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Italian Pages 132 Year 2023
Zerocalcare, a proposito di Lucca e di tutto il resto
SETTIMANALE • PI, SPED IN APDL 353/03 ART 1, 1 DCB VR • AUT 12,90 € • BE 8,60 € CH 10,30 CHF • CH CT 10,00 CHF D 11,00 € • PTE CONT 8,30 € • E 8,30 €
10/16 novembre 2023 Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo
n. 1537 • anno 31 Paul Krugman Un’altra vittoria per i sindacati statunitensi
internazionale.it Cultura A che serve andare al cinema
4,50 € Ambiente Un’arca per l’Antartide
La cronaca della giornalista palestinese Ruwaida Kamal Amer, un’analisi del giornalista irlandese Fintan O’Toole, i commenti dello storico israeliano Ilan Pappé, di Amira Hass e della ricercatrice palestinese Dana el Kurd
Il destino di Gaza
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10/16 novembre 2023 • Numero 1537 • Anno 31 “Non ci sono mai stati i film di una volta”
Sommario La settimana
A. O. SCOTT A PAGINA 114
Zerocalcare, a proposito di Lucca e di tutto il resto 10/16 novembre 2023 Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo
n. 1537 • anno 31 Paul Krugman Un’altra vittoria per i sindacati statunitensi
internazionale.it Cultura A che serve andare al cinema
4,50 € Ambiente Un’arca per l’Antartide
Migliori SETTIMANALE • PI, SPED IN APDL 353/03 ART 1, 1 DCB VR • AUT 12,90 € • BE 8,60 € CH 10,30 CHF • CH CT 10,00 CHF D 11,00 € • PTE CONT 8,30 € • E 8,30 €
La cronaca della giornalista palestinese Ruwaida Kamal Amer, un’analisi del giornalista irlandese Fintan O’Toole, i commenti dello storico israeliano Ilan Pappé, di Amira Hass e della ricercatrice palestinese Dana el Kurd
IN COPERTINA
Il destino di Gaza La cronaca della giornalista palestinese Ruwaida Kamal Amer, un’analisi del giornalista irlandese Fintan O’Toole, i commenti dello storico israeliano Ilan Pappé, di Amira Hass e della ricercatrice palestinese Dana el Kurd (p. 22). Immagine di Javier Jaén
Il destino di Gaza
Giovanni De Mauro MESSICO
35 Ricostruire Acapulco è una sfida per Obrador El País UCRAINA
38 Kiev si avvicina all’Europa Politico CINA
40 Perché Pechino tende la mano ai taliban The Conversation OPINIONI
44 I coloni
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in Cisgiordania sono fuori controllo Amira Hass Un’altra vittoria per i sindacati statunitensi Paul Krugman SCIENZA
48 Doppia violenza The New York Times Magazine BRASILE
56 Il potere della soia Le Monde
Cultura
PORTFOLIO
66 Una vita davanti Sam Youkilis RITRATTI
72 Christiane Benner. La donna giusta Die Zeit
102 Schermi, libri, suoni
Le opinioni 18
Domenico Starnone
102 Giorgio Cappozzo 104 Nadeesha Uyangoda 106 Giuliano Milani 110 Claudia Durastanti
FUMETTO
74 Corto
116 Leonardo Caffo
circuito Zerocalcare
125
Stefano Feltri
Le rubriche
EUROPA
10
tanto amati Süddeutsche Zeitung
Dalla redazione di Internazionale
18
Posta
21
Editoriali
POP
127
Strisce
99 C’eravamo
112 A che serve andare al cinema A.O. Scott
129 L’oroscopo 130 L’ultima Articoli in formato mp3 per gli abbonati
SCIENZA
119 Quanto pesa davvero il piombo The Examination ECONOMIA E LAVORO
124 Il futuro dell’energia in Europa dipende dal gas Bloomberg
AMBIENTE
62 Un’arca per l’Antartide Nautilus
Il nuovo Internazionale Kids è in edicola
Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.
Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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internazionale.it/sommario
Capita raramente che arrivino così tante email per un singolo articolo. Per la storia di Zerocalcare, uscita venerdì online su Internazionale e questa settimana sulla carta, ne abbiamo ricevute quasi trecento. Una piccola selezione occupa l’intera pagina delle lettere. Con la sua storia Zerocalcare sembra aver toccato dei tasti sensibili e ha dato voce a quello che molte persone pensano. “‘Corto circuito’ conferma perché Zerocalcare continua a essere la voce di tutti coloro che rifiutano il pensiero che il mondo si possa ridurre a delle polarizzazioni. Siamo in tanti, spesso non scriviamo sui social, ma lavoriamo tutti i giorni affinché la nostra profonda indignazione non affondi le radici nell’odio”. Molti, tra i lettori e le lettrici che hanno scritto, condividono la difficoltà di essere costretti a prendere posizioni estreme, di essere schiacciati da un dibattito pubblico che sembra non lasciare spazio alla possibilità di approfondire. “Ho vissuto e lavorato per più di dieci anni nei territori palestinesi, seguo e subisco con sgomento i fatti e l’incapacità, più o meno involontaria, di raccontarli e analizzarli nelle loro complessità e contraddizioni”. C’è poi l’apprezzamento per aver preso posizione in modo chiaro e deciso su una questione complessa, senza per questo rinunciare alle sfumature. “Era, è, difficilissimo esprimersi in questo momento su questo tema: tutto viene strumentalizzato senza ritegno né rispetto per la tragicità delle circostanze”. Infine, in diverse lettere c’è il tentativo di allargare lo sguardo per riflessioni più generali. “Questo è un mondo che non mi appartiene, dove la recente promessa che ne saremmo usciti tutti migliori è stata sconfessata nel modo più brutale, e i politici usano gli odii, i contrasti, le guerre tra i poveri, i morti per strada e nelle loro case, nelle scuole, negli ospedali, per fare propaganda e radicalizzare ancora di più”. u
Dalla redazione di Internazionale Per ritrovare gli articoli di cui si parla in questa pagina si può usare il codice qr o andare qui: intern.az/1Ik1
Internazionale.it Articoli
ALAIN PITTON (NURPHOTO/GETTY)
Video
MEDIO ORIENTE
ITALIA
A Gaza la tregua umanitaria non basta Servirebbe un cessate il fuoco. Ma i governi occidentali non vogliono, o non possono, imporlo a Israele.
Tutti i rischi del premierato La riforma della costituzione è un ripiego per la maggioranza. Tuttavia, avrebbe comunque conseguenze gravi.
CULTURA
La seconda vita di Del Shannon Fu un innovatore del rock, presto dimenticato. L’album Further adventures è da recuperare.
MUSICA
Consenso e violenza sessuale Il parlamento europeo e alcuni governi dell’Unione non sono d’accordo su come definire uno stupro. Se non si trova una sintesi prima delle elezioni europee, il testo di legge sulla violenza sessuale votato a Strasburgo potrebbe andare perduto. Il reportage della televisione franco-tedesca Arte.
La guerra vista dagli intellettuali arabi Dopo l’attacco di Hamas, due mondi si stanno confrontando. Le parole di autori e autrici arabe.
SCIENZA SESSO
Sentitamente Qualche anno fa un tizio più anziano mi ha chiesto se poteva farmi un massaggio ai piedi.
Le notizie della settimana La formazione della Luna, il ruolo della rabbia, scimpanzé in ricognizione.
Newsletter Soldi
Dov’è finita l’acqua ◆ Sulla Terra c’è moltissima acqua, ma solo una piccola parte è potabile. Per questo dobbiamo difenderla, distribuirla equamente e trovare nuovi modi per non sprecarla. “Visto che il problema riguarda l’intero pianeta, collaborare conviene a tutti”, racconta l’articolo di copertina.
◆ Soldi è il secondo volume di Parole Chiave, la collana nata dalla collaborazione tra Bur Rizzoli e Internazionale. Articoli, reportage, analisi, schede e infografiche approfondiscono i meccanismi che oggi muovono l’economia: dalle banche all’inflazione, dalla logistica al consumo. In libreria, 240 pagine, 18 euro
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SCIENZA
Continuate a sognare a occhi aperti Sognatrici e sognatori di tutto il mondo, è ora di far capire a tutti il vostro potenziale. ATTUALITÀ
La pace è lontana Che succede in Medio Oriente. BRASILE
Avere dieci anni a Rio de Janeiro Una giornata nella vita di Elloá, 10 anni, che vive nella favela Rocinha. TEST
Che mostro sei Se emetti grida terrificanti potresti essere il Bunyip. PORTFOLIO
In edicola
Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
Lo spettacolo dell’universo Le più belle foto di astronomia.
Stanchi di Gandhi Il 2 ottobre, anniversario della nascita del Mahatma Gandhi, in India è festa nazionale. Ovunque nel paese si decorano con fiori e ghirlande le statue del padre dell’indipendenza e del movimento nonviolento, si tengono cerimonie e preghiere collettive. Quel giorno, però, i dipendenti di un’agenzia immobiliare di Pune sono costretti ad andare al lavoro. Non c’è nulla da festeggiare. Il titolare è il pronipote di Nathuram Godse, l’assassino di Gandhi, che nell’India di Narendra Modi ha molti estimatori. Lo racconto nella newsletter In Asia che esce sabato mattina. Per iscriversi: internazionale.it/newsletter Junko Terao
Immagini Ritorno forzato Torkham, Pakistan 27 ottobre 2023 Profughi afgani in fila al valico di frontiera di Torkham in attesa di tornare nel loro paese. Dopo l’ultimo attentato terroristico nel Belucistan, il governo pachistano ha dato tempo fino al 1 novembre agli immigrati irregolari per lasciare il paese volontariamente ed evitare di essere deportati. Islamabad accusa i gruppi islamisti pachistani, che hanno le loro basi in Afghanistan, degli attacchi sul suo territorio. Negli ultimi decenni molti afgani sono scappati dalla guerra, dalla povertà e dalla violenza dei taliban trovando rifugio in Pakistan, dove oggi 1,7 milioni di loro è senza documenti. In un mese circa duecentomila persone hanno lasciato il paese. Foto di Abdul Majeed (Afp/Getty)
Immagini Piccola Amal Tijuana, Messico 6 novembre 2023 La piccola Amal, una marionetta alta più di tre metri e mezzo che rappresenta una bambina di dieci anni in fuga dalla guerra in Siria, davanti al muro di confine tra Tijuana e San Diego, negli Stati Uniti. Dal luglio 2021 Amal ha percorso novemila chilometri, viaggiando in quindici paesi del mondo, per sensibilizzare le persone e i governi sui diritti di milioni di bambini migranti che scappano dai conflitti e dalla violenza e spesso sono separati dalle loro famiglie. Il progetto è curato dal festival itinerante The Walk. Foto di Guillermo Arias (Afp/Getty)
Immagini Stagione troppo calda Tenterfield, Australia 31 ottobre 2023 Il bagliore dei roghi intorno alla città di Tenterfield, nello stato del New South Wales. Nelle ultime settimane numerosi incendi hanno colpito l’est dell’Australia, favoriti dalla siccità invernale che ha reso la vegetazione secca e infiammabile. Nel paese sta per cominciare la stagione calda, che secondo molti esperti potrebbe essere peggiore dell’“estate nera” del 20192020. Quell’anno gli incendi avevano ucciso 34 persone e distrutto più di 240mila chilometri quadrati di territorio, provocando un disastro ambientale senza precedenti nel paese. Foto di Try Liang (Epa/Ansa)
[email protected] A proposito di Lucca e di tutto il resto Dopo la pubblicazione del fumetto di Zerocalcare su Internazionale.it (lo pubblichiamo anche in questo numero a pagina 74) sono arrivate centinaia di email di lettrici e lettori. Eccone alcune. ◆ La decisione di Zerocalcare di non partecipare al Lucca Comics è un esempio di coraggio. In un mondo più complesso e dominato da un’indifferenza diffusa per i problemi politici e sociali, la posizione di Zerocalcare assume un significato ben preciso. Ha dato valore a quello in cui crede, e scelto di sacrificare lavoro e guadagni. Ha deciso di sfruttare la sua notorietà per lanciare un messaggio di solidarietà, schierandosi dalla parte dei più deboli, che faticano a ritagliarsi un ruolo attivo. Ha scelto di seguire uno scopo diverso, marcando con forza la sua posizione. Anche stavolta è riuscito a essere un riferimento (come persona prima ancora che come artista) per la mia generazione che, ora più che mai, ha bisogno di esempi positivi a cui ispirarsi. Idarah Umana ◆ Grazie per aver pubblicato il fumetto di Zerocalcare sulla polemica per la sua mancata partecipazione al Lucca Comics. Esprime il mio sentire rispetto a quello che sta succedendo in Medio Oriente. Le sue parole mi hanno commosso, come ha fatto un ragazzo che ho incontrato a una maratona in Slovenia. Correva con tre bandiere: una israeliana, una palestinese e la bandiera della pace. La pace è l’unica via. Grazie di cuore. Alberto Talu ◆ Grazie a Zerocalcare e alla redazione di Internazionale. Non è tanto la vicenda, che ha pure la sua immensa importanza, è il fatto di portare at-
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tenzione alle dinamiche malate che permeano l’espressione di opinioni nel nostro paese. Non vivo più in Italia, e guardarla da lontano ha cambiato la mia prospettiva in maniera radicale. Spero che Zerocalcare non si faccia risucchiare da quel tritacarne e che le parole d’odio siano una spinta verso l’amore. Chiara Longobardi ◆ Un applauso a Zerocalcare, di cui non condivido tutte le idee, per questa spiegazione, e per la presa di posizione, civile, umana, dignitosa e orgogliosa. Non vale il “sei con noi o sei contro di noi”. Si può deprecare la violenza di un fronte senza sostenere la violenza dell’altro. Complimenti a voi per averlo pubblicato. Oggi una voce fuori dal coro richiede non poco coraggio e una buona dose di dignità. Merci rare. Francesco Munafò ◆ Come sempre Zerocalcare coglie il punto. È stato giusto non andare? Sarebbe stato giusto farlo? Poco importa. Quando si ha un’etica, non solo del proprio lavoro ma del proprio stare al mondo, bisogna seguirla. Valentina Quaresima ◆ Leggere questo fumetto è stato belllissimo. Vi ringrazio di aver dato spazio a uno scrittore che ancora una volta si è fatto carico di spiegarci come leggere informazioni false e pregiudizievoli. Grazie di aver dato una via al suo pensiero. Per chi ha letto il fumetto, e per chi vuole capire, il messaggio è chiaro: Zerocalcare non ha detto a nessuno cosa sia giusto. Nascondersi dietro alla “libertà di andare a un evento per tutti” è da vili o, nella migliore delle ipotesi, da semplici. Francesca Stella ◆ Sono d’accordo al cento per cento con Zerocalcare: dob-
Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
biamo ricomporre la memoria collettiva dell’umanità sui suoi orrori e riportare sempre tutto a una visione complessiva e coerente, che si basi sulla convivenza dei popoli oltre che sugli stati nazione, in cui non esistono morti di serie a e morti di serie b. Federico Tubaro ◆ Grazie di aver pubblicato questo fumetto del meraviglioso Zerocalcare. È un grande autore e disegnatore, che seguo fin dagli esordi. Ora abbiamo la prova che è anche una brava persona con una grande onestà intellettuale, uno che di fronte alla complessità si siede e cerca di ascoltarla, districarla e capirla, e che poi agisce secondo coscienza. Sono completamente d’accordo con lui, ma anche se non lo fossi stata avrei rispettato la sua scelta per il modo in cui l’ha posta e argomentata. Paola Petrucci ◆ Grazie a Zerocalcare di essere stato capace di stare dentro questo putiferio di grossolana ignoranza senza perdere la lucidità e continuando ad affermare il rispetto delle persone di ogni cultura, fede e provenienza geografica. Sono spaventata e amareggiata per come i social media, insieme agli altri strumenti di comunicazione, siano ormai lo spazio dove chiunque si permette di rimbalzare notizie e affermazioni distorcendone completamente il senso e l’intenzione. Un grande tribunale a cielo aperto in cui ognuno si erge a giudice senza dare parola agli imputati, con prove contraffatte per l’accusa. Continuate a usare la parola e il fumetto come strumenti di dialogo, confrontando anche idee radicalmente diverse ma nel rispetto reciproco. Per costruire un mondo dove l’espressione è al servizio della convivenza dei popoli. Letizia
◆ Vorrei poter esprimere tutta la mia gratitudine a Michele Rech per il suo fumetto, ma soprattutto per averci fatto riflettere, ancora una volta. Come insegnante e come genitore, sono convinto che riflettere significhi uscire da una logica di tifo calcistico, dalla contrapposizione ideologica che annebbia le menti, e dal pensiero amico-nemico. Questa guerra è talmente grave, e talmente dura per milioni di persone (israeliane e palestinesi), che difendere solo una parte, soprattutto se lo fa chi sta al sicuro nelle proprie case, mi sembra davvero indegno. Non aiuta noi a capire, e non aiuta nessuno dei due popoli che vivono questo dramma. Perciò, per quel poco che vale, e a prescindere dalla questione Lucca Comics, vorrei ringraziare Zerocalcare. Perché, a costo di esporsi a commenti offensivi e violenti, ha scelto di sottrarsi a questa contrapposizione. Fabio Macioce ◆ Grazie della tua testimonianza Michele. Viviamo a Gerusalemme da quattro anni, mio marito lavora per un’agenzia delle Nazioni Unite e sta soffrendo dal primo giorno in cui ha iniziato a lavorare qui. L’impunità, la violazione quotidiana dei diritti umani, la pulizia etnica, il regime di apartheid, le detenzioni amministrative, le uccisioni extragiudiziali. Perché? In nome di chi? Mai più si era detto, ma non per il popolo palestinese. Gioia Mirabella
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Autumn/Winter 23-24
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Editoriali
Combattere l’antisemitismo “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia” William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De Mauro Vicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo Zanchini Editor Giovanni Ansaldo (opinioni), Daniele Cassandro, Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Gabriele Crescente (scienza, ambiente), Camilla Desideri (America Latina), Francesca Gnetti (Medio Oriente), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Stati Uniti), Stefania Mascetti (Europa, caposervizio) Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa), Junko Terao (Asia e Pacifico), Piero Zardo (cultura, caposervizio) Copy editor Giovanna Chioini (caposervizio), Anna Franchin, Pierfrancesco Romano (coordinamento, caporedattore) Photo editor Giovanna D’Ascenzi (web), Mélissa Jollivet, Maysa Moroni, Rosy Santella (web) Impaginazione Beatrice Boncristiano, Pasquale Cavorsi (caposervizio), Marta Russo Podcast Claudio Rossi Marcelli, Giulia Zoli (caposervizio) Web Annalisa Camilli, Simon Dunaway (notizie), Giuseppe Rizzo, Giulia Testa Internazionale Kids Alberto Emiletti, Martina Recchiuti (caporedattrice) Internazionale a Ferrara Luisa Ciffolilli, Gea Polimeni Imbastoni Segreteria Monica Paolucci, Gabriella Piscitelli Correzione di bozze Lulli Bertini, Sara Esposito Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla fine degli articoli. Stefania De Franco, Francesco De Lellis, Susanna Karasz, Davide Lerner, Giusy Muzzopappa, Francesca Rossetti, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella, Nicola Vincenzoni Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto grafico Mark Porter Hanno collaborato Giulia Ansaldo, Cecilia Attanasio Ghezzi, Francesco Boille, Jacopo Bortolussi, Catherine Cornet, Sergio Fant, Claudia Grisanti, Ijin Hong, Anita Joshi, Alberto Riva, Concetta Pianura, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pauline Valkenet, Guido Vitiello Editore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro Sede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e diffusione Angelo Sellitto Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli, Alessia Salvitti Concessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del Marketing Editoriale srl Tel. +39 06.69539344 - Mail: [email protected] Subconcessionaria Download Pubblicità srl Stampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi) Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]
Le Monde, Francia Dal 7 ottobre gli ebrei francesi rivivono l’inquietudine scatenata da ogni nuova esplosione del conflitto in Medio Oriente: l’ostracismo, l’accusa alla loro comunità di essere corresponsabile di violenze che avvengono altrove e la sensazione di pericolo di fronte all’aumento di atti d’odio e attacchi. Secondo gli esperti, l’aumento dell’antisemitismo in Francia risale all’inizio della seconda intifada palestinese, nel 2000. È sbagliato però considerare questo fenomeno un fatto isolato, legato ai regolari picchi di violenza in Medio Oriente. L’antisemitismo, nelle sue varie forme, si è radicato nella nostra società. A quello dell’estrema destra che, nonostante la sua nuova veste, non ha rinnegato del tutto il dna delle origini, si sono aggiunte le ambiguità o le derive di una parte dell’estrema sinistra, sotto la maschera dell’antisionismo, e l’antisemitismo dell’islam radicale. La preoccupazione degli ebrei francesi è amplificata da un senso d’isolamento e abbandono generato dalla crescente indifferenza della società. Dopo una prima ondata d’indignazione, negli anni i cittadini disposti a protestare contro i crimini antisemiti sono diminuiti, come se assistessimo a una banalizzazione di questa violenza. Sempre più spesso gli ebrei
sono soli nella loro protesta. Gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, senza precedenti per dimensioni e ferocia, e le reazioni globali alla risposta smisurata e indiscriminata di Israele nella Striscia di Gaza hanno generato un’altra paura: il ritorno in Israele non è più un rifugio. Dagli anni duemila, dopo ogni esplosione di violenza antisemita in Francia, un crescente numero di ebrei ha scelto di stabilirsi in Israele. Oggi neanche Israele è più in grado di garantire la loro sicurezza. L’intensificarsi dell’antisemitismo non è un fenomeno solo francese. Negli Stati Uniti, nel Regno Unito e anche in Germania sono aumentati gli incidenti e le aggressioni, e l’intolleranza nel dibattito intellettuale. Ma la Francia non può trovare in questo una scusa: ospita la più grande comunità ebraica d’Europa, la terza al mondo dopo Israele e Stati Uniti. Gli ebrei francesi fanno parte dell’identità e della storia del paese. È inammissibile che una parte della nazione diventi bersaglio di campagne di odio e viva nella paura. Tutta la società francese deve tornare a mobilitarsi partendo dai suoi valori fondamentali e deve ricordare, in particolare attraverso la scuola, che l’antisemitismo, come il razzismo, è inaccettabile. ◆ gim
Accordo ingiusto con l’Albania Christian Jakob, Die Tageszeitung, Germania
Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993 Iscrizione al Roc n. 3280 Direttore responsabile Giovanni De Mauro Chiuso in redazione alle 19 di mercoledì 8 novembre 2023 Pubblicazione a stampa ISSN 1122-2832 Pubblicazione online ISSN 2499-1600 PER ABBONARSI E PER INFORMAZIONI SUL PROPRIO ABBONAMENTO Numero verde 800 111 103 (lun-ven 9.00-19.00), dall’estero +39 02 8689 6172 Fax 030 777 23 87 Email [email protected] Online internazionale.it/abbonati LO SHOP DI INTERNAZIONALE Numero verde 800 321 717 (lun-ven 9.00-18.00) Online shop.internazionale.it Fax 06 442 52718 Imbustato in Mater-Bi
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L’Albania si è impegnata ad aprire sul suo territorio due centri di accoglienza temporanei per i migranti che vogliono entrare in Italia. La presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni userà l’accordo con il primo ministro albanese Edi Rama per guadagnare consensi, visto l’aumento del numero di migranti arrivati in Italia negli ultimi mesi. Si tratta di un nuovo colpo ai diritti di chi vuole emigrare. Già nel 2018 l’Unione europea aveva chiesto al governo di Tirana di farsi carico dei migranti salvati nel mar Mediterraneo in attesa che fossero esaminate le loro richieste d’asilo. All’epoca Rama aveva respinto la proposta. Il fatto che abbia cambiato idea renderà ancora più acceso il dibattito nell’Unione europea sullo spostamento della procedura d’asilo in uno stato terzo. Ci sarà chi si rivolgerà ad altri paesi balcanici. Resta il fatto che Meloni e gli
altri politici europei favorevoli a soluzioni simili non sanno rispondere a una questione centrale. L’Italia accoglierà alcune delle persone mandate in Albania e ne espellerà altre. Ma non è chiaro cosa ne sarà dei migranti che Roma non accoglierà, perché non è possibile identificarli o perché non possono dimostrare di arrivare da una zona di guerra. Resteranno in Albania? È per questo che finora nessun paese ha adottato questo modello. Forse l’Italia non ha riflettuto sul problema, per questo l’accordo con l’Albania potrebbe saltare. Dal punto di vista politico Roma sembra pronta a ignorare i diritti dei migranti. Ma le direttive dell’Unione europea stabiliscono chiaramente dove e come i richiedenti asilo devono essere accolti. Non è previsto che siano portati in altri paesi e trattenuti lì. Il piano di Meloni difficilmente sarà accettato a Strasburgo. ◆ al Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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In copertina
Il destino della S Fintan O’Toole, The New York Review of Books, Stati Uniti
Attaccando Gaza, Israele ripropone strategie che non hanno funzionato in passato. E lascia senza risposta questioni politiche e morali fondamentali, scrive Fintan O’Toole
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Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
bra non sapere né l’una né l’altra cosa. Si è parlato molto dei fallimenti dell’intelligence che hanno permesso i massacri del 7 ottobre. Ma questi errori derivano da qualcosa di più profondo: un fallimento cognitivo. C’è stato un falso senso di sicurezza. Rabin, nel discorso con cui accettò il premio Nobel per la pace nel 1994, spiegò chiaramente che non ci può essere sicurezza senza pace: “C’è solo un mezzo radicale per santificare la vita umana. Non i blindati, i carri armati, gli aerei o le fortificazioni di cemento. L’unica soluzione radicale è la pace”.
La fine dell’illusione La pacificazione è un processo politico. Le guerre possono creare le circostanze in cui si svolge, ma non la fanno accadere. Rabin comprese questa verità. Con il suo omicidio e l’ascesa di Netanyahu, è stata deliberatamente dimenticata. La politica – la negoziazione di un giusto accordo con i palestinesi – è stata abbandonata e sostituita dall’illusione che la sicurezza potesse essere creata e mantenuta da aerei, carri armati, fortificazioni e tecnologia per la sorveglianza. Quell’illusione è morta di una morte orribile, ma continua a esistere come uno zombi. La prima condizione per un ritorno alla politica sarebbe ammettere che tutta la linea di Netanyahu è stata un disastro, non solo per i palestinesi, ma anche per Israele. Israele ha già tentato due strategie radicalmente diverse nella Striscia di Gaza. La prima era un’ortodossia militare e politica nota: conquistare e colonizzare. Gaza,
MOHAMMED ABED (AFP/GETTY)
S
e la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, l’attacco israeliano contro Gaza sembra essere la continuazione con altri mezzi dell’assenza di politica. Israele non dà l’impressione di sapere come andrà a finire. Senza un chiaro senso della fine non può esserci risposta alla domanda morale e strategica più cruciale: quando è abbastanza? Anche nella logica brutalmente matematica della vendetta, il prezzo di sangue per le orrende atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre è stato pagato da tempo. La conta dei morti – se questa deve essere la misura della punizione – è salita ben oltre il livello richiesto per una proporzione nella sofferenza. Eppure non sembra esserci un limite chiaro. Per quale fattore devono essere moltiplicate le morti ebraiche? Quando, come chiese il poeta irlandese W.B. Yeats in un altro conflitto, sarà abbastanza? “Basta” è la parola che il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin sottolineò nel suo discorso del settembre 1993 alla firma degli accordi di Oslo: “Noi che abbiamo combattuto contro di voi, palestinesi, oggi vi diciamo con voce forte e chiara: basta sangue e lacrime. Basta. Oggi diamo una possibilità alla pace e vi diciamo e vi ripetiamo: basta”. Basta è un obiettivo politico e un limite etico. Senza il primo è difficile stabilire il secondo. Per sapere fino a che punto puoi spingerti, devi sapere dove vuoi arrivare. Il governo di Benjamin Netanyahu sem-
appartenuta all’impero ottomano e poi al mandato britannico in Palestina, dopo il 1948 fu governata dall’Egitto, anche se né ai suoi abitanti originari né alla vasta popolazione di rifugiati fu concessa la citta-
Striscia di Gaza
In fuga dai bombardamenti israeliani a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, il 6 novembre 2023 dinanza egiziana. Conquistata da Israele nel 1956, la Striscia fu rapidamente restituita al controllo egiziano. Ma dopo la guerra dei sei giorni del 1967 tornò a Israele e sarebbe stata amministrata da un
governatore militare israeliano per quasi quarant’anni (il controllo civile di Gaza è passato nel 1994 all’Autorità nazionale palestinese, Anp). Alla fine degli anni settanta il governo di destra di Menachem
Begin immaginò che questo dominio potesse essere reso permanente e stabile se un numero sufficiente di ebrei si fosse trasferito lì. S’insediarono nella Striscia 8.500 coloni, un numero abbastanza Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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In copertina grande per creare nei palestinesi la sensazione che la loro esistenza fosse in pericolo, ma troppo piccolo per controllare il territorio. A Israele servivano tremila soldati per proteggere 8.500 ebrei. Nella seconda intifada (2000-2005) ne perse 230. La decisione presa da Ariel Sharon nel 2005 di mettere fine all’occupazione militare e di smantellare con la forza gli insediamenti non fu un capriccio. Fu un riconoscimento della realtà: il tentativo di colonizzazione non era più sostenibile. Occupando Gaza, Israele non aveva guadagnato nulla e aveva perso soldati, denaro e reputazione. Non per niente nel 2014, quando Hamas lanciava razzi contro Israele, Netanyahu non ha sostenuto il suo ministro degli esteri Avigdor Liberman, che chiedeva di riconquistare e rioccupare Gaza. Netanyahu aveva già usato toni aggressivi contro Hamas, affermando nel 2008: “Porteremo a termine il lavoro. Rovesceremo il regime terroristico di Hamas”. Ma in realtà non ha mai voluto rovesciare Hamas. Ha usato la minaccia come un espediente retorico. E oggi cerca di riempire questo contenitore vuoto di un significato e di uno scopo. E di sangue.
Due fallimenti Per Israele la vera alternativa all’occupazione militare e alla colonizzazione era proprio Hamas. I fondamentalisti religiosi – fedeli a un antisemitismo estremo e all’idea di cancellare Israele – potevano essere usati per indebolire l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e, dopo il 2005, per mantenere il movimento palestinese diviso tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. La stranezza di questa linea non stava solo nell’illusione che un movimento jihadista potesse essere, nella pratica, un alleato di Israele, ma nella forma di guerra che creava. Dato che Hamas avrebbe continuato ad attaccare Israele, Israele avrebbe continuato a fare ritorsioni. Le rappresaglie sarebbero state sanguinose, spesso orrende nel bilancio delle vittime civili. Ma sarebbero state calibrate in modo da garantire che Hamas restasse al potere a Gaza. Un’analisi delle guerre di Israele nella Striscia tra il 2009 e il 2014, commissionata dall’esercito di Washington all’istituto di ricerca statunitense Rand Corporation e pubblicata nel 2017, mostra un modo di combattere progettato per non sconfigge-
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10 km
Valico di Erez Mar Mediterraneo
Striscia di Gaza (PALESTINA)
Gaza
Wadi Gaza
ISRAELE
Khan Yunis Rafah Valico di Rafah
EGITTO
re il nemico: “Israele non si è mai battuto per una vittoria decisiva a Gaza. Anche se era in grado di sconfiggere militarmente Hamas, non poteva rovesciarlo senza rischiare che un’organizzazione più radicale governasse Gaza. E Israele non voleva neanche assumersi la responsabilità di governare Gaza in un vuoto di potere postbellico”. In questa politica, che consisteva nell’attaccare ripetutamente un regime con una travolgente potenza di fuoco senza però volere la vittoria, era implicita l’impossibilità di arrivare a una conclusione. Non ci sarebbe stata pace, ma neanche una guerra decisiva. Anche se queste eruzioni di violenza hanno provocato la morte di migliaia di palestinesi e di centinaia di israeliani, il loro scopo era mantenere la brutalità a un livello che la Rand corporation definisce “gestibile”. L’idea di una carneficina controllata ha avuto come risultato il massacro del 7 ottobre. Netanyahu è stato costretto ad abbandonare da un giorno all’altro lo schema che era stato la base di tutto il suo approccio alla questione palestinese: fare in modo che Hamas restasse abbastanza forte da negare autorità all’Anp, ma abbastanza debole da non rappresentare niente di più che una minaccia sporadica e limitata per i cittadini israeliani. Il fallimento del piano A di Israele era stato riconosciuto con il ritiro da Gaza nel 2005. Il collasso ancora più catastrofico del piano B è stato ammesso dopo che gli attacchi di Hamas hanno distrutto l’illusione di un contenimento in senso letterale e politico. Ma l’unica risposta che Netanyahu sembra capace di dare è un miscuglio totalmente incoerente del piano A e del piano B. Ci sarà, per un periodo im-
precisato, un’occupazione militare. Ma finirà in una sorta di ritorno alla situazione che seguì il ritiro del 2005: potere senza responsabilità. Israele eserciterà un potere assoluto su Gaza, ma non se ne assumerà la responsabilità. Questo non è un piano, è la fusione di due fallimenti.
Incollare i cocci L’occupazione militare non ha funzionato quando la Striscia aveva una popolazione meno numerosa, quando le sue città non erano ridotte in macerie, e quando c’era una generazione in meno cresciuta nella disperazione e nel rancore. Nessuno sembra pensare che possa funzionare ora. Allo stesso modo, la convinzione che Gaza potesse essere controllata dall’esterno da un governo israeliano che non si assumeva nessuna responsabilità verso la sua popolazione, non si prendeva nessun obbligo per il suo benessere e poteva isolarsi dalle sofferenze che questo avrebbe generato, si è dimostrata una calamità. L’idea che i cocci di queste due strategie fallite possano essere incollati insieme per creare quella che il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant definisce “un nuovo regime di sicurezza” non è credibile. Bombe e carri armati non rispondono alle domande. Chi dovrà governare Gaza se non Hamas o Israele? Israele pensa davvero che qualcun altro – un consorzio internazionale o un regime fantoccio palestinese – entrerà in questo mondo infernale insanguinato fatto di macerie e polvere, abitato da sopravvissuti traumatizzati, e si prenderà il compito di ricostruirlo, sorvegliarlo e governarlo? Come farà Israele a ottenere con i suoi vicini quella pace senza la quale non può esserci sicurezza per i suoi cittadini? Queste questioni politiche restano senza risposta e lo stesso vale per quelle morali. Quanti morti sono troppi morti? Come saranno rispettati gli obblighi del diritto internazionale e della decenza in strade piene di bambini, donne, anziani e malati? Cosa difende l’“autodifesa” israeliana? Israele vede la sua vera immagine in questo massacro? Riesce a immaginare una vita oltre la vendetta? u fdl Fintan o’Toole è un giornalista e scrittore irlandese, editorialista dell’Irish Times.
MUSTAFA HASSONA (ANADOLU/GETTY)
Dopo un bombardamento israeliano a Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, il 7 novembre 2023
Voci dal campo profughi di Khan Yunis Ruwaida Kamal Amer, +972 Magazine, Israele Una giornalista cresciuta nel sud della Striscia di Gaza racconta le storie delle persone che si sono rifugiate lì in fuga dalla guerra al 13 ottobre, quando l’esercito israeliano ha ordinato agli abitanti del nord della Striscia di Gaza di fuggire nella metà meridionale del territorio assediato, migliaia di persone si sono rifugiate nella città di Khan Yunis: nelle scuole, nell’ospedale Nasser, in una tendopoli improvvisata e nel campo profughi preesistente. Ma anche nel sud i bombardamenti israeliani non si sono mai interrotti e, considerato l’estremo sovraffollamento, il rischio di
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vittime è particolarmente elevato. Da bambina ho vissuto per otto anni nel campo di Khan Yunis, circondata dai soldati e dai carri armati israeliani. Anche se non li incontravo faccia a faccia, potevo sentire i loro proiettili e l’odore dei loro gas lacrimogeni. Odiavo il suono delle bombe. Non uscivamo spesso perché le forze di occupazione sparavano a caso; una volta hanno ferito al piede un mio cugino di due anni. Eppure le persone nel campo erano accoglienti e amorevoli, e lì ho ancora molti amici. Condividevamo tutto e spesso andavo ai matrimoni con mia nonna. Con la mia famiglia abbiamo lasciato Khan Yunis nel 2000, all’inizio della seconda intifada, perché i bulldozer israelia-
ni avevano demolito la nostra abitazione. Adoravo quella casa; ci ho trascorso tante belle giornate con mia nonna, che è morta prima della demolizione. Anche se me ne sono andata, il mio cuore è rimasto innamorato della casa e del campo, e ho sempre continuato a tornarci in visita. Mia sorella si è sposata e vive a Khan Yunis dove sono nati i suoi due figli, Adam e Rital. Quando vado a trovare lei e i bambini, mi ricordo della mia infanzia. “Spero che la guerra finisca, così potrò andare al centro commerciale, al mercato, al ristorante e al parco”, mi ha detto Rital, che ha quattro anni, durante una delle telefonate di famiglia nelle ultime settimane. Ha chiesto a me e a sua madre di pregare perché lei “cresca e trovi un lavoro”. Questo campo è pieno di sogni, ma i miei incubi sulla mia famiglia e su tutti i suoi abitanti sono costanti.
