà come eretiche diciassette sue proposizioni e giudicherà in odore di eresia altre undici tesi tratte dai suoi scritti. I discepoli e l’influenza Il pensiero di Eckhart continuò tuttavia a diffondersi, ripresentato con formulasu Lutero zioni meno estremistiche dai suoi diretti discepoli, i domenicani tedeschi Enrico Suso e Giovanni Taulero (i sermoni di quest’ultimo eserciteranno una profon➥ Sommario, p. 688 da influenza su Martin Lutero). Le accuse di eresia
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Guglielmo di Ockham
5 I testi
Guglielmo di Ockham Questioni sulla Fisica: Natura e origine degli universali, T6 Il dibattito storiografico sul XIV secolo
In passato gli storici tendevano a presentare il Trecento come secolo di decadenza o dissoluzione della filosofia scolastica. Un simile giudizio si fondava sulla convinzione che il secolo precedente, il XIII, fosse l’età d’oro della scolastica, con i vertici speculativi nelle grandi sintesi dottrinali di autori come Tommaso e Bonaventura, mentre nel XIV secolo i vari pensatori (e in particolare Guglielmo di Ockham) avrebbero eroso dall’interno il patrimonio filosofico e teologico dei predecessori, approdando a esiti scettici e distruttivi. La ricerca più recente ha invece chiaramente rivelato come il XIV secolo abbia un profilo speculativo elevato e del tutto peculiare, non solo perché si sottoposero a revisione le tradizionali dottrine metafisiche, ma, principalmente, perché a questo si accompagnarono importanti sviluppi nei settori della logica, della fisica e della riflessione politica. In linea generale, la netta distinzione tra teologia e campi del sapere filosofico (nella versione delineata da Duns Scoto) imprime alla filosofia un carattere ancora più marcatamente tecnico (in cui è centrale l’analisi del linguaggio) e spinge a un profondo rinnovamento della filosofia della natura.
La vita e le opere Nato nel 1280 circa nel villaggio di Ockham (in inglese contemporaneo si direbbe «Oak Hamlet», «villaggio della quercia»), nel Surrey, a sudovest di Londra, Guglielmo entrò ragazzino nell’ordine francescano. Dopo gli otto anni di preparazione filosofica (logica e filosofia naturale) presso il convento di Londra (o forse in parte anche a Oxford), proseguì con gli studi di teologia a Oxford (1317-1321), dove divenne baccelliere sentenziario (1321-1324). Dalle prime esperienze di insegnamento, nacquero un Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo (la parte sul primo libro è detta anche Ordinatio, perché rivista dall’autore stesso per la pubblicazione), l’Esposizione aurea sull’ars vetus (vale a dire un commento all’Isagoge di Porfirio, a Categorie, De interpretazione e Elenchi sofistici di Aristotele), la Somma di logica e il commento alla Fisica di Aristotele. Nel 1324 Guglielmo fu costretto a lasciare l’Inghilterra e a trasferirsi in Francia, presso la sede papale di Avignone, per rispondere all’accusa di eresia che gli era stata mossa da un velenoso difensore dell’ortodossia, John Lutterell (un tomista zelante e polemico, già cancelliere dell’università di Oxford, poi deposto dal vescovo di Lincoln su richiesta della stessa università). In un dossier inviato al papa Giovanni XXII, Lutterell aveva messo insieme molti estratti dal commento di Ockham alle Sentenze, che riteneva eterodossi e dottrinalmente pericolosi. Una commissione nominata dal papa studiò questi documenti per alcuni anni e vi trovò non solo molte tesi erronee ma anche
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alcune tesi eretiche. Nello stesso periodo il papa aveva fatto inquisire ad Avignone anche altri teologi francescani, per le loro tesi radicalmente evangeliche sulla povertà (sostenevano che la vita di povertà ed elemosina dei francescani era l’imitazione dello stile di vita di Gesù e degli apostoli). Uno di loro, Michele da Cesena, ministro generale dell’ordine, chiese a Guglielmo di esaminare il contenuto delle accuse del papa da un punto di vista teologico. Ritennero che il papa fosse su posizioni estranee alla coerenza evangelica, addirittura in eresia e, proprio per questo, cessasse di essere legittimamente pontefice. Così, venuto meno il vincolo dell’obbedienza, la notte del 26 maggio 1328 Guglielmo decise di fuggire da Avignone, insieme a Michele da Cesena e altri due confratelli. Il gruppo cercò rifugio a Pisa, dove si trovava, con la sua corte, il sacro romano imperatore Ludovico il Bavaro, allora impegnato nella polemica col papa sui rapporti tra potere civile (imperiale) e potere ecclesiastico (pontificio). Il 6 giugno 1328 Ockham fu scomunicato (non per le sue idee, però, ma per aver lasciato Avignone senza permesso). Iniziò così una nuova fase della produzione di Ockham che, fattosi sostenitore militante della povertà francescana e critico verso le teorie sulla ‘pienezza di potere’ del papa, da qui in avanti si dedicò esclusivamente a opere teologico-politiche (Otto questioni sul potere del papa, Lettera ai frati minori, Opera dei novanta giorni, Dialogo). Guglielmo seguì l’imperatore in Germania, a Monaco di Baviera, dove morì nel 1347.
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Minimalismo ontologico: la distinzione tra enti singolari e concetti universali
La riduzione delle entità reali: il rasoio di Ockham
2 Contro la specie intelligibile, non necessaria per il funzionamento della conoscenza
Ontologia: il primato degli enti singolari Fin dai primi scritti del periodo di Oxford, Guglielmo mise chiaramente a fuoco le sue tesi fondamentali e ne fece la base di una revisione filosofica radicale, che investe ontologia, teoria della conoscenza e teoria del linguaggio. La tesi fondamentale di Ockham è che, essendo la realtà costituita da enti singolari, non si devono scambiare le astrazioni linguistiche per enti reali. I concetti universali, infatti, derivano da un atto del pensiero (dunque hanno natura mentale e linguistica). Per essere più precisi, Ockham ammette la realtà solo per la materia, le sostanze individuali e le qualità individuali. Si tratta, evidentemente, di una sorta di realismo aristotelico ridotto all’osso, in polemica con ogni idealismo platonizzante, compreso quello della tradizione platonico-agostiniana (che riteneva reali le essenze universali), ma anche in polemica con ogni patente di realtà attribuita dai pensatori precedenti a distinzioni puramente concettuali (come la «distinzione reale» tra essenza ed esistenza di Tommaso, o le «formalità» di Duns Scoto). La riduzione delle entità ammesse come reali è un’applicazione di un principio di economia, conosciuto in seguito con l’espressione «rasoio di Ockham», che spesso ricorre come slogan e principio di metodo negli scritti del francescano: «non utilizzare troppe cose quando ne bastano meno» («frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora» o anche «pluralitas non est ponenda sine necessitate»; spesso viene attribuito a Ockham anche il detto «entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem», ma, in realtà, questa formulazione non ricorre mai nei suoi scritti). La «parsimonia» ontologica di Ockham è stata spesso interpretata come una radicalizzazione del minimalismo ontologico sostenuto dai nominalisti del XII secolo (gli universali come meri fatti linguistici ai quali non corrisponde alcuna natura comune realmente sussistente). Per questo la storiografia tradizionale parla di Ockham come nominalista ontologico, gnoseologico e logico. Gli studiosi più recenti, però, preferiscono definirlo «concettualista», per motivi che appariranno chiari quando parleremo della natura degli universali.
Teoria della conoscenza Anche nella sua teoria della conoscenza Guglielmo adotta il suo rasoio e rigetta tutti i passaggi non strettamente indispensabili. Per molti rappresentanti dell’aristotelismo scolastico la struttura dell’atto conoscitivo richiedeva non solo le specie sensibili (forme particolari dei singoli enti), ma anche le specie intelligibili, ossia forme mentali departicolarizzate, servendosi delle quali il pensiero ricaverebbe per astrazione il concetto universale (una dottrina del genere fu sostenuta anche da Tommaso d’Aquino). Per Ockham queste strutture intermedie, dalla natura ontologica sfuggente, non sono assolutamente richieste perché la conoscenza funzioni. Infatti Guglielmo obietta che, se con «specie intelligibile» si intende già il concetto universale non c’è ragione di introdurre questa ulteriore formula; se invece si intende qualcosa di intermedio, non ancora pienamente universale, un evanescente doppione del particolare, allora si tratta di un passaggio superfluo. Per spiegare la conoscenza basta partire dalla nostra capacità di in669
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Cognizione intuitiva e cognizione astrattiva
Cognizione astrattiva dell’universale
Intuizione e astrazione
tuire direttamente e con evidenza questo ente particolare realmente esistente e riconoscere alla mente la capacità di universalizzare. Il processo della conoscenza inizia col nostro fare esperienza di realtà individuali e contingenti (siano esse oggetti dei sensi o dell’intelletto, esterni o mentali). Con una terminologia che richiama Duns Scoto, Ockham chiama «cognizione intuitiva» l’atto mentale con cui cogliamo con evidenza la presenza di un fatto singolare e delle sue caratteristiche (sia esso un oggetto esterno o uno stato interiore). Questa conoscenza è certa perché basata sull’evidenza di ciò che mi è presente. Se però penso a qualcosa che non è presente (come un oggetto che ho visto mezz’ora fa), ho una «cognizione astrattiva» del singolare, che prescinde dalla sua presenza ed esistenza. Intuizione e astrazione non differiscono per l’oggetto (anzi possono rivolgersi anche allo stesso oggetto), tuttavia la prima lo considera nella sua presenza, la seconda prescinde da essa. È chiaro che la cognizione astrattiva è una conoscenza, per così dire, indiretta e di secondo livello, che può darsi solo se si è già avuta una cognizione intuitiva diretta di un oggetto. Entrambe comunque continuano a rivolgersi a oggetti individuali. Tuttavia, oltre alla conoscenza astrattiva del singolare, si può avere anche una cognizione astrattiva dell’universale, ovvero una cognizione che prescinde dalla particolarità di un oggetto singolare e considera in un singolo atto di pensiero una nozione che vale per una molteplicità di oggetti.
1° livello
Cognizione intuitiva
Fatto singolare presente
Fatto singolare non presente 2° livello
Cognizione astrattiva
Conoscenza certa perché basata sull’evidenza
Conoscenza di secondo livello
Nozione universale
3
I concetti universali
Abbiamo stabilito che nella realtà esistono solo enti singolari e che, pertanto, gli universali non sono enti reali. Eliminato l’universale ontologico resta però l’universale nel pensiero e nel linguaggio, quello che utilizziamo quando ricorriamo ai termini che si predicano di più cose, per esempio le parole che indicano generi e specie, ovvero termini comuni, in grado di significare più individui e rappresentarli in una proposizione (come quando usiamo il termine «uomo» in una proposizione, per intendere tutti i singoli uomini). Qual è la natura di questo universale linguistico e mentale? Come si forma? I tre linguaggi: scritto, Ockham riprende e sviluppa in modo personale la teoria aristotelica dei tre liparlato, pensato velli del linguaggio: il linguaggio scritto è segno del linguaggio parlato e quest’ultimo è segno del linguaggio pensato, ma il linguaggio pensato non è a sua volta segno di un livello linguistico superiore, bensì sta in relazione con le realtà extramentali. Ora, gli universali sono quei nomi – o termini – che appartengono in primo luogo al linguaggio mentale (e solo in via subordinata al parlare e allo
L’universale linguistico e mentale
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Linguaggio mentale naturale e unico per tutti
L’universale come atto mentale che serve a collegare cose simili tra loro
T6
Natura e origine degli universali
Guglielmo di Ockham, Questioni sulla Fisica, 7
scrivere). Del resto, come già insegnava Severino Boezio, il linguaggio parlato e scritto è convenzionale e varia da popolo a popolo, il linguaggio mentale, invece, è naturale e unico per tutta l’umanità. Dobbiamo tenere presente che il linguaggio mentale è più semplice e preciso del linguaggio parlato o scritto e contiene meno ambiguità: per esempio contiene solo termini «categorematici» (corrispondenti a nomi e verbi che cadono sotto le categorie aristoteliche) ma non quelli «sincategorematici» (come congiunzioni, preposizioni ecc., che non hanno significato descrittivo), inoltre non contiene sinonimi. Probabilmente Ockham considera universali in senso stretto quei concetti che corrispondono a generi naturali, come «uomo» e «animale». Che natura hanno, dunque, i concetti universali, non convenzionali, naturali, che propriamente appartengono al linguaggio mentale? Dopo aver considerato altri possibili modelli, Ockham formula una sua teoria dell’universale come atto di pensiero «confuso», che rimanda a una molteplicità di cose singole. L’universale nasce così: nello stesso atto di pensiero con cui conosciamo intuitivamente una realtà singolare si determinano in noi due nozioni: quella della cosa colta nella sua singolarità e quella della specie cui appartiene. Quest’ultima è un pensiero universale, ovvero una nozione che può essere pensata e predicata di molti. I concetti universali sono, dunque, atti di pensiero (actus intelligendi) che sussistono nella mente, o meglio, sono «qualità della mente». Non servono a cogliere l’essenza delle cose, ma sono strumenti del pensiero (e del linguaggio), ovvero «segni» che servono a collegare una molteplicità di cose simili fra loro. Gli scritti di Guglielmo registrano progressivi affinamenti teorici circa gli universali. Una chiara formulazione della teoria ockhamista definitiva su natura e origine degli universali si può trovare nelle sue Questioni sulla Fisica, composte durante il soggiorno ad Avignone. L’intelletto che apprende intuitivamente una cosa singola, emette dentro di sé una conoscenza intuitiva che è solamente la conoscenza di quella cosa singola, in grado per sua natura di stare per quella cosa singola. Come infatti la parola «Socrate» sta per la cosa che significa, di modo che colui che sente la frase «Socrate corre», non pensa che sia la parola «Socrate» che egli sente a correre, ma sa che chi corre è la cosa significata mediante questa parola, allo stesso modo chi intuisce qualcosa che viene affermato mediante un pensiero rivolto ad una cosa singolare, non riterrà che quel pensiero sia tale o talaltro, ma coglierà col pensiero la cosa stessa, l’unica che può essere realmente tale o tal altra. Come la parola sta convenzionalmente per la cosa da essa significata, così il pensiero rivolto ad una cosa sta naturalmente per la cosa di cui è pensiero. Ma, oltre al pensiero di una cosa singola, l’intelletto forma dentro di sé altri pensieri che riguardano più cose allo stesso titolo; come la parola «uomo» non significa Socrate con esclusione di Platone, e perciò sta tanto per Socrate quanto per Platone, così con il concetto «uomo» non è conosciuto solo Socrate, ma anche Platone e tutti gli uomini; lo stesso dicasi per l’atto di intendere o per il concetto di «animale», con il quale non conosciamo un animale particolare piuttosto che un altro, e così per tutti i singoli concetti. Alla domanda poi, donde hanno origine questi concetti, rispondo così: la conoscenza propria di una cosa singolare e la conoscenza della sua specie sono cau671
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sate contemporaneamente dall’oggetto, da un’identica intuizione e con pari primarietà; la conoscenza del genere è causata nella mente da più individui di specie diverse, contemporaneamente alle conoscenze proprie di tali individui. Specie e genere
Gli universali come qualità della mente
Atto di pensiero della cognizione intuitiva
La fisica come «scienza di termini» universali
La svolta linguistica: risoluzione della scienza della natura in un sistema di termini e predicazioni
La scienza verte sugli universali Guglielmo di Ockham, Commento alla Fisica di Aristotele, Prologo
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Nozione della cosa colta nella sua singolarità Nozione della specie cui la cosa appartiene
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T7
È da osservare che, dopo aver affrontato il problema della genesi del concetto di specie, nelle ultime righe del brano citato Ockham spiega anche come ha origine il concetto di genere. Anch’esso nasce da una conoscenza intuitiva, non rivolta però a un unico oggetto, ma a «più individui di specie diverse». Dunque per Ockham sono propriamente universali i termini del linguaggio mentale, che sono segni naturalmente in grado di rappresentare gli individui della stessa specie o dello stesso genere. I termini del linguaggio parlato o scritto sono invece derivati e la loro universalità è conseguenza della loro universalità mentale.
