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Italian Pages 454 Year 2013
Studia Humaniora collana di studi e ricerche Vo l u m e V I I I
Comitato scientifico Roberto Esposito Pierpaolo Marrone Paolo Pagani Carmelo Vigna Gianfrancesco Zanetti
Margini della filosofia contemporanea a cura di
Attilio Bruzzone Paolo Vignola
Nella collana Studia Humaniora Orthotes Editrice pubblica esclusivamente testi scientifici valutati e approvati dal Comitato scientifico-editoriale. I volumi sono sottoposti a peer-review.
Tutti i diritti riservati Prima edizione: ottobre 2013 Copyright © 2013 Orthotes Editrice Napoli-Salerno www.orthotes.com isbn 978-88-97806-42-4
Introduzione I piani dei margini e i margini del piano
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l titolo di questa raccolta di saggi, Margini della filosofia contemporanea, vuole sicuramente essere un richiamo esplicito al libro pubblicato da Jacques Derrida nel 1972, Marges, che ha il suo necessario complemento nel sottotitolo de la philosophie. I margini della filosofia che Derrida aveva voluto descrivere sono quelli rappresentati dai dieci saggi dell’omonimo libro, accomunati tanto dalla loro condizione “marginale” rispetto ad alcuni grandi testi della storia della filosofia, quanto dal manifesto intento di porre la questione stessa del margine, come ciò che dovrebbe resistere al movimento di appropriazione caratteristico della metafisica, lavorando al cuore stesso della filosofia (Derrida 1997). Tuttavia, se i saggi del presente volume descrivono le teorie, i problemi, gli autori, le discipline che, per motivi diversi, possono essere ritenuti anomali o marginali rispetto ai più accreditati logoi e topoi della filosofia contemporanea, la prospettiva generale di questa raccolta è sostanzialmente differente da quella derridiana, anche se non in opposizione. I testi qui proposti, infatti, non esprimono la denuncia relativa alla captazione del margine, inteso come singolarità, anomalia o alterità, bensì intendono primariamente promuovere tali margini o, comunque, mettere in evidenza come determinati autori, temi, discipline e oggetti spesso reputati marginali, anomali, singolari – o persino esterni – rispetto all’idea che la filosofia novecentesca si è man mano costruita di se stessa, abbiano in realtà contribuito felicemente alla crescita concettuale, metodologica ed euristica del pensiero filosofico contemporaneo.
Ripartire dai margini
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’autentico elemento di discrimine tra il senso di questo libro e il vettore decostruttivo dell’operazione derridiana può essere rintracciato nell’intenzione, da parte di chi ha raccolto i testi qui presentati, di fornire al lettore innanzitutto uno strumento, dunque
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qualcosa di “concreto”, di operativo e, proprio per tale ragione, affermativo. Queste pagine non offrono, quindi, un martello per colpire o un grimaldello per scardinare, come vorrebbe la descostruzione, ma una cassetta con numerosi attrezzi specifici, molti dei quali sconosciuti ai non addetti ai lavori, con cui incominciare a costruire un piano per la filosofia contemporanea. L’obiettivo principale di questo libro è perciò traducibile nella realizzazione di una sorta di patchwork ragionato o di manuale deleuziano, dunque rizomatico, ossia decentrato e anti-gerarchico, nonché funzionale a un determinato scopo – quello che il lettore troverà più opportuno (Deleuze, Guattari 1972; 2003). Sebbene non si presenti realmente come un manuale, Margini della filosofia contemporanea è comunque finalizzato a un’ampia ricognizione dei confini e degli scambi tra le frontiere disciplinari; inoltre, esso mira a rendere tali margini maneggevoli, vale a dire pronti all’uso in tutt’altro luogo da quelli in cui si sono sviluppati, sia esso la strada sotto casa o il cuore della filosofia, se dovessero presentarsi le occasioni. In tal senso, piuttosto che essere una vera e propria cartografia della filosofia contemporanea, il libro è stato concepito come una mappatura dei confini disciplinari più suggestivi, ma spesso anche più difficili da abitare, per i filosofi degli ultimi centocinquanta anni – da Nietzsche a Searle e a Stiegler, per intenderci – e per quegli autori che, partendo da altre discipline, sono riusciti a influire sul pensiero filosofico. Potremmo perciò considerare i testi che seguono come una serie di variazioni teoriche rispetto al tema derridiano del margine. Del resto, i margini a cui Derrida si riferisce – ridisegnandone la funzione teorica – sono quelli tra filosofia e non-filosofia, e tale topica è solo una delle diverse possibilità che, in questo libro, si vogliono esprimere utilizzando il concetto di margine. Data l’eterogeneità di partenza, questo piano di composizione collettiva non può essere indirizzato alla ricerca di una prospettiva monolitica o uniformante ma, al tempo stesso, l’irriducibile pluralità dei margini qui presentati non deve essere intesa come un’impossibilità di stabilire rapporti o interferenze creatrici tra le prospettive prese in considerazione, in quanto da essa emerge in primo luogo la dimensione reticolare del tema generale che è oggetto d’analisi, ossia la filosofia contemporanea approdata al XXI secolo. Ora, piuttosto che suggerire una “ragion debole” come collante degli interventi, l’aspetto reticolare può diventare lo strumento più indicato per favorire la curiosità filosofica, ossia quell’attitudine che, da sempre, permette alla filosofia di
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proseguire il proprio percorso di maturazione, secondo una dialettica interminabile di potenziamento e autocritica. Si tratta, a ben vedere, della tensione verso l’anomalia e l’alterità – tematiche o disciplinari –, in grado di mettere in discussione la logica che anima i percorsi di ricerca individuali o delle varie scuole di pensiero. L’anomalia lavora i confini disciplinari e, dunque, spinge affinché i diversi margini conquistino un diritto di parola che può rivelarsi vitale o, se si preferisce, necessario per la stessa prassi filosofica. Inoltre, proprio per non cedere alle tentazioni della ragion debole, che rinuncerebbe a qualsiasi solido principio di guida del lavoro in favore di giochi e suggestioni tanto spettacolari quanto aleatori, il fine propriamente filosofico del progetto risiede nel delineare i tratti fondamentali di una “ragione reticolare” (Musso 2007) come lente (dunque tecno-logia) particolarmente idonea a leggere il fenomeno della marginalità e, attraverso esso, lo statuto stesso della filosofia contemporanea. Un lavoro collettivo, che tenta di essere plurale nei metodi, nei contenuti e nelle forme di indagine, ha sicuramente il dovere di riconoscere i propri limiti – anche quando essi vengono declinati come margini, cioè confini in continua evoluzione, o anomalie salutari per il pensiero, poiché, proprio in quanto elementi anomali, possono indicare alla filosofia contemporanea la strada per istituire nuovi valori e nuove norme vitali (Canguilhem 1998). Al tempo stesso, comunque, una ragione che si vuole reticolare, non orientata pertanto da alcuna egemonia disciplinare, deve comprendere ed esibire il senso più profondo del margine, e cioè non soltanto il suo essere una soglia in perenne movimento tra il dentro e il fuori, ma ancor di più il suo lavoro decostruttivo del dentro e del fuori nonché, tramite questo, il suo ruolo di anticorpo nei confronti dell’autoreferenzialità della filosofia, sempre in agguato quando si tratta di descrivere ciò che è altro da sé: questa è l’unica indicazione derridiana che il libro segue fino in fondo.
Quattro margini, ventinove anomalie
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testi qui proposti hanno la forma di brevi saggi individuali, capaci di mappare specifiche zone concettuali o storiografiche, focalizzando l’attenzione sugli aspetti considerati minori, spurii o in qualche modo non conformi dall’ordine del discorso filosofico, nazionale e internazionale. Per riprodurre la complessità del tema generale,
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e quindi per garantire il più ampio ventaglio di proposte, la raccolta è divisa in quattro sezioni, dunque quattro piani del margine, che hanno la funzione di articolare prospettive anche molto differenti tra loro, puntando alla ricerca di altrettanti equilibri “metastabili” – perciò sempre provvisori – che le più disparate correnti del pensiero contemporaneo possono trovare sul margine in questione. Nella prima sezione, “Tre secoli di filosofia contemporanea”, vengono delineati alcuni lunghi percorsi della contemporaneità, vale a dire il cammino di quelle prospettive che, in modi assai differenti, hanno cercato di emanciparsi dal peso della modernità e, in alcuni casi, persino dall’ordine del discorso novecentesco. Rispetto alle altre sezioni, la prima è comunque ancora piuttosto centrata – sebbene intrinsecamente plurale e pluralista –, volta dunque a fornire i punti cardinali dai quali fuggiranno la maggior parte dei contributi successivi. In particolare, la filosofia contemporanea viene mostrata nella sua irriducibile pluralità, cercando di perimetrare i confini della razionalità filosofica a partire dal pensiero prospettico di Nietzsche (Selena Pastorino) e attraversando alcuni fuochi di interesse che hanno riscaldato il dibattito novecentesco, come la dimensione utopica (Gerardo Cunico), e illuminato i sentieri che la filosofia sta percorrendo in questo primo spicchio del XXI secolo: dagli esperimenti mentali della filosofia analitica (Maria Cristina Amoretti) al dibattito attorno al nuovo realismo (Ignazio Semino); oppure dagli ultimi sviluppi della teoria dell’immagine (Oscar Meo) fino alle metamorfosi del trascendentale contemporaneo (Emanuele Antonelli). La seconda sezione, “Discipline di confine”, mira ad analizzare il rapporto che alcune discipline, inerenti alle scienze umane, hanno intrattenuto o intrattengono con la filosofia contemporanea, prestando particolare attenzione alla sociologia, alla psicologia, alla psicanalisi, all’antropologia, alla matematica e alla teologia. Un discorso a parte verrà inoltre dedicato al tema estetico e quindi all’investigazione dei confini tra l’arte – comprendendo in essa la letteratura – e la filosofia. Tali argomenti verranno trattati attraverso una ricognizione all’interno della filosofia analitica dell’estetica (Ilaria Boeddu), una ricostruzione del rapporto tra Foucault e Raymond Roussel (Giuseppe Zuccarino) e una riflessione critica sul rapporto tra estetica e simbolo (Vincenzo Cuomo). Oltre alla tematica estetica, risultano sicuramente fondamentali il rapporto tra psicoanalisi e filosofia (Bruno Moroncini),
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l’emergere di un’autentica filosofia della tecnologia (Francesca Dell’Orto), la relazione tra matematica e pensiero filosofico contemporaneo (Francesco Aloe), quella tra religione e filosofia analitica (Marco Damonte), nonché il rapporto tra bios ed economia politica nel XXI secolo (Silverio Zanobetti). Il problema di definire se un pensatore influente per il dibattito filosofico sia o meno un “filosofo” è un argomento in grado di interrogare direttamente lo statuto della filosofia e perciò di mettere in discussione i confini delle discipline filosofiche, a livello contenutistico e metodologico. Data la stretta contiguità di tale argomento con quelli sintetizzati nella descrizione della seconda sezione, la differenza fondamentale tra quest’ultima e la terza risiederà nel taglio di composizione dei saggi. La terza sezione, intitolata “Autori nomadi”, cercherà perciò di ritrarre l’importanza strategica di determinate figure autoriali che, sebbene difficilmente catalogabili come filosofi o di cui non è stata considerata adeguatamente l’importanza, hanno contribuito in modo essenziale, dirompente o suggestivo al processo di maturazione della filosofia contemporanea. Chiaramente, il numero di tali autori può facilmente superare il centinaio, mentre la rosa selezionata è davvero molto minuta, ed è composta dai (più che) sociologi Georg Simmel (Attilio Bruzzone) e Gabriel Tarde (Filippo Domenicali), dai (più che) poeti Celan (Francesco Camera) e Leopardi (Andrea Natali), dal filosofo italiano Enzo Melandri (Alessia Solerio), dal grande antropologo Marcel Mauss (Andrea C. Bertino) e da Carmelo Bene (Sara Baranzoni). Il Novecento, anche per via delle rapide e sconvolgenti trasformazioni socio-culturali, ha introdotto nel dibattito filosofico oggetti e problemi in qualche modo estranei alla tradizione della filosofia, la quale è stata comunque in grado di fornire, ancora una volta, strumenti critici spesso adeguati alle necessità del momento. Tuttavia, anche in questo caso, è possibile individuare problemi e oggetti universalmente ritenuti centrali per la disputa filosofica e altri sovente ignorati o considerati, appunto, marginali. Tra i primi, sono sicuramente da segnalare i totalitarismi novecenteschi, il capitalismo, le lotte di emancipazione, il dialogo religioso e la globalizzazione, mentre marginali sono o sono stati, tra gli altri, la musica, il cinema, il marketing e il web. Questi oggetti, anche se hanno ricevuto una discreta attenzione da parte di molti filosofi – di scuole anche decisamente
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differenti – possono essere visti come marginali nella misura in cui difficilmente sono stati trattati come elementi in grado di contribuire allo sviluppo stesso della filosofia contemporanea. In altri termini, la filosofia – tranne rare eccezioni – si è sempre occupata di questi ambiti con una certa supponenza, non considerando perciò la loro valenza costruttiva e costitutiva per il pensiero filosofico. La quarta e ultima sezione, “Posture, movimenti, angolature”, cercherà pertanto di evidenziare un certo protagonismo di questi problemi e oggetti marginali, focalizzando l’attenzione sugli esercizi spirituali (Matteo Zoppi), sulla mistica della modernità (Emanuela Miconi), sulla critica all’antropocentrismo (Ubaldo Fadini), sulla questione filosofica dell’autobiografia (Igor Pelgreffi), sulla relazione tra letteratura, logica e scienza (Simona Paravagna), sul fallocentrismo e il tema del nomadismo (Lisa Fazio e Maria Luisa Haupt), sui margini epistemologici dell’Occidente (Stefania Consigliere) e sul rapporto tra margine e fondamento (Paolo Vignola). §§§
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rima di concludere questa breve introduzione, inversamente proporzionale all’ampiezza degli argomenti che tratta il volume, risulta opportuna un’avvertenza relativa alla policromia dei contributi. Le quattro sezioni comprendono, tra gli altri, saggi autenticamente interdisciplinari, la cui presenza vorrebbe soddisfare l’obiettivo di evitare l’autoreferenzialità della filosofia nel definire i suoi margini. In tal senso, anche attraverso questi articoli letteralmente di frontiera, si proverà a far sì che non sia la filosofia ad avere sempre l’ultima parola in questa cartografia, offrendo tale chance anche alle discipline e agli autori che hanno condotto con i filosofi un dialogo proficuo per il loro divenire e per quello, appunto, del pensiero filosofico. Proprio attraverso lo sguardo delle discipline che confinano con la filosofia, si metterà quest’ultima, attraverso i suoi autori, nel ruolo di margine attivo nei confronti di quei saperi disciplinari esterni rispetto alla tradizione filosofica. In tal modo, si presenterà l’occasione per esibire il fine ultimo della ragione reticolare, vale a dire la ricerca di un nuovo protagonismo della filosofia, ritagliato in base alle esigenze e alle sfide della contemporaneità. Nello specifico, il discorso sui margini, che per definizione è un discorso plurale, apre a una prospettiva in cui
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la pluralità è protagonista. In quest’ottica, la filosofia contemporanea può essere davvero e proficuamente protagonista solo se riesce a manifestarsi in grado di lasciare essere protagonisti tutti i soggetti che compongono la tessitura del sapere, secondo una dinamica per cui sono i margini a stabilire, di volta in volta, il centro della mappa. Paolo Vignola Genova, aprile 2013 Bibliografia Canguilhem, G. (1998), Il normale e il patologico, trad. it. di D. Buzzolan, Einaudi, Torino [Le normal et le pathologique, 1964]. Deleuze, G., Guattari, F. (1975), L’Anti-Edipo, trad. it. A. Fontana, Einaudi, Torino [L’Anti-Œdipe, Minuit, Paris 1972]. Deleuze, G., Guattari, F. (2003), Mille piani, trad. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma [Mille plateaux, Minuit, Paris 1980]. Derrida J. (1997), Margini della filosofia, trad. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino [Marges de la philosophie, Minuit, Paris 1972]. Musso, P. (2007), L’ideologia delle reti, trad. it. di A. Mirabella, Apogeo, Milano [Critique des réseaux, PUF, Paris 2003].
Prima sezione Tre secoli di filosofia contemporanea
Selena Pastorino Prospettive per la filosofia contemporanea A partire dal pensiero dell’interpretazione di Friedrich Nietzsche
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alutare oggi il possibile contributo del pensiero nietzschiano dell’interpretazione per la riflessione contemporanea si configura come un compito arduo non meno che importante, per almeno due ordini di motivi. Da un lato, comprendere il ruolo e le sfumature assunti dal termine «interpretazione» e correlati nell’ambito della filosofia di Nietzsche significa immergersi nella complessità dei testi, editi e non, che la mettono in opera. Nel primo paragrafo tenteremo di chiarire i motivi per cui, forse oggi più che mai, qualsiasi tentativo di sistematizzazione che aggiri l’esigenza di una lettura lenta ed attenta degli scritti di Nietzsche pervenga a risultati sterili e pressoché inservibili. Dall’altro lato, la ricezione del pensiero nietzschiano dell’interpretazione è oggi tornata alla ribalta nell’ambito del dibattito italiano sul nuovo realismo (cfr. Ferraris 2012, IX-XII) sotto le sembianze di un confronto con l’icastica espressione: «i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni» (Nietzsche 1975, 299). Decontestualizzato e banalizzato, questo stralcio di citazione viene assunto dai suoi detrattori come formula riassuntiva di un certo qual relativismo arbitrario e nichilista che avrebbe quanto meno fatto il suo tempo. Di fronte a tali interpretazioni, vogliamo avanzare, nel secondo paragrafo, una lettura del brano in questione che, lungi dalla presunzione di fissarne i contenuti una volta per tutte, possa mostrarne difficoltà e profondità. Lo scopo di tale analisi non è tanto un’apologetica impossibile ed improbabile dei testi nietzschiani, bensì quello di recuperare nell’inattualità del pensiero di Nietzsche un potenziale ancora inesploso e capace di vivificare, come ci proponiamo di mostrare in conclusione al presente lavoro, la riflessione contemporanea che sappia raccoglierne la sfida. Ricezione la cui storia è ben più ricca ed articolata (cfr. Figl 1982, 2-9; Hofmann 1994, 168-305).
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1. Testi
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valle della tormentata storia degli effetti che ha sancito l’ingresso del pensiero di Nietzsche nella riflessione filosofica novecentesca, almeno a partire dagli anni Settanta del secolo scorso la ricerca nietzschiana si è dimostrata sempre più sensibile nei confronti della necessità di una «buona lettura» di Nietzsche. Anche al di là indicazioni, talvolta esasperate, con cui l’autore accompagna le sue opere, l’esigenza di una certa qual cautela e probità filologica emerge dalla natura stessa degli scritti in questione e dal rapporto di complicazione tra teoria e prassi che li anima. La filosofia nietzschiana è, infatti, messa in opera nella e dalla pratica scrittoria. Lo stile di scrittura che la contraddistingue e di cui la forma aforistica è solo la caratteristica più evidente dissemina il significato dei propri termini cruciali, anziché stabilizzarlo e cristallizzarlo una volta per tutte in un concetto, consegnandolo ad una perpetua dinamizzazione in relazione a sempre nuovi contesti di lettura e sempre nuove reti di significato. Questa asistematicità pratico-teorica, che insiste sul potenziale creativo ed eversivo insito nel linguaggio e nel pensiero, ha esposto la filosofia nietzschiana all’accusa di essere contraddittoria. Ora, sia che essa fornisca il pretesto per liquidare in toto il senso delle riflessioni nietzschiane, sia che essa venga lodata nella sua affascinante originalità, la contraddittorietà non è una caratteristica del pensiero nietzschiano, non più di quanto lo sia la sistematicità (cfr. Stegmaier 2007, 88-89): permanendo nell’ambito del predominio dei dualismi e del principio di non contraddizione proprio di una certa tradizione metafisica che Nietzsche si propone di oltrepassare, ogni lettura del suo pensiero come contraddittorio è sostanzialmente una non lettura, una mera proiezione dei limiti e delle convinzioni del lettore sui testi che ha di fronte. Affinché possa darsi qualcosa come una com Cfr. Roos 2011; Montinari 1982; Müller-Lauter 1995. Per ciò che concerne l’attualità della ricerca nietzschiana, ci limitiamo qui a ricordare: i progetti di un «Nietzsche-Kommentar», promosso dall’Università di Freiburg da Jochen Schmidt, Barbara Neymeyr e Andreas Urs Sommer, e di un «Nietzsche-Wörterbuch», in corso di realizzazione presso il Nietzsche Research Group di Nijmegen sotto la guida di Paul van Tongeren e Herman Siemens; il tentativo di un’interpretazione contestuale delle opere aforistiche nietzschiane sviluppato da Werner Stegmaier (cfr. Stegmaier 2012); il convegno sul tema «Nietzsche e la filologia», svoltosi nel 2006 in Francia (cfr. Balaudé, Wotling, 2012); il lavoro dei giovani ricercatori del «Seminario permanente nietzschiano» e del «Nietzsche-Colloquium» berlinese. Di «mise en œuvre» parla in questo senso Denat 2012.
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prensione degli scritti nietzschiani è dunque necessaria una certa qual predisposizione di chi li avvicina: solo il lettore che ha già «capito» Nietzsche può capire Nietzsche. Si tratta di un gioco circolare che, lungi dall’essere vizioso, si configura tuttavia come altamente selettivo (cfr. Denat 2012, 152). Prima ancora della frustrazione dell’escluso (quel risentimento da cui origina buona parte della persuasione con cui vengono sostenute le più varie sistematizzazioni del pensiero nietzschiano), questo meccanismo comporta per chiunque voglia leggere Nietzsche la necessità di una certa cautela, di una sostanziale umiltà e della più integra onestà possibile. Sebbene queste caratteristiche possano sembrare del tutto indipendenti dalla buona volontà del lettore, il procedimento selettivo non si gioca preliminarmente alla lettura ma nel darsi della lettura stessa. In altre parole, una buona lettura dei testi nietzschiani è, seppur in diversa misura a seconda delle proprie personali resistenze, potenzialmente accessibile a tutti. Leggere bene Nietzsche significa anzitutto, come vedremo, prendere consapevolezza della necessità di tenersi sul margine tra la pars destruens e la pars costruens della sua filosofia. È proprio l’uscita da questa zona di confine a consentire, infatti, di rilevare una sostanziale contraddittorietà del pensiero nietzschiano. Emblematica è in questo senso la critica di matrice analitica che legge la formula «i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni» come «una variante del celebre paradosso del mentitore» (Andina 1999, 227). In altre parole, Nietzsche non potrebbe sostenere quello che afferma senza presupporre quello che sta negando, vale a dire che vi sia qualcosa come un fatto, il fatto che non ci siano fatti ma solo interpretazioni, perché se la sua fosse solo un’interpretazione non potrebbe avanzare alcuna pretesa veritativa e sarebbe pertanto priva di senso. Pur perfettamente coerente, questa accusa manca del tutto il bersaglio: ignorando deliberatamente la pars destruens della frase nietzschiana, che impone l’uscita dal sistema e dalle regole di una logica per cui «ci sono i fatti», non è in grado di cogliere la portata della pars costruens. Assumendo un principio trascendente al piano della testualità – la fede nell’esistenza dei fatti – cancella il testo stesso, il quale dice esattamente l’opposto: «i fatti non ci sono». «[La méthode philologique est] avant tout une capacité : seul y a accès, de façon anticornariste, celui qui en est déjà capable» (Piazzesi 2012, 91). Per un’articolata trattazione delle critiche al pensiero dell’interpretazione su basi logiche cfr. Grimm 1977; Andina 1999. Importante è anche il confronto di queste accuse con la lettura di Danto 2012 e con la demagogia argomentativa messa in atto da Ferraris 2003.
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2. Interpretazioni
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l brano che ora andremo progressivamente a leggere nella sua interezza appartiene un quaderno risalente al periodo compreso tra la fine del 1886 e la primavera del 1887. Si tratta di una fase matura del pensiero nietzschiano, che vede i motivi di riflessione degli anni precedenti intrecciarsi ad una tensione sperimentale che esploderà, negli ultimi mesi di «lucidità» del filosofo, in un’intensa produzione testuale. Nello specifico del lascito postumo di questo periodo, il riferimento all’interpretazione è costante e coinvolge tutti i principali snodi teoretici nietzschiani (cfr. Figl 1982), come l’appunto in questione ha il pregio di mettere in luce. Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: «ci sono soltanto fatti», direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto «in sé»; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. «Tutto è soggettivo», dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il «soggetto» non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. – È infine necessario mettere ancora l’interprete dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi (Nietzsche 1975, 299).
Prendendo esplicitamente parola contro la fiducia positivistica nei fatti, Nietzsche innesca un processo decostruttivo piuttosto articolato, atto a svellere, nell’arco di pochissime righe, l’intero impianto di pensiero della tradizione occidentale. Per meglio comprendere la strategia nietzschiana è forse utile reperirne i presupposti impliciti in uno dei suoi possibili con-testi di lettura, il secondo aforisma di Al di là del bene e del male: Questa maniera di giudicare costituisce il tipico pregiudizio, da cui si rendono riconoscibili i metafisici di tutti i tempi; questa specie di apprezzamenti di valore sta sullo sfondo di tutti i loro procedimen La decisione di prendere ad esempio un appunto tratto dal lascito postumo è dettata dall’urgenza di arginare l’abuso citazionale che lo affligge, offendo un altro tipo di approccio testuale. Consapevoli che non è qui che si gioca l’interezza del pensiero nietzschiano dell’interpretazione, vogliamo invitare ad una certa qual cautela rispetto alla tentazione di sopravvalutare quello che è, in fondo, un appunto personale di Nietzsche. Siamo infatti dell’avviso che non nel lascito inedito, ma casomai nelle opere effettivamente pubblicate sia da rinvenirsi se non l’ultima parola del filosofo, quanto meno ciò che egli ha voluto dirci (cfr. Stegmaier 2007, 89 ss.).
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ti logici; prendendo questa loro «fede» come punto di partenza, essi si sforzano di raggiungere il loro «sapere», qualcosa che alla fine viene battezzato come «la verità». La credenza fondamentale dei metafisici è la credenza nelle antitesi di valori. […] Nonostante il valore che può essere attribuito al vero, al verace, al disinteressato, c’è la possibilità che debba ascriversi all’apparenza, alla volontà d’illusione, all’interesse personale e alla cupidità un valore superiore e più fondamentale per ogni vita. Sarebbe inoltre persino possibile che quanto costituisce il valore di quelle buone e venerate cose consista proprio nel fatto che esse sono capziosamente imparentate, annodate, agganciate a quelle cattive, apparentemente antitetiche, e forse anzi sono a queste essenzialmente simili (Nietzsche 1972, 8).
In questo brano, Nietzsche intravvede nel dualismo la struttura portante di ogni metafisica, il cui unico fondamento sarebbe l’atto di fede di chi la promuove, tanto che qualsivoglia gerarchia valoriale venga istituita a partire da questi presupposti non può avanzare alcuna pretesa di esclusività ed assolutezza. Per questo motivo è possibile proporre una visione adualistica ed omogenea per la quale ogni presunto polo non è in opposizione al suo corrispettivo, ma in strettissimo legame con esso, tanto che entrambi risultano non solo interdipendenti ma altresì indiscernibili. La strategia decostruttiva del brano manoscritto funziona mettendo in opera questa prospettiva critica: mina dualismi ed assolutismi, seguendo e quindi svelando la stessa struttura intricata che li lega. Nietzsche prende le mosse dal richiamo positivistico ai fatti che appare legato alla metafisica da una relazione ambigua: da un lato, infatti, i Positivisti si oppongo ad essa, rivalutano quelli che in ottica metafisica sarebbero meri fenomeni, per (ri)affermarne il valore ontologico e gnoseologico; dall’altro lato, proprio in virtù dell’assolutezza attribuita ai cosiddetti fatti – quell’assolutezza che nel brano nietzschiano è veicolata dall’espressione, rilevata tra virgolette, «in sé» − la prospettiva positivistica muove, come ogni metafisica, dalla fede nelle antitesi di valori. Nelle prime due frasi dell’appunto Nietzsche decostruisce due diversi ma correlati antagonismi (fenomeno/noumeno, positivismo/metafisica), destituendo di validità l’assolutezza delle pretese conoscitive Cfr. Dries 2008, da cui mutuiamo l’efficace definizione di «adualismo»; a proposito della visione continuistica ed omogenea cfr. tra gli altri Abel 2001; Wotling 2012.
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avanzate dal Positivismo e preparando una più radicale decostruzione del dualismo tra verità fattuale ed interpretazione, la cui realizzazione è affidata al prosieguo del brano. Venuto meno il richiamo all’assolutezza dei fatti, potremmo dire venuto meno ogni possibile oggettivismo, resterebbe infatti ancora praticabile un’assolutizzazione della conoscenza in chiave soggettivistica. Tale possibilità è tuttavia solo apparente perché, prendendo le mosse dalla presupposizione di un dualismo tra soggetto ed oggetto − la cui stabilità è già minata dalla prima parte del brano −, si limita ad un’inversione valoriale, per cui il fondamento delle pretese conoscitive non poggerebbe più nell’oggettività ma nella soggettività. Non vi sono però motivi per ritenere che al soggetto possa attribuirsi quella datità che all’oggetto è negata. In altri termini, se non può essere rinvenuto alcunché di stabile e fisso nel reale, ciò vale anche per quel reale che sembra esserci più prossimo: il soggetto è costruito e posto come datità da un processo interpretativo che a sua volta non rimanda ad alcuna istanza soggettiva che lo trascenda. Tra la riduzione ad interpretazione di qualsivoglia pretesa veritativa, che la strategia decostruttiva nietzschiana mette in opera, e la riconduzione al soggetto di ogni impresa conoscitiva sussiste quindi una radicale e profonda differenza. In altri termini, non vi è sinonimia alcuna tra le formule «tutto è soggettivo» e «tutto è interpretazione». Il soggettivismo muove infatti da una visione disomogenea del reale − per il soggetto varrebbero privilegi di cui l’oggetto è privo − che gli consente di ricercare in un’istanza presunta «trascendente» − il soggetto, appunto − un fondamento stabile per ogni pretesa conoscitiva. Come ci sarà più chiaro proseguendo la lettura del brano, il pensiero nietzschiano dell’interpretazione decostruisce la trascendenza che qualsivoglia visione dualistica pone in essere non appena istituisce un antagonismo valoriale, proponendo invece una visione del reale omogenea, emancipata dai dualismi e dagli assolutismi. A fronte di queste differenze perdono validità le pur frequenti letture della filosofia di Nietzsche in chiave soggettivistica, sia che intravvedano in essa il compimento della metafisica della soggettività, sia che tentino di liquidarla come un arbitrarismo in cui l’unica norma è il dominio della potenza. In ottica nietzschiana, presupporre l’esistenza di un interprete dietro l’interpretazione si configura come una malcelata forma di quell’antropomorfo-centrismo che in certa qual misura ci è connaturato e che proprio perciò esige una costante e reiterata presa di coscienza tale da avviare il tentativo del suo oltrepassamento.
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Nella misura in cui la parola «conoscenza» ha senso, il mondo è conoscibile: ma esso è diversamente interpretabile, non ha un senso dietro di sé, bensì innumerevoli sensi. «Prospettivismo» (Nietzsche, 1975, 299-300).
La decostruzione nietzschiana della conoscenza si mantiene sul margine tra l’alternativa del criticismo di stampo kantiano e dello scetticismo radicale. Lungi dal coincidere con i confini delle capacità conoscitive umane, i limiti della conoscenza derivano, infatti, dal suo essere prodotto di un’attività interpretatoria che le ha fornito un senso o meglio che l’ha eretta ad unico strumento in grado non già di donare senso bensì di reperire il senso del mondo. Entro questi limiti, tuttavia, la conoscenza ha un senso. Anziché decostruirlo radicalmente, Nietzsche procede delineando i tratti fondamentali della sua proposta. In essa l’interpretazione non appare più come un elemento di scasso del meccanismo di fiducia umana nella verità fattuale – un termine cioè il cui significato è ancora legato alla contrapposizione dualistica di fatti ed interpretazioni – bensì come un elemento di eversione da tale meccanismo, il cui funzionamento è legato ad una nuova concezione del senso. Dopo aver perduto l’ancoraggio ad una trascendenza valoriale che ne garantiva l’assolutezza, il senso ha cessato di essere una datità che il processo interpretativo avrebbe il compito di reperire e si è rivelato un prodotto creato dall’interpretazione stessa. In questa prospettiva, senso ed interpretazione diventano due nomi della stessa pluralità virtualmente infinita che la decostruzione ha portato alla luce. In altre parole, vi è pluralità di interpretazioni perché vi è pluralità di senso – non c’è più un unico senso − e vi è pluralità di sensi perché vi è pluralità di interpretazioni – che li pongono in essere −: questo è ciò cui Nietzsche allude con il termine «prospettivismo». Sul potenziale contributo della concezione prospettivistica nietzschiana alla riflessione contemporanea torneremo in sede conclusiva. Soffermiamoci per ora sulla natura plurale dell’interpretazione e cerchiamo di comprendere quali dimensioni e connotazioni possa assumere in un contesto nutrito dalla decostruzione della datità fattuale, quindi, come vedremo, anche di quella testuale, da un lato, e della certezza del soggetto, dall’altro. Se per ciò che concerne il primo di questi due aspetti il brano manoscritto appare piuttosto chiaro e stringente, non altrettanto può dirsi per la portata della critica nietzschiana alla soggettività, che risulta qui piuttosto ridotta. Ai fini della presente analisi, ci basti sot-
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tolineare come la decostruzione che Nietzsche mette in opera investa il soggetto non soltanto in quanto datità, ma altresì in quanto agente, per così dire, sensibile e spirituale, nonché e soprattutto in quanto autocosciente. La strategia decostruttiva nietzschiana funziona rilevando la presenza di un accadere inconscio di natura interpretativa che resta escluso dalla cerchia della consapevolezza del soggetto e che pure ne crea i contenuti coscienziali. In questo contesto appare forse più comprensibile la conclusione dell’appunto in questione: Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di brama di dominio, ciascuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri istinti (Nietzsche 1975, 300).
L’istintualità è la disseminazione plurale della soggettività, una dimensione che, stante il rapporto tra accadere extra-coscienziale ed accadimenti coscienti e la sostanziale sinonimia tra «bisogni» ed «istinti», pare situarsi al di là della dicotomia mente/corpo. Il richiamo nietzschiano agli istinti risulta dunque consistente rispetto alle premesse decostruttive da cui muove, eccezion fatta per quella formula che Nietzsche stesso pone graficamente in evidenza e che sembrerebbe riproporre sotto altre vesti il dualismo soggetto/oggetto. La soluzione a questa apparente impasse è offerta dal rimando conclusivo a quella «brama di dominio» che altrove assume il nome ben più noto di volontà di potenza. Senza addentrarci nel coacervo di implicazioni che questa espressione trascina con sé, ci limitiamo a rilevare come più volte nel corpus degli scritti nietzschiani emerga una sostanziale sinonimia tra volontà di potenza ed interpretazione. Entrambe significano, in senso adualistico e plurale, l’accadere, cioè ciò che rimane di quella struttura grammaticale soggetto-verbo-predicato con cui la tradizione di pensiero occidentale ha guardato al reale, una volta decostruita la dicotomia fondante soggetto/oggetto. In questo contesto decostruttivo/propositivo i bisogni/istinti sono la brama di dominio/ interpretazione, non ne sono i soggetti più di quanto ne siano i prodotti, e parimenti «il mondo» non è che il nome con cui si ammanta ogni prospettiva interpretativa per imporsi alle altre come norma. Per una consonanza con il tema del nostro contributo, rinviamo a Piazzesi 2012, 85 ss. Cfr. ad es. Nietzsche 1975, 126, 146-147.
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ell’auspicio di aver fornito quanto meno una traccia a partire dalla quale provare a comprendere ed approfondire il pensiero nietzschiano dell’interpretazione, tentiamo ora di indicare le prospettive che da qui si aprono per la riflessione contemporanea. Ci sembra che il maggior contributo di Nietzsche a partire da questo contesto si articoli su due diverse «capziosamente annodate» dimensioni: la pratica scrittoria e l’eversione teoretica. La tensione nietzschiana nei riguardi della produzione di testi è attestata, oltre che dall’immensa e variegata mole del lascito postumo, dalla complessa forma con cui si presenta la riflessione del filosofo, soprattutto nelle opere edite di carattere aforistico. Il tentativo di portare ad espressione un pensiero che oltrepassi i dualismi, gli assolutismi e la sistematicità della filosofia «tradizionale» si traduce, a livello testuale, in un’accurata ricerca stilistica e lessicale, spesso a tal punto sperimentale, esasperata e ritorta da generare l’impressione di trovarsi di fronte, nella migliore delle ipotesi, a raccolte di belle boutades estemporanee, prive di alcuna profonda connessione, per non dire di alcuna consistenza interna, e passibili dunque di essere ritagliate dal contesto, che sembrerebbe ospitarle in modo occasionale ed accidentale, per essere asservite ad altri schemi o sistemi di pensiero ed interpretazione10. Lo stile nietzschiano, presentandosi di primo acchito sotto il carattere di una frammentarietà da emendare, sembra giustificare un’operazione (sedicente) esegetica che si riterrebbe abusiva ed impensabile nei confronti di qualsivoglia filosofo «sistematico». A ben vedere, o meglio a ben leggere, Nietzsche costringe tuttavia ad un rigore filologico e ad un travaglio ermeneutico abnormi, come la nostra lettura, pur nel limitato contesto di un appunto inedito, spera di aver messo in luce. Nel mettere in pratica, in opera, il pensiero del suo autore, la scrittura nietzschiana invita ad una pratica di lettura in cui ogni passo testuale costringe alla messa in discussione ed all’oltrepassamento delle certezze sul cui possesso si faceva, fino a quel momento, affidamento11. In questo senso, la riflessione contemporanea che voglia confrontarsi con i suoi testi si trova costretta, in primo luogo, ad una disciplina filologica che è altresì capace di favorire un approccio più fecondo anche nei 10 Una buona riflessione sulle tecniche linguistiche e stilistiche nietzschiane si trova in Grimm 1977. 11 «Eine Philologie, die Nietzsches Philosophie gerecht wird, ist eine Philologie ohne Sicherheiten» (Stegmaier 2007, 86).
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confronti delle sperimentazioni lessicali e stilistiche che caratterizzano buona parte della filosofia novecentesca e che condividono con l’opera nietzschiana il rischio di essere liquidate come «(bei) giochi di parole»; in secondo luogo, a prendere sul serio la possibilità di una pratica scrittoria che si muova nell’oltrepassamento di uno dei dualismi strutturanti la metafisica «tradizionale», quello tra teoria (pensiero) e prassi (scrittura) filosofica, cessando di disconoscere e relegare ad una parentesi (o all’oblio) il lavoro portato avanti, soprattutto, dalla riflessione francese della seconda metà del secolo scorso. Confrontarsi in questo modo con la scrittura di Nietzsche significa aprirsi all’eversione teoretica che la sua pratica scrittoria mette in opera. Lungi dal fornire una trattazione esaustiva di tutti i suoi «pericolosi forse» (Nietzsche 1972, 8), vorremmo soffermare l’attenzione su due aspetti fondamentali della proposta nietzschiana, tentando di mettere in luce le loro articolazioni nel contesto del pensiero dell’interpretazione ed esemplificandone il possibile contributo alla riflessione contemporanea. In primo luogo, abbiamo visto come la tensione ad un oltrepassamento dei dualismi comporti l’impossibilità di stabilire una volta per tutte una gerarchia valoriale trascendente. In altre parole, l’adualismo implica l’assenza di fondamento. In Nietzsche ciò si traduce, da un lato, in una costante dinamizzazione che svela la provvisorietà di qualsivoglia stabilizzazione si possa rinvenire, nel pensiero come nel reale, e, dall’altro lato, in una concezione radicalmente omogenea della realtà, che si pone al di là del dualismo tra immanenza e trascendenza, che si mantiene cioè sul margine tra le derive alternative del monismo e del dualismo. In questo senso, nell’ambito del pensiero nietzschiano il termine «interpretazione» assume un significato altro rispetto alla pratica ermeneutica ed all’universalizzazione ontologica12, per veicolare piuttosto l’espressione di un accadere che oltrepassa costantemente tanto le categorie umane che tentano di stabilizzarlo quanto le forme che esso stesso di volta in volta sembra prendere: anche ciò che potremmo chiamare «testo» non è che una connotazione provvisoria di una porzione del reale, a sua volta prodotto e fautrice di un processo interpretativo13. A partire dal pensiero nietzschiano dell’interpretazio12 Per un’analisi della ricezione e del possibile contributo del pensiero nietzschiano dell’interpretazione nell’ambito dell’ermeneutica filosofica cfr. tra gli altri Hofmann 1994, 306-432. 13 Cfr. ad es. Wotling 2012, 264 ss.
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ne così inteso, è possibile, ad esempio, sviluppare un nuovo approccio ai problemi apparentemente aporetici che si pongono alla riflessione filosofica e non. Il cosiddetto mind-body problem, la cui trattazione teoretica è tutt’altro che priva di risvolti pratici significativi, costituisce qui un caso emblematico: nel confronto con la filosofia nietzschiana è possibile non soltanto decostruirne i presupposti e quindi ridefinirne l’entità, ma altresì rinvenire – e proprio nel termine «interpretazione» – gli strumenti per elaborarne costruttivamente un’ipotetica soluzione (cfr. Abel 2001, Olivier 2003). In secondo luogo, abbiamo rinvenuto nel pluralismo e nel prospettivismo due connotazioni fondamentali del pensiero nietzschiano dell’interpretazione. Per recuperarne il potenziale contributo alla riflessione contemporanea dobbiamo dapprima mettere in luce la distanza che separa la concezione nietzschiana da quello che potremmo chiamare un relativismo dell’indifferenza per cui, in buona sostanza, qualsiasi cosa può andar bene. Consideriamo il termine «interpretazione» nel suo significato corrente. Sebbene nel contesto dell’assenza di un fondamento veritativo e valoriale ultimo ipotizzare che ci siano solo interpretazioni, ciascuna delle quali tenta di imporre alle altre la propria prospettiva, equivale ad ammettere che ognuna di esse potrebbe, in linea di principio, essere valida, Nietzsche non manca di disseminare nei suoi testi i criteri per stabilire quale interpretazione sia, almeno provvisoriamente, preferibile alle altre. Nell’insieme di questi parametri gioca un ruolo fondamentale il riconoscimento della pluralità, non soltanto perché impone una costante relativizzazione della propria prospettiva, ma altresì perché costringe a ridefinire il prospettivismo nietzschiano come un pluriprospettivismo14. Senza trasformare indebitamente Nietzsche in un teorico del dialogo interculturale, è opportuno sottolineare come la sua concezione prospettivistica dell’interpretazione promuova un’attenzione ed un rispetto della pluralità a partire dal quale potrebbe avviarsi una considerazione della complessa realtà umana contemporanea capace di evitare tanto le storture di un democratismo a tutti i costi, per cui uguali diritti di principio equivalgono ad uguali dignità di fatto − assunto moralmente ineccepibile e concretamente impraticabile − quanto le violenze di qualsivoglia pretesa assolutistica, siano esse esercitate manifestamente o malcelate nell’appello ad istanze trascendenti ed imparziali. Cfr. ad es. Nietzsche 1972, 323.
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Consapevoli di esserci limitati ad additare solo alcune tra le prospettive che la filosofia nietzschiana dischiude alla riflessione contemporanea, vorremmo in conclusione tornare all’accusa di paradossalità mossa alla formula «i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni». Abbiamo avuto modo di sottolineare come questo tipo di confutazione sia viziata dall’assunzione di presupposti non condivisi, anzi esplicitamente negati, dal (ritaglio di) brano in questione ed altresì di mostrare come il pensiero nietzschiano dell’interpretazione sia ben più complesso e consistente di quanto alcuni suoi detrattori vogliano farlo apparire. Alla nostra trattazione è rimasta tuttavia finora estranea la dimensione a cui propriamente si riferiscono le accuse di paradossalità, vale a dire quella dell’autocomprensione della filosofia nietzschiana. Nel contesto delle nostre riflessioni sul senso del pensiero dell’interpretazione appare peraltro comprensibile in che senso Nietzsche sostenga che anche il proprio pensiero non sia, in effetti, che interpretazione (cfr. Nietzsche 1972, 27-28), concorrente come ogni altra a costruire una filosofia consistente con tutti gli esiti della decostruzione. Proprio l’aver saputo proporre una riflessione che sia consapevole della propria precarietà, che abdichi alla presunzione di dire il vero e che anzi auspichi di essere soppiantata da formulazioni «migliori» costituisce il maggiore lascito della filosofia nietzschiana e la sfida che essa invita a raccogliere. Per questo occorre aspettare l’arrivo di un nuovo genere di filosofi, tali che abbiano gusti ed inclinazioni diverse ed opposte rispetto a quelle fino ad oggi esistite − filosofi del pericoloso «forse» in ogni senso. − E per dirla con tutta serietà: io vedo che si stanno avvicinando questi nuovi filosofi (Nietzsche 1972, 8-9).
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Gerardo Cunico Ernst Bloch e lo spirito utopico
1. Spirito, tra utopia e materia
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l tema dello spirito è in apparenza molto marginale nel pensiero di Bloch. In tutte le opere della sua (peraltro tarda) maturità filosofica (almeno a partire da Il principio speranza, PH, 1959) egli ha legato la sua linea di pensiero al termine “materialismo”. Ma il suo indirizzo materialistico risale a ben prima dell’uscita del suo capolavoro del dopoguerra. Da lettere, appunti e progetti sappiamo che esso è già ben delineato almeno nel 1926. Negli anni Trenta Bloch inizia e porta a una fase molto avanzata di stesura un ampio scritto che mirava ad essere una sorta di summa storica e teorica del materialismo filosofico. Questa vicenda è strettamente legata con quello che ho chiamato autoidentificazione di Bloch con il marxismo. È però un legame paradossale, perché l’adesione teorica al marxismo poteva limitarsi ad accogliere o elaborare una qualche versione del materialismo storico, o magari anche del materialismo dialettico, come quella del cosiddetto hegelo-marxismo del suo amico di gioventù Lukács. Bloch invece si impegna addirittura per propugnare, ossia per far prevalere, all’interno del movimento teorico marxista, un materialismo metafisico radicale. Proprio questo però si rivela come l’opposto di una liquidazione epigenetica, riduzionistica, del rilievo dello “spirito”. Infatti il materialismo metafisico sostenuto da Bloch è antitetico rispetto ad Theorie-Praxis der Materie, manoscritto rimasto incompiuto, ma lievitato fino a tre tomi dattiloscritti per oltre mille pagine: il grosso sfocerà nel libro MP; singoli capitoli entreranno in altri libri; la parte ancora inedita è stata pubblicata in LM. L’impressione che darà Bloch col suo libro Das Prinzip Hoffnung sarà proprio questa: di accentuare all’interno del marxismo la prospettiva antropologica, umanistica, con la centralità del soggetto umano e del suo apporto ideale e culturale; non era un’impressione falsa, ma andava integrata con una comprensione delle implicazioni ontologiche che quasi sempre è mancata.
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ogni genealogismo meccanicistico, deterministico, necessitaristico. La sua caratteristica essenziale è di essere un materialismo utopico, anzi escatologico (prospettante come principio non una materia prima, ma una materia ultima). Il carattere utopico è il fattore di continuità, anzi il vero marchio di identità del pensiero blochiano, che germina negli anni del suo studentato (1907-1908) per affermarsi nitidamente nel capolavoro giovanile Spirito dell’utopia (GU1, 1918). Dal titolo di quest’opera però, oltre al legame tra i due concetti (utopia e spirito), si potrebbe desumere che lo “spirito” a cui Bloch accenna non sia necessariamente un concetto metafisico (di un’entità qualificata in opposizione alla “materia” o al “corpo”): potrebbe essere semplicemente un sinonimo di “forza”, “energia”, “essenza”, “motivo ispiratore”, “linea direttiva” ecc. In effetti Bloch stesso ha detto in un’intervista che il titolo riecheggiava quello della grande opera di Montesquieu: L’esprit des lois. “Spirito” dunque significherebbe qui piuttosto il senso interno e profondo, contrapposto alla lettera superficiale. Ma questo senso è ciò che esprime sia la vitalità sia ciò che conferisce vitalità (all’utopia come alle leggi). Non è difficile cogliere il legame tra questa accezione ermeneutica dello spirito con la nozione biblica della ruah, dell’alito divino che dona vita a una materia inerte (all’atto della creazione). Dato che Bloch stesso, a proposito del Tristan und Isolde di Wagner, parla di una “nascita della redenzione dallo spirito della musica” (GU1 143) e dato che il libro è centrato su una articolata “Filosofia della musica” come la più alta e profonda espressione utopica (GU1 231), si potrebbe ipotizzare un legame del titolo Spirito dell’utopia appunto con il problema (più religioso che politico) della genesi della redenzione; col che però si ripresenta una connessione tra senso ermeneutico e (nuova o rinnovata) creazione. Perciò già il titolo in realtà rinvia non solo a una matrice ebraica (che poi si evidenzia nella linea “messianica”, che privilegia il movimento utopico di trasformazione, rivoluzione e innovazione rispetto Il termine Geist (come il nostro “spirito”), corrisponde da un lato al greco noûs e al latino mens, dall’altro al greco pneûma e per suo tramite all’ebraico ruah. Questa rilevante plurivocità porta a usi e sensi molto differenziati, che a volte possono combinarsi e sovrapporsi, come nelle opere giovanili di Bloch, a volte divaricarsi, come nelle opere della sua maturità. Con una allusione al titolo di Nietzsche: La nascita della tragedia dallo spirito della musica.
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alla fedeltà statica alla legge rivelata e tramandata), ma anche a possibili risvolti metafisici. Effettivamente, anche una scorsa dell’indice mostra che per Bloch lo “spirito dell’utopia” si radica in una “Metafisica dell’interiorità”, e che quindi lo spiritualismo cui si richiama implica anche una qualche opposizione al materialismo. Dunque con Bloch abbiamo davanti il problema di una “filosofia utopica” (come si è chiamata lungo tutto l’arco della sua elaborazione) che in un primo momento si collega allo spiritualismo e in seguito al materialismo. Vi è stata sicuramente una svolta, non solo terminologica, verso la metà degli anni Venti, che andrebbe spiegata (cosa che qui non mi è possibile neppure accennare) e che peraltro va interpretata, a mio avviso, come un cambiamento (che investe tanti altri aspetti) pur nella continuità (di fondo e di prospettiva). Qui non seguirò oltre questa pista, ma mi limiterò a segnalare i punti salienti delle diverse accezioni e connotazioni di “spirito” nelle diverse fasi e nelle principali opere di Bloch.
2. Forza e interiorità
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el capolavoro giovanile, Geist der Utopie (1918), Bloch proclama lo “spirito” come fondamentale atteggiamento di tensione interiore verso un futuro di pienezza (personale e sociale, etica e religiosa, umana e cosmica) da realizzare attraverso l’agire comune degli uomini. Lo spirito è una forza insita nell’anima umana, che agisce anzitutto come “bontà e preghiera”, come “amore”, ossia come “servirsi a vicenda, dedizione, divenire l’altro”, e che così annuncia e prepara la redenzione; è lo “spirito dell’adunanza e del più universale incontro col sé”. Lo “spirito utopico” (GU2 217; GU3 225 [203]) è l’aspetto dinamico, attivante, trasformante del “concetto utopico
GU1 363, cfr. 184, 233, 336, 349. È il titolo della sezione centrale del capitolo più teoretico del libro: Die Gestalt der unkonstruierbaren Frage [La figura della domanda incostruibile]. Nella seconda e nella terza edizione dell’opera la sezione cambia titolo, ma il termine ricorre anche qui più volte, spesso congiunto a quello di “etica dell’interiorità” (GU3 152, 198, 205 [136, 176, 182]), nell’accezione, talora esplicita, di una “etica e metafisica della comunanza interiore” (GU3 258 [238]). N.B.: Nei riferimenti bibliografici le indicazioni delle traduzioni italiane, quasi sempre modificate nelle citazioni, compaiono tra parentesi quadre. GU1 379; GU2 303; GU3 272 [251 s.].
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come principio”, del “nuovo pensiero” che erompe “nel mondo aperto, incompiuto, vacillante”: mentre “la vita esterna ristagna”, “solo noi siamo ancora leva e motore” (GU1 342). Anche negli scritti della maturità lo “spirito dell’utopia” mantiene il carattere energetico e il rilievo primario, ma con una portata meno enfatizzata e più raccordata a condizioni concretizzanti; ora (a partire dal 1959) viene per lo più sobriamente evocato col termine “funzione utopica”, per designare l’apporto soggettivo alla prospettiva della speranza umana (compresa e concettualizzata) e al cammino del suo contenuto e della sua realizzazione tentata (PH 180 [186]). Ma in Geist der Utopie lo spirito utopico comporta una dimensione interiore, un cammino interno di depurazione, intensificazione e autoriconoscimento del soggetto, che giunge fino alla delineazione di una “metafisica dell’interiorità” centrata sull’esperienza dell’oscuro dell’attimo vissuto. Questa è la principale caratteristica filosofica che distingue l’opera giovanile dalle opere successive al 1935, in cui Bloch mostra di aver non solo abbracciato il marxismo teorico, ma anche il materialismo in senso ontologico. Dal 1918 al 1923, invece, “materialismo” e “materialistico” sono usati come termini carichi di connotazioni negative: sono sinonimi di empirismo, fattualismo, apologia e celebrazione dello status quo. Parole come anima e spirito invece ritornano continuamente, e con un accento positivo posto sulla interiorità che in seguito sarà accuratamente evitato, perché semmai comparirà un riserva critico-ideologica nei confronti della tendenza “interioristica” o interiorizzante. Il tema dell’oscuro dell’attimo rimarrà sempre centrale, ma verrà in seguito riesposto in chiave non più solo esistenziale, bensì cosmicoontologica e anzi materialistica (come nocciolo oscuro della materia). Del resto questo tema stesso (l’oscurità, la non trasparenza e l’infondatezza abissale dell’attimo che si sta vivendo, ossia dello stesso vivere ed esistere nella sua puntuale attualità) segnala che lo spirito (nel senso di mente o soggetto di attività psichiche, quale è concepito fin da Geist der Utopie) non è il soggetto cosciente e pensante come fundamentum inconcussum della prevalente tradizione filosofica moderna, ma l’esistente strutturalmente precario (non ancora in possesso di sé) e storicamente svuotato proprio dell’esperienza tardo-moderna. Ma GU1 9; GU2 5; GU3 13 [8].
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precisamente questo vuoto, che è incapace di fondare e anzi di trovare fondamento e senso (incapace di “mito” e di fede), è per Bloch il luogo della carica utopica e della tensione attiva e positiva che può innescare il cambiamento epocale (GU1 341). Lo schema dello spirito è qui dunque piuttosto l’interiorità instabile e decaduta di Kierkegaard, che proprio nel suo precipitare può trovare il ribaltamento del riscatto e della salvezza. Solo che per Bloch non si dà salvezza dall’esterno o dall’alto: già qui è proprio lo spazio vuoto a riempirsi di energia creativa e sovvertitrice, di potere messianico. Basta. Ora dobbiamo cominciare noi. Nelle nostre mani è data la vita. Per se stessa già da tempo si è fatta vuota. Vacilla senza senso qua e là, ma noi stiamo saldi, e così vogliamo diventare i suoi pugni e le sue mete.
Per il giovane Bloch, inoltre, se l’energia interna deve rivolgersi all’esterno e vivificarlo trasformandolo, il mondo fisico esterno è qualcosa di muto, minaccioso ed estraneo che deve essere scrostato e animato, e quindi non è ancora quel potenziale promettente quale sarà visto nella successiva fase materialista: Tanto in profondità conduce anzitutto la via interna, detta anche incontro con se stessi, l’approntamento della parola interiore, senza la quale ogni sguardo verso l’esterno resta nullo, e non diventa un magnete, una forza per attrarre la parola interiore anche al di fuori, per aiutarla a erompere fuori dall’erramento del mondo. Da ultimo però, certo, lungo questa verticale interna, si estenda l’ampiezza, il mondo dell’anima, la funzione esterna, cosmica dell’utopia, tenuta contro la miseria, la morte e il regno di croste della natura fisica. Dentro di noi solamente brilla ancora questa luce (GU2 5; GU3 13 [8]).
Il potere utopico del soggetto è per Bloch anzitutto quello, proprio di una fede messianica, di raccogliere le energie latenti attorno a un centro capace di attrarre un grande movimento, religioso, etico e politico insieme, unito verso obiettivi comuni: l’abbattimento delle gerarchie di ordine e di classe sociale, il ribaltamento del primato delle merci Il referente esplicito dell’interiorità blochiana, infatti, non è qui tanto Agostino o Kant, quanto Kierkegaard (GU1 368 s.; GU3 249 s. [229 s.]). GU1 9; GU2 3; GU3 11 [3].
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e delle cose esterne, l’instaurazione di una “democrazia etica”10 come comunità senza barriere, che nel suo nucleo caratterizzante (come “Stato spirituale” [Geiststaat]) è strutturalmente “chiesa” (GU1 404). Il programma politico-sociale del primo Bloch sembra dunque vago e ingenuo, ma è formulato negli anni della guerra e dell’esilio svizzero (1915-1917) in cui emergevano all’orizzonte del possibile novità e rivolgimenti epocali, che di fatto stavano iniziando o preparandosi. Il libro fa in tempo a registrare la rivoluzione russa (democratico-sociale) di febbraio e la saluta pensando alla svolta religiosamente ispirata che era stata auspicata da Dostoevskij e che l’influsso di Tolstoj sembrava poter avviare verso un evangelismo pacifista, nonviolento, comunitario, popolare11. Certo Bloch tiene conto già qui della critica di Marx al capitalismo e vede nel movimento operaio una centrale via di concretizzazione dell’ideale socialista (abolizione della proprietà privata, economia ricondotta alla cooperazione partecipativa, riduzione dello stato ad apparato amministrativo, abolizione di eserciti e frontiere: una rivoluzione ad ampio raggio, propriamente radicale e globale). Ma resta soprattutto attratto da idee che sono più vicine al movimento anarchico-pacifista, rifiutando però ogni riduttivismo materialistico, che priva dello slancio, della prospettiva, della fiducia. La rivoluzione politico-sociale infatti non è fine a se stessa, non è la meta ultima. Per quanto sia di portata immane, mira e serve solo a mettere in ordine i rapporti fra gli uomini e le cose e degli uomini fra loro per porre termine agli inessenziali problemi della sopravvivenza e ai falsi e fuorvianti problemi del potere e per lasciare spazio ai veri e decisivi problemi dell’esistenza, che riguardano gli scopi, il fine e il senso del tutto. Per questo rimane essenziale per Bloch ancorare il movimento di rivolgimento sociale a un’idea messianica12. Questa non è attesa del GU1 301, 394, 410; a volte è detta anche “democrazia mistica” (GU1 356). GU1 297-299: “ribaltamento del potere in amore”, “insediare Cristo come imperatore”. Nella seconda edizione del 1923 Bloch constata con soddisfazione che “resiste indomita la repubblica marxista in Russia”, ma aggiunge anche che “non meno indomiti continuano a bruciare gli eterni problemi del nostro anelito, della nostra coscienza religiosa, non meno inattuati nella loro ingiunzione assoluta”, richiamandosi allo “spirito di Kant e di Baader” (GU2 4; GU3 12 [5 s.]). 12 Il motivo messianico era molto più evidente nella prima edizione, dove Bloch arrivava a delineare il programma di un “sistema del messianismo teoretico” accanto a quello di un “messianismo pratico” (GU1 337). Ma anche nella seconda edizione 10 11
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messia né come salvatore inviato dalla divinità, né come personalità carismatica risolutiva. Messianismo significa qui invece sostanzialmente due cose: (1) coscienza della doverosità e fede nella possibilità di un rinnovamento decisivo (delle relazioni tra gli umani) compiuto mediante l’unione delle menti, delle volontà e delle forze (che è messianicità collettiva, dal basso, anche se non esclude una organizzazione carismatica); (2) convinzione che questa azione congiunta sia possibile non solo e non tanto in considerazione di interessi propri e comuni, ma in base a uno slancio etico e a un interesse propriamente religioso per la salvezza di tutti e del mondo, cioè a partire da fonti che sono primariamente interiori e proprio per questo possono essere condivise. Questo interesse religioso gli appare avviato a costituire una chiesa (futura) “posta necessariamente e a priori secondo il socialismo” (GU1 410) che non tanto sostituisce lo stato13 quanto piuttosto forma quella “comunità evangelica” chiamata a collegare il “noi” della società (profana) come “comunità luciferina” con la “comunità apocalittica” del Regno (GU2 229).
3. Comunità e ulteriorità
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a in che cosa consiste tale interesse religioso? Fondamentalmente in quelle “preoccupazioni e domande pratiche” che vertono “sulla problematica dell’anima” (legata alle esperienze del male e della sofferenza) “socialmente insuperabile”14. Ma la fede che si accende di fronte a tali esperienze è rivolta a un Dio che non è quello responsabile dell’origine del mondo da cui provengono, che non è in generale un ente originario, un “fatto” (per quanto metafisico o teologico), ma un “problema” e un “valore”, ossia qualcosa o qualcuno che “deve” essere (anche se ancora non è o ancora è nascosto, impotente, legato, ambiguo)15. È il Dio sperato (invocato, e in certo senso più
l’evocazione del Messia e della sua venuta è presente dall’inizio alla fine del libro (GU2 5, 363). Nella terza edizione molti spunti sono cassati o attenuati, ma il tema e il pathos restano avvertibili. 13 Come poteva apparire da GU1 404. 14 GU1 410 s.; GU2 329; GU3 306 s. [284 s.]. 15 GU1 341; GU2 245 s.; GU3 253 s. [234].
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ancora evocato), il “Dio ultimo”16, il “Dio della fine”17 (dell’apocalisse come fine di questo mondo contraddittorio e inizio di un nuovo eone), della salvezza come vita eterna. È il Dio che va oltre le figure finora esperite e concepite, una terza figura o un terzo stadio oltre il Dio (ebraico) della creazione e della Legge e il Dio (cristiano) della grazia, che assume il nome ebraico-cristiano di “Spirito Santo”18. Questo Dio del futuro e della speranza conserva i tratti femminili della ruah, del caldo soffio alitante della colomba/Spirito santo del racconto biblico della creazione e dei vangeli, ma diventa qui “l’ultima realtà che attende l’uomo al di là di ogni mondo e nella vita eterna”, ossia “la risposta”, “lo spazio trascendente dell’io”, “l’attorno-a-noi e l’intimo nome di ogni eros” (GU1 357). Tale immagine richiama la maternità avvolgente di una comunità unificante in cui nasce e si compie il Dio della fine; comunità umana, anticipata dalla “mistica dell’amicizia e dell’amore”, che è comunità universale degli spiriti, pacificata e concordante, per quanto polifonica, composta di tante voci diverse ma accordate tra loro (GU1 382). Si apre così anche la prospettiva di uno spazio attorniante non più ostile o estraneo, cioè di una comunione sperata anche con la natura fuori, sopra e dentro di noi, con quel nocciolo non ancora apparso, anzi ancora particolarmente duro e impenetrabile, che rende finora il mondo “incompiuto”, frammentario, precario e insieme minaccioso. Così però tutte le cose, il mondo intero, le pietre, il sole, le piante e gli animali sono ancora da ultimo insieme con noi [...] rinchiusi nelle loro croste corporee: nella misura in cui sono rimasti fermi [...] e la loro psichicità non possiede la forza di togliersi di dosso il corpo [...] e di usarlo come organo di quel processo di autoconoscenza cosmica percorso dallo smarrito, lacerato, ignoto Dio delle anime o Spirito Santo nel mondo (GU1 425 s.).
4. Spiritualismo ermeneutico e democrazia mistica
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egli anni successivi Bloch collega allo “spirito” non solo la decisa ispirazione del genuino atteggiamento rivoluzionario, esemplato, nel libro del 1921 a lui dedicato (TM), sul modello del chiliasmo anabattista di Thomas Münzer teologo della rivoluzione, ma GU1 441 s.; GU2 361; GU3 342 [315]. Cfr. GU1 385-388; GU2 310; GU3 285 [264]. 18 GU1 329, 331; GU2 294, 298. 16 17
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anche il suo appoggiarsi su una interpretazione “spirituale”, non letterale, della Scrittura19. Qui emerge il legame tra la lettura spirituale come apporto creativo del libero spirito e il suo sorgere da una esperienza di “illuminazione” che non viene solo dal suo interno, o meglio viene dal fondo divino del suo intimo sollecitato dalla parola esterna della Scrittura. Bloch non nasconde i rischi di questa lettura mossa dal rigore dell’appello alla sequela e alla fedeltà interiore più che da quello della filologia, ma sottolinea che proprio un tale approccio più libero apre allo spirito di tolleranza e al riconoscimento di un’unità spirituale dei veri credenti che attraversa tutte le divisioni confessionali20. Dio è spirito, aveva detto Gesù alla Samaritana; è libero soffio che vivifica, rinfresca, rinnova, e investe sì chi vuole e come vuole, ma, prima o poi, essendo spirito di amore universale, vuole investire tutti, ogni singolo. Il contatto con lo spirito divino parlante attraverso la lettera della Scrittura è così possibile ad ogni singolo soggetto (PH 591 s. [584-586]). Per questo ogni singolo può leggere e comprendere adeguatamente la Scrittura, e a rigore nemmeno ha bisogno di tale mediazione per avere esperienza e conoscenza dell’unica cosa necessaria. Questa esperienza di contatto e di comprensione è anche capace di unirlo con tutti gli altri credenti in una comunità che non ha più bisogno di leggi e autorità esteriori, che viene identificata con una “democrazia mistica”21. La conoscenza e l’esperienza di Dio come spirito e come amore rivolto paritariamente a tutti gli uomini (e a tutte le creature) non dividono, ma uniscono, sono fonte e stimolo e cemento di comunità. Comunità che è democratica, perché non prevede gerarchie prefissate, ruoli rigidamente suddivisi, bensì servizio scambievole (in caritate); ma è anche detta “mistica”, perché si radica appunto in quell’esperienza diretta di illuminazione, che è al contempo comprensione e interpretazione creativa, personale e attualizzante. In tale contesto Bloch mette a fuoco il rapporto tra spirito e potere (mondano). Se il primato dello spirito e il suo contrasto con l’ancora perdurante potere del male giustifica in Münzer il ricorso alla coazione legale e alla violenza (rivoluzionaria) come estrema difesa dei deboli e oppressi (TM 116 [114]), ciò significa al contempo opposizione ai poteri tirannici e ricorso provvisorio al potere come misura TM 104, 172, 193-198 [104, 158, 174-179]. TM 197 s. [178]; cfr. PH 1537 s. [1502 s.]. 21 TM 64, 98 [72, 99]; cfr. PH 591, 593 [584 s.]. 19 20
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di emergenza imposta dalla coscienza morale e religiosa. Bloch critica nell’avversario Lutero proprio la separazione tra potere e spirito (autorità mondana e chiesa) che diventa nei fatti subordinazione dello spirito al potere (TM 134 s. [129]). Emerge così la necessità opposta di subordinare il potere allo spirito, non certo nel senso del primato della chiesa (come istituzione gerarchica) sullo stato, ma nel senso di una riconduzione del potere entro i limiti di un mezzo lecito solo in situazioni particolari e per scopi eticamente obbligati.
5. Fioritura della materia e spirito di verità
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elle opere della maturità Bloch tende a concepire lo spirito, nell’uomo e nella natura, come “suprema fioritura della materia” (MP 308, 313), citando un’espressione usata da Engels nella Dialektik der Natur (327 [336]). Ciò significa che lo spirito non va “opposto dualisticamente” alla materia, non se ne distingue per essenza, ma è una “forma di movimento di una materia più altamente qualificata” (MP 308). D’altra parte non significa neppure che lo spirito sia un semplice “epifenomeno” della materia, ovvero una “secrezione” o un prodotto destinato semplicemente a sprofondare nell’uniformità dei processi entropici della natura (LM 175 s.). Nell’ontologia blochiana di questo periodo la materia è il fondo, substrato o soggetto del divenire processuale che è essenzialmente “rivolto in avanti” (LM 442), sospingente verso figurazioni sempre ulteriori (natura naturans, supernaturans). Lo spirito non è qualcosa di anteriore o indipendente, ma è ciò in cui l’energia latente del suo nocciolo intensivo si “materializza”, cioè “si fa esterna, realizza crescentemente se stessa, ossia il suo proprio contenuto utopico-tendenziale”, per poter poi passare, attraverso questo momento “logico”, al momento finale della realizzazione di se stessa come “materia del nocciolo” (LM 443-445). In questa fase il tema dello spirito non sparisce, dunque, ma viene ricompreso all’interno della visione di una materia attiva, creativa, utopicamente aperta e in via di umanizzazione (che significa anche spiritualizzazione, sebbene non nel senso di una perdita di naturalità, tempo-spazialità e corporeità). Qui “spirito” non indica però solo la mente umana, ma anche le sue creazioni più peculiari (le istituzioni sociali, le tecniche, le opere d’arte, le idee filosofiche e religiose) e quindi non solo quel che Hegel aveva chiamato “spirito soggettivo” e “spirito oggettivo”, ma anche tutto quel campo che dopo Hegel è stato detto “cultura”.
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Sul piano specificamente religioso Bloch ritorna anche qui a presentare quel che era pensato nell’immagine cristiana della Pentecoste, dell’avvento del Paracleto come “Spirito di verità” o della “età dello Spirito” come lo svelarsi della verità del divino (del senso latente) nell’umano-cristiforme (PH 1502 s. [1469 s.]). Ora però interpreta più univocamente questo slancio della speranza religiosa come utopia di un ultimo risolversi del divino e del messianico-cristico nella comunità escatologica universale degli uomini riconciliati con se stessi, fra loro e con la natura (PH 1538 s. [1503]). Lo spirito si ripresenta così ancora una volta come una cifra escatologica, che indica come lo stesso soggetto umano abbia bisogno di identificarsi alla fine con il suo nocciolo materiale e come quest’ultimo non debba necessariamente svelarsi come un oscuro potere metafisico estraneo o addirittura ostile e annientatore della personalità umana. La formula finale suona così, combinando Agostino con Bruno e Spinoza: “natura naturata nos ipsi erimus” (EM 264 [292]). Bibliografia Bloch, E., Geist der Utopie, Duncker & Humblot, MünchenLeipzig 1918, fac-simile: Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1971 (sigla: GU1); seconda edizione, Paul Cassirer, Berlin 1923 (sigla: GU2); terza edizione (rielaborazione della seconda del 1923), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1964 [Spirito dell’utopia, trad. it. di V. Bertolino e F. Coppellotti, La Nuova Italia, Firenze 1980] (sigla: GU3). Bloch, E., Thomas Münzer als Theologe der Revolution, Kurt Wolff, München 1921; quarta edizione aumentata, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1969 [Thomas Münzer teologo della rivoluzione, trad. it. di S. Krasnovsky e S. Zecchi, Feltrinelli, Milano 1980] (sigla: TM). Bloch, E., Das Prinzip Hoffnung (1954-1959), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1959 [Il principio speranza, trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Garzanti, Milano 1994] (sigla: PH). Bloch, E., Das Materialismusproblem, seine Geschichte und Substanz, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1972 (sigla: MP). Bloch, E., Experimentum Mundi. Frage, Kategorien des Herausbringens, Praxis, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1975 [Experimentum mundi. La domanda centrale, le categorie del portar-fuori, la prassi, trad. it. di G. Cunico, Queriniana, Brescia 1980] (sigla: EM).
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Bloch, E., Logos der Materie. Eine Logik im Werden. Aus dem Nachlass 1923-1949, a cura di G. Cunico, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2000 (sigla: LM). Engels, F., Dialektik der Natur, in K. Marx – F. Engels, Werke, vol. 20, Dietz, Berlin 1962 [trad. it. di L. Lombardo-Radice, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. XXV, Editori Riuniti, Roma 1967]. Nicoletti, M. (cur.), Lo Spirito e il potere. Questioni di pneumatologia politica, in «Politica e religione», 2010/2011. Pagano, M. (cur)., Lo spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture, Mimesis, Milano-Udine 2011.
Maria Cristina Amoretti Ma i filosofi sognano pecore elettriche? Esperimenti mentali tra filosofia e fantascienza
1. Sul ruolo degli esperimenti mentali in filosofia
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ebbene gli esperimenti mentali siano spesso considerati uno strumento argomentativo tipico della sola filosofia analitica, occorre non dimenticare che furono massicciamente usati nel corso di tutta la storia della filosofia, da Platone a Lucrezio, da Descartes a Locke, da Hobbes a Kant. Sono esperimenti mentali l’anello di Gige e il mito della Caverna (Platone 1966), il tentativo di mostrare l’infinità dello spazio (Lucrezio 2005), l’ipotesi del sogno e del genio maligno (Descartes 1998), l’idea dello spettro invertito (Locke 2004), l’immagine del bellum omnium contra omnes (Hobbes 1997) e l’esempio della chiralità (Kant 1990). Non è un caso che si sia arrivati a sostenere che la filosofia stessa sarebbe del tutto impensabile senza esperimenti mentali (Myers 1968). Come sono strutturati e come funzionano gli esperimenti mentali in filosofia? In termini generali, se si intende difendere o respingere una certa ipotesi, un esperimento mentale ha la funzione di presentare – spesso, ma non necessariamente, in forma narrativa – un certo scenario immaginario in grado di generare un’intuizione che è sì relativa allo scenario immaginato, ma è altresì pertinente al fine della valutazione dell’ipotesi stessa. Si ritiene, infatti, che l’intuizione generata dallo scenario immaginario sia pre-teorica e possa poi applicarsi a qualsiasi altro scenario, costituendo così una prova, una giustificazione o una garanzia a favore o contro l’ipotesi considerata. Schematicamente: Assai diffuso è anche l’uso di esperimenti mentali nelle scienze. Basti pensare all’esperimento di Galilei sulla caduta dei corpi (1638), al demone di Maxwell (1867), al gatto di Schröndinger (1935), all’ascensore di Einstein (1938). Per un’utile introduzione agli esperimenti mentali in filosofia e nelle scienze, cfr. Brown 1991; Brown e Fehige 2011; Häggqvist 1996; Suárez 2009.
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(i) (ii) (iii) (iv)
intendiamo valutare l’ipotesi A; immaginiamo lo scenario S, rilevante per A; valutiamo che S genera l’intuizione pre-teorica I; consideriamo I come prova a favore (o contro) A.
Occorre subito notare, quindi, che gli esperimenti mentali possono essere sia “costruttivi”, qualora si propongano di illustrare o fornire supporto a favore di una certa ipotesi, sia “distruttivi”, qualora invece abbiano il fine di mostrare che una certa ipotesi è falsa poiché, per esempio, entra in conflitto con le nostre intuizioni oppure con alcune credenze e assunzioni generali. è importante sottolineare, inoltre, che gli esperimenti mentali non solo sono fallibili, ma possono anche essere ripensati o eventualmente raffinati. Contro l’uso degli esperimenti mentali in filosofia è stato soprattutto obiettato che le intuizioni generate dagli scenari immaginari talvolta non sono né pre-teoriche né universali: da una parte esse sarebbero in realtà la diretta manifestazione di precise assunzioni filosofiche preesistenti (cfr. Amoretti 2011; Papineau 1996); dall’altra varierebbero in modo profondo relativamente a fattori di tipo culturale, economico, educativo, sociale, storico e così via (cfr. Machery et al. 2004; Marraffa 2009; Nichols, S. et al. 2003; Weinberg et al. 2001). Tali argomenti, benché siano certamente di rilievo, sembrano tuttavia insufficienti a delegittimare in toto l’utilizzo degli esperimenti mentali. Detto questo, che relazione sussiste tra la fantascienza e gli esperimenti mentali usati in filosofia? Un aspetto interessante di molti libri e film di fantascienza è che essi sono spesso in grado di proporci, in modo assai vivido e chiaro, degli scenari immaginari in cui è possibile mettere alla prova le nostre intuizioni pre-teoriche rispetto a fondamentali questioni filosofiche, che possono così essere “testate” nel laboratorio della mente. Possiamo trovarci di fronte, in effetti, a interrogativi di questo tipo: Potrei essere sistematicamente ingannato rispetto a ciò che credo di sapere? Esiste il libero arbitrio? Siamo geneticamente determinati? Qual è il giusto criterio per l’identità personale? Qual è la natura del tempo? Che cosa rende umani gli esseri umani? Che differenze ci sono tra esseri umani ed esseri artificiali? Che cosa significa avere una mente? Non è dunque un caso che molti studiosi considerino la fantascienza come uno straordinario laboratorio dove poter “testare” alcune delle più importanti ipotesi e teorie filosofiche (cfr. Grau 2005; Irwin 2002; Little 2007; Nichols, R. et al. 2009; Rowlands 2003; Sanders 2008; Schneider 2009).
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In questo articolo mi concentrerò esclusivamente sul problema di che cosa significhi essere umani o avere una mente, alla luce di alcuni dei più famosi film di fantascienza degli ultimi anni – The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy di Garth Jennings (2005), 2001: A Space Odyssey di Stanley Kubrick (1968), The Terminator di James Cameron (1984), I, Robot di Alex Proyas (2004) e Blade Runner di Ridley Scott (1982). Lo scopo è quello di difendere l’immagine di una mente naturalizzata nei termini di una concezione “incarnata” e “situata” (cfr. Amoretti 2011), nonché di tracciare alcune conseguenze relativamente ai rapporti tra umano e artificiale (cfr. Amoretti 2010).
2. Super-computer super-intelligenti: Deep Thought e Hal
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enché si creda in genere di poter distinguere facilmente gli esseri umani dagli altri esseri, naturali e artificiali, che popolano il nostro universo, la questione diventa più spinosa nel momento in cui ci venga chiesto di esplicitare in modo chiaro e coerente che cosa ci renda effettivamente umani e, secondo alcuni, diversi o addirittura unici. Una risposta apparentemente semplice, per esempio, è stata proposta da René Descartes, secondo il quale gli esseri umani si differenzierebbero da tutti gli altri esseri, siano questi naturali o artificiali, per il fatto di possedere una mente, una res cogitans: «Sono dunque in poche parole solamente una cosa pensante, cioè una mente, o un animo, o un intelletto, o una ragione» (Descartes 1998, 167). L’idea di Descartes è che sia proprio la mente a renderci esseri umani, differenziandoci così in modo essenziale tanto dagli animali non umani, quanto dai vari artefatti. Tale risposta, tuttavia, è solo apparentemente semplice e soddisfacente. Che cosa significa, infatti, avere una mente? E per quale ragione non dovrebbe essere possibile ritrovarla in altri animali o magari riprodurla artificialmente? The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy è tratto dall’omonimo romanzo di Douglas Adams (1979), basato a sua volta su uno spettacolo radiofonico andato in onda per la BBC; 2001: A Space Odyssey è parzialmente ispirato al racconto The Sentinel di Arthur C. Clarke (1951); I, Robot è tratto dall’omonima raccolta di Isaac Asimov (1950); Blade Runner, infine, è tratto dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick (1968). In questo contesto, l’espressione “avere una mente” si applicherà indistintamente anche a coloro che secondo alcuni potrebbero non avere ancora una mente (come gli infanti) o che potrebbero non averla più (come per esempio gli individui in coma irreversibile) o che abbiano gravi deficit mentali.
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Restando ancora a Descartes, egli ritiene che la mente sia sostanzialmente diversa, irriducibile e indipendente rispetto al cervello e al corpo o, più in generale, alla materia (res extensa). Se questa prospettiva, che possiamo etichettare come dualismo ontologico tra mente e corpo, fosse corretta, è evidente che non ci sarebbe motivo di domandarsi se animali non umani e macchine artificiali possano avere una mente, poiché, per definizione, la risposta dovrebbe essere negativa (Rowlands 2003). Il dualismo ontologico, inoltre, è affetto da numerosi problemi (primo fra tutti quello di spiegare come avvenga l’interazione mente-corpo) che, nei fatti, lo rendono un’alternativa teorica poco allettante. Mettiamo allora da parte questa ipotesi e consideriamo la mente come un fenomeno naturale, che in qualche modo possa dipendere dalle caratteristiche fisiche dell’individuo (naturale o artificiale) che ne sia dotato. Detto questo, proviamo a “testare” le più importanti ipotesi filosofiche circa il significato e la portata dell’espressione “avere una mente” sulla base di alcuni famosi film di fantascienza, che possono in questo caso fungere da esperimenti mentali. Secondo una prospettiva tradizionale avere una mente significa essere in grado di pensare, e quindi, in primis, essere in grado di ragionare, trarre inferenze e così via. Ma cosa significa ragionare e trarre inferenze? Una risposta interessante è stata fornita da Thomas Hobbes, secondo il quale «ragionare non è nient’altro che calcolare» (Hobbes 1997). L’intelligenza artificiale classica riprende questa idea ipotizzando che l’espressione “avere una mente” non significhi altro che “avere un adeguato dispositivo di calcolo”, in grado di immagazzinare rappresentazioni simboliche e, conformemente a un insieme di regole formali, di manipolarle in virtù delle loro proprietà sintattiche, preservando comunque le proprietà semantiche che sono veicolate da tali rappresentazioni (cfr. Fodor 1975; Haugeland 1985; Putnam 1975). Un meccanismo di questo tipo sarebbe sostanzialmente una Macchina di Turing e, perlomeno in linea di principio, potrebbe essere implementato da un super-computer. Potrebbe essere questa una corretta concezione della nostra mente? Per testare le nostre intuizioni, consideriamo innanzitutto due film: The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy e 2001: A Space Odyssey. Nel primo film si fa riferimento a un super-computer, chiamato Deep Thought, costruito da una razza di intelligentissimi esseri pandimensionali al fine di calcolare la risposta alla domanda finale circa la vita, l’universo e ogni cosa (the Ultimate Question of Life, the Universe,
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and Everything). Deep Thought comincia a compiere i suoi calcoli e, dopo ben sette milioni e mezzo di anni, fornisce finalmente la risposta tanto attesa: “42”. Si tratta ovviamente di un responso incomprensibile e deludente, tanto per gli esseri che avevano costruito il supercomputer quanto per noi umani. La piattezza e l’inadeguatezza di una tale risposta ci fa storcere il naso di fronte all’eventualità di attribuire una mente a Deep Thought; o perlomeno una mente commensurabile a quella degli esseri umani che, seppur imperfetta e limitata, non arriverebbe mai a produrre una risposta assurda e inadeguata come “42” (cfr. Morini 2010). In effetti, occorre riconoscere che molti computer, per quanto super, falliscono oppure offrono soluzioni insensate quando si tratta di risolvere problemi banali per qualunque essere umano. Di conseguenza, se la mente è un dispositivo di calcolo, tale dispositivo deve essere perlomeno psicologicamente realistico: esso deve ragionare, grosso modo, come ragionerebbero gli esseri umani o, un po’ più precisamente, i suoi processi di elaborazione devono emulare, grosso modo, i nostri reali processi cognitivi (cfr. Frixione 2010). Consideriamo per esempio uno dei primi computer costruiti per giocare a scacchi che, non a caso, si chiamava proprio Deep Thought: esso sfruttava le proprie stupefacenti capacità di calcolo e memoria per esaminare in tempi assi brevi un gran numero di mosse possibili, nonché le conseguenze di tali mosse, così da scegliere quella migliore. La sua apparente intelligenza era in realtà “forza bruta”, che non emulava in alcun modo le reali strategie di ragionamento usate dagli esseri umani, strategie che fanno riferimento alla posizione complessiva dei pezzi, a modelli standard di gioco, a valutazioni generali e così via. Che dire invece di HAL 9000, o semplicemente Hal, il supercomputer del film 2001: A Space Odyssey? Anche in questo caso si tratta di un computer avente capacità di calcolo altissime e precisissime, tanto che si ritiene addirittura impossibile che Hal possa compiere un errore. Più importante, tuttavia, è che Hal sembra capace di offrire risposte sempre adeguate e comprensibili, di destreggiarsi in situazioni insolite e inaspettate, come quando non riuscendo a sentire i discorsi dei due piloti legge le loro labbra, di mostrare entusiasmo, come quando è intervistato dalla BBC circa l’imminente missione verso Giove, o di sentire paura, come nel momento in cui sta per essere disattivato da David Bowman, il pilota sopravvissuto. In questo caso, potrebbe forse sembrare più arduo negare il fatto che Hal abbia una mente – certamente superiore, ma per gli aspetti sostanziali del tutto simile alla nostra. Ciò nonostante tendiamo ancora, da un punto di vista intuitivo,
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a essere reticenti nel considerare un tale super-computer alla stregua di noi esseri umani. Perché? In generale, per affermare che un certo artefatto sia dotato di mente, non sembra bastare che esso sia in grado di simulare con un certo successo il comportamento umano sulla base di una serie di procedimenti che, nel complesso, siano psicologicamente realistici. Sembra necessario altresì che tali procedimenti siano biologicamente realistici, vale a dire che rispecchino, grosso modo, l’effettivo funzionamento del nostro cervello e sistema nervoso (cfr. Churchland, P.M. 1989; Churchland, P.S. e Sejnowski 1992). Ammettendo che Hal sia un dispositivo di calcolo psicologicamente realistico, resta quantomeno il dubbio se esso sia anche biologicamente realistico. Ciò non dipende dal fatto che Hal sia composto da silicio o altri materiali e non da materia organica (il che, almeno in linea di principio, è del tutto irrilevante), quanto piuttosto dal tipo di architettura cognitiva che sembra caratterizzarlo. In realtà, l’architettura cognitiva di un super-computer come Hal, che è quella di una Macchina di Turing, non rispetta per nulla la nostra effettiva architettura cerebrale: tra le altre cose, nel nostro cervello l’informazione è distribuita e trasmessa in parallelo, mentre nel caso di Hal l’informazione è archiviata in particolari sottoparti ed elaborata in modo sequenziale. Se le considerazioni fatte fino a questo momento sono corrette, la proposta secondo cui avere una mente significa avere un dispositivo di calcolo modellato sulla Macchina di Turing risulta inadeguata. Tuttavia, si potrebbe portare avanti la tesi che tale dispositivo di calcolo debba essere modellato sull’idea connessionista delle reti neurali artificiali. Un tale dispositivo, infatti, sarebbe non solo abile a svolgere i compiti e risolvere i problemi che gli esseri umani svolgono e risolvono più facilmente, ma avrebbe anche la capacità di apprendere in modo autonomo (con l’unica differenza che le regole di apprendimento non arriverebbero dall’evoluzione ma da un programmatore).
3. Intenzionalità e coscienza: Terminator, Sonny, Deckard, Rachael e Roy
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n realtà, anche supponendo che l’architettura di un super-computer possa essere realizzata sulla base di reti neurali artificiali, così da risultare analoga alla nostra, ci sono altre ragioni per cui continuiamo a essere reticenti nel considerare Hal dotato di mente. In primo luogo, affinché possa svolgere compiti cognitivi simili ai nostri, occorrerebbe che un super-computer fosse dotato di dispositi-
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vi di input e output che gli permettessero di ricevere informazioni dall’ambiente esterno e interagire causalmente con esso. In secondo luogo, appare necessario che esso sappia compiere generalizzazioni e categorizzazioni, nonché darsi degli scopi. Una delle condizioni minime affinché si verifichi tutto ciò è che il super-computer sia dotato di stati mentali come le credenze e i desideri, vale a dire stati intenzionali, che hanno la proprietà di essere diretti, di puntare o di tendere verso qualcosa (un oggetto o, appunto, un contenuto intenzionale). Ora, le più promettenti caratterizzazioni dell’intenzionalità sono quelle causali-informazionali, stando alle quali il contenuto degli stati mentali è determinato da ciò che, nel mondo esterno, causa o causerebbe tale stato, oppure, nella versione teleo-causale, dalla funzione biologicoevolutiva che tale stato assolve (cfr. Dretske 1981, 1995; Fodor 1987; Millikan 1984, 1993, 2000; Papineau 2006). Dunque, se avere una mente significa perlomeno avere stati intenzionali, occorre che il nostro super-computer intrattenga relazioni causali con l’ambiente esterno o addirittura possieda una vera e propria storia causale di interrelazioni con tale ambiente. In terzo luogo, infine, non si può ignorare che un super-computer, costruito sulla base di reti neurali artificiali e in grado di svolgere, grosso modo, tutti i compiti cognitivi che svolgiamo noi in modo psicologicamente realistico, dovrebbe essere enorme (in effetti non è un caso che Deep Thought sia stato immaginato grande come un’intera città). Un modo per ridurre la complessità del sistema di reti neurali, e di conseguenza le dimensioni della macchina, sarebbe ovviamente quello di “scaricare” parte dei compiti cognitivi sull’ambiente esterno, un po’ come accade quando noi usiamo carta e penna per compiere una moltiplicazione (cfr. Clark 2003, 2008). Ma affinché ciò fosse possibile, sarebbe necessario che il super-computer fosse in grado di interagire in modo appropriato, continuo e stabile con il mondo che lo circonda, di essere in qualche modo “abbinato” con l’ambiente esterno. Riassumendo, appare evidente che la nostra macchina artificiale, a differenza di Hal, dovrebbe essere un robot umanoide. Consideriamo allora un altro famoso film, The Terminator. Brevemente, il Terminator è un cyborg assassino proveniente da un futuro in cui le macchine – tramite un network artificiale chiamato Skynet – dominano il genere umano. Esso viene mandato indietro nel tempo con lo scopo di uccidere Sarah Connor, la madre di colui che dovrà diventare il capo della resistenza umana. Il corpo del Terminator è
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composto da un endoscheletro di resistente metallo rivestito da un sottile strato di tessuto organico, tale da conferire al cyborg le sembianze di un normale essere umano, fino al punto di fargli simulare la respirazione, di farlo sudare e persino sanguinare. La CPU del cyborg è invece costruita con un materiale superconduttore, sul modello delle reti neurali artificiali, ed è tanto sofisticata da permettere al Terminator di parlare in modo naturale, di leggere, di gestire gli imprevisti, di risolvere problemi nuovi e arbitrari, nonché di apprendere, soprattutto grazie all’interazione con gli esseri umani (all’inizio del film, per esempio, impara subito a imprecare). Se mettiamo assieme tutte queste caratteristiche, sembra difficile negare che il Terminator abbia una mente assai simile alla nostra, perlomeno negli aspetti essenziali: esso è in grado di apprendere; di interagire in maniera efficace col mondo esterno, “scaricando” eventualmente su di esso il peso di alcuni processi cognitivi; di percepire, generalizzare, formare credenze e desideri nonché, infine, di darsi degli scopi e agire intenzionalmente (sebbene si potrebbe obiettare che il suo scopo ultimo, uccidere Sarah Connor, sia stato programmato dall’esterno e non possa essere rivisto in modo autonomo dal cyborg). Eppure, nonostante tutto, molti sarebbero ancora reticenti a considerare il Terminator alla stregua di un essere umano, tanto è vero che quando Sarah lo “termina” schiacciandolo sotto una pressa idraulica è difficile provare pietà oppure avere l’impressione che la protagonista abbia compiuto un atto potenzialmente reprensibile dal punto di vista morale, quasi fosse analogo a un omicidio (sia pure per legittima difesa). Alla base di queste nostre intuizioni vi è presumibilmente il fatto che il Terminator, pur agendo in modo complesso ed efficiente, rimane pur sempre una macchina del tutto priva di emozioni (anche nei capitoli successivi della serie – Terminator II e III – quando il cyborg da spietato nemico diventa eroe altruista e buono, non riuscirà mai a provare vere emozioni, tanto da affermare «I know now why you cry ... But it’s something I can never do»). Questo ci porta a evidenziare un’altra fondamentale caratteristica della nostra mente, vale a dire la coscienza. Per evitare confusioni, occorre distinguere due diverse accezioni del termine: da un lato, abbiamo la coscienza d’accesso o cognitiva, che equivale alla capacità di un sistema di accedere ai propri stati mentali; dall’altro, la coscienza fenomenica, cioè l’esperienza soggettiva degli aspetti qualitativi dei propri stati mentali (cfr. Block 1995). Se possiamo facilmente attribuire il
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primo tipo di coscienza anche al Terminator, rimangono invece forti dubbi circa il secondo. La coscienza fenomenica, infatti, coinvolge stati qualitativi ed esperienziali, come le esperienze percettive, le sensazioni corporee, la consapevolezza di sé e del proprio corpo, gli stati d’animo e, ovviamente, le emozioni. Se per avere una mente occorre possedere non solo stati intenzionali, ma anche stati fenomenici, allora la nostra reticenza a considerare il Terminator come una creatura alla stregua di noi esseri umani risulta perfettamente comprensibile – dal momento che, a parte le esperienze percettive, esso non sembra condividere con noi altri stati fenomenici. Consideriamo ora un altro film utile per il nostro discorso: I, Robot. Esso è ambientato in un futuro in cui la maggior parte degli esseri umani possiede sofisticati robot antropomorfi in grado di svolgere i più svariati lavori. Tali robot sono programmati per rispettare le “tre leggi della robotica”, in modo tale da non arrecare mai danno alle persone, sono capaci di apprendere, di darsi degli scopi e di interagire in maniera efficace col mondo esterno, sebbene i loro comportamenti siano in sostanza asettici e guidati da rigidi calcoli logici o statistici. Tra tutti questi robot uno è tuttavia diverso. Contrariamente agli altri, questo vuole essere chiamato per nome, Sonny, si interroga sulla propria identità, “che cosa sono io?”, è in grado di sognare, di scegliere se rispettare o meno le tre leggi della robotica, di provare rudimentali emozioni, di agire intenzionalmente e di prendere decisioni che sono in contrasto con la pura logica o i meri calcoli statistici. Tuttavia sembra mancare ancora qualcosa per poter considerare la mente di Sonny alla stregua di quella degli esseri umani. Per cominciare, occorre riconoscere che si tratta soprattutto di differenze quantitative più che qualitative: sebbene Sonny abbia una certa consapevolezza di sé, stati d’animo (può essere calmo, teso eccetera) ed emozioni (può provare paura, gratitudine eccetera), si tratta pur sempre di stati fenomenici in forma rudimentale, che non hanno la ricchezza e la complessità di quelli di un qualunque essere umano. Inoltre non sembra che Sonny decida in modo del tutto autonomo di trasgredire le leggi della robotica o di agire in contrasto con la pura logica, ma che piuttosto sia stato programmato a comportarsi in questo modo bizzarro. Si aggiunga che, essendo costruito di metallo, esso non può ovviamente provare sensazioni corporee come il caldo, il freddo, il dolore, il prurito o la fame. Sebbene in apparenza questa possa sembrare una differenza di poco conto, si può tuttavia sostenere il contrario: secondo diversi
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studiosi, infatti, avere una mente paragonabile a quella degli esseri umani non è del tutto indipendente dall’avere un substrato fisico di tipo biologico, o comunque degradabile, sensibile e vulnerabile, tale cioè da costringere il soggetto a preoccuparsi delle conseguenze delle proprie azioni e da permettere così lo sviluppo autonomo di credenze, desideri e scopi, vale a dire di un agire genuinamente intenzionale (cfr. Morini 2010; Searle 1980). Siamo giunti all’ultimo film fra quelli che abbiamo scelto di considerare, Blade Runner: vi è rappresentato un futuro distopico, in cui la tecnologia ha messo a punto dei cosiddetti “replicanti”, vale a dire degli androidi creati artificialmente in laboratorio ma (quasi) del tutto indistinguibili dagli esseri umani adulti. I replicanti sono stati realizzati per assolvere i lavori più ingrati (soldati, prostitute, lavoratori nelle colonie extra-mondo e così via) e trattati come schiavi. Siccome la loro intelligenza e forza fisica è mediamente superiore a quella degli esseri umani, per sicurezza essi sono stati dotati di una longevità limitata (solo quattro anni), in modo tale che non abbiano il tempo di sviluppare piena coscienza di sé, emozioni e sentimenti che, ragionevolmente, li porterebbero a mettere in questione il loro ruolo e a rivoltarsi contro i loro creatori. L’unico modo per distinguere un replicante da un essere umano, pertanto, è quello di sottoporlo a un test per l’empatia in grado appunto di evidenziare l’incapacità di provare reali emozioni. Nonostante tali precauzioni, alcuni replicanti tentano una ribellione a seguito della quale è loro vietato recarsi sulla Terra: ogni trasgressore sarebbe stato “ritirato”, vale a dire ucciso. Un gruppo di replicanti riesce comunque ad arrivare sulla Terra per cercare di convincere chi li ha creati a posporre la loro data di termine (comprensibilmente, essi non vorrebbero morire), cosicché viene ordinato al poliziotto Rick Deckard, un ex membro della squadra speciale antireplicanti Blade Runner, di trovarli e “ritirarli”. Senza entrare nei dettagli, perlomeno alcuni replicanti – tra cui Rachael, una replicante di cui Deckard si innamora e, probabilmente, Deckard stesso – ignorano di non essere umani e sognano immagini del proprio presunto passato (magari pecore elettriche). Molti di loro, inoltre, hanno sviluppa È vero che le memorie di un replicante sono state impiantate artificialmente; ma come possiamo essere certi che anche le memorie di noi esseri umani non possano essere impiantate, manomesse o distrutte? A questo proposito sarebbe interessante discutere altri film assai famosi, tra cui Total Recall di Paul Verhoeven (1990), Eternal Sunshine of the Spotless Mind di Michel Gondry (2004) oppure il più recente Inception di Christopher Nolan (2010).
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to una piena consapevolezza di sé, provano emozioni e sentimenti genuini. Per esempio, Rachael è disperata quando scopre di essere una replicante; Rachael e Deckard si innamorano; Roy Batty, uno dei replicanti ribelli, mostra non solo attaccamento alla vita e paura della morte, ma anche commozione per la morte di un proprio simile, desiderio di vendetta e capacità di provare compassione, come quando pur potendo uccidere Deckard, decide invece di salvarlo proprio prima di morire lui stesso. L’ultimo monologo di Roy nonché alcune riflessioni di Deckard sono particolarmente interessanti: Roy: I’ve seen things you people wouldn’t believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I’ve watched c-beams glitter in the dark near the Tannhäuser Gate. All those ... moments will be lost in time, like tears ... in rain. Time to die. Deckard (voce fuori campo): I don’t know why he saved my life. Maybe in those last moments he loved life more than he ever had before. Not just his life ... anybody’s life... my life. All he’d wanted was the same answers the rest of us want. Where do I come from? Where am I going? How long have I got? All I could do is sit there and watch him die.
Di fronte a una tale complessità e varietà di comportamenti e di emozioni, del tutto paragonabili a quelli di noi esseri umani, intuitivamente appare difficile negare che i replicanti di ultima generazione abbiano una mente come la nostra. O perlomeno: se non morissero prematuramente dopo solo quattro anni, sarebbero senz’altro in grado di svilupparla. Lo stesso termine “ritiro”, in effetti, sembra piuttosto un modo ipocrita per indicare un’esecuzione in piena regola.
4. Donne, uomini, computer, cyborg, androidi: che cosa significa essere umani?
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ulla base del percorso svolto fin qui, possiamo cercare di tirare le somme circa il significato dell’espressione “avere una mente”. In primo luogo, per avere una mente occorre disporre di un sofisticato meccanismo di acquisizione ed elaborazione delle informazioni che sia psicologicamente e biologicamente realistico, vale a dire che sia modellato sulla base delle reti neurali artificiali. Secondo, per avere una mente è necessario avere degli scopi ed esibire un comportamento che possa essere descritto e spiegato in termini intenzionali, attraverso
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l’attribuzione di stati mentali quali i desideri e le credenze. Tali stati mentali, inoltre, devono svolgere un ruolo essenziale nella descrizione e nella spiegazione del comportamento, nel senso che non ci deve essere una descrizione o una spiegazione non intenzionale alternativa e ugualmente efficace (qualcosa del tipo: il comportamento è stato programmato così e così). Terzo, per avere una mente è indispensabile mostrare di avere stati qualitativi ed esperienziali, come per esempio le esperienze percettive, le sensazioni corporee, la consapevolezza di sé e del proprio corpo, gli stati d’animo e, ovviamente, le emozioni. Quarto, per avere una mente occorre essere in grado di interagire in modo appropriato, continuo e stabile con il mondo esterno, in modo tale da conferire contenuto intenzionale ai propri stati mentali e darsi degli scopi in modo autonomo, ma anche con i propri simili, in modo tale da poter apprendere. Riassumendo, per avere una mente occorre possedere un dispositivo simile al nostro cervello nonché un involucro simile al nostro corpo, in modo tale da essere al contempo in grado di interagire con l’ambiente esterno, naturale e sociale. Tali richieste sono senz’altro difficili da realizzare nella pratica, ma non impossibili in linea di principio. Se venissero soddisfatte, come forse lo sono nel caso di Deckard, non ci resterebbe più alcuna ragione per negare che una macchina artificiale possa avere una mente del tutto paragonabile alla nostra. Tra le altre cose, ciò suggerisce che il confine tra umano e artificiale sia assai più labile di quanto inizialmente si potesse sospettare. Bibliografia Adams, D. (1979), The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy, Pan Books, London. Amoretti, M.C. (2010) (cur.), Natura umana, natura artificiale, FrancoAngeli, Milano. Amoretti, M.C. (2011), La mente fuori dal corpo. Prospettive esternaliste in relazione al mentale, FrancoAngeli, Milano. Asimov, I. (1950), I, Robot, Gnome Press, New York. Brown, J.R. (1991), The Laboratory of Mind: Thought Experiment in Natural Science, Routledge, London. Brown, J.R. e Fehige, Y. (2011), Thought Experiments, in Zalta, E.N. (ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy.
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Ignazio Semino Il dibattito sul realismo
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egli ultimi anni si è sviluppato in Italia un dibattito sul “realismo” che sembra avere suscitato un certo interesse anche presso un pubblico più ampio di quello degli specialisti dell’argomento: almeno a giudicare dalla lunga serie di articoli che si sono pubblicati sui giornali a partire dall’estate del 2011. All’interno di questo dibattito ha avuto un ruolo centrale la figura di Maurizio Ferraris, il cui impegno in questa battaglia a favore del “nuovo realismo” è sfociato addirittura nella pubblicazione di un Manifesto del nuovo realismo. Ad esso è seguito poi un volume a cura dello stesso Ferraris e di M. De Caro, dal titolo Bentornata realtà, con il contributo di diversi autori su molteplici aspetti del “realismo”. Le discussioni a livello giornalistico, rinvigorite dalla pubblicazione del Manifesto di Ferraris, si connettono all’idea che ci sarebbe stata nella filosofia recente una svolta nella direzione del realismo, dopo che molte tendenze contemporanee si erano collocate su posizioni decisamente antirealistiche. La mappa di queste nuove tendenze realistiche, al pari di quella delle precedenti antirealistiche, è piuttosto complicata, risalendo a filoni molto diversi. Partiamo dalle tendenze antirealistiche: secondo le indicazioni di Ferraris (2012, VI ss.) potremmo innanzitutto individuare una numerosa serie di autori appartenenti alla tradizione analitica: Dummett, Goodman, Davidson, Kuhn, Feyerabend, Cartwright,Van Fraassen, Hacking, Wright, e inoltre «la scuola wittgensteiniana al completo», nonché Putnam (quest’ultimo però solo in una fase particolare del suo pensiero, essendo poi diventato uno dei campioni del nuovo realismo). Rorty sarebbe poi la figura che fa da trait d’union tra queso filone “analitico” e il filone “continentale” dell’antirealismo. Anche il gruppo continentale appare piuttosto complesso: da una parte i seguaci della linea Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Vattimo (possia L’elenco dei principali interventi sull’argomento si trova in http://labont.it/ferraris/rassegna-nuovo-realismo.
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mo chiamarla la linea “ermeneutica”), dall’altra “i francesi”: Foucault, Derrida, Deleuze, Lyotard (e possiamo chiamarla la linea “postmoderna”, in fondo anch’essa di derivazione nietzschiana). Potremmo da parte nostra aggiungere il riferimento alle varie forme di “relativismo”: da quello “culturalista”, con l’annessa confutazione della superiorità della scienza occidentale sulle altre forme tradizionali di conoscenza, a quello dei sociologi “costruzionisti” che affermano che tutta la realtà è solo una costruzione sociale. Che cosa significa etichettare tutte queste diversissima posizioni come “antirealistiche”? La risposta è veramente difficile. Si prenda, ad esempio, il primo gruppo, quello degli “analitici”: a parte Goodman che professa l’«irrealismo», proclamando la nostra possibilità di «costruire mondi» diversi, metafora assai suggestiva, ma priva di un solido fondamento (si veda la critica di Searle, 1995, 184ss.), ci troviamo di fronte a forme notevolmente diverse di antirealismo, se volessimo applicare a tutti gli altri autori questa etichetta, che in taluni casi appare addirittura illegittima. Soprattutto poi non si vede come questo supposto antirealismo “analitico” abbia qualcosa in comune con l’antirealismo “continentale”. Quando si parla di antirealismo, ad esempio, a proposito delle teorie di Dummett, intendendo riferirsi alle sue particolari concezioni della verità e del significato, ci troviamo di fronte ad una serie di problematiche assai particolari che non implicano la negazione o un indebolimento dell’Essere, tratti caratteristici questi, come vedremo, dell’antirealismo “continentale”: la critica del filosofo inglese alla “realtà in sé”, è una conseguenza del suo giustificazionismo semantico, ma non implica alcun rifiuto della metafisica o della scienza. Non possiamo in questa sede analizzare le posizioni degli autori sopra citati, ma ci limitiamo a sottolineare che le loro divergenti interpretazioni del ruolo conoscitivo delle scienze, non implicano una svalutazione di tale forma di sapere, anche se non vi è in essi una idolatria positivistica del sapere scientifico. Inoltre non si può parlare mai di “antirealismo” tout court: l’”empirismo costruttivo” di Van Fraassen, ad esempio, non dissolve la realtà dei concetti scientifici, ma cerca un più stretto collegamento con la realtà dell’esperienza percettiva. La posizione sulle leggi scientifiche di N. Cartwright, con il suo giudizio di non verità delle leggi «teoriche», a differenza di quelle «fenomenologiche», può essere considerato ancora una forma di realismo, come pure quello che J. Hacking chiama il «realismo delle entità» contrapposto al «rea-
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lismo delle teorie». Né la posizione di Kuhn riguardo allo sviluppo della scienza e a quella che è stata superficialmente interpretata come una proclamazione della “irrazionalità” della scienza, intende ridurre il valore conoscitivo della scienza. Appaiono invece andare nella direzione di un più dichiarato ridimensionamento della portata conoscitiva della scienza le posizioni più estremistiche di Feyerabend con il suo mettere sullo stesso piano la scienza, la magia, l’astrologia. Ma il vero campione dell’antirealismo appare Rorty, ed è per questo che egli è l’obiettivo polemico preferito dai realisti: il filosofo americano, come si è detto, partendo da una critica interna al movimento analitico, rinforzata dai riferimenti al pragmatismo, ricorre ai filosofi continentali (Nietzsche, Hegel, Heidegger, Derrida ecc.) per elaborare la sua concezione della filosofia come «voce nella conversazione dell’umanità», antifondazionalista, ma ricca di buoni sentimenti di tolleranza e solidarietà. Sarebbe complesso seguire le articolate elaborazioni di Rorty, ampiamente note anche presso il pubblico italiano, ma soprattutto criticate per la superficialità delle conclusioni seguite a pur brillanti e acute analisi. I suoi grandiosi, anche se poco credibili, affreschi storici e le sue complesse argomentazioni, sviluppate nel confronto con una miriade di autori, analitici e continentali, arrivano a giustificare radicali ma discutibili posizioni; ad esempio, quando ci mette di fronte al dilemma: «Solidarietà o oggettività?», o proclama la «priorità della democrazia sulla filosofia» (cfr. Rorty, 1994). La tendenza di Rorty a trovare insanabili opposizioni si manifesta anche, per tornare al nostro tema, nella critica al realismo che viene identificato con la teoria della verità come corrispondenza (Rorty, 2003, 11): seguendo Davidson – almeno così come egli lo interpreta – non vi è bisogno di formulare una teoria della verità, anzi ciò è impossibile perché “vero” è ineffabile. Soprattutto il realismo scientifico sembra essere uno degli obbiettivi polemici di Rorty: «La verità non è uno scopo della ricerca», e d’altra parte «non abbiamo modo di conoscere la nostra distanza dalla verità» (ivi, 9). La scienza si identifica per il suo successo predittivo, senza che questo implichi il riferimento alla “realtà in sé”. Notiamo, di passaggio, che a tale posizione è stata opposta – ad esempio da Putnam – la critica che il successo della scienza diventerebbe una specie di miracolo; perché sarebbe così scandaloso affermare che nelle scienze mature ci approssimiamo alla realtà? Rorty risponderebbe che tale realtà semplicemente non esiste. Rorty poi critica il ricorso da
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parte dei realisti alla validità del sapere percettivo che egli non considera un esempio probante con cui verificare una dottrina della verità come corrispondenza. La verità, a tutti i livelli, per Rorty, consiste nel semplice accordo intersoggettivo e non necessita di alcun riferimento ad un oggetto. A volte Rorty sembra concepire suo malgrado, quasi un monismo epistemologico, mettendo sullo stesso piano cose assai differenti, come quando afferma «i diritti umani non sono né più né meno “oggettivi” dei quark» (ivi, 10). Non potendo ulteriormente soffermarci su questo autore, aggiungiamo solo che le sue posizioni hanno goduto di una larga popolarità, ma che le sue formulazioni più estreme, da una parte sembrano essere semplicemente volte a scandalizzare chi sostiene opinioni comuni, ma nondimeno del tutto plausibili, e dall’altra si accompagnano all’assicurazione della bontà delle conseguenze, sul piano socio-politico, dell’accettazione di quelle posizioni che porterebbero alla solidarietà, alla più ampia accoglienza delle differenze, alla democrazia ecc. La fama di Rorty appare di sovente essere essenzialmente negativa, in virtù di una superficialità delle tesi sostenute attraverso il “saccheggio” di una miriade di autori che vengono interpretati in un modo da sottolineare solo quelle parti del loro pensiero che convergono con le posizioni che si vogliono supportare e ignorando tutto il resto: un modo di fare storia della filosofia del tutto tendenzioso e che addirittura sembra compiacersi del fraintendimento degli autori, la cui funzione è solo quella di fornire delle “pezze giustificative” alle proprie tesi. Passiamo ora alle tendenze anntirealistiche “continentali” radicate, da una parte, nel filone nichilistico del pensiero contemporaneo, nella linea Nietzsche – Heidegger – Gadamer, Vattimo e sostenitori del “pensiero debole”(Il filone dell’Ermeneutica il cui slogan sarebbe: «non ci sono fatti ma solo interpretazioni»), dall’altra nel filone postrutturalista e postmodernista, da Foucault a Derrida, Deleuze e Lyotard (qui c’è il dubbio se si possano mettere assieme sotto l’etichetta di “postmoderni” filosofi notevolmente differenti). Ma che cosa avevano in comune queste diversissime posizioni? In che senso erano “antirealistiche”? Non appare qui presente quell’interesse epistemologico, riguardante la teoria della percezione e della mente, la problematica degli schemi concettuali e delle strutture delle teorie scientifiche che abbiamo visto nelle tendenze analitiche, ma, genericamente, si può individuare come linea portante un rifiuto della metafisica come discorso che pretende di cogliere i fondamenti ultimi della realtà. Un ulteriore elemento comune potrebbe essere individuato nell’opposi-
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zione allo scientismo, al predominio della scienza come unica forma di sapere valido, o in certi casi nella vera e propria esclusione della scienza come autentica forma di sapere (il famoso «la scienza non pensa» di Heidegger). Da questo punto di vista, qualcuno ha visto delle convergenze con quei filosofi della scienza, già citati, che hanno messo in discussione il paradigma razionalistico della scienza: e qui le figure più note sono quelle di Kuhn (ma abbiamo già detto che appare difficile iscrivere tale autore al partito antirealista), e ancora più radicalmente, di Feyerabend, con la sua affermazione che la scienza non è un tipo di sapere privilegiato. Questa idea che la scienza sia una forma di conoscenza propria del pensiero occidentale, ma che non può pretendere di essere superiore a forme di conoscenze appartenenti ad altri orizzonti culturali, è anche diffusa presso antropologi e sociologi della scienza. D’altra parte, a ben vedere, questa generica ostilità verso il pensiero scientifico non appare certo una novità, in quanto la maggior parte delle filosofie del Novecento – fenomenologia, esistenzialismo, idealismo, storicismo, ecc. – con l’eccezione del neopositivismo, si erano già opposte a quella che consideravano una prevaricazione del sapere di tipo scientifico e una rinuncia ad una più profonda forma di conoscenza quale può essere solo quella della filosofia. La novità delle forme di antirealismo contemporaneo sembra invece consistere nella radicalizzazione della critica al concetto di verità che porta alla messa in questione anche dello stesso pensiero filosofico, arrivando alla consumazione dello stesso concetto di Essere, sostituito dalla “volontà di potenza”. Il dissolvimento della realtà o almeno il suo “indebolimento” sono visti positivamente come possibilità di emancipazione e realizzazione dell’uomo. Su un piano di più superficiale attualità, la discussione sul realismo si ricollega a quella sul relativismo che ha sollevato le questioni della molteplicità delle culture e dell’imperialismo di quella occidentale: da qui l’idea che solo rinunciando ad un “realismo” oppressivo – da quello scientifico a quello economico – si sarebbe portato avanti un discorso di liberazione e di giustizia sociale: il nichilismo come ciò che porta finalmente alla liberazione del genere umano. Questa posizione ha trovato la sua speculare opposizione in coloro che hanno affermato che solo un “robusto” realismo, cioè la conoscenza della realtà effettiva, può consentire di modificare – entro certi limiti – questa stessa realtà. Tali discussioni, per quanto interessanti, essendo legate a determinate posizioni ideologiche, non producono però contributi “scientifici” sulla tematica del realismo.
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Tornando alla domanda che ci si era posto all’inizio, risulta ci sia assai poco in comune tra l’antirealismo di Davidson o di Dummett e l’antirealismo postmoderno ed ermeneutico. Non solo, ma anche laddove ci si trovi davanti ad interessi comuni, per esempio la tematica del linguaggio, si giunge a posizioni nemmeno comunicabili: così, per restare all’esempio, Dummett (2001), afferma che Gadamer dichiara che anche per lui è centrale il problema del linguaggio, ma poi non fa nulla per cercare di produrre una teoria del significato che è stato l’obbiettivo della lunga ricerca del filosofo inglese; si potrebbe però rispondere che il livello di una generale teoria dell’interpretazione, cui si muove Gadamer, lo ha portato ha considerare il linguaggio, sì come il tema centrale, ma da un punto di vista diverso e altrettanto legittimo rispetto a quello adottato da Dummett; è quello che ha portato il filosofo tedesco ad affermare: «l’essere che può venir compreso è linguaggio». Questa frase sarà – a torto – peraltro presa a modello dai “nuovi realisti” come espressione dell’antirealismo che dissolve la realtà nel linguaggio. Qui emerge piuttosto quella osservazione, su cui dovremo ritornare, che affibbiare ad un autore l’etichetta di “realista” o “antirealista” ha poco significato se non consideriamo che tali termini sono usati in riferimento a problematiche e contesti assai differenti: un conto è essere realisti riguardo alla percezione e un altro riguardo agli enti matematici o alle strutture sociali, un conto è sostenere il realismo semantico o negare che le teorie scientifiche descrivano il mondo reale ecc.. Se vi è stato in anni recenti un predomino delle posizioni antirealistiche, chi sarebbero oggi i campioni del nuovo realismo? Se torniamo al “Manifesto” di Ferraris troviamo scarse indicazioni: si citano alcuni autori francesi, ancora non troppo conosciuti, mentre in effetti le figure più eminenti del nuovo realismo sarebbero Searle e Putnam, su cui poi ritorneremo; in Bentornata realtà troviamo più ampi riferimenti: tra questi R. Boyd e M. Devitt (che a dire il vero non appaiono così nuovi, nel senso che le la loro difesa del realismo non risale agli anni più recenti ed è contemporanea alle posizioni antirealistiche), Markus Gabriel (noto anche al lettore italiana per la traduzione del suo Il senso dell’esistenza). Al di là degli autori citati da Ferraris, bisognerebbe aggiungere che l’impressione che vi sia stato recentemente, prima della “svolta realistica” un predominio di tendenze antirealisti-
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che nel pensiero analitico, appare solo parzialmente vera: è vero che gli antirealisti hanno attirato più l’attenzione, e in particolare Rorty, ma numerose posizioni realistiche hanno continuato ad essere elaborate, specie nel panorama americano – tralasciando gli “Australiani” che sono stati sempre realisti e spesso materialisti. Ferraris vede poi nella rinascita degli studi sull’ontologia – da lui stesso intensamente promossi in Italia – un sintomo della ripresa del realismo. Bisognerebbe precisare che questo ritorno dell’ontologia o addirittura della “metafisica”, già preceduto dalla liberazione dalla radicale condanna del termine stesso “metafisica” da parte dei neopositivisti, non rivela però il tipo di metafisica che si persegue ai nostri giorni. La quasi totalità delle correnti contemporanee concordano nell’abbandono di quella metafisica con le classiche tre “idee della ragione” di cui parlava Kant e nella rinuncia alla pretesa di trovare il fondamento, il punto di vista unitario sulla realtà: l’oltrepassamento della metafisica, la lotta contro lo spettro dell’onto-teologia sono diventati un luogo comune, come pure il ripudio del “logocentrismo” e dell’“etnocentrismo”. Rimangono fedeli ad un concetto tradizionale di “metafisica”, i seguaci della metafisica “classica” (nelle sue varianti aristotelico-tomistica, neo-parmenidea, platonica ecc.): essi non pretendono di dire qualcosa di assolutamente originale, come è logico, sostenendo una filosofia “perenne” che introduce elementi nuovi solo nel rispondere agli attacchi moderni che si dimostrerebbero sempre inefficaci nei confronti della solidità dell’impianto metafisico classico. Il ritorno alla “metafisica”, all’”ontologia”, ad un certo “realismo” da parte dei “nuovi realisti”, va dunque preso in un senso avvertito della differenza da quello che gli stessi termini avrebbero qualora fossero impiegati dai sostenitori della metafisica “classica”. Ovviamente però anche tale senso attenuato di “metafisica” non esclude importanti e nuovi risultati nell’ambito di ricerche che rientrano a ben diritto nella problematica della tradizione di quella che una volta era chiamata “metafisica generale” o “ontologia”: si pensi soprattutto allo sviluppo di queste ricerche nell’ambito della tradizione analitica. Più che una successione di posizioni realistiche a posizioni antirealistiche, a mio avviso, vi è stata una contemporanea presenza delle due posizioni opposte nel dibattito interno alla filosofia analitica e l’idea di una prevalenza dell’una o dell’altra in diversi momenti, al di là di una superficiale notorietà assunta da determinate posizioni in certe occasioni, appare assai dubbiosa. Per questa osservazione si veda De Caro – Ferraris (2012). Per una indicazione degli sviluppi di tale problematiche si vedano le opere di A. Varzi. Si veda anche: Coliva (2005).