Legami forti Creato dopo la nakba del 1948 (la catastrofe, quando i palestinesi furono cacciati dalle loro case in seguito alla creazione di Israele), il campo di Khan Yunis ha acInternazionale 1537 | 10 novembre 2023
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In copertina colto i profughi palestinesi provenienti per lo più dalle città di Bir al Saba (Beer Sheva) e Jaffa, e dal villaggio di Al Majdal, l’attuale Ashkelon. Chiunque abbia vissuto nel campo racconterà dei forti legami che accomunano i suoi abitanti a causa dell’esperienza condivisa dello sfollamento del 1948. Hanno vissuto la stessa sofferenza e lo stesso dolore, e sono legati da vincoli familiari. I sopravvissuti alla nakba trasmettono le loro storie ai figli e ai nipoti, e tutti partecipano alle attività annuali per commemorare l’esilio. Prima del 7 ottobre la popolazione del campo era di circa novantamila persone, in gran parte già dipendenti dagli aiuti alimentari e dall’assistenza economica dell’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa). Gli aiuti erano coordinati dalle venticinque strutture dell’Unrwa nel campo, tra cui sedici edifici scolastici e due centri di distribuzione alimentare. Tuttavia, le altre migliaia di palestinesi sfollati che si stanno riversando nel campo in queste settimane fanno crescere ulteriormente la pressione sulle sue risorse già scarse. Marwa Harb, trent’anni, è arrivata qui con suo marito e quattro bambini in fuga dalla loro casa nel nord della Striscia. “Questo posto è strapieno”, dice. “Ci siamo venuti per paura dei bombardamenti. Mio marito mi ha assicurato che non sarebbe stato colpito, ma non riesco a sentirmi sicura perché a Israele non interessa la vita dei civili”. E infatti Israele ha preso di mira il campo, colpendo con un pesante bombardamento l’abitazione della famiglia Abu Shamala il 26 ottobre. Secondo quanto riferito, sono morte ventidue persone e più di cento sono state ferite. La casa, completamente rasa al suolo, era distante meno di un metro da decine di altre abitazioni, il che significa che ci sono state vittime in più famiglie. “Ero seduta a mangiare con i miei figli, quando all’improvviso sono caduti i missili”, ricorda Harb. “C’erano polvere e fumo dappertutto, i bambini gridavano. Non vedevo niente intorno. Mio marito era fuori ed è entrato gridando che i nostri vicini erano stati colpiti. La loro casa era nella strada di fronte a noi. Ci è dispiaciuto molto. Nel campo ci conosciamo tutti e c’è una grande solidarietà”. Anche Fadi Tanira, 34 anni, ha trovato
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rifugio nel campo da quando è cominciata la guerra. “Non è vero che il sud della Striscia di Gaza è sicuro per le persone sfollate e i civili, come aveva garantito Israele”, dice. “Noi non ci sentiamo al sicuro da quando è cominciata la guerra. Ci sono decine di migliaia di persone nel campo, tutti vanno al mercato in cerca di pane, acqua e beni di prima necessità. Ma io non riesco a uscire di casa senza temere che la mia famiglia sia bombardata. Non posso credere che Israele stia colpendo un campo affollato come questo. Venerdì scorso sono uscito con i miei figli, volevo comprargli qualcosa. I bambini si annoiano intrappolati dentro casa e hanno paura del suono delle bombe. Al rientro eravamo quasi arrivati alla porta d’ingresso quando una forte esplosione ha colpito la casa accanto alla nostra, che apparteneva alla famiglia Al Satri. Tre persone sono state uccise e decine ferite. Ho sentito mia moglie gridare. Ho cercato di rassicurarla che i bambini stavano bene, ma lei non sentiva, perché la mia voce era coperta dalle urla delle persone accorse a soccorrere i vicini. Sono stati momenti terrificanti”.
Una tenda sulle macerie Amira Mukhaimer, 55 anni, abitava nel campo già prima della guerra. “Non potrei vivere fuori da qui”, dice. “La mia casa è stata distrutta dai bulldozer israeliani nel 2000, ma non me ne sono andata. Ho piantato una tenda sulle macerie fino a che non è stata costruita un’altra casa. Per me il campo è un luogo vitale dove posso trovare quello che mi serve, i servizi sanitari, i negozi e le scuole per i miei figli. Non serve un’auto per spostarsi, ogni luogo si può raggiungere a piedi”. E continua: “Gli attacchi di Israele contro il campo non si sono mai fermati da quando ha occupato la nostra terra nel 1948. Abbiamo assistito a sfollamenti e deportazioni. Hanno distrutto le nostre case. Siamo scappati in cerca di un posto sicuro. Dopo aver lasciato Gaza nel 2005, Israele è tornato ogni anno con le guerre e i bombardamenti. Ma noi non vogliamo abbandonare il campo. Non ce ne andremo se non per tornare alla terra da cui siamo stati cacciati”. u fdl Ruwaida Kamal Amer è una giornalista freelance di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza.
Ultime notizie
La diplomazia e l’offensiva u L’8 novembre 2023, al termine di una riunione dei ministri degli esteri del G7 a Tokyo, il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha affermato che Israele non dovrebbe “occupare” la Striscia di Gaza alla fine del conflitto con Hamas. Due giorni prima il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva detto che Israele avrebbe assunto “a tempo indeterminato il controllo della sicurezza” nel territorio palestinese. I ministri degli esteri del G7 si sono espressi a favore di “pause tattiche e corridoi umanitari” nella Striscia, per garantire la consegna degli aiuti umanitari e il trasferimento dei civili, ma non hanno chiesto un cessate il fuoco. Questa possibilità è stata esclusa da Netanyahu senza il rilascio dei 240 ostaggi in mano ad Hamas. u La sera del 7 novembre il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha affermato che “le truppe israeliane sono ormai presenti nel cuore della città di Gaza”. Secondo le autorità di Hamas, l’offensiva israeliana nella Striscia ha causato 10.569 vittime, tra cui 4.324 bambini (dati dell’8 novembre). L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) ha annunciato che circa seicento persone con passaporto straniero e diciassette feriti sono stati trasferiti il 7 novembre in Egitto attraverso il valico di Rafah, l’unico non controllato da Israele. u Il 6 novembre le forze israeliane hanno arrestato l’attivista palestinese Ahed Tamimi, 22 anni, nel villaggio vicino a Ramallah dove vive. È accusata di “incitare alla violenza e ad attività terroristiche”. Dal 7 ottobre Israele ha arrestato in Cisgiordania 1.740 palestinesi e più di 150 sono stati uccisi da soldati o coloni. u Continuano le tensioni anche alla frontiera nord di Israele, tra l’esercito e la milizia libanese Hezbollah. Dal 7 ottobre sono morte ottanta persone dal lato libanese e otto da quello israeliano. Nel suo primo discorso, il 3 novembre, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha detto che “tutte le opzioni” sono aperte per un’espansione della guerra con Israele sul fronte libanese. u
degli ebrei” in un imperativo religioso millenaristico e sostenne la creazione di uno stato ebraico in Palestina come parte delle tappe che avrebbero portato alla resurrezione dei morti, al ritorno del messia e alla fine dei tempi. La teologia diventò politica verso la fine del secolo e negli anni precedenti alla prima guerra mondiale per due motivi. Innanzitutto, funzionava nell’interesse di chi nel Regno Unito desiderava smantellare l’impero ottomano e incorporarne alcune parti in quello britannico. In secondo luogo, ebbe risonanza tra gli esponenti ebrei e cristiani dell’aristocrazia britannica affascinati dall’idea del sionismo come panacea per il problema dell’antisemitismo nell’Europa centrale e orientale, che aveva prodotto una sgradita ondata d’immigrazione ebraica nel Regno Unito.
La memoria selettiva di Israele e dell’occidente
Punizione collettiva
ISRAELI DEFENCE FORCES/REUTERS/CONTRASTO
Un soldato israeliano nella Striscia di Gaza, il 7 novembre 2023
Ilan Pappé, Al Jazeera, Qatar Evitando di considerare le radici storiche di quello che succede, si confermano le politiche di occupazione in Palestina l 24 ottobre una dichiarazione del segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha provocato una brusca reazione di Israele. Rivolgendosi al Consiglio di sicurezza Guterres ha affermato che, pur condannando con la massima fermezza il massacro commesso da Hamas il 7 ottobre, desiderava ricordare al mondo che quell’attacco non è avvenuto nel vuoto. Ha spiegato che bisogna prendere in considerazione cinquantasei anni di occupazione quando si pensa alla tragedia che si è consumata quel giorno. I funzionari israeliani hanno subito condannato la dichiarazione e chiesto le dimissioni di Guterres, sostenendo che con le sue parole ha appoggiato Hamas e giustificato il massacro. I mezzi d’informazione israeliani si sono accodati, affermando che il capo dell’Onu “ha mostrato un livello sorprendente di bancarotta morale”.
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Questa reazione suggerisce il profilarsi di un nuovo tipo di accusa di antisemitismo. Fino al 7 ottobre Israele aveva spinto affinché la definizione di antisemitismo includesse le critiche allo stato di Israele e la contestazione delle basi morali del sionismo. Ma ora l’accusa di antisemitismo potrebbe scattare anche quando si cerca di contestualizzare e storicizzare quello che sta succedendo. Mettere fuori della storia questi eventi aiuta Israele e i governi occidentali a portare avanti politiche che in passato hanno evitato per considerazioni etiche, tattiche o strategiche. Così, Israele usa l’attacco del 7 ottobre come pretesto per attuare politiche genocide nella Striscia di Gaza, gli Stati Uniti lo usano per cercare di riaffermare la loro presenza in Medio Oriente e alcuni paesi europei per violare e limitare le libertà democratiche in nome di una nuova “guerra al terrorismo”. Ma sono diversi i contesti storici che non possono essere ignorati esaminando la situazione in Israele e Palestina. Il contesto più ampio risale alla metà dell’ottocento, quando il cristianesimo evangelico in occidente trasformò l’idea del “ritorno
Quando i due interessi si fusero, spinsero il governo britannico a rilasciare la famosa – o famigerata – dichiarazione Balfour del 1917. Gli intellettuali e gli attivisti ebrei che ridefinirono l’ebraismo come nazionalismo speravano che la dichiarazione avrebbe protetto le comunità ebraiche dal pericolo che correvano in Europa, individuando nella Palestina lo spazio desiderato per la “rinascita della nazione ebraica”. Il progetto culturale e intellettuale sionista si trasformò in un progetto coloniale, con l’obiettivo di conquistare la Palestina storica, ignorando il fatto che fosse già abitata da un’altra popolazione. A sua volta la società palestinese, all’epoca composta soprattutto da pastori e in una fase iniziale di modernizzazione e costruzione di un’identità nazionale, produsse un suo movimento anticoloniale. La sua prima azione significativa contro il progetto di colonizzazione sionista fu la rivolta di Al Buraq del 1929 e da allora non si è più fermata. Un altro contesto storico rilevante per la crisi attuale è la pulizia etnica della Palestina del 1948, quando i palestinesi furono espulsi nella Striscia di Gaza dai loro villaggi, sulle cui rovine nacquero alcuni degli insediamenti israeliani attaccati il 7 ottobre. Quei palestinesi facevano parte dei 750mila che persero le loro case e diventarono profughi. Il mondo si accorse di quella pulizia etnica ma non la condannò. Di conseguenza, Israele ha continuato a usarla coInternazionale 1537 | 10 novembre 2023
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In copertina me parte del suo sforzo per assicurarsi il controllo completo sulla Palestina storica, lasciando il minor numero possibile di palestinesi nativi. Questo ha comportato l’espulsione di 300mila palestinesi durante e dopo la guerra del 1967 e, da allora, di altri 600mila dalla Cisgiordania, da Gerusalemme e dalla Striscia di Gaza. Un altro contesto è quello dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Negli ultimi cinquant’anni le forze di occupazione hanno inflitto una punizione collettiva ai palestinesi di questi territori, esponendoli alle continue vessazioni dei coloni e delle forze di sicurezza e imprigionando centinaia di migliaia di persone. Dall’elezione dell’attuale governo fondamentalista israeliano nel novembre 2022, queste politiche sono state inasprite a livelli senza precedenti. Il numero di palestinesi uccisi, feriti e arrestati in Cisgiordania è altissimo. Inoltre, le politiche del governo israeliano nei confronti dei luoghi sacri cristiani e musulmani a Gerusalemme sono diventate ancora più aggressive. Infine, c’è anche il contesto storico dei 16 anni dell’assedio di Gaza, dove bambini e adolescenti sono quasi la metà della popolazione. Già nel 2018 l’Onu avvertiva che la Striscia di Gaza sarebbe diventata un luogo inadatto agli esseri umani entro il 2020. È importante ricordare che l’assedio è stato imposto in risposta alle elezioni democratiche vinte da Hamas dopo il ritiro unilaterale di Israele dal territorio. Ancora più importante è tornare indietro agli anni novanta, quando la Striscia di Gaza era circondata da filo spinato e scollegata dalla Cisgiordania occupata e da Gerusalemme Est all’indomani degli accordi di Oslo. L’isolamento di Gaza e l’aumento della presenza dei coloni ebrei in Cisgiordania erano una chiara indicazione del fatto che Oslo, agli occhi degli israeliani, significava un’occupazione con altri mezzi, non un percorso di pace autentico. Israele controllava i punti di uscita e di ingresso al ghetto di Gaza, monitorando anche il tipo di viveri che potevano entrare, a volte limitandoli a un certo numero di calorie. Hamas ha reagito a questo assedio lanciando razzi sulle aree civili di Israele. Il governo israeliano sosteneva che questi attacchi erano motivati dal desiderio ideologico del movimento di uccidere gli ebrei – una nuova forma di nazismo – ignorando il contesto della nakba (la
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“catastrofe”, cioè la cacciata dei palestinesi dalle loro terre nel 1948), dell’assedio disumano e barbarico imposto a due milioni di persone e dell’oppressione dei loro compatrioti in altre parti della Palestina.
Via di uscita Hamas è stato l’unico gruppo palestinese che ha promesso di vendicare o rispondere a queste politiche. Il modo in cui ha deciso di farlo, tuttavia, potrebbe determinare la sua stessa fine, almeno nella Striscia di Gaza, e potrebbe fornire un pretesto per opprimere ulteriormente i palestinesi. La ferocia dell’attacco non può essere giustificata in alcun modo, ma questo non significa che non possa essere spiegata e contestualizzata. Per quanto sia stato orribile, la cattiva notizia è che non servirà a cambiare le cose, nonostante l’enorme costo umano pagato da entrambe le parti. Cosa significa questo per il futuro? Israele rimarrà uno stato fondato da un movimento coloniale che continuerà a influenzare il suo dna politico e a determinare la sua natura ideologica. Anche se si definisce l’unica democrazia del Medio Oriente, rimarrà una democrazia solo per i suoi cittadini ebrei. La lotta interna tra lo “stato di Giudea” – composto da coloni sostenitori di un paese più teocratico e razzista – e “lo stato di Israele” – deciso a mantenere lo status quo – che ha preoccupato Israele fino al 7 ottobre, esploderà di nuovo. Ci sono già segni del suo ritorno. Israele continuerà a essere uno stato di apartheid, come dichiarato da varie organizzazioni per i diritti umani, comunque si evolva la situazione a Gaza. I palestinesi non scompariranno e continueranno la loro lotta di liberazione con molte società civili schierate al loro fianco, mentre i loro governi sostengono Israele e gli garantiscono un’immunità eccezionale. La via d’uscita rimane la stessa: un cambio di regime in Israele che dia uguali diritti a tutti dal fiume Giordano al mar Mediterraneo e permetta il ritorno dei rifugiati palestinesi. Altrimenti il ciclo di spargimenti di sangue sarà senza fine. u dl Ilan Pappé è uno storico israeliano. Ha insegnato storia e relazioni internazionali all’università di Haifa, in Israele, e dal 2007 insegna a Exeter, nel Regno Unito. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La prigione più grande del mondo (Fazi 2022).
Il commento
Altre espulsioni Amira Hass, Haaretz, Israele a pagina Facebook “HaBayit-ritorno alla Striscia di Gaza” è stata creata il 12 luglio del 2014. Il post del 12 ottobre 2023, sei giorni dopo l’attacco di Hamas in Israele, contiene un fotomontaggio che raffigura coloni ebrei felici per le strade di un insediamento, con la scritta: “Sento già i canti, le voci, Gaza cancellata, il nord annesso”. Il 23 ottobre Meir Dena-Picar, il creatore della pagina, ha proposto una soluzione che “eliminerà il problema di Gaza: rioccupazione della Striscia, distruzione dei tunnel e dei campi profughi, espulsione della popolazione nel sud”. Dena-Picar deride chiunque consideri il suo piano delirante. E ha ragione! Come dimostrano gli ultimi cinquant’anni, le allucinazioni di ogni colono dovrebbero essere prese sul serio e potrebbero diventare un programma per il prossimo governo o per quello attuale. E quando l’allucinazione si basa su progetti espliciti di distruzione totale ed espulsione di massa, le guerre sono lo strumento più adatto per la sua realizzazione. Per capire quanto queste idee siano tutt’altro che marginali basta guardare all’ex capo del Mossad Yossi Cohen, nominato “inviato per le missioni speciali” responsabile delle questioni relative al periodo postbellico. Yossi Verter ha scritto su Haaretz che una delle ipotesi considerate sarebbe di “trasferire nel Sinai gran parte della popolazione di Gaza con il consenso dell’Egitto”. La stessa fonte è certa che “Israele non permetterà a chi è scappato al sud di tornare nel nord”. È questo che l’esercito israeliano sta facendo oggi. Con pesanti bombardamenti spinge a sud la popolazione della metà settentrionale della Striscia, distruggendo tutto ciò che può. Alla fine della guerra potrebbe esserci un compromesso tra gli israeliani che chiedono l’espulsione totale e insediamenti in tutta la Striscia, chi si accontenta di insediamenti nell’80 per cento del territorio e chi sostiene l’espulsione parziale. u fdl
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DAN KITWOOD (GETTY)
Al funerale di due vittime degli attacchi di Hamas, Palmachim, 29 ottobre 2023
Per una nuova idea di sicurezza e sovranità Dana el Kurd, New Lines Magazine, Stati Uniti Una studiosa palestinese era al Museo ebraico di Berlino il giorno degli attacchi sferrati da Hamas o sentito il telefono vibrare in tasca, ma non volevo rispondere perché stavo entrando nella torre dell’olocausto del Museo ebraico di Berlino. Dovevo concentrarmi sul “vuoto svuotato” di quello spazio di cemento spoglio, accessibile da una sola porta e rischiarato da una lama di luce che arriva dall’alto. Sono rimasta in piedi al freddo e al buio per qualche minuto, assorbendo la sensazione di assenza e perdita. La stanza è in fondo al sentiero sotterraneo dell’edificio progettato dall’architetto Daniel Libeskind, aggiunto di recente al museo. La costruzione è pensata per restituire “il vuoto fisico che deriva dall’espulsione, dalla distruzione e dall’annientamento della vita degli ebrei durante la shoah”. Ero a Berlino per una conferenza e avevo dedicato il mio giorno libero al museo. La capitale tedesca, e il destino dei suoi
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ebrei, hanno sempre tormentato i miei pensieri di palestinese. Le atrocità dell’antisemitismo europeo sconvolsero tutto il mondo, compreso il nostro. E ancora oggi a Berlino la politica israelo-palestinese continua a essere al centro della scena. La città ospita importanti comunità di palestinesi, arabi e israeliani. Ma non solo: con il suo tentativo tardivo di affrontare l’antisemitismo, la Germania ha trasformato in bersagli i musulmani in generale, e i palestinesi della diaspora in particolare. Uscita dalla torre, prima di proseguire la visita, ho sbloccato il telefono. Avevo notifiche su tutte le chat e i social network. I miliziani di Hamas avevano sfondato la recinzione militarizzata che circonda la Striscia di Gaza, erano entrati negli insediamenti vicini al confine, uccidendo un numero imprecisato di persone e catturando ostaggi. Gli studiosi e gli attivisti con cui sono in contatto cercavano di dare un senso a quello che succedeva e che sarebbe successo. Ma io non ero realmente in grado di comprenderne la portata. Ho trascorso il resto della giornata oscillando tra la lettura dei pannelli informativi del museo e la ricerca di aggiorna-
menti sulle notizie. Ho imparato a conoscere gli ebrei delle città tedesche di Worms e Mainz, e la loro storia radicata nell’Ashkenaz (termine che indicava la regione a nord delle Alpi, ma poi è stato usato per parlare dell’Europa centrale e orientale). Ho appreso che quando l’Europa cristiana lanciò le crociate nel Levante uccidendo migliaia di musulmani attaccò anche le comunità di ebrei, incendiando i loro quartieri e cacciandoli dalle città. Intanto controllavo sul telefono l’ultimo bilancio delle vittime. Guardavo i video sulla vita degli ebrei tedeschi ai tempi della repubblica di Weimar e sui dibattiti dell’epoca tra gli assimilazionisti, cioè gli ebrei convinti di poter avere un posto nella società europea, e i sionisti, sostenitori della necessità di emigrare. Aggiornavo i liveblog per leggere le dichiarazioni dei leader di tutto il mondo, mentre il numero delle vittime cresceva. Era come impregnarmi della violenza di epoche diverse, con il sangue dell’una che si mescolava a quello dell’altra. Una serie di video mostrava la diversità della comunità ebraica. Tra le varie voci c’era quella di un anziano che si definiva orgogliosamente socialista. Alla domanda se si sentisse a casa in Germania, rispondeva: “Se non fosse stato creato Israele, non sarei rimasto in Europa”. È un sentimento familiare agli ebrei di tutto il mondo. In una realtà che aveva mostrato quanto gli assimiliazionisti si fossero sbagliati, Israele era la polizza assicurativa. Garantiva protezione agli ebrei. Finché fosse esistito, gli ebrei avrebbero potuto vivere ovunque sentendosi al sicuro. Ma era davvero così?
Profughi e sfollati La fondazione d’Israele diede effettivamente agli ebrei uno stato che li rappresentava, e questo ha un significato enorme per il popolo ebraico, e soprattutto per chi aveva avuto esperienza dell’olocausto nella propria famiglia. Ma dato che nella terra dove sarebbe nato Israele viveva già un’altra popolazione, parte di un’antica civiltà araba – i palestinesi, con il loro nazionalismo – quello stato comportava un prezzo altissimo. La formazione di un nuovo stato può essere un “processo che Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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In copertina genera profughi”, faceva notare quarant’anni fa il politologo Aristide Zolberg. Con la fondazione di Israele furono espulsi 750mila palestinesi, una massa di profughi e sfollati interni che accerchiavano il nuovo stato da ogni lato. Questi profughi sono aumentati a ogni nuova espansione territoriale di Israele, compresa l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967. A quelle persone fu negato il diritto di tornare nelle loro case, accrescendo la loro legittima rabbia. “Sicura” non è la parola che userei per descrivere questa situazione. Naturalmente i palestinesi non sono mai stati al sicuro. Israele ha mantenuto il controllo su questa popolazione con un’occupazione militare progressivamente più violenta, con un sistema complesso di permessi e lasciapassare, e politiche di esproprio che hanno spinto ad andarsene quelli che erano rimasti. Successivamente ha usato strumenti come il blocco terrestre, aereo e marittimo di Gaza, che continua a devastare generazioni di persone, e il muro di separazione alto nove metri che ha trasformato le cittadine della Cisgiordania in ghetti affollati, circondati da insediamenti ebraici in espansione (e pericolosamente pieni di armi). Come osserva lo storico Daniel B. Schwartz nel libro Ghetto. Storia di una parola (che sarà pubblicato in Italia da Hoepli), il ghetto occupa “un posto di primo piano in quasi tutti i principali sviluppi della storia moderna degli ebrei”. Israele è emerso come risposta al ghetto in cui avevano sofferto gli ebrei di tutto il mondo. Ai palestinesi non sfugge il paradosso di uno stato nato come “antitesi” al ghetto, ma che ricorre alla ghettizzazione come strategia di controllo. L’infrastruttura coercitiva è stata ovviamente accompagnata dall’onnipresente violenza fisica: incarcerazioni, demolizioni di case, bombardamenti aerei e così via.
Grandi accordi Le rivolte contro questa situazione e l’uso della violenza sono state frequenti. Per un po’ l’idea della soluzione dei due stati è sembrata una possibile via d’uscita. Ma è stata rapidamente abbandonata. Negli ultimi anni i funzionari israeliani e i loro interlocutori nella comunità internazionale non hanno neanche finto di cercare una soluzione. Persone coinvolte nei colloqui di pace, come il negoziatore statuni-
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tense Aaron David Miller, hanno ammesso di aver fallito a causa della propria parzialità, con gli inviati statunitensi che arrivavano a mettersi in cattiva luce pur di sostenere la posizione israeliana. Abbandonando la soluzione dei due stati la comunità internazionale – e soprattutto gli Stati Uniti – hanno permesso a Israele d’ignorare il problema, di espandere gli insediamenti e rendere ancora più insostenibile la vita dei palestinesi. Intanto lo stato ebraico concludeva accordi con altri governi della regione, accantonando del tutto la questione. Se si parla dei palestinesi, nel migliore dei casi è per sottoli-
“Sicura” non è la parola che userei per descrivere questa situazione neare i piccoli miglioramenti delle loro condizioni di vita grazie agli incentivi economici, o nel peggiore per chiedersi (come ha fatto il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich) quando i palestinesi “si arrenderanno o si trasferiranno”. Per chi osserva la politica israeliana e palestinese con un minimo di onestà, gli eventi del 7 ottobre sono stati sconvolgenti e orribili, ma non sorprendenti. I movimenti di protesta palestinesi erano già stati repressi, la società civile bersagliata e svuotata, e praticamente ogni forma di attivismo politico a favore dei palestinesi criminalizzata. Inoltre i palestinesi hanno assistito alla firma di “grandi accordi di pace” che hanno dato per scontata la loro sottomissione e sono stati celebrati da autoproclamati difensori della democrazia, come gli Stati Uniti, insieme a regimi autoritari come quelli degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein. La violenza era presente, cresceva, e l’esplosione si avvicinava. Non era questione di se, ma di quando. La barbarie dell’occidente spinse gli ebrei che avevano vissuto in Europa per secoli a cercare la sicurezza lontano dall’antisemitismo, che sembrava resistere a ogni tentativo di assimilazione. Ora l’ipocrisia dell’occidente – che accetta ogni decisione di Israele, inviandogli armi, bloccando gli aiuti umanitari ed emarginando i palestinesi – alimenta la violenza che minaccia di far precipitare la regio-
ne nel caos, con effetti su tutto il mondo. Questa dinamica è sempre stata pericolosa per ognuna delle parti coinvolte, ma per un po’ è stato facile ignorarla perché erano i palestinesi a sopportarne il peso. Un attacco come quello del 7 ottobre ha sconvolto il mondo. Ma questo dimostra anche che il mondo ha da tempo normalizzato la mancanza di sicurezza per qualcuno. La risposta per garantire sicurezza e protezione, agli ebrei e agli altri, continua a essere legata allo stato-nazione e alla sua sovranità, ai confini militarizzati e all’ossessione per la demografia. Ma come dimostra la storia moderna idee simili possono portare con sé politiche basate sull’esclusione e violenze di massa. Forse la cosa peggiore è che si afferma un concetto limitato di sicurezza, cioè che sia lo stato a dover essere difeso, non le persone. Che sia lo stato a detenere la sovranità, non il popolo. Questa logica porta con sé delle politiche in base alle quali alcuni elementi della società sono considerati una perdita accettabile nei conflitti, sacrificabili in nome dello stato. Inoltre facilita una visione essenzialista del mondo, che non tiene conto della storia delle migrazioni umane e non lascia spazio a una fluidità dell’identità.
Cambio di paradigma Gli eventi attuali, invece, dovrebbero farci capire che, se l’unica “soluzione” proposta è mantenere lo status quo, tutte le strade conducono necessariamente alla violenza. Per metterle fine bisogna trovare soluzioni ai problemi che la alimentano. Per esempio, organizzazioni palestinesi come Al Haq hanno fatto notare che, alla luce di un’occupazione permanente, il dominio israeliano può essere considerato apartheid. In seguito, anche ong come Amnesty international e Human rights watch sono arrivate alla stessa conclusione. I sostenitori dei diritti umani hanno cercato di affrontare la situazione partendo dai diritti, mentre studiosi come Leila Farsakh, Nicola Perugini e Rana Barakat hanno proposto di usare il colonialismo come quadro di riferimento per studiare le dinamiche in Palestina. Gli attivisti della One democratic state campaign hanno sostenuto che la soluzione dei due stati non è più praticabile e hanno provato a immaginare come si presenterebbe uno stato unico. È chiaro che nessuno di questi dibattiti ha avuto effetti concreti, perché
YASSER QUDIH (AFP/GETTY)
In fuga da un bombardamento sul campo profughi Al Maghazi, Striscia di Gaza, 6 novembre 2023 Israele non si siede al tavolo dei negoziati. E tenuto conto della svolta a destra del suo governo continuerà a non farlo. La comunità internazionale doveva intervenire, ma non l’ha fatto. Ha permesso a se stessa e a Israele di pensare che si poteva mantenere la sicurezza solo con la forza, lasciando il campo libero agli elementi più estremisti. E ora non impedisce crimini di guerra e trasferimenti forzati. Ovviamente i protagonisti di un conflitto e della comunità internazionale hanno un potere d’azione, e possono fare scelte diverse. Questo valeva per le milizie sioniste prima del 1948 e per il nuovo stato di Israele, che ha cacciato i palestinesi e spesso ha attaccato i civili. Vale per la condotta di Israele a Gaza, dove finora sono state uccise più di diecimila persone. Vale anche per gruppi come Hamas. L’organizzazione è nata trentanove anni dopo la nascita di Israele, dopo gli sfollati del 1948, l’occupazione dei territori palestinesi nel 1967 e gli scontri che per decenni hanno caratterizzato il conflitto araboisraeliano. Tuttavia, come fa notare lo studioso palestinese Tareq Baconi sul New Yorker, se non ci fosse stata Hamas, un’al-
tra organizzazione avrebbe preso il suo posto. Ma neanche le azioni di Hamas erano inevitabili, come non lo era la presa degli ostaggi e l’attacco ai civili, osserva l’intellettuale palestinese Azmi Bishara. In proposito, Baconi puntualizza che “la violenza coloniale instilla la disumanizzazione sia nell’oppressore sia nell’oppresso” e che “non tutta la violenza serve a perseguire un progetto politico”. Sembra che la probabilità che si faccia ricorso a una “violenza sadica” aumenti in modo esponenziale se ci si trova in una situazione di violenza permanente. È necessario abbandonare la convinzione che lo stato-nazione sia l’unica fonte di sicurezza e che la sovranità si basi sullo stato. Sono i popoli ad avere la sovranità: le persone hanno il diritto a una vita dignitosa, all’autodeterminazione, al controllo sul loro ambiente e alla possibilità di esprimersi sul loro futuro. I popoli possono essere sicuri solo collettivamente, assicurandosi che anche chi gli sta intorno si senta protetto. Gli stati sono il modo in cui organizziamo il nostro mondo e possono fornire delle forme di sicurezza, che però spesso sono limitate e vanno a discapito
della sicurezza di altri. Lo stato che continua a negare la sovranità di un altro popolo non può fornire sicurezza. Nel nome della sovranità e della sicurezza continuerà a causare violenza. Lo shock di assorbire decenni di atrocità mi ha sconvolto, e ho lasciato il Museo ebraico prima della chiusura per vagabondare un po’ in giro, per quelle strade da cui gli ebrei erano stati cancellati. Sono passata davanti a quel che resta della facciata della Anhalter bahnhof, la stazione che fu usata per deportare gli ebrei berlinesi. Non possiamo dire che quei fatti siano ormai relegati alla storia: ancora oggi si sentono gli effetti della violenza suprematista bianca europea. Ero troppo annebbiata per piangere, ma sapevo che stavano per arrivare altre atrocità. Il mondo non aveva ancora imparato che l’unico modo per garantire la sicurezza è capire che è una questione di relazioni. u gim Dana el Kurd è una ricercatrice palestinese, esperta di regimi autoritari nel mondo arabo. Insegna scienze politiche all’università di Richmond, negli Stati Uniti. Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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CREDIT: DIALLO ABDOUL AZIZ (AP/LAPRESSE)
Africa e Medio Oriente
GUINEA
In fuga per poche ore
SUDAN
Un dilemma energetico
Bombe sul mercato
Jeune Afrique, Francia
Il 2 novembre almeno quindici civili sono rimasti uccisi quando dei colpi di artiglieria sono finiti su alcune abitazioni a Khartoum, la capitale del Sudan. Il giorno dopo più di venti persone sono morte in un bombardamento su un mercato alla periferia della città. Ci sono stati scontri violenti anche il 7 novembre intorno a un’importante raffineria a 70 chilometri da Khartoum, e ad Al Fashir, nel Nord Darfur. Da aprile le forze guidate dal capo dell’esercito Abdel Fattah al Burhan si scontrano con quelle comandate dal suo ex vice Mohamed Hamdan Dagalo. A Jedda, in Arabia Saudita, sono tuttora in corso dei colloqui tra le due parti per un cessate il fuoco temporaneo, ricorda il quotidiano panarabo Asharq al Awsat.
“Per mantenere il pianeta abitabile la maggioranza delle riserve di petrolio e di gas devono rimanere sottoterra. Le raccomandazioni del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) sono chiare, la loro applicazione molto meno. Chi deve sfruttare quel che si può estrarre? A rigor di logica, i governi africani. Ma i paesi occidentali li costringono a praticare una moderazione che loro invece rifiutano”, scrive Jeune Afrique in vista della conferenza sul clima Cop28, che s’inaugura alla fine del mese negli Emirati Arabi Uniti. “Invocando il diritto degli africani a sfruttare le proprie risorse, alcuni leader hanno lanciato dei progetti estrattivi, ma i combustibili fossili contribuiranno davvero allo sviluppo dei loro paesi? Questi progetti sono spesso portati avanti da aziende straniere e hanno subìto un’accelerazione da quando l’Europa cerca di fare a meno del gas russo”. Jeune Afrique ricorda che in Africa il 40 per cento della produzione petrolifera è in mano a stranieri e che tra le prime dieci aziende proprietarie di nuovi giacimenti di gas solo due sono del continente: l’algerina Sonatrach e la mozambicana Enh. ◆
CAMERUN
ARABIA SAUDITA
Una ribellione violenta
Vittoria facile
Almeno 25 persone, tra cui donne e bambini, sono state uccise il 6 novembre da un gruppo armato nel villaggio di Egbekaw, nell’ovest del Camerun, scrive Africa News. Altre dieci sono rimaste ferite. L’attacco non è stato rivendicato, ma le autorità hanno attribuito il massacro ai separatisti delle regioni anglofone, che da sette anni si scontrano con l’esercito. I ribelli dell’Ambazonia – il nome dello stato di cui hanno unilateralmente proclamato l’indipendenza nel 2017 – in passato hanno assalito anche civili accusati di collaborare con il governo del presidente Paul Biya.
“Per la terza volta da quando si disputano i Mondiali di calcio organizzati dalla Fifa, il campionato si giocherà in Asia, visto che l’Arabia Saudita è stata l’unica a proporsi per ospitare il torneo nel 2034. È un segno del potere crescente esercitato da questa parte del mondo, potere che per l’Arabia Saudita si è manifestato con un’inaspettata rapidità”, scrive il sito saudita Arab News commentando la notizia dell’assegnazione, ormai scontata, dell’edizione 2034 al regno, dopo che l’Australia ha ritirato la sua candidatura. Secondo il quotidiano britannico Financial Times,
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l’affermazione saudita “è il risultato di un’ampia operazione di lobby e di pubbliche relazioni con cui il governo di Riyadh ha cercato di aumentare la sua influenza nello sport internazionale”. Il giornale cita un rapporto dell’organizzazione danese Play the game secondo cui dall’estate del 2023 i sauditi hanno concluso trecento accordi per sponsorizzazioni sportive, di cui 84 nel calcio. Allo stesso tempo, sostiene il quotidiano, l’Arabia Saudita ha approfittato di un cambio delle regole interne alla Fifa con cui sono designati i paesi ospitanti. Secondo alcune voci critiche questi nuovi meccanismi segnano un ritorno al passato, dal momento che non vanno nella direzione di una maggiore trasparenza e responsabilità.
IN BREVE
Iran L’attivista Narges Mohammadi (nella foto), premio Nobel per la pace 2023, ha cominciato uno sciopero della fame in prigione per protestare contro la carenza di cure mediche per i detenuti e l’obbligo per le donne d’indossare il velo, ha annunciato la sua famiglia il 6 novembre. Diplomazia Il 6 novembre il Sudafrica ha richiamato i suoi diplomatici da Tel Aviv, in segno di protesta per un violento bombardamento condotto su Gaza dalle forze israeliane la notte precedente. Anche il Ciad, due giorni prima, aveva richiamato il suo rappresentante.
REIHANE TARAVATI (MIDDLE EAST IMAGES/AFP/GETTY)
Il 4 novembre è stato preso d’assalto un carcere di Conakry, la capitale della Guinea, in cui era rinchiuso l’ex dittatore Moussa Dadis Camara (nella foto). L’attacco, in cui sono morte nove persone, ha permesso a Camara e ad altre tre persone di evadere. I fuggitivi sono stati catturati dopo poche ore, tranne uno che resta a piede libero. Secondo il sito Le Djely, si teme che l’accaduto possa compromettere il processo su un massacro compiuto dalle forze di sicurezza guineane nel 2009, in cui Camara è il principale accusato.
AMBIENTE
in sanatori e luoghi di cura, è l’epicentro di una raffinata narrazione che trasforma il microcosmo sociale dei malati nello specchio dei mutamenti di un’intera epoca.