=
Pensiero universale
Come funziona il discorso scientifico Per quanto l’ontologia di Ockham sostenga il primato del singolare, egli è ancora convinto, con Aristotele, che si ha scienza solo dell’universale. Il detto di Aristotele secondo cui non vi può essere scienza del singolare viene da Ockham reinterpretato in chiave linguistica. La scienza fisica non ha per oggetto gli enti singolari corruttibili e mutevoli, ma i termini universali che stanno per quelle cose («est de illis terminis qui pro talibus supponunt»). È dunque una «scienza di termini». E tuttavia, a differenza della logica, non è una scienza astrattamente razionale, una pura scienza di termini e concetti, ma una scienza reale, in quanto i suoi termini stanno per gli enti reali e le loro proprietà comuni. È da sottolineare questa svolta linguistica per cui la fisica diventa essenzialmente un’analisi del linguaggio della fisica. Per Ockham la scienza della natura è interamente risolta in un sistema di termini e predicazioni: «Da quanto abbiamo detto in precedenza è chiaro in che modo possa esservi una scienza di ciò che è corruttibile e mutevole. Infatti c’è un termine comune a tali cose, del quale si predicano necessariamente gli attributi propri. Ad esempio, il termine comune “corpo corruttibile” è comune a ogni cosa corruttibile e di questo termine comune molte cose si predicano necessariamente». La più chiara e articolata riflessione sulla natura del discorso scientifico è nel Prologo al Commento alla Fisica di Aristotele (1317-1320). La filosofia della natura tratta in primo luogo delle sostanze sensibili e delle cose composte di materia e forma; secondariamente tratta di alcune sostanze separate. Per intendere esattamente ciò, si deve sapere che ogni scienza riguarda una proposizione o più proposizioni. E come le proposizioni sono conosciute mediante la scienza, così i termini di cui sono fatte le proposizioni sono le cose di cui tratta la scienza. Ora il fatto è che le proposizioni conosciute mediante la scienza
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della natura non sono composte di cose sensibili o di sostanze, ma sono composte di pensieri o concetti mentali comuni a tali cose. Perciò la scienza della natura non riguarda le cose corruttibili e generabili, né le sostanze naturali né gli enti mobili dal momento che queste cose non entrano in veste di soggetto o di predicato in alcuna conclusione conosciuta attraverso la scienza della natura. Propriamente parlando, la scienza della natura verte sui concetti mentali comuni a queste cose e che stanno precisamente per queste cose all’interno di molte proposizioni […]. Questo è quello che dice Aristotele: la scienza non verte su cose singolari, ma sugli universali che stanno per le cose singolari. Tuttavia solo in forma metaforica e impropria si dice che la scienza della natura verte sulle cose corruttibili e mutevoli, dato che in realtà verte sui termini che stanno per quelle cose. La svolta linguistica Scienza fisica
5 Nozione di causalità e cognizione intuitiva
Esperienza, onnipotenza di Dio, contingenza della natura, indimostrabilità dei nessi causali
Probabilismo epistemologico
Ha per oggetto i termini universali che stanno per gli enti singolari
È una scienza di termini ovvero del linguaggio
Il nesso causale e i limiti delle scienze naturali Ockham svincola definitivamente la nozione di causalità da qualsiasi struttura metafisica profonda. Il nesso causale consiste esclusivamente nella nostra cognizione intuitiva di due fatti singolari collegabili. Quando cogliamo una successione regolare di eventi particolari chiamiamo causa l’antecedente ed effetto il conseguente. In altre parole, causa efficiente è ciò posto il quale ne segue un effetto e tolto il quale l’effetto non ne segue («causa è ciò la cui esistenza o presenza è seguita da qualcosa»). Per esempio, «è comprovato che il fuoco è causa del calore, perché quando il fuoco è presente e tutte le altre cose [cioè tutte le altre cause possibili] sono state tolte, ne segue il calore in un oggetto riscaldabile che sia stato posto vicino al fuoco» (Ordinatio, 1,1,3). Dunque il legame tra causa ed effetto si fonda sulla nostra esperienza, sulla nostra constatazione empirica, ma, proprio in base al potere assoluto di Dio e alla contingenza della natura, non è dimostrabile alcuna necessità dei nessi causali. Inoltre, «per quanto il bruciare segua sempre al contatto del fuoco con un oggetto infiammabile, questo non esclude la possibilità che la sua causa non sia il fuoco. Potrebbe darsi che Dio abbia ordinato le cose in modo tale che ogniqualvolta il fuoco è presente insieme all’oggetto infiammabile, sia Dio stesso la causa del bruciare» (Reportatio, 2,5). È un tratto genuinamente innovativo la consapevolezza che Ockham ha dei limiti della fisica. Nelle scienze naturali si procede induttivamente dagli effetti alle cause e si compiono generalizzazioni basate sul postulato della regolarità del comportamento della natura. Ora, la regolarità naturale non è dimostrabile (è, ancora una volta, il tema francescano della radicale contingenza del mondo). Pertanto le conclusioni cui perveniamo non posseggono una necessità assoluta, ma una necessità condizionale, cioè dipendente da un postulato di partenza. In questo modo Ockham denuncia i limiti scientifici della scienza della natura, che si rivela al di sotto del modello aristotelico di scienza dimostrativa e necessaria. 673
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➥ Sommario, p. 688
Tutta la filosofia di ispirazione ockhamista del XIV secolo penserà la fisica non come una scienza dimostrativa rigorosa, ma come una scienza «probabile». Nell’ultimo capitolo di questa unità vedremo le tesi ecclesiologiche e politiche di Ockham nel quadro del dibattito del XIV secolo teso ad affermare l’indipendenza del potere civile da quello ecclesiastico (p. 684 ss.).
Causalità e scienza: il probabilismo Nesso causale
=
Cognizione intuitiva fondata sull’esperienza per induzione
ma
Onnipotenza divina e radicale contingenza del mondo
Le scienze naturali sono solo probabilistiche
L’eredità di Ockham
6 I testi
Buridano Questioni sul De caelo: La relatività della percezione del moto, T8; L’impetus e il moto dei corpi celesti, T9
L’influenza di Ockham su epistemologia e filosofia della natura
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Le dottrine di Ockham suscitarono un vivace dibattito che trasformò radicalmente sia l’ambito dell’epistemologia che quello della filosofia della natura della prima metà del XIV secolo, specialmente a Parigi e a Oxford. Anzi, i due settori si influenzarono reciprocamente e il dibattito logico-linguistico sul rapporto tra parole e cose fornì una nuova base da cui elaborare ipotesi naturali. Ogni settore di indagine risultò profondamente influenzato dal richiamo al principio di economia esplicativa (il «rasoio»), all’onnipotenza divina e al probabilismo epistemologico. Si determinò così una drastica riduzione delle distinzioni puramente concettuali e dei procedimenti astrattivi (e in questo senso si presero espressamente le distanze dai grandi pensatori del XIII secolo). Tuttavia la filosofia universitaria aumentò l’attenzione per le questioni del linguaggio, acquistando così un marcato tecnicismo linguistico.
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1 La natura dell’oggetto della scienza
Nicola d’Autrecourt contro Bernardo di Arezzo
I rischi dello scetticismo radicale e l’affermazione del valore epistemologico dell’esperienza
La critica di Nicola d’Autrecourt alla nozione di causa
Il dibattito epistemologico Uno dei temi più discussi fu quello della natura dell’oggetto di cui si ha scienza. Guglielmo di Ockham riteneva che l’oggetto della scienza non sia la realtà esterna, ma la proposizione (o complexum), che congiunge soggetto e predicato. Non mancarono poi maestri che irrigidirono il «proposizionalismo» di Ockham, fino a cercare di costruire una scienza rigorosamente regolata in senso logico. È a questa versione irrigidita e interamente logicizzata dell’ockhamismo che si oppone la facoltà delle Arti di Parigi che nel 1340 proibisce di insegnare che «nessuna scienza ha per oggetto se non segni» e vieta di mescolare le nuove dottrine logico-linguistiche all’interpretazione dei testi autorevoli. Pur non essendo un ockhamista, entra in questo dibattito epistemologico anche il francese Nicola d’Autrecourt, maestro alla facoltà delle Arti negli anni trenta e morto nel 1369, la cui opera consiste in un epistolario polemico contro le tesi del francescano ockhamista Bernardo di Arezzo e in un trattato composto intorno al 1333-1335, l’Exigit ordo (dalle prime parole: «richiede l’ordine della presente esposizione […]»). La sua idea guida è opporre una ricerca di regole per un sapere certo e rigoroso agli esiti scettici che le posizioni di Bernardo comportano. Bernardo di Arezzo sosteneva una tesi del seguente tenore: «conoscenza intuitiva chiara è quella attraverso cui giudichiamo che una cosa esiste, sia che essa esista, sia che essa non esista». Per capire questa tesi dobbiamo tener presente che Ockham, a conferma della contingenza della realtà e della potenza assoluta di Dio, era arrivato a ipotizzare che Dio possa intervenire nel processo ordinario degli eventi mandando ai nostri sensi gli stimoli percettivi di un oggetto e distruggendo al contempo quell’oggetto, in modo che noi avremmo una conoscenza intuitiva di un oggetto non esistente. Inoltre dobbiamo ricordare che, secondo l’impostazione ockhamista, la scienza della natura è soltanto «probabile». Nicola, volendo reagire ai rischi di scetticismo radicale cui conducono questi assunti, cerca di isolare e stabilire un nucleo di pratiche scientifiche certe e lo fa riconoscendo certezza solo a ciò che è evidente per esperienza diretta (come nella conoscenza intuitiva del singolare) e alle inferenze regolate dal principio logico di non contraddizione. Requisiti così rigorosi, però, mettono fuori gioco molte pratiche scientifiche e molte nozioni su cui queste si fondano. È celebre in tal senso la critica avanzata da Nicola alla nozione di causa. Il punto di partenza è che una conoscenza per essere certa deve avere gli stessi requisiti di una inferenza logica in cui dall’antecedente si ricava necessariamente il conseguente. Ma di fronte a due sostanze non possiamo mai dedurre con certezza l’esistenza dell’una dall’esistenza dell’altra e, infatti, l’affermare l’una e negare l’altra non comporta contraddizione. Sulla base di questo assunto, Nicola mette in discussione la fiducia aristotelica di poter individuare con certezza relazioni causali attraverso l’esperienza e l’induzione. Per questo mettere radicalmente in discussione la possibilità di conoscere con certezza i rapporti di causalità, la storiografia in passato ha creduto di poter vedere in Nicola il maggiore scettico medievale, anticipatore della critica alla nozione di causalità che verrà avanzata in seguito da David Hume (un filosofo scozzese del XVIII secolo). In realtà Nicola rappresenta una reazione allo scetticismo iper-ockhamista di Bernardo, al quale oppone uno scetticismo più moderato, che 675
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Giovanni Buridano: dimostrazione sillogistica e cognizione diretta (esperienza) come fonti di conoscenza
Il ragionamento ipotetico e la nuova fisica
L’asino e il libero arbitrio
2 Onnipotenza divina e ampliamento della nozione del possibile
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colpisce sì la relazione causale, ma non si estende alla percezione diretta di singole realtà. Infatti, nell’Exigit ordo, Nicola distingue tra il livello basilare delle apparenze percettive, che non sono mai in errore, e il livello del giudizio, in cui può insinuarsi l’errore (specialmente se il giudizio si basa su immagini depositate in memoria e non su percezioni dirette). Il francese Giovanni Buridano (1292 ca. - 1358 ca.), uno dei più importanti maestri dell’università di Parigi nel XIV secolo, sostanzialmente propone una riforma interna della scienza aristotelica, innestandovi alcuni spunti ockhamisti e difendendo un pluralismo di livelli epistemologici. Il modello per eccellenza di conoscenza scientifica rimane la dimostrazione sillogistica, che dall’evidenza delle premesse (basate a loro volta su principi primi autoevidenti) produce necessariamente una conclusione, anch’essa evidente. Una seconda fonte di conoscenza è l’esperienza, ovvero l’evidenza della cognizione diretta, come insegnavano Scoto e Ockham. La cognizione diretta riguarda, però, oggetti contingenti (o realtà particolari, che possono mutare e venir meno, o ipotesi di regolarità dei processi naturali che l’onnipotenza di Dio potrebbe mutare), dunque sembrerebbero non rientrare nei requisiti fissati da Aristotele (per cui si può avere scienza solo di ciò che è universale e necessario). In realtà, precisa Buridano, si può avere scienza anche di ciò che è contingente e particolare. In una scienza proposizionale, come è quella post-ockhamista, si tratterà di trasformare le proposizioni su realtà contingenti formulandole in forma condizionale: «se p, allora q». Con questo metodo si possono esplorare anche ipotesi scientifiche che travalicano la fisica aristotelica, riformulandole nel quadro di una scienza ipotetica e probabile. Per esempio: «se esiste il vuoto, allora il vuoto è uno spazio che non contiene alcun corpo». Ragionare in conseguenza di un’assunzione ipotetica non comporta nessun impegno circa la verità di fatto della premessa e delle sue conseguenze. Questo permetterà alla nuova fisica del XIV secolo di indagare, in via ipotetica, congetture decisamente alternative ai modelli scientifici tradizionali. Buridano scrisse numerosi commenti alle maggiori opere di Aristotele, oltre a numerosi trattati di logica e matematica. Tuttavia il suo nome è proverbialmente associato ancora oggi all’esempio di un asino che muore di fame per non aver saputo scegliere tra due mucchi di fieno equidistanti. L’esempio non ricorre negli scritti del maestro francese, ma probabilmente è la parodia di una dottrina della ‘scelta differita’ che ricorre nel suo commento all’Etica di Aristotele, secondo cui il libero arbitrio, pur essendo orientato a scegliere il bene ed evitare il male, può differire la scelta quando non è chiara la natura di una delle alternative.