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La drammatizzazione dell’opposizione realismo-antirealismo da parte di Ferraris nel “Manifesto” ha una sua suggestione ed ha il merito di chiarire la questione in un modo assai semplificato e perciò più comprensibile. Ma già in Bentornata realtà si capisce come le questioni necessitino di più complesse analisi. Ad esempio si veda l’articolo di M. De Caro sulla necessità di distinguere varie forme di realismo e di sottolineare il fatto che è difficile trovare dei realisti “integrali”: ad esempio, si può essere realisti riguardo alla percezione, ma antirealisti rispetto alle teorie scientifiche, oppure realisti scientifici ma antirealisti in etica; si può essere realisti in fisica ma contemporaneamente antirealisti (o costruzionisti) riguardo alle scienze sociali ecc. D’altra parte, lo stesso Ferraris, in molti dei suoi lavori più recenti, ha analizzato profondamente la natura degli oggetti sociali la cui “oggettività” e “realtà” è del tutto diversa rispetto a quella degli oggetti naturali, anche per un realista convinto. Accenniamo ancora che Ferraris sottolinea la centralità di una teoria della percezione per la rinascita del realismo. Ci si può chiedere: chi ha mai messo in dubbio veramente la validità della percezione degli oggetti comuni dell’esperienza quotidiana? Se si tratta di un mondo di “apparenze”, non vuol dire che esse siano un semplice nulla, ma che vi è una dimensione più profonda della realtà che rende ragione anche di quelle apparenze (Platone). Neanche l’idealista à la Berkeley nega l’esistenza del mondo fisico: solo dice che non è “materiale”, cioè dotato di quelle caratteristiche che la dottrina materialistica attribuisce a tutto ciò che esiste. Certo si possono trovare nella storia della filosofia sostenitori di forme di empirismo, fenomenismo, idealismo, da annoverare tra gli antirealisti, ma è dubbio che abbiano molto seguito nel pensiero contemporaneo. Il tema ritorna però nelle discussioni sul realismo scientifico: vi sono posizioni antirealiste di notevole spessore riguardo alle teorie o alle entità inosservabili della scienza. Ma qui, come nel caso già citato di Van Frassenn, l’antirealismo non si pone come opposizione al predomino del sapere scientifico, ma anzi ne è sovente una celebrazione della sostanziale validità. Questo ritorno ad una attenzione per la conoscenza percettiva è sembrato a qualcuno costituire un antidoto ad un eccessivo uso del concetto di interpretazione e quindi ad una idea dell’ermeneutica come filosofia universale. In effetti bisogna riconoscere che vi sono posizioni che tendono ad appiattire sul piano di un concetto ristretto di “interpretazione” cose assai diverse; si tratta di una specie di estremismo
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ermeneutico che mette sullo stesso piano l’attività percettiva, ad esempio, con la formulazione di teorie scientifiche e anche qui mettendo sullo stesso piano le scienze fisiche e quelle sociali: tutto sarebbe una interpretazione ed una costruzione concettuale. Si può osservare che se pure potremmo ammettere che tutto è una “costruzione”, una volta rifiutato con Sellars il “Mito del dato”, ciò che conta sono i diversi livelli e profondità della “costruzione”: nel più semplice atto percettivo intervengono strutture cognitive, ma esse non sono dello stesso livello concettuale che troviamo nella struttura di una teoria scientifica vera e propria. Questo punto è ben individuato da Ferraris quando afferma la necessità di non confondere la “scienza” con l’”esperienza”. Uno dei punti su cui insiste Ferraris per la ripresa del realismo è appunto il richiamo alla percezione, alla conoscenza sensibile, come fondamento di uno stretto rapporto con la realtà che non può essere dimenticato: in esso si presenta quell’aspetto “inemendabile” dell’esperienza che nessuna scepsi filosofica riesce ad oscurare. Affermando la necessità di considerare i diversi livelli della realtà e sottolineando la centralità della percezione per il nuovo realismo, si deve osservare che l’’accettazione della percezione come fonte primaria ed ovvia del nostro rapporto oggettivo con il mondo, non elimina la difficoltà di formulare una vera e propria “teoria della percezione”. La posizione più comune dei realisti sembra essere quella del “realismo diretto”. Non possiamo entrare in quella che appare come una discussione ricca di spunti interessanti: vorremmo solo osservare che il “realismo diretto” appare un’ovvietà, nella misura in cui affermiamo che se dico di vedere una sedia, difficilmente capirei la domanda di un ipotetico filosofo che mi chiedesse se la sedia io la vedo “direttamente” oppure no. Però, una volta ammesso che io non vedo un «dato sensoriale» (o un’altro degli intermediari della percezione, o «interfaccia» come li chiama Putnam), ma l’oggetto stesso, siamo ancora ben lontani dal dire cosa accade nel complicato processo percettivo che dà come risultato la “diretta” percezione dell’oggetto. Venendo adesso a delineare brevemente le posizioni di quelli che sembrano essere stati indicati come i due campioni del nuovo realismo, Searle e Putnam, e ricollegandoci a ciò che è stato appena detto, osserviamo che Putnam concorda con Ferraris su questo rinnovato Per una aggiornata rassegna delle varie posizioni nella teoria filosofica della percezione si veda Calabi (2009).
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interesse per la teoria della percezione, anzi afferma in uno scritto recente che questo è uno dei suoi attuali ambiti di ricerca preferiti. È abbastanza curioso il fatto che egli dichiari di collegarsi in questa tematica alla linea di pensiero Aristotele – Tommaso e in opposizione a gran parte della filosofia moderna. In effetti, molte discussioni sulla percezione sono avvenute all’interno della tradizione aristotelico-tomistica, discussioni peraltro ignorate dalla maggior parte dei filosofi contemporanei. Se, di passaggio, dovessimo condensare in maniera un po’ rozza il risultato, che può sembrare banale ma è ugualmente notevole, di tutte queste ricerche, potremmo dire che noi non percepiamo un oggetto di percezione, ma percepiamo l’oggetto reale mediante l’atto percettivo. A proposito di Putnam, inoltre anticipiamo che quest’ultimo talvolta è stato iscritto al partito degli antirealisti (per esempio da Boghossian) ed anzi egli stesso ha dichiarato di essere stato ad un certo punto dell’evoluzione del suo pensiero un «antirealista», o meglio, ha così definito talvolta la sua fase del «realismo interno». Se la posizione – o meglio le molteplici posizioni – di Putnam appaiono, come vedremo, un po’ complesse, del tutto più semplice appare la posizione di Searle. Per lui il realismo è semplicemente un presupposto: costituisce una posizione «predefinita», una «conoscenza di Sfondo» che non si può mettere in discussione. Il «realismo esterno» è «l’assunzione secondo la quale c’è un modo in cui le cose sono nella realtà, indipendentemente dalle nostre rappresentazioni» (Searle, 2000, 36; cfr. anche Searle, 2006 e 2010) ed esso «non è una teoria in senso generale, bensì la struttura all’interno della quale è possibile elaborare teorie» (ibidem). Searle sostiene quella che chiama la «visione illuministica» che per lui coincide con quello che ci dice la scienza moderna. Questa concezione, che è stata definita «realismo ingenuo» anche se incorpora quello che di solito si chiama «realismo scientifico» e che appare come un dogma, costituisce solo lo sfondo, il punto di partenza delle ricerche che Searle ha svolto in molti anni. L’esito è stata una posizione non riduzionistica, ma attenta ad individuare i molteplici livelli della realtà: da quella fisica, a quella mentale, a quella sociale. L’irriducibilità dei diversi livelli ha portato Searle ad ammettere la centralità dei concetti di coscienza ed intenzionalità, che appunto si riferiscono a delle realtà che non è possibile né eliminare, né ridurre, ma che nondimeno rientrano in una concezione biologica che non ha bisogno di postulare misteriose entità spirituali. Nella realtà sociale si
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manifesta poi quell’essenziale aspetto “costruttivo” che fa della società, sì una costruzione puramente umana – basata sull’«intenzionalità collettiva» –, ma nondimeno dotata di una oggettività che si riverbera in maniera determinante sui comportamenti umani. Se in Searle il realismo rimane formulato in una maniera piuttosto semplice, ma che non sfocia in una posizione di riduzionismo materialistico e anzi porta ad una attenta analisi delle diverse articolazioni in cui si configura la realtà, il percorso di Putnam nella formulazione di quello che ha ricercato come «la migliore forma di realismo» appare molto più accidentato. Più volte, nel corso di molti anni, ha mutato parere e proposto diverse soluzioni. Una ricostruzione sintetica del suo percorso si può trovare nell’articolo «Realismo e senso comune» compreso in Bentornata realtà. Nella ricostruzione che Putnam fa, egli afferma di essere passato attraverso tre fasi di pensiero che corrispondono a tre forme di realismo: realismo «metafisico», realismo «interno», realismo «del senso comune». Il realismo «metafisico» afferma che «la realtà può essere completamente descritta in un unico modo, e questa descrizione è ciò che fissa precisamente e definitivamente, l’ontologia» (Putnam 2012b, 8): Putnam afferma però di avere sostenuto solo in un articolo questa forma di realismo e di avere invece per lungo tempo aderito ad un «realismo scientifico», consistente nelle tesi che «i termini, nelle teorie elaborate da una scienza matura, generalmente denotano entità e grandezze reali» e «questo fatto spiega il successo di queste teorie» (ivi). Anche se in seguito Putnam non ha rinnegato il «realismo scientifico», e ritiene tuttora che la scienza ci dia una «descrizione approssimativamente corretta del mondo» (ivi, 13), egli afferma di aver elaborato a partire dal 1976 un diverso «realismo interno», consistente nella tesi che «la verità coincide con la conoscibilità in “condizioni epistemiche ideali”» (ivi, 9). In questo breve articolo Putnam non spiega le ragioni che lo hanno spinto a sostenere in passato questo tipo di realismo, che egli stesso talvolta definisce addirittura un «antirealismo», ma in numerose opere degli anni settanta e ottanta egli ha motivato la posizione con l’insostenibilità del «realismo metafisico» che implicherebbe assumere la posizione di chi ritiene possibile conoscere la realtà da un punto di vista assoluto, quale potrebbe essere quello dell’«occhio di Dio», laddove la conoscenza Tra le numerose opere dedicate da Putnam all’argomento si veda almeno il recente Putnam (2012).
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a nostra disposizione è una conoscenza puramente umana e quindi dipendente dalle nostre possibilità effettive di conoscere legate ad una relatività concettuale: un «realismo dal volto umano», come recita il titolo di una nota opera di Putnam. Attualmente Putnam dichiara di non sostenere più tale posizione, anche se non sembra averla abbandonata del tutto (talvolta egli, di fronte alla domanda se ritenga di avere abbandonato del tutto il «realismo interno», dichiara di non avere una risposta precisa). La nuova fase, che egli chiama «realismo del senso comune», e afferma che «ciò che esiste è indipendente dalla sua conoscibilità» (ivi), non riporta alla pretesa di una conoscenza assoluta della realtà, ma rifiuta del relativismo concettuale l’idea che vi siano posizioni tra loro incompatibili ma egualmente valide: Putnam preferisce ora parlare, invece che di «relativismo concettuale», di «pluralismo concettuale», di descrizioni diverse ma non incompatibili degli stessi fatti: il resoconto che il senso comune ci dà della realtà così come è colta nella ordinaria conoscenza percettiva non è in contraddizione con l’immagine che ci danno le teorie scientifiche. La trattazione di varie tematiche come quelle riguardanti la teoria della percezione, la teoria della mente, l’analisi dei concetti scientifici, la riflessione sulla morale, hanno permesso a Putnam di ritornare sulla tematica del realismo che va declinato in un modo articolato che corrisponde alla varietà dei contesti in cui viene applicato. Abbiamo qui descritto solo sommariamente le diverse posizioni sostenute da Putnam sul tema del realismo: in effetti la problematica è molto più articolata e solo la lettura delle molteplici opere di Putnam può dare l’idea della complessità e dell’onestà intellettuale di un autore che non ha esitato a rivedere le proprie posizioni o a modificarle in maniera sostanziale. In conclusione di questa breve rassegna, possiamo dire che, al di là delle difese di generiche posizioni realistiche, quello che più importa è il tentativo di individuare i molteplici livelli di ciò che chiamiamo realtà e cercare di determinarne le caratteristiche. È impossibile e anche inutile parlare di “realismo” in un senso troppo generale, come se si facesse riferimento all’esistenza indipendente da parte di oggetti che si troverebbero sullo stesso piano di realtà: invece abbiamo a che fare con oggetti che si situano su differenti piani di realtà. Abbiamo così oggetti del senso comune, oggetti scientifici (dalle entità inosservabili delle teorie fisiche o biologiche agli enti matematici) o meglio oggetti delle varie scienze (da quelle naturali a quelle sociali e psicologiche), oggetti artistici, ecc.
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L’avversario principale del realista ai nostri giorni non lo si chiama “idealista” ma “costruzionista”. Ecco lo spettro del costruzionismo: se tutto è costruito (da chi poi? Dall’apparato percettivo del singolo, dai suoi schemi concettuali privati o pubblici, dalla società, ecc.) scompare l’oggettività e ciascun può dire la sua (verità). Ma anche se ci limitiamo alle strutture e alle istituzioni sociali, e dobbiamo dire che esse sono certamente costruite dagli uomini (non dagli individui, anche se in certi casi il ruolo di un singolo o ristretto gruppo di individui può diventare determinante per il successo di una istituzione), tuttavia esse hanno delle conseguenze del tutto oggettive o addirittura sovente degli effetti sugli individui paragonabili a quelle delle inviolabili leggi naturali. Inoltre, fino a che punto si può parlare di costruzione nelle scienze naturali? L’intervento degli schemi concettuali non cancella la possibilità di cogliere la realtà nella sua oggettività. Difficilmente si possono trovare dei sostenitori del realismo “metafisico”, se con questo termine si intende la pretesa di conoscere qualcosa da un punto di vista “assoluto”, al di fuori di una prospettiva particolare, in base a quello che Putnam chiama “l’occhio di Dio”. Se la conoscenza umana, nella sua finitezza, è sempre prospettica, ciò non implica che non si possa cogliere la realtà nei suoi aspetti che esistono indipendentemente dai nostri schemi concettuali; non posso osservare una casa se non dalla particolare prospettiva in cui mi trovo; non posso osservarla da tutte le prospettive possibili contemporaneamente, ma questo non vuol dire che non osservi qualcosa di oggettivo che appartiene ad una realtà che esiste indipendentemente dal mio sguardo: la caratteristica essenziale della realtà è proprio questa sua “inesauribilità” rispetto al modo in cui può essere conosciuta. Questo fatto può spaventare solo l’idealista che ritiene che la conoscenza debba essere solo totale e assoluta e quindi, per essere tale, non può essere che una costruzione, una produzione della stessa mente che conosce; ma in tal modo si elimina la stessa realtà o meglio, si identifica la realtà con una super-mente. Non si vede poi perché un sano realismo debba essere inconciliabile con la prospettiva ermeneutica, o almeno con quel tipo di ermeneutica che non si rinchiude nello slogan «non ci sono fatti ma solo interpretazioni», bensì ritiene che attraverso la serie delle interpretazioni ci si apra ad una realtà, sì inesauribile, ma che si manifesta, seppur sempre prospetticamente ed in una dimensione “umana”. I livelli di
Per una critica del costruzionismo si veda Boghossian (2006).
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interpretazione si presentano molteplici, ma anche con diverse potenze nel manifestare la realtà: il livello di interpretazione che richiede la percezione di un oggetto comune che ho davanti agli occhi è sicuramente meno complesso di quello che interviene, ad esempio nella “interpretazione” delle cause della caduta dell’impero romano, anche se ciò non toglie che elaborare una “teoria” della prima sia altrettanto difficile che spiegare la seconda. Quindi il discorso sull’interpretazione è interessante nella misura in cui cerchi di determinare gli assai diversi livelli di ciò che chiamiamo ”interpretazione”: la realtà appare più o meno “costruita” in modi quanto mai differenti, ma essa non scompare nel turbine delle interpretazioni che trovano un limite nell’emergere della resistenza di qualcosa che esiste al di fuori degli schemi concettuali. La molteplicità dei livelli della realtà implica un pluralismo ontologico che, nella terminologia di Putnam, ammette la coesistenza di punti di vista divergenti, a differenza del relativismo che sostiene l’incompatibilità di punti di vista diversi. Qui si richiede un lavoro di analisi quanto mai complesso: è poco interessante proporre discorsi generali sull’Essere – a meno che non si affronti esplicitamente il problema teologico – mentre un lavoro che scavi nella realtà del mondo percettivo, nel mondo delle entità delle scienze naturali, nel mondo sociale, attraverso tutti i vari livelli assai diversi in cui interviene la costruzione dei concetti, è ancora un campo che può richiedere molto impegno da parte dei filosofi. Bibliografia Boghossian, P.A. (2006), Paura di conoscere, Carocci, Roma. Calabi, C. (2009), Filosofia della percezione, Laterza, Roma-Bari. Coliva, A. (2005) (cur.), Filosofia analitica, Carocci, Roma. De Caro, M. – Ferraris, M. (2012) (cur.), Bentornata realtà, Einaudi, Torino. Ferraris, M. (2012), Manifesto del nuovo realismo, Laterza, RomaBari. Putnam, H. (2012a), La filosofia nell’età della scienza, Il Mulino, Bologna. Cfr. i saggi di Eco e Marconi in De Caro – Ferraris 2012.
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Putnam, H. (2012b), «Realismo e senso comune», in De Caro, M. – Ferraris, M. (2012), 7-20. Rorty, R. (1994), Scritti filosofici, vol. I, Laterza, Roma-Bari. Rorty, R. (2003), Verità e progresso. Scritti filosofici, Feltrinelli, Milano. Searle, J.R. (2006), La costruzione sociale della realtà, Einaudi, Torino. Searle, J.R. (2000), Mente, linguaggio e società, Raffaello Cortina Editore, Milano. Searle, J.R. (2010), Creare il mondo sociale, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Oscar Meo Due sviluppi recenti della teoria dell’immagine: il pictorial turn e l’ikonische Wende
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a alcuni anni suscitano crescente interesse fra gli studiosi che operano nell’ambito dei visual studies (storici dell’arte e della cultura, estetologi, antropologi) due proposte teoriche, elaborate rispettivamente dagli storici dell’arte William J. Thomas Mitchell (che è anche un anglista) e Gottfried Boehm: il pictorial turn e l’ikonische Wende (o iconic turn). Come risulta anche dalla loro diversa denominazione, le due “svolte” non sono affatto sovrapponibili. Boehm, che è di formazione ermeneutica, separa rigidamente le due sfere della produzione linguistica e di quella immaginale (Boehm 2007, 31). Per contro, fondandosi su un robusto, ampio e variegato supporto filosofico, Mitchell si interroga sui difficili rapporti fra linguaggio verbale e sfera immaginale, cercando di elaborare una mediazione; né potrebbe essere diversamente, considerato che egli riassume in sé la doppia competenza dello studioso di letteratura e di arti visive. Per cercare di comprendere il senso della “svolta” di Mitchell, è utile prendere le mosse dalla sua distinzione fra picture e image (1994, 4-5; 2005, XIII e 84-88). Per picture si intende un assemblaggio di elementi virtuali, materiali e simbolici. Pictures in senso stretto sono, per es., un quadro, una fotografia, un’illustrazione. In un senso più ampio, però, i pictures sorgono anche in altri media: nella fiction cinematografica, nella televisione, nella collocazione di una scultura in un determinato contesto spaziale, nelle caricature o nello stereotipo di un comportamento umano (imitazioni e simili), nella «coscienza incarnata» (il riferimento è ai cosiddetti pictures in the mind, che si formano quando immaginiamo o ricordiamo) e addirittura in una proposizione o in un testo in cui venga proiettato uno «stato di cose», come già sosteneva il primo Wittgenstein. Il concetto di picture è così strettamente legato a quelli di supporto materiale e di collocazione
Le premesse della distinzione sono poste in Mitchell 1987, cap. 1.
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(nello spazio, nel corpo, ecc). Per contro, l’image è qualcosa di più astratto del picture: è la presenza virtuale (o in absentia) del referente, che compare solo in un medium, ma lo trascende e può essere trasferita da un medium all’altro. Rifacendosi a Nelson Goodman (che ha giocato un ruolo molto importante nell’elaborazione delle sue proposte teoriche), Mitchell recupera la distinzione type-token e identifica l’image con la classe dei pictures, ossia di tutte quelle rappresentazioni che denotano un unico referente e sono legate fra loro da una «somiglianza di famiglia» (per es. diversi ritratti di un singolo soggetto). Questa interrelazione e il rifiuto della sostanzializzazione dell’image rinviano non solo al nominalismo di Goodman e al secondo Wittgenstein, ma anche – sia pure indirettamente – all’individuazione della somiglianza (o similitudine) come caratteristica fondamentale dei segni iconici in Peirce. Secondo Mitchell, i pictures, che ci circondano da ogni parte, sono sempre stati con noi e non è possibile andare al di là di essi, eluderli, per instaurare una relazione più autentica con quello che i filosofi chiamano l’“Essere”, con il mondo, con il reale. Dunque la nostra relazione con il mondo passa sempre attraverso un medium immaginale. In questo senso, come diceva Goodman, le immagini sono «modi di fare il mondo» (ways of worldmaking) e non di rispecchiarlo passivamente. Pertanto l’atteggiamento del pictorial turn è radicalmente antiplatonico e iconofilo. Al tempo stesso, Mitchell prende le distanze dalle conclusioni che Heidegger trae dall’esame dell’epoca moderna, in cui il mondo sarebbe concepito e compreso come immagine (Mitchell 2005, XIV): nella rappresentazione (Vorstellung, ossia lett. nel “porre innanzi a sé” l’oggetto), il soggetto cartesiano rapporterebbe a sé il mondo come separato da sé. Ma, se è vero che noi non possiamo fare i conti con il mondo se non attraverso il medium immaginale, la critica mossa da Heidegger all’epoca del Weltbild risulta profondamente ingiusta nei confronti dell’aspetto rappresentazionale intrinseco al nostro modo di “essere-nel-mondo”. Di qui, per Mitchell, l’esigenza di studiare la “vita” delle immagini nella storia e nel presente e il suo forte coinvolgimento nella contemporaneità, che si traduce in prese di posizione molto nette nell’ambito della “critica militante” e sul piano politico-sociale. Significativamente, con una concessione all’espediente retorico-letterario della paronomasia, un suo importante libro, What Do Pictures Want?, è sottotitolato: The Lives and Loves of Images. Sostenere che le immagini “vivono” (e a volte ci amano, e sono da noi
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amate) significa anche dire che, circolando pubblicamente, parlano, ci comunicano qualcosa, ci rivolgono un appello o un comando. Per comprenderlo, dobbiamo però esercitare una certa abilità ermeneutica, perché il messaggio che ci inviano è per lo più criptico, ellittico, simbolico. Quale richiesta ci rivolgono dunque le immagini? E come rispondiamo alle loro sollecitazioni? Per farci intendere cosa accade nel nostro rapporto con le immagini, Mitchell (2005, 217-221) prende ad esempio una scena di Videodrome, un film girato nel 1983 da David Cronenberg, in cui ci vengono messi innanzi gli spettri peggiori del post-human e dell’alienazione disumanizzante che lo caratterizza. La realtà in cui il protagonista, Max Wrenn, vive è una specie di allucinazione video. Dal punto di vista diegetico, si tratta di un espediente drammaturgico (e anche pittorico) ben noto, quello della fiction nella fiction o dell’annidamento di un medium in un altro medium, che – suggerendo l’esistenza di una riflessione sull’immagine all’interno dell’immagine – Mitchell chiama metapicture (Mitchell 1994, 35-82): rispetto alla realtà in cui vivono gli spettatori, quella del film è illusione e quella della TV nel film è illusione di illusione, e dunque – per dirla con Platone – lontana tre gradi dalla verità. Sostituendo la TV alla realtà, la gerarchia platonica si rovescia: la TV ha un surplus di verità ontologica, ed è ora la nostra realtà ad essere illusione di un’illusione. Significativamente, uno dei personaggi, il dott. O’Blivion, una sorta di telepredicatore che è l’avatar filmico di McLuhan e ne riprende le tesi sul medium televisivo, proclama che la vera battaglia mentale sarà combattuta nell’«arena video» (il Videodrome del titolo): «la vera realtà è la televisione e la realtà è meno che televisione». Nella fiction filmica Max fa alla fine esperienza corporea dell’immersione nella fiction TV. Sullo schermo del televisore compare una sorta di boia incappucciato che strangola il dott. O’Blivion dopo che questi ha proferito il nuovo verbo secondo cui la TV è realtà. Alla domanda di Max «che cosa c’è dietro questo? cosa vogliono?», l’assassino si toglie il cappuccio, rivelandosi come l’amante di Max, Nicki Brand. Mentre ella dice «Voglio te [I want you], Max», «vieni da Nicki, vieni subito, non farti aspettare», le sue labbra si ingrandiscono fino a occupare interamente lo schermo. A questo punto il tubo catodico si gonfia, fuoriesce dal televisore e lo schermo si anima, pulsa, palpita di desiderio, le vene si dilatano sotto Sul tema: Frank e Sachs-Hombach 2006, 192; Heßler e Mersch 2009, 25.
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la pelle. Alla fine Max obbedisce alla richiesta e inserisce la sua testa nella bocca mostruosa di Nicki. Mitchell interpreta questa scena come un paradosso visivo che fa riflettere sul tema del potere delle immagini, della cosiddetta “iconocrazia”, coincidente con una nuova forma di “(auto)idolatria”. Provocatoriamente, Mitchell (2005, XVI) afferma che la risposta alla domanda “cosa vogliono le immagini?” è: vogliono essere baciate, e noi vogliamo baciarle. Egli trova un supporto per la sua tesi paradossale nei miti classici legati al potere delle immagini (la Medusa, Pigmalione, Narciso) nonché in alcuni rituali religiosi, come il bacio alle sacre icone, per altro approvato e sollecitato in sede teologica (ibid., 39 e 80-81). Insistendo sulla funzione propria delle immagini di risvegliare il desiderio, e non di soddisfarlo, giacché esse ci offrono l’oggetto solo virtualiter e al tempo stesso ci sottraggono la sua presenza, Mitchell coglie (come fa anche Nancy 2003, 26) il loro erotismo implicito, la seduzione che ne emana. Di fronte alla temptatio oculorum, all’appello che l’immagine ci rivolge, noi esitiamo, come Max, fra due opposte soluzioni: immergerci in essa, lasciarci trascinare nel suo gorgo, abbandonarci totalmente; ritrarci in noi stessi, conservare la distanza, mantenere l’autocontrollo, non lasciarci coinvolgere, per il timore di essere inghiottiti, di perdere la nostra personalità. Di qui la natura paradossale dell’immagine, che è al tempo stesso una res intramondana e un messaggio dotato di un potere simbolico che tende a diventare reale, e talvolta lo diventa, come accade oggi nell’esperienza dell’immersione nei “mondi virtuali” o da sempre nell’uso retorico del medium visivo: le parole di Nicki sono le stesse che compaiono nel famoso, e più volte imitato e parodiato, manifesto di propaganda bellica che ritrae lo “zio Sam”. Le due “svolte” sono nate in polemica con il linguistic turn, che Richard Rorty vedeva realizzato nella filosofia del Novecento. Essa sarebbe infatti interessata soprattutto alle parole e alla struttura da ultimo linguistica della realtà. Ciò è avvenuto non solo nell’area culturale anglo-americana, ma anche in quella continentale. Sia sufficiente ricordare gli sviluppi della semiotica in Francia, da Saussure a Barthes, Può servire a illustrare la situazione su cui Mitchell attira l’attenzione il manifesto pubblicitario di Videodrome, in cui lo schermo fattosi carne impugna una pistola puntata verso l’esterno, mentre Nicki guarda lo spettatore negli occhi: il richiamo al dito puntato dello “zio Sam” è palese.
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che Mitchell (1987, 56) cita come campione dell’imperialismo linguistico. Come esempio della subordinazione della semiotica al modello epistemico della linguistica e del suo tentativo di rintracciare anche in ambiti diversi da quelli del linguaggio le stesse strutture fondamentali che lo caratterizzano, si possono citare la concezione dei fenomeni in generale come “testi” da interpretare e quella delle teorie scientifiche come “discorsi” intorno al mondo. In sostanza, quella che è stata considerata come l’ultima fase della modernità, e che coincide con lo sviluppo dello strutturalismo, è, secondo Mitchell e Boehm, una forma di riduzionismo, che imprigiona la realtà in una rete, senza per altro riuscire a rendere pienamente conto della complessità del mondo e dei suoi fenomeni. Mentre dunque, in una “lettera aperta” a Mitchell, Boehm (2007) ha ragione nel ribadire che non tutto è riconducibile al linguaggio, appare stravagante e fragile la tesi di un suo “superamento” e fondata su un ingenuo e rozzo rinvio al paradigma referenziale quella secondo cui il linguistic turn sfocerebbe in un iconic turn perché la fondazione della verità delle proposizioni esige il ricorso all’ambito extralinguistico (Boehm 2007 a, 44). Non per questo però, come gli obietta giustamente Mitchell nella sua risposta (2007), va rigettato in toto l’approccio semiotico in senso lato, anche se egli stesso aveva ammesso molti anni prima che la semiotica incontra gravi difficoltà quando cerca di descrivere le immagini e la loro differenza rispetto ai testi (Mitchell 1987, 53-54). L’atteggiamento radicalmente antisemiotico di Boehm, che eredita la sua avversione dal maestro Gadamer (e dunque indirettamente da Heidegger), in tanto è incomprensibile, in quanto egli stesso sostiene che la domanda-guida della sua indagine è: «Come le immagini producono senso? [Wie erzeugen Bilder Sinn?]», che dà pure il titolo a una sua raccolta di saggi. Ora, le immagini “producono senso” nella misura in cui vengono comprese come messaggi e interpretate come insieme di segni dotati di significato dai loro destinatari, ossia nella misura in cui essi compiono proprio quelle operazioni che sono oggetto della semiotica e della teoria della comunicazione in quanto imprese ermeneutiche, e pertanto non irrelate, in generale, a quella teoria dell’interpretazione che Gadamer perseguiva. Anche in questo caso, si potrebbe rispondere alla domanda di Boehm rinviando alla vera e propria “parola d’ordine” del medium immaginale secondo Mitchell: esse producono senso mediante l’imperativo I want you.
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Come risulta dalle varie esposizioni di Mitchell (in part. 1994, 11-13), il pictorial turn è nato nel solco degli sviluppi della semiotica americana. Già Peirce e, dopo di lui, Goodman si erano resi conto che il linguaggio verbale non è il paradigma del significato, il veicolo privilegiato per la sua trasmissione e il modello semiotico per eccellenza, che i sistemi simbolici non verbali obbediscono a convenzioni specifiche e possiedono codici specifici. Come Mitchell sosteneva già in 1987, 55, sebbene il titolo dell’opera più importante di Goodman, Languages of Art, suggerisca che il linguaggio viene da lui considerato come modello per tutti gli altri sistemi simbolici, in essa viene indicata la via per distinguere fra immagini e testi: la differenza fra i sistemi simbolici non sta nell’opposizione fra natura e convenzione (né lo potrebbe, visto che Goodman è rigorosamente convenzionalista), ma nelle regole che governano il loro uso (ibid., 65-66). Così, per marcare il divario fra depiction e description, Goodman contrappone la “densità” dei sistemi visivi alla “differenziazione” di quelli notazionali, la continuità delle immagini alla disgiuntività dei simboli notazionali; a questa opposizione primaria se ne affiancano poi altre: analogico vs. digitale e autografico vs. allografico. Proprio perché i sistemi verbale e visivo non sono sovrapponibili e non è dunque possibile trasferire completamente gli strumenti dell’analisi linguistica all’esperienza del visuale, sorge – di contro all’incommensurabilità proclamata da Boehm – il problema di reperire gli strumenti adatti alla loro traduzione reciproca, affinché interagiscano in modo produttivo. Di qui l’interesse storico di Mitchell per uno strumento letterario molto antico: l’ékphrasis. Per quanto concerne il debito con la filosofia cosiddetta continentale, occorre tenere conto dell’elaborazione cui sono state sottoposte la fenomenologia e lo strutturalismo alla fine del ’900. Emerge così un legame fra entrambe le svolte e un filosofo poststrutturalista come Derrida, il quale criticava il modello logocentrico e fonocentrico della filosofia e concentrava la propria attenzione sul lato visibile del linguaggio, sui segni materiali della scrittura. Secondo la concezione grammatologica di Derrida, non sarebbe stato possibile pervenire al primato del lógos, se il linguaggio e il pensiero non fossero stati fissati in scrittura: l’occhio, è proprio il caso di dirlo, vuole la sua parte; esige che gli venga riconosciuto un ruolo di comprimario nella storia della costruzione del significato. Questo interesse è testimoniato dai capp. 4 e 5 di Mitchell 1994, dedicati agli esperimenti intersemiotici di William Blake.
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Oltre a Derrida, Mitchell cita fra i “padri nobili” del pictorial turn: la Scuola di Francoforte, le indagini di Foucault sui “regimi scopici” e l’iconofilia del primo Wittgenstein, contrapponendola all’“iconofobia” delle tesi del secondo Wittgenstein (Mitchell 1994, 12). Verso di esse egli è particolarmente severo, come lo è in generale nei confronti delle teorie che giudicano pericolose le immagini. Mentre nel Tractatus Wittgenstein considera il pensiero come l’immagine logica dei fatti, e dunque il significato di una proposizione come l’immagine logica di uno stato di cose, nelle Philosophische Untersuchungen egli muove una critica radicale alla “teoria rappresentazionale” e sostiene che le parole hanno significato solo all’interno del contesto d’uso: dipendono dal “gioco linguistico”. Questa posizione, cui Rorty aderisce, implica la rinuncia alla metafora visiva per comprendere la natura del linguaggio e del pensiero. Sennonché, obietta Mitchell, in questo modo si fa torto all’intera tradizione filosofica occidentale, il cui lessico è pieno di metafore visive: da “idea” a “teoria”, da “contemplazione” a “speculazione”. La rinnovata iconofobia dell’epoca tardomoderna sarebbe dovuta essenzialmente al fatto che l’immagine è sempre stata vista come una figura realistica e di immediata comprensibilità, perché legata strettamente alla realtà che rappresenta e capace dunque di esercitare un sinistro potere di seduzione. La critica di Rorty alla metafisica (e allo stesso primo Wittgenstein, secondo il quale la forma logica rispecchia il mondo) sarebbe dunque un’eco della critica di Platone al carattere mimetico dell’arte e una testimonianza della vera e propria “angoscia” provocata nei filosofi del linguaggio dalla rappresentazione visiva. Secondo Mitchell, il disagio creato dalle immagini è la conseguenza della loro difficile collocabilità in un orizzonte di pensiero che vorrebbe abbracciare la realtà con la sola forma del concetto. Nasce così un ulteriore paradosso, perché quello che a prima vista sembrerebbe chiaro e trasparente, simile al reale, si rivela complicato, difficile da penetrare e da risolvere in termini concettuali: l’immagine costituisce una sfida al pensiero. Nel quadro di questo nuovo atteggiamento nei confronti dell’immagine si colloca anche la ripresa critica della proposta, formulata in termini rigorosi da Panofsky, di istituire un’“iconologia”, ossia una vera e propria scienza sistematica delle immagini, che starebbe all’iconografia (ossia allo studio sistematico del repertorio delle immagini finalizzato a svelare il significato dei simboli e delle allegorie) come l’interpretazione sta alla descrizione. Analizzando le immagini alla ricerca dei “valori simbolici” (non necessaria-
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mente intenzionali nell’artista) e delle “forme simboliche”, cioè del significato culturale dei modi di rappresentazione, dalla prospettiva al raggruppamento delle figure nello spazio, alla loro relazione, ecc., l’iconologia si inserisce nell’ampio alveo dei cosiddetti visual studies, che si occupano del significato intrinseco del visivo, in tutte le sue manifestazioni (e dunque anche nelle sue pratiche sociali e politiche), e possono essere interpretati come una riflessione interdisciplinare su di esso. Questo obiettivo la avvicina alla tedesca Bildwissenschaft, che – tenendo conto del dibattito storico-artistico – vorrebbe abbracciare con unico sguardo onnicomprensivo tutte le arti e le manifestazioni socio-culturali in cui si ha a che fare con la costruzione e la ricezione di immagini e ha come oggetto del proprio interesse non solo le arti che si avvalgono di media tradizionali (nelle loro manifestazioni iconiche e aniconiche), ma anche quelle neomediali. All’iconologia nel senso di Panofsky Mitchell rimprovera tuttavia di sottomettere l’“icona” al lógos, fino ad assorbirla in esso: l’iconologia è un “metasguardo”, in cui il lógos si pone sul piano metaimmaginale. La gerarchia panofskyana dei livelli di approccio semantico all’opera visiva contrappone un livello “automatico”, preriflessivo (naturale), a uno più raffinato, riflessivo, decisionale, in cui intervengono i cosiddetti “processi cognitivi superiori”. A questa concezione dell’iconologia Mitchell (1994, 28) contrappone quella che chiama un’«iconologia critica», che si rende In tal modo, si potrebbe chiosare con lo stesso Mitchell 2005, 89, le immagini diventano “forme di vita”. Consapevolmente, Mitchell si rifà qui non solo a Wittgenstein, ma, più in generale, alla vecchia analogia fra le forme di cultura e gli organismi viventi: anche delle prime si possono ricostruire la morfogenesi e lo sviluppo. Non va poi dimenticato che di una “vita” delle immagini parlava già Aby Warburg, che ha introdotto il termine “iconologia” nel lessico storico-artistico del Novecento. Frank e Sachs-Hombach (2006, 185-188) cercano di istituire una rigorosa distinzione fra la Bildwissenschaft in quanto focalizzazione sull’immagine (soprattutto pittorica) e i visual studies, che sarebbero interessati all’insieme dei fenomeni visivi; ma la loro rivendicazione non esclude una collaborazione fra le due discipline. Occorre per altro ricordare, con Kruse 2006, 72, che non vi è affatto accordo su ciò che si intende per Bildwissenschaft. Dal canto suo, Boehm (2006, 11) sostiene che non si è ancora sviluppata una vera e propria Bildwissenschaft, concepibile in analogia a una Sprachwissenschaft. In 1987, 1-2 egli dichiarava però che la sua intenzione era «restaurare qualcosa del senso letterale» del termine “iconologia” in quanto logos of icons, campo di studi in cui viene presa in esame l’idea di image in quanto tale. Belting (2006, 15) gli rimprovera tuttavia di non distinguere fra immagini e visual culture come concetto sovraordinato.
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conto della resistenza opposta dall’immagine alla forza debordante del lógos. Il pictorial turn rimette dunque in scena la tormentata relazione fra arti visive e verbali, che ha percorso la loro storia e quella dell’estetica fin dall’età classica (Mitchell 1987, 43) e che si è di volta in volta sviluppata come vera e propria lotta per la supremazia o come collaborazione; ma alla fin fine, come lo stesso Mitchell confessa (ibid.), il tema fondamentale è ancora il rapporto fra segno e significato, fra sintassi e semantica. Secondo Mitchell, il problema del significato delle immagini si è rivelato impellente nel postmoderno (cioè agli inizi dell’era del virtuale e di Internet) proprio perché la comunicazione è fortemente iconocentrica. In questo ambito si inquadra lo studio che, ispirandosi alla critica di Guy Debord alla “società dello spettacolo” (al proliferare onnipervasivo delle immagini come mezzo retorico), Mitchell ha condotto sul lato iconico della sfera socio-politica: fra gli esempi di pervasività dell’iconico, si possono menzionare l’amore per la visibilità, che comporta l’esibizione “autoidolatra”del proprio corpo da parte dei detentori contemporanei del potere, il controllo satellitare e i circuiti delle telecamere di sorveglianza, che – dai luoghi tradizionalmente considerati “sensibili” – sono trasmigrati a tutte le aree pubbliche. Perfino le guerre, ci ricorda Mitchell, sono diventate fenomeni mediatici, combinazione di notizie TV e melodramma: la prima guerra del Golfo è considerata come la prima interamente televisiva, oltre che ipertecnologica, tanto che, secondo l’ironico titolo del libro di un generale americano, fu la CNN a combatterla (Mitchell 1994, 397, ove – con pari ironia – si parla di un CNN’s Operation Desertstorm, e 405). Nelle intenzioni del suo promotore, il pictorial turn rappresenta la rivincita della storia dell’arte sull’egemonia esercitata dalla linguistica e dalla filosofia del linguaggio: egli osserva che, grazie a esso, la storia dell’arte potrebbe trasformare la sua marginalità teoretica in una posizione di centralità intellettuale (ibid., 14-15). L’obiettivo, molto ambizioso, è ispirato dalla critica di Hubert Damisch all’incapacità della storia dell’arte di rinnovare il proprio metodo, precludendosi la possibilità di avere un ruolo-guida fra le scienze della cultura; sennonché, le incertezze e le oscillazioni che caratterizzano il procedere teorico di Mitchell e la debolezza filosofica della posizione di Boehm sono una testimonianza delle difficoltà in cui le due “svolte” si dibattono.
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Il pictorial turn intende essere un’impresa postlinguistica e postsemiotica. Sebbene non sia disposto a considerare la semiotica come un metalinguaggio “neutro” e un complesso transdisciplinare di teorie, perché la considera troppo sbilanciata in direzione del versante linguistico, per Mitchell assumere un atteggiamento antisemiotico tout court equivale a gettare il bambino insieme all’acqua del bagno. È comunque un fatto che l’esperienza visiva o il livello di istruzione visiva non possono essere spiegati totalmente sulla base del modello testuale; ed è vero anche che risulta oggi fortemente sospetto uno dei postulati fondamentali della semiotica di Peirce (e di Morris), ossia che l’icona (giusto il significato originario del greco eikón) è un segno che somiglia per determinati aspetti al referente. Ma soprattutto negli ultimi anni sono emersi elementi tali da imporre un deciso mutamento di rotta nella riflessione sul concetto di immagine in generale, e non soltanto su quello di immagine artistica: i nuovi media cambiano le condizioni della visione e, in prospettiva, agiscono sul nostro modo di interpretare il mondo. Sia sufficiente accennare all’impossibilità di definire secondo i vecchi criteri l’immagine virtuale: sebbene il risultato finale sia molto simile alla vecchia immagine mimetica, essa è un prodotto artificiale fondato su algoritmi, e dunque irriducibile alle tradizionali teorie della rappresentazione artistica, giacché la generazione di un prodotto è fondamentale per stabilire il suo statuto ontologico. Non c’è, in queste nuove forme immaginali, nulla di illusorio, perché sono il prodotto di specifiche manipolazioni tecnologiche, e sia il nostro linguaggio sia il nostro approccio visivo devono ancora adattarvisi. Sennonché, anche se non si ragiona più (o soltanto) in termini di semantica referenziale, permangono tuttora aperte le questioni di pertinenza della semantica interna all’opera, che si costruisce in virtù dei rapporti sintattici fra gli elementi che la costituiscono, e quelle di pertinenza della pragmatica, concernenti il “significato-insituazione” dell’opera. Mitchell si rende conto che il rapporto fra linguaggio e immagine è molto più complesso di quanto possa far pensare la proclamazione di principio, da parte di Boehm, della necessità di un’ikonische Wende. Su questo tema: Frank 2009, 355. In 1994, 16 Mitchell riprende l’osservazione di Damisch che l’icona non è necessariamente un segno, ossia che si può indagare l’opera d’arte prescindendo dal riferimento a qualcosa di esterno a essa, mentre in 1987, 57 cita con favore l’obiezione di Eco 1985, 282, secondo cui non solo la nozione di segno iconico è incoerente, ma quella stessa di segno in generale è «inadoperabile».
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La debolezza del punto di vista di quest’ultimo sta nel fatto che egli respinge la possibilità non solo di una semiotica dell’immagine in generale, ma di una semiotica tout court. È assai facile controbattere che studi come quelli di Meyer Schapiro e di Louis Marin mostrano come si possa fare un uso proficuo degli strumenti offerti dalla semiotica nelle arti visive, purché non la si appiattisca sulla linguistica. Chi lo ha fatto, come Lévi-Strauss, è incorso in infortuni clamorosi. Al rifiuto preconcetto di Boehm si può obiettare che non c’è nulla di scandaloso nel cercare, come fa in parte Mitchell, una via di conciliazione fra semiotica, teoria della comunicazione ed ermeneutica, nella misura in cui esse convergono su due aspetti fondamentali: 1) il messaggio (che è fatto di segni) è sempre per qualcuno, cioè acquista significato soltanto nella misura in cui qualcuno lo interpreta come tale; 2) qualsiasi “testo” vive grazie all’interpretazione, che lo attualizza, lo rivitalizza alla luce del proprio orizzonte storico-culturale, delle proprie “forme simboliche”. Di conseguenza, il concetto gadameriano di interpretazione come fusione di orizzonti, quello peirceano di semiosi illimitata e la proposta costruttivista di Goodman possono essere considerati non come teorie in competizione, ma come aspetti diversi di uno stesso sforzo di coinvolgimento attivo dell’interprete nella produzione del significato dell’opera. La tesi fondamentale di Boehm è che esiste una “differenza iconica”, un sintagma che ricorda solo lessicalmente Heidegger e Derrida e acquista significati diversi nei diversi contesti in cui egli lo usa. Così, esso concerne talvolta la tensione produttiva (e non la mutua esclusione) fra gli oggetti che si configurano sulla tela e la sua superficie (Boehm 2006, 29-36), mentre altrove designa, più in generale, la tensione fra materialità mediale e effetto (o senso) delle immagini (Boehm 2007 a, 48-49 e 59)10, che rinviano a un assente (ibid., 38). Il modo in cui il contenuto immaginale intenziona l’assente non è però ben chiarito, anche se la posizione di Boehm ricorda la concezione gadameriana del simbolo come presenza dell’assenza. Dal punto di vista ontologico, comunque, Boehm recupera la posizione assunta da Platone nel Sofista. Se la differenza iconica «fonda la possibilità di vedere una cosa alla luce di un’altra e pochi tratti... come una figura» 10 In quest’ultimo caso, come suggeriscono Heßler e Mersch (2009, 19), si ha da intendere il concetto di differenza in un senso più prossimo a quello nuancé di Derrida che a quello di Heidegger.
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e l’immagine «è al tempo stesso una cosa e una non-cosa, si trova nel mezzo fra la mera realtà e gli aerei sogni» (assume cioè lo statuto di una «irrealtà reale»: ibid., 37), ci troviamo proprio di fronte allo stesso paradosso ontologico che già aveva colpito Platone, spingendolo a perpetrare il “parricidio” di Parmenide, ossia il rigetto dell’unilaterale affermazione dell’essere e dell’altrettanto unilaterale negazione del non-essere. In aperta polemica con la concezione peirceana del “segno iconico”, Boehm (2007, 33) difende l’autonomia dell’immagine come chiave di lettura di un orizzonte storico e come oggetto di interesse di per sé, svincolata da riferimenti a testi esterni e dalla logica della predicazione11. Sennonché gli si può obiettare che l’immagine non è sui ipsius interpres, che la sua autoevidenza e la sua chiusura sono puramente illusorie: possiamo attribuirle – con Mitchell – una funzione appellativa, imperativa, fors’anche interrogativa, ma non una funzione puramente “percettiva”. Allo stesso modo, è illusorio pensare di poter leggere le immagini a partire dalle immagini stesse: Mitchell (2007, 38) ha buon gioco nel ricordare a Boehm che, come si è già detto, nelle immagini ottenute con le nuove tecnologie il punto di partenza non è una costruzione analogica, ma digitale, e per interpretarle non si può prescindere dal processo con il quale vengono generate12. Studiare le immagini non è soltanto un’operazione di tipo scientifico e storico-antiquario, nel senso in cui l’intendeva la tradizionale Kunstgeschichte nella sua aspirazione a trasformarsi in Kunstwissenschaft, ma significa anche cercare di penetrare la complessa struttura psicologica, culturale, sociale, che sta dietro la produzione di una certa epoca, di una certa civiltà, di una certa convenzione rappresentazionale. Come Mitchell sottolinea concludendo la sua risposta alla lettera di Boehm, chiedersi “cosa vogliono le immagini” significa anche interessarsi alla comunicazione fra individui e culture: cercare di comprendere un’immagine è anche cercare di comprendere sia come noi comprendiamo gli altri e ci autocomprendiamo sia come gli altri comprendono noi e si autocomprendono. Del resto, non si deve mai 11 Risulta ovvio da ciò che l’“astrazione” del Bild di Boehm è assai diversa da quella dell’image di Mitchell. Sul carattere antipredicativo della proposta di Boehm: Huber 2006, 67 e Kapust 2009, 278. 12 Cfr. pure i rilievi di Griffero (2009, 281), che si appuntano sulla difficoltà di evitare la struttura semiotica del rinvio e sui limiti della teoria di Boehm di fronte ai problemi posti dall’immagine digitale, che non è “fusione” di immagine e supporto.
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dimenticare che, in un’ottica “poliglotta” (à la Lotman), l’autocomprensione e l’autoriconoscimento passano anche attraverso la comprensione e il riconoscimento dell’altro, in cui gioca oggi un ruolo molto importante il medium immaginale. E questa operazione, di carattere inequivocabilmente ermeneutico, ha innegabili conseguenze dal punto di vista socio-politico. Bibliografia Belting, H. (20063), Bild-Anthropologie. Entwürfe für eine Bildwissenschaft, Fink, München. Boehm, G. (20064), “Die Wiederkehr der Bilder”, in Id. (Hrsg.), Was ist ein Bild?, Fink, München 11-38 [trad. it. in Id., La svolta iconica, Meltemi, Roma 2009, 37-67 e in A. Pinotti – A. Somaini (cur.), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Cortina, Milano 2009, 39-71]. Boehm, G. (2007), “Iconic Turn. Ein Brief ”, in H. Belting (Hrsg.), Bilderfragen. Die Bildwissenschaften im Aufbruch, Fink, München, 27-36. Boehm, G. (2007a), “Jenseits der Sprache? Anmerkungen zur Logik der Bilder”, in Id., Wie Bilder Sinn erzeugen. Die Macht des Zeigens, Berlin Univ. Press, Berlin, pp. 34-53 [trad. it. in Id., La svolta iconica, cit., 105-124]. Eco, U. (19859), Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano. Frank, G. (2009), “Literaturtheorie und visuelle Kultur”, in K. Sachs-Hombach (Hrsg.), Bildtheorien. Anthropologische u. kulturelle Grundlagen des Visualistic Turn, Suhrkamp, Frankfurt/M., 354-392. Frank, G. – Sachs-Hombach, K. (2006), “Bildwissenschaft u. Visual Culture Studies”, in K. Sachs-Hombach (Hrsg.), Bild und Medium. Kunsthistorische u. philosophische Grundlagen der interdisziplinären Bildwissenschaft, H. v. Halem Verlag, 184-196. Griffero, T. (2009), “Postfazione. La (irresistibile?) ‘carriera’ dell’immagine”, in G. Boehm, La svolta iconica, cit., 277-295. Heßler, M. – Mersch, D. (2009), “Bildlogik oder Was heißt visuelles Denken?”, in M. Heßler – D. Mersch (Hrsgg.), Logik des Bildlichen. Zur Kritik der ikonischen Vernunft, Transcript, Bielefeld, 8-62. Huber, H.D. (2006), Über das Beschreiben, Interpretieren u. Verstehen von internetbasierten Werken, in K. Sachs-Hombach (Hrsg.), Bild und Medium, cit., 261-272.
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Emanuele Antonelli Dalla bilancia alla spirale La contaminazione del trascendentale e la rivoluzione della complessità Donc, toutes choses étant causées et causantes, aidées et aidantes, médiates et immédiates, et toutes s’entretenant par un lien naturel et insensible qui lie les plus éloignées et les plus différentes, je tiens impossible de connaître les parties sans connaître le tout, non plus que de connaître le tout sans connaître particulièrement les parties. Pascal, Pensées, II, 72
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ra l’agosto e il dicembre del 1971, l’allora presidente degli Stati Uniti d’America, Richard Nixon, promosse e portò a termine una serie di riforme di politica monetaria che sarebbero poi state ricordate come Nixon shock. Nel corso dell’anno successivo, René Girard pubblicava La violence et le sacré, il secondo volume della sua eccentrica quadrilogia. Jacques Derrida ripubblicava in due raccolte di più agile reperibilità, Marges – de la philosophie e La dissémination, due saggi che gli avevano già garantito fama internazionale, La pharmacie de Platon, uscito alcuni anni prima su Tel quel, rivista di punta dell’avanguardia letteraria extra-accademica parigina, e il testo della conferenza La différance. Tra questi eventi non esiste alcuna relazione diretta, a parte il riconoscimento da parte di Girard, proprio nel volume del ’72, dell’acume logico e della creatività analitica messe in campo dal più giovane compatriota nella lettura del Fedro. Se l’analisi Nel 2007 l’editore parigino Grasset ha reso evidente questa coimplicazione ripubblicando in un unico volume, De la violence à la divinité, i volumi della quadrilogia in questione, Mensonge romantique et vérité romanesque, La violence et le sacré, Des choses cachées depuis la fondation du monde, e Le bouc émissaire, tutti precendentemente editi per i medesimi tipi. A quell’epoca, e ormai da quasi vent’anni, René Girard viveva negli Stati Uniti, patria adottiva presso la quale aveva contribuito in modo determinante all’importazione della poi rinomata French Theory, non tanto per la propria opera teorica, per lo
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dei lavori pubblicati sino a tale data dai due maîtres à penser francesi permette di istituire una relazione di complementarietà (Antonelli 2011), l’inaspettata coincidenza con gli eventi che condussero al silenzioso crollo del Gold Standard e del sistema monetario di Bretton Woods seguito alle riforme Nixon offre l’opportunità di scovare tra le pieghe di questi riferimenti incrociati, i prolegomeni di una rivoluzione paradigmatica di cui ancora oggi stentiamo ad accettare l’eredità. René Girard e Jacques Derrida condividono, pur con le dovute distinzioni metodologiche e disciplinari, una comune intenzione critica nei confronti della vague strutturalista in cui si erano trovati coinvolti : entrambi individuano nella contestazione dell’atemporalità della struttura trascendentale tratteggiata da Lévi-Strauss lo spazio nel quale introdurre un’apertura, o una rottura delle maglie del progetto teorico del grande antropologo. I concetti fondamentali di Derrida e di Girard, manifestando senza alcuna riserva il debito teoretico nei confronti del contesto culturale dominante, rivelano tale intenzione : la nozione di différance e quella di crisi sacrificale, o di indifferenziazione. Se la différance è ciò che crea le differenze di cui è costituita la struttura di rimandi disegnata da Lévi-Strauss, l’indifférance è il nome che potremmo dare a ciò che le distrugge; se per Derrida si trattava di cogliere i processi di genesi della struttura, per Girard si trattava invece di comprendere cosa succede quando la struttura delle differenze viene meno: genesi del trascendentale e autotrascendenza del sociale. Il tema della genesi del trascendentale attraversa le pagine di Derrida sin dalla stesura del Mémoire Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl, per farsi dominante nella fase centrale della traiettoria intellettuale del filosofo franco-algerino, nel torno d’anni che intercorre tra la pubblicazione dell’Introduction à “L’origine de la géométrie” de Edmund Husserl (1962) e La dissémination (1972). Formatosi alla scuola di un autore come Jean Hyppolite (Hyppolite 1946), Derrida approfondisce l’interesse per la relazione tra genesi e struttura, ovvero tra empirico e trascendentale, e imposta il proprio conflitto con lo strutturalismo imperante retrodatandolo al dibattito interno al pensiero di Husserl tra antilogicismo e antipsicologismo e ancora prima alla contestazione hegeliana della dimensione formale del trascendentale kantiano e la conseguente contrapposizione radipiù misconosciuta nell’Hexagon, ma a seguito dell’organizzazione, nel 1966, presso la Johns Hopkins University di Baltimora, di un celebre colloquio a cui aveva invitato, tra gli altri, proprio Jacques Derrida.
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cale con l’empirico. Derrida, leggendo e criticando Husserl, intuisce le potenzialità della riflessione del padre della fenomenologia sulla questione e sul ruolo della temporalità nella genesi del trascendentale – e sul superamento della concezione kantiana dell’idealità del tempo, topos originario della questione (Piana 2001, 29) – e ridefinisce la relazione tra i due poli della dialettica hegeliana nei termini del differimento: il trascendentale si scopre così come un empirico differito. Questo tema si afferma nella riflessione di Derrida presentandosi ora come riflessione sulla genesi del trascendentale, ora come contestazione del primato della voce, ovvero della presenza sulla scrittura nella cosiddetta metafisica occidentale, ora come critica della pretesa illusoria di individuare un’origine pura del senso. Il problema affrontato da Derrida si può così sintetizzare: individuare e descrivere l’apparizione genetica del fondamento assoluto (Derrida 1992, 64-65). Nello spazio che abbiamo qui a disposizione non è possibile presentare la questione se non nella sintesi che se ne può offrire ricordando la riflessione antonomastica di Derrida sul tema della scrittura. Commentando l’Origine della geometria di Husserl, Derrida si rende conto che in quelle stesse pagine – stese al tramonto dell’esperienza intellettuale del grande filosofo moravo – emerge, pur nella forma della descrizione e non della dichiarazione, il ruolo costitutivo eppure rimosso del segno scritto nella genesi delle idealità geometriche e matematiche. Il fatto che la riflessione pitagorea alle origini della geometria sia stata scritta non è inessenziale alla costituzione delle idee che ancora oggi fondano la geometria. Se non fossero state scritte, esternalizzate nella dura materia, oltre che mataforicamente incise nella memoria dello stesso Pitagora (o di qualsiasi altro protogeometra), esse si sarebbero perse o ancor peggio non sarebbero mai potute essere pensate. La scrittura si trova così a porsi come condizione di possibilità delle idealità stesse in una mise-en-abîme che scardina completamente la tradizionale relazione tra significato e significante. La pratica della decostruzione ritrova la medesima relazione viziosa tra tutti quei termini che nella storia della filosofia si presentano come «pieni, autosufficienti, presenti a se stessi (come per esempio la Natura, la Parola, l’Origine, il Senso)» e quei termini, presentati come «secondari e subordinati (per esempio la cultura, la scrittura, il supplemento, la forma), che non dovrebbero essere in principio altro che una semplice derivazione, complicazione, manifestazione o negazione del termine principale e che invece si rivelano indispensabili alla costituzione di quest’ultimo» (Dupuy 1992, 278).
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L’operazione di Derrida non si limita però semplicemente a invertire la gerarchia tra l’uno e l’altro polo dell’opposizione: non si tratta di fare della scrittura il vero trascendentale del senso né tanto meno di rovesciare la relazione di dipendenza e di condizionamento tra empirico e trascendentale. Il concetto con il quale Derrida prova a risolvere la questione, salvando le ragioni del trascendentale, è quello di contaminazione. Tra trascendentale ed empirico esiste una relazione di co-implicazione e di vicendevole condizionamento. Per noi si tratterebbe ora di capire se sia possibile, laddove Derrida inizia a riflettere sulla relazione contrastiva ma al tempo stesso trasduttiva (per usare un termine che non molti anni prima era stato utilizzato da Gilbert Simondon in una riflessione per molti versi analoga), ovvero sulla contaminazione tra trascendentale ed empirico – e tra il possibile e l’evento (1987) e ancora in generale tra autonomia ed eteronomia –, intendere il tentativo di tradurre e riconfigurare, nel confronto inesausto e mai eluso con la tradizione, le nozioni fondamentali della filosofia occidentale in modo tale da metterle al passo coi tempi di una rivoluzione paradigmatica in procinto di compiersi. È come se Derrida cercasse di liberare la nozione di trascendentale dai limiti di una meccanica classica e di una causalità lineare. Nel negare la possibilità stessa di un’origine pura, senza però rinnegare l’esistenza del senso, nel contestare la purezza del condizionante, senza però abbandonare a se stesso il condizionato, Derrida pare interpretare a suo modo una particolare sensibilità, zeitgeistliche, ai temi della rivoluzione paradigmatica della complessità. Uno dei punti salienti nei quali tale ipotesi trova maggior spazio di manovra è l’analisi della nozione di evento dalla quale emerge che esso, per Derrida, è ciò di cui non si può fare analisi trascendentale se non a posteriori, ciò che per definizione eccede le proprie condizioni di possibilità. Si potrebbe dire che l’evento è tale solo nel momento in cui ha già prodotto le sue condizioni di interpretabilità, ovvero nel momento in cui da evento si è fatto criterio, cioè, al tempo stesso, altro da sé e condizione della propria identificazione. Questa struttura argomentativa cerca di affrontare nel gergo della tradizione filosofica lo stesso problema che le teorie e le scienze della complessità stavano affrontando, grosso modo nello stesso momento, con la nozione di emergenza autopoietica. Altrettanto si può dire per quanto riguarda il quasi-trascendentale che, nella sua contaminazione con l’empirico, si potrebbe con agio ricondurre alla tipologia di que-
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stioni trattata in altri contesti per esempio sotto il nome di path-dependency e più in generale come complessità. La nozione di trascendentale contaminato apparirebbe così come la migliore traduzione della nozione di emergenza che, in tempi tutto sommato vicini a quelli in cui Derrida lavorava su tali questioni, iniziava ad essere oggetto di divulgazione da parte di alcuni dei più brillanti scienzati dell’epoca, molti dei quali parigini d’adozione come lo stesso Derrida. Il tratto essenziale di questa associazione va ravvisata nel reintegro dell’empirico, e quindi dello storico, nell’analisi trascendentale: la nozione di contaminazione introduce nel linguaggio della filosofia una traduzione dei problemi legati agli effetti di ritorno (feedback). Ciò che più conta per l’economia del nostro intervento non è però quella che un po’ paradossalmente potremmo definire la pars construens del discorso derridiano, ovvero la concezione dei processi complessi che presiedono alla genesi della struttura differenziale (e dell’autonomia, e dell’origine, e della presenza, nozioni che Derrida non nega ma decostruisce nella loro contaminazione), quanto la pars destruens, ovvero la decostruzione vera e propria. In risposta alle domande di chiarimento di un traduttore giapponese, Derrida, concedendosi un raro testo di spericolata autopresentazione, scrive che, piuttosto che essere un gesto, un atto o un’operazione, «la decostruzione ha luogo» (Derrida 1984, 9). Con questa sentenza Derrida traduce la natura della sua riflessione da «pratica di lettura» orientata a verificare l’origine del senso nella testualità del discorso (Dalmasso 1972, 178), in testimonianza di un evento che «non attende la deliberazione, la coscienza o l’organizzazione del soggetto, né della modernità» (Derrida 1984, 9). Proprio nella chiusura di questa nota si coglie uno dei tanti accenni che permettono di instaurare una relazione di analogia e complementarietà con il pensiero di René Girard. La teoria mimetica si compone di una riflessione (morfo)genetica, dedicata all’analisi individualisticamente complessa (Dupuy 2008) dei fenomeni di costituzione degli oggetti collettivi, e di una testimonianza del processo attivo Proprio su questo punto Derrida segna una distinzione netta rispetto a Heidegger, guadagnando un buon argomento per difendere la tesi, spesso malintesa, secondo cui quest’ultimo era rimasto a suo modo ancora invischiato nella metafisica. È proprio nel passaggio dalla cesura netta che nel filosofo tedesco ancora si registra tra il condizionante e il condizionato, alle nozioni convergenti di quasi-trascendentale e contaminazione, che si gioca questa partita.
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di decostruzione delle medesime strutture. La riflessione di Girard ruota attorno alle nozioni di crisi di indifferenziazione e di ‘capro espiatorio’; attraverso questi due concetti, egli mette in scena il gioco dell’indifférance e della différance, ovvero del caos e dell’operatore di differenziazione, attraverso i quali, e secondo una logica perfettamente immanente, un sistema di relazioni tra individui, una struttura, viene a comporsi. Lo strumento pedagogico migliore per introdurre la logica fondamentale della teoria mimetica è la lettura congiunta che René Girard e Jean-Pierre Dupuy hanno fornito dell’interpretazione freudiana dei fenomeni di massa (Freud 1921). Per Freud l’essenza della massa organizzata si spiega attraverso tre elementi: la libido, l’ambivalenza del narcisismo e la figura del leader. La libido fornisce il legame necessario tra gli individui che compongono la folla e permette che essi, una volta abbandonato il proprio narcisismo primario, possano restare per così dire invischiati nell’adorazione di colui che invece ha mantenuto intatto il proprio narcisismo, il leader. Come farà notare Dupuy (1992), una tale spiegazione richiama quelle tipologie di struttura organizzate attorno ad un punto fisso esogeno a cui tra gli altri lo stesso Derrida si era appassionato (Derrida 1971, 359-377, ove si parla di strutture centrate in un noncentro): la massa organizzata risulta paradossalmente priva del centro, poiché il leader al tempo stesso vi appartiene, in quanto uomo, e non vi appartiene, in quanto intrinsecamente diverso dagli altri, ovvero in quanto singolarità. L’analisi ispirata alla teoria girardiana è più elegante e permette al tempo stesso di risolvere il paradosso osservato da Freud sulla discontinuità radicale tra le masse organizzate attorno ad un leader e il panico. Ammettendo il paradigma del desiderio mimetico, la logica dei fenomeni collettivi si presenta in modo rovesciato rispetto a quanto pensava di aver intuito Freud. La pienezza ontologica di cui pare godere il leader, la sua apparente capacità di non desiderare altro che se stesso, non è causa della chiusura organizzazionale del sistema collettivo, bensì effetto. Non è perché il leader ama se stesso che egli riesce La teoria del desiderio mimetico sostiene che esso non sia suscitato dalle caratteristiche dell’oggetto né dalla libera potenza desiderante del soggetto, ma dalla mediazione di una figura rilevante per colui che desidera, il cui tratto caratteristico è l’aura di ‘pienezza ontologica’ attribuitagli dal desiderante. In realtà, colui che è mediatore e in certi casi oggetto del desiderio è per ciò stesso percepito come desiderabile.
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a collocarsi nella posizione di punto fisso ma, al contrario, è perché si trova ad occupare la posizione su cui convergono le intenzionalità mimeticamente desideranti di tutti gli altri che egli riesce ad amare se stesso: esattamente come tutti gli altri, il leader desidera mimeticamente ma, siccome tutti gli altri lo desiderano, anch’egli finisce per desiderarsi. Nel gergo elaborato da Dupuy, il leader è un punto fisso endogeno, ovvero una differenza prodotta da un sistema che pensa di essere prodotto da essa (Dupuy 1985, 117). Dupuy fornisce così una decostruzione cristallina della genesi dei fenomeni collettivi senza cadere nelle oscurità di Derrida. Unendo le due prospettive, potremmo indicare nel leader il supplemento della massa: il leader non è esogeno, la struttura è centrata su un elemento che appartiene al sistema. Il lavoro di Dupuy permette inoltre di risolvere il paradosso indicato da Freud riconoscendo nella transizione tra folla e panico una semplice sostituzione del punto fisso: non più il leader, ma il sistema stesso. Se in una folla organizzata ogni individuo desidera (e segue, condivide, obbedisce, etc…) il leader, nel panico ogni individuo si orienta in riferimento al sistema stesso. Questa logica dei fenomeni collettivi, battezzata da Dupuy logica del punto fisso endogeno, è un’astrazione del pensiero di René Girard e fornisce, come appena dimostrato, il trait-d’union tra decostruzione e teoria mimetica. Il capro espiatorio, punto fisso endogeno, è l’operatore di differenziazione della struttura, ovvero il supplemento attraverso il quale al tempo stesso si rende possibile e si manifesta l’autotrascendenza del sociale, fenomeno complessivo che rappresenta (o costituisce?) l’occorrenza materiale e antropologica della différance. Il rapporto di complementarietà istituito tra le due prospettive prevede anche un effetto di ritorno: la relazione ontologica ed epistemologica tra punto fisso esogeno e punto fisso endogeno potrebbe essere riformulata in analogia a quella che unisce e contamina trascendentale ed empirico: il punto fisso esogeno non sarebbe allora altro che un punto fisso endogeno differito. Cosa c’entra in tutto questo il crollo del Gold Standard condizionato dalle politiche monetarie dell’amministrazione Nixon? Jean-Pierre Dupuy individua nella teoria del punto fisso endogeno la risposta teorica, ispirata e resa possibile dall’evoluzione della cibernetica e delle scienze della complessità (Dumouchel, Dupuy 1983) al problema fondamentale della modernità, ovvero al problema dell’autonomia. Il punto fisso è l’operatore della chiusura organizzazionale di
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un sistema: se concepito come esogeno, cioè estraneo o trascendente al sistema, esso rischia di porsi come vettore di alienazione (Dio, l’ordine mitico, il monarca sacro, il sistema della caste sono solo alcuni degli esempi con cui potremmo dare un contenuto semantico accessibile all’astrazione formale di Dupuy) o almeno potremmo dire che come tale esso ha iniziato ad essere percepito nella modernità. Se esplicitamente concepito come endongeno esso è però inesorabilmente instabile: se tutti sanno che un monarca non ha alcuna investitura divina diventerà presto o tardi un monarca costituzionale, un ordine sociale la cui struttura differenziale si squaderni nella sua genesi occasionale e contingente sarà oggetto di riforme, o rivoluzioni, e non di ossequioso rispetto. Dupuy ritiene, e noi con lui, di poter quindi interpretare il problema della modernità come un problema di sostituzione: venuto meno, a causa delle guerre di religione susseguitesi per circa due secoli dopo la Riforma, il trascendentale assoluto che aveva reso possibile la solidità del Medio Evo, la modernità si trova a dover individuare una chiusura organizzazionale che permetta di ritrovare la sicurezza e la stabilità perdute con la frammentazione della struttura precedente. Hobbes e Rousseau su tutti cercano di proporre una soluzione che può chiaramente essere reinterpretata nei termini coniati da Dupuy: il Leviatano per Hobbes e la Legge per Rousseau rappresentano con evidenza due tentativi di trasformare in punti fissi esogeni il risultato di una contrattazione immanente. Quella che Rousseau alla fine della sua vita indicava come quadratura del cerchio viene riletta da Dupuy come tentativo di creare una struttura autonoma, ovvero, per riformulare il problema in un gergo ancora in voga nel XVII secolo, essere causa di un ente causa sui. L’avviso di Dupuy, magistralmente esposto in due saggi, fondamentali ma ancora per lo più misconosciuti, degli anni Novanta (Dupuy 1992a, Dupuy 1992b) è che la soluzione al problema individuato da Hobbes e Roussaeu sia stata trovata nelle retoriche della «mano invisibile» inaugurate tra gli altri da Adam Smith. La trasformazione fondamentale risiede però non tanto nella struttura logica della soluzione, sempre riformulabile nei termini dell’autotrascendenza del sociale, quanto nella posizione assunta dall’osservatore: se Hobbes e Rousseau cercavano di costituire attivamente un punto fisso esogeno, scontrandosi per così dire con un’intrinseca mancanza di tempo, Smith si propone di osservare tale struttura, nella natura delle cose.
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Nella sintesi di Dupuy potrebbe però esistere un angolo cieco che proprio nel 1971 si è reso visibile. La mano invisibile è la descrizione di un fenomeno di autoregolazione del sociale, nella sua forma ormai dominata dall’economico, che si basa a sua volta su una condizione trascendentale specifica, ovvero su di uno standard universale, fondamento inconcusso di ogni transazione rimasto celato nella sua opacità: il Gold Standard. Come spiega André Orléan, il principio fondamentale di ogni scambio è l’equivalenza in valore (Orléan 2011, 20). Solo una moneta ancorata ad uno standard trascendente e non al potere di arbitrato di un referente politico ormai immanente allo stesso sistema di cambi che dovrebbe essere chiamato a regolare, permette di fissare le equivalenze in valore nel tempo, condizione di possibilità di ogni relazione commerciale stabile. Il fatto che la questione non sia saltata agli occhi di Dupuy non può essergli imputato troppo severamente visto il trattamento riservato alla moneta nelle teorie economiche classica e marginalista, in tutto e per tutto analogo a quello che, per quanto abbiamo accennato della riflessione di Derrida, la metafisica riserva alla scrittura (Orléan 2011). L’operazione che non era riuscita né ad Hobbes né a Rousseau, riesce, passando quasi inosservata nelle sue dinamiche profonde, a John Locke, autore trascurato dalle analisi di Jean-Pierre Dupuy. Le condizioni contestuali in cui Locke si trova ad operare sono decisamente migliori di quelle che avevano ispirato Hobbes, ma il caos della guerra civile che aveva indotto il grande filosofo politico ad individuare nel Leviatano la forma trascendentale dell’interazione sociale è ancora un fresco ricordo. A differenza di quanto propose Hobbes e di quanto proporrà Rousseau, Locke non cerca di attribuire ad esseri umani o a oggetti di deliberazione il ruolo di punto fisso esogeno, ma individua un oggetto sociale caratterizzato da una straordinaria opacità: non un re, non la Legge, ma la moneta. Trovandosi a partecipare direttamente alle operazioni del Great Recoinage del 1695-1696, John Locke si oppone a William Lowndes, Segretario del Tesoro inglese, portando avanti la tesi che finirà per prevalere e che condurrà all’istituzione di una forma non ancora definitiva di Gold Standard. Le ragioni essenziali dell’operazione di John Locke risalivano all’esigenza di ricreare le condizioni perché il Governo Civile potesse garantire, attraverso una politica economica appropriata, la stabilità dell’ordine sociale e politico (Locke 1691). L’obiettivo di Locke fu quindi quello di individuare un punto di riferimento, un nuovo fon-
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damento inconcusso, uno standard che fornisse a tutti gli individui la certezza e la sicurezza necessarie per dare seguito alle proprie attività imprenditoriali, commerciali e finanziarie. La storia delle istituzioni monetarie dell’Occidente nei secoli precedenti al Great Recoinage della fine del XVII secolo ci permette di rendere evidente il problema. Fino a tutto il Cinquecento, il sistema finanziario europeo era stato dominato dal regime della cosiddetta moneta immaginaria, la cui caratteristica essenziale, almeno per i nostri interessi, era di essere una moneta sottratta al mercato e sottomessa all’arbitrio del principe; nata con Carlo Magno, aveva mantenuto la propria stabilità formale e simbolica fintanto che il Sacro Romano Impero aveva goduto di una qualche forma di autorità territoriale, cioè essenzialmente fino all’abdicazione di Carlo V d’Asburgo. Massimo Amato stabilisce un’analogia molto rilevante per i nostri fini tra il mito regalistico politico dell’Impero e l’oro coniato: il riferimento inconcusso, in un «mondo» dominato da un’entità politica trascendente, condivisa e unica, era l’oro coniato, metallo trasformato in un simbolo di sovranità (Amato 2008, 232). Sottratta al mercato, il potere liberatorio della moneta immaginaria – ovvero la capacità di emancipare il portatore della moneta effettiva dai debiti – era oggetto di deliberazione del principe: riconosciuto come punto fisso esogeno, il principe aveva l’autorità necessaria per stabilire di volta in volta (con una cadenza grosso modo venticinquennale) la ragione del rapporto fra creditori e debitori. Il percorso che porta alla nascita degli Stati Moderni e che vedrà la fine del regime della moneta immaginaria, stravolge una condizione essenziale al potere di arbitrato del principe, la sua esogenità. Proprio nel corso delle guerre di religione, e poi in modo crescente, non solo È celebre la sentenza di J.M. Keynes secondo il quale la «storia della moneta inizia con Solone», ovvero con l’operazione nota come seisachtheia, dal greco «scuotimento dei pesi». Con questo provvedimento, Solone, nel 594 a.C. segnò il proprio operato nel campo delle riforme sociali ed economiche. I pesi a cui si fa riferimento sono, probabilmente, i cippi con cui venivano identificate le proprietà terriere degli ateniesi, e che nel corso del tempo erano stati spostati secondo le nuove relazioni creditorie e debitorie, sproporzionate. Secondo alcuni storici la seisachtheia avrebbe annullato solo i debiti garantiti dalle persone, cioè quelli che implicavano il pericolo della schiavitù. Secondo altri invece si potrebbe individuare in questa riforma, un corrispettivo della «funzione giubilare dell’indebolimento», ben sintetizzata dal detto talmudico per cui «si può essere costretti a lavorare per ripagare i debiti dei propri padri, ma non quelli dei propri nonni».
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il progetto universalista dell’Impero viene definitivamente meno, ma soprattutto il principe smette i panni di ens super partes per diventare debitore delle somme sempre più ingenti necessarie a far fronte alle spese militari. In quanto parte in causa, il suo potere di arbitrato viene meno naturalmente. Venuta meno quella specifica forma di auctoritas e con essa la possibilità di stabilire per via politica il potere liberatorio della moneta, l’alternativa intuita e indicata da Locke fu quella di stabilizzare il rapporto tra unità di conto ed equivalente metallico (Amato 2008, 120). Locke vinse la controversia con Lowndes (Dang 1997) perché si rese conto che la stabilità dell’ordine sociale e politico si può garantire non tanto attraverso la possibilità di condividere risorse e poteri – una soluzione inversa ma analoga a quella di Hobbes – bensì garantendo una misura comune. Locke impose una nuova rappresentazione della moneta, in modo così convincente che per lungo tempo non richiederà né dimostrazione né quasi argomentazione, e pose fine al sentimento fondamentale del barocco che aveva dominato il XV e il XVI secolo e che Shakespeare ha così ben sintetizzato in uno dei suoi versi più famosi: « the time is out of joint » (Hamlet, Atto I, scena 5, 186-190). Il sistema del Gold Standard si istituisce, anche se mediante il contributo analitico determinante di John Locke, in modo quasi spontaneo (Amato 2008, 110) e proprio grazie all’opacità caratteristica dei fenomeni spontanei riesce a differire l’endogeneità dell’oro. Metallo prezioso, merce tra le merci, l’oro viene come espulso dal consesso delle altre merci per farsi punto fisso esogeno, standard comune, fondamento inconcusso di ogni relazione economica, forma trascendentale delle interazioni umane ormai pronta a diventare definitivamente dominante (Hirschman 1977). Si tratta ora di capire che relazione possa effettivamente unire le riforme del 1971, considerate come termine della storia monetaria sin qui brevemente sintetizzata, alle riflessioni di Derrida e Girard. Anche la teoria mimetica, analogamente alla riflessione di Derrida, contiene una dimensione decostruttiva che si manifesta nei termini di un’ermeneutica biblica e di una filosofia della storia. La terza anima della riflessione di Girard, dopo la teoria del desiderio mimetico (1961) e la teoria del meccanismo vittimario (1972), consiste nella formulazione di una chiave di lettura del testo biblico fondata a sua volta sulla nozione di capro espiatorio. Se la teoria mimetico-vitti-
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maria elaborata fino al 1972 individuava nel dio un capro espiatorio differito, il complemento biblico di tale teoria individua nei Vangeli – in continuità con l’Antico Testamento – la rivelazione di quella stessa verità che, per così dire, Girard pensava di aver scoperto nei saggi precedenti (Girard 1978). La Passione di Cristo sarebbe così l’evento che ha insegnato a individuare nel sacro arcaico il risultato di una pratica sociale méconnue, la vittimizzazione di capri espiatori. Un altro modo di presentare la stessa materia, utilizzando una combinazione di gergo biblico e complesso, potrebbe essere quella di considerare la kenosis del Cristo (San Paolo, Lettera ai Filippesi) come la prima endogeneizzazione di un punto fisso e indicazione pratica ed esemplare dell’abbassamento di ogni punto fisso a venire. Ora, per quanto riguarda la teoria mimetica, il vettore della rivelazione e della progressiva endogeneizzazione dei punti fissi, è proprio la rivelazione del meccanismo mimetico-vittimario, ovvero di quegli effetti di sistema che si realizzano mediante la discriminazione violenta di vittime espiatorie, in una parola: un senso di giustizia. Tutto ciò risuona a sua volta con la progressiva evoluzione della decostruzione, da pratica di lettura imbevuta di filosofia del sospetto, a testimonianza di qualcosa che ha luogo, sino alle ultime fasi della riflessione di Derrida, in cui si dirà che «la decostruzione è la giustizia» (Derrida 1998, 17). Con netto anticipo sull’indicazione all’amico giapponese di Derrida, gli Stati Uniti d’America, guidati da Richard Nixon, abolendo il Gold Standard mettono in atto un’operazione coraggiosa o forse incosciente, di liberazione della pratica sociale, politica ed economica, da ogni utopia del fondamento. Se la decostruzione, girardiana o derridiana, è giustizia, ma al tempo stesso testimonianza di qualcosa che avviene, per così dire per conto suo, lo scioglimento del Gold Standard, che altro non è che una tappa della lunga storia dell’abbassamento di tutti i punti esogeni, di indebolimento di tutti i fondamenti presuntamente inconcussi, è una prova a suo favore. Parlare di deduzione sociale delle categorie scientifiche della complessità potrebbe non essere del tutto improprio, ma se non è forse Il correlato di questa tesi è che nel momento in cui tale velo, tale méconnaissance è lacerata, i processi teogonici all’origine delle religioni arcaiche vengono compromessi. Così commentò Milton Friedman secondo il quale togliere ogni ancora reale al valore della moneta «fu un grande esperimento» (Friedman 1992, 50).
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ancora il caso di spingersi tanto avanti, è certo che i tre fenomeni qui indagati, guidati e prodotti da un medesimo senso di giustizia e di libertà, abitano, più o meno consapevolmente, la sostituzione teorica e pratica dei fenomeni lineari, classici, univoci e fondati con fenomeni emergenti, effetti di ritorno e logiche autorinforzanti. In una parola, il passaggio dalla bilancia alla spirale. Bibliografia Amato, M. (2008) Le radici di una fede: per una storia del rapporto fra moneta e credito in Occidente, Mondadori, Milano. Antonelli, E. (2011), La creatività degli eventi. René Girard e Jacques Derrida, L’Harmattan Italia, Torino. Dalmasso, G. (1972), Logo e scrittura in Jacques Derrida, Università Cattolica del S. Cuore, Ist. di Filosofia-Contributi, Milano. Dang, A.T. (1997), «Monnaie, libéralisme et cohésion sociale. Autour de John Locke», in Revue économique 48.3, pp. 761–771. Derrida, J. (1992), Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, trad. it. di V. Costa, Jaca Book, Milano [Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl, P.U.F., Paris 1990]. Derrida, J. (1971), La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane, in Id., La scrittura e la differenza, trad. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino, pp. 359-376 [La structure, le signe et le jeu dans le discours des sciences humaines, in Id., L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, pp. 409-428]. Derrida, J. (1984), Lettera a un amico giapponese, in “Rivista di estetica”, XXV, n. 17, pp. 5-10 [Lettre à un ami japonais, in Id., Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris (1984) 1987, pp. 387-393]. Derrida, J. (1987), Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris. Derrida, J. (1998), «Diritto alla giustizia», in Gianni Vattimo (cur.), Annuario filosofico europeo (fasc. Diritto, giustizia e interpretazione), Laterza, Roma-Bari, pp. 3-36. Dumouchel, P., Dupuy, J.-P. (1983), L’auto-organisation. De la physique au politique. Colloque de Cerisy, Seuil, Paris. Dupuy, J.-P. (1985), Totalisation et méconnaissance, in P. Dumouchel (éd.), Violence et vérité. Colloque de Cerisy autour de René Girard, Grasset, Paris, pp. 110-136. Dupuy, J.-P. (1992a), Introduction aux sciences sociales. Logique des phénomènes collectifs, Ellipses, Paris.
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Seconda sezione Discipline di confine
Ilaria Boeddu L’estetica della filosofia analitica: autenticità, originale e copia
1. Opere d’arte e mere cose: la teoria estetica di A.C. Danto
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mmaginiamo una suggestiva e alquanto insolita mostra di quadri rossi: siamo in un’ampia sala espositiva di una galleria d’arte e un curatore piuttosto metodico ha voluto proporci una serie di opere tutte su temi diversi, eppure tutte curiosamente simili – per non dire identiche – una all’altra. Sono, letteralmente, tutti quadrati rossi. Vi troviamo un dipinto che gioca sul doppio senso che si può racchiudere nel titolo e pretende d’essere una veduta della Red Square (Piazza Rossa) moscovita, magari colta nella luce di un’accecante tramonto rossastro. Accanto c’è esposta un’opera minimalista dell’astrattismo geometrico che ha lo stesso titolo dell’opera precedente, ma un significato e un contenuto totalmente diversi: Red Square (Quadrato Rosso). Continuando la visita incappiamo in una natura morta estremamente realistica, una Tovaglia Rossa e, subito di seguito, un’opera in realtà non finita, attribuita a Giorgione, che avrebbe dovuto rappresentare una Conversazione Sacra, ma che, per cause ignote, non è mai stata realizzata: il lavoro dell’artista si è fermato alla preparazione della tela con il colorante rosso, il minio. Tra i visitatori perplessi vi è un certo J., giovane aspirante artista, il quale trova profondamente ingiusto ed assurdo che tutti questi quadrati di tela rossa possano essere assunti indiscriminatamente allo status di opere d’arte. Sostenuto dai mormorii dei presenti e dall’idea del “potrei facilmente farlo anch’io”, inizia a dipingere totalmente di rosso una tela e la propone al curatore come ulteriore esemplare da aggiungere alla collezione, con l’ovvia e prevedibile etichetta Senza titolo. Questa galleria di quadri rossi è l’immagine con cui inizia The Transfiguration of the Commonplace, uno dei principali testi dell’estetica analitica contemporanea (Danto 2008a). Arthur Danto, il suo autore, ci porta in questo modo direttamente al centro della questione
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estetica contemporanea: che cosa è un’opera d’arte, o, meglio, cosa ci permette di distinguere un’opera d’arte da un semplice oggetto qualsiasi, nonostante siano entrambi assolutamente identici da un punto di vista percettivo? Tornando al nostro esempio, il quadro di J. ci appare immediatamente, infatti, come piuttosto “vuoto”, privo, a differenza delle altre opere, di spessore e di riferimenti culturali, a cominciare dal titolo: insomma, come sostiene Danto, «nonostante J. abbia prodotto un’opera d’arte (piuttosto minimale) indistinguibile a occhio nudo da una semplice superficie dipinta di rosso, non è riuscito nel suo intento di trasformare quella superficie rossa in un’opera d’arte» (Danto 2008a, 6). Ciò che fa difetto all’operato di J. è, secondo Danto, l’aboutness, la referenzialità: in maniera analoga al linguaggio, infatti, ci avverte immediatamente il filosofo, le opere d’arte sono tipicamente a proposito di qualcosa. Emerge così, sin dalle prime pagine in cui Danto inizia a presentarci la sua teoria, una caratteristica diffusa nell’approccio analitico alla questione dell’arte: l’indagine ontologica finisce spesso con l’intrecciarsi a questioni di autenticità e originalità delle opere. La ragione di ciò la si ritrova, per quanto concerne Danto, nello stesso processo tramite il quale egli arriva alla formulazione del suo pensiero: parte, infatti, direttamente dall’arte nelle sue più concrete ed attuali manifestazioni, nello specifico da quel fenomeno artistico “rivoluzionario” che sono state le Brillo Boxes di Andy Warhol. Nel 1964 il filosofo, ancora ai suoi esordi, assiste alla personale dell’artista pop presso la Stable Gallery di New York e subito pubblica l’articolo intitolato “The Artworld” (Danto 2007a). Per Danto l’incontro con il lavoro di Warhol è fondamentale poiché gli permette di focalizzare al meglio la questione estetica di cui aveva intenzione di occuparsi: «Warhol non fu il primo a sollevare la questione dell’arte nella sua forma più radicale, ma egli ridefinì la forma della questione: non chiedeva più ‘Cos’è l’arte?’ ma ‘Qual è la differenza fra due cose, esattamente identiche, una delle quali è arte e l’altra no?’» (Danto 2010a, 23). Sintetizzando, giunto alla conclusione che «nessun esame sensoriale di un oggetto mi dirà che è un’opera d’arte, dato che può corrispondere qualità per qualità a un oggetto che non lo è, almeno per quanto riguarda quelle qualità cui reagiscono normalmente i sensi» (Danto 2008a, 120), Danto propone di stabilire una distinzione (ontologica) tra l’opera e il suo sostrato materiale (Danto 2008a, 126). L’opera d’arte non sarebbe cioè definibile come tale sulla base di un’indagine
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relativa alle proprietà fisicamente percettibili della controparte materiale dell’opera stessa, ossia di tutti quegli aspetti fisico-percettivi che un’opera, come avviene nel caso emblematico delle Brillo Boxes, potrebbe avere in comune, del tutto o quasi, con mere cose assolutamente non artistiche. Piuttosto, la definizione dell’opera d’arte ha a che fare con la sua capacità di essere sempre a proposito di qualcosa, proprietà che Danto identifica con il concetto di aboutness. Detto altrimenti, «le opere d’arte, anche se hanno controparti che sono mere cose reali, logicamente stanno dalla parte delle parole, in quanto anch’esse sono a proposito di qualcosa (o almeno possono suscitare legittimamente la domanda a proposito di che cosa siano)» (Danto 2008a, 99). L’impronta del ragionamento impostato da Danto è sicuramente d’origine idealistica ed è lo stesso filosofo a citare più volte Hegel come fonte d’ispirazione per la sua teoria. Le scatole Brillo e l’opera di Warhol potranno anche condividere appieno l’aspetto materiale e sensibile, ma ciò in cui differiscono è l’elemento ideale, referenziale e comunicativo. Per Danto, insomma, le opere d’arte sono sicuramente riconducibili ad una forma di relazione simbolica ed è certamente possibile istituire una analogia con il funzionamento e la struttura di un codice linguistico, ma ciò avviene allontanandosi in realtà dalla tradizione analitica, in particolar modo quella facente capo a Nelson Goodman e sviluppatasi sulla scia del costruttivismo e della eredità teorica di Gombrich, che focalizza l’attenzione sui caratteri di convenzionalità della percezione visiva e, quindi, delle rappresentazioni. Danto, piuttosto, riprende il senso hegeliano del concetto di simbolo ed è su di esso che fonda il suo ragionamento:
«Nella mia opera, per esempio, all’inizio ero ansioso di trovare un modo per distinguere gli oggetti reali dalle opere d’arte, quando non c’era una procedura ovvia per farlo attraverso un semplice esame, come nel caso (il mio preferito!) delle scatole Brillo e della Brillo Box di Andy Warhol – un problema che non era, e forse non poteva essere sollevato al tempo di Hegel. Per esempio non c’era modo per un cappotto di diventare un’opera d’arte nel 1828, come c’è oggi, e sarebbe un oggetto usato male se infatti fosse usato per lo stesso scopo dei cappotti. Nel cercare di distinguere le opere d’arte da ciò che chiamo ‘semplici cose reali’, usavo come principio di differenziazione la referenzialità. È condizione necessaria che un’opera d’arte riguardi qualcosa. Ma siccome le cose possono possedere referenzialità senza essere arte, oltre al contenuto è di conseguenza necessario distinguere le opere d’arte dai semplici oggetti reali. La referenzialità, d’altra parte, non serve molto a distinguere l’arte dall’arte applicata» (Danto 2008c, 84-85).
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Il mio concetto di simbolo ricalca sostanzialmente quello hegeliano, poiché consiste nel conferire una incarnazione materiale, o sensibile, a ciò che Hegel avrebbe senz’altro chiamato Idea: il simbolo è l’idea fatta carne, per così dire, e di conseguenza implica un tipo speciale di comprensione. (Danto 2010b, 66).
I segni vengono distinti dai simboli: un segno è qualcosa che sta per qualcos’altro secondo una relazione esterna e, in qualche modo, associativa, mentre i simboli hanno con il proprio significato una relazione interna ed essenzialmente evocativa di ciò a cui si riferiscono (Danto 2010b, 66-67). Le opere d’arte apparterrebbero proprio alla categoria delle espressioni simboliche e non alle semplici relazioni segniche, distinguendosi quindi dall’uso del linguaggio ordinario. Come afferma chiaramente Danto stesso, le espressioni simboliche sono comunicazioni: si fondano su un codice che si presume sia accessibile ai destinatari della comunicazione [...e] funzionano come mezzi per esprimere quello che non può essere comunicato, oppure per esprimere molto più efficacemente ciò che è possibile comunicare (Danto 2010b, 72).
Detto altrimenti, le opere d’arte non si esauriscono in un’immagine, in una rappresentazione che sia riconducibile ad una forma estensionale, ma presentano il carattere intensionale della metaforicità. Così come il senso di una metafora non è sovrapponibile al suo significato letterale, l’opera d’arte si distingue dalla sua controparte materiale proprio nel significato ulteriore che è in grado di esprimere e che non è parafrasabile. Si tratta, infatti, tanto nell’opera quanto nella metafora, di istituire una relazione tra un individuo (il fruitore, nel caso dell’opera d’arte) e una rappresentazione non letterale, dove l’aspetto psicologico dell’individuo non può essere ignorato (Danto 2010b, 91). Fondamentalmente Danto concepisce i segni come segni in praesentia e i simboli come segni funzionanti anche in absentia. Il presupposto per una simile distinzione è un idealismo di fondo che difficilmente si sposa con i fondamenti più o meno radicalmente nominalistici di parte della tradizione analitica, da Quine a Goodman. Se, in un certo senso, l’estetica di Nelson Goodman si appoggia nella costruzione dei propri concetti e criteri d’analisi alla linguistica, potremmo dire che l’estetica di Danto trova invece fondamento su un approccio semiotico. Qui Danto critica direttamente l’approccio di Goodman che nella sua definizione dell’arte come un sistema simbolico riuscirebbe a fornire sicuramente un
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Tutto ciò ci porta a dover considerare un ulteriore elemento fondamentale per la distinzione tra opere d’arte e mere cose reali: il tempo. Recuperando aspetti propri di approcci filosofici appartenenti alla tradizione “continentale”, all’ermeneutica e alla filosofia hegeliana in primis, Danto sottolinea l’importanza dell’interpretazione e della storia delle interpretazioni per la definizione del concetto di opera d’arte. Proprio in forza del loro differenziarsi dalle mere cose per le proprie qualità relazionali, le opere d’arte vivono delle loro interpretazioni, destinate a stratificarsi e a modificare la realtà stessa dell’opera, la sua fondamentale dimensione semantica: «l’interpretazione appartiene analiticamente al concetto di opera d’arte» (Danto 2008a, 151). La storia, la cultura, la società sono aspetti non trascurabili nella determinazione dell’artistico, perché «servono a dimostrare che un identico oggetto potrebbe essere un’opera d’arte in un certo contesto storicoartistico e non esserlo in un altro» (Danto 2007b, 64). L’idea è quella, dunque, di una definizione costitutivamente “debole” dell’arte, una definizione che riesca sì a cogliere aspetti ontologicamente rilevanti dell’oggetto artistico, permettendo così di distinguerlo dalle mere cose, ma che tenga anche sempre presente che nel momento in cui qualcosa viene considerata un’opera d’arte, essa diviene soggetta a un’interpretazione [...] l’interpretazione è in qualche misura una funzione del contesto artistico dell’opera: il suo significato varia a seconda della sua posizione storico-artistica, dei suoi antecedenti, e cose del genere” (Danto 2007b, 69).
2. Nelson Goodman e la questione dell’autenticità
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i filosofi analitici, si sa, piacciono gli esperimenti mentali. Ed è così che anche Nelson Goodman, altro rappresentante di spicco tra coloro che si sono occupati d’estetica, affronta, nel terzo capitolo di Languages of Art, la questione dell’autenticità: Supponiamo di avere di fronte a noi, sulla sinistra, la Lucrezia originale di Rembrandt e, a destra, una sua imitazione magistrale. Sappiamo, poiché la sua storia è pienamente documentata, che il dipinto alla sinistra è l’originale; e sappiamo, attraverso radiografie, esami al interessante analisi logica del funzionamento dei meccanismi di significazione (artistici e non), ma perderebbe di vista proprio il ruolo fondamentale che ha l’elemento psicologico dell’interpretazione. Nell’idea di Danto sono anche rinvenibili “echi” di Eco 1962.
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microscopio e analisi chimiche, che il dipinto di destra è un falso di recente esecuzione. Per quanto esistano numerose differenze fra i due quadri – p. e. di paternità, epoca, caratteristiche fisiche e chimiche, e valore di mercato – non vi possiamo scorgere alcuna differenza; e, se fossero spostati mentre dormiamo, non sapremmo identificarli semplicemente guardandoli. Eccoci incalzati con la domanda: possono esistere differenze estetiche fra i due quadri? (Goodman 1998, 92).
Il problema viene spostato da Goodman totalmente all’interno del mondo dell’arte: non siamo più, come con Danto, davanti a un’opera e ad un identico comune oggetto reale, ma ci troviamo di fronte ad un’opera autentica e ad un altro quadro che imita perfettamente il primo, pretendendo falsamente di avere il medesimo valore (artistico e, quindi, economico) dell’originale. Quello che Goodman si chiede è allora se, semplicemente guardando il Rembrandt e la sua copia, ossia senza fare uso di alcuna strumentazione da esperto qualificato, siano rinvenibili delle effettive differenze estetiche tra le due opere. Similmente a Danto, anche Goodman riconosce la possibilità di una perfetta identità estetica tra copia e originale: basandosi su un’analisi puramente percettivo-sensoriale le due opere appaiono identiche. Goodman parte, però, da un presupposto prettamente nominalistico che non gli permetterebbe di accettare in alcun modo la soluzione proposta da Danto di una scissione (o, se si vuole, di una duplicazione) delle opere d’arte in un sostrato materiale, che avrebbero in comune con le semplici cose, e una controparte ideale/referenziale, che le renderebbe analoghe al linguaggio. Per Goodman, quindi, la questione si risolve mediante un approccio gnoseologico: Quanto si può distinguere in qualsiasi momento semplicemente guardando dipende non solo dalla capacità visiva congenita ma dalla pratica e dall’esercizio. [...] Guardare le cose o le persone attentamente, sapendo che differiscono per certi aspetti che attualmente non vediamo, aumenta la nostra capacità di discriminarle l’una dall’altra – e da altre cose o persone – semplicemente guardandole (Goodman 1998, 94).
Nelson Goodman, da buon allievo di Quine, rifugge ogni compromesso idealistico e difende la sua posizione nominalista. Un sistema nominalistico, secondo Goodman, deve contenere solo individui, anche se qualsiasi cosa può essere presa come individuo: il nominalismo non impone determinate entità, né ci chiede di spiegare che cosa sono gli individui, ma che cosa significhi descrivere il mondo come composto di individui. (Cfr. Handjaras 1991, 51).
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L’idea, insomma, è che si può imparare a guardare e, quindi, distinguere. Anche se inizialmente non è possibile riscontrare alcuna differenza percettiva tra l’originale e la copia, il fatto stesso di sapere che c’è una distinzione ci renderà capaci anche di vederla. In particolare, è la dimensione storica che, così come si è già visto nell’analisi della teoria estetica proposta da Danto, arriva ad assumere un ruolo di fondamentale importanza. Come nota giustamente Simona Chiodo, nella distinzione che Goodman fa tra originale e copia «pare che il criterio rintracciato a questo proposito sia di natura sostanzialmente storica: esistono particolari condizioni che hanno accompagnato la nascita e la creazione dell’opera d’arte originale» (Chiodo 2004, 184). Quello che ha l’originale e che sarà sempre invece manchevole alla copia è la storia di produzione, ossia quell’insieme articolato di contesto sociale, geografico, storico, unito alla totalità dell’operato dell’artista, alla sua poetica, a quello che potremmo, insomma, chiamare il suo stile. Di conseguenza, «la falsificazione di un’opera d’arte si configura ora come un oggetto che pretende, senza alcuna possibilità di effettiva riuscita, di possedere la stessa storia di produzione dell’originale» (Chiodo 2004, 186). La condizione del falso ricalca, in effetti, l’opera di J. nell’esempio riportato da Danto: il suo quadro rosso rispetto agli altri esemplari presenti nella galleria d’arte mancava proprio, potremmo dire con Goodman, di storia di produzione. Ma, allora, potremmo concludere che, per entrambi i filosofi di cui ci stiamo occupando, paradossalmente, il criterio di differenziazione e di demarcazione tra arte e non arte o tra originale e falso non è mai di natura estetica. Il punto, forse, è proprio questo: l’arte, a partire quantomeno direi dall’operare di Duchamp, ha introdotto all’interno del suo campo di azione e di pertinenza problematiche e metodologie totalmente extraestetiche. Ne deriva necessariamente che qualsiasi approccio filosofico che voglia riuscire a raggiungere una definizione attuale dell’artistico debba in qualche modo mettere in conto di allontanarsi da un approccio prettamente estetico: «il valore di un quadro non viene scandito attraverso ciò che si vede, viceversa viene determinato da ciò che si conosce al di là di ciò che si mostra, al di là dei soli veicoli di ma Goodman propone una definizione dello stile come “una caratteristica complessa che serve in qualche modo come una firma individuale o collettiva” che ci aiuta “a rispondere alle domande: chi? quando? dove?” dell’opera d’arte (Goodman 1988, 27-47 e cfr. Boeddu 2011, 63-76).
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nifestazione espressiva» (Chiodo 2004, 186). Anche per Goodman, insomma, assumono una primaria importanza le interpretazioni e la storia delle interpretazioni che dell’opera si danno e delle quali possiamo o meno essere a conoscenza. In qualche modo, ciò che so delle due opere, a partire dal fatto stesso che uno sia il falso e l’altro l’originale, struttura il mio modo di guardarle, di percepirle e, quindi, determina la possibilità stessa di ritrovarvi delle differenze: Il modo in cui i due quadri effettivamente differiscono costituisce ora per me una differenza estetica fra di essi, perché la conoscenza, da parte mia, del modo in cui differiscono influisce sul ruolo che il presente atto di guardare ha nell’esercitare le mie percezioni a distinguere fra questi quadri o fra altri. [...] La conoscenza, da parte mia, della diversità dei due quadri, proprio perché modifica la relazione fra l’atto di guardare presente e quelli futuri, informa il carattere medesimo del mio atto di guardare presente. Tale conoscenza mi prescrive di guardare ora i due quadri in modo diverso, anche se quanto vedo è lo stesso (Goodman 1998, 95).
Sebbene le conclusioni a cui Danto e Goodman giungono sembrino quindi analoghe, finendo col focalizzare entrambi l’attenzione sulla dimensione storico-interpretativa delle opere, ad una più attenta analisi del ragionamento goodmaniano si può scoprire una differenza di fondo. Mentre Danto riconosce come condizione strutturale dell’arte contemporanea la tendenza a fuoriuscire dalla dimensione prettamente estetica per approdare pienamente nell’universo teoretico-concettuale, Goodman si rifiuta di abbandonare l’analisi della struttura dell’opera per arrivare ad una definizione dell’artistico. La possibilità di distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è o, nel caso del ragionamento goodmaniano, da ciò che pretende falsamente di esserlo, trova il suo fondamento in elementi extra-estetici, relazionali, storici o cognitivi. Tuttavia, per Goodman, ciò che si conosce a proposito di un’opera ricade sempre nuovamente all’interno della sua struttura estetica, la conoscenza stessa diventa parte integrante del come l’opera viene, di fatto, percepita. Una delle conclusioni a cui giunge la riflessione estetica di Danto è, infatti, l’idea, anch’essa di ovvia matrice hegeliana, che l’arte sia ormai giunta alla sua fine, non per il proseguire della storia del manifestarsi dell’Essere, ma, al di fuori del sistema dialettico di Hegel, per il suo progressivo trasformarsi in concetto, in filosofia. Cfr. Danto, 2008b.
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Le ragioni per questa sottigliezza di ragionamento vanno cercate, ovviamente, nella scelta nominalistica sopracitata: per l’analisi e la definizione dell’arte bisogna necessariamente partire dall’oggetto artistico, dalla sua realtà fenomenico-percettiva che rimane il solo valido veicolo di significazione e che non lascia spazio a duplicazioni idealistiche. Danto critica nelle pagine del suo The Transfiguration of the Commonplace proprio questa incapacità di Goodman di considerare l’estetico come qualcosa di scindibile dal percettivo: Goodman, curiosamente, esclude una delle condizioni del problema, vale a dire la condizione della indiscernibilità. Goodman sembra pensare che l’indiscernibilità sia solo momentanea, che prima o poi qualche differenza emergerà. [...] Sapere che c’è una differenza può ‘fare la differenza’ per il modo in cui guardiamo due opere, e anche per il modo in cui rispondiamo a due opere, ma non è detto che la differenza debba stare nel modo in cui le guardiamo. E colpisce come Goodman fosse segretamente prevenuto nell’assumere che ogni differenza estetica sia una differenza percettiva (Danto 2008a, 52-53).
Tale pregiudizio ha però una spiegazione semplice: risiede in una precisa scelta metodologica. Ciò non impedisce di riscontrare una consonanza di fondo tra i due filosofi: «L’arte è arte poiché lo si decide per via di sostegni teorici molto spesso eteronomi, di natura storica e culturale» (Chiodo 2004, 186).
3. Type, tokens e l’infinita moltiplicazione delle opere d’arte
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trettamente connesso a quanto fino ad ora esaminato è, ovviamente, il problema della riproducibilità artistica. Goodman prosegue il suo ragionamento sull’autenticità delle opere d’arte introducendo una differenziazione tra due macro-tipologie artistiche: le arti autografiche e le arti allografiche (Goodman 1998, 101-110). Esistono, in effetti, arti per le quali la distinzione tra falso e originale non è significativa, come la letteratura, la stampa, la musica, dove molti esemplari valgono esattamente come l’originale: parleremo in questi casi di allografia. D’altra parte, ci sono arti, come la pittura o la scultura, ove l’opera è solo e soltanto l’originale: siamo, in questo caso, nel regime dell’autografia. Le categorie artistiche utilizzate da Goodman ci possono forse suonare un po’ antiquate, tuttavia il discorso d’insieme è piuttosto chiaro:
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Nella musica diversamente dalla pittura non esistono falsificazioni di un’opera nota. Esistono, in verità, composizioni che falsamente pretendono di essere di Haydn, come ci sono quadri che falsamente pretendono di essere di Rembrandt; ma non possono esistere falsificazioni della London Symphony, diversamente che per la Lucrezia (Goodman 1998, 101).
Potremmo parlare, così, nel caso delle opere allografiche, di una moltitudine di esecuzioni che varranno esattamente come l’originale a patto che siano corrette, ossia aderenti allo spartito, al cliché di stampa, al testo manoscritto...insomma fedeli a quella che Goodman chiama notazione. All’opposto, «un’opera d’arte è autografica se e solo se la distinzione tra falso e originale è significativa; meglio, se e solo se anche la più esatta duplicazione non conta per questo come genuina» (Goodman 1998, 102). Tra le due polarità così individuate di allografia e autografia si sviluppano gradualmente, secondo Goodman, tutte le diverse tipologie artistiche e l’avvicinarsi di alcune di esse ad un modello di tipo notazionale diviene il fondamento teorico di un’estetica fortemente improntata sulla possibilità di delineare, anche per l’espressività artistica, una forma di “linguaggio” decodificabile mediante un’analisi dei tratti pertinenti rinvenibili nelle opere d’arte. L’idea che, in effetti, ci siano molte arti fondate sulla riproposizione di un modello, di una sorta di prototipo ripetibile all’infinito senza che nessun aspetto del valore artistico dell’opera venga perso, ha portato al diffondersi, specialmente proprio in ambito analitico, della interessante opposizione tra type e tokens (tipo e occorrenze). In particolare, alcuni autori come Joseph Margolis e Nicholas Wolterstorff hanno ampliato la portata della contrapposizione fra type e tokens fino a farla diventare il vero e proprio fulcro teorico sul quale sarebbe possibile fondare l’estetica e mediante il quale si potrebbe arrivare a definire e comprendere lo status artistico contemporaneo. L’analisi del funzionamento dei diversi sistemi simbolici è un aspetto importante dell’impostazione filosofica goodmaniana: l’intero universo umano è, secondo Goodman, costituito da sistemi simbolici di vario tipo, tra i quali possiamo annoverare anche quelli propri del mondo dell’arte. Da qui deriva il titolo stesso della principale opera dedicata all’estetica, Languages of Art, nonché l’idea di una totale e piena convenzionalità dei linguaggi artistici, in contrasto con la tradizionale teoria della mimesis. Cfr. Boeddu 2009.
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Wolterstorff parte dalla considerazione, condivisa da Goodman, che esistono molte diverse tipologie artistiche e, quindi, un primo problema che una ontologia estetica contemporanea si trova a dover affrontare riguarda proprio il come tutte queste entità così distanti tra loro possano rientrare nell’unico calderone dell’arte. Particolarità interessante di molte opere è il funzionamento secondo il meccanismo della performance: esse si suddividono ontologicamente in due elementi, l’opera da una parte e la performance dall’altra. Se l’opera da performance costituisce un universale che può realizzarsi di volta in volta in performance diverse, le performance sono occorrenze o eventi che «hanno luogo in un certo tempo e in un certo spazio, iniziano e finiscono in un certo tempo, durano per un certo lasso di tempo» (Wolterstorff 2007, 114). La struttura ontologica di arti quali la danza, il teatro, la musica, la letteratura, il cinema, nonché le stesse opere oggettuali che prevedono la possibilità di calchi, riproduzioni a stampa e simili corrisponderebbe a quella propria della contrapposizione tra opere e performance, o, meglio: «Per semplificare la nostra terminologia, io chiamerò da ora in poi opere d’arte solo le opere da performance e le opere oggettuali; le performance di opere d’arte e gli oggetti di opere d’arte saranno invece chiamati esempi di opere d’arte» (Wolterstorff 2007, 118). Fin qui vi è, direi, piena analogia con ciò che Goodman identifica con il regime allografico: la stessa opposizione tra opera d’arte ed esempi di opere d’arte ricalca perfettamente il tipo di rapporto che Goodman rinviene nelle opere allografiche tra notazione ed esecuzione. Il ragionamento di Wolterstorff, tuttavia, prosegue fino ad arrivare ad ipotizzare la possibilità di allargare l’ambito di pertinenza di tale dicotomia all’intero universo artistico. Egli, infatti si chiede se tutte le opere non potrebbero in realtà rientrare nella categoria ontologica del tipo (kind) di cui possono essere date molteplici o singole esemplificazioni: «Perché i dipinti e le sculture non possono essere visti come kind singolarmente esemplificati anziché come oggetti fisici, in maniera tale da avere una ‘teoria unificata’ delle opere d’arte?» (Wolterstorff 2007, 138). Sarà Joseph Margolis, altro autore iscrivibile nel gruppo degli estetologi analitici, a sciogliere definitivamente questo dubbio, optando per una risposta al problema dello statuto ontologico delle opere d’arte destinata a sfociare in una vera e propria teoria generale dell’artistico. Recuperando il binomio, originatosi in ambito linguistico-semiotico, type/token, Margolis avanza la proposta, poggiata su un platonismo di
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fondo, di potervi edificare l’intera teoria estetica. Se Charles S. Peirce, il primo a introdurre questa terminologia, intendeva con type una classe generale e astratta, un vero e proprio universale al quale potevano essere ricondotti i token individuali, Margolis concepisce i type in estetica come «particolari astratti che possono essere esemplificati» e li identifica con le stesse opere d’arte (Margolis, 2007, 143). O, meglio, tutte le opere d’arte funzionano secondo la struttura ontologica indivisibile type/token: prevedono, cioè, una componente astratta, “concettuale”, ma pur sempre particolare (il type) e una componente materiale e reale, legata alla prima da un rapporto di esemplificazione (il token o occorrenza). Ci saranno poi tipologie artistiche che prevedono un’unica e irripetibile occorrenza (la pittura o la scultura tradizionali, ossia le arti che Goodman chiama autografiche) e arti tipicamente caratterizzate da occorrenze multiple (dal teatro alla letteratura, ma anche le stesse Brillo Boxes di Warhol). Ciò che è interessante notare è che Margolis, pur cercando di sottolineare che le opere, anche se intese come tipi rimangono dei particolari, evidenzia la differenza ontologica esistente tra singole esemplificazioni di opere d’arte e semplici oggetti fisici: «la mia opinione è che le opere d’arte (token) siano incorporate in oggetti fisici, senza essere identiche ad essi» (Margolis, 2007, 147). Ed è così che, similmente a quanto abbiamo visto accadere nella teoria di Danto, verrebbero spiegate le spinose distinzioni tra le scatole Brillo presenti nei supermercati e le Brillo Boxes di Warhol o i diversi quadri rossi e la non-opera dello sfortunato J10. Da questo rapido excursus nel pensiero di alcuni fra maggiori filosofi analitici contemporanei emerge chiaramente come la questione dell’originalità e, quindi, della riproducibilità delle opere d’arte costituisca uno snodo logico fondamentale attorno al quale si sviluppa la riflessione estetica attuale. Quale che sia la posizione scelta, dal platonismo di Margolis al nominalismo goodmaniano, rimane da chiedersi se e quanto possa esser corretto, per una teoria estetica che voglia dirsi completa, farsi trascinare eccessivamente dall’idea di una concettualizzazione dell’arte a scapito della realtà fenomenica dell’artistico. 10 Nulla, insomma, di più distante da quanto cerca di affermare con insistenza il nominalismo di Goodman: «In termini platonisti, la distinzione tra struttura generale, o tipo (type) di una parola, ed i suoi casi particolari, o segni (token), venne fatta molti anni fa da Peirce. [...] In realtà è dei tipi che possiamo fare a meno. Il discorso reale, dopo tutto, è costituito da segni che differiscono l’uno dall’altro ed assomigliano l’uno all’altro in modi diversi ed importanti» (Goodman 1985, 418).
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Non bisogna dimenticare, d’altronde, che persino l’arte concettuale, sicuramente il più astratto dei fenomeni artistici, ha visto imbrigliare le sue opere nella fisicità e materialità di un “oggetto” quando nel 1971 venne redatto, dal celebre gallerista Seth Siegelaub, mecenate del gruppo di artisti capeggiati da Joseph Kosuth, Dan Graham e Sol LeWitt, il Contratto di Trasferimento di Opere d’Arte: se l’opera ha la volatilità di un’idea, l’unico modo di perpetrarla, nonché di percepirla, di comprenderla e, non da ultimo, di possederla è legarla ad una entità fisica, sia essa anche soltanto, come in questo caso, una traccia scritta di una transazione (Alberro 2011, 141-148). Bibliografia Alberro, A. (2011), Arte concettuale e strategie pubblicitarie, Johan & Levi, Milano. Boeddu, I. (2009), Nelson Goodman. Uno sguardo analitico sull’arte contemporanea, Ed. Dell’Orso, Alessandria. Boeddu, I. (2011), Stile e comunicazione. Riflessioni dell’estetica analitica sullo statuto dell’opera d’arte, in Premio Nuova Estetica, Æsthetica Preprint, Palermo. Chiodo, S. (2004), Un’arte senza estetica. Metamorfosi dell’estetica contemporanea, Mimesis, Milano-Udine. Danto, A.C. (2007a), trad. it. “Il mondo dell’arte”, in Estetica analitica, Studi di estetica 27, pp. 65-86 [“The Artworld”, in Journal of Philosophy, vol. 61 (19) 1964, pp. 571-584]. Danto, A.C. (2007b), trad. it. Opere d’arte e cose reali, in Kobau, Matteucci, Velotti, (cur.), Estetica e filosofia analitica, Il Mulino, Bologna [“Artworks and Real Things”, in Theoria, 39, 1973, pp. 1-17]. Danto, A.C. (2008a), trad. it. La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, Laterza, Roma-Bari [The Transfiguration of the Commonplace, Harvard University Press, Cambridge, Massachussets 1981]. Danto, A.C. (2008b), trad. it. La destituzione filosofica dell’arte, Æsthetica, Palermo [The Philosophical Disenfranchisement of Art, Columbia University Press, New York 1986]. Danto, A.C. (2008c), trad. it. L’abuso della bellezza. Da Kant alla Brillo Box, Postmedia, Milano [The Abuse of Beauty: Aesthetics and the Concept of Art, Carus Pub. Co., Illinois 2003].
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Giuseppe Zuccarino Esplorare il labirinto Foucault e Roussel
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ichel Foucault ha avuto modo di scrivere, specie negli anni Sessanta del secolo scorso, numerosi saggi e articoli di argomento letterario. Tuttavia la monografia da lui dedicata a Raymond Roussel resta un unicum. Essendo i suoi libri precedenti (compreso il più celebre, quello sulla storia della follia) relativi al modo in cui la cultura e la scienza, nell’«età classica» e in quella contemporanea, si sono rapportate alle malattie mentali, Roussel ha certo suscitato il suo interesse anche in quanto autore con problemi psichici. Questo però non va inteso nel senso che il filosofo si sia prefisso il compito di studiare lo scrittore in quanto «caso clinico». All’opposto, Foucault ha assegnato a lui, e ad alcuni altri, un ruolo destabilizzante nei confronti di ogni ottica che si pretenda scientifica. Basta leggere, in proposito, le frasi che concludono il libro Maladie mentale et psychologie: C’è una buona ragione per cui la psicologia non potrà mai dominare la follia: la psicologia è divenuta possibile nel nostro mondo solo dopo che la follia è stata padroneggiata, e già esclusa dal dramma. E quando, con lampi e grida, essa riappare, come in Nerval o Artaud, come in Nietzsche o Roussel, è la psicologia ad ammutolire e a restare senza parole di fronte a un linguaggio che prende a prestito il senso delle proprie da quella lacerazione tragica e da quella libertà di cui già la sola esistenza degli «psicologi» sanziona, per l’uomo contemporaneo, il pesante oblio (Foucault 1962, 104).
C’è però anche un diverso motivo che spiega l’attrazione suscitata nel filosofo dalle opere di Roussel, ed è di natura strettamente letteraria. In un’intervista retrospettiva, egli ha spiegato infatti che quando, verso il 1957, aveva iniziato a leggere i libri dello scrittore (in quel mo Per un esame complessivo, si rinvia all’ampio studio di Jean-François Favreau (Favreau 2012).
