Venanzio Fortunato e il suo tempo. Convegno internazionale di studio (Valdobbiadene, Chiesa di S. Gregorio Magno, 29 novembre 2001-Treviso, Casa dei Carraresi, 30 novembre-1 dicembre 2001)


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Venanzio Fortunato e il suo tempo. Convegno internazionale di studio (Valdobbiadene, Chiesa di S. Gregorio Magno, 29 novembre 2001-Treviso, Casa dei Carraresi, 30 novembre-1 dicembre 2001)

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FONDAZIONE CASSAMARCA

Convegno internazionale di studio

Piazza S. Leonardo, 1 - 31100 Treviso e-mail: [email protected]

Venanzio Fortunato e il suo tempo

Venanzio Fortunato e il suo tempo

Va l d o b b i a d e n e , C h i e s a d i S . G re g o r i o M a g n o 2 9 n o v e m b re 2 0 0 1 Tr e v i s o , C a s a d e i C a r r a re s i 3 0 n o v e m b re - 1 d i c e m b re 2 0 0 1

Convegno internazionale di studio

Venanzio Fortunato e il suo tempo

Valdobbiadene, Chiesa di S. Gregorio Magno 29 novembre 2001 Treviso, Casa dei Carraresi 30 novembre - 1 dicembre 2001

Indice Pag. 7

Saluti

DINO DE POLI Presidente Fondazione Cassamarca

PIETRO GIORGIO DAVÌ Sindaco di Valdobbiadene

DON MARCELLO BETTIN Parroco di Valdobbiadene

PAOLO PECORARI Università degli studi di Udine

Pag. 15

Venanzio Fortunato e la società del VI secolo

CRISTINA LA ROCCA Università degli studi di Padova Pag. 37

Profilo biografico di Venanzio Fortunato

STEFANO DI BRAZZANO Pag. 73

Presentazione del primo volume delle Opere di Venanzio Fortunato

GIORGIO FEDALTO Università degli studi di Padova Pag. 79

Una nuova occasione per un “Poeta d’occasione”: il Venanzio Fortunato di Stefano Di Brazzano

PAOLO MANTOVANELLI Università degli studi di Padova Pag. 87

Venanzio Fortunato: monumenti ed estetica In margine alla nuova edizione delle sue opere

SERGIO TAVANO Università degli studi di Trieste Pag. 103

L’agiografia di Venanzio Fortunato

SOFIA BOESCH GAJANO Università degli studi Roma Tre Pag. 117

Venanzio Fortunato e Radegonda. I margini oscuri di un’amicizia spirituale

MARTA CRISTIANI Università di Roma - Tor Vergata Pag. 133

La Vie d’Hilaire de Fortunat de Poitiers: du docteur au thaumaturge

YVES-MARIE DUVAL Università di Parigi X (Francia)

5

Pag. 153

L’immagine del vescovo nelle biografie in prosa di Venanzio Fortunato

DAVIDE FIOCCO Seminario di Belluno Pag. 171

La Vita Martini di Sulpicio Severo e la parafrasi esametrica di Venanzio Fortunato

ANTONIO V. NAZZARO Università degli studi di Napoli “Federico II” Pag. 211

I carmina figurata di Venanzio Fortunato

GIOVANNI POLARA Università degli studi di Napoli “Federico II” Pag. 231

Parlare di sè: Venanzio poeta ai suoi lettori

FRANCA E. CONSOLINO

Università degli studi dell’Aquila Pag. 269

Venanzio Fortunato nella poesia mediolatina

FRANCESCO STELLA Università degli studi di Siena Pag. 291

Le prefazioni alle vitae in prosa di Venanzio Fortunato

PAOLA SANTORELLI Università degli studi di Napoli “Federico II” Pag. 317

Fortunat, chantre chrétien de la nature

LUCE PIETRI Université de Paris-Sorbonne (Francia) Pag. 331

Venanzio Fortunato e le vie della devozione

GUIDO ROSADA Università degli studi di Padova Pag. 363

Venanzio Fortunato e lo scisma dei Tre Capitoli

RAJKO BRATOZˇ Università di Ljubljana (Slovenia) Pag. 403

Venanzio Fortunato e la tradizione teologica aquileiese

ALESSIO PERSˇ ICˇ

Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Pag. 465

Conclusioni

ALBERTO VECCHI

Università degli studi di Padova

6

DINO DE POLI Presidente Fondazione Cassamarca

Siamo molto lieti di aver trovato l’occasione di restaurare questa magnifica Chiesa di Valdobbiadene e di poterla poi dedicare ad attività culturali, oltre che a presenze religiose significative nei momenti significativi della vita liturgica. Valdobbiadene deve scrollarsi di dosso, per così dire, la propria felicità per poter inserirsi nel flusso della vita con tutti i suoi tentacoli, con tutte le sue difficoltà, che sono però lo sprone perché si ricerchi il vero e il bene. Abbiamo voluto iniziare, partendo proprio da questa sede, un ciclo di iniziative attorno agli uomini più significativi di Treviso, nel loro tempo, cominciando da Venanzio Fortunato, uomo che ha avuto le sue radici in Valdobbiadene. L’idea è di continuare con altri illustri personaggi, ad esempio il valdobbiadenese Boccassino. L’intento è quello di alzare, come si può e quando si può, il livello della responsabilità, della coscienza, della visione delle cose, in un tempo che è dominato dalla futilità, dall’utilità dell’immediato presente, che non crede nell’invisibile, che è la sola e vera grande forza del genere umano, che pare abbia bisogno di toccare, di sentire, di annusare, di possedere per credere di essere vivo. Attraverso queste iniziative portiamo un contributo indiretto perché cresca il livello della responsabilità e della coscienza di essere uomini, come persone che hanno come loro destino l’eternità.

7

PIETRO GIORGIO DAVÌ Sindaco di Valdobbiadene

Porto i saluti dell’Amministrazione Comunale e, a nome di tutti i cittadini di Valdobbiadene, vorrei ringraziare l’on. De Poli, presidente della Fondazione Cassamarca, per questo intervento di pregio nel comune di Valdobbiadene, che ha portato al restauro di questa chiesa dell’anno milleduecento, che da anni non era in un bello stato. Dispiace che, proprio in questa settimana in cui andiamo ad inaugurare questo monumento a Valdobbiadene, un altro edificio storico cittadino sia stato distrutto a causa di un incendio. Questa chiesa, viene oggi inaugurata dopo il restauro con un Convegno dedicato a S. Venanzio Fortunato, che ha avuto i natali proprio qui a Valdobbiadene, che, come diceva nei suoi libri chiamava “vallata du plavenis”, e precisamente in Cordana, in Borgo Cordanis. Si tratta del personaggio più noto e famoso tra tutti i cittadini valdobbiadenesi. È stato, infatti, uno dei più grandi autori di letterarura religiosa, famoso il tutto il mondo per la stesura di inni sacri. Proprio adesso, mentre stiamo parlando, ci sarà in qualche parte del mondo, in qualche chiesa del mondo, qualcuno che starà suonando uno di questi inni. Dispiace una cosa: che Valdobbiadene a questo personaggio famoso abbia dedicato solamente una via e una scuola, e non abbia creato un’associazione che possa portare nel mondo, ai giovani, la conoscenza di questo personaggio e della sua letteratura. Dobbiamo fare, dunque, un’autocritica, poiché non abbiamo saputo lanciare il messaggio culturale di San Venanzio Fortunato. Credo sia impegno di tutti i valdobbiadenesi, con la Parrocchia, l’Amministrazione Comunale e in collaborazione con la Fondazione Cassamarca, iniziare da oggi a far conoscere, soprattutto ai giovani, questo personaggio di grande valore letterario e culturale.

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DON MARCELLO BETTIN Parroco di Valdobbiadene

Anzitutto mi faccio portavoce del Vescovo della Diocesi di Padova, sotto la cui giurisdizione canonica, da tempi remoti, appartiene la parrocchia e il vicariato di Valdobbia-dene: “Pace e bene nel Signore. Ringrazio sentitamente della segnalazione riguardante il convegno internaazionale di studio su ‘Venanzio Fortunato e il suo tempo’, promosso dalla Fondazione Cassamarca e che si svolgerà a Valdobbiadene nel 29 novembre e poi a Treviso fino al primo dicembre prossimi. Improrogabili impegni pastorali non mi consentono, purtroppo, di intervenire. Ti chiedo la cortesia però di significare il signor Presidente della Fondazione, on. Dino De Poli, il mio vivo compiacimento e il più sincero apprezzamento per l’iniziativa intesa a promuovere la conoscenza di codesto personaggio, originario di Valdobbiadene, grande per la santità e la cultura, importante quindi non solo per la chiesa, ma anche per la società e la storia. Desidero esprimere, tuo gentile tramite, il mio vivo compiacimento agli organizzatori, porgere un deferente saluto agli illustri relatori, con i più fervidi auguri per il felice esisto dell’importante manifestazione, mentre, con sensi, di rinnovata gratitudine e stima, mi confermo devotissimo in Cristo. Don Antonio Mattiazzo, Arcivescovo di Padova”.

La comunità di Valdobbiadene, in particolare la parrocchia, vuole esprimere, mio tramite, la grande gioia per questo evento, che riapre le porte di una chiesa cara a tutta la nostra antica tradizione cristiana, proprio per commemorare un suo lontano figlio, insigne per cultura, arte e santità. Il Papa San Gregorio Magno e il Vescovo San Venanzio Fortunato, ognuno con il proprio carisma e la propria missione, illuminano la scena della seconda metà del sesto secolo, pur non essendosi mai incontrati. Ma quello che interessa la storia di questa nostra terra, allora forse denominata “Valle du plavenis”, è che in questi due santi ci siamo riconosciuti per secoli, nella devozione e nella civilità. 11

A San Gregorio si ricollega la tradizione di promozione rurale, propria della famiglia religiosa dei benedettini, che nella pedemontana aveva fondato numerosi monasteri. Più distaccata invece la devozione al grande concittadino San Venanzio Fortunato, il quale, in età ancora giovanile, lascia la sua casa per attraversare gran parte dell’Europa allora emergente; ma sempre si conservò nei secoli il suo ricordo, indicando perfino il luogo probabile dei suoi natali, in una piccola borgata, che, come ha detto il signor Sindaco, prende il nome da un modesto corso d’acqua che l’attraversa, la Cordana. Questa terra, ricca di acque, di boschi, di vigneti, già segnata dalla civiltà latina, rimarrà impressa nel ricordo di Venanzio Fortunato: la terra dei suoi padri, così come si esprime nel commiato della sua opera che forse gli fu più cara, “La vita di San Martino”: “Ti prego di dare un breve saluto agli amici di Valdobbiadene, paese natio della mia famiglia, dimora degli avi, paese di origine dei miei genitori, di mio fratello, di mia sorella, della schiera dei miei nipoti che amo con cuore sincero”.

Siamo dunque profondamente grati alla Fondazione Cassamarca, e principalmente al suo Presidente, on. Dino De Poli, per aver preso la generosa e lungimirante iniziativa di sostenere il radicale restauro di questa antica chiesa di San Giorgio e promuovere un convegno internazionale su Venanzio Fortunato, il suo tempo. Un grato saluto ai promotori, al comitato scientifico, ai relatori del convegno stesso e un saluto cordiale di benvenuto a tutti voi che ci onorate con la vostra presenza.

12

PAOLO PECORARI Università degli studi di Udine

Autorità, signore, signori, il convegno su “Venanzio Fortunato e il suo tempo”, che oggi si apre, è stato scientificamente preparato dai colleghi Giorgio Fedalto, Luciano Gargan, Paolo Mantovanelli e Sergio Tavano, il cui lavoro di ideazione e progettazione ho avuto l’onore di coordinare. A ciascuno di essi esprimo il mio più cordiale, sentito ringraziamento. Il convegno costituisce la prima iniziativa di un vasto programma di attività al quale sta lavorando il “Comitato Venanzio Fortunato di studi e ricerche storiche”, istituito dal Presidente della Fondazione Cassamarca, on. Dino De Poli, presieduto da chi vi parla e composto da Giorgio T. Bagni, Andrea Cason, Leone Cecchetto ed Eugenio Manzato. Tale Comitato ha l’incarico di promuovere studi di storia e di storiografia condotti con metodo rigorosamente scientifico e aperti al dialogo interdisciplinare, inteso come tentativo di comprensione critica della complessità storica della Marca trevigiana, nella molteplicità dei suoi aspetti economici, politici, sociali, religiosi, artistici, linguistici, dal tardo antico all’età contemporanea. La regionalità cui ci si riferisce nulla ha in comune con il localismo, con la compiaciuta celebrazione di più o meno statiche e nostalgiche memorie del passato, ma tiene conto dei due modi oggi prevalenti in letteratura di intendere la storia locale: quello incline a cogliervi l’espressione della concreta ricerca sui grandi temi o problemi di storia generale riflessi in un’area circoscritta e quello che la considera una possibile forma, forse la sola effettivamente possibile, di historire à part entière, di storia ‘globale’. L’apertura verso la ‘globalità’ è suggerita anche dalla consapevolezza che il processo di revisione teorica e metodologica in corso su queste questioni pone numerosi, e non ancora risolti, interrogativi circa l’assimibilità della microstoria al più ampio discorso storiografico, specie quando la dimensione locale non sia assunta come spazio geografico commisurato ai temi affrontati o quando, a fortiori, la medesima dimensione si trasformi in pretesto per trascurare i nessi che interconnettono, nella continuità e nella discontinuità, il particolare al generale, e viceversa. Ma di ciò, ovviamente, si potrebbe discutere a lungo. Diamo ora inizio ai lavori del convegno con la relazione della prof.ssa Cristina La Rocca. 13

MARIA CRISTINA LA ROCCA Dipartimento di Storia Università degli studi di Padova

Venanzio Fortunato e la società del VI secolo *

1. Il VI secolo e il recente dibattito storiografico

L’esperienza di Venanzio Fortunato, non solo di poeta e agiografo, ma soprattutto di individuo, si svolse in un contesto cronologico e geografico di eccezionale interesse. La seconda metà del secolo VI costituisce infatti un momento di cruciale importanza per il passaggio dalla società tardoantica a quella altomedievale, e il regno dei Franchi rappresenta indubbiamente l’osservatorio privilegiato per esaminare lo sviluppo delle nuove forme di autorità regia, di supremazia politica e di pratiche aristocratiche che portarono, nel corso del secolo VIII, all’emergere non soltanto della dinastia dei Pipinidi e della creazione dell’unità carolingia, ma anche alla nascita di una ideologia politica stabilmente basata sul coerente rapporto tra istituzioni pubbliche e istituzioni ecclesiastiche1. Proprio la sua posizione di ponte tra un epoca e un’altra non ha però giovato agli studi su questo periodo. A cavallo com’è tra due discipline accademiche – la storia romana e la storia medievale – la società del secolo VI è stata osservata secondo due prospettive divergenti, ma entrambe sminuenti: mentre per i tardoantichisti essa costituisce il momento finale di destrutturazione dei fenomeni del passato, gli altomedievisti tendono invece a interpretarla come fenomeno di embrionale novità. Enfatizzando rispettivamente ciò che del passato vi è ancora, con lo sguardo malinconicamente rivolto all’indietro, oppure ciò che del futuro vi è già, con la mente proiettata verso il futuro, le caratteristiche intrinseche del VI secolo finiscono col diventare solo una rozza e informe somma di elementi ‘finali’ oppure di aspetti ‘preparatori’2. Nel caso di Venanzio, poi, questa tendenza è stata ulteriormente accentuata dalle stesse vicende biografiche del poeta. Nato in Italia durante il lungo conflitto che oppose l’esercito dei Goti a quello imperiale, ma operante nel regno 15

dei Franchi, Venanzio è stato a lungo studiato come italiano in terra straniera e la sua produzione è stata valutata tracciando una linea di confine tra le caratteristiche culturali ‘romane’ del decadente e opportunista Venanzio, a confronto con quelle ‘germaniche’, rozze e incolte dei suoi sponsor franchi, non senza una venatura di disprezzo nel constatare il prostrarsi dei raffinati strumenti retorici e poetici della tradizione classica nell’omaggiare un pubblico ‘barbaro’, incapace di apprezzarli compiutamente3. Ma questa rigida separazione etnica e culturale sembra più il frutto di ricostruzioni storiografiche che non della realtà: se è pur vero che una volta Venanzio si definisce italus, questo termine è utilizzato soltanto per indicare la distanza geografica del suo luogo di origine4; i lavori di Walter Goffart, poi, hanno dimostrato che il termine barbarus era utilizzato nel VI secolo come etichetta neutra, priva di qualsiasi significato dispregiativo, che gli stessi Franchi o i Burgundi non disdegnarono di applicare a sé stessi5, senza contare che lo stesso Venanzio lo applicò a persone che intendeva lodare6. Come si è potuto accertare nella più recente storiografia, a partire dal III secolo barbari e romani facevano parte di uno stesso sistema, di cui il mondo romano costituiva il centro e i barbari, stanziati ai suoi confini, la periferia. Il mondo romano stimolava i barbari a diventare parte attiva del centro attraverso una complessa dinamica di integrazione, stimolandone i bisogni, accrescendone la stabilità sociale, fornendo i simboli e gli oggetti materiali di ostentazione del prestigio.7 In particolare nelle aree di frontiera, i modelli di affermazione sociale furono ispirati all’attività militare e furono interpretati e utilizzati su un identico piano sia dai barbari sia dai romani, come prova, tra l’altro, la nascita di uno specifico corredo funerario maschile, dotato di armi e cinture8. La coscienza di una separazione etnica oltre che istituzionale tra le due componenti della società venne quindi soppiantata, a partire dal V secolo, dallo svilupparsi di identità etniche totalmente fittizie dal punto di vista biologico, ma invece molto attive e proficue sul piano politico e culturale. I Franchi di Childerico alla metà del secolo V e i Franchi del tempo di Sigeberto e Chilperico alla metà del secolo successivo non hanno in comune che il nome, poiché le loro caratteristiche biologiche, sociali e culturali si erano totalmente trasformate, non da ultimo perché il nome Francus andò a qualificare tutti coloro che, indipendentemente dalle loro origini etniche, riconoscevano la supremazia politica dei re merovingi9. Allo stesso modo in cui la confederazione di 16

popoli che, in nome della fedeltà al clan degli Amali, si stanziò in Italia sotto il nome di Goti nel 493, non aveva niente da spartire con coloro che si denominavano Goti cinquant’anni più tardi10: se ha ragione Patrick Amory questo nome venne infatti a indicare tutti coloro che ricoprivano le cariche militari, indipendentemente dalle loro radici biologiche11. Se la fine del mondo romano si manifestò in modi e tempi assai diversi nelle varie regioni dell’Impero, essa si avviò soprattutto quando i funzionari imperiali cessarono di agire in quanto delegati del potere centrale e utilizzarono invece, per dominare, la loro leadership, fondata sul prestigio militare, le alleanze e le clientele che essi avevano costruito localmente. In questo processo venne dunque meno il ruolo dello stato nell’organizzare e disciplinare le gerarchie sociali attraverso titoli pubblici: perciò la competizione tra le élites divenne uno dei fattori principali di azione della vita politica e sociale12. In questa prospettiva, tra il regno dei Franchi ove Venanzio andò a risiedere e quello dei Goti, presso i quali il poeta aveva trascorso la giovinezza, vi erano molte più similitudini di quanto le etichette etniche abbiano portato a credere.

2. Venanzio e i suoi patroni

Inoltre il supporre una netta contrapposizione culturale tra il poeta e i suoi committenti ha fatto sì che abbia prevalso, nel valutare le informazioni offerte da Venanzio, il suo punto di vista come semplice osservatore passivo, o tutt’al più come mistificatore dei fatti, e non quello di Venanzio come personaggio attivo, apprezzato e richiesto interprete delle ambizioni e delle tensioni della società in cui egli agiva, considerando cioè il rapporto che venne instaurandosi tra il poeta e i suoi committenti e le dinamiche della loro relazione. Se osservata da questa prospettiva, la produzione encomiastica di Venanzio non è infatti di semplice valore constatativo, di documentazione della realtà – ancorché rivestita di una patina antica e nobilitante –, ma acquista un forte valore propositivo, generatore di modelli e di comportamenti, specchio della cultura letteraria, dei pregiudizi, dei progetti delle élites del VI secolo, e soprattutto delle loro difficoltà. La stessa carriera di Venanzio da poeta, a presbyter sodale della regina Radegonda e infine a vescovo di Poitiers13 è la prova di quanto l’abilità letteraria fosse tenuta in considerazione presso la società franca del VI secolo14. Come è stato osservato da più parti, la principale fonte 17

su Venanzio Fortunato, sulla sua vita e sulle sue opere, è quanto egli stesso ci ha tramandato di sé. Questo costituisce una particolarità del nostro autore che forse non è stata sufficientemente sottolineata, poiché, a dispetto della varietà di individui e di ruoli sociali con cui Venanzio ebbe a che fare nel corso della sua vita, questi rapporti sono singolarmente caratterizzati dalla mancanza di reciprocità, per lo meno di reciprocità scritta. Lo stesso Gregorio di Tours, il cui rapporto con Venanzio appare improntato dall’amicizia e dalla solidarietà, non gli dedica che una scarna riga nelle sue Historiae, e solo in quanto presbyter autore della Vita Beati Germani, dimostrando di non volersi affatto dilungare né sulle sue qualità poetiche, né sulla sua personalità15. A fronte delle centinaia di epistolae redatte da Venanzio, non ci è stata tramandata nessuna epistola a lui scritta, sebbene in qualche caso egli stesso testimoni di essere in regolare consuetudine con alcune figure laiche ed ecclesiastiche16. Questa unidirezionalità di rapporti deve farci riflettere su uno degli aspetti preminenti della società del VI secolo, pienamente testimoniata dagli scritti di Venanzio e dalla struttura stessa della sua opera, organizzata per gruppi sociali di destinatari: per Venanzio come per i suoi illustri interlocutori, l’altissimo grado di instabilità delle élites rendeva necessario ostentare e ribadire costantemente gli aspetti visibili e condivisibili della preminenza. Il ruolo che Venanzio si ritagliò in seno alla società merovingia – o perlomeno quello che lui stesso volle sottolineare di sé – è infatti quello di maestro della parola e della poesia: parole sapientemente ordinate a dare luce e anima alle caratteristiche altrui sono il peculiarissimo oggetto del rapporto che Venanzio instaura con coloro a cui dedica i suoi versi. Si tratta di relazioni presentate come diseguali, intrecciate da una posizione di subalternità, veri e propri doni ai potenti. Ma si tratta di falso understatement. Le qualità oratorie e poetiche che costantemente Venanzio esalta nei suoi patroni sono infatti quelle in cui egli stesso sa di primeggiare: magnificandole nei suoi interlocutori egli le propone come categorie di distinzione sociale e di eccellenza che servono a qualificare prima di tutto lui stesso di fronte al suo uditorio17. Della realtà delle relazioni sociali di Venanzio sono spia ben più efficace le lettere di raccomandazione che egli stesso rivolge ai vescovi locali a favore di suoi propri protegés – come nel caso in cui egli si fa da tramite con il vescovo Siagrio di Autumn per il pagamento di un riscatto per un servo, oppure quando, in numerose occasioni, sollecita 18

Gregorio di Tours a liberare ragazze accusate di furto e ingiustamente imprigionate18 –: esse testimoniano che Venanzio, a un certo punto della sua carriera, era perfettamente in grado di attivare un certo numero di rapporti di subordinazione. Anche i piccoli componimenti occasionali svelano la capacità di Venanzio di instaurare rapporti paritari di familiarità: ne siano un esempio per tutti le conchiglie portate in dono a Placidina, che, in quanto dono gratuito e fuggevole, testimoniano la qualità della relazione di intimità personale che il poeta aveva instaurato con la illustre moglie del vescovo Leonzio di Bordeaux19.

3. Il problema della nobilitas

Sarebbe perciò un errore pensare che l’immagine di instabilità che Venanzio stesso enfatizza di sé, cioè quella del topolino alla ricerca di cibo alla tavola dei potenti20, fosse un elemento a lui peculiare: tutta la società con cui Venanzio ha rapporti vive, con la stessa intensità, seppur su piani e modi diversi, nella necessità di vedere confermate e apprezzate le proprie specificità per dimostrare di appartenere alle élites nel presente, e per trasmettere una tale eredità immateriale alla generazione successiva. La produzione di Venanzio è perciò osservabile come elemento attivamente ricercato per confermare o proporre la supremazia di coloro a cui i carmina sono dedicati: uno dei fili rossi dei carmi di Venanzio è infatti quello della stabilità sociale, o meglio quello delle prove attraverso le quali la stabilità dei ruoli sociali può essere confermata e ribadita. Come Venanzio aveva certo sperimentato durante la sua giovinezza, vissuta durante il breve e contrastato momento della restaurazione imperiale in Italia, la stabilità sociale era l’oggetto controverso di due modelli in antitesi tra di loro: da un lato, un modello di tipo pubblico, ove era lo stato ad assegnare e garantire, attraverso propri titoli onorifici, la posizione del singolo e del suo gruppo famigliare all’interno della società. Dall’altro un modello più incerto e labile, ma certo diffusissimo, perché lasciava ampio spazio alle possibilità individuali, all’interno del quale la rilevanza sociale si estrinsecava attraverso la stabilità dei propri legami personali, la disponibilità di terra, la capacità di enucleare attorno a sé gruppi di fedeli armati, oppure di sottoposti: insomma vincoli privati di natura militare e familiare, di subordinazione o di pari livello sociale, che prevedevano un grande inve19

stimento di energie, materiali e politiche, nel ribadire costantemente di fronte al proprio pubblico la continuità di tali prerogative. Tale supremazia, o leadership, però, non poteva contare su una titolatura ufficiale che la fissasse stabilmente all’interno delle gerarchie sociali, ma solo sugli epiteti onorifici derivati dalla coscienza dinastica del gruppo familiare nelle generazioni, dalle imprese militari, dai legami di protezione instaurati verso l’alto e dalle relazioni di reciprocità attivate attraverso il sistematico scambio dei doni21. È bene chiarire che la compresenza di questi due modelli di affermazione sociale – il primo che tendeva a basarsi sulla tradizione, il secondo sulle possibilità del presente – si riverberava in pieno anche sulla componente ecclesiastica, che da quegli stessi gruppi aristocratici era tratta. La nomina vescovile, ad esempio, si trovava in continua oscillazione nel conflitto tra gruppi familiari che ne avevano dinastizzato la carica, i gruppi aristocratici loro rivali all’interno della stessa comunità, e infine le fazioni nate all’interno del clero locale. Le Historiae di Gregorio di Tours mostrano infatti numerosi esempi delle ambizioni nate in seno al gruppo degli arcidiaconi che tendevano a presentarsi quali naturali successori del proprio vescovo, e della loro capacità di mobilitare le proprie fazioni di sostenitori locali22. A questa continua negoziazione con la società locale, si aggiunga, per i laici come per gli ecclesiastici, la diretta ingerenza del re nella nomina vescovile come in quella degli ufficiali pubblici: il processo di rafforzamento e di separazione della famiglia merovingia dalle altre famiglie aristocratiche del regno era infatti consistito nel porsi al centro dei destini individuali dei funzionari, che spesso venivano designati senza avere nessun legame locale – né familiare né patrimoniale – con la loro sede, riservandosi il diritto di rimuoverli dalla loro carica non appena il loro rapporto di coesione con il re fosse venuto meno. Secondo Venanzio, lo stesso Gregorio doveva la sua nomina di vescovo di Tours all’intervento diretto di re Sigiberto e della moglie Brunilde23, mentre i suoi beni e le sue relazioni familiari erano incentrati in Burgundia e in Alvernia24. Il potere pubblico e il potere episcopale operavano dunque in una stretta contiguità e reciprocità di rapporti con il potere regio: se al re era necessario il supporto dei propri fedeli armati, ugualmente necessario gli era l’appoggio dei vescovi nelle principali città. Inoltre, così come il mantenimento dello status aristocratico era garantito dalla continuità di sintonia con il re, così i chierici necessitavano del supporto regio per effettuare la propria ascesa vescovile. In questa prospettiva, 20

la separazione, anche di recente proposta, tra i carmina di Venanzio dedicati ai vescovi da quelli dedicati all’aristocrazia laica, tende a nascondere le origini comuni di questi due gruppi e dunque la problematica sociale che entrambi pienamente condividevano25. Un caso significativo è quello del gruppo familiare del vescovo Avito di Clermont, imparentato con Sidonio Apollinare, la cui dinastia cessò di avere ogni rilevanza nella sede originaria della famiglia, potenziandosi successivamente a Bordeaux, con la coppia vescovile formata da Leonzio e dalla moglie Placidina26, a cui Venanzio dedicò numerosi suoi componimenti. Il carme I 15, in lode di Leonzio, si apre anzitutto precisando le basi della sua eccellenza sociale: il primo elemento che identifica lo status di Leonzio è il suo legame diretto con il re Childeberto I e l’attività militare che egli ha svolto al seguito del re, presentando il background di fedeltà e di valore in guerra come il fattore che ha permesso a Leonzio di ascendere alla carica vescovile27. Il secondo elemento è quello dell’antichità della sua stirpe, la quale però non ha di per sé una funzione nobilitante, ma risulta prestigiosa solo in quanto avvalorata dalle azioni compiute da Leonzio. La stirpe è paragonata, in modo assai efficace, a una antica villa che non è andata in rovina nel corso del tempo, ma è stata restaurata e rinnovata dallo stesso Leonzio28. Il rapporto di legittimità è quindi rovesciato: è l’agire di Leonzio che nobilita l’antico prestigio dei suoi antenati e non vice versa. Per Venanzio e per Leonzio, dunque, la coscienza dinastica, l’illustre e nobile progenie del passato, non sono un elemento sufficiente per essere definiti nobili, poiché le origini devono trovare una loro conferma nel presente. La nobiltà non è allora presentata come elemento dal movimento discendente, che si trasmette geneticamente nelle generazioni, bensì all’inverso: la stirpe è solo la radice di una pianta, di cui Leonzio è il frutto fronzuto che la riveste e la abbellisce29. È interessante che per esemplificare la trasmissione della nobilitas Venanzio ricorra a immagini edilizie di tipo archeologico, quali gli scavi ci riportano con grande intensità proprio nel territorio di Bordeaux: si tratta infatti di un paesaggio fittamente occupato da residenze rurali aristocratiche costruite in età classica che subiscono, nel corso del V e del VI secolo, una notevole fase di rioccupazione e di risistemazione edilizia, che comprende in alcuni casi l’ampliamento degli spazi abitativi, in altri il mutamento di destinazione di alcune parti residenziali in edifici di culto30. In altri 21

tre carmi lo stesso Leonzio è celebrato da Venanzio proprio per i restauri da lui fatti eseguire su antichi edifici abbandonati, che sono riportati a nuovo splendore, come la villa porticata di cui Leonzio ha restaurato l’impianto termale31. Né i paragoni edilizi sono peculiarità dell’agire vescovile: anche il duca Launebode è illustre per le sue attività che nobilitano i suoi avi, e la prova edilizia del loro valore è utilizzata da Venanzio come elemento visibile e noto a tutti32. Nel sottolineare la necessità dell’agire nel presente per rendere vivo il passato, definendo lo status aristocratico come organico bilancio tra tradizione dinastica e attualità, Venanzio fa dunque riferimento a immagini concrete che erano percepite e comprese con chiarezza dal suo uditorio proprio in quanto facevano parte integrante del paesaggio visivo locale, oltre che essere, naturalmente, il prodotto stesso delle attività edilizie dei suoi interlocutori. Nel fare ciò Venanzio dichiarava del tutto sorpassata l’idea antica che riservava ai soli costruttori di edifici nuovi il plauso e il pubblico riconoscimento, che aveva permesso ad Ammiano Marcellino di biasimare un praefectus urbis perché si faceva passare per fondatore di edifici che aveva in realtà solo riadattato33. Il tema della nobilitas viene poi saldamente agganciato alla figura regia e al rapporto di fedeltà instaurato con il re. Nell’epitaffio redatto per lo stesso Leonzio si ribadisce infatti che la sua preminenza deriva sì dalle sue origini “quale genus Romae forte senatus habet”, ma precisando, subito dopo, che questa caratteristica è resa attuale dai legami instaurati dal presule, primo tra tutti quello con il re (“regum summus amor”), la società locale (“patriae caput”), il proprio gruppo familiare (“arma parentum”), i propri sodali (“tutor amicorum”), infine la collettività urbana di Bordeaux (“plebis et urbis honor”): ed è proprio la molteplicità di queste sfere di rapporti personali e familiari che ha permesso a Leonzio di agire in modo giusto ed efficace, in qualità di mediatore tra il re e la cittadinanza (“placabat reges, recreans moderamine cives”)34. Il legame con il re come fonte indiscutibile della preminenza è presente anche in altri epitaffi di laici e di ecclesiastici: per il prete Servilione, la sua nobiltà deriva non solo dall’eredità di lignaggio, ma soprattutto dalla carica pubblica di domesticus all’interno del palazzo regio e dalle virtù di saggio amministratore del fisco regio35; Aracario è illustre perché egli “palatina refulsit clarus in aula”36; Orienzio perché per lui ‘il palazzo regio era sempre aperto”37. In altri casi, come quello di Gogo, fedele del re Sigeberto, si afferma invece esplicitamente che la nobilitas rag22

giunta nel presente è esclusivamente il frutto del benvolere regio: Gogo è stato scelto dal re “come un’ape che sceglie i suoi fiori”: intendendo implicitamente che la posizione di Gogo e la stima di cui gode sono esclusivamente il frutto della contingenza e quindi suscettibili di mutare nel corso del tempo38. Come risulta ormai chiaro, i doni di terra effettuati dai re merovingi per ricompensare i loro funzionari non erano affatto donazioni permanenti in piena proprietà ed è probabile, come si è discusso a lungo negli ultimi anni, che esse consistessero esclusivamente nel diritto di raccoglierne le imposte invece del re, oppure di riscuoterne i censi39. Dunque, il venir meno della carica significava per i funzionari anche il venir meno della terra, cioè della principale risorsa aristocratica. Venanzio sembra perfettamente al corrente della complessa rete di legami e di raccordi che era necessaria per conservare il favore regio: non da ultimo per il fatto che la politica matrimoniale dei re e la mancanza di un diritto successorio provocavano una situazione di costante conflitto all’interno della stessa famiglia merovingia. In altre parole, la fedeltà a un re poteva tramutarsi all’improvviso in un elemento negativo presso il suo successore. Perciò nel lodare il domesticus Condane, Venanzio descrive il dipanarsi della sua carriera di ufficiale pubblico come una successione di cariche agganciate alla personalità di cinque diversi re – Teoderico I (511-533), Teodeberto (533548), Teodebaldo (548-555), e il loro rivale Clotario I (511561) e infine Sigeberto I (561-575) – che si succedettero sul trono di Reims tra 511 e 565, vantando anzitutto l’abilità dello stesso Condane a dimostrarsi, nei fatti, un uomo indispensabile: “I re sono cambiati – dice Venanzio – ma tu non hai mutato i tuoi honores. Tu sei il degno successore di te stesso”40. Nell’illustrare il curriculum di Condane da tribunus a comes a domesticus e infine a commensale del re Sigeberto, Venanzio spiega che tale progressione è stata effettuata da un uomo privo di qualsiasi background di passato41, presentando esplicitamente l’aristocrazia come gruppo mobile, e di origini variegate, ove i valenti parvenus, come Condane e lo stesso Venanzio, hanno la possibilità di emergere grazie alle loro intrinseche qualità.

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4. Il ruolo femminile nell’aristocrazia

Un altro aspetto che laici ed ecclesiastici condividono nell’opera di Venanzio è quello della celebrazione congiunta del nucleo coniugale come fonte di legittimazione della discendenza. Uno degli aspetti che differenziava Franchi e Romani era anzitutto la struttura della famiglia e dunque la modalità stessa della trasmissione dei beni. Se la famiglia romana era organizzata come struttura patrilineare di lignaggio, quella franca aveva invece una struttura prevalentemente cognatica, e cioè aperta alle eredità derivanti sia dal ramo materno che da quello paterno. Nel VI secolo, una delle possibilità di individuazione e di trasmissione della nobilitas derivava dall’uso di prelevare i nomi della propria discendenza indifferentemente dall’uno o dall’altro bacino di parentela, a seconda di quale dei due gruppi godesse di maggiore prestigio. Proprio perché nell’alto medioevo l’aristocrazia praticava di norma l’omogamia, vale a dire l’unione di individui provenienti da gruppi parentali di status analogo, la linea di tendenza prevalente era quella di trasmettere nomi derivanti dalla famiglia paterna. La presenza di nomi derivanti dal ramo materno è dunque indice preciso della volontà di utilizzarli per rivendicare la trasmissione di specifici diritti42. L’elogio di Placidina, la moglie di Leonzio di Bordeaux, è infatti indissolubilmente unito da Venanzio a quello del marito, poiché la sua stirpe può contare tra gli avi l’imperatore Eparchio Avito e Sidonio Apollinare43. In contrapposizione con Leonzio, la cui stirpe, nonostante le diverse congetture formulate a proposito, non è affatto certa, se non come gruppo che fornì alla città di Bordeaux due vescovi prima di lui44, il background familiare di Placidina è l’elemento che contribuisce per via matrilineare a innalzare e a sostanziare quello del marito. Sembrerebbe dimostrarlo il fatto che l’unico loro figlio che noi conosciamo, Arcadio, celebrato da Venanzio nel suo epitaffio funebre, fu denominato per ripetizione con il nome del nonno materno, così precisando e accrescendo, appunto nella direzione materna, il rango della discendenza della coppia episcopale45. L’elogio della coppia e delle sue caratteristiche congiunte di eminenza e di concordia è presente, come ho già sottolineato, sia nei carmina dedicati ai laici sia a quelli per gli ecclesiastici: nell’epitaffio del sacerdote Ilario, ‘egregia de nobilitate refulgens’, Venanzio precisa che anche la sua defunta moglie era dello stesso grado sociale (‘conubio iunctus simili’)46. Così come Placidina e Leonzio sono ritratti da 24

Venanzio agire in perfetta sintonia nella loro opera di edificatori di chiese e delle proprie residenze, ripartendosi i compiti di abbellimento e di decorazione, come nel caso della chiesa di S. Martino presso Parigi47, anche Basilio e Baudegonde ampliano la chiesa di S. Martino presso Poitiers ‘cum Baudegonde quo mente Basilius una’48, e Launebode e Beretrude insieme fondano la chiesa di S. Saturnino presso Toulouse, ripartendosi equamente le opere di abbellimento della chiesa e quelle di pietà nei confronti dei poveri49. Sullo stesso piano di reciproco rafforzamento va visto il ruolo delle mogli, che Venanzio costantemente enfatizza, come custodi della memoria familiare qualora esse diventino vedove: così come è Placidina a richiedere a Venanzio di redigere l’epitaffio di Leonzio50, l’epitaffio di Basilio, più volte inviato regio presso i Visigoti, sottolinea che la moglie Baudegonde fu sposata con lui per vent’anni51. Nel caso poi di Brumachius, anch’egli inviato regio, defunto in Italia, si sottolinea che fu la moglie Frigia a riportare le spoglie del marito presso la sua residenza e a occuparsi delle sue esequie funebri e del suo sepolcro52. Come ha sottolineato Janet Nelson, la società altomedievale è fitta di giovani vedove, anzitutto per il diverso momento della vita in cui le unioni matrimoniali avevano luogo: appena adolescenti le femmine, già uomini maturi i maschi. Ma la posizione sociale delle vedove era di grande precarietà: non più vergini e non più sposate, esse si collocavano in un ambito liminale soggetto sia alle pressioni della loro famiglia di origine a contrarre una nuova unione, sia a quelle della famiglia d’acquisto a rimanere ‘non sposate’. Specie per quanto riguarda la gestione dei loro beni fondiari, una parte dei quali derivava loro dai doni nuziali offerti dal marito, le vedove si trovavano al centro di pressioni divergenti: quelle della loro famiglia di origine a contrarre un nuovo matrimonio, quelle della famiglia del marito a rimanere ‘non sposate’.53 Queste considerazioni generali valgono in modo speciale per le mogli dei vescovi, le quali, venendo meno la funzione civile ed ecclesiastica del loro sposo, e dunque il loro status di ‘moglie del vescovo’, tendono normalmente a presentarsi come custodi ed eredi della sua memoria, acquisendo uno status di ‘vedova episcopale’ che esse cercano di trasformare in quello di ‘madre episcopale’ – come per esempio Armentaria, madre di Gregorio di Tours54 – attraverso la trasmissione della carica paterna ai propri figli. Nel caso del vescovo di Nantes, Eumerio, la fama del padre, dice Venanzio, sopravvive grazie a quella 25

del figlio Felice, suo erede biologico e anche della sede episcopale55. Per Nicasia, vedova dell’ufficiale pubblico Orienzio, e custode del sepolcro e della memoria coniugale, e per Eufrasia, moglie di Namazio, poi vescovo di Vienne56, la vedovanza significò invece porsi sotto la protezione ecclesiastica, acquisendo il ruolo di vedova velata, cioè di donna che, a patto di non più risposarsi, poteva continuare a risiedere all’interno della propria casa senza contrarre l’obbligo di entrare in un monastero, e alla quale la protezione ecclesiastica garantiva il pieno possesso dei suoi beni, tutelandola dalle pressioni dei propri parenti57. Per il gruppo familiare in genere, e in particolare per le donne, gli epitaffi di Venanzio Fortunato e i dati archeologici mettono bene in luce la rilevanza fondamentale del rituale funerario nel ribadire e rivendicare le stesse prerogative sociali del defunto per il suo gruppo familiare. Proprio nel momento in cui Venanzio componeva le sue ‘epigrafi letterarie’ – come le ha chiamate Robert Favreau58 – si assiste soprattutto nell’area di Metz al rafforzamento dell’investimento funerario delle élites attraverso l’impianto di grandi necropoli: tra la seconda metà del VI e l’inizio del VII secolo si moltiplicano infatti le sepolture con ricchi corredi di armi oppure di gioielli59. Lungi dall’enfatizzare l’appartenenza etnica a gruppi di germani, queste sepolture riccamente ornate testimoniano l’investimento operato dalle élites locali che utilizzarono il rituale funerario quale occasione pubblica per ridefinire o confermare la posizione del gruppo famigliare all’interno della comunità: come dimostrano le ricerche di recente effettuate nell’ambito dell’archeologia merovingia, le sepolture con corredo sono il preciso segnale della precarietà e dell’incertezza sociale e non dell’orgoglio guerriero ‘tipicamente germanico’ come un tempo si era supposto. Per dare un’idea dell’entità di questo fenomeno, il numero delle necropoli nella sola valle della Seille passò da tre nel V secolo a nove in quello successivo: esse sono poste di preferenza nei pressi delle rovine di antiche ville romane, che diventano perciò il punto di attrazione della comunità che frequenta il cimitero, fornendo anche materiale da costruzione per le sepolture. Gli studi archeologici hanno dimostrato come il criterio per l’attribuzione di un corredo più o meno ricco, più o meno sessualmente caratterizzato, fosse basato anzitutto sull’età di morte. Per i defunti di sesso femminile, tale età è quella compresa tra i 13 e i 20 anni, mentre le sepolture delle donne più anziane o delle bambine ne sono del tutto prive o contengono oggetti non caratterizzati 26

sessualmente: i parenti sottolineavano perciò la gravità della perdita subita anzitutto nella loro qualità di wife-givers, cioè di detentori del principale strumento di alleanza con altri gruppi parentali e di continuità dei gruppi familiari stessi60. Anche gran parte dei carmina funerari di Venanzio si indirizzano al planctus familiare nei confronti di individui giovani, – si pensi al celebre epitaffio di Vilituta61 – e a giovanette morte di parto. Particolarmente significativo è, a questo proposito il carme per Eusebia, morta a dieci anni, il cui epitaffio è incentrato non tanto sulla morte di una bimba, ma sulla morte di una sposa mancata, il cui padre si dispera per non poter diventare suocero e per non poter avere più un genero62. È dunque possibile che gli epitaffi di Venanzio fossero intesi come strumento di commemorazione orale, anziché scritta, da declamare al momento delle esequie, esprimendo in una forma nobilitante gli intenti che erano visivamente espressi dal corredo funerario63. Proprio nel carme per Vilituta Venanzio sottolinea che essa aveva donato alle chiese e ai poveri tutto ciò che poteva esser destinato all’ornato femminile, cioè il corredo con cui il suo gruppo familiare l’avrebbe onorata nel sepolcro, e che, proprio per questo, essa avrebbe potuto nuovamente indossarlo nel al di là64: Venanzio si fa dunque interprete dell’idea, poi pienamente sviluppata in età carolingia, che la trasmissione dei beni ai pauperes, anziché la loro tesaurizzazione nel sepolcro, garantisse la conservazione perenne dello status sociale65. La rilevanza del rituale funerario per stabilire un legame di continuità con i defunti e le loro prerogative, sta anche alla base del rinnovato rapporto instaurato dai vescovi con le reliquie dei santi locali, normalmente santi vescovi che li avevano preceduti nella stessa sede66. Accanto all’attività di restauratore di edifici residenziali, Venanzio loda Leonzio e Placidina sia per aver fatto erigere edifici ecclesiastici del tutto nuovi, sia per aver ampliato o restaurato edifici di culto già esistenti67, descrivendo, talora con grande minuziosità, la portata di questi interventi: a Saintes, nella basilica di S. Viviano, Placidina si è occupata di onorare il sepolcro con le reliquie del santo, dotandolo di una teca d’argento, Leonzio ha offerto le nuove decorazioni musive per le pareti della chiesa68; ancora a Saintes, Leonzio e Placidina hanno fatto rivivere il culto del vescovo Eutropio, restaurandone la chiesa cimiteriale, e fornendo l’edificio di un nuovo soffitto di legno scolpito e di nuovi affreschi69. L’attività di cura e di tutela degli edifici ecclesiastici e dei sacri resti da loro ospitati si presenta poi come uno degli elementi che caratteriz27

zano la continuità dell’azione vescovile sotto il profilo dinastico: per la chiesa di St. Denis a Bordeaux si sottolinea che le reliquie del santo furono portate in città da Amelio, predecessore e padre dello stesso Leonzio, trasportandole da un luogo lontano, e che fu Amelio a costruire la piccola chiesa che ora Leonzio ha ampliato70. L’insediamento del gruppo parentale di Leonzio a Bordeaux e il suo successivo rafforzamento come famiglia vescovile pare dunque realizzarsi attraverso la progressiva concentrazione dei culti praticati nella propria diocesi all’interno della città sede episcopale, e quindi attraverso il fermo controllo delle reliquie e delle devozioni, connotando visivamente la paternità del proprio operato.71 Allo stesso modo, le immagini edilizie sono utilizzate da Venanzio per esprimere un giudizio negativo: un vescovo inefficiente come Emerio, designato e poi deposto vescovo di Saintes, manifesta la sua indegnità a ricoprire il suo ruolo attraverso la sua incapacità a continuare la chiesa iniziata dal suo predecessore72. Restaurando le antiche chiese che ospitavano le sepolture dei santi vescovi del passato, ritrovando e onorando le loro reliquie, i nuovi vescovi, specie se provenienti da contesti territoriali estranei da quello in cui si trovavano a dover operare, si proclamavano custodi della loro memoria ed eredi del loro culto, proponendosi alla collettività come figli spirituali dei loro illustri predecessori. Per i laici, così come per gli ecclesiastici, il rituale della morte e la memoria dei defunti era dunque uno strumento attivo per comprovare i loro legami con il passato, definendo la propria identità nel presente.73

5. La corte regia: il ruolo del re e della regina

Al di là delle strategie elaborate dalle élites per sancire di fronte alla comunità la preminenza, il tema che attraversa tutte le composizioni celebrative di Venanzio è quello della rilevanza e della pregnanza della figura regia. La caratterizzazione della famiglia merovingia conteneva alcuni aspetti che certo a Venanzio dovevano essere ben presenti, altri che dovevano risultargli del tutto nuovi. Anzitutto quello della continuità dinastica. Proprio l’esperienza elaborata all’interno del regno dei Goti, da cui Venanzio proveniva, aveva eloquentemente dimostrato che, nonostante la profonda liason con l’impero d’Oriente intrattenuta da Teoderico, e l’organizzazione di forme ideologiche tese a recuperare forme di legittimazione 28

del potere derivate dall’autorità imperiale, il problema delle modalità della trasmissione del potere regio aveva costituito, alla morte di Teoderico, una fortissima fonte di conflitto tra le aristocrazie. Nonostante la genealogia costruita da Cassiodoro per Teoderico, con la quale si legittimava la supremazia dinastica degli Amali sugli altri gruppi aristocratici in quanto detentori di una regalità sacrale attraverso le generazioni, le lotte per la successione di Teoderico avevano dimostrato quanto forte fosse ancora la tendenza tra i gruppi aristocratici a sostenere l’idea che il re dovesse essere eletto tra tutti i membri dell’aristocrazia per il suo valore e non per diritto dinastico74. Nel regno dei Franchi, invece, la competizione tra le famiglie aristocratiche per il titolo regio era stata del tutto risolta: Clodoveo e i suoi figli riuscirono infatti a eliminare tutti i possibili rivali regi o nobili, come testimonia Gregorio di Tours75, e a creare attorno al proprio gruppo famigliare una barriera di invalicabile distinzione da tutti gli altri gruppi aristocratici. Tale barriera si sostanziava anzitutto nelle pratiche da essi adottate sotto il profilo matrimoniale, che si strutturarono in modo del tutto antitetico a quelle dell’aristocrazia. Se per l’aristocrazia, come abbiamo già detto, la pratica dell’omogamia garantiva l’unione e il rafforzamento di gruppi parentali che potevano mutualmente fornirsi clientele, oltre che supporto politico e territoriale, i re merovingi praticarono quella che gli antropologi chiamano ‘monogamia seriale’, vale a dire una sequenza di unioni legittime successive. Essi si unirono di preferenza con donne serve o, all’opposto della scala sociale, figlie o sorelle di re di regni contermini. Prive com’erano di supporto locale e di sostegno familiare, sia la serva sia la principessa straniera dovevano integralmente al loro legame sessuale con il re la loro posizione sociale di ‘regina’. Specialmente le serve potevano essere ripudiate con relativa facilità. Per questo il nucleo famigliare di un re merovingio era spesso composto da numerosi figli di madri diverse, molte delle quali ancora in vita. La regina di umili origini si trovava però in una condizione che, se era indubbiamente fonte di incertezza e di debolezza, le consentiva nondimeno di agire con una “paradossale libertà” nella scelta dei legami più opportuni al proprio sostegno. Essa non risultava infatti condizionata dalle clientele della propria famiglia di origine, oppure dalla dislocazione del suo patrimonio fondiario in una precisa area geografica, ma poteva utilizzare le risorse del tesoro regio per legarsi a chi le pareva più opportuno76. Proprio i casi di Brunilde, la principessa straniera, e di Fredegonda, 29

la serva, con cui Venanzio ebbe personalmente a che fare, dimostrano quanto grandi fossero le opportunità di stringere alleanze e di mantenere lo status di regina, anche dopo la morte del proprio marito77. Oltre alle pratiche matrimoniali, la strategia di differenziazione attuata dalla famiglia merovingia consistette nel creare attorno a sé un gruppo di aristocratici, funzionari pubblici, la cui stabilità e preminenza derivava esclusivamente dai legami stessi di fedeltà intrattenuti con il re, per i quali la ricompensa di terra donata dal re costituiva la prova materiale e lo strumento di tale collegamento. Gli unici aristocratici che sono dotati di un titolo nel Pactus della Legge Salica, sono infatti gli ufficiali regi, i suoi fedeli, i suoi compagni d’arme78. Il re controllava le aristocrazie attraverso l’assegnazione, il ritiro e la ridistribuzione delle cariche pubbliche, donando e poi reclamando i propri diritti sul fisco regio. A questo si aggiunga, naturalmente, la caratterizzazione sacrale dei merovingi come reges criniti, re dai lunghi capelli79. La preminenza del re e la sua diversità dalle altre famiglie aristocratiche annullava di fatto le differenze di status di coloro che si trovavano al disotto del re: perciò sotto lo strato regio la struttura sociale era permanentemente fluida, stimolando il desiderio e l’ambizione a entrare in rapporto con il re, presentato come unica fonte di stabilità80. Detto questo non si deve pensare che la società merovingia fosse, grazie alla stabilità dinastica della famiglia regia, una società priva di competizione. Anzi, proprio la strategia matrimoniale adottata da quei re per distinguersi dal resto dell’aristocrazia, era uno dei veicoli che permettevano alla competizione sociale di aggregarsi e di ricomporsi. Infatti l’abitudine a trasmettere il potere del re al primogenito non era affatto diffusa, poiché la regalità era concepita come patrimonio familiare, da spartirsi di diritto tra tutti i figli maschi81; né, quando si cercò di la competizione tra fratelli terminava, il vincitore risultava accettato senza contrasti e opposizioni. Poiché incerte e sempre fonte di conflitti erano le consuetudini che regolavano la successione al trono, il destino della regina e il mantenimento del suo status erano costantemente in pericolo, specie se, come spesso accadeva essa restava vedova. La compresenza di numerose mogli precedenti del re e dei loro figli, faceva sì che non vi fosse alcuna certezza per l’ultima regina che uno dei propri figli sarebbe riuscito a succedere al padre, né tanto meno che, tra di loro, sarebbe stato scelto quello a lei più legato. Si può facilmente capire perché i diritti del pri30

mogenito furono, in tale frangente, ostacolati anzitutto dalle varie mogli del re in nome del loro vantaggio personale: il conflitto per la successione permetteva a ognuna delle mogli del re di provare a far eleggere il proprio candidato, attraverso le alleanze da esse nel frattempo instaurate82. Il conflitto per la successione regia che negli altri regni barbarici divampava all’interno dell’aristocrazia, nel regno dei Franchi era quindi trasposto all’interno della famiglia merovingia e delle molteplici e contraddittorie alleanze che i suoi numerosi membri avevano stretto con le fazioni aristocratiche, con i vescovi delle città, con i funzionari pubblici. La società all’interno della quale Venanzio operò era dunque una società pervasa dall’instabilità. Anche se articolata gerarchicamente al suo interno, a partire dal re, i destini individuali erano costantemente in pericolo: l’aggregarsi e il disaggregarsi del consenso faceva sì che l’opera poetica di Venanzio, alla stessa stregua dei banchetti, delle chiese e delle ville ricostruite, delle reliquie di santi ritrovati e onorati, dei sepolcri corredati di armi, gioielli ed epitaffi, delle politiche matrimoniali, contribuisse a plasmare l’identità delle aristocrazie, fornendo ulteriori elementi da esibire e ostentare nella ricerca del consenso. E certo fu questa incertezza ad offrire a Venanzio Fortunato la chance di trasformarsi da nuovo Orfeo a vescovo di Poitiers.

Note

* Dedico questo lavoro alla memoria di Giovanni Tabacco, grande maestro recentemente scomparso. (1) Cfr. G.Tabacco, Il volto ecclesiastico del potere in età carolingia, in La Chiesa e il potere politico, Torino 1986 (Storia d’Italia Einaudi. Annali, 9), pp. 7-41 (ora in G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Torino 1993, pp. 165-208). (2) Si tratta insomma dello stesso atteggiamento già verificato, a proposito del tema delle istituzioni cittadine tra altomedioevo ed età comunale, da G. Sergi, Le città come luoghi di continuità di nozioni pubbliche del potere. Le aree delle marche di Ivrea e di Torino, in Piemonte medievale. Studi per Giovanni Tabacco, Torino 1985, pp. 5-7. (3) Si vedano, a questo proposito, le belle pagine di L. Pietri, Venance Fortunat et ses commanditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale, Spoleto 1992 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 39), pp. 729-754.