La nuova filosofia della natura A questo punto conosciamo molti dei fattori che contribuiscono a spiegare il sorgere nel XIV secolo di una nuova fisica in cui si indebolisce l’autorevolezza di Aristotele e si esplorano modelli alternativi di spiegazione naturale. Gli sviluppi nel solco ockhamista, con la centralità della dimensione logico-linguistica e del probabilismo epistemologico, avevano sciolto il legame tra scienza e rappresentazioni convenzionali della realtà, aprendo la strada al ragionamento ipotetico. Ma anche il dibattito teologico sull’onnipotenza divina sviluppatosi negli ultimi decenni del XIII secolo aveva legittimato analisi di modelli ipotetici di
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realtà possibili, in contrasto con l’esperienza e con la fisica aristotelica. Infatti i teologi distinguevano tra ciò che Dio fa rispettando l’ordine da lui stesso imposto alla realtà (potentia Dei ordinata) e ciò che può fare a prescindere da quest’ordine (potentia Dei absoluta). In quest’ottica si ampliava la nozione del possibile: non solo ciò che è in potenza nella realtà (come per Aristotele), ma anche ciò che Dio potrebbe fare nella sua potenza assoluta. Così si iniziò a esplorare teoricamente anche ciò che, pur non esistendo di fatto, è possibile all’onnipotenza di Dio. Fu in questo contesto che si sviluppò un nuovo modo di impostare la scienza della natura, in cui avevano grande importanza le congetture e gli esperimenti mentali. Si iniziarono inoltre a discutere ipotesi come la possibilità di un moto diurno della Terra intorno al Sole, la pluralità dei mondi e l’esistenza del vuoto. La fisica di Buridano Buridano sviluppa particolarmente il ragionamento condizionale, arrivando ad ammettere, per esempio, l’ipotesi del vuoto. Inoltre Buridano avanzò la congettura che «la terra si muova di moto circolare […] e che essa ogni giorno naturale compia un giro» e lo fece sulla base della relatività della percezione del moto. Ecco le sue parole:
T8
La relatività della percezione del moto Buridano, Questioni sul De caelo, 2,22
La teoria aristotelica del moto violento
La critica di Buridano e la teoria dell’impetus
Poniamo che qualcuno si trovi su una nave in movimento: se immagina di stare fermo e vede un’altra nave realmente ferma, sarà questa seconda a sembrargli in movimento. Infatti la relazione tra il suo occhio e l’altra nave rimane esattamente la stessa, sia nel caso che la sua nave si muova e l’altra stia ferma, sia nel caso opposto. Poniamo, nello stesso modo, che la sfera del sole sia assolutamente immobile, e sia invece la terra a farci compiere una rotazione su noi stessi. Se tuttavia immaginassimo di stare fermi, ci accadrebbe proprio quanto accade a un uomo il quale, pur essendo su una nave che si muove velocemente, non percepisce né il proprio movimento né quello della nave. In tali condizioni, il sole apparirebbe sorgere e quindi tramontare esattamente come appare nella situazione attuale, in cui esso si muove e noi rimaniamo in quiete. Al di là di tutte le suggestioni anticipatorie «copernicane», non ci deve sfuggire che proprio le parole conclusive del brano citato mostrano come Buridano, pur esplorando questo modello ipotetico alternativo, ritenesse più probabile il geocentrismo tradizionale. Ancora nelle sue Questioni sul De caelo di Aristotele, scritte intorno al 1340, Buridano discute, tra le altre cose, la spiegazione aristotelica del moto violento, cioè il moto che un agente esterno imprime a un corpo in direzione contraria a quella verso cui il corpo si muoverebbe naturalmente. Secondo la fisica aristotelica tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa, dunque i moti violenti devono avere un motore esterno, il cui effetto continua finché questo è a contatto con ciò che è mosso. Ma allora come si spiega che un sasso scagliato in aria continui la sua traiettoria allontanandosi dal suo motore? Aristotele ritiene che il sasso scagliato continui la sua traiettoria perché sospinto dall’aria circostante che ha ricevuto anch’essa una spinta dal lanciatore (è la dottrina dell’antiperìstasis di Fisica 4,8). Secondo Buridano questa spiegazione non funziona. Innanzitutto possiamo immaginare esperimenti in cui l’oggetto spinto (una ruota o una nave) venga privato dell’aria circostante, ma nondimeno continuerebbe a muoversi. Inoltre, se fosse l’aria a spingere il «proiettile» (ovvero, etimologicamente, l’oggetto lanciato), dovrebbe scagliare più lontano una piuma che una pietra pesante. Per spiegare que677
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sti dati d’esperienza Buridano accoglie e sviluppa una teoria alternativa, che sembra anticipare la teoria moderna della forza di inerzia (ma in realtà era stata formulata da Filopono nel VI secolo (vedi Unità 7, p. 443), accolta da Avicenna e ripresentata all’inizio del Trecento dal francescano Francesco di Marchia). In base a questa teoria il moto degli oggetti lanciati è dovuto a un impulso (impetus), proporzionale alla velocità iniziale del lancio e alla quantità di materia del corpo, che lo sospinge nel movimento iniziale fino a venir meno per via degli attriti. L’accelerazione Discutendo l’accelerazione dei gravi in caduta libera, Buridano introduce la sua dei gravi e il ruolo spiegazione in termini di impetus: se è vero che durante la caduta non varia la dell’impetus pesantezza di un corpo, allora l’aumento di velocità può essere spiegato come accumulazione progressiva di quantità di impetus che si somma alla gravità naturale del corpo. Con una estensione dal mondo sublunare a quello superlunare Buridano avanza poi l’ipotesi che la dottrina dell’impetus possa spiegare anche il moto circolare dei corpi celesti, nei quali l’impulso iniziale impresso da Dio si conserverebbe, perché non esiste un attrito a corromperlo. Accettando questa spiegazione si rende superflua l’ammissione, derivata da Aristotele all’intera cosmologia medievale, di Intelligenze motrici dei cieli.
T9
L’ impetus e il moto dei corpi celesti Buridano, Questioni sul De caelo, 2,12
[…] occorre immaginarsi che il corpo pesante riceva dal suo motore principale, ossia dalla gravità, non solo il moto, ma insieme con questo anche un certo slancio [impetus] che ha la capacità di muovere lo stesso corpo pesante, permanendo la gravità naturale. Siccome quello slancio si acquisisce comunemente con il moto, perciò quanto più il moto è veloce, tanto maggiore e più forte è quello slancio. Pertanto all’inizio il corpo pesante è mosso solamente dalla sua gravità naturale, perciò si muove lentamente; in seguito è mosso dalla stessa gravità e dallo slancio acquisito, contemporaneamente, perciò si muove più velocemente. […] Potete sperimentarlo: se una mola d’artigiano, grande e molto pesante, venisse da te mossa circolarmente e poi tu cessassi di muoverla, essa continuerebbe a muoversi a lungo per lo slancio acquisito; anzi, tu non potresti arrestarla di colpo, ma, per la resistenza offerta dalla pesantezza della mola, quello slancio diminuirebbe in modo continuo sino a che la mola si arresta. Se poi la mola permanesse senza diminuzione o alterazione, e non ci fosse una resistenza che corrompe lo slancio, forse la mola sarebbe mossa da quello slancio perpetuamente. Uno perciò potrebbe immaginarsi che non è necessario ammettere le intelligenze motrici dei corpi celesti, anche perché nella sacra Scrittura non è detto che vadano ammesse. Infatti si potrebbe dire che quando Dio creò le sfere celesti, egli iniziò a muovere a piacimento ciascuna di esse; pertanto esse sono mosse ancora dallo slancio che Dio diede loro, dato che quello slancio non si distrugge, né diminuisce, poiché le sfere non hanno resistenza.
La storiografia della prima metà del Novecento (per esempio Pierre Duhem) ha esaltato queste innovazioni come precorrimenti della rivoluzione moderna in fisica. Tuttavia, nonostante le implicazioni di molti aspetti della sua dottrina dell’impetus, Buridano non arrivò a rivoluzionare la meccanica (per questo dovremo attendere Galileo nel XVII secolo), ma in larga misura presentò un aristotelismo trasformato che farà scuola presso i maestri delle generazioni successive. Nicola Oresme La fisica di Buridano venne sviluppata da un altro autore francese, Nicola Orefilosofo, matematico sme (1320 ca. - 1382), maestro a Parigi e successivamente segretario del Delfie astronomo no di Francia, il futuro Carlo V. Oresme non solo compose commenti latini alla 678
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Caduta dei gravi e cosmologia
Una fisica alternativa: l’atomismo di Nicola d’Autrecourt
L’intento critico e l’esito della proposta
➥ Sommario, p. 688
filosofia naturale di Aristotele, ma tradusse e commentò in volgare francese Sul cielo, Etica e Politica e compose trattati di matematica e astronomia. La scelta della lingua francese volgare si deve inquadrare nel progetto di Carlo V per una nazionalizzazione della cultura (e non di una divulgazione, visto il tecnicismo di quelle opere). Anche in Oresme troviamo impressionanti anticipazioni della scienza moderna. Non solo tentò la prima trattazione matematica del moto di caduta dei gravi, ma ritenne anche che la velocità di caduta dei corpi fosse proporzionale al tempo e non agli spazi percorsi (posizione che ritroveremo in Galileo). Inoltre, nel Libro del cielo e del mondo (redatto in francese entro il 1377) sostenne che il passaggio dal giorno alla notte può essere spiegato anche se non è il Sole a ruotare intorno alla Terra, ma la Terra intorno al Sole. Al di là di queste suggestive assonanze, resta il fatto che Oresme era consapevole della difficoltà di ricondurre i dati d’esperienza al rigore dei modelli matematici, tanto che nel Trattato sulla commensurabilità o incommensurabilità dei moti celesti, una delle sue ultime opere, esprimeva una certa sfiducia nella possibilità di una scienza quantitativa della natura. Abbiamo già visto con quanta decisione si muova Nicola d’Autrecourt in ambito epistemologico, mettendo in crisi i capisaldi della fisica aristotelica. Al fine di mostrare che altri sistemi della realtà sono più plausibili di quello aristotelico, nel suo trattato, l’Exigit ordo, Nicola arriva a confutare il pensiero di Aristotele punto per punto e a delineare una filosofia della natura che parte da principi del tutto alternativi, ovvero atomistici. La fisica aristotelica del mondo sublunare comporta uno scenario in cui le sostanze si generano, si sviluppano e vengono meno (è il processo di «generazione e corruzione»). Nicola parte dall’idea opposta che il mondo sia fatto di realtà immutabili, gli atomi, e che i processi di generazione e corruzione siano solo moti di aggregazione e disgregazione di atomi immutabili (dimodoché la corruzione è il semplice venir meno di una configurazione apparente). Analogamente, spazio e tempo sarebbero composti, rispettivamente, di punti e istanti. Infine, il moto non sarebbe una realtà distinta dagli oggetti stessi in movimento. È da tener presente che Nicola d’Autrecourt, fedele al suo programma critico, ma non propositivo, non intende sostenere in positivo la fisica atomistica, ma solo mostrare che questa è più plausibile di quella aristotelica (dunque è più «probabile», non definitivamente dimostrata). Il fine ultimo di questa operazione, come dichiara la pagina d’apertura del trattato, è invitare i professori dell’università di Parigi a dedicare meno tempo alle dottrine confuse e non conclusive di Aristotele e Averroè, per concentrarsi piuttosto sulla fede cristiana e sulle riflessioni etiche. Fu apprezzato questo tentativo di riforma culturale? Non molto, visto che una denuncia di colleghi parigini del 1340 portò le opere di Nicola al vaglio di una commissione di teologi incaricata di riferire al papa avignonese Benedetto XII. Alla fine, nel 1347, Nicola fu costretto a ritrattare pubblicamente le sue tesi e a bruciare il trattato Exigit ordo e le lettere a Bernardo di Arezzo.