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mento assai poco conosciuto), era rimasto colpito dalla qualità dello stile: «Una prosa estremamente bella e stranamente vicina a quella di Robbe-Grillet, che all’epoca aveva appena cominciato a pubblicare. […] Sono rimasto stregato da questa prosa, che ho trovato di una bellezza intrinseca». Solo più tardi egli è venuto a conoscenza dei problemi mentali di cui l’autore aveva sofferto: «Quando, dopo aver scoperto Roussel, ho visto che era stato un paziente del dottor Janet, il quale analizza il suo caso in due pagine (citate del resto dallo scrittore stesso), la cosa mi ha divertito e interessato». Determinante, però, a detta di Foucault, è stata l’iniziale fascinazione da lui provata per le opere rousselliane, la stessa che lo ha spinto a passare dall’idea di redigere su di esse un breve articolo a quella, ben più impegnativa, di dedicare alla loro analisi un intero libro. Converrà forse ricordare che Raymond Roussel (1877-1933) era uno scrittore che ambiva a raggiungere un largo consenso da parte di critica e pubblico; a tal fine impiegava senza risparmio i mezzi che la sua condizione economica agiata gli consentiva. Tuttavia era riuscito a far parlare di sé più per le eccentricità di comportamento che per i propri scritti. A scoprirne il valore erano stati i surrealisti, che avevano cercato di farli conoscere. Ciò vale in particolare per Michel Leiris, che frequentava Roussel e ha scritto su di lui pagine di notevole rilievo. I surrealisti erano affascinati dalle trovate che abbondano in romanzi come Impressions d’Afrique o Locus Solus, nei quali l’autore, con uno stile minuzioso e oggettivo, descrive le più bizzarre costruzioni o invenzioni. Fra queste, possiamo ricordare ad esempio una statua che raffigura un ilota, realizzata con stecche di balena e posta su un basso veicolo le cui ruote scorrono su binari di polmone di vitello, oppure una mazzeranga (strumento per picchiare e pareggiare il selciato) semovente, capace di comporre, con denti umani, un mosaico in cui è rappresentato un raitro (soldato cinquecentesco). Roussel però, da parte sua, ammetteva di non capire i testi dei surrealisti e si considerava estraneo all’avanguardia, anche perché aveva gusti letterari del tutto tradizionali (ammirava enormemente scrittori come Jules Verne o Pierre Loti). A chiarire, almeno in parte, il suo metodo
Archéologie d’une passion (1984), in Foucault 2001, II, 1418. Ibid., 1420. Cfr. ibid., 1419. Raccolte da ultimo in Leiris 1998. Cfr. rispettivamente Roussel 2005, 34-36, e Roussel 1990, 28-56.
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compositivo ha contribuito uno scritto da lui destinato alla pubblicazione postuma, e apparso infatti nel 1935: Comment j’ai écrit certains de mes livres. Alla base del procedimento tecnico in esso rivelato ci sono sempre dei giochi sulle parole, prese in due sensi diversi oppure sostituite con altri vocaboli simili per il suono. Trovano così spiegazione anche le due macchine già ricordate: 1) Baleine (mammifero marino) à îlot (da isolotto); 2) baleine (stecca di balena) à ilote (per ilota, schiavo spartano). […] 1) mou (molle, individuo fiacco) à raille (da burla, qui pensai ad un collegiale pigro che i compagni deridono per la sua incapacità); 2) mou (polmone di vitello, sostanza culinaria) à rail (per rotaia di ferrovia). […] 1) Demoiselle (signorina) à prétendant (con pretendente); 2) demoiselle (mazzeranga) à reître en dents (per raitro fatto di denti) (Roussel 2010, 14-15, 23).
Sono dunque le omofonie, quasi sempre invisibili sulla superficie del testo, a generare le varie situazioni narrative. Il libro di Foucault parte proprio dall’esame di questo testo postumo, segnalando in esso non poche stranezze, come l’attenzione focalizzata soprattutto sui primi scritti e la maggiore reticenza su quelli più recenti: La geometria profonda di questa «rivelazione» rovescia il triangolo del tempo. Per effetto di una rotazione completa, ciò che è prossimo diventa il più lontano. È come se Roussel potesse recitare il suo ruolo di guida solo nelle prime svolte del labirinto, abbandonandolo poi non appena il cammino s’avvicina a quel punto centrale in cui egli stesso si trova […]. Man mano che la rivelazione si approssima a sé, il segreto s’addensa. Segreto raddoppiato: poiché la sua forma solennemente ultima, la cura con cui è stata, nel corso di tutta l’opera, differita così da giungere a scadenza al momento della morte, trasforma in enigma il procedimento che mette in luce. (Foucault 1963, 8).
Secondo Foucault, lo scrittore pare volerci offrire la chiave per accedere alla sua opera, e tuttavia, svelando solo in parte le proprie tecniche letterarie, ci costringe di fatto a rimanere sulla soglia. Ciò ricorda al filosofo il modo in cui lo stesso Roussel è morto: si trovava in un hotel di lusso a Palermo, assieme alla sua governante Charlotte
Cfr. Roussel 2010, 9-35.
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Dufrène, e in quel periodo era quasi sempre sotto l’effetto della droga; una mattina il suo corpo è stato rinvenuto senza vita vicino alla porta di comunicazione, chiusa a chiave, fra la sua camera e quella della Dufrène. Cosa intendeva fare? Il decesso era dovuto a un’overdose accidentale o, come vari indizi sembrano suggerire, ad un suicidio premeditato? Non lo sapremo mai con certezza. Tornando ai testi, in che modo interpretare i libri che lo stesso Roussel dichiara estranei al procedimento che ha descritto? Nascondono, queste opere, una chiave d’altra natura – oppure la stessa, ma nascosta doppiamente fino al diniego della sua esistenza? E c’è forse una chiave generale da cui dipenderebbero, in base a una legge del tutto silenziosa, sia le opere cifrate – e decifrate da Roussel – sia quelle la cui cifra sarebbe di non avere alcuna cifra apparente? (Foucault 1963, 13).
Foucault ipotizza dunque, nello scrittore, un grado di coscienza molto elevato, tale da far apparire il suo testo esplicativo come generatore, piuttosto che risolutore, di enigmi. Ma in effetti al filosofo non interessa tanto proporre una nuova immagine di Roussel (descritto dai testimoni che l’hanno conosciuto quale persona ingenua, infantile e non particolarmente colta), quanto piuttosto richiamare l’attenzione sul complesso funzionamento del linguaggio in genere, e di quello letterario in specie. A ben vedere, i giochi di Roussel sul doppio significato dei termini si limitano a sfruttare proprietà intrinseche al mezzo di espressione utilizzato: L’identità delle parole – il semplice fatto, fondamentale nel linguaggio, che ci siano meno vocaboli che designano che cose da designare – è essa stessa un’esperienza a doppio versante: rivela nella parola il luogo di un incontro imprevisto fra le figure più lontane del mondo (è la distanza abolita, il punto di scontro degli esseri, la differenza raccolta su se stessa in una forma unica, duale, ambigua, minotaurina) e mostra uno sdoppiamento del linguaggio che, a partire da un unico nucleo, si stacca da se stesso, fa sorgere incessantemente altre figure (proliferazione della distanza, vuoto che nasce sotto i passi del doppio, crescita labirintica dei corridoi simili e differenti) (Foucault 1963, 22-23).
Sull’argomento, Leonardo Sciascia ha scritto un racconto-inchiesta (Sciascia 1971).
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Così – altro esempio celebre – Roussel può costruire un breve racconto, Parmi les Noirs, che comincia con l’espressione «les lettres du blanc sur les bandes du vieux billard» (le lettere alfabetiche scritte in bianco sui bordi laterali del vecchio biliardo) e termina con un’altra pressoché identica nella forma, ma del tutto diversa per il significato, «les lettres du blanc sur les bandes du vieux pillard» (le missive dell’uomo bianco sulle orde guerriere del vecchio predone). Questo è ancora un esercizio semplice, ma la seconda delle due frasi-matrice ispira in seguito, pur senza comparirvi, un intero romanzo, Impressions d’Afrique, che a dispetto del titolo non ha proprio nulla del libro di viaggi, anzi è una storia interamente fantastica, in cui ogni singolo episodio nasce dal procedimento di scomposizione fonica dei vocaboli. In Roussel, infatti, trovate narrative che sembrano il frutto di una fantasia arbitraria sono in realtà motivate, avendo la loro origine in giochi di parole. Data una frase qualsiasi, ad esempio l’incipit di una canzoncina infantile, «J’ai du bon tabac dans ma tabatière» (ho del buon tabacco nella mia tabacchiera), lo scrittore la scompone in un’altra serie, vagamente omofona, di vocaboli: «Jade tube onde aubade en mat (objet mat) a basse tierce», ossia «giada tubo onda serenata in opaco (oggetto opaco) ha bassa terza»10. Cosa mai potrà sorgere da parole tanto sconnesse? Ecco quel che ne trae Roussel: La diafana immagine evocava un paesaggio d’Oriente. Sotto un cielo puro si stendeva un giardino splendido, pieno di fiori affascinanti. Al centro di una vasca di marmo, un getto d’acqua zampillante da un tubo di giada disegnava con grazia una curva slanciata. […] Sotto la finestra, non lontano dalla vasca di marmo, se ne stava un giovane dalla chioma ricciuta […]. Volgendo verso la coppia il viso da poeta ispirato, cantava un’elegia di sua composizione, servendosi di un portavoce di metallo opaco e argentato (Roussel 2005, 140-141).
Come si vede, lo stile di Roussel può a volte essere banale ma, precisa Foucault, «questo linguaggio piatto, esile ripetizione del più logoro dei linguaggi, riposa orizzontalmente sull’immenso apparecchio di morte e resurrezione che da esso si separa e, nel contempo, ad esso si collega. È poetico nella sua radice, per il procedimento che lo ha fatto nascere» (Foucault 1963, 64).
Cfr. Roussel 2010, 163-170. Cfr. ibid., 20.
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Nei romanzi rousselliani, tutto è sdoppiato: la descrizione dei più bizzarri spettacoli o congegni sorprende di per sé, e torna poi a sorprendere quando, sempre all’interno del testo, ne viene fornita una lambiccata spiegazione. Ad esempio, in Locus Solus, un’enorme vasca di vetro, dalle pareti sfaccettate come quelle di un diamante, ospita fra l’altro al suo interno, immersi in un liquido trasparente, una giovane danzatrice in calzamaglia, un gatto privo di pelo nonché il cervello e i muscoli facciali del celebre rivoluzionario Danton. Il creatore di questo dispositivo, lo scienziato Martial Canterel, mostra ai suoi ospiti come la ragazza possa generare musica con abili movimenti della propria chioma, mentre il gatto è stato addestrato a infilare il muso in un cornetto di metallo e a trasmettere, mediante esso, una scarica elettrica ai resti della testa di Danton, che si animano riproducendo i moti compiuti in vita al momento di pronunciare brani (inudibili) di alcuni suoi discorsi politici. È chiaro che tutto ciò non diventa meno assurdo quando Canterel spiega in dettaglio di aver scoperto una speciale acqua che consente a chi vi è immerso di respirare liberamente e di produrre coi capelli certi fenomeni acustici, oppure di essere riuscito a recuperare una parte del capo di Danton e d’aver trovato il modo di elettrizzarla usando a tal fine il proprio gatto, spelato perché non accumulasse troppa corrente11. La stranezza non si dissolve, ma semmai si accresce. E a ciò va aggiunto l’unico mistero effettivo, quello che riguarda i giochi di parole che certamente hanno generato i vari particolari di questo episodio di Locus Solus, e che a noi restano sconosciuti, in quanto lo scrittore non ne parla nel suo testo postumo. Foucault analizza con finezza vari momenti dei due romanzi principali, evidenziando in essi la ricorrenza dei dispositivi che imitano artificialmente la vita, o attraverso la riproduzione artistica oppure (come nel caso, appena ricordato, della testa di Danton) tramite immaginarie tecniche scientifiche. E tuttavia, a suo giudizio, «Roussel ha inventato delle macchine da linguaggio che senza dubbio non hanno, al di fuori del procedimento, nessun altro segreto che il visibile e profondo rapporto che ogni linguaggio intrattiene, scioglie, riprende e indefinitamente ripete con la morte» (Foucault 1963, 71). È questa un’idea che possiamo trovare anche in altri testi foucaultiani coevi, nei quali non si fa riferimento all’autore di Locus Solus: «Il linguaggio, sulla linea della morte, riflette se stesso: incontra qualcosa come uno Cfr. Roussel 1990, 57-59, 64-67, 70-80.
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specchio; e per fermare questa morte che lo fermerà, dispone di un solo potere: quello di far nascere in sé la propria immagine, in un gioco di specchi che, da parte sua, non ha limiti»12. Ciò spiega bene l’ossessione che spinge Roussel a costruire, partendo da singole omofonie, i suoi tortuosi labirinti in prosa o in versi. Ma essi, in fondo, hanno la funzione di ritardare il temibile, e inevitabile, incontro: «Non bisogna dimenticare che è il Minotauro che veglia in fondo al palazzo di Dedalo, di cui costituisce, al termine del lungo corridoio, l’ultima prova» (Foucault 1963, 102-103). Restano però da considerare, per Foucault, i testi che lo scrittore ha dichiarato essere estranei al procedimento illustrato in Comment j’ai écrit certains de mes livres. In questo caso, si tratta di lavori in versi (benché di andamento del tutto prosastico), quasi che Roussel avesse sentito il bisogno di sottoporsi comunque a una contrainte di natura formale. Ma il filosofo nota altre analogie che legano fra loro le varie parti dell’opera di Roussel. Infatti, se i romanzi descrivono essenzialmente spettacoli, e le opere teatrali sono fatte per essere proposte alla visione (nonché all’ascolto, vista la loro prevalente natura narrativa), anche La Doublure, La Vue, Le Concert, La Source, le Têtes de carton, L’Inconsolable sono […] spettacoli puri, incessanti. In essi le cose si dispiegano in una profusione che è nel contempo vicinissima e lontanissima da ciò che costituisce il teatro. Nulla esiste che non sia visibile e che non debba la propria esistenza allo sguardo che la vede (Foucault 1963, 133).
Roussel era fermamente deciso a raffigurare sempre, nei suoi versi, una realtà artificiale, di secondo grado: se tre dei testi citati (La Doublure, le Têtes de carton e L’Inconsolable) si incentrano sulla sfilata delle maschere del carnevale di Nizza, gli altri (La Vue, La Source e Le Concert) descrivono, come ricorda Michel Leiris, «non degli spettacoli reali bensì tre immagini: una fotografia incastonata all’interno di un portapenne, l’etichetta di una bottiglia d’acqua minerale, la vignetta di una carta da lettere intestata» (Leiris 1998, 252). Eppure, l’immaginario osservatore di figurine così minuscole vede tutto, ogni minimo dettaglio, sicché la descrizione diventa meticolosa e prolissa:
Le langage à l’infini (1963), in Foucault 2001, I, 279.
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La piccola vignetta di carta intestata, come la lente del portapenne ricordo, come l’etichetta della bottiglia d’acqua d’Évian è un prodigioso labirinto – ma visto dall’alto: così che, invece di nasconderli, mette ingenuamente sotto gli occhi l’intreccio dei viali, i bossi, i lunghi muri di pietra, l’alberatura delle navi, l’acqua, quegli uomini minuscoli e precisi che vanno in tutte le direzioni con lo stesso passo immobile. E al linguaggio non resta che sporgersi verso tutte queste figure mute per tentare, con infinite accumulazioni, di raggiungerne l’integrale visibilità (Foucault 1963, 135).
Consideriamo ad esempio La Vue, testo dedicato per intero alla descrizione d’una fotografia di formato ridottissimo. La foto rappresenta una spiaggia di sabbia Nel momento più animato, brillante; il tempo è bello; Chiarori rari e tenui corrono sull’acqua Che si gonfia seguendo la casualità dell’onda; Persone che vanno a passeggio e bambini formano la folla Quasi del tutto in ozio; c’è vento A giudicare da certe fronti piegate in avanti, Si vede persino un cappello di paglia che prende il volo, Perché il suo proprietario, un po’ troppo benevolo, Non ha tenuto conto della brezza e della frescura.13
E Roussel prosegue mostrandoci un marinaio intento a pescare su una barchetta lontana dalla riva (ma, grazie a un misterioso effetto di zoom, risultano visibili dettagli come le folte sopracciglia del pescatore o le rappezzature presenti sulla vela), poi altre imbarcazioni di vario tipo (si vedono con nitidezza le persone presenti su di esse e ogni particolare dei loro abiti), poi un bambino che gioca sulla spiaggia col proprio cane, e così via, passando da una scenetta all’altra, per svariate centinaia di versi. Foucault, nel commentare questo testo in un altro suo scritto su Roussel, nota che in esso il linguaggio si accorda, senza problemi né deformazioni, con le cose. Il portapenne di La Vue (strumento per costruire parole, e che, per di più, offre qualcosa alla vista) è come la figura più immediata di tale rapporto: […] una piccola lente, poco più estesa di un punto brillante, apre in Roussel 2001, 6. Si tenga presente che nell’originale francese, in questo e negli altri testi poetici dell’autore, i versi sono sempre in rima. 13
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questo strumento – fabbricato per disegnare sulla carta segni arbitrari, altrettanto contorti del portapenne stesso – uno spazio luminoso di cose semplici, innumerevoli e pazienti. […] Questo mondo, in verità, non possiede l’esistenza piena che a prima vista sembra illuminarlo da cima a fondo; in La Vue c’è tutta una miniatura, senza proporzioni, di gesti interrotti, di onde la cui cresta non arriverà mai ad infrangersi, di palloni appiccicati al cielo come soli di cuoio, di bambini immobilizzati in una corsa di statue.14
Infatti le descrizioni appaiono molto artificiose, così come i movimenti che in esse vengono suggeriti restano virtuali, dato che ad essere in causa è un’immagine fotografica. Ma fra le opere in versi di Roussel ce n’è una che non abbiamo ancora nominato, e che costituisce il suo ultimo libro pubblicato in vita, Nouvelles Impressions d’Afrique. Lo scrittore ha lavorato a questo testo (privo di rapporti col romanzo quasi omonimo) per parecchi anni, e la cosa non stupisce, vista la struttura assai particolare del componimento. Eppure lo spunto d’avvio era semplice: «Le Nouvelles Impressions d’Afrique dovevano contenere una parte descrittiva. Si trattava di un minuscolo binocolo a tracolla, i cui due tubi, larghi due millimetri ciascuno e fatti per essere appoggiati all’occhio, racchiudevano due fotografie su vetro, una raffigurante i bazar del Cairo, l’altra un lungofiume a Luxor» (Roussel 2010, 33-34). Ma nella versione finale dell’opera, apparsa nel 1932, quasi tutto è cambiato, perché vi si trovano quattro poemetti, tutti costruiti con una complessa tecnica ad incastro: dati pochi versi-base, fra essi ne vengono inseriti altri racchiusi fra parentesi, poi, all’interno di questi, altri di nuovo racchiusi fra parentesi e così via, fino ad arrivare a un grado quintuplo (cinque parentesi inscatolate l’una dentro l’altra). A ciò bisogna aggiungere ulteriori incisi posti fra trattini e delle note a piè di pagina, talvolta assai ampie, ma sempre rigorosamente in versi. Foucault spiega bene le ingenti difficoltà che Roussel ha dovuto affrontare per produrre un simile «labirinto verbale» (Foucault 1963, 163). Cerca anche di evidenziare ciò che distingue quest’opera a scatole cinesi dai precedenti testi in versi dell’autore, più linearmente descrittivi:
Dire et voir chez Raymond Roussel (1962), in Foucault 2001, I, 240-241.
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Ad ogni istante, le parole nascono in un’assenza d’essere, sorgendo le une a ridosso delle altre, da sole, in fila, o per coppie antitetiche, o per coppie di forme analoghe, o raggruppate secondo accostamenti incongrui, somiglianze illusorie, serie della stessa specie, ecc. Al posto dell’essere che, in La Vue, conferiva ad ogni cosa la sua pesantezza ontologica, restano ora solo dei sistemi di opposizione e di analogia, di somiglianza e di differenza, nei quali l’essere si volatilizza (Foucault 1963, 175).
Dopo aver esaminato vari esempi delle associazioni fra cose simili o diverse proposte da Roussel nei quattro poemetti, Foucault nota che nell’elenco figurano anche le parole che si possono intendere in due accezioni distinte; in tal modo, dunque, lo scrittore sembra già voler suggerire il segreto del procedimento compositivo da lui usato nei romanzi e nelle opere teatrali, segreto che svelerà poi nel testo postumo15. È dunque nei versi ad incastro delle Nouvelles Impressions d’Afrique che culmina l’ostinata ricerca, da parte di Roussel, dell’analogia nella differenza e della differenza nell’analogia. A sorpresa, il filosofo costruisce il capitolo finale del proprio libro in forma di dialogo tra due voci, come se immaginasse delle possibili obiezioni a ciò che ha affermato finora e cercasse di rispondervi. Solo in queste pagine conclusive viene affrontato il tema dei disturbi mentali di Roussel, descritti da Pierre Janet in un brano del trattato De l’angoisse à l’extase16. Foucault, del resto, mostra scarsa considerazione per il celebre psicologo e si interessa semmai al fatto che Roussel ha inserito tale brano in Comment j’ai écrit certains de mes livres17. Perché lo scrittore ha scelto di presentare se stesso in quanto caso clinico all’interno di un libro destinato, all’opposto, ad attirare l’attenzione sul valore letterario delle proprie opere? A giudizio del filosofo (secondo cui la morte di Roussel nell’albergo palermitano è stata un suicidio premeditato), l’ammissione di aver avuto problemi mentali rappresenta un segno di distacco dalla vita: «Se, in quest’ultimo discorso, c’è un rapporto tra la follia e la morte, è senza dubbio per significare che occorre in ogni modo, come ha fatto Roussel nel gesto di Palermo, affrancare l’opera da colui che l’ha scritta» (Foucault 1963, 197). Cfr. Foucault 1963, 184-185. Opera pubblicata in due tomi, dall’editore parigino Alcan, tra il 1926 e il 1928. 17 Cfr. Roussel 2010, 127-132. 15 16
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Nel contempo, però, Foucault nota che l’autore di Locus Solus ha mostrato di non rinnegare, anzi di rimpiangere, quella che, agli occhi degli altri, aveva rappresentato la fase più acuta della sua esaltazione maniacale. L’alterazione psichica si era manifestata quando, verso i vent’anni, egli stava redigendo La Doublure. Anche se poi l’insuccesso di quel libro avrebbe scatenato la prima di una lunga serie di crisi depressive, Roussel ha continuato a ripensare con nostalgia all’estasi provata: Ciò che scrivevo era circondato da un irraggiamento, chiudevo le tende per timore della minima fessura che potesse lasciar trapelare all’esterno i raggi luminosi che uscivano dalla mia penna, volevo togliere lo schermo di colpo e illuminare il mondo. […] Ma, per quante precauzioni prendessi, dei raggi di luce mi sfuggivano e attraversavano i muri, portavo il sole dentro di me e non potevo impedire questa formidabile folgorazione […]. Ero allora in uno stato di felicità inaudita, un colpo di piccone mi aveva fatto scoprire un filone meraviglioso, avevo vinto il primo premio più sbalorditivo. Ho vissuto più in quel momento che in tutta la mia esistenza (Roussel 2010, 129-130).
Foucault si mostra diffidente nei riguardi dei tentativi di stabilire rapporti troppo stretti fra le stranezze comportamentali dello scrittore e le opere che ha pubblicato. A suo avviso, «Roussel appare come proprio lui si è definito: l’inventore di un linguaggio che dice solo se stesso, un linguaggio assolutamente semplice nel suo essere sdoppiato, un linguaggio del linguaggio, che racchiude il proprio sole nel suo mancamento centrale e sovrano» (Foucault 1963, 210). Non è possibile infatti stabilire con certezza cosa sia davvero celato nel luogo più interno della sua opera labirintica, se un astro abbagliante, un mostro minaccioso o semplicemente la morte, nel contempo temuta e cercata. Ribadirà il filosofo in un testo successivo: «Forse ci sono altri segreti in Roussel. Tuttavia, come in ogni segreto, il tesoro non è ciò che si nasconde, ma le curve visibili, le erte difese, i corridoi incerti. È il labirinto che fa il Minotauro: non il contrario»18. Si può dunque dire che Foucault, nella sua monografia del 1963, scritta in uno stile smagliante e volta ad indagare non soltanto sulle tecniche compositive usate dallo scrittore ma anche su ciò che da esse 18 Pourquoi réédite-t-on l’œuvre de Raymond Roussel? Un précurseur de notre littérature moderne (1964), in Foucault 2001, I, 451-452.
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si può dedurre a livello teorico generale, non avanzi la pretesa di dare risposte risolutive. E tuttavia Gilles Deleuze, nel recensire il libro foucaultiano, lo ha giustamente definito «un commento sorprendente, di grande forza poetica e filosofica», e ha notato che «non è decisivo soltanto in funzione di Roussel, ma segna una tappa importante nelle ricerche personali dell’autore, che riguardano innanzitutto le relazioni fra il linguaggio, lo sguardo, la morte e la follia»19. Quest’ultima osservazione trova conferma nei volumi e articoli pubblicati in quegli anni da Foucault, ma occorre tener presente che il filosofo ha saputo poi imporre al corso del proprio pensiero varie svolte rilevanti. Di ciò, ha risentito anche il modo gli è capitato di reinterpretare, a distanza di tempo, il proprio libro su Roussel. Per mostrarlo, ci limiteremo a considerare solo alcuni testi, accomunati dal fatto di essere delle interviste. Nel 1967, alla domanda se la sua monografia sullo scrittore sia da considerare come un esempio dell’attuale rivalutazione della follia, Foucault risponde di sì. Ricorda che Roussel era stato curato da Janet in quanto affetto da nevrosi ossessiva, e aggiunge che, all’epoca in cui scriveva, le sue opere dovevano a loro volta apparire troppo folli per venir prese sul serio. Tuttavia, mezzo secolo dopo, le cose sono cambiate: Ed ecco che oggi questo linguaggio ha perso il suo significato di follia, di pura e semplice nevrosi, per assimilarsi a un modo di essere letterario. Bruscamente, i testi di Roussel hanno raggiunto un modo di esistenza all’interno del discorso letterario. È proprio questa modificazione che mi ha interessato e mi ha condotto a intraprendere un’analisi di Roussel. […] Mi era indifferente stabilire se la sua fosse o no l’opera di un nevrotico. Volevo vedere, all’inverso, come il funzionamento del linguaggio di Roussel potesse ormai prendere posto all’interno del funzionamento generale del linguaggio letterario contemporaneo».20
Anche se di un’indagine condotta in questi termini non si trova traccia nel volume del 1963, il problema così riconfigurato da Foucault appare di grande interesse, e si pone ugualmente per scrittori diversi da Roussel, come ad esempio Hölderlin, Nerval o Artaud. Non a caso, in un dialogo dell’anno successivo, il filosofo lo ripropone: Raymond Roussel ou l’horreur du vide (1963), in Deleuze 2002, 102, 104. «Qui êtes-vous, professeur Foucault?» (1967), in Foucault 2001, I, 633.
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Come può accadere che un uomo affetto da malattia mentale, o che tale è giudicato dalla società e dalla medicina del suo tempo, scriva un’opera che subito, oppure anni, decenni, secoli più tardi venga davvero riconosciuta in quanto opera, e in quanto una delle opere maggiori della letteratura o della cultura? […] In un’epoca, in una cultura, in una certa forma di pratica discorsiva, il discorso e le regole di possibilità sono tali che un individuo può essere psicologicamente e in certo modo aneddoticamente folle, ma che il suo linguaggio, che per l’appunto è quello di un folle, può – in virtù delle regole del discorso nell’epoca in questione – funzionare in maniera positiva (Foucault 2011, 49-52).
Come si vede, il filosofo s’interroga sulle modalità d’impiego del linguaggio in una determinata società ed epoca storica, dunque è assai vicino ai temi da lui affrontati nei libri di quegli anni, come Les mots et les choses, L’archéologie du savoir e L’ordre du discours21. Assai più tardi, Foucault concede una lunga intervista (pubblicata nel 1984 all’interno dell’edizione americana della monografia) in cui riflette sulla propria, ormai remota, opera su Roussel. Comincia col ricordare di aver scoperto casualmente l’autore, alla cui lettura si era appassionato, anche perché gli sembrava di scorgere nei suoi scritti delle analogie con i romanzi di Alain Robbe-Grillet. Solo in seguito aveva appreso che quest’ultimo, in effetti, conosceva e apprezzava Roussel22. Il filosofo rammenta anche, per inciso, come avesse avuto occasione di incontrare Robbe-Grillet ad Amburgo nel 1960, e come loro due, visitando assieme una fiera, si fossero divertiti nel labirinto di specchi, a conferma della suggestione esercitata su entrambi dagli spazi incerti, nei quali ci si smarrisce23. Pur confermando, nel corso dell’intervista, la propria persistente simpatia nei riguardi di Roussel, mostra di non perdere di vista i limiti dello scrittore, e infatti si rifiuta di metterlo a confronto, come gli suggeriva il suo interlocutore, con Proust. Ai suoi occhi, la collocazione da assegnargli è ben diversa:
Cfr. Foucault 1966, 1969 e 1971. Cfr. Énigmes et transparence chez Raymond Roussel (1963), in Robbe-Grillet 1963, 70-76. 23 Cfr. Archéologie d’une passion, in Foucault 2001, II, 1419. Robbe-Grillet aveva da poco pubblicato il romanzo Dans le labyrinthe (Robbe-Grillet 1959). 21 22
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Esistono in tutte le lingue autori che sono stati letteralmente catturati dal problema del «gioco del linguaggio», per i quali la costruzione letteraria è direttamente legata a questo «gioco del linguaggio». Non direi che si tratti di una tradizione […]. Nel periodo in cui scriveva, verso il 1925, Roussel era piuttosto solitario e isolato, e non ha potuto, credo, essere compreso. In effetti ha trovati echi solo in due contesti, quello del surrealismo, con il problema, diciamo, del linguaggio automatico; e poi, verso gli anni Cinquanta-Sessanta, in un’epoca in cui il problema del rapporto tra letteratura e struttura linguistica non era soltanto un tema teorico, ma anche un orizzonte letterario.24
Mentre nel suo libro del 1963 tendeva a presentare lo scrittore come fin troppo consapevole e raffinato nel costruire meccanismi verbali, Foucault si mostra ora disposto a riconoscere in lui, e nelle sue opere, la presenza di una componente infantile. Tuttavia ribadisce l’idea della centralità del procedimento esposto in Comment j’ai écrit certains de mes livres: Il lavoro di Roussel dà la netta sensazione di essere sottomesso a un controllo estetico, a una regolazione dell’immaginario. Il mondo immaginario verso cui egli si orienta […] obbedisce a un certo numero di criteri estetici che gli conferiscono il suo valore. Mi è parso che tali criteri estetici – considerando tutte le combinazioni che si offrivano a Roussel – fossero inseparabili dalla natura del procedimento.25
Certo, resta sempre possibile apprezzare le opere dello scrittore anche ignorando, in esse, la presenza implicita delle omofonie, ma in tal modo si perde una componente essenziale: «Il fatto che ci sia un segreto, la sensazione di leggere una sorta di testo cifrato, fanno della lettura un gioco, un’impresa sicuramente un po’ più complessa, un po’ più inquieta, quasi un po’ più ansiosa di quando si legge un testo per puro piacere»26. L’intervistatore, opportunamente, sollecita il filosofo a pronunciarsi su due temi quasi assenti dalla monografia, ma che hanno avuto un ruolo significativo nell’esistenza di Roussel, ossia i rapporti che quest’ultimo ha intrattenuto con la droga e l’omosessualità. Foucault Archéologie d’une passion, in Foucault 2001, II, 1420. Ibid., 1423. 26 Ibid., 1424. 24 25
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si dichiara interessato ad entrambi gli argomenti, sia pure su un piano più generale. Rivela infatti di aver coltivato, per qualche tempo, il progetto di scrivere uno studio sulla droga come cultura nel mondo occidentale, dal primo Ottocento in poi. Analogamente, pur riconoscendo che potrebbe esistere un nesso tra il gusto della crittografia in Roussel e il fatto che quest’ultimo abbia tenuto rigorosamente nascosta la propria omosessualità, preferisce allargare il discorso: Uno scrittore non realizza la sua opera soltanto nei libri, in ciò che pubblica, e in fin dei conti la sua opera principale è se stesso che scrive i libri. Ed è questo rapporto fra lui e i suoi libri, fra la vita e i libri, ad essere il punto centrale, il fulcro della sua attività e della sua opera. La vita privata di un individuo, le sue scelte sessuali e la sua opera sono collegate fra loro, non perché l’opera traduca la vita sessuale, ma perché comprende sia la vita che il testo.27
Si tratta di dichiarazioni impensabili per il Foucault dell’epoca di Raymond Roussel, perché allora egli era incline semmai a privilegiare, su influsso dello strutturalismo, l’idea dell’autonomia dei testi nei confronti dell’autore. Ma, nel frattempo, molte cose sono cambiate, e a partire dall’inizio degli anni Ottanta, attraverso lo studio della cultura greco-latina e il lavoro all’Histoire de la sexualité, il filosofo si è immerso in un campo problematico in cui temi come quelli del processo di soggettivazione e dell’estetica dell’esistenza svolgono un ruolo essenziale28. Ciò gli consente di guardare ormai a distanza, ma non senza simpatia e nostalgia, al proprio volume del 1963, e di parlarne, da ultimo, come se si trattasse di una specie di scappatella giovanile: È un libro a parte nella mia opera. E sono molto contento che nessuno abbia mai cercato di spiegare che, se avevo scritto il libro su Roussel, era perché avevo scritto quello sulla follia e stavo per occuparmi della storia della sessualità. Nessuno ha mai prestato attenzione a questo libro, e ne sono molto lieto. È la mia casa segreta, una storia d’amore che è durata alcune estati. Nessuno ne ha saputo nulla.29
Ibid., 1426. Ci riferiamo al secondo e terzo volume dell’Histoire de la sexualité (Foucault 1984a e 1984b), ma anche ai corsi tenuti da Foucault al Collège de France durante i suoi ultimi anni di vita, dal 1980 al 1984. 29 Archéologie d’une passion, in Foucault 2001, II, 1426-1427. 27 28
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Vincenzo Cuomo Per un’estetica non simbolica
1. Sovra-eccitazione ed ebbrezza
V
ai al cinema odoroso, stasera Enrico? – chiese l’Assistente Predestinatore – Mi hanno detto che c’è una novità all’Alhambra; una cosa di prim’ordine. C’è una scena d’amore su una pelle d’orso; dicono che è meravigliosa. Hanno riprodotto ogni singolo pelo dell’orso. Gli effetti tattili più sorprendenti […] (Huxley 2001, 33).
In Brave New World, Huxley descrive una forma di vita umana sottoposta ad un controllo totalitario soprattutto estetico ed emozionale, prodotto attraverso tecniche di esaltazione e non di repressione delle emozioni e degli affetti da cui, tuttavia, sono banditi quelli “negativi” (ansia, sindromi depressive, rabbia, tristezza...). Gli strumenti di tale controllo bio-politico sono essenzialmente due: il continuo ricorso al soma – una droga “sicura” a piccole dosi che consente il perdurare dell’equilibrio emotivo – e la partecipazione a riti “estetico-artistici” quale la fruizione di film sensorio-emozionali o la partecipazione a riti collettivi para-orgiastici, in cui la droga somatica, la danza, la musica e il sesso si confondono inestricabilmente. Al di là del suo valore letterario – spesso messo in discussione – il noto romanzo di Huxley cartografa, per quanto nelle modalità del genere della distopia, una forma di vita quasi del tutto ridotta ad una dimensione estetico-emozionale. Che le forme di vita umane stessero per subire un processo trasformativo profondo, era stata una tesi, ben altrimenti articolata, di Nietzsche. Nelle sue ultime riflessioni, esplicitamente pensate contra Wagner, egli aveva avuto modo di scrivere: I problemi che [Wagner] porta sulla scena – né più né meno che problemi isterici –, il carattere convulso delle sue passioni, la sua sovreccitata sensibilità, il suo gusto che anelava alle droghe sempre più
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piccanti, la sua instabilità, travestita da lui in princìpi, e non meno di ogni altra cosa la scelta dei suoi eroi e delle sue eroine, considerati come tipi fisiologici (– una galleria di malati!): tutte queste cose insieme rappresentano un quadro clinico che non lascia dubbi. Wagner est une névrose […]. Wagner è una grande rovina per la musica. Egli ha còlto in essa un mezzo per eccitare nervi stanchi – in tal modo ha ammalato la musica. […] È un maestro nella presa ipnotica, abbatte anche i più forti come fossero tori (Nietzsche 1975a, 15).
Il giudizio di Nietzsche è senza dubbio ingeneroso sul piano del valore “artistico”, ma coglie nel wagnerismo una tendenza esteticoartistica che asseconda e rafforza la sovraeccitazione fisiologica che egli riscontra tra i suoi contemporanei. La società che egli giudica “malata” di nervosismo è già una società “eccitata”, è già una società della “sensazione” (Türcke 2012), di cui egli non coglie la complessità delle cause, ma comprende che la più importante espressione artistica del suo tempo, la musica di Wagner – che, esplicitamente, vuole dare espressione al «mare del sentimento stesso» (Wagner 1963, 148) – ha un ruolo di cerniera e di amplificazione di tali tendenze. Nietzsche è già da qualche anno impegnato nella stesura della sua opera fondamentale, la Volontà di potenza (Nietzsche 1995), e molte sono le sue riflessioni sull’arte. Come ha messo in evidenza Heidegger (Heidegger 1995, 78-164), la concezione che Nietzsche sostiene si fonda sull’assunto che l’ebbrezza sia lo stato estetico fondamentale. Nella sua concezione dell’arte c’è quindi qualcosa che dall’inizio lo avvicina alla poetica wagneriana, ma c’è anche una finalità che decisamente lo allontanava poiché «Wagner cercava la mera esaltazione del dionisiaco e il dissolvimento in esso, mentre [egli] mirava a domarlo e a dargli forma» (Heidegger 1995, 97). Per Nietzsche l’arte è «il massimo stimolante della vita» (Nietzsche 1995, 438), ma solo perché l’arte è una forma della “volontà di potenza” e non perché sia un mero strumento di sovra-eccitazione nervosa. Già nel 1882 Nietzsche scriveva: «la nostra epoca è un’epoca di sovra-eccitazione, e proprio per questo non è un’epoca di passione; si surriscalda continuamente perché sente di non essere calda – in fondo ha freddo» (Nietzsche 1975b, 75). L’epoca a lui contemporanea gli si manifesta come un’epoca di affetti frenetici e fugaci ma anche come epoca priva di grandi passioni. Chi è in preda agli affetti si disperde in uno stato sentimentale confuso, vago, sovra-eccitato ma senza centro, mentre la passione, specie la grande passione, raccoglie la soggettività nel suo centro di forza e le consente di aprirsi al mondo, volendo al-di-
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là-di-sé, ben al di là delle proprie convenienze e interessi. La passione così intesa ci fa capire qualcosa di ciò che Nietzsche chiama “volontà di potenza”: «affetto è l’attacco che acceca, la passione è lo slancio nell’ente che raccoglie e rende lucidi», chiosa ancora Heidegger e aggiunge: poiché la passione ci riprende nel nostro essere, ci libera nei suoi fondamenti e ci scioglie […], sono proprie della passione – si intende: della grande passione – la dissipazione e l’inventiva, non solo il saper dare via, ma anche il dover dare via e contemporaneamente quel non curarsi di dove vada a finire quanto è dissipato, quella superiorità impassibile che connota la grande volontà (Heidegger 1995, 60).
Insomma, l’apparente vicinanza di Nietzsche a Wagner mostra quasi subito la distanza tra le due prospettive. Lo stato estetico fondamentale è sì l’ebbrezza – nelle sue due modalità del “sogno” apollineo e dell’estasi dionisiaca – ma esso non solo non è per nulla qualcosa di passeggero o mero prodotto dalla sovra-eccitazione dei sensi, bensì è uno stato passionale che “vuole” la forma, che trova in essa la sua realizzazione piena. «L’ebbrezza non vuole dire caos che semplicemente schiumeggia e ribolle confusamente, l’ubriachezza del libero lasciarsi andare e delirare [...]. Ebbrezza significa per Nietzsche la più chiara vittoria della forma» (Heidegger 1995, 126). Dare misura e legge al caos della vita è ciò che Nietzsche chiama il “grande stile”. Ma le forme di vita contemporanee sono ancora in grado di “grande stile”? Dietro la feroce critica nicciana al wagnerismo si cela forse, a mio avviso, il timore che la vita umana sia entrata in un processo di trasformazione profondo a cui non sembrano in grado di sottrarsi le stesse espressioni estetico-artistiche.
2. Forme di vita (debolmente) simboliche
S
arebbe possibile mostrare come le forme di vita occidentali a partire dalla fine dell’Ottocento siano state percorse da profondi e potenti processi di de-simbolizzazione che hanno messo in crisi, forse irreversibilmente, la civilizzazione alfabetico-letteraria da un lato e indotto una trasformazione dei legami sociali e psichici dall’altro. Ho cercato di porre le basi per tale ricostruzione nel primo capitolo (La società eccitata e il campo del non simbolico) di Cuomo 2012. Vedi anche Cuomo 2007.
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Dietro la crisi del “grande stile”, delle “scienze europee”, della Politica e del Lavoro, crisi che si sono progressivamente manifestate nel Novecento, vi sono complessi ma descrivibili processi di crisi e trasformazione dei legami simbolici nei diversi campi dell’esperienza umana. Tali processi sono stati tecnologici e socio-economici. I rapidi progressi tecnoscientifici, la comparsa e la rapida diffusione delle tecnologie di registrazione delle immagini (fotografia, cinema), dei suoni (disco, magnetofono) e delle tecnologie della comunicazione a distanza (radio, televisione, Internet), le trasformazioni del capitalismo in senso consumistico (poi in senso finanziario), richiamandosi e implicandosi vicendevolmente, hanno condizionato tali trasformazioni. In sintesi le caratteristiche principali delle nuove “forme di vita” individuali contemporanee appaiono essere le seguenti: 1. In esse si riscontra una marcata oscillazione immaginaria dell’identità personale e, quindi, una sua scarsa stabilità “simbolica”. È ciò che si potrebbe definire processo di “immaginarizzazione” del simbolico; 2. Si osserva, invece, un potenziamento delle abilità operazionali e degli abiti “tecno-operativi” che ha come conseguenza una dilatazione della dimensione psichica del pre-avvertito, ma nella forma del pre-conscio tecno-abitudinario (cfr. Sloterdijk 2010); 3. Si osserva, al contempo, una dis-abitudine alla pratica della “distanza critica” nei confronti degli eventi a fronte di una padronanza delle pratiche “immersive” negli ambienti di vita, da quelli delle folle metropolitane, a quelli ludici di aggregazione collettiva, come le discoteche o i concerti rock, agli ambienti informatici virtuali (cfr. Diodato 2005) rispetto ai quali le nuove “forme di vita” appaiono molto più dotate di capacità di orientamento “situato” che non “geografico” e “prospettico”; Per l’uso che faccio della nozione di “simbolico” sono costretto ancora a rimandare al mio già citato saggio La società eccitata e il campo del non simbolico (in Cuomo 2012). Tuttavia, se volessimo indicare un senso generale e fondamentale delle nozioni di “simbolo” o “mondo simbolico” potremmo dire che espressione simbolica è qualsiasi “rappresentazione” o “forma” in cui si ritiene di riconoscere un significato specificatamente umano attraverso il quale ri-marcare i confini del mondo umano nei confronti delle altre dimensioni dell’essere, quali quella organico-biologica, quella inorganica e quella tecno-inorganica.
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4. Alla retorica fondamentalmente letteraria dell’interiorità, nelle recenti forme di vita individuale sembra essersi sostituita una retorica dell’intimità esibita ed estroflessa (come avviene nell’ambito dei “social net-work”); 5. Il pensiero logico-sequenziale, di tipo “alfabetico”, sembra essere stato in buona parte sostituito da un tipo di pensiero nello stesso tempo “olistico” e “multi-tasking”; 6. Le nuove forme di vita appaiono poco comprensibili se interpretate a partire dalla distinzione tra la “norma” e la “trasgressione”, tra la “legge” e l’anomia; appaiono meglio comprese, invece, attraverso le categorie dell’anomalia (vedi Baudrillard 2007, 27 sgg) e della singolarità (cfr. Agamben 2001; Nancy 2001; Cuomo 2009); 7. Si osserva in esse una diffusa “incapacità di attesa” che mostra una significativa trasformazione nel “vissuto temporale”; la ricerca incessante del nuovo come nuova sensazione le mette da un lato in una situazione di perenne eccitazione, dall’altro sottrae loro il tempo per l’elaborazione (simbolica) dell’esperienza (vedi Recalcati 2010; cfr. anche Masullo 2003). La mia tesi è quindi che le nuove forme di vita individuale, che si sono manifestate a partire dalla definitiva crisi del presupposto alfabetico, in particolare a partire da quel “precipitato” di motivi economici e tecnologici che sono stati gli Anni Sessanta dello scorso secolo, siano forme di vita attraversate da complessi processi non-simbolici. I media, come sapeva bene McLuhan, condizionano i mutamenti culturali e antropologici non agendo gli uni separatamente dagli altri, ma in sinergia, amplificando le loro potenzialità e ibridandosi continuamente (vedi McLuhan 1967). Così è avvenuto per quanto riguarda la crisi e la trasformazione antropologica alla quale mi sto riferendo. La crisi del presupposto alfabetico-letterario della civilizzazione occidentale (civilizzazione che ha avuto, beninteso, anche altre cause) è stata la conseguenza della ibridazione e del reciproco potenziamento dei vari media della comunicazione (e della interazione umana), in connessione con le trasformazioni iper-consumistiche del capitalismo.
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Tuttavia, se sottraiamo la descrizione di queste forme di vita alla comparazione con l’ideale (ribadisco, fondamentalmente, “alfabetico”) della soggettività “classica”, allora la valutazione circa le possibili linee di evoluzione di queste forme di vita assume contorni di maggior indeterminatezza. Se cambiassimo la prospettiva ermeneutica, non tutto quello che ci appariva segno di inesorabile declino della natura umana potrebbe manifestarsi più tale. Allora i processi e le dinamiche non simbolici, prima schematicamente descritti, potrebbero essere interpretati come l’apparire di un nuovo “campo di tensioni metastabili”, per dirla con Simondon, che attende ancora quel germe strutturale (o modulatore) capace di produrre una “trasduzione”, vale a dire una nuova strutturazione sociale e psichica (Simondon 2006, 146). Il “campo del non simbolico”, inteso in tal senso, potrebbe produrre nuove forme di strutturazione sociale e psichica, potrebbe produrre nuove forme di “individuazione”, sicuramente differenti (forse anche molto) da quella forma di individuazione che la tradizione occidentale ha conosciuto e ha nominato “soggettivazione” (Foucault).
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er tante ragioni il progetto di ripensare l’estetica e l’arte alla luce di quanto fino ad ora argomentato, potrebbe apparire ai limiti dell’impraticabile. Quali sarebbero le modalità attraverso le quali, all’interno del “campo del non simbolico” prima definito, l’esperienza dell’arte potrebbe essere ripensata? Se in questo caso non si tratta di opporre ancora la (spesso presunta) ricchezza dell’esperienza dell’arte alla povertà d’esperienza che caratterizzerebbe gran parte delle nuove forme di vita; se non si tratta di opporre ancora una volta la “simbolicità” dell’arte alla privazione simbolica dell’esistenza contemporanea, allora bisognerà riflettere sulle forme dell’arte contemporanee con uno sguardo capace di comprenderle “in uno” con quel “campo di tensioni metastabili” che ci è apparso essere il campo del “non-simbolico”. Sono molte le domande alle quali un’estetica non-simbolica dovrebbe dare quindi una risposta. Le categorie moderne dell’arte e dell’esperienza dell’arte oggi appaiono, infatti, se non destituite di senso, per lo meno fortemente messe in crisi. E questa è un’affermazione ampiamente condivisa dagli studiosi di estetica, anche se poi, nella maggioranza dei casi, a tale corretto presupposto segue una difesa
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delle tradizionali categorie estetologiche dell’espressione, dell’emozione estetica e, soprattutto, della “simbolicità (corporea)” dell’esperienza dell’arte. Queste categorie estetiche appaiono, invece, fortemente in crisi, nei fatti. Che ne è dell’immaginazione, dell’Einbildungskraft, profondamente radicata nella nostra corporeità, in una situazione in cui grazie alla mediazione tecnologica siamo messi in grado di percepire “immagini sensibili” che, sulla base della nostra dotazione bio-neurologica di specie, non saremmo mai in grado di esperire? E poi, che ne è dell’emozione estetica nell’epoca degli psico-farmaci? Che ne è dell’espressione soggettiva in un’epoca (quella del “discorso del capitalista”, per dirla con Lacan) in cui le soggettività appaiono polarizzate tra l’ipertrofia narcisistica dell’io e il loro soggiogamento da parte di pulsioni dell’es “slegate” e “acefale”? (Recalcati 2009 e 2012). Che ne è dell’arte come “espressione simbolica” nell’epoca delle “chimere” biologiche e dell’arte transgenica?
4. Novecento post-simbolico
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n effetti, se a partire da tale questione si guarda alla storia delle arti dello scorso secolo, è abbastanza semplice rinvenirvi un chiaro processo di de-simbolizzazione delle pratiche artistiche, processo su cui c’è una abbondante letteratura critica, anche se in qualche modo limitata dall’assunto, ormai classico, della Krisis della “grande forma” e dei “linguaggi artistici”, in particolare negli ambiti della musica, della pittura, della poesia e del romanzo. Si tratta di studi spesso fondamentali, ma tutti (o quasi) accomunati dall’assunto della inesorabile “crisi” di forme artistiche volte al progressivo silenzio, alla progressiva “fine”. La cosa davvero strana e paradossale è che, negli stessi decenni in cui la “grande forma artistica” declina, irrompono sulla scena da un lato le avanguardie storiche (cfr. Costa 1999), dall’altro lato il cinema comincia ad entrare nella sua “età dell’oro” e il radiodramma (negli anni Venti-Trenta) mostra come anche la radio possa essere utilizzata in chiave artistica. Sulle “chimere biologiche” cfr. Douarin 2001. Sull’arte transgenica cfr. Menezes 2003 e Kac 2003. Cfr. Cacciari 1976; cfr. anche i fondamentali Adorno 1975 e Ortega y Gasset 2005.
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Se si riflette in modo olistico su questi fenomeni, al di là del paradigma della Krisis e/o della “disumanizzazione dell’arte”, è possibile individuare da un lato una chiara tendenza alla de-simbolizzazione dei linguaggi e delle opere (dal “segno” al “significante”; dall’icona rappresentativa alla “figura”; dal semantico all’a-sematico), dall’altro il progressivo transito della narrazione e del “simbolico” all’interno delle nuove forme artistiche “popolari”, quali il cinema (ovviamente non tutto), il romanzo commerciale, il radiodramma, poi la fiction televisiva. Da un lato abbiamo, quindi, la fine del primato della parola, della narrazione e delle “storie”, dall’altro troviamo che la parola, la narrazione e le “storie” (ri)trovano il loro luogo di conservazione e di moltiplicazione nel cinema, nel romanzo popolare e nella fiction prima fotografica (i fotoromanzi) e poi televisiva. Solo in questa prospettiva a mio avviso è possibile continuare a mantenere quella separazione (novecentesca) tra “arte sperimentale” e “arte di massa” che è stata spesso messa acriticamente in discussione. Nonostante il fatto che sia oggi molto diffuso il rifiuto della distinzione tra arte “elevata” e arte “bassa” – rifiuto in cui trovo molto più snobismo (universitario) di quello presente nelle teorie “moderniste” dell’arte oggi universalmente messe sotto accusa –, se restiamo Si pensi al percorso di Joyce, dall’Ulisses a Finnegan’s Wake; si pensi, inoltre, a tutta la storia della poesia sonora, dal dadaismo e dal futurismo fino ai lettristi e alla poesia elettro-acustica di Henri Chopin; sulla storia della poesia sonora cfr. Fontana 2003; cfr. anche Costa 1999 e Cuomo 2004. Ovviamente i riferimenti sono a Lyotard 2008 e a Deleuze 1995. Cfr. Kristeva 2006. Che non tutto il cinema sia stato narrazione popolare è attestato in modo inequivocabile da Gilles Deleuze nei suoi due volumi cinematografici Deleuze 1984 e 1989. Richard Shusterman, nella sua critica all’estetica “intellettualistica” e nella sua apologia della cultura e dell’arte pop, sicuramente in ragione dei suoi presupposti “pragmatistici”, a mio avviso confonde continuamente i piani di una critica “contenutistica” e quella di una critica “formale”. Ad esempio, egli rivaluta da un lato il rock in ragione del necessario coinvolgimento “somatico” che impone e prevede, e lo fa, a suo dire, in chiave anti-platonica, riabilitando il piacere estetico nelle sue modalità “fisiologiche”, “somatiche” (e molto poco “kantiane”); dall’altro lato, per difendere il rock dalle critiche “intellettualistiche” che lo considerano mera arte “somatica”, sostiene che esso è stato da sempre portatore di istanze di critica sociale e politica – implicitamente accettando il punto di vista dell’avversata estetica modernista, critica nei confronti di tutte quelle espressioni estetico-artistiche tendenzialmente somatico-fisiologiche (vedi Shusterman 2010, 136-137).
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all’interno della storia delle arti dell’Ottocento e del Novecento (senza quindi tentare alcuna generalizzazione alle altre epoche storiche), non c’è alcun motivo per rifiutare anche la distinzione tra arte “sperimentale” e arte di “massa”. Secondo tale distinzione, “sperimentali” possono risultare senz’altro espressioni artistiche “pop” – pensiamo a Jimy Hendrix oppure a molte cose di Frank Zappa o di Prince, per fare esempi musicali; oppure pensiamo anche a tante interessanti e innovative esperienze grafiche nel mondo del fumetto; oppure anche a programmi televisivi, come a “Cinico TV” di Ciprì e Maresco, così come alle sperimentazioni televisive di Carmelo Bene, per citare due esempi italiani – così come possono risultare terribilmente standardizzate tante operazioni di “arte contemporanea” che circolano nei grandi musei globalizzati. Ripeto, se facciamo riferimento alla storia delle arti e della letteratura dell’Otto-Novecento, troviamo “arte” di valore solo quando c’è sperimentazione, vale a dire rottura di schemi, di cliché percettivi, affettivi, cognitivi.
5. Arte come estetica sperimentale
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partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, l’arte sperimentale ha assunto delle caratteristiche più specifiche. Si trattava di fare i conti con l’irruzione delle moderne tecnologie della visione e del suono (penso, ad esempio, alla video arte e alla musica elettronica). Più in là si è trattato di fare i conti con l’universo dei nuovi qualia che la strumentazione tecnica consente di percepire, mediante le opportune “interfaccia” – penso, ad esempio, agli ultrasuoni, alle immagini “termiche”, ai suoni della ionosfera, alle pulsazioni delle stelle “pulsar” ma anche ai processi osmotici intercellulari, ai processi bio-elettrici, alle radiazioni di ogni tipo, tutti qualia che sono stati oggetto di esperienza artistica (Cuomo 2007) – e che allargano il campo di azione “sperimentale” dell’operare artistico (ormai in-decidibilmente anche “tecnologico”) ben al di là della semplice sperimentazione “linguistica”. La ricerca tecno-artistica portata avanti da un numero crescente di sperimentatori a partire dagli anni Ottanta del Novecento, si è caratterizzata come vera e propria “estetica sperimentale” la cui finalità è stata ed è quella dell’allargamento della consapevolezza dei processi e delle connessioni ontologiche che la specie umana intrattiene con le altre dimensioni dell’essere, con le altre specie viventi e con il nonvivente, con l’universo tutto.
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In questo caso, l’esperienza dell’arte non può essere intesa solo come un esercizio di “raddoppio” delle “condizioni della conoscenza”, per “mantenere in esercizio” le capacità conoscitive (D’Angelo 2011), ma deve essere interpretata come un vero e proprio esercizio di “ontologia sperimentale” teso ad esercitare le capacità di “ibridazione” della specie umana con tutte le altre dimensioni dell’essere.
6. Poetica della sensazione e poetica del vuoto
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mio avviso, a partire dal Novecento (ma con ampi prodromi ottocenteschi), due sono le “poetiche” che sono state praticate nelle forme “sperimentali” dell’arte: la poetica della sensazione e la poetica del vuoto. Apparentemente molto distanti, queste due scelte di poetica, se valutate nei loro effetti, appaiono del tutto complementari, quasi come due differenti modalità di elaborazione di forme ed eventi artistici appartenenti al campo del non-simbolico. Con riferimento generale alle riflessioni di Deleuze, potremmo perciò definire subito la poetica della sensazione come “apprensione estetica” delle forze del “fuori” (dal mondo simbolico), che sono sia le forze “sentite” dal nostro “corpo” e che lo forzano a modificarsi, sia le forze che il nostro corpo, per la sua stessa costituzione biologica, non potrebbe “sentire”, ma con le quali convive, fa i conti comunque, per quanto inavvertitamente. Con queste “forze del fuori” dobbiamo imparare ad ibridarci, ma nella massima eterogeneità. Con la “poetica del vuoto” ci troviamo di fronte ad un altro atteggiamento estetico ed artistico. Il “vuoto” è qui il vuoto del soggetto espressivo. Fare il vuoto del soggetto è la condizione di un’operazione di “meditazione estetica” non più di “espressione”10. Si tratta di indurre le soggettività umane a guardare “fuori”, ad abbandonare progressivamente il mondo simbolico, ad abbandonare il mondo per diventare capaci di sentire l’ambiente fino a divenire semplici corpi senzienti. Secondo la logica della sensazione, si tratterà quindi di passare dal sentire “corporeo” e “carnale” ad un’apertura sensibile alle forze non10 Per una ricostruzione di quella che qui chiamo poetica del vuoto, bisognerebbe approfondire le ragioni (tutte “occidentali”) del successo, a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, delle poetiche orientali del “vuoto” e della “meditazione” di derivazione zen non solo presso il largo pubblico ma anche presso artisti-sperimentatori di grande importanza, quali Jerzy Grotowski o John Cage. Cfr. Pasqualotto 2006 e Jullien 1999. Cfr. inoltre Cage 2010 e 1996.
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sensibili che popolano il cosmo. Secondo la logica del vuoto si tratterà di passare dall’espressione soggettiva ad una meditazione sul “fuori” del mondo (simbolico). Le poetiche che rientrano nell’ambito di riflessione di un’estetica non-simbolica, nonostante le loro differenze/eterogeneità hanno in comune innanzitutto tre caratteri: a) non sono umanisticamente “centrate” perché – ma in un senso forse ancora più radicale di quello prospettato da Deleuze – teorizzazioni della “messa in forma” dei divenire non umani dell’uomo, fino a configurarsi come campi di “ontologia sperimentale” delle ibridazioni dell’umano con ogni altra dimensione dell’essere; b) non sono poetiche del “senso”, né del pre-categoriale, ma poetiche dell’insensatezza – insensatezza intesa sia come il “vuoto di senso” che troviamo al centro di molteplici opere d’arte del passato e delle opere più significative del Novecento, sia anche come quel “non-senso” che è al di là del mondo simbolico, al di là della “casa dell’essere”; c) sono un “contro-movimento” nei confronti del rischio che i processi di de-simbolizzazione delle attuali forme di vita siano puramente de-generativi e non trans-forma-tivi. A tal proposito sopra ricordavo una nozione di Gilbert Simondon, quella di “modulatore” o “germe strutturale”. Allora potremmo caratterizzare, almeno provvisoriamente, la funzione “a venire” dell’arte seguendo tale suggerimento teorico. Come “modulatori”, “germi strutturali”, le opere d’arte sperimentali che implicitamente o esplicitamente seguono le poetiche non-simboliche della sensazione e del vuoto, potrebbero esser capaci di diventare elementi “trasduttivi”, date alcune circostanze favorevoli, data una certa soglia di metastabilità del campo non-simbolico in cui le forme di vita contemporanee potrebbero trovarsi. È forse a questo che pensava John Cage quando affermava che la musica aleatoria potesse essere produttiva di nuove connessioni sociali e nuove strutturazioni psichiche. L’estetica non-simbolica è essa stessa un campo di tensioni metastabili tra poetiche differenti, ma è un campo che è in grado di dare un (provvisorio) nome e un senso a molteplici esperienze artistiche contemporanee che diversamente resterebbero relegate all’apprezzamento di nicchia oppure confuse nel mare magnum delle espressioni della cultura post-moderna. Inoltre, tale prospettiva estetologica è capace di contribuire ad una rilettura della storia delle arti dei secoli passati: abbandonando l’angolo ristretto delle tradizionali estetiche “simboli-
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che”11, non solo sarebbe in grado di mettere in evidenza la presenza (niente affatto marginale) della dimensione del non-simbolico all’interno delle arti del passato, ma potrebbe essere capace di proporre nuove ipotesi sulla stessa origine delle arti. Bibliografia Adorno, Th.W. (1975), Filosofia della musica moderna, trad. it. di G. Manzoni, Einaudi, Torino [Philosophie der neuen Musik, J.C.B. Mohr, Tubingen 1949]. Agamben, G. (2001), La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino. Baudrillard, J. (1983), Le strategie fatali, trad. it. di S. D’Alessandro, SE, Milano [Les stratégies fatales, Grasset & Fasquelle, Paris 1983]. Cacciari, M. (1976), Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano. Cage, J. (1996), Lettera ad uno sconosciuto, R. Kostellanetz (cur.), trad. it. di F. Masotti, Socrates, Roma [Conversing with Cage, R. Kostellanetz (ed.), Routledge, New York and London 2003]. Cage, J. (2010), Silenzio, trad. it. di G. Carlotti, Shake, Milano [Silence, Wesleyan University Press, Middletown 1961]. Costa, M. (1999), Estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma. Costa, M. (2007), La disumanizzazione tecnologica. Il destino dell’arte nell’epoca delle nuove tecnologie, Costa & Nolan. Cuomo, V. (2004), Del corpo impersonale. Saggi di estetica dei media e di filosofia della tecnica, Liguori, Napoli. Cuomo, V. (2007), Al di là della casa dell’essere. Una cartografia della vita estetica a venire, Aracne, Roma. 11 Non è possibile neanche tentare in questa sede un’analisi critica delle estetiche “simboliche”, raggruppabili a mio avviso in tre ampie categorie: 1) estetiche della poesia (fondamentalmente logocentriche, come quelle hegeliana e heideggeriana, al di là delle loro differenze); 2) estetiche del sentire (come quella elaborata da Katherina Langer o come le estetiche “fenomenologiche” nel loro complesso); 3) estetiche della sublimazione (psicoanalitiche). Tutte e tre queste importanti linee filosofiche non sono oggi in grado di comprendere il senso dei processi di de-simbolizzazione ai quali sono sottoposte le attuali forme di vita umane.
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Bruno Moroncini Sul rapporto tra filosofia e psicoanalisi Un percorso tra Derrida, Ricœur e Lacan
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a filosofia contemporanea è una filosofia della distruzione: sorgendo a partire da Kant sulle macerie della metafisica, dell’ontologia dell’essere semplicemente presente, si è imposta come compito quello di sgombrare definitivamente il campo del pensiero dagli ultimi resti del corpo decomposto della tradizione. Come notava Derrida ne La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane una frattura incomponibile si è prodotta nel cuore del pensiero classico: la struttura non ha più centro. L’organizzazione sistematica delle discipline, l’albero delle scienze con la metafisica a fare da radice, l’enciclopedia filosofica, si erano poggiate fino a quel momento sulla presenza di un centro che imponesse un ordine, stabilisse delle gerarchie e indicasse delle finalità. Indifferente era poi il nome che aveva ricevuto – eidos, arché, telos, energeia, ousia etc. – nel corso dei secoli e nel succedersi delle correnti filosofiche. A decidere di un tale decentramento, di una tale decapitazione, erano stati, secondo Derrida, tre avvenimenti di pensiero rappresentati nell’ordine: dalla critica nietzscheana della metafisica in cui il concetto tradizionale della verità era stato sostituito con quelli di gioco, interpretazione e segno, dalla critica freudiana della coscienza e del soggetto, e dal tentativo heideggeriano della distruzione della metafisica (Derrida, 1971, 361). Tutte e tre queste pratiche di pensiero riaprono, secondo Derrida, il gioco, ossia restituiscono alla struttura il suo carattere ‘ludico’, vale a dire aperto, differente e indecidibile. Sebbene sotto il nome di Freud avesse fatto già la sua comparsa quella che, se non è definibile come una scienza umana vera e propria, discende perlomeno dallo stesso ceppo, Derrida tuttavia va ancora più oltre: il decentramento in atto non è soltanto filosofico, è anche e soprattutto politico, tecnico e economico e per dirla tutta non sarebbe nemmeno stato concepibile senza una critica dell’etnocentrismo che altro non è che eurocentrismo. Da questo punto di vista il ruolo del-
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le scienze umane e in particolare dell’etnologia di Levi-Strauss è più decisivo di quello propriamente filosofico: essa mette in bilico l’opposizione classica fra natura e cultura, fra l’universalità della natura e la relatività della cultura, mostrando come un dato sicuramente culturale come la proibizione dell’incesto sia allo stesso tempo universale, indipendente dalle differenze culturali. Dissolta l’opposizione fra natura e cultura, physis e nomos, tutte le altre – identità-differenza, universalità-singolarità, anima-corpo, ragione-sensibilità, ecc. – vacillano e la forma del pensiero metafisico costruito interamente su di esse viene meno. La decostruzione della filosofia non è quindi un fenomeno endogeno, essa è innescata invece dalla spinta esercitata dalle scienze umane di cui fa parte integrante il dispositivo della psicoanalisi. Queste tesi, come è noto, valgono solo a patto di rovesciarsi come un guanto su di un’altra scena: non solo il programma heideggeriano di distruzione della metafisica era stato già dal suo autore trasformato in una più mite attività di decostruzione evolutasi poi in pensiero rammemorante, ma anche quelle stesse scienze umane che avevano innescato il dispositivo della decostruzione della metafisica si erano rivelate agli occhi dell’allievo come ancora invischiate nella rete di quest’ultima. Come il tentativo di distruggere la metafisica della presenza scopre con rammarico non solo di star utilizzando per portare a compimento tale compito categorie e concetti dell’ontologia classica ma addirittura di enunciarsi nello stesso linguaggio, così quelle scienze e quelle pratiche che spingono ad una messa in discussione dei sistemi concettuali del pensiero metafisico mostrano ad una analisi più attenta di poggiare, il più delle volte inconsapevolmente, su quello stesso fondamento di metafore influenti, per dirla con Hans Blumenberg, o di differenze organizzate – prima fra tutte quella fra scrittura e voce – su cui si erge la tradizione di pensiero che ci si accinge a decostruire. Ciò vale per l’etnologia di Levi-Strauss non meno che per la psicoanalisi freudiana: non desta allora alcuna meraviglia il fatto che il saggio su Freud e la scena della scrittura contemporaneo a quello sulla Struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane prima ancora di iniziare si preoccupi, per così dire, di mettere le mani avanti. In un pre-testo in cui, con il pretesto di dare al lettore qualche informazione – luogo, data e occasioni – sulla genesi del saggio che si accinge a leggere, Derrida in realtà anticipa il criterio dell’interpretazione esatta di una lettura di Freud, compare una frase che oscilla fra la mera constatazione, l’avvertimento sollecito e preoccupato e la prescrizione im-
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perativa: «Malgrado le apparenze, la decostruzione del logocentrismo non è una psicoanalisi della filosofia» (Derrida, 1971, 255). Classico esempio di Verneinung, di denegazione, l’enunciato afferma in realtà la parentela stretta che intercorre fra la decostruzione e la psicoanalisi, una parentela messa a rischio solo dai residui di metafisica della voce e della presenza che ancora affligono il dispositivo freudiano. Quali sono allora ‘queste apparenze’ così simili al vero da produrre l’equivoco di una decostruzione come psicoanalisi della filosofia? Il fatto, risponde Derrida, che la decostruzione sia «l’analisi di una rimozione e di una repressione storica della scrittura da Platone in poi». Quel che conta è l’uso strettamente psicoanalitico del termine ‘rimozione’. Derrida mette i puntini sulle i: si tratta di una rimozione, non di una dimenticanza né di un’esclusione. La rimozione, infatti, «non respinge, non fugge, non esclude una forza esterna, contiene una rappresentazione interiore che delinea al suo interno, uno spazio di repressione». La necessità che debba essere una rimozione sta nel fatto che nei termini freudiani una rimozione non si distingue da un ritorno del rimosso: quel che importa infatti è che la rimozione sia una rimozione «non riuscita», una rimozione «in via di decomposizione storica». La decostruzione deve essere una rimozione perché se così non fosse sarebbe semplicemente un’ennesima variante di una critica astratta e razionalistica del corpo della tradizione, una critica di stampo ‘illuminista’ che si limita a contrapporre la verità all’inganno, la ragione all’errore e così via. Che la metafisica sia per se stessa in via di decomposizione e che in tal modo il testo filosofico sia tramato di sintomi, cioè di ritorni del rimosso, legittima il dispositivo della decostruzione così come i sogni o i lapsus validano l’interpretazione analitica. La presenza ossessiva della metafora della scrittura nella filosofia europea è la forma sintomatica del ritorno del rimosso. Ci sono anche altre categorie freudiane che sembrano spontaneamente trapassare nella decostruzione, disegnarne lo scheletro teorico: «l’enigma della presenza ‘pura e semplice’ come duplicazione, ripetizione originaria, auto-affezione, differanza» ne è ad esempio uno e un altro potrebbe essere il rapporto che la psicoanalisi istituisce fra phoné e coscienza. Derrida fa riferimento al tema freudiano della rappresentazione di parola come appartenente al preconscio che, dando una base teorica al logo-fonocentrismo, dimostra come esso non sia «un errore filosofico o storico nel quale si sarebbe accidentalmente, patologicamente, precipitata la storia della filosofia […] bensì un movimento e una struttura necessari e necessariamente finiti» (Derrida, 1971, 255-256).
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Eppure queste sono nient’altro che ‘apparenze’. Sull’altro piatto della bilancia bisogna mettere il fatto che i concetti freudiani «appartengono tutti, senza alcuna eccezione, alla storia della metafisica, cioè al sistema di repressione logocentrico che si è organizzato per escludere o abbassare, mettere fuori e in basso, come metafora didattica e tecnica, come materia servile o escremento, il corpo della traccia scritta» e vanno usati quindi con le virgolette. In realtà i concetti freudiani non si confondono mai con i loro equivalenti metafisici e tradizionali e sulla loro possibile confusione Freud ha sempre preso tutte le precauzioni necessarie. È vero però che non si sia mai interrogato sul senso storico e teorico di queste precauzioni, sul perché fosse costretto a prenderle. Bisogna quindi liberare anche la psicoanalisi e le scienze umane in generale da queste complicità metafisiche. Se ne deduce che la decostruzione della metafisica resta di pertinenza filosofica non solo, ma che anche le scienze umane e la psicoanalisi debbano sottoporsi alla sua verifica critica. La decostruzione della filosofia si rovescia paradossalmente nella sua riaffermazione. Questa difesa delle prerogative della filosofia nei confronti della psicoanalisi cui indirettamente perviene il dispositivo della decostruzione resta tuttavia lontanissimo dall’annessione di stile quasi coloniale in cui si è impegnata una buona parte della filosofia contemporanea di cui il rappresentante più importante, o fra i più importanti, è Paul Ricœur. In primo luogo si dovrebbe ricordare che dopo un primo periodo caratterizzato da indifferenza o ostilità della filosofia nei confronti della psicoanalisi, il riconoscimento dell’importanza della scoperta freudiana va datata a partire dal momento in cui si è potuto ridurre la psicoanalisi ad un fatto genericamente culturale. Di fronte all’influsso che la psicoanalisi esercitava ad esempio nel campo delle arti letterarie e figurative e in quello delle scienze, la psicoanalisi poteva essere assunta come un momento sì importante, ma non più importante e decisivo di tanti altri, della cultura in generale. In gioco quindi non era quanto di specifico la psicoanalisi fosse in grado di apportare alla critica del concetto di ragione e quanto fosse capace di concorrere ad un suo nuovo esercizio, bensì quanto contribuisse all’autocomprensione della cultura in generale. Forte del fatto che lo stesso Freud avesse sentito il bisogno di affrontare sul piano della filogenesi ciò che andava elaborando su quello dell’ontogenesi e si fosse messo a scrivere non solo opere come L’avvenire di un’illusione, Totem e tabù, Il disagio della civiltà o Mosé e il monoteismo, ma anche i co-
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siddetti scritti sulla letteratura e sull’arte, tutta una schiera di filosofi o storici della cultura si è sentita autorizzata a servirsi di Freud a fini quasi sempre restaurativi e di conservazione credendo di poter fare a meno, non solo di tutto il resto dell’elaborazione teorica della psicoanalisi, ma soprattutto dei suoi risultati etici. Per Ricœur «la psicoanalisi mostra il suo vero intento quando si eleva al livello di una ermeneutica della cultura, rompendo il quadro limitato del rapporto terapeutico fra analista e paziente» (Ricœur 1977, 137). Né una scienza né un’etica e nemmeno una cura, la psicoanalisi interessa il filosofo solo come un’ermeneutica, un’interpretazione della cultura. La psicoanalisi, aggiunge Ricœur, «è un movimento della cultura, perché l’interpretazione che essa dà dell’uomo verte principalmente e direttamente sulla cultura nel suo insieme; con essa l’interpretazione diventa un momento della cultura; essa cambia il mondo interpretandolo» (ibidem). Il problema si sposta allora dalla psicoanalisi alla cultura. Bisogna evitare, dice Ricœur, in questo genere di considerazioni la contrapposizione fra la civiltà intesa come «un’impresa di dominio sulle forze della natura a scopo utilitario» e la cultura letta invece come «un compito disinteressato, idealista, di realizzazione di valori». Se una simile distinzione può cadere è proprio per merito della psicoanalisi che legge i fenomeni della cultura in senso economico, facendo costantemente un «bilancio degli investimenti e contro-investimenti libidinali» (ivi, 140). La cultura per Ricœur sembra essere caratterizzata da un equilibrio instabile fra utilità e valore, forza e senso, pulsione e simbolo. Quel che la psicoanalisi permette è di non trattare più il lato economico della cultura come spurio se non addirittura negativo, ma di assumerlo come una condizione imprenscindibile nella costruzione del valore. Continuare a ignorarlo o a tentare di espellerlo fidando nella supremazia o di una verità di tipo metafisico o nella certezza di un cogito incontaminato e trasparente significa nelle condizioni date della cultura contemporanea esporsi allo scacco e al nichilismo. Per Ricœur non c’è dubbio: il compito del filosofo resta la coscienza dal momento che solo la capacità autoriflessiva di quest’ultima, il suo costitutivo superamento dell’immediatezza, rende possibile la sfera del senso e quindi del valore. Per contro non si può più credere che la coscienza si formi come un fungo, dalla sera alla mattina, senza una storia o una evoluzione. C’è un’epigenesi della coscienza: e cosa meglio della psicoanalisi può darci le coordinate attraverso cui ricostruire
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la nascita della coscienza dal suo opposto, cioè dall’inconscio e dalla dinamica energetico-pulsionale? A condizione che non ci si fermi lì, ma si vada avanti verso la ricostituzione del senso. Si comprende allora come la tesi di Freud sulla cultura e cioè che essa sia fonte di disagio per il fatto di implicare per i soggetti umani la rinuncia al godimento, costringendo la pulsione a subire delle vicissitudini, da unica chiave di lettura della situazione umana diventi solo una parte, quella destruens, di un progetto più ampio il cui scopo è la salvaguardia della cultura e in particolare della sua dimensione religiosa dal momento che solo in quest’ultima la proprietà della coscienza di trascendersi e di aprirsi al senso e al valore trova il proprio fondamento. Per un lato la scelta di Ricœur è giustificata dal fatto che per Freud non è la scienza l’obiettivo polemico della psicoanalisi – che anzi da essa ci si attende legittimazione e appoggio. Ciò con cui la psicoanalisi è messa a confronto, ciò a cui contende un terreno che considera comune, è la religione, sia nel senso di chiesa organizzata sia in quello di un’esperienza soggettiva di una dimensione trascendente. Ricondurre la formazione di un culto della divinità agli effetti di un delitto commesso nei confronti dell’archetipo paterno si configura come la forma più violenta di decostruzione del fatto religioso che viene degradato al rango di un’illusione cui affidarsi per mitigare il senso di colpa susseguente al parricidio. Un’illusione tuttavia talmente necessaria agli occhi dello stesso Freud da avere l’avvenire assicurato: troppo debole la psicoanalisi per soppiantare definitivamente la potenza religiosa. Ma per Ricœur quel che conta è che possa serpeggiare il dubbio: e se la fede religiosa fosse veramente un’illusione? Se il senso religioso della vita non fosse altro che un modo per sgravarsi la coscienza dopo aver dato sfogo ai peggiori istinti? Se l’aspetto disinteressato del senso religioso nascondesse in realtà un investimento inconscio inconfessabile? Questa forma di sospetto sarebbe ben più devastante di una critica razionale e filosofica delle credenze religiose. Per queste ragioni la psicoanalisi secondo Ricœur non va né combattuta né respinta, ma deve entrare di diritto nella considerazione complessiva della cultura contemporanea intesa come cultura postilluministica, deve avere un posto di rilievo in un’ermeneutica della cultura in generale. Un posto tuttavia che permetta allo stesso tempo di poterla controllare perché non pretenda di più di quello che una sana disposizione culturale è disposta a riconoscerle. Le è assegnato un ruolo dal quale non deve debordare, quello del sospetto che legittimamente va
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portato su tutte le costruzioni culturali affinchè non si rivelino un inganno, trascinando nel discredito e nel disprezzo qualunque dimensione di valore. Se l’ermeneutica è «la scienza delle regole dell’esegesi la quale a sua volta è da intendersi come interpretazione particolare di un testo», essa ha però subito nella modernità un arricchimento per cui non è più solo l’interpretazione «dell’errore nel senso epistemologico, né [della] menzogna nel senso morale, ma [dell’] illusione» (Ricœur, 1967, 39). L’illusione è il lascito che l’illuminismo consegna alla cultura contemporanea di cui quest’ultima è obbligata a tener conto al punto da dover piegare lo strumento interpretativo fino ad allora usato per stabilire il vero e distinguerlo dal falso a render conto di quella prestazione culturale che da un lato non è riducibile ad un semplice errore, un mero sbaglio nel calcolo razionale facilmente rimediabile, e neppure dall’altro può essere trattato alla stregua di una menzogna intenzionale, imputabile ad una coscienza perversa e maligna, ma che è il risultato inevitabile dei modi oggettivi di costruzione e funzionamento della cultura. L’illusione non è un errore, ma, per parafrasare Heidegger, un erramento necessario che la cultura produce sui soggetti in cerca del senso. Marx, Nietzsche e ovviamente Freud sono i maestri di questo lato dell’ermeneutica della cultura la cui caratteristica è di essere una «tattica del sospetto» e una «lotta contro le maschere», ma a cui deve necessariamemnte affiancarsi l’altro lato, quello di un’ermeneutica della fede, cioè del senso, anche se di un senso restaurato, di un senso e di una fede che siano passati «attraverso la critica» (ivi, 42). Una fede critica è, nella prospettiva fenomenologica da cui Ricœur guarda ai problemi della cultura contemporanea, una fede riflessa, una fede cosciente, cosciente in primo luogo dei suoi limiti e dei possibili autoinganni. Dal momento che nella modernità è stata la filosofia del cogito a rendere possibile il principio della riflessività della coscienza e quindi della sua capacità di trascendere ogni immediatezza, l’ermeneutica del sospetto si applicherà in modo specifico al cogito come soggetto autocosciente del sapere in modo tale da poter conquistare il «Cogito vero contro tutti i falsi Cogito che lo mascherano» (Ricœur, 1977, 176). Leggere filosoficamente Freud vuol dire allora per Ricœur farlo rientrare di diritto all’interno di una filosofia del cogito attribuendogli la prestazione della ricostruzione archeologica del soggetto.
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Il dubbio che Cartesio esercitava contro i saperi e le autorità date perché alla fine, metodicamente perseguito, liberasse la consapevolezza di pensare, la coscienza in sé riflessa, da tutti i vincoli che la condizionavano, viene portato adesso dall’ermeneutica del sospetto direttamente «nel cuore stesso della fortezza cartesiana». Il filosofo educato alla scuola di Cartesio, prosegue Ricœur, sa perfettamente che le cose sono dubbie, che non sono così come esse appaiono, ma non dubita invece che «la coscienza non sia così come appare a se stessa», che in altri termini senso e coscienza del senso coincidano. Per Freud al contrario la coscienza è una coscienza falsa, il senso di cui la coscienza è portatrice potrebbe non essere quello attualmente presente alla coscienza, di cui cioè la coscienza è cosciente. Potrebbe essere il prodotto dell’inconscio e arrivare alla coscienza sotto mentite spoglie, trasformato fino a risultare irriconoscibile, effetto delle dinamiche affettive e dell’economia istintuale. Tuttavia i maestri del sospetto e quindi Freud non sono degli scettici: la distruzione di cui sono responsabili non è a sua volta distruttiva. Citando significativamente Heidegger, Ricœur può sostenere che la distruzione è in realtà «un momento di una nuova fondazione». I maestri del sospetto «liberano l’orizzonte per una parola più autentica, per un nuovo regno della Verità, non solo per il tramite di una critica ‘distruggitrice’, ma mediante l’invenzione di un’arte dell’interpretare» (Ricœur, 1967, 47). Freud in particolare vuole che «l’analizzato, appropriandosi del senso che gli era estraneo, allarghi il proprio campo di coscienza, viva in migliori condizioni e sia infine un po’ più libero e, se possibile, un po’ più felice» (ivi, 49). Se Nietzsche ha individuato nella volontà di potenza la genealogia della verità, Marx nell’economia la fonte segreta delle relazioni sociali, Freud ha dal suo canto rinviato la coscienza e il senso alla forza degli istinti: l’ermeneutica del sospetto è la riabilitazione contro l’idealismo della filosofia del cogito della provenienza naturale dell’uomo, del suo essere vincolato alle potenze dell’interesse e dell’affetto. Continuare a ignorarle comporta la sconfitta della filosofia e la crisi definitiva della cultura. In un saggio dal titolo ben più che programmatico La scienza e la verità risalente al 1965-1966 Lacan si interroga sullo statuto della psicoanalisi. Riprendendo una tesi freudiana Lacan in primo luogo ribadisce la filiazione scientifica della psicoanalisi: la scoperta dell’in-
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conscio nel senso freudiano non sarebbe stata possibile prima «della nascita, nel secolo che è stato chiamato secolo del genio, il XVII, della scienza» (Lacan 1974, 861). Ciò di cui si parla è proprio la scienza moderna, di ascendenza galileiana, che sostituisce alla natura quale si offre alla percezione sensibile una realtà fisica depurata di ogni determinazione qualitativa e ridotta a mero oggetto di calcolo, integralmente traducibile in equazioni matematiche e in algoritmi. All’emergenza dei saperi scientifici moderni corrisponde per Lacan la formazione di una nuova nozione del soggetto che trova la sua elaborazione nel discorso filosofico di Descartes: ciò che conta infatti in questa teoria del soggetto moderno individuato nel cogito è che esso non debba nulla non solo ai saperi precedenti per quanto legittimati dall’autorità della tradizione ma soprattutto alla sua costituzione naturale, vale a dire ai sensi, al corpo, all’immaginazione e alla passione. Per quanto una simile impostazione della questione del soggetto rasenti la follia – problema ben presente come si sa allo stesso Cartesio –, tuttavia il fatto che essa debba tagliare tutti i ponti con la sua costituzione naturale rappresenta un punto di non ritorno di cui qualunque avanzamento nel campo delle scienze dovrà tenere conto. Da questo punto di vista non solo la psicoanalisi non è un’ermeneutica ma non è nemmeno una scienza umana e/o una scienza dello spirito, non è cioè una posizione che contro l’astratezza o l’intellettualismo della scienza moderna vada a recuperare la concretezza e la corposità degli strati naturali del soggetto umano. Nel momento in cui si pone la questione del soggetto – vale a dire di ciò di cui si parla, dell’argomento di cui ci si occupa, ma anche del legittimo titolare di un sapere, quello dell’inconscio – di questa nuova scienza che è la psicoanalisi, bisogna resistere alla tentazione di individuarlo nell’uomo in quanto soggetto-oggetto delle scienze umane e/o dello spirito, ossia nel soggetto della psicologia, dell’antropologia, della sociologia o in quello delle discipline storico-ermeneutiche. Se la stessa espressione ‘scienza dell’uomo’ è in realtà priva di senso è perché, dice Lacan, «l’uomo della scienza non esiste» (ivi, 863), ad esistere è solo il suo soggetto. La scienza presuppone infatti la scomparsa dell’uomo – posto che sia mai esistito – a favore di una pura funzione soggettiva – il soggetto della scienza – capace di corrispondere ad un mondo fatto di figure geometriche e di quantità numeriche. Se c’è dunque un soggetto della psicoanalisi questi è il soggetto della scienza, il cogito.
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Potrebbe sembrare allora che Lacan e Ricœur, nonostante le differenze, si trovino quasi sulla stessa lunghezza d’onda. Non è così: non solo Lacan non rinnega la vocazione scientifica della psicoanalisi limitandosi a cambiare disciplina di riferimento, passando cioè dalla neurologia su cui si era attestato Freud alla linguistica strutturale saussuriana – un dispositivo che esibisce il suo carattere scientifico per il fatto di elaborare l’algoritmo del segno e di spostare il linguaggio dalla dimensione storico-diacronica cui naturalmente sembra appartenere a quella logico-sincronica tipica dei saperi naturali –, ma soprattutto si appropria in modo del tutto consapevole del tratto specifico della posizione cartesiana costituito dalla divisione del soggetto, una divisione fra la dimensione della certezza di sé raggiunta dal cogito con il proprio lume naturale e quella della verità che viene al cogito dall’Altro, qui chiamato un Dio verace e non ingannatore. A differenza del filosofo, per lo psicoanalista la pratica dell’interpretazione di cui si assume la titolarità non consiste nell’aver scoperto l’esistenza dei bassifondi soggettivi che debbono essere annessi alla cittadella del cogito pena la perdita di credibilità di quest’ultimo come fonte della produzione del senso, bensì nell’aver ribadito la Spaltung soggettiva, la scissione dell’io, fra coscienza e inconscio: quel che conta non è che il cogito ricuperi il suo lato naturale trascurato dal dualismo cartesiano, ma che la coscienza riconosca che l’attività del pensiero che ne costituisce la sostanza sia per buona parte inconscia e che sia regolata da leggi logico-sintattiche che nulla debbono a quelle che governano il pensiero conscio le quali coincidono in gran parte con i dispositivi già individuati da Aristotele nel suo Organon. L’equivalenza assicurata dall’algoritmo cartesiano ‘cogito ergo sum’ cade perché l’esistenza dell’inconscio ha come risultato la divaricazione fra pensiero e essere: il soggetto infatti la dove è non (si) pensa e se (si) pensa allora sicuramente non è. Se c’è pensiero c’è mancanza a essere. Il primo colpo portato dalla psicoanalisi alla filosofia è la messa in discussione radicale della posizione inaugurale di quest’ultima, ossia l’identità di pensiero e essere. In che modo questa identità può essere spezzata? È a questo proposito che per Lacan diviene decisivo il rimando alla linguistica strutturale saussuriana, soprattutto per il fatto che l’essere stesso è fatto di linguaggio e che quando il linguaggio si fa carico dell’essere allo stesso tempo lo annulla sostituendolo con la rete dei segni. Il potere del segno (significante nella lingua di Lacan) è infatti quello di star al posto della cosa che dal suo canto scompare, trapassa nel non essere.
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Se d’altronde la verità di cui la filosofia è perennemente in cerca è la verità dell’essere e se l’essere è linguaggio, se ne dovrà dedurre che la verità si forma via linguaggio, che la verità parla. Ma se la verità parla, se l’essere deputato alla ricerca della verità è l’essere parlante, allora la verità che si può dire sull’essere, compreso il sum del cogito, è una verità dimezzata, una verità senza essere, vale a dire senza fondamento. Per la psicoanalisi non si tratta di suturare il dualismo cartesiano ricostituendo l’unità dell’uomo, un modo antropologico per esprimere l’identità di pensiero e essere, ma di portare la scissione all’interno della verità: è la verità ad essere scissa e a provocare la scissione del soggetto per il fatto di parlare e parlando essere attraversata dalla divisione fra significante e significato, segno e referente, parola e cosa. Non desta meraviglia allora che Ricœur debba prendere una posizione esplicita nei confronti di Lacan e della centralità accordata da quest’ultimo alla dimensione del linguaggio: è intorno a questo punto che si gioca la partita decisiva del conflitto delle interpretazioni e del rapporto fra psicoanalisi e filosofia. Sia nel Conflitto delle interpretazioni che nel Saggio su Freud il dissenso è dichiarato senza precauzioni: «Le leggi del senso, in psicoanalisi, non possono ridursi a quelle della linguistica nata da Ferdinand de Saussure, da Hjelmslev o da Jakobson. Non si può ridurre l’ambiguità della relazione che il desiderio intrattiene con il linguaggio» (Ricœur, 1977, 183). Citando Benveniste, Ricœur aggiunge che «il simbolismno dell’inconscio non è un fenomeno linguistico strictu sensu: esso è comune a parecchie culture senza che c’entri la lingua» (ibidem). Nel Saggio su Freud, ribadendo che «il simbolismo dell’inconscio non è un fenomeno linguistico strictu sensu» (Ricœur, 1967, 430), Ricœur aveva approfondito la posizione di Lacan accusandola di voler sostituire con l’interpretazione linguistica di tutti i fenomeni inconsci quella economico-energetica. Paradossalmente il filosofo non può rinunciare al piano della forza, dell’energetica, regolato da un dispositivo economico – risparmio energetico e scarica –, anzi trasforma in un motivo di merito il fatto di tenerne conto perché in tal modo può dimostrare quanto abbia imparato la lezione e abbia capito che una posizione rigidamente idealistica o spiritualistica sia al giorno d’oggi insostenibile. In realtà il mero riconoscimento del piano della forza oltre quello del senso non intacca per nulla il primato di quest’ultimo, anzi lo rafforza perché lo pone nella condizione, conoscendolo, di controllarlo meglio.
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Che la posta in gioco sia il ruolo del linguaggio in psicoanalisi è dimostrato dall’attacco portato da Ricœur ad una lettura di un concetto freudiano che per Lacan è decisivo: la rimozione originaria e il suo oggetto, ciò che Freud definisce la Vorstellungsrepräsentanz. In più di un’occasione Lacan ha fatto vedere come l’espressione freudiana non andasse interpretata come ‘rappresentazione ideativa’ o ‘rappresentante rappresentativo’ ma come ‘rappresentante (vice) di rappresentazione’, dando alla locuzione il senso di una traccia, un significante, che sta al posto, fa le veci, di una rappresentazione mancata e mancante, di una rappresentazione che, dovendo rappresentare nello psichico quel che psichico non è, vale a dire un mero differenziale di energia, lo può fare soltanto costruendo un significante, ossia un segno che non solo significa in assenza della cosa significata, ma soprattutto che significa l’assenza come tale. Da qui la tesi che l’inconscio sia formato da significanti, che le tracce mnestiche e le rappresentazione di cui parla Freud non siano altro che dei significanti. Per Ricœur al contrario non è senza ragione che Freud non prenda in considerazione il linguaggio «quando tratta dell’inconscio», riservando la sua «funzione al preconscio e al conscio» (ivi, 429). Se un significante viene trovato da Freud nell’inconscio esso è una «rappresentanza dell’istinto (rappresentativo o affettivo) che appartiene esclusivamente all’ordine dell’immagine come d’altronde attesta la regressione dei pensieri del sogno allo stadio delle immagini fantastiche» (ibidem). Per Freud la forma «mediante cui l’istinto accede allo psichismo si chiama ‘rappresentanza’ (Repräsentanz), ed è un fattore significante, ma non ancora linguistico; quanto alla ‘rappresentazione’ propriamente detta (Vorstellung), non appartiene, nella sua trama specifica, all’ordine del linguaggio» (ibidem). Le repliche di Lacan a Ricœur sono molte e puntuali: vertono essenzialmente sul ruolo del linguaggio in psicoanalisi ma non disdegnano di prendere posizione anche su quello della pulsione libidica e quindi su quello che Ricœur chiamerebbe il lato della forza. In particolare nel seminario del 1964 I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, in un contesto in cui critica la neutralizzazione junghiana del concetto di Libido in una nozione generica di energia psichica, Lacan ricorda un intervento di Ricœur del 1960 antesignano delle tesi del Saggio dell’interpretazione in cui l’accesso difficile per un filosofo alla comprensione dell’incoscio non come «ambiguità delle condotte, futuro sapere che già si sa nel non sapersi», bensì come «lacuna, taglio,
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rottura che si iscrive in una certa mancanza» (Lacan, 1979, 155), viene sprecato sempre per colpa della postura filosofica e trasformato in ermeneutica. Ma è nel seminario ancora inedito del 1967-1968 L’acte psychanalytique che Lacan affronta direttamente la questione del rapporto fra il linguaggio e l’incoscio e la differenza fra la posizione filosofica e quella psicoanalitica. Tutto il problema sta nel come si legge la proposizione lacaniana secondo la quale ‘l’inconscio è strutturato come un linguaggio’. Non è la stessa cosa dire, come fa Lacan, che «l’inconscio è strutturato come un linguaggio» e sostenere, come implicitamente ritiene Ricœur e non solo lui, che «il linguaggio è strutturato come l’inconscio» (Lacan, 2001, 262): questa seconda tesi sostiene che «l’ordine dell’inconscio sarebbe ciò su cui può esser fondata la possibilità del linguaggio» (ibidem) e quindi non fa che ripetere la pretesa filosofica della ricerca di un fondamento quale che sia purché inconcusso. Tutto è meglio del dover riconoscere che il linguaggio è senza fondamento, che anzi svuota ogni ipotesi di un fondamento inconcusso del sapere, soprattutto del sapere di sé. Quando due anni dopo, nel seminario sul Rovescio della psicoanalisi, Lacan riprende tutta la questione, l’oggetto della polemica non è più esterno al campo della psicoanalisi, ma interno, a dimostrazione che la tentazione filosofica invade come un fantasma redivivo la teoria e la pratica degli psicoanalisti. In gioco è il saggio di Jean Laplanche e Serge Leclaire, L’inconscio. Un saggio psicoanalitico, uscito nel 1966, in cui i due psicoanalisti, credendo di interpretare al meglio la tesi di Lacan di cui si ritengono seguaci, ribadiscono il rapporto genetico fra l’inconscio e il linguaggio, dichiarando che l’inconscio è la condizione del linguaggio. Al che Lacan risponde che tale tesi è filosofico-universitaria e che «il linguaggio è la condizione dell’inconscio – è questo che io dico» (Lacan, 2002, 44). Il problema è sempre lo stesso: sem Tutta la faccenda è ricostruita da Anika Rifflet-Lemaire nella sua tesi universitaria su Lacan (cfr. A. Rifflet-Lemaire, Introduzione a Jacques Lacan, tr. it. di R. Eynard rivista da L. Agresti, Astrolabio, Roma 1972, pp. 150-176). Nonostante le precauzioni prese dalla Rifflet-Lemaire, messa sull’avviso da un colloquio personale con Lacan, la prefazione scritta da quest’ultimo al libro ribadisce le riserve sia nei confronti di Laplanche-Leclaire che dell’autrice, accusati entrambi di tradurre la psicoanalisi in discorso e sapere universitari. Per il libro oggetto della disputa cfr. J. Laplanche – S. Leclaire, L’inconscio. Un saggio psicoanalitico, tr. it. di L. Boni, Pratiche, Parma 1980.
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bra difficile se non impossibile leggere il processo primario così come presentato da Freud con gli strumenti della linguistica. Nel passaggio dalla rapprentazione di cosa propria del processo primario, dell’inconscio, a quella di parola, prestazione specifica del preconscio e poi della coscienza, si troverebbe al contrario una prova ulteriore della bontà della psicoanalisi che avrebbe aiutato a risolvere anche il problema dell’origine del linguaggio individuandola nell’inconscio, vale a dire negli stadi preverbali dell’evoluzione umana. In tal modo però la psicoanalisi viene ritradotta in sapere, un sapere insegnabile e trasmissibile, un sapere degno di essere insegnato da una cattedra universitaria alla stessa stregua di quello antropologico o sociologico. Ma la psicoanalisi è questo? O non è quella pratica, etica si potrebbe dire, che poggiando sulla scienza del linguaggio, è in grado di ascoltare ciò che nel discorso del soggetto sfugge in linea di principio al sapere cosciente pur essendo, anzi proprio perché lo è, la verità che lo marchia a fuoco, la verità del suo desiderio? Ciò che la psicoanalisi deve mantenere è la scissione del soggetto e per farlo è obbligata a porre il linguaggio come condizione dell’inconscio: è il linguaggio infatti che quando si impadronisce del soggetto del bisogno, dell’individuo biologico-naturale che noi tutti siamo, lo restituisce come un parlessere, come un essere parlante, che per esser tale è necessariamente scisso fra il significato e il significante, fra la coscienza e l’inconscio, fra il sapere e la verità. Scisso fra un sapere illusorio e una verità persa nel vuoto. Bibliografia Derrida J. (1971), La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino [L’écriture et la différence, Paris, 1967]. Lacan J. (1974), La scienza e la verità in Scritti, ed. it. a cura di G. Contri, Einaudi, Torino [Écrits, Éditions du Seuil, Paris 1966]. Lacan, J. (1979), Il Seminario. Libro XI. I quattro conceti fondamentali della psicoanalisi 1964, ed. it. a cura di G. Contri, Einaudi, Torino [Le séminaire de Jacques Lacan. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Éditions du Seuil, Paris 1975]. Lacan, J. (2001), L’acte psychanalytique. Séminaire 1967-1968, Éditions de l’Association Freudienne Internationale, edizione fuori commercio, Paris.
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Francesca Dell’Orto L’autenticità mancata Note per una fenomenologia dell’individuazione tecnologica
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l concetto di autenticità ha radici lontane nella filosofia. È, anzi, uno di quei concetti all’ombra del quale, da Socrate in poi, la filosofia ha dimorato, iniziando faticosamente a discostarsene soltanto con Kierkegaard e Nietzsche, e soltanto al prezzo di mettere radicalmente in crisi la propria struttura, nel frattempo andata consolidandosi come metafisica e trascendentale. L’idea di autenticità, riportandoci al motto delfico «Γνῶθι σεαυτόν», ne contiene implicitamente altre due: un’idea di origine, e un’idea di origine intesa come identità dello stesso. È dunque facile intuire come prendere sul serio posizione contro l’autenticità comporti necessariamente il tentativo di argomentare e legittimare, non solo e non tanto da un punto di vista esistenziale, ma soprattutto da un punto di vista ontogenetico e logico, l’inautenticità derivante da uno statuto alterante dell’origine, se non da un suo fondamentale venir meno. Ma non basta: tale legittimazione non può a sua volta risultare credibile che dimostrando come questa mancanza sia in realtà costitutiva – e non accidentale, non meramente privativa – dell’umano in quanto tale e delle sue possibili determinazioni come individuo e soggetto. Gilbert Simondon prima, e Bernard Stiegler sviluppando il suo insegnamento, opportunamente integrato dalla lezione di Heidegger e Derrida, si cimentano in un’impresa di stravolgimento dei paradigmi di pensiero occidentali, sclerotizzatisi in dualismi statici e sterili, partendo proprio dal riposizionamento assiologico – e, soprattutto per quanto riguarda Stiegler, “organologico” – di ciò che la filosofia Sono piuttosto l’autenticità e l’origine a essere accidentali e arbitrarie. Bernard Stiegler chiama «organologia generale» il metodo che si propone di cogliere lo sviluppo congiunto nel corso della storia umana – la cosiddetta epifilogenesi – degli organi fisici, artificiali, e delle organizzazioni sociali. Essa descrive quindi una relazione triadica in cui ogni organo fisico, compreso lo stesso cervello, sede
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ha tradizionalmente relegato al ruolo strumentale e subordinato dell’inessenziale e dell’a posteriori: la tecnica. Simondon coglie la specificità dell’oggetto tecnico a partire dalle condizioni di possibilità del suo divenire, dai «criteri della [sua] genesi» (Simondon 1969, 20), e dalla descrizione del suo modo di esistenza, fino a cercare l’essenza della tecnicità tout court, come mostra la terza parte di Du mode d’existence des objets techniques (ivi, 154). L’oggetto tecnico non è questa o quella cosa, data hic et nunc, ma ciò di cui si dà una genesi (ivi, 20) e tale genesi corrisponde a quella che Simondon chiama «individuazione». Bisogna insomma che l’oggetto tecnico non sia soltanto concepito e fabbricato, come un qualsiasi oggetto artificiale, che dipende essenzialmente dalla decisione e dall’arbitrio umano, ma che sia il prodotto di una sorta di necessità più ampia derivante dalla propria genesi come individuo, da una genesi individuante. La nozione stessa di individuo, dunque, che si riferisca all’individuo vivente, a quello fisico, o a quello tecnico, deve essere ridefinita in maniera critica rispetto alla concezione classica secondo cui esso corrisponderebbe a una sostanza stabile composta di elementi a loro volta stabili (con implicazioni allo stesso tempo ontologiche e logiche), come mostrano per esempio gli atomi di Democrito, le idee di Platone, le sostanze prime di Aristotele. Da questa idea deriverebbero secondo Simondon alcuni tra più gravi errori della filosofia, che si ripropongono in ogni epoca sotto svariate forme di dualismo: materia/forma, parte/tutto, individuo/comunità, tecnicismo/umanismo, etc. Ogni dualismo è una forma di riduzionismo, in quanto pretende di spiegare l’individuazione a partire dall’individuo, lasciando in ombra la dinamica concreta dell’individuazione. Simondon vede dunque nella genealogia dei dualismi che attraversano la modernità filosofica una riproposizione, costante benché dissimulata, dell’ilemorfismo: così, per esempio, l’opposizione individuo/gruppo ha prodotto due atteggiamenti filosofici inconciliabili, lo psicologismo e il sociologismo. Nel primo caso l’individuo funge da principio attivo e “formante”, che fonda e informa il gruppo; nel secondo è invece il dell’apparato psichico, evolve solo insieme agli organi tecnici e sociali che formano il suo milieu. Contro Lamarck e il Neo-lamarckismo, che fanno risalire l’evoluzione all’adattamento (oltre che sull’eredità dei caratteri acquisiti), Stiegler insiste dunque sul ruolo dell’adozione nel processo evolutivo, che comprende, da un lato, la costitutività dell’apparato tecnico in quanto apparato ritenzionale esteriorizzato e, dall’altro, la capacità dell’organo fisico di reinventarsi.
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gruppo a condizionare essenzialmente gli individui che lo compongono. In entrambi i casi, l’errore consiste nello spiegare un rapporto non a partire dal rapporto stesso, ma dalla riduzione di esso a uno dei due termini. Occorre quindi, viceversa, spiegare l’individuo a partire dall’individuazione: Simondon fa allora valere contro l’ilemorfismo dei «regimi di individuazione» in virtù dei quali gli individui sono costituiti e attraversati da dimensioni collettive. Parallelamente alla coimplicazione tra individuo e collettività, vi è poi la coimplicazione tra uomo e oggetto tecnico: l’uomo non è asservito all’oggetto tecnico in quanto l’oggetto tecnico è già asservito alla comunità; ma d’altra parte, tra l’individuo e la comunità si situa l’oggetto tecnico in quanto apertura sul mondo. Non si comprende perciò l’individuo tecnico se non nella sua relazione con l’individuo vivente psichico e sociale, ma anche viceversa – come vedremo meglio con Stiegler – non si comprende l’individuo vivente se non come sovradeterminato ab origine dall’oggetto tecnico. L’individuazione porta alla luce non solo l’individuo, ma anche, e soprattutto, la diade individuo-milieu. L’individuo viene allora considerato come una parte del processo ontogenetico all’interno dello sviluppo di un’entità più vasta: esso non esaurisce la totalità dell’essere ed è anzi il risultato di uno sfasamento interno allo sviluppo dell’essere stesso, rispetto al quale non costituisce alcun principio di individuazione. Questo ci conduce a introdurre alcuni concetti chiave di Simondon (erdeditati e raffinati da Stiegler): innanzitutto, ogni processo di individuazione presuppone l’esistenza di un sistema metastabile, vale a dire di un sistema caratterizzato dalla «disparazione» tra almeno due ordini di grandezza, da una distribuzione non uniforme di potenziali. Il vero principio di individuazione non è né la forma né la materia, ma la tensione e la mediazione che si instaura tra essi facendo emergere da quello che è un primitivo stato pre-individuale (dotato cioè di singolarità, nuclei di energia, ma privo di individualità) un nuovo stato di organizzazione ed equilibrio (provvisorio), gravitante attorno a «fasi» individuali dell’essere. L’individuazione è uno sfasamento dell’essere che si impone sulla sua disparazione pre-individuale, pur senza esaurirla. Un altro modo per definire l’individuazione è in termini di risoluzione di un determinato stadio problematico dell’essere, dove le tensioni prevalgono sull’equilibrio, attraverso un’operazione di trasduzione – ovvero la risonanza, dapprima interna, e poi la mutua comunicazione, tra i diversi ordini di realtà che compongono il sistema. La trasduzione infatti «suppone una vera operazione di individuazione a partire da una realtà pre-individuale, associata agli individui e capa-
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ce di costituire una nuova problematica dotata di una propria metastabilità» (ivi, 29). Essa si istituisce perciò a livello fisico, biologico, psichico e sociale strutturando una relazione individuante all’interno di un dominio problematico dato, che è la realtà pre-individuale, apportando la soluzione ai disequilibri di tale dominio (un esempio di trasduzione è la propagazione di una struttura cristallina nell’acqua madre). È un’operazione di sdoppiamento, di sfasamento di un essere in stato di tensione pre-individuale a partire da un altro essere. Lo stato pre-individuale è quindi una promessa di divenire (Stiegler elaborerà questa intuizione mostrando la natura protetica del pre-individuale) che si rinnova costantemente fino a che è possibile sfasamento dell’essere, ovvero fino a che gli equilibri raggiunti per trasduzione sono metastabili. L’informazione non è mai depositata in una forma data (e questo mostra l’insufficienza delle teorie puramente cibernetiche dell’informazione), ma è «tensione tra due reali separati», è il significato che sorge nel momento in cui un’operazione individuante porta alla luce una dimensione in cui due reali separati possono diventare sistema. Nell’individuo vivente la trasduzione con il milieu non si limita al solo ambiente, ma comprende già sempre la sfera del collettivo e dello psico-sociale, in modo tale che la relazione dell’individuo al collettivo si configura come una dimensione stessa dell’individuazione. L’individuazione, attraverso la trasduzione, si accompagna perciò sempre all’istituzione di una dimensione transindividuale: […] la vita è una specificazione, una prima soluzione, completa in se stessa pur lasciando un residuo al di fuori del suo sistema. Non è in quanto essere vivente che l’uomo porta con sé ciò che gli permette di individuarsi spiritualmente, ma in quanto essere che contiene in sé qualcosa di pre-individuale e di pre-vitale. Questa realtà può essere chiamata trans-individuale. Non è né di origine sociale né di origine individuale; è depositata nell’individuo e veicolata da esso, ma non gli appartiene e non fa parte del suo sistema d’essere come individuo. […] L’essere che precede l’individuo non si individua senza lasciare resti; non si risolve totalmente nell’individuo e nel milieu; l’individuo conserva con sé qualcosa di pre-individuale e tutti gli individui insieme hanno così una sorta di fondo non strutturato a partire dal quale si può produrre una nuova individuazione. Lo psico-sociale è trans-individuale: è questa realtà che l’essere individuato porta con sé, questa riserva di essere per le individuazioni future (Simondon 2005, 303).
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L’essere pre-individuale è l’essere in cui non ci sono fasi. Questa tesi verrà contestata da Stiegler, il quale attribuisce allo stesso pre-individuale, sempre già dotato di una capacità ritenzionale, e dunque di una peculiare temporalità, la funzione trans-individuante. Occorre comunque essere precisi: per Simondon non basta associare l’individuo al prodotto di un divenire per coglierne la genesi, il senso dell’individuazione, poiché in questo caso si tratterebbe ancora di un sistema stabile, che ha raggiunto, seppur in maniera dialettica, la propria realizzazione; l’individuo è invece il processo stesso nel suo svolgimento per sfasamento. Esso può essere compreso solo prendendo in considerazione l’iniziale sovra-saturazione statica (senza divenire) dell’essere, il quale passa al divenire per risolvere le sue tensioni interne, cioè dando loro la forma di una struttura, che tuttavia non coincide affatto con l’eliminazione di tali tensioni. L’essere non è dunque né sostanza, né materia, né forma, ma un sistema sovra-saturo e in tensione. Unità e identità sono applicabili solo a un livello dell’essere che viene dopo il processo di individuazione, per questo lo stadio pre-individuale può essere descritto, per esempio, tanto come onda che come corpuscolo, tanto come materia che come energia. L’individuazione non è compresa dalla metafisica perché essa pensa l’equilibrio solo come equilibrio stabile, mentre si tratta di pensare in termini di equilibrio metastabile. Un sistema stabile è un sistema che ha raggiunto il livello di energia più basso possibile e non è dunque più passibile di alcuna trasformazione. L’essere vivente, al contrario, in quanto sistema metastabile, conserva in se stesso un’attività di costante individuazione. Non è solo il risultato di un processo di individuazione, al modo di un cristallo o di una molecola, ma un vero e proprio «teatro dell’individuazione», secondo un’efficace espressione dello stesso Simondon (cfr. ivi, 27, 29). Nell’ambito del vivente è l’individuo stesso che porta avanti l’individuazione. Questa provvisorietà e questa incompletezza di realizzazione, che determinano ogni individuazione, assumono poi nell’individuo psico-sociale quel carattere di differimento della fine riconosciuto da Heidegger in rapporto alla morte, da Freud in rapporto al piacere, e da Derrida in rapporto all’effettività della différance. Ora, l’individuo trova soluzione – seppur temporanea – a uno stato problematico non solo grazie all’adattamento, ovvero modificando la sua relazione all’ambiente (cosa che potrebbe fare anche una macchina), ma modificando se stesso grazie all’invenzione di nuove strutture
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interne e al proprio auto-inserimento nell’assiomatica di problemi organici, in quanto nodo di scambio comunicazionale fra due ordini di realtà (Stiegler insisterà molto su questo tema, ascritto alla questione dell’adozione, cui abbiamo accennato poco fa in nota). L’individuo vivente è un sistema di individuazione, un sistema individuante e anche un sistema che individua se stesso. L’individo fisico non possiede una vera e propria interiorità, perché la sua individuazione si gioca al limite del suo proprio terreno, al confine con il milieu. L’individuo vivente, invece, possiede una vera interiorità, poiché l’individuazione si propaga anche all’interno di esso e l’interno, non solo il confine, ha un ruolo costitutivo. L’essere vivente è un sistema nel sistema contenente in se stesso la mediazione tra due differenti ordini di grandezza. L’individuazione non esaurisce tutto il pre-individuale e il regime metastabile non solo è mantenuto dall’individuo, ma è anche limitato da esso, in modo tale che l’individuo porta in sé una certa eredità del pre-individuale e ne lascia una parte allo stato potenziale, garantendo la possibilità di ulteriori individuazioni. L’essere vivente, dunque, è allo stesso tempo più e meno di un’unità (cfr. Simondon 2005, 25). Esso accede a un sistema metastabile di individuazione più vasto di se stesso poiché eredita una certa realtà pre-individuale, cioè poiché custodisce delle potenzialità espressive. Il pre-individuale è già sempre dato (déjà-là) per l’individuo. Questo già, a sottolineare l’inadeguatezza che l’individuo stesso mette in opera e conferma a ogni fase della propria individuazione, si costituisce a partire dalla sovra-saturazione dell’essere, che fa sì che l’essere si conservi come divenire. La trasmissione in cui consiste il divenire è allora un’operazione trasduttiva che reinscrive costantemente ciò che viene conservato nel flusso dell’individuazione. Sia la psiche che la collettività sono costituite da un processo di individuazione che prolunga l’individuazione costituente la vita. La psiche è il continuo sforzo di individuazione di un essere che risolve il suo stato problematico, critico, attraverso l’inclusione di se stesso, in quanto elemento problematico, in un sistema di cui diventa soggetto. Ma l’essere psichico non esaurisce le criticità dell’essere vivente, a cui l’eredità del pre-individuale permette di sviluppare un’individuazione collettiva, la quale rende immediatamente l’individuo un’unità collettiva. L’individuazione psichica e quella collettiva hanno un effetto reciproco l’una sull’altra. Il trans-individuale è allora quella categoria che dà conto dell’unità sistematica di individuazione interna (psichica) e individuazione esterna (collettiva). Il pre-individuale si individua
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allo stesso tempo socialmente e psicologicamente, così che lo psicologico non precede in alcun modo il sociologico, né viceversa: essi sono piuttosto due poli di una relazione che li costituisce parallelamente tenendoli in tensione. «In realtà, non è in quanto individui che gli esseri sono legati gli uni agli altri nella dimensione collettiva, ma in quanto soggetti, ovvero in quanto esseri che contengono un pre-individuale» (Simondon 2005, 310): quest’ultimo, come si è visto, è una riserva di tensioni che si trasformano trasduttivamente in strutture. Simondon legge tale trasformazione, al di là di Heidegger e sulla scorta di Heisenberg, in chiave di “salto quantico”: le relazioni di indeterminazione mettono in crisi ogni separazione bipolare. La relazione che vige in un sistema metastabile non è esattamente né una relazione adattativa tra individuo e milieu, né una relazione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. Le supposte forme a priori del soggetto conoscente, attraverso le quali si darebbe forma a una materia data a posteriori, sono strutture derivanti dall’assiomatica che emerge da un processo di individuazione. A priori e a posteriori sono il residuo dell’antico schema ilemorfico nella teoria della conoscenza. La percezione, e in maniera più strutturata la scienza, sono un modo per risolvere la problematicità dell’essere vivente non solo attraverso l’invenzione di cornici spazio-temporali, ma anche attraverso la costituzione di un “oggetto”, che poi diventa il principio su cui strutturare i gradienti metastabili in modo tale che essi appaiano come un mondo. A priori e a posteriori non sono fondati nella conoscenza, non sono né la forma né la materia della conoscenza, né essi stessi una conoscenza, ma i poli estremi, pre-noetici, della diade pre-individuale. L’illusione che ci siano forme a priori deriva dal fatto che nel sistema pre-individuale pre-esistono condizioni di totalità, le cui dimensioni sono più grandi di quelle dell’ontogenesi individuale. Parallelamente l’illusione dell’a posteriori può essere spiegata grazie all’esistenza di una realtà il cui ordine di grandezza è inferiore a quello dell’individuo, dal punto di vista delle modificazioni spazio-temporali. Un concetto non è né a priori né a posteriori, ma a praesenti, perché è una comunicazione informativa e interattiva tra ciò che è più grande dell’individuo e ciò che è più piccolo. Nella sfera della conoscenza la trasduzione aiuta a comprendere come avviene l’invenzione, che infatti non è né induttiva né deduttiva, ma, appunto, trasduttiva: l’invenzione è la scoperta delle dimensioni secondo le quali un determinato stadio problematico può essere defi-
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nito. La trasduzione corrisponde all’emergere di quelle relazioni che si creano quando l’essere pre-individuale diventa individuato. È un concetto sia metafisico che logico, può essere applicato all’ontogenesi ed è l’ontogenesi stessa. L’individuazione è dunque potenzializzazione delle incompatibilità nel nucleo pre-individuale. Il tempo fa il suo ingresso sulla scena di questa ontogenesi in quanto espressione della dimensionalità dell’essere, del suo divenir-individuato. [...] qual è il senso della genesi degli oggetti tecnici in rapporto alla totalità del pensiero, dell’esistenza dell’uomo e del suo modo di essere nel mondo? Il fatto che esista un carattere organico del pensiero e del modo di essere nel mondo obbliga a supporre che la genesi degli oggetti tecnici si ripercuota sulle altre produzioni umane, sull’atteggiamento dell’uomo di fronte al mondo. […] questa genesi che produce degli oggetti [tecnici] forse non è semplicemente genesi di oggetti, né genesi di realtà tecnica: forse proviene da più lontano e costituisce un aspetto parziale di un processo più vasto, continuando magari a produrre altre realtà dopo aver fatto apparire gli oggetti tecnici. È allora la genesi di ogni tecnicità che bisognerebbe conoscere, quella degli oggetti e quella delle realtà non oggettivate, e qualsiasi genesi che implichi l’uomo e il mondo [...] (Simondon 1969, 154).
Stiegler tenta di proseguire il compito lasciato aperto da Simondon a proposito della «genesi di ogni tecnicità», non senza rivolgergli alcune critiche decisive. Il pensiero di Simondon risentirebbe infatti, agli occhi di Stiegler, di un limite fondamentale, derivante dal mancato riconoscimento 1) del carattere tecnicizzato e trans-individuante del pre-individuale e 2) del carattere protetico del trans-individuale stesso, che impone di attribuire all’oggetto tecnico un ruolo costitutivo nel processo di individuazione. Nel suo articolo “Chute et élévation. L’apolitique de Simondon”, Stiegler rimprovera infatti a Simondon di supporre, in accordo con Rousseau, un’umanità pre-tecnica, collocata in una presunta fase magica, che poi si sfaserebbe in religione e tecnica (cfr. Stiegler 2006a, 333). Dal momento che non esiste magia senza liguaggio e senza artefatti, cioè senza una forma anche rudimentale di tecnica, non è possibile vedere in essa una conformazione più originaria del milieu, anteriore alla distinzione soggetto-oggetto. Non comprendere il carattere protetico del trans-individuale, ovvero il carattere tecnico del pre-individuale, significa in ultima analisi non comprendere la natura temporale dello sfasamento che differisce e dif-
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ferenzia l’essere individuandolo. Il pre-individuale che si conserva nell’individuo, più che essere assenza di fasi, come vorrebbe Simondon, è invece l’insieme delle ritenzioni terziarie, ovvero esteriorizzazioni mnestiche di natura tecnica, attraverso le quali l’individuo si scopre erede di un passato mai vissuto. La fedeltà di Stiegler a Simondon, insomma, si interrompe nel momento in cui il pre-individuale viene a esser pensato come sempre già intrinsecamente tecnologico e transindividuante. […] c’è un eterno ritorno dell’individuo trans-individuato allo stadio pre-individuale in cui il trans-individuale ridiviene materiale pulsionale (e non soltanto istintuale). Ora, ciò che costituisce questo circuito è la tecnicità dell’individuazione. La modalità tecno-logica dell’incompiutezza, che dal XX secolo chiamiamo “esistenza”, è ciò che costituisce l’individuo psico-sociale nella misura in cui individua un potenziale pre-individuale sovra-saturo non più come divenire e ontogenesi di una specie vivente, ma come co-individuazione di un individuo psichico e di un gruppo sociale in cui esso si individua provocando un processo di risonanza interna, dove si individua anche l’insieme degli elementi tecnici attraverso gli individui tecnici (Stiegler 2006a, 327-328).