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(4) I riferimenti all’opera di Fortunato si riferiscono all’edizione di F. Leo (M.G.H., Auctores Antiquissimi, IV/1, Hannoverae 1881, d’ora in avanti Carmina) e di B. Krusch (M.G.H., Auctores Antiquissimi, IV/2, Hannoverae 1885, d’ora in avanti Opera pedestria) Venantius Fortunatus, Carmina, V, 18, v.5. Più frequentemente Venanzio si dice semplicemente provenire dall’Italia: IV 20, v. 5; VII 9, v. 7; VIII 1, v. 12; X 13, v. 10, 16, v. 1. (5) Goffart, Foreigners in the Histories of Gregory of Tours, “Florilegium”, 4 (1982), pp. 80-99; W. Goffart, The Narrators of Barbarian History. Jordanes, Gregory of Tours, Bede and Paul the Deacon, Princeton 1988, pp. 162-164, 212-213. (6) Barbarus: Venantius Fortunatus, Carmina, IV 26, v. 14, VI 5, v. 52 ; VII 8 v. 63, 18, v. 19 ; IX 1, v. 27; app. I v. 31, II, v. 83; Vita Martini, I, v. 480, III, v. 497; si veda a questo proposito, L. van Acker, Barbarus und seine Abletungen im Mittellatein, in “Archiv für Kulturgeschichte”, 47 (1965), pp. 125-140; quanto all’identità dei Romani in Gallia, cfr. J.D. Harries, Sidonius Apollinaris and the frontiers of Romanitas, in Shifting Frontiers in Late Antiquity, a cura di R.W. Mathisen, H.S. Sivan, Oxford 1996, pp. 31-44, che ridiscute le conclusioni tradizionali di G.B. Ladner, On Roman attitudes toward Barbarians in Late Antiquity, “Viator”, 7 (1976), pp. 1-25. (7) Si vedano, a questo proposito, le conclusioni e gli spunti di ricerca offerti da S. Gasparri, Prima delle Nazioni. Popoli, etnie e regni fra Antichità e Medioevo, Roma 1997; W. Pohl, Le origini etniche dell’Europa. Barbari e Romani tra antichità e medioevo, Roma 2000, con la relativa bibliografia. (8) Cfr. G. Halsall, The origins of the Reihengräberzivilisation: forty years on, in Fifth century Gaul. A crisis of identity?, a cura di J. Drinkwater, H. Elton, Cambridge 1992, pp. 196-207. (9) Sulla formazione dell’identità etnica dei Franchi, cfr. W. Pohl, Alemannen und Franken. Schlußbetrachtung aus historischer Sicht, in Die Franken und die Alemannen bis zur “Schlacht bei Zülpich” (496-497), a cura di D. Geuenich, Berlin New York 1998, pp. 636-651 (ora in Pohl, Le origini etniche, pp. 59-76). Per i Burgundi: P. Amory, The meaning and purpose of etnic terminolgy in the Burgundian laws, “Early Medieval Europe”, 2 (1993), pp. 1-28. (10) Cfr. W. Pohl, I Goti d’Italia e le tradizioni delle steppe, in Teodorico il Grande e i Goti d’Italia, Spoleto 1993 (Atti del XIII Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo), pp. 227-251 (ora in Pohl, Le origini etniche, pp. 101-125) con la relativa bibliografia. (11) P. Amory, People and Identity in Ostrogothic Italy, 489-554, Cambridge 1997. (12) La principale discussione su questo tema è C. Wickham, The other transition: from ancient world to feudalism, “Past & Present”, 103 (1984), pp. 3-36. (13) La carriera di Venanzio è efficacemente riassunta da B. Brennan, The career of Venantius Fortunatus, in “Traditio”, 46 (1985), pp. 49-78. (14) Sono aspetti evidenziati da I. Wood, Merovingian Kingdoms 450751, London New York 1994, pp. 26-27. (15) Gregorii episcopi Turonensis, Historiarum libri X, a cura di B. Krusch, Hannoverae 1951 (M.G.H., Scriptores rerum Merovingicarum, I), V, 8. Le menzioni da parte di Gregorio di Tours a proposito di Venanzio, in tutta la sua opera, si contano sulle dita di una mano: sono raccolte da Goffart, The Narrators, p. 146 n. 149. (16) Per esempio, Venantius Fortunatus, Carmina, V 17; VII 9, 10, 21, 25; IX 6, app. I, IV. (17) Cfr. la brillante analisi di P. Godman, Poets and Emperors. Frankish Politics and Carolingian Poetry, Oxford 1987, pp. 15-21. (18) Venantius Fortunatus, Carmina, V 6, 10, 14, 15, 18 ; X 12, 13. (19) Venantius Fortunatus, Carmina, I, 17. Su questo carme, cfr. l’interpretazione di M. Reydellet, Venance Fortunat. Poèmes, I, livres I-IV, Paris 1994, p. XXX. (20) Venantius Fortunatus, Carmina, praefatio, 6. (21) Sullo scambio di doni come parte fondante dell’economia e delle

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relazioni sociali nell’alto medioevo, cfr. il classico M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in M. Mauss, Teoria generale della magia, Torino 1965 (trad. italiana dell’ediz. originale Sociologie et antropologie, Paris 1950). La dinamica della reciprocità nelle relazioni altomedievali, impostate sull’organico scambio di doni e di contro-doni, in un sistema di scambio che tendeva a definire e a precisare le gerarchie e gli obblighi sociali tra beneficante e beneficato, era perfettamente nota a Venanzio: nel cantare le virtù del ricco mercante Giuliano e del ricco e nobile Avolo, Venanzio sottolinea che entrambi distribuirono doni in segreto, cioè senza testimoni. Il legame di reciprocità e di subordinazione che il dono implicava veniva così a collocarsi in una dimensione strettamente privata, nota solo alle due parti, che non recava alcun potenziamento della fama pubblica del donatore. Venantius Fortunatus, Carmina IV 21, v.5-10: (Avolus) templa dei coluit, latitans satiauit egentem:/ plenius illa metit quae sine teste dedit./ nobilitate potens, animo probus, ore serenus,/ plebis amore placens, fundere promptus opes,/ non usurae auidus, licet esset munere largus,/ plus nihil expetiit quam numerando dedit. Venantius Fortunatus, Carmina IV 23, v. 1114: (Iulianus mercator) nec solum refouens, sed dona latendo ministrans / amplius inde placet quod sine teste dedit./ felicem censum qui fratris migrat in aluo!/ et uiuos lapides aedificare potest. Sui doni gratuiti, cfr. J. Parry, The gift, the Indian gift and the ‘Indian gift’, “Man”, n.s. 21, pp. 453-473. (22) Cfr. Wood, Merovingian Kingdoms, pp. 77-79. (23) Venantius Fortunatus, Carmina, V 3, v. 15-16. (24) Gregori episcopi Turonensis, Historiarum Libri X, V, 49. Su questi aspetti, cfr. N. Wood, The ecclesiastical politics of Merovingian Clermont, in Ideal and Reality in Frankish and Anglo-Saxon society, a cura di P. Wormald, Oxford 1983, pp. 34-57; Wood, Merovingian kingdoms, pp. 79-84. (25) Questa separazione è proposta, ad esempio, da J. W. George, Venantius Fortunatus. A latin poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992; J.W. George, Portraits of two Merovingian bishops in the poetry of Venantius Fortunatus, “Journal of Medieval History”, 13 (1987), pp. 189-207; B. Brennan, The image of the Merovingian bishop in the poetry of Venantius Fortunatus, “Journal of Medieval History”, 18 (1992), pp. 115-139. (26) Venantius Fortunatus, Carmina, I, 14-16, 18-20; III 24; IV 10. Le vicende del gruppo parentale sono state esaminate da Wood, Merovingian Kingdoms, pp. 83-84. (27) Venantius Fortunatus, Carmina, I 15 vv. 7-10: qui, cum se primo uestiuit flore iuuentus,/paruus eras annis et grauitate senes;/uersus ad Hispanas acies cum rege sereno,/militiae creuit palma secunda tuae. (28) Venantius Fortunatus, Carmina, I 15, vv. 19-22: tempora diffugiunt et stat tamen aula parentum/nec patitur lapsum te reparante domus./nobilitas longos non inclinauit in annos,cui magis ascensum proles opima dedit. (29) Venantius Fortunatus, Carmina, 1,15 vv. 29-30: emicat altus apex generosa stemmata pandens,/cuius apud reges unica palma patet. Sul tema della stabilità sociale, cfr. B. Brennan, Senators and social mobility in sixthcentury Gaul, “Journal of Medieval history”, 11(1985), pp. 89-136. (30) In Aquitania il V secolo è contraddistinto dalla persistenza della tipologia della villa suburbana come residenza aristocratica, come dimostrano gli esempi di Chiragan, Plassac, St. Emilion, presso Bordeaux, tutte contraddistinte dalla presenza di terme e di ricchi mosaici. Se in alcuni casi si trattò di rioccupazione di edifici preesistenti, in altri, come quello di Palat, si tratta di costruzioni impiantate ex-novo. Cfr. H. Sivan, Town and country in Late Antique Gaul: the example of Bordeaux, in Fifth century Gaul, pp.132-143. (31) Si tratta rispettivamente di Venantius Fortunatus, Carmina, I 18, 19, 20. (32) Venantius Fortunatus, Carmina, II 8, vv. 21-24: Launebodis enim post saecula longa, ducatum/ dum gerit, instruxit culmina sancta loci./ quod nullus ueniens Romana gente fabriuit,/ hoc uir barbarica prole peregit opus/; ibid., vv. 39-40 sed quamvis altum teneat de stirpe cacumen/ moribus ipse suos amplificavit avos. (33) Ammianus Marcellinus, Rerum Gestarum Libri qui supersunt, II, a cura di C.U. Clark, Berolini 1910, XXVII, 3, 7, p. 423: “Per omnia enim civitatis

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membra, quae diversorum principum exornarunt impensae, nomen proprium inscribebat, non ut veterum instaurator, sed conditor”. Su questo tema, si veda in generale B. Ward-Perkins, From Classical Antiquity to the Early Middle Ages. Urban public building in Northen and Central Italy. A.D. 300-850, Oxford 1984, pp. 37-49, con gli esempi ivi indicati. La lode della renovatio è anche uno degli assi portanti dell’ideologia edilizia del regno di Teoderico: cfr. C. La Rocca, Una prudente maschera “antiqua”. La politica edilizia di Teoderico, in Teoderico il Grande e i Goti d’Italia, pp. 451-515. (34) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 10, rispettivamente ai vv. 8, 1112, 21. (35) Sui panegirici ai funzionari regi, dal punto di vista stilistico e di contenuto, cfr. George, Venantius Fortunatus, pp. 132-151. Venantius Fortunatus, Carmina, IV 13, vv. 3-5: hoc igitur tumulo Seruilio clausus habetur,/ nobilis et merito nobiliore potens/.Ipse palatinam rexit moderatius aulam./ (36) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 19, vv. 5-6: ipse palatina refulsit clarus in aula /et placido meruit regis amore coli. (37) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 24, vv. 6-7: palatina prius mansit aperta domus/consiliis habilis regalique intimus aulae. (38) Venantius Fortunatus, Carmina, VII 1, v. 38 (39) Cfr. W. Goffart, Barbarians and Romans. A.D. 418-584. The Techniques of Accomodation, Princeton 1980, pp. 162-174. (40) Venantius Fortunatus, Carmina, VII 16, vv. 35-36: mutati reges, vos non mutatis honores/ successorque tuus tu tibi dignus eras. (41) Venantius Fortunatus, Carmina, VII 16, vv. 15-16: a parvo incipiens existi semper in altum/ perque gradus omnes culmina celsa tenes . (42) Cfr. R. Le Jan, Dénomination, parenté et pouvoir dans la société du haut Moyen Âge, in R. Le Jan, Femmes, pouvoir et société dans le haut Moyen Âge, Paris 2001, pp. 224-238. (43) Venantius Fortunatus, Carmina, 1 15, vv. 93-100: Cogor amore etiam Placidinae pauca referre,/quae tibi tunc coniunx, est modo cara soror./lumen ab Arcadio ueniens genitore refulget,/quo manet augustum germen, Auite, tuum;/imperii fastus toto qui rexit in orbe,/cuius adhuc pollens iura senatus habet./humani generis si culmina prima requiras,/semine Caesareo nil superesse potest. (44) Cfr. Wood, Merovingian kingdoms, p. 84. (45) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 17. (46) Venantius Fortunatus, Carmina, IV, 9, vv. 9 e 11. (47) Venantius Fortunatus, Carmina, I 6, v. 21. (48) Venantius Fortunatus, Carmina, I 7, v. 7. (49) Venantius Fortunatus, II, 8; Di Berterude, Gregorio di Tours precisa che aveva fondato un monastero femminile e che lo aveva dotato attraverso i suoi beni fondiari: Gregori Episcopi Turonensis, Historiarum Libri X, IX, 35. (50) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 10. (51) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 18. (52) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 20, vv. 5-6: finibus Italiae raptus, sed Frigia coniunx/ detulit huc cari funus amando uiri. (53) J. Nelson, The wary widow, in Property and Power in the Early Middle Ages, a cura di W. Davies, P. Fouracre, Cambridge 1995, pp. 82-113 e anche il classico lavoro di K. Leyser, Rule and Conflict in an Early Medieval society. Ottonian Saxony, London 1979, pp. 15-27. Sulle strategie matrimoniali nel modo franco si veda, naturalmente, R. Le Jan, Famille et pouvoir dans le mond franc, Paris 1995, pp. 287-332. (54) Venantius Fortunatus, Carmina, X 15 (5-10): tu quoque prole potens, recte Armentaria felix,/nec minor ex partu quam prior illa suo./illa uetus numero maior, tu maxima solo:/quod poterant plures, unicus ecce tuus. fetu clara tuo, geniti circumdata fructu,/est tibi Gregorius palma corona decus. (55) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 1 (56) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 24, 27 (57) Cfr. C. La Rocca, Les femmes et la loi dans le royaume des Lombards, in Femmes et pouvoirs des femmes en Occident et à Bysance, a cura di S. Lebecq, A. Dierkens, R. Le Jan, J.M. Sansterre, Lille 2000, pp. 37-50.

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(58) R. Favreau, Fortunat et l’epigraphie, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 161-175. (59) Le necropoli altomedievali dell’area di Metz sono analizzate in modo particolareggiato da G. Halsall, Settlement and social organization. The Merovingian Region of Metz, Cambridge 1995, pp. 220-245. (60) Cfr. Halsall, Settlement, pp. 235-238; G. Halsall, Female status ans power in early Merovingian central Austrasia: the burial evidence, “Early Medieval Europe”, 5 (1996), pp. 1-24. (61) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 26, per il quale si veda la fine analisi Epitaphium Vilithutae (IV 26), a cura di P. Santorelli, Napoli 1994. (62) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 28: vv. 15-18: conteriturque socer cui nata generque recedit:/ haec letalis obit, ille superstes abit./sit tamen auxilium, quia non es mortua Christo:/uiues post tumulum uirgo recepta deo. (63) La declamazione di carmi celebrativi in occasione delle esequie è stata di recente supposta anche per il regno longobardo. Cfr. F. De Rubeis, La tradizione epigrafica in Paolo Diacono, in Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda e rinnovamento carolingio, a cura di P. Chiesa, Udine 2000, pp. 139-162. (64) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 26, vv. 71-74: nam quod ad ornatum potuit muliebre uideri,/ecclesiis prompte pauperibusque dedit./hic nulla ex illis rebus peritura reliquit,/ut modo praemissas diues haberet opes. (65) B.K. Young, Exemple aristocratique et mode funéraire dans la Gaule mérovingienne, “Annales E.S.C.”, 41 (1986), pp. 379-407; B. Effros; Symbolic expressions of sanctity: Gertrude of Nivelles in the context of Merovingian mortuari custom, “Viator”, 27 (1996), pp. 1-10. Sul concetto di tesoro sempiterno, composto proprio dagli oggetti di ornamento personale, che, donati alla Chiesa e non più tesaurizzati nel sepolcro, costituiscono nel paradiso la prova dello status di colui al quale originariamente appartenevano, cfr. C. La Rocca, Donare, distribuire, spezzare. Pratiche di conservazione della memoria e dello status in Italia tra VIII e IX secolo, in Sepolture tra IV e VIII secolo, a cura di G.P. Brogiolo, G. Cantino Wataghin, Mantova 1998, pp. 77-88; C. Treffort, L’Église carolingienne et la mort, Lyon 1996, pp. 165-184. (66) Venantius Fortunatus, Carmina, I 18, 19, 20 (67) Edifici nuovi: Venantius Fortunatus, Carmina, II 11, 12; edifici preesistenti rinnovati: I 7, 10, 11, 12, 13, 15. (68) Venantius Fortunatus, Carmina, I, 12. (69) Venantius Fortunatus, Carmina, I 13. (70) Venantius Fortunatus, Carmina, I 11, vv. 5-10: exiguam dederat hic praesul Amelius arcem,/ Christicolam populum nec capiente loco:/ quo uitae claudente diem dehinc prole graduque/ uenit ad heredem hoc opus atque locus,/ fundauitque piam hanc papa Leontius aulam,/ obtulit et domino splendida dona suo. (71) Sull’importanza della topografia delle reliquie, cfr. il lavoro di S. Boesch Gaiano in questo volume e, in generale, i saggi contenuti nel volume miscellaneo Les reliques. Objets, cultes, symboles, a cura di E. Bozoki, A.M. Helvetius, Turnhout 1999. (72) Venantius Fortunatus, Carmina, I 12, vv. 1-6: Digna sacerdotis Bibiani templa coruscant./ quo si iusta petis, dat pia uota fides./ quae praesul fundauit ouans Eusebius olim./ ne tamen expleret raptus ab orbe fuit./ cui mox Emerius successit in arce sacerdos,/ sed coeptum ut strueret, ferre recusat onus. (73) Si veda anche Venantius Fortunatus, Carmina, I, 8 ove Leonzio è lodato per aver rinverdito il culto di S. Vincenzo, santo locale di Vernemetum e Pompeiacum presso Poitiers, dotando le reliquie di una nuova teca. (74) P. Heather, Theoderic, king of the Goths, “Early Medieval Europe”, 4 (1995), pp. 145-173. (75) Gregorii Episcopi Turonensis, Historiarum Libri X, II, 40-42. Cfr. Wood, Merovingian Kingdoms, pp. 58-59. (76) Questi aspetti sono esaminati nel fondamentale lavoro di J.L. Nelson, Queens as Jezabels: Brunhild and Bathild in Merovingian history, in J.L. Nelson, Politics and Rituals in Early Medieval Europe, London 1986, pp. 1-48.

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(77) Cfr. Wood, Merovingian Kingdoms, pp.121-136. (78) Pactus Legis Salicae; a cura di K.A. Eckhardt, Hannover Leipzig 1892 (M.G.H. Leges Nationum Germanicarum, IV/1) cfr Le Jan, Famille et pouvoir, pp. 32-35. (79) Si veda, sul tema, il fondamentale lavoro di J.M. Wallace-Hadrill, The Long-Haired kings, London 1962. (80) Questo è perfettamente chiaro a Venanzio, il quale fa uso a più riprese del concetto di amor regis come strumento della stabilità: Venantius Fortunatus, Carmina, II 10, v. 17; 11, v. 22; 16, v. 161; IV 10, v. 11; 18 v. 11; 19, v. 6; VI 6, v. 9; VII 16, vv. 6, 34, 39, 49; X 18, v. 7. (81) Cfr. Wood, Merovingian Kingdoms. (82) Si veda, su questo punto, la discussione di P. Stafford, The king’s wife in Wessex 800-1066, “Past & Present”, 91 (1981), pp. 7-13.

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STEFANO DI BRAZZANO

Profilo biografico di Venanzio Fortunato Quel che ci è dato di sapere sulla vita del poeta Venanzio Fortunato deriva interamente da ciò ch’egli stesso ci dice nelle sue opere, in primis negli undici libri di carmi, nei quali è spesso presente l’elemento autobiografico. Nondimeno, mentre egli è prodigo di dettagli sugli accadimenti della vita di ogni giorno, non ci comunica quasi nulla su quegli aspetti e quei momenti della sua esistenza che per noi sarebbero particolarmente significativi: ci sono così ignoti sia l’anno della sua nascita che quello della sua ordinazione sacerdotale, e misterioso rimane pure il momento della sua elezione alla cattedra vescovile di Poitiers. Da un passo della sua opera letteraria di maggior impegno, la Vita Martini, poema epico-agiografico in 4 libri, apprendiamo ch’egli nacque a Duplauenis, l’odierna Valdobbiadene in provincia di Treviso, presso Cenita, l’attuale Vittorio Veneto (fino al 1866 Cèneda)1. Quanto alla data di nascita, l’opinione degli studiosi non è unanime: da alcuni essa è posta attorno al 530, altri si spingono fino al 540; è oltremodo probabile che la verità stia nel mezzo, anche se la seconda metà del decennio pare più appropriata2. Altrettanto esigua è la nostra conoscenza della sua famiglia di origine: Venanzio nomina due volte il proprio padre e la madre, un fratello, una sorella di nome Tiziana e un certo numero di nipoti3. Qualche elemento in più si può ricavare dalla forma completa del suo nome quale ci è stata tramandata dai manoscritti: Venantius Honorius Clementianus Fortunatus. Un nome composto da quattro elementi può far pensare che chi lo portava provenisse da una famiglia di un certo prestigio. Il nome Venantius compare nella prosopografia romana soltanto con il secolo V, e diviene piuttosto frequente nell’alta società italica del secolo successivo. Nella stessa epoca Honorius si trova di rado e sempre connesso con appartenenti alla famiglia dell’imperatore Teodosio; nondimeno, se il nostro poeta avesse potuto vantare una tale 37

parentela, certo non l’avrebbe taciuta. Clementianus gode di pochissime altre attestazioni e non pare per noi significativo, mentre lo è assai più l’ultimo elemento, Fortunatus, che poi è quello con cui sempre il poeta designa se stesso: esso è certamente connesso con il culto dell’omonimo martire di Aquileia, diffuso in tutta la Venetia4. Nulla ci dice il poeta sui luoghi in cui trascorse gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, e che furono verisimilmente anche l’ambiente in cui ricevette la formazione primaria. Sappiamo però che a un dato momento, presumibilmente all’età di quindici o vent’anni, egli entrò in contatto con quel Paolo (alias Paolino) che nel 557 fu eletto vescovo della metropoli aquileiese e fu il primo ad assumere – abusivamente – il titolo di patriarca: questi cercò di convincerlo ad abbracciare la vita monastica5. A questo riguardo, se conoscessimo l’esatta data di nascita di Venanzio, potremmo stabilire se l’incontro tra i due poté avere luogo ad Aquileia oppure potesse essere avvenuto anche in un’altra località della Venetia, dove Paolo poteva risiedere quale semplice monaco prima della sua designazione episcopale6. Purtroppo, non disponendo di dati precisi, non possiamo che formulare ipotesi. Purtuttavia, sulla sola base della certa conoscenza reciproca dei due, nel passato alcuni studiosi sostennero disinvoltamente che proprio ad Aquileia Venanzio compì il ciclo inferiore dei suoi studî, e immaginarono che la sua famiglia vi si fosse trasferita da Valdobbiadene a causa delle ripetute incursioni di truppe gotiche, bizantine e franche nella Venetia, teatro della guerra condotta dall’imperatore Giustiniano per la riconquista dell’Italia occupata dagli Ostrogoti, nella quale i Franchi giocarono un ruolo assai ambiguo, schierandosi ora con l’uno ora con l’altro dei contendenti, e spesso difendendo i proprî interessi a scapito di entrambi7. Tuttavia, in mancanza di prove dirimenti, si può pure pensare, e forse con maggior verisimiglianza, che Venanzio abbia trascorso l’adolescenza – e abbia quindi conosciuto Paolo – in uno dei numerosi centri urbani del bacino del Piave: Acilum (Asolo), Taruisium (Treviso), Opitergium (Oderzo), Altinum: tutti erano sedi di vescovati e molto probabilmente in ognuno di questi era possibile conseguire una formazione scolastica inferiore, senza bisogno di spingersi fino ad Aquileia8. Quel poco ch’egli stesso ci dice della sua giovinezza riguarda un periodo che tutto fa pensare come successivo a quello della prima formazione, e ci porta a Ravenna, massi38

mo centro culturale dell’Italia settentrionale già al tempo del regno gotico nei primi decennî del secolo, e ancor più dopo la riconquista da parte delle armate imperiali di Belisario nel 5409. Qui Venanzio attese agli studî di grammatica e di retorica, e forse anche di giurisprudenza10, formandosi così una vasta preparazione culturale che gli avrebbe permesso di intraprendere la carriera di insegnante, di poeta di professione ma anche di funzionario dell’amministrazione pubblica11. Il trasferimento dalla Venetia a Ravenna sarà stato senz’altro motivato dalla volontà di completare il ciclo degli studî per assicurarsi una carriera, e non vi è alcun bisogno, come pure è stato fatto da Dominique Tardi, di metterlo in relazione alla vicenda dei Tre Capitoli, ovvero la condanna per nestorianesimo degli scritti di tre Padri della Chiesa (Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cirro e Iba di Edessa) pretesa da Giustiniano e in seguito sottoscritta obtorto collo dal papa Vigilio, vicenda che in quello stesso giro di anni causò gravissimi contrasti tra il potere imperiale, la Sede apostolica e le due principali metropoli ecclesiastiche dell’Italia settentrionale, Milano e Aquileia12. Durante la permanenza a Ravenna il giovane Venanzio fu colpito, assieme al suo amico e collega di studî Felice divenuto in seguito vescovo di Treviso13, da una fastidiosa malattia agli occhî: in breve tempo entrambi furono sul punto di perdere la vista. Animati da fervente devozione i due si recarono nella basilica ravennate dei santi Giovanni e Paolo: qui vi era un altare dedicato a san Martino, vescovo di Tours nella seconda metà del IV secolo, famoso già in vita per i numerosissimi miracoli attribuitigli14. Venanzio e Felice unsero le loro palpebre con l’olio della lampada che ardeva sopra l’altare, e miracolosamente riacquistarono la salute15. Di lì a poco, e precisamente sul finire dell’estate o all’inizio dell’autunno del 565, Venanzio lasciò Ravenna per compiere un lungo viaggio che lo avrebbe portato fin nella Gallia dominata dai Merovingi, donde non avrebbe mai più fatto ritorno in patria16. Egli descrive in due diversi luoghi della sua opera letteraria il percorso compiuto: una prima volta nel finale del IV libro della Vita Martini, scritta molto probabilmente nell’estate del 57517; in seguito, qualche anno dopo, nella prefazione ai primi sette libri dei Carmina, indirizzata all’amico Gregorio vescovo di Tours e databile con sufficiente esattezza tra il 576 e il 57718. In quest’ultimo passo Venanzio non fornisce alcuna motivazione precisa per il suo viaggio, e presenta anzi se stesso come un novello Orfeo, cantore-poeta alla ventura tra popolazioni barbariche, tanto che molti stu39

diosi moderni vi hanno ravvisato la figura del poeta itinerante in cerca di gloria e fortuna, una sorta di antesignano dei bardi medievali19. Nel primo brano, molto più esteso e dettagliato, egli espone invece l’itinerario punteggiandolo di soste in corrispondenza di celebri luoghi di culto, soprattutto martiriale, talché il brano della Vita Martini è stato recentemente definito “un vrai guide du voyageur-pèlerin au VIe siècle… qui témoigne de l’étendue du culte des saints et de la richesse architecturale religieuse en Gaule, en Norique et principalement en Italie du Nord”20. In conformità a tale visione, Venanzio asserisce due volte nei suoi carmi di aver compiuto il lunghissimo viaggio quale peregrinatio religiosa allo scopo di visitare, nella città di Tours, la tomba del santo vescovo al cui intervento egli attribuiva la sua miracolosa guarigione21; il viaggio assumerebbe pertanto i tratti di un atto di ringraziamento, o più verisimilmente di compimento di un voto, come già interpretò a distanza di due secoli Paolo Diacono, il quale dedicò alla figura di Venanzio un paragrafo della sua Historia Langobardorum22. Partì dunque da Ravenna e risalì la pianura veneta, toccando Padova23 e Treviso24, raggiungendo la valle del Tagliamento25 e di qui guadagnando il passo di Monte Croce Carnico26. Risalì quindi la valle della Drava valicando una seconda volta lo spartiacque alpino presso San Candido27; da qui discese lungo i corsi della Rienza e dell’Isarco verso meridione fino al sito dell’odierna Bolzano, donde risalì il corso dell’Adige, valicando per una terza volta le Alpi al passo di Resia28. Proseguì scendendo per la valle dell’Inn, dalla quale poi si staccò per guadagnare il Fernpass e, percorrendo la valle del fiume Lech, pervenne nella pianura germanica. Seguì quindi il corso del Reno29, verisimilmente fino alla confluenza della Mosella, per poi risalire quest’ultimo fiume fino a raggiungere Treviri e quindi Metz, la capitale del più orientale dei quattro regni in cui era stato diviso lo stato franco alla morte del re Clotario I, figlio di Clodoveo, avvenuta nel 56130. Venanzio giunse a Metz all’inizio della primavera del 566, in singolare e felicissima concomitanza con la solenne celebrazione delle nozze del re Sigiberto I, uno dei figli di Clotario, con la principessa visigota Brunichilde, figlia del re Atanagildo31. L’occasione aveva riunito nella capitale tutti i dignitarî del regno di Sigiberto, che oltre alla regione del bacino renano (che nei secoli seguenti sarebbe stata detta Austrasia, ovvero “regno orientale”) a grande prevalenza di popolazione di stirpe germanica, comprendeva anche i ter40

ritorî meridionali dell’Aquitania orientale e della Provenza, entrambi a popolazione in maggioranza romana, e nei quali la raffinata cultura latina della tarda antichità, che aveva visto fiorire i talenti di un Ausonio, di un Paolino di Nola e di un Sidonio Apollinare, aveva oltrepassato senza troppi danni il turbine delle invasioni32. Tra i personaggi convenuti non mancavano dunque uomini che erano in grado di apprezzare la cultura e le capacità versificatorie di un giovane poeta italiano fresco di studî come Venanzio. E infatti egli per l’occasione compose un epitalamio di stile claudianeo, con la tipica ambientazione mitologica e moltissime reminiscenze dai poeti antichi, conformemente alla formazione letteraria ricevuta nelle scuole ravennati33. Ad ogni modo, il suo arrivo alla corte di Sigiberto non dovette essere del tutto imprevisto: il poeta stesso ci dice che durante il viaggio dall’Italia verso il regno franco il sovrano demandò a un suo cortigiano, Sigoaldo, di fargli da guida o da scorta all’interno del territorio di sua pertinenza34. Questo dettaglio porta anzi a credere che il viaggio possa essere stato scrupolosamente preparato, e che, tramite opportune conoscenze, che come vedremo erano con ogni verisimiglianza episcopali, Venanzio si sia procurato in Italia le necessarie lettere di presentazione da esibire a diversi vescovi dell’Austrasia35. Fa propendere per questa idea il fatto che, tra i numerosi carmi ch’egli compose durante la sua permanenza al seguito del re Sigiberto, spiccano quelli dedicati appunto a vescovi, i quali ci permettono pure di ricostruire l’itinerario seguito dal poeta nell’ultima fase del suo viaggio, quando ormai si trovava all’interno del regno franco. Dopo le nozze infatti Sigiberto percorse tutte le principali città del suo territorio, probabilmente allo scopo di presentare ai sudditi la nuova regina: Venanzio rimase al suo seguito, toccando dapprima le città lungo il corso della Mosella e del Reno: Magonza Colonia e Treviri, ove compose diversi carmi in lode dei rispettivi vescovi Sidonio, Carentino e Nicezio, nonché a celebrazione dei più ragguardevoli edifici sacri36. Fu poi la volta delle città situate nella parte più occidentale del regno: Verdun, ove dedicò due carmi al vescovo Agerico; Reims, seconda sede della corte austrasiana, ove scrisse l’elogio del vescovo Igidio, e infine Soissons, appartenente de iure al regno di Chilperico I, fratellastro di Sigiberto, ma occupata da quest’ultimo fin dal 56237, ove compose un lungo carme sulla vita e i miracoli del vescovo Medardo di Noyon, morto nel 560 e colà seppellito38. 41

Nel contempo Venanzio ebbe modo di stringere amicizia anche con diversi dignitarî laici della corte austrasiana, sia con quelli appartenenti al ceppo romano (perlopiù provenzali) sia con quelli di ceppo germanico: naturalmente egli si legò più strettamente a quanti erano dotati di maggior sensibilità artistica, ed erano pertanto in grado di apprezzare appieno e di sostenere il suo talento letterario. Tra costoro spiccano il conte Berulfo, il governatore di Marsiglia Bodegisilo, il maestro di palazzo Condane, Dinamio di Marsiglia, il consigliere reale Gogone, il governatore della Provenza Giovino, il duca della Champagne Lupo, nonché Mummoleno, tutti dedicatarî e protagonisti di carmi39. In seguito, probabilmente al principio dell’estate del 567, Venanzio si accomiatò dalla corte austrasiana e raggiunse Parigi, la capitale del regno di un altro fratello di Sigiberto, Cariberto, cui dedicò un solenne panegirico in versi40. Qui poi egli conobbe diverse principesse appartenenti alla generazione precedente della dinastia merovingica: la regina madre Ultrogota, vedova di Childeberto I fratello di Clotario I, con le sue due figlie Croteberga e Crotesinda, nonché Teodechilde, figlia di un altro fratello di Clotario, il re Teodorico I41. Contemporaneamente entrò in relazione con il vescovo locale Germano, di cui più tardi avrebbe steso in prosa la biografia42. Di lì a poco tuttavia, nel corso dell’inverno 567/568, Cariberto morì, e forse proprio per questa ragione, vista svanire ogni possibilità di mecenatismo da parte di quel sovrano, Venanzio lasciò Parigi43 e ripartì alla volta di Tours, la città di san Martino, che assieme alla vicina Poitiers entrava ora a far parte del regno di Sigiberto in seguito alla spartizione dei dominî del re defunto tra i rimanenti tre fratelli44. Qui il poeta fu accolto dal vescovo Eufronio, e il carme di elogio che Venanzio gli dedicò in quest’occasione costituisce per noi l’unica testimonianza per questo suo primo soggiorno a Tours, che evidentemente dovette essere assai breve45. A questo proposito è stata giustamente rimarcata la singolarità del silenzio che il poeta, altrimenti sempre fervente di devozione verso san Martino, mantiene su questa visita46; nondimeno coglieremmo nel giusto supponendo ch’egli, prima di proseguire il suo cammino, abbia visitato tutti i luoghi sacri legati alla memoria del santo vescovo, in primis il suo sepolcro nella basilica extra muros47. Da Tours Venanzio si portò poi nella vicina Poitiers48, ove avvenne l’incontro con una personalità che sarebbe stata determinante per il resto della sua vita: Radegonda. 42

Questa principessa di stirpe turingica, nata pagana attorno al 520, ebbe la fanciullezza segnata dalla violenta conquista del regno di Turingia da parte dei Franchi nel 531: tratta prigioniera, fu assegnata al bottino di guerra personale del re Clotario I, che la fece educare cristianamente in un monastero presso Poitiers e se la riservò in isposa. Già in questa fase della sua esistenza però la fanciulla aveva dato chiari segni di voler consacrare la propria vita al servizio di Cristo e della sua Chiesa, e allorché Clotario, per motivi a noi ignoti, ordinò di ucciderle il fratello, ella si allontanò dallo sposo e si ritirò in solitudine. Il re, dopo alcuni vani tentativi di ricondurla presso di sé, acconsentì al ritiro, e Radegonda fu consacrata diaconessa dal vescovo Medardo di Noyon. Ella fondò poi, verso il 551, un monastero a Poitiers, ponendolo in seguito sotto la regola femminile di san Cesario di Arles, e nominando badessa in segno di umiltà la sua giovane discepola Agnese49. Dopo la morte di Clotario il suo prestigio aumentò di molto: godeva infatti del più deferente rispetto di tutti e quattro i suoi figliastri tra i quali fu diviso il regno, Chilperico, Sigiberto, Gontrano e Cariberto, e spesse volte cercò con il suo carisma di intervenire come mediatrice nei loro frequenti scontri50.

La sua sensibilità mistico-religiosa, cui non era disgiunto un vivo interesse per la cultura letteraria, dovette fare presa sull’animo di Venanzio, sicché egli s’impegnò con la regina a stabilirsi definitivamente a Poitiers e, forse, a curare gli interessi del monastero in qualità di sovrintendente laico o economo51. Prima di seguire gli ulteriori sviluppi della biografia di Venanzio, sarà opportuno tentare a questo punto un’analisi d’insieme sulla vicenda del suo viaggio in Gallia, del quale continuano in buona misura a sfuggirci le vere motivazioni profonde. Abbiamo già avuto modo di vedere che il poeta stesso presenta il suo viaggio in due modi diversi, in conformità al genere letterario in cui la presentazione è inquadrata: se da un lato, nella Vita Martini, poema agiografico, asserisce di essersi recato in Gallia al fine di visitare la tomba del santo a Tours in rendimento di grazie per la miracolosa guarigione agli occhî52, dall’altro lato, nella praefatio dei carmi indirizzata a Gregorio di Tours, il cui fine era evidentemente l’autoesaltazione poetica, Venanzio mette in scena se stesso quale novello Orfeo che vaga alla ventura cantando le sue classiche armonie in mezzo alle rozze ballate di un popolo primitivo53. Quasi tutti i critici moderni hanno però osservato come la presentazione del viaggio quale pellegrinaggio devozionale non sia pienamente credibile. Abbiamo già notato come il primo soggiorno a Tours non riceva alcun rilievo particolare nell’opera poetica di Venanzio, ma anzi ne sia pressoché assente: sembra perciò ragionevole concludere ch’esso in sostanza null’altro sia stato se non una semplice tappa in 43

vista di un proseguimento del viaggio verso meridione, alla volta di Poitiers e forse oltre. La brevità della permanenza a Tours, l’asserito luogo di destinazione del pellegrinaggio, sarà poi ancora più stupefacente se si pone attenzione al fatto che il poeta raggiunse la sua meta circa due anni dopo la sua partenza, dopo aver soggiornato per un anno in Austrasia e almeno per qualche mese a Parigi, e che – soprattutto – non fece mai più ritorno in Italia. Questi e altri tratti particolari hanno portato a pensare che la motivazione presentata da Venanzio stesso nella Vita Martini sia null’altro che una motivazione di facciata, dovuta evidentemente all’influenza del genere letterario agiografico entro il quale è inquadrata, ma dietro alla quale si nasconderebbero in verità altre spinte54. Ha destato sospetti anche il tortuosissimo itinerario prescelto: per recarsi da Ravenna alla Gallia la via più immediata lo avrebbe indotto a risalire la pianura padana e valicare (o aggirare via mare) le Alpi occidentali portandosi così direttamente in Gallia, con il vantaggio di rimanere sempre a contatto di popolazioni romane o di antica romanizzazione55. Venanzio invece si diresse verso settentrione percorrendo la pianura veneta per poi valicare ben tre volte lo spartiacque alpino: dapprima al passo di Monte Croce Carnico, poi a San Candido e infine sul passo di Resia, giungendo così nella Germania meridionale, attraversando territorî occupati da popolazioni barbariche completamente estranee alla cultura romana quali i Baiovari e gli Alamanni56. Particolari sono pure le circostanze storiche nelle quali il viaggio si colloca: Venanzio lasciò l’Italia riconquistata appena qualche mese prima della morte dell’imperatore Giustiniano (novembre 565), e soltanto tre anni prima della calata in Italia dei Longobardi, che avrebbe cambiato radicalmente la situazione politica nella penisola, vanificando in brevissimo tempo tutti i risultati ottenuti da Bisanzio durante la ventennale campagna contro gli Ostrogoti. Ancora, come già accennato, da qualche anno soltanto si era consumato lo strappo tra la Sede apostolica e le due metropoli ecclesiastiche di Milano e Aquileia a seguito della controversia sui Tre Capitoli (555). Per il viaggio del poeta si è pertanto pensato alle motivazioni più diverse, che potevano andare dalla missione politica alla ricerca di fortuna letteraria al dissenso teologico. Vi è stato ad esempio chi ha ritenuto che la sua partenza potesse essere dovuta a motivi di ordine politico legati alla riconquista bizantina dell’Italia. Pare infatti che Venanzio 44

abbia avuto il suo primo protettore nel vescovo Vitale di Altino, che proprio nel 565 fu tratto in arresto dal generale bizantino Narsete e deportato in Sicilia57. Questo legame avrebbe reso il giovane poeta inviso all’autorità imperiale, sicché, prima di essere trascinato dalla caduta di colui che probabilmente fu il suo primo mecenate, egli scelse di porsi sotto la tutela del re Sigiberto, che fino a pochissimo tempo prima aveva condotto alla frontiera orientale del suo regno una campagna contro gli Avari allora alleati di Bisanzio58. Il legame di Venanzio con Vitale, vescovo scismatico suffraganeo di Aquileia, potrebbe inoltre costituire un indizio – ancorché indiretto – del suo coinvolgimento nella questione dei Tre Capitoli, probabilmente la principale causa della rovina del vescovo altinate: al riguardo vi sono infatti diversi elementi che porterebbero a vedere nel poeta un partigiano dei vescovi scismatici59. In primo luogo, l’entusiastica apostrofe contenuta nel carme indirizzato a nome di Radegonda verso il 570 al nuovo imperatore Giustino II, successore di Giustiniano, che «quidquid concilium statuit Calcedonense tenet»60: dietro queste parole si riconosce la polemica delle chiese scismatiche, che accusavano il concilio costantinopolitano II del 553, voluto da Giustiniano e approvato obtorto collo dal papa Vigilio, di aver implicitamente sconfessato la dottrina calcedonese condannando gli scritti dei tre Padri al solo scopo di venire incontro ai monofisiti, i quali godevano del favore dell’imperatrice Teodora. Poi, il contatto, avvenuto nel momento stesso dell’arrivo in Gallia, con il vescovo Nicezio di Treviri, autore di una lettera a Giustiniano nella quale si condanna la sua politica religiosa, e in rapporti di corrispondenza con diversi suoi confratelli dell’Italia settentrionale61; nonché la già ricordata amicizia con Felice, divenuto vescovo scismatico di Treviso e – a quel che pare – uomo di sentimenti fieramente antibizantini62, amicizia iniziatasi a Ravenna ma protrattasi per lettera anche dopo il trasferimento in Gallia. Ancora, il deferente ossequio tributato al “patriarca” scismatico Paolo, che il poeta significativamente definisce pontifex pius da adorare cupienter63. Infine, per quanto può valere un argumentum ex silentio, l’assenza negli scritti venanziani di qualsiasi cenno ai papi suoi contemporanei, a fronte del riconoscimento in linea di principio del primato dottrinale della cathedra Petri, ch’egli forse riteneva al momento occupata da persone indegne (Vigilio e i successori Pelagio I e Giovanni III) che ne avrebbero tradito il vero insegnamento64. Un proseguimento della carriera nella Ravenna imperia45

le e ortodossa sarebbe stato dunque per lui pressoché impossibile, e ancora più scarse sarebbero state le possibilità nei centri minori della Venetia, e ciò non soltanto per l’oggettiva difficoltà di trovare committenti e patroni, ma pure e soprattutto perché tali centri, ancorché sottoposti alla giurisdizione ecclesiastica della metropoli scismatica di Aquileia, erano pur sempre parte dell’Italia riconquistata dai Bizantini, i quali non rifuggivano da metodi violentemente coercitivi allo scopo di ricondurre i vescovi scismatici all’obbedienza alla Sede apostolica65. Al contrario, i vescovi della Gallia non presero mai posizione né a favore né contro la condanna dei Tre Capitoli, per diversi ordini di motivi: da un lato, la Chiesa gallica non contava al suo interno metropoli di grande prestigio, dotate di forza aggregante e capaci perciò di organizzare una resistenza durevole; in quelle regioni inoltre era inesistente il risentimento anti-bizantino che invece serpeggiava in Italia già all’indomani della riconquista, a causa dei pesantissimi gravami fiscali imposti per risollevare le casse dell’impero, esauste dalla lunghissima guerra combattuta su due fronti, quello italico e quello persiano. Ancora, e proprio perché in grado di giudicare sine ira et studio, i vescovi gallici, tutti allineati all’ortodossia calcedonese, non dettero soverchia importanza a quaestiones superfluae come la condanna dei tre scrittori ecclesiastici – il cui pensiero peraltro risulta oggettivamente velato di nestorianesimo – la quale sola certo non bastava ai loro occhi a sconfessare de facto le decisioni di un concilio ecumenico66. Durante tutto il periodo dello scisma – che ad Aquileia si protrasse fino alla fine del secolo VII – essi intrattennero regolari rapporti con le diocesi dell’Italia settentrionale, considerandosi in comunione con queste come pure con la sede di Pietro e con tutti coloro che accettavano la fede di Calcedonia, a prescindere dagli sviluppi successivi67. A tutto ciò bisogna aggiungere che nei territorî gallici, a dispetto delle invasioni e della conquista da parte di un popolo barbaro, la cultura latina, sebbene andasse decadendo secondo il noto giudizio con cui Gregorio di Tours apre i suoi Historiarum libri68, e tendesse a divenire patrimonio di un numero sempre minore di persone, godeva tuttavia ancora di un altissimo prestigio, rimasto intatto dai tempi della grande stagione letteraria della tarda antichità, in cui fiorirono scrittori come Ausonio, Paolino di Nola, Rutilio Namaziano e Sidonio Apollinare. Fin dalle fasi immediatamente successive al loro stabilizzarsi da nuovi dominatori in quelle terre, i Franchi intesero presentare se stessi come i 46

legittimi successori ed eredi dei Romani, proponendosi di assorbirne istituzioni, usanze e cultura, senza per questo rinunciare alle tradizioni loro proprie69: dei quattro sovrani che regnavano all’epoca in cui giunse Venanzio, due, Sigiberto I e soprattutto Chilperico I, erano entusiasti e affascinati estimatori della cultura latina, che intendevano promuovere e far rifiorire nei loro regni dopo la crisi seguita al periodo delle invasioni70. Un letterato di formazione italiana era pertanto in grado di offrire ai re merovingi proprio quei servigi culturali e letterarî che essi ricercavano, e che certamente era assai difficile reperire nell’ambiente locale71; ma era in grado al contempo di farsi portavoce delle legittime istanze della vecchia aristocrazia gallo-romana, che non intendeva rinunciare al suo antico ruolo guida nel paese. Per questo aspetto dunque la Gallia poteva offrire a un giovane poeta intraprendente molte più possibilità di carriera che non l’Italia, fiaccata da una guerra durata vent’anni e ridotta ormai a semplice provincia bizantina, dove conseguentemente l’assenza di una corte avrebbe reso oltremodo difficile l’affermazione dei letterati72. Un certo seguito ha trovato negli ultimi anni l’idea proposta dallo storico sloveno Jaroslav Šašel, secondo cui Venanzio, lungi dal trovarsi in posizioni di attrito con il potere bizantino, ne sarebbe stato invece un agente, incaricato di svolgere una sorta di missione diplomatica in Gallia, allo scopo di mantenere il regno franco, e l’Austrasia in particolare, nell’orbita dell’Impero, isolando così i Longobardi. In vista di ciò il poeta, con la sua presenza e con l’attività letteraria, avrebbe dovuto tenere desto presso i Merovingi l’ideale di continuità culturale con il mondo romano antico73. In questa prospettiva sarebbe pure da vedere il particolare interesse di Venanzio per la regina Radegonda, ché alcuni tra i suoi familiari, dopo la caduta del regno turingico, avevano trovato rifugio nella Ravenna ostrogota, donde furono poi tratti a Bisanzio: tra questi il cugino Amalafredo, che prestava servizio nelle armate imperiali, e il nipote Artàchi74. Nondimeno l’idea di un Venanzio agente segreto di Bisanzio pare non resistere a un’analisi approfondita: in un recente articolo B. Brennan osserva infatti come molte delle premesse da cui partiva Šašel non siano condivisibili e come non vi sia alcun indizio che il poeta possa aver influenzato la politica estera di Sigiberto I75. Non ci dilungheremo oltre su tale questione, anche perché ci sembra che i dati sopra esposti riguardo la posizione di Venanzio sulla questione tricapitolina portino a escludere un suo ruolo di agente imperiale.

Lasciata Poitiers, evidentemente con tutta l’intenzione di ritornarvici, Venanzio si spinse verso il sud-ovest della Gallia, soggiornando per qualche tempo a Bordeaux, ove entrò in contatto con il vescovo Leonzio II, destinatario di un buon numero di carmi76; in seguito proseguì fino a raggiungere Tolosa77. Quindi, nel luglio di un anno che assai probabilmente è il 568, giunse fino in vista dei Pirenei coperti di neve78. Recentemente si è altresì supposto ch’egli possa 47

essersi spinto ben oltre, giungendo nella penisola iberica fino a Bracara (l’attuale Braga nel Portogallo nordoccidentale), per incontrarsi con il vescovo locale Martino, con il quale in seguito intrattenne rapporti epistolari79. Alla fine del 568 Venanzio fece ritorno a Poitiers, verisimilmente fermandosi per breve tempo a Saintes80, e – a quel che pare – prese a occuparsi su richiesta di Radegonda degli affari esterni del monastero, che in pochi anni aveva acquisito diverse donazioni sia da parte dei sovrani che da parte di altri esponenti dell’alta società locale81. In questo periodo ebbe modo di stringere relazioni con il vescovo diocesano Pascenzio, cui dedicò due scritti in prosa sui miracoli e sulla vita di sant’Ilario di Poitiers, e di rinsaldare il legame con il titolare della vicina sede di Tours, Eufronio, destinatario di due nuove lettere in prosa82. Entrambi i presuli morirono nel giro di qualche anno, e i loro rispettivi successori ebbero sul poeta influenze di segno opposto. Se infatti il nuovo vescovo di Poitiers, Maroveo, succeduto a Pascenzio attorno al 56983, era animato da una fortissima ostilità verso la fondazione monastica di Radegonda e conseguentemente verso tutti i collaboratori di quest’ultima84, con il nuovo vescovo di Tours, Gregorio, eletto nel 573, uomo caratterizzato da intelligenza vividissima e da sollecita attenzione alla letteratura, nonché scrittore egli stesso, Venanzio strinse un’amicizia destinata a durare fino alla morte del presule, avvenuta probabilmente nel 594. Gregorio fu un fervido ammiratore della cultura classica dell’amico, che nei suoi scritti pose alla pari con i talenti letterarî più celebrati della Gallia dei secoli precedenti85. Fu proprio Gregorio a commissionargli numerosi carmi in occasione di festività e celebrazioni solenni, oppure a sollecitarlo a comporre poesie adoperando metri inusuali e ricercati86. Infine, fu sempre il presule turonense a insistere presso Venanzio, tra il 576 e il 577, perché questi pubblicasse i carmi che aveva composto fino a quel momento: il poeta cedette alle istanze dell’amico e rese pubblica la sua prima raccolta poetica, comprendente gli attuali libri I-VII87. Venanzio si era da poco tempo stabilito a Poitiers allorquando, presumibilmente nello stesso anno 568, fu testimone del passaggio per Poitiers del corteo che accompagnava a Parigi la promessa sposa del re Chilperico I, Gelesvinta88. Ella era figlia del re visigoto Atanagildo e sorella maggiore di Brunichilde; proprio il matrimonio legittimo di Sigiberto con quest’ultima, che aveva trovato l’unanime 48

approvazione del clero austrasiano, sembra aver spinto Chilperico ad abbandonare gli amori ancillari con Fredegonda e altre donne per passare a un legame ufficiale e consacrato con una fanciulla di sangue regale. Le nozze furono celebrate a Rouen, ma dopo qualche mese Gelesvinta fu trovata strangolata nel proprio letto89. A seguito di questo luttuoso evento Venanzio compose una lunga elegia consolatoria indirizzata alla madre di Gelesvinta, Goisvinta, e alla sorella Brunichilde90. Certamente l’ispirazione gli venne per suggerimento di Radegonda, che sperava in questo modo di contribuire a riappacificare gli animi all’interno della famiglia reale91. Infatti l’assassinio di Gelesvinta, ordito con ogni verisimiglianza dalla concubina spodestata Fredegonda con la complicità dello stesso Chilperico, fu la causa che scatenò la guerra fra quest’ultimo e il fratellastro Sigiberto. Ben difficilmente il poeta si sarebbe invischiato da solo in una materia tanto delicata per gli equilibrî sempre precarî del regno franco. Nel 569 Radegonda, intendendo aumentare il prestigio della propria fondazione monastica, decise di rivolgersi all’imperatore d’Oriente Giustino II allo scopo di ottenere da lui un frammento del legno della vera Croce di Cristo, che era stata ritrovata da sant’Elena madre di Costantino al principio del secolo IV, e da allora era custodita a Costantinopoli. Ottenuto il benestare ufficiale dal figliastro Sigiberto, del cui regno Poitiers era entrata a far parte dopo la morte di Cariberto, un’ambasceria franca partì da Metz per Bisanzio92. In quest’occasione Venanzio scrisse un carme in cui presentava se stesso e Radegonda alla corte imperiale, delineando la regina come una persona sensibile, pia, colta e devota, e invitando gli intellettuali bizantini a inviare in omaggio al monastero libri di argomento religioso93. Accanto a questa composizione egli preparò, su esplicito incarico e a nome di Radegonda, un’appassionata elegia indirizzata al cugino della regina, Amalafredo, che – come già anticipato – dopo la caduta del regno turingico aveva trovato rifugio a Ravenna e poi a Costantinopoli, ove si era arrolato nelle armate imperiali: Radegonda intendeva riprendere i contatti con l’unico consanguineo che le era rimasto dopo l’uccisione del fratello da parte del re Clotario I suo sposo94. Quando l’ambasceria ritornò da Bisanzio, recando con sé la preziosa reliquia, essa fu solennemente installata nella chiesa del monastero, che in quell’occasione mutò il titolo primitivo alla Vergine in quello alla Santa Croce. Le fastosissime celebrazioni furono disertate dal vescovo 49

diocesano Maroveo, verisimilmente perché questi scorgeva nella presenza della reliquia nel cenobio un fattore che avrebbe diminuito di molto l’importanza degli altri luoghi di culto della città di Poitiers, in primis della sua cattedrale, deviando l’afflusso dei pellegrini e dei donativi; la cerimonia fu pertanto officiata su richiesta di Sigiberto dal vescovo Eufronio di Tours95. Per l’occasione Venanzio compose una serie di carmi, tra i quali spiccano due carmina figurata costruiti appunto a schema cruciforme, nonché i due celeberrimi inni processionali Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis e Vexilla regis prodeunt, che furono ben presto recepiti nella liturgia della Chiesa latina e ornati durante il medioevo da meravigliose melodie96. La medesima ambasceria riportò inoltre in dono preziosi drappi di seta97, ma pure una notizia triste per Radegonda: al suo appello al cugino Amalafredo giunse infatti in risposta una lettera di un parente di nome Artàchi, che annunciava la morte del congiunto98. Dopo la cerimonia fu ancora una volta Venanzio a indirizzare, a nome di Radegonda, un solenne panegirico di ringraziamento all’imperatore Giustino II e all’imperatrice Sofia, e in risposta ad Artàchi un lamento sulla morte del cugino che è nel contempo una richiesta di supporto e sostegno all’opera della regina99. Nel 573, in occasione della consacrazione di Gregorio quale nuovo vescovo di Tours, Venanzio compose un carme di felicitazione indirizzato alla popolazione della città100, e poco dopo, su sollecitazione del vescovo Germano di Parigi, compilò in prosa la biografia di san Marcello, della quale poi donò pure una copia alla biblioteca del monastero di Radegonda101. Probabilmente a questa stessa epoca risale anche la stesura di un’altra uita, quella di san Paterno vescovo di Avranches, morto da poco, commissionatagli da Marziano, abate di un monastero fondato dal santo. Sebbene avesse preso dimora stabile a Poitiers, Venanzio non mancò di compiere altri viaggi, durante i quali gli si presentarono ancora occasioni per stringere rapporti con personalità ecclesiastiche: a Bordeaux egli conobbe Bertrando, che dal 573 occupava la cattedra che era stata di Leonzio II103, mentre a Nantes frequentò il vescovo Felice104, destinatario di diversi carmi, con il quale peraltro i rapporti presto si raffreddarono in seguito all’accesa ostilità che scoppiò tra quest’ultimo e il suo metropolita Gregorio di Tours105. Ancora nella prima metà del decennio sarà molto probabilmente da collocare anche un viaggio del poeta ad Angers presso il vescovo Domiziano105: per istanza di costui 50

Venanzio scrisse in prosa la biografia di sant’Albino, abate del vicino monastero di Tincillacum. Sembra sia da collegare a quest’ultimo viaggio anche l’invito rivoltogli dal vescovo Felice di Nantes affinché visitasse la sua proprietà di Cariacum, situata lungo il corso della Loira106. Parimenti in questi anni saranno da collocarsi diversi altri viaggi i cui contorni precisi ci sfuggono107. I mesi centrali del 575 vedono Venanzio impegnato nella stesura della sua opera di maggior impegno: la Vita Martini, parafrasi poetica, in quattro libri di esametri, della narrazione della vita e dei miracoli del santo vescovo di Tours composta alla fine del IV secolo dal discepolo Sulpicio Severo, impresa già condotta nel V secolo dal poeta Paolino di Petricordia (Périgueux)108. In quello stesso anno la guerra tra Sigiberto e Chilperico subì una svolta improvvisa: fino a quel momento le sorti del conflitto erano state generalmente favorevoli al primo dei due fratelli, anche se al secondo era riuscito di occupare Tours e Poitiers una prima volta nel 572 soltanto per qualche mese, e in seguito nel 574, ancora una volta temporaneamente, grazie a una spedizione comandata dal figlio Teodeberto109. Sigiberto era però in deciso vantaggio nel nord, tanto che Chilperico, assieme a Fredegonda e ai figli, finì col trovarsi braccato dalle truppe austrasiane; si asserragliò a Tournai, e si trovava già sul punto di capitolare, quando Sigiberto, proprio nell’istante in cui stava per essere salutato come re da parte dei soldati del fratello, fu improvvisamente colpito a morte da alcuni sicarî, inviati da Fredegonda110. Conseguenza di questo delitto fu un momentaneo cedimento della parte austrasiana, che nondimeno in breve tempo riuscì a difendere le proprie posizioni grazie al carisma e alla determinazione della regina Brunichilde; in ogni caso Chilperico seppe approfittare della sua temporanea posizione di forza rioccupando Parigi e Soissons, mentre ebbe maggiori difficoltà quando intese invadere per la terza volta la regione di Tours e Poitiers. Dapprima egli inviò con questo compito il proprio figlio Meroveo, che però si ribellò al padre, sposando la vedova di Sigiberto e prendendone le parti; in seguito le due città dovettero egualmente capitolare nel 579111. Se seguiamo l’opinione della maggioranza degli studiosi, durante questi anni Venanzio ricevette l’ordinazione sacerdotale, con ogni verisimiglianza su esortazione di Radegonda112: quale appartenente al clero secolare egli si trovava così sottoposto alla giurisdizione del vescovo di 51

Poitiers Maroveo, che lo coinvolse nella sua ostilità verso tutto quanto fosse connesso con Radegonda e con il monastero di Santa Croce. Gli fu così ad esempio impedito di viaggiare per recarsi a Tours in visita dal suo amico Gregorio113. Quest’ultimo in ogni caso continuò ad apprezzare e a sostenere il talento poetico di Venanzio, e quando, il giorno dell’Ascensione del 576, il vescovo Avito di Clermont, suo maestro spirituale, riuscì a ottenere la conversione della quasi totalità degli Ebrei che dimoravano nella sua diocesi, Gregorio commissionò all’amico poeta un carme a celebrazione di quell’evento eccezionale114. Probabilmente fu nella stessa occasione, o nel primo anniversario della stessa, che il vescovo turonense rivolse a Venanzio il già ricordato invito a curare un’edizione ufficiale di tutti i carmi ch’egli aveva composto, e che sino a quel momento avevano circolato in singole copie a carattere privato115. Forse allo stesso periodo risale pure il diffondersi di voci malevole concernenti il rapporto del poeta con le monache di Santa Croce e con Agnese in particolare: Venanzio sentì il bisogno di dichiarare pubblicamente, in un carme indirizzato a Radegonda, che in quel legame nulla vi era di equivoco, che come egli amava lei dell’affetto devoto che si deve a una madre, così per Agnese nutriva lo stesso sentimento che in gioventù lo aveva unito alla propria sorella Tiziana116. Gli anni seguenti dovettero essere difficili per Venanzio: l’occupazione del territorio di Poitiers da parte delle forze di Chilperico, completatasi tra il 577 e il 579, aveva reciso ogni legame con il regno nemico, ora governato dal figlio men che decenne di Sigiberto, Childeberto II, sotto la reggenza della madre Brunichilde e del tutore Gogone. Il poeta dovette conseguentemente interrompere ogni rapporto epistolare con i dignitarî dell’Austrasia e della Provenza cui negli anni precedenti si era legato, e certamente anche la situazione interna non era migliore117. Quale unico patrono gli rimaneva Gregorio di Tours, ma anche questi si sentiva minacciato nella persona e nel patrimonio, dati i suoi sentimenti filoaustrasiani118; nondimeno, in queste situazioni d’angustia il vescovo espresse con un segno tangibile la stima nutrita nei confronti dell’amico venuto dall’Italia: seguendo l’illustre esempio di Mecenate verso Orazio, egli mise a disposizione di Venanzio una tenuta con un terreno situata lungo il corso del fiume Vienne, verisimilmente a metà strada tra Tours e Poitiers oppure a oriente di quest’ultima città119. Da allora il poeta visse tra la città di Poitiers e il suo podere, occupandosi spesso personalmente della semina e del raccolto120. 52

Questo periodo d’insicurezza politica coincide probabilmente con un isterilimento della vena poetica: soltanto pochissimi tra i carmi risalgono con certezza a questi anni121. Tuttavia altre e più gravi circostanze avrebbero di lì a poco sollecitato novamente il talento del poeta. Nella primavera del 580 Gregorio di Tours fu convocato dal re Chilperico I alla sua villa di Berny-Rivière presso Soissons, per rispondere davanti a un sinodo di vescovi di una pesantissima accusa: egli era stato infatti incolpato di aver diffuso voci calunniose in merito a una presunta relazione adulterina della regina Fredegonda con il vescovo Bertrando di Bordeaux122. In quell’occasione Gregorio si discolpò con un giuramento, e Venanzio pronunciò un solenne panegirico del re Chilperico, riservando un cenno anche alle virtù della sua consorte123. Questo elogio di due personaggi che Gregorio di Tours nella sua opera storiografica tratteggia a tinte foschissime ha procurato al poeta da parte di una certa critica l’accusa di adulazione e di opportunismo124, nondimeno la critica più recente vi ha invece ravvisato un leale e generoso tentativo di venire in soccorso dell’amico125. In particolare si è riconosciuto che il ritratto di Chilperico quale principe ideale dovette essere concepito come un discorso retorico a carattere pedagogico-didascalico, ovvero quale tratteggio di un modello ideale che il destinatario era invitato a contemplare per poi emulare in sé. Contemporaneamente a questi avvenimenti scoppiò in tutta la Gallia nordoccidentale una violentissima epidemia di dissenteria, della quale caddero vittime i due giovani figli di Chilperico e Fredegonda: Clodoberto e Dagoberto. Venanzio compose gli epitaffî dei due fanciulli126 e indirizzò pure un carme consolatorio ai genitori127. Un secondo carme consolatorio fu poi scritto dal poeta nella primavera del 581, molto probabilmente in occasione di un suo viaggio a Parigi, compiuto allo scopo di raccogliere materiali e testimonianze in vista della composizione della biografia in prosa del vescovo locale Germano, morto il 28 maggio del 576, commissionatagli dal successore Ragnemodo128. Nella nuova consolatio indirizzata ai sovrani il risveglio della natura a primavera è còlto quale stimolo ad abbandonare il dolore per i recenti lutti e a ritornare alla vita consueta129. La morte dei due figli di Chilperico apriva nuove possibilità per quella parte minoritaria dell’aristocrazia austrasiana, capeggiata dal vescovo Igidio di Reims, che auspicava la riconciliazione con il regno rivale: Chilperico infatti, rimasto senza eredi, avrebbe potuto adottare il nipote 53

Childeberto II, figlio di Sigiberto, tanto più che in quegli stessi mesi morì pure Gogone, tutore del fanciullo e principale esponente del partito contrario alla riconciliazione130. Tali progetti però non addivennero a nulla, ché una nuova svolta politica ebbe luogo nel 584, quando Chilperico I venne assassinato presso Chelles131. Anche questa volta vi fu chi vide dietro il delitto la longa manus di Fredegonda; conseguenza fu ad ogni modo il ritorno delle città di Tours e Poitiers ai possedimenti di Childeberto II e della madre Brunichilde, quantunque fossero state assegnate de iure al regno di Gontrano132. Per Venanzio tutto ciò significò la ripresa, dopo quasi dieci anni, delle relazioni con la corte che per prima lo aveva ospitato, e con i dignitarî che erano stati conquistati per primi dal suo talento poetico. Una prova dell’immediato coinvolgimento del poeta nella conduzione politica austrasiana si potrà avere qualora si accetti la proposta, recentissimamente formulata da Elena Malaspina, di attribuire a Venanzio la lettera contrassegnata con il numero 43 nella silloge delle Epistulae Austrasicae, la quale nell’unico manoscritto che ce la tramanda risulta essere opera di un altrimenti sconosciuto (e improbabile) Furtuna, da integrare quindi in Furtunati (epistula). La lettera in questione fu portata a Costantinopoli assieme ad altre tre (44, 45 e 47) da un’ambasceria guidata da due funzionarî austrasiani, Babone e Gripone, tra la fine del 585 e la primavera dell’anno successivo, con lo scopo di ottenere dall’imperatore Maurizio la restituzione, o almeno la protezione, di Atanagildo, figlio del defunto principe visigoto Ermenegildo e di Ingonda, sorella di Childeberto II: madre e figlio si trovavano infatti quali pegni nelle mani dei Bizantini. La lettera della quale Venanzio sarebbe l’estensore, nel ruolo di occasionale dictator a servizio della corte austrasiana dopo la morte di Gogone, presenta uno stile affine a quello dei suoi scritti agiografici, ed è concepita in maniera retoricamente ricercata. Si presenta infatti come una missiva del quindicenne Childeberto II indirizzata al figlio di Maurizio, Teodosio, che all’epoca aveva certamente meno di tre anni: un espediente poetico per giovare alla causa di Atanagildo, anch’egli poco più che un neonato133.