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Il potere, lo Stato e la Chiesa
7 I testi
Marsilio da Padova Il difensore della pace: La collettività come causa efficiente della legge, T10
La nascita della filosofia politica
Fondamenti del rapporto tra potere civile e potere ecclesiastico Egidio Romano e la giustificazione teorica del potere assoluto del papa
Giovanni da Parigi e la necessità di due poteri (politico ed ecclesiastico) indipendenti
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Guglielmo di Ockham Dialogo: La legittimità del potere imperiale, T11; Il ruolo dei laici nella Chiesa, T12
Nel campo del pensiero politico il XIV secolo fa tesoro non soltanto degli spunti teorici aristotelici o di quelli della tradizione giuridica, ma anche delle concrete esperienze politiche comunali, nazionali e internazionali, fino a dar vita a un settore autonomo di indagine, che è la filosofia politica. Inoltre l’intreccio tra teoria e prassi dà ai trattati filosofico-politici un carattere ‘militante’ sconosciuto ai secoli precedenti. Un importante terreno di intervento della trattatistica filosofico-politica è lo scontro tra il pontefice Bonifacio VIII e il re di Francia Filippo il Bello. All’inizio si trattava di stabilire se il re avesse il diritto di intervenire nelle nomine del clero francese, ma ben presto il dibattito si allargò anche ai fondamenti del rapporto tra potere civile e potere ecclesiastico. Egidio Romano, che pure intorno al 1280 aveva composto un De regimine principum su richiesta del futuro monarca di Francia Filippo il Bello, si era poi sempre più legato a Bonifacio VIII (papa dal 1294), fino a dedicargli Il potere ecclesiastico (1301-1302), ossia il più importante intervento teorico teso a giustificare il potere assoluto del papa non solo sulla Chiesa, ma su tutti i cristiani (una tesi che, tecnicamente, viene detta «ierocratica», dalle radici greche che significano «potere sacerdotale»). La tesi di Egidio è strutturata come una deduzione teologico-metafisica. Dio, che è causa prima dell’universo, solitamente agisce attraverso cause seconde, ma può anche agire direttamente. Similmente il pontefice, vertice di un «ordine sacro» (hieràrchia) che abbraccia l’intera comunità dei credenti, può intervenire direttamente su qualsiasi piano della comunità cristiana, perché ogni potere deriva da lui. Anche i poteri civili traggono la loro legittimità dall’essere stabiliti dal potere religioso, altrimenti sono semplice imposizione violenta. Le tesi del Potere ecclesiastico fornirono l’intelaiatura dottrinale alla bolla Unam sanctam (1302) di Bonifacio VIII. All’impostazione «piramidale» e ierocratica di Egidio si oppongono altri autori in linea con Filippo il Bello, come il domenicano Giovanni Quidort da Parigi (un allievo di Tommaso), che nel Potere del re e del papa (1302-1303) sostiene la nonsubordinazione del potere politico a quello ecclesiastico: entrambi derivano, parallelamente, da Dio; il primo guida l’umanità al fine naturale del vivere secondo virtù, il secondo la guida al fine soprannaturale della vita eterna (un tema che ritroveremo in Dante). Inoltre, come mostra l’esperienza storica delle «monarchie nazionali», popoli diversi esprimono il desiderio naturale e «aristotelico» di organizzazione politica in comunità sovrane diverse, senza che ci sia alcun bisogno di un impero sovranazionale.
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La lotta tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello si concluse con la vittoria del sovrano francese, cui fece seguito il trasferimento della sede papale ad Avignone, in Francia, nel 1309 (dove sarebbe rimasta fino al 1377). Ma il conflitto si ripresentò non appena i pontefici avignonesi avanzarono pretese di controllo ai danni degli imperatori di stirpe germanica. Così il dibattito proseguì registrando interventi importanti, specialmente tra i sostenitori dei programmi imperiali. Basti pensare alle posizioni di Dante, Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham.
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Il progetto politico della Monarchia: la monarchia universale garante della pace sociale
Stato e Chiesa: due diversi fini, due poteri universali indipendenti
2 I conflitti tra papato e impero
Dante Alighieri Dante, reduce dall’esperienza politica fiorentina nel partito dei guelfi bianchi (che si contrapponeva sia ai filopapali guelfi neri sia alle posizioni filoimperiali dei ghibellini) aveva visto nell’accordo tra l’imperatore Arrigo VII e il papa Clemente V il provvidenziale realizzarsi di una concordia tra i due poteri. Ne è testimonianza l’Epistola V, indirizzata «ai signori d’Italia» (1313), in cui il sacro romano imperatore è salutato come garante della pace e della giustizia universale. La Monarchia di Dante, trattato politico in tre libri terminato intorno al 1317, è un’indagine a tutto campo sulla natura e le prerogative del potere imperiale. Dante vi costruisce argomentazioni innovative combinando idee personali con spunti che derivano dall’Etica nicomachea e dalla Politica di Aristotele, nonché dalle opere politiche di Tommaso e di Egidio Romano. L’idea fondamentale è che la monarchia universale (o impero) ha una funzione strettamente collegata con la natura intellettuale dell’uomo. Infatti la piena attuazione dell’intelletto possibile non è realizzabile dal singolo o da un gruppo di persone, ma è un’impresa collettiva dell’intera umanità. Ma la premessa indispensabile alla realizzazione collettiva della nostra vocazione intellettuale è quella condizione di pace sociale che solo un monarca universale può mantenere (I libro). L’impero romano è il legittimo detentore di questa funzione universale, come mostra il fatto che Cristo nacque sotto il potere imperiale di Augusto che garantiva una pax romana a tutti i popoli (II libro). Nel III libro si chiariscono i rapporti tra Stato e Chiesa: la provvidenza ha stabilito due fini per il genere umano, una felicità terrena e una felicità eterna; la prima si raggiunge con le virtù filosofiche (intellettuali e morali), la seconda con le virtù teologali; conseguentemente, due poteri universali indipendenti (l’impero e il papato) devono guidare l’umanità ai due diversi fini. Come si vede, in Dante la proposta imperiale è costruita filosoficamente a partire da un’esigenza di realizzazione dello specifico intellettuale della collettività umana (una posizione che ricorda il pensiero degli aristotelici radicali del XIII secolo, come Boezio di Dacia).
Marsilio da Padova Il secondo quarto del XIV secolo è dominato dal conflitto tra l’imperatore Ludovico il Bavaro e il papa avignonese Giovanni XXII. Significativamente i due maggiori filosofi politici del periodo – Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham – 681
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Il difensore della pace: la teoria dello Stato e la confutazione delle pretese ierocratiche
Lo Stato garante della pace attraverso le leggi
Comunità politica ed elaborazione delle leggi
T10
La collettività come causa efficiente della legge Marsilio, Il difensore della pace, 1
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sono collaboratori e consiglieri dell’imperatore, rifugiatisi alla sua corte dopo essere stati scomunicati. Per valutare il contesto storico basterà ricordare che alla morte di Arrigo VII (1314) ci fu una spaccatura tra i principi elettori, una minoranza dei quali preferiva Federico d’Asburgo a Ludovico. Nel corso del conflitto fra i due (che si protrarrà fino al 1322) il papa Giovanni XXII considerò vacante la sede imperiale assumendone la reggenza. Questo scatenò una serie di ritorsioni reciproche: Ludovico si appellò al concilio, il papa lo scomunicò e gli revocò prima i diritti imperiali (1324) poi quelli feudali (1327), Ludovico scese a Roma, si fece incoronare imperatore e nominò un antipapa (1328). Marsilio Mainardini da Padova (1275 ca. - 1342), aveva già compiuto gli studi di filosofia e medicina, e stava terminando a Parigi quelli di teologia, quando nel 1324 completò Il difensore della pace, dedicandolo a Ludovico. Lo scopo di quest’opera è mostrare l’infondatezza delle pretese ierocratiche e contrapporre ad esse l’ideale di una comunità politica capace di autodeterminarsi giuridicamente e governata da un’autorità in grado di far rispettare le leggi (appunto, il «difensore della pace»). Sarebbe però limitativo vedere in quest’opera solo un intervento nella polemica tra i due poteri. L’importanza del Difensore della pace sta nel cercare di ricollocare in un quadro teorico più ampio tanto lo scontro tra i due poteri quanto l’esperienza comunale italiana. Prima di confutare le pretese ierocratiche, si analizzano il fondamento e la natura dell’organizzazione statale. Compito dell’organizzazione politica è rispondere a un desiderio naturale condiviso dalla collettività umana, che è la pace. Ma per realizzarlo è necessario l’apparato artificiale dello Stato al quale presieda un’autorità in grado di far rispettare l’ordine. Al fine di regolare la comunità politica è decisivo il ruolo delle leggi, che, secondo Marsilio, non sono un riflesso dell’ordine naturale o divino delle cose, ma sono norme positive, cioè «póste», stabilite dagli uomini e destinate a mutare nel corso della storia. Il contenuto (o «materia») della legge è ciò che è giusto e vantaggioso per la comunità politica, ma la forma è la coazione, cioè l’imposizione di obbedienza a quel contenuto. Il compito di legiferare non deve essere affidato a uno solo, ma spetta ai cittadini o alla loro valentior pars («la parte prevalente»), cioè la quasi totalità, a esclusione degli incapaci di intendere e di volere. Il sistema giuridico assicura la sopravvivenza della civitas, regolando compiti e funzioni al suo interno, ma anche disponendo la repressione di possibili conflitti. La legge può essere considerata in due modi: in sé, quando grazie ad essa si mostra solo che cos’è giusto o ingiusto, vantaggioso o dannoso, oppure in quanto per la sua osservanza viene emanato un precetto coattivo mediante una punizione o un premio. […] Ma ciò non può essere fatto da un singolo individuo, per quanto molto intelligente, poiché nessun uomo singolo né tutti gli uomini di una sola generazione potrebbero trovare e ricordare tutti gli atti civili specificati nella legge. Anzi, quanto hanno detto a proposito degli stessi argomenti i primi inventori e tutti gli uomini della stessa generazione […] in seguito è stato perfezionato dalle aggiunte delle generazioni successive. […] Similmente tutte le arti e le discipline sono state perfezionate dalla collaborazione reciproca degli uomini e per l’aggiunta di nuove scoperte a scoperte precedenti. […] Legislatore o prima causa efficiente della legge è il popolo, o l’intero corpo dei cittadini o la sua parte prevalente, per mezzo della sua elezione o volontà espres-
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sa a parole nell’assemblea generale dei cittadini, che comanda o specifica che cosa si deve fare o meno riguardo le azioni civili degli uomini sotto la minaccia di una pena o punizione corporale.
Azione di governo unitaria e possibili forme di governo
La Chiesa e i suoi rapporti con lo Stato: la pretesa di «pienezza di potere» del papa non ha fondamento nella Bibbia
La Chiesa comunità di fedeli rappresentata dal concilio: il ribaltamento ecclesiologico
Con queste tesi Marsilio non solo nega che la legge umana giusta debba avere un fondamento divino, ma subordina anche il governo al rispetto delle leggi e fonda il valore delle leggi nelle decisioni della comunità politica. A differenza che in tutti gli autori e le opere fin qui considerati, nel Difensore della pace l’esigenza di un’azione di governo unitaria non è saldata necessariamente a una forma costituzionale monarchica, ma può trovare espressione anche in un governo aristocratico o in una politìa (intesa come «una specie di governo moderato, in cui qualsiasi cittadino, alternativamente, partecipa in qualche modo al governo o alla funzione deliberativa»): «Sostengo che questo governo, cioè quello supremo, sarà necessariamente unico di numero, e non di più, se deve ordinare giustamente la comunità politica. Affermo la stessa cosa riguardo al governante: egli deve essere unico di numero non rispetto alla persona, ma rispetto alla sua funzione. Infatti esiste un governo supremo, unico di numero e moderato, in cui governano più persone come se fossero una sola, ad esempio l’aristocrazia e la politìa» (Il difensore della pace, 1,17,2). Queste posizioni verranno modificate nel più tardo Defensor minor (1342) in cui si finisce per far convergere la funzione legislativa e quella di governo nella sola persona dell’imperatore. Il difensore della pace presenta inoltre un’analisi delle cause che tengono la pace lontana dal regno italico. Nemmeno Aristotele, che pure nella Politica esamina le possibili cause di conflitti sociali, aveva immaginato che un sacerdote, quale è il vescovo di Roma, potesse invocare per sé una plenitudo potestatis («pienezza di potere») che lo porrebbe al di sopra di ogni potere civile. Questa pretesa, oltre a introdurre evidenti conflitti sul piano politico, è priva di fondamento biblico (e, addirittura, ribalta precise indicazioni evangeliche pronunciate da Cristo: «il mio regno non è di questo mondo», «date a Cesare quel che è di Cesare»). Il vescovo di Roma fonda la sua pretesa di supremazia sul cosiddetto «potere delle chiavi» (nel Vangelo secondo Matteo, 16,18-19, Gesù dice a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa […]. A te darò le chiavi del regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»). In realtà, osserva Marsilio, poco dopo questo potere è conferito a tutti i discepoli (Matteo, 18,18: «tutto quello che legherete […], tutto quello che scioglierete […]»; Giovanni, 20,23: «Ricevete lo spirito santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi»); dunque è evidente che Cristo ha conferito il suo mandato collegialmente a tutti i discepoli e, da loro, a tutti i membri del clero. Marsilio si spinge infine a tratteggiare un ribaltamento ecclesiologico: la Chiesa vista non come una struttura gerarchica che culminerebbe con la plenitudo potestatis del papa, ma, in analogia con la comunità politica, una comunità di fedeli che trova la sua piena espressione nel concilio ecumenico, cui partecipano i rappresentanti delle diverse comunità ecclesiali. Anche il concilio, tuttavia, non è pensato come un organo sovrano, ma deve essere sottoposto al controllo del governo politico civile, che coordina la vita spirituale col benessere dello Stato. In questa prospettiva di salvaguardia dell’equilibrio civile, spettano al sovrano anche la convocazione del concilio, l’applicazione dei suoi decreti e l’attribuzione delle cariche ecclesiastiche. 683
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Le tesi del Difensore della pace, diametralmente opposte alla teoria e alla pratica della «pienezza del potere» del papa, furono duramente osteggiate, tanto che nel 1327 Marsilio venne scomunicato e cercò rifugio presso l’imperatore Ludovico il Bavaro, che nello stesso anno era sceso in Italia a proclamare i propri diritti. Di lì a poco la corte imperiale avrebbe accolto anche l’altro grande dissidente antiavignonese, Guglielmo di Ockham.