Luogo simbolico, mondo nel mondo, l’ospedale di Kovin diventa l’affresco di una società smemorata che ha deciso di dimenticare le sue guerre e, come è stato con altre opere del Novecento ambientate
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Americhe
FELIX MARQUEZ (AP/LAPRESSE)
Una zona danneggiata dall’uragano Otis ad Acapulco, 29 ottobre 2023
minimo dell’arrivo dell’uragano e non hanno valutato la sua forza in modo corretto. La sindaca di Acapulco, Abelina López, ha chiesto ai cittadini di prepararsi per le piogge abbondanti di un uragano che avrebbe potuto raggiungere categoria 4 alle 15.45. Alle 18 il centro nazionale uragani degli Stati Uniti e il servizio meteorologico messicano hanno confermato che Otis avrebbe toccato terra con il rischio più alto, cioè categoria 5. Due ore dopo la governatrice di Guerrero, Evelyn Salgado, e López Obrador hanno esortato la popolazione a cercare riparo. Ma centinaia di imbarcazioni sorvegliate dai marinai sono rimaste nella baia di Acapulco.
Inevitabile incertezza MESSICO
Ricostruire Acapulco è una sfida per Obrador Beatriz Guillén, El País, Spagna L’uragano Otis ha colpito con violenza la città costiera e lo stato di Guerrero, tra i più poveri del Messico. Il presidente deve gestire l’emergenza e preparare le elezioni del 2024 ono passate 12 ore e 25 minuti da quando è stato chiaro che Otis era diventato un uragano al momento in cui ha devastato Acapulco, in Messico, il 24 ottobre. Otis, una tempesta tropicale che si era formata a circa cinquecento chilometri dalla città costiera, ha toccato terra come uragano di categoria 5. Nessuno era preparato ad affrontare venti che soffiavano a più di 250 chilometri orari. Finora il bilancio ufficiale è di 47 morti e 59 dispersi, 580mila persone hanno subìto danni, settemila ettari di terreno sono pieni di edifici distrutti, novecento chilometri di strade sono state colpite. In una città che vive di turismo, l’80 per cento degli alberghi è danneggiato. Per la ricostruzione, secondo il governo, ci vorranno almeno 61 miliardi di pe-
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sos (circa tre miliardi di euro). La risposta alla catastrofe segnerà l’ultimo anno di presidenza di Andrés Manuel López Obrador. Otis è una sfida inaspettata per il governo: nella storia del paese ci sono stati solo sei uragani di categoria 5. L’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha definito Otis uno degli uragani che più velocemente si è intensificato da quando ci sono le misurazioni. Il riscaldamento degli oceani sta creando le condizioni perfette per aumentare la forza e la frequenza di questi fenomeni. Il governo dello stato di Guerrero e quello federale hanno dato un preavviso STATI UNITI
MESSICO
Oceano Pacifico
Golfo del Messico
Città del Messico Puebla Guerrero Acapulco
GUATEMALA 250 km
“Otis non poteva essere previsto per due motivi: servono buone informazioni e noi non le avevamo, e poi nei modelli c’è sempre un grado di incertezza”, dice Gian Carlo Delgado, ricercatore all’istituto di geografia dell’Università nazionale autonoma del Messico (Unam). “Il Messico ha sei radar Doppler (uno è in manutenzione) ma date le sue dimensioni dovrebbe averne trenta. I pochi aerei a disposizione per valutare la velocità reale degli uragani il 24 ottobre erano nel golfo del Messico, quindi è stato un aereo statunitense ad avvisare che la velocità reale di Otis era di 270 chilometri orari”. Secondo Delgado, “se non riduciamo le emissioni di gas serra, il futuro sarà questo”. L’uragano ha colpito il secondo stato più povero del Messico. In base ai dati del Consiglio nazionale di valutazione della politica di sviluppo sociale, il 60 per cento della popolazione di Guerrero vive in povertà e il 25 per cento in estrema povertà. Il motore dell’economia e della mobilità sociale della regione era Acapulco, una città con uno dei tassi di omicidi più alti del mondo e centinaia di migliaia di persone povere. Ad Acapulco i messicani ricchi vanno per il fine settimana, in appartamenti in zone esclusive della città. La disuguaglianza esisteva già, ma Otis l’ha portata sotto gli occhi di tutti. Mentre gli hotel hanno mandato via i turisti con i pullman e i proprietari degli appartamenti di fronte al mare sono rientrati nelle loro case a Puebla o a Città del Messico, i cuochi, i camerieri e il personale degli alberghi sono rimasti. Provviste e acqua sono arrivate nei quartieri più centrali dopo quattro giorni e dopo una Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Americhe CILE
La costituzione è pronta “Dopo cinque mesi di lavoro, il 7 novembre il consiglio costituzionale guidato da Beatriz Hevia (centrodestra) ha consegnato al presidente cileno Gabriel Boric il testo della nuova costituzione, che sarà sottoposto a referendum con voto obbligatorio il prossimo 17 dicembre”, scrive il quotidiano La Tercera. È la seconda volta in poco più di un anno che il Cile cerca di sostituire la costituzione in vigore, scritta durante la dittatura di Augusto Pinochet. A settembre del 2022 i cileni avevano respinto il primo testo. Questa nuova costituzione ha un impianto molto più conservatore.
La strategia di ricostruzione presentata dal governo prevede il pagamento anticipato delle pensioni, una proroga di sei mesi dei pagamenti dei mutui, l’esenzione dal pagamento delle bollette dell’elettricità fino al febbraio 2024, la distribuzione settimanale di un paniere di base per 250mila famiglie per tre mesi, un contributo tra gli ottomila e i 60mila pesos per le case colpite e prestiti agevolati. “Bisogna affrontare l’emergenza immediata, ma pensare anche alla ricostruzione, che va realizzata in modo diverso rispetto al passato, altrimenti i problemi si ripeteranno”, dice Delgado. Secondo lui, occorre creare sulla spiaggia una fascia di rispetto dove non si può edificare, obbligando i grandi alberghi in riva al mare ad arretrare; piantare mangrovie (catturano CO2, aiutano la biodiversità e fanno da cuscinetto contro eventuali uragani); scegliere con cura materiali e tecniche di costruzione. Ma è possibile fare tutto questo ad Acapulco durante uno stato di emergenza? “Ci saranno resistenze ai cambiamenti”, dice Delgado. “Stanno rimettendo a posto i diecimila pali della luce, però questa volta i cavi elettrici dovrebbero essere interrati. Molto dipenderà dalla capacità di negoziazione delle autorità ai vari livelli di governo. Le cose potevano andare peggio, per esempio se Otis fosse arrivato nel 2020, durante la pandemia di covid-19 e senza vaccini. Quindi oltre a ricostruire bisogna rafforzare anche la sanità”. u fr
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CLAUDIA MORALES (REUTERS/CONTRASTO)
Cambiare rispetto al passato
BOLIVIA–PERÙ
Poca acqua nel lago Titicaca “In alcuni punti il lago Titicaca (nella foto), la distesa d’acqua dolce più alta del mondo (3.810 metri sul livello del mare), al confine tra Perù e Bolivia, si è ritirato di due chilometri a causa di una siccità eccezionale e degli effetti della deforestazione in Amazzonia”, scrive Salud con Lupa. Secondo il Servizio nazionale di meteorologia e idrologia del Perù, da aprile il livello delle acque è diminuito in media di sessanta centimetri.
STATI UNITI
Trump al contrattacco New York, 6 novembre 2023 JABIN BOTSFORD (THE WASHINGTON POST/GETTY)
settimana nelle zone più isolate. In altre aree gli aiuti saranno consegnati in elicottero, perché le strade non sono ancora percorribili. L’uragano ha lasciato quasi un milione di persone senza elettricità, acqua potabile, viveri e carburante. “La fornitura idrica è stata interrotta e la mancanza di elettricità impedisce la refrigerazione degli alimenti. Nelle aree colpite le persone cominciano a bere l’acqua dei fiumi e le infezioni parassitarie si moltiplicano”, spiega Giorgio Franyuti, direttore dell’ong Medical impact. La priorità, dice, è ristabilire i servizi igienici e fognari di base, prevenire la diffusione delle zanzare, depurare l’acqua, fornire i farmaci per le malattie croniche come il diabete o la pressione alta, antifungini, antiparassitari e antibiotici. Bisogna evitare che scoppi un’epidemia di dengue.
Il 6 novembre l’ex presidente Donald Trump ha testimoniato in un tribunale di New York nella causa civile per truffa in cui è imputato insieme ai figli e ad altri dirigenti dell’azienda di famiglia, la Trump Organization. Secondo la procuratrice Letitia James avrebbero manipolato la valutazione degli immobili della società per ingannare gli assicuratori e le autorità finanziarie, con l’obiettivo di ottenere tassi migliori sui prestiti bancari e sulle polizze. “In questo modo l’azienda avrebbe guadagnato circa 250 milioni di dollari”, scrive il Wall Street Journal. Se condannato, Trump rischia di perdere il controllo di una parte del suo impero immobiliare e di non poter più svolgere attività imprenditoriali a New York. Nella sua deposizione l’ex presidente, che è candidato alle elezioni del 2024, ha detto che James è una “politica di basso livello” e ha definito il giudice del processo, Arthur Engoron, un “magistrato ostile”. Ha risposto alle domande in modo evasivo, sostenendo di essere vittima di una persecuzione politica, al punto che Engoron è dovuto intervenire per dirgli: “Risponda solo alle domande, nessun comizio per favore”. Nei prossimi mesi Trump dovrà affrontare anche quattro processi penali. Il suo consenso tra gli elettori repubblicani è in crescita. Inoltre, secondo un recente sondaggio del New York Times, è in vantaggio sul presidente Joe Biden in alcuni stati chiave. Intanto il 7 novembre si è votato per eleggere i governatori di due stati e per una serie di referendum. Il risultato più importante è arrivato dall’Ohio, dove gli elettori hanno deciso di inserire il diritto all’aborto nella costituzione statale. “A dimostrazione che tanti statunitensi, non solo di sinistra, sono preoccupati dagli attacchi dei repubblicani ai diritti riproduttivi delle donne”, scrive l’Atlantic. u
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Europa
UKRAINIAN PRESIDENTIAL PRESS SERVICE/REUTERS/CONTRASTO
Volodymyr Zelenskyj e Ursula von der Leyen a Kiev, il 4 novembre 2023
incentivo a proseguire sulla strada delle difficili riforme necessarie al paese”, ha sottolineato Žernakov. Le decisioni sull’allargamento devono essere prese all’unanimità dai 27 paesi dell’Unione europea. A ottobre il primo ministro ungherese Viktor Orbán aveva chiesto una nuova strategia comune nei confronti dell’Ucraina, sostenendo che quella adottata finora si è dimostrata fallimentare. Anche il nuovo primo ministro slovacco, il populista Robert Fico, ha criticato il sostegno militare accordato a Kiev. Altri paesi europei, pur sostenendo politicamente l’allargamento, ritengono che debba essere affiancato da una riforma interna dei meccanismi di funzionamento dell’Unione.
Sicurezza e riforme UCRAINA
Kiev si avvicina all’Europa B. Moens, E. Braun e V. Melkozerova, Politico, Belgio Mentre l’attenzione del mondo è concentrata sul Medio Oriente e la guerra è in stallo, gli ucraini cercano di conservare il sostegno dell’occidente e puntano sull’adesione all’Unione europea a presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha visitato Kiev il 4 novembre per rassicurare il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj che Bruxelles continuerà a sostenere l’Ucraina, in una fase in cui cresce il timore che il conflitto tra Israele e Hamas possa distogliere l’attenzione dalla guerra in Europa. La visita di von der Leyen nella capitale ucraina si è svolta prima della pubblicazione, l’8 novembre, del rapporto sui progressi fatti dall’Ucraina e dagli altri paesi candidati all’ingresso nell’Unione europea. Von der Leyen ha lasciato intendere che la Commissione raccomanderà ai paesi dell’Unione di avviare rapidamente le trattative con Kiev. “Sono fidu-
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ciosa che possiate raggiungere il vostro ambizioso obiettivo, cioè la storica decisione di aprire il processo di adesione già quest’anno”, ha detto la presidente della Commissione davanti al parlamento ucraino. Poche ore prima aveva sottolineato gli “eccellenti progressi” fatti dal paese. Per avviare il negoziato l’Ucraina deve rispettare sette condizioni poste dalla Commissione, tra cui la riduzione della corruzione e una serie di riforme in ambito giudiziario. In base alla valutazione di Bruxelles, i leader europei stabiliranno nel consiglio europeo di metà dicembre se cominciare i colloqui formali con l’Ucraina. Mykhailo Žernakov, presidente del consiglio di amministrazione della fondazione ucraina Dejure e spesso molto critico nei confronti del governo ucraino, ci ha detto di aver notato progressi significativi nelle riforme giudiziarie, aggiungendo però che c’è ancora molto lavoro da fare. “Bisogna riconoscere i passi avanti dell’Ucraina, e farlo subito, altrimenti i nostri politici non avranno nessun
Secondo Lukáš Macek, del centro studi francese Institut Jacques Delors, l’incontro di dicembre sarà decisivo: “I paesi dell’Europa centrale sono sostenitori entusiasti dell’allargamento, ma mi chiedo se non cambieranno gradualmente opinione quando capiranno che i nuovi arrivati li priveranno di alcuni vantaggi, a cominciare dai fondi comunitari”, sottolinea, riferendosi in particolare alle recenti tensioni tra Varsavia e Kiev a proposito delle esportazioni di grano ucraino. Durante la visita di von der Leyen, tanto Zelenskyj quanto la vicepremier Olga Stefanišyna, con delega all’integrazione europea, hanno rilasciato commenti ottimistici sul futuro del processo di adesione. In una conferenza stampa congiunta con von der Leyen, Zelenskyj ha precisato che “le raccomandazioni necessarie per avviare il negoziato sono state rispettate. Ma l’Ucraina non ha intenzione di fermarsi al rinnovamento delle istituzioni. Le riforme continueranno”. Rispetto alla possibilità di incontrare le resistenze di alcuni paesi europei, Stefanišyna ha dichiarato: “Anche se l’Ungheria sfrutterà la situazione per le sue speculazioni politiche, sono convinta che ci sarà un generale consenso”. Uno degli obiettivi della visita di von der Leyen era dimostrare a Kiev che Bruxelles è ancora determinata a sostenerla, anche se il conflitto tra Israele e Hamas rischia di far dimenticare la guerra in Ucraina. I leader internazionali fanno la spola con il Medio Oriente e gli Stati Uniti in particolare sembrano distratti da ciò
Guerra d’attrito
La versione del generale u In un’intervista pubblicata il 1 novembre 2023 dall’Economist, il generale Valerij Zalužnyj, comandante in capo dell’esercito ucraino, ha detto che “proprio come nella prima guerra mondiale, abbiamo raggiunto un livello di tecnologia che ci mette in una situazione di stallo. [...] Il fatto è che oggi possiamo vedere tutto ciò che fa il nemico, come il nemico vede tutto quello che facciamo noi. Per dare una svolta alla guerra avremmo bisogno di una grande innovazione, come fu l’invenzione cinese della polvere da sparo. [...] Il rischio più grande di una guerra d’attrito è che possa prolungare le ostilità per anni, logorando lo stato ucraino. Dobbiamo quindi trovare al più presto quest’elemento di rottura e imparare a usarlo per arrivare rapidamente alla vittoria. Perché prima o poi ci renderemo conto che non abbiamo abbastanza uomini per continuare a combattere”.
POLONIA
EUROPA
I sovranisti prendono tempo
I danni di Ciarán Île-Tudy, Francia, 2 novembre 2023
FRED TANNEAU (AFP/GETTY)
Il presidente polacco Andrzej Duda ha dato l’incarico di formare il governo al premier uscente Mateusz Morawiecki (nella foto), del partito ultraconservatore Diritto e giustizia (Pis), che ha ricevuto più voti alle elezioni del 15 ottobre, ma è stato sconfitto dalle forze d’0pposizione e non ha i numeri per governare.“Duda ha fatto gli interessi del suo vecchio partito”, scrive Rzeczpospolita. “La sua decisione manterrà il Pis al potere per qualche altra settimana, dandogli la possibilità di cercare una maggioranza parlamentare. Un obiettivo però difficilmente raggiungibile”.
GERMANIA
Oltre alle sette persone morte in Toscana, dove le autorità hanno dichiarato lo stato d’emergenza, la tempesta Ciarán ha causato almeno altre otto vittime e gravi danni in tutta Europa. Tre persone sono morte in Portogallo quando le onde hanno sbattuto un’imbarcazione sulla costa a nord di Lisbona. In Belgio, a Gand, la caduta di rami ha ucciso un bambino ucraino di cinque anni e una donna di 64 anni. La caduta di alberi ha ucciso un camionista nel nord della Francia, dove il maltempo è stato particolarmente forte e ha lasciato più di un milione di persone senza elettricità, scrive France 24. Ci sono state vittime anche nei Paesi Bassi, in Spagna e in Germania. Nel sud dell’Inghilterra centinaia di scuole sono state chiuse a causa delle onde altissime che si sono abbattute lungo la costa alimentate da venti a 135 chilometri orari. Aerei, treni e traghetti hanno registrato cancellazioni e ritardi in vari paesi.
Regole più dure per i migranti
PORTOGALLO
YVES HERMAN (REUTERS/CONTRASTO)
che succede in Israele; inoltre, in vista delle presidenziali del 2024, il paese è diviso sull’invio di nuove forniture militari a Kiev. In conferenza stampa, Zelenskyj ha detto di essere convinto che il sostegno all’Ucraina resterà inalterato, anche se “la guerra in Medio Oriente sta catalizzando l’attenzione internazionale”. Tuttavia, il rinnovato impegno dell’Unione europea per Kiev arriva mentre il conflitto sembra essersi ridotto a una guerra di trincea, secondo quanto ha dichiarato il comandante in capo dell’esercito ucraino Valerij Zalužnyj in un’intervista all’Economist. Zelenskyj ha però subito smentito le parole del suo generale: “Siamo tutti stanchi e ci sono opinioni diverse sul confitto. Ma non siamo in situazione di stallo”. Tutto questo fa capire che l’occidente dovrebbe prepararsi alla possibilità che la guerra in Ucraina si trascini ancora per molto tempo, magari trasformandosi in un “conflitto congelato”, come in Corea del Nord. “La sicurezza è un aspetto cruciale del processo di adesione”, spiega Kai-Olaf Lang, dell’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza, aggiungendo che la solidarietà e le considerazioni geopolitiche avranno anch’esse un ruolo fondamentale. Secondo Lang, una cosa è negoziare e fare le riforme, un’altra è invece garantire la sicurezza di Kiev una volta che l’Ucraina sarà diventata a tutti gli effetti un paese dell’Unione europea. u as
Il cancelliere Olaf Scholz e i capi di governo dei 16 land hanno concordato alcune misure per scoraggiare l’arrivo di migranti. Secondo la Taz il piano, che entrerà in vigore nel 2024, prevede il taglio dei sussidi economici per gli immigrati, l’impiego dei richiedenti asilo in lavori di pubblica utilità, l’accelerazione delle procedure di richiesta di asilo che dovranno durare al massimo sei mesi, compresi i tempi per l’appello.
Costa esce di scena Il 7 novembre il primo ministro socialista António Costa si è dimesso. In carica dal 2015, il premier è indagato nell’ambito di un’inchiesta su corruzione, traffico di influenze e abuso d’ufficio in progetti legati alla transizione energetica, in particolare all’estrazione di litio e alla produzione di idrogeno verde. La polizia ha fatto decine di perquisi-
zioni e ha arrestato cinque persone, tra cui il capo dello staff di Costa, Vítor Escária, e l’uomo d’affari Diogo Lacerda Machado, che fa parte della cerchia ristretta del leader. A lui in passato era stato affidato uno dei progetti di punta del governo: la nazionalizzazione della compagnia aerea Tap. Secondo Público “Costa si sacrifica in nome della dignità della repubblica, forse con un certo sollievo, perché evita un terzo mandato che gli è sempre sembrato troppo pesante”.
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Asia e Pacifico CINA
Perché Pechino tende la mano ai taliban Tom Harper, The Conversation, Australia I buoni rapporti con i leader afgani dovrebbero servire a controllare l’estremismo islamico che minaccia la nuova via della seta. E sono la prova dei nuovi legami con il mondo musulmano a presenza dei taliban al vertice che si è tenuto a ottobre a Pechino per celebrare il decimo anniversario della Belt and road initiative (Bri o nuova via della seta), l’ambizioso progetto infrastrutturale della Cina, fa parte di una più ampia strategia regionale cinese. Si è trattato di uno dei pochissimi viaggi all’estero per i taliban da quando hanno preso il potere in Afghanistan nel 2021. Il ministro ad interim del commercio, Haji Nooruddin Azizi, ha detto addirittura che Kabul vorrebbe aderire alla Bri. L’idea di un gruppo islamista che si allea con la Cina, un paese che si definisce
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EBRAHIM NOROOZI (AP/LAPRESSE)
Alla commemorazione del Mullah Omar, Kabul, 11 maggio 2023
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laico e comunista, potrebbe oppure sorprendente. In realtà è una conseguenza logica dei timori di Pechino per la militanza islamista dentro e fuori i suoi confini. E fa parte del rafforzamento dei legami tra la Cina e tanti paesi musulmani avvenuto negli ultimi anni. Per comprendere cosa spinga Pechino a rinsaldare i legami con Kabul basta esaminare la storia recente dell’Afghanistan. Dopo la fine della guerra seguita all’invasione dell’Unione Sovietica (1979-1989) e la caduta del governo di Kabul insediato da Mosca nel 1992, l’Afghanistan è diventato un covo del fondamentalismo islamico. Ha attirato militanti da tutto il mondo, dai separatisti ceceni in lotta contro la Russia di Boris Elcin al gruppo islamista filippino Abu Sayyaf. La Cina è stata un’importante sostenitrice dei mujahidin, il gruppo islamico che controllò il paese dal 1978 al 1992, a cui fornì armi e addestramento contro le truppe di Mosca, sua principale rivale comunista, e per rafforzare i legami con gli Stati Uniti. Oggi la Cina non si preoccupa più tanto della Russia, perché ormai è un’alleata con Pechino nel ruolo del partner domi-
nante. È stato però il sostegno dato ai mujahidin ad aver gettato le basi per le sfide attuali nel campo della sicurezza, dato che la Cina ha generato i suoi stessi problemi preparando vicino ai propri confini un terreno fertile per l’estremismo. La minaccia della militanza islamista dall’altra parte del confine afgano ha creato enormi difficoltà a Pechino. Lo dimostra l’ondata di attentati condotti negli anni novanta e duemila dagli uiguri nello Xinjiang, nella Cina occidentale, culminati con l’attacco di Kunming, che nel 2014 provocò 31 morti e 141 feriti. Quegli attentati hanno portato alle discutibili politiche repressive di Pechino contro la minoranza musulmana nello Xinjiang. E hanno contribuito a rafforzare i suoi timori di una diffusione dell’estremismo dall’Afghanistan, che ne minaccerebbe gli interessi in Asia centrale e nelle regioni ai confini occidentali, cruciali per il successo della Bri. La presenza dei taliban al vertice di Pechino può essere considerata un esempio di come la Cina speri di costruirsi un alleato per consolidare i suoi interessi politici ed economici. È inoltre una prova dei legami sempre più forti tra Pechino e il mondo islamico in generale.
Le critiche a Israele La Cina ha fatto da mediatrice tra l’Iran e l’Arabia Saudita ed è stata coinvolta nell’accordo per l’ingresso di vari paesi islamici nel gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Più di recente ha schierato navi da guerra in un’esercitazione militare con l’Arabia Saudita. Inoltre, poiché i paesi musulmani sono mercati importanti e una fonte cruciale di risorse naturali, Pechino cerca di proporsi come loro partner in un momento in cui il peso degli Stati Uniti nella regione sembra essersi indebolito. È in questo contesto che vanno inquadrate le recenti tensioni su Gaza dopo le critiche cinesi a Israele, un cambiamento notevole rispetto al linguaggio più cauto usato in passato. Tra i primi successi dell’offensiva diplomatica di Pechino nel mondo islamico c’è per esempio il fatto che pochi paesi musulmani hanno sottoscritto la condanna delle politiche cinesi nello Xinjiang promossa dal Regno Unito. Il crescente peso cinese nei paesi islamici potrebbe essere un’ulteriore sfida per i governi occidentali. u gim
Asia e Pacifico Papua Nuova Guinea
Oceano Pacifico
NEPAL
PAKISTAN
Impreparati al peggio
Il rimpatrio degli afgani
Isole Salomone
Australia
2000 km
Il 1 novembre è scaduto l’ultimatum delle autorità pachistane che impone ai profughi senza documenti di lasciare il paese prima di essere rimpatriati. In un mese circa 200mila persone hanno oltrepassato la frontiera con l’Afghanistan e dal 1 novembre la polizia ha cominciato a rinchiudere gli immigrati irregolari in centri di detenzione. La norma interessa 1,7 milioni di afgani, alcuni nati e cresciuti in Pakistan, e secondo gli esperti è uno strumento di pressione di Islamabad diretto al governo dei taliban, accusato di ospitare gruppi armati islamisti responsabili di attacchi terroristici. Tra gli afgani presenti in Pakistan 25mila avevano collaborato con gli americani tra il 2011 e il 2021 e sono in attesa di essere trasferiti negli Stati Uniti. L’ambasciata statunitense, scrive Dawn, ha consegnato la lista dei loro nomi alle autorità di Islamabad, che però, in mancanza di un accordo specifico con Washington, avrebbero sollevato obiezioni. Altri tremila afgani dovrebbero essere accolti nel Regno Unito.
Distretto di Jajarkot, Nepal, 5 novembre 2023
Tuvalu Isole Cook Nuova Zelanda
Al forum delle isole del Pacifico, il più importante incontro annuale nella regione, che si è svolto dal 6 al 10 novembre alle isole Cook, erano assenti i primi ministri delle isole Salomone, di Vanuatu e della Papua Nuova Guinea. L’assenza dei tre leader è un duro colpo ai tentativi dei paesi del Pacifico di mostrarsi uniti in un’epoca in cui la regione è terreno di rivalità geopolitiche, scrive il Guardian. Ufficialmente il premier delle isole Salomone, Manasseh Sogavare (nella foto), che nel 2022 ha firmato un discusso patto per la sicurezza con la Cina, era impegnato con l’organizzazione dei Giochi del Pacifico, in programma alla fine di novembre. “La regione è molto varia al suo interno, le priorità di sviluppo sono diverse, così come le alleanze con le grandi potenze”, dice al quotidiano Meg Keen, responsabile del programma sulle isole del Pacifico del centro studi australiano Lowy Institute.
INDIA
Scuole chiuse per smog Le vacanze invernali delle scuole di New Delhi, previste a dicembre, saranno anticipate dal 9 al 18 novembre a causa del livello d’inquinamento dell’aria, il più alto del mondo, scrive The Hindu.
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Nella notte del 3 novembre 157 persone sono morte nel terremoto di magnitudo 6,4 che ha colpito la provincia di Karnali, la più grande del paese. Non si è trattato del big one, il potente terremoto che i sismologi si aspettano prima o poi nell’area, ma ha comunque distrutto molti edifici costruiti con materiali scadenti. Se avesse colpito di giorno, scrive il Nepali Times in un editoriale, il numero delle vittime sarebbe stato più alto, dato il numero di scuole crollate. “La prevenzione”, continua il quotidiano, “deve partire dall’ammodernamento degli edifici scolastici, degli ospedali e degli uffici pubblici”. u
BANGLADESH
L’aumento non basta La ministra bangladese del lavoro Munnujan Sufian ha annunciato il 7 novembre che il nuovo salario minimo mensile per i lavoratori del settore tessile, in maggioranza donne, sarà portato a 12.500 taka (105 euro). Il sindacato ha respinto la decisione, definendo insufficiente l’aumento deciso da un comitato nominato dal governo. Per Kalpona Akter, leader del sindacato, “la cifra è inaccettabile, nettamente al di sotto delle nostre aspettative”, scrive il Dhaka Tribune, aggiungendo che i rappresentanti dei lavoratori chiedono un salario minimo di almeno 15mila taka al mese. Il 7 novem-
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bre davanti alla sede del ministero del lavoro centinaia di operai hanno protestato chiedendo al governo di riconsiderare le loro richieste. La prima ministra Sheikh Hasina è alle prese con manifestazioni e scioperi organizzati dall’opposizione per chiedere le sue dimissioni prima delle elezioni legislative di gennaio. Richieste che la premier ha respinto categoricamente. Negli scontri tra i manifestanti e la polizia sono morte almeno due persone e migliaia sono state arrestate. “La violenza politica mette a rischio l’economia del paese, già provata dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina”, scrive Nikkei Asia. “Se la crisi politica proseguirà, gli affari, le esportazioni, le rimesse e altre attività economiche ne risentiranno ulteriormente”.
3 settembre 2023
DAVID ROWLAND (REUTERS/CONTRASTO)
Assenti strategici
NIRANJAN SHRESTHA (AP/LAPRESSE)
PACIFICO
IN BREVE
Nuova Zelanda Secondo il risultato finale delle elezioni legislative, il Partito nazionale ha ottenuto due seggi in meno del previsto e il leader Christopher Luxon (nella foto) dovrà allearsi con i populisti di New Zealand First per formare un governo.
Vite d i Ro ccia HANSPETER EISENDLE Alpinis t a e G uida Alpin a | M e m b r o d e l t e a m a t l e t i S a l e w a
VINCERE IL FREDDO Da una vigna che resiste con tenacia al freddo e ai venti gelidi, nasce un vino dal carattere unico, tipico di chi cresce in montagna. La maturazione tardiva e il lungo affinamento danno vita ad un complesso intreccio di profumi e a una freschezza acida ben equilibrata, con un finale sapido e lungo. Nino Negri presenta Vigna Fracia, un Nebbiolo di Montagna che custodisce tutte le sfumature del suo territorio.
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Le opinioni
I coloni in Cisgiordania sono fuori controllo Amira Hass otto la copertura dell’orrore collettivo per di sedici anni è stato rotto un braccio, e tre delle peril pogrom di Hamas del 7 ottobre, sotto la sone aggredite sono state arrestate. Non è ancora copertura del lutto, della sofferenza e chiaro se l’arresto sia stato compiuto dai coloni o didell’ansia per il destino degli ostaggi, le rettamente dall’esercito. Intorno alle 22 alcuni coloni milizie dei coloni israeliani stanno sono stati avvistati mentre abbattevano alberi di olivo espandendo i loro attacchi contro i pasto- nei villaggi di Qabalan e Talfit, a sud di Nablus. Nelle ri palestinesi in Cisgiordania. Stanno anche caccian- stesse ore soldati e coloni hanno confiscato una teledo i contadini dalle terre, dai frutteti e dagli oliveti, camera di sicurezza dai pollai nella vicina Qusra. Verspesso con l’appoggio dell’esercito. so le 23 i coloni sono entrati nel villaggio di Susya e Un processo trentennale ha trovato hanno intimato a diverse famiglie di l’opportunità per avvicinarsi alla sua Il sistema lasciare le loro case. Nel villaggio di Tulogica conclusione: l’espulsione alla di colonizzazione, ba coloni armati hanno fatto irruzione luce del sole in vista della completa che si basa sulla nelle case e le hanno vandalizzate. Tut“pulizia” di circa il 60 per cento del ter- distruzione ti questi fatti, tra l’altro, sono solo una ritorio cisgiordano, cacciando la popo- dei diritti lista parziale. lazione originaria del posto. Sta succe- dei palestinesi, Contrariamente a quanto vorrebbedendo in ogni casa, tenda e strada che celebra la sua ro farci credere gli estremisti, questi la burocrazia discriminatoria dell’Am- vittoria mentre non sono atti di vendetta o di autodifesa ministrazione civile israeliana non abcontro i “pogromisti di Hamas”. Fanno noi israeliani bia ancora distrutto, e dove le ordinanparte di un piano progettato, calcolato e ze militari non sono riuscite a impedire siamo in lutto ben finanziato. Per anni la polizia non alle persone di restare nei loro villaggi, ha cercato chi aggrediva i villaggi, opche esistevano prima del 1948, o di coltivare le terre. pure ha manipolato le indagini. I soldati sono rimasti I coloni arrivano armati e usano la violenza per rea- a guardare o a volte hanno partecipato. La magistralizzare l’obiettivo ufficiale: allargare lo spazio vitale tura se ne è disinteressata e di certo non ha fatto ridegli ebrei a spese dei palestinesi. spettare la legge. I ministri sono venuti a fare visite Il 28 ottobre un colono, un soldato fuori servizio, piene di sorrisi. È così che le autorità israeliane gestiha ucciso un quarantenne palestinese, Bilal Saleh, scono le cose fin dagli anni settanta, e resta da vedere che stava raccogliendo le olive con i figli nel villaggio come evolverà la detenzione della persona sospettata di Al Sawiya, a sud di Nablus. Circa due ore prima, di aver ucciso il palestinese Saleh. alcuni coloni avevano cacciato dei raccoglitori da un Migliaia di palestinesi sono costretti ad affrontare oliveto tra i villaggi di Jalud e Qusra a est di Al Sawiya. questa violenza. Le milizie bloccano le strade e saboIl pomeriggio di quello stesso giorno, mentre comin- tano le forniture idriche. Minacciano le persone nelle ciavo a scrivere questo pezzo, gli abitanti del villaggio loro tende, capanne e grotte. L’esercito è stato addedi Zanutah, sulle colline a sud di Hebron, hanno la- strato a proteggere i coloni in Cisgiordania, trascusciato le proprie case e le abitazioni nelle grotte. Nelle rando le comunità vicino a Gaza. E anche ora li acultime settimane, più intensamente che mai, aveva- compagna nelle incursioni o addirittura porta a terno subìto vessazioni. Gli era già stato negato l’accesso mine il lavoro per loro. ai pascoli, cosa che metteva a rischio la loro sussistenIl sistema di colonizzazione, che si basa sulla diza. Poi le minacce dei coloni sono diventate troppo struzione sistematica dei diritti dei palestinesi e sull’idirette per poter restare. dea che siano un popolo inferiore, celebra la sua vittoRiporto le altre notizie che ho ricevuto il 28 otto- ria mentre noi israeliani siamo in lutto. La colonizzabre. Nella mattinata i coloni hanno invaso con il loro zione, che si è allargata sotto gli auspici degli accordi gregge una casa nel villaggio meridionale di Qawa- di Oslo e il processo di espulsione dall’area C, la zona wis, mettendo in fuga una donna e i suoi bambini. A della Cisgiordania sotto il controllo civile e militare mezzogiorno coloni e soldati sono entrati nel villag- degli israeliani, si estenderanno all’area A, quella sotgio di Jinba, sono saliti sul tetto della moschea e han- to il controllo palestinese, e all’area B, a controllo mino distrutto gli altoparlanti. Alcuni coloni hanno at- sto? Forse la domanda non è se succederà, ma quantaccato le famiglie che vivono nella frazione tra il do. Quando le milizie armate dei coloni comincerancheckpoint di Metzudat Yehuda e la Linea verde (che no a fare irruzione nelle zone rurali e urbane (e non ha segnato il confine tra Israele e Palestina tra il 1949 solo a Nablus, ad Awarta o alla periferia di El Bireh) e e il 1967) e hanno preso i loro telefoni. A una ragazza a minacciare gli abitanti? u fdl
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AMIRA HASS
è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano Haaretz, che ha pubblicato questo articolo.
Le opinioni
Un’altra vittoria per i sindacati statunitensi Paul Krugman on è ancora ufficiale, ma sembra che te politico favorevole portò a un forte incremento della United auto workers abbia otte- la sindacalizzazione. I sindacati sono determinanti nuto una vittoria importante. Il sin- per avere un’uguaglianza salariale e contribuiscono dacato statunitense, che rappresen- ad applicare il “vincolo d’indignazione”, che impone ta i lavoratori del settore automobi- limiti ai compensi dei dirigenti. listico, ha fatto una serie di scioperi Il declino dei sindacati, che oggi rappresentano dal 15 settembre e oggi ha raggiunto tre accordi prov- meno del 7 per cento dei lavoratori nel settore privato, visori con la Ford, la Stellantis e la General Motors. Le ha giocato un ruolo nell’avvento della seconda età tre bozze prevedono un aumento salariale di circa il 25 dell’oro che stiamo vivendo. Non è per forza colpa per cento nei prossimi quattro anni e della globalizzazione e del progresso La United auto mezzo e altre concessioni. tecnologico. I sindacati restano molto I lavoratori del settore automobili- workers forti in alcuni paesi: in Scandinavia la stico sono molti di meno rispetto ai ha fatto maggioranza di lavoratori è iscritta a giorni di gloria di Detroit, ma sostengo- una serie di scioperi un’associazione di categoria. Quello no ancora una parte significativa dell’e- dal 15 settembre che è successo negli Stati Uniti è che il conomia del paese. Inoltre la loro even- e oggi ha raggiunto potere contrattuale dei lavoratori è statuale vittoria seguirà le conquiste fatte tre accordi to frenato dalla compresenza di un negli scorsi mesi da altre organizzazioni provvisori con mercato fiacco, con lente fasi di ripresa di categoria. E questi successi saranno dopo le recessioni, e un ambiente polila Ford, la Stellantis una tappa importante nel percorso per tico sfavorevole. rendere gli Stati Uniti un paese meno e la General Motors Oggi, però, le cose sono cambiate. disuguale. Da una ricerca di David Autor, ArinAlcuni fatti storici da tener presenti: i figli del drajit Dube e Annie McGrew sembra che una ripresa boom economico come me sono cresciuti in un mon- rapida, che ha portato al tasso di disoccupazione più do meno polarizzato dal punto di vista economico ri- basso degli ultimi cinquant’anni, abbia rafforzato i spetto a quello in cui viviamo oggi. Non eravamo cer- redditi bassi, producendo una “compressione inatteto la società che ci piaceva immaginare, ma negli anni sa” dei divari salariali. E questo ha eliminato circa un sessanta molti operai avevano redditi da classe me- quarto dell’aumento della disuguaglianza registrata dia, mentre le persone che avevano accumulato una negli ultimi quarant’anni. Il mercato del lavoro, proricchezza estrema non erano tante come oggi. Per babilmente, ha incoraggiato i sindacati a essere più esempio, gli amministratori delegati delle grandi aggressivi nelle contrattazioni. Spesso incontro peraziende erano pagati “solo” quindici volte di più ri- sone convinte che i ricchi abbiano beneficiato in mospetto allo stipendio medio dei dipendenti, oggi due- do sproporzionato della recente ripresa economica. cento volte. Sospetto che la maggior parte delle per- In realtà è il contrario. sone allora credesse che una società formata sostanAnche il contesto politico sembra diverso. L’apzialmente dalla classe media fosse lo stato naturale di poggio dell’opinione pubblica ai sindacati è ai massiun’economia di mercato matura. mi dal 1965. E Joe Biden è stato il primo presidente In un saggio scritto nel 1991, però, Claudia Goldin statunitense a unirsi a un picchetto dei lavoratori del (che ha appena vinto un meritato premio Nobel) e Ro- settore automobilistico per manifestargli il suo sostebert Margo dimostrano che quell’America relativa- gno. È successo in Michigan, a settembre. mente uguale era emersa all’improvviso, con una Niente di tutto ciò sembra sufficiente a produrre brusca riduzione delle disparità di reddito negli anni una seconda “grande compressione”. Ma potrebbe quaranta, un fenomeno che loro definivano “grande creare una piccola compressione, ovvero un’inversiocompressione”. La compressione iniziale aveva avuto ne parziale rispetto all’aumento della disuguaglianza molto a che fare con i controlli imposti all’economia successivo al 1980. in tempo di guerra. Tuttavia i divari di reddito rimaseNaturalmente non è detto che succeda. Una recesro contenuti per decenni dopo l’abolizione di quei sione potrebbe indebolire il potere d’acquisto dei lacontrolli. Nel complesso, la disuguaglianza ricomin- voratori. Se Donald Trump torna alla Casa Bianca, di ciò a decollare solo attorno al 1980. sicuro le sue politiche saranno contro i sindacati. Il Quali erano i fattori che avevano determinato una futuro, quindi, è incerto. Ma forse, sottolineo forse, distribuzione dei salari abbastanza omogenea? Uno è gli Stati Uniti potrebbero tornare verso la prosperità il fatto che la combinazione tra la guerra e un ambien- condivisa che un tempo davamo per scontata. u gim
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PAUL KRUGMAN
è un economista statunitense. Nel 2008 ha ricevuto il premio Nobel per l’economia. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Discutere con gli zombie (Garzanti 2021). Questo articolo è uscito sul New York Times.