La metastabilità rende conto dell’individuazione psico-sociale in quanto differimento di un’identità individuale mai completamente realizzata poiché in relazione trasduttiva con degli artefatti già costituiti (essi afferiscono a proprie linee di sviluppo tecnologico che in realtà sono a loro volta metastabili, cioè mai del tutto costituite né individuate, ma per l’individuo psico-sociale, di cui rappresentano il milieu pre-individuale, sono sovra-saturazioni dell’essere e già degli individui). Questo “anticipo” (denotato dal già) dell’oggetto tecnico sull’identità psico-sociale è esattamente ciò rispetto a cui Simondon è rimasto cieco e che è stato invece colto da Leroi-Gourhan come anticipo della tecnica sulla società. Nella tensione trasduttiva tra il già dell’oggetto tecnico e il non ancora della sua adozione si costituisce quell’estasi temporale in rapporto alla quale l’individuo resta sempre a venire. Una componenete pre-individuale persiste in ogni individuazione, ma nel caso dell’individuazione psichica e collettiva si tratta di indagare, secondo Stiegler, l’accesso a tale pre-individuale, nella misura in cui esso caratterizza in una precisa modalità l’incompiutezza dell’individuo, la sovra-determina. Nel caso dello psico-sociale la so-
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vra-saturazione dell’essere (il pre-individuale) è conservata come traccia di una vita precedente che, una volta morta, si conserva nel mondo vivente concretizzandosi nella forma materiale di esseri “inorganici organizzati”. Nell’analisi dell’individuazione psico-sociale proposta da Simondon, i processi di individuazione degli oggetti tecnici e degli artefatti in genere rimanevano sostanzialmente ignorati, mentre per Stiegler sono essi stessi a trasmettere le individuazioni anteriori, rimaste a loro volta incompiute e prolungantesi, in tale incompiutezza, nelle nuove individuazioni in corso. Stiegler sviluppa nel primo tomo de La technique et le temps il concetto di epifilogenesi per pensare la possibilità della co-implicazione delle individuazioni psichiche e collettive: la modalità di conservazione della memoria individuale oltre l’individuo, attraverso l’esteriorizzazione delle sue tracce, modifica le condizioni in cui si esprime la differenziazione vitale, cioè la stessa individuazione. Epifilogenesi significa allora che è l’individuazione tecnica a rendere possibile la relazione trasduttiva tra psichico e sociale. In questo modo individuazione psichica, sociale e tecnica sono indissolubili. Muovendo da Simondon, che attraverso il concetto di trans-individuale rendeva ragione della dimensione collettiva, dove l’individuo non precede il gruppo né viceversa, Stiegler si spinge a fare della trasduzione una relazione ternaria: […] l’individuazione sotto forma di collettivo rende l’individuo un individuo di gruppo, associato al gruppo grazie alla realtà pre-individuale che porta in sé e che, insieme a quella di altri individui, si individua in unità collettiva. Le due individuazioni, psichica e collettiva, sono reciproche l’una all’altra; esse permettono di definire una categoria del trans-individuale che tende a rendere conto dell’unità sistematica dell’individuazione interna (psichica) e dell’individuazione esterna (collettiva) (Simondon 2005, 29).
Individuale e trans-individuale articolano la loro mutua costituzione secondo condizioni epifilogenetiche, cioè nell’accesso a un comune déjà-là mai stato presente (poiché, in quanto pre-individuale, non è mai stato direttamente esperito né individualmente né dal gruppo) che tuttavia determina la loro relazione trasduttiva e sovra-determina il vissuto individuale e collettivo. Ciò che collega l’io al noi in questa individuazione è un milieu pre-individuale, che ha condizioni positive di effettività in rapporto a quelli che ho chiamato “apparati ritenzionali”. Questi apparati ri-
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tenzionali sono supportati dal milieu tecnico, che è la condizione per l’incontro dell’io e del noi: l’individuazione dell’io e del noi è anche in un certo senso l’individuazione di un sistema tecnico (cosa che Simondon, stranamente, non ha visto) (Stiegler 2004, 106).
Quando Simondon si confronta con il problema della concretizzazione dell’oggetto tecnico, vale a dire con il fatto che esso deve essere calato dall’idea alla materia, si imbatte nel problema dell’anticipazione, ma lo risolve ascrivendo quest’ultima all’uomo, in quanto causa efficiente dell’oggetto stesso. Agli occhi di Simondon, qui fortemente influenzato da Bergson, l’individuazione tecnica resta estranea a questa temporalizzazione, attribuita all’intelligenza dell’individuo psicosociale. Stiegler è invece fermamente convinto che qualunque capacità di anticipazione da parte dell’individuo psico-sociale presupponga l’oggetto tecnico, similmente a come la stessa forma presuppone, in un certo senso, la materia. Il rapporto tra l’individuazione psichica e collettiva e il pre-individuale è niente poco di meno di quell’alterazione che comunemente chiamiamo “tempo”. È utile a questo punto fare un riferimento a Heidegger: quest’ultimo, che pure tematizza l’anticipo del mondo sul Dasein, disconosce però, secondo Stiegler, tale anticipo in termini di tecnicità. La teoria esistenziale dell’individuazione è un pensiero che, nell’analisi dei tre momenti costitutivi dell’estasi temporale, privilegia l’avvenire. La possibilità, contemplata da Heidegger, di ereditare il passato in maniera inautentica, deriva dal fatto che il mio passato non è davvero il mio passato: deve diventarlo, secondo Heidegger, ma è un progetto esistenziale che può fallire, e proprio per questo il Dasein è gettato nel mondo come nel suo avere-da-essere: Derrida vede in ciò il differimento che produce la differenza, il processo della différance, la cui peculiarità risiede proprio nel fatto che la messa in esteriorità di una traccia morta sovra-determina tutto il processo. Stiegler riformula questa esteriorizzazione originaria (che naturalmente, muovendosi in una relazione trasduttiva, i cui estremi non pre-esistono alla relazione stessa, non precede alcuna interiorità) come organizzazione dell’inorganico, cioè come tecnicità. Essa non può dunque a giusto titolo essere considerata come costitutiva, nella sua fatticità positiva, della storicità stessa? Lo stesso Heidegger, che per certi versi è il primo a fornire gli elementi per pensare una risposta positiva, soprattutto là dove affronta, nel § 74 di Essere e tempo, il tema della costituzione della storicità fondamentale, escluderà una simile ipotesi.
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Nei termini di Simondon si potrebbe dire che Heidegger, malgrado la centralità accordata alla Weltgeschichtlichkeit, raggiunta a seguito del ribaltamento dell’intenzionalità husserliana in essere-nel-mondo, rimane ancora legato alla prospettiva di un principio di individuazione piuttosto che abbracciare quella del processo. E proprio un riconoscimento più deciso della processualità avrebbe potuto condurlo a porsi la questione di una pre-individualità protetica e della costitutività della tecnica. L’individuazione psichica e collettiva deve dunque essere pensata come una questione di anticipo della tecnica, anticipo che provoca lo sfasamento crativo dei potenziali pre-individuali. Com’è noto, Leroi-Gourhan metteva a capo dell’evoluzione tecnica un fenomeno originario di esteriorizzazione, cioè di espropriazione del vivente (organico) a opera del morto (come inorganico organizzato). Se l’individuazione psico-sociale è la riappropriazione di un’“improprietà” originaria – il défaut originario dell’origine, la sua essenziale indeterminazione e, dunque, accidentalità – allora il complesso delle individuazioni tecnica, psichica e collettiva corrisponde al tempo in quanto relazione trasduttiva di espropriazione appropriante. La costituzione originariamente protetica della coscienza psico-sociale umana, è stata quindi intravista da Leroi-Gourhan e compresa da Stiegler, ma non da Simondon. La tecnica per Simondon è traccia del pre-individuale nel soggetto che ha inventato l’oggetto, supporto di una relazione che è solo modello della trans-individualità, non transindividuante essa stessa. La tecnica è anche fondamento della fatticità nella misura in cui essa è quel fatto innegabile e ineludibile di essere un passato non vissuto: il déjà-là costitutivo dell’être-là. Husserl, per primo, ha scorto che la tecnica, in veste di scrittura, è costitutiva dell’intersoggettività trascendentale, e non solo costituita da essa. Simondon accarezza questo pensiero, ma rimane frenato dalla convinzione che il milieu tecnologico, mediatore fra uomo e natura, sia possibile solo grazie a una facoltà umana. Per Simondon l’uomo ha infatti una capacità inventiva di anticipazione che non si trova né nella natura né negli oggetti tecnici. Egli si avvicina però a Stiegler nel momento in cui afferma che il carattere fondamentale dell’essere tecnico consiste nell’integrare il tempo in un’esistenza concreta, diventando il correlativo dell’auto-creazione dell’individuo. Nei tre tomi de La technique e le temps Stiegler si dedica allora a una “rifondazione artefattuale”, come la definisce Jean-Hugues Barthélémy, del trans-individuale. L’anticipazione di cui parla Simondon a proposito dell’invenzione, presuppone la tecnica, non la precede. La costituzione dell’inorganico
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è allo stesso tempo costituzione dell’accesso al passato: ciò significa che essa impone un oltrepassamento dell’opposizione tra organico e trascendentale. Il passato non consiste che nelle sue fissazioni materiali, cioè nelle sintesi passive, nella finitudine ritenzionale. L’artefatto è la presenza del passato, un’esteriorizzazione della memoria che non presuppone, ma anzi rende possibile, la memoria stessa e la trans-individuazione. Giocando Heidegger contro Simondon e Simondon contro Heidegger Stiegler mostra che solo a partire dal déjà-là protetico è possibile l’anticipazione. In questo si manifesta il suo non-antropologismo: la tecnica, di principio, non è asservita all’uomo, frutto di una sua capacità inventiva astratta e a priori. Come aveva già compreso Simondon, l’oggettività non è coestensiva al mondo, né la soggettività coestensiva all’uomo. L’uomo si inventa nella tecnica inventando degli strumenti. Nel gergo di Stiegler, il qui non è nulla senza il quoi. La logica del supplemento non è semplicemente antropologica, la negoziazione trasduttiva di qui e quoi è anche una maieutica dell’invenzione, dove l’interno è inventato nel movimento di esteriorizzazione. La protesi non va a sostituire nulla, ma vi si aggiunge. Essa non è dunque un mezzo per l’uomo, ma il suo fine e, come tale, la sua costitutiva inautenticità. Bibliografia Barthélémy, J.-H. (2005a), Penser l’individuation. Simondon et la philosophie de la nature, L’Harmattan, Paris. Barthélémy, J.-H. (2005b), Penser la connaissance et la technique après Simondon, L’Harmattan, Paris. Heidegger, M. (2006), Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano [Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927]. “Consistere” è per Stiegler un termine tecnico, che indica la proiezione dell’esistenza umana, per mediazione delle sue ritenzioni terziarie, su un piano ideale. Il fatto che ci siano cose che pur non esistendo consistono – come l’amore, che è per definizione infinito – dipende in ultima istanza dal fatto che ci siano memorie esteriorizzate trans-individuanti, cioè capaci di individuare l’individuo psichico immediatamente come individuo collettivo e trans-storico. Né, di principio, l’individuo è asservito alla tecnica. Ciò non toglie che il meccanismo dell’adozione comporti una fase di «disorientamento» (cfr. Stiegler 1996) in cui le ritenzioni terziarie, non ancora interiorizzate e rielaborate trasduttivamente in ritenzioni e protenzioni secondarie, per esempio in ricordi e stereotipi – sembrano dominare l’individuo.
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Simondon, G. (1969), Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, Paris. Simondon, G. (2005), L’individuation: à la lumière des notions de forme et d’information, Millon, Grenoble. Stiegler, B. (1992), “Leroi-Gourhan, part maudite de l’anthropologie”, in Les nouvelles de l’archéologie, Epona, Paris, n° 48-49, pp. 23-30. Stiegler, B. (1994), La technique et le temps, tome 1: La faute d’Epiméthée, Galilée, Paris. Stiegler, B. (1996), La technique et le temps, tome 2: La désorientation, Galilée, Paris. Stiegler, B. (2004), De la misère symbolique, tome 1: L’époque hyperindustrielle, Galilée, Paris. Stiegler, B. (2006a), “Chute et élévation. L’apolitique de Simondon”, in Revue philosophique de la France et de l’Etranger, Puf, Paris, n° 3, pp. 325-341. Stiegler, B. (2006b), “Le théâtre de l’individuation. Déphasage et résolution chez Simondon et Heidegger”, in Technique, monde, individuation: Heidegger, Simondon, Deleuze, J.-M. Vaysse (éd.), Olms, Hildesheim.
Francesco Aloe Argomenti diagonali e molteplicità inconsistenti: suggestioni cantoriane in Derrida e Badiou La presenza rimarchevole della matematica nella filosofia da Platone a Husserl fino a Wittgenstein, deve essere interpretata come una condizione singolare: condizione che espone la filosofia alla possibilità di un’altra vita, diversa dell’assoggettamento dell’essere alla potenza dell’uno. La filosofia è dunque, da sempre, in quanto la matematica è una sua condizione, la scena di un tentativo disparato, o scisso. È vero che essa espone la categoria di verità alla potenza unificatrice e metafisica dell’uno. È vero anche che espone a sua volta questa potenza alla defezione sottrattiva della matematica. Ogni singola filosofia è dunque, più che l’effettuazione del destino metafisico, il tentativo di sottrarvisi, che opera a partire dalla matematica intesa come condizione. (Badiou 2007, 29) È chiaro che la reticenza, o meglio la resistenza opposta alla notazione logico-matematica è sempre stata la sigla del logocentrismo e del fonologismo, in quanto essi hanno dominato la metafisica e i progetti semiologici e linguistici classici. Non è un caso che la critica della struttura matematica non fonetica fatta da Rousseau, Hegel, ecc. si ritrovi in Saussure, e che in lui vada di pari passo con la dichiarata preferenza per le lingue naturali. Una grammatologia che rompa con questo sistema di presupposti, dovrà dunque liberare la matematizzazione del linguaggio e prendere altresì atto che la pratica della scienza non ha in realtà mai smesso di contestare l’imperialismo del Logos, ad esempio facendo ricorso, da sempre e sempre più, alla scrittura non fonetica. Tutto ciò che ha sempre legato il logos alla phoné ha trovato un limite nella matematica, il cui progresso è assolutamente solidale con la pratica di un’inscrizione non-fonetica. Non vi possono essere dubbi, credo su questo principio e su questo compito grammatologici. (Derrida 1975, 67-8)
1. Sulle tracce di Cantor
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in dall’inizio della sua formazione universitaria, Cantor si situa nel margine indiscernibile tra filosofia e matematica: ne è una prova la scelta, non certo casuale, come conclusione della sua Habilitationsschrift, di una “tesi” che fa riferimento all’appendice della
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prima parte dell’Etica di Spinoza, un’opera che ha continuato ad ossessionarlo anche successivamente; e non lascia dubbi in proposito, la sua celebre trattazione sistematica della teoria degli insiemi del 1883, i Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, un’opera matematica sconvolgente per l’ampiezza della tradizione filosofica con la quale si confronta – da Platone e Aristotele a Liebniz, Locke, Descartes e, naturalmente, Spinoza. Questi riferimenti filosofici non sono meri orpelli decorativi di un sostrato matematicamente significante, residui diurni della sola realtà piena e positiva della matematica. Si tratta di dispositivi che producono zone indistinte tra matematica e filosofia in grado di creare passaggi, interfacce o deboli corrispondenze tra queste due discipline, trasformandole, seppur provvisoriamente e instabilmente, in qualcosa di altro da esse. Tuttavia, con poche eccezioni, l’eredità cantoriana è contesa da due gruppi giustapposti a intersezione vuota: da un lato, i matematici che rifuggono le speculazioni filosofiche di Cantor e, dall’altro, i filosofi che si sottraggono alle asperità matematiche del suo lavoro. In queste pagine, invece, si cerca un passaggio tra la matematica e la filosofia, un cammino disagevole, raro e angusto, in uno spazio dimenticato e interdetto: «randonnée» (Serres 1984) o «Holzweg» (Althusser 1974), questo cammino che non porta in nessun luogo, non ha alcuna consistenza, neppure quella di un tracciato; ci permette tuttavia di mettere in evidenza come le invenzioni matematiche di Cantor siano state essenziali per alcuni sviluppi della filosofia contemporanea. Ci occuperemo, dunque, di diagonalizzazione e molteplicità inconsistenti in Alain Badiou e Jacques Derrida, passando attraverso la problematizzazione di una tassonomia gödeliana della filosofia contemporanea, proposta nel recente lavoro di Paul Livingston. È il celebre passo in cui Spinoza riconosce nella matematica una norma di verità altra, che ha l’effetto di dissipare i pregiudizi teleologici (Spinoza 2010, 1211). Il presente lavoro si può vedere come una riattivazione, in chiave anti-metafisica, dalla tesi spinoziana. Anche dopo l’Habilitationsschrift, Cantor ha continuato a studiare l’opera di Spinoza intensamente. L’evidenza più affidabile è data dalle sue note all’Etica, edite e tradotte in inglese in Bussotti, Tapp 2009. Per un primo bilancio dell’eredità spinoziana in Cantor si rimanda a Bussotti, Tapp 2009 e Ferreirós 2004. Gli studi fondamentali di Dauben (1990), di Ferreirós (2007) discutono ampiamente la correlazione tra matematica e filosofia in Cantor (Dauben in rapporto al teologo cristiano Gutberlet, Ferreirós in rapporto alla Naturphilosophie romantica e alla monadologia Liebniziana). Per una lettura di Derrida e Badiou che, analogamente, ne risalta l’eredità cantoriana, in una direzione però non del tutto consonante con quella proposta in queste pagine, si veda Norris (2012) e Purcell (2012).
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Che cosa si intende innanzitutto per argomento diagonale? Per farsi un’idea di questo procedimento è sufficiente pensare alla classe di tutti gli infiniti elementi che soddisfano una certa proprietà. Come esempio, si può prendere la totalità delle affermazioni asseribili all’interno di un dato linguaggio. Il procedimento diagonale opera su questa totalità producendo un “elemento” che possiede le giuste proprietà formali per esserne membro e che, al tempo stesso, è differente da ogni elemento già contenuto in essa. Nel 1891, mediante questo metodo, Cantor dimostra l’eccesso tra l’infinità di un insieme e quella del suo insieme potenza – cioè l’insieme di tutti i suoi raggruppamenti possibili ottenuti ricombinando i suoi elementi – e, di conseguenza, l’esistenza di una gerarchia illimitata di insiemi transfiniti, ciascuno dei quali è, di volta in volta, di un’infinità strettamente superiore rispetto al precedente di cui raggruppa le parti (Cantor 2012, 139-42). Quarant’anni dopo, ancora una volta mediante la tecnica di diagonalizzazione, Gödel dimostra la possibilità, all’interno di un qualsiasi sistema formale sufficientemente complesso, di un’affermazione che “asserisce” la sua stessa indimostrabilità. Una tale affermazione è “indecidibile” – vale a dire, né essa né la sua negazione è dimostrabile all’interno del sistema stesso. Così, in virtù della presenza di questa affermazione formalmente indecidibile, il sistema è inconsistente, in quanto vi è una contraddizione, o incompleto, in quanto vi è una verità: la verità dell’affermazione stessa di Gödel, che non si può dimostrare.
2. Una tassonomia gödeliana?
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n un capitolo suggestivo di Ontologia transitoria, Badiou descrive tre possibili «orientamenti nel pensiero»: ogni orientamento regola la possibilità del pensiero di comprendere l’essere, autorizzando in modi diversi l’inscrizione o l’affermazione di ciò che esiste (Badiou 2007, 38). In altre parole, possiamo considerarli come modi differenti di orientarsi verso l’essere. L’argomento di Gödel è un caso speciale di un teorema di punto fisso che generalizza, a livello di strutture astratte dette “categorie cartesiane chiuse”, il procedimento diagonale di Cantor (si veda Lawvere 1969 e Lawvere, Schaunel 1991).
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Quali sono dunque i possibili orientamenti del pensiero? Il primo, l’orientamento «trascendente» o ontoteologico, stabilisce la totalità dell’essere in riferimento a un ente privilegiato e sovrano – una «sovra-esistenza» che assegna un posto determinato a ogni altro ente e, al tempo stesso, nasconde il fondamento della sua autorità (Badiou 2007, 40). Il secondo è quello che, implicito nel nominalismo tradizionale e in alcune forme di pensiero critico da Kant in poi, raggiunge la sua piena espressione metodologica soltanto con la svolta linguistica del XX secolo. Per questo orientamento, che Badiou chiama «costruttivista», la totalità dell’essere è disciplinata da «protocolli linguistici finiti e controllabili» (Badiou 2007, 40). Infine, come terza possibilità figura l’orientamento «generico» che, al contrario dei precedenti, accoglie la scoperta di Cantor della molteplicità dell’infinito e tiene conto delle implicazioni della diagonalizzazione: senza applicare nessuna altra norma se non la «consistenza formale», l’orientamento generico insegue senza sosta, lungo la diagonale, l’esistenza di tutto ciò che sfugge alle limitazioni della dottrina di pensiero costruttivista (Badiou 2007, 40). Secondo il recente lavoro di Paul Livingston Politics of Logic, l’orientamento generico, che definisce il progetto filosofico di Badiou da L’essere e l’evento in poi, non sarebbe tuttavia l’unico a tenere conto dell’eredità cantoriana. Nel testo di ampio respiro di Graham Priest, Beyond the Limits of Thought, una vasta gamma di progetti filosofici che implicano la considerazione di paradossi ai limiti del pensiero viene ricondotta a un’unica struttura formale, basata ancora una volta sulla diagonalizzazione. Questa struttura, che Priest chiama “schema di inclusione”, è caratterizzata da due operazioni: la prima, l’operazione di chiusura, formalizza le condizioni necessarie che deve soddisfare un elemento per essere membro di una totalità determinata (ad esempio, la totalità del dicibile, del conoscibile o del pensabile); la seconda, l’operazione di trascendenza, permette di generare un elemento al di fuori di essa. In modo più formale, Priest sostiene che una contraddizione di inclusione si presenta ogni volta che: i) vi sia un certo insieme totale Ω definito da un proprietà φ, da cui si ottiene un’altra proprietà ψ; e ii) vi sia una qualche funzione δ, detta “diagonalizzatore”, tale che, dato un qualsiasi sottoinsieme x di Ω che ha anche la proprietà ψ, δ(x) non è un elemento di x, sebbene lo sia di Ω. Quindi si può produrre una contraddizione applicando il diagonalizzatore δ alla totalità Ω stessa: δ(Ω) è un elemento di Ω e, al tempo stesso, non lo è (si veda Priest 2002).
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A partire da questo lavoro, Livingston individua un altro orientamento: si tratta dell’orientamento «critico-paradossale» al quale sono riconducibili la maggior parte dei filosofi contemporanei continentali, in particolare, Lacan, Derrida, Deleuze, Agamben e Žižek. Quale sarebbe dunque la differenza tra questo orientamento e quello generico di Badiou? Data la dualità che discende dai teoremi di incompletezza di Gödel, l’orientamento generico di Badiou opterebbe per la consistenza a scapito della completezza, mentre quello critico-paradossale per la completezza a scapito della consistenza. Così, se l’orientamento generico di Badiou «mantiene l’obiettivo metodologico della consistenza a tutti i costi» negando l’esistenza della totalità, «la modalità critico-paradossale opera affermando[ne] l’esistenza e tracciando le contraddizioni e le antinomie che sorgono ai suoi margini» (Livingston 2012, 56). Livingston organizza i quattro orientamenti, ottenendo uno schema analogo al seguente.
I due orientamenti nella parte superiore del diagramma hanno una comune radice cantoriana, e sono dunque distinti dai due orientamenti nella parte inferiore, che Livingston chiama «sovrani» per il fatto di conservare congiuntamente consistenza e completezza (Livingston 2012, 59). Nel prosieguo, ci soffermeremo sugli orientamenti critico-paradossale e generico, in particolare, sulla disamina da parte di Livingston dei casi esemplari di Derrida e Badiou, cercando di evidenziare i limiti di questo schema.
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3. Derrida e l’indecidibile
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a discussione dell’opera di Derrida da parte di Livingston prende le mosse da La doppia seduta, un testo che solleva la questione della mimesis nella tradizione metafisica occidentale a partire da un passo della Mimique di Mallarmé. In un tale contesto, Derrida suggerisce un’analogia tra la sua nozione di «indecidibile» e quella che emerge dai risultati di incompletezza scoperti da Gödel, per sottolineare come, in entrambi i casi, non si tratti di ambiguità semantica o polisemia: L’«indecidibilità» non dipende qui da una qualche equivocità enigmatica, […] dall’ambivalenza inesauribile di una parola della lingua naturale […]. Ciò che qui conta non è la ricchezza lessicale, l’infinità semantica di una parola o un concetto, la sua profondità o il suo spessore, la sedimentazione in essa di due significati contraddittori (continuità e discontinuità, dentro e fuori, identità e differenza, ecc.) Ciò che qui conta è la pratica formale o sintattica che compone e decompone (Derrida 1989, 240-1).
Anche per Derrida, proprio come per Gödel, l’esistenza dell’indecidibile all’interno di un sistema dipende da un intervento produttivo sulla sintassi, mediante il quale le regole sintattiche che disciplinano la logica del sistema nel suo complesso sono codificate in un punto specifico – «un punto in cui la sintassi pone una sorta di lacuna semantica o vuoto essenziale al testo in quanto tale» (Livingston 2012, 122). Così, ad esempio, la «differænza», considerata come espressione della logica strutturale della differenza nel suo complesso, non nomina niente che possa essere nominato da termini all’interno del sistema di questa logica; si può dire soltanto che designa un «vuoto semantico». Tuttavia, «questo vuoto segnato sintatticamente, anche se non corrisponde ad alcun correlato semantico, rimane strutturalmente necessario, in quanto condiziona e apre la possibilità sintattica di qualsiasi significazione» (Livingston 2012, 122). In questo senso, la marca puramente sintattica della possibilità di significazione, il «neografismo» differænza che non significa nulla, dopotutto, «significa, ma solo la spaziatura e l’articolazione; esso ha come senso la possibilità della sintassi e ordina il gioco del senso» (Derrida 1989, 243). Dunque, ciò che Derrida chiama «indecidibile» scaturisce sempre da un effetto semantico di sintassi che non può essere escluso da ogni sistema regolare di scrittura. Questo intreccio essenziale di sintassi e
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semantica, già sottolineato da Agamben nel suo omaggio a Derrida, e che Livingston approfondisce ulteriormente, fornisce un chiarimento essenziale di ciò che sta alla base di qualsiasi strategia decostruttiva della lettura – dal momento che «indecidibile» e «indecidibilità» sono termini che Derrida mantiene per tutta la sua carriera, ponendoli in una posizione centrale anche nelle sue analisi successive di fenomeni come l’ospitalità e il dono: la decostruzione non è una «ermeneutica infinita di una significazione altrettanto inesauribile», ma «una radicalizzazione del problema dell’autoreferenza che mette in questione e trasforma il concetto stesso di senso su cui si fonda la logica occidentale» (Agamben 2005, 363). Questa lettura proposta da Livingston (e Agamben) può estendersi a tutti i termini chiave della decostruzione. Ciò che vale per «differænza», «vale, mutatis mutandis, per tutti i segni che, come pharmakon, supplemento, [e più tardi chōra], hanno un valore doppio, contradditorio, indecidibile che dipende sempre dalla loro sintassi» (Derrida 1989, 241). Tutti indicano, senza essere in grado di nominare, il punto problematico di un testo specifico in cui sono raffigurate, e con ciò invalidate, le condizioni di possibilità di una logica strutturale nel suo complesso. Infatti, tutti questi termini chiave – o meglio, le operazioni decostruttive a cui alludono – mettono in rapporto la chiusura della struttura con la trascendenza abissale aperta in essa, organizzando e manifestando l’indecidibile nello spazio di esteriorità incorporato all’interno della struttura in cui si articolano le condizioni per la (im)possibilità del testo: condizioni di possibilità dell’apparire delle distinzioni su cui il testo vive e funziona e, al contempo, condizioni per la sua impossibilità di ricongiungersi con sé senza rinviare già ad altro. Tuttavia, se non vogliamo appiattire l’opera di Derrida sulla svolta linguistica del secolo scorso, dobbiamo aggiungere che il testo in questione non si limita a ciò che sta scritto sulle pagine dei libri: «Il testo non è un libro; non è chiuso in un volume a sua volta chiuso in una biblioteca» (Derrida 1997, 204). Il testo, che Derrida definisce come «testo generale senza orli» (Derrida 1978, 11), non è un testo in senso stretto, ma si estende a tutta la realtà; è «una struttura aperta senza significato trascendentale e senza fuori-testo» – senza un centro presente, «senza lo zoccolo duro dell’essere» (Regazzoni 2008, 73-4). Pertanto, quanto detto sembra confermare la classificazione gödeliana di Livingston, collocando Derrida nell’orientamento critico-paradossale, e al contempo, aporeticamente, sembra negarla, dischiuden-
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do lo spazio atopico di un indecidibile che, come la chōra platonica, in quanto «non-origine dell’origine» (Regazzoni 2008, 70), precede qualunque strutturazione – in particolare qualunque strutturazione logico-linguistica – e, dunque, non si lascia catturare dalla dualità gödeliana tra consistenza e completezza.
4. Badiou e la molteplicità inconsistente
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elle prime pagine de L’essere e l’evento, dopo aver descritto l’operazione fondamentale del «conto-per-uno» attraverso cui una molteplicità è presentata, Badiou si richiama alla teoria degli insiemi per stabilire quali molteplicità possano esistere e quali no (Badiou 1995, 30-1). Questo riferimento caratterizza indubbiamente la sua ontologia matematica: il suo discorso procede, infatti, dall’affermazione assiomatica del «non-essere dell’uno» (Badiou 1995, 37) che rompe con la reciprocità tra l’uno e l’essere, postulata da tutta la metafisica (Badiou 1995, 29). Così, seguendo l’assiomatizzazione della teoria degli insiemi compiuta da Zermelo e Fraenkel, Badiou proibisce l’esistenza delle molteplicità paradossali, «la cui inconsistenza ontologica ha come segno la rovina del linguaggio» (Badiou 1995, 49). Da queste considerazioni preliminari contenute nelle prime meditazioni de L’essere e l’evento, Livingston deduce che «l’universo descritto dal linguaggio è, dunque, secondo Badiou, essenzialmente e fondamentalmente incompleto» (Livingston 2012, 45). Per evidenziare i limiti di questa interpretazione, bisogna innanzitutto chiarire il significato dell’espressione fondante della sua ontologia matematica, «matematiche=ontologia» (Badiou 1995, 12). Nell’introduzione a L’essere e l’evento, Badiou afferma perentoriamente che: La tesi che sostengo non dichiara in nessun modo che l’essere è matematico, ovvero composto di oggettività matematiche. È una tesi non sul mondo ma sul discorso. Afferma che le matematiche, nel corso della loro storia, pronunciano ciò che è dicibile dell’essere-inquanto-essere (Badiou 1995, 14).
Incompleto e consistente secondo la dualità gödeliana può essere soltanto il discorso sull’essere, e non l’universo o il mondo. Nella lettura di Livingston, svanisce completamente il tentativo di Badiou
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di sfuggire alla correlazione tra essere e discorso sull’essere, imposta dalla rivoluzione copernicana di Kant e portata avanti dalla svolta linguistica del Novecento. Per riscoprire la novità del suo pensiero, è necessario ritornare alle meditazioni iniziali de L’essere e l’evento e alla rilettura che ne propone lo stesso Badiou nei primi due capitoli di Ontologia transitoria. In queste pagine, la posta in gioco dell’identità tra matematica e ontologia, che sin dalle aporie parmenideo-platoniche sull’inesistenza del molteplice ha sempre ossessionato il discorso filosofico, è la liberazione dell’ontologia dall’offuscamento metafisico (Badiou 2007, 28). Nella storia della filosofia, il tratto distintivo della metafisica consiste sempre nel soggiogare l’essere alla potenza normativa dell’uno, facendo sì che «l’essente predomini sul movimento iniziale, o inaugurale, dello schiudersi dell’essere» (Badiou 2007, 21). Il trattamento metafisico dell’essere impedisce dunque all’ontologia di incontrare realmente le proprie questioni. Il punto di partenza del proposito speculativo di Badiou è, pertanto, il rifiuto di questa riduzione metafisica dell’essere «al comune» e «alla generalità vuota» (Badiou 2007, 21-2), che non ha altra via se non quella del riconoscimento «che non ci sono oggetti matematici»: Le matematiche non presentano, in senso stretto, niente, senza che con questo siano un gioco vuoto, poiché non avere niente da presentare, eccetto la presentazione stessa, cioè il molteplice, e non accordarsi mai alla forma dell’og-getto, è certo una condizione di ogni discorso sull’essere in quanto essere (Badiou 1995, 12).
L’ontologia matematica non è dunque una rappresentazione degli oggetti, né una generalizzazione di ciò che vi è di comune in essi, ma una presentazione dell’inconsistenza dell’essere in quanto tale, la cui possibilità viene posta fin dal Parmenide di Platone, attraverso il «sogno impossibile» di una molteplicità-senza-uno (Badiou 1995, 39-40). Traendo fino in fondo le conseguenze della massima eleatica posta in conclusione al testo platonico, «se l’uno non è, niente è», Badiou afferma che l’ontologia matematica può essere soltanto la presentazione dell’essere-in-quanto-non-è – vale a dire, l’emergere dell’impresentabilità dell’essere nella consistenza discorsiva come vuoto, che sottrae l’irriducibilmente molteplice alla potenza normativa del pensiero metafisico.
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L’elaborazione messa a punto da Zermelo e Fraenkel della teoria degli insiemi, che prende l’insieme vuoto Ø come elemento positivo di una presentazione consistente, è pertanto ciò che permette a Badiou di concludere: «l’ontologia non è altro che la matematica stessa» (Badiou 2007, 28). Com’è noto, con «il segno ∈, disessere di ogni uno, [che] qualifica, in modo uniforme, la presentazione del qualcosa come indicizzato con il molteplice» (Badiou 1995, 50), e con il segno del vuoto Ø, «il solo termine di cui si tessono le composizioni senza concetto dell’ontologia» (Badiou 1995, 62), la teoria assiomatica degli insiemi prende esplicitamente le distanze dalla definizione cantoriana di insieme. La concezione di Cantor, retrospettivamente qualificata come “ingenua”, legava ancora questa nozione a quelle di intuizione, oggetto, totalità. Badiou, al contrario, accettando l’assiomatizzazione di Zermelo e Fraenkel, rigetta questa impostazione: Occorre necessariamente che la prima molteplicità presentata senza concetto sia molteplice di niente, perché se fosse molteplice di qualcosa, questo qualcosa sarebbe in posizione di uno. E occorre che, in seguito, la regola assiomatica autorizzi delle composizioni solo a partire da questo molteplice-di-niente, cioè a partire dal vuoto (Badiou 1995, 63).
Sebbene il potere concettuale della teoria assiomatica degli insiemi sia necessario per rifiutare l’assoggettamento dell’essere alla potenza normativa dell’uno, non bisogna dimenticare che, per Badiou, «il sogno impossibile di Platone è […] il paradiso dei transfiniti di Cantor» (Tho 2012, 27). Ed è proprio qui, e a quanto Badiou scrive in proposito, che dobbiamo tornare per mettere in luce la sua eredità cantoriana: Con un’anticipazione geniale, Cantor vede che il punto d’essere assoluto del molteplice non è la sua consistenza – dunque la sua dipendenza da una procedura del conto-per-uno –, ma la sua inconsistenza, cioè un dispiegamento-molteplice che nessuna unità raccoglie (Badiou 1995, 48).
In questo passaggio nodale, Badiou sottolinea proprio ciò che la teoria assiomatica degli insiemi “nasconde” sotto il segno del vuoto: la molteplicità inconsistente. Se, come nella celebre lettera a Dedekind del 3 agosto 1899 (Cantor 2012, 148-53), Cantor sembra vacillare
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di fronte a essa, orientandosi verso una dottrina ontoteologica «che pensa l’assoluto come essere supremo infinito» (Badiou 1995, 48), si può senz’altro dire che le sue osservazioni in quel contesto – e altrove (Cantor 2012, 90-3, 114-18, 128) – fanno emergere una dottrina dell’assoluto che disfa la potenza normativa dell’uno, [Un]’ontologia matematica, dove la consistenza fa teoria dell’inconsistenza per il fatto che ciò che fa ostacolo (le molteplicità paradossali) è il suo punto d’impossibile, e quindi, molto semplicemente, non è. E conseguentemente fissa il punto non-essente da dove si può stabilire che ci sia una presentazione dell’essere (Badiou 1995, 48).
Nonostante il disperato supplemento teologico-metafisico, è Cantor stesso che, non indietreggiando di fronte all’associazione di assolutezza e inconsistenza, fornisce il «punto non-essente» o «d’impossibile», attraverso il quale l’ontologia matematica di Badiou può articolare il suo discorso.
5. In cammino verso l’assoluto
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ome ha già notato in precedenza Simone Regazzoni (2008, 61-2), la molteplicità inconsistente di Badiou, che, da quanto abbiamo visto, è «l’essere affrancato dall’uno», è equivalente alla chōra platonica e, tramite essa, all’indecidibile derridiano: per una molteplicità presentata qualsiasi, o situazione, c’è dunque l’equivalente di quanto Platone chiamava – a proposito della grande costruzione cosmologica del Timeo […] – «la causa errante», il cui pensiero riconosceva come oltremodo difficile. Si tratta di una figura impresentabile e necessaria, [...] il non-termine di ogni totalità, e il non-uno di ogni conto-per-uno, il niente proprio della situazione, punto vuoto e insituabile dove si svela che la situazione è in sutura con l’essere, […] che è già sbagliato contrassegnare come punto, perché non è né locale né globale, ma diffusa ovunque, in nessun luogo e in ogni luogo, come ciò che nessun incontro autorizza a ritenere presentabile (Badiou 1995, 61).
Non resta da fare altro, almeno su tale questione – che è la questione di chōra, dell’indecidibile, e di questo punto vuoto e insituabile che non è nemmeno un punto –, se non abbandonare lo schema di Livingston incentrato sulla dualità logica tra inconsistenza e
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incompletezza: entrambi, Derrida e Badiou, optano evidentemente per un’inconsistenza; ma si tratta di tutt’altra inconsistenza, tale da precedere qualsiasi nozione logico-linguistica. Tutt’al più potremmo dire che Badiou resta fedele al «problema di Derrida»: Che cos’è catturare una fuga? non catturare interamente ciò che fugge, ma la fuga come punto di fuga. […] Se voi catturate la fuga, la sopprimete nello stesso momento. Il punto di fuga, in quanto punto di fuga, non è catturabile. […] Anche localizzare il punto di fuga […] è in realtà impossibile. Poiché il punto di fuga è ciò che, nel luogo, è fuori luogo. È il fuori luogo del luogo (Badiou 2010, 102-3).
Abbiamo visto come Badiou, con la stessa «ostinazione diagonale» (Badiou 2010, 105) che ha contraddistinto Derrida, si sia messo sulle tracce di questo «fuori luogo del luogo», non tanto per catturarlo e sopprimerlo, ma per lasciare riemergere in questo terrain vague tra la matematica e la filosofia, l’antica prossimità pitagorica e platonica tra queste due discipline. Questa vicinanza ha assunto, nell’opera di Badiou, una forma post-cantoriana, dove la matematica, scoprendo il punto d’impossibile attraverso cui può articolare il suo discorso, permette alla filosofia di riassolutizzarne la portata, senza per questo ricadere in una necessità obsoleta di tipo metafisico. In altre parole, si può dire che, per Badiou, l’evento-Cantor nomina il passaggio da un’assolutizzazione della matematica di tipo ontico, «che vincola ancora il molteplice al tema metafisico della rappresentazione degli oggetti» (Badiou 2007, 28), a un’assolutizzazione che, non più ontica, è «quasi ontologica» (Regazzoni 2008, 67): abbiamo infatti enunciato qualcosa a proposito di chōra, dell’indecidibile, o di questo punto d’impossibile in cui l’ontologia matematica si costituisce attraverso ciò che la eccede, e non riguardo a tale o talaltro ente; abbiamo affermato che l’essere deve necessariamente essere inconsistente. Dunque, leggendo Badiou (e Derrida) attraverso il prisma cantoriano, siamo arrivati a rompere con il dogma della filosofia contemporanea – che Quentin Meillassoux ha denominato «catastrofe kantiana» (Meillassoux 2012, 152) – secondo cui, dalla fine della metafisica, si deduce inevitabilmente la fine degli assoluti. Infatti, senza ricadere nel pensiero ontoteologico, abbiamo designato – senza localizzarla – una necessità assoluta che non ripristina nessun ente assolutamente necessario (Meillassoux 2012, 49). A tale proposito, tuttavia, bisogna dire che le soluzioni prospettate nel libro di Meillassoux (2012) sono differenti da quelle presentate in queste pagine.
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Possiamo dire infine di aver attraversato le mura edificate dalla «controrivoluzione tolemaica» (Meillassoux 2012, 145) di Kant, o perlomeno di aver aperto un varco in esse. Ora sappiamo dove si situa l’angusto passaggio: è attraverso il procedimento diagonale e l’assolutizzazione della matematica in senso quasi ontologico che possiamo intraprendere «un cammino verso l’assoluto» (Meillassoux 2012, 83). Bibliografia Althusser, L. (1974), Lenin e la filosofia, trad. it. F. Madonia, Jaca Book, Milano [Lénine et la philosophie, Maspero, Paris 1972]. Agamben, G. (2005), “Pardes. La scrittura della potenza”, in Id., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza, pp. 352-71. Badiou, A. (1995), L’essere e l’evento, trad. it. di G. Scibilia, Melangolo, Genova [L’être et l’événement, Éditions du Seuil, Paris 1988]. Badiou, A. (2007), Ontologia transitoria, trad. it. di A. Zanon, Mimesis, Milano-Udine [Court traité d’ontologie transitoire, Éditions du Seuil, Paris 1998]. Badiou, A. (2010), Piccolo pantheon portatile, trad. it. di L. Bosi, Melangolo, Genova 2010 [Petit panthéon portatif, La Fabrique, Paris 2008]. Bussotti, P., Tapp, C. (2009), “The Influence of Spinoza’s Concept of Infinity on Cantor’s Set Theory”, in Studies in History and Philosophy of Science, vol. 40, pp. 25-35. Cantor, G. (2012), La formazione della teoria degli insiemi. Scritti 1872-1899, a cura di G. Rigamonti, Mimesis, Milano-Udine. Dauben, J. (1990), Georg Cantor: His Mathematics and Philosophy of the Infinite, Princeton University Press, Princeton [1° ed. 1979]. Derrida, J. (1975), Posizioni, trad. it. di M. Chiappini e G. Sertoli, Bertani, Verona 1975; [Positions, Éditions de Minuit, Paris 1972]. Derrida, J. (1978), Il fattore della verità, trad. it. F. Zambon, Adelphi, Milano [“Le facteur de la vérité”, in Id., La carte postale: de Socrate à Freud et au-delà, Flammarion, Paris 1980]. Derrida, J. (1989), “Doppia seduta”, in Id., La disseminazione, trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Jaca book, Milano, pp. 201-300 [La dissémination, Éditions du Seuil, Paris 1972]. Derrida, J. (1997), Limited Inc., trad. it. di N. Perullo, Cortina, Milano [Limited Inc., Galilée, Paris 1990].
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Marco Damonte Fede pensata La religione di fronte alla filosofia analitica
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a riflessione filosofica sulla religione non si presenta come una disciplina di confine; si palesa piuttosto come un settore ben definito, almeno fin da quando Hegel ha consacrato la religione quale momento centrale dello vita dello spirito assoluto. Un ruolo rilevante con un accento antropologico e con implicazioni morali, ma pericoloso perché rischia di considerare la religione non una sfera autonoma della coscienza, bensì una modalità dialettica del darsi dell’autentica speculazione. La filosofia della religione, prevalentemente, o è una fenomenologia dell’esperienza religiosa o si articola come fede filosofica. Quest’ultima tende a prendere il posto della religione nel suo darsi storico e ritiene di dare quelle risposte che le religioni, in un’epoca di crisi, non sarebbero più in grado di fornire; addirittura pretende di offrire una salvezza e perciò instaura con le religioni un rapporto conflittuale. Che cosa succederebbe, invece, se considerassimo la filosofia della religione davvero una disciplina di confine? Essa si configurerebbe come una riflessione condotta attraverso il metodo della filosofia sui contenuti propri della fede. Una riflessione dunque che non confligge con le credenze religiose, ma che si confronta e discute con esse: un atteggiamento capace di generare una fede pensata e non una mera fede filosofica. Nel panorama contemporaneo, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, la filosofia analitica della religione si contraddistingue per considerare la fede un dato autonomo con il quale misurarsi. Propongo una schematizzazione utile a muoversi all’interno delle correnti in cui la filosofia analitica della religione si articola, per ciascuna delle quali metterò in evidenza caratteristiche, pregi e difetti. Di preferenza utilizzerò testi disponibili in lingua italiana, perché nel contesto accademico del nostro paese tale disciplina è ancora ai margini.
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1. La scolastica analitica
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ppena la svolta linguistica valorizzò il linguaggio ordinario, alcuni studiosi concentrarono la loro attenzione sulle proposizioni religiose. L’oggetto che la scolastica analitica si propone di studiare è il Dio delle religioni monoteiste. Il primo obiettivo è recuperare gli argomenti a favore del teismo, i quali vengono fatti passare al vaglio delle metodologie offerte dalla filosofia analitica e il cui numero viene incrementato, avvalendosi delle scoperte delle scienze, della logica e della matematica. Dio viene considerato alla stregua di una ipotesi formulata andando alla ricerca della miglior spiegazione e corroborata con prove su cui esprimersi in termini probabilistici. Esempio pertinente è la trilogia di Swinburne, allievo di Austin. Egli si è occupato della coerenza della posizione teista, condizione per poter dimostrare l’esistenza di Dio e difenderla di fronte alla sfida della ragione scientifica. Questo percorso è noto in Italia grazie a un agile volumetto nella cui introduzione Swinburne chiarisce la sua prospettiva: Scienziati, storici e ricercatori osservano i dati e procedono da qui a qualche teoria relativamente a ciò che spiega nel modo migliore l’accadimento di questi dati. Noi possiamo analizzare i criteri che loro usano per raggiungere la conclusione che una certa teoria è meglio supportata dai dati rispetto ad un’altra – cioè, che è più probabile, sulla base di questi dati, che sia vera. Usando questi stessi criteri, troviamo che l’idea che esiste un Dio spiega ogni cosa che osserviamo, non soltanto un qualche ristretto ambito di dati (Swinburne 2002, 6).
La discussione della scolastica analitica si è ampliata fino a discutere nei dettagli i diversi attributi di Dio, quali unicità, unità, eternità, bontà, immutabilità, onniscienza, onnipotenza, a metterli in relazione tra loro e a valutarne la compatibilità con la libertà umana (Wierenga 2006). Lo statuto della filosofia analitica della religione, secondo questa prospettiva, è chiarito da Hughes: La filosofia della religione consiste in buona parte di ciò che i filosofi analitici chiamano analisi concettuale. Ma non esclusivamente. Spesso i filosofi della religione cercano di dire in che cosa consiste – o in che cosa potrebbe consistere – la verità di una proposizione reli-
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giosa, o di giustificare le credenze religiose. [...] Inoltre i filosofi della religione propongono e valutano argomenti (filosofici) a sostegno di, o contro, la verità (o, in alcuni casi, la consistenza) di proposizioni religiose (l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima e via dicendo) (Hughes 2002, 390-1).
Hughes considera l’evoluzione della filosofia analitica della religione un ritorno alla scolastica e in quest’ottica si è occupato di confrontare la cogenza dei principali argomenti a favore e contro l’esistenza di Dio e di discutere la coerenza dell’affermare unità e Trinità di Dio (Hughes 2005). Dal punto di vista contenutistico la scolastica analitica si può assimilare alla teologia razionale, di cui rappresenta una rivalutazione e uno sviluppo, come mostra Micheletti nell’offrire una disamina degli argomenti ontologici, cosmologici e teleologici (Micheletti 2010). La teologia razionale nella filosofia analitica rappresenta la possibilità di tornare ad apprezzare tale disciplina in virtù del nuovo contesto metafisico e ontologico in cui si situa. Spesso la ricchezza di tale contesto non viene esplicitata, così che la teologia razionale sembra caratterizzarsi solo per la sua capacità di dialogare con le scienze dure e di procedere attraverso il rigore della logica modale. A fronte di questi aspetti comunque positivi, si può rilevare un rischio che la teologia razionale corre, cioè quello di appiattirsi sul paradigma moderno, accettando di discutere le credenze religiose opponendo argomenti pro ad argomenti contro, sempre più sofisticati formalmente, ma sempre meno attinenti alla dimensione religiosa. Dio finisce con il venire considerato un oggetto tra gli altri e le proposizioni religiose tendono ad essere razionalizzate. La loro verità deve essere provata attraverso una estenuante ricerca di prove (evidence) a partire da una posizione neutrale. Anche quando l’indagine ha esiti positivi, resta il sospetto che il Dio del quale si parla sia solo un generico Dio dei filosofi, proprio più del deismo che del teismo.
2. Il fideismo wittgensteiniano e la teologia come grammatica
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a riflessione sui giochi linguistici e la rilevanza data alle diverse forme di vita proprie degli esseri umani sono i due aspetti del pensiero wittgensteiniano che hanno promosso l’attenzione al linguaggio religioso. Data la frammentarietà stilistica di Wittgenstein è lecito aspettarsi diversi esiti della sua riflessione; è possibile identificarne due (Di Caro 2000).
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Il primo consiste nel cosiddetto fideismo wittgensteiniano, tipico di Rhees, Winch e Malcolm, poi sostenuto con accenti relativistici da Phillips. Questa posizione è riconducibile al fideismo classico poiché implica la conflittualità tra ragione e fede e l’inutilizzabilità cognitiva del teismo (Micheletti 2002, 55-91). Essa nasce dalla considerazione che il linguaggio religioso ha un carattere autosufficiente e il modo in cui parliamo attraverso esso della realtà di Dio è logicamente diverso dal modo in cui parliamo di realtà nella scienza, così come sono diversi i criteri di razionalità. Non tutti sostengono un mero espressivismo, ma tutti sono accomunati da una visione equivoca del linguaggio e da una concezione non realista di quello religioso. A titolo esemplificativo è possibile ripercorrere i puntuali interventi di Phillip agli annuali Colloqui di filosofia. Il filosofo americano insiste sulla necessità di emancipare la filosofia della religione dalla pesante eredità dell’illuminismo che grava su di essa, invitando a considerare quale fondamento delle credenze religiose non le prove razionali, bensì i principi di autorità e di rivelazione (Phillips 1994). Sempre a livello metodologico, la filosofia della religione è costitutivamente intersoggettiva e contemplativa e ciò la dovrebbe rendere diffidente verso ogni approccio cartesiano (Phillips 2001). La relazione tra Dio e il mondo attraverso il principio di causazione creaturale è secondaria rispetto alla relazione tra Dio e gli esseri umani, che va approfondita attraverso le nozioni di dono, debito e riscatto (Phillips 2004). La filosofia della religione si troverebbe a suo agio nella cultura post-metafisica dove si configura come una teologia negativa (Phillips 2002). Analoga l’interpretazione di Wittgenstein offerta dalla Manganaro, la quale insiste sull’incomunicabilità del linguaggio religioso a fronte della quale l’unica possibilità resterebbe il silenzio e la rinuncia alla dimensione cognitiva della religione a tutto vantaggio della sfera etica (Manganaro 1999). Più equilibrato il contributo di Perissinotto (Perissinotto 2010). Questo primo approccio al pensiero di Wittgenstein ha il vantaggio di valorizzare la specificità della forma di vita religiosa, ma finisce col cadere nell’incommensurabilità del linguaggio religioso riducendo così la filosofia della religione a una prassi dai tratti mistici. Tale rischio non viene corso dal secondo filone sorto in ambito wittgensteiniano. Esso prende le mosse dalla concezione di teologia come grammatica (Micheletti 1971), per unire le aforistiche espressioni del filosofo austriaco con la sua critica al solipsismo e al dualismo cartesiani e renderle feconde per una nuova impostazione teologica:
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negli scritti di Wittgenstein sono presenti molti espliciti riferimenti a soggetti teologici [...]. Li riassumo brevemente. Parlare di Dio deve essere una riflessione sul modo in cui la parola ‘Dio’ è usata nella nostra conversazione. La fede, nelle circostanze appropriate, è visibile nel comportamento degli uomini; non è un oggetto interiore inattingibile. Gli argomenti a favore dell’esistenza della divinità arrivano troppo tardi o troppo presto per essere utili a qualcuno. Infine, per capire il potere della religione, dobbiamo riscoprire la bizzaria della nostra propria natura, che rende intelligibili i racconti delle usanze religiose. Su ognuno di questi argomenti, le proposte di Wittgenstein sono in piena consonanza con quel mutamento nella collocazione dell’io cui sono finalizzate le strategie degli ultimi scritti (Kerr 1992, 264).
Putnam ha contribuito a indicare quale sia l’atteggiamento di Wittgenstein circa la filosofia della religione, commentando le sue Lezioni sulla credenza religiosa. Esse vengono considerate l’esempio di come un filosofo possa condurci a vedere le nostre forme di vita senza essere né scientista, né irresponsabilmente metafisico. L’ottica proposta dal filosofo austriaco, nel contesto religioso, è la rinuncia al realismo e al punto di vista da nessun luogo e il recupero di una attenzione all’esistenza concreta (Putnam 1998, 131-171). La prima lezione si interroga su come vada compreso il linguaggio religioso e su quale sia il suo grado di commensurabilità. La seconda discute la differenza tra l’uso di immagini per rappresentare persone e quello per rappresentare Dio: emerge la preoccupazione di contrapporre, in generale, la credenza religiosa alla credenza scientifica e, in particolare, alla superstizione. Nella terza lezione, Wittgenstein approfondisce che cosa intende dire quando afferma che il linguaggio religioso non è cognitivo. Egli non vuole affermare che esso non abbia un riferimento, come sostengono i descrittivisti, bensì che il riferimento consiste in una caratteristica del linguaggio umano. Il valore di verità di un enunciato, infatti, non dipende dal suo riferimento, ma dal suo uso e la legittimità di un determinato uso riposa su un’intera forma di vita. Che la forma di vita religiosa sia centrale per la vita umana, è posizione recentemente sostenuta da Putnam (Putnam 2011).
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3. Il tomismo analitico
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uesta corrente concerne l’epistemologia, la filosofia della mente, la teoria della conoscenza, la filosofia del diritto, l’etica e la bioetica (Sgreccia 2011) e anche la filosofia della religione (Micheletti 2007). Limitatamente a quest’ultimo aspetto, essa si basa su una lettura attualizzata dei testi di Tommaso, comprendente sia l’approccio a temi specifici, sia le istanze dell’intero progetto a supporto dei preambula fidei (Micheletti 2010, 143-177). La vasta bibliografia va dai volumi di Kretzmann che commentano i primi capitoli della Summa contra gentiles (1997; 1998 e 2000), fino a una riformulazione delle vie tomiste alla luce delle concezioni di tempo offerte dalla fisica contemporanea (Braine 1988), passando per un modello capace di articolare il rapporto tra ragione e fede (Davies 1992). Sottolineo tre aspetti che caratterizzano tale impostazione. In primo luogo essa approda a esiti opposti. La maggior parte dei tomisti analitici sostengono la posizione teista, ma Kenny è un acuto critico delle prove portate da Tommaso a favore dell’esistenza di Dio e le ha contestate (1969), fino ad approdare all’agnosticismo (2004). In secondo luogo va rilevato lo stretto legame tra la filosofia della religione ed altri settori della filosofia, in particolare ontologia e filosofia della mente (Haldane 2004b). Nel primo caso la riflessione riguarda la nozione di Dio come ipsum esse subsistens (Ventimiglia 2012); nel secondo caso l’approdo alla posizione teista è mediato dalla riflessione sul realismo epistemologico (l’uomo può conoscere alcuni aspetti della realtà così come sono) e da quella sul realismo ontologico (esiste una realtà indipendente dagli schemi concettuali della conoscenza umana), unite attraverso l’osservazione di una consonanza tra la nostra conoscenza della realtà e la realtà stessa. Rendere ragione di tale armonia, ovvero, dell’intelligibilità dell’universo, segna l’entrata nella filosofia della religione: la dottrina giudaico-cristiano-islamica della creazione serve a sottoscrivere l’impresa scientifica poiché ci assicura che i suoi presupposti operativi circa l’ordine e l’intelligibilità sono corretti e poiché ci offre uno sprone per intraprendere la scienza pura, cioè per comprendere la composizione e i modi di operare di un mondo concepibile quale un complesso artefatto che rispecchia l’attività di una mente intelligente (Smart, Haldane 2003, 83).
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La regolarità, l’ordine, la precisione che le scienze riscontrano nella materia e nello spazio-tempo lasciano trasparire un tutto armonico di fronte al quale ha senso porsi la domanda del perché: ex ipothesi nessun agente naturale potrebbe aver fatto l’universo; pertanto se la domanda circa la sua regolarità ha una risposta, allora tale risposta collega l’ordine naturale con quello soprannaturale, et hoc dicimus Deum ( Smart, Haldane 2003, 111).
Il tomismo analitico si contraddistingue infine per la capacità di discutere le posizioni di Tommaso e per presentarne una rilettura talvolta provocatoria. Così Kerr invita a riprendere il trattato De Deo all’inizio della Summa: se questo trattato altamente astratto su Dio non è solo un sistema di teoremi metafisici che alterano il Dio vivente della Bibbia nell’astratto “Dio dei filosofi”, come molti ritengono, allora possiamo proporre di rileggere queste questioni come un esercizio spirituale, una disciplina che cerca di allontanare le tentazioni di idolatrare le concezioni di Dio le quali hanno un loro rischio persino quando sono profondamente radicate nella Scrittura. [...] In un mondo condizionato dall’idolatria, il racconto dei fatti e delle parole che rivelano Dio e che rappresentiamo nelle nostre liturgie, hanno bisogno di essere messe al riparo dalle critiche di idolatria e in ciò consiste l’uso metafisico della ragione (Kerr 1992, 45).
I praeambula fidei non precedono l’atto di fede, ma lo accompagnano e lo purificano. Lo studio metafisico di Dio è raccomandato (1) considerata la distinzione tra la sacra doctrina e la sapienza dono dello Spirito, (2) in quanto ha un importante ruolo pedagogico e (3) perché i dogmi della fede rimangono sterili se non si comprendono, se non vengono “usati”: essi sono delle regole. La filosofia garantisce alla teologia il suo carattere patetico, come hanno insegnato i maestri della spiritualità e, in primis, Bonaventura, il cui Itinerarium mentis in Deum è, al pari dei testi di Tommaso, un’ascesa verso la contemplazione intellettuale. Il tomismo analitico ha così il grande merito di tematizzare i rapporti tra la filosofia della religione e gli altri settori della filosofia e in questo è sicuramente fedele allo spirito dell’Aquinate; nel farlo però non sempre è chiara la sua fedeltà a Tommaso, di cui risulta interprete parziale.
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4. L’epistemologia riformata
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’epistemologia ha condizionato il sorgere stesso della filosofia analitica della religione, in quanto ha posto in questione la legittimità delle credenze religiose ritenendole false, incerte, inaffidabili o irragionevoli (Hughes 2006). La corrente che va sotto il nome di epistemologia riformata inizia la sua riflessione a partire dalla filosofia del linguaggio e dalla teoria della conoscenza, per proporre un modo originale di considerare la credenza religiosa. La sua novità consiste nel rifiutarsi di vagliare le credenze religiose alla luce delle teorie epistemologiche contemporanee derivanti da un’impostazione fondazionalista ed internalista e di proporre una epistemologia capace di superarne le aporie. Di tale epistemologia, dalla matrice esternalista ed affidabilista, vengono analizzati i presupposti e le implicazioni teologiche (Wolterstorff 2004). Alston mostra la legittimità delle credenze teiste derivanti da una esperienza religiosa attraverso l’analogia tra pratiche doxastiche proprie delle esperienze sensibili e pratiche doxastiche proprie delle esperienze religiose (1991), mentre Wolterstorff argomenta la plausibilità che il testo sacro contenga la rivelazione positiva di Dio (1995). La tesi centrale dell’epistemologia riformata è quella secondo cui la credenza teista non necessita di essere basata su evidenze proposizionali per ottenere uno stato epistemico positivo. L’autore più impegnato in questo senso è Plantinga. Di Ceglie, presentando la traduzione di un pionieristico articolo del filosofo americano, individua con lucidità i due principali nuclei della sua speculazione: da un lato mi soffermo sulle motivazioni che Plantinga porta a sostegno della dignità intellettuale propria della credenza che Dio esiste, per cui essa risulta razionalmente accettabile anche laddove non appaia supportata da efficaci impianti sillogistici e da argomentazioni filosofiche più o meno rigorose; dall’altro lato, mostro quali ripercussioni un simile approccio alla fede del cristiano potrebbe avere per l’articolazione del discorso teologico-naturale, di quello condotto dal credente come pure di quello sviluppato dall’agnostico, dal non-credente, dall’ateo e così via (Plantinga 2011, IX).
Circa il primo punto rimando alla corposa monografia di Di Gaetano che indica il contesto teologico da cui l’epistemologia religiosa di Plantinga prende forma (Di Gaetano 2006). Il limite di questo testo
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è quello di presentare la proposta di Plantinga come occasionata dalle istanze religiose e perciò pregiudizialmente strutturata. La connessione tra epistemologia e religione va piuttosto considerata come segue: Plantinga ritiene che una teoria come quella della garanzia porti con sé un naturalismo epistemologico che necessita di una base metafisica teista [...]. Una proposta in cui naturalismo e teismo si fondono, in cui al naturalismo epistemologico non soggiace un naturalismo metafisico, rappresenta sicuramente una novità per certi versi sbalorditiva, ma con cui è necessario fare i conti (Di Stasio 2011, 97).
Plantinga sostituisce la nozione di giustificazione con quella di garanzia e sostiene che le credenze diventano conoscenza se prodotte dal funzionamento corretto delle nostre facoltà cognitive in un ambiente appropriato, senza bisogno che il soggetto cognitivo sia in grado di produrre prove a loro sostegno (Vassallo 1995). Poiché Plantinga ammette l’esistenza di un sensus divinitatis contro cui è possibile pronunciarsi solo partendo da una presupposizione di ateismo, allora le credenze religiose costituiscono conoscenza. Inoltre, l’esistenza di facoltà progettate per avere come output delle credenze vere circa la realtà, porta ad interrogarsi sulla loro origine e, più in generale, sull’intelligibilità del mondo: la domanda si sposta dall’epistemologia alla metafisica. L’esistenza di Dio pare la prospettiva più attendibile, in quanto la sua alternativa, cioè il naturalismo materialista, non riesce a rendere ragione di tale ordine presente in natura (Dennett, Plantinga 2012). Se la ragione umana fosse frutto dell’evoluzionismo materialista volto alla sopravvivenza, come potremmo affidarci ad essa nella ricerca del vero? Plantinga trae spunto dalla quinta via di Tommaso per concludere che la metafisica teista è l’unica capace di rendere ragione di una epistemologia naturalizzata. Ritenere le credenze teiste plausibili, le rende fruibili in vista di una concezione della scienza, della cultura e dell’esistenza personale. Limitandomi alla filosofia, Plantinga sottolinea la specificità della riflessione svolta dai cristiani e invita a considerare ogni scelta metodologica come sotto determinata dal punto di vista antropologico e metafisico (Plantinga 2011). La ricchezza del pensiero di Plantinga è contenuta nell’ampia monografia Warranted Christian Belief, di cui Di Ceglie sta curando una traduzione in italiano per i tipi della Lindau, in uscita nel 2013. È auspicabile che questa traduzione possa valoriz-
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zare il maggior pregio dell’epistemologia riformata, cioè lo scendere sul piano della modernità, accettando di iniziare la discussione dal livello epistemologico, e, al contempo, contribuire ad affrontare il suo tallone d’Achille che consiste nel fornire criteri non sempre adeguati per stabilire la garanzia delle singole credenze religiose.
5. Filosofia della teologia
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a riflessione filosofica sui contenuti specifici della teologia ha accompagnato trasversalmente tutte le correnti considerate. Dopo che la discussione sulle credenze religiose più generali (esistenza di Dio e suoi attributi) è approdata a conclusioni condivise, l’attenzione si spostata sui contenuti delle diverse confessioni. Nel caso della scolastica analitica l’esempio più rilevante è ancora quello di Swinburne, il quale ha proposto una quadrilogia sui contenuti del cristianesimo, partendo dalla concezione di Dio trinitario, per poi affrontare la questione della redenzione, della rivelazione, del male e della provvidenza. Circa l’approccio wittgensteiniano, il riferimento è a Kerr, con le sue riflessioni circa la duplice natura di Cristo, vero uomo e vero Dio (2004), e circa il dogma della transubstanziazione (1999). L’attenzione agli aspetti dogmatici è propria anche del tomismo analitico che, con Haldane, ha approfondito il dogma dell’infallibilità, dell’incarnazione del Verbo e dell’assunzione di Maria, per dilatare i suoi interessi a questioni educative, etiche e politiche e commentare alcune encicliche tra cui la Veritatis Splendor e la Fides et Ratio (2004a). Nell’opera di Plantinga non mancano riferimenti a dottrine teologiche specifiche, quali la presenza di un naturale desiderio di Dio, l’azione dello Spirito Santo, la possibilità della rivelazione e le conseguenze del peccato originale nel processo conoscitivo, ma, più in generale, la metodologia da lui proposta permette di riconoscere ai misteri della fede, per i quali la formulazione proposizionale può risultare difettiva, i caratteri di razionalità, garanzia e giustificazione (Anderson 2007). Merita di essere menzionato il metodo narrativo che consiste nell’utilizzare categorie filosofiche per presentare, meglio per rendere ragione raccontando, un’esperienza esistenziale dai risvolti religiosi (Wolterstorff 2002) o per cogliere il significato delle grandi narrazioni bibliche capaci di illuminare questioni sollevate dalla filosofia della religione, quali la teodicea (Stump 2010). La Stump distingue a questo proposito una ragione domenicana, più tendente all’analisi, da una ragione francescana, caratterizzata da empatia (Stump 2004).
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La filosofia analitica della teologia sta assumendo caratteristiche proprie in contrapposizione alla teologia continentale, tra le quali segnalo un rigore argomentativo capace di evitare la razionalizzazione e salvaguardare il mistero, una chiarezza espositiva che permette la discussione e consente di entrare nel merito del contenuto proposizionale dei dogmi (Flint, Rea 2009 e Damonte 2011b). Per queste ragioni si presenta come erede della teologia sistematica (Crisp, Rea 2009). La filosofia della teologia è capace di discutere le singole credenze, favorendo il dialogo tra le religioni, pur azzardando una eccessiva specializzazione.
6. Lavorare ai margini
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a filosofia analitica della religione non si accontenta dello studio del fenomeno religioso nel tentativo di trattare le questioni religiose dal punto di vista epistemologico, ontologico e metafisico con la consapevolezza che esse sono rilevanti nella ricerca dei fondamenti ultimi della realtà. Grazie al successo di tale tentativo tale corrente evita di limitarsi a riguardare solo un’estensione del nostro inventario ontologico, bensì investe la nostra comprensione e interpretazione della realtà, fino a dilatare la nostra razionalità e ad ampliare gli orizzonti della ricerca filosofica. Dio non diventa un ennesimo oggetto di indagine; piuttosto le credenze religiose offrono una prospettiva di indagine sulla totalità del reale. La credenza nella realtà divina non è isolata e costituisce un decisivo sistema di riferimento noetico ed esistenziale. Inoltre escludere l’assurdo (logico) non significa escludere il mistero (esistenziale), anzi comporta valorizzarlo e promuoverlo (Micheletti 2010, 14 e 37). Le correnti presentate non vanno considerate alternative, ma distinte: la scolastica analitica spiega le credenze religiose, il fideismo wittgensteiniano si concentra sul salvaguardarne lo specifico, il tomismo analitico ne approfondisce i nessi metafisici e ontologici, l’epistemologia riformata le comprende e la filosofia della teologia entra nel merito di ciascuna di esse. Queste precisazioni allontanano lo spettro dell’ontoteologia e rendono la filosofia analitica della religione interessante anche per chi è più sensibile alla questione del senso della vita (Fabris 2012). Molto è stato fatto e molto resta ancora da fare. I testi italiani che si sono occupati di questa corrente consentono una contestualizzazione dei temi propri della filosofia analitica della religione, ne studiano la genesi e
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ne tematizzano l’articolazione storica. Il passo successivo è quello di impegnarsi in modo diretto in questa disciplina. Come vivacizzare il dibattito? Si tratta di approfondire le articolazioni, peculiari a ciascun autore, tra religione e altri settori della filosofia (Babolin 2004) e di lavorare ai margini dei filoni individuati così da far emergere interessanti prospettive: basti pensare alla questione del realismo tra epistemologia riformata e fideisti wittgensteiniani (Damonte 2012 e Micheletti 2004) e alla nuova teologia naturale nata confrontando epistemologi riformati e tomisti wittgensteiniani (Damonte 2011a). In gioco non c’è solo una fede più pensata e neppure la pur rilevante possibilità di articolare un dialogo interreligioso fecondo, ma anche una concezione di ragionevolezza e addirittura la pensabilità stessa di struttura metafisica capace di sostenere l’intelligibilità del mondo e rendere ragione del ruolo che l’uomo ha nel cosmo (Micheletti 2012). Sfide che il post-moderno pone e che sarebbe un peccato non raccogliere. Bibliografia Alston, W.P. (1991), Perceiving God, Cornell University Press, Ithaca. Anderson J. (2007), Paradox in Christian Theology: An Analysis of Its Presence, Character, and Epistemic Status, Paternoster Theological Monographs, Waynesboro. Babolin, A. (2004), Alvin Plantinga: la metafisica e la teologia naturale, «Rivista di filosofia Neoscolastica», 96, 425-439. Braine, D. (1988), The Reality of Time and the Existence of God, Clarendon Press, Oxford. Crisp, O.D., Rea, M.C. (2009), Analytic Theology. New Essays in the Philosophy of Theology, Oxford University Press, Oxford. Damonte, M. (2011a), Una nuova teologia natuale. La proposta degli epistemologi riformati e dei tomisti wittgensteiniani, Carocci, Roma. Damonte, M. (2011b), Il dogma trinitario nella prospettiva della filosofia analitica della religione, «Reportata. Passato e presente della teologia, Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2011». Damonte, M. (2012), Quale realismo per la teologia naturale? Riflessioni critiche sull’epistemologia riformata e sul fideismo wittgensteiniano, «Filosofia e Teologia», 26, 185-201.
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Silverio Zanobetti Economia del bios nella società digitale
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No future». Si intitola così il nuovo graffito di Bansky, uno dei maggiori esponenti della street art (Millepiani 2011): come a dire che il compito filosofico consiste proprio nel creare le condizioni per un transito verso un futuro diverso da quello del debito/giudizio illimitato. Non è un caso che “Future” sia anche il nome di un derivato, un contratto in cui le due parti si impegnano oggi a vendere un’attività (strumenti finanziari, merci, indici di borsa o valuta) ad un certo prezzo e ad una certa data prefissati. I futures possono essere legati, ad esempio, alle aspettative prossime sul valore dei titoli di Stato; sono scommesse sul valore futuro di qualsiasi titolo. I prodotti derivati sono il principale mezzo di moltiplicazione mistica del denaro: entrambi i contraenti (scommettitori) registrano contabilmente tale attività come una promessa di valore, come se entrambi potessero vincere la scommessa. A questo aggiungiamo che il derivato può essere venduto centinaia di volte, può essere valutato come patrimonio di un’impresa e (può essere) monetizzato per acquistare un qualsiasi bene. Se le attuali tecnologie di governo tentano di neutralizzare il tempo in un eterno presente (in un processo di cristallizzazione del presente), ciò viene fatto al fine di ridurre l’incertezza riguardo ai comportamenti futuri in vista dell’ottimizzazione delle rendite derivanti dalle scommesse speculative. È necessario partire dall’idea che i dispositivi di potere da una parte producono la “libertà” dell’utente-consumatore-produttore e dall’altra incatenano il sociale che nella sua positività sarebbe proprio ciò “che rende possibile” la creazione di ambienti di soddisfazione (Millepiani, 2012). Già Castells (Castells 2004) non ignorava l’esistenza di differenti e stratificate forme di governo del flusso che «operano La scritta “No Future” campeggia in rosso. La “o” di No diventa un palloncino rosso tenuto da una bambina. Quest’opera è stata recentemente utilizzata come immagine di copertina del numero 37/38 di Millepiani.
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secondo una divisione del lavoro con specializzazione e sfere di influenza accuratamente definite e tuttavia incessantemente contrattate, modificate, riviste» (Vecchi 2012, 30). È la circolazione dell’informazione (come flusso di dati, saperi e competenze) che garantisce la valorizzazione capitalista di una produzione reticolare; la conoscenza non è relegata agli ambiti della ricerca culturale e scientifica ma rappresenta uno dei cuori del meccanismo di accumulazione; l’attività lavorativa è essa stessa costituita da una continua formazione mediata dalla comunicazione, dalle tecnologie dell’informazione. È anche in questo senso che possono essere comprese le parole di Deleuze: «non bisogna credere che uno spazio liscio sia sufficiente a salvarci» (Deleuze, Guattari, 2003, 693), in quanto il governo del flusso avviene in questo stesso spazio reticolare. In Millepiani la macchina da guerra, che consiste nella capacità di creare spazi lisci, disfa l’organizzazione striata dello spazio e del tempo; ma ciò non può bastare per un’etica dell’immanenza in quanto la macchina da guerra passa comunque in complessi energetici, militar-industriali, multinazionali e quindi lo spazio liscio non è necessariamente rivoluzionario; al contrario, cambia singolarmente di senso secondo le interazioni in cui è preso e le condizioni concrete della sua applicazione ed (del suo) insediamento. In altri termini, non basta postporre al termine “economia” il magico termine “digitale” per ottenere un modello economico e politico alternativo a quello capitalistico. Le tecnologie informatiche e della comunicazione sono condizione della costituzione del soggetto e proprio in questo aspetto consiste il rischio e l’opportunità che le nuove tecnologie comunque serbano. Rischio e opportunità in quanto i dispositivi di potere e i processi di soggettivazione sono accadimenti che attraversano le macchine, ma non si riducono ad esse. Il compito è quello di evitare la cattura della percezione, della sensazione, della memoria e della durata che non sono premesse o ostacoli al pensiero, quanto quella materia di soggettivazione che se non tenuta in debito conto in un’etica della comunicazione digitale, ci porterà senz’altro all’asservimento. Il marketing impedisce la vera creazione e il vero incontro colonizzando la dinamica stessa dell’empirismo trascendentale attraverso la captazione dell’attenzione del pensatore. L’attenzione è il conatus della memoria, quest’ultima intesa come capacità di accogliere l’eterogeneità e di inventare poiché permette all’attenzione di non essere più catturata, subordinata all’azione finalizzata. Memoria e attenzione sono ciò che
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il biocapitalismo tende a catturare, in quanto sono entrambe condizioni per entrare in contatto con ciò che ci costringe a pensare, con l’oggetto di un incontro, ovvero l’essere del sensibile (Deleuze 1997, 182). Per spiegare il ruolo della memoria è utile seguire una linea di attualizzazione del pensiero di Tarde (Lazzarato, 2004 48-49): la memoria deve essere intesa nella sua capacità di esteriorizzarsi senza alienarsi: le invenzioni si incarnano in noi «sotto la forma di un cliché mentale, di un’abitudine acquisita, di una nozione o di un talento, e, fuori di noi, in un libro o in una macchina» (Tarde 1902). Gli ideologi della smaterializzazione hanno spesso parlato in modo ottimistico di “virtualizzazione”, facendone così un dispositivo di semplificazione della complessità dell’intreccio dei corpi e dei territori, dispositivo che è teso «ad accreditare l’immagine di un’omologazione necessaria della vita» (Villani 2006, 63). Le tecnologie non sostituiscono i corpi: l’assoggettamento dei corpi e la digitalizzazione delle emozioni sono anzi oggi effettuate da un potere pervasivo che cambia la percezione-concezione dello spazio e del tempo e neutralizza il virtuale immanente al mondo pur distinguendosi realmente dall’attuale. L’espressione e la costituzione del sentire non dipendono dal modo di produzione, sono piuttosto implicate nel funzionamento dell’economia (Lazzarato 2004, 18). Nella rincorsa continua, di cui parlava Keynes, riguardo la previsione su cosa farà la folla (presumibilmente meglio informata di noi), ognuno è rimandato a se stesso ma, allo stesso tempo, ad una calamitosa inerenza del singolo al generale intellect; scriveva Adorno: «La comunicazione provvede ad uguagliare gli uomini isolandoli» (Horkheimer, Adorno 1966, 238). L’inerenza è “calamitosa” in quanto priva di un ordinamento spaziale: la rincorsa agli sportelli è fuga verso l’ovunque, che termina con una paranoia tale che ogni gesto dell’altro è una minaccia per il mio corpo. Il potere molecolare opera tramite regimi di segni e macchine di espressione, che vanno a formare l’opinione pubblica; siamo di fronte ad una razionalità bioeconomica in quanto si creano modelli interpretativi dominanti che danno origine all’opinione pubblica, facendo subire ad ogni singolo attore economico una costrizione cognitiva (Fumagalli 2011, 35). La capacità di far emergere delle credenze condivise nelle dinamiche di borsa è opera di qualche “ispiratore”, pochissime bande di speculatori, che fanno l’opinione esprimendola (Tarde 1902). La svolta linguistica dell’economia implica che certe convenzioni e modelli interpretativi
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dominanti divengano “opinione pubblica”. Le convenzioni sono delle credenze collettive, costrizioni cognitive sui soggetti operanti nei mercati. Gli andamenti degli indici borsistici in cui si condensano le convenzioni riflettono dinamiche multi-sensoriali e multi-dimensionali che confliggono con la logica lineare-sequenziale che è alla base del circuito economico (il D-M-D di marxiana memoria). Il linguaggio dei mercati borsistici eccede il linguaggio dell’economico. Più della metà degli investimenti viene dirottata sullo styling, sul design e sulla promozione: in altri termini, è dirottata a costruire macchine di espressione che creano nuove sensibilità “convenzionali”. Tali macchine guidano l’effettuazione dei nostri modi di vivere, mettono in atto certi tipi di soggettivazione, si incarnano nei nostri corpi, operando una sottrazione biologica, materiale, affettiva, simbolica ed emotiva delle nostre esistenze. Per poter far questo, il potere è diventato nomadico, ed è ben disposto a dare cittadinanza ad ogni singolarità (Vignola, Vignola 2012, 97), ad ogni più impercettibile “differenza possibile”. La macchina sociale funziona come un regime macchinico di produzione dell’identità e della differenza e quindi non basta far giocare le differenze attraverso tutte le frontiere. I dispositivi funzionano come dispositivi di potere semiotico che modulano le differenze, che impongono stratificazioni di senso: «ogni enunciato considerato come vero esercita un certo potere e crea al contempo una possibilità» (Foucault 1997, 66). Le tecnologie di modulazione agiscono tramite azione a distanza, cristallizzando vibrazioni, onde e pacchetti di bit; all’interno della cooperazione tra cervelli nel capitalismo cognitivo (Aa.Vv. 2002) tale potere tenta di modulare le forze implicate in tale cooperazione; tali tecnologie diventano quindi fattori costituenti del processo di costituzione delle soggettività (Lazzarato 2004, 50). Forze di decomposizione e composizione dei flussi di desiderio e di credenze subrappresentative circolano tra i cervelli, che dipendono dalla circolazione di queste correnti sub-rappresentative le quali poi danno origine ai grandi eventi sociali. È opportuno innestare nel concetto classico di critica, di cui si è occupato in modo interessante Foucault, l’idea dell’impossibilità di giudicare un dispositivo dall’esterno: possiamo soltanto giudicarlo a partire dal nostro far parte di un altro dispositivo. Trasformare dall’interno l’economia capitalistica significa quindi muoversi tenendo conto che le condizioni della critica sono sempre condizioni tecnologiche («Non c’è evoluzione tecnologica senza che, nel più profondo,
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avvenga una mutazione del capitalismo» (Deleuze 2000, 238). Uno degli autori che ha cominciato questo percorso è Stiegler, con l’idea di una «farmacologia positiva»; tentare una trasformazione “dall’interno” significa in primo luogo cominciare a pensare a partire dalla stupidità che lo choc tecnologico ci infonde. È necessario pensare le condizioni tecnologiche a partire da quella stessa stupidità; il compito filosofico consiste nel cercare armi critiche e politiche in grado di mostrare, come primo passo, che non basta uno spazio liscio come quello della rete per ottenere migliori condizioni sociali e cognitive. “Creare” nuove forme di soggettivazione, nuovi territori esistenziali, ritrovare nelle molteplicità non discorsive del pensiero potenti vettori di soggettivazione, significa smarcarsi dalla “creatività commerciale”, in quanto tale creatività è soltanto il riconoscimento di qualcosa che è già costituito, una mera «promozione di ciò che è già possibile» (Vignola, Vignola 2012, 218), che è già lì; la creatività è diventata la parola d’ordine odierna. Si tratta di cambiare prospettiva, di rovesciare la creatività commerciale in vera creatività politica. Gli studi sul biocapitalismo cognitivo (Codeluppi 2008) ci dicono che anche l’attività cognitiva alla base del lavoro immateriale è sottoposta ad uno svuotamento di possibilità creativa (attraverso una progressiva parcellizzazione delle mansioni cognitive), di coercizione esterna dell’organizzazione aziendale; si assiste infatti ad un’automatizzazione dei processi cognitivi (Bellucci 2005). Qual è la differenza tra la creatività del marketing e la vera creatività? La prima si basa sul riconoscimento di qualcosa di già dato, di possibili già dati, mentre la vera creatività sta nella creazione del possibile, nel creare nuovi modi di esistenza, nuove possibilità di vita, nuove modalità di essere affetti e affettare. Resistere alla creatività del marketing è possibile attraverso posture etiche che permettano di “non agire” scegliendo tra possibili: non agire per poter tornare in contatto con il virtuale, inteso come creazione di differenze e di singolarità; per poter connettere il soggetto alla fonte delle sue singolarità (Deleuze 1997, 318) bisogna trovarsi prima di tutto di fronte ad un muro, proprio per rendere intollerabili le forme di possibilità ordinarie: MacEnroe è un inventore, cioè uno stilista [...] Come MacEnroe, è sbattendo contro il muro che si troverà qualcosa. Ha introdotto nel tennis posture egizie (il suo servizio) e dei riflessi dostoevskijani. Fin quando non si presenteranno un insieme di impossibilità, non disporremo di quella linea di fuga (Deleuze 2000, 176).
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È sbattendo contro il muro che si troverà qualcosa; essere di fronte all’intollerabile non c’entra niente col pessimismo. Così, la salute non è una costante di soddisfazione (che è realizzazione del possibile; questa è la salute che imprigiona). Il consumatore è ormai un produttore della propria soddisfazione nella misura in cui consuma; il consumo è ormai un’attività d’impresa. Nel tentativo di cambiare questa visione della salute, la malattia deve diventare un sano punto di vista sulla salute. La fuoriuscita dal possibile, dalla mera realizzazione del possibile può essere prodotta da un “non agire” etico definito da una sorta di “niente di volontà”: contro un possibile già dato e calcolato. Anche se facciamo coincidere il “niente di volontà” con la punta estrema del nichilismo, è chiaro che esso offre anche la possibilità della trasvalutazione dei valori in direzione della vita. Per capire come possa tornarci utile oggi l’etica deleuziana, credo sia necessario guardare ai personaggi di Melville, gli angeli, i santi ipocondriaci, quasi stupidi, affetti da una debolezza costitutiva ma anche da una strana bellezza, pietrificati per natura, e che preferiscono non voler affatto, un nulla di volontà piuttosto che una volontà di nulla […] Possono sopravvivere solo diventando pietra, negando la volontà, e si santificano in questa sospensione (Deleuze, Agamben 1993, 27).
Gli schemi senso-motori, i clichés, attuati in L’immagine-Tempo agiscono come “parole d’ordine” che tendono a rassegnarci o coinvolgerci a seconda dell’occasione e che ci costringono a «voltarci dall’altra parte quando questo è troppo sgradevole, per ispirarci rassegnazione quando è troppo orribile, per farci coinvolgere quando è troppo bello» (Deleuze 2004, 31). Il personaggio del neo-realismo, proprio come Bartleby, diventa lui stesso spettatore: è consegnato ad una visione, diventa visionario sottraendosi al “coinvolgimento”, al “riconoscimento” del biocapitalismo. Il visionario è colpito da qualcosa di intollerabile ed «avverte una mutazione degli affetti dovuta al cambiamento di percezione» attraverso la dinamica dell’empirismo trascendentale, dinamica che nel biocapitalismo cognitivo tende ad essere l’oggetto del controllo al fine di plasmare e codificare le condizioni di possibilità del pensiero. L’evento in Deleuze è l’apertura di un nuovo campo del possibile: ma “volere l’evento” significa rinunciare alla volontà.
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Dopo aver avuto il coraggio di affrontare l’evento, se ne può pagare le conseguenze, come fa Bartleby, non prima però di aver sperimentato «quell’ “inannientabile minimo”, a cui fa riferimento Beckett, che non può disporsi a una realizzazione «perché non enuncia più il possibile ma l’intollerabile» (Beckett 2008). L’intollerabile è ciò di cui non si occupano le avanguardie (che si dedicano al futuribile, dimensione del capitalismo cognitivo): esse non si occupano dell’«impossibilità del possibile» (Dotto, Bene 2002, 414). Nel capitalismo cognitivo il rapporto sociale è quello interno tra mente corpo, tra cervello e cuore, piuttosto che quello tra forza lavoro e macchine; laddove si ha un trasferimento delle funzioni produttive del capitale fisso nel corpo vivo della forza lavoro, centrali diventano la produttività dei corpi e il valore degli affetti. Le singolarità vengono così individuate in funzione dell’economia politica (Vignola, Vignola 2012, 213); in questo modo l’individuo viene sconnesso dalla fonte delle sue singolarità, da quella dimensione preindividuale ideale-virtuale costituita da rapporti differenziali; l’attuale svuotamento dei processi di soggettivazione indica che è necessario partire dall’indicazione di Simondon: l’individuo è trans-individuale e deve essere valutato a partire dalle relazioni che lo costituiscono e dal potenziale pre-individuale attraverso cui può dar vita ad un collettivo trans-individuale. L’individuo è individuazione di individuazioni. Deleuze, grazie a Nietzsche, riesce a distinguere un piano di organizzazione (un piano che rimane di trascendenza anche quando lo si immerge nelle profondità della Natura o anche dell’Inconscio) e un piano di individuazione della vita in cui l’individuazione non è altro che un passaggio ad un’altra individuazione, in un continuo diventare-altro. Il passaggio ai media digitali viene descritto dalla bibliografia del marketing come possibilità di catturare in modo ancora più molecolare (Tarde 2012) la volatilità delle tendenze culturali: il pointcasting è una modalità digitale di distribuzione mediatica in cui i messaggi vengono ritagliati su unità dividuali, che sono unità che scaturiscono dalla decomposizione degli individui in una nebulosa di dati soggetta a integrazione e disintegrazione automatizzata. Se volessimo pensare una politica della percezione, dell’occhio di stampo nietzschiano dovremmo innanzitutto fare un primo passo: sostituire le categorie di collettivo e Tarde scriveva: «Tutto viene dall’infinitesimale, e, aggiungiamo, è probabile che tutto vi ritorni».
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individuale con la molteplicità di concatenamenti collettivi che attraversano sia l’individuo sia la società. «Io sono tutti i nomi della storia» significa parlare in termini di singolarità e di ecceità; significa ritrovare nelle molteplicità non discorsive del pensiero potenti vettori di soggettivazione. Non tanto un “immergersi nel corpo”, quanto una valutazione dei sintomi del corpo per cogliere l’impensato del pensiero. A partire da queste considerazioni è possibile pensare l’assorbimento delle immagini attraverso i poteri legati alle tecnologie mediatiche e informazionali non più come un mero processo di manipolazione dell’utente (sull’utente): la cattura dell’affetto avviene tramite una serie di operazioni materiali, semiotiche e microfisiche in grado di indurre un certo tipo di percezione. Non è quindi una questione di “significati sociali” delle immagini e di identificazione con il politico, le pop star, gli oggetti, le razze ecc.; è necessario invece impostare la questione in termini di singolarità nomadi: si tratta di capire poi i modi in cui viene indotta la loro cattura o la loro eventuale auspicabile liberazione. La produzione di soggettività avviene all’incrocio dei dispositivi di comunicazione e informazione, vale a dire all’incrocio di condizioni sub-personali e sovrapersonali, dell’inumano e del sovraumano. Le trasformazioni delle nostre abitudini sensorie, percettive e concettuali accadono ovunque e quindi risultano poco visibili. Il compito è quello di far diventare lo spazio molecolare (quello della rete digitale) spazio non più oggetto di critica ma spazio critico (Stiegler 2012, 53). Laddove il corpo è considerato una risorsa informativa e una periferica che archivia informazioni, i corpi non diventano altro che l’ultimo spazio sociale fortemente conteso da dispositivi di mercato e di finanziarizzazione, spazio attraversato da flussi di capitale e rapporti di forze. Il servizio vendite, scrive Deleuze, è diventato l’anima dell’impresa (Deleuze 2000, 234-241): l’elemento chiave del marketing come controllo sociale non è trovare la strategia giusta, bensì diffondere e incoraggiare il pensiero strategico nel collettivo dell’organizzazione. La velocità del cambiamento costringe ogni organizzazione a diventare una learning organisation: l’organizzazione aziendale non è più considerata una macchina produttiva ma un organismo sociale intelligente. Il management cessa di essere solo una tecnica, ma diventa un’arte attuata tramite una valutazione dei clienti potenziali esaminando le loro storie e i loro problemi tramite una tecnologia dell’informazione e “customer relationship management”. Come ha intuito Deleuze, l’imperativo del marketing non è cercare di vendere un
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prodotto ma sforzarsi di sviluppare una relazione: è consigliabile per migliorare l’approccio del venditore al cliente spiegare che la visita è stata suggerita da un conoscente, un socio o un parente del venditore. La fase di follow up (che consiste nella verifica che il prodotto sia consegnato nelle modalità pattuite) e i servizi post vendite sono diventati l’anima dell’impresa e, negli Stati Uniti, rappresentano più del 50% del PIL: questi settori sono quelli che assorbono maggiormente l’afflusso delle donne e di gruppi di minoranza nella forza lavoro. Ogni produzione è trasformazione delle condizioni di attività e di capacità di azione futura dei clienti e dei loro modi di vita: […] il servizio è qui ciò che consiste nel prendere in carico il tempo individuale in quanto tale, nel sollevare da ogni responsabilità l’individuo nei confronti del proprio tempo e a distrarre il consumatore che l’individuo è diventato (Stiegler, 2012, 30).
È chiaro dunque che il mondo creato dall’impresa si confonde con i rapporti che i lavoratori e i consumatori intrattengono tra di loro. La vera lotta concorrenziale non è al livello della produzione economica ma a livello della creazione e dell’effettuazione del sensibile (desideri, credenza, intelligenze). La struttura reticolare di produzione implica cooperazione, comunicazione, “coinvolgimento” e controllo sociale (autocontrollo). «Il processo di accumulazione si basa sulle e prende sostanza dalle facoltà vitali degli individui» (Fumagalli 2011, 182). La conoscenza diventa espressione del bios, in quanto l’atto di accumulazione presuppone l’esistenza di un dispositivo di potere sulle attività esistenziali, in modo da trasformare queste ultime in relazioni economiche produttive. Se il desiderio è stato liquidato, sostituito sempre di più dalle pulsioni, ciò accade perché i circuiti di transindividuazione vengono ridotti e bloccati. Uno dei nodi è rappresentato dalla nozione di comunicazione che circola nelle strutture reticolari, di cui la rete digitale rappresenta solo il paradigma (“rete delle reti”). La comunicazione per Simondon avviene tra il preindividuale e il collettivo e in essa è in gioco la nostra capacità di conoscere il mondo attraverso un sistema di segni, l’organizzazione delle percezioni; il desiderio viene liquidato laddove viene regolata la velocità del nostro corpo in un campo d’azione. Nietzsche parlava di “pensiero tattile”: in effetti le tecnologie molecolari digitali modulano in modo dinamico le energie materiali
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e sociali in quanto l’informazione indica l’organizzazione materiale di un’azione possibile che plasma il campo sociale attraverso l’azione di un codice che pone dei limiti entro i quali ogni problema deve essere posto. L’architettura della rete digitale del web implica un effetto tattile, una modulazione dinamica delle energie materiali sociali. La tecnologia politica dell’informazione organizza il campo del probabile e produce una sensibilità modellata sul rapporto tra il reale e il possibile. Nel momento in cui Deleuze parla della società del controllo fa presente che la produzione si basa sempre di più sull’informazione e sul linguaggio e gli oggetti sono ormai presi nella formazione del loro accadere, in una «modulazione temporale che implica una messa in variazione continua della materia, come uno sviluppo continuo della forma» (Deleuze 1990, 28). Lo spazio liscio è uno spazio d’affetti più che di proprietà. È una percezione prensiva piuttosto che visiva. Mentre nello striato le forme organizzano una materia, nel liscio i materiali segnalano forze e servono loro da sintomi. È uno spazio intensivo più che estensivo, di distanze, non di misure” (Deleuze, Guattari 2003, 704). Non è sufficiente certo uno spazio liscio a salvarci: basta pensare che le dinamiche della modulazione temporale, del passaggio allo spazio liscio sono state protagoniste nel momento in cui si sono trasferite le tecniche dell’informazione e della comunicazione dal pensiero scientifico alle ricerche di mercato e alla politica culturale. Proprio attraverso queste tecniche si è assistito ad una microdisseminazione e modulazione del corpo in quanto i classici soggetti (adolescenti e imprenditori, ad esempio) vengono aggregati e disaggregati in base alla continua trasformazione dei flussi informatici sui loro gusti, opinioni e interessi specifici. Non si tratta di una massa passiva e inerte, come sostiene Baudrillard (Baudrillard 1985): le immagini vengono canalizzate in un sistema di comunicazione e di informazione digitalizzate capillare, all’interno di un’ecologia frattale di micro-nicchie sociali. Lo sciame del network è un taglio trasversale nella struttura di un campo informazionale altamente differenziato e interconnesso: ciò significa che i processi culturali non hanno perso la loro capacità di differenziare i flussi delle immagini. Le tecnologie della formazione e della comunicazione «controllano i tempi coscienti e incoscienti dei corpi e delle anime che li abitano, modulando mediante il controllo dei flussi questo tempo di coscienza e di vita» (Stiegler 2004, 20). I manager della comunicazione e dei mercati finanziari si sono sempre posti l’obiettivo di conservare il messaggio/segnale dalle possibili interfe-
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renze del rumore. Non si tratta più di segni, quanto di meri segnali. In questo senso si perde la possibilità di connettere la questione della sensibilità alle forze che provengono dai segni, di mettere in questione i dispositivi di potere semiotico che, attraverso i segni e l’immagine, “modulano” le differenze; ragionare in termini di segnale/rumore implica l’impossibilità di capire come il marketing oggi colonizza la dinamica stessa dell’empirismo trascendentale, ed è su questo piano che il compito etico è quello di costruire le condizioni per captare i segni come vettori di intensità pure, per creare un divenire-tutti, per amplificare la nostra capacità di «scivolare tra le cose, di crescere nel mezzo delle cose» (Deleuze, Guattari 2003, 410). Se è vero che è l’incapacità dell’uomo a separare i segnali ambientali dal rumore ad essere una risorsa di senso, è da precisare che il nodo problematico oggi è dato dal fatto che il rumore ha a che fare con “differenze” possibili e non con la creazione del possibile (Deleuze 2007, 15). Le differenze possibili sono le “piccole differenze” di cui parla Nietzsche: La fede nell’individualità – se si potesse ignorarne l’esistenza! In ogni caso andiamo verso epoche nelle quali le opinioni umane saranno molto uniformate; in tal modo però gli individui diventeranno sempre simili, ma anche sempre più divisi l’uno dall’altro. L’ostilità si mostrerà allora tanto più forte già per piccole differenze (Nietzsche, 2009, 61-62).
La sfida del management è quella di rendere l’ambiente della struttura reticolare del “lavoro comunicativo” creativo e aperto in modo tale che i lavoratori cognitivi possano esprimere la loro creatività commerciale tra le differenze possibili, che siano “mentalmente aperti”, “capaci di iniziativa”: ecco a voi il “nuovo umanesimo” delle reti di lavoro collettivo! Insomma, il lavoro cognitivo come qualità diffusa e collettiva del lavoro contemporaneo non elimina l’esistenza di gerarchie tecniche e culturali. Se il lavoro collettivo viene prodotto dal basso è anche vero però che il capitale territorializza e deterritorializza in un movimento di decodifica regolato da un’assiomatizzazione; i flussi della cultura così liberati vengono canalizzati attraverso quelle logiche capitalistiche. È chiaro che l’effettiva abbondanza della pro «La creazione del possibile fa riferimento alla dinamica dell’evenemenzialità rivoluzionaria che trasforma le condizioni di possibilità dell’azione e le stesse possibilità di esistenza» (Vignola 2010).
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duzione culturale e affettiva della rete deve essere allora sempre messa in vicendevole fondante rapporto con il tardo capitalismo in quanto le forze (di decodifica) del capitalismo hanno creato le condizioni del lavoro immateriale. I manager dei mercati finanziari cercando di ridurre l’ambiente alle sue proprietà statistiche, cercando di descrivere una situazione finanziaria tramite un insieme di alternative reciprocamente escludentesi; essi sono dunque impegnati a contenere le probabilità e le virtualità dei processi finanziari tramite l’idea che qualsiasi scambio di informazioni finanziarie, qualsiasi operazione che cambi il valore di una certa attività abbia come effetto sulla folla la produzione di mere alternative. È necessario per loro ridurre una situazione non al suo significato ma ad una serie di alternative vincolate: nella valutazione dei rischi, nei sondaggi di mercato l’apertura alla virtualità viene cancellata dalla codificazione di un canale; la coscienza collettiva viene ridotta ad un “No” in un sondaggio televisivo. Un’etica della comunicazione digitale non si dovrebbe concentrare sul presente “storico-sociale”, bensì sulle virtualità contenute nel presente in modo da creare le condizioni per una riaffermazione «di tutte quelle alterità, virtualità che intendono essere espresse, ma che vengono distrutte al solo loro annunciarsi per l’evidente crisi che producono nelle maglie delle società di controllo» (Villani 2010, 67). I futures sono un gioco d’azzardo sul futuro probabile; la diffusione dell’informazione implica in questi casi l’organizzazione del probabile. Viene così ridotta la possibilità di nuove forme di soggettività, del vero cambiamento sociale e politico in quanto la sensibilità che così si crea è configurata sul rapporto tra il reale e il possibile. Questo non è un effetto automatico delle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione; esso deve essere spiegato partendo dalla consapevolezza che tali tecnologie sono intrinsecamente connesse con la “fabbrica sociale” (Marazzi 1999; Virno 2002); non si può, quindi, prescindere dall’analisi delle relazioni sociali, culturali ed economiche che attraversano la rete digitale. Inoltre è opportuno considerare che il predominio della collaborazione a distanza, le relazioni di scambio senza denaro non portano necessariamente l’economia digitale a configurare un modello economico e politico alternativo. Non solo non serve isolarsi dalle tecnologie, in quanto ci porterebbe ad una sterile visione monolitica della tecnologia sociale del potere, ma neanche affidarsi al ruolo rivoluzionario dei nuovi media sul piano politico, economico, sociale e culturale, come se le interazioni spontanee della rete digitale producessero
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di per sé migliori condizioni cognitive. Occorre fare dell’economia digitale uno spazio di sperimentazione («pensare è sperimentare, ma la sperimentazione è sempre ciò che sta facendosi – il nuovo, lo straordinario, l’interessante» (Deleuze, Guattari 2002, 105) del lavoro affettivo, partendo dalla consapevolezza che non siamo più di fronte alla vecchia espropriazione, quanto ad un movimento di incorporazione più immanente, attraverso cui il lavoro cognitivo viene canalizzato e strutturato all’interno di modelli economici ancora capitalistici. Bibliografia «Millepiani» (2011), Usciti dal futuro, Milano. «Millepiani» (2012), Politica e istituzioni. Per una filosofia in divenire, Milano. Aa.Vv, 2002, L’età del capitalismo cognitivo. Innovazione, proprietà e cooperazione delle moltitudini, Ombre Corte, Verona. Baudrillard, J. (1985), All’ombra delle maggioranze silenziose, Cappelli, Bologna. Beckett, S. (2008), Peggio tutta, in Id., In nessun modo ancora, Einaudi, Torino. Bellucci, S. (2005), E-work. Lavoro, rete, innovazione, DeriveApprodi, Roma. Castells, M. (2004), Il potere dell’identità, Università Bocconi, Milano. Codeluppi, V. (2008), Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino. Deleuze, G. (1990), La Piega. Leibinz e il barocco, Einaudi, Torino. Deleuze, G. – Agamben, G. (1993), Bartleby e la formula della creazione, Quodlibet, Macerata. Deleuze, G. (1997), Differenza e ripetizione, Cortina, Milano. Deleuze, G. (2000), Pourparler, Quodlibet, Macerata. Deleuze, G. – Guattari, F. (2002), Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino. Deleuze, G. – Guattari, F. (2003), Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma. Deleuze, G. (2004), Cinema. Vol. 2: L’Immagine-tempo, Ubulibri, Milano. Deleuze, G. (2007), Critica e Clinica, Cortina, Milano.
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Terza sezione Autori nomadi
Attilio Bruzzone Georg Simmel filosofo del margine
1. «Uno, nessuno e centomila»?
S
enza timore di esagerazione potremmo definire Georg Simmel (1858-1918) il «filosofo del margine». Il pensatore berlinese non godette, infatti, di grande fortuna presso le accademie né ebbe discepoli «manifesti», anche se molti importanti filosofi a lui contemporanei e posteriori furono in qualche modo debitori della sua lezione. Basti pensare a M. Weber, Spengler, Kracauer, E. Bloch, Lukács, Buber, Benjamin, Adorno, Jankélévitch, Banfi, Rensi e, parzialmente, la filosofia dell’esistenza (specialmente Heidegger e Jaspers); per tacere poi dell’assunzione di importanti categorie del suo filosofare fluido, aperto e problematico da parte di molti intellettuali contemporanei provenienti dalle più disparate correnti di pensiero. Proprio il sentito e coerente rifiuto da parte di Simmel di ogni sistematicità, il suo serio interesse per le manifestazioni mondane e superficiali e i suoi conseguenti tratti antiaccademici (esaltati ed enfatizzati da Walter Benjamin) – caratteristiche attuatesi nella scelta del saggio breve come forma espressiva prediletta – hanno contribuito in maniera determinante a farne un pensatore estremamente affascinante e seguito anche e soprattutto al di fuori delle ristrette cerchie universitarie. Tuttavia, tutti questi elementi ne hanno al tempo stesso amplificato il carattere frammentario e dispersivo il quale fece sì, appunto, che il suo insegnamento non si cristallizzasse in una scuola vera e propria, risultando de facto sminuzzato e smarrito ai margini delle grandi correnti di pensiero. La figura intellettuale di Simmel appare disintegrata al pari del concetto di identità in molte opere significative di Pirandello: innumerevoli schegge impazzite dànno vita ad altrettante visioni prospettiche e parziali di questo pensatore polimorfo e così elusivo. Uno, nessuno e centomila, Simmel risulta sempre inafferrabile in toto: ora è filosofo dell’arte e della cultura, ora pensatore della crisi, ora esponente del
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relativismo culturale e della filosofia della vita, ora punto cardinale della nascente sociologia (alla cui fondazione tanto ha contribuito), ora anticipatore dell’esistenzialismo (cfr. Dal Lago 1994, 16), ora ispiratore dell’irrazionalismo filosofico dell’età imperialistica e via dicendo. Nessuna di queste etichette riesce, però, a inquadrare in maniera soddisfacente un «caso» così straordinario e complesso. D’altronde, fu il filosofo stesso, con il solito acume preveggente che lo contraddistinse in tutta la sua produzione, a comprendere lucidamente questa situazione quando annotò sul suo diario quanto segue: So che morirò senza eredi spirituali (e va bene così). La mia eredità assomiglia a denaro in contanti, che viene diviso tra molti eredi, di cui ognuno investe la sua parte in modo conforme alla sua natura, senza interessarsi [a]ll’origine di questa eredità (Simmel 1970, 11).
Alla base di questa frammentazione tematica del suo irriducibile filosofare fluido e dialettico, sempre sfuggente a ogni catalogazione, e del suo conseguente restare a margine della filosofia «ufficiale» si possono individuare quattro cause strettamente interdipendenti: il rifiuto del sistema, l’attenzione al particolare (all’elemento apparentemente superficiale), la straordinaria molteplicità di interessi declinantesi in mille rivoli asistematici rappresentati dal saggio come forma espressiva, e l’approccio di matrice estetico-creativa alla filosofia. Per questi motivi Simmel venne parcellizzato e fatto oggetto dei più disparati tentativi definitori, con il risultato che il suo pensiero è tutt’oggi marginalizzato e relegato negli interstizi tra varie discipline, pur vicine tra loro, come la filosofia, la psicologia e la sociologia, in cui egli tuttavia compì incursioni decisive fino a mischiarle in un originale amalgama indifferenziato. Per i filosofi, quindi, Simmel non è un «autentico» filosofo nel senso pregnante del termine poiché troppo superficiale, quasi «giornalista» (cfr. Adorno 1975, 132-133), e incapace di creare «una vera terminologia» in grado di formare una scuola di pensiero che gli sopravvivesse (cfr. ivi, 57); per certa sociologia è invece troppo originale e formale e così via. Quel che, tuttavia, è davvero importante rilevare – al di là delle sterili dispute se egli sia «più filosofo» o «più sociologo» – è che questo pensatore ha riunito nella sua opera, in maniera esemplare e decisiva, le componenti di tutte e due queste Geisteswissenschaften, superando ogni dogmatica partizione discipli-
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nare per iniettare notevoli dosi di ricostituente a entrambe, e dar loro un respiro e un’efficacia ben maggiori di quelle che avrebbero potuto ottenere rimanendo ipostatizzate adialetticamente, irrelate e confinate nei rigidi recipienti precostituiti da cui spesso non si riesce a evadere neppure oggi. Scopo di questo contributo sarà quindi descrivere e analizzare in generale – evitando ogni forma irrigidita di etichetta, che è sempre il frutto di un’ipostatizzazione arbitraria di un punto di vista – la globale impostazione filosofica di Simmel, preservandone il carattere aperto e plurale. Si passerà poi a mostrare come il margine possa costituirsi quale rinnovato centro di irradiazione di nuove diramazioni essenziali verso territori ancora vergini e di fondamentale importanza per la filosofia, e allo stesso tempo, come esso sia in ultima analisi l’unica categoria concettuale (e non meramente una nuova etichetta che ne sostituisce un’altra) in grado di rendere giustizia alla figura di Simmel in toto senza parcellizzarla sterilmente né irrigidirla erroneamente in una qualsivoglia forma.
2. Saggio, frammento, totalità
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l saggio, ossia la forma testimoniante lo scacco della forma stessa che «si frange sugli scogli dell’esistenza» (Lukács 2002, 53), è lo strumento precipuo di quell’inesausto intellettuale nomade che è Simmel. La forma sempre precaria e debole del saggio è l’unica via praticabile al cospetto del naufragio di ogni tentativo rigidamente formale di abbracciare e cristallizzare in forme eternamente valide la realtà nella sua interezza: l’assenza di forma trapassa nell’estrema e provvisoria rivincita della forma, il coraggio dell’«insicurezza» che denuncia «l’ideale […] della certezza scevra di dubbio» (Adorno 1979b, 18) diviene precaria e debole sicurezza-certezza. Il saggio, come forma letteraria, è un lampo che illumina e mantiene la trattazione aperta e mai conclusa, e, così facendo, non solo risulta ostile a ogni argomentazione totalizzante di tipo sistematico, ma si configura anche come il dominio espressivo della dialettica, ossia l’impostazione alla base dell’impalcatura concettuale di Simmel, che, appunto, si articola il più delle volte in frammentarie «raccolte di saggi», che «rigettano […] la deduzione apodittica per preferirle i collegamenti sincronici tra gli elementi, cui la logica discorsiva non concede spazio alcuno» (Adorno 1979b, 28).
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Le più importanti e felici opere di Simmel sono, infatti, raccolte di saggi sui più svariati argomenti, che spaziano dall’ampio settore dei fenomeni sociologici al mondo dei valori dell’uomo, dai problemi filosofici più urgenti e spinosi agli infiniti aspetti della psiche (cfr. Kracauer 1982, 51). La moda, l’avventura, la civetteria, la vita e la situazione spirituale nella grande città di inizio Novecento, la rovina, l’ansa, il pudore, il povero, lo straniero, la società segreta, la «socievolezza» (Geselligkeit), il dominio, la cultura femminile, il pessimismo, il denaro, l’ornamento, il vaso, il ritratto e via dicendo: non c’è quasi aspetto della vita a lui contemporanea, che non sia stato analizzato e sviscerato da questo inesauribile «sismografo della cultura» (Dal Lago 1994, 8). D’altronde nell’epoca del «disincanto del mondo», «in cui il senso si è alienato, ogni fenomeno, cosa o individuo che sia, è suscettibile di infiniti significati» (Kracauer 1982, 64), e quindi di analisi filosofica. Nella modernità – nota Simmel nell’introduzione a una sua brillante raccolta di saggi, sobriamente intitolata Philosophische Kultur (1911) – è essenzialmente mutato il concetto stesso di filosofia: ora l’essenza e il valore della speculazione filosofica non sono più determinati a priori dalla rilevanza dei suoi contenuti. Da Kant in poi ciò che è essenziale per ogni indagine filosofica non è più «l’articolazione e la padronanza concettuale di un contenuto, bensì un atteggiamento dello spirito nei confronti del mondo esterno e della vita interiore, una peculiare attitudine a recepire la molteplicità empirica individuando linee e parabole di significato» (Vozza 2003, 7). Ciò porta il moderno filosofo a rifiutare «l’insegnamento, radicato da Platone in poi, secondo il quale il mutevole e l’effimero non sarebbero degni della filosofia», e a ribellarsi «contro l’antica ingiustizia subita da ciò che è caduco, contro la condanna che ancor oggi lo colpisce nel concetto» (Adorno 1979b, 13). Non vi è più alcuna gerarchia tra gli oggetti della trattazione filosofica, perché hic et nunc tutto è degno di attenzione e nulla (inclusi gli stessi concetti «eterni» e «onnicomprendenti») può sottrarsi alla caducità: a un’impostazione gerarchica di tipo verticale Simmel sostituisce un diacronico approccio orizzontale. Aby Warburg coniò l’epiteto di «sismografo della cultura» a proposito di Nietzsche. Dal Lago, giustamente, lo estende anche alla figura di Simmel, e così facciamo anche noi.
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Una volta consumata l’emancipazione dal primato del contenuto che la determinava rigidamente reificandola (anche in questo senso va intesa la «rivoluzione copernicana» di Kant), è la filosofia in sé e per sé a farsi essenziale. Filosofia che si presenta come atteggiamento del filosofo rispetto all’obiettività, alla materia d’indagine e al mondo stesso, come interazione (Wechselwirkung) fra la coscienza e la realtà, e cioè quella relazione che, sobbarcandosi hegelianamente «la fatica del concetto», si rifiuta di ipostatizzare e di presupporre qualcosa che risiederebbe all’interno della cosa, oppure, viceversa, nel soggetto stesso (cfr. Adorno 1975, 129-140). La profondità e il valore di questa nuova filosofia consistono per Simmel nell’«ontologia della relazione» che, a sua volta, si configura come indagine rigorosa e dinamica della relazione fra soggetto e oggetto. In tal modo, il pensiero filosofico acquisisce una dinamica formale, una fluidità processuale e un’ampiezza di indagine che gli erano precluse quando vigeva il primato del contenuto, e il saggista ottiene la libertà di «scegliersi gli oggetti» della sua indagine, giacché «tutti gli oggetti sono per esso alla stessa distanza dal centro» (Adorno 1979b, 25). Il centro di quest’immensa costellazione di frammenti apparentemente irrelati è proprio il «pre-testo» offerto da ognuno di questi argomenti-frammenti che, di volta in volta, solleticano l’acuto interesse di questo filosofo morso dal demone della «curiosità onnivora» (Dal Lago 1994, 8). Tale pre-testo coincide con l’ἀρχή, l’Ursprung della sua ricerca, ossia con la latitanza della totalità e quindi parimenti di un concetto onniabbracciante col quale comprendere (verstehen), spiegare (erklären) e interpretare (auslegen) il mondo nella sua interezza. Lo Ziel di questa Ursprung è la connessione di tutti i frammenti in un’intelaiatura concettuale che mai perde il contatto con la vita. Questa, e solo questa, è l’unica totalità attingibile dal e col pensiero, ossia una totalità presente in assenza, che il filosofo può solo far risplendere nel frammento (scelto come base di partenza dell’analisi filosofica) «senza però asserirne la presenza» (Adorno 1979b, 22). Con Simmel la filosofia prova quindi a cum-capere, begreifen, afferrare la totalità – quale anassimandrino περιέχον, jaspersiano Ungreifendes – dal basso del frammento fortuito e della superficie, e non più dall’alto, collocato a distanza di sicurezza, del concetto sganciato dalla realtà effettiva e della profondità data per scontata ancor prima di essere passata al vaglio dell’attività filosofica. La totalità si manifesta nel frammento, il punto di partenza e di arrivo dell’analisi simmeliana, mentre si ostina a eludere la rapacità del concetto generale. Allora, come scriveva il caustico Karl Kraus nella splendida poesia Der
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Sterbende Mensch, in un certo senso l’origine è davvero la meta di tale procedimento [«Ursprung ist das Ziel»] (Kraus 19192, 69), che parte dal frammento per concludersi in esso, e assume senso e validità nel e dal movimento del processo e non nel e dal suo esito. La sfumatura sbiadita del margine diviene centro nitido, la superficie si fa improvvisamente profonda come un abisso (Abgrund), e l’assenza di totalità esplode come riflesso della totalità quale trama infinita e sterminata ragnatela provvisoria di frammenti in cui riluce l’intero nella sua vacanza. In definitiva, in Simmel la totalità si rende presente nell’assenza e si dissolve nell’«antitesi riflessa» (cfr. Horkheimer – Adorno 1997) dall’Augenblick rivolto alla fugacità del frammento. È la vendetta del caduco contro l’eterno, categoria tradizionalmente privilegiata dalla filosofia: ora si rende eterno il caduco stesso (cfr. Adorno 1979b, 15), inteso come categoria, e l’eternità così sciolta nella labilità estrema della kierkegaardiana istantaneità dell’attimo.
3. La decostruzione dialettica del concetto
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adicato com’è in questo perenne movimento dialettico, dove tutto è provvisorio, fluido e paradossale, dove il pensiero pensa adornianamente contro se stesso e il contrario di sé, il procedimento simmeliano non può permettersi di «lasciare in pace» il concetto, ma deve braccarlo senza sosta fin nei più remoti recessi per metterlo continuamente alla prova senza lasciargli il tempo di coagularsi in una forma vuota nella quale non pulsa più la vita. Simmel «fa esperimenti con il concetto, mettendolo nelle situazioni più diverse, per poi bombardarlo di domande» (Kracauer 1982, 53) e, conseguentemente, disprezza i concetti generali che non sono in grado di reggere a questo continuo «bombardamento», cioè i concetti che, in quanto «creazione artificiale» e «astrazione arbitraria», non sono il frutto di una serie di passaggi mediati attraverso la specificità unica dell’oggetto d’indagine e non indicano «realtà che sono vere e proprie essenze» (ivi, 55). In piena continuità con la tradizione nominalistica che attraversa e lacera tutta la storia della filosofia occidentale da Gorgia a Roscellino e Guglielmo di Ockham, per arrivare a essere predominante nell’età moderna con Hobbes, Hume e a Kant (altro autore fondamentale per Simmel – insieme a Nietzsche, Schopenhauer, Goethe e Hegel), Simmel, da una parte, compone pazientemente un mosaico dialettico, costituito di innumerevoli frammenti sparsi in perenne interazione
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reciproca, mentre dall’altra, tortura, torce, violenta, decostruisce e decompone l’irrigidito concetto generale (da qui la hegeliana «fatica del concetto»), inteso alla stregua di convenzionale «moneta d’uso» (Kracauer 1982, 59). Questo processo dialettico mai concluso fa sì che lo stile dei saggi simmeliani risulti talvolta aspro, a tratti ostico, e comunque di non facile lettura. Ciò non deve stupire perché quando il pensiero cessa di essere guidato a priori da un terminus ad quem (che poi è anche terminus a quo) creduto capace di offrire un’interpretazione globale della realtà tutta, ma si risolve interamente nel processo della relazione intransigente e mai sicura con l’oggetto, ecco allora mancare i punti fermi ed emergere le asperità stilistiche del procedimento dialettico, il quale si limita a riflettere e rendere conto delle contraddizioni presenti nell’oggetto. Lo stile tortuoso del saggio simmeliano rispecchia la necessità di una dialettica che non è mera scelta stilistica o convinzione ideologica ma piuttosto essenza della realtà squartata dalle sue immanenti contraddizioni antinomiche e fondamento della filosofia che tenta di sussumerla. Simmel, infatti, non pensa affatto che la dialettica sia una dinamica concettuale buona per tutte le stagioni oppure una categoria logico-ontologica applicabile indiscriminatamente a tutto: in questo caso è ben consapevole che essa si ridurrebbe a imposizione arbitraria e aprioristica delle costruzioni del pensiero alla realtà e ne uscirebbe quindi svuotata di senso. La validità della dialettica non è per nulla illimitata bensì è vincolata all’interazione reciproca (Wechselwirkung) tra soggetto e oggetto nel mondo storico-sociale (e non in quello naturale). In altri termini, senza il rapporto antinomico tra soggetto e oggetto non si può neppure parlare di dialettica, che si dà soltanto quando entra in gioco il pensiero e quindi l’uomo. La stessa azione della natura sull’uomo non sfugge all’ambito di mediazione generale, giacché avviene sempre e soltanto attraverso un medium (già) sociale. La società, «seconda natura» (cfr. Hegel 1996; Lukács 1999; Adorno 2004), è l’unica natura disponibile all’uomo: spinozianamente natura naturans e natura naturata. Ben consapevole dell’artificiale naturalità (o della naturale artificialità) dell’uomo, Simmel si astiene con prudenza e lucidità dalla tentazione di trascendere l’ambito di una «limitata» dialettica sociale per pretendere di sviluppare una più generale «dialettica della natura» alla maniera di Engels (cfr. Hauser 1977, II, 62-67). La «prima» natura scompare dileguandosi in uno sfondo indeterminato e ideale (sorta di concetto-limite, x trans-
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fenomenica alla maniera del νοούμενoν o «Ding an sich» di Kant), mentre la «seconda natura» del mondo storico-sociale rimane l’unica natura accessibile al pensiero filosofico-dialettico. Il limite e il margine sono quindi intrinseci alla stessa impostazione dialettica, il cui significato generale non viene soppresso dal numero dei casi ai quali non si può applicare (cfr. ivi, 97-107). Mutatis mutandis, il limite di ogni concetto onnicomprensivo esplode nello iato mai completamente colmabile tra particolare e universale e nella perenne vacanza della totalità. La sottile sensibilità sismografica di Simmel avverte le scosse della «ribellione del particolare», il quale mai si lascia ridurre e ricomprendere totalmente dall’universale, di cui rappresenta il margine limitante. A nulla può l’assolutizzazione del soggetto e del pensiero per afferrare l’oggetto: indefessa, continua a sussistere l’irriducibilità del particolare riottoso all’universale famelico. Inoltre, la filosofia – qui intesa come saggistica «forma d’arte» (Lukács 2002, 16) capace di concettualizzare, di universalizzare un’intuizione particolare o uno stato d’animo individuale che si prova al cospetto della totalità dell’esistente – si scontra con la Grenzsituation della perenne elusività di tale totalità, che non è mai completamente alla mercé dell’azione intellettuale del filosofo, al quale non resta altro che lo Streben (tipico di ogni attività filosofica) di provare a raggiungerla partendo dai frammenti della realtà contingente, sfruttando tutte le occasioni profane da cui possano tralucere i bagliori di senso (cfr. Vozza 2003, 5), che portano alle essenze e all’unità del molteplice. Quest’«energia filosofica» di ricomposizione dell’intero è quella che Simmel designa col nome di «facoltà di integrazione totale dell’anima» (Simmel 1996a, 9). Nel processo (e non nell’esito) della lacerata relazione dialettica tra universale e particolare, forma e vita, soggetto e oggetto, la posizione Arte e filosofia sono per Simmel sinonimi ed elementi reversibili. Il filosofo è come l’artista: ad entrambi spetta il difficile compito di pensare per opposti, per contraddizioni (spesso insanabili) e rendere quindi testimonianza radicale della disintegrazione della totalità per poi rappresentarla e ricostruirla creativamente a partire dai suoi frammenti. Entrambi questi caratteri – a differenza dello scienziato e dell’uomo comune – possiedono «un organo che percepisce e reagisce alla totalità dell’essere» (Simmel 1996a, 8), un’anima sovraindividuale che si relaziona all’esistenza nella sua totalità, senza limitarsi esclusivamente ai suoi aspetti particolari, da cui però parte. La precipua differenza tra arte e filosofia risiede nel fatto che la prima «è un’immagine del mondo vista attraverso un temperamento», mentre la seconda è «un temperamento visto attraverso un’immagine del mondo» (Simmel 1996a, 16).