3 Il dibattito sulla povertà francescana e le accuse di eresia alle dottrine del papa
La ‘preistoria’ della proprietà e la sua natura storica, quindi modificabile
Genesi della sovranità e sua modificabilità
L’impero, i regni e la negazione dell’intoccabilità della sovranità
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Ockham politico Negli ultimi diciannove anni della sua vita, dal 1328 al 1347, Ockham si dedicò quasi esclusivamente a comporre opere di ecclesiologia e filosofia politica, come l’Opera dei novanta giorni, il Dialogo e una serie di opuscoli polemici. Tutto era nato dal suo coinvolgimento nel dibattito sulla povertà francescana e dalla sua convinzione che il papa, negando la povertà evangelica, fosse caduto in eresia. La fuga da Avignone, nell’estate del 1328, col ministro generale dell’ordine Michele da Cesena e altri confratelli, e la ricerca di protezione presso Ludovico il Bavaro avevano legato il suo destino a quello imperiale. Di qui in avanti le sue opere sviluppano una serrata polemica contro le dottrine del papa giudicate eretiche sia in materia ecclesiale che in tema di rapporti tra potere ecclesiastico e potere civile. Il punto di partenza di Ockham è una riflessione sulla genesi della proprietà. In particolare nell’Opera dei novanta giorni (1332) la struttura dei rapporti economici e sociali è fatta derivare dalla dolorosa uscita dell’uomo dalla condizione edenica del paradiso terrestre. Il peccato originale ci ha fatto perdere la primitiva armoniosa signoria sulle realtà mondane, condannandoci a una faticosa lotta per conquistare un «potere d’uso» sulle cose in un generale regime di concorrenza e malvagità (degli uomini tra loro e anche tra uomini e animali). La proprietà è stata concessa da Dio solo come rimedio a questo stato degradato di cose, ma non è auspicabile per la perfezione cristiana, come mostra l’insegnamento evangelico, accolto alla lettera dai francescani, e non fa parte della dotazione originaria dell’uomo. Quindi le forme dell’appropriazione e del diritto di proprietà sono tutte storicamente determinate e, perciò, anche modificabili da parte dell’uomo. Inoltre, in condizioni di bisogno, è perfettamente legittimo violare i limiti della proprietà, mangiando il pane di chi ha in abbondanza. In caso di necessità non deve valere il diritto del più forte, ma quello del più bisognoso. Anche l’organizzazione politica e la sovranità dell’uomo sull’uomo sono sorte in conseguenza della fine dell’Eden e hanno anch’esse carattere storico. Pertanto sono il risultato di decisioni delle comunità umane e, in casi di grave necessità, sono modificabili. Ciò non toglie che storicamente si siano determinati diritti alla sovranità, che costituiscono la più solida premessa per l’ottimizzazione dell’interesse collettivo. Nel Dialogo Ockham sostiene che il governo mondiale dovrebbe essere interamente affidato a un’autorità civile, l’imperatore, col compito di mantenere la pace. Gli organismi collegiali sono utili in fase consultiva, ma la decisione è più efficace quando è in mano a una persona sola. L’impero non si identifica necessariamente con uno Stato unitario, ma, anzi, può ammettere al suo interno regni diversi o accordare legislazioni particolari (per esempio per il papato e il clero).
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Nessuna sovranità è intoccabile: non solo l’imperatore deve poter intervenire per correggere storture nella politica interna degli Stati, ma si devono studiare anche forme di controllo che permettano di rimuovere legittimamente l’imperatore che si riveli inadeguato. Su questa idea che l’imperatore non possegga il monopolio della coercizione, ma sia egli stesso soggetto a forme di controllo, Ockham si differenzia molto dall’ideale marsiliano di un imperatore che detiene tutti i poteri, incluso quello coercitivo. Non è il papa La tesi ierocratica per cui il potere imperiale deriverebbe la sua legittimità dal a legittimare l’impero riconoscimento del pontefice è eretica e contraria alla stessa Sacra Scrittura, che attesta la legittimità dell’impero precristiano di Augusto.
T11
La legittimità del potere imperiale
Guglielmo di Ockham, Dialogo, 3,2,1,24
La tesi che non ci può essere vero impero se non tramite il papa è contraria alla Sacra Scrittura. Infatti dalla Scrittura risulta chiaramente che numerosi pagani furono legittimi imperatori. Lo attesta l’evangelista Luca: «Fu emanato da Cesare Augusto il decreto che fosse fatto un censimento di tutto l’impero» (Luca, 2,1). […] Similmente in Matteo Cristo dice agli Ebrei: «Rendete a Cesare quel che è di Cesare» (Matteo, 22,21). Da queste parole si può capire che egli fu un legittimo Cesare, anche se non ebbe il potere dal papa, perché, anzi, fu un pagano infedele. Pertanto il vero impero, il vero potere temporale, la vera giurisdizione temporale, la vera forza della spada materiale fu di fatto e può essere nelle mani di infedeli, fuori della chiesa cattolica.
In realtà, osserva Ockham, il potere imperiale deriva da Dio non attraverso il pontefice, ma attraverso il popolo. Questo diritto si è trasferito a tutti gli imperatori successivi, inclusi quelli contemporanei di stirpe germanica, che conservano «un qualche diritto speciale al di sopra degli altri popoli». Osserva Ockham al proposito: «L’impero romano fu inizialmente istituito da Dio per mezzo degli uomini, cioè dei Romani. […] Ora, l’impero deriva da chi ha conferito all’imperatore l’autorità di fare le leggi. Quindi l’impero deriva dal popolo. Inoltre l’impero romano fu fondato da coloro che sottomisero al potere di Roma tutte le altri genti, affidarono a chi volevano il governo delle genti sottomesse e mutarono, quando lo ritennero opportuno, il modo di dominarle e governarle» (Dialogo, III parte, trattato II, libro I, cap. 27). Il popolo romano ha conquistato storicamente il primato sugli altri popoli. Se anche all’origine vi furono atti di sopraffazione, poi gli altri popoli hanno finito per accettare questo primato che ottimizza il bene comune. La Chiesa, il suo fine L’organizzazione della Chiesa non deve essere finalizzata al potere (dominium), nel servizio ma al servizio (ministerium) e può modificarsi per servire meglio le esigenze dele la funzione dei laici la comunità dei fedeli. Sulle molte funzioni della Chiesa che non sono state istituite da Dio, ma si sono determinate storicamente, il potere decisionale deve essere rimesso all’intera comunità cristiana, nella quale, oltre agli ecclesiastici, deve giocare un ruolo attivo anche la componente laica.
L’origine del potere imperiale nel popolo e il primato del popolo romano sugli altri
T12
Il ruolo dei laici nella Chiesa Guglielmo di Ockham, Dialogo, 3,2,3,4
È sulla base di istituzioni e consuetudini umane che i laici non possono avere diritti spirituali […]; ma potrebbero possederli se queste istituzioni e consuetudini umane, che possono essere revocate per motivi ragionevoli, fossero state revocate. Proprio come in tempi diversi si sono osservate ragionevolmente istituzioni e consuetudini umane del tutto contrarie tra loro. […] Nel corpo della Chiesa alcuni compiti sono comuni ai chierici e ai laici, mentre 685
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altri sono propri dei chierici e altri ancora propri solo dei laici. Eleggere un prelato, però, […] spetta ad entrambi, perché questa carica è a vantaggio di chierici e laici; pertanto sebbene la scelta del papa spetti ai chierici, nondimeno può spettare ai laici. Il legittimo dovere di resistenza e l’ipotesi di più papi
➥ Sommario, p. 688
Il ruolo critico e decisionale esteso anche al laicato riveste particolare importanza quando si tratta di esercitare un legittimo dovere di resistenza di fronte a un papa caduto in eresia. Inoltre, nella revisione teorica delle tradizionali teorie del potere universale del pontefice, Ockham non esita ad applicare all’ecclesiologia modelli della Politica di Aristotele. Lo Stagirita riconosce che la monarchia è sì il governo di per sé migliore, ma in certe occasioni un governo aristocratico è più adatto all’utile comune. Così Ockham arriva nel Dialogo a profilare l’ipotesi che, qualora le circostanze storiche lo richiedano, potrebbero esserci contemporaneamente più papi, ciascuno competente in un ambito territoriale diverso.
Suggerimenti bibliografici La più accessibile introduzione al pensiero filosofico di Scoto scritta in italiano non è più in commercio, ma è reperibile nelle biblioteche: E. Bettoni, Duns Scoto filosofo, Vita e Pensiero, Milano 1966. Per uno studio specifico su Eckhart e la teologia mistica tedesca del XIV secolo: A. de Libera, Meister Eckhart e la mistica renana, Jaca Book, Milano 1998. La più accessibile traduzione italiana dei sermoni tedeschi è: Meister Eckhart, I sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline, Milano 2002. Per un primo approfondimento su Ockham si può partire da A. Ghisalberti, Introduzione a Ockham, Laterza, Roma-Bari 19912. Circa il dibattito epistemologico e la nuova scienza si possono leggere A. Tabarroni, Il problema della scienza, e L. Bianchi, La struttura del cosmo, in: L. Bianchi (a cura di), La filosofia nelle università. Secoli XIII-XIV, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 185-205 e pp. 269-303; e anche E. Grant, Le origini medievali della scienza moderna, Einaudi, Torino 2001. Per approfondire il dibattito politico nel XIV secolo: M. Fumagalli Beonio Brocchieri (con M. Conetti e S. Simonetta), Il pensiero politico medievale, Laterza, Roma-Bari 2000; R. Lambertini, Il re e il filosofo: aspetti della riflessione politica, in L. Bianchi (a cura di), La filosofia nelle università. cit., pp. 345-385; J. Miethke, Ai confini del potere. Il dibattito sulla potestas papale da Tommaso d’Aquino a Guglielmo di Ockham, Editrici Francescane, Padova 2005. I brani antologizzati sono tratti da: Ioannis Duns Scoti, Ordinatio, I, in Opera omnia, III, ed. A. Sépinski, Typis Polyglottis Vaticanis, Civitas Vaticana 1954; trad. it. di S. Perfetti. Ioannis Duns Scoti, Ordinatio, II, in Opera omnia, VII, ed. C. Koser, Typis Polyglottis Vaticanis, Civitas Vaticana 1973; trad. it. di S. Perfetti. Guglielmo di Alnwick, Additiones magnae, II, in Ioannis Duns Scoti, Ordinatio, II, ed. Vivès, vol. 13, trad. it. di S. Perfetti. Meister Eckhart, I sermoni, trad. di M. Vannini, Paoline, Milano 2002. Guglielmo di Ockham, Quaestiones in libros Physicorum, trad. it. Questioni sulla Fisica, a cura di A. Ghisalberti, in Guglielmo di Ockham, Scritti filosofici, Nardini Editore, Firenze 1991.
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Unità 11 Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo Guglielmo di Ockham, Expositio in libros Physicorum, trad. it. Commento alla Fisica di Aristotele, a cura di A. Ghisalberti, in Guglielmo di Ockham, Scritti filosofici, cit. Giovanni Buridano, Questioni sul De caelo, trad. it. a cura di M. Parodi in M. Fumagalli Beonio Brocchieri, Le bugie di Isotta. Immagini della mente medievale, Laterza, Roma-Bari 1987. Giovanni Buridano, Questioni sul De caelo, trad. it. a cura di A. Ghisalberti, in Giovanni Buridano, Il cielo e il mondo. Commento al trattato «De caelo» di Aristotele, Rusconi, Milano 1983. Marsilio da Padova, Defensor pacis, trad. it. Il difensore della pace, a cura di M. Conetti, C. Fiocchi, S. Radice, S. Simonetta, BUR, Milano 2001. Guglielmo di Ockham, Dialogus, trad. it. a cura di S. Perfetti, testo latino a cura di J. Kilcullen e G. Knysh, in http://www.britac.ac.uk/pubS/dialogus/ockdial.html
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Sommario 1. LE CENSURE PARIGI
ALL’ARISTOTELISMO NELL’UNIVERSITÀ
DI
Negli anni settanta del Duecento si inasprisce la censura contro gli aristotelici radicali, accusati di sostenere la dottrina della «doppia verità»; viene inoltre rimarcato il ruolo della libertà divina con la dottrina dell’onnipotenza teologica. 2. TOMISMO
E ANTITOMISMO
Il lascito di Tommaso viene criticato soprattutto dai teologi francescani, con opere che ristabiliscono un agostinismo aggiornato. Ad esse seguono le repliche dei teologi domenicani, il più importante dei quali è Egidio Romano. 3. GIOVANNI DUNS SCOTO
Scoto sostiene che la teologia non può costituire un sapere scientifico-dimostrativo: essa trova la sua dimensione propria nella fede ed è un sapere pratico. [par. 1] Elabora la tesi dell’univocità dell’essere, per cui l’essere si dice del Creatore nello stesso senso di come lo si dice delle creature, contro la dottrina tomista dell’analogia dell’essere. [par. 2] Propone una prova «modale» dell’esistenza di Dio e sostiene vi sia un principio positivo di particolarizzazione di cui ogni singolo ente è dotato in quanto esiste come individuo, chiamato haecceitas. Posta l’unità reale dell’individuo, resta tuttavia una distinzione formale di aspetti diversi ma unitari. [parr. 3-4] Fondamentale è la sua distinzione tra cognizione intuitiva e cognizione astrattiva, il cui oggetto comune è l’essenza dell’individuale. [par. 5] Contro l’intellettualismo etico di Tommaso, Scoto sostiene un marcato volontarismo, incentrato sul primato della libertà della volontà. [par. 6] 4. LA
MISTICA SPECULATIVA DI
MEISTER ECKHART
Tema centrale della mistica di Eckhart è l’unione dell’anima con Dio: attraverso un progressivo distacco dell’anima da ciò che è sia esterno che interno ad essa, Dio può infine entrare nel vuoto dell’anima come pura deità. Dopo un processo per eresia, le tesi più estreme di Eckhart vennero infine condannate. 5. GUGLIELMO
DI
OCKHAM
Nell’ambito del rinnovamento culturale del XIV secolo spicca la figura di Ockham; la sua tesi ontologica fondamentale è che la realtà è costituita (soltanto) da enti singolari. [par. 1] In altri termini, i concetti universali hanno natura mentale e linguistica; essi appartengono al linguaggio mentale, comune a tutti gli uomini, sono atti del pensiero. La loro funzione è quella di indicare una molteplicità di oggetti reali. Risulta in-
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fatti un principio di economia – chiamato «rasoio di Ockham» – quello di non moltiplicare gli enti oltre il necessario. Il processo conoscitivo è spiegato a partire dalla nostra capacità di intuire direttamente e con evidenza gli enti particolari attualmente esistenti (cognizione intuitiva) e riconoscere poi alla mente la capacità di cogliere anche quelli non presenti attualmente e di generalizzare su di essi (cognizione astrattiva). [par. 2] Operando una svolta linguistica, per Ockham la scienza fisica non ha per oggetto gli enti singolari ma i termini universali che stanno per essi; è dunque una «scienza di termini». [parr. 3-4] Rispetto al principio di causalità, Ockham sostiene che esso non ha valore necessario bensì soltanto empirico; la scienza fisica può perciò giungere a conclusioni che non hanno una necessità assoluta, ma una necessità condizionale, di tipo probabilistico. [par. 5] 6. L’EREDITÀ
DI
OCKHAM
Il dibattito filosofico del XIV secolo è influenzato da Ockham, in particolare dal suo «rasoio», dalla centralità della dimensione logico-linguistica e dal probabilismo epistemologico. Contro il pericolo di una deriva scettica del pensiero ockhamista si adopera Nicola d’Autrecourt, che insiste sul valore epistemologico dell’esperienza diretta, operando al tempo stesso una critica serrata del principio di causalità. In ambito fisico egli si fa sostenitore di una posizione atomistica, marcatamente antiaristotelica. Contemporaneamente, Giovanni Buridano propone una riforma della scienza aristotelica, sviluppando il ragionamento condizionale ed elaborando la teoria fisica dell’impetus. 7. IL
POTERE, LO
STATO
E LA
CHIESA
Nel XIV secolo nasce la filosofia politica come ambito di ricerca autonomo. Spicca per la radicalità della sua posizione ierocratica Egidio Romano, che attribuisce potere assoluto al papa. Opposta la tesi di Giovanni da Parigi, che, in linea con Filippo il Bello, sostiene la necessità di due poteri universali indipendenti: l’impero e il papato. A salutare il sacro romano imperatore come garante della pace e della giustizia universale è poi Dante Alighieri, che ipotizza una monarchia universale. [par. 1] A fianco dell’imperatore Ludovico sarà quindi Marsilio da Padova, che, contro lo ierocratismo, teorizza l’ideale di una comunità politica in grado di autodeterminarsi giuridicamente. Egli opera inoltre un ribaltamento ecclesiologico: a rappresentare la comunità dei fedeli non è il papa ma il concilio. [par. 2] La filosofia politica di Ockham muove da un’analisi della genesi della proprietà, che ne mostra la natura storica. In linea con Ludovico, Ockham sostiene la piena indipendenza dell’imperatore dal papa. [par. 3]
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Unità 11 Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo
Parole chiave Argomenti di autorità / Argomenti di ragione. Genere di argomenti che fondano la verità di una certa proposizione sul fatto che essa è stata già sostenuta da un autore o da un testo considerato autorevole. Di contro, gli argomenti di ragione sono fondati sulla base di argomenti razionali. Cognizione intuitiva e cognizione astrattiva. Con una terminologia che richiama Scoto, Ockham chiama «cognizione intuitiva» l’atto mentale con cui cogliamo con evidenza la presenza di un fatto singolare e delle sue caratteristiche. Se invece si pensa a qualcosa che non è presente, si ha una «cognizione astrattiva» del singolare, che prescinde dalla sua presenza ed esistenza.