Scienza
Doppia viole 48
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Una donna che subisce uno stupro a volte non reagisce. Per questo spesso non viene creduta o viene colpevolizzata. Ma la sua è una risposta involontaria dettata dall’istinto di sopravvivenza Jen Percy, The New York Times Magazine, Stati Uniti. Foto di Katrien De Blauwer ro paralizzata”, racconta la donna, ripensando al giorno in cui è stata violentata durante un’esercitazione militare, qualche estate fa. Era stata una giornata di addestramento lunga e calda, in marcia sulle colline, portando zaini pesanti e mangiando le razioni di cibo dell’esercito. Il gruppo stava affinando le capacità di spostamento, cercando di capire come muoversi da un posto all’altro il più velocemente possibile avendo a disposizione solo una bussola e qualche punto di riferimento, il tutto evitando imboscate e serpenti. Quella notte si è addormentata e si è svegliata con un uomo sdraiato accanto a lei, che la penetrava con un dito e poi passava rapidamente allo stupro. “Volevo urlare, spingerlo via”, mi dice. “E non so dire perché, ma il mio corpo non reagiva”. A un certo punto, dopo che lui ha finito, lei è riuscita a muoversi di nuovo (la donna ha chiesto di restare anonima perché teme ritorsioni). L’uomo si è allontanato e lei si è riaddormentata, anche se non ricorda quando. Al mattino ha fatto colazione e poi ha vomitato. Non riusciva a capire perché non avesse reagito all’aggressione. Sembrava in contraddizione con il suo addestramento, con le ore passate a imparare a sopravvivere e a combattere contro ogni tipo di minaccia. Da bambina, sua madre le diceva: “Sei una ragazza e sei minuta, quindi sei un bersaglio facile”. Aveva ascoltato l’avvertimento della madre ed era orgogliosa di essere combattiva e atletica. Giocava a basket, a baseball, a football americano, a calcio e faceva corsa campestre. A volte gareggiava con i maschi. “Nessuno si aspetta di vivere una situazione simile”, ha detto. “Ma tutti immaginano come reagirebbero, e io ho sempre pensato che avrei lottato e sarei riuscita a scappare”. Si vergognava di se stessa per non aver fatto nulla. “Non è da
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me”, dice. “Non so perché, ma il mio corpo non ha proprio reagito”. Le settimane successive allo stupro sono state estenuanti: le esigenze dell’allenamento si sono sommate allo stress dell’aggressione. È caduta in depressione e ha perso dieci chili. Aveva il terrore di addormentarsi. “Mi sentivo come se non potessi fidarmi del mio corpo”. Piangeva per notti intere. Aveva sempre dormito sul fianco, ma non si sentiva più sicura in quella posizione. Se si addormentava, era solo per un’ora o due per poi svegliarsi di nuovo in lacrime. Il cuore le batteva forte e le lenzuola erano impregnate di sudore. Quando gli amici e i superiori hanno scoperto come aveva reagito durante lo stupro, sono rimasti sconcertati e confusi. Non hai fatto nulla? Non hai detto nulla? Ti sei bloccata? “Provavo a urlare. Volevo urlare. Ho cercato di urlare, ma non ci riuscivo”. Era difficile da spiegare, ha detto. A quel punto si è anche chiesta se avesse le qualità per diventare un’ufficiale. E se si fosse bloccata di nuovo? Sapeva di aver bisogno di aiuto, ma aveva paura di parlare con uno psicologo a causa dello stigma sulla categoria all’interno del programma militare. Così la notte, quando non riusciva a dormire, leggeva articoli e libri sulla violenza sessuale per cercare di dare un senso alla sua situazione. Si è poi resa conto di aver bisogno di qualcosa di più dei libri e mesi dopo l’aggressione ha finalmente parlato con una consulente, che le ha spiegato che il freezing (congelamento) poteva essere una normale risposta all’aggressione. Alla fine anche i suoi amici e superiori scettici hanno capito e si sono scusati. All’interno del programma si parlava molto di fight or fliLe immagini di queste pagine sono state realizzate da Katrien De Blauwer, un’artista belga che usa il collage per il suo lavoro sulla memoria. Si definisce “una fotografa senza macchina fotografica”. Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Scienza ght (attacco o fuga), ma lei non ricordava che avessero mai parlato di freezing. Aveva sentito parlare di soldati e comandanti che si erano bloccati in battaglia e conosceva la vergogna che ne seguiva. “Forse è per questo che non se ne parla e non se ne discute”. Una volta ha avuto un incubo. “Mi svegliavo mentre l’aggressione si ripeteva esattamente com’era avvenuta, e le mie labbra erano incollate o cucite”. All’inizio il sogno le sembrava strano e ambiguo, ma poi si è resa conto che rappresentava esattamente quello che aveva provato.
Restare vive Esiste un vocabolario ricorrente usato dalle donne per descrivere ciò che provano e pensano durante una violenza sessuale. Le varianti di freezing fanno spesso parte di questo vocabolario. Il termine però ha così tanti riferimenti nell’uso colloquiale che è difficile sapere con precisione cosa significhi per chi lo pronuncia. “Ero completamente paralizzata”, ha detto Brooke Shields nel documentario Pretty baby, descrivendo come si è sentita quando è stata violentata. “Pensavo solo: ‘Resta viva e poi vattene’”. Parlando del suo stupro, l’attrice e modella norvegese Natassia Malthe ha detto ai giornalisti: “Ero come un cadavere”. In un articolo per Vice, la scrittrice Jackie Hong ha scritto del suo stupro: “Quando ha cominciato a tirarmi giù i pantaloni e gli slip, il mio corpo si è come paralizzato”. In un episodio della docuserie The me you can’t see (La me che non vedete), Lady Gaga racconta lo stupro subìto a diciannove anni: “Ero semplicemente paralizzata”. Anni dopo, ha raccontato, il suo corpo ricordava ancora la sensazione e ha avuto un “crollo psicotico totale”. “Non sono una che urla”, ha riferito E. Jean Carroll presso la corte distrettuale degli Stati Uniti di Manhattan, a New York, riferendosi a quando Donald Trump ha abusato sessualmente di lei in un camerino del centro commerciale Bergdorf Goodman. Ha detto alla corte che era “troppo in preda al panico per urlare”. Miriam Haley, un’ex assistente di produzione, ha parlato di quando Harvey Weinstein l’ha tenuta ferma e costretta a subire un rapporto: “In quel momento ero così sotto shock che mi sono dissociata dalla realtà”. Nel 2019, una donna di 48 anni ha testimoniato in un tribunale canadese di essersi “bloccata” quando un uomo l’ha violentata nel retro della sua auto al primo
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appuntamento. La difesa ha chiesto perché non avesse opposto resistenza. “Ero terrorizzata”, ha detto. “Non sono fisicamente in forma. Non pensavo di poter scappare”. Quando ho contattato decine di donne per conoscere le loro reazioni alla violenza sessuale, anche loro hanno parlato di freezing raccontando la loro esperienza. All’inizio, mi ha detto Andrea Royer, ha lottato e urlato per far desistere il suo stupratore a Spearfish, in South Dakota, nel settembre 2012, ma poi si è immobilizzata perché ha deciso che bloccarsi era l’unico modo per restare viva. Jenna Sorensen ha raccontato che quando è stata aggredita gli ha detto di no, ma poi si è paralizzata perché finisse il prima possibile. “Ho lasciato che accadesse, immagino”, ha detto. Joyce Short mi ha raccontato che al college si è “bloccata” quando un uomo ha cominciato a strangolarla prima di stuprarla. Si è immobilizzata, ha spiegato, perché più si dibatteva, più lui le premeva sul collo. Tutte queste reazioni, che spesso provocano vergogna o fanno sentire anormali le donne che le riferiscono, sono comuni ma male interpretate. Durante le udienze del processo contro Weinstein per crimini sessuali, una delle accusatrici, Jessica Mann, ha raccontato la sua esperienza di
L’immobilità tonica si è evoluta come meccanismo di difesa contro i predatori freezing dicendo che “molte donne, me compresa, sono state in grado di trovare solo parole come ‘mi sono arresa’ o ‘ho perso il controllo’ oppure, come ho fatto io, ‘mi sono bloccata’”. Mann ha citato un articolo del 2015 pubblicato su The Harvard Review of Psychiatry sugli automatismi comportamentali di difesa nell’essere umano e negli animali. “Buona parte dell’opinione pubblica non capisce che queste risposte non sono qualcosa che scegliamo consapevolmente”, ha detto. Mann ha spiegato che nel momento della violenza commessa da Weinstein ha riconosciuto dei sintomi in linea con un fenomeno noto come immobilità tonica. È una risposta estrema a una minaccia che lascia le vittime letteralmente paralizzate. Non possono né muoversi né parlare. Per più di un secolo
gli scienziati hanno studiato fenomeni simili negli animali e nel corso degli anni sono stati classificati in vari modi: ipnosi animale, morte simulata, morte apparente e tanatosi, che in greco antico significa “far morire”. L’immobilità tonica è una strategia di sopravvivenza individuata in molte classi di animali – insetti, pesci, rettili, uccelli, mammiferi – e trae la sua forza evolutiva dal fatto che molti predatori sembrano istintivamente perdere interesse nella preda morta. Di solito è innescata dalla percezione di ineluttabilità o di costrizione, come nel caso in cui una preda si trovi tra le fauci di un predatore. È stato dimostrato che gli esseri umani sperimentano l’immobilità tonica nel contesto di guerre e torture, disastri naturali e incidenti gravi, e gli studi suggeriscono che si verifica spesso durante gli abusi sessuali. All’inizio degli anni settanta, le ricercatrici statunitensi Ann Burgess e Lynda Lytle Holmstrom osservarono questo comportamento, che fu presto definito “paralisi indotta da stupro”, in alcune persone ricoverate al Boston city hospital. Nel corso di un anno, documentarono che 34 delle 92 pazienti con diagnosi di “trauma da stupro” avevano sperimentato il freezing – fisico o psicologico – durante le aggressioni, e che alcune descrivevano quella che oggi viene definita immobilità tonica. “Mi sentivo svenire, tremare e avevo freddo. Sono diventata inerte”, riferiva una donna. Un’altra raccontava: “Quando mi sono resa conto di quello che stava per fare, mi sono dissociata. Ho cercato di non rendermi conto di quello che stava succedendo”. Qualche anno dopo, in un articolo del 1979 su The Psychological Record, gli psicologi Susan Suarez e Gordon Gallup sostennero che l’immobilità tonica si è evoluta come difesa contro i predatori. Osservarono inoltre che spesso le condanne per stupro vengono smontate perché le vittime non oppongono resistenza. “È paradossale”, hanno scritto, “che le vittime vengano legalmente penalizzate per aver mostrato una reazione che ha un enorme valore adattativo e che potrebbe essere saldamente radicata nella biologia della nostra specie”. Quando si chiede alle persone quali possano essere le reazioni degli esseri umani o degli animali davanti al pericolo, la maggior parte pensa “attacco o fuga”, ma la popolarità di questa frase ha distorto la percezione del comportamento delle vittime. È statisticamente raro che qual-
professionisti dobbiamo avere un linguaggio più preciso, che si basi su ciò che succede realmente nel cervello e su come questi fatti possono verificarsi”. Hopper insegna che la formula “attacco o fuga” è dannosa, perché “può far pensare a chi ha subìto violenza di avere qualcosa di sbagliato. Provano vergogna, si rimproverano di non aver lottato o di non essere fuggite”. Per questo motivo ha dedicato gli ultimi dieci anni allo sviluppo di un vocabolario migliore per descrivere il comportamento delle sopravvissute, basato sulle neuroscienze e sull’evoluzione. “Se riusciamo a capire come il nostro cervello risponde alla minaccia o all’attacco”, ha detto, “possiamo aiutare a convalidare le risposte e i ricordi di chi ha subìto violenza sessuale con la credibilità della scienza”.
Valutare la minaccia
cuno reagisca fisicamente durante una violenza sessuale. La resistenza verbale è più comune, ma anche quella è spesso più passiva di quanto si pensi. Jim Hopper, psicologo clinico e docente associato presso la Harvard medical school, studia da più di trent’anni i traumi e le violenze sessuali, compresi i loro
aspetti neurobiologici. “Chi sopravvive deve poter usare il linguaggio che preferisce”, ha detto Hopper, che forma regolarmente terapeuti, investigatori di polizia e ricercatori universitari, pocuratori, consulenti dei sopravvissuti e infermieri che raccolgono le prove di un’aggressione sessuale con il kit medico-forense. “Ma da
La prima risposta del cervello umano al pericolo è quasi sempre l’arresto di ogni movimento per valutare meglio la minaccia. In una frazione di secondo avvengono altri cambiamenti fisiologici che preparano il corpo a mettere in atto comportamenti salvavita. A volte questo porta alla lotta o alla fuga, ma molto più comunemente nei casi di violenza sessuale subentra il freezing, durante il quale il cervello valuta l’aggressione e genera potenziali opzioni di risposta. Ci si immobilizza, la frequenza cardiaca rallenta e si rimane in allerta. Nel linguaggio comune, il freezing è spesso confuso con l’immobilità tonica, ma non sono la stessa cosa: l’immobilità tonica è più estrema. L’immobilità da collasso, un’altra risposta estrema, comporta un calo precipitoso della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna, che provoca l’inflaccidimento dei muscoli (a differenza di un irrigidimento tipico dell’immobilità tonica) e lo svenimento o il collasso. Chi la sperimenta, inoltre, ha bisogno di tempo per riprendersi, perché il cervello non ha ricevuto abbastanza ossigeno. Una volta Hopper ha lavorato al caso di un uomo che aveva cercato di costringere una donna a praticargli sesso orale, ma lei non riusciva a tenere la testa sollevata. “Ha riferito che i muscoli del collo erano completamente flosci e la testa le cadeva di lato”, ha detto. L’esperienza viene anche descritta con frasi come “mi sono sentita stordita”, “mi sono sentita svenire” o “mi sono sentita assonnata”. Alcune donne descrivono questa espeInternazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Scienza rienza come “svenimento”, il che può spingere un investigatore non sufficientemente preparato a pensare che abbiano bevuto troppo alcol. Il freezing tende a manifestarsi nelle prime fasi dell’attacco, mentre le reazioni estreme tendono a manifestarsi più tardi, ma possono verificarsi in qualsiasi ordine. Il passaggio da un comportamento all’altro può avvenire in pochi millisecondi. Alcune persone, sotto la minaccia di uno stupro, sono in grado di prendere decisioni, come quella di acconsentire, nella speranza di evitare la morte o gravi lesioni fisiche. Alcune combatteranno o fuggiranno e altre non avranno alcuna risposta al trauma. Ma tutte queste reazioni possono avere effetti profondamente diversi sulla coscienza e sulla memoria.
La reazione del cervello I neuroscienziati parlano spesso del cervello in termini di circuiti, ovvero insiemi di aree collegate tra loro e responsabili di determinate funzioni. Il circuito di difesa è uno dei più studiati e funziona allo stesso modo in tutti i mammiferi: se viene rilevata una minaccia, il circuito di difesa può rapidamente prendere il controllo sul funzionamento del cervello, con conseguenze importanti per il pensiero, il comportamento e la memoria. Il circuito di difesa impiega fino a tre secondi per colpire la corteccia prefrontale con livelli di sostanze chimiche responsabili dello stress abbastanza elevati da comprometterne le funzioni: una volta che la corteccia prefrontale si spegne, s’interrompe anche la nostra capacità di ragionare. I nostri centri linguistici vengono alterati. La nostra attenzione cambia, così come il modo in cui codifichiamo i ricordi. Amy Arnsten, neuroscienziata dell’università di Yale, è una delle principali ricercatrici sul modo in cui lo stress pregiudica la corteccia prefrontale. In uno studio del 2022 il suo team ha scoperto che l’esposizione a uno stress anche lieve ma incontrollabile compromette rapidamente la corteccia prefrontale. “In condizioni di stress il cervello si scollega dai suoi circuiti di più recente evoluzione e rafforza molti dei circuiti primitivi, e quindi questi riflessi inconsci, che sono ancestrali, entrano in azione”, mi ha spiegato al telefono. Arnsten ha raccontato che alcuni anni fa, mentre camminava nei boschi del Vermont, da dietro un albero è sbucato un orso. Senza pensarci, si è immobilizzata. L’orso l’ha guardata ma non l’ha vista. “La maggior parte degli animali vede il movi-
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mento e non i dettagli, quindi il freezing – soprattutto se ci si trova in una posizione in cui non si può scappare – ha avuto un valore di sopravvivenza attraverso i millenni”. Tuttavia il freezing e l’immobilità tonica sono stati sviluppati per proteggerci dai predatori animali, non da quelli umani, che non sempre perdono interesse se la loro preda umana sembra morta. Dopo aver letto le testimonianze delle persone che hanno subìto uno stupro nel corso di un decennio, Hopper ha osservato che a volte le vittime sperimentano quello che lui chiama “freezing sotto shock”, ovvero il fenomeno per cui la mente di una persona può rimanere vuota per diversi secondi; le donne possono descriverlo con frasi come “non riuscivo neanche a pensare” o “non sapevo cosa fa-
re”. Questa fase può scivolare in una successiva, in cui il ragionamento è compromesso e che l’autore chiama “freezing da mancanza di alternative”, durante il quale le persone vedono diminuire seriamente la loro capacità di ragionare con lucidità, impedendogli di prendere in considerazione informazioni pratiche, come il fatto che ci sono persone nelle vicinanze che potrebbero sentirle urlare. Hopper ha anche aggiunto una sfumatura cruciale: a un certo punto, durante lo stupro, la maggior parte delle vittime ritorna ad abitudini, di solito passive o sottomesse, che derivano dalla cultura o dagli abusi. A molte donne, per esempio, s’insegna a essere gentili con gli uomini, a non offendere il loro ego e a evitare reazioni. “E queste sono in realtà tra le risposte
cerebrali più frequenti tra le persone che subiscono una violenza sessuale”, ha affermato. “Di solito non consideriamo queste abitudini come involontarie, e invece lo sono assolutamente”. Una volta Hopper ha testimoniato in un processo per lo stupro di una giovane marine compiuto da un ufficiale superiore. La donna disse che l’ufficiale l’aveva aggredita un sabato sera dopo una festa, tenendola ferma e togliendole i vestiti. La difesa sostenne che l’addestramento militare della marine avrebbe dovuto rendere impossibile lo stupro. Hopper spiegò che la soldata non stava combattendo contro un nemico su un campo di battaglia, quindi il suo addestramento militare non aveva avuto effetto. Invece, aveva risposto nel modo in cui aveva sempre fatto quando voleva porre fine alle avance indesiderate degli uomini: gli aveva gentilmente chiesto di smettere. Secondo Sunda TeBockhorst, psicologa del Colorado che ha cominciato a studiare l’immobilità tonica nel contesto delle aggressioni sessuali più di vent’anni fa, le vittime che non hanno un linguaggio o un quadro di riferimento per comprendere la loro immobilità tonica spesso le daranno un senso attribuendosi delle colpe. Alcune, ha osservato, appena comincia l’aggressione si chiedono cosa potranno dire o pensare gli altri. L’aggressione sessuale, mi ha detto, è l’unico tipo di reato in cui ha visto una vittima accusata di essere complice del suo essere stata terrorizzata. TeBockhorst si è imbattuta per la prima volta nell’immobilità tonica intorno al 2000, quando, lavorando come consulente per alcune sopravvissute, ha incontrato un uomo, padre single, che le ha raccontato di essersi svegliato una notte per un rumore di spari e di aver pensato che ci fosse qualcuno in casa e stesse uccidendo i suoi figli. Le ha raccontato che voleva aiutarli ma non riusciva a muoversi o a urlare. Ha detto di essersi paralizzato. I suoi occhi erano bloccati sui numeri rossi della sveglia digitale. Quando finalmente è riuscito a muoversi di nuovo, ha ritrovato i figli, spaventati ma vivi. Le ha riferito che nessuno era entrato in casa, che c’erano stati degli spari ma che non avevano colpito né lui né la sua famiglia. La reazione dell’uomo ha ricordato a TeBockhorst le storie che aveva sentito quando, da studente, era stata volontaria in un centro antistupro in North Carolina. Ma se tanti avevano vissuto una paralisi involontaria, perché nessuno ne parlava?
Sul padre single, la cui salute mentale si è aggravata dopo aver vissuto l’immobilità tonica, TeBockhorst ha detto: “Per lui quello che è successo dopo la sparatoria è stato più rilevante del fatto in sé”. L’immobilità tonica non era presa in considerazione da nessuno e lui si torturava pensando di non aver saputo aiutare i suoi figli. Nel 2012, Rebecca Campbell, psicologa della Michigan state university, ha presentato un’analisi su più di dodici anni di dati relativi a casi di violenza sessuale rimasti fuori dai tribunali. Il problema, ha scoperto, era cominciato con la polizia: in sei giurisdizioni, in media l’86 per cento delle denunce non aveva avuto seguito. In circa il 70 per cento dei casi gli agenti avevano consigliato di non sporgere denuncia. Interrogando la polizia Campbell ha scoperto che non si trattava di malafede, ma di una scarsa conoscenza del comportamento delle persone aggredite. Liquidavano sistematicamente le denunce di stupro perché non comprendevano le comuni reazioni fisiologiche al trauma e pensavano che quelle persone mentissero. I casi venivano archiviati prima ancora di essere indagati a fondo.
Alcune risposte al trauma possono modificare l’attenzione Quando Campbell ha chiesto a un detective che aveva lavorato per quindici anni in un’unità specializzata in crimini sessuali cosa succedeva quando le vittime denunciavano un’aggressione, lui ha risposto: “Dicono cose senza senso”, aggiungendo che non sempre credeva alle loro parole e “glielo facevo capire”. Campbell ha constatato che le risposte dei colleghi erano simili. Ha suggerito che se gli investigatori avessero davvero voluto aiutare le vittime, avrebbero dovuto comprendere la neuroscienza che è alla base delle comuni reazioni di una persona aggredita. Hopper fa parte di un gruppo sempre più folto di insegnanti che forniscono questo tipo di formazione per la polizia e i procuratori, per gli investigatori e gli amministratori dei campus e per importanti organizzazioni come l’esercito degli Stati Uniti, l’associazione End violence against women international (Mettiamo fine alla violenza contro le donne nel mondo) e la
Rape, abuse & incest national network (Rete nazionale contro lo stupro, l’abuso e l’incesto). Il punto non è insegnare a fare diagnosi, ma piuttosto aiutare le persone che interagiscono con chi ha subìto uno stupro a riconoscere i propri pregiudizi. Nel 2019 Nancy Oglesby, procuratrice, e Mike Milnor, ex agente di polizia, si sono rivolti all’esperienza di Hopper per approfondire la base scientifica della formazione che stavano offrendo alla polizia e ai procuratori. Oglesby e Milnor si erano occupati per molti anni di casi di violenza sessuale e conoscevano i modelli di comportamento delle vittime, compresi quelli apparentemente controintuitivi come il freezing, la paralisi, l’estrema passività e la gentilezza. Ma inizialmente non avevano una base scientifica per spiegarli. La polizia spesso seguiva una tecnica d’interrogatorio in base alla quale se una dichiarazione non era dettagliata, oppure presentava lacune o incongruenze, la persona stava mentendo. E i pubblici ministeri spesso evitavano di andare in tribunale se ritenevano di non poter presentare un caso solido. “Quando nelle dichiarazioni c’erano molti ‘non so’, ‘non ricordo’, questo creava problemi probatori”, mi ha detto Oglesby. La procuratrice descrive un caso che ha archiviato perché non riusciva a dare un senso al racconto. Una giovane donna era stata violentata per un’ora nella stanza che condivideva con una coinquilina. La vittima ha detto che durante lo stupro nessuno aveva bussato alla porta. Quando il detective ha parlato con la coinquilina, questa ha detto di aver bussato alla porta e di aver urlato. “Perché la vittima non se lo ricordava?”, si era chiesta Oglesby. Con una maggiore conoscenza del funzionamento del cervello, ha imparato che alcune risposte al trauma possono modificare l’attenzione delle persone e quindi i ricordi che hanno di un’esperienza. Una vittima può concentrarsi su dettagli che gli investigatori possono ritenere irrilevanti, ma che il suo cervello elabora come importanti per la sopravvivenza, che si tratti del colore di un muro o di una canzone che suona in corridoio o del disegno delle venature di una foglia su una pianta a pochi metri di distanza. Ma potrebbe non sapere il colore della maglietta che indossava il suo aggressore e nemmeno se indossava un preservativo. “Quello che sappiamo oggi”, ha detto Oglesby, “è che la loro capacità di spiegare l’evento è Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Scienza molto legata alle percezioni sensoriali” di cui prendevano coscienza mentre si svolgeva l’aggressione. L’agente Milnor ha detto che all’inizio della sua carriera era più difficile comprendere comportamenti come il freezing e l’immobilità tonica. E ha ammesso di aver pensato che le dichiarazioni di alcune donne fossero troppo strampalate per essere vere. Ha cominciato a comprendere la natura dell’immobilità quando è stato incaricato delle notifiche di morte. La prima volta che ha bussato alla porta per comunicare a una famiglia che il figlio era appena morto in un incidente d’auto “la madre si è completamente immobilizzata”, racconta. “È diventata catatonica. Io e suo marito l’abbiamo adagiata sul divano come se fosse un robot. Era come assente, ma i suoi occhi erano ancora aperti”. Ora Milnor sa che quando una donna dice di essersi paralizzata, può significare molte cose. “Bene, può dirmi qualcosa di più al riguardo?”, chiede. “Può dirmi quali sensazioni ricorda di aver provato? Ricorda il suono delle cose? Ci sono degli odori?’. Passo in rassegna i cinque sensi”, mi ha detto. Sono questi dettagli fisiologici, i sentimenti e le sensazioni che Milnor incoraggia a cercare nelle indagini. Quando i pubblici ministeri ottengono questi dettagli possono far intervenire un esperto per testimoniare. “A quel punto abbiamo qualcosa da sottoporre alla giuria”, mi ha spiegato Oglesby. “La difesa cercherà di sostenere che tutti questi comportamenti lasciano supporre che la persona stia mentendo”. Lo stesso vale per i ricordi. “Noi cerchiamo di ribaltare la situazione”, ha detto Oglesby. In uno studio britannico del 2009 su delle giurie simulate, Louise Ellison e Vanessa E. Munro hanno esaminato quali miti sullo stupro potevano essere influenzati dalla testimonianza di esperti sul comportamento della donna. I giurati che avevano ascoltato le spiegazioni per determinati comportamenti – la mancanza di angoscia nel raccontare l’aggressione al processo, per esempio, o il ritardo nel denunciare l’aggressione – ne avevano capito la rilevanza. Ma il mito che sembrava più radicato era che le donne devono tentare di resistere fisicamente allo stupro. Quando questo mito prende piede, notano Ellison e Munro, i giurati sono “poco ricettivi” alle indicazioni fornite dagli esperti. In molti stati, per dimostrare che la donna non era consenziente, i procuratori devono ancora dimostrare che il contatto
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sessuale è stato forzato o ha incontrato una resistenza verbale o fisica. Moriah Schiewe, avvocata dell’Oregon, afferma che l’immobilità tonica rimane “un punto cieco nel sistema legale”. “Se pensiamo che la resistenza sia dire di no o reagire fisicamente”, mi ha detto Erin Murphy, docente alla facoltà di legge della New York university, “l’immobilità tonica non servirà ad accertare un rapporto non consensuale, perché il blocco fisico di solito non è interpretato legalmente come un ‘no’”. Murphy ritiene che ci siano ancora giurati convinti che le donne siano responsabili del freezing e che non riescono a riconoscere lo stupro se non c’è resistenza fisica. Catrina Weigel, sostituta procuratrice distrettuale nella contea di Boulder, Colorado, ha detto che gli avvocati della difesa spesso controinterrogano le vittime facendo notare che “non hanno lottato. Come mai non hanno scalciato, non hanno morso, non hanno urlato?”. Deve affidarsi a esperti per spiegare la reazione della donna. Veronique Valliere è una di questi esperti. Psicologa forense, viene spesso chiamata a spiegare a giudici e giurati perché le vittime non oppongono resistenza o non cercano di fuggire, anche in casi di rilievo come il
L’empatia è fondamentale per ottenere resoconti accurati processo per stupro a carico di Bill Cosby. “Da un punto di vista medico e scientifico, per cambiare la percezione che si tratti di una mancanza di volontà dobbiamo capire che il freezing è involontario”, mi ha detto. “In termini di volontà, l’immobilità tonica non è diversa dalla recisione del midollo spinale, e questo aiuterà a rimuovere lo stigma, sia dal punto di vista sociale sia da quello legale”. Anne Munch ha fatto l’avvocata per trent’anni in Colorado prima di cominciare a formare la polizia e i procuratori sulla neurobiologia del trauma. “Abbiamo troppi doppi standard per quanto riguarda il comportamento delle vittime”, ha detto. “Abbiamo troppe giustificazioni per il comportamento degli aggressori”. Sottolinea che chi indaga deve comprendere le comuni reazioni delle donne e che tutto parte dalle forze dell’ordine. “Io dico alla
polizia: ‘La vostra risposta sarà determinante per il caso, e voi potreste spezzare la vita di una persona’”. Munch mi ha raccontato di un rapporto di polizia che aveva ricevuto all’inizio della sua carriera. Una donna di vent’anni aveva incontrato degli amici in un bar e aveva bevuto troppo. Aveva chiamato un taxi per tornare a casa e l’autista l’aveva portata in un luogo isolato, aveva parcheggiato l’auto, poi era salito sul sedile posteriore e l’aveva violentata. Poi era tornato al posto di guida e l’aveva portata a casa. Lei aveva pagato e lui se n’era andato.
Imparare ad ascoltare Munch pensò che doveva esserci dell’altro, così incontrò la giovane per un altro colloquio. Fece domande aperte che avrebbero dato alla donna un senso di controllo e si sforzò di sbloccare i ricordi chiedendo dei sensi. La donna raccontò che quando l’autista era salito sul sedile posteriore era chiaro che lo stupro sarebbe avvenuto, quindi aveva girato la testa e fissato la porta del taxi finché non aveva finito. Descrisse nei minimi dettagli il materiale della porta: vinile grigio con il motivo cucito di un’ellissi, una maniglia cromata con esattamente otto piccole rientranze dal basso verso l’alto. Munch era appena uscita dal reparto abusi sessuali su minori e sapeva molto di dissociazione. La riconobbe subito. “Le sue normali risorse per affrontare il trauma erano state sopraffatte. Quello che stava succedendo era troppo grande, troppo brutto, troppo”. Inviò il suo investigatore alla compagnia di taxi con un mandato di perquisizione e tutto era esattamente come descritto dalla donna. Munch disse alla difesa che avrebbe raccomandato di far parlare un esperto di traumi al processo. “Se questo sesso era così bello e consensuale, allora perché la ragazza gira la testa e memorizza gli interni del taxi?”, ha ricordato Munch. L’autista si dichiarò colpevole e questo evitò alla donna di andare a processo. Nella primavera del 2023, Oglesby e Milnor hanno parlato a un gruppo di circa trenta persone presso la Central Shenandoah criminal justice training academy (l’accademia di formazione per la giustizia criminale) di Weyers Cave in Virginia, per un corso sulle indagini nei casi di violenza sessuale basate sullo studio delle esperienze traumatiche. Nella sala c’erano agenti di polizia regolari e dei campus, agenti delle unità speciali per le vittime,
detective, avvocati, assistenti sociali, operatori delle linee telefoniche antiviolenza e agenti della Cia. Una parte del corso è stata dedicata a insegnare al gruppo come creare l’atmosfera migliore per interagire con le vittime, in modo che possano fidarsi dell’intervistatore e sentirsi abbastanza a proprio agio da descrivere quello che gli è successo. L’empatia è fondamentale per ottenere resoconti accurati delle loro esperienze. Milnor e Oglesby consigliano di porre domande aperte. Non interrompere. Non aspettarsi che il ricordo sia lineare. Accettare il silenzio. Prestare attenzione ai dettagli e alle sensazioni. Hanno ricordato al gruppo che la polizia
non deve imporre alle donne un linguaggio clinico o fare diagnosi. Deve semplicemente raccogliere informazioni – ascoltando e documentando le risposte razionalizzate al trauma – e consegnarle al procuratore, che può poi portare in tribunale un esperto, se opportuno, per fornire la spiegazione scientifica. Quando il gruppo ha cominciato a fare pratica, con attori teatrali che interpretavano veri casi di stupro, alcuni agenti di polizia hanno cercato di adattarsi a questa nuova modalità di interrogatorio. Una poliziotta ha confessato di aver cercato a lungo di usarla, ma si è sorpresa di quanto fosse difficile abbandonare le cattive abitudini. L’unica cosa che conosceva era
l’interrogatorio. “Era come aggredire le donne una seconda volta”, ha detto. “E voglio migliorare”. Quando il gruppo si è riunito, Milnor ha abbassato le luci e acceso un proiettore. Su uno schermo c’erano le pagine del taccuino di un investigatore: la donna aveva parlato per cinque ore, ha spiegato, e il detective aveva scritto tutto senza interromperla. Gli appunti somigliavano a una mappa con arcipelaghi di parole inframezzate da oceani di spazio vuoto, e decine di frecce collegavano le isole per formare un unico racconto. “È così che apparirà”, ha detto. Tutto questo era stato verbalizzato dopo che il detective aveva posto un’unica domanda: cosa sei in grado di dirmi della tua esperienza? Milnor ha sottolineato che le domande successive potrebbero aiutare a svelare le esperienze che si celano dietro i ritornelli “mi sono bloccata” o “non riuscivo a urlare” o “non so perché, ma non ho fatto niente”. L’approccio ha dato alle donne la possibilità di descrivere le aggressioni sessuali subite in modi che erano sempre stati considerati irrilevanti. Senza questo approccio, le vittime potrebbero avere un tipo di paralisi più lungo e pervasivo. “Credo che per molto tempo non abbiamo voluto accettare che questo fosse il modo in cui raccontavano le loro storie”, ha detto Milnor. “Quanti di voi”, ha chiesto a un certo punto, “ricordano di aver incontrato una donna che ha fatto qualcosa per cui avete semplicemente scosso la testa e pensato: ‘Aspetta, non ha senso’?”. Molti hanno annuito e si sono mossi imbarazzati sulle sedie. “Ricordate quante volte abbiamo giudicato una sopravvissuta perché non capivamo il suo comportamento? Magari il giorno dopo aveva scritto un messaggio al suo aggressore dicendo: ‘Ehi, ti sei divertito?’”. Altri cenni di assenso. Milnor ha assicurato al gruppo che anche lui l’aveva fatto. Ha detto che il modo in cui un tempo rispondeva alle vittime lo tiene ancora sveglio la notte: “Ho aggredito di nuovo donne e uomini per ignoranza e mancanza di formazione”. Ha scosso la testa e ha chiuso gli occhi. “Oggi”, ha detto, “insegno avendo imparato dai miei errori”. u svb L’AUTRICE
Jen Percy è una giornalista statunitense che collabora con il New York Times. Sta per pubblicare Girls play dead, un libro sulle strategie di sopravvivenza delle donne aggredite.