La nuova situazione politico-dinastica, supportata dall’episcopato e dai nobili d’Austrasia e di Borgogna, fu ufficialmente sancita il 28 novembre del 587 con il trattato di Andelot, in base al quale l’ultimo superstite fra i quattro fratelli che si erano spartiti il regno ventisei anni prima, il re di Borgogna Gontrano, che non aveva figli, riconobbe quale suo erede il giovane nipote Childeberto II e garantì la difesa per lui e per la madre134. Colei che tanto si era impegnata per garantire la pace tra i sovrani, Radegonda, non poté però vivere questo solenne momento di riconciliazione: qualche mese prima della stipula del trattato, il 13 agosto del 587, ella moriva, seguendo di poco la dipartita della sua discepola Agnese135. Nell’anno 588, poco tempo dopo questo duplice lutto, 54

che dové toccare Venanzio nel profondo, egli accompagnò l’amico Gregorio che era stato convocato a Metz dal re Childeberto II per essere investito di una missione diplomatica presso lo zio Gontrano, allo scopo di concordare l’applicazione pratica del trattato136. Gregorio e Venanzio furono accolti con tutti gli onori dalla corte presso Metz, e in seguito furono invitati a salire sul battello regale per un viaggio lungo la Mosella e il Reno, durante il quale fecero sosta a Treviri e a Coblenza, raggiungendo infine la cittadella di Andernach137. Probabilmente durante questo soggiorno alla corte austrasiana il nostro poeta compose anche un carme di elogio per Childeberto II e Brunichilde138. Il viaggio fu certamente di breve durata, e Venanzio già in quello stesso anno 588 fece ritorno a Poitiers: fu presumibilmente in questo periodo ch’egli attese alla stesura della biografia in prosa della sua madre spirituale, Radegonda. Una biografia che, alquanto stranamente vista la ventennale frequentazione quasi quotidiana tra i due, tratta esclusivamente della vita ascetica della regina, presentata come il modello perfetto di un’esistenza dedicata alla mortificazione e alla contemplazione, senza mai entrare in argomenti da cui far emergere i tratti della sua personalità, come ci si potrebbe aspettare in un caso come questo. L’opera dovette sembrare fredda e distaccata già ai contemporanei, giacché circa vent’anni dopo la monaca Baudonivia, discepola di Radegonda, si decise a scrivere una nuova biografia della santa, nella quale traspare con evidenza l’intenzione di compiere un lavoro che faccia in qualche modo da complemento alla biografia fortunaziana, diffondendosi su quegli aspetti individuali e umani che Venanzio, preoccupato di presentare la sua eroina come una pura asceta sempre tesa all’assoluto, aveva tralasciato. Poco dopo la biografia di Radegonda il poeta prese a scrivere, probabilmente su incarico del nuovo vescovo di Bordeaux, succeduto a Bertrando dopo il 585, quella di san Severino, che resse quest’ultima diocesi nella prima metà del secolo V. Quest’opera, della cui esistenza ci assicurava un cenno di Gregorio di Tours139, fu considerata a lungo perduta, finché fu riconosciuta circa un secolo fa dal benedettino H. Quentin in una Vita anonima conservata in diversi manoscritti140. Durante il successivo anno 589 il poeta, che mai aveva smesso di interessarsi alla vita della comunità di Santa Croce, rimase coinvolto nei disordini scatenati nel convento da una delle monache, Crodielda, figlia del defunto re Cariberto, la quale si era ribellata alla conduzione della 55

nuova badessa Leubovera, succeduta ad Agnese141. La situazione pericolosa indusse Venanzio a tentare un intervento presso Gregorio, dalla cui autorità il monastero dipendeva, affinché si portasse quanto prima a Poitiers per porre fine allo scandalo142. Ancora nel 589 Gregorio di Tours richiese il supporto letterario dell’amico per la buona riuscita di una controversia sorta con gli esattori delle tasse inviati da Childeberto II con l’intento di estendere anche alla città di Tours il regime fiscale vigente nel resto del regno143. Fin dai tempi di Clodoveo la città era infatti stata esonerata dal pagamento di qualsivoglia imposta, in considerazione del fatto ch’essa era stata la sede episcopale di san Martino, la cui santità e i cui miracoli meritavano riverente deferenza. Poiché le casse del regno di Childebrto II erano ancora esauste a causa del decennale conflitto con Chilperico, il giovane sovrano intendeva togliere alla città le esenzioni di cui godeva. Venanzio si recò quindi a Tours, ricevette gli esattori in luogo e su incarico di Gregorio, intervenendo pure con un carme in lode del santo e dei sovrani144. L’atteggiamento forte del vescovo, ai limiti della minaccia, e alcune circostanze interpretate come ammonimenti dall’alto di san Martino indussero Childeberto a desistere dal suo proposito, confermando i privilegi alla città145. L’anno successivo, quando Gregorio celebrò la dedicazione della cattedrale di Tours, da lui stesso restaurata e ingrandita, Venanzio ebbe l’incarico di stendere delle didascalie in versi da apporre sotto le pitture del nuovo tempio che raffiguravano le storie e i miracoli di san Martino146. In questi stessi anni il poeta raccolse e pubblicò tutta la sua produzione letteraria composta dall’epoca dell’edizione dei primi sette libri (576/577) in poi: i due libri di carmi così ricavati andarono a formare gli attuali libri ottavo e nono della raccolta147. Nel 591, alla morte del vescovo Maroveo, fu elevato alla sede episcopale di Poitiers un arcidiacono appartenente al clero di Tours, Platone: in occasione del suo ingresso Venanzio compose un carme di benvenuto148. Non sappiamo quanti anni sia durato l’episcopato di Platone, poiché di quest’ultimo non è conosciuta la data della morte; non saremo però lontani dalla verità nel supporre ch’egli abbia occupato la cattedra di Poitiers per non più di qualche anno. Successore di Platone fu infatti Venanzio stesso, e pare ragionevole pensare ch’egli abbia avuto la preconizzazione dal re Childeberto II grazie alla stima di cui godeva presso Gregorio, e che proprio quest’ultimo gli abbia poi conferito 56

l’ordinazione episcopale149. Poiché Gregorio morì – probabilmente – nel novembre del 594, è chiaro che, se le cose stanno così, Venanzio dovette accedere alla cattedra vescovile poco prima di questa data150. Anche il suo episcopato durò soltanto pochi anni: la data della morte di Venanzio è sconosciuta, ma deve certamente collocarsi nel primo decennio del secolo VII151. A questo ultimo periodo della sua vita risalgono le due opere omiletiche sul Pater noster e sul Symbolum Apostolorum (quest’ultima è quasi un’epitome dell’analogo commento composto alla fine del IV secolo da Rufino di Concordia, con lievi modifiche dovute sia alla personalità e alla sensibilità proprie di Venanzio, sia al necessario adattamento della discussione alla formula del simbolo adoperata nella chiesa di Poitiers, non sempre identica a quella aquileiese) nonché la lunga elegia in lode della Vergine, la cui autenticità fu a lungo contestata anche da parte di studiosi di altissima levatura prima di essere definitivamente dimostrata negli anni Trenta da Sven Blomgren152. Alla sua morte fu sepolto nella basilica di sant’Ilario a Poitiers; i suoi estimatori provvidero alla pubblicazione in due libri degli scritti che furono trovati tra le sue carte153, e già pochi anni più tardi fu venerato come santo154: la sua festa si celebra ancor oggi il giorno 14 dicembre in alcune diocesi francesi e nella diocesi italiana di Padova, nel cui territorio è compresa Valdobbiadene155. Più di un secolo e mezzo dopo la morte di Venanzio, tra il 781 e il 786, il suo conterraneo Paolo Diacono, chiamato in Francia a servizio di Carlo Magno, ne visitò la tomba e, su richiesta dell’abate Apro, compose un epitaffio in distici elegiaci156: Ingenio clarus, sensu celer, ore suauis, cuius dulce melos pagina multa canit, Fortunatus, apex uatum, uenerabilis actu, Ausonia genitus, hac tumulatur humo. Cuius ab ore sacro sanctorum gesta priorum discimus: haec mostrant carpere lucis iter. Felix, quae tantis decoraris, Gallia, gemmis, lumine de quorum nox tibi tetra fugit. Hos modicos prompsi plebeio carmine uersus ne tuus in populis, sancte, lateret honor. Redde uicem misero: ne iudice spernar ab aequo, eximiis meritis posce, beate, precor.

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Un altro epitaffio, nel quale si avverte l’eco del precedente, gli fu dedicato qualche anno dopo da Alcuino157: Hac quoque praesenti praesul requiescit in aula Fortunatus enim uir, decus ecclesiae, plurima qui fecit sanctorum carmina metro, concelebrans sanctos laudibus hymnidicis. Qui sermone fuit nitidus sensuque fidelis, ingenio calidus, promptus et ore suo.

Le sue ossa, ancora devotamente conservate nel XVI secolo, furono disperse dai protestanti nel 1562, assieme a quelle del suo grande predecessore sant’Ilario158.

Note

(1) Mart. 4,668-669: per Cenitam gradiens et amicos Duplauenenses / qua natale solum mihi sanguine, sede parentum… L’identificazione di Duplauenis con l’attuale Valdobbiadene si trova proposta già nella Cronica trivigiana di Bartolomeo Zuccato, risalente al 1530 circa (Treviso, Biblioteca Comunale, ms. 596, c. 8v); la dimostrazione puntuale è però dovuta a Rambaldo degli Azzoni Avogaro, canonico della chiesa di Treviso vissuto negli anni centrali del secolo XVIII; cfr. Lettere del canonico Rambaldo degli Azzoni Avogadro per la prima volta pubblicate in occasione delle nobili nozze Valier-Tiepolo, Venezia 1829, pp. 22-23, nonché M.A. Luchi, Vita Venantii Fortunati, in Venantii Fortunati presbyteri Italici opera omnia… collecta… opera et studio d. Michaelis-Angeli Luchi, I, Romae 1786 (poi in Patrologia Latina LXXXVIII, Parisiis 1850 [rist. anast. Turnhout 1991], cc. 19-52, § 8, c. 23C; trad. franc. in Venanti Honori Clementiani Fortunati, presbyteri Italici, opera poetica miscellanea. – Venance Fortunat. Poésies mêlèes traduites en français pour la première foi par M. Charles Nisard, avec la collaboration, pour les livres I-V, de M. Eugène Rittier, Paris 1887, p. 4. Esiste pure una traduzione italiana, da me non consultata: A. Arrigoni, Sopra la vita di Venanzio Fortunato, nativo della diocesi di Padova e vescovo di Poitiers. Dissertazione pubblicata ora in italiano, Venezia 1821, 18462). In generale sugli studi venanziani condotti da eruditi trevisani si veda I. Sartor, Venanzio Fortunato nell’erudizione, nella tradizione e nel culto in area veneta, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 267-276. (2) Per una nascita nel 530 o negli anni immediatamente successivi si sono espressi M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, I, München 1911, p. 170; D. Tardi, Fortunat. Étude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927, p. 24; P. de Labriolle, Histoire de la littérature latine chrétienne, II, Paris 1947, p. 757. La datazione attorno al 540 è stata invece difesa da R. Koebner, Venantius Fortunatus. Seine Persönlichkeit und seine Stellung in der geistigen Kultur des Merowingerreiches (Beiträge zur Geschichte des Mittelalters und der Renaissance 22), Leipzig-Berlin 1915 [rist. anast. Hildesheim 1973], p.

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11; M. Schuster, art. Venantius 18., in Realenzyklopädie der Altertumswissenschaft, XV A (1955), c. 677. Ultimamente K. Langosch, Gregor von Tours und Venantius Fortunatus – der merowingische Geschichtsschreiber und der merowingische Dichter, in Id. Profile des lateinischen Mittelalters. Geschichtliche Bilder aus dem europäischen Geistesleben, Darmstadt 1965, pp. 11-79, 51; J. Szövérffy, Weltliche Dichtung des lateinischen Mittelalters, Berlin 1970, p. 223; B. Brennan, The Career of Venantius Fortunatus, “Traditio”, XLI (1985), pp. 49-78, 50, e J. W. George, Venantius Fortunatus. A Latin Poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992, p. 19 lasciano aperta la questione, propendendo però per una datazione agli anni immediatamente precedenti il 540; mentre M. Reydellet, Introduction, in Venance Fortunat. Poèmes, I, livres I-IV, Paris 1994, p. VII, propone gli anni attorno al 535. (3) carm. 7,9,11; Mart. 4,669-670. Il nome della sorella è poi noto da carm. 11,6,8; cfr. Prosopographie chrétienne du bas-empire, 2, Prosopographie de l’Italie chrétienne (313-604), a cura di Ch. Pietri e L. Pietri, II, Rome 2000, Titiana 2, p. 2207. (4) J. Šašel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, in Aquileia e l’Occidente (Antichità altoadriatiche 19), Udine 1981, pp. 359-375, 360-361; George, Venantius Fortunatus, p. 19. (5) Mart. 4,661-662: pontificemque pium Paulum cupienter adora / qui me primaeuis conuerti optabat ab annis. Nella lingua cristiana conuerti assume il significato tecnico di “scegliere una forma di vita più vicina alla perfezione evangelica”. Abbastanza sorprendentemente sia Brennan, The Career, p. 51 nota 15, che la George, Venantius Fortunatus, p. 19 nota 95, affermano che del pius pontifex Paulus non vi è traccia nelle fonti, che invece conoscono un “patriarca Paolo”, con il quale però il nostro personaggio non può in alcun modo essere identificato. È invece ovvio che si tratta della medesima persona. (6) Che Paolo fosse stato monaco lo sappiamo da una lettera di papa Pelagio I: Epist. pontif. Gassó-Batlle 24,5: quid autem iam de eorum principe loquar, qui et monachum, si tamen aliquando fuit, inuadendi episcopatum ambitu perdidit, et episcopatum nec contra morem factus nec scismaticus potuit obtinere? (7) Capofila di questa visione tra i moderni è Tardi, Fortunat, 25-36, ma la convinzione è già di Luchi, Vita Venantii, 11 (Patrologia Latina LXXXVIII cc. 2324), e ancor prima G. G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da’ letterati del Friuli…, I, Venezia 1760 [rist. anast. Bologna 1971], pp. 132-163, 134, ritenne che Venanzio fosse stato battezzato ad Aquileia per mano di Paolo. (8) Di un legame particolare con la città di Treviso pare sia indice l’espressione mea Taruisus in Mart. 4,665, laddove Aquileia, pur nominata tre volte dal poeta nel corso della sua opera, non è mai accompagnata da alcuna connotazione affettiva. Anche nel ricordo di Mart. 4,661-662 (cfr. la nota 5) l’emozione del poeta pare legata assai più alla persona di Paolo che alla città in sé. Sulle possibili tracce nella produzione venanziana di una specifica spiritualità aquileiese – la quale resta comunque assai difficile da definire – che già Tardi, Fortunat, pp. 35-36 volle riconoscere, si veda ora il contributo di A. Persic in questo volume. (9) Mart. 4,680-701; carm. praef. 4; cfr. anche carm. 8,3,167: cara Rauenna (da tenere presente per le considerazioni svolte alla nota precedente). Il ricordo della città non venne mai meno nel poeta, che si presentò sempre come ravennate, e tale fu considerato dai suoi estimatori in Gallia, come attesta il v. 20 del ritmo De priuilegio, composto a Poitiers pochissimo tempo dopo la morte del poeta: ex Fortunato ab Rauenna Pictonum floret ciuitas (ed. K. Strecker, Monumenta Germaniae historica, Poëtae Latini medii aeui IV 2, Berlin 1914 [rist. anast. München 1978] pp. 654-655), sul quale si veda lo studio di W. Meyer, Ein merowinger Rythmus über Fortunat und altdeutsche Rythmik in lateinischen Versen, “Nachrichten von der königlichen Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen – Philologisch-historische Klasse”, Berlin 1908, pp. 31-45. (10) Mart. 1,26-33. Ignoriamo la data esatta in cui Venanzio si portò a

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Ravenna; secondo Tardi, Fortunat, p. 27, certamente non prima del 552, giacché soltanto in quest’anno Narsete riesce a liberare definitivamente la regione attorno alla città dall’assedio del re ostrogoto Totila. Quanto agli studî di giurisprudenza, soltanto Koebner, Venantius Fortunatus, p. 11, mette in dubbio l’interpretazione usuale delle parole del poeta; secondo lo studioso austriaco l’espressione cotes iuridica alluderebbe non già agli studî legali, quanto piuttosto all’affinamento del gusto e delle capacità critico-letterarie. Non trova infine alcun appoggio nelle fonti l’idea espressa da L. Navarra, Venanzio Fortunato: stato degli studî e proposte di ricerca, in La cultura in Italia fra tardo antico e alto medioevo, I, Roma 1981, pp. 605-610, 606, secondo cui durante gli anni ravennati Venanzio avrebbe avuto per maestro il poeta Aratore. Dagli elementi in nostro possesso pare anzi che questi abbia lasciato definitivamente Ravenna per Roma già nel 540, anno che costituisce pure una delle ultime date certe per la sua vita, cfr. Manitius, Geschichte, pp. 162-164. (11) Così da ultimo B. Brennan, Venantius Fortunatus: Byzantine Agent?, “Byzantion”, LXV (1995), pp. 7-16, 7; nel precedente articolo, Id., The Career, p. 52, egli sottolineava invece la particolare preparazione per la carriera di poeta di professione. Diverso l’avviso di Šašel, Il viaggio, p. 373, che vede negli studi compiuti da Venanzio la tipica preparazione per una carriera amministrativa; su questa linea ora pure Reydellet, Introduction, p. VIII. (12) Tardi, Fortunat, pp. 38-39. Secondo questo studioso, Venanzio non avrebbe condiviso la posizione di scontro con la Sede apostolica assunta dal metropolita aquileiese Macedonio riguardo all’ortodossia del concilio costantinopolitano II del 555, e avrebbe preferito abbandonare la terra natìa per rifugiarsi in ambiente cattolico. A questa idea bisogna però osservare che non vi è alcun elemento nell’opera di Venanzio che porti a vedere in lui un fiero sostenitore dell’impero e della Sede apostolica contro i vescovi scismatici. Anzi, come ha rilevato E. Stein, Histoire du Bas-Empire, II, De la disparition de l’Empire d’Occident à la mort de Justinien (476-565), Paris-BruxellesAmsterdam 1949, pp. 832-834, vi sono casomai diversi indizî che porterebbero a sostenere l’idea opposta, come vedremo a proposito dell’abbandono dell’Italia da parte del poeta per la Gallia merovingica. (13) Cfr. carm. 7,13; Mart. 4,666; Paul. Diac. Lang. 2,13; Prosopographie chrétienne du bas-empire, 2, Prosopographie de l’Italie chrétienne (313-604), a cura di Ch. Pietri e L. Pietri, I, Rome 1999, Felix 54, p. 796. Per il suo ruolo durante l’invasione longobarda in Italia si rimanda alla nota 62. (14) Sul santo si rimanda a J. Lahache, Martino di Tours, in Bibliotheca sanctorum, VIII, Roma 1966, cc. 1248-1279. (15) Mart. 4,686-701; cfr. Paul. Diac. Lang. 2,13. (16) La bibliografia specifica sul viaggio di Venanzio è abbondantissima, citeremo H. Wopfner, Die Reise des Venantius Fortunatus durch die Ostalpen. Ein Beitrag zur frühmittelalterlichen Verkehrs- und Siedlungsgeschichte, in Festschrift zu Ehre E. von Ottenthals (Schlern-Schriften 9), Innsbruck 1925, pp. 362-417; K. Staudacher, Das Reisegedicht des Venantius Fortunatus, “Der Schlern”, XV (1934), pp. 276-279; H. Wopfner, Zur Reise des Venantius Fortunatus durch die Alpen, “Deutsche Gaue”, XXXVII (1937), pp. 21-25; G. Conta, Il viaggio di Venanzio Fortunato attraverso le Alpi, “Rivista per l’Alto Adige. Rivista di studî alpini”, LXXVII (1983), pp. 35-67 (Corona Alpium. Miscellanea di studî in onore del prof. C.A. Mastrelli); M. Pavan, Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia merovingica, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 11-23 (precedentemente apparso in Id., Dall’Adriatico al Danubio, a cura di M. Bonamente e G. Rosada [Saggi e materiali universitarî 17. – 16. serie di antichità e tradizione classica], Padova 1991, pp. 331-344); G. Rosada, Il «viaggio» di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum loca e la strada per submontana castella, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 25-57. Dello stesso si veda ora il contributo presente in questo volume. Quanto alla data della partenza, prescindendo dagli studiosi meno recenti, l’accordo sull’anno 565 è generale; l’unica voce discorde è M. Pavan, Venanzio Fortunato, p. 18, che la assegna al periodo compreso fra l’autunno del 563 e la primavera del 564, senza fornire alcun appoggio in merito.

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(17) Questa almeno la posizione dell’ultima editrice del testo, S. Quesnel, Introduction, in Venance Fortunat. Œuvres, IV, Vie de Saint Martin, Paris 1996, p. XV; altri critici propendono per una datazione leggermente anteriore: Koebner, Venantius Fortunatus, p. 86 nota 1, pensa al 573/574, e quest’ultimo anno è proposto anche da Tardi, Fortunat, p. 181. Recentemente Brennan, The Career, p. 55, ha riproposto la datazione di Koebner. (18) W. Meyer, Der Gelegenheitsdichter Venantius Fortunatus (Abhandlungen der königlichen Gesellschaft der Wissenschaften in Göttingen, philologisch-historische Klasse, n. F. IV 5), Berlin 1901, (riprodotto in parte in Mittellateinische Dichtung. Ausgewählte Beiträge zu ihrer Erforschung, herausgegeben von K. Langosch [Wege der Forschung CXLIX], Darmstadt 1969, pp. 57-90), pp. 25-26. Su Gregorio di Tours si rimanda a J. Lahache, Gregorio di Tours, in Bibliotheca sanctorum, VII, Roma 1966, cc. 217-222. (19) Brennan, The Career, p. 54; George, Venantius Fortunatus, p. 25. (20) Quesnel, Introduction, p. LXII. (21) carm. 8,1,21: Martinum cupiens uoto Radegundis adhaesi; Mart. 1,44: cuius (Martini) causa fuit hac me regione uenire. (22) Paul. Diac. Lang. 2,13: qua de causa Fortunatus in tantum Martinum ueneratus est, ut, relicta patria, paulo antequam Langobardi Italiam inuaderent, Turonis ad eius beati uiri sepulchrum properauit. (23) Mart. 4,672-676. (24) Mart. 4,668-671. È ragionevole pensare che il poeta abbia fatto una breve deviazione per raggiungere Duplauenis e salutare i suoi parenti prima d’intraprendere un viaggio così avventuroso. Non è neppure da trascurare quanto sostiene Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 13-14, cioè che il poeta non sia partito per la Gallia movendo direttamente da Ravenna, ma che tra la fine del soggiorno di studî ravennate e l’abbandono dell’Italia nel 565 intercorra un certo tempo, che Venanzio avrebbe trascorso nella sua terra natale, la Venetia, alla ricerca di un mecenate. Per il maggior coinvolgimento emotivo del poeta al momento di nominare la città di Treviso si ricordi quanto osservato alla nota 8. (25) Mart. 4, 663-665. (26) Mart. 4,651-652. (27) Mart. 4,649-650. (28) Mart. 4,644-648. Questa almeno l’opinione prevalente; nondimeno c’è chi ritiene che il poeta abbia invece passato per la terza volta le Alpi al passo del Brennero: Koebner, Venantius Fortunatus, p. 14; George, Venantius Fortunatus, p. 24; nonché, forse, Reydellet, Introduction, p. IX, le cui parole in proposito non sono molto dettagliate. Anche Rosada, che in Il «viaggio», pp. 30-31, si era espresso per il passo di Resia, ora propende invece per il Brennero (così durante una lezione tenuta a Trieste nel giugno 2000). (29) Mart. 4,640-642. (30) Per la storia della Gallia durante il secolo VI la fonte più importante è costituita dai Libri historiarum decem (correntemente conosciuti come Historia Francorum) di Gregorio di Tours (ed. B. Krusch – W. Levison, Monumenta Germaniae historica, Scriptores rerum Merouingicarum I 12, Hannoverae 1937-1951). Per una sintesi moderna si può vedere M. Rouche, I regni latino-germanici (secoli V-VIII), in La storia, a cura di N. Tranfaglia e M. Firpo, II, Il medioevo, Torino 1986, pp. 89-122, e G. Fournier, Il regno franco, ivi, pp. 123-144; ancora utile, nonstante il suo tono romanzato, risulta pure il vecchio A. Thierry, Storie dei Merovingi, Parma 1994 (ed. orig. Récits des temps mérovingiens, Paris 1840). (31) Greg. Tur. Franc. 4,27 (non datato). Anche in questo caso si riporta l’opinione oggi prevalente, cfr. ad esempio Brennan, The Career, pp. 54 e 59; Id. Venantius Fortunatus, p. 8; George, Venantius Fortunatus, p. 28. Nondimeno secondo Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 8, il poeta avrebbe raggiunto la Mosella già nell’autunno del 565, e così ritengono pure Koebner, Venantius Fortunatus, p. 16, e più recentemente Šašel, Il viaggio, p. 369, nonché L. Pietri, Venance Fortunat et ses commanditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale (Settimane del Centro italiano di studi sull’alto me-

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dioevo 25), Spoleto 1992, pp. 729-754, 737. Durante tutto l’inverno Venanzio avrebbe cercato varî abboccamenti per ottenere sostegno da dignitarî ecclesiastici e laici. Più vaga la cronologia proposta da Tardi, Fortunat, p. 62 nota 2, secondo il quale Venanzio giunse in Gallia tra la fine del 565 e l’inizio dell’anno successivo. Reydellet, Introduction, p. IX, si limita a prendere atto che alla data delle nozze regali il poeta si trovava già a Metz. (32) Sullo stato della cultura nella Gallia tra tarda antichità e alto medioevo resta fondamentale P. Riché, Educazione e cultura nell’Occidente barbarico, Roma 1970 (ed. orig. Éducation et culture dans l’Occident barbare, VIe-VIIIe siècles, Paris 19622). (33) carm. 6,1. Come giustamente osservano Koebner, Venantius Fortunatus, p. 1, e Tardi, Fortunat, p. 15, Venanzio fu con ogni probabilità una delle ultime personalità letterarie dell’antichità ad aver compiuto il regolare corso di studî grammaticali e retorici, formandosi sui classici e imparando a pensare sui libri, prima del decadimento generale della cultura e dell’educazione. Si aggiungerà poi – cosa di non minima importanza – ch’egli è altresì con tutta verisimiglianza l’ultimo poeta ad aver appreso la lingua latina direttamente dalla bocca dei suoi genitori: per gli autori delle epoche successive, dalla cosiddetta rinascenza carolingia in poi, il latino, per quanto appreso fin dalla prima età scolare, sarà pur sempre una lingua acquisita. Accanto alla giovane età del poeta e al forte influsso della formazione ricevuta, a determinare l’opzione in favore di un epitalamio di tipo pagano contribuì senza dubbio la necessità di non toccare la delicata questione religiosa, poiché la visigota Brunichilde al momento del matrimonio professava ancora l’eresia ariana, cfr. Meyer, Der Gelegenheitsdichter, 13 e Koebner, Venantius Fortunatus, 26. (34) carm. 10,16,1-4. Secondo Koebner, Venantius Fortunatus, p. 15, l’incontro tra Venanzio e Sigoaldo avvenne già nel primo territorio d’influenza franca per chi arriva dalle Alpi centrali, cioè nella Baviera, mentre secondo M. Pisacane, Il De excidio Thoringiae di Venanzio Fortunato, “Giornale italiano di filologia”, IL (1997), pp. 177-208, 183, esso ebbe luogo a Treviri, dopo che il vescovo locale Nicezio segnalò la presenza del poeta al re Sigiberto. Per la George, Venantius Fortunatus, p. 27, Venanzio potrebbe aver saputo delle imminenti nozze regali ancora mentre si trovava a Ravenna. (35) Brennan, The Career, pp. 57-58; Pietri, Venance Fortunat, p. 741; Reydellet, Introduction, p. X e XVI. Secondo Koebner, Venantius Fortunatus, p. 23, il poeta sarebbe poi entrato ufficialmente a servizio del re Sigiberto, cui interessavano quelle prestazioni letterarie ch’egli soltanto era in grado di offrire; avrebbe dunque ricoperto una mansione che riuniva i compiti del cancelliere e quelli del propagandista. Questa idea è stata però contestata da Brennan, The Career, p. 60, che nota come essa non sia suffragata da alcun elemento certo, nonché dalla George, Venantius Fortunatus, p. 28, la quale osserva come Venanzio, ancora giovane e straniero, non potesse trovare immediatamente una collocazione nella cancelleria o nella schola di corte. (36) Rispettivamente per Magonza carm. 2,11; 2,12; 9,9; per Colonia carm. 3,14; per Treviri carm. 3,11 e 3,12. Per il ruolo di Nicezio di Treviri durante la prima fase del soggiorno gallico del poeta si rimanda al seguito della trattazione. Anche sulle tappe dell’itinerario compiuto dal poeta nei primi mesi di permanenza in Austrasia non vi è totale accordo fra i critici: se il nostro dettato segue l’idea di Koebner, Venantius Fortunatus, p. 22, d’altra parte Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 11, e la George Venantius Fortunatus, p. 28, pensano a un viaggio ininterrotto fino a Metz; Tardi, Fortunat, p. 64, ritiene invece che le visite alle città lungo il Reno e la Mosella precedano la comparsa a corte, e che quindi Venanzio si sia presentato a Sigiberto già preceduto dalla propria fama. Reydellet, Introduction, p. XI, pensa infine che il poeta prima di raggiungere Metz abbia fatto tappa esclusivamente a Magonza. Quel ch’è certo è che il soggiorno a Treviri deve collocarsi nella primavera-estate del 566, giacché il vescovo Nicezio morì nel corso di quello stesso anno, cfr. Koebner, Venantius Fortunatus, p. 21 nota 2. (37) Greg. Tur. Franc. 4,23: rediens autem Sigyberthus uictur a Chunis, Sessionas ciuitatem occupat, ibique inuentum Theodeberthum, Chilperici regis filium, adprehendit et in exilio transmittit.

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(38) Rispettivamente carm. 3,23 e 23a (Verdun); 3,15 (Reims) e 2,16 (Soissons). (39) carm. 7,15 (Berulfo); 7,5 (Bodegisilo); 7,16 (Condane); 6,9 e 6,10 (Dinamio); 7,1, 7,2, 7,3 e 7,44 (Gogone); 7,11 e 7,12 (Giovino); 7,7, 7,8 e 7,9 (Lupo, composto a Metz); 7,14 (Mummoleno, verisimilmente composto a Soissons). Koebner, Venantius Fortunatus, p. 37, nota come al di fuori dell’Austrasia Venanzio celebri soltanto i sovrani e i membri delle loro famiglie: sembra pertanto che la presenza di una classe intellettuale laica, dedita principalmente a mansioni amministrative, fosse un fatto caratteristico del regno di Sigiberto, senza equivalenti nel resto della Gallia. A questo medesimo periodo risale pure il divertente carm. 6,8, incentrato su episodî accaduti durante il viaggio compiuto in battello tra le varie città dell’Austrasia. Di Dinamio in particolare si sarebbe conservata una lettera di risposta a Venanzio, se si accetta l’attribuzione a lui di Epist. Austras. 12 (ed. W. Gundlach, Monumenta Germaniae historica, Epistulae III, Berolini 1892 [rist. anast. München 1994], nuova ed. corretta in Corpus Christianorum, series Latina CXVII, Turnholti 1957), proposta da W. Gundlach, Die Sammlung der Epistulae Austrasicae, “Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde”, XIII (1888), pp. 367-387, 369 e accolta nel recentissimo commento alla silloge: Il Liber epistolarum della cancelleria austrasica (sec. V-VI), a cura di E. Malaspina (Biblioteca di cultura romanobarbarica 4), Roma 2001, pp. 250-252. (40) carm. 6,2. Sulla data del congedo dall’Austrasia pare convincente l’argomentazione di Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 17-18, secondo cui quanto il poeta afferma in carm. 6,9,5 e 13-14 indicherebbe che un anno dopo le nozze di Sigiberto e Brunichilde egli si trovava ancora in Germania, cioè nella parte maggiormente germanizzata del regno, quella che in seguito si sarebbe chiamata Austrasia; su questa linea ora anche Šašel, Il viaggio, p. 363, Brennan, The Career, pp. 56 e 60, e più esplicitamente la George, Venantius Fortunatus, p. 28. Diversa la cronologia proposta da Meyer, Der Gelegenheitsdichter, 16, e accettata ora da Reydellet, Introduction, p. XII, che pone il congedo dall’Austrasia già all’autunno del 566. (41) carm. 6,6 (Ultrogota e le figlie) e 6,3 (Teodechilde). (42) carm. 2,9,97 e 8,2. Secondo Reydellet, Introduction, p. XVII, il vero obiettivo della visita di Venanzio a Parigi era costituito appunto da Germano, nel quale egli sperava di trovare un mecenate. (43) Sulla durata del soggiorno parigino di Venanzio i pareri dei critici ancora una volta discordano: secondo Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 17, e Reydellet, Introduction, p. XII, il poeta vi si sarebbe trattenuto dall’autunno del 566 al principio dell’anno successivo, e la partenza non sarebbe pertanto da mettere in relazione con la morte di Cariberto; diversamente Koebner, Venantius Fortunatus, p. 39, circoscrive la permanenza a Parigi ai mesi centrali del 567; Brennan, The Career, pp. 60-61 non precisa la cronologia; ultimamente poi la George, Venantius Fortunatus, pp. 28-29, cui ci uniformiamo ma senza escludere la possibilità di altre cronologie, pensa che il poeta abbia trascorso a Parigi tutto l’inverno 567/568. (44) Greg. Tur. Franc. 4,26. Più precisamente, ancor prima che Sigiberto riuscisse a stabilizzare il proprio dominio sui nuovi territorî, essi furono occupati dalle truppe del fratellastro Chilperico I, ma l’abilità del generale Mummolo riuscì immediatamente a riannetterli all’Austrasia, cfr. Greg. Tur. Franc. 4,45. (45) carm. 3,3, cfr. Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 16. (46) Brennan, The Career, p. 61; Reydellet, Introduction, p. XIII. (47) Sui luoghi martiniani a Tours ci informa lo stesso Venanzio nella biografia della sua protettrice Radegonda, in riferimento a un pellegrinaggio a Tours compiuto da quest’ultima alcuni anni prima: uita Radeg. 14. Si veda altresì Greg. Tur. Mart. 1,2. (48) Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 17, e sulle sue tracce Reydellet, Introduction, p. XIII, pongono il giungere di Venanzio a Poitiers nei primi mesi del 567; alla fine del medesimo anno pensa invece Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 39-40, che motiva il trasferimento con qualche incarico di natura politica conferitogli da Sigiberto. Noi ci uniformiamo alla cronologia pro-

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posta dalla George, Venantius Fortunatus, pp. 29-30. Assumono una posizione più sfumata Brennan, The Career, p. 61, che non puntualizza la cronologia, restando incerto tra il 567 e il 568, e la Pietri, Venance Fortunat, p. 741, che riconosce nel 568 soltanto il terminus post quem non per l’arrivo di Venanzio a Poitiers. (49) Su santa Radegonda le fonti principali sono la Vita Radegundis scritta dallo stesso Venanzio dopo la morte della monaca nell’agosto del 587 (trad. ital. di G. Palermo, Venanzio Fortunato. Vite dei santi Ilario e Radegonda di Poitiers [Collana di testi patristici 81], Roma 1989, pp. 95-134), e l’opera analoga scritta nei primi anni del sec. VII dalla discepola Baudonivia, concepita esplicitamente quale complemento alla troppo distaccata biografia fortunaziana (ed. B. Krusch, Monumenta Germaniae historica, Scriptores rerum Merouingicarum II, Hannoverae 1888 [rist. anast. ivi 1984], pp. 377-395, trad. ital. e comm. in P. Santorelli, La Vita Radegundis di Baudonivia [Koinwnàa. Collana di studi e testi a cura dell’Associazione di studi tardoantichi 19], Napoli 1999). Tra le opere della storiografia moderna resta fondamentale R. Aigrain, Sainte Radegonde (vers 520-587), Paris 19243; diversi interventi in Études mérovingiennes. Actes des journées de Poitiers 1952, Paris 1953, e nella miscellanea che raccoglie i contributi presentati al convegno indetto a Poitiers nel 1987 in occasione del 1400° anniversario della morte: La riche personnalité de sainte Radegonde, Poitiers 1988. Per un’informazione più rapida in italiano si possono vedere le introduzioni alle traduzioni citate nonché N. Del Re, Radegonda, in Bibliotheca sanctorum, X, Roma 1968, cc. 13471352. (50) Baudon. 10: semper de pace sollicita, de salute patriae curiosa, quandoquidem inter se regna mouebantur, quia totos diligebat reges, pro omnium uita orabat et nos sine intermissione pro eorum stabilitate orare docebat. Vbi eos inter se amaritudinem moueri audisset, tota tremebat, et quales litteras uni, tales alteri dirigebat, ut inter se non bella nec arma tractarent, sed pacem firmaret, et patria ne periret. (51) Cfr. carm. 8,1,21: Martinum cupiens, uoto Radegundis adhaesi. Sulle affinità elettive nel carattere dei due personaggi, che sarebbero stati accomunati da una sensibilità estatica, sognatrice e portata al misticismo, si diffonde a lungo Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 39-66, ma si tratta di pagine segnate da un certo psicologismo caratteristico dell’epoca in cui furono scritte, e oggi non più acriticamente accettabile. Si veda pure, sul medesimo tema, il contributo di M. Cristiani in questo volume. Per la natura del ruolo svolto da Venanzio in rapporto al monastero si rinvia al seguito della trattazione. (52) Mart. 1,44 e 4,686-701. (53) carm. praef. 4. (54) Tra i pochi che sembrano accettare l’idea della peregrinatio religiosa è da ricordare soprattutto F. Leo, Venantius Fortunatus, der letzte römische Dichter, “Deutsche Rundschau”, XXXII (1882), pp. 414-426, 415. Ora la ritengono possibile, per lo meno quale concausa, la George, Venantius Fortunatus, p. 25, ed E. Malaspina, Letterati forestieri a servizio della corte austrasica (511-596), in Incontri di popoli e culture tra V e VIII secolo. Atti delle V giornate di studio sull’età romanobarbarica, Benevento, 9-11 giugno 1997, a cura di M. Rotili, Napoli 1999, pp. 59-88, 84. (55) Si tratta del percorso descritto, ancorché in direzione contraria, nel cosiddetto Itinerarium Burdigalense, un testo risalente alla I metà del secolo IV, ove s’illustra la strada che da Bordeaux portava a Concordia transitando per Carcassonne, Narbona, Arles, le Alpi Cozie e Milano, (56) A distanza di dieci anni, scrivendo la lettera prefatoria a Gregorio di Tours, il poeta non mancherà di ricordare l’impressione di barbarie che queste genti suscitarono in lui, che si era appena allontanato da uno dei più raffinati centri culturali d’Italia: carm. praef. 5. C’è stato chi ha sostenuto, traendo spunto da questo passo, che Venanzio abbia scelto di passare attraverso paesi non romanizzati allo scopo di rendere più morbido l’impatto con i Franchi semiromanizzati, impatto che avrebbe potuto essere troppo violento qualora egli fosse giunto direttamente dall’Italia, cfr. Tardi, Fortunat, p. 66.

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(57) Questa almeno l’identificazione finora più attendibile del vescovo Vitalis celebrato in carm. 1,1 e 1,2, gli unici componimenti databili con certezza al periodo precedente il trasferimento in Gallia; cfr. Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 120-125, cui aderisce Brennan, The Career, pp. 53-54. Inoltre, la stessa posizione privilegiata conferita da Venanzio a questi due carmi al momento di pubblicare tutte le sue composizioni sembra confermare l’idea secondo cui Vitale fu il suo primo mecenate, al quale egli doveva non soltanto i suoi primi successi, ma anche con ogni verisimiglianza i giusti appoggi in Gallia, cfr. George, Venantius Fortunatus, p. 26. Vitale infatti già diversi anni prima di essere deportato da Narsete dovette, per motivi che ci restano ignoti, fuggire dalla sua diocesi, trovando asilo ad Aguntum, l’odierna Lienz, nel Norico, zona d’influenza del regno franco. Conosciamo l’intera vicenda da Paul. Diac. Lang. 2,4: his quoque temporibus Narsis patricius, cuius ad omnia studium uigilabat, Vitalem episcopum Altinae ciuitatis, qui ante annos plurimos ad Francorum regnum confugerat, hoc est ad Agonthiensem ciuitatem, tandem comprehensum aput Siciliam exilio damnauit. (58) Greg. Tur. Franc. 4,23 e 29. (59) Questa idea fu prospettata per la prima volta da Stein, Histoire, II, pp. 832-834, che pure rifiutò l’identificazione del vescovo Vitalis con il presule altinate nominato da Paolo Diacono. Che la partenza di Venanzio sia legata alla vicenda tricapitolina è oggi ammesso, con varie sfumature, da più di uno studioso: ad esempio la Pietri, pp. 729-754, 735, che si richiama alla discussione di Stein, ma pure M. Pavan, Venanzio Fortunato, pp. 18-20; Rosada, Il «viaggio», pp. 43-45; F. Della Corte, Venanzio Fortunato, il poeta dei fiumi, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 137-147, 138 (ripubblicato in Id., Opuscula, XIV [Pubblicazioni del D.AR.FI.CL.ET., nuova serie, 190], Genova 2000, pp. 141-151). Alle medesime conclusioni giunge ora l’indagine specifica di R. Bratozˇ compresa in questo volume. (60) carm. app. 2,23-28, carme che si apre con una precisa esposizione del dogma trinitario, oggetto della controversia. (61) Brennan, The Career, pp. 56-57, il quale suppone che proprio a Nicezio fossero dirette le lettere di presentazione che Venanzio aveva recato con sé dall’Italia; George, Venantius Fortunatus, p. 26. La lettera di Nicezio, Epist. Austras. 7, risale al 566, e secondo Stein, Histoire, p. 833, potrebbe essere stata ispirata dallo stesso Venanzio, ignaro della morte dell’imperatore, avvenuta nel novembre dell’anno precedente, quando egli aveva già lasciato Ravenna. Altre lettere che testimoniano suoi legami con vescovi dell’Italia settentrionale Epist. Austras. 5; 6; 21 con il commento ad loc. della Malaspina, Il Liber epistolarum, pp. 234-238 e 266-267. (62) carm. 7,13, una lettera poetica scritta da Poitiers; cfr. Paul. Diac. Lang. 2,12: Igitur Alboin cum ad fluuium Plabem uenisset, ibi ei Felix episcopus Taruisianae ecclesiae occurrit. Cui rex, ut erat largissimus, omnes suae ecclesiae facultates postulanti concessit et per suum pracmaticum postulata firmauit, nonché la nota 14. (63) Si veda la nota 5. (64) carm. 5,2,5-6; carm. app. 2,15-18. (65) Paul. Diac. Lang. 3,26, ricorda la deportazione a Ravenna del “patriarca” Severo assieme a tre vescovi suoi suffraganei, avvenuta ad opera dell’esarca Smaragdo nel 590: i presuli scismatici furono costretti a fare atto di sottomissione al metropolita ortodosso Giovanni di Ravenna. (66) Stein, Histoire, II, 673. Una prova della neutralità dei vescovi gallici si ha da un lato nel fatto che la Sede apostolica non prese mai alcun provvedimento contro di loro, dall’altro nel fatto che gli stessi vescovi scismatici vedevano nei confratelli di Gallia un presidio alla loro causa, come si evince dalle lettere inviate all’imperatore Maurizio dopo il conciliabolo di Marano (590591), in cui i presuli scismatici minacciavano di porsi sotto la giurisdizione dei vescovi dei Franchi, cfr. Conc.S IV 2 p. 132-136. Si ricordi poi l’asilo offerto anni prima dai Franchi a Vitale di Altino, la cui fuga fu dovuta con ogni probabilità all’esplodere della controversia tricapitolina (si veda la nota 57). L’espressione quaestiones superfluae a proposito della controversia sui Tre Capitoli è tolta da una lettera del papa Pelagio II ai vescovi scismatici: Epist.

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pontif. 1055 Conc.S IV 2 p. 111: pro superfluis quaestionibus et haereticorum defensione capitulorum; in termini simili si espresse pure il successore Greg. M. epist. 4,2 l. 12: scissura pro nulla re facta. (67) Sull’intera questione si rimanda alla sintesi di Pavan, Venanzio Fortunato, soprattutto pp. 16-21. Si accennerà appena alla teoria di Tardi, Fortunat, pp. 61-64, preoccupato di presentare la figura del poeta il meno lontana possibile dalla fama di santità che gli valse il culto ufficiale in alcune diocesi francesi (nonché, dal secolo XIX, in quella di Padova cui appartiene Valdobbiadene). Dopo aver motivato il passaggio del giovane Venanzio dalla Venetia a Ravenna con la volontà di non compromettersi con le chiese scismatiche ma di rimanere nell’orbita ortodosso-imperiale (cfr. nota 12), lo studioso francese che, sarà bene rammentarlo, era sacerdote, ascrive la partenza del poeta dall’Italia all’insicurezza politica del momento, con l’Impero indebolito dalle lunghissime campagne, con lo scisma tricapitolino che creava una pesante contrapposizione religiosa e politica in seno alle terre sottomesse a Bisanzio, e con i Longobardi che premevano sulle Alpi orientali. La Gallia sarebbe stata l’unica terra a godere di una relativa pace, dopo essere stata riunificata da Clotario I. C’è però da chiedersi come mai Venanzio, volendo lasciare l’Italia per paura dell’invasione longobarda, valicò proprio le Alpi orientali, portandosi così a breve distanza dal luogo dal quale quel popolo si sarebbe calato di lì a tre anni. (68) Greg. Tur. Franc. praef.: Decedente atque immo potius pereunte ab urbibus Gallicanis liberalium cultura litterarum, cum … nec repperire possit quisquam peritus dialectica in arte grammaticus, qui haec aut stilo prosaico aut metrico depingeret uersu: ingemescebant saepius plerique, dicentes: “Vae diebus nostris, quia periit studium litterarum a nobis, nec reperitur in populis, qui gesta praesentia promulgare possit in paginis”. (69) Già a Clodoveo fu conferita nel 508 dall’imperatore d’Oriente Atanasio la dignità di console onorario, e mentre egli era ancora in vita si addivenne alla prima codificazione scritta del diritto franco (Pactus legis Salicae, ed. K. A. Ekhardt, Monumenta Germaniae historica, Leges nationum Germanicarum IV 1, Hannover 1962, pp. 2-235). (70) Chilperico I compose poesie ritmiche di argomento religioso, cfr. Greg. Tur. Franc. 6,46, nonché George, Venantius Fortunatus, p. 12 con la nota 45. Fu inoltre autore di un trattato sulla Trinità in cui però esprimeva idee eterodosse, e intese riformare l’alfabeto latino per adattarlo alla lingua franca, cfr. Greg. Tur. Franc. 5,44. L’unica sua poesia superstite, un Hymnus in solemnitate sancti Medardi episcopi, è pubblicata da K. Strecker, Monumenta Germaniae historica, Poëtae Latini medii aeui IV 2, Berolini 1914 [rist. anast. München 1978], pp. 455-457. (71) Cfr. E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel medioevo, Milano 1960 (ed. orig. Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Bern 1958), pp. 237-238. Un esempio delle possibilità che a quel tempo si schiudevano alle poche persone con formazione culturale si ha nella carriera di Andarchio, un servo istruito impiegato alla corte di Sigiberto (Greg. Tur. Franc. 4,46) e in quella di Celso, leguleio al servizio del re Gontrano (Greg. Tur. Franc. 4,24). (72) Cfr. Brennan, The Career, p. 56. (73) Šašel, Il viaggio, 371-375. L’autore nota come nella stessa direzione paia andare il matrimonio di Sigiberto con Brunichilde, figlia del re visigoto Atanagildo, il quale proprio allora stava conducendo una politica di avvicinamento a Bisanzio; questo orientamento potrebbe essere stato in certo modo favorito da Martino di Braga, che in quegli stessi anni giunse dalla Pannonia e con cui Venanzio intrattenne relazioni epistolari (epist. [carm. 5,1] e carm. 5,2): i due uomini sarebbero dunque stati incaricati della medesima missione diplomatico-culturale presso due regni occidentali, quello visigoto e quello franco, che Bisanzio voleva attrarre nella propria orbita; sui rapporti tra Venanzio e Martino di Braga si rinvia pure alla nota 79. (74) carm. app. 1 e 3. Questo aspetto è stato sottolineato di recente da Reydellet, Introduction, pp. XVII-XIX, il quale sembra far propria la teoria avanzata da Šašel, già abbracciata da M. Rouche, Autocensure et diploma-

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tie chez Fortunat à propos de l’élegie sur Galeswinthe, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 149-159, e da ultimo dalla Malaspina, Letterati forestieri, p. 87. (75) Brennan, Venantius Fortunatus, pp. 7-16. (76) Da carm. 1,8 a 1,20. Sulla cronologia di questi spostamenti all’interno della Gallia non c’è accordo tra i critici: ad esempio secondo Brennan, The Career, p. 63, e la George, Venantius Fortunatus, pp. 31-32, questo viaggio nel meridione sarebbe da collocarsi qualche anno più tardi, quando già Venanzio dimorava stabilmente a Poitiers. Anche la Pietri, Venance Fortunat, p. 742, data il soggiorno bordolese a dopo il 569. (77) carm. 2,7 e 2,8; cfr. Brennan, The Career, p. 65. Ormai nessuno segue più l’ipotesi di Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 54, secondo cui i carmi di soggetto tolosano sarebbero lettere spedite da Poitiers. (78) carm. praef. 4: Pyrenaeis occurrens Iulio mense niuosis. Reydellet, Introduction, p. XIV, data l’episodio, coerentemente con la cronologia da lui adottata, al luglio 567. (79) L’idea, introdotta per la prima volta da Tardi, Fortunat, p. 76, è ora ripresa da Reydellet, Introduction, p. XIV: a suo dire il tono della lettera che Venanzio più tardi inviò da Poitiers a Martino (epist. [carm. 5,1]) farebbe presupporre una personale conoscenza fra i due, mentre carm. 5,2 sarebbe stato recitato proprio a Braga alla presenza del vescovo. Come osserva il medesimo autore (nota 23), in favore di un passaggio in Ispagna parla anche carm. 4,11, un epitaffio per Vittoriano, abate del monastero di Asan (provincia di Huesca, Aragona settentrionale). Quanto ai motivi che furono all’origine dei rapporti con Martino, Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 41-42, supponeva che Venanzio fosse stato incaricato da Radegonda di cercare supporto per l’introduzione della regola di san Cesario nel monastero di Poitiers (ma in tal caso il viaggio sarebbe da collocare al più presto nel 570, si veda qui la nota 95), mentre ora Reydellet, Introduction, p. XIX, pensa piuttosto a motivi di natura politica e diplomatica, connessi con l’“offensive de charme” di cui il poeta sarebbe stato incaricato da Bisanzio secondo Šašel (si tenga presente la nota 73). L’eventualità del viaggio in Ispagna è invece esclusa da Brennan, The Career, p. 64. (80) carm. 1,12 e 1,13; cfr. Brennan, The Career, p. 65. Altri però pongono il passaggio a Saintes nel corso del viaggio di andata. (81) L’idea di una mansione ufficiale presso il monastero risale a Thierry, Storie, p. 195, ed è accettata da Tardi, Fortunat, p. 85, e ancora da Reydellet, Introduction, p. XIX, che qualifica il poeta “chargé d’affaires”. Nondimeno, come osserva Brennan, The Career, p. 69, in verità non abbiamo elementi per sapere quale sia stata la posizione di Venanzio nei confronti dell’istituzione monastica fondata da Radegonda. È vero che il poeta in un’occasione, rivolgendosi a Radegonda, si definisce agens: carm. 11,4,3: Fortunatus agens, Agnes quoque uersibus orant; ciò può far pensare al ruolo del sovrintendente laico, una sorta di amministratore degli affari temporali, necessario dal momento che le monache non potevano abbandonare il convento. Tuttavia il verso in questione è palesemente giocato sulla paronomasia agens/Agnes, artificio particolarmente gradito a Venanzio, che lo adopera anche con altri nomi proprî: pertanto il participio potrebbe non aver alcun significato tecnico, ma valere semplicemente “con insistenza”. (82) epist. (carm. 3,1) ed epist. (carm. 3,2). (83) Questa almeno la data proposta da Y. Labande-Mailfert, Les débuts de Sainte-Croix, in Histoire de Sainte-Croix de Poitiers, «Mémoires de la Société des Antiquaires de l’Ouest et des Musées de Poitiers», XIX (19861987), pp. 21-116, 43. Certamente egli – di stirpe germanica se dobbiamo credere al nome – era già in carica negli anni 569-570, quando fu accolta nel monastero la reliquia della vera Croce di Gesù, inviata in dono a Radegonda dall’imperatore Giustino II (su cui si veda il seguito). Su Maroveo si veda a ogni modo R. Mineau, Un évêque de Poitiers au VI siècle: Marovée, «Bulletin de la Société des Antiquaires de l’Ouest et des Musées de Poitiers», XI (1972), pp. 361-383. (84) Greg. Tur. Franc. 9,40. Cfr. carm. 5,9,7: il poeta, ormai ordinato sa-

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cerdote diocesano (cfr. infra), e perciò sottoposto a Maroveo, lamenta che questi gli abbia impedito di allontanarsi dal territorio della diocesi per far visita a Gregorio di Tours. Sui motivi dell’ostilità del vescovo si rimanda al seguito della trattazione. Ultimamente B. Brennan, Deathless Marriage and Spiritual Fecundity in Venantius Fortunatus’ De virginitate, «Traditio», LI (1996), pp. 7397, 76-77, ricorda come vi fosse una parte dell’episcopato gallico che in linea di principio contestava la legittimità stessa del monachesimo femminile. (85) Greg. Tur. Mart. 1,1: Vtinam Seuerus aut Paulinus uiuerent, aut certe Fortunatus adesset qui ista describerent! (86) carm. 5,5b, celebrazione della conversione degli Ebrei di Clermont, ottenuta dal vescovo Avito, destinatario di carm. 3,21, 3,22 e 3,22a; carm. 9,7 composto in istrofe saffiche minori, col biglietto accompagnatorio carm. 9,6. (87) carm. praef. 6; sulle diverse fasi di pubblicazione del corpus poetico venanziano si rimanda a Reydellet, Introduction, pp. LXVIII-LXXI. (88) carm. 6,5,223-226. La datazione ancora una volta non è certissima, ma la maggioranza degli studiosi converge sul 568: K. Steinmann, Die Gelesuintha-Elegie des Venantius Fortunatus (carm. VI 5). Text, Übersetzung, Interpretationen, Zürich 1975, p. 188; Brennan, The Career, p. 63; Pietri, Venance Fortunat, p. 741; e da ultimo implicitamente M. Pisacane, Il De Gelesuintha di Venanzio Fortunato, «Vichiana», IV s. I (1999), pp. 82-105, 84; la George, Venantius Fortunatus, p. 31, non prende una posizione precisa, mentre Reydellet, Introduction, p. XXIII nota 56, assegna l’episodio al 568/569. (89) Greg. Tur. Franc. 4,28. (90) carm. 6,5. (91) Si ricordi, a proposito degli sforzi mediatorî di Radegonda, il passo della Vita Radegundis di Baudonivia riportato alla nota 50. Singolare è il fatto che questo aspetto della personalità di Radegonda nella biografia fortunaziana rimanga del tutto ignorato; per ipotesi al riguardo si veda Santorelli, La Vita, pp. 36-38. (92) Greg. Tur. Franc. 9,40; Baudon. 16; per la datazione dell’ambasceria Meyer, Der Gelegenheitsdichter, pp. 100-101; certamente è posteriore alla morte di Cariberto, precedente sovrano di Poitiers, occorsa nell’inverno 567/568. Sulle implicazioni politiche dell’iniziativa A. Cameron, The Early Religious Policies of Justin II, «Studies in Church History», XII (1976), pp. 5960. Sull’interesse di Radegonda per le reliquie si veda ora Santorelli, La Vita, pp. 46-54. (93) carm. 8,1; questa almeno l’interpretazione oggidì più accreditata, cfr. Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 133-135 e 142; B. Brennan, The Disputed Authorship of Fortunatus’ Byzantine Poems, «Byzantion», LXVI (1996), pp. 335-345, 338. Scettico al riguardo invece M. Reydellet, in Venance Fortunat. Poèmes, II, livres V-VIII, Paris 1998, ad loc. (94) carm. app. 1, conosciuto con il titolo De excidio Thoringiae, probabilmente non originale. (95) Greg. Tur. Franc. 9,40; Baudon. 16. Verisimilmente fu in seguito a questo episodio che Radegonda decise di adottare nel monastero la regola di san Cesario di Arles, che lo sottraeva alla giurisdizione del vescovo diocesano per affidarlo a quella del vescovo scelto dalla badessa: da quel momentro il referente della comunità fu il vescovo di Tours. Sulle vicende dell’adozione della regola di san Cesario si rimanda alla nota 79 nonché a Santorelli, La Vita, pp. 54-61. (96) carm. 2,2 (Pange, lingua); 2,4 e 2,5 (i due carmina figurata); 2,6 (Vexilla regis). Sul genere letterario dei carmina figurata, introdotto nella letteratura latina da Ottaziano Porfirio (età costantiniana) si veda G. Polara, Le parole nella pagina: grafica e contenuti nei carmi figurati latini, «Vetera Christianorum», XXVIII (1991), pp. 291-336, nonché U. Ernst, Carmen figuratum. Geschichte des Figurengedichts von den antiken Ursprüngen bis zum Ausgang des Mittelalters, Köln-Weimar-Wien 1991. In particolare sui carmina figurata fortunaziani è incentrato il contributo dello stesso Polara in questo volume. (97) carm. app. 3,17. (98) carm. app. 3,12.