Onnipotenza teologica. La facoltà di Dio di intervenire liberamente in ogni momento su qualunque aspetto del reale, modificandolo secondo la propria volontà e senza alcun vincolo di carattere fisico o naturale. Si distingue dall’onnipotenza filosofica, che prevede una limitazione dello stesso potere divino per quanto concerne la causalità naturale.
Distacco. Termine impiegato nella teologia mistica di Eckhart per indicare il processo attraverso cui l’anima si spoglia di tutto nel cammino verso l’unificazione con Dio.
Probabilismo epistemologico / Necessità condizionale. Per Ockham nelle scienze naturali si procede induttivamente dagli effetti alle cause e si compiono generalizzazioni basate sul postulato della regolarità del comportamento della natura. Poiché però la regolarità naturale non è dimostrabile, le conclusioni non posseggono una necessità assoluta, ma una necessità condizionale, cioè dipendente da un postulato di partenza. La fisica risulta dunque non una scienza dimostrativa rigorosa ma «probabile».
Distinzione formale. Nell’ontologia di Scoto essa indica una distinzione di aspetti che risultano unitari nella realtà ma rispondenti a definizioni diverse.
Pura deità. Nella teologia mistica di Eckhart, la pura deità indica Dio in sé e non in relazione ad altro, unità al di sopra di ogni molteplicità.
Enti singolari / Concetti universali. Espressioni chiave della scolastica; per Ockham la realtà è costituita da enti singolari, ovvero da cose reali. Tali enti si distinguono dai concetti universali, considerati non come enti reali ma come astrazioni linguistiche che derivano da un atto del pensiero; essi hanno dunque natura mentale e linguistica.
Rasoio di Ockham. Il principio di economia, dal quale discende la riduzione delle entità ammesse come reali, che spesso ricorre come slogan e principio di metodo negli scritti di Ockham: «non utilizzare troppe cose quando ne bastano meno».
Haecceitas. Neologismo latino introdotto da Scoto. L’haecceitas indica il principio positivo di particolarizzazione di cui ogni singolo ente è dotato in quanto esiste come individuo. Ierocrazia. La posizione ierocratica giustifica il potere assoluto del papa non solo sulla Chiesa, ma su tutti i cristiani. Anche i poteri civili traggono la loro legittimità dall’essere stabiliti dal potere religioso. Illuminazionismo. Teoria della conoscenza secondo cui la mente umana ha bisogno di un’assistenza soprannaturale, un’illuminazione divina, per svolgere la sua attività cognitiva ordinaria. Impetus. In Buridano il moto degli oggetti lanciati è dovuto a un impetus, ovvero a un impulso, proporzionale alla velocità iniziale del lancio e alla quantità di materia del corpo, che lo sospinge nel movimento iniziale fino a venir meno per via degli attriti. Tale dottrina dell’impetus viene estesa all’intera cosmologia.
Ribaltamento ecclesiologico. Per Marsilio la Chiesa va vista non come una struttura gerarchica con il papa al culmine, ma come una comunità di fedeli che trova la sua piena espressione nel concilio ecumenico. Svolta linguistica. Ockham opera una svolta linguistica perché in lui la fisica diventa essenzialmente un’analisi del linguaggio della fisica. La scienza della natura è così interamente risolta in un sistema di termini e predicazioni. Univocità dell’essere. La dottrina scotiana secondo cui l’essere si dice del Creatore allo stesso modo (ossia nello stesso senso) in cui si dice delle creature. È contrapposta alla dottrina tomista dell’analogia dell’essere, accusata di dire l’essere di Dio e degli enti finiti in modo diverso. Volontarismo. Nella filosofia di Scoto vi è un primato della libera volontà sull’intelletto. Mentre l’intelletto non può che assentire di fronte alla verità, la volontà può invece scegliere liberamente il bene.
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Parte seconda L’età tardoantica e il Medioevo
Questionario LE DI
CENSURE ALL’ARISTOTELISMO NELL’UNIVERSITÀ
1
Quali sono alcune tesi sostenute dagli aristotelici radicali e condannate come eterodosse nella censura del 1270? (max 6 righe)
TOMISMO 2
Quali sono alcune delle tesi di Tommaso confutate dai francescani e quali quelle confutate dagli stessi domenicani? (max 4 righe)
3
Come potresti riassumere la teoria scotiana dell’univocità dell’essere? A cosa si contrappone tale teoria? (max 8 righe)
4
Come è articolato il volontarismo di Scoto? (max 7 righe)
MISTICA SPECULATIVA DI
5
DI
Quale differenza c’è in Ockham tra gli enti singolari e i concetti universali? (max 6 righe)
7
Che differenza c’è tra la cognizione intuitiva e la cognizione astrattiva? (max 4 righe)
8
Che cos’è e cosa comporta la svolta linguistica di Ockham? (max 7 righe) DI
In che senso, stando a quanto Duns Scoto afferma in T2, la natura comune (o essenza) è di per sé indifferente rispetto all’universalità e alla singolarità? (max 6 righe)
13
Che tipo di rapporto viene stabilito da Eckhart in T4 tra il fondo dell’anima e il fondo di Dio? (max 6 righe)
14
Che rapporto c’è tra l’uscire completamente da se stessi di cui parla Eckhart in T4 e il tema del distacco da tutto che emerge da T5? (max 7 righe)
15
Come definisce Ockham la conoscenza intuitiva in T6? (max 4 righe)
16
Su che cosa verte la scienza naturale e per quali ragioni, stando al brano di Ockham T7? (max 6 righe)
17
Quale esempio concreto porta Buridano in T9 per sostenere la sua concezione dell’impetus in rapporto al moto dei corpi celesti? (max 8 righe)
18
Che ruolo viene attribuito all’assemblea generale dei cittadini rispetto alla promulgazione delle leggi in T10? (max 4 righe)
19
Qual è la tesi che Ockham contrasta e quale quella che difende in T11? (max 4 righe)
20
Quali ruoli vengono attribuiti ai laici e quali ai chierici in T12? (max 5 righe)
OCKHAM
Cosa si intende con l’espressione «probabilismo epistemologico»? (max 4 righe)
POTERE, LO
10
12
OCKHAM
6
L’EREDITÀ
IL
Su che base in T1 si argomenta che il concetto di «ente» che abbiamo non coincide né con il concetto di «ente finito» né con quello di «ente infinito»? (max 5 righe)
MEISTER ECKHART
Attraverso quale processo può realizzarsi l’unione dell’anima con Dio secondo la teologia mistica di Eckhart? (max 7 righe)
GUGLIELMO
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11
E ANTITOMISMO
GIOVANNI DUNS SCOTO
LA
Lavoriamo sui testi
PARIGI
STATO
E LA
CHIESA
Con quali argomenti Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham contestano la teoria ierocratica? (max 8 righe)
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Indice delle parole chiave Afasia, 403 Agnosticismo, 99 Allegoria, 519 Analogia, 23 Anatomia fisiologica, 319 Anima, 62, 99, 256, 464 Anima-corpo, 158 Anticipazioni (prolessi), 403 Antropomorfismo, 62 Apàtheia / Metriopàtheia, 464 Apocatàstasi, 519 Archè, 62 Argomenti di autorità / Argomenti di ragione, 689 Arianesimo / Ariani, 519 Ascesa / Èkstasis / Unificazione, 464 Assiomatico-deduttivo, 319 Atomismo / Clinamen, 403 Atomo, 62 Catecumeno, 519 Cause / Finalismo, 256 Cognizione intuitiva e cognizione astrattiva, 689 Commento, 621 Confutazione, 99 Consenso / Inclinazione, 579 Conversione (metànoia), 519 Credo, 621 Definizione, 99, 319 Demiurgo, 158 Deontologia medica, 319 Desiderio, 158 Dialettica, 62 Dialettica-credenza, 158 Dialogo, 99, 158 Dimostrazione, 256 Discorso di secondo grado / Riflessività, 23 Disputa, 621 Dissezione, 319 Distacco, 689 Distinzione formale, 689 Divenire, 62 Dogmatismo, 464 Donatisti, 519 Dottrina della doppia verità, 621 Eccentrici, 319 Efficacia terapeutica, 319 Ente, 621 Enti singolari / Concetti universali, 689 Epicicli, 319 Epochè, 403 Eros, 158 Escatologia, 579 Esperienza, 621 Essenza, 99 Essenza / Esistenza, 621 Essere, 256 Essere / Non essere, 62 Exitus / Reditus, 579 Fàlsafa / Falàsifa, 579
Fato, 403 Felicità, 158 Felicità / Atarassia, 403 Filosofia della natura, 23 Fisiologi / Phy`sis, 62 Generazione / Dissoluzione, 62 Generi sommi, 158 Giustizia, 158 Giusto mezzo, 256 Gnosticismo / Eoni, 519 Haecceitas, 689 Idea / Forma, 158 Idea del buono, 158 Idee trascendenti / Forme immanenti, 464 Ierocrazia, 689 Ilemorfismo universale, 579 Illuminazione divina / Interiorità, 519 Illuminazionismo, 689 Impetus, 689 Incommensurabili, 319 Induzione, 256 Inferenza, 23 Intelletto, 464 Intelletto agente / Intelletto passivo, 579 Intelletto agente / Intelletto possibile, 621 Intelletto unico, 579 Intuizioni / Conoscenza discorsiva, 464 Ipostasi, 464 Ipotetico-problematico, 319 Ironia, 99 Lectio, 621 Legge, 519 Legge eterna / naturale / positiva, 621 Libertà, 403 Linguaggio, 99 Lògos, 23 Lògos (o Verbo), 519 Lògos / Simpatia, 403 Maestro, 621 Maieutica, 99 Male, 464, 519 Manicheismo, 519 Materia, 464 Mescolanza / Separazione, 62 Metafisica / Sapienza / Filosofia prima, 256 Metafisica della luce, 621 Mito, 23 Monachesimo, 579 Mondo sublunare / Mondo astrale / Etere, 256 Monopsichismo, 621 Mutamento / Privazione / Forma / Materia, 256 Nominalismo / Vocalismo, 579 Nous, 62, 256 Onnipotenza teologica, 689 Ortodossia, 23
Paidèia, 158 Paradosso, 62 Partecipazione, 158 Passioni / Apàtheia, 403 Peccato originale / Grazia / Libero arbitrio, 519 Pelagiani, 519 Permanenza, 464 Piacere, 403 Pòlis, 99 Potenza / Atto, 256 Predicazione / Categorie, 256 Presocratici, 62 Primo motore immobile, 256 Principi, 319 Principio di ragion sufficiente, 62 Principio ordinatore, 464 Probabilismo epistemologico / Necessità condizionale, 689 Processione, 464 Prognosi, 319 Prove a posteriori, 621 Pura deità, 689 Quadrivio / Trivio, 579 Quaestio, 621 Ragione naturale, 621 Rappresentazione comprensiva, 403 Rasoio di Ockham, 689 Realismo, 579 Relativismo / Pragmatismo, 99 Reminiscenza o anàmnesis, 158 Retorica, 99 Ribaltamento ecclesiologico, 689 Ritorno, 464 Saggezza / Felicità, 256 Saggio, 403 Sensismo, 403 Sfere omocentriche, 319 Sillogismo, 256 Sistema, 23 Sistema cardiovascolare, 319 Sostanza / Sostrato, 256 Sostanzialità dell’anima, 579 Status, 579 Svolta linguistica, 689 Tautologia, 23 Temperamenti, 319 Tròpi, 403 Umori, 319 Universali, 579 Univocità dell’essere, 689 Uno (assoluto), 464 Utopia, 158 Virtù, 99, 158, 621 Vita filosofica, 99 Volontarismo, 689 Zoologia, 319