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Il potere della soia Bruno Meyerfeld, Le Monde, Francia Foto di Tommaso Protti
In pochi decenni il Brasile è diventato il primo produttore mondiale di questo legume, che vende soprattutto alla Cina. E che oggi è uno strumento d’influenza politica
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trano posto per un ingorgo. Nel bel mezzo dell’Amazzonia, ai lati della strada Br-163 che attraversa lo stato brasiliano del Pará, si alternano giungla e pascoli. Ma sull’asfalto, per tutto l’anno, c’è una fila ininterrotta di camion. Nelle stazioni di servizio centinaia di questi mostri lunghi venticinque metri e pesanti più di trenta tonnellate si fermano per una pausa nel caldo afoso. Quando non guidano, gli autisti si riposano all’ombra dei loro autocarri, aprono le sedie pieghevoli e si bevono una bibita gassata. La maggior parte percorre più di mille chilometri in 48 ore, partendo dai campi del vicino stato del Mato Grosso. Devono arrivare al porto di Miritituba, detto “Miri”, sul rio Tapajós, dove spesso aspettano giorni per scaricare la merce. Trasportano un solo prodotto: la soia. Il Brasile in pochi anni è diventato il primo produttore del mondo, con 156 milioni di tonnellate nel raccolto 2022-2023 (cinque volte la produzione europea di semi oleoCOLOMBIA
Oceano Atlantico
Manaus
BRASILE Mato Grosso
PERÚ
Recife
Brasília
BOLIVIA PARAGUAY ARGENTINA
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São Paulo Rio de Janeiro 700 km
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si) su una superficie di 44 milioni di ettari (l’estensione di Germania, Belgio e Paesi Bassi messi insieme). Il Mato Grosso da solo contribuisce a un terzo della produzione nazionale. Questo piccolo chicco rotondo è ormai l’oro verde del Brasile. Il paese è anche il primo venditore e soddisfa la metà della domanda mondiale, con 95 milioni di tonnellate esportate all’anno. L’intero settore (semi, ma anche olio e mangimi animali) ha fruttato al Brasile 61 miliardi di dollari nel 2022, quasi un quinto delle entrate che il paese registra dalle esportazioni. Una ricchezza che aiuta a capire perché c’è tutto quel traffico in Amazzonia.
Richiesta di proteine Anche se il Brasile è una potenza agricola, non era necessariamente predestinato a diventare il leader della soia. Questa leguminosa della famiglia delle fabacee, che raggiunge una lunghezza di un metro e mezzo, cominciò a essere coltivata tra il 6000 e il 3500 aC nelle pianure della Cina. I suoi semi oleosi arrivarono in Europa nel settecento e subito svelarono un potenziale commerciale. Questo “fagiolo magico” ha un alto contenuto di proteine (40 per cento) e lipidi (18 per cento), e può essere impiegato in vari modi: olio, margarina, fertilizzanti, cosmetici, combustibili, fibre, farine e panelli (i residui della spremitura dei semi) destinati al consumo animale. Nel novecento gli Stati Uniti trasformarono la soia in una cash crop (una col-
tura da reddito, diversa da quelle di sussistenza). Dopo la seconda guerra mondiale la domanda di proteine s’impennò e quindi anche quella dei mangimi per le mucche, i maiali, il pollame e i pesci. Washing ton sovvenzionò il settore e inondò di soia il mercato europeo. Nel 1965 gli Stati Uniti controllavano il 75 per cento del mercato mondiale della soia. Ma il successo durò poco: i raccolti del 1973 furono catastrofici. Per evitare penurie, il presidente Richard Nixon decretò l’embargo sulle esportazioni. Fu allora che entrò in scena il Brasile.
Un campo di soia a Lucas do Rio Verde, nello stato del Mato Grosso. 31 gennaio 2022 Ai tropici la soia era stata introdotta tardi, piantata da alcuni agronomi di Bahia nel 1882, prima di essere coltivata in piccoli campi dagli immigrati giapponesi, numerosi negli stati meridionali del Rio Grande do Sul e del Paraná. Quando all’inizio degli anni settanta la giunta militare al potere in Brasile incoraggiò gli agricoltori a popolare il vasto entroterra per occupare l’Amazzonia e le pianure della regione Centro Ovest, la soia era solo una delle tante colture promosse. Ma presto avrebbe assunto un’importanza fondamentale. Nel 1978 la Cina di
Deng Xiaoping avviò progressivamente le riforme per diventare una potenza economica. La neonata classe media urbana cinese passò dall’indigenza a una dieta ricca di proteine. Così nel paese più popoloso del mondo esplose la domanda di carne di maiale e di pollo. Pechino doveva urgentemente trovare di che sfamare gli animali. E si rivolse al Brasile. “A quell’epoca la Cina ospitava il 20 per cento della popolazione mondiale, ma solo l’8 per cento dei terreni agricoli e il 5 per cento delle risorse idriche. Gli apparati governativi dovettero trovare un com-
promesso. Decisero di essere autosufficienti sul riso, il grano e il mais, e d’importare gran parte della soia che gli serviva”, spiega Larissa Wachholz, esperta di Cina al Centro brasiliano di relazioni internazionali di Rio de Janeiro. Il legume diventò una priorità per la dittatura brasiliana. Nel 1979 il programma Prodecer sviluppò l’agricoltura nel Centro Ovest con i finanziamenti dell’Agenzia giapponese per la cooperazione internazionale (Jica). All’Embrapa, l’agenzia nazionale di ricerca agricola, fu chiesto di trovare una varietà di soia da Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Brasile coltivare su un’area grande tre volte la Francia, che comprendeva gli attuali stati del Mato Grosso, del Mato Grosso do Sul e del Goiás. La regione era coperta da una savana dalla terra scura: il Cerrado. “Fu un lavoro impegnativo”, ricorda Alexandre Nepomuceno, capo del dipartimento dell’Embrapa dedicato alla soia. “Il Cerrado è pianeggiante, quindi era ideale per le macchine agricole, ma ha un suolo molto acido. Inoltre ai tropici le giornate sono brevi, gli insetti proliferano e attaccano le colture. La soia non decollava”. In tempi record l’agenzia riuscì a produrre una varietà adatta alla savana. Fu chiamata doko e lanciata nel 1980. La crescita della produzione fu sbalorditiva: tra il 1990 e il 2020 è raddoppiata ogni dieci anni. Il Brasile ha raggiunto e superato gli Stati Uniti (che oggi controllano il 38 per cento del mercato mondiale) ed è diventato un punto di riferimento nella ricerca agronomica. “L’Embrapa possiede la seconda banca di materiale genetico della soia più grande del mondo, con più di 65mila campioni”, si vanta Nepomuceno.
Sfida logistica
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zonia e poi da quelli sull’oceano Atlantico. A sud seguono un percorso fatto di strade e ferrovie, che conduce ai grandi porti di Santos e Paranaguá. Dal nordest, invece, sono convogliati verso i terminal di Salvador e São Luís. La sfida logistica è notevole ed “è facile che si crei il caos”, confessa Luiz Fernando Garcia da Silva, direttore del porto di Paranaguá, che accoglie ogni mese i carichi di sessantamila camion. “Per evitare la congestione del traffico c’è un’applicazione che consente ai camionisti di prenotare una finestra oraria per consegnare la merce”, aggiungendo che “per migliorare la circolazione ferroviaria sono stati investiti 700 milioni di real”, cioè 132 milioni di euro. La soia ridefinisce il posto del Brasile nel mondo. È “un’importante leva di potere e un pilastro dell’inserimento del Brasile in un nuovo ordine mondiale multipo-
Economia
Le potenze della soia
Lo scontro con la Francia
Produzione di soia, milioni di tonnellate 400 Altri paesi 300 Brasile 200 Stati Uniti 100
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2021
FONTI: OURWORLDINDATA.ORG, CNUCED, LE MONDE
Questo non è il primo boom economico per il Brasile, un paese la cui storia è stata segnata da cicli basati sull’esportazione di enormi quantità di materie prime. Quando nel cinquecento arrivarono i portoghesi c’era il legno di pernambuco, seguito nei secoli successivi dalla canna da zucchero, dall’oro, dal cotone, dal cacao, dal caffè e dalla gomma. Sterminio delle popolazioni indigene, schiavitù, espansione di città come Salvador, Recife, Rio de Janeiro, São Paulo e Manaus. Ognuno di questi cicli lasciò il segno, rimodellando profondamente il paese. La soia non ha fatto eccezione. La sua coltivazione ha lanciato economicamente il Centro Ovest, una regione che era stata trascurata ma che oggi compete con quelle di São Paulo e di Rio. Produce la metà della soia brasiliana, con tassi di crescita incredibilmente alti: fino al 10,3 per cento nel Mato Grosso nel 2022. A Sinop, una delle “capitali del legume”, la popolazione è raddoppiata in un decennio, e oggi ha raggiunto i 200mila abitanti. La sua ricchezza pro capite è paragonabile a quella della Germania. Per esportare la soia, raccolta tra gennaio e aprile, è stata costruita una grande infrastruttura. A nord, dalla strada Br-163, che attraversa il Mato Grosso fino a Miritituba, i carichi passano dai porti dell’Amaz-
lare”, osserva Gustavo Oliveira, docente della Clark university, in Massachusetts, e autore di vari studi sul tema. In primo luogo, influisce sulle relazioni con la Cina, che riceve l’80 per cento della soia brasiliana. Sulla carta i due giganti del cosiddetto sud globale stanno vivendo un momento di grande intesa. Dal 2009 Pechino è il primo partner commerciale di Brasília e rappresenta un terzo dei suoi scambi commerciali con l’estero. I tradizionali alleati occidentali sono molto lontani: 15 per cento con l’Unione europea e 11 per cento con gli Stati Uniti. Lo spostamento verso sud è stato evidenziato nell’aprile scorso dalla visita a Pechino del presidente Luiz Inácio Lula da Silva, che ha guidato una delegazione di 240 imprenditori, novanta dei quali del settore agricolo. Definito un “vecchio amico” da Xi Jinping, Lula è stato ricevuto con tutti gli onori. Sono stati firmati 35 accordi commerciali, per un totale di 9,5 miliardi di euro. Al confronto, i viaggi di Lula a Washington a febbraio e a Bruxelles a luglio sono sembrati delle semplici visite di cortesia. “I cinesi sanno quant’è importante la soia per la loro economia. E curano i rapporti con i brasiliani”, commenta Darin Friedrichs, consulente agricolo che lavora a Shanghai. Il Brasile è uno dei pochi paesi che esporta in Cina molto più di quello che importa, registrando un saldo decisamente positivo: fino a 43,4 miliardi di dollari nel 2021. E questo è un motivo per ricevere un trattamento di riguardo, sostiene Andréa Curiacos Bertolini, consigliera per l’agricoltura del governo brasiliano tra il 2019 e il 2023, ai tempi di Jair Bolsonaro. “Da un punto di vista strategico la Cina dipende dal Brasile”, afferma. “Per i cinesi l’alternativa sarebbe comprare dagli statunitensi. Ma a causa dell’attuale guerra commerciale preferiscono trattare con noi”.
I coltivatori di soia brasiliani non esitano a interferire con la politica locale in Bolivia e in Paraguay, nel campo dei conservatori
Un tempo ossequiosi con gli alleati occidentali, oggi i brasiliani si mostrano più ostili, a tratti arroganti. Lo testimonia uno scambio di battute tra il presidente francese Emmanuel Macron e quello brasiliano Bolsonaro nel gennaio 2021. Macron aveva invitato l’Europa a “non dipendere dalla soia brasiliana”. La replica ironica di Bolsonaro era stata: “Per l’amor di Dio, signor Macron, non comprate soia brasiliana! E smettetela di dire idiozie!”. Queste parole erano state apprezzate dai coltivatori brasiliani di soia, i sojeiros, ceto emergente del Centro Ovest, forma-
Un impianto di stoccaggio della soia a Sinop, nello stato del Mato Grosso. 1 febbraio 2022
to per lo più da ultraconservatori, evangelici, affezionati alle armi da fuoco. Alle presidenziali del 2022 Bolsonaro ha ottenuto in questa regione alcuni dei risultati migliori, con il 65 per cento dei voti nel Mato Grosso e il 77 per cento a Sinop. “Molti sojeiros sono ultranazionalisti, complottisti patologici, ossessionati dalla minaccia comunista”, commenta un operatore europeo del settore. La soia ha inoltre modificato il panorama in Sudamerica. Tra i paesi produttori (Brasile, Argentina, Paraguay, Bolivia e Uruguay), “c’è una totale integrazione dei processi produttivi, dalle sementi fino ai macchinari. Una ‘repubblica unita della soia’”, osserva Oliveira della Clark university. La situazione favorisce innanzitutto il Brasile che, con il suo settore privato, esercita “una forma d’imperialismo regionale”. Lo si vede soprattutto in Paraguay e in Bolivia, rispettivamente sesto e decimo produttore mondiale di questo legume. Lì i sojeiros brasiliani sono numerosi, in particolare nelle zone di confine, come il dipartimento boliviano di Santa Cruz o quello paraguaiano dell’Alto Paraná. Secondo le statistiche, spesso imprecise, controllano tra il 50 e l’80 per cento delle
coltivazioni nei due paesi. I sojeiros non esitano a interferire con la politica locale, nel campo dei conservatori. Alcuni mezzi d’informazione hanno trovato le prove del loro sostegno anche finanziario alle campagne per destituire i presidenti di sinistra Fernando Lugo in Paraguay nel 2012 ed Evo Morales in Bolivia nel 2019, che cercavano di ripartire le terre in modo più giusto. In quest’operazione hanno avuto l’aiuto, la protezione o il via libera delle autorità di Brasília. In Paraguay i coltivatori venuti dal Brasile appoggiano da tempo il partito conservatore Colorado, vincitore delle elezioni ad aprile. In Bolivia hanno puntato ancora più a destra sostenendo Luis Fernando Camacho, fondamentalista cristiano di estrema destra e candidato alle presidenziali del 2020. Il “Bolsonaro boliviano” ha ottenuto il 14 per cento dei voti a livello nazionale e il 45 per cento a Santa Cruz, riuscendo a farsi eleggere governatore. Il Brasile usa la soia come strumento di potere anche in Africa. Nel 2009 Lula, verso la fine del suo secondo mandato e al culmine della sua popolarità, cercò di rafforzare i legami con il continente. Portò avanti un progetto ambizioso di sviluppo
dell’agricoltura, e della soia in particolare, in Mozambico, paese lusofono con una savana che ha caratteristiche paragonabili a quelle del Cerrado. Il programma mozambicano ProSavana prendeva ispirazione dal Prodecer dei tempi della dittatura militare. “Si volevano mettere insieme le competenze agronomiche brasiliane, i capitali dell’agenzia giapponese Jica e le terre mozambicane. Sulla carta l’idea era seducente, piena di buone intenzioni”, ricorda Boaventura Monjane, giornalista e attivista mozambicano, esperto di movimenti sociali. Ma presto arrivarono critiche: ProSavana “presupponeva l’espropriazione di undici milioni di ettari nel corridoio di Nacala, nel nord del paese, dove vivevano quattro milioni di contadini che rischiavano di restare senza campi”, continua Monjane. Oltre alle ricadute ambientali, il progetto minacciava le fondamenta costituzionali del Mozambico, dove la terra appartiene allo stato e non può essere ceduta agli interessi privati. “Era un progetto neocoloniale, che stupiva perché non veniva dagli occidentali ma dal ‘sud’, da brasiliani che si presentavano come benefattori”, si arrabbia Monjane, che all’epoca partecipò a un Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Brasile grande movimento della società civile per fermare ProSavana. L’impresa è riuscita: nel 2020, dopo dieci anni, il programma è stato ufficialmente abbandonato. La soia quindi è un’arma geopolitica a doppio taglio? In America Latina il risentimento alimenta discorsi estremi, se non addirittura xenofobi. In Paraguay, che combatté contro il Brasile nel corso di un sanguinoso conflitto tra il 1864 e il 1879, durante la guerra della Triplice alleanza (costata la vita a metà della popolazione paraguaiana), nel 2019 il leader populista di estrema destra Paraguayo Cubas, detto Payo, ha promesso di uccidere “centomila banditi brasiliani” che secondo lui erano presenti nel paese. Alle presidenziali di aprile è arrivato terzo, con il 23 per cento dei voti.
La soia è quindi un’arma geopolitica a doppio taglio? In America Latina il risentimento alimenta discorsi estremi e xenofobi
Regolamento europeo Ma è l’aspetto ambientale che offusca maggiormente la reputazione del Brasile. A causa della coltivazione di soia il Cerrado ha subìto una deforestazione selvaggia e la sua biodiversità è stata distrutta. Sempre secondo l’istituto di ricerca indipendente Trase 3,6 milioni di ettari di savana sono stati cancellati tra il 2013 e il 2020 per far posto alle coltivazioni. Anche gli altri biomi sono in pericolo. Secondo Trase, 76mila ettari di foresta amazzonica sono stati convertiti al legume nel 2020, il doppio rispetto al 2013. “La soia avanza fino al cuore della foresta. Il Mato Grosso è considerato un modello di prosperità da seguire”, si lamenta Sergio Sauer, studioso di sviluppo rurale dell’Università di Brasília. I “cocktail” transgenici inventati dall’Embrapa e usati dai sojeiros si fondano sulla resistenza al glifosato, un potente diserbante. Appena il 4 per cento dei legumi coltivati in Brasile nasce da sementi tradizionali, non ogm. Ogni anno si riversano sul Cerrado 600 milioni di litri di pesticidi. “Questa cifra continua ad aumentare, in presenza di insetti più resistenti, con conseguenze sanitarie gravissime per le popolazioni toccate dalle irrorazioni”, critica Althen Teixeira Filho, biologo dell’università di Pelotas, nel Rio Grande do Sul. Ai problemi ambientali si aggiungono l’espropriazione delle terre, l’occupazione delle riserve indigene e l’impoverimento del suolo. La situazione ha spinto l’Unione europea ad adottare un regolamento entrato in vigore il 9 giugno, che vieta l’ingresso sul mercato interno di
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prodotti provenienti da campi ottenuti con la deforestazione. “La preoccupazione per l’ambiente è forte in occidente, e sta crescendo anche in Cina”, osserva Wachholz del Centro brasiliano di relazioni internazionali. Questo agita i coltivatori. “Dobbiamo eliminare il legame con la deforestazione”, commenta André Nassar, presidente dell’Associazione brasiliana delle industrie degli oli vegetali (Abiove). “Dal 2006 non compriamo più soia prodotta in Amazzonia. Entro il 2025 non commercializzeremo più soia ricavata con la deforestazione”. La sua risposta non convince le ong, che fanno notare l’assenza di una data a partire dalla quale non si dovrà più procedere con il disboscamento. I sojeiros continuano a credere in un futuro radioso. “Il Brasile non ha concorrenti in vista”, continua André Nassar. Entro il 2032 il dipartimento dell’agricoltura statunitense prevede un aumento del 50 per cento della domanda cinese di soia, oltre a una forte crescita in Medio Oriente e in Asia meridionale, in particolare in Pakistan, Turchia e Vietnam. Per allora le esportazioni del gigante sudamericano dovrebbero rappresentare il 60 per cento del mercato mondiale, contro il 28 per cento di quelle statunitensi. “Il Brasile può permettersi di essere arrogante, è l’unico paese in grado di aumentare enormemente la sua superficie agricola: fino a 20 milioni di ettari nei prossimi cinque o sette anni”, afferma Dan Basse, presidente di AgResource, una società di consulenza agronomica statunitense, con sede a Chicago. “La soia può anche diventare di gam-
ma più alta”, sottolinea Nepomuceno dell’Embrapa. Sono in corso dei test per migliorare la sua conversione in bioplastica e biocarburante. “La soia brasiliana è un prodotto durevole, e lo sarà per decenni”, taglia corto Bertolini, l’ex consigliera del governo. Altri ne dubitano e pensano che il Brasile abbia solo approfittato di una congiuntura favorevole. La pandemia di covid-19 e la guerra in Ucraina hanno fatto salire i prezzi del legume: sessanta chili sono valutati 1.300 dollari, contro gli 830 del 2019. Sono prezzi esageratamente alti, che rischiano di sgonfiarsi. Anche il cambiamento climatico potrebbe avere delle conseguenze: secondo l’Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia, l’aumento di un grado delle temperature corrisponderebbe a un calo del 6 per cento della resa della soia nel Cerrado.
Più danni che benefici Infine, un’altra minaccia incombe sul settore. “Il governo cinese sta cercando di ridurre la sua dipendenza dalla soia brasiliana e diversificare gli approvvigionamenti”, nota Wachholz. Nel 2022 Pechino ha lanciato un piano per aumentare del 40 per cento la resa delle proprie colture e, secondo diverse fonti, avrebbe intenzione di piantare il legume nelle savane africane. “I brasiliani pensano che la Cina avrà sempre bisogno di loro, ma resteranno fregati da questa pseudo-amicizia tra paesi del sud”, commenta un osservatore. “Nella filiera produttiva il Brasile è solo un banale intermediario”, afferma il ricercatore Gustavo Oliveira. Esclusa la produzione, il settore è controllato dall’occidente: la commercializzazione dai giganti statunitensi Cargill, Bunge, Adm e dal gruppo francese LouisDreyfus; i fertilizzanti dai tedeschi della Bayer o della Basf; il trasporto marittimo dalle multinazionali Cma Cgm, Maersk e Msc. Il prezzo è fissato alla lontana borsa di Chicago. “La soia dà al Brasile l’illusione di essere una potenza geopolitica. Ma provoca più danni che benefici. Peggio ancora, mantiene il paese in uno stato arretrato, senza industria, senza innovazione, imperniato sulle materie prime e sulla distruzione della natura”, denuncia Gustavo Oliveira. Non sembra che le parole del ricercatore siano ascoltate. In Amazzonia, sulla Br-163, le code di camion continuano ad allungarsi. u fdl
Ambiente
MAGNUM/CONTRASTO
Antartide, 2017
Un’arca per l’Antartide Alex Riley, Nautilus, Stati Uniti. Foto di Paolo Pellegrin Il continente si sta riscaldando rapidamente. Per salvare il suo ecosistema unico servirebbe un parco in cui conservare la fauna, prima che scompaia mmaginate un parco zoologico antartico. Immaginate i visitatori, con indosso pesanti cappotti invernali, cappelli e guanti, mentre entrano in una grande gabbia climatica, accolti dal garrito rauco dei pinguini Imperatore. Sulle rocce che si alternano ai ghiacci, i pinguini di Adelia raccolgono comicamente piccoli ciottoli. Sopra le loro teste volano i petrelli delle nevi. Nella sezione dedicata ai mammiferi marini, le tondeggianti e variopinte foche di Weddell si immergono lentamente nelle acque cristalline. Una bambina avvolta in una tuta da neve le osserva premendo le mani contro il vetro
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spesso, separata dall’Antartide da pochi centimetri trasparenti. Nello zoo i pinguini e le foche sono gli animali più importanti, ma a impressionare di più è la fauna bentonica, cioè gli animali che popolano i fondali marini. Ci sono anemoni grandi come cesti, stelle marine a dodici punte che crescono fino a raggiungere le dimensioni del coperchio di un bidone per la spazzatura; i cosiddetti ragni marini, il cui corpo è talmente sottile che gli organi riproduttivi e il tratto digestivo devono incunearsi all’interno delle zampe. E poi ci sono i pesci, tra cui sedici specie di “pesci ghiaccio” nototenioidei che vivono a 2,2 gradi sotto zero e mantengono i loro organi liberi dal ghiaccio rimpinzandosi di proteine antigelo. Dopo essersi lasciati alle spalle la sala principale di questo parco a bassa temperatura, i visitatori passano sotto una replica dello scheletro di un berardio australe, una specie conosciuta soprattutto grazie a un cranio ritrovato sulle coste della
Nuova Zelanda nel 1846. Nello zoo non c’è abbastanza spazio per i grandi cetacei, ma questi resti raccontano tutti i segreti dell’oceano australe, un luogo talmente vasto e inesplorato da poter facilmente nascondere branchi di mammiferi lunghi dieci metri ciascuno. Purtroppo, però, questo parco delle meraviglie antartiche non esiste. È solo un’idea nata dalla fantasia di Lloyd Peck, biologo dell’organizzazione British antarctic survey che da trent’anni studia la vita in Antartide e nell’oceano australe. In un’epoca in cui ampie parti del continente si stanno riscaldando rapidamente, Peck si rende conto del pericolo imminente. Gli animali che dipendono dal ghiaccio marino per la riproduzione – le foche di Weddell, i pinguini imperatore e di Adelia – si spostano più a sud, lungo gli strati sottili che svaniscono progressivamente. I delicati coralli molli, i ragni marini e altre specie che si sono adattate alle temperature più fredde dei fondali ri-
schiano di morire di fame perché le acque calde fanno aumentare il loro fabbisogno energetico. Visto attraverso gli occhi di Peck, lo zoo antartico più che un sogno sembra una necessità. Eppure, mentre tutte le risorse di organizzazioni e agenzie governative sono dedicate alla protezione di poche specie che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica, l’imminente collasso di un ecosistema unico passa quasi inosservato. Uno parco rappresenta un sostegno per un ecosistema in crisi, una polizza assicurativa che potrebbe permetterci di ripopolare l’ambiente nel caso in cui l’umanità riuscisse a fermare le emissioni di CO2 e l’Antartide potesse guarire. “Abbiamo le banche dei semi per l’agricoltura e i parchi per conservare le specie a rischio”, sottolinea Peck. “Ma per l’Antartide non c’è niente di simile”.
La pompa della biodiversità Le più vecchie descrizioni scientifiche degli animali antartici risalgono a metà dell’ottocento. Uno dei primi esemplari a essere esaminati, un Glyptonotus antarcticus, fa parte di una famiglia di crostacei che comprende anche le pulci di mare di cui sono piene le nostre spiagge. Ma al contrario delle pulci, cresce fino a raggiungere le dimensioni di una mano. Il gigantismo è molto diffuso nel continente. Le eccezionali dimensioni delle creature antartiche sono probabilmente dovute ai più alti livelli di ossigeno contenuti nelle acque fredde, che forniscono agli animali più carburante per crescere. Anche il modo in cui si è formata l’Antartide
ha contribuito all’unicità e alla diversità della vita lungo le sue coste. Dopo la separazione del continente dal Sudamerica, circa trenta milioni di anni fa, la vorticosa corrente circumpolare ha creato una barriera che solo le creature marine più forti sono riuscite a superare. E ha anche separato l’Antartide dalle acque più calde degli oceani vicini, innescando un graduale calo della temperatura. Settanta milioni di anni fa le temperature superficiali dell’oceano australe raggiungevano anche i 21 gradi centigradi. Oggi raramente superano gli 1,1 gradi. Il raffreddamento era una tendenza generale, ma nei millenni ci sono stati anche periodi di riscaldamento. Mentre il pianeta oscillava tra temperature sotto zero e climi temperati, il ghiaccio marino e i ghiacciai ricoprivano e poi scoprivano i fondali sulla piattaforma continentale. Secondo una teoria, questa periodica apertura e chiusura degli habitat ha fun800 km
A N TA R T I D E Polo sud
Mare di Ross Circ olo p
tico olare antar
zionato come una sorta di “pompa della biodiversità”, generando la fauna bentonica che, in nicchie riparate, può crescere fino a creare una foresta pluviale sottomarina di spugne, coralli molli e giganteschi anemoni di mare. Si stima che nelle acque profonde che circondano il continente antartico vivano circa ventimila specie, un livello di biodiversità comparabile con quello di altri ambienti marini, fatta eccezione per le barriere coralline tropicali. Eppure di queste specie non si sa quasi nulla. “Solo ottomila hanno un nome”, spiega Melody Clark, biologa molecolare del British antarctic survey. Un nome è solo il primo passo di uno studio scientifico. Di queste ottomila specie, aggiunge Clark, conosciamo i cicli vitali e i rapporti ecologici “solo di una manciata delle più comuni, che si trovano facilmente vicino alle stazioni di ricerca. C’è ancora tantissimo di cui non sappiamo nulla”. Clark è particolarmente interessata agli adattamenti molecolari al freddo, un fenomeno esemplificato dai pesci ghiaccio. A differenza di tutti gli altri vertebrati, i pesci ghiaccio non hanno globuli rossi e dunque neanche l’emoglobina, la proteina che trasporta l’ossigeno. I vasi sanguigni dei pesci ghiaccio sono più grandi di un terzo rispetto a quelli di altri pesci di dimensioni simili che vivono in regioni più temperate, e questo permette all’ossigeno nell’ambiente di circolare liberalmente dentro il loro corpo. “Dal punto di vista biologico sono più unici degli elefanti, dei leoni, delle tigri, delle aquile e di tutti gli animali più noti”, sottolinea Peck. “Nei pesci ghiaccio la vita Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Ambiente funziona in modo diverso”. Ma questa diversità sembra condannata a sparire. Dal 1950 l’aria che circola intorno all’Antartide si è riscaldata di tre gradi, a un ritmo cinque volte superiore rispetto alla media globale. Si stima che la temperatura della superficie dell’oceano australe salirà di un grado nei prossimi cinquant’anni. Per gli animali che si sono adattati a vivere in acque che restano stabilmente sotto lo zero questo piccolo aumento può avere conseguenze enormi. Le acque più calde, infatti, contengono meno ossigeno. In sostanza il pesce ghiaccio “potrebbe rappresentare un vicolo cieco dell’evoluzione”, spiega Clark. E non è l’unica creatura su cui incombe questa minaccia. Secondo alcuni studi, due terzi delle specie terrestri del continente subiranno un declino causato dal riscaldamento climatico e dallo scioglimento dei ghiacci. Le prospettive per le specie marine sono altrettanto disastrose. Gli esperimenti di Peck e Clark hanno dimostrato che anche un innalzamento minimo delle temperature può provocare nei briozoi e nei policheti – i principali colonizzatori dei fondali vicino alle coste – cambiamenti del metabolismo che li rendono incapaci di immagazzinare abbastanza nutrienti durante i quattro mesi della notte polare, quando il plancton di cui si nutrono scarseggia.
Un esperimento irripetibile Ma perché dovremmo cercare di salvarli tutti? Qual è il valore di una specie? Cosa importa se un pesce ghiaccio di cui non abbiamo mai sentito parlare sparisce nei risvolti della storia? Un’argomentazione comune è che questi animali, con la loro capacità di adattamento al freddo, nascondono i segreti della conservazione dei tessuti e contengono enzimi che potrebbero sbloccare processi industriali a bassa temperatura. In un’ottica meno utilitaristica, sono il prodotto evolutivo di un esperimento naturale che difficilmente si ripeterà. Separata dal resto del mondo dalla corrente circumpolare, l’Antartide ospita una grande quantità di specie endemiche, di cui quasi metà non si trova in nessun altro luogo della Terra. Perdere una specie endemica in Antartide significa perderla ovunque, lasciando scomparire un pezzo del patrimonio del nostro mondo. Non esistono riserve che in futuro potrebbero permetterci di reintrodurre questi animali in natura, almeno per il momento. Ma finché ci sarà l’azoto liquido potremo almeno
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Perdere una specie endemica in Antartide significa perderla ovunque, lasciando scomparire un pezzo del patrimonio del nostro mondo
conservare i dati genetici. Prima di costruire strutture per ospitare animali viventi, Clark e Peck vorrebbero creare uno “zoo congelato” per archiviare il materiale genetico della fauna antartica. Questo archivio non solo garantirebbe una base per studiare l’adattamento al freddo, ma nell’idea di Peck permetterebbe in un futuro lontano di riportare in vita le specie scomparse. “Se le temperature tornassero a scendere avremmo almeno le informazioni necessarie per ricreare gli animali che in passato vivevano sulla Terra”, spiega. “Magari tra cinquecento anni potremmo ricostruire un intero ecosistema”. Per quanto mettere da parte il dna sia molto più semplice che realizzare uno zoo per ospitare pinguini, foche e migliaia di creature di cui sappiamo poco o nulla, si tratterebbe comunque di un’impresa. Per conservare una porzione sufficiente della biodiversità, infatti, servirebbero almeno trenta o cinquanta esemplari di ognuna delle ventimila specie antartiche. Teniamo presente che queste ventimila specie sono solo quelle abbastanza grandi da essere viste a occhio nudo. Anche le creature microscopiche dell’Antartide sono uniche nella loro capacità di adattarsi al freddo estremo: come i vertebrati antartici, anche i tardigradi, i rotiferi o i nematodi sono molto diversi dai loro “parenti” che vivono in zone temperate. Poi ci sono i batteri, per esempio quelli che nell’oscurità dell’inverno sopravvivono in luoghi dove i venti montani sferzano la roccia e le temperature scendono fino a sessanta gradi sottozero. Anche loro andrebbero raccolti. Nono-
stante tutte le difficoltà, si può immaginare di poter compiere un simile sforzo, soprattutto considerando che il costo del sequenziamento genico si riduce ogni anno. “Potremmo farlo senza grossi problemi, se solo ci fossero i soldi”, conferma Clark. “Ma finora non sono state avviate iniziative valide”. Con più risorse sarebbe possibile sviluppare progetti di riproduzione in cattività per le creature antartiche, non necessariamente su una scala così vasta come quella immaginata da Peck nella sua idea di un ecosistema chiuso (anche se questo sarebbe lo scopo finale) ma abbastanza da garantire che almeno una manciata di animali dell’Antartide possa passare attraverso il collo di bottiglia del cambiamento climatico. Per riuscirci, però, bisogna cominciare a lavorare immediatamente. “Sull’allevamento di queste specie sappiamo pochissimo”, sottolinea Peck. Di gran parte dei ragni marini giganti, per esempio, gli scienziati non conoscono nemmeno le abitudini alimentari e non sarebbero in grado di stimolarli all’accoppiamento e neanche solo di mantenerli in vita. “Anche se cominciassimo immediatamente, servirebbero forse trent’anni prima di costruire strutture adeguate”, spiega Peck. “Verosimilmente tra cinquant’anni cominceremo a perdere un numero significativo di specie antartiche, se non avvieremo in fretta il processo di conservazione”. Così come una città non è definita solo dalle persone che la abitano, l’Antartide non si esaurisce nella sua fauna. È un luogo fatto di calma ed enormi spazi vuoti. Per milioni di anni immensi blocchi di ghiaccio hanno brillato di blu, scavati dai venti e dalle onde in un’infinita varietà di forme. Oltre al rumore del ghiaccio che stride e si spacca, l’unico altro suono è quello dello sfiatatoio delle balene. Simulare questo ambiente è impossibile. Uno zoo antartico che contenga animali vivi o solo le loro sequenze genetiche è un ecosistema da tenere in vita artificialmente. L’immagine è deprimente: un continente ridotto a poche bolle di cattività, a un promemoria di un mondo perduto. Ma in fondo il ricordo sarebbe comunque meglio dell’oblio. “Spesso dico ai miei studenti: ‘Se qualcosa si riscalda, cosa scompare?’”, racconta Peck. “Scompaiono le aree fredde. Ci saranno aree calde per le cose calde, aree tiepide per quelle tiepide, ma senza zone fredde, come si fa?” u as
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Una vita davanti Da sei anni Sam Youkilis pubblica su Instagram brevi video in cui cattura scene di vita quotidiana in tutto il mondo. Un libro appena uscito celebra il suo modo di guardare l lavoro di Sam Youkilis è molto contemporaneo. Fa brevi video con lo smartphone e li pubblica su Instagram”. Così il critico statunitense David Campany presenta il fotografo, nato a New York, negli Stati Uniti, nel 1993. Nei suoi filmati, che durano una manciata di secondi, Youkilis registra le situazioni di vita quotidiana che osserva nei suoi viaggi in giro per il mondo: dai banchi di frutta in Messico a quelli di dolci in Turchia, da una coppia che si bacia al porto di Napoli a un’altra che si abbraccia ad Amsterdam, nei Paesi Bassi. Da sei anni Youkilis crea un album virtuale che oggi ha più di 500mila follower su Instagram. Grazie allo stile spontaneo e istintivo che lo contraddistingue, l’artista riesce ad avvicinarsi alle situazioni che attirano la sua attenzione senza essere invadente. Questo metodo di lavoro è nato mentre cercava su Instagram immagini su alcuni luoghi che voleva visitare e si è trovato davanti a centinaia di foto che si somigliavano tutte, nelle pose, nelle luci e nelle inquadrature. Così ha deciso di immergersi in quei cliché, di studiarli, replicarli, prenderne ispirazione per farne qualcosa di completamente originale. Nei suoi video ci sono luoghi e soggetti ricor-
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renti, come il mare, le finestre, animali che fanno cose buffe, persone che leggono il giornale, silhouette al tramonto. “Le immagini di Youkilis sono sorprendenti perché hanno la capacità di sembrare familiari eppure immediatamente riconducibili a lui”, ha scritto il giornalista Matt Goulding nel libro appena pubblicato da Loose Joints, in cui sono raccolte quasi cinquecento immagini tratte dai video dell’artista. Questi frammenti sono presentati come se fossero delle fotografie all’interno di un volume di piccole dimensioni, a metà strada tra lo schermo di uno smartphone e una cartolina. Il racconto si apre con il sorgere del sole a Xochimilco, in Messico, e si conclude con il tramonto a Roma, in Italia. u
Da sapere Il libro u Sam Youkilis è un artista che lavora con la fotografia e il video. È nato a New York nel 1993 e ora vive in Italia. Il suo primo libro, Somewhere 2017-2023, è stato pubblicato nel novembre 2023 dalla casa editrice Loose Joints. Contiene 420 immagini tratte dai video realizzati dall’artista con lo smartphone e selezionate da Sarah Chaplin Espenon. Il volume contiene testi dei curatori Lou Stoppard e David Campany e del giornalista Matt Goulding.
Nelle foto, al centro: Yellow (Giallo). A destra: Walking with animals (Camminare con gli animali).
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Sopra: Animals where they shouldn’t be (Animali dove non dovrebbero essere). Al centro: Jumping into water (Tuffarsi in acqua). Nella pagina accanto: 7.07 am.