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(99) carm. app. 2 e 3. Nel panegirico l’imperatore Giustino II è definito noua purpura (v. 25): poiché questi salì al trono durante gli ultimi giorni dell’anno 565, dopo il lungo regno di Giustiniano (527-565), e tenendo conto della velocità con cui le notizie viaggiavano a quei tempi, l’espressione pare ancora adatta per gli anni 569-570. (100) carm. 5,3. (101) carm. app. 22,15 sgg. Germano di Parigi morì nel 576, cfr. Greg. Tur. Franc. 5,8: eo anno et beatus Germanus Parisiorum episcopus transiit. (102) carm. 3,17 e 3,18; cfr. anche carm. 4,10, un epitaffio per Leonzio II. (103) epist. (carm. 3,4); da carm. 3,5 a 3,10; carm. 5,7. Tra questi notevole soprattutto l’elegia pasquale carm. 3,9, da molti critici giudicata la migliore opera di Venanzio. Secondo Brennan, The Career, p. 66, e la George, Venantius Fortunatus, p. 31, il soggiorno a Nantes risalirebbe a prima del 573. (104) Greg. Tur. Franc. 5,5: eo tempore Felix Namneticae urbis episcopus litteras mihi scripsit plenas opprobriis, scribens etiam fratrem meum ob hoc interfectum, eo quod ipse cupidus episcopati episcopum interfecisset; e 6,15. (105) carm. 11,25,9; cfr. Brennan, The Career, p. 66; George, Venantius Fortunatus, p. 32. (106) carm. 5,7. (107) A tali viaggi alluderebbero, secondo Brennan, The Career, p. 66, carm. 3,19 (Nevers); 3,26 (Bretagna), 5,11 (viaggio programmato a Tours). Accetta l’idea dei viaggi a Nevers e in Bretagna anche la George, Venantius Fortunatus, pp. 31-32. (108) Questa almeno la data che oggi pare godere di maggior credito cfr. Quesnel, Introduction, pp. XV-XVI, nonché A. V. Nazzaro, Intertestualità biblico-patristica e classica in testi poetici di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 99-135, 112. Se in passato Tardi, Fortunat, p. 181, pensava all’estate del 574, Brennan, The Career, p. 71, si esprime invece con prudenza per una datazione “between 573 and 576”. (109) Greg. Tur. Franc. 4,47. (110) Greg. Tur. Franc. 4,51. (111) Greg. Tur. Franc. 5,14, ove l’autore ricorda di aver offerto asilo all’interno della basilica di Tours, oltre che a Meroveo, pure a un altro aristocratico ribelle: Gontrano Bosone. (112) La datazione si ricava usualmente dall’espressione Fortunatus presbyter adoperata da Gregorio di Tours nella sua opera De uirtutibus Martini (1,2), correntemente datata a prima del 576. Anche qui però non mancano le divergenze: se si trovano sostanzialmente d’accordo con la cronologia tradizionale sia la Pietri, Venance Fortunat, p. 739, che Reydellet, Introduction, p. XX; Brennan, The Career, p. 67 con la nota 77, ritiene che il poeta possa aver ricevuto gli ordini già dal vescovo Pascenzio di Poitiers, morto nel 568. All’estremo opposto la George, Venantius Fortunatus, pp. 34 e 212, ha accolto una datazione dell’opuscolo di Gregorio al 593, spostando conseguentemente l’ordinazione sacerdotale di Venanzio tra il 587 e il 593 (ma si veda al proposito la nota seguente). Sottolinea l’influsso decisivo di Radegonda sull’ordinazione del poeta Koebner, Venantius Fortunatus, p. 46. (113) Cfr. la nota 84. Con la datazione della George (vedi nota precedente) il passo in questione, senza dubbio anteriore al 577 essendo compreso nella prima raccolta poetica, perderebbe ogni significato. (114) Cfr. la nota 86 e Greg. Tur. Franc. 5,11. Sul discepolato di Gregorio presso Avito si veda Greg. Tur. uit. patr. 2, praef. (115) Cfr. la nota 87, nonché Brennan, The Career, pp. 55 e 71. Ultimamente Reydellet, Tradition et nouveauté dans les Carmina de Fortunat, in AA.VV., Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, 81-98, 85, ha pensato che la richiesta di Gregorio sia stata essenzialmente volta a difendere il prestigio dell’Austrasia e del suo episcopato dopo l’assassinio di Sigiberto. (116) carm. 11,7; cfr. Brennan, The Career, p. 68; George, Venantius Fortunatus, p. 176. (117) Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 6; Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 93-94, il quale osserva pure come Poitiers di per sé fosse un luogo che non offriva molti stimoli alla poesia.

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(118) Koebner, Venantius Fortunatus, p. 94; Brennan, The Career, p. 73; Pietri, Venance Fortunat, p. 743. (119) carm. 8,19 e 8,20. Il primo a mettere il fatto nell’adeguata luce è Brennan, The Career, p. 72. (120) carm. 9,6,9-12. (121) Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 91-95; non bisogna però seguire lo studioso austriaco quando afferma che dopo la composizione della Vita Martini s’inizierebbe il tramonto di Venanzio, e che nel seguito della sua vita egli avrebbe composto soltanto pochi carmi di circostanza. Certo, la produzione diminuisce assai per la quantità rispetto al decennio 566-576, ma agli anni dopo il 580 risalgono pur sempre componimenti notevoli quali il panegirico a Chilperico (carm. 9,1) e la descrizione del viaggio da Metz ad Andernach (carm. 10,9). (122) Greg. Tur. Franc. 5,49. Sui motivi primi dell’accusa mossa a Gregorio da parte di un suo sacerdote, Riculfo, e del conte turonense Leodasto, come pure sui dettagli del sinodo si rimanda alla George, Venantius Fortunatus, pp. 48-49. (123) carm. 9,1. (124) Cfr., oltre ai critici francesi del secolo XIX, principalmente S. Dill, Roman Society in Gaul in the Merovingian Age, London 1926, p. 333; cfr. ancora recentemente la Pietri, Venance Fortunat, 744: “poète de circonstances au sens le plus péjoratif du terme”. (125) Rivalutazioni progressive si hanno in Meyer, Der Gelegenheitsdichter, pp. 113-126; Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 95-105, e nel modo più compiuto in George, Venantius Fortunatus, pp. 48-57. (126) carm. 9,4 e 9,5; Greg. Tur. Franc. 5,34 e 50, dal quale sappiamo che lo stesso Chilperico si ammalò seriamente, ma riuscì a riprendersi. (127) carm. 9,2; probabilmente l’iniziativa fu suggerita al poeta da Radegonda e da Gregorio di Tours, cfr. George, Venantius Fortunatus, p. 33. (128) Pertinenti a questo viaggio sono pure carm. 9,11, 9,12 e 9,13; cfr. Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 21; Koebner, Venantius Fortunatus, p. 105-107. Più cauto Brennan, The Career, p. 75 nota 107. (129) carm. 9,3. (130) Greg. Tur. Franc. 6,1. (131) Greg. Tur. Franc. 6,46. (132) Greg. Tur. Franc. 7,13. (133) Quanto presentato in questo paragrafo è ripreso dalla Malaspina, Letterati forestieri, pp. 82-83; cfr. ora il commento della stessa a Epist. Austras. 43: Il Liber epistolarum, pp. 296-299. Sulla datazione della missione diplomatica di Babone e Gripone si veda P. Goubert, Byzance avant l’Islam, II 1, Byzance et les Francs, Paris 1956, pp. 119; la complicata vicenda del sequestro di Ingonda e del figlio da parte dei Bizantini è ricostruita da E. Ewig, Die Merowinger und das Imperium, Opladen 1983, pp. 44-48. (134) Greg. Tur. Franc. 9,11; il testo del trattato in Pactio reg. Greg. Tur. Franc. 9,20. Una datazione alternativa del trattato al 28 o al 29 novembre del 586, proposta da W.A. Eckhardt, Die Decretio Childeberti und ihre Überlieferung, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», Germanische Abteilung, LXXXIV (1967), pp. 1-71, 67-70, non ha trovato sostenitori tra chi si è occupato di Venanzio, a eccezione della Malaspina, Letterati forestieri, pp. 76-77 e 87, la quale invece ritiene di poterla corroborare con l’attribuzione a Venanzio di Epist. Austras. 43. (135) Greg. Tur. glor. conf. 104; Baudon. 21-24. Le esequie di Radegonda furono celebrate dallo stesso Gregorio, e il fatto che tra le persone presenti alla cerimonia non sia menzionata Agnese lascia intendere ch’ella fosse già morta. Del resto due anni dopo, nel 589, a capo della comunità vi era una nuova badessa di nome Leubovera, cfr. Greg. Tur. Franc. 9,39. (136) Greg. Tur. Franc. 9,20: eo anno quoque tertio decimo regis Childeberthi, cum ad occursum eius usque Metensim urbem properassemus, iussi sumus ad Gunthchramnum regem in legationem accedere; cfr. Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 45. (137) carm. 10,9.

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(138) carm. 10,8; allo stesso viaggio paiono poi appartenere pure carm. app. 5 e 6. Gregorio poi proseguì alla volta di Chalons-Sur-Saône, sede della corte di Gontrano, mentre Venanzio si trattenne con ogni probabilità presso Brunichilde e Childeberto II, cfr. Brennan, The Career, p. 76, George, Venantius Fortunatus, p. 33. L’unico a sostenere che Venanzio avesse accompagnato Gregorio fino alla meta fu Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 22, ma la sua tesi, che non poggia su documenti certi, non è stata sposata da alcuno studioso. (139) Greg. Tur. glor. conf. 44: uitam tamen huius, postquam haec scripsimus, a Fortunato presbytero conscriptam cognouimus. (140) H. Quentin, La plus ancienne vie de saint Seurin de Bordeaux, in Mélanges Léonce Couture. Études d’histoire méridionale, Toulouse 1902, pp. 23-63. (141) Greg. Tur. Franc. 9,39. Sull’argomento ora G. Scheibelreiter, Königstochter im Kloster. Radegund (ob. 587) und der Nonnenaufstand von Poitiers (589), «Mitteilungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung», LXXXVII (1979), pp. 1-37. (142) epist. (carm. 8,12) e carm. 8,12a. Questi due testi sembrano dunque smentire l’idea di Koebner, Venantius Fortunatus, p. 110, secondo cui dopo la morte di Radegonda e di Agnese Venanzio avrebbe smesso di interessarsi alle vicende della comunità monastica di Santa Croce. (143) Greg. Tur. Franc. 9,30. (144) carm. 10,11 e 10,12. (145) Greg. Tur. Franc. 9,30. (146) carm. 9,6. (147) Reydellet, Introduction, p. LXX, che ben puntualizza la questione: alla luce del fatto che carm. 8,12 ed epist. (carm. 8,12a) si riferiscono ai disordini nel monastero di Santa Croce, come individuato da Tardi, Fortunat, p. 94, risulta impossibile seguire quest’ultimo studioso anche quando data la pubblicazione dei libri VIII e IX al 584 (Id. ibid. p. 93). Appare perciò singolare che l’incoerente cronologia proposta da Tardi sia ora condivisa dalla George, Venantius Fortunatus, pp. 33 e 209-210. (148) carm. 10,14; cfr. Greg. Tur. Mart. 4,32. (149) Brennan, The Career, 78. (150) Altri studiosi pongono invece la morte di Platone negli anni attorno al 600: Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 23, Koebner, Venantius Fortunatus, p. 115, Reydellet, Introduction, p. XXVII. Inspiegabilmente preciso Tardi, Fortunat, p. 88 nota 1, che data la successione all’anno 599, mentre la George, Venantius Fortunatus, p. 34, lascia aperto il problema. Naturalmente, accettando una cronologia più tarda, si dovrà escludere nella consacrazione episcopale qualsiasi intervento non soltanto da parte di Gregorio di Tours, ma pure di Childeberto II, essendo questi morto all’età di 26 anni nel 596. (151) Così da ultimi Reydellet, Introduction, p. XXVII; e la George, Venantius Fortunatus, p. 34. Sconcertantemente preciso, in assenza di dati sicuri, Tardi, Fortunat, p. 88 nota 1: “mourut tout au début du VIIe siècle, vers 603 ou 604”. (152) S. Blomgren, Studia Fortunatiana II. De carmine in laudem sanctae Mariae composito Venantio Fortunato recte attribuendo (Uppsala Universitets Årsskrift 1934. Filosofi, språkvetenskap och historiska vetenskaper 3), Upsaliae 1934, soprattutto 3-26. Per l’autenticità si erano espressi già in precedenza G. M. Dreves, Hymnologische Studien zu Venantius Fortunatus und Rabanus Maurus (Veröffentlichungen aus dem Kirchenhistorischen Seminar München, III. Reihe, 3), München 1908, e Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 111-113 e 143-148. (153) Quest’ultima silloge costituisce i libri X e XI del corpus venanziano, Reydellet, Introduction, pp. LXX-LXXI; dubbî sul carattere di compilazione postuma esprime già Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 125-128, ora seguito dalla George, Venantius Fortunatus, p. 211, e con maggior decisione Ead. Venantius Fortunatus: the End Game, «Eranos», XCVI (1998), pp. 32-43. Intermedia la posizione di Tardi, Fortunat, p. 93, che ritiene pubblicato dal poeta il libro X, e frutto di una raccolta postuma il libro XI. Non tocco in que-

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sta sede il difficile problema della formazione della cosiddetta Appendix carminum, su cui restano ancora in buona parte valide le osservazioni di Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 128-143, da integrare con Reydellet, Introduction, pp. LXXV-LXXX. (154) Nel già citato ritmo merovingico De priuilegio (vedi la nota 9), la cui composizione risale ai primi decennî del secolo VII, Venanzio è associato ai più grandi santi: Mosè, Martino, Girolamo. (155) Sul culto tributatogli durante il medio evo e la prima età moderna B. de Gaiffier, S. Venance Fortunat, évêque de Poitiers. Les témoignages de son culte, «Analecta Bollandiana», LXX (1952), pp. 262-284; nonché F. Caraffa, Venanzio Fortunato, in Bibliotheca sanctorum, XII, Roma 1969, cc. 985-987. Per l’area veneta Sartor, Venanzio Fortunato, pp. 267-276. (156) Paul. Diac. Lang. 2,13: l’ultimo distico, con la richiesta di intercessione, attesta il culto di cui Venanzio era oggetto. (157) Ed. E. Dümmler, Monumenta Germaniae historica, Poëtae Latini medii aeui I, Berolini 1881 [rist. anast. München 1997], p. 326. (158) De Gaiffier, S. Venance Fortunat, p. 266.

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GIORGIO FEDALTO Università degli studi di Padova

Presentazione del primo volume delle Opere di Venanzio Fortunato Il volume delle opere di Venanzio Fortunato, che qui presentiamo in edizione bilingue, latino con traduzione italiana, fa parte di una collana comprendente le opere dei Padri e degli Scrittori di Aquileia, all’incirca del primo millennio cristiano. Le “lettere, scienze ed arti” sono parti di una pianta che si sviluppa soprattutto in tempo di pace: abbiamo goduto una cinquantina d’anni di pace e ben fanno quanti hanno coltivato e coltivano quella pianta, di cui stiamo raccogliendo ora dei frutti. Durante queste giornate, altri diranno del personaggio in questione. Sia consentito qui sottolinearne un aspetto. Nei primi secoli dell’era cristiana, Venanzio Fortunato non è stato l’unico autore cristiano ad uscire dalle terre venete, la “Venetia et Histria” come l’aveva chiamata l’imperatore Augusto. Altri ve ne furono e la collana, che ne pubblica gli scritti, ha il progetto di far seguire, in una ventina di volumi il “corpus” completo degli scrittori cristiani che si sono succeduti in questa regione lungo quei secoli. In particolare, prima dei due volumi previsti per l’opera omnia di Venanzio, oltre ad una introduzione su Aquileia, una chiesa, due patriarcati, e alle opere di Rufino di Concordia, già pubblicate in due volumi a cura di Manlio Simonetti1, dovranno seguire con gli atti dei martiri della regione, le opere di Vittorino di Petovio (Ptui in Slovenia) di prossima pubblicazione, le omelie e i commentari di Cromazio di Aquileia. A Venanzio seguiranno le opere di Paolo Diacono, in due tomi quelle di Paolino di Aquileia, altri volumi riguarderanno la musica aquileiese, gli atti dei concili, le epigrafi cristiane, le fonti cronachistiche ed altro. A dire il vero, siamo stati incerti se includere in questo volume tutte le opere poetiche di Venanzio, e in un secondo volume tutte le biografie ed altri scritti, non tanto perché egli non sia veneto, trevigiano, come quando ricorda la sua Treviso (“la mia Treviso”), quanto per essere vissuto gran parte della vita ad essere morto nella Gallia, in Francia dunque, ed appropriarci perciò glorie maturate altrove. 73

Ma questa è una caratteristica anche di non pochi altri veneti della “Venetia et Histria” non solo di allora; l’essere cioè emigrati nel mondo produttivo o colto del tempo, ed aver così arricchito, oltre il paese di destinazione, anche quello d’origine. In una regione che ha perduto il proprio patrimonio umano lungo i secoli, a beneficio di altri popoli e culture, è difficile perciò trovare un’unità culturale e religiosa, lungo quei primi secoli cristiani. È problematico trovare un’aggregazione dottrinale omogenea nella storia cristiana di quel primo millennio, a prescindere dal riferimento alla Chiesa di Aquileia. La regione è stata soggetta allo scorrimento di popoli diversi per pretenderlo, per di più “barbari”, come vengono ricordati nella nostra cultura greco-latina. Ce ne accorgiamo lavorando alla collana di cui fa parte questo volume di Venanzio, in quanto poco conosciamo del periodo delle origine cristiane. Saranno comunque pubblicati interessanti atti di martiri, con l’opera del primo commentatore dell’Apocalisse, Vittorino di Petovio, il cui latino Girolamo criticava come poco classico, mediocre, anche se si trattava di opera eccellente nel contenuto2. Siamo in epoca precostantiniana. Per una presenza cristiana documentata, occorre poi attendere le prime indicazioni offerte dalle epigrafi musive del pavimento della basilica di Aquileia del 314 d.C., per renderci conto di quanto stava maturando, anche se tali testimonianze attestano già uno stadio successivo rispetto all’evangelizzazione cristiana della regione. Si tratti di martiri della persecuzione del 303/304 o anche di altre precedenti, in ogni caso presuppongono evangelizzazione e predicazione anteriori, quantomeno del secolo III lungo le strade romane della regione ed oltre le Alpi, fino al Danubio. Tralasciamo la questione marciana, sulla quale ci sarebbe peraltro sempre molto da dire. Dopo i provvedimenti costantiniani concernenti la libertà religiosa, nei primi decenni del secolo IV v’è un forte incremento di presenze cristiane, come vescovadi, prima o poi testimoniati, chiese, mosaici, monete... La collana ricordata è più interessata ai resti letterari, alle testimonianze di Scrittori e di Padri della Chiesa, di cui faceva parte la Treviso di Venanzio Fortunato. L’iniziativa è nata da un’idea del vescovo emerito di Gorizia, mons. Vitale Bommarco, fatta propria dalla Fondazione “Società per la conservazione della Basilica di Aquileia” e dall’editrice Città Nuova di Roma, che col I volume delle opere di Venanzio stampa ora il IV volume della stessa collana. 74

Se poi nel secolo IV emerge nella regione un nuovo interesse culturale e dottrinale, si tratta più di tensione pastorale missionaria che di teologia speculativa. Si deve ugualmente pensare che un tale insegnamento pastorale non poteva fondarsi sul vuoto o quasi, nel periodo successivo alle persecuzioni – di cui peraltro sembrano scarse le tracce nell’alto trevigiano –, quando compaiono le prime espressioni cristiane consentite dalla politica imperiale. La religione cristiana non nasce infatti accidentalmente, ma richiede forti decisioni e tensioni di fede per aderirvi e rimanervi al suo interno; molto più in tempo di persecuzione. Appunto in quei primi decenni del secolo IV si constata un periodo di forte espansione religiosa con personaggi come Cromazio, Rufino o Girolamo, ben presto partito, senza più ritornare. Nel secolo V sono cominciate poi le grandi invasioni barbariche e nel secolo VI, pur con le scorrerie di Franchi, Bizantini, Longobardi, anche se diverse tra loro, non è mancata, anzi si è accentuata, l’affermazione di quella cultura e di quella religione, nelle quali si sarebbe formato appunto il giovane Venanzio. Posteriormente, vanno ricordati poi, in tutt’altra prospettiva, i secoli VIII e IX, il periodo carolingio, con altre accentuazioni dei valori religiosi, ecclesiastici, artistici, storici, e con le opere di autori come Paolo Diacono e Paolino di Aquileia. Pur in questa discontinuità politica e culturale, è sempre vivo il nome magico di Aquileia a riunire nel suo centro metropolitano il cristianesimo della “X regio”. Ecco dunque il senso del nostro autore, di Venanzio Fortunato, inserito tra un passato ed un futuro, anche se egli diventerà – per così dire – l’antesignano dei trevigiani emigrati e piantati altrove, non solo in Francia, ma nel mondo. Se non si può capire Venanzio senza il cristianesimo della regione dove è nato e cresciuto, va ugualmente ricordata l’ambientazione storico-religiosa di quel territorio, per situare l’opera nella cultura europea del suo e del nostro tempo. Ci si potrebbe chiedere: perché Venanzio sia partito per la Gallia e non invece per Bisanzio? Il problema è già stato dibattuto ed altri continueranno a discuterne. Si stava profilando allora un nuovo drammatico periodo, nel quale la Chiesa aquileiese avrebbe perduto la propria identità originaria. Si trattava di crisi di sviluppo? Le iniziative dei Bizantini con le invasioni dei Longobardi ne avrebbero sbriciolato la struttura iniziale. La Chiesa aquileiese fuggita a 75

Grado era legittima, ma i Bizantini ne avrebbero fatto una chiesa “politicizzata” sulla linea della loro tradizione costantinopolitiana, mentre in antitesi i vescovi là residenti e quelli dell’entroterra si arroccavano in uno scisma per dir così “nazionalistico”, anti-imperiale ed anti-papale, utilizzando la gloriosa ma inopportuna intitolazione patriarcale. Volendo accettare quanto riferisce la cronachistica, e così i documenti pontifici, la bricconata di un ecclesiastico, ladro, fuggito da Grado a Cormons in area longobarda (627), diede allora nuovo respiro alla Chiesa di Aquileia, provocando per contro, sotto protezione bizantina, il consolidamento della sede di Grado, riconosciuta infine anche come patriarcale dalla stessa Chiesa di Roma3. Ma non cessava allora, anzi si consolidava, l’altra Chiesa, divenuta sotto protezione longobarda, la Chiesa aquileiese per antonomasia. In breve: da una gloriosa Chiesa paleocristiana, segnata dal sangue di molti martiri, di tradizione marciana si dirà più tardi, sorsero due patriarcati, protetti da forze politiche antagoniste. E Venanzio? Per sua fortuna era già in Gallia: aveva forse intuito quanto stava maturando? Sia solo consentito sottolineare la tesi, per dir così, della sua devozionalità verso il santo guaritore, sulla base di un’osservazione riferita da Stefano Di Brazzano (che con tanto impegno ha curato questo volume)4, che cioé col viaggio in Gallia Venanzio rifece in senso contrario il percorso dell’“itinerarium Burdigalese” del secolo IV. Se l’“itinerarium” conduceva alle radici della religione cristiana, alla Gerusalemme dove si veneravano i “vexilla regis”, il giovane pellegrino compiva il percorso inverso col gusto curioso e devoto di chi al riguardo aveva ancora molto da dire. La storia cristiana riguarda sia i singoli, sia le chiese e le rispettive strutture ecclesiastiche. Il patriarcato di Grado, ricuperato e valorizzato dall’impero bizantino (ma il patriarca Fozio lo ricordava solo come “arcivescovado di Aquileia”)5, lo sarà anche dal papato romano, che unico patriarca dell’Occidente, a mala pena poteva ammettere un antagonista, meno che meno due, pur finendo coll’accettarlo. Il patriarcato di Aquileia ebbe invece un futuro – diciamo così – glorioso, non tanto per appoggio romano, quanto per interventi politici regi ed imperiali. L’incarnazione del Dio-uomo continua nell’incarnazione delle sue chiese nell’eredità politica del tempo. Se il destino del patriarcato di Grado sarebbe stato più fortunato col suo spostamento a Venezia, quello di Aquileia, pur nella dialettica implicita nella sua storia, sarebbe maturato verso sorti più varie, con la successione di 76

Franchi a Longobardi. Ma qui il discorso porterebbe lontano. Si può concludere pensando a quella di Venanzio come ad una scelta strategica di fronte ad uno scontro che si sarebbe prolungato per secoli, tra un impero d’oriente che voleva governare l’ecumene per diritto divino, e regni occidentali, più limitati ma non meno ambiziosi, che avrebbero preparato nel futuro l’impero di Carlo Magno. Si potrebbe almeno ricordare Venanzio come un possibile patrono dei Trevigiani sparsi nel mondo, vedendolo di ritorno in patria una volta all’anno, il giorno della sua festa, per rincuorare quanti come lui, mai ritornati, sentono la nostalgia del paese nativo.

Note

(1) G. Fedalto, Aquileia, una chiesa, due patriarcati, Roma 1999; Rufino di Concordia, Scritti apologetici, a cura di M. Simonetti, Roma 1999; Scritti vari, a cura di M. Simonetti, Roma 2000. (2) Girolamo, Gli uomini illustri, a cura di E. Camisani, Roma 2000, p. 158, n. 74. (3) G. Fedalto, Aquileia, una chiesa, p. 122. (4) Venanzio Fortunato, Opere/1, a cura di S. Di Brazzano, Roma 2001, p. 24, n. 52. (5) Les regestes des actes du patriarcat de Costantinople, I, II-II, edd. V. Grumel-J. Darrouzès, Paris 1989, nn. 550, 560.

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PAOLO MANTOVANELLI Università degli studi di Padova

Una nuova occasione per un “Poeta d’occasione”: il Venanzio Fortunato di Stefano Di Brazzano Nell’associarmi al saluto rivolto a questo gentile pubblico dall’amico e collega Paolo Pecorari, desidero innanzi tutto ringraziarlo per aver reso più concreto e diretto, invitandomi a partecipare a questo Convegno, il mio approccio a Venanzio Fortunato, gloria della città di Valdobbiadene, insieme personalità eminente della Chiesa e autore significativo della latinità cristiana: una fase della latinità da me indagata più di vent’anni or sono nell’ambito dei miei studi di semantica storica1, per cui, nel dire a Paolo grazie per l’occasione offertami di approfondire le mie conoscenze del tardo latino, gli dico altresì grazie per avermi fatto riandare per un po’ ai tempi della mia giovinezza; e per aver fornito alla nostra amicizia, nata a quei tempi nel fervore di studi diversi, l’occasione per riprendere vecchie consuetudini di colloquio e di incontro, in vista di un obiettivo comune.

1. Il compito affidatomi, e che mi è gradito assolvere, è quello di presentare secondo le mie competenze un prodotto notevole degli studi venanziani, frutto dell’impegnato lavoro di un giovane studioso, Stefano Di Brazzano2: il primo volume, cioè, delle opere di Venanzio Fortunato, autore che viene così ad aggiungersi degnamente a quelli già editi del “Corpus Scriptorum Ecclesiae Aquileiensis”, la benemerita collana curata da Giorgio Fedalto. Il volume comprende i Carmina, con incluse l’Expositio orationis Dominicae, l’Expositio symbuli e l’Appendix carminum: tutta la produzione poetica del letterato e uomo di Chiesa di Valdobbiadene, eccezion fatta per quella delle opere agiografiche, che saranno comprese assieme alle prose, come specificato nell’Avvertenza, in un secondo volume. L’Avvertenza circa il piano generale dell’opera (p. 13) 79

precede l’Introduzione generale (pp. 15 sgg.) e l’Introduzione al volume I (pp. 51 sgg.). La prima (per la quale, oltre che per le note e anche, in parte, per la traduzione, il curatore dichiara il suo ampio debito nei confronti dell’edizione “Les Belles Lettres” di M. Reydellet3) offre in una trentina di pagine, ivi compresa una ricca bibliografia, un quadro documentato ed esauriente della biografia venanziana, ripercorsa nelle sue tappe note, dove, con chiarezza espositiva senz’altro apprezzabile dai non addetti ai lavori, l’attività letteraria del Nostro viene continuamente raccordata alle vicende che lo portarono a contatto con i più eminenti personaggi politici ed ecclesiastici del tempo. L’Introduzione al I volume contiene invece informazioni sulla struttura generale della raccolta, sui temi dei vari componimenti, pure in raccordo costante con la biografia dell’autore, sul valore storico e sul valore letterario dei carmi (con puntualizzazioni metriche, senza le relative tavole statistiche del Reydellet), cui segue un’accurata descrizione della tradizione manoscritta. Due Introduzioni che fanno utilmente il punto degli studi venanziani in ordine alle varie questioni trattate. Giustamente si dà spazio, nella seconda sezione (pp. 69 sg.), al giudizio, formulato da W. Meyer4, di Venanzio come “poeta d’occasione” (“Gelegenheitsdichter”), con l’avvertenza che l’espressione non deve configurarsi come giudizio di valore riduttivo o negativo, ma come definizione delle caratteristiche intrinseche di una poesia che trova nella realtà di fatti e personaggi la sua prima ragion d’essere. Una definizione estensibile, in fondo, anche ai famosi Inni, il Pange lingua (2,2) e il Vexilla regis prodeunt (2,6): ‘poesie d’occasione’ anch’essi, non solo perché, come rilevato dal curatore, originati da particolari circostanze storiche, ma anche perché sono in essi riconoscibili i due fondamentali registri delle poesie d’occasione, quello narrativo e quello descrittivo: i registri propri di una scrittura abitualmente impegnata da un lato a ripercorrere le tappe salienti di vicende illustri, dall’altro a ritrarre i particolari architettonici, ornamentali e di culto di quei referenti concreti che sono gli edifici sacri e profani. Così, per quanto riguarda la prima modalità, il Pange lingua si configura come la storia di una battaglia avente per protagonista il Redentore del mondo e culminante nel trionfo della Croce (gloriosi proelium certaminis […] triumphum nobilem, vv.1 sg.); a questa storia sublime si riconducono gli infiniti rivoli delle vicende secolari della Chiesa che sono oggetto dei singoli carmi, anch’esse contrassegnate da certamina (per es. 1,16,45; cfr. bella, 2,7,22; proelia, 3,30,18 80

etc.) e triumphi (1,3,5; 2,11,17; 2,16,11; 3,23a,25; 3,30,18, con proelium come nel Pange lingua; 6,1,76 etc.). E così, per quanto riguarda la modalità descrittiva, nel Vexilla regis prodeunt sono riservati alla Croce alcuni tratti, per esempio il “fulgore” (fulgit Crucis mysterium, v.2; Arbor decora et fulgida, v.17), che caratterizzano la raffigurazione di edifici fondati o restaurati da personaggi illustri, come ad esempio la cattedrale di Tours restaurata dal vescovo Gregorio (Fulgida praecipui nituerunt culmina templi, 10,6,13). Una poesia, quindi, ‘della realtà’, colta ovviamente nei suoi aspetti di più gratificante edificazione, e aliena dalle speculazioni teologiche: delle quali registra, semmai, il riflesso storico, come eco delle controversie del tempo: così nel De Cruce Domini (2,1), dove il primo verso accenna alla posizione di Venanzio avversa al monofisismo. Di ciò il Di Brazzano fornisce in nota5 puntuale informazione, come di tutto ciò che attiene alla storia di personaggi, edifici e in generale, per dir così, ai referenti oggettivi del testo. Da questo punto di vista il volume offre al lettore, anche non specialista, tutte le informazioni necessarie.

2. Non trattandosi di una nuova edizione critica, non mi soffermerò più di tanto sul testo, che riproduce per i primi otto libri quello del Reydellet, tranne che in due luoghi, il primo dal cosiddetto Epitaphium Vilithutae, v.12. La scelta principio per principium (accolto dal Reydellet) è comprovata con buoni argomenti da Paola Santorelli nel suo commento all’Epitaphium6. E anche il rifiuto della congettura del Reydellet lusus per usus in epist. (carm. 5,6)1 mi pare condivisibile7.

3. È comprensibile, a questo punto, come il mio interesse si sia concentrato sulla traduzione, la parte del lavoro che presuppone un approccio più diretto al testo, implicando la resa dei suoi valori contenutistici e formali. Vediamo, necessariamente per sommi capi, come con il sistema linguisticoletterario del vescovo poeta del VI secolo si è confrontato un giovane traduttore dei nostri tempi. Naturalmente, tra le competenze del traduttore sta anche la conoscenza di traduzioni precedenti: e, come sopra ricordato, Stefano Di Brazzano dichiara onestamente i suoi debiti nei riguardi della traduzione del Reydellet. 81

3.1 Un primo punto da considerare riguarda il rapporto poesia-prosa. Secondo l’esempio del Reydellet, il Di Brazzano traduce in prosa i distici elegiaci del nostro poeta, mentre riserva la colometria, con rispetto dell’unità versale, a pochi componimenti, tra cui gli Inni. Va detto subito che la rinuncia al verso nella traduzione appare, nel caso di un poeta come Venanzio, più che ragionevole, ove si pensi a certe particolarità del suo dettato poetico, relative, in particolare, al rapporto metro-sintassi. Il Reydellet, citato dal nostro nell’Introduzione8, osserva come la sintassi di Venanzio sia di un’estrema semplicità e come il senso dei singoli enunciati sia generalmente racchiuso nel giro di un distico. Ciò vuol dire, in generale, che l’attesa di informazione suscitata nel lettore dall’esametro si placa immediatamente, per così dire, nel verso successivo. Vedrei in queste strutture assai semplici il riflesso di un atteggiamento volto a chiudere in modo rassicurante e persuasivo il messaggio pastorale insito nei diversi motivi della composizione. Un esempio soltanto, da 3,9 (vv. 37 sg.), il carme sulla Pasqua dedicato al vescovo Felice: Qui crucifixus erat Deus ecce per omnia regnat / dantque Creatori cuncta creata precem, tradotto così dal Di Brazzano: “Quel Dio che era stato crocifisso, ecco regna su tutte le cose (più esattamente: “Colui che era stato crocifisso, ecco, regna Dio per l’universo”) e tutto il creato si effonde in preghiera al suo Creatore”. Nel breve giro di due versi è racchiuso, a beneficio dei lettori, il paradossale messaggio cristiano: il crocifisso è Dio re dell’universo, e l’universo da lui creato rende onore al suo Creatore. Come di frequente, il senso generale dell’enunciato coincide col distico, così come l’unità di senso, la frase, coincide con l’unità di metro, il verso, o le sue parti, gli emistichi. Di qui l’uso piuttosto raro, in Venanzio, dell’enjambement, come un confronto con i modelli della classicità può mettere in evidenza. Venanzio tende a ricomporre nell’unità del verso o nella sottounità dell’emistichio i nuclei semantici e iconici separati in enjambement nei poeti riecheggiati (anche cristiani). Così nello stesso carme 3,9, al v.22: iam reparat viridans frondea tecta nemus, si ricompone in unità nel secondo emistichio la coppia frondea tecta che in Virgilio, georg. 4,61 sg., compariva separata per enjambement: et frondea semper / tecta petunt. Analogamente, in un carme del I libro, il 20 (v.16), uno dei carmi per l’inaugurazione di ville, si ricompone in unità in clausola di pentametro il nesso opacat humum (sogg. vitis) separato per enjambement in Virgilio, Aen. 6,195 sg.: dives opacat / ramus humum. 82

In conclusione: una struttura come quella venanziana, dove la sintassi coincide in buona sostanza col metro, dove cioè la misura del verso e delle sue parti procede, per così dire, ‘secondo il senso’, rende ragionevole e anche legittima la scelta di tradurre in prosa ampie sezioni dei Carmina. 3.2 Una tale scelta potrebbe comportare il rischio di un livellamento in basso del registro stilistico della resa. Rischio in genere evitato dal Di Brazzano grazie all’incisività che la soppressione dei nessi sintattici (relativi o congiunzioni o altro) conferisce alle singole espressioni. Per esempio, sempre dall’elegia di Vilithuta, morta di parto insieme col bambino: “La creatura infatti muore insieme alla madre, sepolta sul nascere, non reca con sé alcun segno di vita, nata tra le fauci della morte”. E ancora: “L’afflizione raggiunse il culmine per lui quando gli fu rapita la consorte: sposa per breve tempo, ora suscita in lui lacrime durevoli” (vv. 55 sg. e 67 sg.). È questo lo stile del traduttore, apprezzabile per incisività e per l’intento di fornire al lettore di lingua italiana immagini definite. Certo, qualche volta il livello stilistico della traduzione pare scadere leggermente rispetto all’originale: come al v.1 del citato carme al vescovo Felice sulla Pasqua, raffigurata con le luci e i colori della primavera (3,9): tempora florigero rutilant distincta sereno, dove la patina arcaizzante di tradizione (enniano-)lucreziana dell’aggettivo composto floriger (Lucrezio ha florifer, ambedue presenti in altri autori cristiani, Sedulio, Boezio etc.) va perduta nella traduzione puramente meteorologica “atmosfera che favorisce la fioritura” (forse meglio: “apportatrice di fiori”). E, già che ci siamo, rutilare, più che “tingersi di rosso”, che fa pensare al tramonto o all’aurora, vorrà dire “scintillare” (come l’oro: rutila pellis in Valerio Flacco, 8,114, è il vello d’oro), un verbo che non a caso ricorre in Virgilio, Aen. 8,529, detto delle armi di Enea che, si noti, per sudum [i Troiani] rutilare vident: per sudum, cioè “nel sereno”, e al verso precedente Virgilio ha in regione serena, a cui sembra rinviare il florigero […] sereno di Venanzio: un’eco del passo virgiliano relativo alle armi di Enea si potrebbe riconoscere al v. 5 del carme di Venanzio: Armatis radiis elementa liquentia lustrans. D’altra parte il traduttore è tutt’altro che insensibile ai valori formali dell’originale, per esempio nel rendere il gioco fonico dell’allitterazione, procedimento stilistico praticato frequentemente da Venanzio. Così in 2,1,7 (De cruce Domini), dove clavis confixa cruentis (sogg. la mano del Cristo) è reso con “confitta dai chiodi grondanti di sangue”, più efficace del semplice “sanglants” del Reydellet. 83

Nel complesso sembra di poter riconoscere il pregio di questa traduzione in una resa ‘moderna’ dell’originale, che non mancherà di rendere più facile e piacevole il nostro approccio ad un autore per molti versi significativo della latinità cristiana.

4. Abbiamo toccato, parlando della tecnica compositiva di Venanzio, il tema dell’intertestualità, cioè, in sostanza, delle reminiscenze e imitazioni di modelli classici e cristiani. Un tema a cui il Di Brazzano dedica alcuni cenni nell’Introduzione (p. 71 nt. 105), avvertendo che “di ciò [cioè di tali imitazioni] rende sistematicamente conto l’apparato delle fonti posto in questa edizione in calce a ogni pagina dl testo”. Ora, “sistematicamente” è parola impegnativa, che prefigura in modo fin troppo ottimistico, mi pare, un quadro esauriente dell’intertestualità di Venanzio che non poteva rientrare negli scopi della presente edizione, intesa primariamente a presentare un testo filologicamente attendibile e a fornire esaurienti informazioni storiche e storico-letterarie: come rivelato del resto dall’uso, per gli antecedenti letterari, del termine “fonti”, che è proprio della scuola storica e che privilegia, semmai, l’aspetto tematico e non formale del testo. Tanto per fare un esempio, nelle note a piè pagina dell’Epitaphium Vilithutae (4,26), l’elegia scritta per la giovane aristocratica d’origine germanica, a proposito di Heu lacrimae rerum (v.5) non troviamo il riscontro della dibattutissima espressione virgiliana sunt lacrimae rerum (Aen. 1,462): riscontro discusso nella nota di commento di Paola Santorelli9, da integrare con l’interpretazione che dell’espressione virgiliana ha fornito in modo, credo, definitivo Alfonso Traina (rerum genitivo oggettivo, “lacrime per le vicende umane”)10, interpretazione presupposta per il verso di Venanzio dalle traduzioni di Reydellet e del Di Brazzano11 (così come non troviamo registrato per il v.12 l’ascendente di Virgilio, Aen. 6,429: funere mersit acerbo).

5. Attendibilità filologica (come si inferisce dalla ricca Bibliografia generale e dalle sezioni dell’Introduzione su La tradizione manoscritta e Le edizioni a stampa), aggiornata informazione storico-letteraria e buona qualità della traduzione (a cui avrebbe forse giovato, qua e là, una più capil84

lare considerazione degli intertesti poetici sottesi ai vari componimenti): sono i pregi maggiori di un’opera che si presenta insieme come utile strumento di lavoro per gli specialisti e come occasione di fruttuosa informazione per un più vasto pubblico. La qualità di un’edizione si misura appieno soltanto nell’uso che se ne può fare: saranno i destinatari a decretarne la sorte. Per quanto mi riguarda, posso solo prevedere per il lavoro del Di Brazzano una buona fortuna. Ed è questo anche il mio augurio, che estendo al progettato II volume, con il quale l’intera produzione letteraria del vescovo poeta di Valdobbiadene sarà finalmente a disposizione del lettore italiano.

Note

(1) P. M., Profundus. Studio di un campo semantico dal latino arcaico al latino cristiano, Roma 1981, pp.329 sgg. (2) Venanti Honori Clementiani Fortunati Opera / I, cur. Stephanus Di Brazzano: Carmina, Expositio orationis Dominicae, Expositio Symbuli, Appendix carminum, CSEA – Aquileia MMI. (3) Venance Fortunat, Poèmes, t. I: livres I-IV; t. II: livres V-VIII, Texte établi et traduit par M. Reydellet, Paris 1994-1998. (4) W. Meyer, Die Gelegenheitsdichter Venantius Fortunatus (“Abhandl. der Königl. Gesellschaft der Wissenschaften in Göttingen”, phil. hist. Kl., n.F. IV 5), Berlin 1901 (ristampa parziale in AA.VV., Mittellateinische Dichtung, a. c. di K. Langosch, Darmstadt 1969, pp. 57-90). (5) P. 147 nt. 2. (6) Venanzio Fortunato, Epitaphium Vilithutae (IV 26), Introduzione, traduzione e commento a. c. di Paola Santorelli, Napoli 1994, p. 58. (7) Per queste scelte vd. L’Introduzione del Di Brazzano, p. 87 con nt. 186. Per i rimanenti tre libri della raccolta (comprese le due omelie o Expositiones) il Di Brazzano ha utilizzato l’edizione di Fr. Leo (Berolini 1881), ripulendola però della patina di normalizzazione classicistica, specie in materia di scelte ortografiche. (8) A p.80 (cfr. l’Introduction del Reydellet, Venance Fortunat, Poèmes, t. I, p. LXVIII). (9) Pp. 54 sg. (10) Vd. Virgilio. L’utopia e la storia. Il libro XII dell’Eneide e antologia delle opere, a. c. di A. Traina, Torino 1997, p. 64. (11) “O lacrime per le umane cose” (analogamente Reydellet).

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SERGIO TAVANO Università degli studi di Trieste

Venanzio Fortunato: monumenti ed estetica In margine alla nuova edizione delle sue opere

In un primo tempo questo intervento avrebbe dovuto riguardare gli aspetti monumentali considerati nell’opera di Venanzio Fortunato e, in modo particolare i monumenti che egli vide o che potè vedere. Si potrebbero ricavare considerazioni utili, per esempio, confrontando un paio di capitelli del Museo Civico di Treviso1 e almeno un capitello del battistero di St. Jean di Poitiers2: questi sono senza dubbio tra di loro contemporanei ma riflettono la cultura artistica tardogiustinianea sul finire del secolo sesto e quindi corrispondono al “gusto” e alle conoscenze dirette di Fortunato. Ma, mentre gli esemplari trevigiani rappresentano una versione schematizzata, e non tradita, dei modelli della prima metà dello stesso secolo, il ricordato capitello di Poitiers si deve giudicare effetto d’un’elaborazione che, sulla base di spunti più antichi, ritenuti classici ma proiettati verso l’altomedioevo, senza riguardo verso la cultura artistica propriamente tardoantica, è un po’ ciò che definisce la figura e l’opera di Venanzio Fortunato, il quale è radicato nella cultura letteraria antica ma propenso a superarla in vari modi. Nuovi appunti e suggerimenti giungono però dalla recentissima edizione (primo volume) delle opere di Fortunato curata da Stefano Di Brazzano. Le considerazioni che seguono vogliono esprimere apprezzamento per questa nuova impresa editoriale e trasformarsi in occasioni per commenti di vario genere ma soprattutto su aspetti d’ordine artistico e storico-culturale individuati da una nuova lettura resa possibile e necessaria dall’edizione ricordata (i riferimenti al testo e alle pagine sono inseriti direttamente nel testo). Senza insistere sulle riserve, per lo più marginali3, l’edizione dei Carmi fortunazianei e la nuova lettura che ne propone il Di Brazzano possono indurre a svariate considerazioni e valutazioni più che sull’edizione stessa4 su Venanzio Fortunato e sul suo tempo.

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1. Tra Aquileia e Ravenna

Altri, e principalmente Rajko Bratozˇ, ne parlano in questo convegno: i punti più oscuri della vita fortunazianea riguardano certamente le ragioni e le circostanze della sua partenza dall’Italia verso le Gallie e ciò non tanto perché, pur avendo detto di voler andare a Tours per San Martino, vi giunse soltanto dopo due anni di spostamenti specialmente nell’Austrasia. La giustificazione “ufficiale” di quella partenza e del relativo viaggio è “motivazione secondaria”5. Non è il caso di riassumere e di ridiscutere quanto si sa dei suoi rapporti con chiese e figure dello scisma tricapitolino, ma è certo che la lettera scritta a nome di Radegonda nel 569 a Giustino II riflette sentimenti di soddisfazione per il ristabilimento della pace (App. 1): la sua avversione non aveva riguardato l’autorità imperiale e romana in quanto tale ma la discordia provocata dalle decisioni del concilio costantinopolitano secondo del 553 e dalle persecuzioni che colpirono in modo più duro la sua Chiesa (pp. 630-632). Venanzio si sente romano e si vanta di poter essere un Orfeo6. Più tardi, pur essendo lontano e ormai quasi del tutto estraneo alle sue terre d’origine, si sarebbe espresso in termini decisi contro il popolo longobardo, gravis hospes7. L’andare pellegrino di Venanzio Fortunato potrebbe trovare un parallelo in quello di Marciano che in quegli stessi anni peregrinatus est pro causa fidei, come si legge nell’epigrafe musiva stesa a Grado sulla sua tomba8, o come quello di Agrippino di Como che, attivo pro dogma patrum, (...) pro sancta studuit pereger esse fide9. Concetti e atteggiamenti del genere non compaiono però negli scritti fortunazianei: egli, oltre tutto, fu vescovo molto più tardi e del tutto indipendentemente da impegni missionari simili a quelli studiati da poco da Rajko Bratozˇ10. Sono ben noti i rapporti di Fortunato col futuro “patriarca” Paolo di Aquileia e col probabile vescovo di Altino, Vitale, ma anche con Felice, futuro vescovo di Treviso: nella sua opera ricorrono piuttosto nomi di aquileiesi che non di ravennati11. Da buon egocentrico egli apprezza senza dubbio alcuno ciò che e chi potrebbe essergli utile ma in fin dei conti rimaneva ancora Aquileia la più importante sede metropolitica dell’Italia nordorientale, alla pari soltanto con Milano; la fortuna e l’autorità di Ravenna stavano delineandosi appena allora. Non è ardito pensare tuttavia che egli, giunto tra i Franchi, non volesse richiamarsi apertamente ad Aquileia in quanto chiesa scismatica (un atteggiamento del genere ci 88

sarebbe stato anche in Paolo Diacono), il che non gli impedisce di ricordare con esattezza nomi di figure e di martiri aquileiesi. Il suo rifarsi a Ravenna tornò più utile dal punto di vista culturale e politico davanti ai barbari di Francia come davanti ai romani di Costantinopoli. Se infatti Venanzio Fortunato fa dei nomi di persona, questi sono della Venetia et Histria, come si è accennato: rivolgendosi a Felice, ricorda la frequenza nella stessa scuola (VII, 13, vv.3-4), che non necessariamente era quella raggiunta a Ravenna, dal momento che era patriae (cfr. p. 405, n. 63). Non è il caso di riprendere nemmeno la discussione sull’identità di questi vescovi, ma non si può trascurare che a Vitale è riferita non soltanto la costruzione di una basilica in onore di Sant’Andrea, bensì anche la promozione del culto dei Santi Lorenzo, Martino, Cecilia e soprattutto Vigilio, Martirio, Sisinnio e Alessandro: a questo proposito si dovrebbe guardare a Milano, da dove erano stati inviati i tre missionari che caddero nella Val di Non, oppure a Sabiona stessa: qui la visione è complicata, ma forse anche chiarita, dalla presenza d’un bonus antistes Iohannes (I, 2, v. 25). Sia pure con forme alquanto vaghe, tanto a Padova12 quanto a Sabiona13 affiora un vescovo Iohannes nella seconda metà del secolo sesto. Si avverte che per Fortunato i legami con Aquileia sono tra quelli più familiari in ogni senso, incominciando dal nome stesso di Fortunato (VII, 9, v.8, p. 550), che ricorre almeno due volte nel martirologio aquileiese14, e dal nome della sorella Tiziana, che rimanda a quel Tiziano che risulta più tardi venerato a Ceneda15. Molti sono i riferimenti indiretti al mondo aquileiese che si possono trovare nell’opera fortunazianea, anche senza soffermarsi sul ricordo degli Anicii o dell’antipatripassianesimo (pp. 146-147) che ad Aquileia però si espresse appena con lo scatenarsi della questione tricapitolina16. Più diretti, in senso aquileiese, sono gli spunti reperibili nell’Expositio orationis dominicae (pp. 570-593), testo che sarebbe da collazionare con il XXXVIII Tractatus in Mathaeum di Cromazio, per vedere quanto di nuovo e quanto di tradizionale sia inserito o conservato nel commento fortunazianeo. Qualcosa di simile si dovrebbe fare per l’Expositio Symbuli (pp. 597-613), da confrontare col testo ben noto di Rufino di Concordia o di Aquileia, non soltanto per il commento ma anche per le varianti sopraggiunte e accolte dal poeta, per esempio nel cambiamento di certi 89

casi (ablativo al posto dell’accusativo o viceversa), nello spostamento di parole (in Sancto Spiritu invece che in Spiritu Sancto) o nella soppressione di vocaboli a proposito di patrem invisibilem et impassibilem oppure di huius carnis resurrectionem17 e così via: il confronto è da fare specialmente dopo gli studi più recenti18. Rimane da vedere se e quanto i due testi, quello del Pater e quello del Simbolo, e i relativi commenti fossero ancora impressi nella memoria del commentatore, che li aveva appresi fin dalla sua educazione aquileiese, e di quanto fossero stati da lui aggiornati e adattati in base ai luoghi e ai tempi in cui vennero ripensati e riproposti. Qualcosa del genere, ma forse con risultati migliori, si può fare e dire per un altro caso: nel carme terzo dell’ottavo libro (pp. 426 ss.), De virginitate, Venanzio Fortunato ricorda le vergini Agata, Agnese, Basilissa, Eufemia, Eugenia, Giustina, Paolina e Tecla, alle quali poi aggiunge Cecilia ed Eulalia: viene istintivo cercare il punto di partenza nella processione di martiri mosaicata a Ravenna in Sant’Apollinare Nuovo (p. 429, n. 10). È possibile che nella sua permanenza a Ravenna il poeta avesse potuto addirittura assistere all’esecuzione di quel mosaico che giungeva a sostituire figure del regno ostrogoto. Fin dal 550 circa però un corteggio di vergini martiri era già stato mosaicato nel sottarco della basilica eufrasiana di Parenzo. Rispetto alle venti figure del ricordato mosaico ravennate la scelta compiuta da Venanzio Fortunato corrisponde piuttosto, ragionando in percentuali19, al gruppo scelto a Parenzo. Otto martiri corrispondono al gruppo ravennate (Agata, Agnese, Cecilia, Eufemia, Eugenia, Eulalia, Giustina e Paolina), mentre a Parenzo, dove mancano Eulalia e Paolina e furono aggiunte Perpetua, Susanna e Valeria, ricorrono Agata, Agnese, Basilissa, Cecilia, Eufemia, Eugenia, Giustina e Tecla. Sarà da vedere se i criteri della scelta seguita a Parenzo siano stati gli stessi di quelli adottati a Ravenna e perciò di quelli seguiti da Venanzio Fortunato. Dell’amore o almeno del ricordo vivo della propria terra o patria può vedersi più d’un segno nelle composizioni di Venanzio, come quando sente il popolo longobardo quale gravis hospes, che domina italas harenas (VII, 20 v.9). Nel giudizio negativo sull’occupazione dell’Italia da parte dei Longobardi si somma l’alta coscienza di sé (Carm. praef., 4) e della superiorità raffinata della propria cultura20: da qui anche il disappunto, tutto personale, se qualcuno, come Dinamio (VI, 10 v.63), osa entrare nel suo campicello. 90

Echi però della cultura, specialmente di quella letteraria, che aveva potuto assorbire nella sua terra, prima aquileiese che italiana, si possono riconoscere in citazioni da epigrafi contemporanee o in formule omogenee, ma anche in fenomeni più o meno paralleli e talora anche anticipatori: si veda il frequente uso di metallo per indicare il mosaico21, che trova corrispondenza altrove e, per esempio, a Parenzo, nell’epigrafe dedicatoria di Eufrasio (magno metallo; vario fulgere metallo), di cui si parlerà più avanti. Nell’epigrafe parentina c’è anche l’esaltazione esagerata di un edificio cadente che sarebbe stato rifatto dalle fondamenta, mentre si sa che il vescovo Eufrasio, attorno al 550, conservò della basilica precedente, che risaliva al 420 circa, i muri perimetrali e rifece, spostandola verso occidente, soltanto la parete orientale, modificando e aggiornando in tal modo i valori proporzionali, che nell’edificio precedente erano appunto vecchi22. Lo stesso avviene in Venanzio Fortunato per la basilica di Sant’Eutropio (I,13) o per la basilica di Tours23, rinnovata dal vescovo Gregorio (X, 6, vv.13-16, 24). Anche l’epigrafe di Elia di Grado (579), che era stata preceduta e preparata, oltre che da questa appena ricordata di Parenzo, anche da un’epigrafe romana di papa Simmaco24, può trovare anticipazioni o paralleli in Venanzio Fortunato (III, 14, v.21: Aurea templa novas pretioso fulta decore, quasi identico in IX, 9, v.25).25 Ma una qualche analogia con quanto avvenne per il culto tributato più tardi a Venanzio Fortunato26 si verificò ugualmente in terra aquileiese: se non fu difficile venerare tra i Franchi il poeta di Valdobbiadene, divenuto vescovo di Poitiers, di cui non si conosceva con esattezza il passato, essendo stato probabilmente coinvolto o interessato dallo scisma tricapitolino27, meno facile è spiegare l’ingresso di Ingenuino nel culto dei santi, benché come vescovo di Sabiona si fosse compromesso apertamente nello stesso scisma, interpretato in tutta l’ampia provincia ecclesiastica di Aquileia come forma di difesa dell’ortodossia28.

2. Sensibilità e preferenze

Venanzio Fortunato, com’è già stato osservato da molti, rivela una sensibilità raffinata per odori, sapori, colori e principalmente per il mondo della natura: ne è incitato a una brillantezza dell’eloquio e delle figure. Egli perciò è bilanciato tra forme “astratte” o simboliche e criteri naturalistici nel giu91

dicare opere d’arte pittorica (X, 6, v.92: ducta ... fucis vivere membra putes), in un tempo che, dopo la crisi tardoantica e nel clima lucidamente paleobizantino, si mostrava propenso appunto piuttosto ad astrazioni e a geometrizzazioni, le quali del resto affiorano più volte nei versi fortunazianei, come si vedrà più sotto. Egli esalta la bellezza ma è consapevole dell’importanza dell’intelligenza e dell’elaborazione affidate all’arte, alla tecnica. Nella Praefatio (3, p. 88 e 5, p. 90) compare addirittura l’autoironia, tanta è e quasi spavalda la sua sicurezza. Molti sono i luoghi in cui il poeta esprime la sua viva sensibilità verso gli odori: ad esempio sono gli aromi e gli incensi (V, 5b, vv. 133-134) dell’altare e del battesimo, a cui contrappone un iudaeus odor (ibid., vv.109-111). Ma sono molto goduti i cibi e i sapori (VII, 14, vv.17-26; XI, 9, vv.3-14; XI, 13, vv.1-4; XI, 16, vv.5-10; XI, 18, vv.18-23; App. 9, vv.11-20): si affianca il pittoresco e anche il grottesco (VI, 8, v.11 e ss.; VII, 14, vv.31-36; XI, 23, vv.7-8; ma cfr. XI, 11). C’è raffinato godimento quando ai profumi si associa la gradevolezza dei colori (VIII, 7, vv.11-18). Ma su tutte le sensazioni prevale il piacere derivato dalla vista, specie se vi interviene l’arte (Praef., 5): le bellezza è goduta nello splendore dei colori e delle luci. Uno dei passi in cui il rapimento sembra suscitato anche dal ricordo affettuoso degli ambienti trevigiani o addirittura di Valdobbiadene stessa si legge nel secondo carme a Martino, vescovo di Galizia (V, 2, vv.29-42), con allusioni attraverso una serie di metafore tratte dal fascino della campagna coltivata con viti, olivi, fichi, che sono difficilmente riscontrabili nella Francia settentrionale (cfr. X, 9, vv.30-38). Si affiancano efficacemente incantate visioni di primavera (VI, 1, vv.1-14), i loci amoeni (VI, 6,vv.1-8), trionfi di fiori policromi (VIII, 3, vv.29-32; VIII, 7, vv.11-18; XI, 10, vv.1-12; XI, 11, vv.1-6) o di frutta (VI, 7, vv.4-10). Benché nei suoi versi prevalgano visioni pressoché immobili ma preziose, quando il poeta si volge a descrivere scene e figure drammatiche costruisce quadri non di rado scultorei: è il caso di Gelesvinta, quasi novella Niobe (VI, 5, vv.186-196) o del cuoco nel suo antro, già ricordato (VI, 8, v.11 e ss.). Notevoli poi sono i rimandi alla musica e precisamente all’incontro, si direbbe polifonico, di più voci, di più colori ma anche di ritmi: qui il passo più degno di studio si ha nel carme 9 del secondo libro, con il possibile pensiero rivolto a uno strumento a canne (vv.55-62; v. anche App. 19, vv.7-8: 92

Mitis in aure sonus suavi dulcedine tinnit,/ organa vocis habens mitis in aure sonus). Ed è ben noto il confronto che egli istituisce tra strumenti di culture diverse (VII, 8, vv.61-64; cfr. X, 11, vv.1-6).

3. Luce e arte

Tra colori e immagini Venanzio Fortunato coglie con particolare attenzione quelle figure che si presentano intrinsecamente preziose nelle forme, negli aspetti e soprattutto nelle luci: qui egli si accosta una volta di più a un modo di sentire e d’immaginare distintivo dell’estetica bizantina o ancora paleobizantina, per la quale viene ricercata la bellezza brillante dell’oggetto attraverso la preziosità dei materiali impiegati, come gemme, smeraldi, ori e così via. La preziosità luminosa ancora una volta soddisfa tendenze all’astrazione dell’immagine di derivazione naturalistica e a forme o piuttosto a sensazioni godute quasi irrazionalmente. Le stesse figure umane, specialmente quelle femminili, vengono talora esaltate con immagini e luci tratte da questo repertorio: texerunt gemmae qua caro nuda fuit: / brachia nobilium lapidum fulgore coruscant / inque loco tunicae pulchra zmaragdus erat (I, 3, vv.16-18; cfr. VI, 1, vv.101-112; II, 10, vv.11-16; III, 20, vv.3-4; VIII, 3, vv.29-31, 268-281: Sardoniche impressum per colla monile coruscat, / Sardia purpurea luce metalla micant; cfr. VIII, 4, vv.16-22; cfr. Append., 1, vv.7-8). È stato più volte rilevato questo grande amore del poeta per la luce che si traduce in immagini luminose e nella frequenza di verbi come emicat, coruscat, nitet, radiat, micat, rutilat. Dell’eloquenza splendente d’un oratore è detto che lux vibravit (III, 4 v.2) e molto spesso ritornano, oltre ai casi già citati, metafore affidate alla luce: ad esempio in Praef. 3; in I, 15, v.23; III, 3, 7-8, 31-32; III, 5, v.2; III, 6, v.20; III, 11, v.1; III, 15, v.38; V, 3, vv.36 e 40; VII, 1, vv.25-26: fulgore animi radios a pectore vibras / et micat interior lux imitata diem. La luce, che è oggettivamente percepita e goduta, e talora è l’occhio stesso (III, 7, vv.21-22; V, 5b, v.5; V, 6, v.21), è spesso metafora spirituale; è l’immagine che di diritto viene attribuita al sovrano e naturalmente al cielo. Qui occorre dire che Venanzio non mostra di godere tanto della luce perché aveva rischiato di perdere la vista29 come vorrebbe l’Amatucci30: è la stessa cultura del suo 93

tempo che, pur dipendendo da Plotino, sente la luce quale strumento essenziale per far sprigionare dalle cose e soprattutto dalle opere d’arte i valori più alti e più significativi; basta guardare del resto alla descrizione che Procopio fa della basilica costantinopolitana di Santa Sofia (De aed., I, 1, 2931, 54 ss.) e, prima ancora, alle immagini che ricorrono nell’epigrafe di Giuliana Anicia per la basilica di San Polieuto e nella stessa scultura decorativa di questa basilica31. Lucidità delle superfici, con l’oro che riflette i raggi della luce, e colorismo intenso e brillante, in ispecie nella scultura architettonica (capitelli, cornici ecc.), sono mezzi che proprio nell’età di Giustiniano trionfano mirando a una visione coerentemente bidimensionale, antiplastica dunque e antivolumetrica: ne sono testimoni il ricordato Procopio e Paolo Silenziario32. Venanzio Fortunato ricorre con tanta insistenza a immagini di luce che non è da escludere che ne abbia voluto tener conto Paolo Diacono quando compose quell’epitaffio (H.L., II, 13) in cui egli parla di carpere lucis iter, di tantis decoraris gemmis e di gemmis, lumine de quarum nox tibi tetra fugit.