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Indice dei nomi I numeri in corsivo si riferiscono ai luoghi in cui un autore è trattato in modo più approfondito, con citazioni da opere o meno. ABBÀSIDI, dinastia, 565, 576, 578 ABELARDO, 555-561, 562, 564, 565, 578, 579 ABU YAQUB YUSUF, califfo, 572, 573, 574 ABU YUSUF YAQUB AL-MANSUR, califfo, 574 ABUMASER, vedi AL-FARABI ADELARDO DI BATH, 561-562, 564 ADEODATO, figlio di Agostino d’Ippona, 498 ADIMANTO, fratello di Platone, 119, 180, 181 AEZIO, 32 AGOSTINO D’IPPONA, 400, 476, 477, 478, 480, 494, 497-516, 518, 519, 521-530, 540, 549, 551, 555, 600, 605, 612, 620, 623, 624, 626, 635, 636, 641, 642, 658, 666 AGRIPPA, 395-397, 399, 400, 402, 403 ALARICO, re dei Visigoti, 500, 510, 540 ALBERIGO, Giuseppe, 634 ALBERTO MAGNO (Alberto di Colonia), 588590, 594, 595, 603, 608, 618, 620, 656, 665 ALBINO, senatore romano, 540 ALCINOO, 438 ALCUINO DI YORK, 476, 545 ALESSANDRO DI AFRODISIA, 18, 253, 567, 568, 571, 573 ALESSANDRO DI DAMASCO, 300 ALESSANDRO DI HALES, 609, 635, 641 ALESSANDRO MAGNO, 199, 201, 297, 340, 386, 512 ALESSINO, 389 AL-FARABI, 477, 566, 567-569, 570, 571, 572, 573, 576, 578, 579, 589, 601 ALIGHIERI, Dante, 253, 344, 516, 564, 572, 591, 680, 681-682, 688 AL-KHWARITZMI, 562 AL-KINDI, 566-567, 568, 572, 575, 576, 578 AL-MAMUN, califfo, 565 ALMOHADI, dinastia, 572 ALMORAVIDI, dinastia, 572 AMBROGIO, santo, 499, 500, 514, 518, 635 AMELIO, 446 AMMONIO SACCA, 446, 493 ANASSAGORA, 7, 12, 15, 16, 51, 54-56, 59, 61, 62, 75, 85, 312, 332, 389, 454 ANASSARCO, 386 ANASSIMANDRO, 7, 14, 15, 27, 33, 34-35, 36, 59, 61, 307 ANASSIMENE, 7, 14, 15, 27, 33, 35-36, 59, 61, 237 ANDRONICO DI RODI, 199, 200, 203, 204, 216, 253, 256 ANITO, accusatore di Socrate, 85 ANSELMO D’AOSTA, 477, 550-553, 578, 626, 641, 662 ANSELMO DI CANTERBURY, vedi ANSELMO D’AOSTA ANSELMO DI LAON, 556, 564 ANSELMO DI LE BEC, vedi ANSELMO D’AOSTA ANTICO TESTAMENTO, vedi BIBBIA ANTIFONTE, 74, 79, 80, 83, 93-95, 98, 120 ANTIOCO DI ASCALONA, 436, 437 ANTIPATRO, governatore di Atene, 201 ANTIPATRO DI TARSO, 361, 400 ANTISTENE, 84, 95-96, 98, 419 ANTOLOGIA PALATINA, 36
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ANTONINO PIO, 490 APELLE, 413, 414 APOCALISSE, 486, 489, 518 APOLLODORO, 45, 368 APOLLONIO DI PERGA, 315, 316 APULEIO, 438 ARCESILAO, 360, 376, 385, 388-391, 392, 400, 402, 436 ARCHEDEMO, 361 ARCHILOCO, 65, 385 ARCHIMEDE, 288, 289, 316, 331, 583 ARCHITA DI TARANTO, 41, 116, 307 ARIO, 495, 519 ARISTARCO DI SAMO, 313 ARISTIPPO DI CIRENE, 84, 96, 98, 306, 418 ARISTOFANE, 84, 172 ARISTONE DI CHIO, 360, 373, 400 ARISTOSSENO DI TARANTO, 253 ARISTOTELE, 6-8, 12, 13, 16-17, 18, 19, 20, 23, 26, 28, 31, 32, 33, 34, 45, 46, 47, 48, 59, 61, 62, 80, 84, 90, 101, 147, 185-189, 198286, 288, 297, 298, 302, 310-312, 314, 318, 319, 326-327, 330, 331, 335, 340, 341, 343, 347, 348, 350, 356, 362, 366, 370, 372, 375, 376, 377, 402, 405, 413, 424-426, 439, 440, 441, 443, 445, 449, 451, 453, 455, 459, 460, 461, 462, 464, 478, 498, 523, 541, 542, 554, 557, 558, 561, 566, 567, 568, 569, 570, 571, 572, 573, 574, 575, 578, 579, 582, 584, 585, 586, 588, 589, 590, 591, 592, 595, 596, 597, 598, 599, 600, 603, 604, 605, 606, 610, 614, 616, 620, 621, 623, 624, 626, 627, 629, 634, 635, 636, 637, 638, 639, 640, 643, 656, 664, 668, 672, 673, 676, 677, 678, 679, 681, 683, 686 ARRIANO DI NICOMEDIA, 381 ARRIGO VII, imperatore, 682 ATENEO, 144 ATTALO, 378 ATTI DEGLI APOSTOLI, 485, 486 ATTICO, 438, 443 AUGUSTO (GAIO GIULIO CESARE OTTAVIANO), imperatore romano, 378, 681, 685 AVERROÈ, 478, 566, 567, 569, 572-575, 576, 578, 579, 583, 589, 590, 591, 603, 612, 620, 621, 638, 656, 679 AVICEBRON, 575, 576, 578, 579, 582, 601, 611 AVICENNA, 477, 478, 566, 567, 569-571, 572, 573, 578, 579, 582, 587, 589, 595, 598, 601, 620, 626, 656, 678 BACON, Francis, 480 BACONE, Ruggero, 582, 608, 609, 614-617, 618, 620, 621, 659 BARNES, Jonathan, 270, 271-272 BASILIDE, 491 BASILIO DI CESAREA, 496, 518 BAUMANN, Zygmunt, 171 BECKET, Tommaso, 562, 563 BENEDETTO XII, papa, 679
BENEDETTO DA NORCIA, 544, 579 BERENGARIO DI TOURS, 550 BERNARDO DI AREZZO, 675, 679 BERNARDO DI CHARTRES, 562 BERNARDO DI CHIARAVALLE (CLAIRVAUX), 555, 556 BIANCHI, Luca, 645 BIBBIA, 21, 269, 438, 462, 483-484, 487, 488, 491, 493, 498, 499, 516, 518, 519, 524, 544, 546, 547, 549, 551, 558, 559, 562, 564, 575, 578, 599 BOEZIO, ANICIO MANLIO TORQUATO SEVERINO, 476, 540, 541-543, 544, 545, 554, 567, 578, 579, 586, 595, 600, 634, 635, 636, 637, 641, 642, 671 BOEZIO DI DACIA, 588, 590, 591-594, 618, 620, 621, 639, 643-645, 656, 657, 681 BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, 478, 575, 582, 601, 602, 608, 609-613, 618, 620, 637, 638, 639, 659, 668 BONIFACIO VIII, papa, 680, 681 BRISONE, 386 BUFFON, Georges-Louis Leclerc, conte di, 269 BURIDANO, Giovanni, 676-678, 688, 689 CALCIDIO, 562 CALLICLE, 81, 83, 98, 117, 118, 130, 157, 419, 420 CARLO V, imperatore, 480, 678, 679 CARLO IL CALVO, imperatore, 545, 546 CARLO MAGNO, imperatore, 544, 545, 578 CARLO MARTELLO, re dei Franchi, 544 CARNEADE, 375, 376, 391-394, 398, 400, 402, 405, 436, 498, 503 CARTESIO (René Descartes), 269 CASSIODORO, 543-544, 545 CATONE, MARCO PORCIO, detto il Censore, 375 CELESTIO, 514 CICERONE, MARCO TULLIO, 344, 345, 349, 358, 363, 364, 375, 377, 388, 389, 391, 392, 498, 500, 511, 542, 554, 606 CLAUDIO, TIBERIO DRUSO, imperatore romano, 378 CLEANTE, 360-361, 368, 371, 377, 400, 402 CLEMENTE IV, papa, 614 CLEMENTE V, papa, 681 CLEMENTE ALESSANDRINO, 492, 518 CLISTENE, politico ateniese, 72 CLITOMACO, 391, 393, 398, 400, 405 CODRO, leggendario re di Atene, 16, 114 COMMODO ANTONINO MARCO AURELIO, imperatore romano, 300 COPERNICO, NICOLÒ, 313 CORANO, 21, 544, 574 CORPUS DIONYSIANUM, 516-517, 518 COSROE I, re di Persia, 565 COSTANTINO, GAIO FLAVIO VALERIO AURELIO, imperatore romano, 21, 459, 495, 518 COSTANZO II, imperatore romano, 495 CRATETE DI TEBE, 360 CRATILO, 39 CRISIPPO DI SOLI, 19, 360-361, 362, 365, 368,
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369, 370, 371, 373, 374, 376, 377, 391, 400, 402, 523 CRISTO, vedi GESÙ CRITOLAO, 375, 391 CRIZIA, 74, 79, 82, 83, 98, 114
EUDOSSO DI CNIDO, 155-156, 312, 314, 318, 319, 423, 425, 427 EUDROMO, 361 EURIPIDE, 265, 385 EUSEBIO DI CESAREA, 386, 387
DAMASCIO, 462, 565, 576 DARIO I, re di Persia, 37 DECIO, GAIO MESSIO, imperatore romano, 493, 495 DEFOE, Daniel, 572 DE LIBERA, Alain, 476 DEMOCRITO, 15, 30, 51, 56-59, 61, 62, 83, 150, 312, 332, 343, 347, 358, 385, 389, 398 DERHAM, William, 269 DICEARCO, 375 DIOCLEZIANO, GAIO AURELIO, imperatore romano, 495 DIODORO CRONO, 360, 389 DIOGENE DI BABILONIA, 375, 391 DIOGENE DI ENOANDA, 345, 357, 400 DIOGENE DI SELEUCIA, 361, 375, 400 DIOGENE DI SINOPE, 96, 98 DIOGENE LAERZIO, 32, 34, 51, 345, 346, 361, 362, 363, 367, 368, 372, 386, 387, 388, 391 DIONE, allievo di Platone, 115, 116 DIONIGI AEROPAGITA, 613 DIONISIO I, tiranno di Siracusa, 115, 116 DIONISIO II, tiranno di Siracusa, 115 DIOTIMA, sacerdotessa, 135, 151 DISCORSI DOPPI, 79, 80 DISSÒI LÒGOI, vedi DISCORSI DOPPI DOERRIE, Heinrich, 437 DOMIZIANO, TITO FLAVIO, imperatore romano, 381 DONATO, vescovo di Cartagine, 519 DUHEM, Pierre, 657, 678 DUNS SCOTO, Giovanni, 608, 609, 617, 657, 659-665, 668, 669, 670, 676, 688, 689
FEDERICO I D’ASBURGO, duca d’Austria, 682 FEDERICO II, imperatore, 583 FESTIDE, madre di Aristotele, 201 FILINO DI COS, 299 FILIPPO II, re di Macedonia, 199, 201 FILIPPO DI OPUNTE, 155 FILIPPO IL BELLO, re di Francia, 680, 681, 688 FILIPPO IL CANCELLIERE, 587, 635 FILISTIONE DI LOCRI, 326 FILODEMO DI GADARA, 345, 358, 400 FILOLAO DI CROTONE, 41, 42, 43, 59, 307 FILONE DI ALESSANDRIA, vedi FILONE EBREO FILONE DI LARISSA, 393, 394, 400, 436, 498 FILONE EBREO, 438-439, 443, 488, 493 FILOPONO, vedi GIOVANNI FILOPONO FIORAVANTI, Gianfranco, 587 FLASCH, Kurt, 526-528, 529 FOZIO, 394, 395 FRANCESCO, santo, 612, 613 FRANCESCO DI MARCHIA, 678 FRONTONE, maestro di Marco Aurelio, 383 FULBERTO, vescovo di Chartres, 554
ECATEO, 65 ECKHART, vedi MEISTER ECKHART EGIDIO ROMANO, 658, 680, 681, 688 ELOISA, moglie di Abelardo, 556, 557 EMPEDOCLE, 7, 8, 11, 12, 14, 15, 16, 37, 45, 51-54, 55, 56, 59, 61, 62, 66, 68-70, 150, 261, 325, 385, 389 ENESIDEMO, 394-395, 396, 397, 399, 400, 402, 405, 406 ENRICO I, re d’Inghilterra, 551 ENRICO II, re d’Inghilterra, 562 ENRICO DI GAND, 400, 659, 660 ENRICO SUSO, 667 EPAFRODITO, 381 EPICRATE, 144 EPICURO, 18, 19, 20, 56, 57, 62, 96, 343-358, 379, 400, 402, 403, 405, 426-428, 560 EPITTETO, 381-383, 384, 400, 402 ERACLITO, 8, 11, 14, 15, 16, 30, 36-39, 40, 45, 51, 59, 61, 64-67, 152, 328, 368, 385, 394, 398, 426 ERASISTRATO, 298, 301, 318, 504 ERIUGENA, 476, 477, 546-549, 565, 578, 579 ERMIA, 199, 201 ERODOTO, 34, 41, 160, 251, 345 EROFILO, 298, 318, 504 ERONE, 288, 583 ESIODO, 7, 8, 9, 30, 36, 44, 65, 66, 122, 181, 416 EUCLIDE DI ALESSANDRIA, 156, 253, 288, 289, 306, 307, 308, 309-310, 311, 312, 315, 316, 318, 319, 332, 377, 461, 562 EUCLIDE DI MEGARA, 84 EUDEMO DI CIPRO, 300 EUDEMO DI RODI, 253 EUDORO DI ALESSANDRIA, 436, 437