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Sopra: Walking with animals (Camminare con gli animali). Al centro: On parenting (Sull’essere genitori). Nella pagina accanto: Xochimilco.
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Christiane Benner La donna giusta Max Hägler e Carla Neuhaus, Die Zeit, Germania Foto di Sebastian Wolf È la prima donna a guidare la Ig Metall, il più grande sindacato tedesco. Dovrà gestire le profonde trasformazioni che attendono l’industria nazionale. A cominciare dalla transizione ecologica ufficio della sindacalista più potente del mondo è piuttosto colorato. E anche un po’ disordinato. Una parete è dipinta di giallo. In un angolo c’è una sagoma di cartone di Nelson Mandela. Davanti alla finestra è montata una telecamera, pronta a registrare video sulla condizione dei lavoratori. L’atmosfera che Christiane Benner ha creato qui, al quindicesimo piano del grattacielo della Ig Metall di Francoforte sul Meno, in Germania, è piacevole. Forse è un po’ inusuale per la vecchia guardia del sindacato? Benner accenna un sorriso. È esattamente quello che le ha fatto notare un collega: “Christiane, così non va. Qui non abbiamo mai avuto pareti colorate”. Ma senza scomporsi lei ha risposto: “Allora è arrivato il momento di averle”. Benner è nel consiglio direttivo della Ig Metall, il sindacato industriale più grande del mondo, da dodici anni. Fino a pochi
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giorni fa era la numero due dell’organizzazione, la responsabile della parità di genere e delle politiche di cogestione aziendale da parte dei lavoratori, la Mitbestimmung. All’assemblea del 30 ottobre è stata eletta presidente, diventando la voce di 2,2 milioni di lavoratori del settore automobilistico, delle acciaierie o delle aziende meccaniche. È la prima donna a ricoprire quest’incarico. Ma non è l’unica novità. Con lei cambieranno anche lo stile e l’identità del sindacato. La Ig Metall è sempre stata un’avversaria del capitale, tuonando contro i dirigenti di aziende come la Bmw, la Siemens, la Continental, la Volkswagen, la ThyssenKrupp o la Daimler: da una parte i lavoratori, dall’altra i padroni. Ma a Benner questo non basta. Per lei oggi, in tempi difficili di cambiamento, i rappresentanti dei lavoratori devono essere anche “codirigenti”. C’è bisogno di più democrazia nelle aziende: lasciati da soli i manager
Biografia ◆ 1968 Nasce ad Aquisgrana, in Germania. ◆ 1997 Comincia la sua attività nel sindacato dei metalmeccanici Ig Metall. ◆ 1999 Si laurea in sociologia all’università di Francoforte sul Meno. ◆ 2011 Entra nel comitato direttivo della Ig Metall e due anni dopo diventa vicepresidente. ◆ 2023 È eletta presidente del sindacato.
prendono troppo spesso decisioni sbagliate, come chiudere un impianto invece di ristrutturarlo in modo intelligente. Un’idea con conseguenze radicali: si potrebbe arrivare al punto che sarà un tribunale del lavoro a decidere se attuare il piano di ristrutturazione dei dirigenti o quello del consiglio di fabbrica. È davvero poco realistico: quale azienda lo permetterebbe, se molte già oggi considerano eccessiva la Mitbestimmung? Benner, 55 anni, appare ancora più sicura di sé ed esigente dei suoi predecessori. E vuole essere un modello per le aziende. Finora valeva la regola che il presidente aveva l’ultima parola su tutto. D’ora in poi, la cogestione varrà anche nel sindacato. Solo così, dice Benner, è possibile affrontare un mondo sempre più complesso. La sfida principale è la transizione dalle fonti fossili alle tecnologie sostenibili. Cosa l’aspetta l’ha già sperimentato a metà settembre, all’impianto della ThyssenKrupp di Duisburg-Marxloh. Quel giorno fuori c’erano ancora trenta gradi, dentro l’acciaieria qualcuno in più. A pochi metri di distanza da lei piovevano scintille. Un enorme secchio rovesciava ferro liquido in un impianto alto come una casa. “Lì avviene la magia”, le ha gridato un operaio. All’interno, a 1.700 gradi, il ferro si trasformava in acciaio. Magia, forse, ma inquinante. Nessun’altra azienda tedesca emette più anidride carbonica della ThyssenKrupp. Nessun’altra deve trasformarsi con più urgenza. In futuro gli altoforni dovranno funzionare a idrogeno: un enorme sforzo in termini di investimenti, ma anche di gestione. “Cosa comporta dal punto di vista energetico?”, chiede Benner. I costi aumenteranno di dieci volte. La risposta la inquieta: “È una pazzia”, dice. “Ecco perché abbiamo bisogno di un prezzo provvisorio dell’elettricità”. Una delle sue richieste principali è applicare tariffe più convenienti ai settori energivori.
Non c’è problema Per Benner è una buona notizia che il ministro dell’economia, il verde Robert Habeck, stia lavorando a una proposta sul tema. È la persona giusta per rinnovare l’economia? “Habeck sì”, afferma Benner, che è iscritta all’Spd. “La sua squadra purtroppo no. Almeno in parte”. I Verdi parlano ancora di “decrescita”, cioè dell’idea che la Germania debba semplicemente produrre meno e di conseguenza ridurre le emissioni. “Non si può fare”, dice Benner. “Causerebbe seri problemi sociali”.
Christiane Benner a Duisburg, 6 settembre 2023
La situazione è già tesa. La Ig Metall ha una tradizione socialdemocratica, molti iscritti sono vicini anche al partito Die Linke. Ma i funzionari si stanno accorgendo che aumentano i tesserati che sono attivi nel partito populista di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd). I motivi sono tre, spiega Benner: la paura dell’immigrazione, un senso d’ingiustizia sociale e la paura del declino economico. “Come sindacato possiamo fare qualcosa soprattutto per contrastare gli ultimi due punti”, dichiara Benner. L’ultima tappa del giro alla ThyssenKrupp è l’officina per apprendisti. Ma di apprendisti ce ne sono pochi. La maggior parte è nel periodo di prova, si scusa il presidente del consiglio di fabbrica. “Non c’è problema”, replica Benner. “Poi saranno immediatamente reclutati dalla Ig Metall”. Non pare mai scoraggiata. Lo dicono anche molti sindacalisti con cui in questi giorni abbiamo parlato di lei. Benner lottava per i diritti dei lavoratori già ai tempi della scuola. All’epoca realizzava dei bagni in miniatura per un’azienda di modellismo, ma la sua paga era più bassa di quella dei colleghi, soprattutto dei ragazzi. E poi si usavano collanti tossici. “Mi lamentai con il capo”, raccon-
ta Benner. Lui le aumentò lo stipendio di due marchi all’ora. Più tardi, quando era apprendista come corrispondente in lingua straniera, Benner si arrabbiò per le istruzioni poco chiare, per esempio sui documenti doganali. Se ne lamentò con il capo, racconta. “Gli spiegai che se voleva dei dipendenti capaci, doveva istruire bene anche gli apprendisti. Lui afferrò il punto”.
La sagoma di Mandela Il suo impegno fu notato. Benner fu eletta nel consiglio dei lavoratori e in seguito aderì al sindacato. Completò gli studi in sociologia, andando spesso in Sudafrica. Ancora oggi si sente coinvolta nella lotta contro l’apartheid ed è per questo che nel suo ufficio ha la sagoma di Mandela. Nel 2011 entrò nel comitato direttivo del sindacato. All’improvviso mancò un candidato e le chiesero di presentarsi. “Ero il piano b”, dice Benner. Ha saputo fare tesoro di quell’opportunità. Oggi è considerata un’esperta di digitalizzazione. Nei consigli di sorveglianza della Continental e della Bmw, di cui fa parte come rappresentante dei lavoratori, si parla di lei con stima. Un dirigente dell’azienda loda la sua capacità di discu-
tere apertamente con il presidente del consiglio di sorveglianza e l’insistenza per una trasformazione aziendale. Dal 2015 è vicepresidente della Ig Metall. “All’epoca pensavo: sei arrivata al massimo”, racconta. Ma poi ha realizzato: “Se sono vice, posso anche diventare capo”. Eppure per questa posizione ha dovuto lottare tanto, più dei suoi predecessori maschi. La potente sezione del BadenWürttemberg voleva una copresidenza con il responsabile del distretto del sudovest, Roman Zitzelsberger. Ma i delegati hanno respinto la proposta. Allora Jörg Hofmann, il presidente uscente della Ig Metall, anche lui del Baden-Württemberg, ha indicato Benner come capo del Deutscher Gewerkschaftsbund (Dgb), la confederazione sindacale tedesca. Ma lei ha rifiutato. Benner ha già un piano su come lavorerà insieme ai suoi quattro colleghi del consiglio direttivo: gli incarichi individuali saranno eliminati. I lavoratori nelle fabbriche devono avere più voce ed essere coinvolti. “Le cose non funzionano se ognuno di noi lavora nel suo compartimento stagno”, dice. La domanda ora è: di che colore saranno le pareti del nuovo ufficio? Di certo non bianche. u nv Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Zerocalcare è un autore di fumetti romano. Il suo ultimo libro è No sleep till Shengal (Bao Publishing 2022). Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Cultura
Europa
ALBUM/ALAMY
Johann H. W. Tischbein, Goethe nella campagna romana, 1787
C’eravamo tanto amati Marc Beise, Süddeutsche Zeitung, Germania La chiusura di alcune sedi italiane del Goethe-Institut è un brutto segnale per il sogno europeo, scrive Marc Beise el 1957 su uno dei famosi sette colli di Roma, in una sala dei musei Capitolini, nacque la Comunità europea. Sono passate solo due generazioni. Da allora l’Europa cerca di affermarsi come una comunità di pace e dialogo, opponendosi alle forze centrifughe dei nazionalismi. I danni che può provocare un nazionalismo senza freni li conosciamo. Per questo dovremmo prestare la massima attenzione a tutto quello che può indebolire il progetto europeo, ancora ben lontano dal suo traguardo e, anzi, più precario che mai.
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La scelta tedesca di mettere in discussione il dialogo europeo solo per risparmiare qualche soldo è tanto spudorata quanto incurante del passato. In un quadro di austerità generale una politica ignorante, sostenuta dalla ministra degli esteri Annalena Baerbock, sta costringendo a drastici tagli anche il Goethe-Institut, fondato nel 1951 per promuovere il dialogo tra la Germania, l’Europa e il mondo. E lo fa con un metodo infame, cioè chiede alle vittime di mettere in atto e giustificare queste decisioni.
I trent’anni di Brunetti Il Goethe, messo alle strette, ha scelto di concentrarsi sull’Europa centro-orientale, sul Caucaso, sul Pacifico meridionale e sugli stati centrali degli Stati Uniti, risparmiando su paesi tradizionalmente al centro del progetto come la Francia e soprat-
tutto l’Italia. Si liquida il centro di Trieste, che del resto aveva già interrotto le attività, si chiudono quelli di Torino e Genova, si ridimensiona quello di Napoli. Più che i fatti in sé, sono inquietanti le motivazioni: queste sedi, si dice, costano troppo, e i rapporti con questi paesi sono già sufficientemente consolidati. Meno Goethe in Francia e in Italia allora: non si può concepire un’immagine più distruttiva di questa. Eppure, l’esempio italiano dovrebbe insegnarci che il presupposto con cui si legittima questo spostamento dei fondi destinati alla cultura non sta in piedi. Da 250 anni, da quando con Johann Joachim Winckelmann è nata l’idea dell’Italia come luogo del desiderio, dal soggiorno romano di Johann Gottfried Herder e dal Viaggio in Italia di Goethe, i tedeschi sognano la penisola. Le biblioteche sono piene di libri sull’Italia e ogni anno milioni di tedeschi attraversano le Alpi. Non c’è regione italiana in cui non sia stata girata una serie su qualche commissario che poi risulta amatissima in Germania. La decana del genere, Donna Leon, festeggia i trent’anni del commissario Brunetti (personaggio creato dalla statunitense Donna Leon, a cui è stata intitolata la serie tv). Insomma, i libri su quanto è azzurro il cielo d’Italia e le canzoni di Eros Ramazotti vanno ancora bene. Ma può bastare? Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Europa
ACHILLE MAURI (ARCHIVIO GBB/ARCHIVI ALINARI)
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Forse no. Sembra che la distanza tra Germania e Italia si allarghi di pari passo con il declino della borghesia colta tedesca. Ci guardiamo e non ci capiamo più, la diffidenza cresce. Su questioni di soldi o di politiche migratorie è ancora più evidente. Quando falchi come il ministro italiano Matteo Salvini inveiscono pubblicamente contro i tedeschi non si tratta di scivoloni isolati, ma dell’espressione di un grande potenziale distruttivo che arde sotto la cenere. Impegnarsi per rendere più stabili questi rapporti è faticoso: ci vogliono decenni e tanta cura nei campi più diversi, dall’istruzione all’economia. Il tutto sotto l’ombrello di una politica estera che dovrebbe essere anche politica culturale. Purtroppo, l’impressione è che alla ministra Baerbock, in generale, la cultura non interessi molto. A livello governativo sono molte le cose che non vanno tra i due paesi. Anzi, si registra un gran silenzio o, peggio, scarsa attenzione reciproca. Certo, è ovvio che la componente verde della coalizione semaforo che guida la Germania si sente molto distante dal governo Meloni. È passato un bel po’ di tempo prima che a Berlino ricevessero il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani, che si è anche dovuto sentir spiegare con condiscendenza dalla sua collega tedesca come funzionano i salvataggi in mare nelle acque italiane.
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Come spesso succede nella coalizione semaforo, tutti guardano al cancelliere: saprà rimettere a posto le cose? Per i predecessori di Olaf Scholz l’Europa non era negoziabile. Konrad Adenauer, giocava a bocce a Cadenabbia, in riva al lago di Como, e dopo la guerra ruppe il ghiaccio con Roma. Helmut Schmidt ogni volta che doveva prendere una decisione di politica estera pensava subito alla Francia. Angela Merkel esercitava grande influenza nella capitale sul Tevere e in quella sulla Senna. E Scholz? È già tanto se riesce a mangiarsi un Fischbrötchen sull’Elba insieme a Emmanuel Macron. Come la punta di un campanile in una valle allagata emerge l’amicizia tra i presidenti Sergio Mattarella e Frank-Walter Steinmeier, un rapporto personale e intimo sostenuto da rispetto e fiducia. Ma neanche loro, da soli, possono fare molto.
Un’anima in vendita I socialdemocratici “amanti della Toscana” della generazione Schröder-Fischer sono invecchiati senza lasciare eredi. E, al di là delle Alpi, le cose vanno pure peggio: nei palazzi romani trovare qualcuno che apprezzi la Germania non è facile. La coalizione guidata da Giorgia Meloni è composta da tre partiti che un tempo si facevano notare soprattutto per la loro ostilità ai tedeschi. Appena la situazione peggiora e i problemi aumentano, le antiche inimici-
zie tra nord e sud riemergono. E la situazione sta in effetti peggiorando, con l’economia mondiale sempre in affanno, la crisi del debito che minaccia di riacutizzarsi e l’irrisolto problema dei migranti che grava sui bilanci statali come sui nervi dei cittadini. Italia e Germania sono tra i paesi fondatori dell’Unione europea. Con la Francia, ex nemico giurato, e la Spagna, con cui intrattengono stretti rapporti per il turismo, formano il quadrilatero che costituisce il cuore dell’Europa. Però evidentemente alla ministra Baerbock questo quadrilatero non interessa: lei preferisce guardare agli Stati Uniti profondi, con i suoi redneck da convertire, e al Pacifico meridionale, dove imperversa il cambiamento climatico. E il Goethe-Institut è costretto a seguirla. Fin qui, tutto bene. Ma se i rapporti tra i principali stati europei si raffreddano, la Germania è a rischio. Ed è per questo che bisogna chiedersi cos’è più importante: costruire qualcosa di nuovo nel Caucaso o mantenere vivo uno scambio culturale con l’Italia? Chi si occupa dei conti calcola che nel medio periodo il Goethe-Institut dovrà tagliare 24 milioni di euro, che corrisponde al 10 per cento del suo bilancio. Vendere l’anima dell’Europa per 24 milioni è una cosa che può fare solo chi ama giocare con il fuoco. u sk
«Siamo appassionati di outdoor e montagna impegnati ad onorare, rispettare e proteggere le persone e l’ambiente.» dal Manifesto Montura
Searching for a new way
Mongolia
Una Ger per tutti Ger for Life Una Ger per tutti in Mongolia è un progetto di Need You Onlus ideato dal prof. David Bellatalla rivolto a ragazze madri con bambini disabili dove viene offerto un percorso di reinserimento lavorativo e sociale. montura.com
Cultura
Schermi Documentari
In rete Proteggere l’informazione
Trent’anni del trattato di Maastricht Arte.tv Un viaggio attraverso nove dei 27 stati dell’Unione europea, per capire com’è cambiata la vita delle persone dopo l’entrata in vigore del trattato di Maastricht e riflettere sull’idea di Europa. All’ombra del sistema Openddb.it Il Bando borghi del Pnrr vuole contrastare lo spopolamento investendo in 21 piccoli centri, uno per regione. In Trentino 20 milioni andranno a Palù del Fersina, minuscolo comune in un feudo politico segnato da conflitti d’interesse. Cyberbunker: nelle profondità del dark web Netflix In una cittadina tedesca un gruppo di olandesi vuole acquistare un ex bunker della Nato, promettendo posti di lavoro. Gli abitanti sospettano che il loro leader sia un criminale e che l’operazione copra traffici illegali online. Marina Cicogna. La vita e tutto il resto Rai Play Marina Cicogna, morta lo scorso 4 novembre, è stata la prima produttrice ad affermarsi in un ambiente maschile, lavorando con autori come Elio Petri e Luis Buñuel. Paris calligrammes Dafilms.com La tedesca Ulrike Ottinger è una delle voci più originali del documentario europeo. Negli anni sessanta visse nel Quartiere latino a Parigi, tra rivolte, caffè letterari e jazz club, un’atmosfera rievocata in questo recente lavoro.
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Serie tv The curse Paramount+, 10 episodi I fan del comico Nathan Fielder sanno che a lui non interessa mettere il pubblico a suo agio. Ama spingere all’estremo le situazioni socialmente imbarazzanti. La serie The curse, creata insieme a Benny Safdie (Diamanti grezzi), si pone all’incrocio tra umorismo, inquietudine e verità. Fielder ed
Emma Stone interpretano due conduttori di una trasmissione tv determinati a gentrificare una cittadina del New Messico e malvisti dagli abitanti. Mescolando commedia cringe, horror leggero e studio dei personaggi, The curse offre qualcosa di originale, strano e difficile da dimenticare. Entertainment Weekly
Tecnologi, psicologi, economisti ed esperti di etica: c’è bisogno di tutti per combattere la disinformazione sulle piattaforme digitali. Questo è l’invito di Nancy Gibbs, ex direttrice di Time, in un editoriale sul settimanale statunitense in cui esorta a proteggere la salute dell’informazione. Partendo dalle notizie false sul conflitto tra Israele e Palestina circolate sui social network, Gibbs accusa la politica di non aver fatto abbastanza per responsabilizzare le piattaforme, nonostante sia chiaro da anni che i moderatori non riescono a bloccare le bugie diffuse dai bot e le aziende tecnologiche non hanno una strategia precisa per risolvere il problema. Gaia Berruto
Televisione Giorgio Cappozzo
Primavera E alla fine anche Corrado Augias, tra i “professori” emeriti della Rai, fine divulgatore di storia, letteratura e musica sinfonica, colto ambasciatore del servizio pubblico, ha fatto armi e bagagli e ha imboccato la via per La7. Scelta personale, ha dichiarato, senza editti né contrasti. Sul canale di Umberto Cairo, che come dice Fiorello si appresta a essere, per autorevolezza e corpo docenti, l’università della tv, farà una nuova trasmissione in prima serata dal titolo La torre di Babele e
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ritroverà il suo pubblico, costruito negli anni. Nelle parole di commiato c’è un passaggio laterale che mi ha colpito. “A 88 anni e mezzo devo lavorare in posti e con persone che mi piacciono”. Io avevo altri progetti, non per Augias ma per me. A 88 anni e mezzo, nell’ottimistica ipotesi di arrivarci, m’immaginavo di passare le giornate con la sola ambizione di contemplare il creato. Piani messi in crisi dall’ammirevole trasporto che muove professionisti straordinari come Au-
gias, o Renzo Arbore, in predicato per un ritorno su Rai2, o Giovanni Minoli, che dopo un lungo contenzioso con la Rai potrebbe tornare a dirigere il suo gioiello La storia siamo noi. Mi chiedo se questa lodevole primavera di anziani maestri, di decorati capitani richiamati al timone di bastimenti sgarrupati con marinai giovani non per età ma per definizione, oltre a ridisegnare le nostre aspettative future non sia in fondo parte del problema del nostro presente. u
I consigli della redazione
Anatomia di una caduta Justine Triet, in sala
gimel). Poco dopo l’attacco terroristico, il caos, il buco nero. La vicenda si articola lungo un doppio asse. Il primo sull’impossibilità di Mia di riconnettersi con la sua vita. Il secondo, meno scontato, mostra la necessità della donna di uscire dalla sua zona di comfort per ricordare frammenti della tragedia vissuta. Clarisse Fabre, Le Monde
MARVEL STUDIOS
The Marvels
The Marvels Di Nia DaCosta. Con Brie Larson, Iman Vellani, Teyonah Parris. Stati Uniti 2023, 105’. In sala ●●●●● Un trio di supereroine si ritrova cosmicamente intrappolato nel sequel congiunto di Capitan Marvel e della serie Ms. Marvel. Il film arriva in un momento delicato per i Marvel Studios. Dopo aver reinventato il genere dei supereroi e aver ampliato a dismisura i confini di quello che si può ottenere intrecciando tra loro saghe, film e serie televisive, l’universo cinematografico Marvel ha cominciato a vacillare. Il lato positivo è che le dinamiche fra le tre protagoniste funzionano. Ma sotto ogni aspetto The Marvels sembra uno stanco mix di narrazione confusa e cliché. La rivelazione post-credit farà tremare i cuori dei fan, ma forse è troppo tardi. James Marsh, South China Morning Post Lubo Di Giorgio Diritti. Con Franz Rogowski, Valentina Bellè. Italia/Germania 2023, 175’. In sala ●●●●● Per buona parte del novecento in Svizzera esisteva una politica semi-ufficiale per sepa-
Club zero Di Jessica Hausner. Austria/ Regno Unito/Germania/ Francia/Danimarca/Qatar 2023, 110’. In sala ●●●●● Un’esclusiva scuola privata assume una nuova carismatica insegnante, miss Novak (Mia Wasikowska), per un corso di alimentazione consapevole. Lei convince la sua classe che non mangiare è la soluzione a ogni problema dell’umanità. Il film si svolge in un mondo di privilegi dove le persone sono disposte a mandare giù qualsiasi fandonia, purché sembri qualcosa che solo i ricchi possono permettersi. E affronta anche i pericoli della cessione della responsabilità dell’educazione dei figli a istituzioni e individui che in realtà hanno ben altri scopi. Peccato che, al di là dell’efficacia visiva, il film sia
rare i figli dei nomadi dai loro genitori. Il programma Kinder der Landstrasse (bambini di strada) intendeva salvaguardare i più piccoli dai pericoli del vagabondaggio e della criminalità. Vedendola oggi questa pratica, interrotta negli anni settanta, si rivela per quello che era: una violazione ingiustificata e crudele dei diritti di diverse minoranze, tra cui quella di cui fa parte Moser, che nella pellicola di Giorgio Diritti è interpretato da Franz Rogowski. Una simile ingiustizia storica merita un film. Peccato che Lubo, nelle sue tre tentacolari ore includa quel film ma anche altri tre, minori e meno interessanti. Jessica Kiang, Variety Riabbracciare Parigi Di Alice Winocour. Con Virginie Efira, Benoît Magimel. Francia 2022, 103’. In sala ●●●●● Il quarto lungometraggio di Alice Winocour è ispirato al vissuto del fratello, coinvolto nell’attentato al Bataclan di Parigi. Oltre l’aggressione omicida, la conta delle vittime, il dolore dei sopravvissuti, si apre un altro capitolo psicologico sulla riconnessione con il proprio mondo. Sola in un ristorante Mia (Virginie Efira) ha uno scambio di sguardi con uno sconosciuto (Benoît Ma-
C’è ancora domani Paola Cortellesi, in sala
scritto in modo fin troppo esile e operi a un livello troppo superficiale. Wendy Ide, Screen International The killer Di David Fincher. Con Michael Fassbender, Tilda Swinton. Stati Uniti 2023, 118’. Netflix ●●●●● Non sapremo mai il nome del killer protagonista del nuovo sanguinoso e violento thriller di David Fincher. In compenso, grazie alla sua voce fuoricampo, potremo conoscere a fondo la sua filosofia di vita, le sue regole, e anche la sua strana natura poetica. Michael Fassbender, come antieroe solitario, è sardonico, intenso, concentrato. Fincher dirige il film apparentemente nello stesso modo: è conciso e non lascia per strada nessun difetto narrativo. Ma la sensazione è che non abbia preso abbastanza sul serio l’incarico. Geoffrey Macnab, The Independent
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NETFLIX
Film
Great freedom Sebastian Meise, Mubi
The killer Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Cultura
Libri Francia
I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana la giornalista belga Vanja Luksic.
Palmarès d’autunno
Navid Carucci Dietro le colonne La Lepre edizioni, 407 pagine, 22 euro ●●●●● Due anni dopo il suo primo bellissimo romanzo storico sull’impero moghul, La luce di Akbar, Navid Carucci ci riporta nell’Hindustan, un secolo più tardi, nella seconda metà del seicento. L’imperatore Shah Jahan, degno successore del grande Akbar, è ormai vecchio e ammalato. I suoi quattro figli si odiano e non accettano che il primogenito Dara Shikoh sia l’erede al trono. Gli fanno e si fanno tra loro una guerra spietata. Neanche le figlie si amano tanto. Sono gelosissime della suprema signora Jahanara, primogenita dell’imperatore e della sua amatissima Mumtaz Mahal. Lei è straordinaria: intelligente, molto colta e di grande sensibilità. Infatti, il sottotitolo del libro è Jahanara, la principessa moghul che poteva cambiare il mondo. Purtroppo è una donna. Ed è già un miracolo che abbia potuto avere un importante ruolo di mediatrice e di consigliera, preziosissima per il suo paese. Leggendo questo libro che ci fa entrare nella storia e nella vita quotidiana dell’India del diciassettesimo secolo, di una bellezza affascinante ma anche scossa da tante guerre, non possiamo non pensare al mondo di oggi. Ci farebbe tanto bene avere anche noi una suprema signora Jahanara. u
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Assegnati i premi Goncourt, Renaudot e Femina, i riconoscimenti letterari più importanti dell’editoria francese Veiller sur elle (L’Iconoclaste) di Jean-Baptiste Andrea ha vinto il premio Goncourt 2023, il principale riconoscimento letterario francese. Andrea, anche sceneggiatore e regista, è apprezzato per le sue epopee intime, il suo lirismo rocambolesco e i suoi eroi abbandonati, spesso segnati da un’infanzia spezzata che sfocia nel vagabondaggio, nella creazione artistica, nell’avventura estrema, raccontati con un profondo realismo. Anche Veiller sur elle riprende alcuni di questi aspetti, raccolti nella confessione autobiografica di uno scultore italiano. In lizza
BERTRAND GUAY (AFP/GETTY)
Italieni
Jean-Baptiste Andrea
per il Goncourt c’era anche Triste tigre (P.O.L), il racconto autobiografico di Neige Sinno sugli abusi sessuali patiti durante la sua adolescenza, che poche ore prima si è aggiudicato il premio Femina. Per completare il quadro dei premi autunnali che chiudono
idealmente la rentrée littéraire, Ann Scott si è aggiudicata il premio Renaudot con il suo romanzo Les insolents (Calmann-Lévy), la storia di una compositrice quarantenne che lascia Parigi per reinventarsi in una cittadina bretone. Le Monde
Il libro Nadeesha Uyangoda
Tra corpo e psiche Giuseppe Quaranta La sindrome di Ræbenson Blu Atlantide, 272 pagine, 18 euro Nel 1960 Normann Mailer dà una festa nel suo appartamento di New York durante la quale, dopo essersi ubriacato e aver attaccato briga con buona parte degli invitati, riduce in fin di vita sua moglie con due pugnalate. Mailer dirà poi che si era liberato da un accumulo di sentimenti. Mi è tornato in mente quel fatto leggendo La sindrome di Ræbenson, forse per come quel gesto
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misogino fu invece interpretato come espressione creativa da una fetta del circolo intellettuale newyorchese, facendo riferimento anche ad alcune teorie dello psicanalista Wilhelm Reich sul rapporto tra corpo e psiche. Il romanzo di Quaranta, come la narrazione di quell’evento, s’incunea nel pertugio di ambiguità del subconscio, tra l’io e l’altro, tra realtà e finzione, sanità e follia. Protagonista è uno psichiatra che presenta sintomi – amnesia, mancamenti, eterocromia dell’iride, altera-
zione della vista – che secondo lui sono riconducibili a una malattia sconosciuta. Tutti pensano a una fragilità mentale, tranne il narratore, amico e collega, che ne segue la sintomatologia e l’evoluzione. Il romanzo è inclassificabile, lo stesso aggettivo con cui è descritto il protagonista: s’incurva intorno a considerazioni filosofiche, citazioni intellettuali, fotografie, metanarrativa, accademia. Quello di Quaranta, scrittore e psichiatra, è un esordio colto, estetico, dal fascino novecentesco. u
I consigli della redazione
Azareen Van der Vliet Oloomi Chiamatemi Zebra Keller
Il romanzo
Brandon Taylor Gli ultimi americani Bollati Boringhieri, 272 pagine, 18 euro ●●●●● “Non parliamo di soldi”, implora un personaggio del secondo romanzo di Brandon Taylor, Gli ultimi americani. Già, ma come evitare l’argomento? Il cast di Taylor è composto per lo più da aspiranti artisti di un’università dell’Iowa – ballerini, poeti – e il denaro (o piuttosto la sua mancanza) ne determina le relazioni, gli stati d’animo e il senso di sé. Li conforta e li spezza. I romanzi ambientati tra artisti e universitari non sono rari. Ma Taylor osserva questo ambiente con occhi nuovi, mostrando come i fili sociali, sessuali e creativi nelle vite dei suoi personaggi s’intrecciano o si spezzano. Ivan, aspirante ballerino prima di essere messo da parte da un infortunio, ama Goran, un pianista con un fondo fiduciario, una dinamica che genera una tempesta di sensi di colpa e di atteggiamenti passivo-aggressivi. Quando Ivan lancia un account tipo OnlyFans per postare filmati di sesso, alleggerisce il problema dei soldi ma sconvolge tutto il resto. Seamus, un poeta, s’imbroncia durante i suoi seminari, disprezzando gli scrittori che parlano di traumi, colonialismo e sessismo. Il suo secondo lavoro nella cucina di un ospizio è sicuramente un motivo di orgoglio – sia chiaro che non è un artista privilegiato dell’alta società – ma anche una fonte d’imbarazzo. Il sesso furtivo alimenta il disgusto per se stesso. Poi c’è Fatima, una ballerina, che fa tur-
YVES SALMON (GUARDIAN/EYEVINE/CONTRASTO)
Precariato esistenziale
Brandon Taylor ni massacranti in un caffè, e il lavoro spinge i suoi colleghi a vederla come una persona troppo impegnata con la sua musa, o non abbastanza. Gli ultimi americani è strutturato come una raccolta di storie collegate che saltano da un personaggio all’altro, da una coppia all’altra. Ma a differenza di molti romanzi di questo tipo, non dà l’idea di capitoli disparati frettolosamente cuciti in una narrazione. L’empatia di Taylor per i suoi personaggi è profonda, e in ogni momento vuole sottolineare la loro precarietà, la follia di aspirare all’arte in un’epoca in cui il denaro la sminuisce o la distrugge. Con Gli ultimi americani Taylor ha anche approfondito e superato i tradizionali romanzi ambientati nei campus universitari. Rivela le tempeste economiche ed emotive che si nascondono in questo ambiente, e nel farlo mostra quanto siano comuni e quanto il dolore che possono provocare sia universale. Mark Athitakis, The Washington Post
Veronica Raimo La vita è breve, eccetera Einaudi
Louise Glück Marigold e Rose. Una storia Il Saggiatore, 80 pagine, 10 euro ●●●●● Marigold e Rose della poeta statunitense Louise Glück, premio Nobel per la letteratura nel 2020 e morta il 13 ottobre 2023, può essere divorato in una sola seduta, e questo è probabilmente il modo migliore per entrare nel suo mondo stranamente ipnotico, in parte perché il tono non scivola mai verso un’intensità violenta, e in parte per il ritmo ordinato della prosa di Glück. Dieci brevi capitoli raccontano – anche se non in ordine cronologico – il primo anno di vita di due gemelle, le Marigold e Rose del titolo. In questo periodo muore la nonna, la madre prova a tornare al lavoro, le gemelle “prima gattonano, poi camminano e si arrampicano, poi parlano”. Il libro potrebbe sembrare limitato o addirittura, dato l’argomento, banale. Trattandosi di Glück, non c’è questo pericolo. Al contrario, come la sua poesia, Marigold e Rose trae forza da un’acuta capacità di osservazione. Quasi a sottolineare la somiglianza con la metrica dei versi, ogni capitolo non è diviso in paragrafi che si susseguono discorsivamente, ma in blocchi di testo collegati tra loro e separati da quelle che in un’opera poetica chiameremmo interruzioni di strofa. E in effetti questi blocchi di testo ricordano un po’ le strofe di una poesia. Ognuno di essi agisce come una sorta di tableau vivant all’interno della storia: messi l’uno accanto all’altro, fanno pensare a un fregio. La novella di Louise Glück offre un tenero esame dei modi diversi di entrare nella giovinezza, uno dei quali è diventare una scrittrice. Fiona Sampson, The Guardian
Yuliana Ortiz Ruano Febbre di carnevale Sur
Julius Taranto Come ho vinto il Nobel Blu Atlantide, 299 pagine, 19 euro ●●●●● Il Rubin Institute Plymouth (Rip), conosciuto anche come Cancel university, è un rifugio per i problematici, i censurati e gli sventurati nell’eccezionale romanzo satirico di Julius Taranto. Situata su un’isola immaginaria al largo del Connecticut, l’università è stata fondata da un miliardario provocatore. Nella sua guerra contro l’ideologia woke, il presidente dell’università si è accaparrato i più brillanti tra i “cancellati”: professori licenziati per molestie si aggirano per il campus insieme a piccoli truffatori, personaggi televisivi, un ex senatore che una volta si è travestito da nero. La protagonista Helen è un’assunzione collaterale. Il suo mentore, il fisico premio Nobel Perry Smoot, si è unito al Rip dopo essere stato denunciato per essere andato a letto con una studente. Helen e Perry sono vicini a una scoperta nel campo della superconduttività che potrebbe portare enormi guadagni, quindi lei non ha altra scelta che seguirlo: una seccatura per Helen, ma un autentico tormento per il marito Hew, sensibile e di sinistra. Mentre Helen s’immerge nel suo lavoro e comincia ad apprezzare le virtù di questo “sogno libertario e libertino” ben finanziato – dove, sostengono i suoi campioni, l’eccellenza professionale ha più valore della correttezza politica – Hew trascorre le sue giornate online, radicalizzandosi. Una favola divertente e contemporanea sulle assurdità di un mondo in cui la politica condiziona ogni aspetto della vita quotidiana. Sam Sacks, The Wall Street Journal
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Cultura
Libri dalla sua eroina, una creatura orribile che sembra “uscita dalle latrine”. Vincent Roy, L’Humanité Namwali Serpell Tra le onde Fazi, 324 pagine, 18 euro ●●●●● Il secondo romanzo di Namwali Serpell è un’elegia. Un giorno, al mare, quando Cassandra – detta C – ha dodici anni, avviene un incidente terribile e inspiegabile e il suo fratellino, Wayne, di sette anni, è perso per sempre: il suo corpo non sarà mai ritrovato. La famiglia convive con questo trauma; la madre, che nega la morte di Wayne, crea Vigil, una fondazione che si occupa di bambini “scomparsi”, e il padre se ne va. Anche quando Cassandra diventa maggiorenne è inseguita dallo spettro del fratello. Con un abile stratagemma, Serpell continua a riportare indietro le lancette dell’orologio, reimmaginando
ogni volta la scena dell’ultimo giorno sulla spiaggia. Wayne che muore in un incidente d’auto. Wayne che è catapultato da una giostra. Il lettore si chiede: come è morto davvero? È morto davvero? “Non voglio dirvi cosa è successo. Voglio dirvi come mi sono sentita”, dice Cassandra. L’ambientazione della storia, tra spiagge, strade e aeroporti, è secondaria rispetto alle emozioni che suscita. Cassandra non smette mai di soffrire. Poi c’è un altro incidente. Da giovane donna incontra un uomo di nome Wayne che le ricorda suo fratello in modi che non riesce a razionalizzare. Quella che segue è una storia sulla scivolosità della vita, che s’interroga sulle emozioni legate al ricongiungimento e alla redenzione e all’identità meticcia. Possiamo riscrivere la morte? Possiamo riscrivere la vita? Possiamo amare di nuovo, dopo una perdita? Sana Goyal, Financial Times
Non fiction Giuliano Milani
Le origini del ginepraio Lorenzo Kamel Terra contesa Carocci, 338 pagine, 30 euro Da più di un mese la violenta ripresa del conflitto israeliano-palestinese spinge gli osservatori su sponde opposte, privandoli della possibilità di condividere ragionamenti approfonditi, di procedere a quella che pochi giorni fa Barack Obama (ammettendo anche le proprie responsabilità) ha chiamato una necessaria admission of complexity. Per capire la complessità, questo libro è una lettura molto utile.