4. Architettura paleobizantina

Sono già stati più volte citati i passi in cui Venanzio Fortunato sente la bellezza dell’architettura in quanto definita ed esaltata dalla luce: Emicat aula potens divino plena sereno (I, 9, v.19; cfr. III, 3, vv.7-8); Emicat aula decens venerando in culmine ducta (I, 4, v.1-3; cfr. I, 9, v.19; I, 12, v.1 e 11-13; I, 15 passim ); Splendida marmoreis attolitur aula columnis / et quia pura manet, gratia maior inest (II, 10, 11-16; cfr. II, 12, v.1; II, 13, vv.1-4 e 9; III, 3, vv.7-8; III, 7, passim; VIII, 4, 17-22); Ardua quae rutilo nituere ornata metallo, / pallidus oppressit fulgida tecta cinis (App., I, vv.7-8). Indipendentemente da un pur utile confronto con la descrizione delle architetture uscita dalla penna di Gregorio di Tours33, molti spunti, non soltanto retorici, si possono cogliere nei versi fortunazianei che riguardano edifici nei loro valori architettonici: si riscontra ciò in modo speciale, com’è ovvio, nel gruppo di ventuno carmi raccolto nel libro primo. La basilica di San Nazario a Vernemetum (I, 9), proprio perché era un martyrium, doveva avere sì una pianta centrale ma non necessariamente circolare (p. 121). Particolareggiata e tecnicamente sicura è la descrizione 94

della basilica di Nantes (III, 7), della quale si indicano le tre navate e altre caratteristiche, quali torri merlate, archi, cuspidi (p. 199, cfr. note 20, 23) e navate: resta da vedere se ciascuna navata si concludesse con un altare, uno per Sant’Ilario e l’altro per San Ferreolo (p. 201, n. 26) o se piuttosto non si debbano vedere mosaicate o dipinte le rispettive storie sulle pareti che dividevano la navata centrale dalle navate laterali, un po’ come si vede ancora in Santa Maria Maggiore a Roma34. Altrove (III, 14, vv.21-24) si allude ugualmente a mosaici e a un ordine o galleria superiore. Di riflessi d’oro (obsceno melior lux aurea plumbo: IV, 26, v.129) si fa cenno più volte (cfr. VIII, 1, vv.36-38). Il ricordato carme per la basilica di Nantes (III, 7) descrive dapprima l’esterno (fino al v.46) e soltanto dopo l’interno, per cui la luce dei riflessi (al punto che si parla di sidus ) rimbalza sulla copertura metallica (probabilmente di piombo o di peltro più che di stagno), sicché il viandante può credere di vedervi le stelle (terram stellas credit habere suas, vv.4546). Le finestre sono ampie (si direbbero ancora classiche) di modo che anche l’interno può essere invaso dalla luce che rimbalza dalle superfici lucenti dei mosaici: quando sopraggiunge la notte sembra che la luce rimanga imprigionata e che continui a essere emanata rimbalzando da quelle superfici brillanti. È questo uno dei topoi più cari a Venanzio Fortunato, con precedenti peraltro in un’epigrafe della basilica vaticana relativa all’opera di papa Simmaco (498-514) e alludente all’inclusum diem fulgore perenni, sicché cuncta micant35. Più chiaro ancora è il concetto nell’epigrafe musiva che corre nel vestibolo della cappella arcivescovile di Ravenna e che risale ugualmente ai primi anni del secolo sesto: Aut lux hic nata est, aut capta hic libera regnat. L’epigrafe ravennate fu senza dubbio letta direttamente da Venanzio Fortunato (pp. 74-75). In base a questa smaterializzazione della struttura architettonica, a cui concorrono le tessere musive in oro e il colorismo vibrante ed antiplastico, Procopio poté vedere la cupola di Santa Sofia quasi agganciata alla volta celeste, tanto leggera cioè da non presupporre un sistema di sostegni e di contrafforti o di controspinte che pure una calotta così ribassata esigeva36. Molte sono le varianti in Venanzio Fortunato sugli stessi presupposti e con gli stessi criteri concettuali e allusivi. Sine nocte manet continuata dies. Invitat locus ipse Deum sub luce perenni (I, 1, vv.11-13; cfr. I, 15, v.48 e 56: nox ubi victa 95

fugit semper habendo diem ); artificis manu clausit in arce diem (II, 10, vv.13-14); tempore quo redeunt tenebrae, mihi dicere fas sit, / mundus habet noctem, detinet aula diem (III, 7, vv.47-50); placet aula decens, patulis oculata fenestris, / quo noctis tenebris clauditur arce dies (X, 6, vv.89-92); confessores gemmata palatia complent / aeternumque tenent aurea tecta diem (X, 7, vv.22-25). Il passo più completo può essere indicato nel carme XXIII del libro terzo (vv.15-16): Candida sincero radiat haec aula sereno / et, si sol fugiat, hic manet arte dies; qui c’è un preciso richiamo all’opera dell’artista. A questo proposito sono da leggere i passi in cui il poeta si riferisce all’arte come tecnica: premesso che l’arte e la fede concorrono a rivelare il Creatore (III, 20, v.4: ista placere magis ars facit atque fides), oltre che a rendere più gradevole il mondo visibile, il poeta mostra di apprezzare la tecnica applicata all’arte in quanto tale: Ingenio perfecta novo tabulata coruscant (I, 12, v.17); Exilit unda latens vivo generata metallo / dulcis et inriguo fonte perennis aquae (dove vivo vuole essere non la purezza ma la vivacità dell’acqua, la verosimiglianza: ma cfr. p. 139). Il gusto raffinato è già bizantino: VIII, 3, vv.268-280; cfr. II, 10, v.5; X, 7, vv.22-25; X, 10, vv.11-12. Si fa cenno anche ad opere d’arte alquanto elaborate, a piatti d’argento (VII, 24), a mense mobili in marmo (quasi del tipo a “sigma”: IX, 10, vv.9-14; cfr. XI, 10, v.5), a sete ricamate o da ricamare (App., 3, vv.17-18). Ed è curiosa la preferenza per l’intaglio nel legno rispetto all’uso del marmo scolpito (IX, 15, vv.1-2): il legno si direbbe più idoneo a effetti coloristici come, per esempio, avviene nelle cornici lignee delle porte di Sant’Ambrogio di Milano. I tempi erano maturi per apprezzare le forme che obbediscono in primo luogo alla fantasia: egli fa sue le parole di Flacco: Pictoribus atque poetis / quaelibet audiendi semper fuit potestas (V, 6, 7): il passo è importante nella sottolineatura dell’ardimento nelle creazioni artistiche, per cui, tanto nella poesia quanto nella pittura, tutto è lecito. Qui poi lo schema (33x33: carmen quadratum) è arte in quanto virtuosismo più che corrispondenza col mondo visibile. Parlando poi di un’architettura vistosa, il poeta rileva il gioco abile nell’invenzione delle forme da parte dell’architetto e del suo scultore: et sculpturata lusit in arte faber (IX, 15, v.9). Non poteva però rimanere estraneo a un’abilità che fosse ancora al servizio della verosimiglianza: Ingenio perfecta novo tabulata coruscant / artificemque putas hic animasse feras (1, 12, vv.17-18: è pur sempre un ingegno che rin96

nova qualcosa). Vitibus intextis ales sub palmite vernat / et leviter pictas carpit ab ore dapes (III, 13c, vv.1-2): è sempre descrizione di un soggetto convenzionale (Parrasio) ma riproposto dapprima da tanta pittura ellenistica e romana e poi adottata, sempre più con significati simbolici e con intenti pedagogici, dall’arte paleocristiana. I colori danno illusione di vita alle figure: Lucidius fabricam picturae pompa perornat, / ductaque qua fucis vivere membra putes (X, 6, vv.91-92). Venanzio Fortunato sente vivamente la differenza tra l’oggettività delle cose e il piacere dell’immagine o del ricordo: Cum forma fugit, dulcis imago redit (VI, 5, v.198). Tornano qui opportune le parole dette da Curtius proprio a proposito di Venanzio Fortunato: “Fra arte e artificio i confini sono vaghi. (...) Di solito l’artificiosità è ritenuta fenomeno di decadenza, di degenerazione dell’arte. Ma può verificarsi anche l’opposto (...): il manierismo formale della tarda antichità agisce allora sulle capacità tecniche come uno stimolo e sollecita l’ambizione artistica. Si cerca così di trarre dalla lingua ogni effetto possibile e si raggiungono esiti nuovi e positivi”37. Lo stesso tipo di giudizio viene imposto dall’analisi degli orientamenti estetici e formali impressi nel secolo sesto all’arte. Nel superamento di convenzioni antiche, tendenti a inaridirsi fossilizzandosi, in quel secolo il mondo dell’arte, specialmente per gli impulsi e per i modelli che provenivano da Costantinopoli, acquistò nuovi equilibri con ricuperi ragionati che sembrerebbero sollecitati da spinte neoclassicistiche o puristiche: ma il distacco dai presupposti antichi, già prevalenti lungo la tarda antichità, incoraggiò a proporre forme cariche di tensioni espressive e quasi barocche, sostanzialmente e strutturalmente estranee a criteri naturalistici38. In questo clima si collocano e si spiegano molto bene la figura e l’opera di Venanzio Fortunato: giunge qui utile anche il parere di Auerbach: “Venanzio padroneggia tanto il manierismo della tarda classicità quanto le forme più semplici del sermo humilis cristiano”39. Nel suo amore per il mondo visibile e nel suo bisogno di verosimiglianza Venanzio si sente attratto dal naturalismo, che giudica per convenzione più idoneo a intenti pedagogici, per la migliore “comprensibilità” e persuasività: eppure non prevalgono in lui gli intenti pedagogici o didascalici nel senso convenzionale e giustificativo delle immagini; il che non esclude attenzione nel suo elogium ai valori morali lodati e proposti40. 97

Nonostante una sua condiscendenza verso estetismi goduti apertamente, si sentono echi agostiniani nel rapporto tra bellezza e verità in Dio41. Ciò non comporta per lui una giustificazione delle immagini in senso allegorico e pedagogico ma nemmeno la rinuncia alle stesse a favore di soluzioni aniconiche: egli semmai gode da virtuoso dei valori formali, tecnici e simbolici, senza forzature pedantesche ma con frequenti allusioni. Egli distinguerà la suggestione ottica, grazie all’evidenza prodotta dalla luce, dall’interpretazione sul piano concettuale, messa in risalto invece da una luce interiore.

5. La croce

Quando, meno di trent’anni fa, si è scoperta a Grado una considerevole reliquia della Croce, celata in una teca senza dubbio costantinopolitana, e si è potuta interpretare la cosiddetta cattedra veneziana di San Marco come ostensorio per la stessa reliquia e per la sua stauroteca, si sono potute leggere le figurazioni ivi scolpite in funzione di quella interpretazione e si è richiamata proprio l’opera in versi di Venanzio Fortunato per la Croce di Cristo e la donazione del 569 di Giustino II a Radegonda42. Gli studi successivi hanno confermato anche con nuovi argomenti l’importanza di quella scoperta e la fondatezza di quell’interpretazione ma anche la stretta affinità della stauroteca di Grado con la stauroteca di Poitiers43. D’un’altra stauroteca con gemme, donata nel 576 da Ragnemodo a Radegonda e ad Agnese parla Venanzio nel carme X del nono libro (vv.13-14). Molti altri sono i riferimenti al culto della Croce nell’opera di Venanzio Fortunato (pp. 29-31), incominciando dai carmina figurata (II, 4 e 5) e dalla dedicazione del monastero alla Santa Croce: il frammento di mosaico44 con le parole iniziali del carme O Crux a(ve) presenta con grande chiarezza i caratteri dell’età di Giustiniano per il ricorso a palmette e matasse organizzate in un modo particolare, che si direbbe prolungamento in terra franca di una stagione molto ben documentata nell’Italia settentrionale, tra Pola e Ravenna, passando per Grado, e nell’Africa bizantina, di modo che viene da pensare forse anche a una mediazione dello stesso Venanzio Fortunato. Lo stesso genere di mosaici si riscontra anche a Trento, addirittura in età longobarda45. Altrove (II, 2, v.29; II, 4) Venanzio paragona la croce a 98

una nave come aveva fatto già Cromazio d’Aquileia46, ma non soltanto lui, e ricorda veli su cui erano ricamate croci (II, 3, vv.17-18). Ma tra le figurazioni venanziane relative alla Croce almeno due possono essere ricordate perché con singolare coerenza trovano corrispondenza nella “cattedra” gradese-veneziana: nel dossale di questa “cattedra” compare un agnello sospeso a mezz’altezza contro un albero, proprio come dice il secondo carme del secondo libro (vv.18-19): Passioni deditus / agnus in crucis levatur immolandus stipite. È questa la figurazione che, più di tutte quelle scolpite sulla “cattedra”, autorizza a vedervi un ciclo legato al culto della croce. Non meno pertinente è però un altro passo che parla della Croce come pianta carica di frutti (Fertilitate potens, o dulce et nobile lignum, / quando tuis ramis tam nova poma geris, II, 1, vv.9-10): gli alberi e gli arboscelli scolpiti all’esterno della “cattedra” gradese sono coronati piuttosto da frutti che da foglie o da fiori. Ad abundantiam si potrebbe ricordare l’immagine tutta paleocristiana che ricorre poco oltre (vv.17-18): Appensa est vitis inter tua brachia de qua / dulcia sanguineo vina rubore fluunt; salvo che il poeta sostituisce i mistici quattro fiumi, che sgorgano dai piedi dell’albero, con il flusso del vino-sangue. Le coincidenze qui rilevate a questo proposito hanno sullo sfondo una comune cultura figurativa, in vigore tanto in Occidente quanto in Oriente, ma possono essere assunte anche a confermare affinità di scelte da parte del venetoaquileiese Venanzio Fortunato. Nell’area aquileiese e gradese avrebbe avuto in seguito grande importanza il culto della Croce e forse vi contribuirono proprio i monumenti gradesi appena ricordati, e cioè la “cattedra” e la relativa stauroteca, sicché tornò precocemente utile e cara l’introduzione dei carmi fortunazianei nella liturgia locale e poi universale47. Le due stauroteche inviate da Costantinopoli, quella di Poitiers nel 569 da Giustino II e quella di Grado nel 628 da Eraclio, hanno parzialmente in comune ragioni e scopi di quei doni con cui gli imperatori volevano sì onorare le rispettive città, con le loro autorità politiche ed ecclesiastiche, ma anche farne degli avamposti “romani” verso il mondo barbarico. Nel caso di Poitiers Venanzio Fortunato interpreta il dono quasi come una correzione della rotta già seguita da Giustiniano, per cui egli e il suo entourage potevano passare dalla condizione di avversari e di estranei a quella di possibili amici o collaboratori; in tal caso soltanto tornerebbero accettabili alcuni degli argomenti di Jaroslav Šašel48. Nel 99

caso di Grado, dove il patriarca di Aquileia era rientrato nella fede romana, mentre la sede ufficiale di Aquileia voleva persistere nell’opposizione tricapitolina, il dono d’una parte della reliquia, di quella Croce che Eraclio aveva ricuperato sconfiggendo i Parti, rappresentava un pegno o un palladio per quel castrum che allora compariva più romano che mai49 e che avrebbe dovuto assolvere, nei progetti imperiali, un compito politico e storico di fronte al regno longobardo in Italia.

Note

(1) Enciclopedia dell’Arte Medievale, XI, 2000, fig. a p. 342. (2) J. Hubert, J. Porcher, W.F. Volbach, L’Europa delle invasioni barbariche, Milano 1968, fig. 49; ma cfr. M. Veillard-Troiékouroff, Les monuments religieux de la Gaule d’après les oeuvres de Grégoire de Tours, Paris 1976, pl.X,40. (3) A questo proposito ci si permetta qualche osservazione non sostanziale: in I, 19, v.11 vivo metallo sarebbe da tradurre con “metallo mobile”, trattandosi di un liquido; a p. 172 (IV, 14, v.6) fortis (e non fortes) si dovrebbe riferire a Maurizio; a p. 246 (IV, 6, v.5) consulat dovrebbe tradursi con “ispiri”; p. 296 (V, 5b, v.5) lumine perspicuo potrebbe alludere non a una “luce diafana” ma a una “luce trasparente” in senso attivo, che fa conoscere (cfr. il senso opposto nel v.25); p. 648 (App. 13, v.8) si legge tegunt oppure tegent? Si comprende la perplessità circa il carme XIV del l. II (p. 175, n. 44), non foss’altro per il modo con cui sono costruite le oggettive, che non è proprio fortunazianeo; a proposito di questo aggettivo (cfr. p. 68 e alibi) sarebbe da preferire questa forma all’altra (fortunaziano) in analogia con giustinaneo o massimianeo. L’edizione italiana si completa con due cartine (p. 672) del regno franco tra 561 e 587: omettono troppi luoghi di Fortunato, tra cui Tours e Poitiers. Vigilio, se era stato vescovo di Trento alla fine del secolo quarto, non poté essere assassinato attorno al 500 (p. 111, n. 11). Sono infine da controllare le date dell’adozione della regola di San Cesario: cfr. p. 30 (n. 84), p. 425 (n. 4), pp. 430-431 (n. 11). (4) Salvo che pochi episodi (es. pp. 87, 277, 305) l’edizione segue l’autorità di Reydellet. (5) L. Pietri, Fortunat et ses commenditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale (Settimane del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XXV), Spoleto 1992, p. 735. (6) Pp. 23-25, n. 56; Praef. 4. (7) Non è il caso di riprendere né tanto meno di riproporre la tesi di J. Sˇasˇel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, in Aquileia e l’Occidente, “Antichità Altoadriatiche” 19, 1981, pp. 359-375; cfr. L. Pietri, Venance Fortunat, cit., pp. 737-739. Quando Venanzio, nel 565, si allontanò dall’Italia e si rivolse oltre le Alpi, il suo viaggio non poteva significare una preferenza “strana” per certi luoghi e per le genti che tre

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anni dopo sarebbero giunte in Italia (p. 26): egli non poteva saperlo già. Ciò non toglie che più tardi fosse a sufficienza informato della “gravità” dell’occupazione longobarda (VII, 20, v.11). (8) S. Tavano, Aquileia e Grado. Storia, arte, cultura, Lint, Trieste 1996 (2ª ed.), pp. 356-357. (9) A. Roncoroni, L’epitafio di S. Agrippino nella chiesa di S. Eufemia ad Isola, in “Rivista archeologica dell’antica provincia e diocesi di Como” 162, 1980, pp. 99-149; S. Tavano, Como, Aquileia, Gorizia, in “Memorie Storiche Forogiuliesi” 70, 1990, pp. 31-39; G. Cuscito in Patriarchi (cat. a c. S. Tavano e G. Bergamini), Skira, Milano 2000, pp. 153-155. (10) R. Bratozˇ, Ecclesia in gentibus, in Grafenauerjev zbornik (c. V. Rajsˇp), Ljubljana 1996, pp. 205-225. (11). Non si può dire che dalle sue parole non traspaiano forme d’affetto verso Aquileia bensì verso il suo vescovo: ci si chiede se siano scindibili i due oggetti del suo affetto (p. 16, n. 5 e 7); cfr. la Vita Martini, 4, 656-662. (12) Questo Iohannes sarebbe succeduto però al Virgilius-Bergullus che firmò i documenti del sinodo di Grado del 3 novembre 579: cfr. F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (a.604), Faenza 1927, p. 912; cfr. R. Bratozˇ nel contributo ospitato in questi stessi Atti: note 37, 39 e 50. (13) J. Riedmann, in Geschichte des Landes Tirol, I, Bozen 1990 (2ª ed.), p. 250. (14) G. Cuscito, Cristianesimo antico ad Aquileia e in Istria, Trieste 1977, pp. 93-97. Stefano Di Brazzano (p. 437, n. 24) dice che “Felice e Fortunato, vicentini, prestavano servizio militare ad Aquileia”, ciò che non risulta dalla bibliografia citata. (15) F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia, cit., p.969. (16) Si veda la nota 2 a p. 147; S. Tavano, Tensioni culturali e religiose in Aquileia, in Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia romana, “Antichità Altoadriatiche” 29, 1987, pp. 211 ss. (17). V. Peri, Chiesa e cultura religiosa, in Storia della cultura veneta, I, Vicenza 1976, pp. 190-191; S. Tavano, Tensioni culturali, cit., pp. 214-215. (18) G. Biasutti, Otto righe di Rufino, Udine 1970; V.Peri, Rufino e il simbolo della Chiesa di Aquileia. La tradizione culturale del simbolo apostolico nella ’stilizzazione storica’ occidentale, in Aquileia romana e cristiana fra II e V secolo, “Antichità Altoadriatiche” 47, 2000, pp. 223-243. (19) Otto sono i nomi ricordati da Venanzio che ricorrono tra i dodici di Parenzo, mentre sono dieci tra i venti di Ravenna. (20) J. Sˇasˇel, Il viaggio, cit., pp. 372-379 e n. 50; L. Pietri, Venance Fortunat, cit., pp. 737-739; cfr. VII, 8, vv.61-62. (21) L.1, I, v.11: ma solido metallo sarebbe da interpretare quale “mosaico compatto” o “liscio” (anziché “massiccio”): è mosaico. (22) S. Tavano, Le proporzioni nelle basiliche paleocristiane dell’alto Adriatico, in ”Quaderni Giuliani di Storia”, 3, 1982/I, pp. 14-19. (23) III, 11, vv.21-22: vetusta dovrebbe tradursi con ”decadente” non con ”antica”, cfr. pp. 212-213. Al passo I, 12, vv.3-4 (aula conruerat senio dilacerata suo) a Grado corrisponde senio fuscaverat aetas. (24) A. Carlini, L’epigrafe musiva di Elia nella basilica di Sant’Eufemia a Grado, in ”Civiltà Classica e Cristiana” I,2, agosto 1980, pp. 259-269. (25) A proposito di citazioni, il Di Brazzano segnala regolarmente in nota gli autori e le opere da cui Venanzio trasse spunti, idee o immagini: nel primo carme dell’Appendice (v.169) ricorre un Christe fave votis, esattamente tratto dal Carmen paschale di Sedulio (I, 351), uno degli autori da lui più usati; lo stesso emistichio sarebbe stato ripreso nell’epigrafe dipinta del Tempietto longobardo di Cividale: S. Tavano, Il Tempietto longobardo di Cividale, Ed. longob., Udine 1990, p. 81. (26) B. De Gaiffier, S. Venance Fortunat, évêque de Poitiers. Les témoignages de son culte, in “Analecta Bollandiana” 70, 1952, pp. 262-284. (27) Come si è anticipato, lo stesso Venanzio si guardò bene dal ricordare le sue antiche simpatie. (28) S. Tavano, in Patriarchi, cit., p. 144. (29) L’esperienza personale è invece ben riflessa in II, 16, vv.139-156.

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(30) Appunti fortunaziani, in Studi dedicati alla memoria di Paolo Ubaldi, Vita e Pensiero, Milano 1937, pp. 363 ss. (31) R.M. Harrison, Excavations at Saraçhane in Istanbul, Princeton Univ. Press 1986. (32) Ekphrasis, 374; C.Mango, The Art of the Byzantine Empire (3121453). Sources and Documents, Eglewood Cliffs 1972; S. Tavano, Singolarità dell’architettura di Giustiniano, in “Arte in Friuli - Arte a Trieste” 5-6, 1982, pp. 65-88. (33) M. Vieillard-Troiékouroff, Les monuments, cit.: qui si ragiona per tipi su basi archeologiche anziché storico-formali. La visione di Fortunato appare superiore a quella di Gregorio e riflette un’attenzione non localistica, dal momento che parte da una bella esperienza italiana (pp. 391-393 e passim); v. anche L. Pietri, Pagina in pariete reservata: épigraphie et architecture religieuse, in Atti del Colloquio AIEGL, 86, 1988, pp. 137-157. (34) Ma cfr. p. 513, dove si paragonano i dipinti sulle pareti ai moderni quadri della Via Crucis, anziché al caso romano appena citato o ai mosaici lungo le pareti di Sant’Apollinare Nuovo o gli affreschi più tardi a San Giorgio (Reichenau). Si vedano inoltre: p. 198 per l’accenno ad una cupola probabilmente costolata; p. 218, per la galleria e per i mosaici del San Gereone di Colonia. (35) B. Patera, La letteratura sull’arte nell’antichità, Palermo 1975, pp. 93-97. (36) S. Tavano, Singolarità, cit. (37) E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, Firenze 1992 (ed. it.), p. 430. (38) Ad esempio: S. Tavano, Considerazioni sui mosaici nella “Venetia et Histria”, in Aquileia nella “Venetia et Histria”, “Antichità Altoadriatiche” 28, 1986, pp. 250-258. (39) E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano 1960, p. 69. (40) L. Pietri, Venance Fortunat, cit., p. 749. (41) Conf., VII, 17, 23. (42) S. Tavano, Le cattedre di Grado e la cultura artistica del Mediterraneo orientale, in Aquileia e l’Oriente mediterraneo, “Antichità Altoadriatiche” 12, 1977, pp. 445-489; D. Gaborit-Chopin, in Il tesoro di San Marco (Catalogo), Milano 1986, pp. 106-113. (43) Byzance. L’art byzantin dans les collections publiques françaises, Paris 1992, p. 326; E. Marocco, Il tesoro del Duomo di Grado, Fachin, Trieste 2001, pp. 20-23. (44) H. Stern, Mosaïques des pavements préromans et romans en France, in ”Cahiers de Civilisation Médiévale”, 5, 1962, pp. 16-17. (45) S. Tavano, La basilica vigiliana: mosaici e tipologia, in L’antica basilica di San Vigilio in Trento (c. J. Rogger, E. Cavada), Trento 2001, pp. 413-436. (46) Chromatii Aquileiensis Opera, c. et st. R. Étaix-J. Lemarié, C.C., s.l., IX/A, 1974, Sermo XXXVII, 5-11 (p. 164). (47) S. Tavano, La ”cattedra” di S. Marco e la stauroteca di Grado, Gorizia 1975. (48) J. Sˇasˇel, Il viaggio, cit. (49) V. “Antichità Altoadriatiche” 32, 1988, pp. 261-266 e n. 27.

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SOFIA BOESCH GAJANO Università degli studi Roma Tre

L’agiografia di Venanzio Fortunato Premessa

Questa mia relazione ha la fortuna di essere stata pensata e pronunciata all’interno di un contesto storiografico, che già da tempo dedica la sua attenzione a questo scrittore e che ha contribuito a risolvere molti problemi e a illuminare molti aspetti della sua biografia e della sua produzione.1 Posso riservarmi allora un compito limitato: una riflessione sulla fisionomia di agiografo di Venanzio Fortunato, a partire dalla varietà dei generi letterari usati per celebrare i santi, e qualche osservazione sul rapporto fra autore, personaggi, committenti e fruitori. Spero, pur nei limiti indicati, di contribuire a meglio definire il posto spettante allo scrittore nella storia dell’agiografia.

1. Santo per meriti agiografici?

Venanzio Fortunato non ha avuto l’onore di una biografia. Né in vita né in morte, colui che tanto aveva scritto e che attraverso i suoi scritti tante relazioni aveva intessuto con intellettuali in grado di tramandare memoria del suo itinerario culturale e religioso, è stato oggetto di una specifica attenzione. Si può forse osservare come molte sue inclinazioni, conosciute attraverso la sua stessa testimonianza, non dovessero risultare le più idonee per un’elaborazione agiografica: “le caratteristiche di uomo di mondo del poeta sono ampiamente testimoniate, le sue doti di estroverso fascinatore, di brillante interlocutore, di facondo commensale rimandano l’immagine di un uomo sensibile ai piaceri terreni anche dopo avere preso i voti, non alieno da cortigianerie per mantenere privilegi, agli antipodi quindi di una figura ascetica quale doveva essere quella di chi si considera sulla terra solo transeunte per conseguire beni spirituali”2. 103

Questo non impedì l’emergere di un culto,3 le cui testimonianze evidenziano, come componente essenziale, la sua attività di agiografo. Paolo Diacono si era recato a pregare sulla tomba del vescovo e in quell’occasione aveva composto, su richiesta dell’abate di S.Ilario, un epitaffio: sono proprio le sue doti di scrittore a emergere nel suo testo, che, alle lodi proprie del genere, aggiunge quelle che sentiamo dettate da una ben informata consapevolezza della sua ‘specializzazione’: “Cuius ab ore sacro sanctorum gesta priorum/ Discimus: haec monstrant carpere lucis iter”.4 La scrittura agiografica appare dunque in Paolo Diacono come un elemento strutturante l’identità del personaggio. Anche quando Alcuino celebra il vescovo, l’accento batte di nuovo sulla produzione agiografica: “Fortunatus enim vir, decus ecclesiae,/ plurima qui fecit sanctorum carmina metro,/ Concelebrans sanctorum carmina metro, concelebrans sanctos laudibus hymnicidis”.5 I meriti agiografici hanno stinto, per così dire, sulla fisionomia del personaggio, favorendone la fama sanctitatis: e a buon diritto. Venanzio Fortunato ha infatti costruito con gli strumenti ancora così ben padroneggiati della lingua e della cultura classica un orizzonte agiografico, che, pur centrato su quella parte dell’Occidente che era divenuta la sua patria di elezione, non aveva perduto il senso di una dimensione geopolitica universale, capace cioè di abbracciare tutto il mondo, dove si era diffusa la parola di Cristo e dove i santi, da vivi e da morti, avevano lasciato ben visibili le loro tracce; e, cosa ancora più importante, aveva saputo immaginare e descrivere una perfetta corrispondenza fra questo orizzonte agiografico terrestre e l’orizzonte agiografico celeste: terra e cielo si saldano nella rappresentazione di un unico universo popolato da figure sante e angeliche. Due sono i testi, che vorrei proporre a conforto di questa affermazione. Il primo è il famosissimo passo conclusivo della Vita Martini, con la descrizione del lungo viaggio dalla Gallia all’Italia che l’autore fa idealmente compiere alla sua opera, presentato come una sorta di percorso a ritroso del viaggio da lui stesso compiuto quando aveva lasciato Ravenna per la sua nuova patria, in un’audace simbiosi fra se stesso e la propria opera. Questo viaggio è stato puntigliosamente ricostruito in tutte le sue tappe, puntando sulla sua dimensione strettamente geografica e legando la scelta dell’itinerario con i motivi che avrebbero spinto il letterato ad abbandonare la patria: oltre al voto che avrebbe voluto compiere alla tomba di Martino, in ringraziamento di una guari104

gione, accreditata nell’opera come motivazione principale, gli storici hanno cercato di individuare motivi personali o politici legati al contesto in cui lo scrittore era vissuto e si era formato.6 Il viaggio ha sicuramente il carattere di un abbandono e di una rinuncia definitiva all’Italia, come nota giustamente il Rosada: “solidale con le idee delle chiese scismatiche e soprattutto di Aquileia, Fortunato, per indole e cultura, non ebbe probabilmente l’animo e la forza per combattere la politica imperiale drasticamente ostile ai Tre Capitoli e di conseguenza agli esiti del vecchio concilio di Calcedonia. Pertanto la partenza è sin dal principio una scelta di non ritorno, dal momento che è anche una scelta di campo inespressa, che riconosce la propria debolezza a resistere e a opporsi alle trasformazioni incombenti”. Così, sempre secondo la suggestiva espressione dell’autore, si può parlare un “itinerario/ non itinerario, in quanto la realtà ‘cartografica’ resta sullo sfondo e si mescola all’urgenza del messaggio e del valore simbolico: un itinerario ‘ideologico’ e poetico dunque, in larga misura dichiaratamente fittizio”.7 Questo itinerario si carica di significati proprio attraverso i riferimenti ai santi. L’orizzonte all’interno del quale il poeta colloca la sua vita e la vita della sua opera è un orizzonte, dove passato e presente si uniscono per costituire il tessuto di una geografia sacra che continua a unire Oriente e Occidente, al di sopra – senza tenere conto, cioè – delle nuove realtà politiche: Martino di Tours; il vescovo Germano, suo contemporaneo, e l’antico vescovo e martire Dionigi di Parigi; i santi vescovi Remigio di Reims e Medardo di Soissons; ad Augusta la martire Afra; i martiri Canziani e il martire Fortunato ad Aquileia – città per la quale non rinuncia all’affettuoso ricordo del vescovo Paolo –, i santi Agostino e Basilio a Concordia, S. Giustina a Padova, presso il cui sepolcro si trovano gli affreschi relativi a Martino; infine Vitale, Ursicino e Apollinare nella città di Ravenna, i cui santuari sono degni di particolare venerazione, e ancora, a conclusione, Martino, con il piccolo santuario a lui dedicato, dove il poeta era stato guarito e da dove era cominciato il suo viaggio ‘di ringraziamento’. Ma in realtà il cerchio non si chiude con il ritorno al luogo martiniano; piuttosto l’orizzonte si riapre con l’invito a diffondere i carmi in suo onore verso l’Oriente: “vai poi in cerca degli amici”, dice ancora rivolgendosi alla sua opera, “se parlerai con i miei compagni di studio, tu per la devozione meriterai il perdono: a costoro io offro questo argomento, perché con la parola armoniosa cantino splendidi carmi per le gesta di Martino e 105

con chiaro ingegno compongano versi da diffondere per l’Oriente”.8 Se qui l’orizzonte rimane saldamente legato a una geografia ‘terrena’ e a una dimensione personale, nel carme III del L.VIII il poeta lo estende dalla terra al cielo, così che esso assume una valenza insieme geografica e teologica, terrena e soprannaturale, non senza attenzione alle diverse categorie di angeli e santi che sono ora raccolti insieme in cielo, formando una schiera continuamente alimentata da nuove presenze: patriarchi, profeti, apostoli e santi, guidati da Pietro; nel pius ordo dei martiri primeggia Stefano; la vergine Maria guida una teoria femminile – Eufemia, Agata, Giustina, Tecla, Paolina, Agnese, Basilissa, Eugenia –, che si arricchisce di sempre nuove figure contemporanee del poeta. Stabilendo una perfetta corrispondenza fra cielo e terra, il poeta attribuisce poi a ogni terra o città un ruolo nell’incrementare la corte celeste: Venanzio costruisce anche qui una geografia sacra, in questo caso di carattere universale, che abbraccia tutto l’orbe cristiano.9 Dalla terra al cielo e dal cielo alla terra: il poeta ha costruito un universo agiografico che propone insieme una teologia e una geografia della santità. Qualche merito ha davvero acquisito per essere ricordato nella storia della santità cristiana.

2. Molte corde per uno stesso arco

L’educazione letteraria, com’è noto, ha permesso allo scrittore e poeta di padroneggiare una molteplicità di generi. Le sue doti di scrittore in poesia e in prosa sono state oggetto di molteplici autorevoli riconoscimenti, che non richiedono ulteriori commenti: dal Tardi, che ne fa l’ultimo grande rappresentante della poesia antica,10 a Luce Pietri, che ricorda la sua vocazione di musicus poeta, incarnazione di diverse figure come Orfeo, Virgilio, Davide, e parla di equilibrio fra obblighi professionali di poeta pubblico e esigenze intime di un artista che ubbidisce a un’ispirazione superiore, e lega la scelta di rimanere in Gallia al desiderio di risvegliare quei barbari alla civiltà come novello orfeo,11 fino a Marc van Uytfanghe, che ha recentemente e autorevolmente sancito che “la sua poesia nasce dalla vita e dall’esperienza diretta e, pur con alcune concessioni alla tradizione, presenta un carattere originale e personale”.12 La sua consapevolezza letteraria è ulteriormente prova106

ta proprio dalle frequenti dichiarazioni di inadeguatezza – un topos usato da tanti autori –, che tocca forse il culmine nella Vita Martini, dove non esita a evocare illustri pietre di paragone, Giovenco, Sedulio, Prudenzio, Paolino, Aratore, Alcimo, per dichiararsi “povero d’intelligenza, piccola parte della letteratura italica, appesantito per la feccia, modesto nella parola, lento di raziocinio, torpido di mente, mancante di abilità artistica, rozzo nella pratica, inesperto nel parlare, a caccia di minimi dettagli di un po’ di grammatica”.13 Tra i generi letterari uno dei più praticati è il genere agiografico, all’interno del quale si sono volute distinguere in maniera molto netta le opere in poesia, ritenute da più lungo tempo degne di attenzione,14 e le opere in prosa, più recentemente studiate dal Collins15 e valorizzate in particolare da Salvatore Pricoco, il quale ne ha messo in rilievo la consapevole discontinuità rispetto ai grandi modelli del passato, la varietà dei destinatari, la diversa modulazione degli elementi propri della tradizione ascetico-monastica e vescovile, e soprattutto il carattere di “scritti d’occasione e su commissione”, in stretta analogia con i carmi.16 Proprio questo riferimento permette di introdurre preliminarmente il tema, che definirei della ‘pervasività’ dell’agiografia, cioè la dimensione agiografica di composizioni appartenenti a generi letterari diversi. In altri termini: si ripropone anche nel caso di Venanzio il problema dell’identità del testo agiografico, un problema che coinvolge largamente la produzione tardoantica e altomedioevale, imponendo prudenza e duttilità nella definizione dei ‘generi’.17 La difficoltà di identificazione del genere letterario si pone peraltro in modo acuto per tutta la produzione venanziana, proprio perché i modelli letterari classici hanno spesso contenuti, funzioni, destinatari nuovi. È quanto bene mette in luce Paola Santarelli: “se per epitaffio intendiamo dei versi scritti in occasione di una morte, e per elegia un componimento poetico d’amore caratterizzato da un sentimento di contenuto dolore, di tristezza, di malinconia, e per consolatio quella particolare espressione che si era venuta codificando in poesia e in prosa per alleviare il dolore provocato da una morte e che per sua natura era condannata a essere stereotipa, ebbene questi tre generi letterari nel carme per Vilituta ci sono tutti ed è interessante vedere come e in che misura si susseguono, si intersecano e si sovrappongono”. “Libero dalle pastoie che l’ineluttabile necessità di cristianizzare il genere aveva dato al pontefice (Damaso)”, il poeta può avere “un rapporto più disinvolto 107

con i modelli classici di cui fruisce con maggiore autonomia, mentre è il suo peculiare modo di essere cristiano a rendere elastico il riferimento ai modelli cristiani.”18 Ma non si tratta solo di modelli letterari. È la stessa configurazione del personaggio celebrato a imporre rilevanti novità, aprendo la strada alla sua ‘agiografizzazione’: la sua fisionomia prevede non solo l’esaltazione delle sue doti morali, ma anche una loro proiezione aldilà della morte. A questo esempio possono essere accostati tanti altri carmi dedicati ai santi, a partire da quello citato sopra per mostrare la costruzione di un orizzonte agiografico unificante il cielo e la terra, e, forse ancora più interessanti come esempi di ‘sconfinamento’, quelli dedicati a personaggi ancora in vita che finiscono per configurarsi come vere e proprie piccole agiografie. Esemplare, fra i moltissimi, il carme in onore del vescovo di Colonia Carentino, “decus fidei, deitatis amice”, e ancora “vocis apostolicae sectator”, “pater populi”.19 I carmina sono stati giustamente considerati una testimonianza fondamentale per le funzioni del vescovo nella Gallia merovingia: pastore d’anime, difensore del suo popolo, intransigente paladino dell’ortodossia, caritatevole soccorritore dei bisogni dei poveri, solerte nell’opera di civilizzazione;20 qui interessa sottolineare soprattutto la labilità del confine fra encomio e agiografia. Circoscrivere la produzione agiografica del poeta trevigiano alle sole Vite dei santi risulta dunque limitativo e in parte falsante per il giudizio sull’autore e per la storia dell’agiografia. Inserite in una più ampia dimensione – utilizzando quell’idea di ‘pervasività’ sopra ricordata – esse acquistano un significato ben più generale, evitando che il giudizio sia legato esclusivamente alla loro dimensione ‘biografica’, secondo l’interpretazione del Berschin,21 con il rischio, per usare ancora la felice espressione di Giuseppe De Luca, di cercare ‘foto per tessera’ in testi interessati a dare un ‘ritratto d’immaginazione’.22 3. L’identità del santo: realtà e tipologia

Oggetto di attenzione delle Vite sono personaggi antichi, alcuni con un’autorevole tradizione al loro attivo, come nel caso di Ilario, il grande vescovo di Poitiers,23 altri meno illustri, cui anche Venanzio non riesce a dare una vera identità biografica, che non sia quella derivante dai miracoli compiuti: è il caso di Marcello, vescovo di Parigi, vissuto probabilmente alla fine del secolo IV, famoso soprattutto per il 108

miracolo della ‘cacciata’ del drago,24 e quel Severino, definito vescovo di Bordeaux e vissuto probabilmente nel secolo V, di cui parla anche Gregorio di Tours, ma che malgrado l’attenzione di ben due scrittori, non riesce a trovare una precisa consistenza storico-biografica.25 Si tratta anche di personaggi più recenti, come Albino vescovo di Angers, morto nel 550,26 Paterno vescovo di Avranches, morto alla fine degli anni 60 dello stesso secolo,27 Germano vescovo di Parigi, morto nel 576.28 Vi sono infine personaggi contemporanei, come si è visto nei carmina, tra i quali si colloca il caso eccezionale della regina Radegonda, per la cui fama di santità giocò un ruolo decisivo il prestigio dello scrittore.29 “In Venanzio colpisce l’assoluta indifferenza del cronista di fronte alla veridicità di quello che narra, afferma Franca Ela Consolino, con l’unica eccezione della Vita Germani, dove di tanto in tanto assicura di avere assistito a questo o quel miracolo. Perfino nel caso di S. Radegonda, accanto alla quale egli visse per anni, è difficile cogliere l’eco di quella esperienza diretta che pure c’era stata. Proprio la Vita Radegundis, paragonata ai carmi che il poeta compose per lei, permette anzi di stabilire fino a che punto il genere letterario condizionasse la scelta degli elementi cui dare rilievo. Nell’opera di Venanzio il condizionamento si avverte molto forte nella diversità di atteggiamento verso il soggetto: alla tensione affettiva e patetica che caratterizza i carmina si oppone la fredda obbiettività delle vite”. E nelle Vite dei vescovi la Consolino individua una griglia di topoi – nobiltà di nascita, abbandono della famiglia, virtù, elezione vescovile voluta unanimemente dal popolo e rifiutata per umiltà dal santo, vita ascetica, miracoli –, sostanzialmente “incapaci di comunicare informazioni effettive”, così da determinare la “completa perdita di identità del vescovo”.30 Venanzio ha certamente alcuni clichés letterari e agiografici che funzionano come passe-par-tout. Ma sarei più cauta nel parlare, nel suo come in tanti altri casi, di consapevole costruzione di ‘modelli’. Mi pare vada riconosciuta all’autore la capacità di intrecciare esperienze diverse -ad esempio l’accento sull’esperienza monastica per Paterno o piuttosto quella sulle funzioni del pastore di anime e di protettore del suo gregge o sulle doti oratorie di Germano di Parigi –, e diversamente modulare virtù e miracoli – virtù ascetiche distribuite a molti santi anche non coinvolti nell’esperienza monastica, come Severino, Marcello e Germano. E ancora riconoscere la coraggiosa esperienza agiografica rappresentata dalla Vita di Radegonda.31 109

Ma più che soffermarmi ulteriormente sui caratteri della santità in Venanzio, su cui tanto è stato detto, vorrei spostare l’attenzione dal personaggio, apparentemente oggetto principale della sua scrittura, alle modalità dell’approccio dello scrittore e ai personaggi ‘comprimari’ evocati nel testo. Caratteristica precipua del suo approccio è un’attualizzazione che distacca la sua scrittura agiografica dallo stile storico-narrativo. Va qui trovata probabilmente la ragione dell’indifferenza per i testimoni e per le modalità di trasmissione dell’evento narrato, che risultano in definitiva come segno del disinteresse dell’autore per la storia. Questo sembra vero persino nel caso dei miracoli, che in genere rappresentano, come ha felicemente ricordato Gilbert Dagron,32 il ‘presente’ del santo, l’attualità sempre rinnovata della sua ‘presenza’ taumaturgica, rispetto alla biografia che si riferisce alla sua vita passata, conclusa: in Venanzio questi sono parte di un discorso volto non tanto alla realtà di ciò che si racconta, quanto alle necessità o al desiderio del ‘committente’. “Memini, vir apostolice, dice rivolgendosi al vescovo Domiziano nella dedica della Vita Albini, cum ad urbem quam Christo presule regitis vestris praesentandus obtutibus occurrissem, inter reliquia maturitatis consulta quae sensus vester torrentis more mihi visus est inondare etiam de sacratissimo viro Albino vestro antistite vos ferisse tenuiter mentionem ut eius vita, quae immarcescibilibus meritis florere probatur caelestioribus impressa libellis ad aedificationem plebis humanis etiam fixa conderetur in chartis: duplici beneficio populis consulitura, dum et in illo cernerent admiranda quae colerent et in se respicerent quod unusquisque sagaciter emendaret id est dum apud unum tot praedicanda cognoscerent, apud se resecare vitia”.33 Venanzio pone le sue competenze letterarie al servizio di una causa altrui. Il suo fine è tendenzialmente celebrativo e celebrativo non solo e non tanto del santo oggetto della sua narrazione, ma della committenza, o forse meglio di un contesto ecclesiastico, sociale, religioso e spesso anche politico, di cui i santi da vivi e da morti sono divenuti ormai struttura portante. Si spiegano così non solo il disinteresse già ricordato per i dati biografici, ma anche i silenzi sulle malefatte e i crimini di quei personaggi alla cui corte viveva, o dei loro predecessori, cui, era ben noto anche a Venanzio, i santi si erano opposti o nei confronti dei quali avevano esercitato il loro potere di interdizione morale e le loro virtù taumaturgiche. Si spiega così il frequente apparire sulla scena di personaggi che definirei di ‘comprimari’ dei santi: non 110

solo vescovi, ma anche re e regine, dal profilo virtuoso e devoto, fino ai casi in cui i santi appaiono poco più di un pretesto per tessere le lodi dei re: è il caso di Medardo per mezzo del quale egli rende omaggio, ancora una volta, al re Sigeberto.34 Non il racconto di una storia, ma un testo funzionale a un contesto. L’agiografia di Venanzio Fortunato – intesa come produzione volta a esaltare, in varie ‘combinazioni’, pratica delle virtù, funzioni religiose e sociali, prestigio ecclesiastico, taumaturgia di personaggi passati e presenti –va dunque considerata all’interno dell’universo, che il poeta aveva scelto per la sua professione di letterato.

4. Committenti, destinatari e fruitori

Attraverso la scrittura Venanzio tesse una rete di relazioni, al centro della quale ritroviamo sempre l’autore stesso. “Fortunatus enim per fulgida dona tonantis, ne tenebris crucier, quaeso feratis opem”: la conclusione del carme in onore dei martiri agaunensi suona emblematico.35 La lode di un santo diviene l’occasione per lodare un re e attraverso la lode stabilire un rapporto privilegiato con il potere del sovrano.36 La Vita di un santo crea un legame privilegiato fra il vescovo suo successore, committente dell’opera, e l’autore. Questo tema presenta alcune varianti che meritano di essere ricordate. Verso Martino il poeta ha un antico debito di gratitudine, ben esplicitato alla fine dell’opera su cui mi sono soffermata sopra; la riscrittura della sua Vita è un omaggio personale. Ma il rapporto è per così dire riattivato attraverso due personaggi, Agnese e Radegonda, probabilmente le principali committenti dell’opera, come propone S. Quesnel37 e attraverso l’amicizia con Gregorio di Tours: “questi libri che io voglio offrire tramite voi al mio signore e pio signore Martino, se io stesso ne ho la possibilità, mi curerò di trascrivere tutti insieme sui quaderni che mi avete mandato: certamente gli chiederò che la sua clemenza, rinvigorita da voi, non cessi di intercedere per noi umili peccatori e suoi particolari devoti. Perdona, o dolce padre, perché a chi scrive la pioggia caduta d’estate ha bagnato un così brutto scartafaccio. Prega per me, o signore santo e mio dolce padre”. Una ‘triangolazione’, quella costituito da Martino, Gregorio e il poeta, di cui si hanno altri esempi, come nel carme in onore della santa Croce.38 111

L’importanza della committenza per tutta l’opera di Venanzio è cosa ben nota – richiamata anche sopra a proposito dell’interpretazione di Salvatore Pricoco –, posta nei suoi termini complessivi, insieme culturali e esistenziali, da Luce Pietri: “Il est beaucoup plus qu’un courtisan, habile à jouer sur les claviers des vanités ou des ambitions des puissants. Il est doté d’une sensibilité extremement receptive qui lui a permis grace à une assimilation très rapide, de s’intégrer à cette société gallo-franque que lui eté etrangère, de comprendre les represantants de son élite dirigeante, e, au sens premier du terme, de sympatizer avec eux, c’est à dire, de vibrer aux mêmes émotions et aux mêmes espoirs”; interpretando l’ideologia degli ambienti senatori della Gallia e il loro attaccamento a una tradizione di cui si sentivano gli eredi, ma apprezzando il nuovo mondo barbaro, Venanzio diviene, secondo la studiosa, testimone della fusione incipiente fra due etnie, riassunta nell’immagine di Clodoveo novello Mosè, che guida il popolo franco nuovo popolo eletto alla conquista della Gallia. Questa interpretazione non solo porta la studiosa a negare il carattere di circostanza delle opere religiose, rivendicando invece la sincerità dell’ispirazione, quasi novello Girolamo, o nuovo Davide, ma la induce a vedere in lui il poeta ispirato dall’amore per la Gallia, per il suo paesaggio, i suoi monumenti, gli amici, e soprattutto per i santi, che diventano i suoi patroni d’elezione e addirittura, nella sua interpretazione, i veri committenti di una produzione scritta essenzialmente a gloria di Dio.39 Se è vero, come ha osservato la studiosa, che il committente coincide quasi sempre con il destinatario, quasi sempre entrambi coincidono con il fruitore: il primo ‘fruitore’, colui cui spetta il compito del passaggio dalla scrittura all’oralità per esigenze pastorali.40 Con le sue agiografie in prosa – e propongo così di attenuare ulteriormente la netta distinzione fra agiografie in prosa e in poesia – Venanzio costruisce uno strumento, che sarà utilizzato da altri. Il riferimento al popolo non è mai diretto, ma sempre mediato attraverso il suo interlocutore. L’autore interagisce con il committente che è anche il suo destinatario e colui, che ne diverrà il primo fruitore: solo attraverso la sua mediazione l’esempio potrà servire all’edificazione dei suoi fedeli. Il vescovo di Poitiers Pascenzio, formatosi nella tradizione del vescovo Ilario, è “custode che si conforma in maniera ferma al principio degli antichi ordinamenti e alle dottrine della fede cattolica anche con il dedicarsi all’edificazione del popolo amatissimo come un buon istruttore, affannandosi 112

non senza timore di Dio ad ingrandire in qualche modo il tempio dell’edificazione spirituale”. Per amore del suo santo predecessore il vescovo “si è degnato di stimolarmi continuamente perché sulle imprese del santissimo uomo Ilario confessore della fede, il quale sin dalla stessa infanzia ti formò dinnanzi ai suoi piedi come un giovane schiavo della sua famiglia affinché tu dessi in cambio del dono accordatoti anche le parole, io ne raccontassi le circostanze, anche se non interamente o solo in parte: affinché dunque risuoni alle orecchie del suo gregge in qualche modo la voce e la vita del carissimo pastore, ed egli approvi l’incarico e tu stesso non tenga nascosto il sentimento di affetto”.41 La voce e la vita del pastore antico rivivono attraverso la voce del pastore contemporaneo, per il quale Venanzio ‘confeziona’ il suo prodotto con pochi materiali e con scarso interesse per quello che il santo era davvero stato e aveva rappresentato. Ma vi è uno scritto per il quale si potrebbe dire che il committente coincida in realtà con l’autore stesso, mentre destinatari e fruitori sono tanto ‘sfocati’ da far pensare che in qualche misura la loro funzione sia ‘riassorbita’ nei primi: si tratta, è evidente, della Vita di Radegonda. Nel numero di coloro che Dio rende vigorose per la fede e che muoiono al mondo, lo disprezzano e anticipano il Paradiso, vi è “colei di cui ora tentiamo di portare in pubblico, così come conviene, con un discorso personale, il corso della vita, affinché sia illustrata la memoria lasciata nel mondo, della beatitudine eterna di colei la cui vita è con Cristo”. Nella cura dei tanti piccoli particolari volti a marcare l’eccezionalità del personaggio, sentiamo una partecipazione che in altri scritti manca. Venanzio, con il suo scritto, “porta in pubblico”, trasferisce cioè dalla sua esperienza personale ‘privata’ al ‘pubblico’ ciò che conosce, risultando di fatto il committente stesso dell’opera e in definitiva il principale beneficiario. “Ma sia bastevole una breve narrazione dei miracoli della beata, affinché non venga a noia l’abbondanza, né si reputi cosa molto breve quando nei miracoli la grandezza si possa riconoscere dalla narrazione di pochi di essi, con quale pietà, moderazione, bontà, dolcezza, umiltà, onestà, fede, fervore ella abbia vissuto, così che ancora dopo la morte accompagnino lei stessa i miracoli del trapasso alla beatitudine eterna”: questa conclusione, più che riferirsi a lettori reali, sembra riaprire il dialogo fra autore-committente-devoto e la ‘sua’ santa, fondendo il racconto dei miracoli del trapasso con il trapasso stesso della santa alla beatitudine eterna. 113

La produzione di Venanzio Fortunato è dominata dall’interesse per il ‘suo’ presente, al servizio del quale pone la sua cultura: un interesse fatto certamente di ossequio verso i potenti, di rapporti elitari, ma anche innegabilmente di sentimenti religiosi e di intensi rapporti umani.

Conclusioni

Ogni semplificazione rischia di snaturare i caratteri specifici di una scrittura, cui ogni autore affida compiti diversi, soprattutto in un’età in cui i nuovi modelli letterari non sono ancora definiti. E tuttavia mi pare si possa dire che la caratteristica precipua della produzione di Venanzio Fortunato sia l’immersione nella contemporaneità, dimensione cui partecipano le diverse forme della sua scrittura agiografica: i testi sono immersi in una rete di relazioni politiche, sociali, religiose, messa efficacemente in luce in questo convegno da Cristina La Rocca. E qui sta anche la sua originalità. La peculiarità con cui ha usato la sua cultura e le sue indiscutibili competenze linguistiche, letterarie e stilistiche gli assicurano un posto di rilievo nella storia della cultura fra tardoantico e altomedioevo. Non vorrei usare giudizi generalizzanti, come quello di ultimo intellettuale romano o di poeta per eccellenza della società merovingia. Si farebbe un torto alla verità storica che necessita di maggiori sfumature interpretative. Gli si farebbe anche un torto limitando l’interpretazione a un giudizio comparativo con altri grandi scrittori a lui contemporanei, pur senza nascondere che non si vede nella sua opera quell’impeto narrativo e quella prosa efficace, che sono propri di Gregorio di Tours, e neppure quell’originale progetto pastorale che è proprio dell’opera agiografica di Gregorio Magno. È invece vero che Venanzio ha adattato con grande perizia e grande consapevolezza gli strumenti della tradizione classica a nuovi destinatari e a nuovi soggetti: tra questi i santi, divenuti i nuovi protagonisti insieme umani e divini di una visione del mondo capace di unire la terra e il cielo.