GALENO, 288, 289, 297, 299, 300-305, 306, 316, 318, 319, 328-331, 336-337, 377, 478, 504, 550, 572, 583, 584, 589 GALILEI, Galileo, 150, 226, 269, 276, 281, 283, 678, 679 GALILEO, vedi GALILEI, Galileo GALLIENO, PUBLIO LICINIO EGNAZIO, imperatore romano, 446 GAMALIELE, maestro di Paolo di Tarso, 487 GARSTEN, Christina, 171 GAUNILONE DI MARMONTIER, 553 GENSERICO, re dei vandali, 500 GERARDO DA CREMONA, 582 GEROLAMO, santo, 498 GESÙ (IEHOSHUA) DI NAZARET, 484-486, 487, 488, 489, 490, 491, 492, 495, 496, 507, 514, 515, 518, 519, 525, 529, 548, 550, 560, 561, 608, 612, 621, 668, 681, 683, 685 GIACOMO VENETO, 583 GIAMBLICO, 460, 461 GILBERTO DI POITIERS, 562 GILSON, Étienne, 628-630 GIOACCHINO DA FIORE, 563-564, 578, 579, 615 GIOVANNI, evangelista, 486, 488, 507, 508, 518, 519, 564, 666, 683 GIOVANNI XXII, papa, 667, 668, 682 GIOVANNI BATTISTA, santo, 484, 488 GIOVANNI DAMASCENO, 583, 642 GIOVANNI DA PARIGI, 658, 680, 688 GIOVANNI DELLA ROCHELLE, 609 GIOVANNI DI SALISBURY, 400, 556, 562-563, 564, 578 GIOVANNI FILOPONO, 443, 462, 638, 678 GIOVANNI SCOTO, vedi ERIUGENA GIOVANNI TAULERO, 667 GIULIANO, FLAVIO CLAUDIO (detto l’Apostata), imperatore romano, 460-461, 495 GIULIANO, vescovo di Eclano, 514, 526 GIUSTINIANO, FLAVIO PIETRO SABBAZIO, imperatore romano, 21, 462, 477, 540, 565, 578 GIUSTINO, 490-491, 492, 518 GLAUCONE, fratello di Platone, 119, 124, 133, 154, 173, 180, 181, 182, 185, 333, 422 GORGIA, 72, 74, 77-79, 83, 98, 99, 101-104, 112, 264, 385, 417 GRANT, Edward, 657
GREGORIO IX, papa, 587 GREGORIO X, papa, 609 GREGORIO DI NISSA, 496-497, 518, 546 GREY, Chris, 171 GROSSATESTA, Roberto, 583, 611, 613-614, 616, 618, 620, 621, 635, 637, 638, 642 GUGLIELMO II, re d’Inghilterra, 551 GUGLIELMO DE LA MARE, 658 GUGLIELMO DI ALNWICK, 664 GUGLIELMO DI ALVERNIA, 587 GUGLIELMO DI BAGLIONE, 639 GUGLIELMO DI CHAMPEAUX, 555, 556, 557 GUGLIELMO DI CONCHES, 562 GUGLIELMO DI MOERBEKE, 583, 605 GUGLIELMO DI OCKHAM, 476, 478, 609, 617, 663, 664, 668-674, 675, 676, 681, 684-686, 688, 689 GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, 556 GUNDISALVI, Domenico, 582 HEGEL, Georg Wilhelm Friedrich, 167, 169, 172 HEISENBERG, Werner, 150, 281 HOLBACH, Paul Heinrich Dietrich barone di, 269 HORN, Christoph, 528-530 HUME, David, 675 IBN GABIROL, vedi AVICEBRON IBN RUSHD, vedi AVERROÈ IBN SINA, vedi AVICENNA IBN TUFAYL, 572 ILARIO DI POITIERS, 626 IMBACH, Ruedi, 642, 643 INNOCENZO III, papa, 563 IPAZIA, 461 IPPARCO DI NICEA, 315, 331 IPPIA DI ELIDE, 74, 79, 83 IPPOCRATE, 290-297, 302, 318,
323-327, 329, 330, 385, 478 IPPOCRATE DI CHIO, 308, 312, 319 IPPOLITO, 374 ISAAC ISRAELI, 575, 626 ISIDORO DI SIVIGLIA, 544 ISOCRATE, 123 KILWARDBY, Roberto, 656, 658 KNAPWELL, Riccardo, 658 LAIDE, etera, 419 LECLERCQ, Jean, 555 LECOMTE DE Noüy, Pierre, 270 LEIBNIZ, Gottfried, 62 LENIN, Vladimir Ilic˘ Uljanov, 168 LEONARDO DA VINCI, 616 LEONE, matematico accademico, 312 LEONE III, papa, 545 LEOPARDI, Giacomo, 381 LEUCIPPO, 51, 56, 59, 61, 62, 347 LISIA, 164, 165, 166 LUCA, evangelista, 485, 486, 488, 685 LUCILIO, amico di Seneca, 380 LUCIO VERO, imperatore romano, 490 LUCREZIO CARO, TITO, 56, 345, 349, 350, 358, 380, 400, 402, 403 LUDOVICO IL BAVARO, imperatore, 668, 682, 684, 688 LUDOVICO IL PIO, imperatore, 545 LUTERO, vedi MARTIN LUTERO LUTTERELL, John, 668 MAINARDINI, Marsilio, vedi MARSILIO DA PADOVA MANI, 498, 519 MAOMETTO, vedi MUHAMMAD MARCIONE, 466, 491 MARCO, evangelista, 486, 488 MARCO AURELIO ANTONINO AUGUSTO, imperato-
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Indice dei nomi
re romano, 300, 383-384, 400, 402, 438, 490 MARINO, discepolo di Proclo, 462 MARSILIO DA PADOVA, 681, 682-684, 688, 689 MARTIN LUTERO, 667 MARX, Karl, 167, 172, 277, 358 MARZIALE, MARCO VALERIO, 301 MASSIMO IL CONFESSORE, 546 MATTEO, evangelista, 484, 486, 488, 560, 683, 685 MAYR, Ernst, 269-270 MEISTER ECKHART, 665-667, 688, 689 MELETO, accusatore di Socrate, 85, 92 MELISSO DI SAMO, 15, 46, 49-50, 52, 59, 61, 62, 68, 77, 78, 98 MEMMIO, SESTO, amico di Lucrezio, 358 MENECEO, 345 MENEDEMO, 144 METODOTO, 394 METRODORO DI CHIO, 389 METRODORO DI STRATONICEA, 393, 400 MICHELE DA CESENA, 668, 684 MICHELE SCOTO, 583 MONICA, madre di Agostino, 498 MORO, Tommaso, 170 MOSÈ MAIMONIDE, 575-576, 578, 598, 638 MUHAMMAD, 544, 565 MUSONIO RUFO, 381 NAUSIFANE, 343 NEMESIO, 370 NERONE, TIBERIO CLAUDIO, imperatore romano, 378, 379, 381 NESTORIO, patriarca di Costantiopoli, 496 NEWTON, Isaac, 269 NICOLA D’AUTRECOURT, 675-676, 679, 688 NICOMACO, padre di Aristotele, 198, 201, 541 NIETZSCHE, Friedrich, 648 NIKON, padre di Galeno, 300 NUMENIO DI APAMEA, 344, 438, 445, 455, 460, 464 OCKHAM, vedi GUGLIELMO DI OCKHAM OMERO, 7, 8, 9, 36, 44, 65, 123, 165, 166, 176, 181, 364, 385, 386 ORESME, Nicola, 678-679 ORFORD, Roberto, 658 ORIGENE, 493-494, 518, 519 OTTONE I, imperatore, 549 PANEZIO DI RODI, 375-376, 377, 400, 402 PANFILO, 343 PANTENO, 492 PAOLINO DI AQUILEIA, 545 PAOLO DIACONO, 545 PAOLO DI TARSO, 486-487, 514, 515, 516, 518, 519, 526, 530, 596 PAPIRIO FABIANO, 378 PARMENIDE, 7, 8, 11, 12, 14, 15, 16, 37, 39, 40, 44, 45-47, 48, 50, 51, 52, 58, 59, 61, 62, 66, 68, 78, 85, 142, 145, 152, 261, 307, 385, 389, 600 PATRIZIO, padre di Agostino, 498 PECKHAM, Giovanni, 639-640, 658 PELAGIO, 513-514, 518, 526, 528 PERICLE, 15, 49, 54, 56, 72, 73, 74, 75, 83, 84, 98 PIER DAMIANI, 550 PIETRO, apostolo, 487, 564, 683 PIETRO ABELARDO, vedi ABELARDO PIETRO DA PISA, 545 PIETRO IL VENERABILE, 557 PIETRO LOMBARDO, 559, 588, 609, 638, 659 PIETRO VALDO, vedi VALDO DI LIONE PINDARO, 30, 160, 467 PIRRONE, 18, 20, 337, 385, 386-388, 395, 399, 400, 402
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PISONI, famiglia, 379 PITAGORA, 7, 11, 14, 30, 39-41, 42, 43, 44, 45, 51, 59, 61, 65, 84, 261, 262, 304, 460 PITOCLE, 345 PIZIA, 201 PLATONE, 6, 7, 9, 12, 13, 15, 16, 17, 19, 20, 21, 23, 30, 31, 32, 39, 40, 43, 45, 46, 48, 59, 61, 62, 74, 75, 76, 77, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 90, 91, 93, 95, 112-174, 176185, 188, 198, 199, 201, 202, 203, 215, 217, 231, 235, 237, 238, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 255, 259, 261, 273, 276-286, 288, 292, 295, 308, 309, 310, 311, 312, 313, 317, 318, 331, 332-334, 335, 343, 347, 350, 356, 360, 366, 367, 370, 375, 377, 385, 388, 389, 398, 402, 417, 418, 419-424, 425, 427, 436, 437, 439, 440, 441, 443, 444, 445, 446, 449, 451, 455, 457, 460, 461, 464, 469, 488, 492, 516, 541, 542, 562, 572, 578, 623, 635, 636, 638, 642 PLINIO IL VECCHIO (Gaio Plinio Secondo), 589 PLOTINO, 437, 439, 440, 445-459, 460, 461, 463, 464, 466-470, 477, 492, 493, 499, 502, 504, 509, 566, 600 PLUTARCO, 32, 345, 349, 369, 388, 391, 438, 442, 443, 455, 460, 463, 464 POLEMONE, 360, 388 POLIBIO, 375, 376 POMPEO, GNEO MAGNO, generale romano, 377 PONZIO PILATO, governatore della Palestina, 486 POPPER, Karl Raimund, 167-170, 171, 173 PORFIRIO, 446, 458, 459, 460, 461, 499, 541, 542, 554, 567, 600, 668 POSIDONIO DI APAMEA, 368, 376-377, 400, 402 PROCLO, 306, 316-317, 318, 456, 461-462, 477, 480, 516, 566, 583, 665 PRODICO DI CEO, 79, 417 PROTAGORA, 72, 74-77, 78, 79, 81, 83, 98, 99, 112, 113, 177, 179, 180, 182, 385, 398, 418, 624, 626 PSEUDO-DIONIGI, 516-517, 518, 546, 547, 583, 595, 600, 614, 665, 666 PUTALLAZ, François-Xavier, 642, 643 QUIDORT, Giovanni, vedi GIOVANNI DA PARIGI RABANO, Mauro, 545 RAY, John, 269 REALE, Giovanni, 273 REGINALDO DA PIPERNO, 595 ROBINSON, Fred C., 479-480 ROMANIANO, benefattore di Agostino, 498 ROMOLO AUGUSTOLO, imperatore romano, 540 ROSCELLINO DI COMPIÈGNE, 557, 564 SAINT-SIMON, Henri de, 171 SCHOFIELD, Malcolm, 170-174 SCIPIONE, PUBLIO CORNELIO, detto Emiliano, generale romano, 375 SCIPIONI, famiglia, 375 SENECA, LUCIO ANNEO, 345, 368, 379-381, 400, 402, 439, 523, 617 SENECA LUCIO ANNEO, detto il Retore, 378 SENOCRATE, 156, 175, 388, 443 SENOFANE, 15, 44-45, 59, 61, 62, 65, 385, 389 SENOFONTE, 84, 93, 94, 360, 381, 417 SERSE, re di Persia, 81 SESTO EMPIRICO, 345, 348, 352, 353, 363, 364, 366, 367, 386, 388, 390, 392, 393, 394, 395, 396, 397-400, 402, 405-414 SETTIMIO SEVERO, LUCIO, imperatore romano, 492, 493 SIGIERI DI BRABANTE, 574, 582, 588, 590, 591, 603, 618, 620, 621, 639, 656 SIMMACO, senatore romano, 540
SIMMIA, 420, 421 SIMPLICIO, 35, 313, 381, 462, 565, 576, 635, 638 SIRIANO, 461 SOCRATE, 6, 7, 15, 16, 30, 61, 62, 74, 81, 83, 84-94, 98, 99, 114, 115, 116, 117, 118, 125, 126, 132, 136, 145, 148, 151, 157, 160-166, 173, 177, 179, 181, 185, 199, 237, 285, 304, 354, 370, 381, 385, 386, 388, 389, 417, 418, 421, 422, 424, 427, 436, 512, 560 SOFOCLE, 264 SOLONE, legislatore ateniese, 9, 16, 72, 113, 165, 166, 176, 416 SOLONINA, moglie dell’imperatore Gallieno, 446 SOZIONE, 378 SPADE, Paul Vincent, 479-480 SPEUSIPPO, 144, 156, 199, 388, 423, 425 STAGIRITA, vedi ARISTOTELE STESICORO, 423 STILPONE, 386, 389 STOBEO, 373 STRATONE DI LAMPSACO, 252-253 STRAUSS, Leo, 173 STUMP, Eleonore, 630-632 SUÁREZ, Francisco, 480 TALETE, 7, 14, 15, 27, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 59, 61, 237, 307 TEETETO, 312 TEILHARD DE CHARDIN, Marie-Joseph Pierre, 270 TEMPIER, Stefano, 594, 618, 645, 656, 657 TEODORICO, imperatore, 540, 541, 542 TEODORICO DI CHARTRES, 562 TEODORICO DI FREIBERG, 665 TEODOSIO, matematico accademico, 312 TEODOSIO I, imperatore romano, 479, 496 TEOFRASTO, 32, 199, 201, 252, 255, 375, 388 TERTULLIANO, QUINTO SETTIMO FIORENTE, 491492, 518 TESSALO, medico, 299 TIMONE DI FLIUNTE, 386-388, 394, 400, 407 TOLOMEO, CLAUDIO, 288, 297, 315, 318, 332, 335-336, 541, 583 TOMMASO D’AQUINO, 476, 478, 552, 574, 575, 582, 588, 591, 594-608, 611, 612, 618, 620, 621, 623-632, 637, 640-642, 645, 657, 658, 659, 660, 661, 664, 665, 668, 669, 680, 681, 688 TRASIMACO DI CALCEDONIA, 79, 81-82, 83, 98, 118, 119, 124, 131, 157, 180, 181, 182, 183, 185, 186, 385 TUCIDIDE, 160 UGO DI SAN VITTORE, 610 UMÀYYADI, dinastia, 565, 576 VALDO DI LIONE, 563 VALENTINO, 466, 491 VALERIANO, PUBLIO LICINIO, imperatore romano, 495 VALERIO, vescovo di Ippona, 500 VERNANT, Jean-Pierre, 25-28 VERNE, Jules, 616 VITTORINO, GAIO MARIO, 499, 600 WHITEHEAD, Alfred North, 112 WITTGENSTEIN, Ludwig, 410 ZARATHUSTRA, vedi ZOROASTRO ZENONE DI CIZIO, 18, 19, 20, 359-360, 359360, 361, 362, 363, 370, 371, 373, 374, 400, 402 ZENONE DI ELEA, 15, 45, 48-49, 51, 59, 61, 62, 85, 89, 142, 201, 307 ZOROASTRO, 498