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Kamel, che insegna a Torino, ripercorre la vicenda di questa regione molto prima di quello che si usa prendere come inizio del conflitto, la spartizione della Palestina nel 1947. Si sofferma infatti sulle vicende non solo militari, ma anche economiche, connesse alla proprietà delle terre e all’amministrazione dei primi nuclei ebraici, e racconta i processi che portarono alla dichiarazione di Balfour del 1917 e, in seguito, alle decisioni delle Nazioni Unite. Trattando dell’attuale accesso ai docu-
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menti dell’epoca, mostra come quegli eventi lontani siano ancora importanti per capire cosa sta succedendo oggi e per giudicare, anche prendendo posizione. “Ma prendere posizione”, scrive Kamel nell’introduzione, “facendo emergere i torti e le cicatrici della storia non esclude la possibilità di mantenere molti punti interrogativi, che, nel caso di questo lavoro e come proiezione di lungo termine dei temi in esso trattati, sono cresciuti di pari passo con la profondità dell’analisi sviluppata”. u
Spagna
ANA PUIT
Frédéric Richaud Mostri Ponte alle Grazie, 176 pagine, 16 euro ●●●●● Frédéric Richaud purtroppo scrive poco. Torna adesso con un romanzo, genere che aveva abbandonato nel 2011. Mostri è ambientato nella Parigi del 1655. È la storia del destino di una donna singolare, prima di tutto fisicamente. Catherine Bellier, detta Cateau, era deforme al punto di provocare ribrezzo in chi la incontrasse, ma era anche brillante e sensibile. Era una guaritrice, specializzata in intestini. La sua fama la avvicinò alla regina Anna d’Austria (e in seguito a Luigi XIV), di cui curò le afflizioni. Mazarino non la prese bene. In breve, a corte contava solo l’apparenza, anche se si trattava di bugie. La stupidità regnava. E “i mostri non sono quelli che si pensa che siano”. Richaud è abile e dotato. È un piacere ascoltarlo parlare della “relatività del brutto” a partire
Laura Fernández Damas, caballeros y planetas Random House Le storie divertenti e fantasiose di questa raccolta sono ambientate in angoli della galassia incredibilmente assurdi. Fernández è nata a Terrassa, vicino a Barcellona, nel 1981. Cristina Rivas Hernández Una tigre a París Angle Editorial Due donne s’incontrano a Parigi. Una è un’attrice siriana e un simbolo della rivolta contro Assad. L’altra è una giornalista catalana, rimasta ferita in Medio Oriente. Rivas Hernández è nata a Barcellona nel 1974. Manuel Jabois Mirafiori Alfaguara Valentina e il narratore si conoscono dall’adolescenza e da allora condividono un segreto. Ora hanno superato i quarant’anni: Valentina è un’attrice di successo e lui è un uomo deluso e sfortunato. Manuel Jabois è nato a Sanxenxo (Pontevedra) nel 1978. Gonzalo Pontón El franquismo: una historia gráfica Editorial Pasado y Presente Storia illustrata della dittatura del generale Franco rivolta soprattutto ai ragazzi. Gonzalo Pontón è nato a Barcellona nel 1944. Maria Sepa usalibri.blogspot.com
INSERZIONE PUBBLICITARIA
SAVE THE PLANET CERTIFICATION:
ENEGAN CONTINUA NEL SUO PERCORSO GREEN Dal 2010, anno di fondazione, l’azienda investe concretamente in sostenibilità, puntando sull’energia verde
Il tema della sostenibilità ambientale è sempre più centrale nel dibattito politico ed istituzionale, e non solo. Il surriscaldamento globale, la siccità, milioni di specie a rischio e l’aumento della povertà sono solo alcuni degli effetti diretti del cambiamento climatico. È sempre più importante che le istituzioni e il mondo delle imprese facciano squadra per contrastare le conseguenze sempre più evidenti e aggressive del cambiamento climatico. Enegan, trader di luce, gas e telecomunicazioni, investe sul tema sostenibilità dal 2010 e si è da sempre posta l’obiettivo di ricoprire il ruolo di Energy Partner, ovvero una presenza costante al fianco di aziende e privati, che sappia guidare i clienti verso un futuro sostenibile. L’unico futuro che ritiene possibile. Il punto di forza di Enegan, in termini di sostenibilità, è rappresentato dalla fornitura green della propria offerta, per la quale l’azienda è all’avanguardia avendo scelto, fin dalla sua fondazione, di puntare la sua strategia sull’energia verde, prodotta esclusivamente da fonti rinnovabili, senza quindi l’impiego di combustibili fossili e senza emissioni di gas serra nell’atmosfera. Ed è proprio per questo motivo che al suo interno ha deciso di strutturare una realtà come Save The Planet Certification. Si tratta della società di ingegneria di Enegan, che si occupa di sostenibilità ed efficientamento energetico per le aziende clienti. L’attività è incentrata nel far intraprendere alle imprese percorsi di sostenibilità, quantificazione e riduzione delle emissioni di CO2, reporting
https://www.enegan.it/
ESG ed efficienza energetica; proprio quest’ultima è una delle misure con maggior impatto in termini di riduzione dei Gas ad effetto serra e della CO2. Attraverso valutazioni ed analisi ambientali personalizzate, Save The Planet Certification affianca le realtà imprenditoriali di ogni settore in un percorso virtuoso e propedeutico al rilascio delle certificazioni riconosciute in ambito europeo sulle temat che centrali di sostenibilità ambientale. Le principali aree di attività sulle quali opera Save The Planet Certification riguardano report di sostenibilità, report ESG, corporate Carbon footprint, Carbon footprint ed LCA di prodotto, Water footprint, basandosi sui principali standard internazionali di riferimento. Save The Planet Certification si riferisce trasversalmente ad ogni categoria di azienda e di dimensioni, lavorando sia su grandi realtà strutturate sia su aziende piccole e micro. Infatti, una delle mission più ambiziose dell’azienda è quella di entrare in contatto con le micro/piccole e medie realtà imprenditoriali del territorio italiano, per consentire anche a queste (che rappresentano il peso più rilevante dell’imprenditoria italiana) un approccio sempre più consapevole ed autorevole sulle tematiche di sostenibilità e transizione ecologica. In un mercato sempre più esigente e consapevole alle ricadute socio-ambientali delle proprie attività, la mission di Save The Planet Certification è quella di aiutare le imprese ad orientarsi verso scelte più consapevoli e responsabili, che migliorino la propria impronta ecologica.
Cultura
Libri Ragazzi Detective in erba Paolo Roversi Il codice segreto di Leonardo Piemme, 160 pagine, 11,90 euro La collana Giallo e nero del Battello a vapore regala sempre tanto mistero e libri davvero appassionanti. In ogni volume troviamo dei giovani che come detective non hanno nulla da invidiare ai famosi Sherlock Holmes o Hercule Poirot. Nella storia scritta da Paolo Roversi, il modello è il famoso Codice da Vinci, solo che rispetto al fortunato best seller il codice è ancora più segreto. Parte tutto da un delitto. La vittima è Leonardo. Anzi dovremmo dire un Leonardo. Infatti non siamo in pieno rinascimento e da Vinci è solo una maschera, un Leonardo dei giorni nostri nato per una rievocazione in costume dedicata al genio toscano. Insomma, già abbiamo molti ingredienti contraddittori. A questi vanno aggiunti l’ambientazione, il bellissimo Castello sforzesco, e un ragazzo, Ricky, testimone diretto dei fatti, che di tutta quella faccenda ingarbugliata vuole venire a capo. Ma come in ogni giallo classico che si rispetti non può mancare un Watson, un fedele aiutante del detective. A ricoprire questo ruolo ci pensa l’amica di Ricky, Marta. Paolo Roversi costruisce una macchina appassionante per bambini e ragazzi dove al centro di tutto c’è la vittima, un archivista in pensione ossessionato da Leonardo. Il resto naturalmente non va svelato, è un giallo. Igiaba Scego
Ricevuti Hugo Pratt Il desiderio di essere inutile Cong, 432 pagine, 38,50 euro Il critico Dominique Petitfaux ripercorre e analizza con Pratt la sua intera opera attraverso i ricordi avventurosi, fin dall’adolescenza africana. Tiziano Bonini, Marta Perrotta Che cos’è un podcast Carocci, 128 pagine, 13 euro Una guida per approfondire la conoscenza del formato che sta trasformando il modo in cui ascoltiamo e raccontiamo le storie.
Fumetti
In pochi tratti Tullio Pericoli Ritratti di ritratti Adelphi, 920 pagine, 45 euro Tullio Pericoli, pittore con un passato anche nel fumetto (L’Espresso, Linus), ha lavorato enormemente sullo schizzo, su tratti “incerti e ansiosi”, fragili e flebili, che assumono gradualmente grande forza, per giungere ai Ritratti dei ritratti, concentrati soprattutto intorno a letterati ma non solo. Qui, con parità di diritto, convivono i vari stadi della creazione che in qualche modo corrispondono anche alle varie fasi della storia dell’arte. L’essenza dell’arte sta nel finito, oppure nell’abbozzo fresco dove sono indovinati i tratti chiave del soggetto rappresentato? Nelle sue acqueforti Rembrandt lavorava sui vuoti, il bianco, allo scopo di mantenere la forza dirompente del
getto iniziale: “Un pezzo è finito se l’artista ha ottenuto ciò che si è prefisso di raggiungere”, diceva. Più avanti Matisse, che con il suo calligrafismo orientale ha tanto influenzato il fumetto, teorizzava l’astrazione nel figurativo. Difficile mantenere nel finito l’infinito che sempre traspare nei tratti essenziali. I ritratti di Pericoli, cugini del calligrafismo indagato dall’arte del novecento così come dal fumetto (si veda per esempio la mostra Picasso et la bande dessinée al Musée Picasso di Parigi), sembrano riuscirci in tutte le fasi svelando qualcosa dell’ineffabile dell’arte, del suo mistero. Del resto, scriveva Karl Kraus in Detti e contraddetti (Adelphi 1992): “Pazienza, voi ricercatori! Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce”. Francesco Boille
Massimiliano Ossini Amico Salani, 144 pagine, 14,90 euro Il racconto di un’estate indimenticabile, quella dei tredici anni, in cui tutto cambia. Anne-Sophie Subilia La moglie Gabriele Capelli editore, 160 pagine, 18 euro Gaza, 1974. Un’intensa riflessione sull’emancipazione femminile collocata nel contesto del durissimo conflitto israelo-palestinese. Andrea Greco, Giuseppe Oddo L’arma del gas Feltrinelli, 224 pagine, 20 euro Il taglio dei rifornimenti di gas dalla Russia apre una fase nuova nelle relazioni tra paesi produttori e consumatori. Ma a quali condizioni per famiglie e imprese?
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Cultura
Suoni Podcast La fine di un falso mito
Dall’America Latina
Nygel Turner, Dominique “Dom” French Myth of black athleticism Adultish, Radiotopia È una credenza popolare comune quella secondo cui i neri ottengono ottimi risultati nello sport grazie a delle caratteristiche biologiche, soprattutto in alcune discipline come il basket, la corsa, il pugilato o altre attività in cui è importante la struttura fisica di un atleta. Ci sono dei dati empirici, come il 75 per cento degli afroamericani nell’Nba o la lista dei maratoneti vincitori di medaglie d’oro alle olimpiadi, ma le possibili spiegazioni di questi fenomeni in realtà vengono più dalla storia e dalla sociologia che non dalla biologia. Potrebbe aver contribuito il fatto che per decenni gli sport di squadra sono stati proibiti agli atleti neri, o il fatto che per molti giovani neri lo sport è l’unico modo per accedere a un percorso scolastico grazie alle borse di studio, e per questo dedicano all’allenamento molto più tempo di chi ha anche altre possibilità. Il pregiudizio razzista secondo cui le persone nere sono geneticamente predisposte per eccellere nello sport implica che non lo sarebbero in altri campi. Nell’ultima puntata di Adultish, il podcast di Radiotopia che racconta tutto quello che si scopre diventando adulti, la cestista universitaria Sharon Darlene racconta tutte le discriminazioni sportive a cui è stata sottoposta, svelando che è stata la morte ingiusta di suo fratello a motivarla nel basket femminile. Jonathan Zenti
Un documentario racconta le origini latine del rap occidentale
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Una nuova docuserie esplora le diverse scene dell’urbano (un termine che comprende generi musicali tipici dell’America Latina come il reggaeton, la dancehall e l’hip-hop) sparse per tutto il mondo. De la calle, in streaming dal 7 novembre su Paramount+, presenta interviste con pionieri del genere come Fat Joe e N.O.R.E., autori del classico reggaeton Oye mi canto, e Residente, oltre a star più contemporanee, tra cui Feid, Sech, Villano Antillano e altri. De la calle è narrato dal giornalista argentino statunitense Nick Barili. La docuserie
PARAMOUNT+
Dalla strada
De la calle dura otto episodi e tocca diverse parti degli Stati Uniti, dell’America Latina e della Spagna. Nel primo episodio Barili va a New York per esplorare l’influenza latina sull’hip-hop. È particolarmente attuale, considerando che il genere ha compiuto cinquant’anni ad agosto.
“Come immigrato di prima generazione che ha imparato a parlare inglese attraverso l’hip-hop alla Malcolm X elementary school, sono cresciuto a cavallo tra due mondi, parlando inglese a scuola e spagnolo a casa”, ha dichiarato Barili. “Sono stato influenzato da El General e Calle 13 tanto quanto da E-40 e Outkast. Ho fatto De la calle per raccontare come le fonti d’ispirazione dell’hip-hop siano presenti anche in tutta l’America Latina e in Spagna. E per condividere le storie delle star di oggi e di domani”. Altre aree visitate da Barili nella serie includono Panamá, Puerto Rico, Cuba, Argentina e Messico. Lucas Villa, Remezcla
Canzoni Claudia Durastanti
Comunità in viaggio Grazie a un paio di eventi all’Angelo Mai di Roma, curati da Scuderie MArteLive, sono riuscita a mettere a fuoco una cosa nella cosmologia musicale: il senso di comunità o di band allargata non solo come strategia di sopravvivenza (più collaborazioni si fanno più si alimentano le fonti di reddito) o come contenitore politico, ma come cassa di risonanza che fa vibrare il lavoro di ogni musicista in maniera più alta e complessa, creando una serie di formazioni itineranti e informali che instaurano rapporti elettromagnetici a
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vicenda. Il primo spettacolo da recuperare è quello legato a Motel chronicles, in cui Emidio Clementi e Corrado Nuccini danno una vita multiforme al testo dello scrittore Sam Shepard (il disco è uscito per 42 Records) dopo aver già lavorato su Emanuel Carnevali e T.S. Eliot. Sul palco con loro c’erano Francesca Bono ed Emanuele Reverberi, e in alcuni momenti anche Stefano Pilia. L’aspetto interessante è osservare come una luce americana cada su ognuno di loro in maniera diversa, a partire dall’attaccamento di
Clementi, che è come un palombaro che non dimentica la struttura del proprio corpo e della propria voce quando attraversa le correnti d’oltreoceano, mentre l’approccio di Nuccini somiglia più a uno studio fisico del deserto. Bono invece offre un contraltare elettrico, notturno e atmosferico che permette alla tromba di Reverberi di risultare come un passante singolare, un viandante che Shepard ha raccontato spesso. La natura di Motel chronicles è questa: farsi passaggio, diventare altrove. u
Pop
Sofia Kourtesis Madres Ninja Tune
Scelti da Giovanni Ansaldo
Bad Bunny Nadie sabe lo que va a pasar mañana Rimas Entertainment Cat Power
Lost Girls Selvutsletter Smalltown Supersound ●●●●● Alcuni possono tranquillamente scrivere, registrare e pubblicare della musica, ma
Jenny Hval è diversa da loro, perché per lei è una necessità. Con un album pubblicato ogni anno dal 2011, ormai ha un archivio tale da lasciare intendere che se non fosse così prolifica esploderebbe. Håvard Volden, suo compagno nel progetto Lost Girls, è simile a lei e il loro secondo lavoro insieme è un’altra scatola di pop sperimentale. Selvutsletter è un mix invitante di avanguardia e dance orecchiabile. Nelle cadenze spettrali di Hval convergono gli echi di straordinarie sperimentatrici come Björk, Laurie Anderson e Kate Bush, ma l’apporto di Volden non è meno indispensabile: usa i sintetizzatori come fossero chitarre, creando paesaggi sonori densi e atipici, tra Steve Reich e Brian Eno. I due si compensano l’una con l’altro, andando oltre la piacevolezza radiofonica di Classic objects e avvicinandosi al vampiresco Blood bitch, due album di Hval del 2022 e del 2016. Selvutsletter è un disco che invita a fermarsi e perdersi al suo interno. Il mondo ci sembrerà diverso quando riemergeremo. Hayden Merrick, Loud and Quiet
José Navarro-Silberstein Vibrant rhythms. Musiche di Ginastera, Villa-Lobos, Sandi, Schumann José Navarro-Silberstein piano Genuin ●●●●● Il titolo di questo album, che in italiano sarebbe Ritmi vibranti, descrive bene sia il repertorio sia lo stile esuberante e incisivo del giovane pianista boliviano José Navarro-Silberstein. Nella Suite de danzas criollas di Ginastera ci sono momenti sottili e sexy, ma anche uno swing contagioso. Nella selezione di Villa-Lobos il Plantio do caboclo ha una prospettiva perfetta, e il pianista spara senza esitazione le note ripetute e i glissandi spe-
ricolati della Dança do índio branco. I Ritmos panteísticos di Marvin Sandi non sono tutti altrettanto interessanti, ma è difficile immaginarne un’esecuzione più impegnata. Alla fine ecco le Davidsbündlertänze di Schumann, una delle sue sequenze di pezzi più volubile e stravagante, 18 brevi movimenti che lasciano un grande margine di libertà interpretativa. Gli audaci abbellimenti del virtuoso di La Paz nel primo e nel settimo pezzo ne sono un’ottima dimostrazione, e raramente lo stride piano del numero 8 è suonato così facile e disinvolto. Ma Navarro-Silberstein sa anche quando è meglio rimanere semplici, come dimostra la sua interpretazione diretta e sincera del numero 17. Vibrant rhythms è il notevole debutto solista di un pianista che vale la pena di seguire con attenzione. Jed Distler, Classics Today
Newsletter Musicale è la newsletter settimanale di Internazionale su cosa succede nel mondo della musica. Esce ogni lunedì. Per riceverla: internazionale.it /newsletter Lost Girls
SIGNE FUGLESTEG LUKSENGARD
Cat Power Cat Power sings Dylan: the 1966 Royal Albert hall concert Domino. ●●●●● Non sorprende che Chan Marshall, in arte Cat Power, si diverta a mettere la sua impronta sul materiale degli altri. Ha già pubblicato tre album di questo tipo: The covers record (2000), Jukebox (2008) e Covers (2022). Registrare una raccolta di canzoni di Bob Dylan non è un’idea nuova. Ma affrontare tutti e 15 i brani (sette acustici e otto elettrici) dal famigerato tour del 1966 dal vivo alla Royal Albert Hall di Londra nel 2022 spinge il concetto verso il territorio della performance d’arte. A parte il fatto che il pubblico britannico era più bendisposto verso Cat Power rispetto a quello ribelle di Dylan (all’epoca gli urlarono “Giuda!” per contestare la sua svolta elettrica), non c’è molta alterazione negli arrangiamenti scelti da Cat Power. Lo stile morbido di Marshall è diverso da quello acuto e roco di Dylan, e i suoi musicisti, anche se esperti, non offrono le dinamiche di The Band. È un gioco divertente, soprattutto per i fan di Cat Power, che applica la sua impronta al materiale che ama. L’atmosfera dal vivo esalta l’entusiasmo, l’audio è nitido e lo spettacolo realizza quello che si propone. Ma non sostituisce di certo l’originale. Hal Horowitz, American Songwriter
INEZ+VINOODH
Album
Sampha Lahai Young
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Pop A che serve andare al cinema
A.O. Scott uest’estate sono tornato al cinema dodel covid, le sale cinematografiche hanno chiuso, po più di ventitré anni. O meglio, pur l’ultima innovazione tecnologica è cominciata a avendo visto in quel periodo più film sembrare una manna dal cielo. di chiunque altro io conosca, lo avevo Devo ammettere che lo streaming aveva qualcosa sempre fatto per lavoro, da critico cidi magico. Per via del mio lavoro, avevo sempre assonematografico del New York Times. ciato i film all’andare al cinema, anche quando gran Anche quando andavo al cinema con la famiglia o gli parte del pubblico aveva adottato un approccio più amici, mi sentivo sempre in servizio. Con i miei eclettico. Durante i lockdown, isolato in uno spazio compagni critici macinavamo film come operai in più piccolo con uno schermo più piccolo, mi sono rifabbrica, a volte alle anteprime, seduti in file risertrovato solo in una vasta cineteca digitale. Libero dal vate, altre volte ai festival, oppure in discrete sale di calendario delle nuove uscite e delle consegne di reproiezione di qualche palazzo di uffici censioni, guardavo tutto ciò che mi caAndare al cinema a Manhattan. pitava sotto gli occhi. Una mattina mi E poi un giorno, come un pistolero sarebbe diventato sono calato due volte Essere John Malkoaffaticato che ne ha viste troppe, ho de- come leggere poesia vich, in una sorta di fuga psicogena dalciso che era arrivato il momento di al- o ascoltare vinili le chiusure, convinto che il film di Spike lontanarmi, nella luce del tramonto. con un giradischi: Jonze racchiudesse la spiegazione di Nel marzo 2023 ho pubblicato la mia un’attività tutto ciò che era già accaduto e che doultima recensione e mi sono congeda- di nicchia, veva ancora accadere nella mia vita. to. Dopo aver passato 21 settimane a Durante il primo anno della pandel’espressione di una leggere libri, studiare il meteo e tentamia, guardare film (che per me era presa di posizione re d’imparare a suonare un nuovo strusempre stata un’attività al tempo stesmento, mi sono sentito abbastanza di- culturale so solitaria e sociale e, soprattutto, un sintossicato per tornare al cinema colavoro) è diventato un po’ come leggeme una persona normale. Il caso ha voluto che fosse re, leggere come leggevo quando ero un bambino l’estate in cui anche le altre persone normali avevaprecoce e saccheggiavo gli scaffali dei miei genitori. no deciso di tornare al cinema. E così siamo andati Ero disordinato, ossessivo, impaziente, acritico. tutti a vedere Barbie e Oppenheimer. Forse non c’era bisogno di tornare nelle grandi Il cinema era tornato! sale buie. Forse lì non c’era nulla da vedere. Quando O almeno era quello che dicevano i giornali, gral’emergenza covid-19 è cominciata a rientrare, le zie al fenomeno Barbenheimer: due lungometraggi profezie sulla scomparsa delle sale cinematografiattesissimi e molto pubblicizzati, usciti lo stesso che non si sono fermate. Secondo l’opinione che si giorno per una durata totale di quasi cinque ore, nel andava diffondendo, i grandi successi avrebbero anprimo weekend hanno incassato insieme quasi che continuato a riempire le sale cinematografiche, 250 milioni di dollari in Nordamerica. In passato ma il futuro era chiaramente asincrono e casalingo. non avrebbe fatto notizia: un film di successo – anAndare al cinema sarebbe diventato come leggere che due contemporaneamente – non era un evento. poesia o ascoltare vinili con un giradischi: un’attività Quest’estate, invece, è sembrato speciale, perché di nicchia, l’espressione di una presa di posizione era come se segnasse il ritorno della normalità in un culturale che combina un principio estetico, una promondo confuso e precario. testa filosofica e un tocco di ricercatezza. Per riprenBarbie e Oppenheimer si sono scontrati con la tesi dere un recente titolo del trimestrale Filmmaker, “il che il cinema fosse morto, o quanto meno che andacinema è morto e siamo tutti i suoi fantasmi”. re al cinema come facevamo una volta fosse ormai La morte del cinema è proclamata più o meno da roba del passato. Già prima della pandemia, ci era quando è nato. Una lista parziale delle forze che da stato detto che il futuro era lo streaming: un’ininternovant’anni minacciano la sua esistenza come forrotta utopia, comoda e accogliente, fatta di contema artistica e come passatempo includerebbe: il sonuti senza fine. Tutti i film che vuoi, quando noro; il colore; il comunismo; l’anticomunismo; il vuoi, ovunque tu sia. Nel momento in cui, a causa sesso; l’assenza di sesso; il sistema degli studios; il
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A.O. SCOTT
è un giornalista statunitense. È stato critico cinematografico per il New York Times dal 2000 al marzo del 2023. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Elogio della critica (Il Saggiatore 2017). Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo Is it still worth going to the movies?
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CHRISTIAN DELLAVEDOVA
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Pop
Storie vere Una donna di cui non sono state rese note le generalità ha accompagnato i figli a portare dolcetti di Halloween a casa di un amico a Manhasset, a New York, negli Stati Uniti. Quando se ne sono andati la mamma si è accorta che avevano portato le caramelle nella casa sbagliata, così è tornata indietro e suo figlio di 6 anni è uscito dalla macchina per riprendere il pacco. L’uomo che viveva lì è uscito puntandogli contro una pistola e urlando: “Vattene dalla mia cazzo di casa!”. La donna ha chiamato la polizia. Michael Yifan Wen, 43 anni, è stato arrestato con l’accusa di minacce e aggressione a un minore. Si è dichiarato innocente, dicendo: “Volevo solo spaventarli”.
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crollo del sistema degli studios; la televisione via ca vo; internet; i videogiochi; i supereroi; i cinefili snob. Nulla di tutto ciò ha mai distrutto il cinema, ma il timore che qualcosa prima o poi lo faccia, la certezza che qualcosa lo abbia già intaccato, spiega il tenace fatalismo che accompagna tutti i discorsi d’amore sul tema. Per oltre 125 anni i film si sono espansi e moltiplicati su schermi sempre più numerosi e gran di ma anche più piccoli, dalle vecchie sale dei nickel odeon al cinemascope, dall’iPhone al formato Imax. Però al tempo stesso i più appassionati e sofisticati sostenitori del cinema hanno avuto la sensazione che si stessero inaridendo e deteriorando. In Viale del tramonto, il cupo, cinico noir hollywoodiano fir mato da Billy Wilder, la dea del cinema muto Norma Desmond (interpretata dalla dea del cinema muto Gloria Swanson) si lamenta perché il cinema è di ventato piccolo. Era il 1950, nel pieno di quella che presto sarebbe stata ricordata come una straordina ria età dell’oro. Fateci caso: cominciate a parlare di cinema e poco dopo qualcuno dirà che non si fanno più i film di una volta. In realtà non ci sono mai stati i film di una volta. La nostra memoria culturale seleziona la roba buona e cestina gli scarti. Rivede senza sosta i suoi giudizi, lasciando dei capolavori scivolare nell’oblio e sco prendo chicche perdute tra la spazzatura. I film stes si cambiano di decennio in decennio, generando un’immediata nostalgia. In ogni fase della loro esi stenza mutano così drasticamente – cambiando di mensioni, forma e apparenza – da sottrarsi a ogni tentativo di definizione. Un tempo pensavo che la tendenza a vedere epo
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che d’oro e periodi di decadenza fosse frutto della mia deformazione professionale. Un critico si sente in dovere non solo di valutare i meriti di questo o quel film, ma anche, di tanto in tanto, di esprimersi sul futuro del cinema. O forse era la mia ambivalen za che proiettava una luce rosea o crepuscolare su quel futuro. Vedere trecento, quattrocento film all’anno vuol dire vivere i più intensi accessi di amo re cinefilo e sprofondare nella noia più vertiginosa, ed è facile scambiare le oscillazioni del proprio umo re per scosse sismiche della storia. Ma niente di tutto questo spiega perché il cinema sia così meraviglioso e così orribile, così magico e così deprimente. La ve ra causa è qualcosa di cui parliamo poco volentieri: i soldi. Nel suo saggio Hollywood: having fun, uscito nel 1973 sulla New York Review of Books, Joan Didion sostiene che nell’industria cinematografica esiste un’unica vera forma artistica: l’affare. Il sottinteso è che i film sono un prodotto derivato del lavoro crea tivo che consiste nel finanziarli e venderli. Quello che vediamo sullo schermo – le star, gli effetti specia li, il set, le riprese – è come l’immagine residua che risulta da una decisione economica. Perché fingere che non sia così? Come ogni di scorso prodotto nel ventunesimo secolo, la cinefilia moderna tende alla quantificazione, alla misurazio ne, alla matematica. I critici non dovrebbero interes sarsi al costo o agli incassi di un film, ma la verità è che i soldi stanziati e i ricavi al botteghino sono una fonte d’informazioni molto utile. Il cinema è sempre stato un’impresa ad alta in tensità di capitale, e andare a vedere i film nelle sale
è sempre stato un’attività consumistica. Prima dello streaming, quando parlavamo di grandi successi o di film emersi ai festival, di titoli in lizza per gli Oscar o adorati dal grande pubblico, i soldi erano un elemen to implicito della conversazione. Erano usati come indice di successo o di flop, come parametro per va lutare la reazione del pubblico e la rilevanza cultura le di una pellicola. E non solo dai critici. In una settimana qualsiasi, all’epoca, bastava dare un’occhiata alle classifiche del box office (e agli indici di popolarità televisiva) e sentivi di aver colto qualcosa dello stato dell’arte e dell’umore del pubblico. Non capivi tutto, e proba bilmente non le cose più importanti, ma potevi tro vare un modo di definire le cose più importanti con trapponendole a quei numeri. Le preferenze e le abitudini di ognuno di noi acquisivano un contesto: potevamo nuotare con o contro la corrente dell’en tusiasmo, della pubblicità e del pensiero di gruppo. La vita sociale dei film era inseparabile da quella economica. Lo streaming ha cambiato le cose. Come molte tecnologie digitali, ha sbatacchiato le leggi del capi talismo e cestinato i vecchi libri mastri. La transazio ne che lo distingue non è l’acquisto di un biglietto ma di un abbonamento. Oltre a pagare per accedere a dei contenuti, il consumatore accetta il tipo di sorve glianza che è ormai diventata la norma digitale. I nostri dati sono raccolti e inseriti in un algoritmo che sa cos’hai guardato, con quale frequenza e quanto a lungo, e che ti presenta nuove proposte basandosi sulle scelte precedenti. Netflix ci chiede sempre di accedere indicando “chi sta guardando?”, ma non ci dice chi sta guardando insieme a noi. Questa alterazione minima nelle abitudini dei consumatori ha provocato una grande catastrofe culturale: non tanto la morte dei film, quanto l’eclis si del loro significato condiviso. Isolando e aggre gando i suoi utenti, lo streaming dissolve i film tra sformandoli in contenuto. Non appaiono sulle piat taforme, ma ci scompaiono dentro, tremolando in uno spazio silenzioso fuori dalla nostra conversazio ne. Possiamo vederli quando vogliamo. Possiamo guardare qualcos’altro. Non ha importanza. Sicuramente non ha importanza per le piattafor me, il cui modello aziendale dipende da uno stato di attenzione indifferente paradossalmente chiamato coinvolgimento. Finché guardiamo Netflix, a Netflix non interessa cosa stiamo guardando o se al tempo stesso mandiamo messaggi, lavoriamo, schiaccia mo un pisolino o ci stiamo rilassando. La qualità – drammi raffinati, film d’autore, vecchi programmi televisivi a cui siamo affezionati – sarà pure la ragio ne per cui ci abboniamo, ma è la quantità a tenerci lì, ognuno nel nostro bozzolo. La produzione di questo contenuto ha scosso i vecchi modi di fare affari, l’arte di concludere accor di che ha incantato e sgomentato generazioni di os servatori di Hollywood. L’industria del cinema non ha mai brillato per equità, trasparenza oppure onestà contabile, ma
ATHENA FARROKHZAD
Poesia La mia famiglia giunse qui con una visione marxista Mia madre riempì subito la casa di folletti ornamentali Pesò i pro e i contro dell’albero di Natale in plastica come se fosse problema suo Di giorno distingueva tra vocali lunghe e brevi come se il suono che usciva dalla sua bocca potesse lavarle via l’olio d’oliva dalla pelle Mia madre colava candeggina attraverso la sintassi Dall’altro lato della punteggiatura le sillabe le divennero più bianche di un inverno polare
è una poeta, drammaturga, traduttrice e critica letteraria nata a Teheran, in Iran, nel 1983 ed emigrata da bambina in Svezia, dove vive. Questa poesia è tratta dalla sua prima raccolta, Vitsvit (“Suite bianca”, Albert Bonniers Förlag 2013). Traduzione dallo svedese di Dario Borso.
Mia madre a noi costruì un futuro di alta quantità di vita Nella cantina del villino di periferia allineava conserve come prima di una guerra Di sera sbucciava patate e cercava ricette come se la sua storia fosse decifrabile in quella del gratin alle aringhe Pensa che ho succhiato questo seno Pensa che ha ficcato la sua barbarie nella mia bocca. Athena Farrokhzad
quel caos aveva una sua coerenza. Le star sapevano quanto valevano. Registi, registe, sceneggiatori e sceneggiatrici sapevano da dove provenivano i loro compensi. Una parte era versata in anticipo e, con un po’ di fortuna, un altro gruzzolo arrivava alla fine: una quota degli incassi al botteghino, una parte dei diritti legati alla distribuzione e alla vendita di video cassette o dvd, un compenso più alto al prossimo film. Con la televisione, c’erano i soldi legati alla tra smissione e, quando durava a lungo, la stabilità di un impiego sicuro. È da questa nuova instabilità che sono nate le agi tazioni sindacali che da luglio occupano l’attualità cinematografica insieme a Barbenheimer. Gli sce neggiatori e le sceneggiatrici, che hanno interrotto il loro sciopero a settembre dopo 148 giorni, vedono deteriorarsi il loro tenore di vita dopo l’iniziale boom dello streaming e sono preoccupati dai possibili abu si dell’intelligenza artificiale. Gli attori e le attrici, tuttora in sciopero, devono fare i conti con la stessa precarietà. La convergenza dell’intelligenza artifi ciale e di storie scritte con lo stampino lascia intrave dere la possibilità di un mondo in cui sceneggiatrici e sceneggiatori, attrici e attori saranno sempre di meno, sempre meno cari, e alla fine forse semplice mente superflui. Gli scioperi sono stati una forma di protesta con Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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Pop tro questo futuro. Un’altra erano state le folle in fila per andare a vedere Barbie e Oppenheimer. Non mi faccio illusioni: comprare un biglietto per vedere un nuovo film della Warner Bros prodotto sotto gli auspici della Mattel non è esattamente un atto di resistenza anticapitalistica. Ma potrebbe essere un modo per riprendersi un po’ di quell’energia democratica che da sempre è parte della cultura di massa, per rivendicare la propria quota di partecipazione all’economia culturale. Il cinema, ancora una volta, non è morto. Le forme artistiche somigliano ai virus più che alle specie animali. Non si estinguono: mutano, si ricombinano, diventano inattive e si diffondono nuovamente in modi nuovi e a volte irriconoscibili, portando nel proprio dna tracce di precedenti esistenze. Andare al cinema non è sempre un’esperienza magica. Spesso, anzi, vuol dire lottare per il parcheggio, fare la fila al bar, sopportare la gente che parla e manda messaggini nella fila accanto, i pavimenti appiccicosi e proiezioni mediocri. Ma è stata a lungo un’esperienza sentimentale. Moltissimi film hanno scene indimenticabili di estasi cinematografica. Babylon, Empire of light ed È stata la mano di Dio sono tra i più recenti che mi vengono in mente: prodotti dell’era dello streaming che rimandano a epoche d’oro del passato. Elegie per il cinema e preghiere affinché torni. Questa malinconia nasce in parte dall’idea che andare al cinema è uno dei tanti simboli della vita collettiva che – a quanto pare – avevamo prima del nostro presente atomizzato e polarizzato. Vi ricordate quante cose facevamo insieme? Pregare in chiesa, fare shopping, guardare le partite, andare al cinema? La realtà era un po’ diversa. Eravamo polarizzati, divisi, alienati. In questo consiste essere moderni, essere umani. Ciò che rendeva il cinema importante
– non alcuni film in particolare, ma il cinema in sé – era la sua impareggiabile capacità di cogliere e riflettere questa condizione. La sala cinematografica, con la sua apertura alla collettività, poteva anche ispirare una profonda solitudine, un anonimato liberatore. Se lo streaming è una forma di sorveglianza, il cinema è il suo opposto. Può essere vissuto come un segreto. Cosa ho pensato di Barbie? Di Oppenheimer? Non ve lo posso dire. Andiamo al cinema per perderci, per esplorare un mondo che è parte della nostra realtà comune e al tempo stesso se ne distacca. “Nessun’altra arte narrativa si avvicina come il cinema alla varietà, alla fibra, alla pelle della vita quotidiana”, scriveva il critico John Berger nel 1990, qualche anno prima del centenario del cinema. “Ma il suo svelarsi, il suo nascere, la sua unione con l’Altrove, ricorda una nostalgia, una preghiera”. Una preghiera è pronunciata da una comunità di fedeli. I film sono prodotti da grandi aziende – dagli sforzi congiunti di artisti, tecnici, finanziatori e negoziatori – e completati dal pubblico. Possono essere incredibili, mediocri, disonesti, visionari o stupidi, ma le loro qualità intrinseche contano meno di ciò che siamo in grado di farne. I film ci portano menzogne, miti, propaganda e idiozie, che poi noi trasformiamo in sogni e desideri. In altre parole, sono beni che consumiamo con la nostra immaginazione (in questo senso, il film Barbie è molto simile alla bambola Barbie). Li usiamo per scoprire la nostra umanità, e così facendo li umanizziamo. Ci deludono perché noi ci deludiamo, e ci affascinano per la stessa ragione. La nostra perenne preoccupazione per la loro morte è la proiezione della paura per la nostra scomparsa. Il cinema è vivo perché noi siamo vivi, e forse è vero anche il contrario. u fs
Altri animali Leonardo Caffo
Le forme dell’inferno Qualche giorno fa, a Roma, ho avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con Paul B. Preciado, filosofo, scrittore e regista spagnolo che si occupa di teoria queer, biopolitica e studi di genere. “In questo momento non è un po’ un lusso borghese occuparsi di diritti di genere o di ecologia e antispecismo?”, gli ho chiesto a un certo punto, alludendo al conflitto in corso tra Israele e Hamas. “No”, mi ha risposto subito lui, “perché la matrice del problema è la stessa: la nostra incapa-
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cità di capire che i confini sono convenzioni sciocche. Distruggere il mondo sulla base di una convenzione è la prova di quanto siamo arretrati”. Credo che Preciado tocchi un punto importante: la metafisica che sostiene l’inferno è sempre la stessa, ma le sue forme, diciamo l’estetica, cambiano il modo in cui ci rapportiamo a lei. È vero che è un lusso occuparsi di queer studies o di animali mentre una buona parte di mondo non riesce a capire che uccidere civili inermi è un limite invali-
cabile. Ed è vero che il nostro paese prevede reati che potremmo definire metaforici in confronto all’Iran, dove la polizia morale può uccidere una ragazza per come porta il velo. Ma è difendendo questo lusso borghese e i suoi paradossi, per esempio trovarsi a discutere del nulla, che possiamo ritenere un fondamento inalienabile la necessità della pace contro la guerra. La guerra arriva perché smettiamo di credere negli alberi e negli animali. La pace viene dopo questa credenza. u
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Scienza
SALUTE
Quanto pesa davvero il piombo
una luce completamente diversa”. Lo studio pubblicato su The Lancet ha calcolato che nel 2019 l’esposizione al piombo è costata seimila miliardi di dollari, e che i paesi poveri hanno pagato il doppio di quelli ricchi. Gli autori consigliano ai governi di investire nella ricerca medica, suggerendo anche regolari esami del sangue per accertare l’avvelenamento da piombo dove dati e risorse sono limitati. Pur non occupandosi delle possibili origini dell’esposizione, lo studio sollecita a fare tutto il possibile per individuare i responsabili di questa minaccia alla salute pubblica mondiale. Alcuni casi gravi sono ben documentati. Da anni la ricerca scientifica e le azioni legali hanno dimostrato che gli stabilimenti per il riciclo delle batterie dal Kenya al Messico rilasciano il metallo nell’aria e nei corsi d’acqua, mentre le autorità di India, Pakistan e Bangladesh hanno denunciato alcune aziende che avevano aggiunto pigmenti al piombo in certi alimenti, per esaltarne il colore e aumentare i profitti.