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Note

(1) Oltre al convegno cui ho partecipato e da cui ho molto appreso, penso al convegno di studio del 1990, Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Treviso 1993 (a molti dei saggi qui contenuti farò riferimento nel mio testo). (2) Venantius Fortunatus, Epitaphium Vilithutae (IV, 26), a cura di P. Santarelli, Napoli 1994, p. 15. (3) Si veda: B. De Gaiffier, Venance Fortunat, évêque de Poitiers, “Analecta Bollandiana”, 70(1952), pp. 262-284; I. Sartor, Venanzio Fortunato nell’erudizione, nella tradizione e nel culto in area veneta, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 267-275; M. Van Uytfanghen, Venanzio Fortunato, in Il Grande Libro dei Santi. Dizionario Enciclopedico, a cura di C. Leonardi-A. Riccardi-G. Zarri, III, Cinisello Balsamo 1998, pp. 1918-1921. (4) Cfr. R. Aigrain, Le voyage de Paul Diacre à Poitiers et l’épitaphe de Saint Fortunat, “Bulletins de la Société des Antiquaires de l’Ouest”, 10 (1936), pp. 233-236; e B. De Gaiffier, Venance Fortunat, in part. p. 264. (5) Cfr. B. De Gaiffier, Venance Fortunat, p. 265; il testo è edito a cura di E. Dümmler, in Monumenta Germaniae Historica, Poetae Latini, I, p. 326. (6) Si veda in particolare M. Pavan, Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia Merovingia, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 11-23. (7) G. Rosada, Il ‘viaggio’ di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum Loca e la strada per Submontana Castella, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 25-57, citt. da pp. 45 e 46. (8) La Vita Martini, è stata edita a cura di F. Leo, Opera Poetica, in Monumenta Germaniae Historica, Auctores Antiquissimi, IV, 1, Berlin 19612; l’edizione più recente è: Oeuvres, IV, Vie de Saint Martin, a cura di S. Quesnel, Paris 1996; le citazioni in italiano sono tratte dalla traduzione Venanzio Fortunato, Vita di San Martino di Tours, a cura di G. Palermo, Roma 1995, pp. 149-154. (9) Venance Fortunat, Poèmes, a cura di M. Reydellet, II, Paris 1998, L.VIII, III, pp. 129-146; si veda ora l’edizione con traduzione: Venanzio Fortunato, Opera 1, a cura di S. Di Brazzano, Roma 2001. (10) D. Tardi, Fortunat. Etude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927; si veda inoltre: U. Moricca, Venanzio Fortunato, “Didaskaleion”, 5(1927), pp. 55-115; ID., Venanzio Fortunato, in Storia della letteratura latina cristiana, I, 3, Torino 1932, pp. 228277; B. Brennan, The Career of Venantius Fortunatus, “Traditio”, 41 (1985), pp. 51-78; numerosi saggi del volume Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, in particolare: U. Pizzani, La cultura in Italia e in Gallia nel sesto secolo, pp. 63-79; M. Reydellet, Tradition et nouvauté dans les Carmina de Fortunat, pp. 81-98; A.V. Nazzaro, Interstestualità biblico-patristica e classica in testi poetici di Venanzio Fortunato, pp. 99-134; J.W. George, Venantius Fortunatus: a Latin Poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992. Cfr. anche le riflessioni di L. Navarra, Venanzio Fortunato, stato degli studi e proposte di ricerca, in La cultura in Italia fra tardo antico e alto Medioevo, Roma 1981, pp. 605-610. (11) L. Pietri, Venance Fortunat et ses commenditaires: un poète italien dans la société gallo-romaine, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale, Spoleto 1992 (Settimane del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, XXXIX), pp. 729-754. (12) M. Van Uytfanghen, Venanzio Fortunato, p. 1919. (13) Vita Martini, trad.cit., p. 50-51. (14) Cfr. bibliografia a n.11. (15) R. Collins, Observations in Form, Language and Public of the Prose Biographies of Venantius Fortunatus in the Hagiography of Merovingian Gaul, in Columbanus and Merovingian Monasticism, a cura di H.B. Clarke - M. Brennan, Oxford 1981, pp. 105-124. (16) S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 175-193. Lo studioso, per la sua analisi, si mantiene giustamente ancorato alla prudente identificazione di sette testi di sicura attribuzione: le Vite di Ilario di Poitiers, Germano di Parigi, Albino di Angers, Paterno di Avranches, Radegonda, Marcello di Parigi, e Severino di Bordeaux. 115

(17) Mi permetto di rinviare ad alcune mie considerazioni: S. Boesch Gajano, L’agiografia, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra antichità e medioevo, Spoleto 1998 (Settimane del Centro Italiano di studi sull’alto medioevo, XLV), pp. 797-849. (18) P. Santarelli, Introduzione a Epitaphium Vilithutae, p. 12. (19) Venance Fortunat, Poèmes, III, XIV, p. 112. (20) Per un’analisi degli attributi del vescovo nei carmi di Venanzio cfr.F.E. Consolino, Ascesi e mondanità nella Gallia tardoantica. Studi sulla figura del vescovo nei secoli IV-VI, Napoli 1979, pp. 143-167. (21) W. Berschin, Biographie und Epochenstil im Lateinischen Mittelater, I. Von der Passio Perpetuae zu den Dialogi Gregors des Grossen, Stuttgart 1986, pp. 267-287. (22) G. De Luca, Introduzione alla storia della pietà, in “Archivio italiano per la storia della pietà”, 1 (1962), p. 33. (23) Vita S. Hilarii, a cura di B. Krusch, in Monumenta Germaniae Historica, Auctores Antiquissimi, V, 2, Berolini 1885, pp. 1-7, cui segue Liber de virtutibus S. Hilarii, alle pp. 7-11; trad. italiana: Venanzio Fortunato, Vite dei santi Ilario e Radegonda, a cura di G. Palermo, Roma 1989. A un’analisi della Vita venanziana è dedicata la relazione di Y.-M. Duval presentata a questo stesso convegno. Per un profilo del santo cfr. ivi, Introduzione, pp. 9-22; e M. Simonetti, Ilario di Poitiers, in Il Grande libro dei santi, II, pp. 1100-1104. (24) Vita Marcelli, a cura di B. Krusch, ed.cit., pp. 49-54. Per gli scarsi elementi biografici cfr. la voce di A.M. Raggi, in Biblioteca Sanctorum, VIII, Roma 1966, coll. 668-671. Per l’interpretazione dell’episodio del drago, cfr. il saggio famoso di J. Le Goff, Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel Medioevo: S. Marcello di Parigi e il drago, in ID., Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, pp. 209-255. (25) Vita S. Severini episcopi Burdigalensis, a cura di W. Levison, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, VII, Hannoverae 1920, pp. 205-224. (26) Vita Albini, a cura di B. Krusch, ed.cit., pp. 25-33. (27) Vita S. Paterni, ivi, pp. 33-37. (28) Vita S. Germani, ivi, pp. 11-27. Sul vescovo cfr.la voce di I. Gualandri, in Il grande Libro dei Santi, II, pp. 789-790. (29) Vita Radegundis, a cura di B. Krusch, ed. cit., pp. 38-49. trad. it. Vite dei santi Ilario e Radegonda di Poitiers, pp. 93-147. A Radegonda, oggetto di due diverse biografie, quella di Venanzio e quella di Baudonivia, è stata dedicata molto attenzione da parte della storiografia. Ricordo in particolare le pagine di J. Fontaine, Hagiographie et politique, de Sulpice Sévère à Venance Fortunat, “Revue d’Histoire de l’Eglise de France”, 62 (1976), pp. 113-140, e di F.E. Consolino, Due agiografi per una regina: Radegonda di Turingia fra Fortunato e Baudonivia, “Studi Storici”, 29 (1988), pp. 143-159; P. Santorelli, La “Vita Radegundis” di Baudonivia, Napoli 1999; nonché la relazione tenuta in questo convegno da M. Cristiani. (30) F.E. Consolino, Ascesi e mondanità, pp.83-84. (31) Rinvio alle osservazioni di S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa. (32) Vie et miracles de Sainte Thècle, a cura di G. Dagron, Bruxelles 1978 (Subsidia Hagiographica, 62), p. 20. (33) Vita Albini, pp. 27-28. (34) Poèmes, L.II,XVI, pp. 72-80. (35) Poèmes, L.II,XIV, p. 71. (36) I carmina offrono innumerevoli esempi, soprattutto nel L.VI, che bene mostrano come le regine possano venire lodate per le loro virtù insieme religiose e regali. (37) Cfr. Introduzione a Vita Martini, p. XV. (38) Poèmes, L.II, III, pp. 52-53. (39) L. Pietri, Venance Fortunat, p. 748. (40) Sull’oralità nella cultura altomedioevale cfr. M. Banniard, ‘Viva voce’. Communication écrite et communication orale du IVe au IXe siècle en Occident latin, Paris 1992, dove peraltro i riferimenti a Venanzio sono pochissimi. (41) Vita Hilarii, pp.1-2; trad. it., pp. 55-56.

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MARTA CRISTIANI Università di Roma - Tor Vergata

Venanzio Fortunato e Radegonda I margini oscuri di un’amicizia spirituale

Esiste o non esiste la dulcedo, la douceur de vivre, la dolce vita nella Gallia merovingia? Nel mondo descritto dal rozzo ma efficace latino di Gregorio di Tours, in cui “senso e non-senso” sembrano inestricabilmente connessi1, in cui ogni razionalità politica, istituzionale e persino “provvidenziale” sembra costantemente sopraffatta dalla vitalità, dalla volontà di potenza individuale? Mentre dai Carmina di Venanzio Fortunato procede una teoria di santi vescovi, morti o viventi, e quando sono viventi una delle glorie maggiori è quella di costruire o restaurare edifici sacri (Venanzio è un poeta delle architetture), ma anche, come nel caso di Leonzio II di Bordeaux2, alcune splendide villae di modello evidentemente romano, ove la natura è sapientemente dominata dall’arte, ove il regno degli uomini si sostituisce a quello dei lupi: “Hic referunt nutrisse lupos deserta tenentes. Intulit hic homines, expulit unde feras”3. Anche quando si tratta di laici, uomini e donne, celebrati negli epitaffi4, si sottolinea il dolce, “pacifico”, o “blando” eloquio5, la capacità di un giovane6 di dominio di sé, o di conquistare il placitus amor del sovrano7; la nobiltà e generosità, secondo il modello classico, attribuite a un certo Avolo, probabilmente di nobiltà romana: “Nobilitate potens, animo probus, ore serenus plebis amore placens, fundere promptus opes non usurae avidus; licet esset munere largus”8. L’illustre Orienzio, frequentatore abituale dei palazzi del principe, oltreché “consiliis habilis regalique intimus aulae”, è “vir sapiens, iustus, moderatus, honestus, amatus”9. È noto che Ernst Robert Curtius, forse con qualche insofferenza per tanta nobile moderazione, ha facile giuoco nel contestare un incauto storico che aveva invocato la continuità dell’ideale di kalokagathía in età medievale, e in particolare in età merovingia, sottolineando che la dulcedo esi117

ste in quest’epoca solo in forma letteraria e retorica, e precisamente esiste solo nei testi di Venanzio Fortunato10. L’editore dei Carmina nella collana “Les belles Lettres” ritiene che non tutto, anche se molto, può ridursi a formula retorica e difende il senso della verità del sentimento di amicizia nell’opera poetica di Venanzio11. La questione non è di poco conto perché, per lo storico, equivale a chiedersi fino a che punto si può ricostruire qualcosa che si avvicina all’esperienza vissuta, a partire dai testi letterari, e in particolare, fino a che punto il linguaggio talvolta intenso dei sentimenti e dell’eros può lasciare intravedere qualcosa dell’interiorità individuale, delle passioni reali, che sono l’oggetto cui lo storico avrebbe comunque l’ambizione di avvicinarsi. D’altra parte, fino a che punto il linguaggio dell’intensità amorosa può essere usato asetticamente, senza avvertire il riverbero della sua fiamma, come Dante, che di formule letterarie era certo un conoscitore, esemplarmente insegna nell’episodio di Francesca? Gli spostamenti e il dominio dei popoli “migranti e pirateggianti”12 nelle aree delle civiltà stanziali di origine mediterranea hanno certo prodotto esperienze brutali, sottratte a ogni mediazione letteraria, ma anche degli incontri vissuti ai vertici delle due società, negli spazi delle grandi mediazioni politiche, non abbiamo le testimonianze che avremmo tanto desiderato, perché Boezio non ci racconta nulla dei suoi rapporti, dall’esito drammatico, con Teodorico, né Cassiodoro ci svela i segreti personali dei suoi equilibri diplomatici. L’incontro e l’ amicizia fra un letterato sicuramente di nobile origine, il cui essere letterato è per così dire “sostanziale”, forse investito di qualche funzione di osservatore politico imperiale presso le corti franche13, e una delle grandi personalità femminili dell’aristocrazia franca, come Radegonda, è sicuramente un angolo di osservazione privilegiato per comprendere qualcosa della fascinazione che forme diverse di civiltà possono esercitare nei loro rapporti reciproci. Partito verso l’autunno del 565 dall’Italia, secondo un itinerario descritto due volte, non senza discordanze14, Venanzio si ritrova a Metz la primavera del 566, per le nozze di Sigeberto con la principessa visigotica Brunilde, nell’autunno dello stesso anno a Parigi, dove incontra il santo vescovo Germano. Infine, dopo un breve soggiorno a Tours, e un viaggio fino ai Pirenei nell’estate del 567, si stabilisce nella città di Poitiers, dove Radegonda, principessa turingia, figlia del re Bertario, aveva fondato il suo monastero fra il 118

552 e il 553, dopo essersi liberata del legame del matrimonio con il re Clotario, figlio di Clodoveo, che aveva sconfitto il suo popolo e massacrato la sua famiglia. Quello che nell’agiografia femminile può essere un “topos”, il matrimonio imposto a una giovane donna dalla volontà della famiglia o determinato da una serie di circostanze15, nella vita di Radegonda, che conosce per esperienza diretta la violenza dei tempi, corrisponde alla verità storica: condotta come ostaggio alla corte del vincitore, dove riceve una buona educazione16, nel 538 Clotario, che ha già altre due mogli e forse una terza17, decide di sposarla a Vitry, nell’Artois, ma il matrimonio avviene a Soissons, dopo una inutile fuga di Radegonda18. La Vita di Venanzio descrive Radegonda desiderosa del matrimonio mistico, “plus participata Christo, quam sociata coniugio”19, che sfugge con tutte le astuzie il letto coniugale20 e la tavola comune21, ma evita prudentemente di descrivere la vera personalità di Clotario, cui l’entourage non manca di far notare di avere accanto una monaca piuttosto che una regina “habere se potius iugalem monacham quam reginam”22. L’accento di Venanzio non è evidentemente sul desiderio di libertà che la ribellione ai doveri coniugali potrebbe esprimere, ma sul contrasto fra il gelo del corpo votato alla penitenza e l’ardore dello spirito, “ut solo calens spiritu, iaceret gelu penetrata, tota carne praemortua, non curans corporis tormenta mens intenta paradiso”23. Il poema De virginitate, nella notte di penitenza della vergine consacrata, che si consuma in lacrime nel desiderio dello sposo, non manca di cogliere il dettaglio di raffinata sensualità del marmo che si riscalda alla pressione di un corpo che si raggela: “marmore iam tepido frigida membra premens”24. Mentre il gelo della vocazione ascetica caratterizza la vita della sposa, il racconto dell’ infanzia, scritto da Venanzio in forma di lettera che Radegonda stessa avrebbe indirizzato al cugino Amalafredo, sul modello delle Heroides di Ovidio, evoca tutte le seduzioni, le ansie, le tenerezze innocenti degli amori infantili: “Ricordati almeno quello che dai tuoi primi anni, Amalafredo, ero allora, io Radegonda, per te, quanto un tempo, nella tua dolce infanzia, tu mi abbia amato, nato dal fratello del padre, affettuoso parente. Quel che per me il padre defunto, la madre poteva essere, una sorella, un fratello, eri tu solo. 119

Sollevata da tenere mani, restavo attaccata a te nei carezzevoli baci, incantata, io piccola, dal tuo sereno parlare. Non passava ora, che da me non ti portasse, ora corrono secoli, e non ricevo da te una parola. Tumultuosi affanni rivolgevo nel cuore trafitto ................................................................................... se ti affrettavi eri per me sempre lento. Dava segno la sorte che di te, o caro, avrei presto mancato; amore che non sia propizio non può avere durata. L’ansia mi tormentava, se una sola dimora non ci accoglieva”25. Ovviamente, la natura e le convenzioni diverse dei testi, racconto agiografico e testi poetici, implicano una diversa prospettiva e un diverso sguardo dell’autore, che nella Vita traduce al femminile alcuni elementi simbolici e operativi del grande modello di santità martiniano, di cui Venanzio stesso ripercorre, in versi, l’itinerario spirituale, dopo Sulpicio Severo e Paolino di Périgueux. Nel gesto di Martino, di spogliarsi del mantello, come sottolinea Venanzio in uno dei suoi poemi, il riparare qualcuno dal freddo aumenta il calore della fede, “dum tegit algentem, plus calet ipse fide”26. Nella Vita di Radegonda il gesto simbolico e mistico della spoliatio27, inteso probabilmente nel senso paolino dell’abbandono dell’uomo vecchio, è compiuto abitualmente dalla regina nella sua vita profana: ogni qualvolta, “quotiens”, le fanciulle del seguito lodavano l’abbigliamento da idolo barbarico, di cui qualche sepolcro femminile merovingio ha restituito la ricchezza, il velo di lino orientale, intessuto di fili d’oro e ricamato di gemme, “lineum savanum, auro vel gemmis ornatum”, Radegonda si dirigeva alla chiesa più vicina per deporre sull’altare il prezioso tessuto28. A differenza del gesto di Martino, gesto “della recluta, che copre il suo re, dell’uomo che ricopre il suo Dio”, come si esprime Venanzio in un altro dei suoi poemi29, la spoliazione di Radegonda è una liberazione dai segni del potere e della ricchezza, che trova il suo compimento nella liberazione dal “peso” della ricchezza dell’appannaggio reale, percepito attraverso il pagamento delle decime, con la sua distribuzione ai poveri: “Sic, ne premeretur a sarcina, quod acceperat erogabat”30. Nell’amplificazione di Venanzio, “a...munificentia nec ipse se abscondere potuit heremita”31, l’eremita più nascosto non si salva dalla prodigalità di Radegonda, che esercita del resto una delle funzioni, non 120

prive di implicazioni politiche, nelle quali le donne dell’aristocrazia franca possono esercitare una loro autonomia: la santità della regina Ultrogoda (511-558), moglie di Childeberto I, sembra avere le sue motivazioni in un’abile politica di mediazione con il mondo monastico32. Una vera cerimonia di spoliazione è solennemente descritta da Venanzio quando Radegonda, dopo la morte del fratello, abbandona definitivamente la vita coniugale e impone al vescovo Medardo di consacrarla a Dio, anzi, come sottolinea Claudio Leonardi, “manca poco che si autoconsacri”33, con il grado, ancora esistente in epoca merovingia, di diaconessa34. Quello che Venanzio prudentemente non dice, è che Clotario, il marito di Radegonda, aveva fatto uccidere il fratello, come Gregorio, che racconta trame shakespeariane nello spazio di poche righe, esplicitamente afferma: “Chlothacharius ...Radegundem...in matrimonio sociavit, cuius fratrem postea iniuste per homines iniquos occidit”35. Venanzio, del truce dramma, sottolinea l’elemento provvidenziale, perchè induce Radegonda a una vita integralmente religiosa36, preceduta dal rituale di abbandono dei segni del potere: “Allora, spogliata del nobile abbigliamento, con il quale era solita, nelle feste più solenni, avanzare da regina, accompagnata dalla pompa regia, lo pone sull’altare e in segno di onore ricopre di molteplici doni, porpore, gemme, ornamenti, la mensa della gloria divina. Il peso di una cintura d’oro fatta a pezzi lo dona per le necessità dei poveri. Similmente, avvicinandosi un giorno alla cella del santo Giumerio, dell’insieme di cui si ornava da regina, la beata fece, per usare un linguaggio barbaro, un fagotto (stapio), e affidò al santo altare quello di cui avrebbe potuto godere: camicie, maniche, cuffie, fibbie, tutte d’oro, alcune ornate di gemme tutto intorno. Poi, un giorno in cui aveva dovuto adornarsi lussuosamente, nell’uso mondano, recandosi alla cella del venerabile Datdone, qualunque cosa aveva potuto indossare, nel suo rango di donna ricca, dopo i doni offerti all’abate, conferisce tutto al cenobio“37. Una cerimonia analoga, distinta dal gesto caritatevole, che imita veramente il gesto martiniano, di donare gli indumenti ai poveri38, si ripete all’arrivo di Radegonda alla basilica di S. Martino a Tours: “Da qui arrivata a Tours con una felice navigazione, quale discorso potrebbe adeguatamente dire...quanto si dimostrò munifica? Che cosa fece, piangente, mai stanca di 121

lacrime, negli atri, nelle cappelle, nella basilica di San Martino...dove, dopo aver fatto celebrare la messa, decora il sacro altare di un ornamento composto dalle vesti e dai gioielli, di cui si copriva a palazzo nelle occasioni più eleganti”39. Nella persona di Radegonda la regalità barbarica depone di fronte a Cristo, quindi di fronte alla chiesa, i segni delle proprie liturgie profane, con una simbologia di grande forza spirituale, e tuttavia di ridotta incidenza politica, perché è la regina, non il re, a compiere un rituale di umiliazione/purificazione, che probabilmente è piuttosto un rituale di liberazione da un atroce passato, dal lusso di schiava regale, in un itinerario di conquista dell’individualità, di una regalità interiore. In uno dei poemi che accompagnano l’invio di piccoli doni a Radegonda, fra i più ricchi di grazia, in un’opera poetica di occasione, Venanzio si augura che i fiori oggetto del dono non si limitino a spandere il loro profumo, ma possano ornare la chioma dell’amica, dopo la fine della penitenza quaresimale, che la tiene lontana: “Et licet egregio videantur odore placere, plus ornant proprias te redeunte comas”40. Lo scambio, fra Venanzio e Radegonda, di semplici doni, fiori, frutta, latte, vino, o più elaborati cibi che deliziano il palato, quale è descritto nei poemi dell’VIII e dell’XI libro, sembra delineare un’atmosfera che non è poi così lontana dalla originaria concezione epicurea dell’amicizia, di cui è elemento essenziale il condividere serenamente i più semplici piaceri che offre l’esistenza, nonostante il disprezzo del mondo, che assicura i regni celesti: “Regali de stirpe potens Radegundis in orbe, altera cui caelis regna tenenda manent despiciens mundum meruisti adquirere Christum”41. Nella Vita, tuttavia, la pratica delle più umili funzioni di servizio alla comunità e la cura dei poveri scivola, nelle descrizioni di Venanzio, su quel piano inclinato che la santità femminile percorrerà fino in fondo, nel gusto del contatto con la corporeità più sordida, in una sorta di ricerca di abiezione fisica. È vero che i lavori domestici, soprattutto femminili, non evitano contatti sordidi, ma Venazio ne accentua, per così dire, il realismo dei “fetori di sterco”42, per sottolineare, ovviamente, la virtù della nova Martha43, di cui sono stati individuati i modelli agiografici44. Martino stesso, 122

peraltro, diviene servo del servitore che gli è stato attribuito nella vita militare45. È vero che la cura dei malati, cui Radegonda sembra dedicarsi con un interesse che deriva forse dalla tradizione germanica di una pratica femminile di cura, implica il contatto con gli aspetti più ripugnanti della corporeità, ma Venanzio, nel momento stesso in cui attribuisce alla sua protagonista, fin dall’infanzia, una notevole preoccupazione dell’igiene altrui46, si sofferma su questi contatti con la putredine, i vermi, le croste, con una evidente compiacenza verbale, quando decrive le attività dei giorni che Radegonda riserva alla cura dei poveri: “capita lavans egenorum, defricans, quidquid erat, crustam, scabiem, tineam, nec purulenta fastidiens, interdum et vermes extrahens, purgans cutis putredines...Ulcera vero cicatricum, quae cutis laxa detexerat aut ungues exasperaverant, more evangelico, oleo superfuso, mulcebat morbi contagium”47. In realtà, anche se Venanzio recupera il “topos” agiografico del bacio al lebbroso (di sesso femminile)48, il suo racconto testimonia una precisa e “razionale” volontà organizzativa nella cura dei malati, per i quali, nella condizione di regina, aveva già disposto una sorta di ospedale49. Qualche pratica igienica (il bagno caldo, l’olio versato sul capo) è presente anche in due veri e propri miracoli di guarigione50, a testimonianza di una vocazione medica, che attraverserà del resto la civiltà monastica in tutta la sua storia e sarà all’origine delle istituzioni di cura. I compiacimenti letterari del biografo, che in realtà, con le sue immagini di mani femminili a contatto con la materia sordida dei corpi sporchi e malati, crea l’archetipo della santa regina al servizio dei poveri, raggiungono talvolta, nei poemi, risultati di grande raffinatezza e suggestione sottilmente erotica, come quando Venanzio coglie la traccia delle dita dell’amica sulla superficie del latte appena scremato, contenuto nella brocca che ha ricevuto in dono: “Aspexi digitos per lactea munera fixos et stat picta manus hic ubi crama rapis. dic, rogo, quis teneros sic sculpere conpulit ungues”?51 D’altra parte lo stesso autore, che all’aristocrazia franca presta volentieri il gesto moderato e il parlare grave e sereno di aristocrazie educate alla filosofia, mentre affida ai suoi poemi il compito etico ed estetico di educare ai buoni sentimenti52, quando affronta il tema degli esercizi di penitenza praticati da Radegonda, soprattutto durante la quaresima, sembra abbandonare ogni criterio di moderazione e descri123

ve il suo infliggersi il supplizio di anelli di ferro intorno al collo e alle braccia, di catene strette intorno al corpo sulle quali cresce la carne53. Poiché, come è stato osservato, “il rito crudele di cerchiare collo e braccia con anelli di ferro era una pratica espiativa di origine germanica, riservata ai parricidi e a quanti fossero colpevoli della morte di consanguinei”54, quali oscure viltà o connivenze nell’orrore, quali rimorsi fraterni avrebbero dovuto espiare, se non appartengono all’invenzione letteraria, le penitenze di Radegonda? Il più “acceso” dei fantasmi che Venanzio proietta sulla persona dell’amica è quello del marchio prodotto dal ferro incandescente in forma di croce, che Radegonda stessa si imprime sul corpo, “a se ut fieret martyra”, in una esperienza estrema di penitenza, al limite del martirio, che è l’oggetto di desiderio55: “Sic, spiritu flammante, membra faciebat ardere”56. Le bruciature che Radegonda si infligge, in una progressione verso l’eccesso (adhuc aliquid gravius), usando un bacino di bronzo pieno di carboni ardenti producono quelle piaghe purulente che la sua attività di volenterosa infermiera si adoperava a curare negli altri57: anche se per Venanzio l’attività di cura e le ferite inflitte al proprio corpo sono due aspetti diversi di un’attitudine penitenziale, sul piano della coerenza psicologica è difficile attribuire tanta violenza nell’aggressione alla corporeità a chi ha esperimentato la pratica del sollievo alla malattia. La precisa ragione teologica di questa volontà di martirio è che il merito più grande, il fondamento stesso della santità cristiana, è il superamento della natura, tanto più evidente quanto più la natura è debole, come avviene nella corporeità femminile, “all’interno della quale” Cristo celebra le sue più gloriose vittorie, come Venanzio afferma nel prologo della Vita: “in quarum visceribus cum suis divitiis ipse rex habitator est Christus”58. Sottolineo che Venanzio segue strettamente, come sarebbe evidente da una analisi minuziosa degli epitaffi, una linea di ortodossia che possiamo anche definire moderatamente “semipelagiana”, riconoscendo sempre il valore dei meriti ai fini della conquista della vita eterna. La superiorità rispetto alle passioni degli uomini rendeva Martino “estraneo alla natura”, (extra naturam hominis indebatur)59, ma per Venanzio la più alta vittoria sulla natura si manifesta quando “il barbarico” e il femminile sono congiunti in una sola persona, come Venanzio riconosce esplicitamente nell’epitaffio di Vilithuta:

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“Sanguine nobilium generata Parisius urbe Romana studio, barbara prole fuit. Ingenium mitem torua de gente trahebat, uincere naturam gloria maior erat”60. Il contagio del mondo, nella pratica femminile della santità, deve essere fisiologicamente espulso con le pratiche forti della mortificazione, come Venanzio si esprime ancora nel prologo della Vita: “Quae mortificantes se saeculo, despecto terrae consortio, defecato mundi contagio, non confidentes in lubrico, non stantes in lapsu, quaerentes vivere Deo, ad gloriam Redemptoris sunt copulate paradiso”61. Venanzio, che in numerosi testi dimostra di possedere l’arte di cui sarà maestro Bernardo di Clervaux, l’arte che chiamerei di “erotizzare l’ascesi”, quando scivola, nel linguaggio della penitenza, “in qualche torbido compiacimento”62, esprime forse soprattutto la fascinazione che esercita l’”estraneità” barbarica di Radegonda, in un’epoca e in un contesto in cui la possibilità di un ritorno alla natura appare verosimilmente una minaccia reale, per un uomo che distilla nei suoi versi le grazie di un’educazione cittadina, che ha orrore delle selve abitate dai lupi e delle paludi del “selvaggio” fiume del Gers63, che ama la natura della villa romana disciplinata dall’agricoltura. Mentre il santo Marcello affronta nella forma del drago l’alterità irriducibile della natura, per affermare il dominio cristiano dell’uomo, secondo l’interpretazione ormai celebre che ne ha dato il Le Goff64, Radegonda deve esercitare su se stessa la ferocia guerriera necessaria a sconfiggere il drago della naturalità femminile per accedere a quell’ordine della storia, nel quale peraltro l’insieme della sua attività politico-religiosa la colloca di pieno diritto.65 L’educazione letteraria di Venazio, utilizzata in funzioni diplomatiche molteplici all’interno della nobiltà franca, in quello che il Reydellet definisce “projet esthétique”66, dispiega molte delle sue seduzioni nella complessità delle esperienze vissute, in quello che appare, dalla lettura dei testi, il cerchio volontariamente chiuso dell’amicizia con Radegonda e la giovane badessa Agnese. Per la consacrazione di Agnese, scelta da Radegonda come badessa del monastero di Poitiers, per motivi che potrebbero non essere unicamente dettati dalla pratica dell’umiltà, forse non del tutto privi di implicazioni politiche, Venanzio scrive il De virginitate67, illuminato dallo scintillio delle molte pietre preziose, evocate a celebrare la gloria celeste della santità virginale. Per festeggiare il compleanno della stessa Agnese, 125

Venanzio si rivolge a Radegonda come madre spirituale di una figlia, che “tibi non uterus natam, sed gratia fecit”68, e conclude con un augurio comune, che una duratura salute “teneat vos corpore iunctas, rursus in aeterno lumine iungat amor”69. Riconoscendo Radegonda come madre e Agnese come sorella, Venanzio afferma esplicitamente, in versi ben noti, la natura spirituale dell’amore: “Mater honore mihi, soror autem dulcis amore, quam pietate fide pectore corde colo, caelesti affectu, non crimine corporis ullo: non caro, sed hoc quod spiritus optat amo”70. La conclusione del testo spinge il tema della fraternità e maternità spirituale fino alla metafora di un parto gemellare dal casto ventre di di Radegonda e di un comune nutrimento dallo stesso seno71, il che significa evocare comunque intense e primordiali emozioni, che ispirano, in un altro testo, l’augurio di mantenere questa unità di affetti e di persone oltre la morte, nella vita futura e forse, con un accenno fuggevole, nello stesso sepolcro: “Nos neque nunc praesens nec vita futura sequestret, sed tegat una salus et ferat una dies. Hic tamen, ut cupio, vos tempora longa reservent, ut soror et mater sit mihi certa quies”72. Nel 589, due anni dopo la morte di Radegonda, nel monastero di Sainte-Croix, una rivolta è guidata da due principesse reali, Clotilde e Basina, che dopo la fuga dal monastero organizzano una vera e propria banda armata (e non credo si abbiano molti esempi di bande armate nella storia del monachesimo femminile), come ci informa Gregorio di Tours73, che avanza qualche prudente spiegazione sui motivi della rivolta, senza chiamare direttamente in causa Radegonda. Insieme alla ferocia del vivere, che non risparmia i monasteri abitati da nobili e fiere fanciulle, sicuramente esiste in età merovingia la dolcezza, ma anche la complessità, l’ambiguità del vivere, nei rapporti personali e nei rapporti fra culture: grazie all’opera di Venanzio, di questa complessità la letteratura ha continuato a essere parte essenziale.

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Note

(1) Senza sollevare la questione del metodo storico di Gregorio, cfr. G. Vinay, Senso e non-senso nella ‘Storia dei Franchi’ di Gregorio di Tours, in Alto medioevo latino. Conversazioni e no, Napoli, 1978, pp. 37-63. (2) Leonzio II, cui sono dedicati i Carmina, I, 14-20 (Venance Fortunat, Poèmes, éd. M. Reydellet, I, Paris, 1994, edizione cui si farà riferimento, pp. 33-46; traduzione italiana: Venanzio Fortunato, Opere, I, a cura di S. Brazzano, Aquileia, 2001), succede a Leonzio I sulla cattedra di Bordeaux intorno al 579: cfr. K.F. Stroheker, Der senatorische Adel im spätantiken Gallien, Tübingen, 1948, Darmstadt, 1970, n. 219, p. 188; E. Griffe, Un évêque de Bordeaux au VIe siècle: Léonce le Jeune, “Bulletin de littérature eccésiastique”, LXIV (1963), pp. 63-71. (3) Carmina, I, 18, p.44. (4) Ibid., IV, 16-28, pp. 147-163. Poiché agli epitaffi (in realtà veri e propri elogi funebri) è interamente dedicato il libro IV, il problema se di un certo numero di testi sia stato fatto un uso epigrafico è stato posto a più riprese. Notevole è in ogni caso l’utilizzazione epigrafica di versi di Venanzio nei secoli successivi: su tutta la questione cfr. R. Favreau, Fortunat et L’epigraphie, in AA.VV., Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, “Atti del Convegno Internazionale di Studi” (Valdobbiadene 17 maggio 1990 - Treviso 18-19 maggio 1990), Treviso, 1993, pp. 161-173. (5) Carmina; IV, 16, vv. 6-8, p. 147; 18, vv. 7-8, p. 149. (6) Ibid., IV, 17, vv. 5- 6, p. 148. (7) Ibid., IV, 19, vv. 5- 6, p. 150. (8) Ibid., IV, 21, vv. 7-9, p. 151. Sul personaggio, cfr. Stroheker, op.cit., n. 63, p. 156 (in realtà non si hanno notizie). (9) Carmina; IV, 24, vv. 7-9, p. 153. (10) Cfr. E.R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, 1948; traduzione ital.: Letteratura europea e Medio Evo latino, Firenze, 1992, 1995, 1997, pp. 458-459, in polemica con S. Singer, Germanisch-romanisches Mittelalter, Leipzig-Zürich, 1935, p. 98, erroneamente ispirato, come sottolinea il Curtius, da un’opera che ha segnato a suo tempo un rilevante progresso degli studi: R. Koebner, Venantius Fortunatus. Seine Persönlichkeit und seine Stellung in der geistigen Kultur des MerowingerReiches, Leipzig-Berlin, 1915. Per una monografia recente, cfr. J.W. George, Venantius Fortunatus. A Poet in Merovingian Gaul, Oxford, 1992. Sul linguaggio di Venanzio cfr. E. Clerici, Note sulla lingua di Venanzio Fortunato, “Rendiconti dell’Istituto Lombardo” (classe di Lettere, Scienze morali e storiche), CIV, Milano, 1970, pp. 219-251; R. Collins, Observations on the Form, Language and Public of the Prose Biographies of Venantius Fortunatus in the Hagiography of Merovingian Gaul, in Columbanus and Merovingian Monasticism, ed. H.B. Clarke-M. Brennan, Oxford, 1981, pp. 105-124. (11) Cfr. Venance Fortunat, Poèmes, éd. Reydellet, cit., I, Introduction, pp. LVI-LVII. (12) Cfr. G. Tabacco, I processi di formazione dell’Europa carolingia, in Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare, “Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo”, XXXIII, Spoleto, 1981, pp. 16 ss. (13) Cfr. su questo punto, J. Sˇ asˇel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, “Antichità altoadriatiche”, XIX (1981), pp. 359-375; Reydellet, Introduction, cit., pp. XVI-XVII. (14) Cfr. Carmina, praefatio, 4, I, p.4; Vita Martini (Venance Fortunat, Vie de Saint Martin, éd. S. Quesnel, Paris, 1996), IV, vv. 630-680, pp. 98-100. Sul viaggio, cfr. M. Pavan, Venanzio Fortunato tra ‘Venetia’, Danubio e Gallia Merovingica, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, cit., pp. 11-22; G. Rosada, Il “viaggio” di Venanzio Fortunato ‘ad Turones’: il tratto da Ravenna ai ‘Breonum Loca’ e la strada ‘per Submontana Castella’, ibid., pp. 25-57. (15) Cfr. E. Giannarelli La tipologia femminile nella biografia e nell’autobiografia femminile del IV secolo, Roma, 1980, p. 61, n. 58.

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(16) Cfr. Venantius Fortunatus, De vita sanctae Radegundis libri duo, 2, ed. B. Krusch, MGH, Script. rer. merov., II, p. 365 (traduzione italiana: Venanzio Fortunato, Vite dei Santi Ilario e Radegonda di Poitiers, a cura di G. Palermo, Roma, 1989): “Beatissima igitur Radegundis natione barbara de regione Thoringa, avo rege Bessino, patruo Hermenfredo, patre rege Bertechario...regio de germine orta, celsa licet origine, multo celsior actione: Quae cum summis suis parentibus brevi mansisset tempore, tempestate barbarica Francorum victoria regione vastata, vice Israhelitica exit et migrat de patria. Tunc inter ipsos victores, cuius esset in praeda regalis puella, fit contemptio de captiva...Quae veniens in sortem praecelsi regis Chlotarii, in Veromandensem ducta, Adteias in villa regia nutriendi causa custodibus est deputata. Quae puella inter alia opera, quae sexui eius congruebant, litteris est erudita”. (17) Cfr. S. Fonay Wemple, Women in Frankisch Society. Marriage and the Cloister 500 to 900, Philadelphia, 1981, p. 38: “At least two of Clothar wives, Ingund and Aregund, and possibly also Chunsinna and Radegund, were maried to him at same time”. Gregorio di Tours racconta che quando Ingonda chiede al marito di occuparsi del matrimonio della sorella, Clotario decide che il migliore dei mariti è lui stesso (cfr. Gregorius Turonensis, Historiarum libri decem, IV, 3, ed. B. Krusch, MGH, Script. rer. merov., I, pp. 136-137) . (18) Cfr. Y. Labande-Mailfert, “Les débuts de Sainte-Croix”, in Histoire de Sainte -Croix de Poitiers, “Mémoires de la Société des Antiquaires de L’Ouest” 4e Série, XIX (1986-87), p. 29. (19) Vita Radegundis, 3, p. 366. (20) Ibid., 5, pp. 366-367: “Item nocturno tempore cum reclinaret cum principe, rogans se pro humana necessitate consurgere, levans, egressa cubiculo, tam diu ante secretum orationi incumbebat, iactato cilicio, ut solo calens spiritu, iaceret gelu penetrata...leve reputans quod ferret, tantum ne Christo vilesceret. Inde regressa cubiculum, vix tepefieri poterat vel foco vel lectulo”. (21) Ibid., 7, p. 367. (22) Ibid., 5, p. 367. (23) Ibid. Secondo un’argomentata interpretazione, la Vita di Radegonda sarebbe centrata, fino al limite estremo, sul modello ascetico, per cui la descrizione della vita di corte registra soprattutto il conflitto fra gli obblighi del rango e il regime di contrizione che la protagonista desidera praticare nelle forme più severe: cfr. S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, cit., pp. 175-193. Diversamente, il carattere attivo della santità di Radegonda è sottolineato anche nel racconto di Venanzio: cfr. C. Leonardi, Fortunato e Baudonivia, in Aus Kirche und Reich. Studien zu Theologie, Politik und Recht im Mittelalter, “Festschr. f. F. Kemp”, hrsg.v. H. Mordek, Sigmaringen, 1983, pp. 23-32. (24) Carmina, VIII, 3, v. 212, éd. Reydellet, II, p. 138. Sul testo cfr. M.I. Campanale, Il de uirginitate di Venanzio Fortunato (Carm. 8, 3, Leo), un epitalamio mistico, “Inuigilata lucernis. Rivista dell’Istituto di Latino” (Università di Bari), II (1980), pp. 75-128. (25) De excidio Thoringiae, ed. F. Leo, Carmina, Appendix, MGH, Auct. Ant., IV, p. 272, vv. 47-63: “vel memor esto, tuis primevis qualis ab annis, / Hamalafrede, tibi tunc Radegundis eram, / quantum me quondam dulcis dilexeris infans/ et de fratre patris nate, benigne parens. / Quod pater extinctus poterat, quod mater haberi, /quod soror aut frater tu mihi solus eras. /prensa piis manibus heu blanda per oscula pendens / mulcebar placido famine parva tuo./ vix erat in spatium, quo te minus hora referret; / saecula nunc fugiunt, nec tua verba fero. / volvebam rabidas inliso in pectore curas, /.........cum festinabas iam mihi tardus eras. / sors erat indicium, quia te cito, care, carere/ inportunus amor nescit habere diu. /anxia vexabar, si non domus una tegebat” (Venanzio Fortunato, Opere, cit, pp. 624-625: ho proposto una diversa traduzione per recuperare un andamento ritmico). Su questo testo, cfr. W. Bulst, Radegundis an Amalafred, in Biblotheca docet. Festschrift C. Wehmer, Amsterdam, 1963, pp. 369-380; F.E. Consolino, L’elegia amorosa nel De ex-

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cidio Thoringiae di Venanzio Fortunato, in La poesia cristiana in distici elegiaci, “Atti del Convegno Internazionale” (Assisi, 20-22 marzo 1992), Assisi, 1993, pp. 241-254; M. Pisacane, Il De excidio Thoringiae di Venanzio Fortunato, “Giornale italiano di Filologia”, XLIX (1997), pp. 177-208. (26) Carmina, I, 5, v. 8, éd. Reydellet, I, p.24. (27) In una tradizione esegetica, rappresentata soprattutto da Gregorio di Nissa, gli abiti di cui Adamo ed Eva si rivestono dopo il peccato rappresentano la corporeità mortale, “sovrapposta” alla perfezione originaria della natura umana nel disegno divino (cfr. Gregorius Nyssenus, De hominis opificio, 16-18, PG, XLIV, col. 185 ss.; cfr. anche Maximus Confessor, Ambigua, PG, XCI, coll. 1353-1356). (28) Vita Radegundis, 9, p. 368: “Illud quoque quam prudenter totum pro sua salute providebat inpendere, quotiens, quasi mavortem novum, linteum savanum, auro vel gemmis ornatum, more vestiebat de barbaro, a circumstantibus puellis si laudaretur pulcherrimum, indigna se adiudicans tali componi linteolo, mox exuens se vestimento, dirigebat loco sancto, quisquis esset in proximo, et pro palla ponebatur divinum super altare”. (29) Carmina, I, 13, vv. 7- 8, éd. Reydellet, I, p. 70: “Martini domus est Christum qui vestit egentem,/ regem tiro tegens et homo iure Deum”. (30) Vita Radegundis, 3, p. 366: “Igitur iuncta principi, timens, ne Deo degradasset, cum mundi gradu proficeret, se sua cum facultate elemosinae dedicavit. Nam cum sibi aliquid de tributis accideret, ex omnibus quae venissent ante dedit decimas quas recepit. Deinde quod supererat monasteriis dispensabat et, quo ire pede non poterat, transmisso munere, circuibat”. (31) Ibid. (32) Cfr. Fonay Wemple, op. cit., pp. 61-62. Per un’ampia rassegna della pratica femminile della liberalitas, dall’età imperiale all’età di Radegonda, cfr. F.E. Consolino, Sante o patrone? Le aristocratiche tardoantiche e il potere della carità, “Studi Storici”, VI (1989), pp. 969-991. (33) Cfr. Leonardi, Fortunato e Baudonivia, cit., pp.25-26: “E quando lascia il marito... allora Radegonda si presenta al vescovo Medardo e di fronte alla sua esitazione a consacrarla religiosa (lei una donna sposata e moglie del re!), manca poco che si auto-consacri, certo mostra un’autorità meta-vescovile”. (34) Per la storia del diaconato femminile, cfr. Fonay Wemple, op. cit., pp. 137-141 (sul diaconato di Radegonda, cfr. p. 273, n. 73). (35) Cfr. Gregorius Turonensis, Historiae, III, 7, ed. B. Krusch, MGH, “Script. rer. merov.”, I, p. 105. (36) Cfr. Vita Radegundis, 12, p. 368: “Et quoniam frequenter aliqua occasione, Divinitate prosperante, casus ceditur ad salutem, ut haec religiosius viveret, frater interficitur innocenter”. Il tema della morte di una persona cara (spesso il marito o la moglie), all’origine della conversione alla vita ascetica, è tradizionale nella letteratura patristica: cfr. Giannarelli, op.cit., pp. 57-59. Cfr. Pricoco, op. cit., p. 181: “La storia del matrimonio e della consacrazione di Radegonda... è una tragedia vera e propria... Ma l’approccio di Fortunato a questa vicenda eccezionale è riduttivo. Il dramma domestico dei rapporti con il re e la Corte è guardato da un solo punto di vista, quello delle difficoltà incontrate dalla giovane regina per mettere in atto le quotidiane pratiche ascetiche, mentre il dramma politico culminato nell’uccisione del giovane fratello di Radegonda resta del tutto in ombra”. (37) Cfr. Vita Radegundis, 13, p. 369: “Mox indumentum nobile, quo celeberrima die solebat, pompa comitante, regina procedere, exuta ponit in altare et blattis, gemmis, ornamentis mensam divinae gloriae tot donis onerat per honorem. Cingulum auri ponderatum fractum dat opus in pauperum. Similiter accedens ad cellam sancti Iumeris die uno, quo se ornabat felix regina, composito, sermone ut loquar barbaro, stapione, camisas, manicas, cofias, fibulas, cuncta auro, quaedam gemmis exornata per circulum, sibi profutura santo tradidit altario. Inde procedens ad cellam venerabilis Datdonis die, qua debuit ornari praestanter in saeculo, quidquid indui poterat, censu divite femina, abbate remunerato, totum dedit coenobio”. (38) Cfr. ibid., 3, p. 366: “Apud quam nec egeni vox inaniter sonuit, nec

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ipsa eam surda praeteriit, saepe donans indumenta, credens sub inopis veste Christi membra se tegere, hoc se reputans perdere, quod pauperibus non dedisset”. (39) Ibid., 14, p. 369: “Hinc felici navigio Turonis adpulsa, quae suppleat eloquentia...quantumque se monstravit munificam? Quid egerit circa sancti Martini atria, templa, basilicam, flens, lacrimis insatiata ...ubi, missa revocata, vestibus et ornamento, quo se clariori cultu solebat ferre palatio, sacro componit altario”. (40) Carmina, VIII, 8, vv. 17-18, éd. Reydellet, II, p.151. (41) Ibid., VIII, 5, vv. 1-3, p. 148. (42) Cfr. Vita Radegundis, I, 23, p. 372: “Nam de officiis ministerialibus nihil sibi placuit, nisi prima serviret...Ergo suis vicibus scopans monasterii plateas, simul et angulos, quidquid erat foedum, purgans et ante sarcinans, quod aliis horret videre, non abhorrebat evehere. Secretum etiam purgare opus non tardans, sed occupans, ferens foetores stercoris, credebat se minorem sibi, si se non nobilitaret vilitate servitii. Ligna subportans brachiis, focum flatibus forcipibus admonens, cadens nec laesa se retrahens”. (43) Ibid., 17, p. 370: su questo tema, cfr. Leonardi, Fortunato e Baudonivia, cit., p. 23. (44) Cfr. F.E. Consolino, Due agiografi per una regina: Radegonda di Turingia tra Fortunato e Baudonivia, “Studi Storici”, XXIX (1988), pp. 143-159. Non affrontiamo qui il problema dei contrasti (particolarmente accentuati da É. Delaruelle, Sainte Radegonde et la chrétientè de son temps, in Études mérovingiennes, Poitiers, 1953, pp. 65-74) e discordanze fra le due Vitae, scritte con intenti e prospettive politico-religiose diverse. (45) Cfr. Sulpicius Severus, Vita Martini, II, 5, éd. J. Fontaine, SCh, CXXXIII, pp. 254-256. (46) Cfr. Vita Radegundis, I, 2, p. 365, in cui, prima di nutrire i coetanei poveri con i resti della ricca mensa, li sottopone a opportune e sicuramente necessarie abluzioni: “Iam tunc id agens infantula, quidquid sibi remansisset in mensa, collectis parvulis, lavans capita singulis, conpositis sellulis, porrigens aquam manibus, ipsa inferebat, ipsa miscebat infantulis”. (47) Ibid., I, 17, p. 370. (48) Ibid., I, 19, pp. 370-371: “Hanc quoque intremescendam qua peragebat dulcedine? Cum leprosi venientes, signo facto, se proderent, iubebat adminiculae, ut, unde vel quanti essent, pia cura requireret. Qua sibi renuntiante, parata mensa... scola subsequente, intromittebatur furtim, quo se nemo perciperet. Ipsa tamen mulieres variis leprae maculis conprehendens in amplexu, osculabatur et vultum, toto diligens animo. Deinde, posita mensa, ferens aquam calidam, facies lavabat, manus, ungues et ulcera et rursus administrabat, ipsa pascens per singula”. Anche in questa situazione, propizia all’esercizio del miracolo, come avviene nella Vita di Martino (cfr. Sulpicius Severus, Vita Martini, cit., XVIII, 13, pp. 280-283; Gregorius Turonensis, Historiae, cit., VIII, 33, pp. 401-403), l’accento cade comunque sulle pratiche medico-igieniche. Sul tema particolarmente rilevante del rapporto fra santità e malattia, cfr. C.L.P. Trüb, Heilige und Krankheit, Stuttgart, 1978. (49) Cfr. Vita Radegundis, I, 4, p. 366: “Adhuc animum tendens ad opus misericordiae, Adteias domum instruit, quo, lectis culte conpositis, congregatis egenis feminis, ipsa eas lavans in termis morborumque curans putredinem, virorum capita diluens, ministerium faciens, quos ante lavarat, eisdem sua manu miscebat, ut fessos de sudore sumpta potio recentaret. Sic de vita femina nata et nupta regina, palatii domina pauperibus serviebat ancilla”. Sulle condizioni di vita contemporanee cfr. E. Salin, Les conditions de vie au temps de Radegonde et de Fortunat d’après le témoignage des sépultures, in Études mérovingiennes, cit., pp. 269-272. (50) Cfr. Vita Radegundis, I, 29, pp. 373-374; I, 35, p.375. (51) Carmina, XI, 14, ed. Leo, MGH, Auct. Ant., IV, p. 264. (52) Nella continuità “di lunga durata” delle tradizioni culturali, il compito di “direzione di coscienza”che si può rintracciare nell’opera poetica di Venanzio, sarà svolto, al più alto livello, dalla corrispondenza di Alcuino. Su questo tema mi sia consentito rinviare a M. Cristiani, Le vocabulaire de l’en-

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seignement dans la correspondance d’Alcuin, in Vocabulaire des écoles et des méthodes d’enseignement au moyen âge, “Actes du colloque (Rome 2122 octobre 1989), éd. O. Weijers, Turnhout, 1992, pp. 13-32. (53) Cfr. Vita Radegundis, I, 25, pp. 372-373: “Itaque post tot labores, quas sibi poenas intulerit, et ipse qui voce refert perhorrescit. Quadam vice, dum sibi latos tres circulos ferreos diebus quadragesimae collo vel brachiis nexuit, et tres catenas inserens, circa suum corpus dum alligasset adstricte, inclusit durum ferrum caro tenera supercrescens”. (54) Pricoco, op. cit., p. 182, con riferimento a H. Platelle, La pénitence des parricides, “Sacris erudiri”, XX (1971), pp. 145-161. (55) A questo tema assegna una funzione narratologica dominante il Pricoco, op. cit., p. 182: “è il tema squisitamente monastico, e martiniano, del martirio all’irreale del passato, del santo che sarebbe stato martire se fosse vissuto in altra epoca e che ora sostituisce a quello inferto dal persecutore il martirio volontario delle rinunzie e dei patimenti”. (56) Cfr. Vita Radegundis, I, 26, p. 373: “Item vice sub altera iussit fieri laminam in signo Christi oricalcam, quam accensam in cellula locis duobus corporis altius sibi inpressit, tota carne decocta. Sic, spiritu flammante, membra faciebat ardere”. (57) Ibid., I, 26, p. 273: “Adhuc aliquid gravius in se ipsa tortrix excogitans una quadragesimarum... iubet portare aquamanile ardentibus plenum carbonibus. Hinc, discendentibus reliquis, membris trepidantibus, animus armatur ad poenam, tractans, quia non essent persecutionis tempora, a se ut fieret martyra. Inter haec, ut refrigeraret tam ferventem animum, incendere corpus deliberat, adponit aera candentia, stridunt membra crementia, consumitur cutis, et intima, quo attigit ardor, fit fossa. Tacens tegit foramina, sed computrescens sanguis manifestabat, quod vox non prodebat in poena” (58) Ibid., I, 1, p. 364. (59) Cfr. Vita Martini, cit., XXVII, 1, p.314. (60) Carmina, IV, 26, vv. 14-16, éd. Reydellet, I, p. 156. Per un’edizione commentata, cfr. Venanzio Fortunato, L’epitafio di Vilithuta, ed. Santarelli, Napoli, 1978. (61) Cfr. Vita Radegundis, I, 1, p. 364. (62) Pricoco, op. cit., p. 181. (63) Cfr. Carmina, I, 21, De Egircio flumine, éd. Reydellet, I, pp. 46-48. Su questo testo, cfr. F. Della Corte, Venanzio Fortunato poeta dei fiumi, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, cit., pp. 137-147. (64) Vita Sancti Marcelli, ed. B. Krusch, MGH, Script. rer. merov., II, pp. 49-54. Cfr. J. Le Goff, Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel Medioevo: San Marcello di Parigi e il drago, in Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, 1977, pp. 51-90. (65) Sui significati storico-politici delle iniziative religiose femminili in età merovingia, cfr. M. Cristiani, La sainteté féminine du haut moyen âge. Biographie et valeurs, in Les fonctions des Saints dans le monde occidentale (IIIe-XIIIe siècle), “Actes du colloque“ (Rome, 27-29 octobre 1988), École Française de Rome, 1991, pp. 385-434. (66) Cfr. Carmina, éd . Reydellet, I, Introduction, pp. LII. (67) Ibid., VIII, 3, vol. II, pp. 129-146. (68) Ibid., XI, 3, v. 3, ed. Leo, cit., p. 259. (69) Ibid., vv. 15-16. (70) Ibid., XI, 6, vv. 1-4, p. 260. (71) Ibid., vv. 8-12. (72) Ibid., XI, 7, vv. 9-12, p. 261. (73) Cfr. Historiae, IX, 39-43. Cfr. 40, p. 466: “Pectavi regressi sunt (le religiose ribelli) et se infra basilica sancti Helari tutaverunt, congregatis secum furibus, homicidis, adulteris omniumque criminum reis, stabilientes se ad bellum atque dicentes, quia: ‘Reginae sumus nec prius in monastyrio nostro ingrediemur, nisi abbatissa eiciatur foris’“.