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di Simmel, convinto pensatore antisistematico, collima perfettamente con quella di Hegel, filosofo del sistema par excellence. Tale convergenza avviene nel nome della dialettica fluida e processuale, caratteristica comune ad ambedue, al di là delle notevoli differenze che li separano. La filosofia per entrambi questi pensatori si risolve tutta nello sforzo perenne da parte del pensiero rigoroso di «porre il particolare in rapporto con l’universale» (Hauser 1977, II, 43). Nella hegeliana «fatica del concetto», del cui onere si sobbarca Simmel, il genitivo è al tempo stesso soggettivo e oggettivo: il concetto è sia ciò che mette in moto il continuo processo di decostruzione di se stesso sia ciò che viene indagato in quel processo e da esso emerge; quindi è dialetticamente giudice e imputato nel medesimo istante. Il concetto che sopravvive all’immane travaglio di questo estenuante lavoro-processo filosofico di perenne dialettica relazionale tra soggetto e oggetto, particolare e universale, forma e vita, è un concetto completamente decostruito; dopo essere stato triturato, parzializzato, limitato, voltato e rivoltato, esso viene ora finalmente riconsegnato alla vita giacché «non discende apoditticamente dalla teoria […] né è un anticipo di sintesi ancora a venire» (Adorno 1979b, 23). La filosofia antisistematica di Simmel lavora dunque con concetti completamente trasfigurati, che cessano di presentarsi quali posizioni assolutamente valide e sciolte da ogni legame con la realtà: ogni concetto non può più venire assunto e ipostatizzato aproblematicamente, bensì è sempre un presupposto euristico, una costruzione provvisoria costantemente decostruita dal vorticoso movimento del pensiero. Solo il contatto relazionale e dialettico con la concretezza dell’elemento superficiale può determinare la giustezza e la validità del concetto, il quale, altrimenti, si riduce a flatus vocis. Pertanto lo scopo della filosofia di Simmel è, in ultima analisi, quello di vivificare il concetto facendo rifluire in esso la vita stessa: così facendo, egli mantiene in vita la filosofia sottraendola a quell’astrattezza mummificante prodotta da un illusorio atto di ὕβρις intellettuale-metafisica, che la condanna inevitabilmente a morte nel momento stesso in cui la imbalsama, già cadavere, in una forma tanto perfetta quanto falsa perché già superata. In questo rinnovato incontro con la vita, filosofia e arte diventano un unicum, e Simmel si configura come il filosofo che «ci ha dischiuso per primo l’accesso alla realtà» (Kracauer 1982, 37-67). Dissolta la «notte […] in cui tutte le vacche sono nere» (Hegel 1995, 67), fa capolino l’alba foriera della luce messianica che rischiara l’orizzonte
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dell’«inesauribile molteplicità di situazioni spirituali, eventi psichici e modi di essere che sono rilevanti sia nell’ambito della vita della comunità che della vita strettamente personale del singolo» (Kracauer 1982, 38). Spezzato il primato dei presunti contenuti alti e abbattuta la tirannia degli astratti concetti onnicomprensivi, l’attività filosofica, sganciata da quei ceppi reificanti, può ora librarsi leggera in volo. Una «vita nova», non più irrigidita in forme logore e consunte, pulsa nell’interstizio del margine.
4. La filosofia del e nel margine
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ell’epoca dell’esilio dalla totalità e dello scacco di ogni concetto onnicomprensivo del mondo (ora disintegrato e disincantato), al filosofo onesto e rigoroso non restano altro che flebili tracce sparse da seguire, come fosse un moderno Pollicino smarrito nella selva dei detriti di un universo collassato. L’unica via d’acceso (incerto) a un qualche olismo è quella, lunga, impervia e disagevole, rappresentata dai frammenti parziali e disordinati della mollica di pane (ossia della realtà in pezzi nell’epoca del disincanto del mondo) e dalla loro connessione, e non la scorciatoia, illusoria e attinta a buon mercato, offerta da un qualsivoglia concetto universale, irrigidito e ipostatizzato, assunto arbitrariamente sia come terminus a quo sia come terminus ad quem. Il pensare in frammenti, che si riverbera nella scelta simmeliana del saggio come forma espressiva privilegiata, non è tanto un insulso capriccio del filosofo e neppure una sua sterile e «dispettosa» protesta contro il mondo accademico che non lo capiva e quindi lo osteggiava, quanto, piuttosto, una seria esigenza scaturente dalla stessa realtà, frammentata e disintegrata in sommo grado (cfr. Adorno 1979b, 21). La frammentarietà del saggio simmeliano riflette disperatamente la mancanza di totalità e la frattura irrimediabile e incomponibile tra soggetto e oggetto (cfr. ivi, 14), particolare e universale, forma e vita. Un pensiero così rigoroso «trova la propria unità attraverso le fratture, non attraverso il loro appianamento» (ivi, 21), e, con l’onestà che gli compete, denuncia la falsità dell’«unitarietà dell’ordinamento logico [che] mistifica l’essenza antagonistica della realtà cui fu imposto» (ibidem), ergo sancisce la bancarotta del sistema. Ma così facendo condanna inevitabilmente il suo propugnatore alla debolezza della «discontinuità» (cfr. ibidem) e alla precarietà concettuale, ossia al margine.
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Il margine, spesso inteso a torto come la cifra del fallimento o della scarsa importanza di un pensatore, si configura, a uno sguardo disincantato e penetrante, quale territorio interstiziale della filosofia tout court, specialmente nell’epoca della parcellizzazione del sapere e della presunta inutilità del pensiero libero e critico al cospetto del «mondo amministrato» (verwaltete Welt) della società dei consumi e dello spettacolo. Oggi il margine rappresenta il filo d’Arianna che libera il filosofo dal labirinto narcisistico della sterile quanto comoda autoaffermazione tautologica, la via d’uscita dal dedalo dell’illusione perniciosa del concetto «capace di evocare il macrocosmo» (Kracauer 1982, 37), la breccia nella prigione dell’isolamento compiaciuto in un centro che non c’è più e in un «tutto» che è ormai «falso» (cfr. Adorno 1979a, 48). Il margine è espressione di un «pluralismo metodologico» declinantesi nella limpida consapevolezza dell’impossibilità costitutiva per il concetto di abbracciare «realmente la totalità della vita» (Lukács in Simmel 1996b, 65-66), e nel conseguente abbandono delle «pretese, teoricamente ormai superate, di completezza e di continuità» (Adorno 1979b, 21): è la cifra della differenza, della spietata decostruzione e dell’irreversibile constatazione dello scacco di ogni impostazione sistematica al cospetto della totalità disintegrata. Il margine non esprime quindi una condanna della filosofia ma piuttosto la vita della filosofia che si dà tramite una sorta di confino ed espiazione necessari, che altro non sono se non l’estrema – e forse unica – possibilità utopica di redenzione (Erlösung) dalla violenta ὕβρις del concetto onnicomprensivo, tipico di ogni sistema. Per tutti questi motivi, il margine si presenta quale compiuto e incontrovertibile squartamento dell’equazione parmenidea di pensiero ed essere, che è alla base di ogni Weltanschauung sistematica. Nella frattura interstiziale dei margini, assieme alla vita rifluente, riemergono virulente l’antica protesta nominalistica e la disperata scepsi antimetafisica di Gorgia contro la reversibilità di pensiero ed essere, ed esplode nella sua urgenza la cesura abissale tra linguaggio ed essere, parola e cosa, forma e vita. Col margine entra Il margine è qui inteso quale punto di partenza di una filosofia rinnovata e depurata da parecchie scorie che ne bloccavano il movimento e ne ostruivano le articolazioni interne, limitandone quindi notevolmente gli orizzonti e impedendone il pieno sviluppo. Come tale, però, esso implica dialetticamente la sua negazione e il suo superamento (Aufhebung), ma senza alcuna fagocitazione sistematica. In altre parole, nel momento stesso in cui si dà il margine, il pensiero deve pensare anche oltre il margine. Queste tematiche verranno riprese e sviluppate nella nostra Postfazione in chiusura del presente volume.
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definitivamente e compiutamente in crisi la filosofia totalitaria dell’identità e fa la sua comparsa il vitale pluralismo della differenza quale nuova categoria filosofica.
5. L’eredità della «filosofia del margine» di Simmel
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a filosofia di Simmel, alla maniera del Pascal più abissale che emerge dalle Pensées, si costituisce come inesausta meta-filosofia, quasi fosse arte. Filosofia della filosofia che «si burla» di sé e pensa contro se stessa, pensiero avviluppato nell’insolubile contraddizione di pensare tramite concetti ciò che è irriducibile al concetto, indagine inesauribile che nulla dà per scontato ed è sempre pronta a mettersi in discussione e di nuovo in viaggio, perenne dialogo socratico con le varie posizioni, Grenzsituationen, aporie, difficoltà – mai dissimulate – in cui inevitabilmente si imbatte lo spirito nel suo tortuoso e mai concluso cammino. Da Platone in poi la filosofia è un continuo «viaggio a Siracusa», che non approda mai alla meta finale (al contrario Hegel, come è ben noto, concepiva in modo diametralmente opposto la propria impresa filosofica...): ora percorso perennemente travagliato e incerto, ora schianto contro il vallo inespugnabile della contraddizione, ora scacco di fronte all’abisso che separa soggetto e oggetto, particolare e universale, forma e vita, ora naufragio nell’oceano tempestoso della totalità dell’essere che sempre sfugge alla concettualizzazione filosofica. Tuttavia, sembra che la filosofia sopravviva e si rinnovi a ogni naufragio. Forse perché la verità della filosofia tout court risiede in ultima analisi nel suo fallimento? Non per nulla, Simmel e, in misura ben maggiore, Adorno mostrano emblematicamente che la filosofia riesce a mantenersi in vita proprio in virtù del fatto che il momento della sua piena realizzazione è continuamente mancato (cfr. Adorno 2004, 5). Simmel ha concepito ed esercitato tale meta-filosofia sia come interpretazione creativa e mobile di matrice estetico-artistica (seguendo la geniale via tracciata da Nietzsche) sia come relazione intransigente col proprio oggetto (disintegrato in un’infinità di schegge impazzite ma significative), che non si sottrae allo «sforzo del concetto» (qui memore della lezione hegeliana). La sintesi aperta, per nulla scontata e sempre in precario equilibrio dialettico, del momento hegeliano e di quello nietzscheano rappresenta una tappa decisiva nella storia del pensiero filosofico, che, pur nella sua «marginalità», ha aperto innu-
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merevoli sentieri per la cultura del Novecento, e che, ancora e specialmente oggi, appare imprescindibile per chiunque abbia l’ambizione e la passione di fare filosofia con lucidità e rigore. Una filosofia fluida e dinamica, aperta e plurale, antisistematica e ricettiva nei confronti di ogni possibile contaminazione con le altre discipline non immediatamente inglobate nel suo raggio d’azione; un pensiero nomade, genuinamente dialettico e allergico alle etichette e a ogni procedimento per «compartimenti stagni», che, seguendo per suo conto il motto fenomenologico, procede spedito «verso le cose stesse», noncurante di ogni concetto sganciato dalla realtà: ecco il lascito del «filosofo del margine» Simmel, la sua eredità, rigorosamente in «denaro contante», di cui si continua a beneficiare tutt’oggi, pur persistendo spesso a misconoscerne la provenienza e il significato. Bibliografia Adorno, Th.W. (1975), Terminologia filosofica, trad. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino [Philosophische Terminologie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1973]. Adorno, Th.W. (1979a), Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino [Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp Verlag, Berlin-Frankfurt a.M. 1951]. Adorno, Th.W. (1979b), Il saggio come forma, in Id., Note per la letteratura 1943-1961, trad. it. di A. Frioli ed E. De Angelis, Einaudi, Torino [Der Essay als Form, in Id., Noten zur Literatur I-II, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1958 e 1961]. Adorno, Th.W. (2004), Dialettica negativa, trad. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino [Negative Dialektik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1966]. Dal Lago, A. (1994), Il conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel, il Mulino, Bologna. Hauser, A. (1977), Sociologia dell’arte, 3 voll., I. Teoria generale, II. Dialettica del creare e del fruire, III. Arte popolare, di massa e d’avanguardia, trad. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino [Soziologie der Kunst, Beck, München 1974]. Hegel, G.W.F. (1995), Fenomenologia dello spirito, trad. it. di V. Cicero, Rusconi, Milano [Die Phänomenologie des Geistes, J.A. Goebhardt Verlag, Bamberg und Würzburg 1807; F. Meiner Verlag, Hamburg 1980].
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Attilio Bruzzone
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Filippo Domenicali Le fantasticherie di un passeggiatore solitario Gabriel Tarde tra metafisica e sociologia
Non fidarsi dei pensieri che non sono nati all’aria aperta e in movimento Nietzsche Appartengo a me stesso soltanto quando sono solo Rousseau
1. Un inspiegabile oblio
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abriel Tarde (1843-1904) è un autore difficilmente classificabile. Sociologo, criminologo e magistrato, ha al suo attivo una cospicua produzione saggistica, costituita nel suo insieme da quindici volumi e un centinaio di articoli. La sua notorietà dev’essere fatta risalire al 1890 ‒ anno che segna un vero e proprio spartiacque nella sua vita ‒ quando pubblica per i tipi della prestigiosa casa editrice Alcan di Parigi la sua opera maggiore, Le leggi dell’imitazione, autentica summa della sua riflessione filosofica e sociologica. Diciamo “filosofica” perché pochi sanno che Gabriel Tarde è stato anche un grande metafisico. Ma, ancora oggi, non possiamo sottacere il fatto che si tratti di un autore largamente dimenticato. Raramente troviamo riferimenti alla sua opera negli attuali manuali di sociologia. In ambito criminologico, la sua fama ha resistito in misura maggiore, anche se continua ad essere considerato un autore marginale. Filosoficamente poi, nessuno ha più un’idea di quali concetti e di che tipo di intuizioni metodologiche siano scaturite dalla sua penna. Per questi ed altri motivi ci sembra sensato riproporre una sintesi delle sue vedute metafisiche, a maggior ragione nell’ambito di un progetto di ricerca espressamente rivolto ai “margini” della filosofia contemporanea. In primo luogo, l’oblio. Jean Milet, autore di una delle più complete monografie sul pensiero e l’opera di Gabriel Tarde, si è espresso in questi termini:
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La storia commette strane ingiustizie. Essa è stata particolarmente severa con Gabriel Tarde. Quest’uomo fu salutato dai contemporanei come uno dei più grandi pensatori della sua epoca. Gli sono stati attribuiti gli onori più invidiabili: è professore al Collège de France, con Henri Bergson; è membro dell’Institut; è presidente delle Società Internazionali di Sociologia e di Diritto. Lascia un’opera di più di quindici volumi, che attraverso numerose edizioni e traduzioni estende la sua fama fino alla Russia e all’America. Alla sua morte viene paragonato ad Auguste Comte, a Taine, a Renan, come anche a Darwin e a Spencer; e Bergson, solitamente sobrio nei suoi omaggi, lo considera un maestro eminente. Ora, lo stesso uomo ha conosciuto, qualche anno dopo la sua morte, un inspiegabile oblio (Milet 1970, 9).
Ora, “l’inspiegabile oblio” di cui ci parla Milet in realtà una ragione ce l’ha, e dev’essere ricercata nella violenta controversia che ha opposto il nostro Autore alla sociologia di Durkheim. È a questa polemica che dobbiamo guardare se vogliamo comprendere le reali motivazioni che hanno indotto i sociologi a cancellare il nome di Tarde dalla storia della disciplina. Senza entrare nel dettaglio di un dibattito che ha perduto oggi gran parte della sua attualità, saremmo tentati di leggere la vicenda in termini kuhniani, sostenendo che si è trattato di una “sostituzione di paradigma” che costituisce in qualche modo l’atto di nascita della sociologia contemporanea. Il casus belli è rinvenibile all’interno del volume metodologico pubblicato da Durkheim nel 1895 (Les règles de la méthode sociologique), testo “fondatore” quant’altri mai, e, più in particolare, nella definizione stessa del “fatto sociale”. Ora, Durkheim ha sostenuto che il fatto sociale, in quanto sociale, è tale perché si impone coercitivamente agli individui, che sono perciò costretti a riconoscerlo come una “cosa”. Le Règles dunque, a ben vedere, debbono essere interpretate come una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti del tardismo, che all’epoca si trovava all’apice del successo. Durkheim sostiene che è un fatto sociale ogni modo di fare, più o meno fissato, capace di esercitare sull’individuo una costrizione esterna – oppure un modo di fare che è generale nell’estensione di una società data, pur avendo esistenza propria, indipendente dalle sua manifestazioni individuali (Durkheim 2008, 33). Quando non diversamente indicato, le traduzioni sono mie.
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Qualche pagina prima, per non lasciare adito a dubbi, egli aveva precisato in una nota che: Si vede come questa definizione del fatto sociale si allontani da quella che serve di base all’ingegnoso sistema di G. Tarde. In primo luogo dobbiamo dichiarare che le nostre ricerche non ci hanno permesso di constatare da nessuna parte l’influenza preponderante che Tarde attribuisce all’imitazione nella genesi dei fatti collettivi; inoltre, dalla definizione precedente – che non è una teoria, ma un semplice riassunto dei dati immediati dell’osservazione – sembra effettivamente risultare che l’imitazione non solo non esprime sempre, ma non esprime mai ciò che c’è di essenziale e di caratteristico nel fatto sociale (Durkheim 2008, 31).
Non è un caso se il capitolo a cui facciamo riferimento (Che cos’è un fatto sociale?) sia apparso originariamente proprio sulla “Revue philosophique”, di cui Tarde era assiduo collaboratore. Come abbiamo anticipato, non ci proponiamo di indagare le motivazioni più o meno recondite della controversia (secondo alcuni, l’invidia di Durkheim per il successo di Tarde), e per questo rimandiamo alla letteratura critica. Basti soltanto osservare che i fatti sociali, secondo Tarde, hanno la loro origine al di fuori del mondo sociale, nella mente delle persone. Non è possibile riconoscere la coercizione e l’imposizione dei fatti in questione se non si condividono in via preliminare tutta una serie di credenze e di desideri che ci permettono di percepirne l’oggettività. Per questo ed altri motivi, Tarde si contrappone all’“ontologia sociale” di Durkheim rivendicando la spontaneità delle relazioni sociali, il loro essere prodotte dal basso a partire dal confronto e dallo scontro tra le opinioni rivali, le visioni del mondo e i sistemi di valori che caratterizzano gli individui, gli unici agenti della storia, coloro che materialmente “fanno” la società a partire dai propri affetti. In breve, la sociologia di Tarde è molto più “psicologica” di quella di Durkheim, e ciò la rendeva, per lo spirito (positivista) dell’epoca, anche molto meno “scientifica”.
Si veda in particolare Besnard 1995.
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2. Il canone-Deleuze
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ebbene, come abbiamo indicato, dal punto di vista sociologico l’opera di Tarde sia caduta in grave discredito, noi cercheremo di dimostrare che da un altro punto di vista, filosofico questa volta, egli continua a manifestare una sorprendente attualità. Al pari dell’oblio, anche la “rinascita” dell’interesse per la sua opera ha una data precisa, il 1968. Qui comincia la storia contemporanea della sua ricezione, e lo fa attraverso un testo fondamentale com’è Differenza e ripetizione di Gilles Deleuze. Si tratta di un lavoro, come sappiamo, assolutamente centrale nella produzione deleuziana, in quanto costituisce il primo tentativo di fare una filosofia in proprio, di “parlare a proprio nome”, seguendo una stagione in cui si era occupato principalmente di questioni storiografiche (segnatamente, nelle opere su Kant, Hume, Nietzsche e Bergson). Qui Deleuze si propone, programmaticamente, di definire una “nuova immagine del pensiero” fondata sulle due categorie di Differenza e Ripetizione. A questo punto il pensiero di Tarde assume un ruolo centrale. Egli viene presentato come un intercessore di primaria importanza per la genesi di queste categorie, venendo posto sullo stesso piano delle innovazioni concettuali proposte da Kierkegaard e da Nietzsche. Tarde, Nietzsche e Kierkegaard sono per Deleuze gli autori che più di altri si sono opposti frontalmente alla grande impalcatura dialettica messa alla moda da Hegel e dai suoi discepoli. Essi hanno rivendicato per la filosofia un nuovo modo di pensare i concetti, rifiutando il platonismo e qualsiasi immagine presupposta dello sviluppo storico e sociale. Deleuze afferma che: Tutta la filosofia di Tarde [...] è fondata sulle due categorie di differenza e di ripetizione: la differenza è a un tempo l’origine e la destinazione della ripetizione, in un movimento sempre più “possente e ingegnoso”, che tiene “sempre più conto dei gradi di libertà”. Questa ripetizione differenziale e differenziante, Tarde pretende di sostituirla in tutti i campi all’opposizione [...] la ripetizione fonda una dialettica ben diversa da quella di Hegel (Deleuze 1997, 39).
I riferimenti a Tarde non concernono soltanto Differenza e ripetizione, ma si trovano disseminati in molte opere di Deleuze, ricoprendo praticamente tutto l’arco della sua produzione. Si direbbe che egli abbia dettato una specie di “canone” tripartito per l’interpretazione della filosofia di Tarde, che ha influito enormemente sulle letture
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contemporanee di questo autore: «L’insieme della filosofia di Tarde si presenta come una dialettica della differenza e della ripetizione, che fonda su un’intera cosmogonia la possibilità di una microsociologia» (Deleuze 1997, 104). Come è evidente da questa sintetica citazione, l’interpretazione di Deleuze apre a tre direttrici di ricerca: 1) la dialettica differenza/ripetizione; 2) la filosofia della natura (o cosmogonia); 3) la microsociologia. Tutto quello che è venuto dopo deriva da qui. Se si ha la pazienza di esaminare i più recenti contributi che hanno coinvolto, a vario titolo, il pensiero e l’opera di Gabriel Tarde, si potrà constatare agevolmente il fatto che tutti coloro che si sono occupati di lui hanno preso le mosse dal “canone” dettato da Deleuze. Eppure in questa sede vorremmo tentare di muoverci diversamente. Dopo aver precisato le ragioni di un oblio e quelle di una riscoperta possibile, vorremmo avvicinarci alla filosofia di Gabriel Tarde a partire dal suo stesso movimento, a partire dalla sua genesi concreta, abbandonando i vari “doppi” ereditati dalla tradizione. Tra la lettura discriminante e contestataria di Durkheim e quella entusiastica di Deleuze, vorremmo cercare di riscoprire, nel mezzo, il “vero” Tarde. Per farlo dobbiamo ascoltare la voce dei contemporanei, di coloro che gli erano più vicini, dei suoi stessi figli, e immergerci nel contesto storico-culturale del suo tempo restituendolo, se possibile, emendato e corretto, al posto che gli spetta nella storia del pensiero. Perciò bisogna che ricominciamo dalle sue passeggiate solitarie.
3. Un filosofo “en plein air”
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nterrogato sull’origine delle sue riflessioni filosofiche e sociologiche, Gabriel Tarde rispondeva che il suo sistema filosofico ha preso corpo «tra i venticinque e i trent’anni». È un dato di fatto rati Per rendersene conto, è sufficiente scorrere la biografia del pool di curatori delle Opere di Gabriel Tarde (apparse recentemente per i tipi della casa editrice parigina Les empêcheurs de penser en rond) per constatare che i principali protagonisti di questa impresa editoriale sono tutti legati alla galassia deleuziana; si tratta di ricercatori che sono stati, a vario titolo, amici, collaboratori o discepoli di Deleuze. Oltre al filosofo Éric Alliez che ha coordinato i lavori, hanno partecipato in qualità di curatori Maurizio Lazzarato, René Schérer, Jean-Clet Martin, Isaac Joseph, Jean-Philippe Antoine, François Zourabichvili, Bruno Karsenti e Bruno Latour. Si veda inoltre Montebello 2003. «Nel 1869 egli fu nominato giudice supplente a Sarlat; qui esercita per quattro anni le sue funzioni. Nel raccoglimento forzato della vita provinciale, dove arrivavano soltanto gli echi dolorosi della guerra, egli già elaborava le più importanti delle sue idee generali, che doveva offrire al pubblico soltanto più tardi. Aveva 47 anni quando
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ficato dai suoi interpreti più avveduti, come Lubek, che la pubblicazione delle opere tardiane ha avuto luogo, generalmente, con un certo ritardo rispetto alla data della loro effettiva elaborazione. Così la sua opera principale, Le leggi dell’imitazione, è apparsa soltanto nel 1890, sebbene la sua genesi debba essere fatta risalire già ai primi anni Ottanta. Stessa cosa, come abbiamo cercato di dimostrare in altra sede, per l’importante articolo Monadologia e sociologia, pubblicato soltanto nel 1895, ma la cui prima redazione risale al 1879. Gran parte degli articoli filosofici di Tarde, di cui ci occuperemo più da vicino nelle pagine che seguono, provengono, come sottolineato sia da Espinas che dagli stessi figli di Tarde, da un lungo manoscritto intitolato La Répétition et l’évolution des phénomènes che era stato completato nel 1874 e che l’anno seguente venne inviato al noto editore GermerBaillière di Parigi, col quale tuttavia non si arrivò mai all’accordo definitivo per la pubblicazione. Per comprendere pienamente la genesi e lo sviluppo della metafisica tardiana bisogna dunque che cerchiamo di indagare il periodo immediatamente precedente alle sue prime pubblicazioni (il primo articolo su rivista appare nel 1880), al fine di delineare i caratteri generali di quello che si presenta come un “periodo metafisico” molto caratterizzato. Diciamo subito che lo stesso Tarde si impegnò attivamente per nascondere le sue pubblicazioni giovanili, ritenendole inadatte al pubblico e alle tendenze culturali del suo tempo. Come sappiamo, l’ultimo quarto dell’Ottocento francese è dominato da quello che Ravaisson ha correttamente definito come un “positivismo spiritualistico” in cui arrivano a incontrarsi le tendenze scientistiche ereditate dal comtismo e lo spiritualismo di matrice biraniana. Il giovane Gabriel Tarde è un filosofo en plein air. Come testimoniato dai suoi figli:
pubblicò le Leggi dell’imitazione (1890). Ma già prima dei 30 anni, come testimoniano gli appunti dell’epoca, egli aveva elaborato alcune delle grandi linee della sua opera» (Tarde 1909, 18). Cfr. Lubek 1981, 363-364. Cfr. Domenicali 2013, 9-11. Cfr. Espinas 1910, 321-322. Dal manoscritto sulla Répétition vennero tratti successivamente i seguenti articoli: Tarde 1882, 1895, 1901 e 1910. Ma si tengano presenti anche Tarde 1880 e 2000, risalenti allo stesso periodo. Tarde 1909, 18-23. Ravaisson 1984, 313.
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Durante le sue lunghe passeggiate, sia sulle colline che circondano Sarlat, sia sui massicci accidentati che circondano le rive della Dordogna, egli si arrestava spesso per annotare fin dal suo primo apparire, vivace e rapido, l’idea che gli sovveniva e che lo illuminava di colpo. In questo periodo il pensiero in lui non era mai più vivace e più fecondo che quando camminava (Tarde 1909, 18).
Al pari di Nietzsche, che si vantava di ricordare il luogo e il momento esatti in cui aveva ricevuto l’illuminazione dell’Eterno ritorno10, anche per Tarde l’idea della Ripetizione universale è legata all’ecceità rappresentata da un momento della giornata e dalla contemplazione di un luogo ameno, che si ripercuote nell’intimo provocando uno stato d’animo di pace e di serenità, che non potremmo fare a meno di caratterizzare che come un vero e proprio “misticismo”: Egli serbava ricordo, a distanza di molto tempo, del luogo preciso in cui gli era apparsa l’idea della ripetizione universale in tutta la sua pienezza armoniosa e nella sua maestosa grandezza, nei tre aspetti correlati dell’Ondulazione fisica, della Generazione e dell’Imitazione. Ciò accadde in un luogo elevato, molto vicino a La Roque, su di un aspro costone pietroso abitato da magri vimini, da cui si può ammirare la pianura, il fiume scintillante e rapido, e, all’orizzonte, l’enorme promontorio del Domme sotto la bruma... (Tarde 1909, 18-19).
Immerso nel pittoresco dei luoghi, lontano dal clamore della civiltà, “il troglodita di La Roque”11 si astrae dal commercio con gli uomini per abbandonarsi alla meditazione solitaria. È questo un periodo poetico e mistico che influenzerà in profondità la riflessione del sociologo che qualche anno dopo si vorrà positivista, rimuovendo accuratamente, occultando tutte le tracce di ciò che era stato. Il filosofo e il sociologo nascono dal mistico e dal poeta. Nel 1878 Tarde pubblica una selezione di poesie intitolata Contes et Poèmes presso l’editore Calmann-Lévy, poesie che verranno bruscamente ritirate dal commercio (a sue spese) già nel 1880 e oggi divenute pressoché introvabili. Possiamo farci un’idea dello stato d’animo del giovane Tarde da una di queste liriche, dedicata all’amata La Roque: 10 Per Nietzsche, il pensiero dell’Eterno ritorno è stato, come si sa, un’autentica folgorazione presentatasi nell’agosto del 1881 a Sils Maria, in Alta Engadina (cfr. Nietzsche 1965, frammento 11 [141]. La prima formulazione “essoterica” della dottrina dell’Eterno ritorno si trova nell’aforisma 341 della Gaia scienza, Il peso più grande). 11 Così Bouglé 1905, 316.
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Dans le plaisir, dans la langueur, Dans la souffrance je t’évoque, Je t’invoque au fond de mon cœur, O mon doux pays de La Roque! La Roque, où j’ai tant égaré Ma rêverie ou mon délire, Plus aimé que je ne puis dire Et plus pleuré! La Roque, ô lieu suave et rude, Nid de corneilles populeux, Dont la rivière bleue élude L’obstacle des grands rochers bleus! Paradis de mon espérance Où j’ai poursuivi l’apparence De félicités qui m’ont lui Et qui m’ont fui ! De mon cœur refuge et délices, Vert écrin de mes plus beaux jours, Cimetière de mes amours Où je veux qu’on m’ensevelisse! Vase de paix plein jusqu’aux bords Corbeille de réminiscences Qui parle et console des morts Et des absences! Amphithéâtre de coteaux, Gazonneuse et riante arène Où ne luttent que des bateaux Contre le flot qui les entraîne; Golfe où les nacelles, le soir, Viennent s’abattre sur les grèves; Berceau joyeux, calme dortoir De mes longs rêves!
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O solitude, où j’aimerais Etre captif toute ma vie, Où mon âme brandit, ravie Ses fers joyeux et pleins d’attraits, Pareille aux barques de ton fleuve Dont les chaînes ont un frisson Harmonieux, gai comme un son De cloche neuve! Dans le plaisir, dans la longueur, Dans la souffrance, je t’évoque, Je t’invoque au fond de mon cœur, O mon doux pays de La Roque!12
(Tarde 1909, 218-220)
Come appare evidente, ci troviamo di fronte al topos romantico del passeggiatore solitario di rousseuviana memoria, a un mistico isolato che approfitta della quiete dei luoghi per abbandonarsi al dolce trasporto delle più soavi rêveries. Come ci ricorda la traduttrice di Bachelard:
Sia nel piacere che nel languore, / E nella sofferenza ti evoco, / T’invoco al fondo del cuore, / O mio dolce paese, La Roque! // La Roque, dove ho così a lungo perduto / La mia rêverie o il mio delirio, / Amato più di quanto non possa dire / E pianto! // La Roque, o luogo soave e rude, / Popoloso nido di corvi, / Il cui celeste flutto elude, / L’ostacolo delle grandi rocce blu! // Paradiso della mia speranza / In cui ho ricercato l’apparenza / Di felicità che mi sono brillate / E sfuggite! // Del mio cuore rifugio e delizia, / Verde scrigno dei miei giorni più belli, / Cimitero dei miei amori / In cui voglio riposare in eterno! // Vaso di pace colmo fino ai bordi / Paniere di reminescenze / Che parla e consola dei morti / E delle assenze! // Anfiteatro di colli, / Ridente ed erbosa arena / In cui non lottano che battelli / Contro il flutto che li mena; // Golfo in cui le navicelle, la sera, / Vengono ad abbattersi sui greti; / Gioiosa culla, calmo dormitorio / Dei miei lunghi sogni quieti! // O solitudine, in cui vorrei / Essere prigioniero per tutta la vita, / In cui la mia anima brandisce, rapita, / I suoi ceppi gioiosi e pieni d’incanti, // Simile alle barche del tuo fiume / Le cui catene emanano un fremito / Armonioso, gaio come un suono / Di campana nuova! // Sia nel piacere che nella lentezza, / E nella sofferenza, ti evoco, / T’invoco al fondo del cuore, / O mio dolce paese, La Roque! (Ringrazio Jean Robaey per i preziosi suggerimenti sulla traduzione). 12
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La parola francese rêverie è difficilmente traducibile in italiano [...] La rêverie come stato dello spirito che si abbandona a ricordi e a immagini [...] è la situazione in cui l’io, dimentico della sua storia contingente, lascia errare il proprio spirito e gode in tal modo di una libertà simile a quella del sogno (rêve), in rapporto al quale la rêverie indica tuttavia un fenomeno della veglia (Bachelard 2008, 6).
Il giovane Gabriel Tarde è dunque un sognatore ad occhi aperti. Ma che cosa sogna? Ci si chiederà... La risposta è una sola: sogna un cosmo. Vediamo quale.
4. Fantasticare un cosmo
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a meditazione nel ritiro, lo studio della natura, la contemplazione dell’universo spingono un solitario a lanciarsi senza tregua verso l’autore delle cose, e a cercare con dolce inquietudine la fine di tutto ciò che vede e la causa di tutto ciò che sente (Rousseau 2012, 50).
Le celebri passeggiate di Rousseau, vero manifesto del cosiddetto “pre-romanticismo”, hanno rappresentato, e continuano a rappresentare ancor oggi, un topos letterario di sicura suggestione, che certamente deve avere influenzato anche il giovane Tarde. Esse rappresentano una sorta di rivolta anti-intellettualistica («L’esiguo numero di libri che ancora leggo...») che spinge il nostro Autore a gettare tutti i libri e a porsi, per così dire, a diretto contatto con la natura. Potremmo dire che, aristotelicamente, la filosofia continua a nascere dalla meraviglia13. Anche il metodo di lavoro di Tarde, basato su fogli volanti vergati nel bel mezzo delle sue passeggiate14, pare adattarsi perfettamente a 13 «Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia» (Aristotele 2000, 11). Non intendiamo addentrarci nel coacervo di interpretazioni che si sono concentrate su questo luogo frequentatissimo del testo aristotelico, e nemmeno intendiamo disputare sulla maggiore o minore correttezza della traduzione italiana con il termine “meraviglia”. Basti soltanto osservare che il verbo greco thaumazō utilizzato da Aristotele ha generalmente il significato di “mi meraviglio”, “mi stupisco”, “sono preso da ammirazione”. 14 Lo stesso dicasi del suo modo di leggere, o meglio di servirsi, delle sue letture: «Tarde in effetti non correggeva mai, o quasi mai. Egli utilizzava più o meno intatti gli appunti spesso molto ampi che gli venivano suggeriti dalle sue letture. Si inter-
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questa idea “peripatetica” e anticartesiana della filosofia in cammino, con la consapevolezza, propria a tutti i mistici, del fatto che «un pensiero viene quando è “lui” a volerlo, e non quando “io” lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto “io” è la condizione del predicato “penso”. Esso pensa» (Nietzsche 1977, 21). Il pensare è perciò sempre un’attività che concerne una relazione particolare con il “fuori”, e la mia coscienza (mia, in quanto soggetto che pensa) è soltanto una “piega” dell’esteriorità universale alla quale partecipo in quanto essere a vario titolo desiderante e credente. Nessuno meglio di Gaston Bachelard ha saputo comprendere lo stato d’animo caratteristico del sognatore ad occhi aperti. La sua Poetica della rêverie costituisce una fenomenologia del sognatore che in questa sede non possiamo in alcun modo lasciare da parte. Innanzitutto, Bachelard differenzia radicalmente il sognatore notturno dal sognatore di rêverie: «il sognatore notturno è un’ombra che ha perso il suo Io» (in quanto non c’è un cogito del sognatore, che nel sonno perde il proprio essere e si trova in balìa delle immagini che si susseguono sottraendosi al suo controllo), mentre «il sognatore di rêverie può formulare un cogito al centro del suo Io. In altre parole, la rêverie è un’attività onirica nella quale sussiste un bagliore di coscienza» (Bachelard 2008, 156). Ma, allo stesso tempo, una differenza ancora maggiore caratterizza la distanza che separa il sognatore di rêverie dal pensatore razionale, dal filosofo, poiché «Il cogito del sognatore è meno vivo del cogito del pensatore. Il cogito del sognatore è meno sicuro del cogito del filosofo. L’essere del sognatore è un essere diffuso» (Bachelard 2008, 173). Il sognatore di rêverie abbatte tutte le barriere che separano l’essere dal non-essere, il soggetto dall’oggetto. Egli abita una «regione intermedia» tra il sogno profondo e la ragione più lucida, che è un mondo che egli esperisce immediatamente come un tutto vivente: rompeva spesso mentre leggeva, e fissava il suo pensiero così come gli veniva; di solito era lo stadio definitivo. Egli contrassegnava il passaggio che l’aveva fatto riflettere con un piccolo segno a margine, elegante e discreto, simile al volo di una rondine. Ed era proprio questo, in effetti: il volo istantaneo di un’idea... Le sue letture non erano il più delle volte che dei pretesti per voli di questo tipo; egli cercava in esse meno la gioia di imparare che la speranza di scoprire, e un libro capace di farlo pensare, capace di aprire la porta alla voliera d’idee che lui era sempre, veniva considerato un bel libro. Sono proprio questi appunti senza modifiche che talvolta gli hanno fornito tutto un capitolo, e che spesso, semplicemente giustapposti, si conseguivano e si raccordavano in maniera del tutto naturale, a causa dell’unità del suo pensiero in cui le fonti più varie finivano per ritrovare alcune confluenze, sempre le stesse» (Tarde 1909, 29).
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Attraverso la sua rêverie, vive in un mondo in sintonia con il suo essere, con il suo semi-essere. L’uomo della rêverie è sempre nello spazio di un volume. Abitando tutto il volume del proprio spazio, l’uomo della rêverie si radica nel suo mondo, in un interno privo di esterno. Non a caso si dice che il sognatore è immerso nella sua rêverie. Il mondo non gli si oppone più. L’Io non si oppone al mondo. Nella rêverie, il non-io non esiste (Bachelard 2008, 173).
Anche Gabriel Tarde si oppone al dualismo cartesiano, fatto di materia e spirito, per abbandonarsi ad un “monismo” spirituale che si richiama direttamente alla Monadologia di Leibniz, per il quale «c’è un mondo di creature – di esseri viventi e di animali, di entelechie e di anime – anche nella più piccola porzione di materia» che per questo può essere concepita come «un giardino pieno di piante, o come uno stagno pieno di pesci» (Leibniz 2001, 89). In Monadologia e sociologia, lo scritto indubbiamente più eccentrico e visionario di Tarde, egli rivendica la necessità di completare le osservazioni scientifiche fornendo ad esse una metafisica adeguata. E questa metafisica è in realtà un panpsichismo (o, nei suoi termini, uno psicomorfismo): «Nessuna intelligenza nella materia, oppure una materia che ne sia plasmata; non c’è via di mezzo». Ogni atomo, ogni monade dell’universo è una forza (non sostanza!) che desidera, sente, vuole e crede. «Credenza e desiderio costituiscono tutto l’essere delle monadi» (Tarde 2012, 65 e 80), perché c’è uno psichismo rudimentale perfino nella materia...
5. Differenza, Ripetizione (e ritorno)
I
l cosmo immaginato da Tarde è governato da una sola legge universale, quella di Differenza e Ripetizione. È sufficiente accennare al titolo dei suoi due più importanti manoscritti giovanili ‒ La différence universelle (1870) e La Répétition et l’évolution des phénomènes (1874) ‒ per comprendere l’importanza di queste categorie. In Monadologia e sociologia egli afferma ripetutamente che «La differenza è l’alfa e l’omega dell’universo» mentre «Tutte le somiglianze, tutte le ripetizioni fenomeniche» sono soltanto degli «intermediari inevitabili tra le diversità elementari». Si tratta – continua Tarde – di una «serie in cui l’identità e la differenza, l’indistinto e il caratterizzato, si utilizzano ripetutamente a vicenda» ma «è la differenza, il caratterizzato, [che] costituisce sia il termine iniziale, sia quello finale» (Tarde 2013,
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85). La ripetizione è “per” la differenza. Il movimento che dalla differenza porta alla ripetizione non ha altro fine se non quello di sublimare in una differenza sempre più alta, facendo sbocciare le possibilità più elevate dello sforzo [effort] che caratterizza l’evoluzione universale. L’evoluzione presupposta da Tarde, a differenza di quella di Spencer, è discontinua e multilineare. E, a dire il vero, Tarde protesta spesso contro il termine evoluzione, preferendo utilizzare quello di “trasformazione”, meno connotato in senso teleologico. Il processo della Ripetizione universale, che dà il titolo al primo capitolo delle Leggi dell’imitazione, si manifesta in tre forme diverse, corrispondenti ai tre piani sovrapposti dell’evoluzione, e cioè la Ripetizione fisica (ondulazione), vivente (ereditarietà) e sociale (imitazione). Ogni ripetizione scaturisce da una variazione infinitesimale che si produce in seguito all’incontro fortunato tra le due forze psichiche fondamentali, credenza e desiderio, assunte in una chiave assolutamente non-antropomorfica. Lo sforzo universale si biforca perciò in due correnti che possono aggregarsi o combattersi tra loro, e in questo modo danno forma ai fenomeni materiali. Ogni variazione è destinata ad attraversare il calvario della Ripetizione, una sorta di processo di selezione, che è anche una lotta per la vita e per la morte, che fa sì che soltanto la parte migliore possa perpetuarsi e continuare a ripetersi all’infinito. Maurizio Lazzarato ha acutamente osservato che per comprendere Tarde «bisogna comprendere il mondo come una realtà della stessa natura dei nostri desideri e delle nostre passioni» (Lazzarato 2013, 118). Ciò che caratterizza le monadi infinitesimali è infatti la coppia concettuale “ambizione-avidità”. Ambizione (leggi: credenza) e avidità (leggi: desiderio) costituiscono tutto l’essere delle monadi, il loro psichismo rudimentale che, se anche non perviene alla coscienza di sé, rimane pur sempre la sede di una volontà, oppure, detto in termini fisici, di una tendenza. Perché anche gli atomi hanno le loro preferenze nascoste, le loro affinità elettive. Ogni variazione prima di tutto vuole propagarsi in maniera geometrica e conquistare l’intero universo, così da foggiarlo a sua immagine e somiglianza. Volontà di dominare e volontà di non-essere-dominati sono gli elementi dell’eterna lotta per la supremazia, una lotta che comincia già all’interno dell’atomo e dei suoi radicali. Sant’Agostino diceva che «Il mondo è come un torchio che spreme. Se tu sei morchia, vieni gettato via; se sei olio, vieni raccolto. Ma essere spremuti è inevitabile» (cit. da Löwith 1998, 8). Tarde rispon-
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derebbe, a tono, che l’universo è un grande alambicco15 in cui si sublimano le differenze più elevate, le uniche degne di esistere. E questa regola vale sia per la materia che per la vita. Fino all’uomo. Bibliografia Aristotele (2000), Metafisica, trad. it. di G. Reale, Bompiani, Milano. Bachelard, G. (2008), La poetica della rêverie, trad. it. di G. Silvestri Stevan riv. da B. Sambo, Dedalo, Bari [La poétique de la rêverie, Puf, Paris, 1960]. Besnard, P. (1995), Durkheim critique de Tarde: des Règles au Suicide, in La sociologie et sa méthode. Les Règles de Durkheim un siècle après, L’Harmattan, Paris, pp. 221-243. Bouglé, C. (1905), Un sociologue individualiste: Gabriel Tarde, in “Revue de Paris”, 15 mai 1905, pp. 294-316. Deleuze, G. (1997), Differenza e ripetizione, trad. it. di G. Guglielmi riv. da G. Antonello e A.M. Morazzoni, Raffaello Cortina, Milano [Différence et répétition, Puf, Paris, 1968]. Domenicali, F. (2013), La metafisica segreta di Gabriel Tarde, in G. Tarde, Monadologia e sociologia, ombre corte, Verona, pp. 7-35. Durkheim, É. (2008), Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, trad. it. di F. Airoldi Namer, Einaudi, Torino [Les règles de la méthode sociologique, Alcan, Paris, 1895]. Espinas, A. (1910), Notice sur la vie et les œuvres de M. Gabriel de Tarde, in “Séances et Travaux de l’Académie des Sciences Morales et Politiques”, juillet-décembre, pp. 309-422. Lazzarato, M. (2013), Gabriel Tarde. Un vitalismo politico, trad. it. di F. Domenicali, in G. Tarde, Monadologia e sociologia, cit., pp. 117-166 [Gabriel Tarde: un vitalisme politique, in G. Tarde, Monadologie et sociologie, Les empêcheurs de penser en rond, Paris, 1999, pp. 103-150]. Leibniz, G.W. (2001), Monadologia, trad. it. di S. Cariati, Bompiani, Milano [Lehrsätze über die Monadologie, Franckfurth und Leipzig, 1720]. Löwith, K. (1998), Significato e fine della storia, trad. it. di F. Tedeschi Negri, Est, Milano [Meaning in History, University of Chicago Press, Chicago, 1949]. 15 L’immagine dell’alambicco (alambic) compare sia nel testo di Monadologia e sociologia che nelle ultime pagine delle Leggi dell’imitazione.
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Andrea Natali Leopardi tra scrittura e filosofia
O
ggetto del mio contributo sono alcune delle pagine dello Zibaldone che vertono sui temi del linguaggio e della scrittura. Attraverso una disamina delle riflessioni leopardiane intorno alla punteggiatura, alla scrittura geroglifica e al progetto di lingua universale ideato da Francesco Soave, ci soffermeremo sullo statuto della scrittura alfabetica e sul rapporto che intrattiene con la parola nell’auspicio di pervenire a un esito duplice. In primo luogo conferire respiro teoretico all’intrinseca alterità del testo mediante la giustapposizione dei passi dello Zibaldone che serbano in nuce l’abbozzo di una problematica peculiare del Novecento. In seconda battuta offrire una cifra della capacità della scrittura leopardiana di sprigionare una visione che travalica la stessa theoría di cui si fa latrice. Cominciamo col leggere quanto scritto da Leopardi intorno alla lingua universale di Francesco Soave e, in particolare, sui motivi in forza dei quali disconosce a tale idioma gli statuti di lingua e scrittura: Quello poi che ho detto che una lingua strettamente universale, dovrebbe di sua natura essere anzi un’ombra di lingua, che lingua propria, maggiormente anzi esattamente conviene a quella lingua caratteristica proposta fra gli altri dal nostro Soave [...], la qual lingua o maniera di segni non avrebbe a rappresentar le parole, ma le idee, bensì alcune delle inflessioni d’esse parole (come quelle de’ verbi), ma piuttosto come inflessioni o modificazioni delle idee che delle parole, e senza rapporto a niun suono pronunziato, né significazione e dinotazione alcuna di esso. Questa non sarebbe lingua perché la lingua non è che la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole. Ella sarebbe una scrittura, anzi nemmeno questo, perché la scrittura rappresenta le parole e la lingua, e dove non è lingua né parole quivi non può essere scrittura. Ella sarebbe un terzo genere, siccome i gesti non
Oggetto della critica leopardiana è Soave 1774. Si veda nello specifico Gensini 1984, 269-275.
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sono né lingua né scrittura ma cosa diversa dall’una e dall’altra. Quest’algebra di linguaggio (così nominiamola) la quale giustamente si è riconosciuta per quella maniera di segni ch’è meno dell’altre impossibile ad essere strettamente universale, si può pur confidentemente e certamente credere che non sia per essere né formata ed istituita, né divulgata ed usata giammai (Leopardi 2003, 2035-2036).
La “lingua” ideata da Francesco Soave consta di segni che rendono direttamente visibili le idee senza ricorso alcuno ad elementi linguistici. Un’universalità alinguistica che agli occhi di Leopardi risulta oltremodo fragile e parimenti infeconda. Le innumerevoli difficoltà insite nell’apprendimento di una siffatta “lingua” e le sue esigue speranze di perdurare nel tempo, costituiscono motivi tali da lasciargli più di una perplessità in merito alle concrete possibilità di uso e diffusione di tale idioma. Idioma e non lingua, per la precisione, poiché, scrive Leopardi, «una lingua non è che la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole». Questo il motivo per cui al progetto di Soave non è possibile attribuire lo statuto di lingua. Poco dopo si legge: «ella sarebbe una scrittura, anzi nemmeno questo». Tale rettifica si deve al fatto che la “lingua universale” di Soave, nonostante consti di un apparato segnico e scrittorio, non è da considerarsi propriamente una scrittura, dacché «dove non è lingua né parola quivi non può essere scrittura». Detto altrimenti: «la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole» costituisce la condicio sine qua non affinché una scrittura possa considerarsi tale. L’idioma ideato da Soave non può dirsi né lingua né scrittura, bensì «un terzo genere, siccome i gesti non sono né lingua né scrittura ma cosa diversa dall’una e dall’altra». Le «inflessioni o modificazioni delle idee [...] senza rapporto a niun suono pronunziato» hanno di analogo ai gesti la facoltà di indicare alcunché per mezzo di un cenno che pone un’idea direttamente innanzi allo sguardo. Si tratta di segni scevri del rinvio a parola alcuna, la cui universalità si deve alla loro capacità allusiva, al loro i(n)scriversi nel bianco della pagina come movenza che addita un’idea. Leopardi conferisce il nome di “algebra” a un linguaggio di tal fatta e parimenti a qualsivoglia scrittura abusi di elementi non fonetici. In un altro passo dello Zibaldone leggiamo infatti: L’ampio spettro delle motivazioni addotte da Leopardi a suffragio dell’irrealizzabilità di qualsivoglia progetto teso all’ideazione di una lingua universale si trova in Leopardi 2003, 2035-2039.
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La scrittura dev’essere scrittura e non algebra; deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l’esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell’animo, è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? (Leopardi 2003, 703-704).
Leopardi, proprio nell’atto di biasimare le scritture sovrabbondanti di spaziature e segni d’interpunzione, lascia trasparire, seppur non esplicitandola, l’idea che la scrittura alfabetica maltolleri spaziature e segni d’interpunzione, dacché contravvengono alla norma per cui la scrittura deve rappresentare le parole e alludono a possibilità di significazione altre rispetto al meccanismo che presiede il funzionamento della scrittura fonetica. Non è un caso che al passo letto poc’anzi segua un ironico analogo tra le scritture “ingombre” di elementi non fonetici e la scrittura geroglifica: Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee (Leopardi 2003, 704).
Nella sovrabbondanza di spaziature e di segni d’interpunzione Leopardi ravvisa un che di similare alla scrittura geroglifica, la quale, non diversamente dalla cinese e dall’idioma proposto da Soave, non rappresenta le parole bensì le cose e le idee. Ci troviamo innanzi ad un plesso problematico costituito da tre coppie di elementi legate da un affascinante magnetismo: “lingua universale” e geroglifici, segni d’interpunzione e spaziature, gesti ed algebra. “Lingua universale” e scrittura geroglifica constano entrambe di segni che non rappresentano le parole ma le idee e, in quanto tali, per Leopardi non possono dirsi lingue, poiché «la lingua non è che la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole». Quanto scritto da Leopardi in merito alla (im)possibilità di attribuire lo statuto di lingua all’idioma di Soave crediamo dunque possa a buon diritto estendersi alla scrittura geroglifica, dacché anch’essa rappresenta le idee e non le parole.
Corsivi miei.
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Che cosa pensare invece della possibilità di attribuire lo statuto di scrittura ai geroglifici? Della “lingua universale” di Soave si era letto: «ella sarebbe una scrittura, anzi nemmeno questo», giacché scrittura è rappresentazione di parole. Dunque anche ai geroglifici parrebbe non potersi attribuire lo statuto di scrittura. Ciononostante, ogniqualvolta nello Zibaldone Leopardi scriva dei geroglifici, appone sempre la parola “scrittura”. Da ciò è lecito desumere che i geroglifici siano scrittura pur non essendo lingua, sebbene non vi sia scrittura qualora non vi sia lingua. Non si tratta di una contraddizione, quanto piuttosto di una serie di occorrenze in cui la scrittura di Leopardi si ritaglia al di là dei margini della sua stessa teoresi, nutrendosi, nello specifico, della rettifica “ella sarebbe una scrittura, anzi nemmeno questo”. In merito a luoghi del testo leopardiano di tal fatta, sono illuminanti le parole di Alberto Folin: La temporalità della scrittura diviene allora il vero luogo in cui la decisione speculativa prende corpo, ma è una decisione così istantanea che l’argomentare è costellato da continue parentesi, eccezioni concesse, stemperate conclusioni: l’attenzione va portata su questi crinali, dove l’eccezione, lungi dal confermare la regola, si configura come fragile, ma ineludibile, “poiché” (Folin 2001, 78).
Il corso del pensiero leopardiano è il dispiegarsi della scrittura. La decisione speculativa si dà come scrittura. Una scrittura che giustappone i pensieri nel loro posarsi sulla pagina, realizzando una visione capace di mirare più lontano di qualsivoglia theoría. La scrittura dello Zibaldone non cessa di riscriversi barrando le parole che depone sul bianco; intacca pagina dopo pagina quei pensieri che si vorrebbero strappati una volta per tutte alla vertigine del nitore su cui permangono in bilico, sino a dischiudere lo spazio per l’inscrizione di scritture “altre”, che solo a un primo sguardo paiono in contraddizione con quella nei cui interstizi sono andate scavandosi. Ecco perchè i geroglifici sono scrittura, benché non rappresentino parole. «Così pure in proporzione, dopo l’uso della scrittura dipinta, e della geroglifica» (Leopardi 2003, 676); «Se mai fosse già stata in uso la così detta scrittura geroglifica [...]» (Leopardi 2003, 916); «Non fu poco anzi fu meravigliosissimo il pensiero di applicare i segni della scrittura ai suoni delle parole, invece di applicarli alle cose e alle idee, come si fece nella scrittura primitiva e nella geroglifica [...]» (Leopardi 2003, 1739).
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L’analogo leopardiano tra geroglifici e scritture ingombre di elementi non fonetici dischiude uno scorcio della pagina scritta dove, appunto, «non è lingua né parole». È il non-luogo della scrittura, la sua non-origine, il deserto ove si imprimono le sue orme, laddove la scrittura è altro dalla rappresentazione delle parole: le spaziature e i segni d’interpunzione. Proprio laddove Leopardi biasima l’abuso di spaziature e di segni d’interpunzione, affermando il principio secondo cui «la scrittura deve rappresentar le parole», la sua scrittura ritaglia uno spazio di infedeltà a quel principio. L’idioma di Soave, da Leopardi denominato «algebra di linguaggio», rende visibile – così come i geroglifici – un’idea attraverso un movimento che traccia sul bianco qualcosa di simile a un gesto. Un solco che, pur non avendo nulla a che fare con la lingua, intrattiene con il linguaggio un rapporto di cui la parola “algebra” è cifra. Algebra, ossia la stessa parola con cui Leopardi denomina l’ingombro di spaziature e di segni d’interpunzione in seno alla scrittura alfabetica. A che cosa si deve l’assunzione leopardiana sotto il nome di algebra tanto dell’idioma di Soave e dei geroglifici, quanto degli elementi non fonetici di cui si avvale la scrittura alfabetica? Col termine “algebra” Leopardi sussume uno spettro di “segni” che ricadono fuori dall’egida della phoné poiché argomentano direttamente agli occhi una realtà altra dalla voce, operando uno scasso dello statuto della scrittura alfabetica. Sulla tela che vede la scrittura una pittura della voce, il movimento della scrittura leopardiana ritaglia un lembo di vago che tocca non soltanto la scrittura alfabetica, ma altresì la voce di cui sarebbe dovuta essere mera rappresentazione. La medesima fenditura che sommuove la scrittura alfabetica crepandone la fedeltà alla phoné si dischiude altresì in seno alla parola viva: L’alfabeto è la lingua col cui mezzo noi concepiamo e determiniamo presso noi medesimi l’idea di ciascuno dei detti suoni. Quegli che non conosce l’alfabeto, parla, ma non ha veruna idea degli elementi che compongono le voci da lui profferite. Egli ha ben l’idea della favella, ma non ha per niun conto le idee degli elementi che la compongono […]. Ma per determinare gli elementi della voce umana articolata, l’unica lingua, come ho detto, è l’alfabeto. Or questa lingua non era trovata ancora, e niuna idea se ne aveva. Quindi niun mezzo di determinare presso se stesso le idee degli elementi di detta voce; e quindi infinita difficoltà di concepir queste idee e di fissarle
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nella propria mente; cioè di suddivider l’idea della voce, e stabilire nel proprio intelletto le idee separate delle di lei porzioni (Leopardi 2003, 1860).
La differenza che intercorre tra gli elementi di cui si compone la favella resta in sé e per sé in(a)udita. Soltanto l’ideazione dell’alfabeto conferì la possibilità di avvertire quella differenza senza la quale non è possibile cogliere le «idee dei suoni elementari», i quali non sono che i fonemi, le più piccole unità di suono che hanno valore distintivo, la cui libera alternanza permette l’individuazione delle differenze tra i significanti. È la scrittura a determinare le differenze tra i suoni espressi dalla favella. La distinzione e l’identificazione dei fonemi sono realizzabili soltanto sulla scorta della differenza che li vede sorgere, una differenza che soltanto la scrittura rese palpabile. Qualcosa di non dissimile accade altresì in merito all’attribuzione dei significati delle parole. Si deve alla scrittura l’ulteriorità della parola rispetto al mero suono: Le parole che per se stesse sono meri suoni, e così le lingue intere, in tanto sono segni delle idee, e servono alla loro significazione, in quanto gli uomini convengono scambievolmente di applicarle a tale e tale idea, e riconoscerle per segni di essa. Ora il principal mezzo di questa convenzione umana, in una società alquanto formata, si è la scrittura. [...] Come convenire scambievolmente in tutta una nazione, di dare a quella tal parola quella tal significazione certa determinata e stabile, e di riconoscerla universalmente per segno di quella tal cosa o idea? […] Tutte queste cose sono impossibili senza la scrittura, perché manca il mezzo di una convenzione universale, senza cui la lingua non è lingua ma suono (Leopardi 2003, 871-872).
Convenire significa venire insieme a, incontrarsi, trovarsi insieme. Dove? In prossimità del ritagliarsi del significato ad opera del significante, del venire al linguaggio dell’idea tramite il proferimento della parola. La scrittura è latrice di una norma che pone fine all’arbitrio del singolo in merito all’attribuzione dei significati alle parole: […] che dirò della scrittura? O della sua mancanza […] che toglieva ogni stabilità, ogni legge, ogni forma, ogni certezza, ogni esattezza, alle parole, ai modi, alle significazioni; e lasciava la favella fluttuante sulle bocche del popolo, e ad arbitrio del popolo, senza né freno, né guida, né norma (Leopardi 2003, 919).
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Prima dell’ideazione dell’alfabeto le parole sono oggetto dell’attribuzione arbitraria di una molteplicità di significati. L’avvento della scrittura apporta quella convenzione che gioca il ruolo di «arbitra dei significati de’ vocaboli, che per se nulla mai significano, e del più e del meno di detti significati ec.» (Leopardi 2003, 1025). Solo la garanzia dell’intesa tra parlante e ascoltatore intorno ai significati delle parole consente alla parola di assurgere da mera emissione sonora ad espressione linguistica significante. La convenzione apportata dalla scrittura non consta tuttavia dell’istituzione di significati intatti e precostituiti cui le parole rimanderebbero per mezzo di un rapporto mimetico. Al contrario, la scrittura conferisce alla parola la facoltà di differire da se medesima al fine di produrre significati differenti: […] facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, costruzioni, modi ec., e variarne al bisogno il significato, mediante detta variazione di forme, o di uso, o di collocazione ec. che alle volte cambiano affatto il senso della voce, alle volte gli danno una piccola inflessione che serve a dinotare una piccola differenza della cosa primitivamente significata (Leopardi 2003, 965-966).
Lo scrittore, attingendo aa tale facoltà della lingua, ritaglia nuovi e diversi significati per mezzo della frizione delle differenze che intercorrono tra le parole. Lungi dall’escludere alcunché dalla gamma delle possibilità, la scrittura produce la possibilità delle possibilità della parola. Il tutto sotto l’egida di una intesa convenzionale che ne garantisce una comprensibilità emancipata da variabili individuali arbitrarie. L’ideazione della scrittura conferisce alla parola la possibilità di serbare un significato che travalica lo spazio e il tempo del suo venire al linguaggio, la possibilità di produrre un senso che giochi con i frantumi del suo qui, del suo ora e del suo perché. L’esortazione leopardiana a non inframezzare la scrittura di un «ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli» e l’affermazione dell’impossibilità di identificare i suoni elementari della favella prima dell’ideazione dell’alfabeto costituiscono la trama e l’ordito del tessersi delle riflessioni leopardiane intorno alla scrittura. Socchiusa entro il biasimo dell’abuso di spaziature e di segni d’interpunzione, l’intuizione della maltolleranza degli elementi non
Cfr. Leopardi 2003, 873.
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fonetici da parte della scrittura alfabetica costituisce la siepe di là dalla quale il movimento della scrittura azzarda una visione che mette a fuoco l’in(a)udita e inudibile differenza da cui sorgono i fonemi. Uno sguardo che spazia tra l’interdizione a determinare i fonemi prima dell’ideazione dell’alfabeto e la costitutiva infedeltà della scrittura alfabetica al principio secondo cui dovrebbe essere mera rappresentazione di parole. La connivenza della parola scritta con elementi non fonetici e la sporgenza dei fonemi dall’egida della phoné costituiscono i margini della fenditura che sommuove la fedeltà di parola e scrittura alla phoné. Sul telaio dello Zibaldone l’ordito delle riflessioni intorno alla scrittura trama un lembo di vago strappato alla theoría che vorrebbe parola e scrittura rispettivamente espressione e pittura della voce. Sulla tela che vede la scrittura come pittura della voce balena il miraggio di un granello di dubbio che scintilla nella sabbia. Un granello che la sedicente scrittura leopardiana vede insinuato nel meccanismo della scrittura alfabetica proprio nell’atto di sostenere la di lei fedeltà alla phoné; un miraggio dacché l’origine dell’atto scrittorio serba un grado di visibilità che travalica la vista, non diversamente da come la differenza da cui sorgono i fonemi risulta sorda a qualsivoglia orecchio si ponga all’ascolto nell’auspicio di udirla. Bibliografia Folin, A. (2001), Leopardi e l’imperfetto nulla, Marsilio, Venezia. Gensini, S. (1984), Linguistica leopardiana. Fondamenti teorici e prospettive politico-culturali, Il Mulino, Bologna. Leopardi, G. (2003), Zibaldone, a cura di R. Damiani, 3 voll., Mondadori, Milano. Soave, F. (1774), Riflessioni intorno all’istituzione d’una lingua universale, Casaletti, Roma.
Francesco Camera La poesia come ricerca e invocazione di senso Paul Celan e i filosofi
L’alto poetare di tutta la grande poesia si muove sempre in un pensiero. Heidegger
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econdo una tradizione tanto antica quanto autorevole poiesis e noesis, poesia e filosofia, devono rimanere tra loro distinte, anzi separate. In particolare per Platone, che per primo ha teorizzato questa distinzione, la poesia si pone in contrasto con la filosofia e le ragioni di questo «dissidio» (diaphora) o «rivalità» (enantiosis) sono principalmente di carattere morale: in quanto arte imitativa simile alla pittura, la poesia si rivolge alla parte peggiore dell’anima, corrompe i buoni e manca di verità. In netta contrapposizione rispetto al poeta, il filosofo è invece colui che rifugge le apparenze ed ama l’«essere in sé», colui che conosce «il vero essere» tramite la dialettica, «arte regia» con la quale giunge al vertice dell’intelligibile e contempla il principio. È merito delle approfondite riflessioni in campo estetico e poetologico, elaborate dal classicismo tedesco e in particolare dalla Frühromantik, l’aver messo radicalmente in discussione la tradizionale concezione secondo cui poesia e filosofia sarebbero rivali nella ricerca della verità, perché proporrebbero due forme di sapere diverse per natura e per grado. Secondo Fr. Schlegel, ad esempio, poiché «tutta la storia della poesia moderna è un continuo commento al breve testo della filosofia […], poesia e filosofia debbono essere unite» (Schlegel 1967, 40). In questa prospettiva «il filosofo poetante» e «il poeta filosofante» non sarebbero più in contrasto tra loro, bensì accomunati dalla ricerca della verità. Sulla scia degli esiti del pensiero del secondo Heidegger, nel Novecento alcune correnti filosofiche hanno nuovamente intrapreso la via del confronto con le creazioni letterarie, arrivando ad individuare nei versi dei poeti la presenza di alcune domande filosofiche, l’eco di quegli eterni interrogativi che da sempre occupano il pensiero. Pur rimanendo due modi distinti e autonomi dell’umana ricerca della 263
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verità, filosofia e poesia − noesis e poiesis − portano ad espressione la medesima domanda di senso di cui ogni singolo uomo è insieme interprete e testimone: quella domanda che invoca una risposta ultima agli interrogativi che sorgono dalla problematicità dell’esistere e dall’inquietudine del vivere. Il concetto filosofico e la parola poetica, prima ancora di trovare una formulazione autonoma e distinta, hanno forse una origine comune: si radicano entrambe nella struttura enigmaticamente aperta e problematica dell’essere e dell’esistere e proprio per questa ragione possono entrare tra loro in dialogo. Tra i poeti che nella seconda metà del Novecento hanno attratto l’interesse dei filosofi, un posto di primo piano spetta senza dubbio a Paul Celan. Di lui si sono interessati pensatori che partono da presupposti teorici differenti e che sostengono posizioni filosofiche diverse (per non dire contrastanti o opposte): Buber, Adorno, Heidegger, Gadamer, Levinas, Blanchot, Derrida. Questo dato di fatto è da ascrivere semplicemente al fascino esercitato dalla parola poetica di Celan, oppure la sua opera, sia per la forma linguistica in cui si presenta sia per i suoi contenuti, risulta stimolante e provocatoria per il pensiero idealmente contemporaneo?
1. Il linguaggio poetico come «filosofema»
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a storia biografica di Celan ricalca il cliché dell’ebreo errante, del sopravvissuto alla tragedia epocale della Shoah. Infatti, per tutta la vita egli ha dovuto fare i conti con questo evento innominabile, con questa «ferita» profonda e insanabile. La sua opera poetica può essere considerata una risposta all’interdizione di Adorno, secondo cui non sarebbe stato più possibile scrivere poesie «dopo Auschwitz». Tutte le liriche celaniane sono memori di questo evento epocale e nascono da una profonda esperienza vissuta di dolore e di morte, che ne orienta sia le forme espressive sia i contenuti. Per un caso singolare la sua vicenda biografica e le sue esperienze intellettuali si sono intrecciate con la lingua che è stata al tempo stesso quella della madre e quella degli assassini della sua famiglia. Per Per un approfondimento del nesso tra filosofia (noesis) e poesia (poiesis) cfr. Caracciolo 1990, 163-195. Adorno 1972, 22: «la critica della cultura si trova dinanzi all’ultimo stadio della dialettica tra cultura e barbarie: scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie».
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tutta la vita l’ebreo Celan non ha mai reciso il legame originario e ancestrale con la lingua appresa fin dall’infanzia nella remota regione della Bucovina, che era stata per lungo tempo provincia asburgica. Costretto ad emigrare prima a Vienna e poi a Parigi, quella lingua è diventata un «meridiano» che ha orientato la sua sofferta ricerca di identità personale ed ha ispirato la sua opera poetica (Celan 1993, 35). Questa fedeltà alla lingua tedesca nasce dall’esigenza di mantenere vivo il legame con la terra cancellata dalla storia e con le persone di quel mondo ridotto a «fumo» o a «cenere» dalla violenza della guerra. Questo spiega come gran parte delle prime liriche evochino per lo più quel mondo scomparso con un atteggiamento misto di devozione e di memoria. Nel suo peregrinare, l’ebreo errante intona un canto in un paesaggio cupo e desertico, il cui tema principale è la morte, intesa non tanto come possibilità costitutiva dell’essere umano segnato dalla finitezza, quanto come omicidio, come atto volontario e violento dell’uomo contro l’altro uomo. Come è noto, si tratta di un tema che Celan aveva già messo al centro della sua lirica più celebre, il Lied intitolato Todesfuge, in cui veniva evocato l’assassinio di massa perpetrato nella disumana quotidianità del Lager e veniva più volte ripetuto il ritornello: «der Tod ist ein Meister aus Deutschland» [«la morte è un maestro di Germania»] (Celan 1998, 63-65). Questi sommari riferimenti mettono in luce come il rapporto della lirica celaniana con la lingua tedesca sia assai complesso e inevitabilmente ambivalente. Essa è infatti in primo luogo la «lingua-madre» (Muttersprache), parlata dai familiari assassinati, ma è al tempo stesso anche la lingua dei loro assassini (Mördersprache). Questo tratto paradossale è stato evidenziato soprattutto da alcuni interpreti francesi, primo fra tutti da Blanchot, il quale ha rilevato come a Celan sia toccato in sorte «di scrivere poesie nella lingua mediante cui la morte fece irruzione su di lui, sui suoi cari, sui milioni di Ebrei e non-Ebrei» (Blanchot 1990, 45). Anche Jabès ha sottolineato la duplicità delle liriche celaniane, in cui la lingua è al tempo stesso evocatrice di morte e via di salvezza, depositaria della memoria e luogo del silenzio (Jabès 1990, 14). Per questa ragione essa risulta spesso sovvertita nelle sue elementari regole logico-sintattiche e modificata con l’introduzione di azzardati neologismi o composti che si collocano al di fuori del nor Cfr. le liriche della raccolta intitolata Mohn und Gedächtnis [Papavero e memoria]: Celan 1998, 6-131. Per un approfondimento cfr. Camera 2003, 30.
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male registro colloquiale. È questo un aspetto sottolineato in particolare da Derrida, per il quale la cifra della scrittura poetica celaniana può essere sintetizzata dalla terrificante ambiguità del termine schibboleth (Derrida 1991, 36), che è al tempo stesso segno di appartenenza e di discriminazione. Proprio a causa della difficoltà di ricordare la Shoah nella lingua dei persecutori, le liriche celaniane sono segnate da una tensione ossimorica tra il pronunciabile e l’impronunciabile, tra la traduzione e l’originale, tra la salvezza e la distruzione. Memore di Auschwitz, la lingua tedesca assume una «essenza spettrale»: è un «idioma», un elemento cui il poeta ricorre come fosse una sorta di «lingua migrante» o nomade, non un suo possesso esclusivo o una sua creazione (Derrida 2001, 81-91). La lettura di Derrida insiste sul fatto che nelle liriche celaniane ogni parola si colloca in una zona di confine: è una sorta di «incisione» (o di «circoncisione») sul corpo della lingua che diventa traccia iscritta e cancellata, il cui «resto» si dà sotto forma di cenere. L’incisione della lingua è reperibile nella «data» che ogni poesia porta con sé quale segno di unicità e di individuazione. Tuttavia, ogni parola parla al di là della «singolarità datata di un’esperienza individuale» (Derrida 1991, 29) e proprio questo «sovrappiù di intelligibilità» avvicina la poesia alla filosofia, permettendo ad entrambe di entrare in dialogo. Infatti, nella misura in cui l’incisione diventa leggibile, va al di là della situazione particolare (al di là della data che la segna) e comunica un senso che si offre alla riflessione. In questo passaggio dal singolare all’universale «il poema prende valore di filosofema» e si offre al lavoro ermeneutico: «sul versante del senso universale» diventa dunque possibile parlare di «implicazioni filosofiche» dell’opera poetica celaniana (Derrida 1991, 70). Essa testimonia la crisi della concezione lineare del segno e attua lo slittamento di un significato sotto altri significati, che genera una Col termine schibboleth Derrida si riferisce al titolo dell’omonima poesia (Celan 1998, 223). Il termine è la traslitterazione della parola ebraica che si trova in Gdc 12, 6, che però Derrida intende non tanto nel suo significato (che indica la «spiga»), quanto come mero significante portatore di una differenza diacritica che la rende «segno di riconoscimento». Secondo quanto si narra nella Scrittura, schibboleth era infatti la parola d’ordine che i Galaaditi imponevano di pronunciare a quanti passavano la frontiera e, dato che i nemici Efraimiti erano incapaci di pronunciare la parola correttamente, venivano immediatamente riconosciuti e catturati. Per Derrida quindi la parola è marca della singolarità e della differenza, è nello stesso tempo segno di appartenenza e di discriminazione, e in questo senso diventa cifra rappresentativa dell’intera opera poetica celaniana.
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frantumazione e una scomposizione del senso. Si tratta di un esempio eloquente di quella struttura di rinvio senza termine e senza centro, che procede nella direzione di decostruire il sistema concettuale della metafisica e che in questo modo finisce per provocare l’esperienza del pensiero. «La filosofia si trova, si ritrova allora nei paraggi del poetico, o addirittura della letteratura» (Derrida 1991, 64). Vi si ritrova perché ciò che la provoca a pensare è proprio «l’esperienza della lingua», elemento comune del Dichten e del Denken.
2. La poesia come «gesto etico»
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edele alla sua condizione di ebreo errante, Celan ha concepito sia l’atto creativo del poetare (il Dichten) sia il suo risultato (il Gedicht) come costantemente in divenire e «in cammino» (unterwegs). Non si tratta però di un vagare senza meta, in quanto il movimento della lingua e del poema è orientato verso un interlocutore ed è quindi testimonianza di una tensione che si rivolge ad altri: è allocuzione, colloquio, dialogo. La parola poetica rompe l’isolamento dell’«io» e va incontro al «tu»; pertanto non è mai il monologo dell’«io lirico» con se stesso, ma è sempre luogo di incontro tra l’«io» e il «tu». In uno scritto teorico Celan ha sostenuto queste tesi affermando che la poesia è una «manifestazione essenzialmente dialogica», una sorta di «messaggio in bottiglia» (Flaschenpost), gettato in mare nella convinzione che possa raggiungere qualcuno e possa trovare ascolto, instaurando un dialogo (Celan 1993, 35). La poesia diventa la via privilegiata per andare dall’io all’altro ed ha quindi una motivazione e una struttura essenzialmente relazionale. Queste caratteristiche del poetare ritornano indirettamente in più punti del celebre scritto programmatico intitolato Der Meridian, in cui il «poema» è definito come «luogo di incontro» ricorrendo all’immagine geografica del «meridiano», che determina la posizione di luoghi diversi lungo una traiettoria comune e permette loro di entrare in rapporto. Scrive Celan: «il poema tende ad un altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore (Gegenüber). Lo va cercando e vi si dedica» (Celan 1993, 16). I sentieri che la poesia percorre sono le stesse vie «sulle quali la lingua diventa sonora, sono incontri, vie che Una tappa ulteriore del serrato colloquio con la poesia celaniana si può leggere in Derrida 2003, 25.
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una voce percorre incontro a un tu che la percepisce, vie creaturali, forse progetti di esistenza, un proiettarsi oltre di sé per trovare se stessi [...] una sorta di ritorno in patria» (Celan 1993, 19). In queste brevi affermazioni teoriche è possibile riconoscere l’influsso della filosofia di Buber, autore letto fin dagli anni giovanili da Celan. Anche per il filosofo, infatti, la poesia non si esprime nella lingua anonima senza «io» e senza «tu» che ricorre alla forma impersonale della terza persona, ma è allocuzione dialogica che privilegia la coppia «io-tu» a quella «io-esso» (Buber 1993, 57-157). Questa influenza emerge più chiaramente se teniamo presente la critica rivolta dal filosofo ebreo alla concezione «monologica» del linguaggio sostenuta da Heidegger e la sua difesa del primato della «parola parlata», che nasce nella concreta situazione relazionale tra l’io e il tu. Sulla base di questa impostazione Buber era arrivato ad affermare che se non ci fosse un autentico dialogo (Gespräch) non ci sarebbe neppure nessun poema (Gedicht), perché la poesia è «parola pronunciata» (Gesprochenheit) alla ricerca di un interlocutore. Sul carattere dichiaratamente dialogico della poesia di Celan si sono soffermate le riflessioni di Levinas. Pur non avendo dedicato particolare attenzione alla lettura delle singole poesie, in una puntuale analisi basata prevalentemente sullo scritto Der Meridian egli ha sostenuto che il poetare celaniano attesterebbe il passaggio dal «linguaggio dell’essere» (o del «neutro») al «linguaggio della prossimità» (Levinas 1984, 47-54). Le singole liriche rompono il dominio totalizzante (e totalitario) dell’«io-soggetto» per fare spazio all’altro; in questo modo la componente individuale del poetare risulta superata e l’io diventa segno di donazione all’altro, un «segno che è il suo stesso significato» (Levinas 1984, 47). Nella misura in cui il poema permette all’io di separarsi da se stesso, la scrittura poetica è un movimento paradossale, attraverso cui «il poeta non mantiene, nel passaggio all’altro, la sua sovranità orgogliosa di creatore» (Levinas 1984, 50). Il poeta è invece estremamente sensibile e recettivo nei confronti dell’altro: esce da sé stesso, perde la propria identità egoistica, fino ad arrivare a parlare il linguaggio dell’altro e a sostituirsi a lui. Il poetare diventa allora un Come informa Chalfen 2008, 161, già nel 1944 il giovane Celan aveva iniziato a leggere intensamente i lavori di argomento chassidico di Buber. Per una visione complessiva delle letture di Buber da parte del poeta, cfr. Celan 2004, 467. Non è casuale quindi che Levinas abbia posto il verso celaniano «Ich bin du, wenn ich ich bin» [Io sono tu quando io sono io] (Celan 1998, 51) all’inizio della trattazione del tema della «sostituzione», con il quale la «de-soggettivizzazione dell’io» tocca il suo apice: cfr. Levinas 1983, 123.
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movimento eccentrico, una uscita in direzione dell’altro uomo, un trascendere l’umano che assume i tratti utopici e messianici propri della tradizione religiosa ebraica. Scrive Levinas: «il poema si spinge oltre: lo strano è lo straniero o il prossimo. Nulla è più strano né più straniero dell’altro uomo ed è nella luce dell’utopia che si mostra l’uomo» (Levinas 1984, 52). L’interpretazione levinassiana sottolinea come il linguaggio delle liriche celaniane si situi ad un livello «pre-sintattico» e «pre-logico», che precede ogni tematizzazione concettuale. Esso non è una rappresentazione mimetica o simbolica ma un atto concreto: è «una stretta di mano», un segno di attenzione verso il prossimo che si avvicina all’altro uomo. Al di là dei contenuti specifici, il significato principale dell’intera opera poetica celaniana consiste in una sorta di gesto etico che significa «la meraviglia del donare» in una direzione che va verso l’«altrimenti che essere». In questo modo la poesia si incontra con la filosofia, in quanto ogni poema aperto all’altro manifesta la responsabilità verso il prossimo e sollecita a pensare l’alterità e la trascendenza. Questi caratteri sono rintracciabili anche nell’immagine circolare del meridiano, che Levinas legge come figura di un «movimento senza ritorno», come una traiettoria paradossale che avrebbe «una finalità senza fine». «È come se, nell’andare verso l’altro, io potessi ricongiungermi con me stesso e impiantarmi in una terra, ormai natale, affrancata da tutto il peso della mia identità», una sorta di «terra promessa» intravista attraverso l’esodo, l’erranza e lo spaesamento (Levinas 1984, 52). Di conseguenza, il poema non porta l’uomo ad «abitare poeticamente sulla terra», radicandosi in essa e difendendo il suo luogo; mostra invece che la poesia può essere «interrogazione dell’altro, ricerca dell’altro», può diventare un canto che «sale nel donare, nell’uno-perl’altro, nello stesso significare della significazione. Significazione più antica dell’ontologia e del pensiero dell’essere, e che sapere e desiderio, filosofia e libido già presuppongono» (Levinas 1984, 54). In sintesi, nella poesia celaniana Levinas vede il primato del «dire» sul «detto», la preminenza del gesto verbale che va incontro all’interlocutore rispetto alla parola scritta conforme al sistema linguistico impersonale e alle A questo proposito Levinas valorizza la concezione celaniana della poesia come «manufatto» (Handwerk), come opera artigianale delle mani. Cfr. Celan 1993, 57: «solo mani veraci scrivono poesie veraci. Io non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e un poema».
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sue codificazioni sostanzialistiche ed ontologiche. Con questa lettura Levinas porta in primo piano alcuni elementi che disegnano una via di ricerca parallela alla direzione della propria prospettiva filosofica, attuando un intreccio fecondo tra pensiero e poesia.
3. La verità originaria della poesia
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l carattere dialogico del linguaggio poetico celaniano ha rivolto la sua attenzione anche Gadamer, che si è impegnato in una approfondita lettura di un intero ciclo di poesie. Si tratta del ciclo Atemkristall, confluito nella raccolta Atemwende pubblicata nel 1967 (Celan 1998, 511-551). La lettura gadameriana si presenta sotto la forma unitaria del «commento» e ruota intorno ad una domanda apparentemente banale: «chi è qui l’io e chi è il tu» (Gadamer 1989, 8). Questa domanda nasce dalla convinzione che il paradigma dialogico domini l’intero ciclo, anche se il «tu» compare in forma pronominale indefinita. Tuttavia, secondo Gadamer, questo carattere indeterminato del «tu» non costituisce un problema particolare. Occorre infatti tenere presente che nelle diverse poesie del ciclo sia l’«io» sia il «tu» sono sempre in rapporto tra loro: essi interagiscono in modo solidale. Per questa ragione non ha molta importanza cercare di determinare con precisione chi sia l’«io» e chi sia il «tu»; si tratta infatti di due poli (o ruoli) interscambiabili che devono essere compresi in un orizzonte più vasto. Sulla base di queste considerazioni generali, Gadamer può quindi affermare che l’interrogativo fondamentale, intorno al quale ruota il suo «commento», è in realtà una «domanda alla quale la poesia risponde mantenendo aperta la domanda stessa» (Gadamer 1989, 28). Con questa affermazione viene toccato un problema filosofico che costituisce un assunto centrale dell’ontologia ermeneutica: la dialettica di domanda e risposta, che alimenta il movimento circolare del comprendere (Gadamer 2000, 761-779). Si tratta di una conclusione niente affatto estrinseca, che risulta direttamente dalla pratica dell’ascolto e della lettura del testo poetico. Secondo Gadamer, infatti, le poesie del ciclo sono come uno «specchio»: al di là dei contenuti specifici, lasciano intravedere il medium universale del linguaggio, l’elemento primordiale in cui esse si muovono e prendono forma. Il linguaggio delle liriche celaniane ha dunque una struttura «speculativa»: è una «poesia meditativa» (Gadamer 1995, 316 e 318) che invita il lettore alla riflessione in quanto va «al
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di là» delle forme ordinarie e quotidiane di comunicazione, per lasciar trasparire l’orizzonte linguistico universale che è condizione di possibilità di ogni significare. Di conseguenza le liriche che compongono il ciclo non sono la fissazione per iscritto di un discorso soggettivo (proprio di un determinato «io» o di un determinato «tu»), ma sono eventi dell’automanifestazione del linguaggio. Nel suo commento Gadamer legge l’intero ciclo secondo il principio della circolarità ermeneutica: lo considera come una totalità unitaria, al cui interno ogni singola poesia occupa un posto preciso e trova il proprio senso a partire dal tutto. In questa struttura coerente è possibile individuare il «motivo dominante»: il tema del carattere veritativo del linguaggio poetico, ovvero la ricerca della «parola vera» che «sta salda in se stessa» e che «disvela» se stessa senza riferimento ad altro da sé (Gadamer 1989, 19-80). Nelle prime poesie del ciclo il poeta deve innanzitutto liberarsi dall’insieme delle parole che formano il linguaggio convenzionale per avvicinarsi alla parola autentica da cui è misteriosamente separato. Finalmente, nella poesia conclusiva intitolata Weggebeizt [Corrosa e scancellata] (Celan 1998, 551), egli giunge alla meta rappresentata dalla figura del «cristallo di fiato» (Atemkristall), che allude alla parola trasparente e pura in cui si realizza una perfetta coincidenza tra segno e significato. Trasponendo le suggestive immagini dell’intero ciclo sul piano della riflessione sul linguaggio, Gadamer sottolinea come in esso venga descritto un percorso ascensivo, che va «al di là» del linguaggio quotidiano e delle sue forme precostituite per attingere l’origine della parola. Il tragitto percorso dal poeta diventa il «sentiero della purificazione della parola, la quale ha rifiutato tutte le forme di attualità e tutti i linguaggi precostituiti che la imprigionano […] e si è esercitata al silenzio e alla riflessione» (Gadamer 1989, 80). Nella poesia all’opera «non è quindi il linguaggio di un determinato poeta, di questo poeta particolare, ma è il manifestarsi del linguaggio stesso, dell’autentico linguaggio luminoso e chiaro […] che non simula espressioni già pronte o già sentite, ma smaschera tutte queste forme inautentiche» (Gadamer 1989, 79). Attraverso questo percorso, il poetare (Dichten) raggiunge un livello riflessivo che si intreccia col pensare (Denken): diventa «metapoesia» che attinge al logos koinos come condizione di possibilità della comunicazione dialogica tra l’ «io» e il «tu», come origine comune del poetare e del pensare. In questa interpretazione il «cristallo di fiato» non è soltanto una figura poetica ma può diventare
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una sfida per il pensiero. In quanto «parola vera», capace di manifestare se stessa senza rinviare ad altro da sé, essa attua un passaggio «al di là» e allude ad uno sfondo che per secoli la tradizione metafisica occidentale ha tentato di cogliere concettualmente come fondamento o principio. Con l’immagine del «cristallo di fiato» viene indicato il luogo in cui è custodito l’«originario» prima di ogni sua possibile differenziazione in poiesis o noesis, prima di ogni specificazione in linguaggio intuitivo o concettuale.
4. Problema del male e invocazione di senso
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e interpretazioni finora esaminate rappresentano significativi esempi del modo in cui alcuni autorevoli esponenti della filosofia novecentesca sono entrati in dialogo con l’opera poetica celaniana in modo produttivo e secondo differenti prospettive, individuando nelle parole e nelle immagini dei versi l’eco di alcuni temi di carattere generale (come il problema del linguaggio, l’emergenza della differenza e dell’alterità, il rinvio alla trascendenza e alla verità originaria). Come è stato osservato, le diverse interpretazioni ricordate riconoscono complessivamente che l’interesse suscitato dall’opera poetica celaniana nella cultura filosofica contemporanea è dovuto soprattutto al fatto che essa «ha additato brucianti interrogativi ancora aperti ed angosciosi presagi relativi al clinamen del nostro tempo» (Bevilacqua 2001, 213). Una capacità acuita dallo stretto legame che gran parte delle poesie mantengono con l’esperienza della Shoah, sebbene la loro importanza non si limiti ad una mera commemorazione di quell’evento tragico. Infatti, in molte liriche la parola poetica subisce una profonda trasfigurazione che lascia risuonare l’eco della domanda fondamentale sul senso dell’essere e dell’esistere nel contesto dei tragici eventi del «secolo breve». Come è noto non si tratta di una domanda retorica, ma della domanda che è all’origine della possibilità stessa dell’interrogare, in quanto si chiede se tutto ciò che «è» abbia senso, se l’esistere dell’uomo nel mondo sia giustificato o assurdo. Come tale essa non può evitare di affrontare lo scandalo del male e le domande della teodicea. È merito dell’opera poetica celaniana non solo aver dimostrato, contro l’interdizione di Adorno, che è ancora possibile scrivere poesie «dopo Auschwitz», ma soprattutto aver interpretato poeticamente quel tragico evento come figura dell’«eccesso del male». Questo aspet-
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to assume nei versi celaniani i tratti di una vera e propria teodicea jobica, alla quale manca sia il prologo in cielo sia il lieto epilogo con cui si conclude il noto libro sapienziale. La poesia (il Gedicht) è il luogo in cui la domanda intorno alla possibile giustificazione dello sterminio quale estrema figura del male risuona in forme ora accorate e violente, ora ansimanti e balbettanti, senza però trovare una risposta definitiva. Gli interrogativi della teodicea non trovano soluzioni concilianti, ma irrompono con toni inquietanti e con una forte carica sacrilega che a volte rasenta l’invettiva e lo scandalo. Tra le molte liriche in cui questi temi affiorano in forma più o meno esplicita, un posto di rilievo occupa la poesia Zürich, zum Storchen [Zurigo, «Alla cicogna»] (Celan 1998, 357), che si riferisce ad un incontro con la poetessa ebrea Nelly Sachs, in cui i due interlocutori avrebbero discusso della possibilità di interpretare teologicamente l’olocausto. La disputa avrebbe preso le mosse dal libro di Margarete Susman, che nell’immediato dopoguerra aveva indicato nella figura di Giobbe la possibile «cifra» per interpretare il tragico destino del popolo ebraico (Susman 1999, 135). Questo rimando permette di inserire l’intera poesia in un contesto più ampio, che va al di là delle esperienze personali dei due interlocutori e tocca alcuni nodi della riflessione filosofica e teologica contemporanea. In profondo disaccordo con la sua interlocutrice, la quale condivideva la tesi della Susman secondo cui lo sterminio del popolo ebraico non sarebbe in grado di mettere in discussione la fede nel Dio della tradizione, Celan sostiene una posizione agnostica che rasenta lo scetticismo. Secondo lui, qualsiasi forma di «teodicea» sarebbe improponibile, in quanto lo sfondo della trascendenza e del divino risulterebbe depotenziato e farebbe parte di quei «valori supremi» che a partire da Nietzsche hanno subito una radicale svalutazione. A differenza della Sachs, che a partire dagli insegnamenti della mistica cabbalistica (del libro dello Zohar in particolare) legge «ciò che era accaduto» come una estrema conferma dell’elezione del popolo di Israele, Celan ritiene che il fumo delle ceneri dei morti offuscherebbe la possibilità di esperire oggi la presenza del divino nel mondo (la Shekinah). L’oscuramento radicale, che caratterizzerebbe l’ora in cui viviamo, non sarebbe infatti opera dell’uomo ma di Dio stesso. Cfr. l’importante scambio epistolare su questi temi in Celan, Sachs 1996, 35. Per la Sachs la posizione di Celan doveva suonare simile ad una «bestemmia».
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Gli spunti offerti da questa poesia, insieme a quelli precedentemente ricordati, ci permettono di cogliere l’importanza che l’opera poetica celaniana ha assunto in alcune correnti del pensiero filosofico contemporaneo, soprattutto per quei pensatori che pongono al centro la domanda intorno al senso e alla giustificazione ultima dell’essere e dell’esistere. Non si tratta affatto di tradurre le «rappresentazioni poetiche» in «concetti razionali», bensì di ricordare, pur salvaguardandone la specificità, che poesia e filosofia (poiesis e noesis) hanno origine da un terreno comune: la struttura problematica dell’esistenza umana che si progetta come ricerca di senso. In questa prospettiva gli elementi emersi dalle poesie esaminate (come il tema del linguaggio e la sua natura dialogica aperta all’alterità e alla trascendenza, gli aspetti teodicali e gli interrogativi sull’«eccesso del male») vanno intesi come sollecitazioni che invitano la riflessione filosofica a riproporre la domanda sul senso dell’essere e dell’esistere con maggiore radicalità. Dal punto di vista ermeneutico non si tratta di accreditare l’immagine di un poeta philosophus, bensì di riconoscere che nella poesia celaniana c’è un nucleo problematico che evoca la riflessione concettuale e che finisce per sfidare la filosofia (Pöggeler 2000, 65-75). Questo vale in particolare per il tema teodicale, che non si presenta secondo schemi tradizionali di tipo confessionale o dogmatico, ma risulta intrecciato alla più generale domanda di senso e può quindi assumere forme critiche, provocatorie, blasfeme, che sanciscono (kantianamente) il naufragio di ogni tentativo umano di teodicea. Anche nella struttura essenzialmente dialogica del «poema» (Gedicht) è costantemente presente l’eco della domanda di senso. Ogni poesia, infatti, non nasce da una ispirazione soprannaturale, ma si compone di parole umane e terrene, in cui si sono sedimentate (o «cristallizzate») esperienze individuali e collettive. Come tale essa è il luogo in cui si esprime l’esigenza di trovare una giustificazione di fronte alle assurdità della storia. E proprio per soddisfare questa esigenza il «poema» ha bisogno della voce dell’altro: ha bisogno di interloquire con un «tu» personale da cui possa venire una parola capace di illuminare l’oscurità dell’esistere. Nelle liriche celaniane il «tu» si presenta con caratteri differenti e con ruoli molteplici. Spesso viene evocato come una entità separata che sfugge in una lontananza irraggiungibile, per assumere i tratti indistinti dell’assente. L’allocuzione dialogica si trasforma allora in invocazione accorata e il linguaggio dei versi diventa spezzato e ansimante. In questa situazione limite, di angoscia e sconforto, il «tu» compare
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nella forma pronominale negativa, ma non cessa di essere apostrofato e invocato (Celan 1998, 379)10. Questo conferma che anche quando il «tu» non risponde o la sua parola risulta mancante l’intenzionalità dialogica del «poema» ha come esito l’allocuzione infinita. L’importanza dell’opera poetica celaniana consiste proprio nello sforzo di mantenere aperta l’allocuzione o l’invocazione, anziché accettare di ammutolire nel silenzio. Lungo questa via essa incrocia necessariamente le questioni della filosofia: quell’interrogare che più volte i filosofi hanno posto attraverso la domanda intorno al senso dell’essere di fronte allo scandalo del male, con l’intento di ricercare un fondamento e un principio originario del bene. Forse poesia e filosofia possono entrare in dialogo tra loro senza rivalità solo se riconoscono in questo interrogare la loro radice comune, la loro provenienza e il loro compito. Bibliografia Adorno, Th.W. (1972), Prismi, trad. it. di C. Mainoldi, Einaudi, Torino [Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1955]. Blanchot, M. (1990), L’ultimo a parlare, trad. it. di C. Angelino, il melangolo, Genova [Le dernier à parler, Fata morgana, Montpellier 1984]. Bevilacqua, G. (2001), Letture celaniane, Le Lettere, Firenze. Buber, M. (1993), Il principio dialogico e altri saggi, Poma, A. (cur.), San Paolo, Cinisello Balsamo [Das dialogische Prinzip, Lambert Schneider, Heidelberg 1979]. Camera, F. (2003), Paul Celan. Poesia e religione, il melangolo, Genova. Camera, F. (2010), Paul Celan. Di fronte al Nulla, «Anterem», XXXV, n. 81, 59-65. Caracciolo, A. (1990), Nulla religioso e imperativo dell’eterno. Studi di etica e di poetica, Tilgher, Genova. Celan, P. (1993), La verità della poesia, Bevilacqua, G. (cur.), Einaudi, Torino [Gesammelte Werke, Allemann, B., Reichert, S. (Hrsg.), Suhrkamp, Frankfurt a.M 1992, vol. III]. Celan, P., Sachs, N. (1996), Corrispondenza, trad. it. di A. Ruchat, il melangolo, Genova [Briefwechsel, Wiedemann, B. (Hrsg.), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993]. Cfr. Camera 2003, 57-60; Camera 2010, 59-65.
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Andrea C. Bertino La concezione del dono di Marcel Mauss e il suo significato per la filosofia
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l Saggio sul dono di Marcel Mauss (1872-1950), pubblicato negli Année Sociologique del 1923/24, ha acquisito ben presto un’importanza che travalica i confini dell’antropologia culturale e della sociologia della religione, imponendosi all’attenzione di alcuni tra i più importanti filosofi contemporanei. La sua accurata ricostruzione del dono cerimoniale ha permesso infatti di cogliere la profonda unità antropologica di forme diverse di scambio e di sviluppare differenti tipi d’indagini filosofiche su molteplici pratiche sociali. Ad una ripresa del suo Saggio in campi diversi del sapere ha sicuramente contribuito anche l’approccio metodologicamente aperto e multidisciplinare di Mauss; il suo discorso non si nutre infatti solo di osservazioni provenienti da ricerche di antropologia culturale ma anche di considerazioni linguistiche e storico-religiose, senza rinunciare, infine, ad azzardare alcune indicazioni di tipo normativo riguardo alla condizione politica ed economica della società moderna. Nel presente saggio intendiamo delineare brevemente i tratti essenziali di tale concezione del dono cerimoniale per mostrare quindi il significato che essa assume nel dibattito filosofico contemporaneo.
1. Dono cerimoniale e potlàc in Mauss
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a complessità dell’approccio di Mauss al fenomeno del dono non può stupire se si considera per un momento il suo percorso intellettuale. Nipote di Émile Durckheim, uno dei padri della sociologia francese, Mauss compie studi filosofici presso le università di Bordeaux e di Parigi, dove, oltre alla frequentazione dei corsi dello stesso Durkheim (si ricordi soltanto quello su Les Origines de la religion dell’anno accademico 1895/96), giocano un ruolo importante
Per una dettagliata biografia di Mauss cfr. Fournier 1994.
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nella sua formazione l’incontro con il sociologo Alfred Espinas – la cui critica al darwinismo sociale di Spencer influenza già il pensiero di Friedrich Nietzsche –, con il filosofo kantiano Octave Hamelin e con l’orientalista Sylvain Lévi, da cui assorbe un forte interesse per la filologia e la linguistica e da cui apprende la lingua sanscrita – Mauss approfondirà nel corso dei suoi studi anche la conoscenza dell’ebraico, del greco antico, del latino, del russo e di altre lingue moderne. Dopo essere stato nominato, nel 1895, Agrégé de Philosophie, Mauss compie, tra il 1897 e il 1898, un lungo viaggio che lo porterà in Olanda e in Inghilterra e che assumerà un significato decisivo per lo sviluppo del suo profilo intellettuale. Nel corso di tale viaggio ha infatti modo di conoscere studiosi della religione ed antropologi quali Willem Caland, Moritz Winternitz, Edward B. Taylor e James Frazer con cui resterà in un proficuo contatto. È evidente quindi come la filosofia giochi un ruolo secondario nel suo percorso accademico e, non a caso, la sua prima cattedra – ottenuta nel 1901 ancor prima di aver ultimato la mai conclusa tesi di dottorato sul concetto di preghiera – sarà quella di «Storia delle religioni dei popoli non civilizzati» presso École pratique des hautes études. Una denominazione, questa, che lo stesso Mauss riconoscerà però inadeguata in quanto, secondo lui, sarebbe improprio parlare di popoli non civilizzati, essendovi solo “popoli di diverse civilizzazioni”(Mauss 1969, 229). Con ciò egli non intende tuttavia affermare che tale diversità debba rappresentare una vera e propria incommensurabilità, dal momento che tutto il lavoro di Mauss si basa sul presupposto che è lecito attendersi dallo studio delle società arcaiche indicazioni decisive per la comprensione delle società moderne. Se l’antropologia culturale deve cogliere, per così dire, delle continuità nella differenza, si tratta innanzitutto di non ridurre la complessità dei fenomeni indagati inquadrandoli secondo schemi concettuali consueti e troppo riduttivi; Mauss, in modo del tutto originale, si propone dunque di trattare il fenomeno del dono cerimoniale come «fatto sociale totale» (fait social total), come un evento che interessa sfere molteplici della vita sociale. Da una tale prospettiva il dono cerimoniale può mostrarsi allora come un fenomeno religioso, mitologico e sciamanistico, perché i capi che vi si impegnano rappresentano, incarnano gli antenati e gli dei, di cui portano il nome, di cui danzano le danze, e da cui spiriti sono posseduti. Ha carattere economico, ed è necessario misurare il valore, l’importanza, le
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ragioni e gli effetti di queste enormi transazioni, anche presentemente quando le si calcola in valori europei. Il potlàc è anche un fenomeno di morfologia sociale (Mauss 2000, 216).
Se già antropologi come Boas, Swanton, Thurnwald, Best e Malinowski si erano occupati in maniera approfondita di tale fenomeno, Mauss, che dei risultati delle ricerche di questi autori – si pensi soprattutto a quelli di Franz Boas e di Bronislaw Malinowski – si serve ampiamente, tenta, per la prima volta, di trarre delle indicazioni generali dalle numerose osservazioni empiriche già raccolte. A tale scopo egli è pronto a completare i risultati di tali ricerche con considerazioni di carattere storico-linguistico, facendo quindi interagire, ad esempio, i resoconti sulle pratiche di civiltà arcaiche del Nord-ovest americano o delle isole Trobriand con le testimonianze letterarie di culture storiche quali quelle di Celti, Greci, Romani, Germani o Indiani. Questa generalizzazione e commistione di elementi apparentemente eterogenei viene giustificata sulla base della convinzione che il dono cerimoniale rappresenti un fenomeno universalmente umano. Ciò rende lecito supporre, euristicamente, che, anche quando, come nella modernità, il dono cerimoniale non può più essere osservato direttamente, la sua funzione deve essere svolta da pratiche ed istituzioni sociali differenti. Questo sforzo di generalizzazione, insieme all’intuizione del carattere totale del dono e alla ulteriore pretesa di suggerire l’opportunità di determinate pratiche socio-politiche odierne sulla base di una loro più o meno forte coerenza con la prassi arcaica, rappresentano in sintesi i caratteri peculiari del discorso sul dono di Mauss. Punto di partenza di tale discorso è la constatazione del fatto che nelle culture prese in considerazione si dà una sorta di triplice obbligo a donare, accettare e a ricambiare il dono ricevuto. Questa imperatività del dare e del ricevere ha per Mauss un che di irritante e misterioso, ponendo l’evento del dono a metà strada tra una legge di natura – donare e contraccamabiare vengono avvertiti come atti di una necessità quasi meccanica – e una manifestazione della libertà umana – l’azione del donare e il ricevere conosce dei margini di discrezionalità, dei diversi gradi d’intensità. La spiegazione di tali obblighi è in Mauss, che su questo punto sembra assai vicino al metodo di Malinowski, di tipo funzionalistico, in quanto tali imperativi del dono sembrano acquisire
Cfr. Boas 1970 e Malinowski 2004.
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un senso solo allorché se ne consideri la loro funzione all’interno della società. Il dono, infatti, non è mai solo l’atto di un singolo ma di una famiglia, di un clan o di una intera comunità, i quali, donando, danno vita ad una costante circolazione di beni e contribuiscono a rinsaldare i legami tra i suoi membri e a stabilizzare quindi la società nel suo complesso. A ben vedere, però, quello funzionalistico non è l’unico punto di vista di Mauss sulla natura necessitante del donare. Egli non trascura infatti nemmeno la considerazione del ruolo della magia nella visione del mondo delle culture arcaiche, sviluppando così una sorta di teoria dell’azione del dono cerimoniale. Si tratta cioè di tener presente che in tale pratica ci si rappresenta una sorta di “forza contenuta nella cosa donata” (Mauss 2000, 158) la quale costringerebbe di fatto il donatario a ricambiare il dono. Non rimettere in circolo un tale dono è infatti pericoloso, in quanto implicherebbe trattenere presso di sé una parte del donatore che ancora può avere un influsso sul donatario. In tal senso, se non si corrisponde il dono, la perdita del donatario può essere più grave di quella del donatore. Senza entrare nei dettagli, è importante notare come, a partire da questa prospettiva, il dono può funzionare assolvendo al suo importante ruolo sociale solo se la cosa donata contiene qualcosa del donatore, della sua anima, vale a dire solo quando col dono di un oggetto di grande importanza il donatore stesso si compromette radicalmente. Queste dinamiche si lasciano descrivere in modo esemplare considerando la pratica del potlàc nord-americano e del Kula delle isole Trobriand. Parlando del potlàc Mauss attua ancora una fondamentale generalizzazione, designando con ciò un’ «istituzione che si potrebbe chiamare, con minore azzardo e con maggior precisione, ma anche più estesamente: prestazioni totali di tipo agonistico» (Mauss 2000, 163). In tale pratica, infatti, il donatore e il donatario tentano di superarsi l’uno con l’altro giungendo ad un estremo dispendio di beni. Ciò non significa che esso sia un gesto assurdo, in quanto tale pratica permette di definire in modo stabile il rango degli individui e dei gruppi in essa coinvolti sulla base della loro capacità di donare e contraccambiare. Secondo Mauss l’obbligo di dare è l’essenza del potlàc. Un capo deve dare dei potlàc, per se stesso, per il figlio, per il genero e per la figlia, per i suoi morti. Egli perde la sua autorità sulla tribù e sul villaggio, e anche sulla
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famiglia, perde il suo rango tra i capi […] se non prova di essere frequentato e favorito dagli spiriti e dalla fortuna, di essere posseduto da quest’ultima e di possederla; né può provare di possedere la fortuna, se non profondendola, distribuendola, umiliando gli altri, mettendoli all’ombra del suo nome (Mauss, 2000, 217).
Chi non è in grado ci contraccambiare in eccesso, si subordina e accetta di «diventare cliente o servo, farsi più piccolo, cadere in basso (minister)» (Mauss 200, 281). Con il potlàc si manifesta dunque in modo esemplare l’ambivalenza del dono che, da un lato, si sottrae a logiche di tipo economico ma, dall’altro, svolge pur sempre una funzione utile all’interno della società. Se su questa apparente contraddizione, come vedremo, si soffermerà in seguito buona parte della riflessione filosofica sul tema del dono, per Mauss è però soprattutto importante tener ben ferma l’idea secondo cui la vita sociale si regge in ultima istanza su meccanismi che non sono del tutto riducibili a principi economici. La riflessione antropologico-culturale sul dono, testimoniando la necessità sociale di scambi che non sono di natura eminentemente commerciale, lascerebbe cioè percepire l’importanza di non assolutizzare la sfera dei valori e dei principi economici estendendola ad ogni ambito del vivere comune. L’indagine sul dono offre così a Mauss l’occasione di articolare un orizzonte di senso all’interno del quale comprendere e legittimare lo sviluppo del moderno welfare state e, non a caso, la parte finale del Essay tenta di delineare alcuni fondamentali correttivi che le società capitalistiche dovrebbero ritener plausibile accogliere, qualora fossero in grado di comprendere che la comunità non si fonda solo sul leggi di tipo economico e sul materialismo egoistico del singolo. In vista di tale impiego della teoria antropologica in chiave critico-sociale, Mauss è anche pronto a mettere in discussione quelli che paiono essere gli estremi distruttivi e destabilizzanti del potlàc. Questa scelta apparentemente arbitraria di limitare la portata normativa dell’esempio delle società arcaiche escludendo gli aspetti di queste che poco si confanno al proprio ideale di vivere comune, potrebbe però essere dovuta soprattutto al fatto che il Tale funzione critica della considerazione del dono è ben presente in autori come Alain Caillé, Jacques Gobdout e Serge Latouche. Tra le opere più rappresentative di questi volte a delineare un nuovo ideale socio-economico sulla base del modello del dono possiamo ricordare Caillé 1991 e 1998; Godbout 1998a e 1998b; Godbout / Caillé 1993; Latouche 2000a e 2000b.
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potlàc di cui Mauss ci parla non è poi veramente un fenomeno così ‘arcaico’. Va infatti considerato che la manifestazione estremamente distruttiva del dono agonistico non interessa il potlàc in quanto tale, ma solo la concreta forma assunta da esso ai tempi in cui Franz Boas, sui cui referti si basa la teoria di Mauss, aveva potuto osservarlo. Boas considera infatti tale fenomeno in un momento in cui la popolazione dei Kwakiutl è portata a svilupparne una forma esasperata; in seguito al crollo demografico e alla nascita di nuove e redditizie attività produttive che conferiscono ad alcuni membri della società un nuovo tipo di prestigio basato sulla ricchezza, il potlàc diviene il sostituto, la sublimazione di uno scontro violento – il governo del Canada aveva di fatto proibito le guerre tribali – attraverso il quale i capi tradizionali lottano per il proprio riconoscimento dinnanzi ai nuovi ricchi. Questa versione estrema e spesso distruttiva – anche il potlàc stesso diverrà oggetto di proibizione da parte del governo canadese –, pur destinata ad assumere un carattere esemplare per la riflessione filosofica sul dono, non rappresenta quindi niente di originario o tanto meno di universale, ma è piuttosto il risultato di un problematico incontro tra le strutture sociali di una civiltà arcaica e le forme di produzione e di esercizio del potere dei colonizzatori. Proprio in considerazione di ciò è lecito chiedersi quale legittimità abbiano i tentativi di generalizzare queste considerazioni antropologico-culturali in una chiave etico-politica.
2. Potlàc ed ‘economia generale’
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roprio il fenomeno del potlàc riveste un ruolo centrale nel tentativo di Georges Bataille di descrivere un’economia generale del dispendio, di cui la consueta economia dell’utile e del profitto, in cui si risolvono gli sforzi quotidiani dell’uomo come essere che lavora e produce, rappresenterebbe solo una manifestazione parziale. Bataille interpreta il potlàc privandolo di ogni ambiguo residuo di razionalità utilitaristica ed assimilandolo ad una forma di sacrificio, fenomeno a cui lo stesso Mauss aveva dedicato uno studio importante. Potlàc diviene un concetto limite per rendere una serie di comportamenti ca Un ampio resoconto dei cambianti demografici e sociali che investono il popolo dei Kwakiutl proprio al tempo delle osservazioni di Boas è dato in Mauzé 1986. Cfr. Bataille 1991, 1995 e 2000. Hubert / Mauss 1981.
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ratterizzati da un dispendio assolutamente gratuito di beni ed energie. Come il sole, che effonde energia gratuitamente – tale metafora è fondamentale per Bataille come già per Nietzsche, autore che insieme ad Hegel segna in modo decisivo il suo orizzonte filosofico –, così l’uomo necessita secondo Bataille di creare una sorta di bilanciamento tra il momento della produzione, del risparmio, della razionalizzazione e dell’efficienza da un lato, e quello del dispendio fine a se stesso, dello spreco e del lusso dall’altro: L’attività umana non è interamente riducibile a processi di produzione e di conservazione, e il consumo deve essere diviso in due parti distinte. La prima, riducibile, è rappresentata dall’uso del minimo necessario, agli individui di una data società, per la conservazione della vita e per la continuazione dell’attività produttiva: si tratta dunque della condizione fondamentale di quest’ultima. La seconda parte è rappresentata dalle spese cosiddette improduttive il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di monumenti santuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità genitale) rappresentano altrettante attività che, almeno nelle condizioni primitive hanno il loro fine in se stesse (Bataille 1991, 6).
Proprio con l’atto sacrificale sarebbe dunque possibile, secondo Bataille, sottrarre l’oggetto sacrificato a quella dimensione quotidiana dell’utile e dal commercio, in cui le cose intrattengono con gli uomini un puro rapporto strumentale e si mostrano come semplicemente ‘a disposizione’. Nel corso del sacrifico esse si rendono non più profane ma sacre e questo sacralizzare è di fatto inseparabile dal donare, dal momento che, pur se Bataille si mostra spesso affascinato dalla crudeltà del gesto sacrificale, per lui il «sacrificare non è uccidere, ma abbandonare e donare» (Bataille 1995, 43). Rendendo le cose sacrificate ‘sacre’, vale a dire sottraendole al circuito dei beni economici e ponendole quindi come non più avvicinabili in un rapporto di mero utilizzo, il sacrificio dona loro una nuova natura e dischiude al sacrificante un nuovo modo di entrare in relazione con le cose stesse, una relazione caratterizzata da una certa forma d’«intimità» (Bataille 2002, 68). Questa intimità rappresenta per Bataille il carattere fondamentale della originaria relazione dell’uomo con il mondo, che resta irripetibile fintanto che perduri il consueto commercio con le cose, in quanto questo si basa su una considerazione di queste incentrata sul meccanismo della rappresentazione e sulla costituzione di una trascendenza mondana articolata attraverso le categorie di soggetto ed
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oggetto. Senza il rito, però, la riconquista di una intimità con ciò che è immanente non sembra possibile, come già osservano anche Hubert e Mauss (1981, 19), è nell’atto cerimoniale che si dà una vera e propria trasformazione del sacrificante attraverso la sua identificazione col sacrificato. In tal senso la ripresa delle idee di Mauss risulta in Bataille funzionale allo sviluppo di una forma di religiosità solo apparentemente nuova, ma di fatto vicina a un modo di sentire arcaico. I fenomeni del dono e del sacrifico offrono dunque a Bataille dei punti di vista privilegiati per intendere una relazione primigenia dell’uomo con la natura che, nel corso della civilizzazione, sarebbe andata perduta. Si tratta insomma di sviluppare una nuova forma di ‘autocoscienza’ e insieme ad essa una religiosità dell’immanente in cui l’uomo possa avvertirsi come parte della natura senza pensarsi più come soggetto. La riflessione di Bataille sul sacrifico e sul dono stravolge in tal modo gli interessi originari del discorso maussiano, esasperando la natura puramente anti-economica di tali fenomeni e riconoscendo in essi un’occasione di trasformazione della propria immagine di sé e del mondo; nel contempo, però, egli pretende di sostenere, come già Mauss, l’idea secondo cui certe prassi antieconomiche rappresentino la condizione di possibilità della salute sociale e culturale di una comunità. Alla giustificazione dello stato sociale nell’ottica del dono proposta da Mauss si sostituisce ora una legittimazione del lusso e dello spreco che, nonostante la forte carica mistica di molte pagine di Bataille, possono suonare molto poco sovversive nella odierna società dei consumi.
3. Il dono tra decostruzione e fenomenologia
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l saggio di Mauss sul dono è fatto oggetto del procedere decostruttivo di Jacques Derrida nel suo Donner le temps del 1991. Mentre in Bataille osserviamo di fatto l’esasperazione di un singolo aspetto del discorso maussiano – quello del potlàc – nell’opera di Derrida si pretende invece di mostrare come Mauss resti incurante di un vero e proprio paradosso del dono. Nel momento in cui infatti Mauss ne fa qualcosa di assimilabile ad uno scambio ne banalizzerebbe la componente puramente disinteressata e gratuita; ciò, però, non dipenderebbe solo da un’eccessiva economicizzazione del concetto di dono che caratterizzerebbe l’approccio di Mauss, ma sarebbe di fatto il risultato di ogni parlare del dono e sul dono, che rendendolo manifesto, aporeticamente, lo nega.
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Rendere un dono manifesto significa per Derrida suggerire già l’opportunità di una certa reciprocità, la quale parrebbe però ridurre il dono a un semplice scambio. La reciprocità resta certo la dimensione in cui ordinariamente noi pensiamo il dono e anche Derrida ammette che non si può prescindere da essa per dare principio alla comprensione di tale fenomeno; in tal senso la reciprocità è quindi la condizione di possibilità e, nel contempo, d’impossibilità del dono. Già il suscitare un sentimento di gratitudine è troppo per la natura fragile e volatile del dono autentico. Il dono deve restare irriconoscibile e, addirittura, inconsapevole, e ciò vale, innanzitutto, proprio per il donatore, per il quale il dono rischia facilmente di diventare l’origine di un certo autocompiacimento narcisistico. Forme di dono consapevole e compiaciuto presuppongono del resto una concezione del soggetto come sostanza autocosciente dotata di un’identità stabile e assolutamente definita per Derrida rappresenta solo un’illusione metafisica. L’ambivalenza e l’aporeticità del dono sono del resto percepibili, secondo Derrida, anche nel doppio significato di gift, che, oltre che dono, è anche veleno, in quanto nell’atto di beneficiare un donatario si crea in lui un senso di dipendenza o di inferiorità. Il dono di Derrida vive nell’aporia, in quanto non appena il donare si fa consapevole, esso va perduto. In tal senso il donare implicherebbe sempre un ‘dare ciò che non si possiede’, dal momento che noi non consideriamo un dono il semplice privarci di qualcosa che non ci serve e che potremmo anche non possedere. Non l’identità ma la differenza risulta intrinseca alla logica del dono. Mauss non è tuttavia per Derrida solo il propagatore inconsapevole delle aporie del dono e quindi di un radicale fraintendimento della sua natura antieconomica; egli avrebbe infatti già sottolineato un aspetto del donare, quello dello iato temporale tra dono e contraccambio, che anche Derrida ritiene essenziale per comprendere la natura di tale fenomeno. Mauss, infatti, riconosce che il dono implica sempre un termine, una scadenza entro la quale il donatario deve contraccambiarlo. Tale differimento, che si accompagna di necessità alla nozione di dono, implica per Derrida già una specifica forma di temporalità, un ‘temporaggiamento’, nel senso che «la differenza tra un dono e ogni altra operazione di scambio puro e semplice, è che il dono dona il tempo» (Derrida 1991, 44). Il dono può darsi dunque solo come evento che inserisce una cesura nel tempo finora inteso soltanto come unità puramente cronologica dell’accadere.