Padelle e giocattoli
Will Fitzgibbon, The Examination, Stati Uniti Nonostante le norme adottate da molti paesi per limitarne l’uso, due studi rivelano che l’esposizione a questo metallo è una delle principali minacce per la salute a livello mondiale l piombo è considerato un problema “dimenticato”, ma continua a saltare fuori da ogni parte e minaccia la vita di milioni di persone in tutto il mondo. Due studi recenti rivelano nuove informazioni sui rischi dell’esposizione a questo metallo. Uno, pubblicato su The Lancet, stima che solo nel 2019 il piombo – ancora presente in stoviglie, vernici, giocattoli e perfino alimenti – possa aver causato la morte di cinque milioni e mezzo di adulti per malattie cardiache. Nei bambini potrebbe aver provocato la perdita di centinaia di milioni di punti di quoziente intellettivo, ritardando il loro sviluppo e aggravando le disuguglianze. Lo studio, il primo a livello mondiale di questo tipo, suggerisce che l’esposizione al piombo rappresenti un problema sani-
I
tario grave quanto l’inquinamento atmosferico e che uccida il triplo di persone rispetto all’acqua potabile contaminata. Secondo i ricercatori della Banca mondiale colpisce soprattutto chi vive nei paesi più poveri. “Molti pensavano che avessimo risolto il problema”, ha detto Bjorn Larsen, principale autore dello studio. “È finito nel dimenticatoio”. Anche se quasi tutti i paesi l’hanno vietato nella benzina e molti lo hanno proibito nelle vernici decenni fa, il piombo è ancora molto diffuso. In base a una stima la vernice al piombo non è regolamentata in più di cento stati. Dallo studio è emerso che i decessi per malattie cardiovascolari causate da piombo sono sei volte più numerosi di quanto si pensasse, e che la perdita di punti di quoziente intellettivo tra i bambini – un fattore fondamentale per la capacità di apprendere, guadagnarsi da vivere e sfuggire alla povertà – è dell’80 per cento più alta rispetto a una stima molto citata. “Il piombo è la terza causa di malattie cardiovascolari dopo la pressione alta e l’alimentazione, e viene prima di fumo e colesterolo”, dice Larsen. “Il suo ruolo appare in
Per stabilire la portata della contaminazione nella vita quotidiana, un altro studio ha analizzato più di cinquemila prodotti di uso comune in 25 paesi. Pure Earth, un’organizzazione non profit statunitense, ha rivelato che dall’Armenia alle Filippine oggetti come pentole e cosmetici contengono livelli di piombo potenzialmente pericolosi. Dallo studio è emerso che quasi un campione su cinque superava le normali linee guida sanitarie: le stoviglie in ceramica e metallo, tra cui padelle e utensili in alluminio e tegami in terracotta vetrificata, contenevano i livelli di piombo più alti. Anche eyeliner, mascara e correttore liquido presentavano concentrazioni potenzialmente pericolose. In Azerbaigian più di due terzi dei giocattoli esaminati superavano i livelli di guardia. Come i ricercatori della Banca mondiale, anche gli autori di questo studio invitano i paesi più poveri a rafforzare il monitoraggio del piombo nel sangue dei bambini, e raccomandano ai governi di migliorare il tracciamento dei prodotti e delle aziende che li producono. “Ormai è chiaro che il piombo è la sostanza chimica più nociva per la salute pubblica globale”, ha dichiarato Drew McCartor, direttore esecutivo di Pure Earth. u sdf Internazionale 1537 | 10 novembre 2023
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il podcast quotidiano di
GIOVEDÌ 9 NOVEMBRE 2023
LUNEDÌ 6 NOVEMBRE 2023
In Portogallo finisce l’era del socialista António Costa con Gabriele Crescente editor di ambiente di Internazionale
Non abbiamo bisogno di tutti questi allevamenti intensivi con Stefano Liberti giornalista e scrittore
Un’altra sconfitta degli antiabortisti nelle elezioni locali statunitensi con Alessio Marchionna editor di Stati Uniti di Internazionale
Internazionale compie trent’anni Giovanni De Mauro direttore di Internazionale VENERDÌ 3 NOVEMBRE 2023
MERCOLEDÌ 8 NOVEMBRE 2023 L’accordo con l’Albania sull’immigrazione è il contrario dell’accoglienza con Lea Ypi docente di filosofia politica alla London school of economics
Come sta andando la guerra in Ucraina con Andrea Pipino editor di Europa di Internazionale Carlo III non chiede scusa al Kenya con Francesca Sibani editor di Africa di Internazionale
La scoperta di un buco nero che racconta la storia dell’universo con Edwige Pezzulli astrofisica MARTEDÌ 7 NOVEMBRE 2023 Cosa succede in Cisgiordania con Lucia Capuzzi inviata di Avvenire Migliaia di oppositori arrestati in Bangladesh Giuliano Battiston giornalista, direttore di Lettera 22
Ogni giorno due notizie scelte dalla redazione di Internazionale con Claudio Rossi Marcelli e Giulia Zoli Dal lunedì al venerdì dalle 6.30 sulle principali piattaforme di ascolto internazionale.it/ilmondo
Scienza GEOLOGIA
Ratti virtuali
Quel che resta di Theia
Anche i ratti possono immaginare di trovarsi in luoghi che hanno già visitato. Per dimostrarlo i ricercatori dell’Howard Hughes medical institute hanno collegato un programma di realtà virtuale al cervello degli animali attraverso un’interfaccia che registra l’attività dell’ippocampo, una regione che svolge un ruolo importante nella memoria. Dopo aver addestrato i ratti a trovare determinate forme all’interno della realtà virtuale in cambio di una ricompensa, hanno decodificato i segnali elettrici dell’ippocampo in immagini visualizzate nella simulazione. Hanno così osservato che l’ippocampo si attivava anche quando i ratti erano indotti a pensare a un luogo specifico dello spazio virtuale. Con la sola immaginazione, scrive Science, gli animali erano in grado di spostare virtualmente se stessi o degli oggetti. Per capire se l’immaginazione dei ratti è simile a quella umana serviranno altri studi.
Nature, Regno Unito
NASA
NEUROSCIENZE
Uno studio pubblicato su Nature sostiene di aver individuato nelle profondità della Terra le tracce dell’impatto con il protopianeta Theia, avvenuto circa 4,5 miliardi di anni fa. I resti di Theia sarebbero conservati in due regioni del mantello, attraverso le quali le onde sismiche viaggiano più lentamente. Le due regioni hanno la dimensione di un continente e si trovano in corrispondenza dell’Africa e dell’oceano Pacifico. Erano state individuate alcuni decenni fa dai sismologi, ma la loro origine era rimasta incerta. L’ipotesi dello studio, sostenuta dalle simulazioni al computer, è che la loro densità sia maggiore delle aree vicine perché sono ricche di ferro, come la Luna, che si sarebbe formata dai resti della collisione. Ora gli autori cercheranno di confermare l’ipotesi dell’impatto, per esempio confrontando le rocce lunari con quelle delle aree più dense all’interno della Terra. I ricercatori inoltre ipotizzano che la formazione di queste anomalie sia una conseguenza comune degli scontri tra protopianeti, e che studiando la struttura interna di altri pianeti sia possibile trovare le tracce di eventi simili. ◆ LAURENT FORMERY
ARCHEOLOGIA
La prima guerra L’analisi di un sito nella provincia di Álava, in Spagna, ha permesso di anticipare il più antico conflitto armato di cui si ha notizia a cinquemila anni fa, un’epoca anteriore allo sviluppo dei primi stati nel continente. Nel sito sono stati trovati i resti di più di trecento individui, insieme a lame, asce e punte di freccia. Molte delle ossa appartenevano a giovani maschi e presentavano i segni di ferite non guarite. Secondo i ricercatori erano guerrieri morti durante un conflitto prolungato tra comunità diverse e non in violenze all’interno dello stesso gruppo, scrive Scientific Reports.
IN BREVE
Astronomia. È stato osservato un buco nero supermassiccio che si sarebbe formato 470 milioni di anni dopo il big bang, quindi nelle fasi iniziali dell’esistenza dell’universo, scrive Nature Astronomy. Dai calcoli si pensa che contenga circa la metà della massa della sua galassia, una proporzione molto alta rispetto a quella di buchi neri più recenti. I dati sono stati raccolti con i telescopi orbitali Chandra e James Webb. Salute. Un nuovo farmaco contro la gonorrea è stato sperimentato con successo, scrive Nature. L’infezione è causata dal batterio Neisseria gonorrhoeae, che sta diventando sempre più resistente agli antibiotici, e colpisce ogni anno decine di milioni di persone. Il test, guidato dall’organizzazione no profit Gardp, ha coinvolto 930 persone in Sudafrica, Thailandia, Stati Uniti, Belgio e Paesi Bassi. I risultati mostrano anche che il farmaco è sicuro.
SALUTE
Un aiuto per il Parkinson
BIOLOGIA
La testa delle stelle marine Il corpo delle stelle marine è occupato per la maggior parte dalla testa. Il gruppo al quale appartengono è caratterizzato da una simmetria radiale, e non è possibile osservare un asse longitudinale né un lato destro e uno sinistro. Uno studio pubblicato su Nature ha analizzato l’attività dei geni nella stella marina Patiria miniata (nella foto) scoprendo che i geni del tronco non sono attivi. Al centro di ogni braccio vengono espressi geni della parte anteriore, ai lati quelli della parte posteriore
È stata sviluppata una neuroprotesi per permettere alle persone con il morbo di Parkinson di continuare a camminare. L’impianto rileva il movimento delle gambe e stimola il midollo spinale attraverso degli elettrodi per correggere i segnali inviati dal cervello, scrive Nature Medicine. La neuroprotesi è stata testata su un uomo di 62 anni malato di Parkinson da trenta, che è riuscito a camminare fino a sei chilometri.
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Il diario della Terra REUTERS/CONTRASTO
Il nostro clima
Il petrolio è servito
Sale I fiumi stanno diventando sempre più salati. Secondo Nature Reviews Earth & Environment è un effetto dell’alterazione del ciclo del sale dovuta alle attività umane. Nell’ultimo secolo la produzione di sale è aumentata a livello globale. Oltre al cloruro di sodio bisogna considerare anche altri sali, provenienti dall’uso di pietre calcaree e gessi, dai fertilizzanti, dalle attività minerarie, dagli scarichi industriali, dal trattamento dell’acqua e dallo spargimento di sale sulle strade per evitare che si formi il ghiaccio. La concentrazione di sali nel terreno è aumentata, soprattutto in Messico e Stati Uniti, in Asia e in Africa orientale. I sali sono presenti anche nelle acque di superficie e nell’aria, sotto forma di polveri. Nella foto: una salina a Zhangye, in Cina
Radar
L’ottobre più caldo di sempre Terremoti Un sisma di magnitudo 5,6 ha provocato la morte di almeno 157 persone nella provincia di Karnali, in Nepal.
La tempesta tropicale Pilar ha ucciso almeno quattro persone nel Salvador e in Honduras. Siccità L’autorità del canale di Panamá ha introdotto nuovi limiti sul passaggio di navi a causa della siccità, che ha ridotto il livello delle acque fino a minacciare il funzionamento delle chiuse.
Tempeste La tempesta Ciarán ha provocato almeno 15 vittime e causato gravi danni in diversi paesi europei. ◆
Vino Nel 2023 la produzione mondiale di vino è calata del 7 per cento, toccando il livello più basso dal 1961, a causa
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Ippopotami Il governo colombiano ha annunciato l’abbattimento di una parte dei 166 ippopotami che vivono nel fiume Magdalena (nella foto). Gli animali, originari dell’Africa, discendono dagli esemplari importati negli anni ottanta dal trafficante di droga Pablo Escobar per il suo zoo e si sono moltiplicati fino a diventare una seria minaccia per l’ecosistema locale. Altri individui saranno sterilizzati o trasferiti.
REUTERS/CONTRASTO
Alluvioni Le inondazioni causate dalle precipitazioni eccezionali che hanno colpito l’Africa occidentale hanno fatto almeno 44 vittime in Somalia e in Kenya e hanno costretto più di trecentomila persone a lasciare le loro case.
Temperature Secondo l’osservatorio europeo Copernicus quello del 2023 è stato il mese di ottobre più caldo mai registrato: la temperatura media globale è stata di 15,38 gradi, 0,4 in più rispetto al record precedente toccato nel 2019 e 1,7 in più rispetto alla media del periodo tra il 1850 e il 1900.
della siccità e di altri fenomeni meteorologici estremi che hanno colpito le principali regioni vinicole.
◆ “Big oil viene a cena”, titola l’Independent commentando l’ultimo rapporto della Global alliance for the future of food, intitolato “Power shift”, che mostra quanto i sistemi alimentari mondiali siano dipendenti dall’industria petrolifera. “È la prima volta che viene analizzato l’uso dei combustibili fossili nell’intera filiera alimentare”, scrive il quotidiano britannico. Secondo il rapporto il settore alimentare rappresenta almeno il 15 per cento del loro consumo globale, con emissioni di gas serra pari a quelle dell’Unione europea e della Russia messe insieme. L’impiego dei combustibili è più alto nella fase di trasformazione e confezionamento (42 per cento), seguita da quella del consumo al dettaglio (38 per cento). Per consolidare la sua posizione dominante l’industria petrolifera inoltre sta investendo molto nei prodotti petrolchimici, che per il 40 per cento sono rappresentati dai fertilizzanti e dalla plastica per uso alimentare. Secondo l’Independent “una transizione urgente alle energie rinnovabili e il passaggio a un’agricoltura sostenibile non sono solo una necessità ambientale, ma sono anche imprescindibili per un accesso economico al cibo, per la sicurezza alimentare, la creazione di posti di lavoro, la salute pubblica e la lotta alla fame”. Il rapporto raccomanda inoltre di usare le fonti di energia rinnovabili per lavorare e trasportare gli alimenti e per i sistemi di raffreddamento e riscaldamento. E incoraggiare il consumo di alimenti di origine vegetale.
Il pianeta visto dallo spazio 08.2023
DATI COPERNICUS SENTINEL/ESA/CC BY-SA3.0 IGO
Il lago di Maracaibo, in Venezuela sue acque, che nella parte settentrionale sono salmastre. Sulla sponda occidentale del canale sorge Maracaibo, che con più di due milioni di abitanti è la seconda città del Venezuela e la capitale della sua industria petrolifera. Lo stretto è attraversato dal ponte General Rafael Urdaneta, che misura otto chilometri e al tempo della sua costruzione nel 1962 era uno dei più lunghi del mondo. Nella parte meridionale del lago invece l’acqua è dolce e proviene soprattutto dai suoi molti immissari. Il maggiore è il fiume Catatumbo, la cui foce è facilmente individuabile dall’ampio pennacchio marrone formato dai sedimenti che riversa nel lago. Il bacino contiene la maggior parte delle riserve di petrolio che hanno fatto del Venezuela uno dei principali paesi petroliferi al mondo. L’inquinamento dovuto all’attività di estrazione e quello legato all’agricoltura hanno provocato l’eutrofizzazione delle acque e favoriscono fioriture eccezionali di cianobatteri – dannose per l’ecosistema e la salute umana – che tingono regolarmente le acque del lago di verde smeraldo.–Esa
Maracaibo Ponte General Rafael Urdaneta
Cianobatteri
Il lago di Maracaibo è in realtà un’insenatura del mar dei Caraibi. Nel suo bacino si trovano alcuni dei giacimenti petroliferi più ricchi del mondo
Fiume Catatumbo Nord 15 km
u Questa immagine, scattata dal satellite Copernicus Sentinel-2, mostra il lago di Maracaibo, nel nord del Venezuela. Con i suoi 13mila chilometri quadrati di superficie è lo
specchio d’acqua naturale più vasto del Sudamerica. Al momento della sua formazione, tra i venti e i 36 milioni di anni fa, era effettivamente un lago, ma oggi dovrebbe essere con-
siderato un’insenatura: alla fine dell’ultima era glaciale l’innalzamento del livello dei mari lo ha collegato al mar dei Caraibi attraverso uno stretto da cui riceve gran parte delle
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Economia e lavoro Il rigassificatore di Fos-sur-Mer, Francia, 22 giugno 2023
fine “l’Europa dipenderà dalle forniture di gnl”. Cinque anni fa al continente ne ser vivano poco meno di cinquanta milioni di tonnellate all’anno. Ora, secondo le stime della Shell, il principale operatore mon diale di gnl, l’Europa avrà bisogno di quasi cento milioni di tonnellate, che divente ranno 140 nel 2030.
CLEMENT MAHOUDEAU (AFP/GETTY)
Un’offerta enorme
MATERIE PRIME
Il futuro dell’energia in Europa dipende dal gas Javier Blas, Bloomberg, Stati Uniti Il continente va verso il secondo inverno senza le forniture russe. Un’alternativa è il gas naturale liquefatto, che dal 2025 sarà diponibile in abbondanza sui mercati mondiali er il secondo inverno consecu tivo la strategia energetica dell’Europa si baserà soprattutto sulla speranza che ci siano un cli ma mite e una domanda industriale ridot ta, visto che i prezzi del gas si aggirano ancora sui cinquanta euro al megawatto ra, più del doppio rispetto alla media nel decennio precedente all’invasione russa dell’Ucraina. Tuttavia non è troppo presto per cominciare a immaginare – e di conse guenza programmare – un futuro meno sconfortante, cioè un mondo con abbon danza di gas naturale liquefatto (gnl) for nito dagli Stati Uniti e dal Qatar. Perché questo succeda, però, le cose devono an dare come pianificato. Le speranze ci so no, anche se rimarranno tali almeno per il prossimo anno e mezzo. “Dal 2025 un au
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mento senza precedenti di progetti per il gnl dovrebbe ribaltare l’equilibrio dei mercati e le preoccupazioni sulle fornitu re di gas naturale”, ha dichiarato l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea). Secon do Fatih Birol, il direttore dell’Iea, “quello del gas diventerà un mercato al ribasso”. A differenza dei gasdotti, che connet tono fisicamente compratori e venditori, i terminali per l’esportazione di gnl raffred dano il gas fino a fargli assumere uno stato liquido prima di caricarlo su enormi navi. La costruzione di queste strutture richie de anni e l’investimento di miliardi di dol lari. All’estremità opposta della catena serve un terminale di rigassificazione pri ma che il carburante possa essere traspor tato nei gasdotti interni fino ai consuma tori finali. Il gnl è fondamentale per l’Europa, vi sto che l’uso dei gasdotti russi è ormai fuo ri discussione. Altre condutture, per esempio quelle dalla Norvegia e dall’Alge ria, sono già al limite della loro capacità. Di recente Anders Opedal, presidente dell’azienda energetica di stato norvegese Equinor, l’ha detto chiaramente: tutti cer cano di aumentare la produzione, ma alla
Dopo l’invasione dell’Ucraina i politici europei sapevano che c’era una luce in fondo al tunnel: una serie di progetti per il gnl, che sarebbero entrati in funzione a metà decennio cambiando l’equilibrio tra offerta e domanda. Per aumentare le im portazioni, la Germania si è affrettata a costruire terminali per la rigassificazione nel mare del Nord e nel mar Baltico. Tut tavia negli inverni 20212022 e 20222023 il mercato è rimasto in modalità di soprav vivenza, contendendosi i carichi di gnl senza spazio per pensare a un mondo di abbondanza, che all’epoca appariva deci samente troppo lontano. I politici, inoltre, sapevano che questi progetti tendono ad accumulare ritardi e a sforare il budget. In alcuni casi poi non c’erano garanzie sulla loro realizzazione. Oggi la luce non è solo più vicina ma, cosa ancora più importante, molto più si cura. I progetti stanno andando avanti. Dal 2025 dovrebbero arrivare sul mercato circa 250 miliardi di metri cubi di nuove forniture di gnl. È una quantità enorme, pari al 45 per cento dell’attuale produzio ne globale. Nelle ultime settimane le aziende europee hanno firmato una serie di accordi di lungo periodo con la compa gnia di stato QatarEnergy: la TotalEner gies, la Eni e la Shell hanno concordato l’acquisto di otto milioni di tonnellate di gnl all’anno con contratti che arrivano fino al 2050. In precedenza la statunitense Co nocoPhillips aveva siglato un altro con tratto da due milioni di tonnellate all’anno destinate alla Germania. Per il Qatar è un trionfo. Grazie ai con tratti europei e a quelli sottoscritti con la Cina il paese ha venduto in anticipo il 40 per cento della nuova produzione. La lun ga durata dei contratti testimonia quant’è forte la richiesta di gnl. Tutto questo avrà però un prezzo. Il gnl continuerà a circola re a prezzi ben al di sopra dei livelli prece denti alla crisi. Quindi non è ancora arri vato il momento di disfarsi di sciarpe e maglioni. u gim
HENRY NICHOLLS (REUTERS/CONTRASTO)
Londra, Regno Unito
SVEZIA
COREA DEL SUD
Sciopero contro la Tesla
Fermare i ribassi
Segeltorp, Svezia, 27 ottobre 2023
Il 5 novembre le autorità del mercato finanziario sudcoreano hanno deciso di vietare la vendita allo scoperto di azioni almeno fino al giugno 2024. La vendita allo scoperto consiste nella cessione di un titolo con l’impegno a riacquistarlo. Chi prevede la svalutazione del titolo vende allo scoperto per realizzare un guadagno grazie alla differenza tra il prezzo di vendita e quello di riacquisto. La decisione di Seoul, spiega la Reuters, ha l’obiettivo di frenare i ribassi registrati sul mercato azionario, “ma appare più che altro un tentativo disperato di impedire l’esplosione del panico alla borsa sudcoreana”. Un divieto simile era stato già introdotto nel 2020, dopo l’inizio della pandemia di covid-19, ma poi era stato ritirato nel maggio 2021.
REGNO UNITO
Centoventisette aziende britanniche hanno ammesso di aver violato le sanzioni imposte alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Il dato proviene dal ministero delle finanze di Londra, spiega il Financial Times. Le aziende hanno accettato di collaborare con gli inquirenti per ridurre la multa prevista dalla legge, a cui può seguire anche un’azione penale e il blocco dell’attività. Le sanzioni introdotte nel febbraio 2022 dal governo britannico, spiega il quotidiano finanziario, coinvolgono attualmente più di 1.600 individui e aziende attivi in un’ampia varietà di settori produttivi.
JESSICA GOW (EPA/ANSA)
Chi aggira le sanzioni
Dopo aver tentato per anni di firmare un accordo con la Tm Sweden, controllata svedese della casa automobilistica statunitense Tesla del miliardario Elon Musk, il sindacato dei metalmeccanici If Metall ha proclamato uno sciopero nelle 130 officine che assistono i clienti dell’azienda in Svezia, scrive la Neue Zürcher Zeitung. Secondo l’If Metall i lavoratori di queste officine guadagnano meno della media del settore e ricevono minori contributi pensionistici e assicurativi. La Tesla non ha intenzione di trattare, osserva il quotidiano, per non creare un precedente pericoloso. Intanto il sindacato dei trasporti ha deciso delle misure di protesta in solidarietà con i lavoratori delle officine. u
Micro Stefano Feltri
Il capitalismo a volte funziona WeWork aveva una missione: reinventare la socialità, costruire un modo diverso di vivere il lavoro. In realtà si limitava ad affittare spazi per uffici e poi a subaffittarli ai freelance che ne cercano uno temporaneo. Il suo fondatore, Adam Neumann, predicatore scalzo di un futuro migliore, è stato cacciato per la disinvoltura nell’uso dei soldi dell’azienda e per le strategie pasticciate, prima che arrivasse la pandemia di covid-19 e cambiasse
davvero il modo di lavorare. WeWork era riuscita a quotarsi in borsa nell’ottobre 2021, dopo un primo tentativo fallito nel 2019, ma solo grazie alla fusione con una società già quotata e alla confusione della ripartenza postpandemica. Oggi gli uffici sono vuoti, molte persone lavorano da casa almeno qualche giorno alla settimana, e la parabola di WeWork è finita con la bancarotta. Lo stesso destino della Ftx, la piattaforma per le ope-
razioni in criptovalute da cui il fondatore Sam BankmanFried – ora condannato per frode e altri reati – faceva sparire miliardi. Il capitalismo ha i suoi difetti, ma ogni tanto funziona. Le aziende che offrono servizi inutili e che sono gestite male presto o tardi finiscono spazzate via. E lasciano debiti non pagati e schiere di adulatori delusi, che pensavano di aver intravisto il genio, mentre si trattava solo di sregolatezza. u
IN BREVE
Stati Uniti Il 2 novembre, al termine di un processo durato cinque settimane, Sam BankmanFried, fondatore ed ex amministratore delegato della borsa di criptovalute Ftx, è stato riconosciuto colpevole da un tribunale di New York di tutti e sette i capi d’accusa a suo carico, tra cui frode, associazione a delinquere e riciclaggio. La giuria ha stabilito che il manager ha usato in modo illecito i fondi dell’azienda, poi fallita nel novembre 2022. Ora Bankman-Fried rischia fino a 110 anni di prigione. Il giudice federale Lewis Kaplan annuncerà la pena il 28 marzo 2024.
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Peanuts, 1960 Charles M. Schulz, Stati Uniti
Buni Ryan Pagelow, Stati Uniti
War and Peas E. Pich e J. Kunz, Germania
Strisce
Mafalda, 1964 Quino, Argentina
PEANUTS ©PEANUTS WORLDWIDE LLC. DIST. DA ANDREWS MCMEEL SYNDICATION. RIPRODUZIONE AUTORIZZATA. TUTTI I DIRITTI RISERVATI
© 2023, SUCESORES DE JOAQUÍN S. LAVADO (QUINO)
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L’oroscopo
Rob Brezsny I miei oroscopi per lo Scorpione spesso contengono messaggi complessi. Le mie idee sono particolarmente dense, ricche e lussureggianti. Perché? Perché ti immagino complesso, ricco e rigoglioso. Il tuo destino è labirintico, misterioso e intrigante, e io aspiro a riflettere la sua intricata e complicata bellezza. Ma questa volta ti offrirò un oracolo più semplice. L’ho preso in prestito dall’autrice Mary Anne Hershey: “Vivi con intenzione. Cammina fino al limite. Ascolta attentamente. Gioca con abbandono. Scegli senza rimpianti. Continua a imparare. Apprezza i tuoi amici. Fa ciò che ami”.
neanche un po’ di tempo libero. Le persone hanno bisogno di fissare il vuoto, guardare fuori dalla finestra, sognare a occhi aperti ed essere indolenti e inutili per qualche ora al giorno”. Sono d’accordo con lui e spero che nelle prossime settimane ti concederai più tempo libero del solito. Hai bisogno di rilassarti in modo più profondo e di ricaricare le batterie in uno stato di delizioso abbandono. VERGINE
Al momento le tue vittorie sono impercettibili. Probabilmente non le vedi neanche tu. Lascia che te le descriva, così potrai sentirti più sicuro di ciò che stai realizzando. 1) Una forte crescita personale duramente conquistata sta rendendo quasi irrilevante uno dei tuoi problemi. 2) Hai ridefinito quali ricompense sono importanti per te, e questo ti sta spingendo a perseguire con più passione le tue ambizioni. 3) Stai perdendo interesse per un gioco di manipolazione che non ti è utile come pensavi. 4) Cominci ad apprezzare di più problemi affascinanti e utili.
duto giornali e fatto altri 23 lavori pesanti. Ho anche svolto otto attività artistiche più adatte al mio temperamento e alle mie doti creative. Sono pentito per le migliaia di ore che ho dedicato a compiti che non mi piacevano? Un po’. Ma sono anche riconoscente a quei lavori, perché mi hanno insegnato a interagire armoniosamente con tanti tipi di persone. Hanno contribuito a forgiare la mia solida coscienza sociale. E mi hanno aiutato a capire cosa mi piaceva davvero. Ti invito a fare un inventario della tua vita lavorativa, Gemelli. È un ottimo momento per valutare dove sei stato e dove vuoi andare in futuro.
TORO
CANCRO
Il fisico del Toro Richard Feynman, vincitore di un premio Nobel, era una persona intelligente e affermata. Una volta ha espresso un punto di vista che faresti bene a tener presente nelle prossime settimane: “Posso vivere con il dubbio e l’incertezza. Trovo molto più interessante non sapere che avere risposte che potrebbero essere sbagliate. Io ho risposte approssimative e gradi di certezza diversi su cose diverse, ma non sono assolutamente sicuro di nulla, e ci sono molte cose di cui non so nulla”. È un ottimo momento per esplorare i vantaggi di mettere tutto in discussione, caro Toro. Scommetto che sarai felice di vedere quanto ti fa sentire libero e rilassato.
Ci sono tanti tipi di dolcezza: la dolcezza piccante, quella tenera, balsamica, profumata; la dolcezza acida o amara; la dolcezza muschiata. Una delle mie preferite è quella di cui parla il poeta del Cancro Stephen Dunn, che ha scritto: “Spesso una dolcezza arriva come se fosse in prestito, rimane giusto il tempo di dare un senso a ciò che significa essere vivi, poi torna alla sua fonte oscura. A me non interessa dove sia stata né quale strada amara abbia percorso per avere un sapore così buono”. Stai per entrare in comunione con almeno tre di queste dolcezze, Cancerino. Forse quasi con tutte.
ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI
ARIETE
GEMELLI
Nella vita ho lavorato come custode, ho lavato piatti, raccolto olive, scavato fossi, ven-
LEONE
Lo scrittore Dan Savage sostiene che è bene abbandonarsi regolarmente all’indolenza. Osserva che pochi di noi riescono a “passare ventiquattr’ore senza
Secondo un’approfondita analisi dei tuoi ritmi astrologici, la tua bocca sarà presto una meraviglia della natura. Le parole che escono dalle tue labbra saranno molto colorate, precise e persuasive. Le tue papille gustative apprezzeranno di più le gioie del mangiare e del bere. E mi aspetto che la tua lingua e le tue labbra esulteranno di piacere quando eserciteranno le arti del sesso e dell’amore. Congratulazioni, bocca insolente! BILANCIA
Oltre a essere un magistrale compositore, Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) suonava il violino, l’arpa, il fagotto, il clarinetto, il corno, il flauto, l’oboe e la tromba. Secondo lui i musicisti esprimono al meglio le loro capacità quando suonano velocemente. È più difficile essere eccellenti quando si suona lentamente, pensava. Ma nelle prossime settimane ti invito ad adottare l’atteggiamento contrario, Bilancia. Avrai più successo se lavorerai lentamente, con attenta diligenza e misurata maestria. SAGITTARIO
Nella sua poesia Requiem Anna Achmatova scrive: “Occorre fino in fondo uccidere la memoria... occorre di nuovo imparare a vivere”. Penso che dedicarsi a questo coraggioso esercizio sia utile a tutti. Non è un’impresa da prendere alla leggera e non si può fare sempre. Ma indovina un po’? Le prossime settimane per te saranno il momento ideale per farlo. Sei pronto a superare il passato e preparare la strada a un nuovo inizio? Ecco le tue parole
magiche: perdono, purificazione, pulizia, assoluzione, liberazione. CAPRICORNO
Abbiamo bisogno di storie quasi quanto di respirare, mangiare, dormire e muoverci. È impossibile vivere senza. Le storie migliori nutrono l’anima, stimolano l’immaginazione e rendono la vita emozionante. Questo non vuol dire che siano tutte buone. A volte ci aggrappiamo a narrazioni che ci rendono infelici e prosciugano le nostre energie. In questi casi abbiamo il sacrosanto dovere di liberarcene, e di onorare invece le storie che ci danno forza. Te lo dico, Capricorno, perché sei in una fase in cui avrai successo se ti sbarazzerai delle vecchie storie negative e celebrerai quelle positive. ACQUARIO
Potrei sbagliarmi, ma non credo: sei più intelligente e saggio di quanto pensi riguardo alle questioni urgenti che si contendono la tua attenzione. Ne sai più di quanto pensi e presto diventerà evidente: un flusso di nuove intuizioni salirà dal profondo della tua psiche e guiderà la tua coscienza verso la chiarezza. Sei autorizzato a urlare di gioia ogni volta che si presenterà un’intuizione salutare. Ti sei guadagnato questa fase di lucida certezza. PESCI
Nelle culture indigene gli sciamani hanno sempre affermato di avere il potere di parlare con falchi, coyote, serpenti e altre creature e perfino di poter diventare temporaneamente come loro. Perché lo fanno? Una possibile risposta è che credono che gli animali abbiano un’intelligenza diversa da quella degli esseri umani. Gli sciamani aspirano a imparare qualcosa dai modi alternativi di comprendere il mondo. Molti occidentali rifiutano questa venerabile pratica, anche se ho conosciuto amanti degli animali che l’apprezzano. Ti invito a fare un esperimento divertente. Scegli un animale da cui imparare. Studialo e comunica con lui. Chiedigli di rivelarti cose che ti sorprenderanno.
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internazionale.it/oroscopo
SCORPIONE
COMPITI A CASA
Quale inutile dovere potresti abbandonare per alimentare la tua voglia di libertà?
SANAGA, FRANCIA
L’ultima
“Ora sì che è arrivato l’autunno”. “Le sedie da giardino cominciano a migrare”.
SIÉ, FRANCIA
RISS, FRANCIA
“Questo è un diritto incondizionato a difendersi”.
STEINBERG
SCHOPF, AUSTRIA
Israele: la collera delle famiglie degli ostaggi. “Vattene Bibi!”. “Sparisci delinquente!”. Netanyahu: “Gli ebrei cominciano a farmi incazzare”.
Vladimir Putin vuole candidarsi per un quinto mandato alle elezioni del marzo 2024. “Prolunga!!”.
“Tu sarai fiera di aver corso la maratona, ma io posso essere fiero di essermi ricordato di spostare indietro l’orologio del forno”.
Le regole Oroscopo 1 Quando qualcuno ti dice di che segno è, rispondi sempre “ci avrei giurato!”. 2 Leggere gli altri segni quando il tuo non ti soddisfa non vale. 3 Fai una scelta di campo: sei team Brezsny o team Branco? 4 Non importa a nessuno di che segno sei: impara il tuo ascendente. 5 Fai un sorrisino quando una ragazza ti dice che è della Vergine? Guarda che non sei alle elementari.
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INC PR AGENCY - ROMA
IL BIOLOGICO FAVORISCE IL BENESSERE DEGLI ANIMALI ALLEVATI. La salute del Pianeta passa dalla tua spesa. #ioparlobio
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Le tecniche di allevamento biologico rispettano le esigenze naturali
Chi produce bio ottiene una certificazione rigorosa che
degli animali, assicurando stalle adeguate, accesso al pascolo
accompagna il prodotto durante tutto il processo, dalla fase di
e un’alimentazione con prodotti biologici, totalmente privi di OGM.
coltivazione a quella di trasformazione e commercializzazione.
In questo modo le loro difese immunitarie sono più forti e resistenti, consentendo di ridurre al minimo l’uso di medicinali
Scegli i prodotti biologici certificati, per una spesa che fa
veterinari.
bene alla salute del Pianeta... e quindi alla tua