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YVES-MARIE DUVAL Università di Parigi X Francia La Vie d’Hilaire de Fortunat de Poitiers: du docteur au thaumaturge

Lorsque Paul Diacre passa à Poitiers à la fin du VIIIè siècle, il composa pour le tombeau de Venance Fortunat une épitaphe métrique qu’il a insérée dans son Histoire des Lombards avec un résumé de sa biographie, “pour que ses concitoyens n’ignorent pas complètement sa vie1”. Les renseignements que donne Paul Warnefrid sont tirés en bonne partie de l’œuvre même de Fortunat, comme il le reconnaît. On notera qu’il s’intéresse au prosateur autant qu’au poète et que son épitaphe célèbre Fortunat pour ses Vies de saints et leur valeur parénétique: “Cuius ab ore sacro sanctorum gesta priorum / Discimus. Haec monstrant carpere lucis iter”2. Dès cette fin du VIIIè siècle en effet, et a fortiori dans les siècles suivants, l’œuvre en prose de Fortunat jouit d’une vogue qui, – la Vita Martini et les Hymnes sur la Croix étant à mettre à part – n’a été éclipsée par ses vers qu’au XIXè siècle, lorsqu’on a su faire sortir de leur poussière toutes les personnes auxquelles Fortunat avait écrit ces “poèmes de circonstance”, et non plus se contenter de puiser dans ses poèmes comme dans une carrière de matériaux... Comme on prête facilement aux riches, on lui a durant ces siècles attribué un certain nombre de Vies de saints qui ne lui appartiennent assurément pas3, mais pour lesquelles il a pu fournir une sorte de module, de point de départ au moins, bien qu’il ait eu lui-même des modèles et en tout cas des lectures. Je voudrais m’arrêter ici à un “point de départ” dans l’œuvre même de Fortunat. En effet, la Vie d’Hilaire est vraisemblablement la première Vie que Fortunat ait accepté d’écrire à la demande d’un évêque. Outre quelques épisodes surprenants pour nous, elle est loin d’être simple à comprendre dès qu’on en regarde un peu le détail, qu’on essaye de la situer dans le contexte de la carrière de Fortunat ou qu’on la compare à ses autres Vies4. Il vaut donc la peine non seulement d’entendre les raisons et les buts avoués de 133

son entreprise, mais aussi d’examiner comment celle-ci a été menée avec les renseignements dont il disposait ou qu’il a pu rassembler, pour découvrir, voire deviner, les traits de la figure d’Hilaire qu’il veut dresser devant le peuple de Poitiers, deux cents ans après la mort de son évêque. *** Bien que j’aie rappelé la notice que Paul Diacre lui consacre, je ne reviendrai pas ici sur les circonstances et les raisons de la peregrinatio de Fortunat depuis Ravenne vers la Gaule franque en 565, ni même sur ses étapes entre Metz et Tours5. Nous ne pouvons reconstruire ce dernier itinéraire, en pointillé, qu’en essayant d’ordonner en une série aussi continue que possible les allusions de tout genre disséminées sans ordre dans son œuvre, en les recoupant avec les indications chronologiques, elle aussi éparses, que l’on trouve en particulier dans l’Histoire des Francs de Grégoire de Tours. La question qui se pose dans le cas présent est de savoir si, dans sa marche vers l’ouest depuis Metz, puis Paris, Fortunat, après Tours, s’est d’abord rendu à Poitiers, y a résidé quelque temps, ou s’il a continué à descendre la vallée de la Loire jusqu’à Angers. La seule Vie qui pourrait en effet disputer à la Vie d’Hilaire sa priorité absolue est celle de saint Aubin d’Angers. Dans la Lettre-Préface de cette Vita Albini, Fortunat déclare à l’évêque Domitianus que celui-ci, lors de la visite qu’il lui a faite à Angers, lui a parlé de son prédécesseur et lui a demandé d’écrire sa Vie6. D’après sa Préface, Krusch place cette Vie en tête des productions en prose de Fortunat. On peut se demander si ce n’est pas, au contraire, l’existence de la Vie d’Hilaire qui a suscité la demande de Domitianus et l’intervention de Fortunat, dans des conditions que j’évoquerai tout à l’heure. La Vie d’Aubin ne peut en effet qu’être antérieure à la mort de Domitianus, située en 569, à en croire Krusch7, mais qui pourrait dater de quelques années plus tard comme on va le voir. La Vie d’Hilaire, quant à elle, est dédiée à l’évêque de Poitiers, Pascentius, dont Grégoire de Tours rapporte qu’il a succédé à Pientius de par la volonté du roi de Paris, Caribert8. Ce dernier meurt à la fin de 567 et, dès 569, au moment où la relique de la vraie Croix demandée à la Cour de Constantinople arrive à Poitiers, c’est Marovée qui est déjà l’évêque de la cité et qui refuse, d’après le même Grégoire, de faire la déposition solennelle de la relique dans le monastère de Radegonde9. Or, c’est l’attitude de Marovée qui a dû conduire Radegonde à demander l’appui des évê134

ques de la région, au nombre desquels se trouve encore Domitianus10, d’après la lettre transcrite par Grégoire de Tours. Nous sommes ainsi dans les années 567-568, en des temps politiquement troublés, que la Vie d’Hilaire semble ignorer complètement. On sait que Fortunat s’abstient d’évoquer avec trop de précision les drames politiques qui se déroulent autour de lui11. Je proposerai cependant de mettre en rapport l’importance donnée par Fortunat à l’histoire d’Abra, la fille d’Hilaire, avec la présence à Poitiers d’Agnès et Radegonde12. Il ne fait guère de doute en tout cas que la venue de Fortunat à Poitiers s’explique plus par la présence de Radegonde en cette ville depuis une quinzaine d’années que par l’existence même du tombeau d’Hilaire, le maître de Martin cher à Fortunat, aussi renommé qu’ait déjà pu être ce tombeau. Voilà donc, faute de précisions données par le récit même du biographe, les coordonnées chronologiques, péniblement tracées, de la rédaction de cette Vie. Venonsen au peu que Fortunat livre lui-même sur le contexte de son entreprise. Il écrit, nous dit-il, à la requête de l’évêque de Poitiers, qui est un ancien moine de St-Hilaire13. Le (nouvel) évêque entend, nous dit-on, “instruire son troupeau en lui faisant entendre la voix et la vie de son plus antique pasteur14”. Mais il convient de ne pas être trop long. Fortunat invoque tout aussitôt – et longuement, bien entendu – son maigre talent15, mais aussi la lassitude (fastidium) qu’il veut éviter à son auditoire en étant trop long16. Il reviendra dans la conclusion de la Vita sur la brièveté de son récit, quitte à reconnaître, dans la Préface du Liber de uirtutibus sancti Hilarii dédié en un second volet au même Pascentius, qu’il n’a pu, à cause de leur éloignement dans le temps, atteindre les nombreux miracula accomplis par Hilaire durant sa vie ou durant les années qui ont suivi sa mort, ce qui le contraint à se limiter à des miracula accomplis, dit-il, “au temps présent” – avec l’espoir d’en obtenir d’analogues dans le futur17. La liste de ces miracula ne sera cependant ni bien longue, ni tout à fait contemporaine18, même si Fortunat dira, une nouvelle fois, s’interrompre pour ne pas provoquer la lassitude des auditeurs19. Bien qu’elles relèvent en partie du topos comme les déclarations d’incompétence, ces excuses et justifications sont précieuses dans la mesure où ces œuvres de commande, que Fortunat place cependant au dessus des panégyriques et thrènes des grands, y compris pour les 135

récompenses qu’elles lui vaudront dans le ciel20, sont rédigées pour l’auditoire que constitue la communauté locale elle-même, celle qui s’approche du tombeau du Confesseur, et non pas pour un public monastique ou savant, comme l’étaient ceux de la Vita Antonii d’Athanase ou, malgré ses dénégations, ceux de la Vita Martini de Sulpice Sévère. On aura aussi entendu l’aveu du panégyriste: il ne dispose guère de matériaux pour élever un monument à la gloire de celui qu’on lui demande de célébrer. Comment va-t-il donc s’y prendre pour raconter la vie d’Hilaire? Quelle que soit sa date relative de composition, commençons par une comparaison avec les conditions dans lesquelles fut écrite la Vita Albini mentionnée plus haut. Il a fallu que l’évêque Domitianus envoie auprès de Fortunat un homme qui avait bien connu Aubin, mort en 550, pour lui fournir, oralement, la matière de son récit21. Dans le cas d’Hilaire, mort depuis deux siècles, Fortunat, qui se plaint dans cette même Préface de l’”oubli du temps”22, aurait pu essayer de reconstituer sa vie à l’aide des indications fournies par ses œuvres. Celles-ci étaient certainement présentes à Poitiers, au monastère St-Hilaire ou à la cathédrale, sinon déjà auprès de Radegonde. Mais ceci eût été un vrai “travail de Bénédictin”, qui, de fait, ne serait pas entrepris avant les Mauristes ou Lenain de Tillemont. Fortunat dit certes grand bien de l’œuvre écrite d’Hilaire. Sans donner leurs titres, il vantera son De Trinitate et ses Tractatus Psalmorum23; mais il n’exploite en rien les indications de ses ouvrages à caractère historique qui devaient alors subsister de façon plus complète que maintenant24, ni même les œuvres qui pouvaient en dériver, comme le De uiris illustribus de Jérôme25 ou l’Historia ecclesiastica de Rufin26. La seule œuvre qu’il cite explicitement est une lettre qu’Hilaire aurait écrite à sa fille Abra durant son exil, dont il déclare qu’elle est précieusement conservée – pro munere – à Poitiers27. J’aurai à y revenir. Pour le reste, il s’est contenté, comme Krusch l’a noté avec un certain dépit28, d’utiliser, pour la partie centrale de sa Vie, ce que Sulpice Sévère avait écrit d’Hilaire, mais aussi de Martin ou au sujet de Martin, dans ses Chroniques et dans sa Vita Martini. Il ne suffit pas de relever sèchement la chose. Il convient d’examiner comment ces quelques données sont agencées pour constituer un canevas chronologique, à l’intérieur duquel Fortunat insère divers tableaux qui présentent d’Hilaire un double portrait, que Sulpice ne lui fournissait 136

pas avec la même netteté, et qui permettent de rapprocher Hilaire de Martin, la gloire et la lumière incontestée de la Gaule. *** Hilaire est d’abord un docteur. Fortunat le laisse entendre de façon quasi paradoxale dans la présentation de la vie laïque de son héros dont je parlerai plus loin. L’enseignement, qu’il nous détaille29, mais dont ne voit pas très bien comment il a pu être concrètement formulé, lui a non seulement valu d’être choisi comme évêque de sa cité, mais l’a rendu célèbre au delà de la Gaule30. Ce sont précisément la qualité et la vigueur de cet enseignement qui vont entraîner son exil, une fois qu’il sera devenu évêque et qu’il affrontera l’hérésie arienne “au temps de Constance”. Fortunat cite certes quelques noms des adversaires d’Hilaire, Valens (de Mursa) et Ursace (de Singidunum), mais curieusement, il tait celui de Saturninus d’Arles, que Sulpice, comme Hilaire, rendait responsable du triomphe de l’erreur; de même, il mentionne (à tort) comme contemporains l’exil d’Hilaire et ceux de Denys de Milan et d’Eusèbe de Verceil. En réalité, ces “précisions” diverses ne sont là que pour donner un peu de “couleur locale”. Fortunat n’a ni le dessein, ni la capacité, de reconstituer le déroulement exact des événements. Seule lui importe la stature d’Hilaire devant l’hérésie: “L’hérétique, écrit-il, ne pouvait parvenir à rien devant l’invincible éloquence d’Hilaire31”. Et de poursuivre: “L’ennemi de la foi espérait pouvoir déployer quelques nuages devant l’éclat de la doctrine catholique si un tel homme – Hilaire – était chassé en exil et ne prenait pas part au combat. Car, comme il a été dit, l’adversaire (de la foi chrétienne) qui voulait lutter avec lui était comme muet et boiteux: il ne pouvait ni parler ni courir, mais, comme un nageur en pleine mer, il était englouti dans les flots de son éloquence32”! Hilaire part donc pour l’exil, en Phrygie33. Fortunat connaît le lieu d’exil d’ Hilaire par Sulpice, et c’est encore à ce dernier qu’il devra la précision qu’Hilaire se trouvait “dans sa quatrième année d’exil34” lorsque Constance décida de réunir les évêques orientaux à Séleucie. Le biographe “meuble” ces trois années par le seul épisode de la lettre à Abra dont les qualités formelles sont indiquées, mais sans insistance35. Le narrateur ménage l’intérêt de ses auditeurs; il les fait explicitement attendre36. Il reviendra plus loin sur la facundia et l’eloquentia du père, lorsque celui-ci sera devant sa fille à son retour à Poitiers. De même 137

insère-t-il durant le trajet qui mène Hilaire de Phrygie à Séleucie d’Isaurie le récit de la conversion soudaine d’une jeune fille païenne et de toute sa famille, en scindant les indications sur la présence d’Hilaire à Séleucie que fournissait Sulpice. Celui-ci ignorait tout de cette conversion et de cet unique contact de l’évêque avec les païens37. Il soulignait en revanche l’étrangeté par laquelle Hilaire, un exilé, un occidental, avait été contraint par les magistrats de Constance d’assister au concile des évêques orientaux, et il y voyait la marque de la Providence divine: “A ce que je présume, écrivait-il, c’est par la volonté divine (Dei nutu) qu’il advint que l’homme le plus instruit des choses divines fut présent lorsqu’on allait discuter de la foi38”. Le biographe reprend l’indication, en exaltant encore davantage le docteur. Après avoir dit, en réduisant, et embellissant, le récit de Sulpice, qu’Hilaire fut “très bien accueilli par tous”, il continue: “ car, la miséricorde divine produisait sur la scène du monde, où on allait décider de la foi, un homme des plus compétent et reconnu pour sa science unique39”. Le récit du concile de Séleucie, qui simplifie encore celui de Sulpice, est mené en laissant entendre qu’Hilaire prit bonne part à la découverte et à la condamnation des ennemis de la foi comme à l’élaboration même des “décrets (du Concile) fondés sur l’Ecriture”40, ce qui dépasse de beaucoup ce que nous savons, tout en résumant une information de Sulpice concernant les ariens condamnés. Hilaire accompagne alors les légats envoyés à Constance, comme Sulpice le disait un peu plus loin, mais de peur, selon Fortunat, que “l’erreur qui avait été condamnée n’exhale à nouveau son souffle (mauvais) contre les dogmes de la religion41”. C’est bien ce qui va se passer, mais que l’on ne peut guère comprendre de son récit, puisqu’il omet de dire que les condamnés ont, de leur côté, envoyé une délégation à Constantinople. Lui-même s’aperçoit de l’obscurité de son récit et il déclare renoncer à raconter42, comme l’avait fait Sulpice, les événements de Rimini et de Constantinople43. A nouveau tout l’intérêt se concentre sur la seule personne d’Hilaire. En trois appels à l’empereur, celui-ci demande à être confronté à ses adversaires44. L’indication était brièvement fournie par son devancier45. Fortunat non seulement la dramatise46, mais il y voit la raison même du retour d’Hilaire en Gaule: les hérétiques préfèrent l’éloigner – à nouveau, peut-on dire – plutôt que d’avoir à se mesurer à lui. “Effrayés par la conscience de leur faute – car, si l’empereur octroyait à Hilaire la possibilité de discuter, ils reconnaissaient qu’ils 138

seraient écrasés par sa force de discussion –, Valens et Ursace demandent à Constance, dont l’esprit était prisonnier d’une cause mauvaise, de forcer le bienheureux à revenir dans les Gaules, en disant que, lui présent, les machinations des hérétiques ne pourraient aboutir47”. Hilaire est donc, grâce à ce prétexte, contraint de regagner la Gaule, ce qui est beaucoup plus fort même que la version du retour d’Hilaire présentée par la Chronique de Sulpice48. Celle-ci taisait par ailleurs les nouvelles conditions politiques qu’Hilaire avait trouvées à son arrivée en Occident et qui lui avaient permis, par une série de conciles, de ramener à la foi de Nicée les évêques occidentaux trompés à Rimini. L’usurpation de Julien en Gaule, la mort de Constance et, bientôt, la mort de Julien lui-même, avaient beaucoup facilité cette action. Fortunat connaît-il encore, deux siècles plus tard, le déroulement des événements qui lui permettrait de compléter la présentation de Sulpice ? On peut en douter. Plutôt qu’un récit des événements, ce retour forcé lui donne surtout l’occasion de peindre les sentiments d’Hilaire, et, à cause de son affrontement – supposé – avec Constance, de développer l’idée qu’Hilaire aurait voulu devenir martyr. Il ne lui a manqué que la main du bourreau49. *** C’est ici que se produit un tournant, ou plutôt un changement de source50. Fortunat recourt désormais à la Vita Martini, à laquelle il n’avait emprunté jusqu’ici qu’une seule indication, en la faisant d’ailleurs passer de Martin à Hilaire51. Le détail de ce qui va suivre est assez complexe, contient plusieurs “erreurs”, sans fournir au lecteur ou à l’auditeur – attentif ou averti – les renseignements nécessaires à la compréhension de la situation véritable de Martin et d’Hilaire, qui vont être rapprochés de diverses manières. Mais le but recherché par le biographe d’Hilaire n’est pas douteux. Sulpice racontait que Martin, installé durant l’exil d’Hilaire dans l’île ligure de Gallinaria, avait appris le retour de son évêque et sa venue à Rome; il avait essayé de l’y rejoindre, ne l’avait pas trouvé, et s’en était venu à Poitiers où il avait été bien accueilli par Hilaire52. Fortunat ne reprend qu’une partie de ces renseignements53 et il transforme le mécompte et la déconvenue de Martin en une sorte d’éloge d’Hilaire. “Martin, dit-il, qui, encore catéchumène, mérita de voir le Christ vêtu de sa chlamyde, ne serait pas venu avec empressement à la rencontre d’Hilaire s’il n’avait vu d’avan139

ce que son esprit était plein des mystères sacrés. Il n’est pas étonnant que celui qui a d’abord vu Dieu dans un pauvre ait par la suite reconnu qu’il habitait en personne en son docteur54”. Voilà pour le docteur, que nous retrouverons encore un peu plus loin dans une autre entreprise d’enseignement, auprès de sa fille. Dans l’intervalle, Fortunat met en scène deux miracula d’Hilaire qui ont un rapport plus ou moins étroit avec Martin et qui semblent avoir pour but de faire rejaillir sur Hilaire ce que l’auditeur sait des signa de Martin. Le docteur devient thaumaturge. Le premier épisode est le plus curieux. Sulpice racontait que, durant son séjour sur l’île de Gallinaria évoqué plus haut, Martin avait failli mourir en mangeant imprudemment de l’hellébore55. L’île était peut-être dangereuse, elle était cependant habitable, au moins par des ascètes. Fortunat, qui n’a aucunement parlé encore de Gallinaria elle-même, rapporte qu’en passant à la hauteur de cette île, durant son retour vers Poitiers, Hilaire apprend des habitants du voisinage – sur la côte donc – que d’énormes serpents infestaient l’île et la rendaient inaccessible — et donc inhabitable, devrait-on conclure56. L’“homme de Dieu” s’y rend, précédé de la Croix, qui met en fuite les serpents. Son bâton fixe bientôt une limite à ne pas dépasser à ces serpents qui ne supportent ni la vue ni la voix d’Hilaire57. D’après le commentaire enthousiaste de Fortunat, il ne fait aucun doute que ces serpents dérivent en droite ligne du Serpent de la Genèse. Hilaire, “serviteur du second Adam”, le Christ, commande aux serpents, et il transforme l’île, sinon en Paradis, au moins en un lieu habitable, débarrassé de ses poisons. Le seul “lien” que cet épisode inattendu présente avec la Vita Martini est l’endroit même où les faits se déroulent de part et d’autre: Gallinaria. En ce lieu, Martin avait failli mourir en absorbant un poison mortel; Hilaire, quant à lui, voit “les poisons s’enfuir immédiatement devant lui”, ce qui marque implicitement une certaine supériorité, pour qui connaît la vie de Martin, mais ce qui annonce aussi, pour nous, l’épisode célèbre du dragon de Paris dans la Vie de saint Marcel58. Au retour d’Hilaire à Poitiers s’instaure un autre parallèle avec Martin, qui trouve cette fois un fondement apparemment plus solide dans la Vie de Martin, que Fortunat complète d’ailleurs, sans aucunement le souligner, par une information précieuse. L’une des très rares indications originales et valides de la Vita Hilarii concerne en effet la localisation 140

de l’ermitage de Martin lorsqu’il rejoint Hilaire à Poitiers après son retour en Gaule: Fortunat est le premier à donner le nom de Locoteiacum, qui a donné Ligugé en français actuel. Sulpice avait narré la résurrection que Martin avait bientôt opérée en cet endroit sur son compagnon, un catéchumène mort sans baptême59. Fortunat le rappelle60 avant d’évoquer une résurrection opérée, cette fois, par Hilaire. Il remplace toutefois le catéchumène adulte par un nourrisson, un infans. La théologie et la mentalité chrétiennes ont évolué depuis la fin du IVè siècle. L’enfant est, selon, Fortunat, “condamné à une double mort: non seulement il avait perdu la vie présente, mais il n’était pas exempt du châtiment du siècle futur61”. Le “challenge” Hilaire/Martin est d’abord le fait de la mère de l’enfant. Celle-ci provoque en effet Hilaire en disant: “Alors qu’il ne faisait que commencer, Martin a rappelé à la vie un catéchumène mort. Toi, qui es évêque, rends, je t’en prie, mon fils, soit à ma personne, soit au baptême!” Et elle poursuit: “Toi qu’on appelle le Père du peuple, fais que j’aie, moi, le nom de mère”62. Le “uir Dei” s’exécute – en public, à la différence, notable, de Martin –, selon un schéma biblique qui ne peut toutefois être appliqué à la lettre, à cause de la taille du nourrisson63. La réanimation, ici dépeinte dans sa progression64, est parallèle à celle que Fortunat décrira, quelques années plus tard, dans la résurrection précisément du catéchumène de Ligugé de sa Vita Martini en vers65! Plus que les étapes de cette réanimation, il convient de noter ici la manière dont l’ensemble de l’épisode souligne la force de la prière et la confiance d’Hilaire dans le Christ, le véritable auteur du miracle. Bien que la prière n’ait encore été mentionnée qu’une seule fois66 dans cette Vita, Hilaire est dit à ce moment “recourir à ses armes habituelles – ad consueta arma recurrens67”. L’évêque “se prosterne jusqu’à terre” et Fortunat ajoutera plus loin qu’il met son espoir dans le Christ68. Le mot oratio est employé deux fois dans cet épisode et preces une fois. Je cite; “L’évêque resta prosterné jusqu’à ce que tous deux se relèvent en même temps: le vieillard de sa prière, l’enfant de la mort – senex de oratione, infans de morte69”. Et de poursuivre dans l’exaltation: “La voilà la vie qui mérite d’être louée, elle qui, par ses prières, a chassé la mort du corps d’autrui, a dépouillé le Tartare en tirant son espoir du Christ! La mort n’a pu maintenir ses droits là où Hilaire a fait pénétrer la force de (sa) prière70”. C’est le point d’orgue. Le narrateur affirme aussitôt qu’il est incapable de célébrer l’exploit d’Hilaire par des paroles, et, par une de ces lourdes 141

transitions dont il est et sera coutumier, il revient à la suite de l’histoire d’Abra, qu’il avait remise: “Mais maintenant, il nous faut rappeler ce que nous avons promis plus haut: comment il mit le comble à ses autres miracles par le miracle que voici71”. La mort d’Abra sera de fait dite supérieure à cette résurrection. L’épisode romanesque des noces d’Abra se déroule en trois temps, dont le premier se passe durant l’exil d’Hilaire. Bien que nous sachions aujourd’hui que certains évêques exilés étaient restés en relations avec leurs communautés, c’est par une “révélation de l’Esprit Saint”, selon Fortunat, et non par une lettre arrivant de Poitiers, qu’Hilaire apprend que sa fille est recherchée en mariage par “un jeune homme à la fois de haute naissance, de grande richesse et de grande beauté – nobilissimus, praediues, pulcherrimus”, selon les valeurs suprêmes de l’époque72. Le “père de famille” antique, qui, selon Fortunat, avait, par “sa prière continuelle”, prévu pour elle un autre époux, céleste, écrit à sa fille en lui promettant un époux plus noble, plus beau, plus riche, mais aussi, plus sage, plus doux, plus chaste, etc73. Selon Fortunat, cette lettre subsistait de son temps à Poitiers, et il l’avait trouvé “assaisonnée d’un juste sel et comme arrosée d’huiles parfumées”74. Celle qui nous est parvenue a beau être bien écrite, elle n’est assurément pas de la main d’Hilaire, ne correspondant ni à sa situation d’exilé ni tout à fait à ce que Fortunat rapporte des promesses et des conseils du père à sa fille75. En effet, le père de la lettre est, non pas en exil, mais parti en voyage à la recherche, pour sa fille, du vêtement et de la perle inestimables que détient un très beau jeune homme... Quoi qu’il en soit, chacun – mais non Abra – a pu deviner que l’époux décrit par l’Hilaire de la Vita ne peut être que le Christ. Mais, s’il ne s’étonne pas qu’Abra ait pu attendre et faire confiance à son père pour le si beau parti qui lui était promis, le lecteur ou l’auditeur – antique ou moderne – ne peut imaginer comment l’affaire va se conclure. Nous voici au troisième acte, où vont s’entrelacer le thème de l’éloquence et celui de la prière qui, selon Fortunat, rendent Hilaire capable de miracles supérieurs même à celui d’une résurrection. De retour donc à Poitiers, Hilaire “s’adresse à sa fille, autant qu’il le pouvait, avec la douceur d’un père et l’éloquence d’un orateur. Que dis-je, il s’adresse à elle, lui dont nous n’osons à peine comparer l’éloquence à celle d’aucun autre, si ce n’est à quelqu’un qui serait rempli de l’Esprit Saint?76” Abra confirme aussitôt son 142

souhait d’être unie rapidement à l’époux que son père lui prépare. Comble – pour nous – de l’étonnement, c’est par la prière – intentus orationibus – que le pius pater obtient que sa fille rejoigne son époux céleste… par la mort77; il en ira de même pour la mère d’Abra. Grâce à la même prière – assidua oratione –, il la fait “passer avant lui dans la gloire”, en quittant “les crimes de ce monde78”. Que penser de cet épilogue? Comparer Abra et sa mère à Agnès et Radegonde est assurément exagéré, ou beaucoup trop précis, et plus encore si on voulait reconnaître Fortunat dans cet Hilaire. On ne peut cependant ne pas songer aux poèmes que Fortunat composera quelques années plus tard, pour Agnès en particulier, en louant la virginité et ses avantages79. Cet épisode de la mort d’Abra et de sa mère tient en tout cas à cœur à Fortunat, puisqu’il le prolonge en une série de paradoxes qui font de cette double mort, ou plutôt de ce double passage à la Vie, le climax de sa biographie: “O gloire de cette mort, s’écrie-t-il, qui est préférable à la vie, puisque ce qu’elle a enlevé à la terre, elle l’a transféré au ciel. En vérité, mourir dans ces conditions – comme Abra – fut plus, à mon avis – ut ego considero – que ressusciter (comme le nourrisson de naguère). On est en effet assuré de son salut lorsqu’on n’est pas souillé par les péchés. Combien de gens désireraient, en livrant leurs biens avec leur vie, se procurer un tel passage, s’ils venaient à trouver le marchand? Quelle différence y a-t-il entre le mystère d’un petit enfant ramené à la vie et celui d’une fille morte en ces conditions – l’enfant, il l’a ressuscité pour le baptême; sa fille, il l’a envoyée vers le Royaume – si ce n’est que, chez l’enfant, il restait encore la perspective de commettre des fautes, tandis que sa fille avait terminé sans tache sa vie80?” Et, après avoir narré le sort analogue de la mère d’Abra, Fortunat conclut: “Qui pensera qu’un tel homme a aimé le Seigneur en méprisant ainsi l’affection de son épouse et de sa fille? Pourtant, on aperçoit qu’il les a aimées davantage, en ce qu’il les a fait lui-même passer dans la lumière sans fin81!” Voilà sans doute l’iter lucis dont parlera Paul Diacre! Si je comprends bien, il y a là, dans l’affirmation et le jugement propre de Fortunat, une sorte d’inclusion, qui m’invite, avant de nouer avec lui la gerbe de sa conclusion, à revenir au début, si curieux et si caractéristique, de sa Vie d’Hilaire. Le saint n’a pas eu, dans sa jeunesse, d’épreuves à traverser comme Germain ou Marcel; il n’a pas eu à gravir peu à peu les degrés ecclésiastiques; il n’a pas non plus 143

mené d’abord une longue vie de moine, comme Aubin ou Germain. Il est passé sans transition d’une vie de laïc, exemplaire à n’en pas douter d’après ce qui est dit, à celle d’évêque de sa cité. Ce laïc est en effet présenté d’emblée comme digne d’être évêque, ou plutôt comme préparé par Dieu à devenir le “prêtre irrépréhensible de son temple82”. Son élection, dont Fortunat ne sait sans doute pas plus que nous, se fait “avec l’accord de la faveur populaire ou plutôt sur la proclamation de l’Esprit de Dieu” et il est dit qu’”il était depuis longtemps destiné aux mystères sacrés83”. Si l’action divine est ainsi rappelée plusieurs fois, la réponse d’Hilaire n’est guère moins soulignée. Je cite l’espèce d’envolée lyrique qui clôt ce premier tableau et qui contient cette affirmation de l’amour du Christ dont on a le pendant dans le jugement final porté par Fortunat sur la conduite d’Hilaire à l’égard de sa fille et de sa femme: “O le laïc on ne peut plus parfait, que les prêtres eux-mêmes désirent imiter, lui pour qui vivre n’était autre que craindre le Christ avec amour et l’aimer avec crainte, lui que ceux qui le suivent courent à la gloire, ceux qui le fuient courent à leur punition, car les récompenses sont pour celui qui lui fait confiance et les châtiments pour celui qui s’oppose à lui84”. Il me reste à conclure cette lecture rapide. Je le ferai avec le biographe ou le panégyriste lui-même. Les traits les plus profonds de la personnalité d’Hilaire que Fortunat a voulu rendre sont sans doute cet amour du Christ, dont le nom revient souvent, et son recours à la prière, dont on a vu l’importance dans les épisodes les plus marquants – et les moins assurés – de son récit; les plus apparents qu’il ait tracés, ou les plus frappants pour son auditoire, n’en restent pas moins la force de sa parole et de son écriture – ce qui ne nous surprend pas –, mais aussi la puissance de ses actes, analogue ou parallèle à celle de Martin, avons-nous pu découvrir85. Si l’on y prête attention, ces deux derniers aspects sont tour à tour exposés à trois reprises dans la cauda de cette Vie. Je me contenterai de citer les trois mouvements de cette dernière page, qui me semble contenir ce que j’ai essayé de faire apparaître: “Qui pourrait parvenir à passer en revue l’abondance de son génie débordant et qui serait capable d’égaler ses paroles avec ses propres paroles? Avec quelle majesté n’a-t-il pas composé ses livres sur la Trinité indivise? Avec quelle élévation n’a-t-il pas dévoilé un à un les mystères du poème de David? Quelle intelligence dans ses exposés! Quelle profondeur dans ses explica144

tions! Quelle éloquence dans son écriture! Quelle puissance admirable! Il était riche dans ses raisonnements, fin dans ses conclusions; il avait, comme dit le prophète(!), l’astuce du serpent, sans perdre la grâce et la simplicité de la colombe. Sel d’un esprit plein de saveur, source d’éloquence, trésor de science, lumière de (la) doctrine, défenseur de l’Eglise, combattant de ses ennemis. Quand on lit ses paroles, on croit non qu’il parle, mais qu’il tonne! C’était là dépasser les autres hommes en sagesse que de parler de la religion avec tant de sûreté86” – Voilà pour le “docteur”, son œuvre écrite et orale. Mais Fortunat continue:”Mais si on veut le découvrir lui-même, qu’on se souvienne de ses exils, qu’on considère ses mérites, qu’on relise ses volumes, qu’on pèse ses paroles, qu’on recense les miracles qu’il accomplit chaque jour – signa cotidiana percenseat87”. Pas de doute que, dans cette nouvelle approche, la dernière phrase introduise un élément nouveau, et important. Le dernier couplet est du même ton: “Tant qu’il vécut en ce monde, ou bien il écrivit des ouvrages sur la foi de l’Eglise, ou bien il combattit et écrasa les crimes des hérétiques, ou bien il accorda à qui les lui demandait les secours de ses miracles”. A quoi il ajoute: “Ceux-ci, grâce à ses prières, se continuent jusqu’à aujourd’hui, de par la volonté du Seigneur88”. Fortunat n’ira pas plus loin. Après ces trois couplets il avoue son incapacité, qu’il avait déjà proclamée en commençant. Ecoutons cependant cette ultime déclaration: “Ma langue ne suffit pas à dire dans le détail comme il le mériterait tout ce que l’Esprit Saint a opéré et dit par son intermédiaire89”. Dire, faire. Voilà les deux clés. L’œuvre même d’Hilaire et la Chronique de Sulpice mettaient en lumière le docteur. En le présentant en référence au Martin de Sulpice, Fortunat a inséré dans son récit quelques épisodes qui rendaient moins inattendue l’action thaumaturgique de l’évêque. Le Liber de uirtutibus Hilarii était au moins en germe dans sa Vita. Mais surtout les deux “lumières” de la Gaule étaient rapprochées. Dès son Histoire des Francs Grégoire de Tours entérinera cette parenté90.

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Note

(1) Paul. Diac, Historia Langobardorum, 2, 13 (ed. L. Bethmann et G. Waitz, MGH SRLI s.VI-IX, Hannover, 1964, pp. 79-81:”…ne eius uitam sui ciues penitus ignorarent” (p. 81, l. 5). (2) Ibid., v. 5-6. L’épitaphe, disparue, est reprise également par Marc Reydellet, en tête de son édition des Poèmes (v. infra, n. 5). (3) Dans son édition des œuvres en prose de Fortunat, B. Krusch n’a retenu, outre la Vie de Radegonde, que cinq Vies d’évêques, rangeant un certain nombre d’autres Vies parmi les “opuscula Venantio Fortunato male attributa”. De divers côtés, on s’est, depuis ce “filtrage” sévère, prononcé en faveur de l’attribution à Fortunat de la Vita Seuerini, inconnue de Krusch, et de la Vita S. Medardi qu’il jugeait indigne du poète savant. Je n’y reviens pas ici. (4) Cette Vita Hilarii a déjà retenu l’attention à l’époque moderne, soit pour elle-même (V. Messana, Note sulla Vita Sancti Hilarii di Venanzio Fortunato, “Augustinianum”, 24, 1984, pp. 201-211), soit au milieu des autres Vies composées par Fortunat (S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, edd. T. Ragusa - B. Termite, Treviso, 1993, pp. 175-193; D. Fiocco, L’immagine del vescovo nelle Vitae sanctorum di Venanzio Fortunato, “Augustinianum” 41, 2001, pp. 212-230). Avec celle de Radegonde, cette Vita a été traduite, avec le Liber de uirtutibus S. Hilarii qui en forme le second volet, par G. Palermo dans la Collana di testi patristici, n° 81, Roma, 1989. D’après son Introduction et son annotation, l’auteur me semble chercher à présenter Hilaire lui-même et son œuvre, plutôt que la Vie de Fortunat. Je voudrais m’intéresser ici à cette Vie seule, en essayant de montrer comment, en utilisant une documentation vieille de deux siècles, Fortunat l’adapte pour donner d’Hilaire une image qui le rapproche du ”bienheureux Martin”. (5) Sur cet itinéraire, voir, de façon générale, en dernier lieu, Judith W. George, Venantius Fortunatus. A Poet in Merovingian Gaul, Oxford, 1992, p. 28-30; M. Reydellet, Venance Fortunat, Poèmes, t. I, livres I-IV, CUF, Paris, 1994, pp. VIII-XIV. Ce dernier attire l’attention sur la mention par Fortunat de sa vision des Pyrénées couvertes de neige en juillet (Praefatio, 4 - p. 4), ce qui semble supposer que Fortunat serait descendu immédiatement jusqu’aux Pyrénées et même serait allé dès ce moment en Galice auprès de Martin de Braga. Un tel périple, s’il se plaçait dès 568, diminuerait encore le temps que Fortunat a pu passer auprès de l’éphémère évêque de Poitiers, Pascentius, le commanditaire de la Vita Hilarii. J.W. George (p. 31) place cette descente jusqu’aux Pyrénées un peu plus tard. (6) Vita S. Albini, 1, 1 (MGH AA 4,2, p. 27-28). Le c. XI, 25 (MGH AA 4,1, p. 268-269), s’il s’adresse à Radegonde et à ses sœurs, est écrit à un moment où Fortunat est déjà à Poitiers et se rend à Angers pour la fête de saint Aubin, invité par Domitianus (v. 9-10). J. W. George (p. 32) place ce voyage après 570, et conséquemment la Vita Albani. Rien n’assure cependant que Fortunat n’ait participé qu’une seule fois à la commémoration d’Aubin. (7) Prooemium, p. XIII. Krusch se contente de situer la Vita Hilarii entre 565 et 573 (ibid., p. VII). (8) Greg. Tur., Historia Francorum, 4, 18 (ed. B. Krusch et W. Levison, MGH SRM I, 1, Hannover, 1965, p. 151, l. 10-16). (9) Ibid., 9, 40 (p. 464). (10) Ibid., 9, 39 (p. 460). On notera que cette réponse mentionne déjà l’usage de la Règle de Césaire par le monastère de Poitiers. (11) A propos du passage de la princesse wisigothe par Poitiers, à un moment où elle était encore arienne, l’élégie sur la mort de Galeswinthe consacre 6 vers à l’éloge d’Hilaire (c. VI, 5, 217-222). Les thèmes sont proches de ceux de la Vita: Hilaire est ore tonante loquax (v. 218); il est connu partout dans le monde (v. 219-220), où il répand la foi dans les esprits (mentibus) comme le soleil sur les montagnes (montibus). On retrouve un éloge analogue en c. VIII, 1, 13-20. Mais il n’est question, ni d’un côté ni de l’autre, des miracula d’Hilaire. On remarquera que Fortunat déclare avoir été présent de-

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puis peu à Poitiers lors du passage de la princesse (c. VI, 5, 223: nouus). (12) La consécration d’Agnès, qui sera l’occasion du c. VIII, 3, est postérieure; mais on peut penser que l’exaltation de la virginité n’est pas chose nouvelle pour Fortunat (Voir aussi le c. VIII, 4). Le poète prend le relais d’Ambroise et de Jérôme, qu’il connaît bien. (13) Vita Hilarii, 1, 2 (p. 1, l. 8-11). Sur les erreurs provoquées dans les listes épiscopales de Poitiers par cette allusion aux relations entre Hilaire et Pascentius, voir Krusch, p. V-VI; L. Duchesne, Fastes épiscopaux de l’Ancienne Gaule, II, Paris 1910, p. 80. Duchesne place l’épiscopat de Marovée après 585 (p. 80, 83), ce qui n’est pas acceptable. (14) Ibid. (l. 12-14):”dum sui gregis auribus uox quodam modo et uita pastoris antiquissimi resonaret…” (15) Ibid., 2, 3-4. Mais d’où tire-t-il (ut audio) que Jérôme, ce “torrent d’éloquence”, aurait refusé d’écrire la Vie d’Hilaire, dépassé par son sujet? Alors que Jérôme compare Hilaire au Rhône impétueux, Fortunat voit en Hilaire l’Euphrate et en Jérôme le Nil (ibid., l. 20). (16) Ibid., 2, 5 (p. 3, l. 3-6) (17) Liber de uirtutibus S. Hilarii, 2, 5 (p. 8, l. 8-14). (18) En tout, 9 miracula, qui touchent en majorité des proches de la Basilique, d’une manière ou d’une autre. Le plus ancien et le plus célèbre, qui sera repris par Grégoire de Tours (Historia Francorum, 2, 37), est le prodige que Clovis, à la veille de la bataille de Vouillé contre l’arien Alaric, aperçoit venant à lui depuis la basilique d’Hilaire. Fortunat ne manque pas de signaler que Clovis s’apprête à combattre une “nation hérétique” et que si Hilaire intervient, c’est qu’il croit combattre Alaric comme il a combattu Constance (Liber, 7, 20 et 23). (19) Liber, 13, 37-38 (p. 11, l. 17-22). Sur ce topos du fastidium, v., par ex., Paulin de Milan, Vita Ambrosii, 1 et 19. (20) Liber, 1, 3 (p. 7, l. 22 - p. 8, l. 5). (21) Vita Albini, 2, 3-4 (p. 28, l. 10-19). (22) Ibid, 2,2 (p. 28, l. 8-10). (23) Vita Hilarii, 14, 50 (p. 6, l. 35-37). Le De Trinitate est également mentionné par ses “deux fois six livres” dans le c. II, 15, 19-20. Un peu plus haut dans la même pièce, il a fait allusion (v. 13-14) à la vision d’Etienne en Actes 7,55. On trouve de fait une allusion -rapide- à cette vision dans le De Trinitate, 3, 17 (ed. P. Smulders, CC 62, p. 88, l. 36-37). (24) Je pense en particulier au Liber aduersus Valentem et Vrsacium historiam Ariminensis et Seleuciensis synodi continens cité par Jérôme (De uiris illustribus, 100 - v. la note suivante), dont nous ne connaissons plus, vraisemblablement, que des fragments. Fortunat mentionnera les noms de Valens et Ursace (5, 15 et 8, 28), mais à travers le résumé de Sulpice Sévère. Le poète qu’ il est ne fait pas la moindre allusion aux Hymnes d’Hilaire… (25) HIER, De uiris illustribus, 100 (ed. A. Ceresa Gastaldo). Celui-ci donne le nom de Saturninus d’Arles et mentionne le synode de Béziers à la suite duquel Hilaire fut exilé en Phrygie, ce qui correspond davantage à la réalité historique que la présentation de Fortunat. Grégoire de Tours pour sa part consultera la Chronique de Jérôme quand il évoquera la lutte d’Hilaire contre l’hérésie (Historia Francorum, 1, 38 ). (26) Rufinus Aquil., Historia ecclesiastica, 10, 21 et32 (ed Th Mommsen, GCS 9, 2, p. 988 et 994). Imprécis sur les circonstances de l’exil, celui-ci consacre une belle page à l’action d’Hilaire à son retour. (27) Vita Hilarii, 6, 19 (p. 3, l. 15-17). (28) Prooemium, p. VI: “Pleraque quae de s. Hilario retulit, e Sulpicio Severo hausit… Praeter fabulas Fortunatus nihil noui de S. Hilario memoriae tradidit… Itaque, quae exstat Vita, e Sulpicio, epistulis fictis (sc. Ad Abram) fabulisque consarcinata, multum abest quin Fortunati laudem extollere possit”. Krusch a transcrit soigneusement dans son Apparatus fontium la plupart des passages empruntés ou démarqués de Sulpice. (29) Vita Hilarii, 3,11 (p. 2, l. 24-27). (30) Ibid., 4, 12-13 (p. 2, l. 27-34). (31) Ibid., 5, 15 (p. 3, l. 3-4).

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(32) Ibid., 5, 16 (p. 3, l. 4-8). Je ne vois pas à quoi se réfère le “comme il a été dit”. En revanche, même si elles sont peu cohérentes, les images des joutes de l’éloquence, outre leur ascendance profane, reprennent les images d’une certaine militia Christi déjà appliquée à Hilaire. Celui-ci a été présenté comme un “signifer belligerator (…) inter haereticos gladios” (5, 14 - p. 2, l. 37). (33) Ibid., 5, 17 (p. 3, l. 8) et 7, 21 (l. 30-31). (34) Ibid. (l. 30-31). Cf. Sulpice Sévère, Chroniques, 2, 42, 1 (ed. Ghislaine de Senneville-Grave, SC 441, p. 322, l. 4). (35) Ibid., 6, 18-20 (p. 3, l. 10-27) avec ce début: “Qui dum ad locum peruenisset optabilem, nobis tacendum non est quod illi concessum est”. Remarque rare chez les biographes anciens qui d’ordinaire marquent peu le progrès de leurs héros: Pour Fortunat, Hilaire, “quantum pro nomine Christi longius discedebat de solo proprio, tantum merebatur fieri uicinior caelo” (5, 17 - p. 3, l. 9-10). On trouvera plus loin souligné son désir du martyre. (36) “Sed qualiter ad illum sponsum peruenerit, locus in sequenti seruatur”, déclare-t-il à la fin de ce premier épisode. (37) Alors que Martin avait affronté les païens au long de son épiscopat, cette mention d’ une jeune fille païenne, qui se convertit spontanément, entraîne sa famille et suivra Hilaire jusqu’à Poitiers, est unique dans cette Vie. Jamais Hilaire n’a affaire aux païens chez Fortunat. Mais au VIè siècle, le biographe lui fait éviter les Juifs et les hérétiques, au temps même de sa vie laïque (Vita, 3, 9 -p. 2, l. 18-21). Cela n’est certainement pas sans intention à l’égard de ses contemporains – les évêques nommés ensuite? On notera que cette absence de rapports concerne la vie la plus ordinaire: manger avec eux, les saluer, appuyée sur “l’exemple” de David (cf. Ps 25, 4-6?). La jeune Florentia reconnaît en Hilaire un “seruus Dei” et le proclame, à la manière dont les démons pressentent la divinité du Christ dans les Evangiles. Nous ne savons rien de cette jeune fille qui demande aussitôt le baptême. Le fait qu’elle quitte sa famille pour suivre son “père” spirituel n’est sans doute pas sans intention de la part de Fortunat. Pense-t-il aux jeunes filles qui entourent Radegonde? (38) Chroniques, 2, 42, 1 (p. 322, l. 10-12). (39) Vita Hilarii, 8, 24 (p. 4, l. 4-6). (40) Ibid., 8, 25 (p. 4, l. 6-8): “Hinc post examinationem agnitis hostibus et oppressis, decretis in scriptura conditis, prospera gerens synodi dirigitur ad imperatorem legatio…”. Je me demande s’il ne faut pas plutôt lire: propera (legatio). Fortunat passe sous silence les soupçons qu’Hilaire dut dissiper devant les Orientaux concernant la foi des Occidentaux, accusés de Sabellianisme (Chroniques, 2, 42, 2). Le c. II, 15, 5-18 félicite Hilaire d’avoir défendu la foi diuinis tantum uocibus (v. 18) contre le poison des Grecs qui s’appuie sur la sagesse du monde. Il est donc vraisemblable que les décisions du Concile ne sont pas ici simplement “mises par écrit”. (41) Le récit de Fortunat utilise, développe, réduit, articule, amplifie, etc, les données suivantes de Sulpice: 1) “Repertique prauae haeresis auctores atque ab ecclesiae corpore auulsi. In eo numero fuere Georgius ab Alexandria etc…Sed confecto synodo, decreta ad imperatorem legatio quae gesta insinuaret…” (2, 42, 3); 2) Après un long récit des tractations de Rimini (2, 43-45, 1): “Aderat ibi (à Constantinople) tum Hilarius a Seleucia legatos secutus, nullis certis de se mandatis, opperiens imperatoris uoluntatem, si forsitan redire ad exilium iuberetur” (2, 45, 2). Si Fortunat signale bien, comme Sulpice, l’absence de consignes impériales, il met en valeur l’intelligence et le courage d’Hilaire en lui faisant pressentir une manœuvre des hérétiques. Mais il a oublié de dire avec Sulpice que les condamnés avaient, eux aussi, envoyé une délégation à Constance. (42) Vita Hilarii, 8, 26 (p. 4, 1. 10): “Sed disserere longum est qualiter…” (43) Chroniques, 2, 43-45. (44) Vita Hilarii, 8, 27 (p. 4, l. 14-16). (45) Chroniques, 2, 45, 2 (p. 328, 13- 330, l. 16). (46) Vita Hilarii, 8, 26 (p. 4, l. 16, 17): “…ne ueritatem falsitas obumbraret, ne aequitati iniquitas praeualeret, ne imperator Deo resisteret, ne fidei perfidia rebellaret”! Sulpice se contentait de dire: “Id uero Ariani maximo opere abnuere” (2, 45, 2).

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(47) Ibid., 8, 28 (p. 4, l. 18-21). Fortunat parle ici de machinamenta; il a parlé plus haut de fraus haeretica (l. 11) de compositus fucus (l. 14) de mendacium (l. 13), et sans doute de composita mentitio (plutôt que mentio) (l. 10). (48) “Ad Gallias compulsus reuertitur”, écrit Fortunat (8, 29). Sulpice disait: “Postremo quasi discordiae seminarium et perturbator Orientis redire ad Gallias iubetur, absque exilii indulgentia”(2, 45, 2 - p. 330, l. 17-19). La Vita Martini, 6, 7 parle au contraire de “repentir” de l’empereur qui accorde à Hilaire “l’autorisation” de rentrer. Ici encore, Fortunat a choisi et durci la situation, à la gloire de “l’athlète du Christ” (8, 27 - p. 4, l. 12-13). (49) Vita Hilarii, 8, 30-32 (p. 4, l. 23 - p. 5, l. 2). Et de conclure: “Igitur, sanctissimam animam etsi gladius persecutoris non abstulit, palmam tamen martyris non amisit”. Cf. Vita Albani, 18, 50 (p. 33, l. 12-14). (50) La Chronique signalait simplement ensuite la mort d’Hilaire “cinq ans après son retour en Gaule” (2, 45, 4 - p. 332). (51) En Vita Hilarii, 7, 21 (p. 3, l. 28), Fortunat emprunte un début de phrase à la Vita Martini, 6,4, où elle concerne le retour de Martin dans sa patrie, après sa première rencontre avec Hilaire et son ordination comme exorciste (ibid., 5, 2). A suivre Fortunat, Martin n’a pas encore rencontré Hilaire et il ne sera ordonné exorciste que postea (Vita Hilarii, 9, 33- p. 5, l. 4). (52) Vita Martini, 6,7-7,1 (ed. J. Fontaine, SC 133, p. 266). (53) Vita Hilarii, 9, 33 (p. 5, l. 3-6). Noter la manière d’introduire Martin: “Tunc beatus Martinus aeque meritorum lumen non absconsum…” (54) Ibid., 9, 34 (p. 5, l. 6-9). (55) Vita Martini, 6, 5-6 (p. 266). Notons que Martin repousse ici par la prière le danger qui le menace. (56) Vita Hilarii, 10, 35 (p. 5, l. 10-13), avec cette insérende: “Illud etiam nobis non conuenit tam nobile praeterire miraculum”. Fortunat a-t-il lu la Vita Honorati, 15, 2-4? Hilaire d’Arles raconte que l’île où Honorat se retire avec ses compagnons était pleine de serpents et que les habitants des environs le dissuadaient de s’y rendre. Honorat passe sur l’île, confiant en la parole du Christ, et “cedit turba serpentium” (ed. M.D. Valentin, SC 235, p. 110). (57) Vita Hilarii, 10, 36-37 (p. 5, l. 13-19). “Praecedente crucis auxilio”, est-il dit. A part le signe de la croix que la jeune Florentia implore sur elle (Vita Hilarii, 7, 22), c’est le seul usage de la Croix dans cette Vita. (58) Vita Marcelli, 10, 40-48 (p. 53-54), où le bâton de Marcel (§46, 48) exerce la même puissance que celui d’Hilaire. Comparer surtout Vita Hilarii, 10, 36 (p. 5, l. 14): “…uir Dei sentiens sibi de bestiali pugna uenire uictoriam…” et Vita Marcelli, 10, 45 (p. 53, l. 33): “Beatus Marcellus intellegens se de cruento hoste triumphum adquirere…”. (59) Vita Martini, 7, 1 (p. 266). Concernant le lieu de l’ermitage de Martin, Sulpice, qui écrit loin de Poitiers, dit: “haut longe ab oppido”. (60) Vita Hilarii, 12, 41 (p. 5, l. 30, 31): “Itaque beatum Martinum in vico Locoteiaco dum praecepisset consistere, uirtute diuina meruit ibi mortuum suscitare”. La syntaxe est suffisamment elliptique pour que l’on puisse hésiter à première lecture sur le sujet de meruit. (61) Vita Hilarii, 12, 42 (p. 5, l. 31-33). (62) Ibid., 12, 43 (p. 5, l. 33-6, l. 4). On notera ce titre de “père du peuple”, plus propre au VIè siècle qu’au IVè, même s’il est attiré ici, comme souvent chez Fortunat, par le goût de l’antithèse. A comparer avec la prière à Martin de la mère de l’enfant mort du pays des Carnutes, dans la Vita Martini, 3, 175186 de Fortunat (en particulier, v. 185: “ne sit matris mihi nomen inane”). (63) Chez Sulpice, Martin s’enfermait avec le cadavre et, en priant, le couvrait de son corps (Vita Martini, 7,3), à l’instar d’Elie avec l’enfant de la veuve de Sarepta. Autre exemple dans la Vita Ambrosii, 28 de Paulin de Milan. (64) Vita Hilarii, 12, 44 (p. 6, l. 5-9). (65) Vita Martini, 1, 170-175 (ed. S. Quesnel, p. 13-14). (66) Vita Hilarii, 6, 18 (p. 3, l. 14): “interuentu orationis assiduae”, au sujet d’Abra. Voir ci-dessous. (67) Ibid., 12, 44 (p. 6, l. 5): “Vir Dei, spectante populo, ad consueta arma recurrens, in terram prosternitur…” Cf. Vita Albani, 11,31 (p. 30, l 31sq.):

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“…tum pontifex se ad nota arma conuertens…”, avec un recours au signe de la Croix.. (68) Ibid. (l. 11-12): “…spem habens de Christo”. (69) Ibid., 12, 45 (p. 6, l. 9-10). Cf. Vita Radegundis, 37, 86 (p. 48, l. 1819): “surgit haec (= Radegonde) ab oratione, resurgit illa (la petite fille morte) de funere et se tunc releuat uetula cum reuixisset infantula”. Cette résurrection est explicitement rapprochée par Fortunat de la “manière” de Martin (“more beati Martini”, 84). (70) Ibid. (l. 10-12). (71) Ibid. (l. 13-14): “… qualiter miracula reliqua hoc miraculo cumulauit”. Le mot miraculum avait été employé pour l’épisode de Gallinaria (10, 35 - v., supra, n. 56). (72) Vita Hilarii, 6,18 (p. 3, l. 11-14). (73) Ibid., 6, 18-19 (l. 14-23). (74 Ibid. (l. 16-17): “sufficiente sale conditam et uelut aromaticis unguentis infusam”. (75) Ep. Accepi litteras tuas (PL 10, c. 549-552 = CSEL 65, pp. 237-244). (76) Ibid., 13, 46 (p. 6, l. 15-18). (77) Ibid., 13, 47 (l. 20-23). (78) Ibid., 13, 49 (l. 29-31). (79) Voir le long c. VIII, 3, et aussi le suivant. (80) Vita Hilarii, 13, 48 (p. 6, l. 23-29). (81) Ibid., 13, 50 (p. 6, l. 32-34). (82) Ibid., 3, 8 (p. 2, l. 13-16): “Coniugem habens et filiam, ita plenitudine Domini uenerabiles animos ecclesiasticae regulae tradidit informandos ut, adhuc in laicali proposito constitutus, diuino nutu pontificis gratiam possideret, ita se ipsum propria disciplina cohercebat intentus, quasi futuram speciem indicans ut irreprehensibilis in templo Christi praepararetur sacerdos”. “Animos informare” et “disciplina se cohercere” sont les seules allusions de cette Vita à une ascèse. “Irreprehensibilis” est sans doute une allusion à 1 Tim 3, 2, qui concerne les qualités requises de l’évêque. (83) Ibid., 4, 12 (p. 2, l. 29-31). Que penser de l’élection de Pascentius, décidée par Caribert? (84) Ibid., 3, 10 (p. 2, l. 21-24). (85) Le c. II, 15 mentionné plus haut (n. 23 et 40) ne fait aucunement allusion aux miracula d’Hilaire. Dans l’ Eglise de Nantes, où se trouvent, semble-t-il, de ses reliques, Hilaire est “associé” à Martin, mais d’une manière générale: “Dextera pars templi meritis praefulget Hilarii,/ compare Martino consociante gradum. // Gallia sic proprios dum fudit ubique patronos/ quos hic terra tegit, lumina mundus habet” (c. III, 7, 51-54). Comparer ce que dira Grégoire de Tours (infra, n. 90), et le progrès. (86) Vita Hilarii, 14, 50-51 (p.6, l. 34 -p. 7, 2). Pour la comparaison avec le tonnerre, outre la n. 11, voir Jérôme, Ep. 49, 13, 4, au sujet de l’apôtre Paul: “quotienscumque lego, uideor mihi non uerba audire sed tonitrua”. (87) Ibid., 15, 52, (p. 7, l. 2-4). (88) Ibid. (l. 4-6). (89) Ibid., 15, 53 (p. 7, l. 7-8). (90) Historia Francorum, 1, 38-39 (p. 27). Après avoir parlé de l’exil d’Hilaire et de son œuvre écrite à l’aide de la Chronique de Jérôme, fait mention de son retour d’exil grâce à Sulpice (§38), Grégoire poursuit en évoquant Martin, avant de revenir de manière significative à Hilaire, donnant d’après Jérôme la date de sa mort: “Tunc iam et lumen nostrum exoritur, nouisque lampadum radiis Gallia perlustratur. Hoc est eo tempore beatissimus Martinus in Gallias praedicare exorsus est, qui Christum, Dei filium, per multa miracula uerum Deum in populis declarans, gentilium incredulitatem auertit. Hic enim fana destruxit, haeresem oppressit, ecclesias aedificauit et, cum aliis multis uirtutibus refulgeret, ad consummandum laudes suae titulum tres mortuos uitae restituit. Quarto Valentiniani et Valentis anno sanctus Hilarius apud Pictauos, plenus sanctitate et fide, multis uirtutibus editus, migrauit ad caelos. Nam et ipse legitur mortuos suscitasse” (la romaine est de moi, ainsi que la “normalisation” du texte). Grégoire a lu Fortunat et il entérine son rapproche-

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ment d’Hilaire avec Martin. On peut se demander s’il ne le prolonge pas, en faisant, inversement, rejaillir sur Martin la gloire d’Hilaire. La “prédication” de Martin et ses “miracles” prouvent que le Christ est “vraiment Dieu”; ce faisant, Martin ne convertit pas seulement les païens, il “écrase l’hérésie” – arienne à n’en pas douter, pour Grégoire.

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DAVIDE FIOCCO Seminario di Belluno

L’immagine del vescovo nelle biografie in prosa di Venanzio Fortunato Scorrendo le raccolte bibliografiche inerenti a Venanzio Fortunato, si nota come la quasi totalità degli studi si sia concentrata sulla produzione poetica: i Carmina e la Vita Sancti Martini1; Fortunato è infatti considerato dalla critica contemporanea soprattutto come poeta. Nel medioevo, invece, era conosciuto soprattutto come agiografo: le biografie in prosa gli fruttarono grande fama2; poi vennero sempre più trascurate dalla critica. In tempi recenti non sono mancati gli studi, ma sono rari. Nel 1970 J. Le Goff pubblicò uno studio su un unico paragrafo della Vita S. Marcelli3; nel 1979 F.E. Consolino dedicò alle Vitae alcune pagine di un saggio sulla figura del vescovo nella Gallia tra il IV ed il VI secolo4. Nello stesso anno L. Navarra constatava però: “uno studio esauriente che investa l’intero suo corpus agiografico non è ancora stato fatto”5. Nel 1984 V. Messana analizzò la Vita S. Hilarii6. Nel 1990 S. Pricoco elaborò un quadro d’insieme molto sintetico7. Lo studio più specifico sulla lingua e sulle finalità di questi testi è uscito dalla penna di R. Collins, la cui analisi si è di fatto limitata alla Vita S. Germani8. Questa parte delle opere fortunaziane resta quindi un campo aperto per la ricerca; il presente intervento presenta il frutto di un’analisi che si è concentrata sull’insieme di questi scritti, cercando in esse il modello episcopale, ossia l’immagine di vescovo che vi appare. Infatti i santi raccontati dal Nostro furono quasi tutti vescovi. Di qui alcune domande: Fortunato segue un progetto nel proporre tale figura episcopale? C’è un nesso tra la figura episcopale delle Vitae e la situazione della Chiesa nei regni merovingi del secolo VI?

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1. Venanzio Fortunato in Gallia

È un problema per gli studiosi stabilire il motivo per cui nell’autunno del 565 Fortunato abbia lasciato l’Italia per raggiungere i regni merovingi e non tornare più in patria. Il poeta si giustifica con la devozione a San Martino, dal quale avrebbe ottenuto la guarigione da un’oftalmia9, ma la critica diffida di questa giustificazione e tenta altre spiegazioni. La tesi che sembra aver maggior credito cerca un’implicazione del poeta nella questione dei Tre Capitoli: Fortunato sarebbe fuggito da una situazione compromettente10. Un’altra tesi lo ritrae come un wandering bard deciso a trovare in Gallia un mecenate11: approdato a Metz al momento giusto, Fortunato si sarebbe servito delle nozze del re Sigiberto (primavera del 566) come tribuna per farsi pubblicità di fronte alla nobiltà gallo-romana, avida dei fasti della romanitas12. L’ipotesi però non convince: infatti il patronato cercato nelle corti, venne di fatto dagli episcòpî, in modo particolare da quello di Tours; inoltre non tiene conto del prudente e censurato coinvolgimento del Nostro nelle vicende merovinge. Interessante, ma molto criticata, è la tesi proposta da J. Sˇasˇel e rilanciata da M. Rouche13: il poeta sarebbe stato un emissario del potere imperiale, inviato nei gangli del potere merovingio, per istradare secondo i progetti politici bizantini i quattro figli di Clotario (Sigiberto, Chilperico, Gontramno e Cariberto) e interessarli nella resistenza contro i potenti Longobardi, che ormai si affacciavano sulla scena internazionale. Quale che sia il motivo di questo trasferimento, è indubbio che Fortunato si sia inserito nella vita politica ed ecclesiastica dei regni merovingi. Rimandando il pellegrinaggio a Tours, stabilì la sua residenza a Poitiers, presso il monastero di Radegonda. E attorno a Radegonda, troviamo Gregorio di Tours e altri vescovi di estrazione gallo-romana (perfino nel nome, come è stato notato da J. Fontaine14), simpatizzanti per la linea politica di Sigiberto e rispettosi della gerarchia ecclesiastica. È interessante come nel 569, appoggiata dal re Sigiberto, Radegonda stesse trattando con l’imperatore Giustino per avere reliquie della Croce (per le quali Fortunato compose i famosi inni Crux fidelis e Vexilla regis15). Sull’altro versante, invece, troviamo l’oscuro re Chilperico, ostile alla linea del vescovo Gregorio e incline al sopruso nei suoi confronti (basti ricordare il tentativo di rove154

sciare Gregorio di Tours nel sinodo di Berny-Rivière del 58016). Nella stessa congrega possiamo inserire anche il vescovo di Poitiers Maroveo (nome di ascendenza barbarica), che nel 569 aveva declinato l’invito di introdurre nel monastero di Radegonda la reliquia della croce17. Va senz’altro sottolineata l’unità di intenti tra Gregorio, Fortunato e Radegonda verso la stessa causa. Il Reydellet la riassume con queste parole: “la grandezza dell’episcopato e la gloria del regno di Metz che si chiamerà più tardi Austrasia”18. Certo, è difficile valutare i risultati di questa causa comune. Nel 575 infatti Sigiberto veniva fatto assassinare dal fratello Chilperico19; ma la vedova Brunechilde, reggente per conto del giovane figlio, trovò l’appoggio della corte di Bisanzio e di una parte dei vescovi gallici, che fecero quadrato contro Chilperico. Ad ogni modo, in questo quadro può cambiare il modo di guardare a Fortunato e alla sua produzione letteraria: non è “un poeta d’occasione”, secondo un pregiudizio che risale lontano20, ma diventa un acuto utilizzatore della sua arte, anche con le Vitae dei santi, come vedremo sotto.

2. Le Vitae sanctorum

Il corpus di testi agiografici attribuito a Venanzio Fortunato comprende 13 biografie21, ma l’editore B. Krusch accettò l’attribuzione soltanto per quelle di Ilario22, Germano, Albino23, Paterno, Radegonda, Marcello24; a queste H. Quentin aggiunse la Vita S. Severini25. Gli altri sei testi (Vita S. Amantii, Vita S. Remedii, Vita S. Medardi, Vita S. Leobini, Vita B. Maurilii e la Passio Ss. Mm. Dionysii, Rustici, Eleutherii) vennero pubblicati come Opuscola Venantio Fortunato male attributa26. Molti insistono perché la questione sia ridiscussa27, tanto più che il criterio del Krusch è spesso soltanto stilistico; la soluzione del problema è ben lontana, ma lo sguardo panoramico sull’insieme di questi induce a posizioni meno drastiche. Le più forti perplessità sorgono per l’attribuzione della Vita S. Remedii, dove le testimonianze medievali tradiscono pesanti interventi posteriori28. La Vita S. Leobini va sicuramente fissata in epoca carolingia29. Nella Vita B. Maurilii notiamo soltanto elementi di somiglianza con le altre30. La Passio Ss. Mm. Dionysii, Rustici, Eleutherii esorbita dal nostro interesse. Però per la Vita S. Medardi e per la Vita S. Amantii il giudizio si fa più cauto31. 155

Le Vitae si presentano come una serie di episodi raccolti in uno schema costante: a. il solenne prooemium, composto in latino ricercato, con una sofisticata sintassi, che evidenzia la capacità letteraria dell’Autore, attento ai canoni della migliore tradizione retorica32. b. La narratio rerum gestarum è la sezione più consistente. Sorvolando sui loci a persona della retorica antica (genus, natio, institutio…), Fortunato corre verso le gesta, che diventano “una descrizione fitta, ma per lo più rapida e scolorita, delle operazioni taumaturgiche”33, talora ripetitive. Lo stile di questa sezione è paratattico, il periodare è semplice, adatto a un uditorio definito «omnium populorum catervas»34, scarsamente acculturata, per raggiungere la quale Fortunato accetta di «agnosci rusticus»35 per il suo linguaggio popolare. Attraverso le Vitae questa plebs veniva esortata a confidare nel patrono: in ciò consisteva l’aedificatio plebis, non certo nell’edificazione morale, data l’inimitabilità della taumaturgia36. c. L’epilogus si presenta in varie forme nelle Vitae: può narrare la morte del santo o gli episodi prodigiosi che l’hanno accompagnata; la sepoltura, i miracoli operati dal santo dopo la morte oppure occorsi presso la tomba; altre volte l’esortazione a confidare nella protezione del santo. Spesso le ultime parole sono una dossologia che esige l’Amen37, segno di un probabile uso liturgico dei testi: secondo il parere dei critici è infatti “incontestabile… che le Passioni e le Vite fossero lette nelle celebrazioni liturgiche delle feste dei santi”38. Fissando l’obiettivo sulla narratio, colpisce la preponderanza di episodi che narrano prodigi, quadretti, il più delle volte collegati in maniera piuttosto artificiosa. Pure lo schema adottato per ogni episodio è ripetitivo: a. Breve frase di collegamento: «nec illud omitti convenit…»39, ecc. b. Resoconto dell’episodio, in una decina di righe. c. Amplificatio del fatto, attraverso vari espedienti: la comparatio con un episodio evangelico o storico40, la ratiocinatio41, o le paronomasie, tanto care a Fortunato42. M. Heinzelmann43 ha chiarito come, sullo sfondo dell’opera agiografica di Gregorio di Tours, siano da intravedere raccolte – scritte e/o orali – di miracoli avvenuti presso la tomba del santo, finalizzate al prestigio del santuario più che alla gloria del santo. Non è inverosimile questa ulteriore comunanza tra Fortunato e l’amico Gregorio44. Alle radici dell’opera fortunatiana possiamo dunque ipo156

tizzare una prolificazione di racconti prodigiosi riguardanti le più eminenti figure ecclesiastiche merovinge. A volte Fortunato intervenne in maniera sommaria (come nella Vita S. Germani, dove una settantina di episodi sono cuciti in un quadro biografico sbiadito); altre volte con un quadro narrativo più denso (come nella Vita S. Marcelli, dove i miracoli segnano le tappe della carriera clericale del santo, o nella Vita S. Paterni, contrassegnata da un cammino di ricerca ascetica).