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La ricerca di una purezza assoluta del dono porta Derrida in definitiva assai lontano dalla trattazione di Mauss che, non si dimentichi, era dedicata innanzitutto al dono cerimoniale e non al concetto di puro dono in senso etico-morale. La performance filosofica di Derrida ha l’indiscutibile merito di lasciar percepire un’eticità del dono prima di ogni sua moralizzazione, invitando a considerare l’evento della pura donazione come il luogo originario che precede le nostre distinzioni morali tra bene e male e che, proprio per la sua aporeticità, è in grado di suscitare una radicale inquietudine. Proprio un tale stato d’animo rende possibile un agire autenticamente etico, vale a dire tale da non riposare sulla certezza di una norma o di un metodo tecnico su cui basare le nostre scelte. Resta tuttavia legittimo chiedersi se un tale ideale di dono inconsapevole di sé e orientato a dare ciò che non si ha, sia qualcosa di universale e possa legittimamente farsi il metro di giudizio da applicare alle manifestazioni extraeuropee della donazione indagate dall’antropologia culturale, le quali prescindono di fatto dall’ideale derridiano di dono, i cui presupposti vanno ricercati nella tradizione giudaico-cristiana. Ciò nonostante, anche altri autori hanno tentato di cogliere in una tale concezione filosofica del dono una portata universale. Proprio prendendo atto delle diverse aporie del dono riconosciute da Derrida e distaccandosi in modo analogo dall’intento originario di Mauss, Jean-Luc Marion, in Étant donné, sviluppa una rigorosa trattazione fenomenologica del donare nel corso del quale tale fenomeno viene a coincidere con una modalità fondamentale del nostro fare esperienza del mondo. A tal scopo Marion introduce una distinzione tra dono e donazione, termine con cui, giocando sull’ambiguità del termine francese donné, vuole indicare che l’originario darsi dei fenomeni è di fatto interpretabile come un donarsi delle cose alla nostra intenzionalità. Prima di ogni concreta pratica sociale del dono, la donazione è quindi il concetto fondamentale della fenomenologia, il concetto che “le apre tutto il campo della fenomenalità”, dal momento che «niente appare se non donandosi ad uno sguardo puro, e dunque il concetto di fenomeno equivale esattamente a quello di una donazione di sé in carne e ossa; la messa in scena del fenomeno si gioca come la rimessa di un dono» (Marion 2001, 30). Che la Gegebenheit di Husserl possa essere resa effettivamente come una forma di donazione risulta evidente dopo una serie di riduzioni fenomenologiche della nostra esperienza del dono, tali da permettere di comprendere che la donazione, anche
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lì dove non è individuabile né una figura di donatore né una di donatario, segna fondamentalmente la nostra esperienza della realtà. In questa prospettiva diviene possibile ripensare anche il soggetto e la sua vita etica. Per Marion una fenomenologia della donazione renderebbe infatti avvertibile un certo senso di responsabilità morale a cui sarebbe di fatto impossibile sottrarsi. Tale idea richiama in qualche modo l’idea levinasiana di una responsabilità di cui siamo ostaggi e non signori, con la differenza decisiva, che per Marion la responsabilità non è più qualcosa di originariamente iscritto nella nostra esperienza dell’altro, perché ancor più originaria risulta essere l’esperienza della donatezza dell’essere, la quale impronta in modo decisivo la stessa esperienza dell’altro.
4. Il dono del riconoscimento
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na ripresa più diretta della teoria del dono di Mauss che ne mantiene ben fermo il significato antropologico senza per questo rinunciare a trarne importanti implicazioni filosofiche è quella dell’antropologo e filosofo Marcel Hénaff. Nel suo libro del 2002 Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, Hénaff ricollega la domanda sulla natura e il senso del lavoro filosofico a quella sulla funzione del dono nelle società arcaiche. Il filosofo del mondo antico, Socrate in particolare, diventa la figura concettuale intorno a cui si articola l’idea che un certo tipo di beni, tra questi la verità filosofica, non possano aver un prezzo e debbano quindi comunicarsi solo attraverso una sorta di dono. Hénaff ricostruisce attentamente la tradizione di tale discorso sulla natura della verità filosofica e mostra come esso sia parte di una più ampia dinamica di riconoscimento a cui il filosofo non può sottrarsi. Hénaff ribadisce con decisione che tale prassi non è mai assimilabile ad una sorta di economia e non si allinea in tal modo alla critica di Derrida della nozione maussiana di dono. Che in Mauss si dia esplicitamente un enigma del dono non significa quindi che egli resti invischiato in aporie; piuttosto egli avrebbe ben presente il fatto che il dono cerimoniale è sempre sospeso tra economia e anti-economia, senza che per questo debba venir pensato e giudicato attraverso le categorie del puro dono morale. Il riconoscimento che lo scambio di doni permette è simile a quello che anche per Alcune analogie si ritrovano nella prospettiva sul rapporto tra dono e filosofia sviluppata in Tagliapietra 2009, dove però non si fa riferimento all’opera di Hénaff.
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Mauss si dà allorché il donare consente di sancire lo stato sociale del donatore e del donatario. Tale riconoscimento è presentato da Hénaff in antitesi alla dinamica del riconoscimento hegeliano, in quanto non ne presuppone la tragica conflittualità. Essenziale resta il fatto, come già indicava lo stesso Mauss considerando il ruolo della mentalità magica nel processo di donazione, che nel dono venga messo in gioco qualcosa in cui ne va della persona del donatario, e che quindi sia tale da generare nell’altro un obbligo al contraccambio. Il riconoscimento del filosofo, almeno nel mondo antico, dipende dal fatto che egli dona qualcosa che non possiede, e per la quale tuttavia è disposto a mettere in gioco la propria vita. Egli dona un sapere, una verità, che è presentata come qualcosa che gli giunge da una dimensione superiore e che dunque egli riceve senza poter mai veramente contraccambiare. Per questo egli può solo donare e non vendere, almeno finché egli non si faccia sofista. La critica socratica e platonica dei Sofisti presuppone quindi una concezione teologica della conoscenza che si nutrirebbe della logica arcaica del dono cerimoniale. Nel dialogo del filosofo con i suoi discepoli si mette in gioco qualcosa di decisivo che tuttavia non può essere veramente posseduto, ma solo rimesso continuamente in circolo, nel complesso di un mutuo scambio di doni e di riconoscimento. È quindi la storia del pensiero filosofico ad offrire ad Hénaff l’esempio concreto di una dinamica sociale che non può ridursi a un mero scambio economico e che piuttosto si lascia comprendere meglio a partire dalla logica del dono. Come Mauss, che al termine del suo saggio delineava alcune possibili conseguenze etico-normative della sua ricostruzione del dono cerimoniale, anche Hénaff si chiede infine se sia possibile individuare un principio sulla base del quale si possa distinguere, nella prassi concreta, tra beni commercializzabili e beni che non hanno prezzo, ovvero se sia possibile individuare forme di scambio in cui ne va solo di un riconoscimento reciproco. Secondo Hénaff non pare possibile risolvere tale problema rimandando semplicemente al consenso di una certa comunità, ovvero alla possibilità di determinare in una discussione pubblica ciò che si deve valutare da un punto di vista economico e ciò che invece si presta ad essere apprezzato da altre prospettive. Un tale tentativo non risolverebbe veramente il problema, perché rimanderebbe soltanto alla domanda su quale sia il criterio in base al quale ognuno, all’interno della comunità, sostenga la legittimità o meno della commercializzazione di determinati beni. Se in generale non è dunque possibile individuare un criterio oggettivo per una tale distin-
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zione, secondo Hénaff non resta altra via percorribile se non quella di accentuare il carattere intrinsecamente etico di una certa esperienza dell’altro. Se si prende atto del fatto che il dono cerimoniale è effettivamente scomparso dalla nostra società e se la sua funzione deve tuttavia venir svolta da qualcosa di diverso, allora il riconoscimento e il rispetto, che non sono acquistabili attraverso denaro ma nemmeno più acquisibili nel corso di una donazione cerimoniale, devono trovare il loro luogo originario in quell’esperienza del volto altrui nel corso della quale, secondo Levinas, si rende perspicua l’irriducibilità dell’altro. Restando nel più ampio orizzonte della riflessione filosofica sul dono, tale indicazione di Hénaff potrebbe forse venir ben completata da alcune delle suggestioni di Bataille, che pure per il discorso di Hénaff gioca un ruolo del tutto secondario: nel momento in cui, nel corso dell’esperienza del volto altrui, noi siamo in grado di percepire l’altro nella sua irriducibile alterità, proprio in tale momento lo sottraiamo alla dimensione dell’utile e dell’economico, entrando in una nuova intimità con lui e sacrificando anche qualcosa di noi stessi e della nostra libertà di soggetti autonomi, dal momento che diveniamo ostaggi del senso di responsabilità che l’altro suscita in noi.
Conclusione
Q
uesti diversi percorsi di pensiero testimoniano l’estrema ricchezza e vitalità delle ricerche di Mauss sul dono cerimoniale. Al di là della questione di quale approccio filosofico sia più adeguato a sviluppare tale concezione, sembra importante porre la domanda intorno al particolare nesso tra antropologia ed etica che in tutti gli autori presi in considerazione, pur con accenti molto diversi, emerge. Il discorso maussiano sul dono potrebbe essere accusato, infatti, di restare ingenuamente vittima di una sorta di fallacia naturalistica, allorché sembra suggerire che, se una certa pratica del donare risulta essere qualcosa di originario e naturale, allora devono acquisire legittimità quelle istituzioni che alla funzione di tali pratiche suppliscono. D’altra parte, però, l’antropologia del dono di Mauss potrebbe anche essere intesa come un limpido esempio di genuino esercizio genealogico applicato alle nostre pratiche sociali e ai nostri discorsi morali. Se per Nietzsche la genealogia autentica doveva essere in qualche modo ‘grigia’, vale a dire documentaristica, capace di fornire indicazioni concrete del carattere derivato della nostra morale, allora niente più
Cfr. Nietzsche 2007, Prefazione.
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dello studio maussiano, così ricco di osservazioni empiriche, linguistiche e storiche, potrebbe venir considerato come un caso esemplare di lavoro genealogico. È forse proprio questa ennesima ambiguità del discorso sul dono di Mauss a rappresentare un’ulteriore sfida per il pensiero filosofico, una sfida che in parte attende ancora di essere raccolta. Bibliografia Bataille, G. (1991), La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino [La part maudite, Les Éditions de Minuit, Paris 1949]. Bataille, G. (1991), La nozione di dépense, in: Id., La parte maledetta, Bollati Borinhieri, Torino 1991, 3-22 [La notion de dépense, in «La Critique sociale», gennaio 1933, n. 7]. Bataille, G. (1995), Teoria della religione, SE, Milano [Théorie de la Religion (1962), in Id., Œuvres complètes, 12 voll., Gallimard, Paris 1970-88, vol. VII]. Bataille, G. (2000), Il limite dell’utile, Adelphi, Milano [La limite de l’utile (1939-1945), in Id., Œuvres complètes, 12 voll., Gallimard, Paris 1970-88, vol. VI]. Boas, F. (1970), The Social Organization and the Secret Societies of the Kwakiutl Indians, in Report of the U.S. National Museum for 1895 [1897], Johnson, New York. Caillé, A. (1991), Critica della ragione utilitaria: manifesto del Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali, Bollati Boringhieri, Torino [Critique de la raison utilitaire: manifeste du Mauss, Éditions la Découverte, Paris 1989]. Caillé, A. (1998), Il terzo paradigma: antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino [Anthropologie du don: le tiers paradigme, Desclée de Bouwer, Paris 2000]. Derrida, J. (1996), Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina, Milano [Donner le temps, Éditions Galilée, Paris 1991]. Fournier, M. (1994), Marcel Mauss, Fayard, Paris. Godbout, J.T. / Caillé A. (1993), Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino [L’esprit du don, Editions La Découverte, Paris 1992]. Godbout, J.T. (1998a), Il linguaggio del dono, con un intervento di A. Caillé, Bollati Boringhieri, Torino [Le langage du don, Éditions Fides, Montréal 1996].
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ul ciglio di ogni sentiero della filosofia del nostro tempo, accanto ai cartelli che indicano le vie auspicabili da seguire, i percorsi sicuri e le piste battute dal rigido monopolio accademico, una segnaletica rossa, allarmante e triangolare chiude altrettante strade, di certo un tempo percorse, ma ormai inselvatichite. Dal lato analitico della mappa, il divieto di incanalarsi in un discorso metafisico sul mondo come totalità, su ciò che nel linguaggio si rispecchia senza potersi rappresentare, sul momento pragmatico che cade fuori dal quadro; da quello continentale, il rifiuto di arenarsi in sterili formalismi e di fare del soggetto un’entità anonima e impersonale. Il versante etico è costeggiato dal burrone della fallacia naturalistica, in cui si precipita saltando dall’essere al valore. L’itinerario formalistico sbarra con gli imponenti principi di terzo escluso, di non contraddizione e di identità elementare i vicoli ciechi delle aporie. Ai confini epistemologici con la scienza, si circoscrive con la recinzione del realismo quanto eccede il regno della natura; a quelli con la linguistica, si ghettizzano gli usi metaforici e poetici del linguaggio; alle frontiere con l’antropologia e la psicologia, si accusano di inesistenza esseri che in chissà quale modo agiscono, invisibili e presenti. E quasi ogni pellegrino che si trova a esplorare queste lunghe vie soffre di allergia alla circolarità e ai regressi all’infinito. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. Per lo meno restando al di qua dello specchio. Se c’è qualcosa di cui non si può parlare, ciò è segno di un’avvenuta rimozione. In questo caso la politica del tacere diventa sospetta, poiché è tacciabile di collaborazionismo. Occorre invece parlare proprio di ciò di cui ci sembra di dover tacere (Melandri 2005, 162).
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0. Schizofrenia del senso Il progresso ha un prezzo: accanto all’accumulo di conoscenza, esso porta con sé un equivalente accumulo di rimozioni. Come nella relazione figura-sfondo, per mettere a fuoco la figura dobbiamo astrarre dallo sfondo, rimuovendolo dallo sguardo tematico, così in ogni conoscenza qualcosa rimane in sottofondo, in condizione di anonimato, rimosso di necessità. Secondo Melandri, «l’oggettivazione dell’esperienza, la subordinazione della fenomenologia all’ontologia, va di pari passo con la rimozione dell’atteggiamento ermeneutico» (ivi, 772): il sapere cristallizzato in una teoria porta con sé, lasciandolo in ombra, il movimento interpretativo da cui è emerso. Ciò che viene rimosso dal nitido focus gnoseologico comunque è ed è attivo: per questo «la storia del pensiero moderno richiede l’archeologia del “non pensato”, ma che come tale ha tuttavia “agito”, sebbene in modo inconsapevole o addirittura rimosso subito dopo il primo albeggiare della coscienza» (Melandri 1969, XIV). Nato a Genova nel 1926, Enzo Melandri si laurea a Bologna nel 1958, accompagnato da Felice Battaglia in una tesi su Husserl e la filosofia della storia. Dopo un periodo di lettorato a Kiel, insegna un anno a Lecce, per trasferirsi infine in pianta stabile, nel 1963, all’ateneo di Bologna, dove fonda la rivista che oggi reca il nome Discipline filosofiche. Tra il ’70 e il ’72, assieme a Calvino, Celati, Ginzburg e Neri, partecipa all’ideazione della rivista Apocripha (poi Alì Babà) la quale non ha mai visto le stampe: il punto di riferimento doveva essere l’archeologia firmata da Melandri, differente sotto alcuni aspetti dal metodo archeologico di Foucault, da cui comunque il nostro trae ispirazione. L’archeologia francese si definisce per contrasto con la storia, per la quale la discontinuità costituisce a un tempo il dato e l’impensabile, quanto chiede di essere interpretato al fine di restituire una percezione di continuità nel divenire storiografico; ponendo la priorità sul momento semiologico dell’episteme, che consente il recupero dei residui inesplicabili del discorso storico, Foucault affronta la stratificazione del sapere e ci racconta un’altra storia, quella delle discontinuità. L’archeologia italiana, al contrario, destruttura la logica del discorso storico che da lineare si fa ciclico: ponendo in primo piano l’istanza ermeneutica basata sul motivo tematico dell’analogia, Melandri riconosce l’eterno ritorno delle medesime aporie, le quali si sono cristallizzate in un angolo remoto della storia e sono rimaste attive sino ai giorni no-
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stri. La variazione del metodo archeologico offerta da Melandri non libera dall’illusoria percezione di una continuità degli eventi, ma dal cattivo passato che ritorna sotto falsi nomi e mentite spoglie; «interpretare vuol dire risalire dalla gnoseologia all’ermeneutica e questo si accompagna a un viaggio nel tempo: in quello individuale della regressione e in quello storico dell’eterno rimosso» (ivi, 552). Oltre all’archeologia, la produzione di Melandri spazia dalla fenomenologia all’epistemologia delle scienze umane, sconfina nell’ermeneutica, dissotterra l’intera situazione antropologica su cui si erge la logica, ritorna alla filosofia antica e avanza fino alla teoria della letteratura e alla linguistica; ma il nomadismo dell’autore non sta tanto nell’estensione sconfinata di interessi, quanto nelle agghiaccianti simmetrie che ne scandiscono il punto di vista. Nell’introduzione all’abissale opera La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia (1968), in cui Melandri rilegge l’intera storia della filosofia fiutando le impalpabili tracce dell’analogia, Agamben osserva come la cecità dell’accademia italiana abbia fatto passare nel più completo silenzio un capolavoro della filosofia contemporanea. L’assenza di un ambiente per la ricezione di un’opera che avrebbe potuto de-territorializzare la filosofia europea, contestando il dominio che la logica esercita sulla ragione, sulle conoscenze e sugli esistenti, e ri-territorializzarla su un altrove analogico, fenomenologico ed esistenziale, ha generato un «astro senza atmosfera»: «Melandri è qualcosa come un nuovo agrimensore, che ridisegna il catasto della terra philosophica non secondo nuovi tagli e nuovi confini ma aprendo fra questi nuove vie di fuga» (Agamben 2005, XII-XVI). Laddove la logica chiude con i suoi dualismi invalicabili, ponendo a destra la scienza e a sinistra l’arte per non incorrere in contraddizione e separando la dialettica dal suo contenuto per assorbirla nel pensiero formale, l’analogia riapre all’infinito ogni questione, ritrovando il passaggio sub-liminare implicito in ogni dualismo: restituisce alla scienza la sua poetica e all’arte la sua conoscenza e riporta in terra la dialettica ancorandola a una tematica concreta. In termini geografici, l’analogia apre quelle frontiere che nella logica conducono a vicoli ciechi: «l’Analogia confina a Sud con la Tematica e a Nord con la Dialettica; al centro, fra un Ovest che è la Scienza e un Est che è l’arte, essa è coinvolta in una lotta intestina con la Logica» (Melandri 2005, 3). Calandosi negli abissi filosofici de La linea e il circolo bisogna assaporare in che senso è utilizzato nel titolo l’aggettivo “logico”, poiché Melandri cerca di introdurre di soppiatto, sotto l’ideale di una
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razionalità progressiva, lineare e oppressiva, i segreti di un modo di pensare opposto alla logica, regressivo, ciclico e trasgressivo: «nel secolo dell’analisi, potevo io forse far passare un qualsiasi messaggio senza inserirlo clandestinamente nei codici del Discorso Autorizzato?» (ivi, 5). La novità di Melandri consiste in questo: invece di assumere la logica come criterio normativo per discriminare ciò che è razionale da ciò che non lo è, egli esplora l’illogico per mostrare come i suoi confini non coincidano con l’irrazionale; l’illogico contiene un momento pragmatico di razionalità che, per essere colto, richiede una modalità di pensiero non-logica. Ammettere che la logica e la razionalità non coincidano senza scarti è solo l’ingresso nella dimensione del pensiero analogico. Riconosciute la potenzialità del razionale illogico, rimane ancora da vedere come la logica, burattinaia invisibile, muova i fili del nostro pensiero. Dopo aver lavorato come perito chimico alla Snia Viscosa, Melandri approda alla filosofia e svela che uno dei motivi che lo spinsero a questo passo «fu la progressiva incapacità di accettare il disincantato realismo col quale persone adulte, peraltro stimabili, finivano con l’accettare senza contrastarlo il responso della propria esperienza» (Melandri 1989, 67). Secondo il filosofo, intendere la realtà come il correlato oggettivo del rapporto di conoscenza è un approccio disperatamente misero e riduttivo, poiché porta a una netta separazione tra pensiero e realtà, tra soggetto e oggetto. Il senso del reale, sclerotizzato dal dualismo, si fa diviso e frastornato, altalenante «tra la Scilla di un meccanismo incredibile e il Cariddi di un finalismo impraticabile perché tautologico» (ivi, 74). Oscillando tra i poli della dicotomia, ci areniamo in quello che Melandri chiama chiasma ontologico, l’alternanza di senso che il sentimento di realtà subisce nell’inversione simmetrica di prospettiva, saltando dall’ontologia del mondo a quella dell’io e delle sue manie: quanto più l’oggettivazione fisicalista dell’esperienza si estende illuminando nuove frontiere, tanto più la percezione soggettiva del reale si fa alienata e illusoria, squalificabile come imprecisa opinione; viceversa, quanto più i vissuti soggettivi sono sentiti come reali nella loro inalienabile concretezza, tanto più la realtà oggettivata si fa artificiosa e sospetta, lontana dai nostri fini pratici, nauseabonda nella sua contingenza e assoluta gratuità. Sottomessa al ritmo di un dualismo insormontabile, «la nostra concezione della realtà si palesa fondamentalmente schizofrenica per esser in se stessa motivata da due intenzioni opposte. Dalla somma di due assurdità contrapposte non si può certo sperare la felicità» (ivi, 68).
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1. La fenomenologia come empirismo radicale.
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l senso comune spoglia l’esperienza dai rischi dell’ignoto e la congela nell’abitudine: essa «non vuol dire altro che mantenere un indirizzo prudente» così che «il nostro atteggiamento di circospetta lungimiranza non potrà alla lunga che riscuotere conferme» (ivi, 59). Analogamente, in sede epistemologica, l’esperienza è colta in modalità estensionale, evento che rimanda a una realtà esteriore la quale, per essere conosciuta, richiede di essere depurata da colori, odori, sapori e da tutto quel che dipende dal soggetto. Allacciandosi a un’inespressa esigenza gnoseologica, rendere l’esperienza una fonte affidabile di conoscenza, l’epistemologia alimenta il dualismo tra il soggetto e l’oggetto, aggravando la schizofrenia del senso del reale. Nel criticare il concetto statico di esperienza, Melandri non fa l’occhiolino all’idealismo o al razionalismo: si tratta, come a suo avviso fecero James, Whitehead e Husserl in precedenza, di trasformare l’empirismo classico in un empirismo radicale, il quale «non deve ammettere nelle sue costruzioni alcun elemento che non sia direttamente sperimentato, né deve escludere da esse alcun elemento che sia invece direttamente sperimentato» (James 2009, 28). L’esperienza non è presa in accezione fisico-cosale, come avviene nella deriva naturalistica ed estensionale, che inasprisce la schizofrenia del senso, ma nel suo senso attuale di esperienza in divenire, con l’inclusione dei modi del soggetto: «l’esperienza non agisce solo in estensione, ma anche in intensione; se l’empirismo non è una teoria banale, esso deve fare dell’invenzione di nuovi codici una funzione dell’esperienza» (Melandri 2005, 47). L’inclusione del punto di vista del percipiente nel percepito è ciò che caratterizza l’ermeneutica, la quale «non è solamente l’interpretazione dei segni già costituiti e per cosi dire legalizzati dalla semiologia; ma è l’interpretazione che, presa in status nascendi, fa di ogni cosa un segno» (ivi, 661). Il divenire è creativo. Per l’empirismo radicale, la realtà non è un già-dato, ma un dadarsi, il suo senso risiede in un movimento, non in un dato precostituito; occorre quindi risalire le rimozioni implicite in ogni oggettivazione, riportando in luce il dinamismo interpretativo che condiziona silenzioso la nostra percezione del reale. La realtà è «un’investitura, un periodo d’iniziazione. Bisogna abituare il giovane ad afferrare gradatamente il senso della realtà» (Melandri 1989, 56). L’idea di un empirismo radicale orienta la filosofia di Melandri fin dall’esordio, Logica ed esperienza in Husserl (1960). Criticando
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l’opinione che fa della fenomenologia un modo di pensare avverso all’empirismo, Melandri oppone alla lettura “fasista”, che pone la successione dei momenti husserliani (platonico, psicologista, cartesiano, storicista) secondo l’ipotesi di uno sviluppo evolutivo del pensiero, un’interpretazione regressiva e ciclica, condotta in direzione ostinata e contraria rispetto alle maniere della logica e della storia, lineari e progressive. Rincorrendo il motivo tematico del rapporto tra l’idealità del formale e la realtà esistenziale, il cui nucleo problematico risiede nella dissonanza «tra l’apparente staticità delle forme e la reale temporalità dell’esperienza» (Melandri 1960, 7), Melandri sostituisce all’ordine lineare la penetrante visione di un eterno ritorno analogico della medesima questione, a cui lo scorrere del tempo cambia aspetto e intonazione, lasciandone inalterata la forma: «si tratta di far vedere la connessione che fenomenologicamente sussiste fra la logica e l’esperienza. Se si riesce a chiarire questo punto, tutti gli altri problemi trovano soluzione analoga» (ivi, 16). Melandri vuole riesumare il «segreto metodologico» che Husserl si è portato nella tomba, vale a dire la tecnica o, ancora meglio, il trucco, mediante il quale la nascente fenomenologia riesce a tenere assieme le sue due anime inconciliabili: quella logico-matematica, orientata a salvaguardare l’autonomia del formale e le sue eterne verità nei confronti di ciò che è fattuale e temporale; e quella psicologica, per cui reale è l’esperienza vissuta, intrinsecamente temporale, in cui risiede il fondamento soggettivo di ogni astrazione. Chiaro che in Melandri coabitano gli stessi demoni: per questo nel suo pensiero, a sua volta, torna l’intento di esplorare quel luogo oscuro e impensabile in cui si confondono la ragione e l’esperienza, la cui disorientante penombra lascia intravedere un gioco di analogie. Il segreto della tecnica fenomenologica risiede nel suo porsi come una psicoanalisi trascendentale, che risale la continua rimozione dei complessi operativi inconsci: «ciò dipende dall’inconsapevole processo di reificazione cui viene assoggettata l’esperienza, per cui le relazioni primarie si interpretano come “cose” e le relazioni secondarie come “meri pensieri”; fra le une e le altre si stende la regione inesplorata dell’“inconscio”» (ivi, 157). Riprendendo i termini della disputa degli universali, sganciati dal loro riferimento storico, per conferire unità di senso all’inevitabile nevrosi che accompagna ogni dualismo categorico, Melandri mostra come Husserl riesca a sfuggire al meccanismo chiasmatico, per cui l’oggettività acritica e sregolata va di pari passo
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con la perdita del significato esistenziale: o ammettiamo senza riserve che l’esperienza sia l’unica realtà, e allora i concetti che la rendono intelligibile sono flatus vocis (nominalismo), oppure attribuiamo realtà sostanziale all’universale, e allora l’esperienza perde ogni significato ed è ridotta a mera parvenza (realismo). La fenomenologia occupa la posizione intermedia del concettualismo, per la quale l’oggetto individuato nell’esperienza sub speciae universalis non è mai un dato, ma il prodotto di un’attività intenzionale: esso è dunque irreale, poiché trascende l’esperienza temporale verso l’eterno presente dell’ontologia, ma non è non-reale, poiché da tale esperienza comunque discende per opera di un’attività costitutiva e verso essa ritorna, per retroazione ciclica, imponendo il proprio principio di individuazione sul discernimento fenomenico. Il mondo diventa in tal modo una “cosa” tanto più esterna quanto più i nostri procedimenti di pensiero diventano inadeguati a coglierne il senso fenomenico. Non è il “mondo in sé” ad essere esterno, ma i grossolani schemi operativi con cui l’esperienza, mediante il vizioso “uso trascendentale” dei concetti, viene costantemente “reificata”. Questi processi di formazione concettuale, appunto perché operativi e non tematici, rimangono per lo più tacitamente presupposti in forma anonima, passiva e semiconsapevole (ivi, 37).
Superando il dualismo tra l’oggettività del formale e la soggettività esistenziale, che conduce alla dissociazione schizofrenica tra l’io e il mondo, all’assurdo divorzio tra l’attore e il teatro, Husserl regredisce alla matrice originaria, attualistica e intenzionale, anteriore alla distinzione tra l’oggetto e il soggetto, e pone le condizioni per un empirismo veramente radicale.
2. Inversioni
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’influenza di Husserl su Melandri è incontestabile, ma non possiamo identificare la filosofia del nostro con la fenomenologia: ne rimarrebbero esclusi il procedimento archeologico, la cui regressione non è né fenomenologica, né trascendentale; la critica all’egemonia del simbolico, che esige il passaggio dalla fenomenologia all’ermeneutica; e il simpatico alter-ego di Melandri, l’Anonimo Salisburghese, incaricato di sobbarcarsi la fatica di ripensare le stesse cose da un punto di vista antitetico rispetto al suo.
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Melandri parte sempre da “presupposti” fenomenologici, i quali si caratterizzano per l’“essere-privi-di-presupposti”, nel senso che la fenomenologia tematizza lo stesso atto di presuppore, riconoscendo se stessa come un prodotto storico. Ma in Melandri l’assenza di presupposti non consiste in uno svincolamento assoluto dal proprio passato, in stile cartesiano, né in una messa tra parentesi del pregiudizio naturalistico, destinato a isolare una coscienza pura, residuo di ogni epochè; rimanda semmai alla storia critica, nel senso offerto da Nietzsche nella “seconda inattuale”, in cui affondano i rizomi dell’archeologia. La storia critica ha il compito di pensare il passato contro il presente e a favore di un tempo a venire, evitando però la presunzione di potersi liberare da un passato che sempre e comunque ci appartiene «perché noi ora siamo i risultati di precedenti generazioni, siamo anche i risultati dei loro smarrimenti, passioni, errori, anzi crimini; non è possibile liberarsi totalmente da questa catena» (Nietzsche 1993, 350). Anche l’eccesso di storia critica, la presunzione di un punto di vista assolutamente privo di presupposti, è malattia storica. L’utilità alla vita della storia critica si esprime nella liberazione dall’illusione di essere liberi, nella presa di coscienza del tacito condizionamento che ci agisce. L’archeologia, mediante la regressione dall’ontologia alla fenomenologia, recupera quanto agisce nella prassi senza essere tematizzato e ha quindi il compito di liberare il pensiero dal quel che esso pensa silenziosamente, dall’assuefazione all’abitudinario che produce anonime rimozioni. Il concettualismo, la tematizzazione del momento operativo implicito a oggetti e concetti, che rivelano così la propria rimossa temporalità, sfocia in Melandri nella pragmatologia la quale, coniugando dialettica marxista e fenomenologia, ribalta l’abituale connubio tra il materialismo dell’oggetto e l’idealismo della prassi, tra le oggettivazioni ricevute come garantite dalla propria tradizione e l’ideale di un metodo scientifico che garantisca quelle stesse oggettivazioni. La tradizione ha un prezzo: essa consegna prodotti conclusi, astraendoli dal movimento genealogico da cui sono emersi. Scambiando le astrazioni per cose concrete, si cade nelle concretezze mal-poste, contro le quali la filosofia si pone come critica dell’astrazione (l’astratto non spiega, va spiegato): la fenomenologia, immergendo il punto di vista nell’esperienza in atto, scopre l’idealismo dell’oggetto, ossia «che a ogni oggettivazione corrisponde un momento costitutivo d’idealità, di oggettività surrettizia, convenzionale, una specie di fictio iuris».
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Staccando il prodotto dalla produzione, si cade nelle oggettivazioni mal-poste, contro le quali la filosofia si pone come pratica della dis-oggettivazione dei valori: la dialettica ritrova il valore dell’oggetto reificato nella possibilità di riattivarlo, reintegrandolo nel processo, e porta a «fondare il materialismo non sull’oggetto, bensì sulla prassi, sulla concreta, reale, sensibile attività umana» (Melandri 1983, 111-117). La pragmatologia coniuga dunque l’idealismo dell’oggetto al materialismo della prassi, ritagliando nello spazio inesplorato tra scienza e politica il luogo della filosofia; più che una teoria, essa è una proposta per una diversa concezione del mondo. Postulato fondamentale della fenomenologia è l’impossibilità di un’individuazione perfetta, motivo che conduce alla critica del principio logico d’identità elementare e della posizione ontologica per cui non vi è entità senza identità. Ma se per Husserl l’individuazione è il fine ideale dell’attività intenzionale, per Melandri essa consiste nel potere che ha l’ontologia di retroagire ciclicamente sui presupposti fenomenologici dell’esperienza pura, orientandoci a percepire oggetti, piuttosto che divinità omeriche, e solo quegli oggetti legalizzati dal sistema semantico ereditato. Come per Whitehead, il problema della percezione e quello del potere sono un unico e medesimo problema. Rendersi conto dell’impossibilità dell’individuazione dinanzi all’incontestabile divenire esistenziale porta a emanciparsi dall’egemonia che la “logica del nome” esercita sul pensiero, obbligando a intendere gli esistenti in termini di entità atomiche, univocamente denotabili, e a riscoprire le altre modalità semiologiche in autonomia dal predominio sostantivale. La semiologia del nome presuppone una logica identitaria, per cui chiamando “cavallo” diverse entità individuali le riconosciamo, malgrado piccole differenze, come eguali. L’identità richiede a sua volta una logica binaria, del sì-o-no: ogni x è un cavallo, oppure non lo è, tertium non datur. La logica del nome conosce solo la bipartizione. Al contrario, una semiologia aggettivale, d’ispirazione analogica, ammette la dimensione della gradualità: l’azzurro sfuma nel verde e nel viola e può essere più-o-meno intenso, per cui include il diverso come misura di sé. Nella pragmatologia, le semiologie non sostantivali trovano il dovuto riscatto, per questo essa racchiude un’inedita concezione del mondo; come insegna Feyerabend, ogni grammatica contiene una cosmologia. È soprattutto per quest’ultima ragione che non possiamo etichettare Melandri come “fenomenologo”. La semiologia sottesa agli usi linguistici nominali costituisce uno degli scotomi del nostro tempo,
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dal quale Melandri cerca costantemente di riscattarci: sarebbe quindi buffo appellarci alla filosofia del nostro abbracciando un modo simbolico di usare e intendere i segni, da cui quello stesso pensiero vorrebbe emanciparci, mostrando l’esistenza di altre modalità semiologiche e di altri modi del pensiero! Non troveremo mai negli scritti di Melandri esplicite affiliazioni alla corrente fenomenologica, per quanto i suoi titoli ci suggeriscano questa facile conclusione; al limite, l’autore ci informa della propria indigestione, «dovuta a una dieta troppo prolungata e uniforme a base di fenomenologia e percezione figurale per contorno» (ivi, XIII).
3. Epistemologia nomade
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assando per l’empirismo radicale, Melandri sostituisce allo sguardo sedentario della gnoseologia, il punto di vista errante dell’ermeneutica: ogni questione semantica regredisce all’inesauribile dinamismo interpretativo implicito nella prassi conoscitiva, alle metafore assolute che costituiscono l’orizzonte di senso entro cui i concetti subiscono le proprie variazioni analitiche. Mentre nella semantica vige il principio restrittivo dell’univocità del significato, l’attività interpretativa è governata dal criterio della poli-semiosi: in sede semantica tutto ciò che non è univoco è equivoco, vale a dire non senso. Invece in sede ermeneutica non è detto che lo sia; anzi, al limite non lo è mai, poiché ogni equivocità può rappresentare un polisenso, ossia un punto di accumulazione di significati inesauribili per trascrizione discorsiva (Melandri 2005, 75).
Per la semantica il fenomeno è univocamente determinato, dato di fatto oggettivo o impressione soggettiva: questo dualismo è «inevitabile solo se si parte dal confronto dei prodotti prescindendo dalle operazioni di cui sono il risultato» (ivi, 771). Per l’ermeneutica, che risale dalla superficie del concetto alla sottostante prassi interpretativa, «ogni fenomeno è per principio sia primario sia secondario, e ciò in un duplice senso: secondo che l’indice di realtà si sposti su quel che si vede o su quel che si guarda nello specchio fenomenico» (ivi, 273). I pensieri sono fatti della stessa materia di cui sono fatte le cose. Tra semantica ed ermeneutica non si da dualismo categorico poiché la loro differenza non è ontologica, bensì semiologica, riguarda il modo di usare e intendere i segni: per la semantica il segno è sim-
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bolo che rappresenta convenzionalmente la realtà conosciuta, mentre per l’ermeneutica esso è sintomo che rimanda a una realtà nebulosa e inesplorata, che viene gradualmente illuminata mediante l’uso segnico. La semantica è inclusa nell’ermeneutica come anomalia, ossia come cristallizzazione della polisemia interpretativa nell’univocità di un sistema semantico prefissato, al modo in cui il senso letterale di un’espressione è la sedimentazione di una pluralità di usi metaforici. I paradossi della semantica si risolvono in maniera indiretta se si riconduce la semantica all’originaria sintomatologia. Ed è una riconduzione perfettamente ovvia se facciamo della modalità simbolica un caso particolare di modalità sintomatologica, quello per l’appunto in cui il valore semeiotico o in qualche misura causale si riduce a zero e il segno acquista così la capacità di rappresentare qualsiasi cosa (ivi, 60).
Sospettiamo che Melandri sia stato ignorato dal dogmatismo analitico per alcuni tratti visibilmente incompatibili con la tradizione: la rivalutazione della circolarità e dell’infinito attuale; il rifiuto della tesi dell’arbitrarietà del linguaggio; la messa in primo piano della dimensione pragmatica del sapere; la regressione al sottofondo poetico di ogni conoscenza; la restituzione di autenticità alla dimensione dell’immaginario; la rivalutazione della metafisica come facoltà di “cambiarsi d’abito” e la riapertura della problematica dottrinale in sede epistemologica nella forma del giudizio proporzionale. Melandri muove all’epistemologia una critica semiologica differente rispetto alle più comuni “critiche semantiche”, che sostituiscono le categorie descrittive ambigue o inadeguate, poiché essa non cambia i concetti di riferimento, ma modula la logica di sottofondo che inerisce al loro uso. La critica di Melandri è eccentrica e sottile e consiste nel «trasformare l’ermeneutica, attraverso una semiologia sintomatologica, in una politica terapeutica» (ivi, 57); il modulo che permette questa trasformazione è l’analogia usata in funzione archeologica, la quale porta a destrutturare il modo logico di intendere la teoria scientifica, la razionalità e gli esistenti. L’epistemologia accoglie come oggetto la teoria e la analizza in base ai criteri della coerenza sintattica e della verifica semantica, rimuovendo l’insopportabile trauma che ne ha richiesto la formulazione. Ponendo in primo piano il momento pragmatico della presa di coscienza, per Melandri la teoria non va intesa come simbolo, o rappresentazione di una realtà eternamente presente, ma come «sintomo di una sotto-
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stante disfunzione», di tipo pragmatico; essa va dunque valutata in base alla sua capacità di agire terapeuticamente, di rivelare un riposto disagio esistenziale, per sottrarlo al suo anonimato. A volte le teorie «sono cattive razionalizzazioni e servono a giustificare la rimozione della presa di coscienza»: se la consapevolezza nella disfunzione viene rimossa, la teoria regredisce «a razionalizzazione del fallimento terapeutico» e occlude le vie di accesso al problema. (ivi, 12-14). Lo sguardo medico che Melandri importa in sede epistemologica è indispensabile al recupero dell’analogia. L’analogia è un modo del pensiero operante nella comune prassi conoscitiva, ma le trattazioni teoriche che la riguardano sono rare e incomplete, come se mancassero le condizioni semiologiche per parlarne. Sorge quindi il sospetto «che l’incoerenza non sia casuale, ma rappresenti la traccia – in senso psicopatologico – di una precedente rimozione» (ivi, 12). Il divario tra la prassi e la teoria dell’analogia è da intendersi come un sintomo preoccupante di una sottostante disfunzione. L’analogia è un impensabile del mondo moderno e il recupero della sua sventurata razionalità «passa attraverso l’immane fatica critica, necessaria a mettere in dubbio i fondamenti dell’epistemologia contemporanea», la quale «si fonda sulla logica del vero-o-falso e l’insieme di dicotomie omologhe che ne dipendono» (ivi, 315). Se guardiamo all’analogia con l’occhio lineare della logica essa risulta inafferrabile nella sua frattale complessità, come suggerisce l’etimo dei termini: logos, che tendiamo a tradurre secondo i lessemi “ragione” o “discorso”, significa la divisione matematica, ossia il rapporto, il quale si esprime nella predicazione di identità: “a è b”. Ana-logos, parola che oggi accogliamo con i significati imprecisi della somiglianza o dell’omologia, significa invece la proporzione, ossia l’eguaglianza di due rapporti: “a sta in rapporto a b, così come c sta in rapporto a d”. Il valore della logica si esprime entro un sistema, quello dell’analogia nella mediazione tra due o più sistemi, nella comparazione di incommensurabilità. In questa potenzialità comunicativa risiede il valore antropologico del pensiero proporzionale. Inafferrabile entro una definizione nominale, l’analogia si riconosce nei luoghi discorsivi a partire dai sintomi tipici della circolarità e della simmetria. Logica e analogia si oppongono come la linea e il circolo: la logica implementa il procedimento lineare di deduzione da premesse date, l’analogia «ribalta la conclusione sulle premesse e mette in corto circuito la deduzione» (Melandri 1974, 99). La simmetria
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logica è rigida, dicotomica e monovalente e si esprime in un’opposizione di contraddittorietà, “A o non-A”, tertium non datur. La simmetria analogica è invece tensionale, di-polare e inclusiva e si esprime nella contrarietà, “né A, né B”: i poli di ogni dualismo si trasformano così nei due estremi ideali di una transizione continua, all’interno dei quali sono possibili, come terzi inclusi, tutte le soluzioni intermedie. Da un punto di vista analogico, le contraddizioni sono impossibili per principio e il loro senso si fa esistenziale, sintomo di un trauma gnoseologico. La regressione analogica della razionalità porta a una presa di posizione metafisica radicale: che di ogni entità non si dica che essa esiste, oppure non esiste, in base all’inventario ontologico degli esistenti; bensì che essa esiste nella misura in cui è di fatto vissuta, sentita, esperita. L’esistenza, svincolata dalla logica dell’identità elementare, diventa una grandezza intensiva, suscettibile del “più-o-meno”: non si tratta più di dividere ciò che esiste da ciò che non esiste, ma di trovare un’unità di misura per l’esistente.
4. Oltre lo specchio Al di là dello specchio il senso s’inverte e, presi da un’implacabile percezione di assurdità, ci ritroviamo in un mondo invertito: qui puoi sfrecciare veloce come il vento, e il paesaggio attorno scorrerà con te, lasciandoti fisso nello stesso posto in preda all’illusione di progresso; puoi far funzionare la memoria in entrambe le direzioni e ricordare le cose prima che avvengano; e puoi caricare le parole di inesauribili significati, svincolandole dalla semantica quotidiana. Queste sono le conseguenze del vivere a rovescio: dapprincipio ci si sente un po’ storditi. L’immagine dello specchio e la metafora del suo attraversamento introducono meglio di qualsiasi etichetta della filosofia il pensiero di Enzo Melandri: al di qua dello specchio sta la logica, con i suoi canoni repressivi di razionalità, al di là di quello sta invece la dimensione analogica con il suo senso invertito che solletica l’irrazionalità. L’esperienza filosofica è radicale e, superato l’inevitabile spaesamento, produce un’agghiacciante inversione di prospettiva: «l’argomento è tutto qui: il nonsenso dell’analogia, nel contestare il governo, la norma e il rigore della logica, svela che il senso di quest’ultima è altrettanto, se non ancor più insensato» (Melandri 2005, 4).
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Le due poetiche, opposte e complementari, di logica e analogia sono infine tenute assieme dalla dialettica, intesa in senso kierkegaardiano come orizzonte infinito e totalizzante di ogni conoscenza positiva, sguardo paradossale che tiene assieme i due sensi incommensurabili. L’analogia è rivoluzionaria quando instaura lo specchio dell’alterità, ma oltre lo specchio sta la dialettica, «l’unità incentrata sull’inversione di senso, la complementarità dei contrari, la radicalizzazione senza vie d’uscita del conflitto» (ivi, 733). Al di là dello specchio le immagini virtuali diventano reali. Il loro senso è invertito, ma non per questo lo giudicheremo un nonsenso. È piuttosto un controsenso, un senso contrario e complementare, che può servire a raddrizzare le fallacie di abitudine, la mancanza di spirito critico, l’entropia del senso comune e del buonsenso. Al di là dello specchio è normale semantica la catacresi, data l’inversione del senso. Ma ciò non abolisce il significato, né lo rende meno preciso – per chi lo sappia trovare (ivi, 797).
Bibliografia Agamben, G. (2005), “Archeologia di un’archeologia”, in Melandri, E. (2005), La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata. James, W. (2009), Saggi sull’empirismo radicale, trad. it. di N. Dazzi, Mimesis, Milano-Udine [Essays in radical empiricism, New York 1912]. Melandri, E. (1960), Logica ed esperienza in Husserl, Mulino, Bologna. Melandri, E. (2005), La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata. Melandri, E. (1969), “Per una filosofia della metafora”, in Blumenberg, H. (1969), Paradigmi per una metaforologia, Mulino, Bologna. Melandri, E. (1974), L’analogia, la proporzione, la simmetria, Isedi, Milano. Melandri, E. (1983), Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali, Pitagora, Bologna. Melandri, E. (1989), Contro il simbolico. Dieci lezioni di filosofia, Ponte alle Grazie, Firenze. Nietzsche, F. (1993), Opere 1870/1881, Newton, Roma.
Sara Baranzoni Sovrapposizioni e dispersioni Il depensamento filosofico di Carmelo Bene
Più che portare la metafisica nel teatro e nel cinema, Carmelo Bene ha negato la divisione e ha buttato se stesso nella filosofia e nell’arte a partire dall’insostenibilità della società, del non-senso della vita. G. Fofi
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Non si deve andare a cercare la letteratura nella letteratura, o la filosofia nella filosofia, il cinema nel cinema e il teatro nel teatro». È nell’urgenza del fuori di sé che si attua l’incontro tra Carmelo Bene e la filosofia: nel suo percorso verso la ricerca (impossibile) di un’estinzione oscena, di un’involuzione per esaurimento, e della demolizione di qualsiasi elemento che possa ricondurre alla «Rappresentazione di Stato», verso quella «disindividuazione inorganica» che è l’essere degenere, fuori dai generi. «Bisogna uscire dal proprio sentiero, dal proprio modo, per pervenire là dove non vi è più modo». Da un lato, è il suo teatro senza spettacolo e nemico del senso oggettivo ad attrarre una serie di “intrusi” dal pensiero generoso che lo seguono, in sala ed oltre, avvicinati da una comunanza di obiettivi critici (e clinici). Una vicinanza che, a partire dal caposaldo teorico della non-rappresentazione, e dunque dell’irrappresentabile evento, si snoda attraverso il rifiuto dell’arte teatrale ed in particolare «dell’umano essere ed esser-ci del teatrante occidentale», la cui volgarità dell’agire nel moto-a-luogo attorico deve essere deposta a favore di un teatro della differenza e dell’atto attoriale. D’altra parte, difficilmente si potrebbe capire cosa sia il teatro di Carmelo Bene se non si tenesse conto dello sfondo di pensatori che entrano nella sua parola e nelle sue visioni, dando origine a concezioni estremamente raffinate anche «Alle mie “prime” parigine serpeggiava esplicita l’indignazione dei gazzettieri special-drammatici nel riscontrare in sala degli “intrusi” (Deleuze, Lacan, Klossowski, Foucault, e “consimili”): “Tempi schiodati, adesso anche chi pensa va a teatro!”» (Bene 1995, 1166-1167).
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se sempre condotte fuori dai modi della filosofia: una serie di viaggi lungo le stesse linee di fuga, attraversando le stesse soglie di intensità, delle sovrapposizioni, insomma, in grado di far convergere in un’unica tensione le diverse prospettive incontrate, anche nella momentanea incoerenza dell’accumulazione. «Bisogna essere una cosa sola: il divenire delle nostre più interne contraddizioni». La molteplicità di relazioni che si genera da questo scenario si traduce in assidue frequentazioni reciproche fuori e dentro la scena e in un «essere l’uno per l’altro» nel pensiero, un pensiero né schiacciato su una modalità interpretativa o limitato al vicendevole commento, né ridotto alla citazione, all’esposizione di un concetto o all’identificazione, ma sempre rivolto all’affectio e all’essere pervertito, modificato attraverso il contatto con l’altro. Così, mentre l’incontro con Carmelo Bene lascia un segno nella filosofia contemporanea, egli, attraverso i concetti e le elaborazioni convocati nella sua parola e sulla sua scena, si lascia pensare, operando verso una totale sottrazione di sé e del proprio io in quanto volontà, verso uno sfinimento del pensiero stesso in quanto pensato.
1. Interferenze e sovrapposizioni
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Certi passi da me letti sono più biografici di qualunque velleità autobiografica». Per Klossowski, Deleuze, Foucault, Lacan, Carmelo Bene è colui che dà un contenuto vissuto a una serie di concetti vitali. È il «principe delle modificazioni», l’«attualizzatore dello spazio degli spiriti», «l’interprete per eccellenza delle anime separate dai loro corpi» (Klossowski); l’incarnazione di una minorità che non è un travestirsi da minori ma piuttosto un minorare, annientando ed eccedendo il linguaggio sistemico e l’identità che in esso si iscrive in tutte le sue declinazioni; colui che nel suo essere parlante posseduto e s-parlato dal discorso stesso e dai pensieri-visioni in esso coinvolti disarticola il linguaggio-come-inconscio, trasgredisce la finzione escludendo ogni senso logico predefinito e, amplificando la separazione tra le parole e le cose, mette in discussione ogni pretesa di comunicabilità del soggetto e della “sua” parola. Descrizioni di sé che per la maggior parte è lo stesso Carmelo a riportare, nel ricordare gli incontri capitati tra la cucina di Foucault, la «fede sovralcolica incrollabile» di «Saint-Pierre templare», il fumo e l’eccesso di Deleuze e il mancare silenzioso di Lacan (Bene 1995, 1160 e sgg.). La «generosità del pensiero che si sdà, s’innamora, se è il caso» (ivi), non si traduce infatti, se non in pochi
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casi, in opere «su» Carmelo Bene, e anche qualora accada non si tratta di saggi critici o commentari, ma piuttosto di una messa alla prova di propri concetti, di una loro com-plicazione atta a consentire nuove direzioni. Più di frequente, essa rimane nel discorso, nell’altrimenti detto, perché, in fondo, quanto meno un pensiero si interessa all’estetica del prodotto scenico, tanto più diviene interessante e prezioso. Come ricorda Carmelo, infatti, Questi grandi revisori, de-costruttori del pensiero occidentale (Gilles D.), quando trattano cinema, teatro, o arte in genere, in realtà – ed è questo l’importante – è del proprio pensiero che si occupano. S’interessano d’altro, per fortuna. È tra le pieghe del loro proprio ripensamento che frugano. Anche se, naturalmente, la loro prodigiosa «indisciplina» è assai più rigorosa e lucida di qualsiasi materia bistrattata dalle anche «oneste» esegesi dello specifico paraocchiato. E, proprio perché s’intrattengono altrove, ci sono più preziosi (Bene, Dotto 1998, 267).
Ecco perché, come non ha alcun senso convocare lo spettatore per verificare con quale grado di somiglianza l’attore riesce ad avvicinare lo scritto del presunto autore, non importa sapere o capire se, ad esempio, tra Bene e Deleuze esista una differenza nell’intendere il metodo della sottrazione, o se il manque al quale Carmelo si riferisce sia Fanno eccezione i brevi saggi di Klossowski: Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene (in Bene 1981) e Genereux jusqu’au vice (in Bene 1990), e di Deleuze: Un manifesto di meno (in Bene, Deleuze 2002), Manfred: uno straordinario rinnovamento (in Deleuze 2010), oltre alle pagine sul cinema (in Deleuze 1989). È in questo senso che si deve intendere il deleuziano scritto senza Opera Un manifesto di Meno (cit.), composto dal filosofo ben prima di avere visto lo spettacolo Riccardo III al quale nel testo si riferisce. Non è infatti tanto ciò che ha fatto, che farà Carmelo Bene sulla scena ad indicare la rotta di tale scrittura, quanto le tensioni insite nella propria impresa filosofica, dove la relazione col fuori si traduce in un pensare con in grado di offrire una variazione vitale di sé. Come nota ad esempio Lorenzo Chiesa, sottolineando che mentre per Bene si tratterebbe di un progredire verso lo zero e l’inorganico, dunque un sottrarre in negativo, Deleuze propende piuttosto, nel parlare di Bene, per una visione totalmente positiva legata alla produzione di varietà e di affetti che apre alla proliferazione di innumerevoli potenze di divenire (cfr. Chiesa in Cull 2009). Una discrepanza comunque tutta da verificare, anche alla luce del concetto di esausto introdotto dal filosofo in relazione a Beckett (Deleuze 1999) e alle sue riflessioni su Nietzsche e sulla negazione come espressione di un’affermazione (e alleggerimento) della vita (Deleuze 2002).
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esattamente il concetto proposto da Lacan: più che le differenze ciò che qui importa sono le interferenze o, ancora una volta, le sovrapposizioni che si operano tra i due piani. Perché in fondo «quando noi si banchetta insieme, l’invitato, l’ospite d’onore, quel che più in segreto ci attrae è sempre da qualche altra parte. È rivolgendoci a lui che ci intendiamo tra noi» (Bene 1995, 1067). Ossia, ripetendosi, offrendo una variazione del proprio «teatro», attraverso l’altro. Vi è sempre un altro soffio nel mio, un altro pensiero nel mio, un altro possesso in ciò che possiedo, mille cose e mille esseri implicati nelle mie complicazioni: ogni vero pensiero è un’aggressione. Non si tratta delle influenze che subiamo, bensì delle insufflazioni, delle fluttuazioni che noi siamo, con le quali ci confondiamo. Che tutto sia così «complicato», che Io sia un altro, che qualcosa d’altro pensi in noi in un aggressione che è quella del pensiero, in una moltiplicazione che è quella del corpo, in una violenza che è quella del linguaggio, è questo il messaggio gioioso (Deleuze 1979, 262).
Presso Carmelo Bene, ciò si risolve nel porsi in balìa dell’incontro, nell’abbandono, e, successivamente, lasciando che le letture di altri testi, appartenenti ad altri autori divengano «imbarazzo intestinale d’artefice» (Bene, Dotto 1998, 222). In altre parole, ciò che si attua è una moltiplicazione delle variazioni e una loro essenzializzazione in un condensato di pensiero che si fa decantazione dei suoi elementi. Ciò non significa d’altra parte che il lavoro di Carmelo Bene si riduca a secrezione di un testo (o meglio, una serie di testi) a monte: non bisogna dimenticare che il fine di questa incessante ripetizione è quello di «trattenersi fuori il più possibile dalla tentazione e persino dalla capacità di rappresentare, e intanto di confinarsi (condannarsi) nel campo di una incontaminata e indefinita differenza» (Giacchè 2007, 71). Ecco dunque che allora non importa nemmeno l’accertamento dell’origine del pensiero beniano: se infatti per Bene «qualunque interpretazione è rappresentazione, e qualunque rappresentazione è rappresentazione di Stato» la sua lettura diviene irriducibile alla re-citazione, al ri-ferimento dell’opera altrui, e ad essa si sottrae rinsaldando l’immediato svanire di qualsiasi pretesa autori(ali)tà. Il tentativo di oltrepassare il riferimento, di eliminare il discorso d’autore è solo la prima tappa del percorso di sottrazione e sfinimento che procede verso quel vuoto che è l’obiettivo del suo teorizzato togliersi di scena:
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È un procedimento noto al Klossowski del Filosofo scellerato: ci si muove per sovrapposizione di nastri e di codici che si elidono a vicenda. È come scrivere una cosa su una velina, poi scriverne una seconda, far seguire l’atto che ricopre le precedenti iscrizioni, proporre il racconto di quest’atto. Alla fine tutto diventa illeggibile (Bene in Panta, 151).
Consumare il già scritto, logorare e sfinire i segni lasciati da altri, liquidare con essi finanche l’artefice, amare e fagocitare ciò che si ama per tornare a ciò che sta prima dell’identità autoriale, al quid che l’innamora, nel mezzo dell’eccesso, nell’atto che lo lascia esser detto.
2. Frantumazione dell’io
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Qui arrivo a negare il soggetto. Se si riesce a smarginare il soggetto, cade anche l’oggetto, il mondo, la rappresentazione: il teatro com’è abitualmente inteso e che coincide con lo spettacolo» (ivi, 152). Torniamo per un attimo al Carmelo Bene teatrante. Tenendo sullo sfondo le considerazioni deleuziane, possiamo osservare come sottrazione, minorazione, privazione coinvolgono tutti gli elementi del suo teatro e si completano esasperandosi con il togliersi di scena dell’attore in quanto tale. Questo «frenetico spazzino del proscenio», già morto eppure ancora «prostrato davanti alla morale del senso, alla strisciante servilissima venerazione del testo a monte» (Bene 2001) tradotto in azione-movimento imbecille, lascia dunque il posto a una figura (la macchina) attoriale (anziché attorica), riepilogativa del «tutto» dell’arte scenica ed in particolare del suo essere vocata fin dall’etimo non all’agire ma all’àgere, che è innanzitutto oblio dell’azione nell’atto. Il teatro di Carmelo Bene si configura dunque come un luogo che si svuota progressivamente ed incessantemente, dove in fondo non rimane «nient’altro da dire e non c’è altro dramma da dare salvo quello della tragedia dell’essere attore: una tragedia impedita, incompiuta, sospesa, proprio perché riguarda l’attore e il suo non voler (dover) esserci» (Giacchè 2007, XVI). La selva di riferimenti e la varietà di segni convocati ed attraversati non devono in effetti confondere rispetto a questo primario obiettivo: è anzi proprio la loro «sovrapposizione contraddittoria», la loro «conciliazione impossibile» (ivi, 113) a spianare Sulla distinzione tra essere nell’atto/essere nell’azione, restano memorabili le riflessioni di Maurizio Grande, «rarissimo amico ed interlocutore estetico a tempo pieno» di Carmelo, nelle numerose opere ad egli dedicate.
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la strada verso una generale impotenza (scenica e non) che procede fino verso la dissoluzione del sé, inteso principalmente come identità/ volontà pensante e parlante. Dopodiché, così come il proferire parola non può discendere da una volontà di espressione dell’essere parlante, perché «quando il pensiero nasce o precipita nell’agĕre attoriale, ogni idea diventa a tutto tondo ovvero conosce sempre la sua impotenza e spesso si spenge nel suo contrario» (ivi, XIII), allo stesso modo l’atto della macchina attoriale è «smarrimento della memoria, dell’azione, è il cortocircuito dell’azione, è la progettazione, è disvolere» (Attisani, Dotti 2004, 22). Detto altrimenti, è solamente tramite l’esaurimento (in senso deleuziano) del pensiero e dell’azione, e disponendosi all’attraversamento da parte di una serie di multipli, di variazioni, di divenire, di significanti che dissolvono il significato in «invisibili e mobilissimi atomi» (Giacchè 2007, XIV), attraverso la messa in voce di una parola che ci possiede, e che perciò dice il “nulla” dell’essere, che si coglie la possibilità di chiamarsi fisicamente fuori, di posizionarsi altrove, negando così anche la propria identità («non esisto, e dunque sono»). Così handicappati da questa selva di significanti che noi stessi predisponiamo in scena, non possiamo che dimetterci in quanto significati, in corpo e voce, perché in balìa di una molteplicità incalcolabile di doppi. Milioni di doppi e non più il doppio di Artaud. Uno sterminato esercito (Bene, Dotto 1998, 138).
La proliferazione, moltiplicazione dei riferimenti e degli elementi conduce dunque alla cancellazione di qualsiasi residuo di Io dalla scena, intesa sia come sparizione progressiva del soggetto-attore che come dissoluzione dell’identità del parlante, sua negazione per eccedenza (di parola) e sottrazione (dell’azione). Tale procedimento, seppure portato verso il compimento realizzativo da Carmelo, non è certamente una sua invenzione, ma si inserisce in una tensione che, dalla filosofia alla letteratura (Joyce, come vedremo, è uno dei riferimenti fondamentali di Bene), attraversa dopo Nietzsche buona parte del Novecento, fino E anche se Carmelo tenta di “sfuggire” ai riferimenti nietzscheani («Non credo di avere niente a che fare con Nietzsche sebbene l’esserne esenti è impossibile», in Panta, 45) non si può che ravvisarne l’eco se non altro nei tentativi di andare oltre l’identità e nel disconoscere l’io come causa ed artefice del pensiero. «Ma non c’entra niente, perché quello che Nietzsche ha scritto nessuno lo aveva mai sentito, nessuno prima che io arrivassi si era trovato davanti all’irrappresentabile» (ivi, 167).
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ad approdare al pensiero contemporaneo e a quegli esercizi di disfacimento dell’io che passano per il suo superamento. Esercizi che in Carmelo Bene prendono la forma della «costruzione dell’assenza», di una creazione, cioè, che si attua attraverso l’involuzione (ma non la regressione, ricorda Deleuze) allo scopo di sgretolare definitivamente il «teatrino dell’io»: A volte arrivava anche a ridere dei suoi esperimenti. L’avvilimento era soprattutto fisico. Si sentiva usato come un paziente sotto i ferri di un medico cristiano, e se ne lagnava soltanto cambiando argomento. Di giorno, infatti, eccedeva in cortesie, come chi avesse maturato un grosso piano. In comune coi tempi, il suo nirvana aveva solo il calvario, e il più delle volte era unicamente il calvario (Bene, Nostra Signora dei Turchi, in Id. 1995, 53). Non esisto: dunque sono. Altrove. Qui. […] La dottrina dei morti definitivi mi comanda i miei abituali esercizi che, ormai soli, mi dispensano dalla umana energia volitiva, dalla logica vanità delle occasioni d’amore, del mondo in quanto rappresentazione. Perché non-morto? Perché non ancora? […] Dunque, ogni sera, ogni attimo in cui si fa sera, dopo aver sbrigato le proprie devozioni alla sua spropositata cornice vuota; spenti uno ad uno accuratamente i lumi del «dover essere», – ma non poi tanto accuratamente –, il vampiro si sforza di prendere sonno nella sua baraletto. Ed ecco la sua inquietudine da non morto. Il suo «NON». […] Al non-morto non resta che «concentrarsi» nella toeletta fine a se stessa: un bottone nell’asola sbagliata (il vampiro non si riflette, s’abbiglia come un cieco) determina, compromette la parola. Afasia del linguaggio. Ci pare in effetti di poter condividere la visione deleuziana che riconosce nel processo di sottrazione di Carmelo Bene un esempio di quella «involuzione creatrice» che, attraverso un divenire «sempre più sobrio, sempre più semplice, divenire sempre più deserto, e, attraverso di ciò, sempre più popolato» (Deleuze, Parnet 1998, 35) contribuisce alla proliferazione del processo creativo, e dunque ad un’impossibilità di giungere ad uno stadio ultimo della ricerca della totale estinzione, al compimento di quel «divenire-impercettibile» che comporterebbe la perdita di qualsiasi possibilità ulteriore e la chiusura definitiva della serie creativa. Cfr., in merito, le considerazioni di L. Amara (2010) sulla toeletta dell’assenza.
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Sara Baranzoni […] Il teatrino dell’io frantuma, e il soggetto s’innamora a giocare. (Bene, La voce di Narciso, ivi, 995-997)
Crogiolandosi nella propria toeletta, il soggetto si ritrova nella condizione del «vigilambulo» (cfr. Deleuze 1999), sospeso tra il sonno e la veglia, e, ormai libero dal fare, può lasciarsi possedere da pensieri-visioni che non vogliono a loro volta che liberarsi di lui, della sua identità, per sostituirla con un’immagine diretta, non mediata (rappresentata) dal pensiero pensato, vero cinema, come solo in Joyce (cfr. Bene 1988). Il pensare, posto in balia di una combine di significanti, non è più obbligato alla mediazione del concetto, ma si lascia possedere dal linguaggio senza disporne. Esaurimento dell’io, frustrazione della volontà e dell’intenzione, che è dunque un lasciarsi pensare dal pensiero, comprendere dal discorso, divenire pura voce parlante: Voce mia tua chissà chiamare questo Mia tua chissà la voce che chiamare ventilato è suonar che ne discorre in che pensar diciamo e siamo detti vani smarriti soffi rauchi versi prescritti da un voler che non si sa disvoluto e alla mano intima incisi segni qui divertiti disattesi sensi descritti testi d’altri che morti fiati dimentichi ’n mia tua chissà la voce. (Bene 2000, 37)
Non si tratta, chiariamo, di un’esperienza mistica, anche se Bene ne condivide la tensione verso la sospensione della storia, l’assenza di progetto, l’amputazione e smembramento dell’io (cfr. Panta, 153): l’esperienza mistica è un viaggio verso un fuori assoluto, un distacco verso la trascendenza, mentre qui persiste una cornice da svuotare, un margine col quale fare i conti, un muro da decostruire grado per grado, handicappandolo. Il senso della ricerca sta dunque piuttosto nel «farla finita» con quello che c’è, tra cui, e qui ritorna la relazione con la filosofia, i propri riferimenti testuali, cercando di togliere alla parola «l’autorità dell’autore»: «se si smargina il linguaggio, cade il soggetto, l’Altro diventa una presenza che dà il mal di pancia, per cui
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si può solamente vomitarlo, ma non es-primerlo». Dimettersi come Io parlante, dunque, fino ad appartenere soltanto al «dire», allo stare nel tempo Aiôn dell’atto orfano del proprio artefice e non nel tempo cronologico della storia e dell’agire; liquidare allora anche la filosofia, il pensiero, la coscienza servile e qualsiasi possibilità di un’origine? «Soprattutto, un genio dovrebbe balbettare, inceppare il proprio dire, piuttosto che illudersi di proferir pensiero. Dovrebbe coincidere con il proprio guasto (l’attentato al virtuosismo), in perduta balìa dei molti significanti» (Bene, Dotto 1998, 146).
3. Tattiche di depensamento: la bestia e l’osceno
«
Solo se la memoria sedicente si fa oblio l’artificio si annienta nella felice attualità dell’atto, ogni ricordato pensiero evapora nell’immediato vanire del soggetto» (Bene 2001). Siamo giunti a un ultimo (e dunque sempre penultimo) passo giocato da Carmelo nel suo esercizio dell’assenza. Un passo che, alla soppressione dell’io, affianca anche la soppressione del pensiero e del concetto come elemento di unità, di identità. Per essere nell’atto anziché nell’azione, è necessario infatti confermare il vuoto del proprio esserci, della propria presenza e delle sue facoltà, e dunque, innanzitutto, negare la mente e la memoria dell’attore: se si ricorda, se si fa appello alla memoria, sostiene Carmelo, ci si assoggetta al detto e ci si impedisce di dire/esser detti, di stare nell’atto; si fiancheggia altresì la sovranità dittatoriale del testo, la cui comprensione e il cui impossessamento finiscono per restaurare l’identità rappresentativa dell’io tragico convenzionale. Affidarsi alla memoria è arrendersi alle velleità comunicative del linguaggio, impossibilitarsi all’essere toccati dalla grazia dell’irrappresentabile. Consegnarsi all’oblio consente invece di ripetere senza capire, chiarire che non può esistere un discorso che in qualche modo appartiene all’essere parlante, ma che «quando crediamo di essere noi a dire siamo detti». Del resto, chi ripete non lo fa che a forza di non comprendere, di non ricordarsi, di non sapere, o di non avere coscienza (cfr. Deleuze 1997, 26). Riprendiamo il riferimento all’Ulisse di Joyce, opera che, come riconosce lo stesso Bene, «può cambiare una vita…» e che è «cinema sulla pagina» (Bene 1988), immagine viva, pensiero dell’immediato che pare sottratto alla scrittura, privato del proprio concetto in quanto mediazione del pensiero pensante. Qui, il gioco dei significanti istitui-
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sce un cortocircuito nella catena espressione-logos-concetto, per cui «non c’è nulla da capire», il senso è superato e il pensiero è smentito, come travolto dall’atto: de-pensato. Depensare è dunque la figura dell’essere nell’abbandono, dell’essere detto, essere nell’atto (travolto dall’atto): il che equivale a un dis-essere, mal-essere, sottraendosi all’esserci verso l’o-sceno (o-skené, e dunque fuori dalla scena), inteso come desiderio ecceduto, smarginato, porno-grafia che annulla la distanza soggetto-oggetto. Il porno dunque come declinazione dell’inorganico, carne senza concetto, rigetto della forma in ogni potenziale espressione artistica, oscenità irrappresentabile. Ciò che non è com-preso, che dunque è fuori dalla scena, pur essendo in scena. Se in teatro ciò dà origine ad un’«allucinazione senza testo (oggetto) e senza autore (soggetto)» (Bene, Dotto 1998, 329), vero teatro della ripetizione in quanto «differenza senza concetto», sul piano della soggettività si risolve in un essere smedesimato, disindividuato, «un medium che non sa», che opera chirurgicamente su di sé la più estrema sottrazione del pensiero. «Il pensiero s’è stancato di pensar pensiero»: se cultura deriva da colo, da cui colonizzare, colonizzazione, ricorda Bene con Derrida, ed è dunque omologazione civile, conoscenza deteriore, teatrino della verità padronale, potere (dell’ordine) del discorso, è necessario distrarla, disperderla, estraendo dal cervello quanto più possibile. A dispetto della cultura e dell’intelligenza bisogna essere stupidi per essere nell’abbandono, sforzarsi di essere «ogni giorno più cretino», perdere il controllo, avvicinarsi allo stato di grazia del cretino che rinuncia a sé per poter vedere la Madonna. «Io ignoro. Sono la mia s’ignora. Sono s’ignorante. Sono un signore». Una tensione ben diversa dalla transe (cfr. Giacchè 2007, 139 e sgg.), ma piuttosto affine ad un «divenire bestia», affogare il proprio sguardo nella catatonia del pensiero a tal punto da farlo tornare all’atto del pensare in sé. Del resto, non è forse la catatonia a muovere il «teatro del pensiero»? L’intelligenza non risponde alla bestialità: è la bestialità già vinta, l’arte categoriale di evitare l’errore. Lo scienziato è intelligente. Ma è il pensiero che s’affronta alla bestialità, ed è la filosofia che la guarda. A lungo, sono faccia a faccia, col suo sguardo immerso in questo cranio senza candela. È la sua propria testa di morto, la sua tentazione, il suo desiderio forse, il suo teatro catatonico. Al limite, pensare sarebbe contemplare intensamente, da molto vicino e quasi fino a perdervisi, la bestialità; e la stanchezza, l’immobilità, una grande fatica, un certo
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cocciuto mutismo, l’inerzia formano l’altra faccia del pensiero – o meglio il suo accompagnamento, l’esercizio quotidiano e ingrato che lo prepara e che subito esso dissolve. Il filosofo deve possedere una buona dose di cattiva volontà per non giocare correttamente il gioco della verità e dell’errore: questo mal volere, che si attua nel paradosso, gli consente di sfuggire alle categorie. Ma egli deve essere inoltre di “umore cattivo” tanto quanto basta per restare di fronte alla bestialità, per contemplarla senza un gesto, sino alla stupefazione, per avvicinarsi ben bene ad essa e mimarla, per lasciarla montare lentamente in sé (è forse questo che si traduce eufemisticamente: essere assorbito nei propri pensieri), e attendere, al termine mai fissato di questa preparazione accurata, lo choc della differenza: la catatonia muove il teatro del pensiero, una volta che il paradosso abbia rovesciato il quadro della rappresentazione (Foucault 1997, 70).
La bestialità si contempla, vi si immerge lo sguardo, ci si lascia affascinare: è grazie ad essa che si supera la confinazione nel concetto, si supera il logos e il senso, arrivando a un punto dove il soggetto vanisce e con esso il pensiero. «Un poeta ha bisogno come il pane (il vino nel caso mio) del limite della stupidità, di questo nous bestiale […]. Che cosa è mai il genio, se non questo “meritato” regredire nell’idiozia (niente a che fare col tanto ricercato abuso di “cretini naturali” di certo managerismo tivù)?» (Bene, Dotto 1998, 220-221). È la santa ignoranza, da non confondersi con l’ignoranza chiacchierona ed arrogante da talk show, ma la santa ignoranza del cretino totale, di colui che nel depensamento è nient’altro che oblio, dimentico di sé, di quell’io di cui – sostiene Carmelo – bisogna sbarazzarsi. «Io ho tolto l’io dal palcoscenico. Non il soggetto, che è un’altra cosa, ma l’io, il teatro dell’identikit, dell’identità, del medesimo, per parlare d’altro, per essere parlati più che parlare» (Attisani, Dotti 2004, 18). Distruggere il pensiero, il sapere, coincidere con il proprio guasto, divenire stupidi. Nostra Signora dei Turchi, o i tentativi di un uomo di divenire cretino, minorato. O San Giuseppe Desa da Copertino, illetterato ed idiota, apoteosi del depensamento. «Non è questo un modo come un altro di fissare la bestialità da così (ma da tanto) così vicino tanto da annullarsi – antinarciso –, finalmente in pace con il proprio Io?» (Bene, in Bene, Deleuze 2002, 120). Per Carmelo Bene, insomma, la stupidità è la premessa per poter accedere all’essere senza fondamento, all’abbandono. «Ma a contemplare bene in faccia questa monotonia senza limiti, ciò che d’improv-
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viso s’illumina è la molteplicità stessa – senza niente al centro, né in cima, né al di là» (Foucault 1997, 70). Molteplicità del caos in cui ci si immerge, che stimola il desiderio di cercare ancora, per «seguitare a prodursi espellendo» (Bene, Dotto 1998, 86), a sbarazzarsi di ciò che ti disfa («la vita come misfatto»), divenire osceno, trasformare in atto l’esercizio perverso del disapprendere per poter pensare. «E quando il caso, il teatro e la perversione entrano in risonanza, quando il caso vuole che fra i tre ci sia una simile risonanza, allora il pensiero è una “trance”; e vale la pena di pensare» (Foucault 1997, 71). Bibliografia Amara, L. (2010), Prima e dopo la storia. Note sulla rappresentazione nella scrittura di Carmelo Bene, in Rappresentazione/Theatrum Philosophicum – Culture Teatrali n. 18, primavera 2008, I quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, pp. 89-97. Attisani, A., Dotti, M. (2004), Bene crudele. Cattivario di Carmelo Bene, Stampa Alternativa-Nuovi Equilibri, Viterbo. Bene, C. (1981), Otello, o la deficienza della donna, Feltrinelli, Milano. Bene, C. (1982), La voce di Narciso, a cura di S. Colomba, Il Saggiatore, Milano. Bene, C. (1990), Il teatro senza spettacolo, Marsilio, Venezia. Bene, C. (1995/2002), Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, Bompiani, Milano. Bene, C. (2000), ‘l mal de’ fiori. Poema, Bompiani, Milano. Bene, C., Deleuze, G. (2002), Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata. Bene, C., Dotto, G. (1998/2006), Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano. Buoncristiano, L. (cur.) (2012), Panta – Carmelo Bene, n. 30/2012, Bompiani, Milano. Chiesa, L. (2009), A Theatre of Subtractive Extinction: Bene without Deleuze, in Cull, L. (ed.), Deleuze and performance, Edinburgh University Press, Edimburgh, pp. 71-88. Deleuze, G. (1997), Differenza e ripetizione, trad. it. di G. Guglielmi, Raffello Cortina, Milano [Différence et répétition, PUF, Paris 1968].
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Deleuze, G. (1979), Logica del senso, trad. it. di M. de Stefanis, Feltrinelli, Milano; [Logique du sens, Minuit, Paris 1969]. Deleuze, G. (1989), L’immagine-Tempo. Cinema 2, trad. it. di L. Rampello, Ubulibri, Milano [Cinéma 2. L’image-temps, Minuit, Paris 1985]. Deleuze, G. (1999), L’esausto, trad. it. di G. Bompiani, Cronopio, Napoli [L’épuisé, Minuit, Paris 1992]. Deleuze, G. (2002), Nietzsche e la filosofia e altri testi, cura e trad. it. di F. Polidori, Einaudi, Torino [Nietzsche et la philosophie, PUF, Paris 1962]. Deleuze, G. (2010), Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, trad. it. di D. Borca, Einaudi, Torino [Deux régimes de fous. Textes et entretiens 1975-1995, Minuit, Paris 2003]. Deleuze, G., Parnet, C. (1998), Conversazioni, trad. it. di G. Comolli, Ombre Corte, Verona [Dialogues, Flammarion, Paris 1996]. Foucault, M. (1997), Theatrum Philosophicum, trad. it. di F. Polidori in aut aut, 277-278, gennaio-aprile 1997, pp. 54-74 [Theatrum Philosophicum, in Critique, n. 282, Novembre 1970]. Giacchè, P. (2007), Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, nuova edizione aggiornata e ampliata, Bompiani, Milano. Petrilli, S., Ponzio, A., Ponzio, L. (2012), Interferenze. Pier Paolo Pasolini, Carmelo Bene e dintorni, Mimesis, Milano-Udine. Videografia Bene, C. (1998), L’Ulisse di Joyce mi ha cambiato la vita, intervista di A. Debenedetti. Bene, C. (1994), intervista a Omnibus. Bene, C. (1994), in “Uno contro tutti”, puntata del Maurizio Costanzo Show del 27 giugno 1994. Bene, C. (1995), in “A dispetto di tutti”, puntata del Maurizio Costanzo Show del 23 ottobre 1995. Bene, C. (2001), in “Carmelo Bene – Quattro momenti su tutto il nulla”, Rai 2 Palcoscenico.
Quarta sezione Posture, movimenti, angolature
Matteo Zoppi La filosofia come cura di sé ed esercizio spirituale: presenza, tematiche e prospettive nel Novecento
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he cos’è un esercizio spirituale e che cosa si deve intendere per cura di sé in relazione a questa pratica? Occorre, anzitutto, focalizzare l’attenzione su due ambiti culturali originariamente ben distinti, ma poi a partire dall’inculturazione cristiana già della seconda metà del primo secolo dopo Cristo, progressivamente sempre più intrecciati nella ricezione e nella realizzazione di questa peculiare attività umana. Occorre, in tal senso, fare riferimento agli studi di Pierre Hadot, dedicati appunto alla filosofia antica come esercizio spirituale. Gran parte della filosofia antica, se non tutta, si configurerebbe come esercizio spirituale, cioè come riflessione teoretica improntanta in primis non tanto al sapere, ma al saper vivere, incidendo e orientando così le azioni e le scelte pratiche, anziché nutrire ambiziosi sistemi speculativi. Questa originale lettura di Hadot, come spiega Letterio Mauro, «[…] ha consentito di precisare che cosa abbia significato, per i pensatori antichi, fare filosofia: non elaborare una trattazione teorica dei problemi, ma esercitarsi nella pratica quotidiana della cura di sé, di una terapia dell’anima, così da giungere a una radicale trasformazione della propria mentalità e condotta di vita» (Mauro 2011, 161). Una incisiva esemplificazione di questo particolarissimo modo di coltivare la filosofia, oggi forse desueto, ma caratterizzante la sensibilità della cultura classica, medievale e moderna, la presenta Seneca nelle Lettere a Lucilio, quando scrive: Chi frequenta un filosofo porti via con sé, ogni giorno, qualcosa di moralmente positivo: torni a casa più sano o più sanabile. E tornerà senz’altro così: la forza della filosofia è tale da giovare non solo a chi la coltiva, ma anche a quelli che hanno con essa una certa familiarità. Chi si mette al sole, anche se non si è arrecato in un luogo assolato proprio per questo scopo, si abbronzerà; chi si è seduto in una bottega da profumiere e vi è rimasto un po’ a lungo, porta via con sé l’odore di quel luogo; e coloro che hanno frequentato la scuola di un filosofo, 323
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ne avranno ricavato necessariamente qualche vantaggio, anche se non si sono impegnati come si deve. Bada bene alle mie parole: ho detto “non impegnati come si deve”, non ho detto “recalcitranti”. «E con questo? Non sappiamo forse di certuni che per molti anni hanno frequentato senza interruzione un filosofo senza prendere neppure la tintarella?» certo, e come non li conosco? Gente tenacissima e assidua, che definisco non allievi, ma inquilini dei filosofi. Alcuni li frequentano per assistere alla lezione, non per imparare, così come noi siamo attratti dal teatro per il piacere di ascoltare un discorso o un canto o una commedia. Noterai che per la maggior parte di quegli ascoltatori la scuola del filosofo è un rifugio dove si trascorre un po’ di tempo libero. Essi non si preoccupano di deporre proprio qui alcuni dei loro vizi, di recepire qualche regola di vita con cui raddrizzare la propria condotta morale, ma soltanto di procurare godimento alle orecchie. […] Pochi sono riusciti a portare con sé entro le pareti domestiche quell’atteggiamento mentale (mentem) che era stato loro ispirato. È facile incitare un ascoltatore a ciò che è conforme a rettitudine, perché a tutti la natura ha elargito le basi e il seme della virtù. Ognuno di noi è nato per tutte queste cose e quando si sia presentato chi stimola i nostri cuori, allora sì che le componenti positive dell’animo si risvegliano (Seneca 1995, II, 875-877).
Seneca stesso, mette a tema della sua riflessione la necessità che la filosofia sia insegnata e assimilata in ordine anzitutto al vivere, anzi al retto vivere, e aggiunge: Ho raccontato tutto questo per dimostrarti quanto ardenti fossero i primi decisi approcci dei neofiti ai più alti ideali del bene, se qualcuno li incoraggiava, se qualcuno li spingeva. Ma si commette qualche errore in parte per un difetto dei maestri che ci insegnano a disputare, non a vivere, in parte per colpa degli allievi che si presentano ai loro maestri avendo come scopo non lo sviluppo della propria personalità morale, ma dell’intelligenza. E così quella che un tempo era la filosofia è diventata filologia. […] Ma perché io stesso, mentre mi occupo di ben altro, non scivoli, senza che me ne avveda, nella posizione dell’esegeta o del filologo, ricordo che si devono ricondurre all’ideale della vita felice le lezioni dei filologi e la lettura delle loro opere, mirando a cogliere qua e là non termini obsoleti o frutto di fantasia, metafore ardite e figure retoriche, ma utili precetti e parole che determinano qualcosa di grande, parole piene di nobiltà d’animo e tali da poter essere ben presto messe in pratica. Impariamo a fondo questi insegnamenti: così quelle che erano soltanto parole diventeranno opere. Del resto, a mio parere, nessuno rende un peggior servizio
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a tutti gli uomini di coloro che hanno appreso la filosofia come un mestiere per fare quattrini e vivono in un modo del tutto diverso da quello che vanno predicando nelle loro regole di vita. Difatti portano in giro se stessi come esempi dell’inutilità del loro insegnamento, schiavi di tutti i vizi che essi censurano a parole. Un uomo di questo genere non mi può essere utile più di un timoniere che in mezzo alla tempesta è preso dalla nausea. Bisogna reggere saldamente il timone che i marosi vogliono strappare, lottare a tu per tu con il mare, sottrarre le vele al vento: a che cosa mi può servire un nocchiero stordito e in preda a conati di vomito? Quanto pensi siano grandi le tempeste della vita rispetto a quelle che squassano una nave? Non si tratta di spendere parole, ma di tenere in pugno il timone (ivi, 885, 891).
L’inculturazione cristiana, a cominciare dalle sue prime testimonianze scritte, sembra riprendere sic et simpliciter questa prospettiva classica, familiare alla sensibilità filosofica del suo tempo e del suo ambiente di diffusione. Appunto il Vangelo di Marco, 1, 15, presenta l’esordio della predicazione di Gesù di Nazareth, riportando tra le sue prime parole l’imperativo metanoeite, che fa riferimento alla necessità di “cambiare-rinnovare la mente”: «diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi (metanoeite) e credete al Vangelo”». Ad un aprima lettura il termine sembrerebbe essere una trasposizione nell’ambito cristiano dell’atteggiamento filosofico proprio appunto della cultura classica, particolarmente espresso nei precedenti testi di Seneca, la cui redazione risale proprio allo stesso periodo di quella di Marco. In realtà, ad un’analisi più puntuale, si può cogliere che il verbo greco metanoein qui occorrente, tradisce una forma mentis semitica: esso figura, infatti, già nella Settanta, per tradurre in Isaia 46,8, l’ebraico naham, che significa propriamente “pentirsi”, cioè ritornare alla fede nel Dio dell’alleanza, come afferma Isaia 55,6-7: «Cercate il Signore mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona». Il corrispettivo greco, però, occorre in Marco 1,15, ulteriormente rafforzato e specificato dal prosieguo del versetto: kai pisteuete en toi euanghelioi, che proietta subito la dinamica della conversione dalla prospettiva semplicemente etica, a quella più spiccatamente biblica tutta orientata e radicata su Dio e, quindi, in chiave neotestamentaria, sulla buona notizia di Dio (euanghelioi), che consiste appunto nell’avvento di Gesù (cfr. Penna 1989, 110). Pertanto, in un primo tempo la traduzione biblica della Settanta, e successivamente il Nuovo Te-
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stamento, aprono nuovi orizzonti all’interno della maniera classica di intendere e praticare una riflessione improntata al cambiamento e alla guarigione interiore: nel mondo classico questa è condotta dall’uomo con le sue sole forze e mira a realizzare l’apatia e l’atarassia, mentre nella proposta evangelica essa ha come primo protagonista Dio che, in Gesù di Nazareth, si fa prossimo ad ogni uomo, per realizzare la nuova ed eterna alleanza con l’umanità. Per tale ragione, lungi dal voler proiettare chi la vive in una dimensione di irenica tranquillità, l’esperienza biblica della conversione mira allo scuotimento profondo, fatto di «timore e trepidazione» (1 Cor 2,3; 2 Cor 7,15), prima che della pace dell’incontro con Dio. Di conseguenza, la tradizione e la spiritualità cristiane hanno mantenuto questo aspetto di discontinuità con la cultura classica nell’ereditare e nel rivisitare la categoria di esercizio spirituale. Di esso il primo protagonista appunto non è l’uomo, ma Dio stesso, che gli va incontro per scuoterlo interiormente e richiamarlo a sé. La letteratura monastica medievale suffraga ampiamente questa prospettiva. Al riguardo, risulta particolarmente espressivo l’esordio delle Orazioni e Meditationi di Anselmo, dove si afferma che esse sono state composte «per stimolare la mente del lettore all’amore o al timore di Dio, ovvero perché esamini se stesso (ad excitandam legentis mentem ad Dei amorem vel timorem, seu ad suimet discussionem)» (Anselmo d’Aosta 1997, 118-119). La discussio sui comporta sempre, necessariamente, una profonda esperienza di smarrimento e di ritrovamento di sé, declinata nella paradossale dialettica del timore e dell’amore di Dio. Nel solco di questa secolare tradizione, Ignazio di Loyola, negli Esercizi spirituali, esordisce affermando che «[…] con il nome di esercizi spirituali si intende ogni modo di esaminare la coscienza, di meditare, di contemplare, di pregare oralmente e mentalmente e di altre attività spirituali […]. Perché non è il molto sapere che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare le cose interiormente» (Ignazio di Loyola 1988, 35, 37). La storia della filosofia moderna e contemporanea annovera diversi autori che, nei contesti più variegati, hanno ripreso alcuni aspetti di questa ininterrotta tradizione, in cui la categoria di “esercizio spirituale” ha molto liberamente lasciato convivere, per così dire, le sue due anime: quella classica e quella cristiana. Un riferimento abbastanza scontato è, in tal senso, quello alle Meditazioni metafisiche di René Descartes, padre del pensiero moderno, e ai Pensieri di Blaise Pascal, ma è Hadot stesso a ravvisare nell’opera di diversi, autorevoli filosofi, ancor più vicini al nostro tempo, il carattere di esercizio spirituale:
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Kant, Schopenhauer, Kierkegaard, Marx, Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger e Wittgenstein (cfr. Mauro 2011, 162). Particolarmente interessante, per quanto attiene al nostro campo di indagine è, appunto, il riferimento esplicito agli ultimi nomi di questa folta e autorevole lista, alla quale potremmo aggiungere sicuramente, tra gli altri, almeno i nomi di Adorno, Lyotard e Jaspers. Si tratta di alcuni tra i maggiori filosofi del Novecento, appartenenti a scuole molto diverse, e nondimeno accomunati dal fatto di avere focalizzato l’attenzione sull’originaria vocazione terapeutica e ascetica della filosofia, stigmatizzando, di contro, l’ormai egemone tendenza a considerarla e ridurla al rango di sapere metodologico e protrettico rispetto alle nuove scienze, legate all’utile e alla produzione. In particolare, il tema ritorna, variamente declinato, in La crisi delle scienze europee di Husserl, nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, in Essere e tempo di Heidegger, in Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno, in La condizione postmoderna di Lyotard e nella riflessione di Jaspers e di Pieper. Se in vario modo le prospettive maturate da questi autori nelle rispettive opere sono ampiamente note e quasi tutte in parte considerate e ripresentate da Hadot nei suoi studi, occorre colmare un vuoto da lui lasciato a proposito di Karl Jaspers e di Joseph Pieper, appunto gli ultimi due pensatori menzionati nella precedente lista. Il primo di essi è un esponente di spicco dell’esistenzialismo tedesco, mentre il secondo rappresenta quel vasto movimento di rinnovamento del pensiero cattolico atto ad uscire dalle secche delle rigidità del tomismo e dell’antimodernismo, per interpellare e rivalorizzare la genuina riflessione di Tommaso e del pensiero scolatico in atteggiamento di ascolto dei problemi e di apertura alle istanze del pensiero contemporaneo, nel tentativo di dialogare con esso. Di Jaspers, in particolare, risultano di vivo interesse le considerazioni da lui sviluppate nel corso di una serie di interviste concesse alla radio di Basilea, poi pubblicate con il titolo Einführung in die Philosophie (1950). La loro raccolta ha dato luogo ad una corposa e sapida introduzione alla filosofia, proposta anzitutto come pratica di vita, in polemica e contrapposizione alle ormai egemoni prospettive positivista e scientista. La stessa scelta di pubblicare conversazioni rivolte ad un pubblico non specialistico e, per giunta, estraneo in parte, se non del tutto, all’ambiente accademico, ha ulteriormente segnalato questo testo per il suo carattere di atipicità, ancorché in linea con una tradizione ampiamente diffusa ed affermata nella storia della filosofia.
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Come osserva Pietro Chiodi, in quest’opera Jaspers intende far sentire quanto la filosofia investe ogni uomo e quanto essa sia costitutiva della sua stessa natura, a dispetto dei tecnicismi linguistici e dei riduzionismi accademici che ha subito negli ultimi secoli (Chiodi in Jaspers 2008, XI). La filosofia, infatti, è il cammino che ci riconduce a noi stessi e lungo il quale l’uomo diventa realmente ciò che è (cfr. ivi, XVI). Tale obiettivo è realizzabile solo nella misura in cui l’uomo, preso atto del proprio naufragio davanti al limite che lo separa dalla Trascendenza, si sporge come da un trampolino di lancio, per conoscere se stesso e per diventare, così, ciò che veramente è: individuo strutturalmente radicato e integrato nel proprio limite esistenziale, ormai indenne dai deliri di onnipotenza e di onniscenza in cui ricadono appunto lo scientismo e la metafisica moderni (cfr. ibidem). Per giungere a questo grado di consapevolezza, occorre divenire interiormente indipendenti: «Filosofare significa lottare per la propria indipendenza, a ogni costo. Che cos’è l’indipendenza interiore?» (Jaspers 2008, 95). Non è affatto la metafisica dogmatica della modernità, frutto di prepotente presunzione, di volontarismo cieco e superbo, di freddezza nei confronti di ciò che è autenticamente umano. Tale indipendenza è solo una ipocrita facciata, una maschera che si capovolge nel suo opposto: In questo caso l’indipendenza del filosofare consiste nel fatto che il filosofo non soggiace ai propri pensieri, presi come dogmi, ma si sostituisce al loro padrone. Ma l’erigersi a padrone dei propri pensieri è equivoco: può significare o il disordine dell’arbitrio o l’ordine della trascendenza. […] A causa di questa equivocità, l’indipendenza, anziché via all’autentico se stesso nella sua piena realizzazione storica, diviene facilmente la manifestazione di un disancorato potere di automutamento. La nostra ipseità va allora perduta in un’insensata agitazione. Quest’apparente indipendenza, come ogni fenomeno ingannevole, assume infinite forme (ivi, 96-97).
Tra le forme della falsa indipendenza Jaspers annovera, anzitutto, gli estetismi che illudono di possedere l’essere nell’incondizionatezza, smarrendo però l’uomo stesso nella illusoria ricerca del “mi piace”, vissuta come assoluto liberante. Troviamo poi il pensiero arbitrario, quello cioè che procede per contrapposizione e che si risolve in una inutile, sentimentale tautologia. Vi è poi l’apatica indifferenza, che vive dispersa di qua e di là, che non conosce né orizzonte, né lontananza, né passato né futuro (cfr. ivi, 98-99). Secondo Jaspers, un corretto approccio alla pratica della filosofia lo può avere solo chi rinuncia ad un’indipendenza assoluta:
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Quando pensiamo siamo rinviati all’intuizione, che deve essere data; quando viviamo siamo rinviati ad altri, sul cui reciproco aiuto riposa la nostra stessa vita. In quanto noi stessi, siamo rinviati a un altro se stesso, in comunicazione con il quale giungiamo, noi e lui, a realizzare autenticamente noi stessi. Non esiste una libertà isolata. La libertà è presente nella lotta con la non-libertà e nel suo pieno oltrepassamento per effetto della rimozione degli ostacoli che avrebbero sommerso la libertà stessa. Perciò siamo indipendenti solo a condizione di essere impigliati nel mondo. L’indipendenza non può prendere la forma di un abbandono del mondo. Essere indipendenti significa invece assumere un determinato atteggiamento nel mondo: essere immersi in esso e non esserlo, essere a esso intimi e non esserlo. […] Il contenuto dell’indipendenza non è deducibile da essa. Essa non è la forza dell’ingegno, della vitalità, della razza, della volontà di potenza, non è la plasmazione di se stesso. Il filosofare implica un’indipendenza dal mondo che è identica all’assoluto legame che lo congiunge alla trascendenza. Un’indipendenza che pretendesse di fondarsi sulla mancanza di ogni legame diverrebbe subito un pensiero vuoto, cioè un pensiero formale, un pensiero privo di realizzabilità in un contenuto, privo di partecipazione all’idea, privo di fondamento nell’esistenza. Una simile indipendenza diviene l’arbitrio della negazione di tutto. Non esita un attimo a porre tutto in questione, libera com’è da qualsiasi forza che vincoli e guidi la problematica. Contro il nostro punto di vista sta la radicale tesi di Nietzsche: soltanto se Dio non c’è, l’uomo può essere libero. Infatti se Dio è, l’uomo non può svilupparsi e si adagia come acqua ferma, priva di qualunque forza. Ma contro Nietzsche si deve obiettare, usando la stessa immagine: solo in cospetto di Dio l’uomo si sviluppa anziché lasciarsi andare nella nullità del mero trascorrimento della vita. […] La nostra indipenza ha bisogno di aiuto. Da parte nostra non possiamo che sforzarci e sperare, senza evidenza mondana, che dal di dentro ci venga oscuramente in aiuto ciò che ci salva dalla rovina. La nostra autentica indipendenza è la costante dipendenza dalla trascendenza. […] Il filosofare è la scuola di questa indipendenza, non già il possesso dell’indipendenza come tale (ivi, 99-102).
Appunto intendendo il filosofare come “scuola” per prendere coscienza del nostro limite strutturale, da un lato, e della nostra costitutiva apertura al trascendente, dall’altro, Jaspers, richiamando le prospettive di integrazione del negativo maturate nella Bibbia e nella riflessione di san Paolo, di Hegel e di Kierkegaard, svincola la filosofia, in primis, dalla prospettiva accademica prevalente, tendente a ridurla ad asettica teoria, e, secondariamente, dalle secche di gran parte del
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pensiero moderno e contemporaneo. Quest’ultimo o l’ha assolutizzata come metafisica dogmatica, funzionale alle esigenze delle scienze empirico-sperimentali, o l’ha trasformata in un sapere antimetafisico e scettico, funzionale stavolta alla realizzazione di improbabili esperienze di autonomia assoluta rispetto ai confini oggettivi che la tradizione pone rispetto al bene e al male (cfr. ivi, 101-102). Entriamo così nel tema centrale della cura di sé: filosofare significa, essenzialmente, rientrare in se stessi e prendersi cura di sé. Ma cosa comporta tale attività? Comporta, appunto, maturare interiormente l’attitudine a sperimentarsi nel proprio limite esistenziale. Questo, anziché mortificarci, ci permette addirittura di esprimere nel modo più forte e profondo la nostra umanità, facendoci prendere contatto con il nostro radicale anelito al trascendente: Il filosofare è la determinazione di dare via libera a ciò che sta all’origine, di ritrovarsi in se stessi nell’azione interiore. Certamente ciò che prima di tutto si presenta a un esserci esistente nel mondo è costituito dai compiti di fatto, dalle esigenze quotidiane. Ma il non trovare soddisfacimento in questo, il sentire il lavoro per se stessi e l’impegno totale in determinati fini come avvio all’oblio di sé e, quindi, come negligenza e colpa, questo è volontà di condotta filosofica della vita. Sorge allora un atteggiamento in cui si prende sul serio l’incontro con gli altri uomini, la felicità e la sventura, la riuscita e il fallimento, ciò che è oscuro e ciò che è aggrovigliato. Non obliare, ma assimilare nel profondo, non frastornarsi, ma lavorare interiormente, non lasciar perdere le cose, ma chiarirle, tutto questo è condotta filosofica della vita. Essa percorre due vie: nella solitudine è meditazione, attraverso ogni forma di riflessione; con gli altri uomini è comunicazione, attraverso ogni forma di reciproca comprensione, nella comunanza di lavoro, di discorso, di silenzio. […] Ciò che le religioni realizzano nel culto e nella preghiera ha il suo analogo filosofico nel deliberato approfondimento, nel concentramento in se stessi in vista dell’essere stesso. Ciò non può avvenire che in situazioni e attimi in cui non siamo impegnati nel mondo per fini del mondo, e tuttavia non siamo per questo privi di impegno, ma tocchiamo proprio l’essenziale, si tratti dell’inizio del giorno o della fine del suo corso (ivi, 104-105).
In tal senso, Jaspers propone l’esame di coscienza nel dialogo tra sé e sé (riflessione interiore), l’apertura alla trascendenza mediante la poesia, l’arte e la filosofia (riflessione trascendente), la presa di coscienza della propria vita sociale e del suo significato in rapporto al
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tutto-abbracciante (rappresentazione del compito) (cfr. ivi, 106). La filosofia, di conseguenza, è come un ritorno per ciascuno nell’intimo del proprio essere, come una presa di contatto con ciò che ci dà unità e possiede durata, l’esercizio che ci permette di imparare a vivere e di saper morire (cfr. ivi, 107). Fuori dalla illusione di saper tutto, la filosofia ci calerà nell’incertezza dell’esserci, che renderà buona la vita, bello il mondo e pieno l’esserci (cfr. ibidem): «Se il filosofare è imparare a morire, allora il saper morire sarà la condizione del bene vivere. Imparare a vivere e saper morire è la stessa cosa» (ivi, 108). Al cuore di questa prospettiva, Jaspers pone la presa di contatto con il limite: il filosofare, infatti, si accende una volta giunti ai limiti della conoscenza intellettuale: lungi dal prospettarsi come metodologia e introduzione alle scienze, esso si configura proprio come eccedente rispetto a quest’ultime. Filosofare significa, infatti, percorrere i confini del sapere. Laddove questo cessa, continua l’attività del pensiero, capace nell’azione interiore di trasformare chi la esercita (cfr. ivi, 108109). Si può prendere consapevolezza, in tal senso, della differenza che intercorre tra sapere scientifico e filosofico: Il filosofo, infatti, non possiede alcuna dottrina nel senso di prescrizioni sotto cui sussumere i singoli eventi dell’esserci quotidiano, come avviene delle cose sotto le classificazioni empiriche o dei fatti sotto le norme giuridiche. I pensieri filosofici non sono nozioni da applicarsi, ma costituiscono quella realtà di cui è possibile dire: nella messa in atto di questi pensieri consiste la vita stessa dell’uomo; oppure: la vita è totalmente permeata da questi pensieri. Da ciò l’inseparabilità di realtà umana e filosofare (a differenza della separabilità dell’uomo dalle sue conoscenze scientifiche), e la necessità non solo di ripensare un determinato pensiero filosofico, ma, tramite suo, di intimizzarsi con la realtà umana filosofante che lo ha pensato (ivi, 109).
La filosofia assume così l’habitus di una fede religiosa non possessiva e non superba, perché cosciente dei propri intrinseci limiti, e, al contempo, l’habitus della psicoterapia, che non si riferisce soltanto alla medicina come scienza, ma appunto alla filosofia, nella ricerca di una convalida sul piano etico e metafisico. Essa manifesta, infatti, pienamente il suo essere-in-cammino, al di fuori di uno stato definitivo e perfetto e si concretizza negli atti di scelta della nostra vita, storicamente concreti, piuttosto che in una visione del mondo tradotta in proposizioni (cfr. ivi, 110-111). Si entra così nel vivo della storia,
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humus feconda della prassi filosofica come esercizio dello spirito e cura di sé. Occorre muovere dalla propria origine, per poter essere autenticamente filosofi. Non si può, di conseguenza, prescindere dalla storia della filosofia, che dischiude un orizzonte vastissimo, confermando che la filosofia in sé non si configura come prassi accademica, investendo ogni forma dell’umano. Si attinge, così, al patrimonio filosofico sotto tre “aspetti”: «pratico, quotidianamente nell’azione interiore; fattuale, nella messa alla prova delle capacità attraverso lo studio delle scienze, delle categorie, dei metodi e delle sistematiche; storiografico, nell’assimilazione della tradizione filosofica. Ciò che per la Chiesa è l’autorità, per il filosofo è la realtà che dalla storia della filosofia muove verso di lui» (cfr. ivi, 114). Infatti, «La totalità della storia della filosofia, da due millenni e mezzo, è come un unico grande attimo del farsi cosciente dell’uomo. Questo attimo è, nello stesso tempo, un’infinita discussione, rivela forze contrastanti, problemi che sembrano insolubili, sublimi opere e deviazioni, profonde verità e abissi di errore» (ivi, 115). Per tale ragione, solo lo storico della filosofia può cogliere la specificità e la genialità dei singoli pensatori in rapporto alla storia del pensiero e al loro tempo, comprendendo l’intrinseca problematicità di visioni eccessivamente organiche e unitarie del pensiero filosofico, incapaci di riconoscere il carattere dell’unicità di ogni sua espressione storica. Solo lo storico della filosofia, inoltre, è in grado di comprendere che ogni inizio, origine della filosofia è sempre relativo ed ha un suo limite costitutivo. Solo lo storico della filosofia, poi, è pienamente capace di saggiare sincronicamente le essenze delle diverse proposte filosofiche: egli è un po’ artista e un po’ scienziato, essendo l’unico a saper associare irripetitibilità e insostituibilità e al contempo sa usare strumenti in numero sempre maggiore e sempre più consapevole di categorie e di metodi. Finalmente, solo lo storico della filosofia comprende i limiti della concezione della storia della filosofia come sviluppo e può, così, maturare una vera ermeneutica filosofica (cfr. ivi, 114-122): […] l’insieme della tradizione storica del filosofare, questo deposito inesauribile di verità, indica la via al nuovo filosofare. La tradizione è l’incessante speranza di una profondità sempre riscopribile di verità pensate, è l’imperscrutabilità delle poche grandi opere, è la realtà dei grandi pensatori accolta con rispetto e venerazione. L’essenza di quest’autorità sta nel fatto che non le si può ubbidire in modo univoco. Essa consiste nel compito di pervenire a noi stessi attraverso di essa e nella presa di coscienza circa noi stessi, di ritrovare la nostra
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origine tramite la sua origine. Soltanto attraverso l’impegno nel filosofare attuale può essere portato a buon fine l’incontro con l’eterna filosofia nelle sue manifestazioni storiche. Il fenomeno storiografico è il mezzo con cui realizzare il legame nel profondo del comune presente. L’indagine storica si svolge pertanto nei gradi della vicinanza e della lontananza. Il filosofare coscienzioso sa bene con che cosa ha a che fare, di volta in volta, quando indaga i suoi testi. I presupposti devono farsi chiari e dare luogo al sicuro possesso di un sapere consapevole. Ma il senso e le vette della penetrazione storica sono gli attimi della comunione nell’origine. Qui si fa chiaro ciò che conferisce il suo senso a ogni indagine preliminare, dandole contemporaneamente unità. Senza questo centro dell’origine filosofica ogni storia della filosofia si risolve, in ultima analisi, nell’esposizione di una catena di errori e curiosità. Pertanto, una volta che la storia si sia costituita innanzi a noi, diviene lo specchio di ciò che è proprio di ciascuno di noi: scorgiamo in immagine ciò che noi stessi pensiamo (ivi, 121).
La storia della filosofia può diventare, di conseguenza, il luogo filosofico per eccellenza in cui l’uomo attinge alla propria origine e si sporge sulla soglia del suo limite esistenziale per gettare uno sguardo sull’assoluto. Si tratta di un modo particolarmente originale di intendere la storia della filosofia, in parte già considerato da diverse scuole in opposizione, soprattutto, alla ricezione positivistica di questa disciplina. Il Positivismo infatti l’ha ridotta al rango di sapere asettico e tassonomico, in cui l’apporto personale di chi lo coltiva è del tutto indifferente: si tratta del luogo comune, ancor oggi assai diffuso, che considera lo storico un “manovale della filosofia”, l’espressione più umile dal punto di vista teoretico di quanto può realizzare tale sapere. Hadot, di contro, si colloca nel solco della diversa prospettiva maturata in merito, a metà Novecento, da Henri-Irénée Marrou e ben esemplificata dallo storico della filosofia polacco Leszek Kołakowski nell’esergo di un suo recente saggio: Accingendomi a tenere queste piccole lezioni sui grandi filosofi, persone che hanno aperto nuove vie del pensiero per le generazioni successive, devo anzitutto premettere che non è mia intenzione presentare la storia della filosofia in pillole; questo libro non è la versione abbreviata di un manuale, un’enciclopedia o un dizionario. Se qualche studente si aspetta di preparare l’esame su queste lezioncine resterà deluso: non lo passerà. Di buoni manuali, dizionari ed enciclopedie ce n’è in abbondanza. Non intendo ‘riassumere’ Platone,
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Cartesio o Husserl, sarebbe un’ambizione ridicola. Piuttosto che dare solo qualche notizia storica, vorrei parlare dei grandi filosofi in modo da cogliere in ciascuno di loro un pensiero che era importante per lui, che costituiva uno dei pilastri dell’edificio che aveva costruito, ma che nello stesso tempo, è comprensibile per noi oggi, che tocca qualche corda nella nostra mente. Cercherò di terminare ogni lezione con una domanda rivolta a tutti coloro che vi hanno assistito, una domanda tratta dal pensiero del filosofo che sia ancora importante e non del tutto risolta (Kołakowski 2010, 11).
Il tempo e la storia diventano in tal senso un depositum da cui l’uomo può attingere per rispondere alla domanda di senso che lo interpella nel suo presente: La storia della filosofia, una regione in cui respiriamo pensando, offre al nostro personale indagare modelli di impareggiabile ricchezza. Essa suscita problemi tramite ciò che in essa venne tentato, riuscì o fallì. Con i suoi modelli di umanità incoraggia i singoli nella loro incondizionatezza lungo il cammino della propria via (Jaspers 2008, 122).
La dimensione del tempo è centrale pure nella ricezione della filosofia come esercizio dello spirito maturata da Pieper. Essa, infatti, è all’origine stessa della possibilità di vivere autenticamente o meno. In particolare, il filosofo tedesco distingue due modi diversi di vivere il tempo. Il primo, corrispondente ad una vita inautentica, computa il tempo in funzione del lavoro e della produzione, distinguendo tempi lavorativi e tempo “libero” (dal lavoro). Il secondo, proprio della vita autentica, computa il tempo in ordine all’eterno e lo distingue in tempo ordinario e tempo festivo. In quest’ultimo trova spazio la contemplazione, l’anelito alla pienezza dell’esistenza umana, situato non solo nell’aldilà, ma anche nella storia, perché anche nella vita storica la più piena felicità umana assume le forme dell’ammirazione visiva e della contemplazione (cfr. Pieper 2009, 32): Questa contemplazione “terrena” può avviarsi lungo molte strade e realizzarsi in diversi modi: nella riflessione filosofica sulla totalità dell’esistenza oppure nella “visione” particolare dell’artista, che cerca di penetrare le immagini originarie delle cose del mondo, oppure nella preghiera contemplativa, che si immerge nei misteri divini. Se si riesce a gettare lo sguardo sul fondamento nascosto di tutto ciò che è, allora nella stessa misura si verifica un agire in sé pieno di senso e all’uomo è concessa un “bella giornata” (ivi, 33).
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Rinunciare a un giorno di profitto significa in tal senso affermare una priorità, che incide profondamente sulla qualità della vita di ogni giorno: trovare spazio e tempo per l’attività contemplativa permette, in tal senso, di fare esperienza di una dimensione di libera sovrabbondanza, di ricchezza esistenziale: un accordo esistenziale dell’uomo con il mondo e con se stesso (cfr. ivi, 34-38): occorre allora allenarsi alla meraviglia e lasciarsi stupire dal mistero dell’essere, praticare la filosofia non come erudizione specialistica o gioco di futili parole, ma come esercizio di vita autentica (cfr. ivi, 112-113). Bibliografia Anselmo d’Aosta (1997), Orazioni e Meditazioni, a cura di I. Biffi e C. Marabelli, Jaca Book, Milano. Chiodi, P. (2008), Prefazione all’edizione italiana, in Jaspers, K., pp. IX-XVIII. Hadot, P. (2005), Esercizi spirituali e filosofia antica, a cura e con una prefazione di A.I. Davidson, trad. it. A.M. Marietti e A. Taglia, Einaudi, Torino [Exercices spirituelles et philosophie antique, Éditions Albin Michel, Paris 2002]. Hadot, P. (2007), Wittgenstein e i limiti del linguaggio, a cura di B. Chitussi, Bollati Boringhieri, Torino [Wittgenstein et les limites du langage, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2004]. Hadot, P. (2008), La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson, trad. it. di A.C. Peduzzi, Einaudi, Torino [La philosophie comme manière de vivre. Entrentiens avec Jeannie Carlier et Arnold I. Davidson, Éditions Albin Michel, Paris 2001]. Ignazio di Loyola (1988), Esercizi spirituali, a cura di P. Schiavone, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo. Jaspers, K. (2008), Introduzione alla filosofia, trad. it. P. Chiodi, Raffaello Cortina Editore, Milano [Einführung in die Philosophie. Zwölf Radiovorträge, Artemis-Verlag, Zürich 1950]. Kołakowski, L. (2010), Piccole lezioni su grandi filosofi, trad. it. V. Nosilia, Angelo Colla Editore, Costabissara [O co nas pytaią wielcy filozofowie, Znak, Kraków 2004]. Marrou, H.-I. (1959), La foi historique, in «Les études philosophiques», 14, pp. 151-161.
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Marrou, H.-I. (1962), La conoscenza storica, trad. it. A. Mozzillo, il Mulino, Bologna [De la connaissance historique, Éditions du Seuil, Paris 1954]. Mauro, L. (2011), Pierre Hadot: la filosofia come modo di vita, in P.A. Rossi – P. Vignola (cur.), Il clamore della Filosofia. Sulla filosofia francese contemporanea, Atti del Convegno di studi (Genova, 17-18 novembre 2008), Mimesis Edizioni, Milano-Udine, pp. 155-165. Penna, R. (1989), Letture evangeliche. Saggi esegetici sui quattro evangeli, Borla, Roma. Pieper, J. (2009), Sintonia con il mondo. Una teoria sulla festa, a cura di F. Russo, Cantagalli, Siena [Zustimmung zur Welt. Eine Theorie des Festes, Kösel-Verlag, München 1963]. Seneca, L.A. (1995), Lettere morali a Lucilio, a cura di F. Solinas, 2 voll., Mondadori, Milano.
Emanuela Miconi “La Forma Perfetta”: ricerca di Dio, scoperta di sé. Per una mistica della modernità nel pensiero di Etty Hillesum
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e soltanto sapessi, cosa hai guardato sul punto di morire: un sasso, che aveva già bevuto molti sguardi estremi, un cieco sasso meta di altri sguardi ciechi? Oppure terra, sufficiente a riempire una scarpa e già annerita da tanto addio e tanta volontà omicida? O era forse il tuo ultimo cammino che ti portava il saluto di tutti i cammini da te percorsi? Una pozza d’acqua, un pezzo di metallo luccicante, forse la fibbia addosso al tuo nemico, o un altro presagio impercettibile del cielo? O forse questa terra che non congeda nessuno senza amore ti ha parlato col volo di un uccello ricordando alla tua anima di quando palpitava nel corpo riarso dai tormenti?
Sachs 2006, p. 17.
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Nulla ci è dato sapere dell’ultimo sguardo di Etty Hillesum, ci riesce difficile immaginare a che cosa i suoi occhi si siano volti, per l’ultima volta, quel giorno di novembre del 1943, sulla soglia della camera a gas del campo di sterminio di Auschwitz. Le sue ultime parole ci giungono da una cartolina postale, gettata dal treno che deportava lei e l’intera sua famiglia nel lager nazista, poi raccolta, come tante, da mani ignote e spedita alla sua destinazione: [7 Settembre 1943] Apro a caso la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto ricetto”. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti […] Abbiamo lasciato il campo cantando (Hillesum 2001, 149).
Sconosciuti ci sono i suoi ultimi istanti, ma molto sappiamo della sua vita, grazie al corposo diario e al breve epistolario che questa giovane ebrea olandese ci ha lasciato a testimoniare della breve esistenza di un’anima “di fuoco e cristallo” che, ancora oggi, irradia la sua luce nelle tenebre più profonde della storia del XX secolo. Dalle pagine del diario apprendiamo di come Etty, dal momento in cui i provvedimenti antiebraici si faranno sempre più repressivi anche nel suo paese, non tardi a prendere coscienza del proprio destino, e da subito la vediamo intenta a preparare con stoica lucidità il suo congedo dal mondo e dalla vita: Mi chiedo che cosa farei effettivamente, se mi portassi in tasca il foglio con l’ordine di partenza per la Germania, e se dovessi partire tra una settimana […] Comincerei col non dir niente a nessuno, mi ritirerei nel cantuccio più silenzioso della casa e mi raccoglierei in me stessa, cercando di radunare tutte le mie forze da ogni angolo di corpo e anima […] Già ora abituo il mio cuore ad andare avanti, anche quando sarò separata da coloro senza cui non credo che potrei vivere […] In questa nuova situazione dovremo imparare un’altra volta a conoscere noi stessi (Hillesum 2012, 708-710).
Emerge già da queste poche righe quello che costituirà uno dei leit motif del pensiero della Hillesum, nel suo aspetto più mistico: il tema della spogliazione, della purificazione, della leggerezza perseguite fino al momento estremo della propria esistenza. Reiteratamente nel dia Per le notizie biografiche relative alla vita della Hillesum rimando a Adinolfi 2011 e ai saggi raccolti nel volume di van Oord 1990.
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rio viene ribadita questa esigenza di semplicità, di nudità esistenziale, espressa attraverso metafore che richiamano il fluire della nuda vita della natura, nell’armonia universale del Cosmo che tutto comprende: Parole come Dio e Morte e Dolore ed Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere (Hillesum 2012, 705).
Parafrasando Nietzsche immaginiamo l’esistenza umana svolgersi tutta sulla corda tesa tra due abissi inconoscibili, quello della propria origine e quello della propria fine, spazio effimero e fragile sul quale l’uomo, come un funambolo ardito, costruisce la propria vita nella relazione con gli altri, conscio della solitudine e della nudità di una condizione primordiale alla quale il fato pare volerlo destinare nel momento della sua venuta al mondo e in quello della sua dipartita. Solo l’esperienza di questo distacco, che è al contempo ritorno all’origine, gli consentirà di attraversare il dolore del proprio essere, accoglierlo in sé e renderlo lieve, similmente a Perseo che, una volta sconfitta Medusa, è capace di raccoglierne il Male, farlo proprio, sublimarlo e averne, con leggerezza, senza patirne danno alcuno, cura estrema. Il diario di Etty si apre all’insegna di una profonda crisi esistenziale a cui consegue la disperata richiesta di aiuto che troverà risposta e ascolto duraturi nell’intensa relazione con lo psicochirologo Julius Spier. “Perseo attinge dell’acqua e si lava le mani vittoriose; ma perché la ruvida rena non rovini la testa irta di serpi della figlia di Forco, Medusa, egli rende più soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott’acqua, e posa la testa sul mucchio, a faccia in giù” (in Ovidio 2009, 169 e anche Calvino 1996, 7-10). Julius Philipp Spier (Francoforte sul Meno 1887-Amsterdam 1942), che Etty nel suo diario chiama sempre S., è l’uomo con il quale stabilirà una lunga e controversa relazione sentimentale. Spier, già allievo di Carl Gustav Jung, interruppe in giovane età una carriera di successo per dedicarsi interamente alla chirologia, la scienza delle linee della mano. Dapprima esercitò a Berlino e in seguito, emigrato a Amsterdam, fondò uno studio e raccolse intorno a sé un gruppo di allievi e pazienti, tra i quali la stessa Hillesum che, colpita dalla sua personalità, decise di intraprendere una terapia sotto la sua guida. Spier, sostenitore della profonda interazione tra corpo e spirito, le prescrisse determinati “esercizi” da compiere con metodo e regolarità e fu lui, con molta probabilità, a consigliarle la scrittura, a fini terapeutici, del diario. Per più approfondite informazioni rimandiamo alle note in calce alla recente edizione integrale del diario (Hillesum 2012) e ad Adinolfi 2011.
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Costui introduce la giovane donna all’esercizio metodico di una rigida disciplina psichica e corporea, finalizzata alla progressiva presa di coscienza di sé e alla costituzione di un’etica di vita inscindibile da una profonda e sempre più radicata dimensione spirituale. Per Etty il conflitto interiore risulta durissimo fin dalle prime pagine dei suoi scritti; riscontriamo nel termine “lotta” la ricorrenza di una metafora che identifica la battaglia messa in atto attraverso una sorta di askésis quotidiana, volta all’acquisizione di abitudini e forme di autocontrollo; lotta che Etty combatte nel tentativo di cambiare se stessa, determinata a edificare una persona nuova, “temprata ma non indurita”, rafforzata nel corpo e nell’anima ma non privata della tenerezza, della compassione e dell’amore verso sé e verso l’Altro. Tutto il percorso esistenziale intrapreso da questa giovane donna pare quindi svolgersi sotto l’egida dell’antico motto delfico, quel “conosci te stesso” assunto qui a lume indicatore della scoperta dell’ ”antico tesoro degli dei”, in realtà nascosto nei recessi dell’animo umano e identificato nell’occulta sorgente inesauribile che, sola, può alimentare e tenere sempre viva la scintilla animae ipotizzata dai mistici, simbolo di quell’impronta indelebile, seppur ai più impercettibile, della presenza divina nell’uomo e in tutto l’universo creato. Etty, cercando se stessa, inabissandosi progressivamente nella propria interiorità, finirà con trovare, al termine di questa sentiero di discesa profonda, Dio: un dio personale che sarà necessario disseppellire dalla propria anima affinché, tramite l’uomo, Egli possa manifestarsi e darsi nella Storia. Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo (Hillesum 2012, 153).
Accingersi a tale impresa presuppone un apprendistato difficile, nella prospettiva di un lavoro estenuante, coinvolti spirito e corpo, in tutto ciò che via via assume i tratti di una pratica quotidiana non esente da una fatica fisica che spesso, nel diario, viene descritta nelle immagini di “vasti lembi di terra da dissodare” e di “pietre da sbozzare” quasi a voler richiamare il sapere, arcaico e paziente, di antichi contadini ed artigiani. Le parole di Etty rivelano la tensione stoica, presupposto imprescindibile di ogni ricerca interiore: avvertire il caos nascosto dietro
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all’apparenza delle cose e tentare di darvi ordine, senza soccomberne, implica la serena determinazione a volgere un profondo sguardo indagatore verso l’interno di se stessi e, al contempo, la sentita esigenza di una purificazione, volta a sottrarre alla pesantezza della realtà, quel nucleo più autentico ed originario rintracciabile solo al centro recondito della propria anima, nucleo che, con analoga fatica depurato da ogni scoria, va riportato alla luce, dandovi forma per sottrarlo al caos indistinto dal quale lo si trae. L’aspirazione alla Forma Perfetta, proprio perché in sé irraggiungibile, viene quindi identificata non tanto con la meta finale quanto, piuttosto, presa a movente di ogni azione e consente a Etty una metamorfosi che, pur dando origine a una coscienza di sé, ora più chiara, definita e riconoscibile alla luce del nuovo ordine conquistato, mantiene tuttavia inscritta nella propria dimensione la traccia del lavoro compiuto, l’impronta dell’immane fatica, del conflitto sottesi ogni qual volta il miracolo del Cosmos nato dal Caos primigenio si manifesta nel dominio dell’umano. Come “I prigioni” e la Pietà dell’ultimo Michelangelo, estrapolati dal blocco marmoreo, emergono dalla pietra con la forza di una torsione sovrumana, conservando alle proprie spalle l’elemento dal quale la mano dell’artista con duro lavoro li ha generati, così Etty porterà tracciati nel proprio “granito” i segni di quella sbozzatura faticosa, metafora del suo lento e graduale apprendistato a “essere”. Devo senza dubbio cominciare lentamente a modellare piccole figure nel grande blocco di granito intonso che mi porto dentro, altrimenti alla lunga ne verrò schiacciata. Se non cerco e scopro la mia forma congeniale, finirò a vagare nel buio e nel caos (Hillesum 2012, 128).
Vediamo allora esercizio e disciplina del quotidiano, lungi dal configurarsi come mera operazione intellettuale, trasformarsi in strumenti concreti atti a edificare se stessi nella maniera più salda e autentica. Una colonna salda e dritta si sta innalzando nel mio cuore; la sento quasi crescere e intorno a essa si raccoglie il resto: io stessa, il mondo, ogni cosa. Quella colonna mi da anche tanta fermezza dentro […] si sta consolidando qualcosa in me […] ma è soltanto l’inizio grezzo di un nuovo, più maturo stadio della mia vita (Hillesum 2012, 142-143).
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La tensione costante al “conoscersi” assurge qui a una pratica di vita che nulla ha a che fare con il desiderio di un volontario ritiro del mondo; essa, piuttosto, si trasforma nell’habitus mentale preposto alla realtà quotidiana, sempre intessuta nella consapevolezza e nella pienezza della relazione con gli altri. La colonna interiore si erge nell’animo di Etty a solido fondamento sul quale verrà a edificarsi quella “fortezza inespugnabile”, così simile alla “cittadella interiore” di Marco Aurelio, mai identificata con il rifugio mistico, il luogo di isolamento e di esilio da condizioni ogni giorno sempre più tragiche e abberranti, ma, piuttosto, metafora di uno spazio privilegiato in cui, certo, ritirarsi, ma per attendere, nelle condizioni migliori, all’opera più ardua: comprendere e rinnovare se stessi al fine di meglio agire e operare nel mondo. La grande distesa dell’anima, nella quale Etty trova la “sua” pace, non può non rimandare al Weltinnenraum di rilkiana memoria: lo “spazio interiore del mondo” nel quale l’individuo conferisce, attraverso il proprio sguardo rinnovato e consapevole, un nuovo senso alla realtà e alla propria esistenza. Uno spazio nel quale, al lume di una verità cercata, viene interiorizzato e riletto il mondo, un luogo che pur rieccheggiando l’annullamento dell’io nella vastità della dimensione mistica, in realtà nulla può aver a che fare con il vuoto e l’assenza, proprio perché in ogni istante appare invece “aperto” e “pronto a riempirsi di Dio”, fine ultimo e supremo questo, per Etty, della meditazione e della preghiera. “Dio abita laddove lo si lascia entrare”, recita un antico detto chassidico, ed è a tal fine che Etty persegue l’idea di un’esperienza della trascendenza radicata nel proprio io, tentando di dar luogo, dentro e fuori di sé, a quella stille Stunde, l’ora quieta, alla quale conseguirà una nuova concezione di vita, totalmente antitetica al pervasivo modello della modernità, e conforme invece a una dimensione di pausa, distacco, attesa, attenzione per quel ritmo segreto dell’universo che presiede all’esistenza di tutte le creature e definisce gli intimi rapporti tra le cose, la natura e la mente umana. Soltanto rendendosi disponibili a ricreare in sé questo spazio di silenzio e di pace, sarà possibile cogliere, e fare proprio, il ritmo profondo instauratosi tra Anima, Cosmo e Dio, condizione imprescindibile «Le tristi voci e le minacce mi assedieranno di nuovo, come altrettanti soldati nemici assediano una fortezza inespugnabile» (Hillesum 2012, 715) Cfr. Buber 2004, 64.
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dalla possibile partecipazione del singolo all’armonia del Tutto e, per Etty in particolare, strumento dell’edificazione e del ritempramento di sé, ora quanto mai necessari per affrontare a viso aperto il tragico destino che la Storia, di lì a poco, avrà in serbo per lei. Molte persone […] dicono che chiunque possa sfuggire alle loro grinfie deve provare a farlo […] non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio […] Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non mi potranno fare […] E il valore della mia persona risulterà appunto da come saprò comportarmi nella nuova situazione. E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò (Hillesum 2012, 710-712).
Etty elabora in tal modo una strategia esistenziale che, pur nella piena e consapevole accettazione della propria sorte, si delinea nei termini di una resistenza opposta agli eventi in nome della dignità dell’essere umano e della fede in un Dio che viene accolto e accudito nel proprio intimo e dal quale, a nostra volta, verremo accolti e protetti. Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle bufere di questi ultimi giorni […] ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla Tua casa, mio Dio (Hillesum 2012, 714).
Nella prospettiva di questo percorso assume fondamentale importanza ciò che la giovane donna denomina, utilizzando un termine tedesco pressoché intraducibile, hinheinhorchen, letteralmente “ascoltarsi dentro”. In tal senso si richiama nuovamente il progressivo approfondimento, conseguito alla scelta di scendere e innoltrarsi nella propria vita interiore, dimenticando le cure del quotidiano, per porsi alla ricerca di quel nucleo di volontà che pur baluginando nell’oscurità del nostro percorso, teso agli estremi recessi della nostra anima, viene intuito come fine ultimo da perseguire, benché spesso occultato dietro false apparenza, ingannevoli e illusorie, ma in realtà vera luce verso la quale, nel desiderio di conquistare una verità finale, a tentoni procediamo nel nostro cammino di uomini. Etty stessa nel diario dichiara l’intraducibilità semantica del termine: «Quello che faccio è hineinhorchen (mi sembra una parola intraducibile)» e oltre «Hineinhorchen, “prestare ascolto dentro” […] vorrei trovare una buona traduzione olandese di questa parola»,(Hillesum 2012,151 e 756).
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Per Etty diviene via via sempre più determinante, ancor che raggiungere la meta ultima, della cui esistenza si da comunque per certa, la necessità di affinare pensiero, atteggiamenti, strumenti e strategie atti a percorrere, nella sua interezza, la strada prescelta, ben conscia di quanto le difficoltà e gli alterni stati d’animo nell’affrontarla, renderanno il percorso arduo e periglioso, disseminato di ostacoli, strappi, salti, entusiasmi improvvisi e altrettanto repentine cadute. Hineinhorchen, “prestare ascolto” a me stessa, agli altri, al mondo […] Cerco una verità profonda, ma non ho ancora idea di che cosa si mostrerà […] sento che c’è un fine, ma ignoro dove e come […] A volte, seduta a questa scrivania, mi sento un’avventuriera e talvolta, alla fine della mia giornata, mi sento un paziente contadino che ha di nuovo coltivato un appezzamento infinitamente piccolo del grande campo dello spirito […] E poi, di nuovo, arriva lo sconforto, il senso di insicurezza, l’incapacità di dare forma a ciò che si ha dentro (Hillesum 2012, 151-152).
“Ascoltarsi dentro” diviene quindi la prima tappa di un itinerario di crescita declinabile, al contempo, nei termini di un “andare a se stessi” e di un “ritorno”, un “ritrovarsi” nel momento in cui si decide di risalire alla fonte originaria del proprio destino. Per l’ebraismo chassidico è solo tramite questa teshuvà (fare ritorno a se stessi) che all’uomo verrà consentito di contribuire alla trasformazione del mondo attraverso la propria trasformazione, sinonimo della metamorfosi di tutto l’essere che consegue alla messa in atto di un libero arbitrio, secondo una concezione della vita intesa come progressivo cammino verso un’esistenza più vera ed autentica. “Ascoltarsi dentro” prelude allora all’assunzione di quella libertà che in sé comporta, prima di tutto, una rinuncia a tutto ciò che ostacola la purificazione interiore, la leggerezza, il distacco e l’indifferenza a tutta quella serie di esperienze diverse e molteplici il cui insieme confuso ci espone ai rischi di uno sterile dilettantismo. Etty è ben conscia che una volta prescelta la strada, qualunque essa sia, sarà necessario attenervisi con fedeltà e perseveranza, al fine di poter attingere alla fonte di quella gioia e quella pienezza che, sole, le consentiranno di accogliere Dio anche tra le baracche di un campo di sterminio. Hineinhorchen racchiude quindi la tensione verso il completamento della propria esistenza, realizzabile solo nell’adempimento, totale e incondizionato, del compito che da Dio stesso ci è stato assegnato.
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L’indagine che Etty compie sul proprio io, e assume a punto di partenza del suo personale percorso evolutivo, non si esaurisce di certo in una serie di tappe preordinate ma, ben lungi dal porre il singolo come fine, trova il suo esito finale e la sua ragione ultima nell’apertura verso l’Altro e nella rinnovata sensibilità verso una forma di Amore universale, ora in grado di trascendere il mero solipsismo individuale a favore di una ritrovata sinergia con il respiro del cosmo e la forza divina che giace nel fondo dell’anima umana. La vediamo così intenta a costruire il proprio spazio intangibile, luogo inespugnabile preservato dalle cure del quotidiano nel quale, una volta ritemprata da nuova forza e consapevolezza, si darà disponibile ad accogliere Dio e iniziare il dialogo ininterrotto condotto, per un verso, secondo i termini di una dialettica tutta giocata sulla ricerca di autenticità e, per l’altro, lungo le tappe di quel percorso spirituale che la condurrà a un Dio completamente estraneo alla trascendenza, riconosciuto invece come unico interlocutore di un umanissimo dialogo tutto all’interno della propria coscienza. Paradossalmente, cercando se stessa, Etty approda alla scoperta di Dio, la scintilla di luce occultata nel fondo dell’anima, la sorgente segreta al cui disvelamento sembra necessariamente preludere, ancora una volta, un disciplinato lavoro e una faticosa concentrazione sul cammino prescelto. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno dopo giorno, riusciremo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò “Dio”, e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, “lavorando a noi stessi”, allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze (Hillesum 2012, 777).
Nel dipanarsi della riflessione tutta giocata sul piano etico e spirituale, Etty rintraccia e assume spunti profiqui dalle numerose e onnivore letture in cui si distinguono poeti e pensatori eletti a guide spirituali e nella cui opere sono rintracciabili le fonti primarie di tante immagini e metafore che andranno via via ad alimentare, non in ultimo, il notevole talento narrativo della giovane scrittrice. Rainer Maria Rilke, il poeta più amato, è uno dei “padri” e maestro indiscusso dal quale vengono mutuati temi e motivi ricorrenti in tutto il diario; si pensi, in primis, all’immagine della sorgente, vero e pro-
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prio fil rouge della poesia rilkiana. La vera chiave di volta del pensiero di Etty va tuttavia, a mio parere, rintracciata in un altro importante concetto derivato dallo stesso Rilke: la “maturazione di Dio”. In uno splendido verso, tratto dallo Stundenbuch, il poeta esprime solo con apparente semplicità, in realtà pregna di significato, questa idea del compiersi della divinità, in tutta la sua interezza, nell’interiorità stessa della creatura, e mai ad essa estranea. Anche se non vogliamo Dio matura (Hillesum 2012, 293).
Parole, queste, che potrebbero racchiudere tutta intera la breve e intensa esistenza di Etty Hillesum, custode di questo “seme” di Dio, destinato anch’esso, come noi, a “fiorire e dar frutti in qualsiasi terreno si sia piantati”, quest’anima di “fuoco e cristallo”, purificata e trasparente, nella quale il germoglio divino potrà prendere corpo, ampliarsi fino ad invaderla e trasformarne, in rinnovata intensità e lucida consapevolezza, la capacità di cogliere le ricchezze infinite del proprio mondo interiore, raccolto in quel “luogo del cuore” dal quale attingere forza e nuove certezze atte ad affrontare, senza doverne soccombere, le prove più dure. Dio matura in noi, anche nostro malgrado e questa, spesso, non sempre per l’uomo è esperienza facile e percorso senza asperità. Sconforto, scoramento, talvolta tetra disperazione, costellano l’intera biografia di Etty, sovrastata dalla solitudine e dall’abbandono che, anche per lei, conseguono alla percezione, immane e terribile, di ciò che Rilke chiama il “buio di Dio”: l’abisso inconoscibile che separa l’essere umano e la sua finitezza dall’incomprensibile e inafferrabile trascendenza divina10. Tuttavia è proprio nell’opera poetica rilkiana che viene rintracciato il barlume di una grande speranza, celata nell’allusione alla possibilità di “costruire” Dio nella propria intimità, attraversando le tenebre per Faccio qui riferimento a Rilke 1994, vol I, p.119; in seguito citato in Hillesum 2012, 293; una interessante interpretazione filosofica dei temi rilkiani è riscontrabile nell’ampio contributo di Mathieu 1968. Sul tema si veda Semeraro 2010. 10 “Il forte ponte, internamente tremante, del Mediatore, ha solo un senso quando si sia riconosciuto l’abisso tra noi e Dio; ma appunto quell’abisso è pieno del buio di Dio, e quando qualcuno lo prova, discenda egli e ululi in quel baratro (è più necessario questo che valicarlo)”, da una lettera scritta da Rilke a Ilse Jahr, 22.2.1923, cit. in Jesi 1979, p. 13.
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giungere a discoprire l’inesauribile fonte di luce occultata nell’anima. Dio quindi può compiersi nell’uomo, ma della riuscita di tale evento solo l’uomo sarà responsabile, chiamato ad esperire, con piena coscienza, quell’attraversamento dell’abisso che impone di immergersi nelle tenebre, e non semplicemente travalicarle, per guadare il fiume, sorta di Acheronte interiore, della nostra cieca e ottusa ignoranza, risalirne all’origine più remota e raggiungere la sorgente di verità e luce, occultata forse, ma mai inaridita. «Ti edifichiamo con mano tremante/ atomo su atomo./ Ma chi può compierti,/ cattedrale?» (Jesi, 1979, 36): Dio, cattedrale incompiuta, che ci chiama, nel suo perenne divenire, a contribuire “atomo su atomo” alla sua maturazione, noi piccoli uomini tutti affratellati nella comunanza di vita e di destino dei “costruttori di Dio” per cui proprio il significato del maturare, nella sua accezione tedesca reifen, semanticamente più ricca dell’italiano, diviene guida al nostro cammino. Il verbo reifen rimanda propriamente a “maturare”, al “portare a maturazione”, ma contiene anche una sfumatura riferibile al “conchiudere un cerchio” e il suo suono richiama quello analogo del sostantivo (der Reifen) che indica l’anello, il monile circolare, in sintesi un cerchio materiale modellato, da un’azione del tutto umana, sulla figura geometrica più astratta e teoricamente perfetta. In quest’ottica allora il “maturare” è l’adeguarsi alla circolarità di un rapporto reciproco stabilitosi nella coscienza tra io e Dio, è tendere alla forma divina propria dell’Eterno che, per Rilke, “quando si fa sera, torna quieto/ a sé in un ampio cerchio/ e pieno d’echi lento penetra in sé” (Jesi 1979, 36). Maturare può quindi, in tal senso, divenire metafora del legame che lega indissolubilmente nella “forma perfetta” di Dio e del cosmo, terra e cielo, visibile e invisibile e, per dirla ancora con il poeta, il cuore che “esala Dio” e Dio che “ricade come pioggia” (Hillesum 2012, 768-770). Ma se Reifen è anche l’anello, il monile costruito dalle mani di uomini che anelano alla perfezione del modello geometrico, non può allora che essere assunto a simbolo di tutto quel processo di crescita e conoscenza tramite il quale l’umano, nella sua forma incompiuta, tenta di adeguarsi alla Forma Perfetta di Dio. Etty, quasi al termine della sua giovane vita, quando gli eventi sono ormai sul punto di travolgerla e annientarla, ha già compiuto il percorso di adeguamento a questa Forma, ha “costruito” il suo Dio e
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ora è pronta ad accoglierlo e a farlo vivere in sé, con la testimonianza quotidiana della sua azione nel mondo, del suo amore per l’umanità e della condivisione della sorte di un popolo al quale, per nascita, appartiene. Di fronte all’odio che dilaga e contamina ogni rapporto con i propri simili, oppone il suo inespugnabile baluardo, rivendicando la necessità, ora più che mai ineludibile, di un nuovo umanesimo. Ognuno di noi deve raccogliersi e distuggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale (Hillesum 2012, 768).
Etty, pur avendone l’occasione, sceglie consapevolemente di non salvarsi, eppure, fino alla fine, cercherà e troverà Dio in quel luogo dell’anima dal quale attingere forza e mai chiedere conto di un Male che lei ravvede e attribuisce solo agli uomini. Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi […] Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. […] Io non chiamo in causa la Tua responsabilità, più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi (Hillesum 2012, 713).
Quello che in tante teologie dell’Olocausto è ravvisabile come un Dio debole, compassionevole ma deprivato della sua potenza, per Etty diviene la fonte e il più alto movente di una sempre più profonda riflessione morale e di una strategia di resistenza esistenziale11 che si appella alle risorse fondamentali dell’essere umano, alla sua capacità di accogliere in sé la vita, il dolore, il male rielaborandoli in una forma di esistenza che, degna di essere vissuta, possa in sé contenere ed esperire anche la morte. L’approdo a questo rapporto intimo e diretto con il divino, abbiamo visto, non si configura come esito ultimo di una illuminazione mistica ma è in realtà il frutto della messa in atto di un lavoro costante su di sé, della pratica di un esercizio disciplinante, di una visione etica e di uno stile di vita conformati a un modello di perfezione che si compie giorno per giorno in una quotidianità in cui l’esistenza, in quanto tale, si fa, essa stessa, esperienza della sacralità della vita, in ogni sua forma. Cfr. Deriu 1996.
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Una delle preoccupazioni di Etty sarà quella di trovare un linguaggio, una parola in grado di trasmettere ai posteri il significato profondo di questo cammino; una parola che non si cristallizzi nei meri dati di fatto ma conservi intatto il proprio potere vivificante, una parola attiva, in perenne divenire, mai assunta come data ed assoluta, ma sempre in grado di far vivere e dare forma al pensiero, il cui scopo finale dovrà essere quello di meglio incidere nella Storia la testimonianza del proprio tempo. Dovrei impugnare questa sottile penna stilografica come se fosse un martello e le mie parole dovrebbero essere come tante martellate, per raccontare il nostro destino e un pezzo di storia com’è ora e non è mai stata in passato (Hillesum 2012, 707).
La parola umana nel farsi testimonianza si esplica nel linguaggio, ma Etty ricerca espressione più atta anche riprodurre il silenzio che solo può preludere al fare ascolto di sé e della voce divina, di quel logos di Dio, che rieccheggiando nella creatura, non comunica dogmi ma indica “la via, la verità e la vita”: non nel balbettio della lingua umana ma nel predisporsi all’ascolto, eliminando da sé i rumori e le voci del “fuori”, facendosi forme cave pronte ad accogliere il segno più effimero, al confine tra suono e silenzio, potremo esperire, forse, nonostante l’abisso che da Lui ci separa, l’amore di Dio. In tutta la sua evoluzione esistenziale Etty Hillesum non elabora un pensiero sistematico radicato nella certezza dei dogmi religiosi o nelle visioni filosofiche ma, piuttosto, matura l’autocoscienza del proprio destino e della propria missione di essere umano, che diverrà la linea guida di una strada deliberatamente scelta e tracciata nella costruzione di un prospettiva futura che possa consentire, nonostante tutto, all’umanità di riscattare se stessa attraverso la capacità redentiva di ogni singolo uomo assunto a custode, in se stesso, del lume divino e quindi, implicitamente del Bene. Il male allora se da un alto è declinabile, in senso ontologico, nei termini negativi di un Non-bene, anch’esso parte, oscura e segreta, dell’individuo, dall’altro, nella sua accezione storica, risulta invece conseguenza di un sistema aberrante che tutto include e travolge: È solo il sistema usato da questo tipo di persone a essere criminale […] Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi possano crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime (Hillesum 2012, 386).
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Etty non può ancora conoscere o semplicemente presentire quel progetto di totale e completo annientamento dell’umano, tanto nelle vittime quanto negli stessi carnefici, che troverà la propria folle e piena attuazione nei campi di sterminio nazisti; la sua è una voce di speranza che lascia tuttavia intuire il barlume di una fede nell’Uomo e la possibilità di riedificare un nuovo umanesimo, accettando il proprio destino e ponendolo a pietra angolare dell’edificio inespugnabile della propria interiorità. Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva […] se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo […] allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze […] E forse allora, sulla base di una comune e onesta ricerca di chiarezza su questi oscuri avvenimenti, la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti (Hillesum 2001, 45).
L’imperativo, ricorrente nella cultura del secondo Novecento, sull’impossibilità di scrivere poesia dopo Auschwitz, appare inattuale e fuori luogo se confrontato con la rivendicata necessità, sostenuta dalla Hillesum, di una parola poetica, la sola in grado di commisurarsi alla tragicità dell’evento e di travalicarne il terrore. Più che mai sentita, quindi, l’esigenza di una testimonianza resa con una lingua nuova, in grado di descrivere l’uomo nei limiti della propria umanità e definire che cosa di lui rimane, al di là di questi confini. In quest’ottica vediamo allora la mistica di Etty Hillesum, nel suo trascendere lo spazio della relazione con il divino, farsi etica di vita consentendo di elaborare, anche nel mondo a venire, una strategia di resistenza al male, che se da un lato, appare radicata nella fede e foriera di un altissimo messaggio di speranza nell’ Uomo, dall’altro, risulta imprescindibile da una radicale assunzione di responsabilità da parte dell’individuo nei confronti della storia e della società. Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori. Spesso penso che dovremmo caricarci il nostro zaino sulle spalle e salire su un treno di deportati (Hillesum 2001, 27).
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Ubaldo Fadini Interstizi Figure d’incontro e metamorfosi delle soggettività
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iparto, in questo contributo, da temi a me cari e da una costellazione di autori per lo più “eccentrici”, tra i quali spiccano J. G. Ballard, D. Cronenberg, P. Virilio, per ricordarne alcuni. È un esercizio di verità quello che mi propongo, basato sulla verifica concreta, in ambito strettamente “psico-geografico” (delineato urbanamente...), di una “disfatta”, comunque storicamente accertabile, che riguarda molti “fatti”: innanzitutto, i “fatti” miei, quelli che concernono lo straccio di identità (lo “spaccio”: avrebbe detto P. Celan) di uno studioso di questioni di filosofia contemporanea, e poi i “fatti” degli altri, sempre più distanti e meno coinvolgenti all’interno del nostro “quadro d’epoca”. Per un miope (difetto quasi-naturale di uno studioso in lotta – in relazione – con la propria stupidità) la lettura, per non parlare della scrittura, è un trauma che contribuisce ad esasperare la sensibilità nei confronti di un movimento – che è tipico del nostro fronte culturale – verso la rapina, la deprivazione e il degrado della sfera dell’esistere. Non si può qui non pensare agli “occhi felici” di I. Bachmann, ma importante è anche ritornare a riflettere sulla visione corrente della “realtà”, educata all’impatto con figure geometriche delineate, concluse e quindi inevitabilmente compatte. È Virilio ad osservare con acutezza come si afferrino con sempre maggiore difficoltà quelle che è possibile definire come «figure d’incontro», vale a dire gli interstizi che si formano a partire dal relazionarsi/combinarsi di persone, cose; tali interstizi non sono nient’altro che «configurazioni ritagliate dai corpi, modellate dalle forme». È proprio la dinamica della relazione, il suo attimo, a scomparire nel concretizzarsi di una visione del reale che trascorre sempre più rapidamente da una forma “piena” ad un’altra, dimenticando appunto l’entre-monde, ciò che sta in mezzo, trascurando tutto quello che è poco definito, male organizzato, “sformato”. La perdita delle forme dello spazio interstiziale evidenziata (per coloro
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che lo vogliono vedere...) dall’esperienza percettiva consueta, abituale, “con-forme”, viene oggi resa ancora più evidente dall’affermazione delle nuove tecnologie elettroniche, in grado di stimolare alterazioni percettive pure di grande forza attrattiva. Lo stesso potere di fascinazione (e di allucinazione) delle immagini di rappresentazione videocomputerizzata può essere compreso come l’espressione di uno sforzo di sostituzione dell’esperienza percettiva diretta del “reale” favorito dall’imporsi di una sorta di “iperreale” formato proprio dalle immagine fornite da/ad alta definizione. Tutto questo comporta una minore forza di attrazione dell’esplorazione della visione oculare diretta, una vera e propria perdita di “fede”, in quanto crederemo sempre meno ai nostri occhi. Il rimedio può forse consistere in una “ripresa”/riaffermazione della motilità oculare (il movimento è l’unico rimedio contro la paranoia crescente: ricorda E. Canetti), decisiva per l’acquisizione di nuove informazioni, costituite appunto dai movimenti rapidi e minuscoli degli occhi, in grado di restituire e di “sentire” la varietà, la diversità, la metamorficità del “reale”. È convinzione di Virilio che la nostra condizione odierna sia quella dei “rivedenti”, piuttosto che quella dei “vedenti”: non è possibile neppure definirci come dei “visionari” (anche nel senso proprio della verifica estrema dei deliri sulla cosiddetta “morte dell’arte”), “vista” la nostra disposizione da tele-visionari, gratificata dalla ripetizione incessante, tautologica, dell’oggetto che caratterizza insieme il nostro modo di produzione e quello di percezione. È per questo motivo, quello della ripetizione senza differenza: per così dire, che al “cambiare la vita” di Rimbaud bisogna affiancare il “cambiare la vista” del dromologo, indispensabile per poter individuare altre fonti di informazione e di possibile trasformazione del sapere sociale generale che oggi è messo a valore, a produzione, sotto gli ordini della logica della valorizzazione capitalistica (con l’effetto della resa pato-logica della nostra sensibilità/fantasia/intelligenza). Si sta quindi assistendo ad una perdita di mondo, causata dall’eccesso di velocità che comporta una progressiva riduzione degli eventi e degli enti ad un “ni-ente” dilagante: l’”assoluto” della velocità, l’ultimo ancora disponibile, a portata di mano (tanto che sembra facile liquidarlo, scioglierlo definitivamente), indica la condizione di “vecchiaia” del mondo stesso, l’incombere del problema di una perdita che non può che condurre all’affermazione del “ni-ente” (ormai celebrata variamente, da più parti); la dinamica della distruzione, la sua paradossale “logica”, è ciò che
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accompagna la progressione tecnologica combinata, di-segnata, con le contorsioni attuali dell’economia politica. Lo studioso francese insiste nel sottolineare come l’invenzione di un oggetto voglia dire produrre, nel “nostro” mondo, un incidente specifico: costruire, ad esempio, un mezzo sempre più veloce, in grado di trasportare a meraviglia merci e persone, significa inventare una catastrofe precisa, ribadendo così la valenza “catastrofica” del nostro orizzonte di vita. La velocità si “incarna” oggi nei «veicoli iper-tecnologici», che tendono a sostituire definitivamente i lenti e un po’ stanchi «veicoli metabolici», ciò che anche noi siamo: questo processo di sostituzione appare quindi come una destabilizzazione/destrutturazione degli assetti dell’umano, a livello fisico e psico-logico, da cogliere bene soprattutto negli effetti di conturbante velocità di “corsa” dei differenti veicoli a disposizione. La velocità divora lo spazio, imponendo una determinazione temporale che prende corpo nel primato dell’”istante”, di ciò che accade dopo l’annullamento del “territorio” comunemente inteso: il rischio che si “corre” è quello di risultare sempre fuori tempo massimo nella corsa del tempo “veloce”, che rende obsoleto l’ordinamento temporale a cui è legato il “preparato” umano, con i suoi tempi “lunghi” di riflessione e decisione, che ben poco possono, così impreparati, rispetto alle urgenze di una singolare “spazio-temporalità” contraddistinta da movimenti ultra-rapidi: ciò che già si distende nel moderno, con originalità di movenze, raffinate economicamente, vale a dire il cosiddetto “tempo delle macchine”, nel nostro presente si delinea ulteriormente, sofisticandosi all’eccesso, allontanandosi velocemente dal tempo specificamente umano. Mi viene voglia qui di collocare questa analisi all’altezza delle pagine di Marx nelle quali si anticipa un quadro di dinamicità produttiva che vede l’operaio assumere la condizione “esterna” di sorvegliante nei confronti del sistema delle macchine. A ciò aggiungo che forse oggi è il sistema delle macchine, in qualche sua forma, a riprendere (il) corpo, nella dimensione viva della forza lavoro, a introdursi come qualcosa di “fisso” nella sfera “variabile” di quest’ultimo. In ogni modo, quella di Virilio appare essere una drammatizzazione delle trasformazioni del capitalismo dalla veste fordista a quella post-fordista, con una evidente capacità di aggancio, se si vuole di riferimento/richiamo, alle lacerazioni del tessuto odierno della valorizzazione capitalistica. Ritorno però a quell’allontanamento progressivo dal mondo “fisico” immediato che realizza un vero e proprio impoverimento a livello
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sensoriale, un “andare all’altro mondo”. La corsa della tecnologia complessiva, sui suoi diversi piani di articolazione, allude al possibile darsi di un “oltre-mondo”, rispetto a quello tramandatoci dalle generazioni a noi precedenti, meglio: al confondersi del nostro mondo “dato” con un mondo “altro”, dell’oltre, di quell’altrove incessantemente ritualizzato dalle masse per definizione “lente”, per dirla ancora con Canetti, cioè quelle religiose: la particolare spazio-temporalità disegnata tecnologicamente si caratterizza per dei processi di “dis-animazione” che investono la stessa “macchina”, ormai in via di liquidazione/sparizione, nella sua realtà “rugosa”, a favore del protagonismo sempre più accentuato degli “istanti” dell’informatica, della telematica. Il nostro mondo è sulla via di assentarsi definitivamente, tanto che si presenta sempre meno anche come “immagine”, quell’immagine che persiste soltanto nel suo andarsene per conto proprio, in mancanza di referenti determinati e in seguito alla constatazione dell’avvento dell’età del “ni-ente”. La questione che a questo punto inevitabilmente si pone è quella del senso di un discorso corrente sulla città, sull’esperienza (anche “vissuta”), nel tempo del “trionfo della velocità”. Ancora affiora, da qualche parte..., il motivo del “tramonto della città”, intesa come espressione stabile di aspettative (di potere), e così facendo si occulta la sua trasformazione in vetrina (anche da saccheggiare), in terreno spettacolare di esposizione di merci per deportati senza meta, soggetti ad una sorta di “mobilitazione totale” che ha per luogo il non-luogo (a procedere), cioè il tempo, da occupare. C’è una spettralità di s-fondo della città contemporanea, già edificata in buona parte su processi illusionistici (sempre spettacolari), “glorificati” da Hollywood, da quella prima “cinecittà” in cui si sono con-fusi scena e realtà, piano catastale e piano-sequenza, viventi e morti-viventi. L’architettura urbana ha ormai a che fare con uno spazio-tempo ipertecnologico, che fa sì che le “banche-dati” sostituiscano le antiche porte, nel solco di un già tentato (sempre tentato...) processo di uniformazione della dimensione temporale, che prevede il pre-valere dell’interfaccia uomo/ macchina, nei suoi sviluppi, e non certo il protagonismo della facciata ammutolita di un qualsiasi edificio. Il tempo cronologico, quello che si spaccia come “storico”, è minacciato, nel suo primato, da quello che si espone all’istante, che si fa superficie (perdurando a modo suo) sullo/nello schermo di un qualsiasi terminale. Anzi, mi sentirei di affermare, in quest’ottica, che il tempo dell’istante è già un tempo a termine, un tempo propriamente terminato, nell’annientamento del
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futuro a favore di una modalità di presentificazione inarrestabile. Non c’è più soltanto la possibilità di un colpo di “stato”, nel nostro quadro d’epoca, si delinea anche, con tutta probabilità, la mossa del colpo di tempo, della ri-mozione forzata della pluralità dei modi della temporalizzazione. Scrive il dromologo: Unità di luogo senza unità di tempo, la Città scompare allora nell’eterogeneità del regime di temporalità delle tecnologie avanzate. La forma urbana non è più resa manifesta da una qualsiasi linea di demarcazione, da una divisione fra qui e altrove, ma è divenuta programmazione di un ‘uso del tempo’. [...] Di fatto se l’agglomerato urbano fino ad ieri opponeva una popolazione ‘intra-muros’ ad una popolazione fuori delle mura, oggi la concentrazione metropolitana non oppone i suoi residenti che sul piano del tempo: quello delle lunghe durate storiche, che s’identifica sempre meno con il ‘centro-città’, tranne che in relazione a qualche monumento storico, e quello di una durata tecnica, senza misura comune con nessun calendario di attività, con nessuna memoria collettiva, eccetto quella dei computers, durata che contribuisce ad instaurare un presente permanente la cui intensità senza domani distrugge i ritmi di una società sempre più immiserita (Virilio 1988, 18).
Gli sviluppi tecnologici, quelli dell’informazione e della comunicazione (ma non solo...), riferiti a velocità elevatissime, mettono in relazioni gli esseri umani con una spazio-temporalità lontana da quella tradizionale. Lo stesso “veicolo corporeo”, con quei dispositivi “protesici” che sollecitano l’”essere” dell’uomo, viene sempre di più integrato all’interno di un sistema domocratico costituito da veicoli tecnologici che a loro volta vengono velocemente assorbiti nel complesso dei sistemi di informazione, in cui si afferma la visione istantanea, “dromoscopica”, del “mondo”, al di di qualsiasi contatto diretto con il “reale”. L’informatizzazione/formattazione del mondo – che può essere considerato come un movimento di sostituzione, meglio: di presa d’atto di un venir meno, di un assentarsi, che si delinea come una sorta di “rotta” – rappresenta un consolidarsi di quell’orizzonte mediatico nel quale è essai complicato collocarsi, disegnando delle carte psico-geografiche, “mentali”, dotate di una qualche stabilità. Tutto ciò Sul complesso delle tesi dello studioso francese, mi permetto di rinviare a Cacciari, Fadini 2012.
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può essere visto come la “realizzazione” di una perdita di localizzazione, nel momento stesso in cui particolari progressioni tecnologiche penetrano la dimensione del corporeo, consumando la «fase biologica dell’esistenza senziente» (cfr. Ballard 1990). È soprattutto la prospettiva delle nuove tecnologie ad indicare un indebolimento crescente della tradizionale distinzione tra la componente biologica e quella socio-culturale della nostra esistenza: la combinazione del corpo organico con sofisticate protesi, il delinearsi di un corpo bio-”macchinico”, dotato di “sensori” supplementari, propone un piano di analisi riguardante il suo posizionamento all’interno di una Umwelt sempre più artificiale (Ballard sosteneva che l’artificiale diventerà completamente reale), affiancato, a mio parere, dalla stessa messa in questione della realtà della “combinazione” – se il “macchinico” fosse già corpo, al di là della rilevazione acuta del carattere “naturalculturale” della sua “presenza”? Detto diversamente: se si potesse approfondire il richiamo gehleniano all’uomo come essere naturalmente artificiale, si potrebbe portare avanti forse con più incisività un esercizio critico concernente il modo odierno di darsi di quella socialità di fuga dei processi di soggettivazione che tendono appunto “naturalmente” a riprendersi le “macchine” della (per la) loro articolazione. La mia convinzione è che per far ciò sia indispensabile comprendere come il “morto” sia attivo nel “vivo”, in che termini ciò possa accadere nel senso di un protagonismo riaffermato da parte di quest’ultimo, capace di ri-animare il primo, distorcendone le modalità di presentazione (di introduzione all’interno del corpo vivente della forza-lavoro). Per insistere comunque sulla “realtà” di un soggetto “naturalmente” portato a riprendersi le “macchine”, soprattutto quelle della comunicazione (che condizionano – per non dire residuano – le qualità dell’esistere), ripiglio in considerazione il filo della esemplificazione letteraria. Importante è, in quest’ottica, il tema delle mutazioni antropologiche sviluppato a partire dalla rilevazione di un “accoppiamento” sempre più «invasivo di uomo e macchina», magistralmente raffigurato, come ha osservato a suo tempo Caronia, da alcuni romanzi di Ballard, in particolare Crash. La «dipartita della facoltà emotiva» è analizzata da Ballard in termini tali da individuare con chiarezza il doppio movimento del corporeo che si artificializza e dell’artificiale che si fa corpo. Ciò è particolarmente interessante, anche se per quanto mi riguarda il nesso di corpo e di artificio dovrebbe essere affron Sia consentito il rinvio, in tale prospettiva, a Fadini 2013.
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tato non soltanto con strumenti di derivazione tecno-antropologica: comunque è merito di Ballard rappresentare il “doppio movimento” in questione nello svolgimento allucinato della micidiale accoppiata sesso/paranoia, del “connubio fra sesso e tecnologia”, in un quadro appunto psico-patologico. L’attenzione alla specificità dello scontro automobilistico, laddove esso si traduce in dinamiche connotate sessualmente in riferimento al variare delle figure di relazione tra corpo e tecnologia, consente l’impiego di una chiave di lettura dei processi di mutazione antropologica che concernono il corpo dell’uomo e della macchina. La prospettiva ballardiana è quella tele-visionaria dell’artificializzazione, in via di compimento, del corpo vivente. Alcuni esempi di tutto questo: Ho osservato coppie copulanti durante la guida notturna lungo superstrade oscure – uomini e donne vicini all’orgasmo, le loro macchine lanciate in una serie di traiettorie invitanti incontro agli abbaglianti della fiumana del traffico; giovani soli ai volanti delle loro prime macchine, semirottami pescati da qualche sfasciacarrozze, intenti a masturbarsi durante spostamenti senza scopo su pneumatici logori […]. Il corpo accartocciato dell’auto sportiva aveva trasformato la giovane donna in una creatura dalla sessualità libera e perversa, sciogliendone tutte le possibilità sessuali devianti entro le paratie attorte e il liquido refrigerante perduto dal motore. Le cosce paralizzate e i muscoli ormai inutili dei polpacci potevano servire da modello per affascinanti perversità. […] In numerose foto, la fonte della ferita era indicata da un particolare della porzione d’auto che l’aveva causata: così, in una foto di pene biforcato, scattata in un reparto di traumatologia, era inserito un blocco-freno, e sopra un primo piano di una vulva tumefatta figuravano un pomello di volante e relativo marchio di fabbrica. Questi accostamenti di genitali straziati a sezioni di abitacolo e di strumenti formavano una serie di moduli inquietanti, unità d’una nuova moneta di dolore e desiderio (Ballard 1990, 14, 109, 145).
Si tratta qui di una scrittura, intimamente parassitaria, che ri-presenta l’immagine – disastrata, squilibrata – di un corpo in tensione, capace di «nuova carne», sul piano della metamorfosi antropologica, sia pure all’interno di una dimensione di mortificazione delle logiche imponderabili del senso e della sensazione (del desiderio...), che ammala la “pelle” e deprime la sensibilità. È a questo punto che è possibile richiamare Cronenberg, con il suo paradossale “sentimenta-
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lismo”, in riferimento proprio a Crash, il quale ritiene di poter scorgere nell’incidente, nella sua dinamica sconvolgente, i segnali di una mutazione a venire, ma potenzialmente sempre all’ordine del giorno (e della notte, proprio nell’indicazione dell’ambivalenza della malattia). L’attenzione va quindi data alle “piccole sacche di caos” annidate negli interstizi della “visione” pubblica e privata, riportata a quella «vecchia carne» che può essere soppiantata dalla “nuova”, nel concretizzarsi destabilizzante/destrutturante di un «potenziale di avventura e di varietà creativa». Certamente è stato proprio Cronenberg a stimolare la ripresa dell’idea del “nostro” essere fatti per contaminare, con la conseguente e inevitabile presa d’atto che la modificazione di noi stessi, dovuta al nostro inesorabile “ammalare” la vita (la “terra”), non può che connettersi con la strana ri-animazione per via tecnologica (il “cancro creativo”...) di un corpo da morto-vivente, vittima cioè di una invasione ben mirata del proprio “spazio interno”. Scrive il regista canadese che in tutta la sua opera ricorre puntualmente il tema-chiave della mutazione, vale a dire il motivo dell’identità, con la sua “fragilità”/vulnerabilità di fondo. E va anche ricordato come l’interesse alle modificazioni del corpo, alle mutazioni del suo territorio mobile, spinga Cronenberg a riflettere sull’istituzione come dispositivo di determinazione di confini certi del “sociale”, visto come una sorta di grande organismo vivente: È questo che mi affascina delle istituzioni. Un’istituzione è in realtà come un organismo, un animale multicellulare, in cui alle cellule corrispondono le persone. La parola ‘corporazione’ significa corpo, l’incorporazione di persone in un corpo. È così che pensavano i Romani. Cinque persone si incorporano e diventano un sesto corpo, soggetto alle stesse leggi dei singoli individui. Questo lo collego con il concetto di corpo umano, dove le cellule cambiano continuamente, vivono e muoiono, hanno una loro vita propria, eppure il flusso complessivo dell’esistenza del corpo come individuo continua. Come funziona tutto ciò? È molto misterioso. La gente è affascinata dalle piccole sezioni della CIA, che potrebbero svilupparsi separatamente dal corpo della CIA. È come se un tumore, un fegato o una milza decidessero di avere una loro esistenza indipendente. Hanno ancora bisogno di condividere il sangue che scorre attraverso tutti gli organi, ma uno di loro se ne vuole andare e fare alcune cose per conto proprio. Tornerà indietro, dovrà farlo, ma in quel momento vuole avere le sue avventure personali. Questo mi affascina. Non lo vedo come
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una minaccia. Sarebbe una minaccia seria solo se tutti gli organi decidessero di andarsene in direzioni diverse contemporaneamente. A un certo punto, il caos equivale alla distruzione. Ma nello stesso tempo il potenziale di avventura e di varietà creativa sarebbe elettrizzante (Rodley 1994, 61).
Il “dato” di partenza è sempre il corpo, le “intensità” che ne permettono il configurarsi, sempre “variopinto” ed essenzialmente pronto alla “sfigurazione”/deformazione: nell’ottica “virale” di Cronenberg, il corpo a corpo impietoso con i dati biologici dell’esistenza umana ha come suo scopo di accompagnare al meglio l’articolarsi di un processo di mutazione, che si qualifica poi in senso mass-mediatico (e poi “convergente”: per riprendere R. Jenkins), mantenendo comunque “ferma” la convinzione circa una fondamentale “irrapresentabilità” complessiva del corporeo. La “fenomenologia della mutazione” (G. Canova), che deriva da tutto questo, rimanda a livello filmico (di immagini che si separano, per così dire, dai corpi) non soltanto a ciò che fuori-esce dalla dimensione bio-tecnologica dell’umano artificiale e sempre più artificializzato, bensì anche a quello che vi penetra (in tale ambito). Tutto questo è stato spesso intravisto attraverso delle lenti lavorate “nichilisticamente”, il che appare oltretutto ancora più giustificato a partire dalla concezione della nostra visione (con il suo “statuto”) come “campo di battaglia”, in grado di dare ben “corpo” ad una tendenza del nostro modo di produzione/percezione di “valore” alla più drammatica “desertificazione”, proprio nel senso della sparizione o della volontà più o meno dichiarata di perseguimento dell’incidente, della premessa/promessa (in effetti: minaccia) della riduzione a niente della polimorficità inesauribile del “reale”. Di fronte a ciò è senza dubbio di un certo impegno riproporre una “attualità” dei processi di soggettivazione (accanto a quelli di assoggettamento), che non consiste – come ha ben sottolineato Deleuze – in ciò che siamo, bensì in ciò che stiamo diventando, meglio: che diviene in noi/attraverso noi. Si potrebbe cercare di distinguere il presente, dominato dall’assoluto della velocità, dall’attuale, da considerarsi come l’ “adesso” dei divenire: l’attenzione va portata ai potenziali di trasformazione, alle molteplicità di divenire, alle differenti “velocità” che corredano la forza d’esistere. Anche la riflessione sui “corpi gloriosi”, sui “corpi eccitati”, permette in fondo di cogliere la dominante di una riconfigurazione odierna della corporeità che assume concretamente “macchinario”
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proprio apprezzandolo nel suo essere sempre espressione di rapporto, nella sua costitutiva relazionalità (la “macchina” è comunque relazione, un suo “momento”/elemento di articolazione). È in quest’ottica che mi piace ritornare alle pagine di uno studioso delle trasformazioni dell’immaginario contemporaneo, soprattutto di quei tratti di affascinante visionarietà che hanno in effetti rimarcato il complicarsi, al limite della con-fusione, del nesso di uomo e “macchina”. Il rinvio è agli studi che Caronia ha dedicato alla figura dell’”uomo artificiale”, del cyborg, a partire dalla constatazione di come il Novecento sia stato un secolo ricco appunto di “figure straordinarie e mostruose”, collegabili in un qualche modo con mostri di altre epoche, segnate da un senso profondo di paura (cfr. Caronia 2008). Se si pensa al mostro medioevale (in particolare all’interno dell’”autunno del medioevo”), lo si comprende bene nel suo porsi come una creatura del tutto “naturale”, la cui esistenza dimostra la straordinaria varietà della natura: esso è in fondo una sorta di “ibrido”, la risultante di una combinazione “strana”, inedita, di più corpi presenti in natura (oppure può presentarsi come l’ipertrofia o il ridimensionamento di determinati organi umani o animali). Rispetto a tale singolare creatura, non si può che rimarcare il fatto che sia stato ben presto oggetto di un’analisi che si voleva “scientifica” (si pensi ai celebri repertori di Aldrovandi e Paré), ma si deve subito rimarcare come le si affianchi, a partire dal XV e dal XVI secolo, una nuova entità, con caratteristiche in parte simili, vale a dire “l’uomo artificiale”, quell’homunculus o quel golem, che testimonia, come osserva Caronia, il delinearsi di un progetto di ripetizione del creare divino con la conseguente presa d’atto dell’inevitabile ribellione della “creatura creata” nei confronti del suo artefice. Su tutto questo si può anche vedere la proiezione di un primo momento di riflessione su quella iniziale resa artificiale della natura che apre il cammino della società moderna, con il suo industrialismo di fondo. Sul piano dell’immaginario collettivo contemporaneo, con le sue molteplici espressioni, è d’altra parte facile cogliere il presentarsi, dopo l’inaugurale Frankenstein e i robot di R.U.R., di una creatura derivante dalla composizione del corpo umano con il “corpo” della macchina: il cyborg (sigla di “cybernetic organism”), quell’organismo in cui si con-fondono il corpo dell’uomo, del “creatore”, e ciò che è sempre stato pensato come distinto, separato, “altro” dal corpo stesso, la “macchina”. L’interesse dello studio di Caronia consiste in particolare nella questione che pone e che riguarda l’interrogativo sul fatto se il
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cyborg sia “il trionfo o lo scacco definitivo” del “classico” materialismo dell’homme-machine. La risposta che viene delineata, a proposito dell’”ultima figura di ibrido moderno”, è sostenuta da numerosi rimandi ad articolazioni precise dell’immaginario contemporaneo e consiste sostanzialmente nell’avanzare l’ipotesi che proprio sulla “macchina” si stiano trasferendo, «a misura della crescita delle sue prestazioni», buona parte di quelle prerogative (facoltà...) tradizionalmente riferite all’umano. Ovviamente si tratta di un processo che presenta al suo interno la manifestazione di sentimenti di esaltazione e di paura, «fughe in avanti sprezzanti e ritirate timorose», un movimento “emotivo” che Caronia coglie in una prospettiva che rileva come l’essere umano sembri invidiare quel destino di “immortalità” a cui perviene la “macchina”, quella durata praticamente illimitata che è biologicamente negata al singolo uomo (e di cui non può esserne culturalmente sicuro neppure come specie). Di fronte all’idea della morte così com’è peculiarmente veicolata nella società contemporanea, avvertita come insopportabilmente irrimediabile, senza “rimedio”, si profila l’alternativa di lunga durata fornita dalla macchina, con la sua capacità di mostrare – e forse di assicurare all’essere umano – una possibilità concreta di sopravvivenza: è allora evidente – o comunque lo si può scorgere – come il cyborg assolva una funzione simbolica consistente nell’indicazione di una durata prolungata, di una “immortalità”, mediante quella che può essere considerata la sua caratteristica-chiave, ovvero la manipolazione illimitata del tempo e del reale in generale. Con lo scrittore forse più caro a Caronia, cioè P.K. Dick (accanto a Ballard...), si può arrivare a dare corpo ad un’idea di macchina che identifica i suoi principi di funzionamento in forme sempre più “immateriali” (o comunque largamente indipendenti da substrati materiali). Il cyborg come unità di uomo e macchina, naturale e artificiale, si presenta ormai come terminale – pur sempre provvisorio, revocabile – di congegni elettronici che fanno materia, che si saldano alla massa corporea di un soggetto che vive tutto ciò come radicale espropriazione. A me sembra importante gettare uno sguardo, al di là della lettura in termini quasi canettiani del perpetuarsi di una mortifera logica della sopravvivenza a tutti i costi (che mi sento in ogni modo di condividere, almeno in parte...), sul processo di mutazione antropologica in cui si saldano corpo/mente e tecnologia, rilevando in esso la dominante degli ultimi decenni di storia del capitalismo postfordista (o biocognitivo), vale a dire l’introduzione nel corpo vivente del soggetto umano
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(direi materialisticamente: forza-lavoro contemporanea) di “capitale fisso” opportunamente “smaterializzato”, in modo tale da presentarlo come una specie di contenitore delle facoltà di lavoro e delle sedimentazioni “di saperi codificati, conoscenze storicamente acquisite, grammatiche produttive, esperienze” (C. Marazzi). In breve: la figura del cyborg mi appare ancora essenziale anche nel momento in cui allude ad una dinamica fondamentale del nostro quadro di civiltà, vale a dire il concretizzarsi del nesso di produzione di soggettività e incorporazione del “fisso”, di nuove modalità di sottomissione del lavoro vivo al capitale costante. Ma al di là del richiamo ad una terminologia di rinnovata critica dell’economia politica, è di forte impatto teorico la ripresa, da parte di Caronia, dell’idea dell’uomo contemporaneo contraddistinto da una sorta di disseminazione del corpo, da una sua esistenza in gran parte vissuta con «il cervello fuori dalla testa e i nervi fuori dalla pelle»: l’immaginazione tecnologica ha spesso fantasticato sull’invasione del corpo, su «un precipitarsi ingolfandosi dell’esterno nell’interno. Invece, mentre questo certamente accadeva, accadeva insieme anche un movimento in senso contrario: anche l’interno invadeva l’esterno» (Caronia 2008, 95). Il corpo tecnologizzato, la figura del cyborg, porta letteralmente fuori dalla “dimensione psichica e privata dell’uomo, la fantasticheria, il sogno”, in un modo tale da far risultare la frammentazione del soggetto umano la premessa per l’apertura ad (di) una pluralità di mondi. Che il corpo disseminato sia in effetti una esperienza dalla qualità quasi onirica è ciò che trova conferma, per via negativa, nella convinzione di Virilio a proposito della trasformazione “industriale” appunto di quel sogno di liberazione dell’/dall’umano dalle sue particolari e insopportabilmente reali camicie di forza. Tale trasformazione assume la forma vistosa della “disfatta dei fatti”, sulla base dell’affermarsi del punto di vista – quello che conta/calcola/decide – della “macchina”: l’effetto è un contingentamento dell’umano provocato dallo “spettacolare” imporsi di sempre più sofisticati veicoli tecnologici (di trasmissione/comunicazione). Premessa di tutto questo, come già rilevato, è l’incremento della velocità di corsa dei diversi veicoli, che divora lo spazio, residuando non tanto una spettacolarizzazione del corso del tempo, bensì una corsa del tempo, in grado di evidenziare come l’ordinamento temporale a cui è consegnato l’uomo con i suoi tempi “naturali” di riflessione e di decisione risulti terribilmente arretrato rispetto alla nuova dimensione “spazio-temporale”
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disegnata dalle “macchine” ultra-rapide. Il tempo di queste ultime è ciò che si afferma sempre di più nei vari ambiti d’esistenza: il tempo dei veicoli tecnologici si allontana progressivamente da quello propriamente umano, il cui corredo sensoriale viene progressivamente depauperato. Virilio non si stanca di insistere su un inevitabile incremento di velocità che porta al delinearsi di un “altro mondo”, meglio: di un “oltre-mondo” che rigetta sullo sfondo quello fin qui percepito e vissuto come primario. La stessa fenomenologia del comportamento complessivo dell’uomo contemporaneo presenta una vita vissuta all’interno di un sistema “dromocratico”, contraddistinto dal ruolo essenziale dei “mezzi di comunicazione di massa”, dall’affermazione della visione “istantanea”, dromoscopica, del mondo. La prospettiva su quest’ultimo appare sempre più delineata dalla “macchina”, da ciò che subentra progressivamente al “senso” e alla sensibilità complessiva dell’uomo. Ma ancora – e di più in tale “ottica”: l’informatica e la telematica definiscono un ciclo di compiuta derealizzazione, che comporta non soltanto la possibile scomparsa dell’umano a favore della “macchina”, ma anche il venir meno di questa a vantaggio del messaggio emesso e dell’istantaneità di un segnale radio, di un segnale radar. L’incremento della velocità di spostamento produce in effetti una sorta di “oscuramento del senso”, che mortifica il valore del contenuto “comunicato”. Tale corsa verso la paralisi, l’inesorabile consegnarsi ad una condizione di inoperosità imposta dalle stesse protesi tecnologiche, disegna un contesta di esistenza contraddistinto da una passività che fa perdere corpo, cioè contatto e desiderio. Lo sguardo “mediatizzato”, in-”diretto”, con-segnato dalla “macchina” (con tutte le conseguenze voyeuristiche), esprime una un potere di alter/azione, di fascinazione e di allucinazione, proprio delle immagini videocomputerizzate, che di fatto entra in concorrenza con l’esperienza percettiva immediata, indebolendo l’esperienza percettiva “diretta” al punto da causare la possibile perdita in ogni “fede percettiva”. Nella prospettiva delle “macchine per vedere”, che ci fanno sempre di più non credere ai nostri occhi, «la produzione di una visione senza sguardo può essere soltanto la riprduzione di un intenso accecamento, un accecamento che diventerà una nuova e ultima forma di industrializzazione: l’industrializzazione del non-sguardo. Di fatto, se il vedere e il non-vedere si sono sempre trovati in una relazione di reciprocità, poiché l’ombra e la luce si sono combinate nell’ottica passiva delle lenti degli obiettivi fotocinematografici, con l’ottica attiva della videoinfonografia, inve-
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ce, le nozioni di oscuramento e di illuminazione cambiano natura, a vantaggio di una più o meno grande intensificazione della luce, un’intensificazione che altro non è che l’accelerazione negativa o positiva dei fotoni» (Virilio 1989, 150). Rispetto all’affermazione dell’informatizzazione complessiva del nostro quadro di società, è forse di un qualche interesse portare l’attenzione sull’osservazione di Virilio a proposito di una concezione del “virtuale” che non si ponga banalmente in opposizione al reale. Ciò che si definisce oggi come realtà appare come un composto del virtuale (della dinamica di continua resa problematica di ciò che c’è, anche nel senso di una riscoperta dei suoi potenziali di trasformazione) e dell’attuale: lo studioso francese prende atto di un tentativo di riequilibrare il peso comunque crescente della realtà attuale (presente) con quella che si può definire come l’industrializzazione accelerata della componente vrtuale (portatrice di promesse di profitto...) e rispetto a tutto questo l’invito è a mantenere una distanza critica soprattutto nei confronti di tale impiego delle nuove tecnologie informatiche, laddove esse investono la dimensione della corporeità come piano di attraversamento particolarmente sensibile ad una sua più sofisticata riconfigurazione in senso tecnologico-sociale. A me interessa decisamente quest’ultimo punto, al di là delle stesse riflessioni di Virilio sulla tele-azione (e sulla “illusione” del cosiddetto tele-lavoro), sull’emergenza fondamentale del fattore velocità, sul predominio odierno della componente militare e su come tutto questo conduca ad una messa in crisi dello spazio reale a favore del predominio del tempo reale (che cor-risponde alla formazione di uno spazio mondiale: quello della globalizzazione economica) – interessa, vorrei sottolineare, perché fornisce stimoli importanti ad una analisi capace di affrontare al meglio le conseguenze di una penetrazione di tecnologie, di velocità superiori a quelle tradizionali, nel corpo vivente del soggetto (anche e soprattutto sotto veste di soggetto di lavoro): ogni nuova tecnologia, con la sua velocità di riferimento e le capacità complessive di organizzazione, porta non soltanto alla conquista di spazi più grandi, ma anche alla colonizzazione di ambiti di soggettivazione assai significativi, ad una sorta di “endocolonizzazione”, che viene restituita da una complessa attività di filtraggio delle capacità corporee, di contatto, dell’uomo. La “logica” di tutto questo viene tradotta nelle formule della produzione di senso indipendente dal soggetto umano o della “scienza della scienza senza personale scientifico”, che ci presentano in definitiva l’uomo come un
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ingombro, un accidente da superare. A volte l’analisi sembra piegarsi in tale direzione e a me pare invece opportuno svilupparla nella via delineata da una qualificazione della “logica” stessa che rimanda alla produzione di valore, di ricchezza, meglio: di profitto (dato il modo particolare di produzione oggi vigente, quello capitalistico, nella sua trasformazione bio-cognitiva). Non è che però Virilio sia banalmente “apocalittico”, “contro l’informatica”, visto che la sua posizione può essere compresa in maniera più soddisfacente quando rivela di credere che “la tecnica veicoli sempre la propria contraddizione”, che qualsiasi oggetto tecnico non possa che veicolare “il proprio negativo”. C’è una ambivalenza della tecnica e quindi una negatività (non c’è niente di “puro”...), che concerne le stesse tecnologie informatiche, che presentano certamente una possibilità concreta di decentramento (qualcun’altro direbbe: deterritorializzazione), ma anche il loro inverso, cioè la tendenza alla “superconcentrazione”: il positivo e il negativo sono aspetti legati tra di loro; la loro connessione è sicuramente “problema politico”, ma per la comprensione efficace del legame è indiscutibile il valore di uno sforzo di analisi che appunto ne afferri le “ragioni” di carattere economico, quelle che ci restituiscono il senso del suo “filare”, del suo “tras-correre” odierno. La sensibilità intellettuale di Virilio lo conduce, in ogni caso, a sottolineare l’importanza di definire l’incidente possibile delle nuove tecnologie e non in un’ottica da mera “critica della tecnica”, ma al fine di smontare l’immagine, cara agli “acritici cantori del nuovo”, di una “purezza” della progressione tecnologica, quella delineata dai fanatici sostenitori di un “integralismo tecnologico” che individua nella tecnica l’espressione attuale di un bene assoluto in grado pure di “salvare” un soggetto, un corpo, avvertito come costitutivamente impuro, peccaminoso e dunque colpevole. La ricerca sulla “negatività” delle nuove tecnologie non è mosso da un impulso “tecnofobico”, bensì dalla volontà di conoscere in modo approfondito le modalità di subordinazione della “non-macchina dell’essere vivente” alla “macchina” (e, più in generale, alla “megamacchina”... nel senso di Gorz). Compito condivisibile, almeno in parte, laddove varrebbe la pensa sviluppare anche delle analisi in grado di afferrare le cause del situarsi odierno degli effetti di certe progressioni tecnologiche all’interno non tanto della “non-macchina dell’essere vivente”, bensì della singolare “macchina” dell’essere vivente come soggetto di lavoro.
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Bibliografia Ballard, J.G. (1990), Crash, trad. it. di G. Pilone Colombo, Rizzoli, Milano [Crash, J. Cape, London 1973]. Cacciari, S., Fadini, U. (2012), Lessico Virilio. L’accelerazione della conoscenza, Felici, Pisa. Caronia, A. (2008), Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Shake, Milano. Fadini, U. (2013), Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo, Ombre corte, Verona. Rodley, C. (1994), Il cinema secondo Cronenberg, Pratiche, Parma. Virilio, P. (1988), Lo spazio critico, trad. it. di M. G. Porcelli, Dedalo, Bari [L’espace critique, Paris, Bourgois, 1987]. Virilio, P. (1990), La macchina che vede, tr. di G. Pavanello, SugarCo, Milano [La machine de vision, Galilée, Paris 1988].
Igor Pelgreffi Autobiografismo post-esistenziale
1. Autobiografismo
I
l mio intervento si limiterà a qualche riflessione intorno ai due termini che ne compongono il titolo: autobiografismo e post-esistenziale. Esiste una tendenza autobiografica nella filosofia contemporanea? L’autobiografismo può essere definito come l’attitudine «di uno scrittore a porsi come protagonista della sua opera, a collegare con la propria vita i temi di cui tratta» (Zingarelli 1970, 147). Non intendo, evidentemente, prendere alla lettera questa definizione: troppo romantica o totalizzante. Così come non vorrei sovrastimare il valore delle aderenze fra il narrative turn nelle scienze umane e il ritorno di interesse al tema del soggetto in filosofia che quasi in parallelo si sono verificati verso la fine del secolo scorso. Mi interessa semplicemente reperire le tracce di autobiografismo variamente presenti nei corpus e provare a leggerle adottando un punto di vista generale sul corpus stesso. Io credo che tali tracce possano essere valutate come sintomi non tanto del voler fare della propria vita – o della propria filosofia – un’opera d’arte (sebbene tale aspetto non sia affatto trascurabile), quanto piuttosto di un movimento organico che, in ogni autore, interessa le correnti profonde del proprio bios, forse del proprio autos, in una parola: le correnti che – nella scrittura stessa – connettono l’autos agli automatismi. Scriveva Nietzsche: «mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad oggi una grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mémoires» (Nietzsche 1968, 11). Si afferma spesso, e a ragione, che è stato tramite i motivi della fine della verità, del corpo come nuovo centro del filosofico, della morte di Dio, e altri molto conosciuti, che Nietzsche ha dischiuso la strada alla riflessione del Novecento, almeno quella “continentale”. Ma, dal punto di vista in cui intendo installarmi, il motivo della precedenza autobiografica è forse ancora
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più essenziale, e questo perché è un motivo morfo-logico, giacché esso concerne sia la forma (morphé) che la logica di una filosofia: da una parte la sua organizzazione formale, di cui la scrittura e soprattutto il corpus sono le principali manifestazioni materiali; dall’altra i suoi principi di funzionamento tipici, cioè le sue logiche discorsive. Ogni filosofia è espressione – nel senso nietzschiano dell’autoconfessione involontaria – del chiasma mobile fra morphé e logica: da qui derivano le auto-determinazioni dei principi formali tanto nella costruzione dei propri artefatti filosofici, a partire dal proprio corpus, quanto delle immagini teoriche, quelle, per intenderci, che aspirano a una validità intersoggettiva. Il problema dell’interpretazione di una filosofia rinvia sempre a un altro problema: quello del processo di formazione concreta di una forma (storica e individuale), di un corpus, di un teorema, di uno stilema e di tutti quei dispositivi che derivano inevitabilmente dall’incrocio vivente fra autonomia e automatismo nella scrittura stessa da parte del suo autore. È in questa accezione più vasta che si può ipotizzare un autobiografismo nella filosofia, inteso come movimento generale del darsi una forma attraverso la costruzione di una filosofia, di una formatività dell’essere-costruiti – in quanto filosofi – e della filosofia come forma artistica o, se si vuole, come pangrafismo teatrale, in quanto finzione necessaria alla vita. In questo quadro, va tenuto presente che i corpus filosofici odierni sono dispositivi sempre più eterogenei e frammentari: accanto alle tecniche correnti di espressione, entrano sulla scena nuovi spazi e tempi della scrittura filosofica, come testi on-line, docu-films, interviste filmate, seminari (audio o audiovisuali) e altri “materiali” registrati e caricati sul web, che in un futuro non lontano interrogheranno il soggetto-filosofo in modo insistente e sistematico, aggiungendovi probabilmente le questioni dell’auto-pubblicazione e del diventare editori di se stessi. Entro una certa misura, e forse non per caso, questa morfologia dei corpus filosofici attuali ricorda quella del corpus nietzschiano, un corpus «sovrabbondante, aforistico e apparentemente instabile […] multiplo, estensibile e proteiforme» (Derrida 1995, 97-99). Vi è forse qualcosa di autobiografico, oggi, nei corpus dei filosofi, cioè a dire una disposizione – secondaria o inconsapevole – a costruirsi e all’essere-costruiti nel corpus? Non si tratta di una questione meramente tecnologica, poiché concerne la formatività antropologica, sia intesa come teoria della for-
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ma, cioè struttura provvisoriamente a-storica, che come vita formata, cioè morfologia dinamica che si rapporta all’ambiente vitale. Se ogni autobiografismo ha a che fare con la scrittura (che è già una tecnologia filosofica) esso è anche un intreccio con il bios e con l’autos del presoggetto scrivente. Se si accetta la definizione data da Derrida in L’animale che dunque sono, l’autobiografia è «la scrittura che il vivente fa di stesso, la traccia propria del vivente» (Derrida 2006, 88), e in essa convivono sempre il desiderio e il fantasma narcisistico, l’animalità che è in me e l’inesistenza dell’io, la quota di sorveglianza sullo scivolamento nell’irriflessione e le astuzie della vita stessa che continuamente si riorganizza e sovrascrive la filosofia, come testimoniato in questo passaggio tratto dal docu-film D’Ailleurs, Derrida: il fantasma identitario nasce dall’inesistenza dell’io. Se l’io esistesse non lo cercheremmo, non scriveremmo. Se dunque si scrivono autobiografie è perché siamo mossi dal desiderio e dal fantasma di questo incontro con un io che sia alla fine ciò che è […]. Se riuscissi a identificare questa identità in maniera certa, naturalmente io non scriverei più. Non firmerei più, non traccerei più e, in un certo modo, non vivrei più. Non vivrei più (Fathy 2000).
Ogni filosofia, del resto, concresce in un ambiente vitale (accademico, sociale o psichico) e, dunque, già nelle trame relazionali di un Umwelt a cui vorrebbe anche opporsi: una filosofia si forma sempre reattivamente, per effetto combinato di automatismi, codificazioni e astuzie della vita, sebbene se ciò sia vero solo in parte. Questo conduce al secondo termine della questione, cioè al post-esistenziale.
2. Post-esistenziale
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rima di essere un concetto o un motivo, uno schema logico o una figura, post-esistenziale denota un’istanza generale del filosofare che rimanda tanto alla dimensione vitale nel filosofare stesso quanto al datum ineliminabile dell’esistere. È del tutto evidente che le due cose non possono essere disgiunte: qualcosa si dà, c’è – nel J. Derrida, D’Ailleurs, Derrida, trascrizione dal sonoro del film (Fathy 2000). Le considerazioni che seguono riguardanti il post-esistenziale originano da un lavoro di ricerca comune, i cui confini sono più ampi di quelli qui accennati, condotto insieme all’amico e filosofo Antonio Lucci.
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l’accezione francese del neutro e impersonale il y a – e questa fessura di nulla esiste, dunque produce degli effetti, come forma incoativa del filosofare, lontana da ogni riappropriazione realista o nichilista. Insieme a ciò, post-esistenziale annuncia un altro datum, e cioè che quella dimensione e quel datum primitivo sono oggi definitivamente dislocate, perdute ma anche riconfigurate, rispetto a come la filosofia ha tentato di pensarle nel corso della sua storia. Il post-esistenziale è già raddoppiamento. La sua struttura è “internamente” disarticolata: post-esistenziale è un altro nome del divertere, e, nel suo senso più generale, esso si compone sempre di due movimenti divergenti. Primo movimento: un filosofo, quando scrive o pensa, è già un intreccio con la sua dimensione vitale. È una porosità, nella quale filtrano (entrano ed escono) le verità e le finzioni del proprio esistere. L’emozione, l’inconscio, il corpo che ci parla da lontano, e purtuttavia a noi sempre vicino, un intero mondo prelogico e psichico: tutto questo determina la singolarità filosofica del filosofo. E questa determina le sue filosofie. Secondo movimento: post-esistenziale indica che tutto questo è vero solo in parte. L’esistenza, il vivente nella (e prima della) soggettività, il credere alla propria esperienza singolare: ciò non è mai puro, ma già embodiment dell’eterogeneo dentro l’esistenziale ingenuo, che, de facto, è solo un limite. Qualcosa che non esiste. Post-esistenziale indica quindi che nel cuore dell’esistenziale – sia che lo intendiamo come concetto che come esperienza – lavora già uno scarto, spazio-tempo del non endogeno, cioè di quanto nel pensiero del Novecento è stato descritto come Unheimlickeit. Questo è il senso contenuto nel prefisso post, cioè il senso provvisorio di quello scostamento che designa la natura del post-esistenziale. Natura ibrida e instabile, ma che reversibilmente lo rende poroso alla storia, alla materialità, alla tecnologia, all’estetica, nel senso appena visto dell’autobiografismo come morfo-logia. Nella prospettiva post-esistenziale il vivente va pensato, infatti, anche come co-implicazione originaria, come apertura ai suoi stessi limiti: non dentro, ma fra biologia e tecnica. L’elemento post-esistenziale è il punto di convergenza di questa tensione fra visione metafisica e visione antimetafisica del vivente in generale. Innanzitutto, e prima di ogni filosofia, il filosofo esiste e vive. Crea una propria filosofia, ma non è Prometeo: lo fa entro un intreccio complesso con le tensioni descritte, che lo precedono, ma che egli
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contribuisce anche a definire, ritagliandole nell’elemento post-esistenziale. Si prenda, ad esempio, l’autopoiesi di un soggetto che si stabilizza in una forma astratta (un concetto o una teoria): essa è uno stadio necessario nell’atteggiamento post-esistenziale, sebbene non sia mai l’unico. In questo senso si può parlare anche di un autobiografismo post-esistenziale, che, del resto, per quanto detto in precedenza, è un post-esistenzialismo autobiografico. In questo senso la soggettività post-esistenziale, qualunque morfologia assuma da un punto di vista storico e materiale, non è la negazione del soggetto, né una sua restaurazione. La soggettività post-esistenziale si riorganizza secondo figure e forme mutevoli: essa è, anzi, questa stessa riorganizzazione processuale. La soggettività post-esistenziale ha una propria forma trascendentale, che è post-kantiana: gli spazi e i tempi in cui le si offrono i fenomeni sono alterati e impuri. La divergenza – l’ossimoro – è la legge interna del post-esistenziale, la sua forma e la sua logica, cioè la sua qualità morfologica. Come tale consente di leggere i due movimenti divergenti, di volta in volta compresenti sulla scena, nella loro mobile e fragile unità. Il post-esistenziale veicola tale sforzo verso l’unità. Un ultimo punto: il post-esistenziale non riguarda soltanto il filosofo che in quel momento leggiamo, in quanto oggetto di studio; esso ci riguarda, in quanto soggetti. L’atteggiamento post-esistenziale è anche e sempre in noi che leggiamo. È un raddoppiamento nello sguardo e un riflesso nel pensiero. Nel momento in cui ri-guarda il filosofo e i suoi testi, il post-esistenziale rimanda a noi il problema: in questo senso ci ri-guarda. Qual è la nostra condition attuale? Forse è una condition post-postmoderne. Viviamo dopo tutti i “post” del Novecento filosofico. Postesistenziale indica, in fondo, esattamente la qualità della nostra condizione esistenziale. Siamo già due volte oltre il margine?
3. Morfologie autobiografiche post-esistenziali
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i può tentare di pensare assieme l’autobiografismo e il postesistenziale gettando uno sguardo su alcune traiettorie contemporanee, rappresentate da filosofi che hanno lavorato intorno ai margini del filosofico, non per caso spesso discussi, come Peter Sloterdijk, Jean-Luc Nancy e Jacques Derrida. Per Sloterdijk, ad esempio, sarebbe possibile considerare la scrittura e l’esistenza – entrambe intese sia
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nel loro aspetto teorico che in quello concreto – come i poli della sua riflessione intorno agli intrecci fra uomo, vita e tecnica. La scrittura stessa è già una forma di antropotecnica esistenziale: L’esercizio filosofico è innanzitutto e perlopiù un’attività di scrittura. Il vecchio adagio nulla die sine linea acquista nella scritturalità filosofica un senso preciso, poiché il pensatore che riprende i tratti del pensiero è di regola uno scrittore che mette di nuovo sulla carta delle righe già scritte, nella speranza che la ripetizione non rimanga semplicemente una copia inerte di ciò che già è stato pensato (Sloterdijk 2012, 4).
A partire da Sphären I (Sloterdijk 1998) sino a Du mußt dein Leben ändern (Sloterdijk 2009) si potrebbe individuare nell’attenzione al piano esistenziale del filosofare una maglia di sostegno di tutto il discours solterdijkiano: “considero la filosofia una di quelle tecniche sintattiche di felicità che chiamiamo in vita quando nominiamo la parola letteratura” (Sloterdijk 2012, 5), cosa che, del resto, era intuibile sin dalle grandi opere sulla critica della ragione degli anni Ottanta e, in generale, nella referenza indiretta ma costante nel suo Denkweg a Nietzsche e al Dasein heideggeriano. Ma ciò non indica un livellamento fra letteratura e filosofia, come forse pensa ancora il suo vecchio maestro Habermas, ma una rinegoziazione ininterrotta dei margini fra controllo e automatismo, fra scrittura e contrappunto riflessivo. In Der Denker auf der Bühne. Nietzsches Materialismus, scriveva: Nel dramma di un’esistenza cosciente si incontrano reciprocamente non la teoria e la pratica, ma l’enigma e la trasparenza, l’evento e l’intuizione. Quando l’Aufklärung accade, non è per erigere una dittatura della trasparenza, ma per generare un auto-chiarimento drammatico dell’esistenza. Le conseguenze di queste intuizioni sono considerevoli per l’auto-interpretazione della filosofia (Sloterdijk 1986, 9-10).
Se è vero che Sloterdijk non ha mai cessato di situare se stesso, in quanto personaggio filosofico, sulla scena teatrale (auf der Bühne, come Nietzsche) è anche vero che il suo personaggio gioca un ruolo al contempo tragico e speculativo, capace di una Selbstkritik della ragione filtrata, però, da un’auto-interpretazione di tipo esistenziale. Ciò suggerisce come ogni risultato teorico, ogni auto-produzione apolli-
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nea, ad esempio l’onto-antropologia delle sfere, nasca già dentro una dialettica che è autobiografica, e in ciò è espressione di un piano morfo-logico. Del resto che la dimensione teorico-pratica dell’autobiografico sia molto interna al pensiero di Sloterdijk, è visibile anche da indici esterni: il suo ultimo lavoro, Zeilen und Tagen (Sloterdijk 2012) è un ponderoso volume autobiografico; il suo primo lavoro Literatur und Lebenserfahrung. Autobiographien der Zwanziger Jahre (Sloterdijk 1978) aveva per tema proprio l’autobiografia. Quanto a Nancy, di cui andrebbero approfonditi, in questa chiave di lettura morfo-logica, i temi del corpo, dell’ex-posizione, della questione del singolare-plurale, ci si deve domandare: cosa resta di Nancy e del suo pensiero? Un resto, appunto, cioè un residuo che altro non è se non la performatività (che ha valore di collante universale della sua teoresi), come in alcune pagine di Corpus (Nancy 1992) o, più ancora, de L’intruso (Nancy 2000), racconto autobiografico della sua esperienza di trapiantato cardiaco e di survivant: Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare […] la sensazione fisica di un vuoto già aperto nel petto, con una sorta di apnea in cui niente, assolutamente niente, neppure oggi, riuscirebbe a districare per me l’inorganico, il simbolico […] come un unico soffio, ormai sospinto attraverso una strana caverna già impercettibilmente dischiusa […] salivo le scale e sentivo ogni stacco dell’extrasistole come la caduta di un sasso sul fondo di un pozzo. In che modo si diviene per se stessi una rappresentazione? E un montaggio di funzioni? (Nancy 2000, 14-15).
Intensità e rappresentazione, pathos e segno, sono le due forze fondamentali che alimentano la sua scrittura, dove la prosa già non collima più con il protocollo decostruzionista. Ma esiste un déplacement ulteriore: il suo stesso corpus è, infatti, attraversato da quella discontinuità che Nancy ha spesso descritto teoreticamente. Il corpus autoprodotto è disarticolato, post-esistenzialmente estroflesso, in quanto esiste il Nancy attore, o il Nancy lettore di se stesso, come nella performance di lettura che accompagnò la prima occorrenza del testo Corpo teatro (Nancy 2010); esistono numerose registrazioni, frammenti e spezzoni sul web, così come esiste la voce-off che commenta le immagini del suo corpo che nuota nell’acqua, nel film Le corps du philosophe
Cfr. A. Lucci 2013.
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(Grün 2003). Questa varia testualità rappresenta una protesi intrusiva trapiantata nel proprio corpus, una discontinuità che convive con la scrittura linearmente autoriale “classica” e che accompagna l’ostensione laica di un nuovo corpus ibridato, cioè abitato da tracce co-autoriali. La migliore categoria capace di contenere queste dinamiche è forse quella di autobiografismo post-esistenziale, o di post-esistenzialismo cripto-autobiografico. Evidentemente, non si tratta, né per Nancy, né per Sloterdijk, né per altri autori convocabili in questo scenario, di ripristinare modelli del passato: il post-esistenziale non significa un ritorno all’esistenzialismo. Molti fra questi autori hanno contribuito a rompere con le impostazioni esistenzialistiche del passato, a spostarne le categorie, a mostrare i limiti del concetto semplice di “esistere” mediato da un luminoso sospetto sul plesso di vocaboli radicantesi in “esistenziale”. Fra questi autori non può mancare Derrida. Eppure anche in lui la decostruzione (cioè la propria forma teorica auto-prodotta) si è intrecciata in modo consistente, e in misura crescente negli anni, con le inerzie di corpus vastissimo, e si è sorpresa sempre più, mutuando da Foucault, come forma teorica «inquieta, mobile lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia, non esistendo tuttavia che grazie ad essa» (Foucault 2004, 39). Derrida ha lasciato, come in una strana passività calcolata, che la decostruzione si facesse attraversare in modo crescente da tracce esistenziali e autoriferite. Se è vero che ciò è visibile, con tutte le cautele del caso, almeno a partire da Circonfession (Derrida 1990) è anche vero che la questione della singolarità scrivente e indecostruibile non ha mai cessato di assillare la decostruzione stessa: «la singolarità [singularité] resiste, permane. Talvolta essa resiste addirittura alla sua assimilazione alla “soggettività”» (Derrida 2004, 140). Forse in Derrida è reperibile una tensione esistenziale sui generis, che si offre nella scrittura delle sue mémoires frammentate, nei margini delle interviste biografiche, nei documentari filmati di cui è protagonista, cioè in quel sotto-corpus di autobiografismi e auto-etero-biografismi che, come arabeschi, ne impreziosiscono l’opera, ma al contempo pongono nuovi interrogativi circa le relazioni fra singolarità e bios nel graphein dell’autobiografico. Da una parte si può leggere in filigrana nel suo corpus la legge di un’autobiografia «frattale» (Bennington 2004, 425); dall’altra si impone la presenza di molte pagine di prosa quasi-lirica, cioè una scrittura esistenziale come ritmica dell’esistenza dettata dalle risonanze della vita. Il corpus diviene
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così ricettacolo di autobiografemi, di episodi marginali, di frammenti del non-prevedibile che irrompe nell’esistenza individuale, cioè tutti segni ostinatamente annotati e datati. Una necessità, per Derrida, in cui va probabilmente ricercato il suo più autentico trascendentale empirico: «ho l’impressione che se cancellassi queste tracce, questi archivi dell’occasione, perderei la mia vita» (Derrida 1997, 55). Accanto a ciò, non va dimenticato che, su un piano generale, la decostruzione è anche l’autopoiesi teoretica dell’individuo biologico Derrida, cioè la propria produzione autobiografica: formatività che decostruisce se stessa, qualcosa che non esiste ma perfettamente espressiva, sul piano morfo-logico, della natura autocontraddittoria del suo autore. Nei limiti di questa ricognizione, si può intuire la presenza di una forma di tensione esistenziale che pervade i corpus di questi autori: prima facie estranea ai loro paradigmi filosofici, essa sembra in grado di riattivarne le risorse nascoste. Così per l’interesse autobiografico in Sloterdijk; così per la sofferenza in Nancy, che internamente al segno recupera una concretezza della sua stessa teoresi, spesso tacciata di eccesso di fluidità e inconsistenza. Così anche per Derrida, dove la scrittura in prima persona conferisce una differente volumetria agli spettri decostruttivi e agli ossimori della sua filosofia, come quello dell’autoetero-decostruzione della soggettività. La scrittura della vita aderisce anche alla forma spettrografica dell’écriture, se è vero, come ipotizzato da Francesco Vitale, che in Derrida «una certa spettrografia sarebbe al cuore del vivente, sarebbe la condizione irriducibile della singolarità vivente umana, un dispositivo di registrazione e trasmissione a distanza, qualcosa come una scrittura» (Vitale 2008, 10). Sono problemi aperti, che qui mi limito soltanto a richiamare; evidentemente, inoltre, il post-esistenziale, o, per meglio dire, la tensione ossimorica post-esistenziale non fuori o di lato, ma dentro la filosofia, in realtà riguarda potenzialmente molti altri autori, come per la tendenza critpo-esistenziale che, anche qui con qualche cautela, si potrebbe rintracciare come filo conduttore nella parabola intellettuale di Michel Foucault. Il problema della soggettività, rimodulato continuamente nell’opera, sino a toccare la configurazione della cura di sé, è forse anche un proprio problema: lo sguardo auto-riflessivo e la tensione meta-filosofica che si avverte (pur venendo di rado esplicitata) non funziona come spazio segreto di risoggettivazione per lo stesso Foucault? Non esprime, in fondo, l’idea che nel prendere posizione politica e nel resistere, è precontenuta l’esistenza di un elemento residuale non fagocitabile nel dispositivo discorsivo che, del resto, io mi
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do da me e dove «la nozione di “indocilità riflessa” è un’altra maniera, per Foucault, di affermare che ciascuno dei suoi libri è un frammento di autobiografia» (Eribon 2011, 10)? Secondo questa ipotesi, tutto ciò accadrebbe per Foucault proprio sul livello della scrittura, vale a dire l’elemento più indubitabilmente personale, segno di ri-conoscimento negli spazi filosofico-politici in cui, volens nolens, si è sempre engagé. Da questo punto di vista i continui aggiustamenti del suo percorso intellettuale e la messa a punto di un metodo teorico-empirico, deduttivamente storico ma capace di incorporare le proprie correzioni di rotta, così come l’eterotropia e l’arte dello spostamento da se stesso (teorico e biografico) visibile per esempio nello sciame di testi “minori”, nelle occasioni della prise de parole o nelle interviste, non esprimono, considerati nel loro complesso, una forma autobiografica? Un post-nietzschiano tentativo di autocritica senza pause, continuamente in progress poiché è la grammatica generativa e vivente del suo stesso discours? I casi sino a qui ricordati riguardano autori non facilmente comparabili, che pure possono essere pensati assieme sopra questo paradigma di lettura autobiografico post-esistenziale. Naturalmente molti altri esempi sono possibili, e vorrei proporre, per finire, quelli di Maurizio Ferraris e di Michela Marzano, filosofi fra loro molto diversi, spesso criticati per vari ordini di ragioni nelle quali non entro. D’altra parte non mi interessa, nella ricostruzione strutturale che sto tentando, valutare la qualità filosofica intrinseca della loro pagina (attività, del resto, assai praticata dai loro pari), ma tracciare una morfo-logia estrapolandola dai loro corpus, evidenziando, cioè, un movimento meta-testuale, e, in quanto tale, autobiografico. Quanto a Ferraris, si potrebbe leggere il tanto discusso riposizionamento realista più recente, ma anche altre oscillazioni nella sua vastissima produzione scientifica, come progressivo auto-chiarimento di un’altra tipologia di posizionamento, precisamente un’articolazione fra confronto e de-posizionamento rispetto, ad esempio, a figure importanti nella sua formazione, come Derrida e, più nascostamente, Vattimo. Ma, andando ancora più indietro, si potrebbe risalire sino alle forme esistenzialiste deposte nell’ambiente di formazione torinese post-pareysoniano (da cui provengono, oltre a lui e Vattimo, molti altri intellettuali, fra cui Eco e Givone), messe metodicamente in secondo piano nella stagione degli anni Ottanta. Qualche traccia di quell’Umwelt forse, in forme stravolte e aggiornate, torna come un revenant ad assillare il protocollo di lettura realista? In alcune questioni nodali, come quella del nocciolo resistente, dell’inemendabile che esiste-resiste, riaffiora la funzione
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del datum concreto che precede il realismo (quest’ultimo essendo, in sé, solo una teoria): quello che c’è […] è un’altra cosa. È l’ontologia, il mondo dell’essere che non si risolve nel sapere, restando strutturalmente “lì fuori”. Soprattutto, è la nostra vita, fatta di porte che non si aprono, di occhiali che non si trovano, e ovviamente di felicità inaspettate. In queste esperienze quotidiane, che non hanno nulla di mistico, noi incontriamo la cosa in sé, ciò che esiste anzitutto perché resiste (Ferraris 2012, 47).
Occorre sempre valutare, dunque, la relazione con il tempo storico di un tracciato biografico, o anche autobiografico, che ha determinato quella configurazione in cui torna a galla un certo riferimento all’esistenza, al marginale o anche alla sorpresa come centro logico del filosofare. Naturalmente la cifra della riflessione attuale di Ferraris è quella di sintetizzare la varietà auto-differenziale di elementi eterogenei, di cui l’aspetto manifestamente realista è soltanto una corrente superficiale. Si tratta pur sempre, nel suo caso (come lo era dichiaratamente, per ragioni diverse, per Sloterdijk e credo anche per Nancy) di pensare dopo Nietzsche e Heidegger, come suggeriva un celebre libro di Vattimo. Almeno per Ferraris, si tratta anche di un dopoDerrida, e, forse, di un dopo-Vattimo, lungo una traiettoria che, fra le sue componenti, ha anche quella di un rivolgersi verso di loro mentre ce ne si allontana: una ri-calibrazione originale di un’incorporazione che lascia essere l’altro, spesso spesa in una ricerca anche formale di nuovi spazi di posizionamento (come il web, la televisione, il giornalismo filosofico, la popularisation della filosofia, che in sé non è negativa, in quanto rimanda anche all’idea di democratizzazione). Anche per la Marzano mi soffermo solo sulla forma esterna del suo percorso, che mi pare significativa di una tendenza post-esistenziale e autobiografica. Ordinario di filosofia a Paris 1 Panthéon-Sorbonne, autrice di numerosi scritti sul corpo, ne ha fatto per molti anni un oggetto di studio, fra cui il voluminoso Dictionnaire du corps (Marzano 2007). Tuttavia da qualche tempo allo sguardo teorico sia è aggiunta È appena il caso di notare come lo stesso Vattimo sia interessato da un movimento autobiografico, nel suo caso più lineare o esplicito. Nei mesi in cui ha inizio la pubblicazione del suo corpus (le Opere Complete in 10 volumi per l’editore Meltemi, partita nel 2007), si registra un’intensificazione della riflessione sull’esistenza, sia con l’autobiografia Non Essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani (con P. Paterlini) (Vattimo 2007) sia nel libro Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era (Vattimo 2006).
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una torsione centripeta, nella forma di un sovra-testo che complica la struttura stessa dello sguardo della filosofia sul corpo, in quanto entra in campo il proprio corpo dolente, ciò che nascostamente forse indirizzava, nel senso dell’autoconfessione nietzschiana, le traiettorie esterne dello sguardo. Come noto, a partire dalla narrazione dell’esperienza della propria anoressia, sia nel récit autobiografico Volevo essere una farfalla (Marzano 2011) che nei pamphlets seguenti, come Cosa fare delle nostre ferite? (Marzano 2012), nasce una morfologia originale, un’alterazione del gesto di pensiero sul corpo che rivela un cambio di postura, più decisamente di tipo teoretico-esistenziale. Inoltre l’autoesposizione autobiografica, si prolunga per la Marzano anche sui media diversi dalla pagina scritta, come televisione, blog o social network in cui vanno in scena morfologie differenti della presentazione di sé e del proprio corpo. In una certa misura, mutatis mutandis la cosa può valere, come accennato, anche per gli altri autori ricordati, e, virtualmente, per chiunque altro.
4. Morfologie dei corpus post-esistenziali
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a morfologia scritta, in filosofia, resta e resiste anche alle sue alterazioni. In tutti i casi evocati, tuttavia, a essa si affiancano altre morfologie autobiografiche o cripto-autobiografiche, che spesso sconfinano in nuove forme intermediali di connessione intersoggettiva. Tutto ciò può essere interpretato anche come una formula nuova nella costruzione di sé, della propria immagine pubblica, della propria teoria come forma istituita, di identificazione sul piano di una sociologia della cultura. Costruire se stessi, e le proprie finzioni, scrivendo un curriculum vitae o progettando la propria bibliografia significa viversi, in quanto filosofi, nelle tensioni fra autonomia e automatismo, mediante una regia autobiografica del corpus che è anche, tuttavia, l’oggetto esterno, visibile, pubblicato (forse, in futuro, auto-pubblicato) spendibile sul mercato intellettuale: una merce, o un feticcio, in quanto oggetto di produzione, e, entro certi margini, di auto-produzione. Tutto ciò copre un ampio spettro di soggetti: dal filosofo professionista sino al proto-filosofo nella sua forma larvale, come il ricercatore-dottorando. Sempre maggiori instabilità e deformazioni testuali andranno a ibridare il corpus del filosofo che scrive e pensa, un corpus che, de facto, si estroflette mentre raccoglie i frammenti della Su questo tema, mi permetto di richiamare il mio Alterazioni della filosofia. Il corpo e il corpus in Jean-Luc Nancy (Pelgreffi 2012).
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sua autobiografia post-esistenziale, come ritagli del tempo storico. Forse l’insieme di queste neoformazioni è marginale. Ma proprio questo è il post-esistenziale: il marginale che ritorna centrale, il datum che ci sollecita in quanto ancora non decifrabile, non traducibile o non capitalizzabile in una economia del sapere, come resto empirico che, tuttavia, può sorreggere il soggetto (qualunque cosa intendiamo con questo termine: il post-esistenziale precede e informa la morfologia del soggetto). Dunque marginale è proprio la caratteristica dei corpus filosofici eterogenei, quali interviste, documentari, spezzoni di video su YouTube e altre morfologie di scrittura post-esistenziale, auto-biografiche ma anche etero-biografiche, che assorbono il vivente e il tecnologico nell’antropologico. Non sono forse tutti questi dei casi limite? Casi limite che ci interessano: ideali prolungamenti di quelle che furono chiamate, un tempo, esperienze limite della soggettività. Bibliografia Bennington, G. (2004), Other Analyses. Reading Philosophy (). Derrida, J. (1990), Circonfession, Seuil, Paris. Derrida, J. (1995), Politiche dell’amicizia, trad. it. di G. Chiurazzi, Raffaello Cortina, Milano [Politiques de l’amitié, Galilée, Paris 1994]. Derrida, J. (con M. Ferraris) (1997), «Il gusto del segreto», Laterza, Roma-Bari. Derrida, J. (con E. Roudinesco) (2004), Quale domani?, trad. it. di G. Brivio, Bollati Boringhieri, Torino [De quel demain… Dialogue, Arthème Fayard e Galilée, Paris 2011]. Derrida, J. (2006), L’animale che dunque sono, trad. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano [L’animal que donc je suis, Galilée, Paris 2006]. Grün, M. (2003), Le corps du philosophe (film), Le Meilleur des mondes productions, France 3 Alsace-TV10 Angers. Eribon, D. (2011), Michel Foucault, Flammarion, Paris. Fathy, S. (2000), D’Ailleurs, Derrida (film), Gloria Films e La Sept Arte, France. Ferraris, M. (2012), La persistenza della realtà, «la Repubblica», 11 agosto 2012, p. 47. Foucault, M. (2004), L’ordine del discorso, trad. it. di A. Fontana, M. Bertani e V. Zini, Einaudi, Torino [L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971].
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Simona Paravagna Sherlock Holmes detective della scienza
L’inchiesta, qualunque sia l’oggetto, si serve di metodi scientifici. Non ci può essere nessuna sostanziale differenza tra i metodi di ricerca messi in opera dal detective e quelli adottati dal fisico o dal chimico. Sul campo, deduzione e induzione si combinano senza posa […]. Anche il detective, come lo scienziato, incontra il falso, prima di conoscere la verità. Thomas Narcejac
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l breve saggio qui presentato rappresenta il tentativo di individuare la zona di margine, tra letteratura, scienza e filosofia, abitata da Sherlock Holmes, il detective dei racconti di Arthur Conan Doyle, usufruendo di un concetto proveniente dalla prospettiva filosofica di Deleuze e Guattari, ovvero il “personaggio concettuale” che, in quanto tale, abita da sempre i margini disciplinari. Prendendo le mosse dalla descrizione che Peirce dà del ruolo dell’abduzione all’interno del processo conoscitivo scientifico, in relazione alla deduzione e all’induzione, ossia alle altre due modalità di ragionamento conoscitivo, intendo individuare le tracce di questi strumenti conoscitivi nel discorso “scientifico” di cui Conan Doyle fa portavoce il suo detective. Nel far ciò punterò innanzitutto l’attenzione sulla corrispondenza nominale tra ciò che Peirce e Doyle intendono rispettivamente per “metodo deduttivo”, mostrando come il secondo, attraverso il suo personaggio letterario, affermi di utilizzarlo quando in realtà sta procedendo in modo abduttivo.
Abduzione o... tirare a indovinare
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iprendiamo allora la classificazione peirceana. Se i tipi “ufficiali” di ragionamento nella scienza sono deduzione e induzione, l’abduzione – definita in modo estremamente suggestivo «Argomento Originario» – è, per Peirce, «l’unico tipo di argomento che origina una
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nuova idea» (Peirce 1958, 2.97). Il considerare risolutamente, da parte di Peirce, l’abduzione come motore del ragionamento in generale e di quello scientifico in particolare pone, a mio avviso, sotto una luce differente la modalità di produzione del discorso scientifico, moltiplicandone e complessificandone gli elementi chiamati in gioco. Se, brevemente, il passo che si compie nell’assumere un’ipotesi o una proposizione che condurrebbe alla predizione di ciò che appare come un fatto inspiegabile si può chiamare abduzione, tale passo è il primo sulla strada del ragionamento scientifico. Peirce ci racconta che le percezioni in grado di indicarci la “giusta” via del ragionamento sono del tutto peculiari, rispetto a induzione e deduzione, e producono un particolare tipo di emozione: L’ipotesi sostituisce un unico concetto a un complicato groviglio di predicati connessi a un soggetto. Ora esiste una sensazione particolare che appartiene all’atto di pensare che tutti questi predicati ineriscono al soggetto. Nell’inferenza ipotetica la complicata sensazione così prodotta è rimpiazzata da una singola sensazione di maggiore intensità, quella corrispondente all’atto di pensare la conclusione dell’ipotesi. Ora, quando il nostro sistema è in uno stato di eccitazione complesso, essendo i diversi elementi dell’eccitazione in relazione tra loro, ne risulta un singolo disturbo armonico che definisco emozione. Così, i vari suoni emessi dagli strumenti di un’orchestra colpiscono l’orecchio, e ne risulta una particolare emozione, ben distinta dai suoni stessi. Questa emozione è essenzialmente la stessa dell’inferenza ipotetica, e ogni inferenza ipotetica comprende il sorgere di una simile emozione. Possiamo dire dunque che l’ipotesi produce l’elemento sensuoso del pensiero e l’induzione l’elemento abituale (Peirce 1958, 2.643).
Se si può allora a buon diritto affermare che sia proprio l’emozione a offrire la ragione della distinzione tra l’abduzione e gli altri due modi di ragionamento, tale considerazione ci guiderà nell’analizzare i contenuti “scientifici” e razionalisti delle indagini di Sherlock Holmes – il quale ha sempre preteso di muovere il proprio ragionamento attraverso la deduzione sebbene, come vedremo, utilizzasse in realtà il metodo abduttivo. Inoltre, il passaggio attraverso un’opera letteraria che al tempo stesso maschera – nominandoli altrimenti – ed esibisce – nei fatti – i reali processi conoscitivi mi permette di estendere l’angolo visuale su tutto ciò che contribuisce a produrre conoscenza. Come mette in evidenza Marcello Truzzi nel testo Sherlock Holmes psicologo sociale applicato, compreso nella raccolta Il segno dei tre, «ben-
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ché Holmes parli spesso di deduzioni, queste sono esibite di fatto piuttosto raramente nel canone. Né le più comuni inferenze di Holmes sono tecnicamente induzioni. Per essere esatti, Holmes ci mostra uniformemente ciò che C.S. Peirce ha chiamato abduzioni» (Eco, Sebeok 2004, 84). Lo stesso Truzzi ripropone dunque lo schema utilizzato da Peirce, per specificare la modalità di procedere dell’abduzione in riferimento al sacchetto di fagioli, applicandolo ai contenuti “tipici” della detective story: deduzione Regola tutte le ferite gravi da coltello producono emorragia Caso questa era una ferita grave da coltello Risultato si ebbe emorragia induzione Caso questa era una ferita grave da coltello Risultato si ebbe emorragia Regola tutte le ferite gravi da coltello producono emorragia abduzione Regola tutte le ferite gravi da coltello producono emorragia Risultato si ebbe emorragia Caso questa era una ferita grave da coltello
Ora dopo aver introdotto gli argomenti caratteristici della detective story, non mi resta che addentrarmi nelle pagine di Arthur Conan Doyle per vedere all’opera i principî di ragionamento che guidano Sherlock Holmes nella risoluzione delle indagini a partire dalle sue osservazioni nel quotidiano. È noto che nel dialogo continuo tra Watson e Holmes la questione del “tirare a indovinare” è sempre fermamente respinta dal detective. Questo è il luogo testuale di Conan Doyle su cui la teoria semiotica si è maggiormente interrogata, dato che la capacità di osservazione di Holmes, così come la sua capacità di deduzione, sarebbero essenzialmente basate su una complessa serie di ‘’tentativi di indovinare’’. Con le parole di Sebeok e Umiker-Sebeok: ciò che rende Sherlock Holmes così efficace nell’indagine non è il fatto che tiri a indovinare, ma che lo faccia così bene. Infatti, senza saperlo, segue le istruzioni di Peirce per la selezione della migliore ipotesi (vedi 7.220-320). Parafrasando l’esposizione di Peirce, pos-
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siamo dire che l’ipotesi migliore è la più semplice e naturale, la più facile ed economica da verificare, e tuttavia quella che contribuirà alla comprensione della maggior gamma possibile di fatti. Nell’episodio dell’ufficio postale, le congetture di Holmes sulle azioni di Watson sono le più ragionevoli in quelle circostanze (Eco, Sebeok 2004, 9).
Inoltre, esse lo mettono in condizione, con un minimo bagaglio logico, di arrivare a un punto da cui, attraverso ulteriori osservazioni, può verificare alcune delle predizioni ricavate dall’ipotesi, e ridurre così considerevolmente il numero della conclusioni possibili. In altre parole, Holmes non solo seleziona l’ipotesi più semplice e più naturale, ma «frantuma l’ipotesi nei suoi più piccoli componenti logici, e ne rischia soltanto uno per volta, e questo è, secondo Peirce, il segreto del ‘’gioco delle Venti Domande’’» (ivi, 41). Se, in sostanza, Holmes nega a più riprese la presenza di una “pratica dell’indovinamento” nelle sue investigazioni, questa, come aveva mostrato anche Régis Messac prima di Sebeok, è sicuramente presente, e l’ostinazione holmesiana nel voler spiegare le proprie sorprendenti capacità unicamente attraverso la deduzione, piuttosto che come un’affermazione epistemologicamente fondata, deve essere intesa in quanto caratteristica psicologica del personaggio creato da Doyle. Ammettere di aver tirato a indovinare, in questo senso, secondo Holmes avrebbe in qualche modo screditato il suo stesso lavoro investigativo; da qui l’opportunità di appoggiarsi, nelle sue dichiarazioni, al metodo deduttivo. Stando però alla teoria semiotica, quel che Holmes chiama deduzione, in definitiva, rientra nel processo abduttivo descritto da Peirce. I ragionamenti del detective partono da un fatto particolare per giungere ad un altro fatto particolare. Se, come affermano Bonfantini e Proni, «sia per Holmes sia per Peirce le abduzioni, le escogitazioni di ipotesi sulle cause ignote dei fatti risultati, costituiscono il momento decisivo della ricerca», è evidente che «Peirce tende a esaltare il carattere intrinsecamente originale, creativo e innovativo, dell’abduzione; Holmes, al contrario, vuole che le abduzioni siano il più possibile conformi ai codici e alle leggi riconosciute» (ivi, 145, 149). E ancora: Secondo l’analisi critica dei racconti di Doyle condotta da Messac, le deduzioni di Holmes non sono né deduzioni, né induzioni, dal momento che si tratta di «ragionamenti basati sull’osservazione di un fatto particolare e conducenti , attraverso insidie più o meno complesse, a un altro fatto particolare» (Messac 1975, 602).
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La questione è piuttosto se il tipo di abduzioni messo in gioco nell’indagine poliziesca sia identico o simile o invece nettamente diverso al tipo di abduzioni messo in gioco dall’indagine scientifica teorica che presumibilmente è quella che sta più a cuore a Peirce (ivi, 146).
Se potessimo consolare Sherlock Holmes utilizzando la teoria peirciana, dovremmo allora dirgli non soltanto che il suo metodo risulta comunque valido poiché «ottiene risultati più determinanti attraverso l’osservazione che attraverso processi logici» (Nordon 1966, 245), ma anche che questa sua attitudine, piuttosto che allontanarlo dal reale processo di acquisizione scientifica, contribuisce innanzitutto a fare di lui un autentico detective della scienza – proprio nel non condurre una logica deduttiva.
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o scarto, a dir la verità ancora oscuro, tra la pretesa logica deduttiva e la più verosimile pratica del “tirare a indovinare”, come ho anticipato, è in qualche modo la posta in gioco epistemologica del personaggio Sherlock Holmes, il quale non si sognerebbe di essere un “detective della scienza” – come vorrei ora presentarlo – poiché il suo obiettivo sembra essere l’opposto, e cioè trasformare l’arte dell’investigazione in una scienza esatta: L’idea di Holmes è dunque che l’investigazione sia, o diventi, una scienza esatta: lo spirito del positivismo sogna di estendere procedure razionali e controllabili anche al dominio delle tracce, dei sintomi, degli indizi, al dominio cioè dei fatti individuali. Con tale denominazione andranno intese tutte quelle entità (o meglio: microentità) il cui significato sembra dipendere non dal rapporto con una legge generale ma dal legame con una determinata porzione di realtà. Compito dell’investigatore sarebbe dunque quello di tracciare la linea che unisce orizzontalmente due punti – l’indizio e il colpevole –, senza mai sollevarsi al livello di una regolarità, di un nesso costante (Eco, Sebeok 2004, 166).
Come afferma Truzzi, «L’immagine di Holmes come esempio e compendio dell’applicazione della razionalità e del metodo scientifico al comportamento umano è senza dubbio il maggior fattore dell’abilità del detective nel catturare l’immaginazione del mondo» (Eco, Sebeok 2004, 67).
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Prima di proseguire l’analisi dei contenuti epistemologici che, tramite il suo celebre personaggio, Conan Doyle veicola, ritengo opportuno esplicitare la strategia filosofica sottesa al mio utilizzo di Sherlock Holmes. In realtà, quanto mi accingo a descrivere non trova rispecchiamento unicamente nella mia analisi bensì, come risulta facile constatare, seppur indirettamente e comunque ante litteram, emerge anche in molti dei saggi presenti in Il segno dei tre, testo imprescindibile per comprendere lo statuto teorico dell’opera di Doyle – non a caso vi ho già fatto più volte riferimento. Nel concreto, in questo incessante rimando dalla letteratura alla scienza, dall’indagine giudiziaria al metodo scientifico, prende corpo quello che Deleuze e Guattari hanno definito un «personaggio concettuale» (Deleuze, Guattari 2002), i cui tratti psicologici, sociali, estetici e culturali provengono sicuramente dal personaggio letterario a cui fa riferimento (in questo caso, appunto, il detective Sherlock Holmes), ma acquistano un valore inedito – filosofico, o comunque speculativo – rispetto a quello fornitogli dal suo autore. In altre parole, il personaggio concettuale di Holmes non è creato da Conan Doyle, bensì da chiunque si cimenti a ragionare a partire dai racconti di quest’ultimo, e tale personaggio giunge così ad essere uno strumento fondamentale per l’elaborazione di concetti o prospettive non più estetici, ma, in questo caso, epistemologici. In linea generale, la teoria del personaggio concettuale, elaborata da Deleuze e Guattari, permette di comprendere l’importanza strategica dei personaggi letterari per l’elaborazione di concetti filosofici: lo sforzo di immaginazione letteraria intrattiene un rapporto di vicinanza con il pensiero più teoretico, anche se il fine ultimo dello scrittore diverge da quello del filosofo. La filosofia, per Deleuze e Guattari, consiste infatti nel creare concetti, ossia “sorvoli” teorici su di un dato problema in grado di catturare gli elementi necessari allo sviluppo di una prospettiva coerente sul piano epistemologico, mentre la letteratura, come tutte le altre arti, si prefigge lo scopo di creare e trasmettere affetti e percetti, vale a dire blocchi di sensazioni e percezioni che raggiungono un’esistenza autonoma rispetto a chi, come lo scrittore, li vive o li immagina in prima persona. Capita spesso, comunque, che la filosofia e la letteratura prendano reciprocamente in prestito, anche solo per un breve periodo, elementi caratteristici dell’una e dell’altra disciplina, determinando così fenomeni di risonanza o di interferenza paragonabili a nodi tanto difficili da sciogliere quanto proficui per lo sviluppo di una prospettiva teorica
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(filosofia) e per la presa di consistenza o, il che è grossomodo lo stesso, per l’acquisizione di profondità della narrazione (letteratura). L’ausilio della letteratura, dunque, non è un semplice fatto contingente, non si tratta cioè di un atto creativo accessorio per il mestiere del filosofo, ma proviene direttamente dalla prospettiva deleuziana che considera la filosofia come creazione di concetti mediante componenti eterogenee. A tal proposito, per ciò che concerne il nostro argomento specifico, ossia Sherlock Holmes detective della scienza, è sicuramente interessante il fatto che Deleuze abbia voluto mostrare come l’attività di creazione concettuale sia simile al romanzo giallo o poliziesco perché si tratta di creare concetti al fine di risolvere una particolare situazione (Deleuze 1997, 3). In Che cos’è la filosofia? viene esplicitata la dinamica strategica dei concetti, che cambiano in funzione dei problemi che il filosofo può incontrare. Ecco allora manifesto il ruolo dei “personaggi concettuali”, mutuati dai personaggi della letteratura – le “figure estetiche” – o provenienti direttamente dall’immaginazione del singolo filosofo: è il personaggio concettuale a creare i concetti all’interno di una determinata situazione, allestita dall’argomentazione filosofica (Deleuze, Guattari 2002, 59, 66). I personaggi concettuali devono dunque essere intesi come “proiezioni” o “soggettivazioni” necessarie al filosofo per potersi orientare nel pensiero, come l’Avvocato di Dio in Leibniz o il Giudice in Kant, mentre se pensiamo alla letteratura, lo stesso Deleuze ha per così dire scommesso sull’Alice di Lewis Carrol e su Bartleby di Melville. In tal senso, «la differenza tra i personaggi concettuali e le figure estetiche consiste nel fatto che gli uni sono potenze di concetti, mentre le altre sono potenze di affetti e percetti» (ivi, 55). Deleuze sottolinea come vadano distinti i concetti, la cui creazione è frutto dell’inclinazione filosofica ad affrontare il caos mediante un piano d’immanenza, e i percetti e affetti, i quali sono primariamente l’oggetto del lavoro artistico. Tuttavia tra concetti e percetti, tra filosofia e arte, avvengono intersezioni utili tanto all’artista quanto al filosofo. Si tratta dunque di incontri, di scambi, di eventi del pensie Per una ricognizione del rapporto tra filosofia e letteratura in Deleuze cfr. Vignola 2011. Altri esempi di personaggi concettuali sono «il Socrate di Platone, il Dioniso di Nietzsche, l’idiota di Cusano […] il “cavaliere della fede” di Kierkegaard, colui che salta, o lo scommettitore di Pascal, che lancia i dadi» (ivi, 54, 65).
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ro, ai quali non è estranea neanche la scienza, disciplina che, sempre seguendo Deleuze e Guattari, non sarebbe meno “creativa” delle altre: «La filosofia fa sorgere degli eventi con i suoi concetti, l’arte erige dei monumenti con le sue sensazioni, la scienza costruisce degli stati di cose con le sue funzioni» (ivi, 201). Sulla base di queste considerazioni, proviamo allora, innanzitutto, a verificare il potenziale filosofico di Sherlock Holmes in quanto “semplice” personaggio letterario. Potremo così, successivamente, tentare un’operazione che ci permetta di comprendere l’equivoco epistemologico, di cui si fa latore il leggendario detective. Propedeutico a tale operazione è allora il riconoscimento dell’importanza che la medicina assume nella costruzione del protagonista dei racconti di Arthur Conan Doyle, dato che lo scrittore ha avuto una formazione medica che ha sicuramente influito nella tematizzazione dei problemi che Sherlock Holmes affronta e risolve. Tale importanza della medicina, all’interno del mio lavoro, risulterà tuttavia autenticamente problematica, poiché proprio nel momento in cui si tenta di costruire la detection come una scienza esatta, quindi universalistica e astratta, la scelta del modello di sapere medico, che in-forma il personaggio letterario, rimette immediatamente in discussione questa pretesa. Vorrei adesso concentrarmi sul rapporto, quantomai ricco di suggestioni, tra l’approccio investigativo di Holmes e la costruzione del metodo scientifico del suo tempo. In particolare, ritengo proficuo segnalare alcuni passi di Il segno dei tre, che non soltanto ha avuto il merito di mettere in evidenza, con precisione e chiarezza, il rapporto tra Holmes e Peirce centrato sul tema dell’abduzione, ma fornisce anche gli elementi necessari per incominciare una decostruzione della “trasparenza” del paradigma scientifico proprio a partire dalle vicende che vedono protagonista il personaggio di Doyle. Vediamo allora quali sono le componenti psicologiche, sociali, culturali, ma anche personali, che Conan Doyle introduce nella costruzione del suo personaggio letterario. Come si è potuto comprendere, stando alla teoria del personaggio concettuale, il loro amalgama non darà solo luogo alla figura letteraria di Sherlock Holmes, ma in-formerà anche una questione epistemologica fondamentale, quella relativa alla purezza e alla razionalità del metodo conoscitivo. A tal proposito, se Truzzi afferma che «Holmes rappresenta ancor più chiaramente il tentativo di applicazione della massima facoltà umana – la razionalità – alla soluzione delle situazioni problematiche
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della vita di tutti i giorni» (Eco, Sebeok 2004, 70), è noto che lo stesso Arthur Conan Doyle fu coinvolto nel clima di generale entusiasmo nei confronti della scienza diffuso nell’Inghilterra della metà del XIX secolo e caratterizzato da un «tono dominante di razionalità positivista» (Messac 1975, 612). Al tempo stesso, Conan Doyle dimostra di aver presente l’importanza della filosofia nella costruzione e diffusione di questo atteggiamento positivista quando afferma che «bisogna ricordare che quelli erano gli anni in cui i nostri maggiori filosofi erano Huxley, Tyndall, Darwin, Herbert Spencer e John Stuart Mill, anni in cui anche l’uomo della strada percepiva l’impetuosa e vasta corrente del loro pensiero» (Eco, Sebeok 2004, 47).
Conan Doyle, il medico del suo tempo
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onan Doyle, però, non è né un filosofo né uno scienziato, bensì un medico, e questo non è assolutamente un particolare da sottovalutare. Anzi, può essere ritenuto l’elemento strategico e indispensabile per passare dal personaggio letterario a quello concettuale, nonché da quest’ultimo ai personaggi reali. Comunque, ritornando alla professione di medico esercitata da Conan Doyle, quale componente essenziale alla costruzione del suo personaggio, è opportuno segnalare quanto affermato da Nordon: In quanto creazione di un medico impregnato del pensiero razionalistico del tempo, il ciclo holmesiano ci offre per la prima volta lo spettacolo di un eroe che passa di trionfo in trionfo con le armi della logica e del metodo scientifico. E le prodezze dell’eroe sono meravigliose come il potere della scienza, che molti, e Conan Doyle per primo, speravano avrebbe portato a un miglioramento spirituale e materiale della condizione umana (Nordon 1966, 247).
Se la medicina, o meglio la professione del medico, può essere scorta nella filigrana dell’opera letteraria, più evidente, come mostra Sebeok, è l’ambito della chimica, che servì a Holmes «per tenersi in contatto pratico con una scienza esatta in cui causa ed effetto, azione Truzzi prosegue: «è questa messa in opera quotidiana delle applicazioni della scienza e della razionalità di Holmes che stupisce e gratifica il lettore. E non è tanto la superiore abilità di Holmes nel ricavare intuizioni e inferenze notevoli da semplici osservazioni che impressiona, quanto invece l’evidente ragionevolezza e ovvietà del suo “metodo” una volta che sia stato spiegato» (Eco, Sebeok 2004, 71).
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e reazione, si susseguivano con una predittibilità al di là delle possibilità che la meno precisa scienza dell’indagine poteva raggiungere, per quanto egli si sforzasse di ottenere la massima esattezza nella sua professione» (Hall 1978, 36-37). Ma, nella pratica, che cosa fa Sherlock Holmes? Come affermano Bonfantini e Proni, il detective di Conan Doyle, mettendo in atto il proprio singolare processo investigativo, ripercorre le tappe dell’indagine scientifica: «Holmes compie vari tipi di operazioni; da una parte osserva; dall’altra conclude, inferisce, ipotizza, insomma forma delle teorie; e infine trova e costruisce dei fatti-conferma di tali teorie. In ultimo, vediamo che Holmes opera anche su un ulteriore duplice livello: da una parte raccoglie dati; dall’altra mette in atto degli stratagemmi, al fine di intrappolare il colpevole» (Eco, Sebeok 2004, 143). A tal proposito, è importante evidenziare, seppur solo a guisa di inciso, che la chimica è proprio una di quelle discipline resistenti al paradigma quantificante della rivoluzione scientifica. Fra il Settecento e la metà dell’Ottocento, periodo dell’ascesa preponderante del modello newtoniano, la chimica e le scienze del vivente, come la medicina, la zoologia e la biologia, propongono metodologie di ricerca fondate in particolare sulla pratica e sulla lunga esperienza dei fenomeni che, nella prospettiva di tali discipline, sono per definizione imprevedibili – ed è per tale ragione che si può parlare di metis, forma di conoscenza alternativa allo spirito di sistema della fisica classica. Per fare solo un esempio, in chimica il calore innesca reazioni che trasformano le sostanze attraverso processi letteralmente imprevedibili secondo leggi universali e dipendenti da una molteplicità irriducibile di variabili. Analoga resistenza al modello scientifico-newtoniano si riscontra nelle scienze del vivente, dove la genesi delle forme costituisce il cuore del problema. Dalle ricerche di Goethe sulle piante al celebre dibattito fra Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire, apprendiamo che la morfogenesi non può essere spiegata né invocando il meccanicismo, né invocando il caso, ma rielaborando innanzitutto i criteri di definizione dello spazio e del tempo che, alla lettera, divengono non-newtoniani. In altre parole, tanto in chimica, quanto in morfologia è impensabile il vuoto che presuppone l’uniformità sostanziale dello spazio, così come un tempo puramente spazializzato (Bohr 1963, 1-7). Figlio del suo tempo, il personaggio concettuale Sherlock Holmes, detective della scienza, incarna la tensione che attraversa il ventaglio delle scienze hard ottocentesche: da una parte, nell’autorappresentazione della sua detection, ambisce a una scientificità newtoniana;
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dall’altra parte, nel vivo del suo operare, e cioè nell’uso della chimica e nell’osservazione delle forme, non può fare a meno di praticare un saper-fare e un saper-osservare “artigiano” e congetturale (Ginzburg 1979).
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Lisa Fazio Maria Luisa Haupt Dal divenire-donna al soggetto nomade: la decostruzione del soggetto fallogocentrico tra Deleuze, Derrida e Braidotti
1. Derrida e la decostruzione del soggetto fallogocentrico
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ecostruzione. Un termine difficile se non impossibile da inquadrare in maniera univoca e definitiva e senza dubbio inscindibile dal nome proprio e dalla genialità di Jacques Derrida, filosofo controverso e ostico ma ritenuto, anche se non da tutti, uno dei maggiori innovatori del pensiero dei nostri tempi. La decostruzione, intesa erroneamente come metodo filosofico, è stata al centro di un acceso dibattito, anzi di un vero e proprio processo, ed è stata accusata di essere sia una forma di scetticismo che di nichilismo estremo e, per il fatto di non rispettare le usuali procedure argomentative, di non essere neppure filosofia. Derrida è apparso come l’eccentrico filosofo/letterato divertito dal suo gusto nel complicare eccessivamente il pensiero fino a renderlo di proposito enigmatico. Il suo esasperato testualismo, a detta di alcuni, lo renderebbe più un distruttore, un contestatore della strutturazione di senso o un esteta piuttosto che un vero pensatore rivoluzionario. Prima di dire cosa sia o cosa non sia la decostruzione bisogna chiedersi se sia possibile definire qualcosa come la decostruzione ricordando che questa – e lo stesso vale anche per tutta la costellazione di idee ad essa legata – non è qualcosa che possa essere afferrata dagli “artigli del concetto” e rinchiusa nei limiti angusti di una definizione, questo perché proprio la “definizione” è la base su cui si costruisce un sistema di pensiero totalizzante e Derrida intende esattamente boicottare tale impostazione. Non c’è alcuna risposta de Michel Foucault e Derrida si confronteranno, a partire dal 1963, in una lunga diatriba sorta dall’interpretazione di un passo della prima delle Meditazioni di Cartesio.
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finitiva alla domanda “cos’è la decostruzione” e quando la si cercherà bisognerà aver coscienza che tale determinazione non sarà mai sufficientemente pertinente. Impossibilitata a sottostare a certi criteri, ovvero quelli di razionalizzazione, la decostruzione può lavorare in ogni momento improntando la sua azione con una costante “resistenza alla teoria”: tale lato d’ombra è il segno dell’impossibile chiusura definitiva del sistema che si vorrebbe formare a partire dal termine stesso decostruzione. Ci si può dunque solo accostare, attraverso un cammino lento e ricco di ostacoli, al pensiero della decostruzione soprattutto facendo esperienza dei suoi effetti. Non è teoria e non c’è teoria sulla decostruzione, essa accade e si pratica ed è necessario, se mai, ascoltarne il movimento. Anzi si può pensare la decostruzione proprio come una strategia di ascolto in grado di percepire le dissonanze all’interno di un sistema, non solo filosofico, che, attraverso il confronto con i testi della tradizione, ha l’intento di ripensare quei concetti della cultura e del linguaggio di cui ignoriamo i presupposti e i pregiudizi che ne stanno alla base. Il contesto storico da cui emerge la decostruzione è delineato da tre grandi movimenti: lo strutturalismo, la fenomenologia e l’esistenzialismo. Oltre a Ferdinand De Saussure ed Edmund Husserl, è dunque Martin Heidegger la figura che maggiormente stimola la riflessione di Derrida fintanto che la decostruzione può essere inserita nel solco del pensiero heideggeriano come una sua evoluzione. Lo stesso termine decostruzione deriva dal concetto di Destruktion proposto in Essere e Tempo ma senza l’idea di un calcolo progettuale per un ritorno alle vere origini. Il termine usato da Derrida è infatti meno aggressivo rispetto al Destruktion tedesco: la decostruzione non distrugge alcunché, non smonta delle strutture di pensiero per ottenere degli elementi semplici, azioni che la catalogherebbero invece come un procedimento negativo messo in opera da un soggetto. Non interviene dall’esterno ma “appartiene” alla cosa stessa e può essere ricondotta ad un movimento attivo-passivo che, senza origine specifica, da sempre muove, all’interno di un ordine di cose, sia questo un testo, un concetto o un sistema inteso come forma di coerenza logica. Non è possibile a rigore parlare “della decostruzione” (Regazzoni 2006, 76) poiché essa è pratica ogni volta singolare anche se non assoluta poiché ci sono strutture che ne rendono possibile la ripetizione, delle procedure analoghe, che fanno sì che ci sia possibilità di teorizzazione.
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La decostruzione accade, si presenta, se ce n’è, come una pratica che rompe con i codici tradizionali della lettura e con la logica della significazione. È una manovra testuale che non si lascia più intendere dall’orecchio filosofico: per Derrida bisogna pensare ma soprattutto scrivere altrimenti per poter mettere in questione tutte le altre istituzioni. Per questo affrontare i suoi testi significa confrontarsi con una scrittura sui generis che eccede le regole dell’argomentazione filosofica, una scrittura complice con il genere letterario la cui apparente illeggibilità o insensatezza deve essere intesa non come un’aberrazione filosofica o uno sfizio estetico ma come un gesto rivoluzionario, una manovra necessaria contro una legislazione che controlla lettura e scrittura, una pratica politica che “si arroga il diritto di contestare, e in modo non solo teorico, i protocolli costituzionali, lo statuto stesso che regola la lettura nella nostra cultura e soprattutto in ambito accademico” (Derrida 2003, 105). È il concetto di logos a dover perdere il suo ruolo portante in quanto espressione privilegiata di un modello di razionalità che concepisce l’essere come presenza e fondamento. L’imponente eredità metafisica che da qui si viene a formare è strutturata secondo una sterminata serie di opposizioni concettuali disposte in maniera gerarchica dove un concetto comanda l’altro assiologicamente, occupando così una posizione superiore e positiva: significato/ significante, intelligibile/sensibile, bene/male, maschile/femminile, etc.. sono tutte coppie in cui un concetto delinea la sua identità a partire dall’esclusione dell’altro. Il termine superiore è legittimato da attributi – presenza, originarietà e identità – solamente apparenti in quanto proprio la costituzione dell’identità avviene necessariamente a partire dalla subordinazione e dalla differenziazione da sé del secondo termine. Ciò che è inteso come originariamente puro si costituisce invece in rapporto all’altro: se l’uno, per costituirsi, si deve ripetere alterandosi nell’altro la purezza e unità del concetto è perduta e la sua presenza piena non ha mai avuto luogo. Derrida parlerà espressamente del suo progetto filosofico nel 1967 nel celebre libro Della grammatologia. A partire dalla prospettiva nietzschiana-heideggeriana della distruzione-oltrepassamento della metafisica, individua nel rapporto parola-scrittura le fondamenta di Utilizzando l’espressione se ce n’è Derrida vuole sospendere la certezza che la decostruzione si presenti: essa eccede l’essere e il senso risultando inconcepibile secondo il pensiero metafisico-ontologico.
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un edificio concettuale attraverso il quale si articola il pensiero metafisico occidentale che si sta decostruendo. La metafisica occidentale è una potente formula di etnocentrismo che segna l’epoca del pensiero caratterizzata da logocentrismo, che significa il primato assoluto e indiscusso del logos circa il vero, e fonocentrismo, che innalza la phoné a luogo privilegiato della manifestazione diretta del logos. Il privilegio conquistato dalla voce, dice Derrida, è dovuto ad una forma unica e pura dell’auto-affezione, quella fonica, che, in quanto caratteristica propria di ogni essere vivente, è stata innalzata a struttura universale dell’esperienza: in questo momento storicamente determinato del rapporto a sé del vivente si sono prodotte certe idee di uomo, di vita, di tempo, di spazio, di storia e così via: Ora l’auto-affezione è una struttura universale dell’esperienza. Ogni vivente è capace di auto-affezione. [...] L’auto-affezione è la condizione dell’esperienza in generale. Questa possibilità – altro nome della “vita” – è una struttura generale articolata dalla storia e dalla vita e che dà luogo a operazioni complesse e gerarchizzate (Derrida 1969, 228).
Derrida lo considera “un momento dell’economia della vita” in cui è avvenuta, per necessità, la subordinazione della scrittura alla sostanza fonica: Il sistema dell’“intendersi-parlare” attraverso la sostanza fonica – che si dà come significante non-esteriore, non-mondano dunque non-empirico o non-contingente – ha dovuto dominare nel corso di tutta un’epoca la storia del mondo, ha anzi prodotto l’idea di mondo, l’idea di origine del mondo a partire dalla differenza fra il mondano e il non mondano, il fuori e il dentro, l’idealità e la non-idealità, l’universale e il non-universale, il trascendentale e l’empirico, ecc. (Derrida 1969, 25).
Attraverso il circolo dell’intendersi parlare sorge l’idea di soggetto presente a sé, presente a ciò che pensa e, grazie all’illusoria trasparenza del significante fonico, sorge il sogno logocentrico di un’idea del concetto in sé puro, semplicemente presente alla coscienza e indipendente rispetto alla lingua, ovvero ad un sistema di significanti. La voce che si intende, auto-affezione che non prende in prestito dal mondo alcun significante accessorio o espressione estranea alla propria spontaneità, è elemento essenziale per la produzione dell’idealità del senso,
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è un’esperienza che produce il significato all’interno di sé e raggiunge la sua massima purezza nel pensiero dell’essere come presenza. Il senso dell’essere come presenza è dato allora nella “parola piena”: questa è la parola piena di senso, pienamente presente a sé e al suo significato, costituita dal e nel logos legato originariamente alla phoné. Questo complesso legame tra logos, phoné e presenza delinea il logocentrismo essenzialmente e costitutivamente come un fonocentrismo il quale, a sua volta, determina il senso dell’essere come presenza. È nell’esperienza dell’auto-affezione fonica che si costituisce l’idea di soggetto sovrano, soggetto presente a sé e padrone di sé. Nell’“io posso” espresso dal soggetto sovrano c’è il potere del raccoglimento sovrano e riappropriante di sé: ciò che Derrida delinea sotto il concetto generale di ipseità, intendendo con questo sia il sé stesso che il potere, la potenza, il possibile implicato in ogni “io posso”. Nell’autoposizione dello stesso, nella semplice posizione del sé come se stesso, si legge la possibilità del potere e del possesso. Così l’ipseità nomina un principio di sovranità legittima, la supremazia riconosciuta di un potere o di una forza: Il concetto di sovranità implicherà sempre la possibilità di questa posizionalità, di questa tesi, di questa tesi di sé, di questa autoposizione di chi pone o si pone come ipse, lo stesso, se stesso. E ciò varrà tanto per tutti i «primi», per il sovrano come persona principesca, il monarca o l’imperatore o il dittatore quanto per il popolo in democrazia, (per esempio quando vota o pone la propria scheda segreta in un’urna, sovranamente). Insomma ovunque ci sia una decisione degna di questo nome, nel senso classico del termine (Derrida 2009, 98).
Derrida, facendo riferimento alle analisi linguistiche di Émile Benveniste, sottolinea i connotati dello “pse” di ipse che rinviano al possesso, alla proprietà, al potere, all’autorità del signore, del sovrano e anche dell’ospite, del padrone di casa o del marito, e che designano il se stesso come padrone al maschile: tutti gli attributi del fallo (padre, marito, fratello, figlio) in cui è compresa l’idea di forza, di potere e di dominio, sono compresi nell’idea di ipseità. L’idea di soggetto sovrano, che domina i campi dell’etico e del politico, è allora connotata in termini maschili e virili: è il soggetto fallogocentrico. Ma il soggetto libero, responsabile, autonomo, che è anche il solo soggetto politico pensabile, si forma come desiderio violento, ma irrealizzabile,
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di un’interiorità pura, assoluta, ovvero indipendente dall’esteriorità e dall’alterità: è un soggetto in guerra contro ciò che minaccia il suo proprio, la sua potenza, la sua vita, in altre parole contro l’altro. Questo come abbiamo visto ne costituisce invece la possibilità più propria attraverso il circolo dell’auto-affezione fonica che costituisce il medesimo dividendolo, che produce lo stesso come apporto a sé nella differenza da sé, lo stesso come non-identico. L’altro, detto altrimenti, costituisce l’uno come ex-appropriazione del proprio in quanto è già inscritto in esso come differaenza. La struttura dell’ex-appropriazione definisce una modalità di appropriazione, padronanza e controllo sempre limitata: tale struttura, operando già all’interno della costituzione dell’ipseità di un soggetto, fa sì che questo non arrivi mai a poter essere completamente padrone di sé senza che una qualche differenza si insinui nel circolo di riappropriazione del sé, rendendolo impossibile. Nessuna purezza dunque all’origine, nessuna interiorità vergine, nessuno spazio pacifico raccolto in sé. Al cuore della presenza, dell’Uno, troviamo una minaccia che rende instabili tutti quei valori che ne dipendono, primo di tutti il valore di potere che si associa all’essere sé di un sé costituito nella presenza a sé dell’ipseità. L’idea di soggetto sovrano fallogocentrico, l’essere presso di sé, riappropriarsi di sé, del proprio ipse, tracciando una frontiera stabile tra il sé e l’altro, è in crisi poiché minacciato nella sua potenza e nella sua proprietà. La destabilizzazione strutturale del soggetto, o per meglio dire la sua decostruzione, è dovuta all’altro, all’alterità dell’altro: l’altro inassimilabile decostruisce ogni processo di riappropriazione. Con la decostruzione della metafisica della presenza e del proprio vien da sé l’idea di un soggetto non più determinabile come ipseità assoluta e pura in quanto, nell’esperienza dell’altro o invenzione del La questione dell’ex-appropriazione fa appunto luce su questa modalità che si può anche dire “originaria” del soggetto: l’altro che è già sempre in me in uno spazio criptico, ovvero dentro di me, fuori ma dentro nel mio foro interiore (forcluso), mi determina. Quindi ciò che mi determina, il mio più proprio, non è proprio, è l’altro. Accanto alle due traduzioni di différance più usate, dif-ferenza e differanza, bisogna accostare la formula “differaenza”, proposta da Regazzoni, termine che mantiene tra italiano e latino il gioco della differenza grafica visibile e della differenza fonica inudibile. L’invenzione è da considerare come l’evento di un evento, unico e singolare, in quanto destinato a finire nel momento in cui avviene: l’invenzione dell’altro è l’evento dell’altro, ovvero venuta incalcolabile e imprevedibile che comporta una certa alea, una sorpresa, che destituisce il potere programmante del soggetto e pone così l’accento sulla dimensione di passività che costituisce il soggetto stesso.
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l’altro, vengono a cadere le linee di chiusura che facevano in modo di costituire un soggetto autonomo. Così scrive Derrida: L’uno non è che l’altro differito, l’uno differendo dall’altro. L’uno è altro in differaenza, l’uno è la differaenza dell’altro. È così che ogni opposizione apparentemente rigorosa e irriducibile [...] la vediamo qualificata, una volta o l’altra, come ‘finzione teorica’ (Regazzoni 2006, 416).
Ed è forse in queste righe che viene alla luce il motivo cui sostanzialmente la decostruzione cerca di dare attenzione in ogni sua forma ovvero quello che lega l’uno all’altro e lo costituisce come rapporto in differaenza. La différance, pensata come causalità costituente, non può che osteggiare la costituzione dell’Uno e del suo potere ovunque esso operi: l’uno si decostruisce perché è contaminato dall’altro nel momento della sua costituzione ed è per questo che l’uno deve essere ripensato come spazio aperto all’altro. In questo modo la sovranità non trova più il suo luogo proprio in quanto l’altro decostruisce lo stesso e il suo potere: il soggetto sovrano non esiste più se non come fantasma di una summa potestas che sorge dall’impossibilità della pura autodeterminazione e che è, da sempre, “auto(etero)determinazione” (Regazzoni 2006, 427).
2. Un soggetto in crisi
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lla fine del XIX secolo la filosofia perde il valore normativo e il primato in quanto guida della conoscenza in seguito alla messa in discussione della struttura della soggettività e della razionalità: a subire un processo di decostruzione è il fondamento metafisico della filosofia, ossia la coincidenza del soggetto con la sua coscienza. Il pensiero di Freud, Nietzsche e Marx ha avuto un impatto devastante sulla classica rappresentazione del soggetto, in quanto ha mandato a pezzi l’illusoria stabilità del soggetto cartesiano. La constatazione che il soggetto non è più uno ma scisso apre la via all’analisi del nesso convenzionalmente istituito tra soggettività e genere maschile. Nella tradizione filosofica occidentale l’uomo, in quanto maschio dotato di ragione, si identifica con l’Essere, con l’Uno, con la soggettività, con la ragione e si autolegittima modello dell’umano; questo gli è possibile dopo aver collocato in posizione di subordinazione la donna, rappresentandola come altro da sé, come inconscio, come desiderio e
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come ciò che identifica il Divenire e la differenza intesa negativamente. Secondo Braidotti il momento in cui il soggetto classico entra in crisi è anche il momento in cui emerge la questione della femminilizzazione del pensiero in un doppio movimento che vede da una parte la problematizzazione della donna all’interno della filosofia della crisi e dall’altra le riflessioni femministe sulla soggettività: dunque la questione della donna è determinante nel discorso di decostruzione del soggetto razionale. All’interno dell’orizzonte di questa crisi si situano i poststrutturalisti. Braidotti analizza il lavoro di questi filosofi, soprattutto quello di Deleuze, ed esamina il modo in cui hanno trattato la questione della donna all’interno dei loro programmi teorici.
3. Deleuze e il divenire-donna
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eleuze capovolge la teoria platonica della rappresentazione, che oppone dialetticamente il regime dell’Uno/Stesso a quello dell’Altro/Diverso, affermando che lo Stesso e l’Altro non sono speculari e collegati dalla negazione, ma sono totalmente diversi: Identicità e Differenza sono due modi di essere che hanno una loro specificità. Attaccare le fondamenta del dualismo fallogocentrico significa lanciare un appello a ripensare radicalmente le strutture della soggettività, perché affermare la non specularità di Identità e Differenza significa far crollare la rappresentazione tradizionale del soggetto; il soggetto non è più un’entità unitaria che si identifica con la coscienza, ma una struttura a più strati, complessa, diversificata, dinamica, incarnata e in divenire, un luogo di energia in costante trasformazione. Desiderio e volontà, affettività e intellettualità vanno di pari passo nella costituzione del soggetto, anche se all’inizio di tutta la procedura c’è il desiderio. Nella critica del soggetto e nella sua ridefinizione come flusso di successivi divenire, Deleuze presenta una versione materialista della coscienza, che egli chiama coscienza minoritaria, di cui il concetto di divenire-donna è rappresentativo. Il divenire-donna è il modo attraverso cui superare la dialettica di Identità/Differenza e arrivare a ridefinire la coscienza umana. Per Deleuze la “donna” non è l’altro Rosi Braidotti ha fondato ed è stata direttrice della scuola di ricerca dei Women’s Study a Utrecht; attualmente è Distinguished University Professor presso l’Università di Utrecht e direttore fondatore del Centro per le discipline umanistiche.
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speculare dell’uomo, ma luogo di divenire molteplici a cui devono accedere sia uomini che donne per trasformare la loro soggettività fissa e molare in una soggettività minoritaria: Non vi è divenire maggioritario, maggioranza non è un divenire. Non vi è divenire se non minoritario. Le donne, qualunque sia il loro numero, sono una minoranza definibile come stato o sottoinsieme, ma non creano se non in quanto rendono possibile un divenire, di cui non hanno la proprietà, in cui anche loro devono entrare, un divenire-donna che concerne l’Umanità intera, uomini e donne comprese (Deleuze – Guattari, 2006, 170).
Quindi non è possibile l’uomo in divenire perché la mascolinità è antitetica al processo del divenire, e può essere solo sito di decostruzione e critica; al contrario la donna, in quanto divenire-molecolare, agisce per decostruire l’istituzione dominante della femminilità edipica, e così facendo si sottrae alla macchina binaria della differenza sessuale metafisicamente costituita. Divenire-donna significa abbandonare il dualismo metafisico in favore di una soggettività nomadica e ciò significa abbandonare la differenza sessuale: è necessario dissolvere le identità sessuate, basate sull’opposizione di genere, per liberare il soggetto dal dualismo maschio/femmina; figurazioni di questa soggettività al di là del genere sono la polisessualità, la donna-molecolare, i corpi-senza-organi, i rizomi e le linee di fuga. Il divenire-donna è il punto di partenza del programma di decostruzione dell’identità fallica fondata sul dualismo sessuale, ed è l’incipit da cui prendono il via tutti gli altri divenire. I vari divenire operano per decostruire affermativamente la posizione del soggetto dominante; sono processi senza inizio né fine e hanno come obiettivo la depersonalizzazione della soggettività attraverso cambiamenti e trasformazioni. Pur riconoscendo l’importanza che la filosofia di Deleuze ha avuto per il femminismo, soprattutto per aver affermato la positività della differenza intesa come processo di molteplici divenire e per aver reinventato l’immagine del pensare, Braidotti denuncia l’appartenenza del filosofo al sistema fallogocentrico per il fatto di liquidare la questione della differenza sessuale amalgamando uomini e donne in una soggettività post-genere. La necessità di andare oltre la differenza sessuale per raggiungere una polisessualità, che in definitiva permetterebbe al soggetto di diventare neutro in virtù di un eccesso di sessualità, è per Braidotti una mossa che obbliga nuovamente le donne a conformarsi
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a un modello, il divenire-donna appunto come nuova forma di rappresentazione del soggetto maschile, negando loro il diritto ad affermare la propria specificità sessuale. Il femminismo contemporaneo critica sì ogni dualismo ma si impegna ad affermare la positività della differenza sessuale e a definire la donna come altro dell’Altro. Deleuze ignora tutto questo nel momento in cui, pur riconoscendo la dissimmetria dei sessi, non riesce a farla valere nel suo pensiero, perché questo significherebbe turbare la teoria dei divenire molteplici. Egli sostiene che le femministe dovrebbero rivendicare la polisessualità dell’essere umano e afferma che i movimenti di liberazione delle donne sarebbero più rivoluzionari se contribuissero a dar vita alla donna non-edipica; di conseguenza rivendicare una specificità sessuale femminile non è sovversivo. Braidotti invece sostiene che le donne hanno il diritto di lottare per conquistare la posizione di soggetto e per esprimere la propria specificità sessuale, il proprio desiderio, perché non è possibile rinunciare a qualcosa che non si è mai avuto. Braidotti teme che la femminilizzazione del pensiero, e quindi la problematizzazione della donna, sia soltanto il pretesto attraverso cui la filosofia vuole continuare a vivere in quanto discorso teorico, pur rinnovando i propri obiettivi e il proprio funzionamento, lasciando da parte tutto il lavoro che le femministe hanno svolto per riappropriarsi della propria specificità. La glorificazione di una femminilità ridotta a metafore del vuoto, della mancanza, del non-essere, la valorizzazione della donna come corpo testuale, piuttosto che corpo sessuale al femminile, nasconde una delle più formidabili forme di discriminazione esercitate contro le donne negli anni recenti. Mancano a questi ‘divenire’ le donne, non solo quale movimento rivoluzionario politico, ma anche in quanto esseri umani in carne ed ossa, impegnate a titolo personale in un processo collettivo di sovversione delle immagini e dello statuto delle donne (Braidotti 1994, 93).
In linea con la teoria della differenza sessuale di Irigaray, Braidotti sostiene che l’unico modo per liberarsi dal dualismo sia affermare la positività della differenza sessuale, aprendo così la via a un pensiero non-fallogocentrico e ad uno spazio discorsivo diverso per il femminile; opporsi al programma di desessualizzazione auspicato da molti filosofi postmoderni significa dare spazio alle voci delle donne affinché queste possano esprimere il loro desiderio a divenire soggetti. Non si
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tratta di detronizzare l’Uno per dare potere all’Altro, perché questo rovesciamento dei termini lascerebbe intatta la logica di dominio implicita nel dualismo, ma di smantellare la struttura di questo sistema per riuscire a pensare al di fuori della dicotomia Uno/Altro: è necessario criticare il falso universalismo del soggetto maschile e decostruire la struttura fallogocentrica del discorso. Questo è l’obiettivo che Irigaray si pone in Speculum nel momento in cui adotta la strategia della mimesis come strumento per uscire dalle definizioni falliche della Donna e per trovare una rappresentazione più adeguata all’altro dell’Altro, cioè a quel femminile che non ha mai avuto una rappresentazione simbolica. Attraverso la strategia della mimesis, che consiste nell’adottare le premesse concettuali della filosofia e della psicoanalisi per sovvertire le loro fondamenta, Irigaray mima l’atteggiamento universalistico del soggetto e in questo modo accetta le definizioni tradizionali della donna, l’eterno Altro dello Stesso, ma solo per distruggerli. Braidotti è convinta che il modo più appropriato per uscire dalla logica del dualismo che ha incatenato le identità sessuate sia attraversarle rivisitandole; è necessario prima riappropriarsi delle tradizionali rappresentazioni delle donne per poi decostruirle e successivamente creare nuove immagini della soggettività femminile, una donna postDonna, ossia riappropriarsi del significante Donna prima di abbandonarlo, e agire sia sul piano dell’identità sia su quello della soggettività per avviare il processo di cambiamento che conduce al divenire soggetto nomade. Il nuovo si crea rivisitando totalmente il vecchio.
4. Sul soggetto nomade
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el momento storico attuale in cui profonde trasformazioni del sistema produttivo stanno modificando rapidamente i sistemi culturali, le strutture sociali e simboliche tradizionali, Braidotti ritiene che la sfida sia trovare il modo in cui rappresentare le metamorfosi del nostro presente; per fare ciò è necessaria un’analisi cartografica della realtà contemporanea dal punto di vista culturale, politico, epistemologico ed etico per poter creare figurazioni alternative per il tipo di soggetti ibridi che siamo diventati. Braidotti sostiene che la rappresentazione teorica più rispondente alla soggettività contemporanea sia il soggetto nomade; questo concetto è il risultato della sua personale elaborazione della nomadologia
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di Deleuze insieme alla teoria della differenza sessuale di Irigaray. Sia Deleuze che Irigaray si sono impegnati per creare una nuova rappresentazione del soggetto, in quanto entità non-unitaria, affettiva, dinamica e positiva, e per creare un nuovo modo di pensare libero dalla linearità del pensiero binario. Di estrema importanza per l’elaborazione di una figurazione adeguata del soggetto nomade è la rivalutazione in chiave positiva della differenza operata dalla teoria della differenza sessuale. La creazione di un nuovo soggetto femminile femminista, che è il cuore del progetto femminista in quanto pensiero nomade, parte dal rifiuto della concezione tradizionale del soggetto e dall’affermazione dell’importanza del corpo nello strutturarsi della soggettività. La rivalutazione delle radici corporee della soggettività implica che questa non coincide con la coscienza, ma deve essere pensata come entità multipla e complessa, come luogo in cui si connettono desiderio e volontà; porre l’accento sulla struttura corporea del soggetto significa evidenziare l’importanza della sessualità e della differenza sessuale per la comprensione della soggettività contemporanea. La formazione del soggetto è, secondo quanto afferma Braidotti, un processo di continue negoziazioni tra la sfera dell’affettività e del desiderio con quella delle scelte volontarie all’interno di un sistema istituzionale di codici e modelli culturali che attraggono il sé; è un processo di contrattazioni tra il polo positivo del potere, che fornisce capacità di azione, e quello negativo, che proibisce e limita. L’unità di questo soggetto è determinata dall’equilibrio, costantemente ricreato, tra gli innumerevoli aspetti e variabili che costituiscono il sé. Fondamento della posizione teorica di Braidotti è il nomadismo filosofico: lo stato nomade è una modalità di coscienza critica che si oppone alle tradizionali forme del pensiero e del comportamento e che ha una passione politica per il cambiamento radicale dalle convenzioni date. La coscienza nomade è una forma di resistenza all’omologazione alle modalità dominanti di rappresentazione dell’io che vuole ripensare l’unità del soggetto senza ricorrere alle definizioni che di questo hanno dato l’umanesimo e il dualismo, ma unendo insieme caratteristiche e aspetti considerati tradizionalmente opposti; si tratta di conferire un senso di identità che non si basa sulla stabilità e la fissità, ma sulla contingenza determinata dall’intersecarsi di variabili come classe sociale, razza, appartenenza etnica, età, genere, che sono i principali assi di differenziazione che costituiscono la soggettività.
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Il soggetto nomade è un’invenzione politica che Braidotti oppone al soggetto umanistico e alla natura fissa e convenzionale del pensiero: il nomade è un soggetto che ha abbandonato ogni desiderio di stabilità optando per un’identità fatta di mutamenti; non mira a identificazioni, essendo sempre in movimento: il nomade è un’entità post-metafisica, intensa, multipla che funziona all’interno di una rete di interconnessioni. È tutto tranne che un’immagine universale. Non la si può ridurre a una forma lineare, teleologica di soggettività perché è il luogo di connessioni multiple. Lei/lui è incarnata/o e quindi culturale. In quanto artefatto, è un composto tecnologico di umano e post-umano; è complessa/o, dotata/o di capacità multiple all’interconnessione secondo una modalità impersonale (Braidotti 2002, 57).
E ancora: il soggetto nomade è flusso di trasformazioni senza destinazione finale. È una forma di intransitivo divenire; è multiplo e relazionale, dinamico. Non si può essere nomadi, si può solo tentare di diventare nomadi (Braidotti 2003, 106-107).
Dal punto di vista teorico e politico l’affermazione di una soggettività nomade, in quanto nuovo soggetto desiderante, apre la strada alla possibilità di pensare a cambiamenti sociali per un futuro sostenibile che contrastino i modelli dominanti della postmodernità e che incoraggino la complessità e le differenze non a scopo di lucro, ma evidenziandone il potenziale creativo; in più permette di ripensare una posizione soggettiva che tenga conto dei legami collettivi fondati su nuovi valori etici come la responsabilità e la sostenibilità. Rifiutando la visione unitaria del soggetto in nome di una soggettività nomade si apre la possibilità di fondare un’etica completamente nuova, un’etica dell’immanenza e dell’incarnazione che si propone di ripensare a nuove forme di responsabilità situata tra il sé e i suoi altri, e di elaborare nuovi criteri etici che riflettano l’alto grado di complessità del soggetto e dei suoi legami con i soggetti non-umani e con l’ambiente.
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Stefania Consigliere Oltremargine: filosofie d’altrove
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i margini le cose si sentono: il venir meno della presa; la nostalgia per ciò che resta placido entro i confini; la paura per l’ignoto che ci si apre davanti. Non basta la testa, organo d’elezione del nostro conoscere intellettuale, a prevenire lo spaesamento. Sopravvivere ai margini è sopravvivere alle sclerosi e schizofrenie che i nostri anni ci hanno impresso addosso: alle rigidità del pensiero, all’orizzonte unico, alle abitudini che si sono fatte coazioni. Il compito che mi propongo è ambizioso. Vorrei far sentire a chi legge la profondità della domanda che dall’antropologia (o, per dir meglio, dagli altri mondi umani che abitano la terra) arriva oggi alla filosofia. Proporre dunque – seppure sul registro parziale dell’intellettualità e della scrittura – un’esperienza di spaesamento, nella convinzione che, nel disastro del nostro mondo, l’allenamento al molteplice sia al contempo resistenza all’insopportabile e omaggio alle ragioni degli altri.
1. Storia di una presunzione
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’è stato un tempo (che, grazie alla contemporaneità del non contemporaneo, ancora perdura) in cui gli occidentali hanno creduto che il loro mondo, la loro cultura, la loro conoscenza e il loro modo di vivere fossero intrinsecamente superiori a qualsiasi altro mondo e modo. Possiamo racchiuderlo, per comodità simbolica, fra il 1492 e il 1914: in mezzo ci sono la rivoluzione scientifica, la rivoluzione francese, la rivoluzione industriale, il colonialismo, la doppia crisi – etica e conoscitiva – della modernità e la possibilità di una rivoluzione profonda nel nostro impianto antropologico. Il nesso storico che, nel Novecento, stringe guerre mondiali, totalitarismi e campi di sterminio sancisce al contempo il crollo dell’antico mondo e il chiudersi dell’orizzonte rivoluzionario. La nostra presun-
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zione di superiorità comincia a incrinarsi: le scienze, e con esse una miriade di sperimentazioni politiche, lavorano la crisi in profondità, aprendosi al molteplice che da ogni lato fa capolino. La loro lezione è smarrita: l’eredità del Novecento – tanto quella luminosa delle piste che attraversano la crisi, quanto quella cupa dell’orrore totalitario – non è mai stata accolta, continuiamo a ragionare e a vivere come se la nostra presunzione potesse ancora aver corso. Il dispositivo mentale che la giustifica dev’esserci ben chiaro: solo così è possibile cominciare a lavorarlo ai fianchi. Uno dei lasciti fondamentali della Grecia è il monismo ontologico, con l’opposizione che stabilirà il carattere dell’intero pensiero occidentale: quella fra essere e non essere, e quindi fra verità e opinione (e poi fra realtà e apparenza, fra universale e relativo, fra uno e molti, fra corpo e anima, fra natura e cultura). Da Parmenide in poi, ci sono per noi un solo essere e un solo discorso vero su di esso. Verità e mondo, entrambi al singolare, sono coestensivi. L’originaria proposta parmenidea fu poi variamente sfumata, ma l’unus mundus è rimasto sfondo impensato del pensiero e origine della questione centrale di tutta la filosofia: come adeguare il logos all’essere? Come regolare le faccende umane in base all’unico mondo e all’unica verità? La polemica che oppone Platone e i sofisti non si gioca affatto sull’unicità dell’essere, che entrambi presuppongono, ma sulla rilevanza della conoscenza dell’essere per l’etica umana e il nomos della città. I secoli ne cambiano l’inflessione, ma il monismo permane. Da Cartesio in poi prende la sua forma moderna e si declina come opposizione di natura e cultura: la prima, che corrisponde all’unus mundus e alla sostanza della metafisica, è l’oggetto dell’indagine scientifica; la seconda, che corrisponde alla variabilità dei costumi e delle leggi, è l’ambito delle passioni. Questo lo schema soggiacente: tutti gli enti condividono una medesima natura, da apprendere come dato di fatto; identica e universale è la materia, identiche e universali sono le leggi di natura che le scienze indagano. La natura è per noi il mondo dei fatti: oggettiva, universale, onni-inclusiva, uguale per tutti e sempre identica a se stessa (la legge di gravitazione vale qui come su Saturno, ora come all’epoca dei dinosauri, per gli umani come per i non-umani). In questo regno atemporale si muovono le scienze hard: matematica, fisica, logica, chimica, astronomia, scienze della terra e, in linea di principio, anche biologia e zoologia.
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Accomunati all’universo intero per via della materia, gli umani ne sono tuttavia separati per via della cultura, del loro essere soggetti, dotati quindi, nel loro insieme, di una molteplicità di modi di pensare, di sistemi familiari, di modelli di distribuzione del potere, di valori, di desideri, di punti di osservazione, di opinioni e via dicendo. La cultura è il mondo dei valori che – essendo soggetti ai tempi, all’arbitrio, agli interessi e alle passioni – prendono forme diversissime da luogo a luogo e da tempo a tempo. In questa babele si muove l’etnologia per quanto attiene agli “altri”, e le altre scienze umane per quel che riguarda “noi”. Una natura, tante culture; una materia, tanti punti di vista. La partizione andrebbe anche bene, in quanto visione culturalmente specifica, se, applicandosi coerentemente, affermasse che mentre la conoscenza del mondo naturale è (per noi) affare delle scienze, la compresenza di culture, valori e posizioni differenti è invece oggetto di diplomazia: di politica, di discussioni, di lotte, di negoziazioni ecc. Era questa, appunto, la posizione dei sofisti. Ma non è la nostra: la declinazione moderna e scientifica del monismo ontologico ci ha proiettati in uno strano, indefettibile platonismo. Questa la sua declinazione: anche la cultura occidentale è, come tutte le altre, una cultura (fatta di valori, di scelte, di desideri ecc.); essa però è l’unica che ha davvero compreso che cos’è la natura; l’unica, cioè, ad aver trovato la via regia – l’indagine scientifica – in grado di risalire al di qua di ogni cultura e approssimare ciò che a tutte soggiace: il regno oggettivo dell’invarianza. Da qui la sua, e nostra, superiorità rispetto a ogni altra forma culturale e ai suoi rappresentanti. Dalla fantasmagoria di cosmovisioni etniche la nostra resta fuori: l’unica fra tutte ad aver capito come davvero funzionano le cose; l’unica cultura naturale. L’incrocio psicologico fra l’oggettività dei dati scientifici e le opinioni che su di essi s’innestano agisce come una potentissima fondazione naturalizzante dei nostri valori, in assoluto i più desiderabili e i più giusti perché i soli fondati su leggi universali anziché su mutevoli e relative scelte locali. Tutte le altre culture, invece, sarebbero intrappolate in credenze che avrebbero loro impedito la vera comprensione della grande separazione fra il mondo dei fatti e il mondo dei valori, fra la realtà e le speranze. E se, sulla carta, tutte le opinioni hanno una medesima dignità perché ciascuna si rifà a un diverso mondo valoriale, quelle fondate sull’unica conoscenza oggettiva avranno però non già un valore locale, ma il valore assoluto e uni-
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versale che erediteranno dall’assolutezza della conoscenza scientifica. All’interno delle nostre mura la scienza detiene la verità, e noi con lei al di fuori delle mura. Tutto il resto – ciò che, secondo i sofisti, era più rilevante per la vita umana – ha il rango di opinione, interessante e vacuo spettro di chi non ha i mezzi per capire. Si pensi alle convinzioni implicite che l’Occidente ha sulle culture altrui. Nel nostro intendimento, sopra una stessa natura e sopra le sue leggi universali le diverse culture avrebbero costruito castelli di credenze, miti, favole e spiegazioni. Alcuni di questi edifici sarebbero consolatori, altri superstiziosi; alcuni approssimerebbero a tentoni la spiegazione scientifica, altri sarebbero talmente esotici e fantasiosi da meritarsi una benevola protezione, così come gli adulti proteggono la credenza dei bambini nella Befana. In ogni caso, null’altro sarebbero se non sforzi meritevoli – compiuti più o meno nella giusta direzione, ma in definitiva sempre deficitari – per arrivare a quell’unica conoscenza vera che solo noi deteniamo pienamente. Non per niente, gli altri hanno delle etnomedicine, mentre noi abbiamo la medicina; gli altri hanno delle etnobotaniche e delle etnopsicologie, noi abbiamo la botanica e la psicologia. Il che equivale a dire: gli altri hanno fatto degli sforzi, più o meno riusciti, di comprendere il mondo tanto bene quanto lo comprendiamo noi, restando però presi nella confusione fra i valori (segnalati dal prefisso etno-) e i fatti (la desinenza “scientifica”); noi, invece, abbiamo compreso i fatti prescindendo completamente dai valori. Dopo questa preliminare svalutazione di tutti gli altri, arriva l’autovalorizzazione: anche noi abbiamo un tempo creduto a quelle favole; anche noi siamo stati, nel passato, irrazionali e superstiziosi; e perfino noi conserviamo uno spazio apposito – detto “politica” – dove credenze e opinioni possono giostrare. E proprio perché sappiamo bene dove passa la divisione tra fatti e opinioni, ci sforziamo di essere tolleranti con le diverse credenze, con le appartenenze culturali e con il gioco delle identità. In fondo, niente di tutto questo mette in pericolo la verità, che sta nelle leggi della natura che la scienza a mano a mano ci svela, e che abbiamo il compito storico di portare agli altri, illuminandoli e traendoli infine dalle tenebre delle loro credenze. Il disvelarsi dell’oggettività del mondo prende il nome secolare di progresso; e il progresso universale è il compito, nonché la giustificazione, del colonizzatore. Qui siamo, dunque. Ma non solo qui: l’Occidente è un campo vasto nel quale convivono istanze radicalmente differenti, tanto diverse fra loro quanto due culture astrattamente intese. Fra queste bisogna
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prender parte: non solo sapere che siamo occidentali, e che quindi portiamo in noi un certo numero di tic e di scotomi; ma anche scegliere che tipo di occidentali (e che tipo di umani) vogliamo essere. L’antropologia contemporanea parte da un presupposto sfacciatamente valoriale e afferma che tutte le culture presenti sul pianeta hanno uguale valore e pari dignità. Decenni di politically correct ci hanno abituati a un assenso di massima alle proposizioni che ci sembrano genericamente buone – anche a questa, quindi, ma solo perché le sue conseguenze non ci sono chiare. Dal punto di vista della filosofia, la prima conseguenza che la pari dignità di ogni cultura comporta è la pari dignità di ogni ontologia e di ogni sistema di conoscenza. È ciò che la parte più vivace dell’antropologia sta provando a pensare, incontrando sulla propria strada le più radicali elaborazioni dell’epistemologia novecentesca.
2. Ontologie locali
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hilippe Descola è allievo di Lévi-Strauss e quindi erede del trascendentalismo kantiano che si esprimeva nella corrente strutturalista. Nella sua opera maggiore, Par délà nature et culture, sviluppa diverse operazioni teoriche importanti, fra cui una critica della ragione naturalista che arriva a mettere la nostra ontologia sullo stesso piano di tutte le altre. A partire da lì, il libro traccia una mappa generale dei modi ontologici basata sopra una sintassi di base delle ontologie possibili. Si tratta di un’impresa titanica e, come avrebbe detto il suo maestro Lévi-Strauss, folle. Dalla sterminata distesa delle monografie etnologiche Descola distilla quattro schemi ontologici fondamentali, ai quali riconduce, in ultima analisi, tutte le visioni del mondo descritte dall’etnologia. L’ipotesi di base è che, al di sotto del numero strabiliante di pratiche, costumi, abitudini, norme implicite ed esplicite riportate in letteratura (schemi specializzati), stia un numero più ristretto di schemi integratori. I primi – che possono essere tanto consapevoli e verbalizzabili quanto inconsapevoli e difficilmente esplicitabili – rientrano nella categoria dell’habitus e regolano i comportamenti quotidiani specifici (pattern di sonno e di alimentazione, distanze sociali fra individui, tecniche del corpo ecc.). I secondi, sempre inconsapevoli, soggiacciono ai primi, sono l’ossatura dell’ontologia locale e fondano la percezione, in ciascuno, di avere un «mondo» in comune con gli altri.
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Gli schemi integratori, sostiene Descola, sono in numero limitato: identificazione, relazione, temporalità, spazializzazione, figurazione, mediazione, categorizzazione. A differenza di quanto avveniva in Kant essi non sono però immodificabili e universali, bensì passibili di specificazioni e incroci differenti, produttivi di “mondi” sostanzialmente diversi. Il resto dell’opera è dedicato all’analisi dell’articolazione di due soli schemi: quello di identificazione e quello di relazione; ed è in base alle declinazioni del solo schema di identificazione che Descola arriva a delineare quattro grandi ontologie, la cui descrizione costituisce la parte centrale, e più corposa, del suo testo. Vediamo in dettaglio. Secondo Descola, lo schema dell’identificazione è la capacità di cogliere e di ripartire alcune fra le continuità e le discontinuità che ci sono offerte dall’osservazione e dalla pratica del nostro ambiente; (essa) permette di comprendere com’è possibile specificare degli oggetti indeterminati attribuendo loro, o negando loro, un’interiorità e una fisicalità analoghe a quelle che attribuiamo a noi stessi (Descola 2005, 168).
Con interiorità Descola designa un insieme di proprietà che riguardano il campo di ciò che, in Occidente, chiamiamo “spirito”, “anima”, “psiche”, “coscienza”, “flusso vitale”; è ciò che ha a che fare con l’intenzionalità, gli affetti, la soggettività, la significazione, i fenomeni intrapsichici, il sogno ecc. La fisicalità denota invece il campo della forma esteriore, l’insieme delle espressioni visibili e tangibili, dei processi fisiologici, percettivi e senso-motori, il temperamento, l’habitus, la maniera di agire, i regimi alimentari, lavorativi o riproduttivi ecc. La fisicalità non va dunque appiattita sulla mera materialità del corpo organico, ma comprende l’insieme delle caratteristiche morfologiche, fisiologiche e senso-motorie intrinseche all’entità considerata. La quadripartizione ontologica deriva dall’attribuzione di uguale, o diversa, interiorità ed esteriorità agli enti del mondo. E se, come abbiamo visto sopra, la nostra ontologia naturalista postula che l’esteriorità sia comune a tutti gli enti e che l’interiorità sia invece diversa e presente solo negli umani, essa è, per l’appunto, un’opzione fra quattro possibili: l’ontologia animista presuppone uguale interiorità e differente esteriorità; l’ontologia totemica uguale interiorità e uguale esteriorità; e l’ontologia analogica differente interiorità e differente esteriorità.
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In queste schematizzazioni si può avvertire un certo grado di arbitrarietà. Importa poco: più rilevante è ciò che Descola riesce a imbastire a partire da qui. Il dispositivo concettuale che congegna rende possibile a noi occidentali comprendere la distanza che ci separa da altre strutturazioni ontologiche. Le sue partizioni funzionano dunque come scala di Wittgenstein o zattera del Dao: strumento euristico funzionale alla nostra comprensione che infine, quando si hanno i piedi saldi altrove, si butta. Il modo in cui le diverse ontologie vengono ricavate conta meno del presupposto etico-gnoseologico che sta alla base della loro classificazione: la dismissione della pretesa di universalità e superiorità dell’ontologia occidentale e l’invito a calarsi negli altri modi di pensiero che questo schema rende – ai nostri occhi, almeno – altrettanto coerenti quanto il nostro. Ognuna di queste quattro grandi matrici ontologiche si articola in dispositivi specifici; struttura i soggetti e i collettivi secondo linee caratteristiche; dispone di una forza specifica; e va incontro a specifici rischi. Il naturalismo lo abbiamo già esplorato sopra: è la visione del mondo occidentale, che articola interiorità discontinue (enti dotati di anima vs. enti non dotati di anima) sopra esteriorità continue (tutti gli enti sono fatti di una medesima materia). I soggetti prodotti dal naturalismo differiscono gli uni dagli altri in base ai loro costumi, alle istituzioni, alle lingue, ma anche per via della loro educazione, dell’ambiente di origine, dei talenti. Il relativismo culturale è accettabile solo sullo sfondo dell’universalismo naturale – e nondimeno, la compresenza delle culture induce un’inquietudine permanente che la scienza non riesce a placare. Data la specificità e la preminenza dell’interiorità umana, il naturalismo è fortemente antropocentrico: la dignità morale appartiene solo alla nostra specie, mentre i non-umani sono definiti e misurati in base alla loro carenza di umanità. Questo fa sì che il rapporto con gli animali, e più in generale con il mondo non umano, sia non partecipativo e improntato a una sostanziale diffidenza. Il corpo stesso è fonte di un’interminabile inquietudine, così come l’aporetico rapporto fra corpo e anima. Il rovescio logico del naturalismo è l’animismo. Al contrario di quanto avviene da noi, umani e non umani non si differenziano per via dell’anima (che i primi avrebbero e i secondi no), ma per via dei corpi differenti di cui dispongono. Animali, piante e altri enti del mondo sono persone e conducono fra loro una vita sociale del tutto analoga alla nostra: vivono in seno a collettivi strutturato come i no-
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stri (con dei capi, dei riti, dei depositari del sapere, delle abitazioni, delle tecniche e degli artefatti) e si comportano fra di loro così come fanno gli umani (coalizzandosi, litigando, sposandosi secondo certe regole, mangiando secondo una certa etichetta ecc.). Ciò che li differenzia da noi è che, disponendo di corpi che hanno, rispetto al nostro, altra forma, altre potenze e altri limiti, ciò li pone in posizioni relative differenti e quindi in prospettive differenti. In condizioni normali, gli umani vedono gli altri umani come umani, gli animali-preda come prede, gli animali-predatori come predatori e gli spiriti (ammesso che siano visibili) come spiriti. Ma lo stesso avviene a partire da ciascun punto di vista, dacché ognuno percepisce se stesso come umano: i pecari vedono gli altri pecari come umani e vedono gli umani come animali-predatori; i giaguari vedono gli altri giaguari come umani, e vedono gli umani come animali-preda; e così via, per ogni specie e per ogni punto di vista. In questa visione è il corpo – e non l’anima, come in Occidente – ad avere il ruolo di differenziatore ontologico. L’animismo è dunque antropogenico: così come il naturalismo, anch’esso fa della società umana il modello generale dei collettivi; ma, al contrario del naturalismo, è di infinita liberalità nell’attribuzione della socievolezza. Il soggetto animista è reperibile ovunque: ce n’è uno nell’umano, uno nell’uccello che ora vola via, uno nell’albero ai margini della foresta, uno nel vento del nord, uno nel ghepardo che attacca. In un mondo così strutturato, bisogna essere certi che il soggetto nonumano sia davvero tale; che non sia, cioè, sotto le apparenze differenti, un soggetto umano – e quest’impresa non è sempre semplice, né priva di rischi. I corpi differenti sono ciò che, nella routine quotidiana, permette di alimentarsi di animali e vegetali senza rischiare l’antropofagia; ma l’identità dell’interiorità è affermata con tanta forza che può diventare difficile sospenderla al momento del pasto. Bisogna allora scovare mezzi, e continuamente impiegarli, per ripararsi dalle conseguenze di aver mangiato delle anime: desoggettivazione del cibo attraverso l’eliminazione delle parti più interne; compensazione tramite offerte; separazione dell’anima, che persiste, dalla carne deperibile che viene consumata. Il totemismo postula identità di interiorità e identità di fisicalità; l’ontologia che ne risulta è, per noi occidentali, la più difficile da comprendere. Il pensiero totemico è organizzato attorno a collettivi ibridi (che ricomprendono elementi umani ed elementi non umani) di individui che condividono fra di loro entrambi gli aspetti: i membri di
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ciascun gruppo totemico hanno in comune tanto l’interiorità quanto la fisicalità e sono quindi fra di loro in rapporto di identificazione stretta. Nel totemismo australiano, gli esseri originari del Sogno sono umani per comportamento, linguaggio, intenzioni e norme, ma hanno l’aspetto e il nome di piante, animali o oggetti, e sono all’origine di famiglie di spiriti che s’incorporano in tutti gli enti (inclusi gli umani) che hanno questa specie o questo oggetto come totem. All’interno del gruppo totemico c’è dunque una sorta di continuità interspecifica di fisicalità e di interiorità, in cui ciascun individuo attualizza uno degli stati successivi attraverso cui è passata la genesi del collettivo a cui appartiene. A differenzia di naturalismo e animismo, il totemismo non fa della società umana il paradigma del collettivo, ma opera fusioni inedite, mescolando all’interno degli insiemi umani e non-umani che s’intersecano e si identificano gli uni con gli altri producendo legami interspecifici, geografici, generazionali. Il totemismo è cosmogenico: gli enti sono ripartiti in base a gruppi di attributi che pre-esistono all’instaurarsi dell’universo e che non possono essere separati nei collettivi che ne derivano; tutto è sempre istanza specifica di un originale cosmologico. Nelle società totemiche, soggetti in senso proprio sono solo i totem, la classe prototipica che raggruppa umani e non umani che hanno una stessa origine, e che si serve del dinamismo umano per riprodurre, lungo le generazioni, il proprio ordine. In un mondo ordinato in questa maniera il pericolo viene dall’ambiguità e dalla debolezza della soggettivazione degli individui, sempre a rischio di tornare a fondersi nella classe ibrida a cui appartengono: il rischio è dunque quello dalla fusione senza ambiguità e senza distanza possibile in seno a un collettivo. La soluzione consiste nell’individualizzare ciascun individuo come attualizzazione di uno degli stati successivi attraverso i quali è passata la genesi dell’identità collettiva (totemica) di cui quell’individuo fa parte, segmento dell’impresa iniziale che ha fondato l’insieme: le cerimonie di iniziazione e gli oggetti rituali che esse impiegano servono appunto a ciò. L’ultimo grande modo ontologico, l’analogismo, «fraziona l’insieme degli esistenti in una molteplicità di essenze, di forme e di sostanze separate fra loro da piccoli scarti, [ricomponibile] in una densa rete di analogie» (ibid., 280): esso postula che ciascun ente abbia, rispetto agli altri, differente interiorità e differente esteriorità.
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In un’ontologia analogica l’insieme di ciò che esiste è frammentato in una pluralità di istanze e di determinazioni, la cui associazione, sempre variabile, può prendere ogni sorta di piega: se niente è identico a nient’altro, è altresì vero che tutto è dentro tutto. Gli assemblaggi che questa visione del mondo autorizza si presentano come tessere di collettivi molto più vasti, che finiscono con l’includere tutto l’universo. Cosmo, uomo e società sono in relazioni di equivalenza analogica, funzionano secondo gli stessi principi di associazione e di equilibriodisequilibrio. L’analogismo assume quindi una forma cosmocentrica divisa in segmenti ordinati in modo gerarchico e regolati da simmetrie spaziali, temporali, strutturali dappertutto analoghe e che governano anche l’architettura sociale. Per esotico che possa sembrare, si tratta in realtà di uno schema ontologico assai diffuso e non estraneo alla storia dell’Occidente. L’esempio più classico di ontologia analogica è il pensiero cinese, ma le teorizzazioni rinascimentali sul rispecchiamento e sulla corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo sono anch’esse basate su un impianto analogico. Analogiche sono poi la teoria dei quattro (o cinque, a seconda dei luoghi) elementi; l’astrologia; le teorie mediche sul caldo e il freddo; e via dicendo. In questi sistemi, il gioco di opposizioni e di intersezioni genera un insieme instabile e congetturale di configurazioni che, nel loro scorrere, formano un flusso permanente di singolarità. L’universo analogico fa proliferare gli enti e le relazioni, rifrange e rispecchia la soggettività in punti imprevisti. L’individualità si dissimula dietro le apparenze e i raggruppamenti sono sempre, almeno in qualche misura, inconsistenti. In questo mondo di infinite singolarità, il problema epistemologico che si pone è contrario rispetto a quello che caratterizza il totemismo: non si tratta, infatti, di singolarizzare enti che si presentano come amalgamati, ma di amalgamare in modo solido entità singolarizzate. Nell’analogismo il pericolo viene infatti dall’esplosione delle singolarità, dallo sbriciolarsi del mondo in un’infinità di enti irrelati tenuti insieme solo dall’arbitrio degli interpreti. In un mondo siffatto, sempre a rischio di proliferazione, i dispositivi di ordinamento (ad es. yin/yang, caldo/freddo, micro/macro) hanno bisogno di essere legittimati. Quale punto di vista è abbastanza autorevole da riuscire a tenere insieme enti che, altrimenti, appaiono come meramente eterocliti? La questione del potere è fin da subito centrale: è la funzione politica ad assicurare raggruppamento, gerarchia e, soprattutto, un “centro” in grado di mantenere ciascun individuo al suo posto e nelle giuste relazioni con ciascun altro.
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3. Dal prospettivismo al multinaturalismo
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ello schema quadripartito di Descola gli Achuar dell’Amazzonia sono animisti: tutti gli enti condividono una medesima interiorità e si differenziano per via delle diverse esteriorità; tutti osservano il mondo a partire da una prospettiva specifica che li definisce inserendoli in un certo insieme di relazioni. Eduardo Viveiros de Castro chiama prospettivismo la loro ontologia; ma anziché fare del prospettivismo un corollario etno-epistemologico dell’animismo, Viveiros de Castro lo usa come punto di partenza per un’operazione ancor più radicale di quella di Descola: si tratta di riflettere sul mondo a partire da una metafisica radicalmente altra. Dopo inizi collusi col colonialismo, e dopo la decennale riflessione sulla decolonizzazione e la molteplicità degli umani, l’antropologia può oggi diventare pratica di decolonizzazione permanente del pensiero. Questo significa uscire infine anche dalla posizione angelica (o a vista d’aquila) che ancora caratterizza perfino l’impresa di Descola, e interpretare l’antropologia come una ontografia comparata o, se si preferisce, come una filosofia con dentro la gente. Come strategia di decolonizzazione, Viveiros de Castro propone appunto di assumere i sistemi concettuali indigeni come piste della filosofia, come esperienze di pensiero: non nel senso di “immaginare un’esperienza”, ma in quello di “sperimentare un pensiero”. L’esperienza di pensiero comincia con l’affermare l’equivalenza di diritto fra il discorso dell’antropologo e quello dell’indigeno; e invita poi a esplorare il panorama che un sistema concettuale radicalmente diverso dal proprio, ma accettato come legittimo, apre a chi vi sappia entrare. Gli echi deleuziani sono fortissimi, e puntualmente riconosciuti. In ambito animista, il concetto cardine è quello di prospettiva. Una prospettiva non è una rappresentazione (non è un’immagine del mondo), né un mero punto di vista (inteso come posizione “spaziale” dalla quale un soggetto guarda al mondo): la prospettiva coincide con l’assunzione dello statuto di soggetto. Per chi guarda il mondo dalla prospettiva umana, ovvero disponendo di un corpo umano, un giaguaro è un predatore e un pecari è una preda; dalla prospettiva del giaguaro, invece, umani e pecari sono entrambi prede, mentre dal punto di vista dei pecari giaguari e umani sono entrambi predatori. Ciascuna specie percepisce le altre a seconda delle relazioni che si stabiliscono fra i differenti corpi di cui dispongono. Nel suo essere leggermente stra-
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niante, questo non è che l’inizio. Una volta appurato, con Descola, che esistono popolazioni che la pensano così, si tratta ora di provare a vedere che cosa succede una volta che si entri davvero all’interno di una declinazione specifica di questa logica. Nel prospettivismo ciascun individuo percepisce i membri della propria specie come umanità e fra gli individui si stabiliscono relazioni del tutto analoghe a quelle che governano la vita di “noi” umani. Ciascuna specie, insomma, dispone di un “noi” civilizzato ed entro ciascun gruppo l’umanità è una proprietà riflessiva (il pecari è uomo per l’altro pecari, il giaguaro è uomo per l’altro giaguaro). «La condizione comune agli uomini e agli animali non è l’animalità, ma l’umanità» (Viveiros de Castro 2009, 35). Ai nostri occhi di occidentali il paesaggio che questa ontologia dischiude può sembrare una sorta di eden fatto di animali parlanti e civilizzati, di relazioni infine pacifiche ed egualitarie fra i viventi. È segno che non ne afferriamo la portata e le obbligazioni. A conoscerne la logica, la realtà animista è tutt’altro che pacifica o priva di complicazioni. Perché tutti coloro che si vedono fra loro come persone umane non vedono anche gli altri, le altre specie, come umani? Perché l’attribuzione di umanità avviene solo a partire dal proprio punto di vista? È qui che entra in azione il corpo come differenziatore ontologico, ciò che permette, seguendo Viveiros de Castro, di passare dalla nozione ancora epistemologica del prospettivismo a quella ontologica del multinaturalismo. Prospettiva, abbiamo visto, è la posizione di chiunque assuma, in quel momento, lo statuto di soggetto. Si può azzardare un parallelo con la linguistica: nel prospettivismo lo statuto di umanità ha funzione deittica, serve cioè a collocare gli enunciati in una situazione spazio-temporale precisa; è un attributo comprensibile solo in relazione al contesto in cui viene atrribuito. Ma se tutti gli enti possono assumere questa posizione soggettiva, e quindi avere tutti un medesimo modo di vedere, quello che vedono è invece diverso e dipende dalle affezioni di cui i loro corpi li rendono capaci. Se, dunque, la prospettiva è sempre umana, a seconda delle caratteristiche del corpo di cui si dispone cambia invece la natura di ciò che si vede. Il punto di vista è nel corpo: a corpi differenti, differenti nature associate. Gli animali impiegano le stesse «categorie» e gli stessi «valori» degli umani: i loro mondi ruotano attorno alla caccia e alla pesca, alla cucina e alle bevande fermentate, ai cugini incrociati e alla guerra,
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ai riti d’iniziazione, agli sciamani, ai capi, agli spiriti... Se la luna, i serpenti e i giaguari vedono gli umani come dei tapiri o dei pecari, è perché, come noi, mangiano tapiri e pecari, cibo umano per eccellenza. Questo non potrebbe essere altrimenti poiché, essendo umani all’interno dei loro confini, i non-umani vedono le cose come le vedono gli umani – e cioè, come noi umani le vediamo all’interno dei nostri confini. Ma le cose che essi vedono, quando le vedono come noi le vediamo, sono altre: ciò che per noi è sangue, per i giaguari è birra; ciò che per le anime dei morti è un cadavere in putrefazione, per noi è della manioca fermentata; ciò che noi vediamo come una pozza di fango è una grande casa cerimoniale per i tapiri... (ibid., 38).
Per questo l’umanità non è, né può essere, una proprietà mutua fra gruppi: nel momento in cui un giaguaro si vedesse come uomo, non potrebbe più vedere gli altri giaguari come uomini, e viceversa: «se tutto può essere umano, allora niente è umano in modo chiaro e distinto» (ibid., 36). Da ciò segue, in questa logica, che esiste per ciascun corpo una (e una sola) rappresentazione vera e giusta del mondo: quella congrua con la configurazione materiale del corpo stesso. Essa dev’essere continuamente preservata o, se il caso, restaurata: Se un uomo si mette a vedere i vermi che infestano un cadavere alla stregua di pesce grigliato, come fanno gli avvoltoi, bisogna concludere che gli sta succedendo qualcosa: la sua anima è stata rubata dagli avvoltoi, e lui si sta trasformando in uno loro, smettendo di essere umano per i suoi parenti (e viceversa); in breve, è gravemente malato, o addirittura morto; o, il che è lo stesso, è sulla via per diventare sciamano (ibid., 37).
In questa ontologia lo sciamano è una figura del tutto particolare: diplomatico più che guaritore, viaggiatore più che capo. La sua peculiarità è quella di saper viaggiare fra specie, ovvero fra prospettive: in condizioni speciali e controllate, lo sciamano può assumere la prospettiva dell’animale e parlare quindi, da soggetto a soggetto, ai soggetti di un’altra specie. Lo si potrebbe descrivere come un divenireanimale, ma nel quadro animista è vero il contrario: non si tratta, per lo sciamano, di essere giaguaro col giaguaro, ma di vedere il mondo come un giaguaro – e cioè, all’interno del contesto-giaguaro, come un umano. E tuttavia, in questo mondo concettuale assumere la prospet-
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tiva del giaguaro significa “diventare giaguaro” in modo ancor più radicale di quanto la nostra filosofia osi immaginare: dacché il punto di vista è nel corpo, quando gli sciamani dicono di essersi materialmente trasformati in giaguari, o in pecari, o in tabacco, non stanno facendo altro che portare alle corrette conseguenze le premesse logiche della loro ontologia. §§§ Allo stesso modo, noi portiamo alle estreme conseguenze le premesse logiche della nostra ontologia quando trapiantiamo organi, quando crediamo che i soldi si riproducano da soli nei caveaux delle banche o quando ci compiacciamo del progresso. I confronti potrebbero continuare a lungo: in Africa coloro che si muovono nel mondo secondo i criteri che per noi occidentali sono i più elementari e scontati (badando al proprio vantaggio, accumulando ricchezza e in un’ottica competitiva) sono reputati stregoni. Stregone è chi mette al lavoro gli altri prelevandone i frutti – ovvero, chiunque agisca il meccanismo-base della creazione capitalista di plusvalore. E via dicendo. A questo livello di radicalità, i confronti dovrebbero continuare a lungo: fino ad aprirci gli occhi. Bibliografia Descola, P. (2005), Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris. Jullien, F. (1989), Procès ou création. Une introduction à la pensée chinoise, Editions du Seuil, Paris. Melandri, E. (2004), La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata. Remotti, F. (1990), Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino. Taussig, M. (1980), The devil and commodity fetishism in South America, The University of North Carolina Press, Chapel Hill. Viveiros de Castro, E. (1990), Métaphysiques cannibales, PUF, Paris.
Paolo Vignola Ai margini dell’abisso Una villeggiatura (im)possibile per la filosofia contemporanea
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ono da poco trascorsi quarantanni dalla pubblicazione di L’anti-Œdipe e in Francia, come del resto in Italia, la ricorrenza è stata l’occasione, da parte di molti filosofi e psicoanalisti, per ritornare sui concetti e sulle questioni che Deleuze e Guattari, a valle del Sessantotto, avevano sviluppato. Meno ‘rumoroso’ è stato invece il quarantennale di Marges, la raccolta di saggi scritti da Derrida – tra cui, per celebrità, primeggia il famoso e a suo modo famigerato “La différance” – che può a buon diritto rappresentare l’altro orizzonte tematico della cosiddetta corrente post-strutturalista. A festeggiare il proprio quarantennale, poi, bisognava aggiungere il convegno “Nietzsche aujourd’hui”, svoltosi a Cerisy-la-Salle sempre nel 1972, al quale parteciparono, tra gli altri, non solo Deleuze e Derrida, ma anche Lyotard e Klossowski. Il Nietzsche che uscirà dalle elaborazioni di questa generazione di filosofi francesi, come è noto, sarà un pensatore non soltanto depurato da ogni implicazione ex ante con il nazionalsocialismo, ma dotato inoltre di inedite risorse emancipative, addirittura militanti, stando perlomeno a “Pensiero nomade” di Deleuze. Ad ogni modo, quel che sembra esser maggiormente combattuta, sebbene quasi sempre per via indiretta, è l’indicazione data da Lukács di leggere Nietzsche come punto d’approdo all’abisso dell’irrazionalismo, esito di una crisi irrecuperabile, voltate le spalle all’Illuminismo e all’Idealismo, della coscienza borghese che potrà rifugiarsi solamente nella religione, nel misticismo o nel delirio dionisiaco e sconclusionato, quando esso non si ricomponga in volontà di dominio. Nietzsche sarebbe stato infatti, per Lukács, un soggetto incarnante egli stesso la decadenza borghese Gli atti del convegno sono pubblicati in Aa.Vv., Nietzsche aujourd’hui? (deux tomes), Paris, UGE 10/18, 1973.
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e le contraddizioni del capitalismo, facendo perciò di quest’ultimo una sorta di apologia indiretta (cfr. Lukács 1959; 1966). Inutile dire che, di fronte a tali considerazioni, i filosofi della cosiddetta Nietzsche renaissance, attraverso le personali elaborazioni prodotte nella seconda metà del Novecento, dimostreranno di avere tutte le intenzioni di provare ad abitare razionalmente l’abisso della ragione, stigmatizzato dal filosofo del materialismo dialettico.
Grand Hotel Abisso
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a rilevanza dei due libri sopra ricordati e del convegno consacrato a Nietzsche appare tale da spingere a considerare, con tutte le precauzioni del caso, il ’72 come l’anno di costituzione della prospettiva post-strutturalista. Ora, è perlomeno curioso che ciò avvenga l’anno successivo alla scomparsa di Lukács, i cui veti nei confronti di Nietzsche hanno avuto un’importanza strategica all’interno del dibattito filosofico internazionale. A ben vedere, però, Nietzsche è stato assunto da Lukács come bersaglio critico soprattutto metonimicamente, nel senso che è finito per essere utilizzato come spauracchio nei confronti dei filosofi contemporanei al pensatore ungherese. Anche Adorno e Horkheimer, ad esempio, sono caduti nelle grinfie affilate di Lukács, che ha associato l’operazione di smascheramento del dominio di Dialettica dell’illuminismo a quella di denuncia relativa all’insensatezza razionale dell’esistenza, di cui, con modi diversi, si erano già fatti portavoce Schopenauer, Kierkegaard e, appunto, Nietzsche. L’immagine offerta da Lukács di quella che, ai suoi occhi, appariva come una paurosa degradazione politica della filosofia è la ben nota “camera con vista al Grand Hotel abisso”, che giova qui riproporre: Una parte considerevole della migliore intellighenzia tedesca, fra cui lo stesso Adorno, ha preso alloggio - come scrissi in una mia critica a Schopenhauer – presso il “Grand Hotel dell’Abisso”, un “bell’Hotel, fornito di ogni comfort, sull’orlo dell’abisso, del nulla e dell’insensato. E la visione giornaliera dell’abisso, tra produzioni artistiche e pasti goduti negli agi, può solo accrescere la gioia procurata da questo raffinato comfort” (Lukács 1999, 20).
Quest’immagina critica, che ha l’intenzione di evidenziare non solo la forma ma anche il ruolo politico dell’intellighenzia radical chic, va appunto riferita alle pieghe schopenauriane e nietzscheane – intollera-
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bili per il materialismo dialettico di Lukács – che Dialettica dell’illuminismo esprime in modo problematico e, al tempo stesso, formidabile. Da parte loro, del resto, Adorno e Horkheimer ritengono che Lukàcs, risolvendo il problema della valenza attuale di Nietzsche tramite il ricorso alla categoria dell’irrazionalismo, approdi ad una concezione della ragione troppo ingenua e monolitica. Per Adorno e Horkheimer, infatti, non esiste un’alternativa netta tra l’irrazionalità fascista e la razionalità dialettica dell’illuminismo e dell’idealismo, ma tale dicotomia va dialettizzata all’interno della ragione stessa (cfr. Horkheimer – Adorno 1997). In tal senso, il fascismo ed il capitalismo avanzato sarebbero una realizzazione intrinseca, per quanto pervertita, all’illuminismo e il ruolo di Nietzsche sarebbe quello di aver evidenziato i sintomi di questo pervertimento ben prima che si manifestassero in tutta la loro virulenza. Non è questa la sede per una disamina del rapporto tra i francofortesi e Lukács, né tantomeno per descrivere la sintomatologia nietzscheana della décadence; piuttosto, è bene sottolineare che la forza critica e il pathos di Dialettica dell’illuminismo sono risorse assolutamente preziose ancora oggi, così come lo sono state per il pensiero critico francese degli anni Sessanta, dal concetto di “spettacolo” forgiato da Debord alla prospettiva biopolitica elaborata da Foucault. Ecco allora che, con buona pace del tour operator ungherese, ci è data l’opportunità di prenotare una camera d’albergo anche per il gruppo dei poststrutturalisti. Più in particolare, se il post-strutturalismo si differenzia in modo inconciliabile dalla Teoria Critica della Scuola di Francoforte, proprio attraverso Nietzsche si potrebbe costruire il ponte che colleghi entrambe le prospettive, facendole incontrare, per così dire, nella hall dell’Hotel Abisso. D’altronde, il Deleuze degli anni Sessanta sembra avere molto a cuore le questioni riguardanti l’assenza di fondamento da cui sorgerebbe il pensiero, e lo stesso vale per Foucault, in particolare con il saggio “Il pensiero del Fuori”. Torniamo però al 1972, per focalizzare l’attenzione sui Margini derridiani, al fine di provare così a perimetrare le mura del Grand Hotel e ad osservare a quale distanza si tiene dall’abisso. In realtà questo albergo, come vedremo, dell’abisso può offrire molto più che una semplice vista panoramica.
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La logica dei margini
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noto, innanzitutto, che la prospettiva generale di Margini può essere rintracciata nei libri precedentemente scritti dal filosofo della différance, da quelli su – e a partire da – Husserl fino a La Farmacia di Platone, e può essere così estremamente sintetizzata: Derrida intende decostruire il logocentrismo e la metafisica della presenza partendo da ciò che la tradizione individua come una esteriorità, un supporto empirico e supplementare, ossia la scrittura; in questo modo, l’obiettivo strategico della decostruzione è far valere l’istanza di ciò che è tenuto “fuori” dal senso o dallo statuto del logos, quindi separato dal “voler-dire” come significato o pura espressione. Più in particolare, la strategia decostruttiva prevede che ad un iniziale rovesciamento della gerarchia fondata sull’autonomia e la superiorità assiologica dell’interiorità – e quindi della voce, della presenza piena del significato, che in sé non avrebbe bisogno del segno o del significante – nei confronti dell’esteriorità, si proceda a uno spostamento della coppia concettuale verso una contaminazione dei due termini, che risulterebbero così indissociabili e reciprocamente imprescindibili. Ad esser decostruito, infatti, è sempre il processo di esclusione di uno dei valori contrari; in tal senso, l’opposizione interiorità/esteriorità, cioè del dentro e del fuori, è filosoficamente la prima, ossia quella a partire dalla quale vengono a strutturarsi tutte le altre: affinché questi valori contrari (bene/male, vero/falso, essenza/apparenza, dentro/fuori, ecc.) possano opporsi, bisogna che ciascuno dei termini sia semplicemente esterno all’altro, cioè che una delle opposizioni (dentro/fuori) sia già accreditata come la matrice di ogni opposizione possibile (Derrida 1998b, 137).
Se dentro/fuori è la prima opposizione da decostruire, allora la decostruzione riguarda innanzitutto il rapporto tra la filosofia e il suo fuori, tra filosofia e non-filosofia. Ciò si rende immediatamente evidente proprio a partire da Margini, che presenta come testo iniziale una riflessione sul limite della filosofia, sul rapporto che essa intrattiene con il suo altro, con ciò che è fuori dal margine filosofico. “Timpano” è il titolo di questo esergo, e timpanizzare la filosofia significa per Derrida “smussare”, “torturare” o “martellare” l’orecchio filosofico, ossia lavorarlo attraverso una pratica di scrittura, sovente implementata da stili o testi letterari, resistente ad ogni riappropriazione concettuale. Detto altrimenti, nel momento in cui il filosofo della
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différance scardina dall’interno la gerarchia delle opposizioni metafisiche, pratica anche, in maniera performativa e grazie ad autori letterari o a stili di scrittura diversi, la fuoriuscita da queste opposizioni. In sostanza, Derrida vuole raggiungere il piano di una filosofia in grado di rimanere “fuori” dalle opposizioni metafisiche, sempre pronte ad inglobare, a fare proprio ciò che per loro è altro: Se la filosofia ha sempre inteso, da parte sua, tenersi in rapporto con il non-filosofico, o addirittura con l’antifilosofico, con la pratiche e i saperi, empirici o no, che costituiscono il suo altro, se essa si è costituita secondo quest’intesa riflessiva con il suo esterno, se si è sempre intesa a parlare, nella stessa lingua, di se stessa e di altro, si può, in tutto rigore, stabilire un luogo di esteriorità o di alterità da cui si possa ancora trattare della filosofia? Questo luogo non sarà sempre già stato occupato da filosofia? (Derrida 1997a, 7).
Ora, è bene tener presente un assunto tipicamente derridiano: la logica dei margini vuole affermare il fatto che il fuori sia soltanto relativo, poiché viene sempre inglobato dalla filosofia o, tuttalpiù, si può riuscire a farlo sedimentare, appunto, sul margine. In tal senso, anche la via d’uscita che Derrida ricerca in continuazione, a sua volta, è costantemente reindirizzata al bordo interno della filosofia; questo fenomeno di re-incorporazione, comunque, si dà sempre sul margine, dato che «il margine sta dentro e fuori» (ivi, 20): Dentro perché il discorso filosofico intende conoscere e dominare il suo margine […]. Fuori perché il margine, il suo margine, il suo fuori sono vuoti, sono fuori: negativo di cui non si saprebbe cosa fare, negativo senza effetto nel testo o negativo che lavora al servizio del senso, margine rilevato (aufgehobene) nella dialettica del Libro (ivi, 20-21).
Come si rende esplicito anche solo attraverso questo breve passo, a differenza degli altri filosofi poststrutturalisti, Derrida non intrattiene un rapporto esclusivamente ostile o alternativo nei confronti della dialettica hegeliana, e ciò è importante per comprendere gli effetti destabilizzanti che la logica dei margini può avere sul rapporto tra razionale e irrazionale – o tra razionalità e irrazionalismo – che anima la suggestione lukácsiana del Grand Hotel Abisso. Serve però ancora almeno un elemento per raggiungere il bizzarro luogo di villeggiatura dove l’albergo è ubicato – o almeno, pare esserlo, se ascoltiamo Lukács.
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Se non c’è autentico fuori possibile all’interno delle opposizioni metafisiche, è perché non può esserci in generale un “fuori puro”. Posizionare la propria pratica filosofica ai margini della filosofia è per il filosofo franco-algerino l’unica operazione centrifuga possibile. In questo senso, si può affermare che Derrida non solo lavori ai margini delle discipline filosofiche, e nemmeno soltanto che egli lavori i margini filosofici, bensì che attraverso il lavoro decostruttivo divenga possibile generare sempre nuovi margini della filosofia. È dunque il margine, come limite al tempo stesso del fuori e del dentro, vale a dire del fuori e della filosofia, il necessario elemento mobile, aleatorio, letteralmente privo di sostegno metafisico, per l’invenzione di significanti inediti (o inaudibili, come la différance) e funzionali alla decostruzione delle altre coppie oppositive. Tra questi significanti, il supplemento è emblematico proprio per il suo effetto di inabissamento strategico del significato e della sua origine. In altre parole, il supplemento è in grado di supplire la presenza “pura” e piena di un significato eterno, impassibile e autonomo rispetto al sistema di segni attraverso il quale viene veicolato. Il supplemento, in sostanza, supplisce e quindi decostruisce la pretesa purezza interiore del voler-dire: Il supplemento supplisce. Non si aggiunge che per sostituire. Interviene o si insinua al-posto-di; se riempie, è come si riempie un vuoto. Se rappresenta e fa immagine, è per la mancanza anteriore di una presenza. Supplente e vicario, il supplemento è un’aggiunta, un’istanza subalterna che tien-luogo (ibidem).
In linea con la propria prospettiva generale, Derrida si sforza di definire il supplemento non per ciò che è o per ciò che non è, bensì per gli effetti che esso produce nel testo. Ora, l’effetto che più può interessare gli ospiti del Grand Hotel Abisso riguarda il fatto che la logica del supplemento rende impossibile uscire fuori dalla catena di supplementi, per raggiungere la presenza. Se il supplemento non rinvia ad un presenza, nel senso di qualcosa che c’è indipendentemente dal segno che la esprime, ma sempre ad una mancanza da supplire, la nostra esperienza può essere tradotta unicamente come un continuo rinvio da supplemento a supplemento. Si tratta, a ben vedere, di un movimento che non potrà mai raggiungere un referente autonomo della “realtà”, sia essa metafisica, storica o psicobiografica (cfr. Derrida 1998b, 219).
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Il continuo ed interminabile concatenamento di supplementi come rinvio di segni è per Derrida il “testo” inteso in senso generale, ed è precisamente ciò che ha spinto il filosofo della différance ad affermare che «non c’è fuori testo» (ibidem) – vale a dire che non si può uscire dalla rappresentazione segnica – e non che la filosofia non possa uscire dai libri, come invece più volte è stato erroneamente recepito. A fronte di questo misunderstanding, Derrida ha infatti cercato di spiegare che la formula «non c’è fuori testo» andrebbe intesa come «non c’è fuori contesto» (Derrida 1997b, 203). L’ambiguità di questa frase, «non c’è fuori testo», risiede dunque nel fatto che al suo interno, inscritta in essa, si presenta una sorta di sua apparente contraddizione: «non c’è fuori contesto». Questa tensione, se seguiamo l’autore di Margini, produce a sua volta un effetto, la cui portata devastante per la metafisica e per la ragione logocentrica rischia persino di far crollare quel ponte che conduce fino all’Hotel Abisso. Il continuo giustapporsi dei supplementi senza referente ultimo, infatti, non è da intendersi come il perdersi all’interno del testo senza poterne uscire (il libro), oppure il vagare tra un contesto e l’altro (Derrida in questo caso fa riferimento alle condizioni di possibilità di un atto linguistico), ma semmai come l’impossibilità di distinguere nettamente tra il testo ed il contesto, tra la rappresentazione e la realtà. In definitiva, la logica del supplemento, come Derrida stesso ha più volte affermato, produce l’effetto di condurre en abîme, di inabissare cioè la distinzione tra dentro e fuori, attraverso la concezione della realtà come struttura supplementare. A ben vedere, comunque, ad essere risucchiata dall’abisso del senso non è soltanto ogni forma di distinzione e di opposizione netta, tra cui certamente quella tra razionale e irrazionale, bensì la presenza stessa del logos, la sua autonomia rispetto al supplemento: L’abisso non è qui un accidente, felice o infelice. [Esiste] tutta una teoria della necessità strutturale dell’abisso […] il processo indefinito della supplementarità ha già da sempre intaccato la presenza, vi ha già da sempre inscritto lo spazio della ripetizione e dello sdoppiamento di sé. La rappresentazione en abîme della presenza non è un accidente Cfr. Derrida 1997a. La mise en abîme, letteralmente “l’inabissamento”, o “l’abissalità”, è la figura utilizzata da Derrida per rendere conto della struttura propria dei supplementi, secondo cui non sarebbe mai possibile trasgredire il supplemento verso una presenza “piena”; cfr. Derrida 1998a, 225-232.
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della presenza; il desiderio della presenza nasce al contrario dall’abisso della rappresentazione, dalla rappresentazione della rappresentazione, ecc. Il supplemento stesso è appunto, in tutti i sensi di questa parola, esorbitante (Derrida 1998a, 231).
Alla luce di questa argomentazione, se si volesse formulare una considerazione sintetica sulla distinzione lukácsiana tra razionale e irrazionale attraverso i testi – questa volta intesi proprio come libri! – , si potrebbe affermare che i Margini conducono lo stesso Hotel fin dentro l’abisso, dunque rendono letteralmente impossibile La distruzione della ragione. In altre parole, seguendo la logica derridiana dei margini, non è possibile, per uno o più pensatori, distruggere la ragione – se per distruggere si intende un’attività del soggetto nei confronti di un oggetto –, poiché essa, la ragione, è sempre inestricabile dall’irrazionalità e, in tal senso, risulta in fase continua di decostruzione, indipendentemente dalle intenzioni, dagli obiettivi, dai risultati o dagli errori di questo o quel filosofo.
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iunti a questo punto, si può legittimamente avere l’impressione che i conti non tornino, nel senso che un “conto” è l’abisso messo in evidenza da Lukács, riferendosi a Dialettica dell’illuminismo, e un altro “conto” è l’abisso a cui ci espone la descostruzione derridiana, con la sua logica di supplementarità. Tra l’ambito, i metodi e gli oggetti di indagine di Dialettica dell’illuminismo e il lavoro di decostruzione del logocentrismo, condotto da Derrida, la distanza è infatti notevole, per non dire abissale: nel primo caso, si tratta di un’analisi critica del processo di civilizzazione guidato dalla ragione illuministica, mentre nel secondo, ad esser criticata, in definitiva, è l’idea stessa dell’esistenza in sé e per sé di qualcosa come la Ragione. In un caso l’abisso della ragione è l’esito del processo di pervertimento proprio di quest’ultima, mentre nell’altro caso l’abisso è ciò a cui si finirebbe per approdare ogni volta che si cercasse l’essenza o la purezza del logos, della ragione, dell’idea, ecc. Tale distanza si manifesta del resto anche nel diverso atteggiamento che le due prospettive hanno nei confronti del mondo sociale: in Derrida – e questo anche nei testi della sua fase etico-politica – rimane infatti inespressa la carica di pathos e di attenzione alla vita quotidiana che invece caratterizza Dialettica dell’illuminismo.
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È proprio la presenza attiva di questo pathos e di tale attenzione, probabilmente, a spingere Lukács nell’adottare l’immagine del Grand Hotel Abisso, come fece per Schopenhauer. Anche se lo si è in qualche modo anticipato, giova ricordarlo: Lukács riteneva che analizzare e denunciare i sintomi di decadenza della ragione e di annichilimento, nonché di pervertimento, del progetto emancipativo dell’illuminismo fosse paragonabile a osservare, in modo turistico, l’abisso del senso proprio delle logiche del dominio. Come turisti, Adorno e Horkheimer avrebbero osservato l’abisso senza interagire, senza cioè cercare di combatterlo realmente, lasciando in sostanza tutto come lo avevano trovato. I filosofi francofortesi si sarebbero perciò arresi di fronte alla difficoltà di concepire una ragione forte, politicamente progettuale, in grado dunque di realizzare l’afflato emancipativo dell’illuminismo, limitandosi invece a criticare l’esistente e a mettere in guardia nei confronti della potenza della stessa ragione. Ora, pensando a Dialettica dell’illuminismo e alla sua analisi dell’industria culturale, nonché delle tecnologie mediatiche ad essa collegate, proviamo a tener conto della critica derridiana al logocentrismo, ossia alla prospettiva che, nell’attribuire al logos il primato e l’autonomia del senso, espunge sistematicamente la scrittura e la tecnica in generale da qualsiasi ruolo attivo nella costituzione del logos e, dunque, anche della Ragione. In questo modo, diviene possibile formulare alcune domande riguardanti la suggestione del Grand Hotel Abisso. Innanzitutto, siamo proprio sicuri che l’abisso stia all’esterno dell’albergo? Oppure, volendo in un certo senso ascoltare Lukács, sarebbero Adorno e Horkheimer ad aver sempre mantenuto una certa distanza? A non essersi avvicinati troppo, forse per paura di perdere quel briciolo di ragion pura necessario a condurre una critica così profonda all’illuminismo? O, forse, anch’essi sarebbero rimasti impigliati nell’opposizione metafisica del dentro e del fuori, separando all’origine la ragione e la tecnica? In altre parole, con Derrida e con la sua logica supplementare, così come con la sua strategia decostruttiva, qualcosa come una ragione pura – tanto in senso kantiano, quanto nel senso dell’esser priva di elementi irrazionali o a-razionali – non può esistere. Stando infatti al programma della Grammatologia, il logos, l’intelletto, la ragione, l’attività noetica in generale non possono essere scisse dal gramma, dal supporto segnico che ne permette non solo la veicolazione ma la stessa costituzione (cfr. Derrida 1998a). Quindi, se Adorno e Horkheimer
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hanno colto gli elementi di crisi della ragione, causati dalle logiche del dominio mediante le tecnologie legate all’industria culturale, sviluppando il ragionamento derridiano e implementandolo, come ha fatto Bernard Stiegler, con un atteggiamento più attento all’ambito sociale, possiamo comprendere che tali tecnologie – da intendersi quali tecnologie di scrittura –, piuttosto di minacciare dall’esterno il pensiero critico, sono proprio in rapporto di intimità con la ragione. In altre parole, le tecnologie di scrittura rappresentano le condizioni di possibilità della ragione, così come del suo inabissamento (cfr. Stiegler 2012; 2013). In tale prospettiva, si può pensare alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione come rimedio, quando permettono lo sviluppo di nuove capacità cognitive – e persino critiche – oppure come veleno, quando cioè, come sembra a tutti gli effetti essere il caso di questi anni, giungono a impoverire i legami sociali, le facoltà critiche e lo stesso pensiero teorico (cfr. Stiegler 2012). Questa, di fatto, è la logica del pharmakon, assieme rimedio e veleno, attraverso il quale la filosofia ha sempre considerato la scrittura, ma da cui, seguendo Derrida e Stiegler, essa non ha mai tratto le debite conseguenze, né sul piano teoretico né su quello politico e sociale. In particolare, il pharmakon descrive il rapporto ambiguo, di repulsione e di dipendenza, che il pensiero intrattiene con ogni tipo di supporto della memoria, dai geroglifici alla scrittura, dalla carta stampata a Internet, fino ai tablet e agli smartphone. L’analisi di tali supporti, declinata in termini di controllo, di captazione dell’attenzione, di ipersollecitazione e di depotenziamento delle attività sociali, cognitive e libidinali è perciò l’obiettivo critico di ciò che Stiegler definisce “farmacologia”. Ora, l’intenzione di Stiegler pare proprio essere quella di intrecciare la prospettiva di Dialettica dell’illuminismo con la teoria derridiana, tecnicizzando cioè la ragione analizzata da Adorno e Horkheimer e politicizzando il carattere farmacologico della scrittura, magistralmente messo in evidenza da Derrida. Negli ultimi suoi lavori, infatti, Stiegler ha posto con insistenza l’accento critico sul tornante economico-politico della fine degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, quello della cosiddetta “Rivoluzione conservatrice” condotta dai governi Reagan e Thatcher che, grazie soprattutto al dilagare del marketing, avrebbero dichiarato «guerra al pensiero», con il risultato di aver «distrutto la cultura, la politica e l’economia di un’autentica attenzione e di avervi sostituito una industria della captazione (distruttrice) dell’at-
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tenzione, fatto che condurrà a un’irrefrenabile regressione dell’attenzione [come facoltà] e ad immense sofferenze che tale regressione ha generato ovunque nel mondo – fisiche, mentali, cognitive, morali e spirituali» (Stiegler 2013, 25). Ora, anche se Adorno e Horkheimer avevano previsto uno scenario del genere, manca alla loro analisi uno strumento concettuale come quello che Stiegler “eredita” da Derrida: il pharmakon, appunto. È infatti attraverso l’ambivalenza del pharmakon che, seguendo Stiegler, oggi ci è dato cogliere l’assoluta vicinanza dell’abisso, ma anche la possibilità di un “soprassalto”, ossia di una politica che sia in grado di prendersi cura del pensiero, del desiderio e dei legami sociali. Proviamo allora, prima di concludere, a toccare l’abisso attraverso l’analisi di Stiegler: L’attenzione, sotto tutte le sue forme, sembra precipitare in un abisso a gran velocità – se non alla velocità della luce – e con essa lo stesso potere di simbolizzare, vale a dire il potere (e l’arte) di fare un mondo (e dei mondi): la formazione dei sistemi e dei milieux simbolici è indissociabile dalla formazione dell’attenzione. Se essa non è più garantita e acquisita, dipende dal fatto che questi [i sistemi e i milieux] sono profondamente alterati: essi sono diventati dei dispositivi di desimbolizzazione per via della loro sottomissione alle […] industrie della comunicazione e dell’informazione (ivi, 70).
Che tale situazione, dopo circa quarantanni di marketing sempre più invasivo, riguardi pressoché tutta l’umanità globalizzata, è piuttosto facile da comprendere, dal momento che oggi tutti i sistemi sociali, ossia tutte le organizzazioni della cura in tutte le sue forme e tutti i modelli terapeutici in grado di rendere il pharmakon un beneficio e non un male, soffrono e si inabissano: lingua, educazione familiare, educazione pubblica, lavoro, protezione sociale, diritto, cultura, saperi, ricerca, ecc. (ivi, 87).
In conclusione, possiamo dunque far tornare i conti, perlomeno quelli cronologici. Stiegler infatti ricorda come i primi sintomi del disagio psichico, affettivo e sociopolitico legati al marketing e alla captazione sistematica dell’attenzione siano incominciati a manifestarsi proprio a partire dal 1972 (cfr. ivi, 37), l’anno dal quale siamo partiti e che, senza uscire fuori dai testi, rappresenta comunque una tappa di grande rilevanza per la filosofia contemporanea – nonché per inco-
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minciare a reinterpretare l’immagine lukácsiana dell’abisso e del suo albergo. Inoltre, per chiudere il giro, l’analisi di Stiegler rappresenta una prosecuzione dell’atteggiamento deleuziano di lotta alla stupidità, da intendersi precisamente come invenzione di concetti critici e, quindi, come risalita creatrice dall’abisso del non-senso e dei clichés veicolati dal marketing (Deleuze – Guattari 2002). Ora, è bene ricordare che, pur avendo mostrato in maniera formidabile come l’intera tradizione filosofica, fin da Platone, abbia misconosciuto la profondità semantica e filosofica della scrittura come pharmakon, Derrida ha indirizzato solo marginalmente il proprio lavoro verso l’analisi dei rischi farmacologici propri della scrittura digitale (cfr. Derrida – Stiegler 1997). Qui risiede allora la valenza politica del percorso di Stiegler poiché, aggiornando la critica sociale dell’illuminismo attraverso l’analisi deleuziana delle tecnologie di controllo, e intrecciandola con la decostruzione del logocentrismo, il filosofo della farmacologia giunge, proprio attraverso essa, a proporre una nuova teoria critica, strategicamente rilevante ai fini di una determinazione del ruolo e degli obiettivi della filosofia contemporanea – ossia della filosofia e del pensiero all’epoca della società in rete e delle tecnologie digitali. Pertanto, anche grazie a Stiegler, ma soprattutto attraverso un lavoro di riattivazione politica dei suoi intercessori, diviene possibile quel che prima pareva impensabile: se, durante il Novecento, il Grand Hotel che ospitava i filosofi intenti a diagnosticare i disagi della Ragione e della società offriva una vista sull’abisso, oggi può addirittura far trovare tale abisso in camera. Starà alla filosofia contemporanea riuscire ad abitare questa possibilità, non come un turista più o meno curioso, bensì come chi, per necessità, è costretto a lottare quotidianamente contro l’abisso del senso. Bibliografia Deleuze, G. – Guattari, F. (1975), L’Anti-Edipo, trad. it. A. Fontana, Einaudi, Torino [L’Anti-Œdipe, Minuit, Paris 1972]. Deleuze, G. – Guattari, F. (2002), Che cos’è la filosofia?, trad. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino [Qu’est ce que la philosophie?, Minuit, Paris 1991]. Derrida, J. (1998a), Della grammatologia, trad. it. Jaca Book, Milano [De la grammatologie, Paris, Minuit, 1967].
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Postfazione Per una dialettica del margine
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ome abbiamo avuto modo di constatare insieme dai più diversi e sfaccettati punti di vista, offerti generosamente nel presente volume, il margine non è una vuota formalità, una categoria meramente nominale, o una nuova etichetta che si possa attaccare e staccare a piacere. Allo stesso tempo, non è neppure esclusivamente iconoclastica de-costruzione né entusiastica ri-costruzione. Esso si concretizza piuttosto in un atteggiamento. Atteggiamento che, solo, preserva intatto il momento essenziale – mistificato e nullificato da ogni approccio rigidamente sistematico-identitario – dal quale continua a originarsi la filosofia anche nell’epoca della sua massima crisi, quale naufragio di fronte all’irraggiungibile totalità dell’essere e a un mondo che sembra sempre sfuggire a ogni tentativo di comprensione. Questo momento essenziale per il pensiero è, ancora una volta, il genuino Θαυμάζειν (cfr. Platone 2005, 155 D; Aristotele 1993, A 2, 982 b 10ss), lo stupore e la meraviglia di fronte al mondo, che al filosofo del margine viene dato esclusivamente sotto forma di frammenti apparentemente irrelati e senza senso. Un mondo trasfigurato che va reinterpretato con categorie differenti, perché noi stessi siamo cambiati assieme a esso in una dialettica nella quale è arduo e pretestuoso pensare di stabilire un rigido rapporto di causa ed effetto. Il Θαυμάζειν rivitalizzato dal e nel margine si declina in maniera diversa rispetto a quello della metafisica occidentale. Esso opera una distruzione delle gerarchie e un movimento di decentramento, aumentando così notevolmente l’ampiezza del raggio d’azione del pensiero che da esso si sviluppa. Ciò coincide con l’abbandono delle esorbitanti pretese di profondità, proprie della filosofia classica, e con l’apertura di fronte alle sterminate contrade della superficie. Il margine sviluppa quindi una struttura orizzontalistica tesa a sostituire quella tradizionalmente verticalistica che ha dominato, con poche significative eccezioni, l’intero cammino della filosofia occidentale. Non a caso, la
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filosofia del margine, come emerge chiaramente dal secolo scorso in poi, si presenta come atteggiamento artistico in grado di operare una generale «trasfigurazione del banale» (cfr. Danto 2008). È nel margine che è stata «covata» e preparata con pazienza quella reversibilità di arte e filosofia sostenuta con vigore da Simmel (e prima da Schiller e dal Romanticismo, ma in un senso differente e con diverse implicazioni) e divenuta fait accompli oggi. Questo pensiero è anche solidale con la presa di coscienza che la filosofia, al cospetto della realtà, è sempre in anticipo e/o in ritardo (la «nottola di Minerva» di hegeliana reminiscenza) ma mai in sintonia, perché essa è nel tempo, del tempo e fuori dal tempo, e la sua esistenza si gioca tutta Cfr. Hegel 1996, 65. Quando Hegel sostiene che «la filosofia è il proprio tempo colto in pensieri» (ivi, 61), intendendo con ciò la costitutiva impossibilità della filosofia di superare la propria epoca e il suo conseguente limitarsi a comprendere il presente per dimostrarne, tramite il pensiero, l’intrinseca necessità, ebbene quando egli si fa promotore di questa concezione è ben distante rispetto a quanto si afferma in questa sede. A noi sembra piuttosto che l’unica cosa ad essere davvero preclusa alla filosofia sia proprio il presente, dal quale pure si origina ma nel quale non riesce affatto a stare: spesso essa anticipa i tempi oppure è in ritardo rispetto ad essi («la nottola di Minerva»), ma mai è «a tempo» o sincronizzata con essi. Eppure, proprio in questo sfasamento, essa riesce dialetticamente a riflettere il presente dal quale fugge perché mai la soddisfa: nel momento in cui supera il presente, o tramite slancio anticipante in avanti oppure tramite ritorno fuggente all’indietro, essa «coglie» di riflesso (quindi mediatamente, dinamicamente) «il proprio tempo in pensieri», quel presente di cui dovrebbe dimostrare staticamente la necessità per il semplice fatto di esservi calata. Non vivendo mai il presente, ma annunciando il futuro prossimo e/o celebrando il passato remoto, la filosofia è perpetuamente in guerra con il tempo (da qui la sua perenne inattualità), ma dimostra ex negativo quella necessità del presente che Hegel vorrebbe dimostrata, quasi senza mediazione, ex positivo. Questo dovrebbe rendere più chiaro quanto sosteniamo nel testo a proposito dell’essere la filosofia nel tempo, del tempo e fuori dal tempo. Può forse essere anche utile vedere come Adorno ribalta il verso krausiano «Ursprung ist das Ziel» (Kraus 19192, 69): «Nella frase di tono conservatore di Karl Kraus “L’origine è la meta” si esprime anche qualcosa che ben difficilmente era inteso sul momento: ossia che il concetto di origine deve perdere la sua cattiva natura statica. La meta non dovrebbe essere ritrovata nell’origine, nel miraggio di una buona natura, bensì l’origine verrebbe assegnata solo alla meta, si costituirebbe per la prima volta a partire da essa. Non c’è origine se non nella vita dell’effimero» (Adorno 2004, 141 – trad. mod.). Il presente è quell’«effimero» dal quale la filosofia si origina, si sgancia (ossia col quale mai è in sintonia) per poi ritornarvi trasfigurata e trasfigurandolo (impregnandolo di passato e di futuro). Tuttavia, la filosofia, priva com’è di presente, è un «atto mancato», perché mancata è la sua realizzazione, come chiarisce anche Adorno nel decisivo passo d’apertura dell’Introduzione alla Dialettica negativa:
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nella sottile e affilata dialettica tra superficie e profondità, vicinanza e lontananza, essere nel tempo e fuori dal tempo. Proprio in ciò risiede la profonda superficialità (o la superficiale profondità), l’angosciante inattualità/attualità e l’estrema lontananza/vicinanza della filosofia del margine, ora intesa come filosofia tout court. L’ampiezza della visione orizzontalistica del e dal margine non significa, però, anarchia strutturale e/o frivolo vezzo artistico, bensì lucido ripensamento critico dei compiti reali della filosofia, messa sempre più al bando e resa inoffensiva dalla totale società dei consumi. La filosofia del margine, quale riflessione critico-dialettica sul mondo e su noi stessi (prodotti e produttori di questo), è sforzo di fare esplodere il cortocircuito del germe lacerante della disintegrazione nell’integrazione «armonica» e «sana» del Sistema (sia filosofico che sociale), essendo essa consapevole che dietro ogni conciliante integrazione si cela il volto deturpato della disintegrazione. Hegelianamente tale filosofia non fugge al cospetto del negativo e della devastazione, ma, oltre a riconoscerne la realtà ineliminabile (la cui negazione, edulcorazione o esagerazione è ideologia), «soggiorna» presso di essi (cfr. Hegel 1995, 87). Questo «soggiorno» implica una ripartenza della filosofia non dal luminoso iperuranio gerarchizzato di un mondo che non c’è più (se mai poi c’è stato), bensì dalla concreta lacerazione di quella zona dei rifiuti che è il nostro mondo in tutti i suoi attributi e modi. Da questa zona si origina quel «fascino che proviene […] dalla carogna, dall’odore disgustosamente dolce della putrefazione» (Adorno 2004, 329 – traduzione modificata), fascino al quale la filosofia, al pari dell’infanzia, non deve né può sottrarsi. La filosofia del margine, come Θαυμάζειν e come infantile fascino per la zona dei rifiuti, è adornianamente un partire dal «canale di scolo» (Luderbach), dal «porcile» (Schweinstiege), dal ventre della bestia, un implacabile pensare dialettico contro se stessa, per giungere da lì, eventualmente, alla costruzione di un qualche sapere mai garantito a priori e «negato con aria di superiorità» (ibidem) proprio da chi con «La filosofia, che una volta sembrò superata, si mantiene in vita, perché è stato mancato il momento della sua realizzazione» (ivi, 5). Ora, nell’epoca dell’«eterno presente», che ingloba passato e futuro in questo presente dilatato a dismisura, la filosofia può forse giocare la decisiva partita per la sua realizzazione o estinzione. La meraviglia e il fascino per la zona dei rifiuti sono reversibili. «Il movimento dialettico resta filosofico come autocritica della filosofia» (Adorno 2004, 139 – trad. mod.).
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enfasi lo propugna bell’e pronto dalla propria torre d’avorio, tanto compulsivamente linda e pinta quanto disperatamente isolata e distante dal mondo concreto. Lo choc provocato dal negativo e da questa inedita apertura, il gettarsi «à fond perdu negli oggetti» e il «senso di vertigine» (Schwindel) che ne deriva sono un «index veri» della filosofia del margine; mentre appaiono come mera negatività al cospetto del terreno sicuro e sterile del «garantito» e del «sempre uguale», così come «non verità solo per il non vero» (ivi, 32). La filosofia del margine non ha dunque paura di «insozzarsi» elevando ad oggetto di analisi anche la banalità, lo squallore della quotidianità, i fenomeni più bassi e marginali, rifiutati come συμβεβηκός dall’arrogante purezza dell’indagine filosofica tradizionale ma centrali nel mondo dal quale si origina la filosofia stessa, che non può più pretendere di staccarsene (o di selezionarne, tramite un impianto gerarchico e gerarchizzante, alcuni aspetti rassicuranti a scapito di altri più inquietanti) se non a condizione di rimanervi ancora più invischiata. Nella fedeltà al mondo dilaniato (simile all’«amor fati» professato da Nietzsche) e all’altro rispetto ad esso, propria della filosofia del margine, la dialettica di libertà e necessità è pienamente rischiarata e dal tenebroso cantuccio del margine riluce il riflesso del bagliore così opaco e così accecante, così lontano e così vicino della totalità disintegrata. In questo modo, la filosofia del margine rende ragione del momento della tenebra e del momento del fulgore, della lontananza e della vicinanza, così costitutivi della realtà tutta. In ultima analisi, la categoria del margine può affermarsi come nuovo centro plurale e provvisorio di una filosofia scevra da presunzioni totalizzanti e depurata da pregiudizi snobistici e tentazioni isolazionistiche, che non hanno più senso di essere in un mondo complesso, contraddittorio e frammentato come quello uscito dalla modernità in cui sacro e profano sembrano fondersi in un’unione indifferenziata. Il margine assume i contorni più indefiniti e revocabili della categoria euristica, che non si lascia tuttavia inglobare in un centro inclusivo «La vergogna esige dalla filosofia che essa non rimuova la visione di Georg Simmel, secondo cui è stupefacente quanto poco si notino nella sua storia le sofferenze dell’umanità» (Adorno 2004, 139 – trad. mod.). Alimentare e mantenere ben desta questa vergogna, prendendo così in seria considerazione anche e sempre la concretezza inesorabile della devastazione della sofferenza, è uno dei doveri imprescindibili della filosofia che, volente o nolente, trae la propria origine da lì e colà risiede.
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ed esclusivo. Infatti, nel momento stesso in cui il margine si pone come nuovo punto di partenza per l’indagine filosofica, esso presuppone necessariamente l’andare oltre se stesso: la sua «verità» risiede nella sua parzialità e nel processo del suo stesso «superamento» (che non va però inteso come fagocitazione sistematica, né come effettivo compimento del proprio superarsi, bensì piuttosto come spostamento di luogo e traiettoria, come movimento perenne e incessante). Il margine non deve dunque cedere alla tentazione di cristallizzarsi in una nuova forma sostitutiva della precedente, ma, per costituirsi quale degna dimora (sempre provvisoria e soggetta a mutamento) della filosofia, deve implicare anche la propria negazione che altro non è se non il momento essenziale e la condizione imprescindibile della propria esistenza. Soltanto in questo modo è in grado di costituirsi degnamente come punto-zero della ricerca appassionata, la quale, sola, se è vera (e lo è) l’affermazione platonico-socratica, può rendere la vita piena di senso e degna di essere vissuta. Attilio Bruzzone Genova, aprile 2013 Bibliografia Adorno, Th.W. (2004), Dialettica negativa, trad. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino [Negative Dialektik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1966]. Aristotele (1993), Metafisica, trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano. Danto, A.C. (2008), La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, trad. it. di S. Velotti, Laterza, Roma-Bari [The Transfiguration of the Commonplace. A Philosophy of Art, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1981]. Hegel, G.W.F. (1995), Fenomenologia dello spirito, trad. it. di V. Cicero, Rusconi, Milano [Die Phänomenologie des Geistes, J.A. Goebhardt Verlag, Bamberg und Würzburg 1807; F. Meiner Verlag, Hamburg 1980]. A proposito dei sistemi idealistici e delle loro tendenze fagocitanti, Adorno scriveva nella Dialettica negativa: «Il sistema è il ventre divenuto spirito, la furia il marchio di ogni idealismo» (Adorno 2004, 23).
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Hegel, G.W.F. (1996), Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di V. Cicero, Rusconi, Milano [Grundlinien der Philosophie des Rechts, Nicolaische Buchandlung, Berlin 1931]. Kraus, K. (1919²), Das Sterbende Mensch, in Id., Worte in Versen I, Leipzig. Platone (2005), Teeteto, trad. it. di L. Antonelli, Feltrinelli, Milano.
Profili bio-bibliografici
Francesco Aloe, laureato in Matematica presso l’Università di Genova, ha collaborato in qualità di traduttore all’opera in quattro volumi La matematica, Einaudi 2007-2011. Attualmente sta conseguendo una laurea in Metodologie Filosofiche presso la stessa università. Maria Cristina Amoretti, dottore di ricerca in Filosofia, è assegnista presso l’Università di Genova. È stata visiting research fellow presso il King’s College, London. È vice-presidente della SIFA, Società Italiana di Filosofia Analitica (2012/2014). Tra i suoi scritti, La mente fuori dal corpo (2011), Piccolo trattato di epistemologia (2010). Emanuele Antonelli è titolare di una borsa post-dottorato presso la Fondazione Goria e il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli studi di Torino; conduce i suoi studi su temi legati alle diverse eredità della decostruzione e della teoria mimetica. È autore di La creatività degli eventi, Torino 2011; e La mimesi e la traccia, Milano 2013. Sara Baranzoni, dottore di ricerca dell’Università di Bologna, studiosa di arti performative e filosofia. Si occupa di questioni legate a tempo, movimento, corpo e immagine, e più in generale delle relazioni tra creazione scenica e pensiero; ha svolto ricerche su Deleuze, Guattari, Foucault, Klossowski, e sulla filosofia francese contemporanea. Andrea C. Bertino è ricercatore a tempo determinato presso l’Università di Regensburg. Si è laureato in filosofia presso l’Università di Genova e ha conseguito il PhD presso l’Università di Greifswald. È autore del volume «Vernatürlichung». Ursprünge von Friedrich Nietzsches Entidealisierung des Menschen, seiner Sprache und seiner Geschichte bei Johann Gottfried Herder. Ilaria Boeddu, laurea in Filosofia nel 2005 e dottorato di ricerca nel 2009, è stata assegnista di ricerca e docente a contratto presso l’ateneo genovese. Svolge attività collaborazione con le cattedre di Teoria dell’Oggetto Estetico, Semiotica delle Arti ed Elaborazione dei Linguaggi Multimediali, occupandosi di estetica e arti contemporanee. Attilio Bruzzone, assegnista di ricerca e cultore della materia Filosofia teoretica presso l’Università di Genova, è studioso di Georg Simmel, del pensiero marxista eterodosso del ’900 tedesco (Lukács, Korsch, Bloch) e di teoria critica (Kracauer, Adorno, Horkheimer, Benjamin), cui ha dedicato diverse pubblicazioni. All’attività filosofica affianca quella musicale.
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Profili bio-bibliografici
Francesco Camera è Professore associato di Filosofia Teoretica presso la Scuola di Scienze Umanistiche dell’Università di Genova. Tra le sue pubblicazioni più recenti: L’ermeneutica tra Heidegger e Levinas, Brescia 2001; Paul Celan. Poesia e religione, Genova 2003; Sotto il segno di Hermes, Genova 2011. Ha curato edizioni di opere di Dilthey, Heidegger, Gadamer e Levinas. Stefania Consigliere insegna Antropologia dei sistemi di conoscenza all’Università di Genova. Le sue linee di ricerca riguardano la questione della «natura umana» e i processi di antropopoiesi, ovvero i modi in cui gli esseri umani sono prodotti dalle – e producono le – culture cui appartengono. Biobibliografia su www.stefaniaconsigliere.it. Gerardo Cunico insegna Filosofia teoretica e Filosofia del dialogo interreligioso all’Università di Genova. Tra le sue pubblicazioni: Essere come utopia, Firenze 1976; Critica e ragione utopica, Genova 1988; Messianismo, religione e ateismo, Lecce 2001; Oltre Saturno, Parma 2006; Lettura di Habermas, Brescia 2009. Vincenzo Cuomo è co-direttore della rivista di critica filosofica «Kainós». Tra le sue ultime pubblicazioni: Al di là della casa dell’essere. Una cartografia della vita estetica a venire, Roma 2007; Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene, Milano 2009; C’è dell’io in questo mondo? Per un’estetica non simbolica, Roma 2012. Marco Damonte, dopo il Bacellierato in Teologia, ha conseguito il Dottorato in Filosofia presso l’Università di Genova, dove attualmente collabora alla cattedra di Storia della Filosofia. Oltre a numerosi articoli, ha pubblicato Wittgenstein, Tommaso e la riscoperta dell’intenzionalità, Firenze 2009; e Una nuova teologia naturale, Roma 2011. Francesca Dell’Orto è dottoressa di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Torino e Paris-Sorbonne (Paris IV). I suoi principali interessi ruotano attorno al problema fenomenologico della costituzione genetica, con particolare attenzione al rapporto tra temporalità trascendentale e tecnica. Filippo Domenicali, dottore di ricerca in Filosofia, si occupa prevalentemente del pensiero francese. Ultimamente si è dedicato a una rilettura del pensiero metafisico di Gabriel Tarde, curando l’edizione italiana di Le leggi dell’imitazione, Torino 2012; Monadologia e sociologia, Verona 2013; e L’azione dei fatti futuri. I possibili, Napoli-Salerno 2013.
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Ubaldo Fadini insegna Filosofia Morale presso l’Università di Firenze. È autore di numerosi libri. Tra i più recenti: La vita eccentrica. Soggetti e saperi nel mondo della rete; Linee di fuga. Nietsche, Foucault, Deleuze, con S. Berni; Lessico Virilio. L’accelerazione della conoscenza, con S. Cacciari; Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo. Lisa Fazio si è laureata in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova con la tesi «Il soggetto nomade nella filosofia di Rosi Braidotti». Maria Luisa Haupt, nata a Genova nel 1984, consegue il Diploma di Laurea Triennale in Filosofia con tesi sull’estetica del nazismo e il Diploma di Laurea Specialistica in Metodologie Filosofiche con tesi in filosofia morale sul tema della responsabilità in Derrida e Levinas. Oscar Meo insegna Semiotica delle arti nell’Università di Genova. Temi principali di studio: la comunicazione estetica; la costruzione del significato dell’oggetto estetico; il rapporto fra arte e devianza psichica; la psicologia e l’estetica psicoanalitica; la teoria dell’immagine; la filosofia teoretica, l’estetica e l’antropologia di Kant. Emanuela Miconi, laureata in Lingue Straniere e in Filosofia, è dottore di ricerca in Letterature Comparate. È autrice di numerosi articoli e de Il mondo che verrà. Ebrei e zingari: memorie di vite a parte, Verona 2012; con P.A. Rossi e I. Li Vigni ha curato Sulle ali del sogno, Milano 2009 e «E farai in modo che niuna strega viva», Milano 2010. Bruno Moroncini insegna Filosofia Morale presso l’Università di Salerno. Si occupa dei rapporti fra psicoanalisi e filosofia soprattutto in riferimento al pensiero di Jacques Lacan. Fra i suoi lavori: Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone, e insieme a R. Petrillo L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan. Andrea Natali è dottorando di ricerca in letteratura italiana presso l’Università di Aix-Marseille. Sono in corso di stampa per «Italies» e «Cahiers d’études romanes» gli articoli Il volo e la discesa agli inferi di Leccafondi: quasi un viaggio nel tempo e Réécriture de Leopardi du topos mythologique et littèraire du midi et du démon méridien. Simona Paravagna (Genova, 1979) è biologa e dottore di ricerca in Antropologia. La sua ricerca si muove tra antropologia medica, sistemi di conoscenza, Medicina Tradizionale Cinese e critica radicale. Sui temi citati ha pubblicato l’articolo Il disagio dell’inciviltà. La sua tesi di dottorato è in pubblicazione presso Kainós Edizioni.
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Profili bio-bibliografici
Selena Pastorino è dottoranda di ricerca presso l’Università degli Studi di Genova. I suoi studi vertono sull’approfondimento della problematica dell’interpretazione nel pensiero di Nietzsche. Membro del Seminario Permanente Nietzscheano, prende parte attivamente al vivo della ricerca nazionale ed internazionale sul filosofo tedesco. Igor Pelgreffi è dottore di ricerca in Filosofia. Co-dirige la collana Estetica e teoria delle arti per Kainos Edizioni. Interessato ai rapporti fra morfologie testuali (in particolare la scrittura), teoresi e soggettività nel pensiero contemporaneo, ha pubblicato vari saggi su rivista e curato il volume Jacques Derrida, Nietzsche e la macchina. Ignazio Semino insegna Storia della filosofia contemporanea presso l’Università di Genova. I suoi attuali interessi di ricerca vertono sugli sviluppi della filosofia analitica e della teoria della razionalità. Alessia Solerio si interessa ai temi di confine tra epistemologia ed antropologia e al pensiero analogico, discussi al Festival Crisalide 2013; dal 2009 partecipa al Gruppo Antropologia dell’Università di Genova, dal 2012 al Laboratorio Mappe. Spazio Interdisciplinare Sistemi di Conoscenza e dal 2013 al progetto Mondi Multipli. Paolo Vignola, PhD in Filosofia, svolge attività di ricerca in Italia e all’estero. Studioso della filosofia francese contemporanea, a cui ha consacrato una quarantina di pubblicazioni, ha indirizzato i suoi interessi verso la filosofia della tecnologia e la filosofia sociale, con particolare attenzione a Deleuze, Stiegler e l’Italian Theory. Silverio Zanobetti, laureato in Economia e Filosofia. Si occupa dei risvolti etici, politici ed economici del pensiero poststrutturalista in relazione alle tecnologie informatiche. Su questi temi ha pubblicato, tra le altre cose, Il Secolo che verrà. Epistemologia letteratura etica in Gilles Deleuze (con G. Panella). Matteo Zoppi è professore a contratto di Storia della filosofia medievale nell’Università di Genova e docente di Filosofia e Storia nel Liceo Scientifico “Emiliani” di Genova. Dopo la laurea e il dottorato di ricerca in Filosofia nell’Università di Genova, si è licenziato in S. Teologia nella Pontificia Università Lateranense. Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Tra i suoi volumi figurano: Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, Genova 2000; Percorsi anomali, Udine 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi 2008; Il farsi della scrittura, Milano-Udine 2012. Ha tradotto opere di Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Indice
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Introduzione I piani dei margini e i margini del piano Paolo Vignola Prima sezione Tre secoli di filosofia contemporanea
15
Prospettive per la filosofia contemporanea A partire dal pensiero dell’interpretazione di Friedrich Nietzsche Selena Pastorino
29
Ernst Bloch e lo spirito utopico Gerardo Cunico
41
Ma i filosofi sognano pecore elettriche? Esperimenti mentali tra filosofia e fantascienza Maria Cristina Amoretti
57
Il dibattito sul realismo Ignazio Semino
73
Due sviluppi recenti della teoria dell’immagine: il pictorial turn e l’ikonische Wende Oscar Meo
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Dalla bilancia alla spirale. La contaminazione del trascendentale e la rivoluzione della complessità Emanuele Antonelli
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Indice
Seconda Sezione Discipline di confine
103 L’estetica della filosofia analitica: autenticità, originale e copia Ilaria Boeddu 117 Esplorare il labirinto. Foucault e Roussel Giuseppe Zuccarino 133 Per un’estetica non simbolica Vincenzo Cuomo 149 Psicoanalisi e filosofia Bruno Moroncini
165 L’autenticità mancata. Note per una fenomenologia dell’individuazione tecnologica Francesca Dell’Orto
179 Argomenti diagonali e molteplicità inconsistenti: suggestioni cantoriane in Derrida e Badiou Francesco Aloe 193 Fede pensata. La religione di fronte alla filosofia analitica Marco Damonte 209 Economia del bios nella società digitale Silverio Zanobetti Terza Sezione Autori nomadi 225 Georg Simmel filosofo del margine Attilio Bruzzone
Margini della filosofia contemporanea
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239 Le fantasticherie di un passeggiatore solitario Gabriel Tarde tra metafisica e sociologia Filippo Domenicali 255 Leopardi tra scrittura e filosofia Andrea Natali
263 La poesia come ricerca e invocazione di senso Paul Celan e i filosofi Francesco Camera
277 La concezione del dono di Marcel Mauss e il suo significato per la filosofia Andrea C. Bertino 293 Enzo Melandri: Through the Looking-Glass Alessia Solerio
307 Sovrapposizioni e dispersioni Il depensamento filosofico di Carmelo Bene Sara Baranzoni Quarta Sezione Posture, movimenti, angolature
323 La filosofia come cura di sé ed esercizio spirituale: presenza, tematiche e prospettive nel Novecento Matteo Zoppi
337 “La Forma Perfetta”: ricerca di Dio, scoperta di sé Per una mistica della modernità in Etty Hillesum Emanuela Miconi 353 Interstizi. Figure d’incontro e metamorfosi delle soggettività Ubaldo Fadini 369 Autobiografismo post-esistenziale Igor Pelgreffi
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Indice
383 Sherlock Holmes detective della scienza Simona Paravagna
395 Dal divenire-donna al soggetto nomade: la decostruzione del soggetto fallocentrico tra Deleuze, Derrida e Braidotti Lisa Fazio & Maria Luisa Haupt 411 Oltremargine: filosofie d’altrove Stefania Consigliere 425 Ai margini dell’abisso Paolo Vignola 439 Postfazione Per una dialettica del margine Attilio Bruzzone 447 Profili bio-bibliografici
Finito di stampare per conto di Orthotes da Print Group Sp z o.o. nel mese di ottobre 2013