3. Il modello agiografico

Non mancano gli studi sull’evoluzione del modello agiografico45. Qui basti ricordare che la letteratura agiografica conobbe, nel suo sviluppo, diversi modelli, primo fra tutti il modello martiriale, tipico degli Acta e delle Passiones46. Finito il periodo delle persecuzioni, con l’avvento del monachesimo nacque un nuovo modello monastico, rischiarato ancora dal modello martoriale; il martirio venne però sostituito con la fuga dal mondo e la mortificazione del corpo47; divennero invece sempre più abbondanti i racconti taumaturgici e gli esorcismi48. La prima testimonianza di questo nuovo genere si ebbe nella Vita Antonii49. L’Occidente cristiano recepì questo modello, ma ne temperò alcuni aspetti eremitici, spingendo il santo nel mondo. La testimonianza più importante si ebbe nei testi che Sulpicio Severo dedicò a Martino di Tours50: prima monaco e poi vescovo, unì l’ascesi al ministero apostolico. Martino fu asceta, lottò contro il demonio, combatté le resistenze del culto pagano, desiderò il martirio, operò prodigi…; ma, in quanto vescovo, predicò e guarì gli ammalati, difese il popolo, ecc. Due biografie del secolo V (la Vita Ambrosii e la Vita Augustini)51, suggellano il passaggio al modello monasticovescovile: il vescovo, pur dedito all’ascesi, cura l’edificazione della Chiesa52; all’elemento prodigioso viene invece concesso poco spazio53. Quindi le agiografie dell’ambiente di Lérins conducono a compimento questa convergenza fra il modello monastico e quello episcopale: la vita monastica diviene preludio alla vita apostolica e viene completamente accantonata la taumaturgia54. Anche nei regni germanici il modello monastico-vescovile ebbe continuità, ma riprese in maniera sproporzionata la taumaturgia. Inoltre trasferì nelle mani dei vescovi il patro157

nato delle città, finora riservato ai martiri: il vescovo diviene il defensor civitatis55, che intercede per la sua città, da vivo e da morto, perché le reliquie del santo diventano garanzia di un rapporto fiduciario tra il vescovo e la sua città. Quest’ultimo è il contesto letterario nel quale va situato il modello agiografico episcopale delle Vitae di Fortunato.

4. L’immagine episcopale nelle Vitae: elementi di sintesi 1. Prendendo in considerazione le biografie in prosa di Fortunato, sia quelle di certa attribuzione, sia quelle dubbie o spurie, contiamo oltre 350 episodi, che intendiamo ora catalogare secondo le tipologie più ricorrenti. Pare subito evidente il predominio del modello ascetico-monastico. Il santo vescovo delle Vitae è un uomo di preghiera, consumato nel digiuno e nella penitenza. Anzi, è modello di ascesi fin dalla fanciullezza (locus pueri senis). Questo vale sia per i monaci poi chiamati all’episcopato (Paterno, Albino, Germano), sia per gli altri; anzi proprio la pratica ascetica sembra imporli come candidati all’episcopato56. L’ascesi circonda il santo di un’aura angelica (8 volte): la sua orazione è un colloquio con i santi del paradiso: è questo un locus martiniano57. La mortificazione del corpo è in tutte le Vitae continuazione del martirio (locus martyrii sine cruore: 9 volte): «est novum non morte sed carnis mortificatione martyrium»58. Germano, per esempio, pratica una tale penitenza «ut, domestico tormento superato corpore, de se triumphatum in pace factus martyr adquireret»59. Danno corpo al modello ascetico anche altri elementi, come la tentazione contro la castità60, la lotta contro l’idolatria imperversante nelle campagne (12 volte)61. Ma soprattutto due aspetti del modello ascetico si sviluppano in maniera sproporzionata: la lotta contro il diavolo (29 episodi) e la taumaturgia (una settantina di episodi: 14 risurrezioni, una ventina di prodigiose liberazioni di prigionieri, vari interventi nei confronti della comunità o dei singoli). Passare in rassegna la tipologia dei miracoli e degli esorcismi risulterebbe tedioso62. È invece interessante cogliere alcuni particolari che accompagnano l’attività taumaturgica. In alcuni casi, questa è preparata dalla pratica ascetica. Per Albino il primo miracolo scaturisce dal progresso ascetico: «in tantam vitae claritatem pervenit, ut eius devotum 158

servitium mundo Dominus per miracula testaretur»63. Ma le virtù del santo si manifestano anche prima della consacrazione64: questo rientra nel locus pueri senis, nel senso che il giovane santo agisce prodigiosamente perché in futuro sarà vescovo. È invece più rilevante il fatto che la taumaturgia, connaturale al modello monastico, nelle Vitae diventi quasi una prerogativa episcopale: infatti la maggior parte dei miracoli è raccontata dopo l’ascesa del santo al sacerdozio, sicché l’Autore sembra trovarsi a suo agio quando, completata la carriera dell’ordine sacro, può finalmente virtutes narrare. Nella Vita S. Germani, per esempio, i primi otto prodigi si situano dopo l’istituzione abbaziale; ma il testo raggiunge il suo “regime normale” dopo la consacrazione episcopale, proponendo di seguito 55 miracoli. Nella Vita S. Hilarii, la madre di un piccolo bambino morto prematuramente rammenta al santo le prerogative del ministero, proclamando: «Martinus adhuc incipiens cathecuminum mortuum revocaverit, tu pontifex redde, rogo, filium aut mihi aut baptismo»65. In Paterno l’ascesa gerarchica fa progredire le virtutes: «diaconus et presbyter institutus, quantum dignitas creverat, tantum se virtutibus honorabat»66. Nella Vita S. Marcelli si sottolinea come il santo, ancora suddiacono, abbia potuto risanare un vescovo: «O meritum subdiaconi, qui vocem restituit sacerdoti et versa vice quod accipere debuit hoc indulsit…»67. Pure la ritualità degli episodi prodigiosi viene a confermare questa “sacralità” della taumaturgia, in quanto è evidente l’utilizzo di gesti liturgici: la preghiera (36 volte), il contatto con oggetti propri del santo (12 volte), i segni di croce (32 volte), l’olio benedetto (26 volte), le vesti sacre rimandano tutti alla liturgia68. 2. Il vescovo delle Vitae è anche pastore, ma quasi esclusivamente per la sua attenzione verso i poveri (10 episodi), per l’ispirazione che risale ancora a Martino: come lui, il giovane Medardo (locus pueri senis) dona gli indumenti a un cieco e il cibo ai poveri69. Il prestigio del vescovo sa ottenere anche dai potenti l’attenzione verso i miseri: Paterno suggerisce al re Childerberto misure in favore dei poveri70; tra Germano e il re si gareggia in generosità, «ut sacerdos locupletaretur regalibus thesauris, et in regem floreret gratia sacerdotis»71; quanti ottengono dal santo un miracolo destinano preziosi o denaro ai poveri72. 159

Il ministero pastorale non sembra invece andare oltre questa attenzione ai poveri. Viene fatta menzione della predicazione, ma sempre in sezioni poco significative, come l’epilogo, dove è la retorica a imporre questo luogo comune. Contiamo invece diversi episodi, nei quali il vescovo risana persone punite per aver violato il riposo festivo73, insistenza che tradisce una preoccupazione “pastorale”, confermata nei sinodi del tempo74. A risanare – e quindi riconciliare – questi malcapitati, sui quali è caduta la “vendetta divina”, interviene naturalmente il vescovo. 3. Non devono passare in ombra soprattutto gli episodi (una ventina), nei quali il santo benefica la sua città: al vescovo della Vitae possiamo ben collegare il titolo di defensor civitatis, pur coniato dalla critica contemporanea75. Per esempio, è suggestiva l’interpretazione che J. Le Goff ha dato della vittoria di Marcello sul drago: il vescovo diviene “il capo di una comunità urbana, non nelle sue funzioni spirituali di pastore…”; la vittoria sul drago rappresenta simbolicamente l’insediamento in una zona paludosa, bonificata per l’intraprendenza del vescovo76. Questa chiave ermeneutica permette di leggere anche altri episodi, nei quali il vescovo interviene a placare incendi, a salvare naufraghi77, ecc. Il ruolo di defensor civitatis continua anche dopo la morte. Così Severino, invocato dai fedeli di Bordeaux, mette in fuga i Goti, che lasciano sul campo tende e bottino; e ancora ottiene condizioni meteorologiche favorevoli al raccolto78.

A questi episodi pare sottesa una rivendicazione. Nei territori merovingi infatti, data l’instabilità del quadro politico, il vescovo diventava il più stabile centro di gravitazione della città e poteva pretendere la leadership. La cosa incontrava naturalmente resistenze, delle quali dà testimonianza anche Gregorio di Tours ponendo sulla bocca dell’avverso Chilperico: «nulli nisi soli episcopi regnant; periet honor noster et translatus est ad episcopos»79. Sfrondato dei toni della polemica, il passo pare significativo. Questi interventi del vescovo in favore della sua città, raccontati da Fortunato e pubblicamente proclamati davanti al popolo, onoravano davvero come defensor civitatis il vescovo (sì il santo, ma anche il suo successore!). L’agiografia concorreva così a rafforzare nell’ambito cittadino la dignità episcopale. 160

4. Nelle Vitae si contano 17 episodi nei quali il santo ottiene dal potere civile la liberazione dei prigionieri (un locus ancora martiniano80). Molto spesso gli interventi del vescovo sovvertono l’ordine costituito, minacciando la morte al funzionario che non obbedisce al vescovo81. Un episodio particolarmente intenso è quello del conte Nicasio, ridotto in fin di vita per aver differito la liberazione di alcuni prigionieri; la preghiera di Germano lo ristabilisce in salute e il conte ringrazia donando al santo la cintura d’oro e la spada, simboli del suo potere82. Pure in questi episodi possiamo intravedere la rivendicazione di un potere contestato. 5. In altri 23 episodi il santo vescovo è in relazione con il potere civile, che affronta in posizione di superiorità. La regina Radegonda, in fuga dal marito, aveva incoraggiato il vescovo Medardo a procedere alla sua consacrazione diaconale, protestando la superiorità del potere religioso su quello civile: «si me consecrare distuleris et plus hominem quam Deum timueris, de manu tua, pastor, ovis anima requiratur»83. Pure nella Vita S. Hilarii troviamo episodi di forte tensione tra il vescovo e il potere dell’ariano Costanzo (il locus sine cruore martyrii trova spazio qui, anziché nell’abituale riferimento all’ascesi)84. Ma il confronto fra Ilario e il potere politico continua, con diverso segno, dopo la morte del santo, quando appoggia Clodoveo contro le truppe ariane di Alarico85. Nella Vita Albini, è il cavallo del re Childeberto a bloccarsi perché il re non si sottragga alla riverenza dovuta al vescovo86. Si sottolinea come presso il vescovo Albino non ci sia stata «ulla regum potentumque personalis acceptio», quando condannò un caso di incesto, nel quale si può leggere la vicenda del re Cariberto87. Lo stile del vescovo Germano nei confronti del potere politico è riassunto in una sentenza: «sacerdos Christi solitus erat de ipsis quoque regibus triumphare»88. E gli esempi non mancano, collegati soprattutto alla taumaturgia, che dotava il vescovo di autorevolezza anche di fronte al potere politico.

6. Contiamo infine una dozzina di episodi, in cui il santo interviene a risanare persone punite perché avevano violato la proprietà ecclesiastica. Non pecchiamo in malizia, pensando che questi episodi proclamavano una protezione divi161

na sulla proprietà della Chiesa, minacciando vendetta contro ogni usurpazione. Nella Vita S. Medardi vari malandrini vengono puniti finché, pentiti, non ottengono il perdono dal santo89. Episodi del genere sono il leitmotiv della Vita S. Amantii (di dubbia attribuzione): cinque episodi narrano la punizione di ladri, che tentano il furto nella proprietà di Amanzio90; ma anche dopo la morte il santo interviene tre volte a ristabilire la giustizia violata91. Un episodio analogo ricorre anche nella Vita S. Germani92. La ricorrenza di questi episodi sembra creare una sorta di “recinto” attorno alla proprietà ecclesiastica, che evidentemente subiva contestazioni; è ancora Gregorio di Tours a porre sulla bocca di Chilperico parole significative in proposito: «ecce divitiae nostrae ad eclesias sunt traslatae […]»93. 5. Conclusione

All’inizio di questa rassegna si annotava la predominanza del modello ascetico. Ora però possiamo aggiungere che il vescovo delle Vitae (e il suo successore di riflesso) si propone come defensor civitatis, cerca spazi di libertà e di autonomia, rivendica i propri diritti di fronte a ogni potere. Se si supera il pregiudizio col quale è comunemente liquidata la figura di Fortunato, come “poeta di occasione”, anche le biografie possono diventare funzionali a un progetto. In Gallia Fortunato si affiancò a Gregorio di Tours, a Radegonda, ai vescovi che seguivano la linea politica di Sigiberto, li appoggiò e li difese contro ogni prepotente. Anche attraverso le Vitae, si mirava a chiedere libertà per i vescovi, esaltandone il ruolo agli occhi del popolo e dei potenti. Si potrebbero leggere nello stesso senso anche i numerosi Carmina, nei quali Fortunato decanta le iniziative sociali, le virtù e gli onori dei vescovi: potevano essere anche questi mezzi per perorare una causa94. Attorno al vescovo infatti non c’era solo una folla osannante: per esempio, l’inno De Leontio episcopo tradisce la realtà di un “golpe”95. Anche l’adventus di Gregorio a Tours è cantato dal poeta per circondare il presule del consensus omnium; in realtà, Gregorio era stato imposto a Tours dal re Sigiberto96. Le referenze di Fortunato, il genere letterario ispirato ai canoni classici, la declamazione dei Carmina, la loro iscrizione su lapidi potevano promuovere quest’ideale episcopale presso il popolo e presso i potenti, affascinati da ogni richiamo ai fasti della classicità. 162

Le medesime referenze dell’autore, il genere letterario più popolare, la pubblica declamazione delle Vitae ottenevano lo stesso effetto. Il poeta di Valdobbiadene aveva trovato mezzi efficaci per sostenere la causa dei vescovi, causa che egli aveva sposato.

Note

(1) Per i Carmina [Carm.] faremo qui riferimento all’edizione italiana del Corpus Scriptorum Ecclesiae Aquileiensis, presentata durante il convegno: Venanzio Fortunato, Opere/1 [CSEA VIII/1], a cura di S. Di Brazzano, Roma 2001. Consideriamo tra le opere poetiche anche i quattro libri della Vita Sancti Martini [VM]: MGH AA IV/1,293-370. (2) B. De Gaiffier, S. Venance Fortunat, évêque de Poitiers. Le témoignages de son culte, «Analecta Bollandiana» 70 (1952), pp. 262-284. Cfr. le testimonianze raccolte dal Luchi in PL 88,52-58. (3) Vita sancti Marcelli [V.Marc.] X.40-50: MGH AA IV/2,53-54. J. Le Goff, Cultura clericale e tradizioni folkloristiche nella civiltà merovingia, in Tempo della Chiesa e tempo del mercante e altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, a cura di J. Le Goff, Torino 1977, pp. 209-255. (4) F.E. Consolino, Ascesi e mondanità nella Gallia tardoantica. Studi sulla figura del Vescovo nei secoli IV-VI, Napoli 1979, pp. 82-87. (5) L. Navarra, Venanzio Fortunato: stato degli studi e proposte di ricerca, in La cultura in Italia fra tardo antico e alto medioevo, Atti del Convegno tenuto a Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, dal 12 al 16 novembre 1979, Roma 1981, II, p. 607. (6) V. Messana, Note sulla Vita sancti Hilarii di Venanzio Fortunato, «Augustinianum» 24 (1984), pp. 201-211. (7) S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia…, pp. 175-193. (8) R. Collins, Beobachtungen zu Form, Sprache und Publikum der Prosabiographien des Venantius Fortunatus in der Hagiographie des römischen Gallien, «Zeitschrift für Kirkengeschichte» 92 (1981), pp. 16-38. (9) VM I,42-44: MGH AA IV/1,296. Carm. VIII 1,21-22: CSEA VIII/1,422. Paulus Diac., Historia Langobardorum II.13: MGH srl,79. (10) R. Koebner, Venantius Fortunatus: Seine Persönlichkeit und seine Stellung in der geistigen Kultur des Merowingerreiches (Beiträge zur Kulturgeschicte des Mittelalters und der Reinassance 22), Leipzig-Berlin 1915, pp. 13.125. Cfr. Rosada G., Il “viaggio” di Venanzio Fortunato Ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum Loca e la strada per submontana castella, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia…, pp. 43-45. I regni merovingi erano più sicuri per gli ecclesiastici che non si assoggettavano alla linea imperiale e romana: il vescovo Nicezio di Treviri protestò presso Giustiniano

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per la condanna dei Tre Capitoli (Epistulae Austrasicae 7: MGH Epp. III, 118122: CCL 117, 417-418). Nel 556 papa Pelagio chiedeva a Sapaudo di Arles e al re Childeberto I (+ 558) l’allineamento di quelle Chiese alle scelte romane sulla questione (Epist. 6; Pelagius, Epistulae quae supersunt (556-561): PLS IV 1286-1289). (11) J.W. George, Venantius Fortunatus. A Poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992, p. 24. Brennan B., The career of Venantius Fortunatus, «Traditio» 41 (1985), pp. 49.54. (12) Carm. VI 1 e 1a: CSEA VIII/1,328-339. Cfr. J.W. George, Venantius…, pp.40-43. B. Brennan, The image of the Frankish kings in the poetry of Venantius Fortunatus, «Journal of Medieval History» 10 (1984), p. 6. Cfr. Idem, The image of the Merovingian bishop in the poetry of Venantius Fortunatus, «Journal of Medieval History» 18 (1992), pp. 116. (13) J. Sˇasˇel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, Antichità Altoadriatiche 19, Udine 1981, pp. 359-375. M. Rouche, Autocensure et diplomatie chez Fortunat à propos de l’élégie sur Galeswinthe, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia…, pp. 149-160. (14) J. Fontaine, Hagiographie et politique de Sulpice Sévère à Venance Fortunat, in La christianisation des pays entra Loire et Rhin (IVe-VIIe siècles), «Actes du Colloque de Nanterre 3-4 maggio 1974», «Revue d’Histoire de l’Église de France» 62 (1975) p. 139. (15) Carm. II 1-6: CSEA VIII/1,146-159. (16) Carm. IX 1: CSEA VIII/1,464-473: Ad Chilpericum regem quando synodus Brinnaco habita est. Analisi in J.W. George, Venantius…, 48-57. Cfr. B. Brennan, The image of the Frankish kings, pp. 6-7. Idem, The career, pp. 7475. Idem, The image of the Merovingian bishop, pp. 137. (17) Intervenne Eufronio di Tours, cugino e predecessore di Gregorio. Gregorius Tur., Historia Francorum IX.40: MGM srm I/1,393. (18) M. Reydellet, Tradition et nouveauté dans les Carmina de Fortunat, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia…, p. 84. (19) Gregorius Tur., Historia Francorum IV.51: MGH srm I/1,186-187. (20) W. Meyer, Der Gelegenheitsdichter Venantius Fortunatus, Abhandungen der Königlichen Gesellschaft der Wissenschaften in Göttingen, «Phil.-hist. Klasse», N.F. n. 4.5, Berlin 1901. (21) MGH AA IV/2,1-54 (Prooemium, V-XXI). Per la Vita sancti Germani [V.Germ.] il Krusch dispose anche una nuova edizione in MGH srm VII, pp. 372-418 (con un testo critico tanto fedele alla paleografia da risultare talora incomprensibile). (22) La paternità fortunatiana della Vita sancti Hilarii [V.Hil.] è oggi comunemente accettata dagli studiosi. Nei codici la Vita è sempre seguita dal Liber de virtutibus Sancti Hilarii [Virt.Hil.], che raccoglie una serie di miracoli accaduti attorno alla tomba di Ilario. L’attribuzione del Liber è discussa, oggi più che in passato, quando (non senza ragione) era comune riconoscere a Fortunato il Liber più che la Vita. Sia M.A. Luchi (Praemonitio: PL 88,437-440) che B. Krusch (Prooemium: MGH AA IV/2.VI-VII) annotano le ipotesi di studiosi del ‘700, secondo i quali Venanzio Fortunato o un Fortunato di Vercelli avrebbero rivisto una V.Hil., scritta da un tal Giusto, presbitero contemporaneo a Ilario, e conservata negli archivi di Poitiers. Poi Fortunato avrebbe aggiunto il II libro, raccogliendo i miracoli avvenuti presso il sepolcro. Cfr. B. De Gaiffier, S. Venance Fortunat, pp. 262-284. V. Messana, Note sulla Vita sancti Hilarii, p. 210, nt. 67: «Il Liber de virtutibus sancti Hilarii mi sembra semanticamente distante dalla Vita Hil., sotto l’aspetto sia linguistico che storico-contenutistico. Simile a un centone di mirabilia, più che a V.F. – ma la mia è solo un’impressione – esso farebbe pensare, per via dello stile, per es. a Gregorio di Tours». L’osservazione è pertinente, in quanto Gregorio diede grande rilievo ai miracoli occorsi presso il sepolcro dei santi; ma questo aspetto è tutt’altro che trascurato da Fortunato: vd. Carm. VI 5: CSEA VIII/1,348-367 (elegia sulla morte di Gelesuintha); Vita sancti Albini [V.Alb.] XX,57-58: MGH AA IV/2,32; Vita sancti Severini [V.Sev.] 6-9: MGH srm VII,222-224. (23) Questa biografia è considerata come la prima cronologicamente;

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pur nel locus retorico, cogliamo come significativa la titubanza dell’Autore: «Quod cum ego meae exiguitatis conscius attingere trepidarem… incongruum esse persensi, quod a me infra doctorum vestigia latitante res alta requireretur…» (V.Alb. III-IV.6: MGH AA IV/2,28). (24) A questo testo fa riferimento lo stesso Fortunato in un Carmen per dedicare la Vita a Radegonda. App. Carm. XXII,15-18: CSEA VIII/1,656. (25) Attestata da Gregorio di Tours (Gregorius Tur., Liber de gloria confessorum 44: MGH srm I/2,775: «Vita tamen huius, postquam haec scripsimus, a Fortunato presbytero conscriptam cognovimus»), era ritenuta perduta. Venne identificata da H. Quentin, La plus ancienne vie de saint Seurin de Bordeaux, «Fs. Léonce Couture», Toulouse 1902, pp. 23-63. Cfr. W. Levison, Prooemium: MGH srm VII,207-208. (26) MGH AA IV/2,55-105. (27) L. Navarra, Venanzio Fortunato: stato degli studi, p. 608. N. Scivoletto, Commento conclusivo e proposte, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia…, p. 243. (28) Gregorio di Tours conosce questa Vita sancti Remedii [V.Rem.], ma non ne indica l’autore (HF II.31: MGH srm I/1,93) Sorprende come il Krusch, collaborando nel 1884 con W. Arndt all’edizione della HF, attribuisca il liber a Fortunato («A Venantio Fortunato confectus»: n. 2) per cambiare opinione l’anno dopo nel redigere le Opera pedestria di Fortunato. (29) C. Deremble-Manhes, con argomenti assai convincenti, ha fissato l’origine della Vita sancti Leobini [V.Leob.] in epoca carolingia, in un contesto di restaurazione della vita cenobitica. Infatti l’osservanza della regola monastica percorre insistentemente il testo, con una certa diffidenza verso la gerarchia ecclesiastica («…nulli episcoporum te obsequiis obliges, quia inter malos bonus multos invenies detractores»: V.Leob. III.8-9: MGH AA IV/2,74). C. Deremble-Manhes, Saint Lubin, mutation d’un thème du temps carolingien au vitrail de Chartres, in Les fonctions des saints dans le monde occidental (III-XIII siècle), Actes du Colloque organisé par l’École Française de Rome avec le concours de l’Université de Rome «La Sapienza», 27-29 octobre 1988, Roma 1991, pp. 295-317. (30) Alcuni episodi ricordano quelli analoghi della Vita S. Martini e della Vita S. Hilarii. Vita sancti Maurilii [V.Maur.] V.19-22: MGH AA IV/2,86-87; cfr. VM III,97-120: MGH AA IV/1,333. V.Maur. XXV.127-128: MGH AA IV/2,98; cfr. VM I,155-178: MGH AA IV/1,300-301; cfr. V.Hil. XII.41-45: MGH AA IV/2,5-6. V.Maur. XXIII.121-123: MGH AA IV/2,97; cfr. VM III,296-325: MGH AA IV/1,340-341. (31) Il Krusch (MGH AA IV/2,XXV-XXVI) negò a Fortunato la paternità della Vita sancti Medardi [V.Med.] perché, dal confronto col carme De S. Medardo (Carm. II 16: CSEA VIII/1,174-183), rilevava sproporzioni di spazio e altre incongruenze (per esempio, durante la sepoltura del santo, in Carm. II 16,67-76: CSEA VIII/1,178 è un cieco a guarire; in V.Med. XII.30: MGH AA IV/2,71 è un sordo). Si tende a rivedere questa posizione, notando come un codice del sec. VII, il Codex Monacensis latinus 3514, congiunga significativamente questa Vita con il carme (… con tanto di chiusa: «Fortunatus praesbiter conposuit haec vita vel actus sancti Medardi»). Invece, la struttura, le tematiche e lo stile della Vita Sancti Amantii [V.Aman.] lasciano qualche perplessità, ma non mancano richiami all’usus scribendi di Fortunato, come le allitterazioni, le amplificationes e i temi tipici delle altre Vitae. Colpisce soprattutto la variazione degli ultimi tre episodi, brevi, segnati da abbondanti allitterazioni e soprattutto dalla frase: «dicam iterum miraculum quod ipsa Rutena urbe teste conspexi» (V.Aman. XIV.93: MGH AA IV/2,63). (32) Rimando qui al successivo intervento di P. Santorelli, Le prefazioni alle Vite in prosa di Venanzio Fortunato. (33) S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa, p. 184. (34 V.Med. I.2: MGH AA IV/2,67. (35) V.Alb. IV.8: MGH AA IV/2, 28. R. Collins, Beobachtungen, pp. 23-24: rileva le innovazioni morfologiche e lessicali presenti nelle Vitae; è difficile valutare quanto queste dipendano dai copisti e quanto dalla penna di Fortunato.

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(36) Possono essere estese a Fortunato le osservazioni appuntate da S. Boesch-Gajano per Gregorio di Tours: «Tre elementi mi sembrano caratterizzare la produzione agiografica di Gregorio: l’attualità degli episodi narrati…; l’episodicità…; l’assenza di uno scopo di edificazione, nel senso di una presentazione di un modello di vita e di esempi di virtù». S. Boesch-Gajano, Il santo nella visione storiografica di Gregorio di Tours, Atti del XII Convegno storico internazionale dell’Accademia Tudertina sul tema «Gregorio di Tours», Todi 1977, p. 29. (37) V.Marc. X.50: MGH AA IV/2,54; V.Alb. XX.59 = MGH AA IV/2,33; V.Germ. LXXVI: MGH srm VII,418; V.Sev. 9: MGH srm VII,224; V.Aman. XVII.100: MGH AA IV/2,64; V.Med. XV.37: MGH AA IV/2,73; V.Leob. XXVII.88 MGH AA IV/2,82; V.Maur. XXX.148: MGH AA IV/2, 101. Passio Ss. Mm. Dionysii, Rustici et Eleutherii 33: MGH AA IV/2,105. Vd. anche V.Hil. XVI: PL 88,448; Virt.Hil. XIII: PL 88,454; V.Rem.: PL 88,532. Vita Radegundis [V.Rad.] XXXIX: PL 88,512. Rimane esclusa solo la Vita sancti Paterni [V.Pat.]. (38) S. Pricoco, Gli scritti agiografici, p. 190 (nt. 18). Cfr. B. De Gaiffier, La lecture des Actes des martyres dans la prière liturgique en Occident, «Analecta Bollandiana» 72 (1954) pp. 134-166. (39) V.Germ. VII: MGH srm VII,377. Ancora: «nec illud omittendum est quod miraculum factum est…» (V.Med. VIII.23: MGH AA IV/2,70); «nec illud tam fidele mysterium oblivione noxia subtrahatur…» (Virt.Hil. XI.30: MGH AA IV/2,10); «est operae praetium illud memoriae tradere…» (V.Germ. XXIII: MGH srm VII,386); «Illud etiam nobis est factum memorabile recensendum» (V.Alb. XII.33: MGH AA IV/2,30); «illud etiam merito memoriae non fraudatur» (V.Pat. XVII.17: MGH AA IV/2,37); «inseratur operi res tam digna miraculo» (V.Rad. XXXI.73: MGH srm II,374); «inseratur huic operi illud caeleste miraculum…» (V.Leob. X.29: MGH AA IV/2,76). (40) V.Marc. VI,23: MGH AA IV/2,51: «quod praecessit in Galilaea, successit in Gallia», cioè che l’acqua si cambiasse in vino (Gv 2,1-12). V.Marc. X.49: MGH AA IV/2,54 dove la cacciata del drago viene comparata con un analogo episodio riferito a papa Silvestro: Cfr. J. Le Goff, Cultura clericale, pp. 215.224-225. (41) Virt.Hil. X.29: MGH AA IV/2.10: la paralitica guarita parla per la prima volta chiedendo il latte perché la guarigione fu per lei una rinascita. V.Germ. XXII: MGH srm VII,385-386: il fraudolento acquirente del cavallo del santo, trova morto il cavallo e lo trascina fuori dalla stalla – versa vice – legato per i piedi. V.Germ. LXIII: MGH srm VII,411: «melius reddit post vulnera, quam quod natus fuerat per naturam». (42) V.Germ. XXIII: MGH srm VII,386: «Id actum est, ut cuius incurrerat de contemptu periculum, sentiret tactu remedium». (43) In epoca merovingia possiamo individuare nella raccolta di episodi (Episodenerzählung) un vero genere letterario. M. Heinzelmann, Une source de base de la littérature hagiographique latine: le recueil de miracles, in Hagiographie, culture et sociétés. IVe-XIIe siècles, Actes du Colloque organisé à Nanterre et à Paris. 2-5 mai 1978, a cura del Centre de Recherches sur l’Antiquité Tardive et l’Haute Moyen Âge. Univ. de Paris X, Paris 1981, p. 243. (44) Va però osservato che Fortunato concluse la sua prima opera (la Vita sancti Albini) sette anni prima che Gregorio intraprendesse la sua attività agiografica: cfr. R. Collins, Beobachtungen, pp. 16.19. (45) Cfr. Leonardi C., I modelli dell’agiografia latina dall’epoca antica al medioevo, in Passaggio dal mondo antico al Medioevo: da Teodosio a Gregorio Magno, Atti del Convegno internazionale (Roma, 25-28 maggio 1977), a cura dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1980, pp. 435-476. Cfr. Idem, L’agiografia latina dal tardantico all’altomedioevo, in La cultura in Italia fra tardo antico e altomedioevo, Atti del Convegno tenuto a Roma, CNR 12-16 novembre 1981, p. 657. Cfr. A.M. Orselli, Modelli di santità e modelli agiografici nell’occidente latino, «Augustinianum» 39 (1999), pp. 169-185. (46) Cfr. The Acts of the Christian Martyrs, a cura di H. Musurillo, Oxford 1972. Acta Cypriani: CSEL 3/III, CX-CXIV. (47) Leonardi C., I modelli dell’agiografia, p. 444. Cfr. P. Brown, Il filosofo e il monaco: due scelte tardoantiche, in Storia di Roma. 3/1. Età tardoantica.

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Crisi e trasformazione, a cura di A. Momigliano - A. Schiavone, Torino 1993, pp. 882-886. (48) M. Van Uytfanghe, La controverse biblique et patristique autour du miracle, et ses répercussions sur l’hagiographie dans l’Antiquité tardive et l’haut Moyen Âge latin, in Hagiographie, culture et sociétés…, p. 211. (49) Athanasius, Vita Antonii: SCh 400, Paris 1994. (50) Sulpicius Sev., Vita S. Martini: SCh 133 (commento a cura di J. Fontaine, in SCh 134-135, 1968-1969). Dialogi: CSEL 1,152-216. (51) Vita di Cipriano, Vita di Ambrogio, Vita di Agostino, a cura di A.A.R. Bastiaensen – Chr. Mohrmann., Milano 1975, pp. 54-241. (52) C. Leonardi, L’agiografia latina dal tardantico all’altomedioevo, p. 658. (53) Nella Vita Ambrosii la taumaturgia ha ancora spazio, molto meno nella Vita Augustini. Cfr. L. Cracco Ruggini, Il miracolo nella cultura del tardo impero: concetto e funzione, in Hagiographie, culture et sociétés. IVe-XIIe siècles, Actes du Colloque organisé à Nanterre et à Paris. 2-5 mai 1978, a cura del Centre de Recherches sur l’Antiquité Tardive et l’Haute Moyen Âge. Univ. de Paris X, Paris 1981, pp. 161-204. (54) M. Van Uytfanghe, La controverse biblique et patristique, p. 215: il Sermo de vita sancti Honorati «traduit les réserves très nettes du monachisme rhodanien vis-à-vis de la thaumaturgie. Ici également le ton est polémique. Honorat n’avait point besoin de miracles pour être un vrai saint…: maiusque tibi gaudium erat quod merita et virtutes tuas Christus scriberet quod signa homines notarent» (Hilarius Arel., Vita S. Hon. 37,2: SCh 235,168-169). Cfr. F.E. Consolino, Ascesi e mondanità, p. 58. (55) A.M. Orselli, Il santo patrono cittadino: genesi e sviluppo del patrocinio del vescovo nei secoli VI e VII, in Agiografia altomedievale, a cura di S. Boesch-Gajano, Bologna 1976, pp. 86-88. (56) V.Pat. VI.14: MGH AA IV/2,29: «ab ipsis annis infantiae maturae vitae frena suscepit…»; V.Alb. VI.15-16: MGH AA IV/2,29: «in ieiuniorum parcitate praecipuus, in vigiliarum delectatione propensus, in orationis assiduitate laudabilis… hoc solum habens cum homine commune quod natus est». V.Germ. III: MGH srm VII,374: «abba ad sanctum Synphorianum merito dignus adsciditur». V.Hil. III.8: MGH AA IV/1,2: «coniugem habens et filiam ita plenitudine Domini venerabiles animos ecclesiasticae regulae tradidit informandos…»; V.Marc. IV.14: MGH AA IV/2,50: «Sed cum Christo pauper iste regnavit, qui in humilitatis conversatione, in caritatis ubertate, in castitatis lumine, in ieiuniorum pinguedine… et positus in corpore quasi nihil de carne portaret». V.Sev. 4: MGH srm VII,221: «habitans in terris amicus esset et angelis…»; V.Aman. I.5: MGH AA IV/2,55: «fuit in vigiliis laudabilis, in ieiuniis fortis…»; V.Rem. II.4: MGH AA IV/2,64: «studebat teneros annos morum maturitate vincere…»; V.Med. III.8: MGH AA IV/2,68: «teneros aetates annos libratis pacientiae moribus temperaret». Secondo R. Collins, Beobachtungen, p. 32, questo aspetto sarebbe soltanto un luogo comune, mentre Fortunato si preoccuperebbe soprattutto di definire il vescovo, lasciando in penombra il monaco. (57) Cfr. VM III,410-414; 430-450; 455-509: MGH AA IV/1,343-345. (58) V.Aman. VIII.57: MGH AA IV/2,60. (59) V.Germ. LXXV: MGH srm VII,417. (60) V.Pat. VI.18-19: MGH AA IV/2,34. Vd. anche V.Leob. X.32: MGH AA IV/2,76. (61) Dopo il 313, il paganesimo persistette ancora a lungo nelle classi senatorie e nelle campagne: cfr. A.H.M. Jones, Lo sfondo sociale della lotta tra paganesimo e cristianesimo, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. Momigliano, Torino 19752, pp. 20-43. Nei documenti dei Concili della Gallia si trovano diversi interventi contro le pratiche pagane: Conc. Aurelianense A. 541, can.10: CCL 118/A, 136; Conc. Turonense A. 567, can.18: CCL 118/A,182; can. 23 (22): CCL 118/A,191. (62) A titolo di esempio contiamo una ventina di guarigioni di ciechi, circa 15 risurrezioni, altrettante guarigioni di mani rattrappite, una dozzina di pa-

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ralitici risanati, una decina di febbricitanti. In circa venti episodi il santo interviene a ristabilire in salute persone punite da Dio per un’offesa al santo o alla legge divina. Poi guarigioni di muti (4), sordi (3), persone con una serie di malattie (3), due idropici, due persone morse da serpenti, un lebbroso, un’emorroissa… (63) V.Alb. VII.18: MGH AA IV/2,29. (64) Medardo predice il futuro ad un compagno (V.Med. II.5-7: MGH AA IV/2,68). Germano vanifica i tentativi di aborto della madre (V.Germ. I: MGH srm VII,372). (65) V.Hil. XII.43: MGH AA IV/2,6. (66) V.Pat. X.31: MGH AA IV/2,35. (67) V.Marc. VIII.35: MGH AA IV/2,52. (68) Cfr. R. Collins, Beobachtungen, pp. 26-27. J. Fontaine rileva un’ascendenza martiniana nell’uso del signum crucis: J. Fontaine, Hagiographie et politique de Sulpice Sévère à Venance Fortunat, in La christianisation des pays entra Loire et Rhin (IVe-VIIe siècles), Actes du Colloque de Nanterre 3-4 maggio 1974, «Revue d’Histoire de l’Église de France» 62 (1975), pp. 135-136. (69) V.Med. II.5: MGH AA IV/2,68. Cfr. VM I.50-67: MGH AA IV/1,297. Cfr anche V.Rad. 3: MGH srm II,366. (70) V.Pat. XV.44-45: MGH AA IV/2,36. (71) V.Germ. XIII: MGH srm VII,382. (72) V.Germ. XLVII: MGH srm VII,402. V.Germ. LX: MGH srm VII,409. (73) V.Germ. XXXV: MGH srm VII,394; V.Germ. LI: MGH srm VII, 404. (74) Concilio di Orléans: Conc. Aurelianense A. 538, can. 31 (28): CCL 118/A,125; Conc. di Mâcon: Conc. Marisconense A. 585, can. 1: CCL 118/A, 239-240; Sinodo di Auxerre: Syn. Dioc. Autissiodorensis A. 561-605, can. 16: CCL 118/A,267. Conc. di Chalon-sur-Saône: Conc. Cabillonense A. 647-653, can. 18 CCL 118/A, 307. (75) Per A.M. Orselli, Il santo patrono cittadino, pp. 86-88: defensor civitatis è un ruolo coniato dalla critica moderna; però nella V.Alb. troviamo una corrispondenza lessicale di questo attributo: in defensione civium (V.Alb. IX.25: MGH AA IV/2,30). (76) J. Le Goff, Cultura clericale, p. 217. V.Marc. X.40-50: MGH AA IV/2,53-54. (77) V.Germ. IV: MGH srm VII,375; cfr. V.Rem. V.14-15: MGH AA IV/2,6566; V.Leob. XIX.63-65: MGH AA IV/2,79. Cfr. V.Maur. X.43-46: MGH AA IV/2,89. (78) V.Sev. 6.8-9: MGH srm VII,222-224. (79) Gregorius Tur., Historia Francorum VI.46: MGH srm I/1,286-287. Sul passo, vedi bibliografia in B. Brennan, The image of the Merovingian bishop, p. 118. (80) Cfr. Sulpicius Sev., Dialogi II (III),4: CSEL 1,201-202. VM IV,98-157: MGH AA IV/1,351-353. (81) V.Alb. XII.33-35; 44-46: MGH AA IV/2,30-31; V.Aman. II.7-11: MGH AA IV/2,55-56; V.Maur. IX.34-42: MGH AA IV/2,88-89; V.Germ. XXX: MGH srm VII,390; LXI: MGH srm VII,409; LXXII: MGH srm VII,415. (82) V.Germ. XXXI: MGH srm VII,391. (83) V.Rad. 12: MGH srm II,368. (84) V.Hil. VIII.24-30: MGH AA IV/2,4. (85) Virt.Hil. VII.20-VIII.23: MGH AA IV/2,9-10. (86) V.Alb. XIV.38-40 = MGH AA IV/2,31. (87) Gregorius Tur., Historia Francorum IV.26: MGH srm I/1,160-162. Cfr. can. 11 (10) del Concilio di Orléans del 538: «De incestis coniunctionibus…» (CCL 148/A,118-119). Il concilio fu sottoscritto anche da Albino (ivi, p. 127). (88) Cfr. VM III.209-246: MGH AA IV/1,337-338. (89) V.Med. IV.11-VI.20; VIII.23: MGH AA IV/2,69-71. (90) Il pesce rubato ai servi di Amanzio non si lascia cucinare. I falsi poveri che nottetempo rubano in chiesa rimangono accecati. L’orto del santo diventa una trappola per il ladro introdottosi. Il miele rubato diventa pece. V.Aman. IV.26-31; V.41-VII.53: MGH AA IV/2,57-60. (91) Blocca il cavallo di chi aveva derubato una vedova; libera un uomo

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ingiustamente accusato di omicidio; infrange davanti al popolo i ceppi di un altro innocente. V.Aman. IV.26-31; V.41-VII.53: MGH AA IV/2,57-60. (92) Il santo in preghiera ottiene che un orso faccia razzia nella proprietà ecclesiastica che un tal Cariulfo aveva occupato: V.Germ. V: MGH srm VII,376. (93) Gregorius Tur., Historia Francorum VI.46: MGH srm I/1,286-287. Cfr. Idem, Liber de gloria confessorum: MGH srm I/2,795. (94) Cfr. B. Brennan, The image of the Merovingian bishop, pp. 115-139. Idem, “Episcopae”: Bischop’s Wives Viewed in Sixth-Century Gaul, «Church History» 54 (1985), pp. 311-323. J.W. George, Venantius Fortunatus, pp. 6779; 106-131. Cfr. anche M. Donnini, Coordinate spazio-temporali per una microagiografia vescovile negli epitaffi di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia…, pp. 247-258. (95) Carm. I 16: CSEA VIII/1,132-137: «agnoscat omne saeculum / antistitem Leontium / Burdegalense praemium / dono superno redditum. / Bilinguis ore callido crime fovebat invidum, / ferens acerbum nuntium / hunc iam sepulchro conditum». L’inno continua contestando le sacrileghe pretese di chi usurpa l’episcopato. (96) Carm. V 3: CSEA VIII/1,292-295. Ad cives Turonicos de Gregorio episcopo. Cfr. Gregorius Tur., Historia Francorum V.49: MGH srm I/1, 242. Eufronio aveva proposto come successore l’arcidiacono Riculfo che tentò di screditare lo “straniero” Gregorio. Cfr. B. Brennan, The career, p. 70. Sulla cerimonia dell’adventus vd. P. Brown, Potere e cristianesimo nella tarda antichità, Bari 1995, pp. 18-19; 163.

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ANTONIO V. NAZZARO Università degli studi di Napoli “Federico II”

La Vita Martini di Sulpicio Severo e la parafrasi esametrica di Venanzio Fortunato Alla cara memoria di Pasquale Gargiulo 1. Premessa

Mi corre l'obbligo di precisare che il termine parafrasi è impiegato in questa relazione in senso tecnico a indicare un preciso genere letterario, e nel contempo di mettere in guardia il lettore contro le due estreme e fuorvianti interpretazioni, cui il termine pure si presta; e cioè l'interpretazione riduttiva, per cui la parafrasi s'identifica con un meccanico esercizio retorico, e l'interpretazione estensiva, per cui la parafrasi finisce con il qualificare ogni tipo di testo che si sviluppa da e su un altro testo, ivi compresi commentari esegetici1 e traduzioni.2 In quest'accezione estensiva e a-tecnica la parafrasi, come la parodia, finirebbe con il qualificare ogni scrittura letteraria. La parafrasi può ascriversi al terzo tipo di trascendenza testuale, quello della metatestualità, che Genette definisce come la relazione, più comunemente detta di «commento», che unisce un testo a un precedente testo, allo scopo di chiarirlo, spiegarlo, commentarlo.3 E non c'è dubbio che questo genere poetico nasca e si sviluppi a partire da altri testi (biblici o agiografici), che sono presupposti necessari per la sua intelligenza. La comprensione della parafrasi come fenomeno metatestuale agevola l'intelligenza sia dei singoli componimenti, sia, più in generale, di questo genere poetico nuovo, sorto non dalla giustapposizione di due distinte tradizioni culturali (la tradizione dell'epos grecoromano e la tradizione giudeo-cristiana dell'interpretazione scritturistica), ma dal loro libero e fecondo interagire.

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2. Parafrasi agiografica

Accanto alla parafrasi biblica, composta nel verso epico di Omero e di Virgilio, ma anche – specie in àmbito bizantino – nel giambo, abbiamo la parafrasi di testi agiografici. Per la parafrasi biblica, liquidata circa cinquant'anni fa da E.R. Curtius come «un genere ibrido e intimamente falso»4 e bollata, un decennio più tardi, da Ch. Mohrmann come opera di mediocri versificatori pedanti, priva di ispirazione religiosa,5 e sul vivace dibattito sviluppatosi in quest'ultimo ventennio, specie in ordine alla definizione come genere della parafrasi biblica e del rapporto che in essa giocano il «classico» e il «cristiano» mi permetto di rinviare al mio contributo Poesia biblica come espressione teologica: fra tardoantico e altomedioevo, in Bibbia e poesia in età medievale e umanistica, a cura di F. Stella, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2001, pp. 119-53. Così come per una panoramica sulla parafrasi agiografica, in lingua greca e latina, nella tarda antichità rinvio al mio contributo apparso in Scrivere di santi. Atti del II Convegno di studio dell'AISCA (Napoli, 22-25 ottobre 1997), a cura di G. Luongo, Roma, Viella, 1998, pp. 69-106. In questa sede mi limito a qualche considerazione di carattere generale. L’esercizio della parafrasi poetica di testi non biblici doveva essere assai diffuso tra il V e il VI secolo, se Fortunato propone a Gregorio di mettere in versi la sua raccolta di miracoli martiniani6 e Gregorio a conclusione della Historia Francorum, dopo aver enumerato le sue opere, ancorché composte in uno stile piuttosto rustico, scongiura i successori di non farle cancellare o riscrivere e li esorta a lasciarle integre così come le hanno ricevute. Qualcuno dei successori, se vorrà, potrà versificarne qualche parte, a condizione che lasci immutata l'opera.7 Lo stretto rapporto intercorrente tra le due forme di parafrasi cristiana (la biblica e l'agiografica) è legato al rapporto di continuità esistente tra i loro due ipotesti: la Scrittura e le Vite dei Santi. Tale rapporto è chiaramente affermato da Sulpicio, che nella chiusa della Vita reclamava per il suo scritto la stessa fede che si deve alla parola di Dio e nei Dialogi giungeva ad affermare che il non credere ai miracoli di Martino equivale a rinnegare il Vangelo.8 Nella scia di Sulpicio ritroviamo Paolino di Périgueux, che nel proemio del I libro del suo poema martiniano sottolinea la continuità della sua parafrasi con l’epopea biblica (1, 1-10). 172

Non c'è dubbio che l'esempio più significativo di parafrasi esametrica di testi agiografici della tarda antichità sia quello legato all'agiografia martiniana inaugurata da Sulpicio Severo.

3. Agiografia martiniana

Sulpicio Severo, avvocato e scrittore di professione, ci ha lasciato, in una prosa d'arte raffinata, che riecheggia Sallustio e Cicerone, una biografia dell'asceta-vescovo Martino, nato a Sabaria, capitale della Pannonia Prima nel 316 o 317 e morto a Candes l'8 novembre 397.9 Convertitosi all'ascetismo dopo la morte della moglie, Sulpicio decide di diventare il biografo e il difensore dell'ancor vivo vescovo di Tours. La Vita Martini apparve nel 397, qualche mese prima della morte del vescovo: è cronologica fino all'episcopato, tematica in seguito. Nel corso del 397/98 scrive tre lettere a Eusebio, Aurelio e alla suocera Bassula, alla quale descrive la morte edificante del vescovo e il trionfale trasferimento delle spoglie mortali a Tours, dove furono deposte in un’umile sepoltura. Sei anni dopo la pubblicazione della Vita, Gallo, monaco di Marmoutier, incaricato da Sulpicio di estrarre dagli atti martiniani una scelta di miracoli, raccolse a caso una trentina di fatti meravigliosi senza preoccupazioni cronologiche o compositive e li presentò al suo committente, che li utilizzò sotto forma di dialoghi e li scandì in tre momenti. A differenza della Vita, i Dialogi sono animati da uno spirito di competizione (bisognava provare che l'Occidente non aveva nulla da invidiare all'Oriente in materia di santità e di miracoli), e da uno spirito polemico (che raggiunge i toni del pamphlet) contro i membri del clero, che non avevano disarmato nemmeno dopo la pubblicazione della Vita. Su Martino calò ben presto il silenzio, durato per più di mezzo secolo nella letteratura cristiana delle Gallie: tale silenzio è invocato dal Babut come prova del fatto che Martino era un monaco o un vescovo qualunque, inventato da Sulpicio Severo, che avrebbe composto la Vita come una sorta di centone sulla versione evagriana dell'atanasiana Vita di Antonio,10 ed è, invece, spiegato dalla Mohrmann con una specie di damnatio memoriae, che avrebbe colpito chi in vita ebbe molti nemici, soprattutto nel clero.11 Solo trent'anni dopo la morte, Martino ebbe sul luogo della sepoltura – grazie al suo successore Brizio (398-442) – un santuario, che divenne il punto di partenza di un culto 173

che crescerà sotto l'azione congiunta dell'alto clero e dei pellegrini, ma anche dell'arte, della letteratura e dell'iconografia, motore e riflesso della devozione popolare.12 Fu, però, il vescovo Perpetuo (459-488/89), succeduto a Eustochio (successore di Brizio), a dare un vero impulso al culto martiniano, che contribuisse anche a promuovere i diritti di Tours come sede metropolitana. Egli sostituì il primo santuario con una sontuosa basilica, fatta erigere nel suburbium, la cui architettura richiamava quella delle basiliche orientali e per la consacrazione ufficiale (4 luglio 471 o 472) chiese a Paolino di Périgueux e a Sidonio Apollinare epigrammi che ne ornassero le pareti.13 Nello stesso tempo, organizzò l'anno liturgico e il calendario della diocesi, inscrivendo Martino tra i santi di Tours e aggiungendo all'11 novembre, anniversario della depositio, il 4 luglio, anniversario dell'ordinazione episcopale. Perpetuo compose, inoltre, come testimone oculare, una raccolta di undici miracoli operati da Martino dopo la sua morte. Per effetto di quest'attività di promozione, Tours, la città di Martino (Pul. Petr. 5, 295), divenne un'attrazione per i pellegrini degna di essere paragonata a Gerusalemme.

4. Agiografia martiniana e sue riscritture poetiche

L’agiografia, che, grazie soprattutto alla Vita Martini e ai Dialogi, aveva da tempo cominciato a imporsi come principale alternativa al Testo sacro, non tarderà ad avvalersi della poesia per raggiungere un pubblico sempre più vasto e consentire una migliore partecipazione alla celebrazione del santo. La funzione didattica inerisce, dunque, alla versificazione dei testi sulpiciani, compiuta, sessant'anni più tardi, appunto sul modello delle «parafrasi» bibliche.14 Tra il 463 e il 470 Vita e Dialogi furono parafrasati nel metro dell'epica classica da Paolino, figlio di un retore di Périgueux, nel quadro dell'operazione di propaganda religiosa intrapresa da Perpetuo, probabilmente incoraggiato dal successo dei Carmina Natalicia di Paolino di Nola in onore di san Felice, e, un secolo più tardi, da Venanzio Fortunato, su richiesta del vescovo di Tours, Gregorio, il dedicatario del poema,15 o, più verisimilmente, su sollecitazione di Agnese e Radegonda, alle quali è indirizzata la prefazione in distici elegiaci.16 A Gregorio di Tours, che inizia l'Historia Francorum con la creazione del mondo e la chiude significativamente con 174

Martino, si devono i quattro libri (in prosa) De uirtutibus sancti Martini Episcopi. Eletto vescovo di Tours, Gregorio, desideroso di continuare l'opera di Eufronio e di promuovere la città come grande centro di pellegrinaggio, si diede a raccogliere i miracoli compiuti da Martino dall'inizio del secolo, una sorta di continuazione del VI libro di Paolino. Lavorò a questo progetto dal 573 al 591 e, successivamente, pubblicò i quattro libri. Nel prologo del primo libro de uirtutibus egli cita come suoi predecessori Sulpicio Severo, Paolino (che identifica con Paolino di Nola) e Fortunato.17 A questi quattro autori (Sulpicio, Paolino, Fortunato, Gregorio) – che per Ghiberto di Gembloux sono una sorta di quattro evangelisti – si deve la formazione del canone definitivo intorno a S. Martino.18 4.1. Il De uita S. Martini di Paolino di Périgueux Paolino di Périgueux, nato nei primi anni del 400 – come è lecito desumere dal v. 20 del De uisitatione nepotuli sui composto tra il 470 e il 473, dove il poeta fa riferimento alla sua grauis senecta – è l'autore del poema esametrico in 6 libri De uita S. Martini, destinato forse alla pubblica lettura. Paolino, probabilmente prete, se non addirittura vescovo di Périgueux, è stato confuso nella tarda antichità e nel Medio Evo con l'omonimo vescovo di Nola.19 I libri I-III (vv. 1570) e IV-V (vv. 1546) sono la parafrasi rispettivamente della Vita Martini e dei Dialogi di Sulpicio Severo, mentre il VI (vv. 506) è la versificazione di un opuscolo (andato perduto) di Perpetuo sui miracoli operati presso la tomba del santo. Ai miracoli di Martino sono anche dedicati un'iscrizione di 25 esametri, De orantibus, e il citato carme De uisitatione nepotuli sui (80 esametri). A. Huber ha avanzato l' ipotesi che Paolino si sarebbe segnalato all'attenzione di Perpetuo con l'invio dei primi cinque libri della sua opera parafrastica e il vescovo gli avrebbe inviato, per la versificazione, il suo opuscolo (andato perduto) sui miracoli operati post mortem da Martino. Ultimata l'opera, Paolino avrebbe inviato a Perpetuo il VI libro insieme con una lettera, che è l'attuale prologo all'intera opera.20 Quest'ipotesi è stata persuasivamente confutata da A.H. Chase, secondo il quale Perpetuo avrebbe inviato a Paolino una copia della Vita sulpiciana, nella nuova revisione fatta a Tours, con la richiesta di una parafrasi metrica; il poeta avrebbe composto i libri I-III e forse il primo prologo come introduzione e dedica; successivamente, qualcuno, con 175

ogni probabilità lo stesso Perpetuo, gli avrebbe inviato una copia dei Dialogi, come il poeta spiega nel proemio del libro IV (vv. 1-13); infine, il vescovo avrebbe inviato al poeta il suo opuscolo sui miracoli del santo, che fornisce la materia al VI libro.21 Con la sua opera parafrastica, definita ora translatio22, ora transcripta oratio23, Paolino compie – grazie anche a una robusta intertestualità classica e virgiliana24 – un'inedita operazione sul piano letterario: trasforma il racconto sulpiciano in poema epico e contribuisce – in sintonia con le intenzioni e le direttive di Perpetuo – allo sviluppo del culto martiniano e alla valorizzazione della cristiana città di Tours, se è vero che – come ha osservato Luce Pietri – il parafraste traspone l'opera sulpiciana dans une tonalité plus tourangelle.25 Paolino, insomma, non deve più preoccuparsi di ricercare documenti e provarne l'autenticità per difendere Martino, ma deve pensare solo a diffondere nel mondo la gloria, ormai stabilita, del santo patrono, come afferma nell’epistola in prosa a Perpetuo che funge da prologo del poema, completando e attualizzando l'opera sulpiciana. Il poeta aquitano mostra in questo luogo di aver coscienza dei limiti dell’operazione parafrastica, che, lungi dal conseguire un vero rinnovamento del soggetto, si limita a un'amplificazione formale attraverso l'ornatus e il poeticus color, conveniente in un'epopea e degna di un eroe.26 Le difficoltà della versificazione di una prosa, qual è quella del modello, sono ben presenti a Paolino là dove teme che le costrizioni del metro possano indebolire il senso. Il tono della riscrittura esametrica è naturalmente diverso da quello della prosa poetica del modello: all'apologetica subentra il panegirico, alla polemica l'illustrazione. 4.2. Il De uita S. Martini di Venanzio Fortunato Venanzio Fortunato,27 ancor prima di ricevere la richiesta di Gregorio di versificare il suo De uirtutibus s. Martini, compose il De uita s. Martini (2243 esametri), per ringraziare il santo per la guarigione agli occhi ottenuta per sua intercessione.28 Quest'opera privilegia i miracoli di Martino, che dovevano soddisfare le esigenze dei contemporanei più che le vicende della vita del santo, ampiamente note. Fortunato riscrive nel metro di Virgilio in gran fretta (cursim) e con scarsa cura in mezzo a futili occupazioni (impolite inter friuulas occupationes sulcarem) la sulpiciana Vita Martini nei primi due libri (il primo libro fino al cap. 18 e il secondo dal cap. 19 alla fine) e i Dialogi negli ultimi due, con ogni probabilità nel 575, dall'inizio dell'anno fino al 176

tempo della mietitura, come egli stesso dichiara nell'epistola dedicatoria a Gregorio.29 Il dossier martiniano utilizzato – non sappiamo se letto a Ravenna, ad Aquileia o a Poitiers – si limita alla Vita e ai Dialogi II e III, vale a dire al racconto di Gallo. Quanto alle Epistulae, è dubbio che le abbia lette; non si sarebbe altrimenti lasciato sfuggire l'occasione di parafrasare la morte edificante del santo. Anche nella produzione poetica di Fortunato (nei Carmina come nella Vita) è operante la presenza della poesia classica, e in particolare virgiliana.30

5. Contenuto del poema venanziano

Nella scia di Sulpicio, che dedica l'opera a Desiderio, Paolino e Fortunato dedicano le loro riscritture rispettivamente a Perpetuo e a Gregorio, vescovi di Tours. La biografia sulpiciana si apre con un proemio (cap. 1), nel quale lo scrittore giustifica la necessità della sua opera agiografica e si conclude – dopo la topica professione di modestia – con l'appello al lettore a prestar fede al suo racconto. Il prologo sulpiciano, che non ha riscontro in Paolino, è sostituito da Fortunato con un prologo in 21 distici elegiaci indirizzato ad Agnese e Radegonda, che esordisce con la metafora del nauta rudis, costretto ad affrontare una pericolosa navigazione31, e termina con la richiesta di intercessione delle due donne, perché Martino assecondi con i suoi soffi le sue vele (v. 36 flatibus ille suis ut mea uela iuuet) e a Cristo di donargli la parola poetica (39 et de Verbo poscite uerba). Paolino apre il suo libro con un proemio di dieci versi, nei quali presenta Martino come l'apostolo della Gallia (1, 1-10). Più ampio e complesso il proemio di Fortunato, che, dopo aver evocato la discesa di Cristo agli Inferi e l'ascensione al cielo con le anime liberate, integrando così la vicenda di Martino nella storia della salvezza, si preoccupa di definire la sua collocazione nella tradizione poetica cristiana: Quae conuersatus dedit ad miracula terris multa, euangelici reserante uolumine libri, hebraicus cecinit stilus, atticus atque latinus, prosaico digesta situ, commune rotatu. Primus enim, docili distinguens ordine carmen, maiestatis opus metri canit arte Iuuencus. Hinc quoque conspicui radiauit lingua Seduli paucaque perstrinxit florente Orientius ore martyribusque piis sacra haec donaria mittens,

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prudens prudenter Prudentius immolat actus. Stemmate, corde, fide pollens Paulinus et arte uersibus explicuit Martini dogma magistri. Sortis apostolicae quae gesta uocantur et actus, facundo eloquio sulcauit uates Arator. Quod sacra explicuit serie genealogus olim, Alcimus egregio digessit acumine praesul32.

Fortunato – che rivendica le sue origini italiane (1, 26 Italae quota portio linguae) – si presenta come l’erede, non solo di Orienzio e Prudenzio (autore del Peristephanon), ma anche, e soprattutto, di parafrasti dell'AT (Avito), dei Vangeli (Giovenco33 e Sedulio), degli Atti degli Apostoli (Aratore), nonché del suo immediato predecessore, Paolino, che hanno cantato i tanti prodigi operati da Cristo nella sua vita terrena e narrati nelle lingue ebraica, greca e latina in prosa. Nella scia di Aratore, Fortunato, al pari di Paolino, scegliendo come eroe non Cristo, ma il suo discepolo, Martino, si muove con una maggiore libertà nell'atto della creazione poetica. La convenzionale professione di modestia (vv. 26-35) – che ci informa sulla istruzione liberale compiuta a Ravenna – si chiude con versi, che riflettono la compiaciuta aspirazione a collegarsi e a continuare una così benemerita ed elevata tradizione poetica: Scilicet inter tot sanctorum culmina uatum, flumina doctorum et gemmantia prata loquentum, nullo flore uirens, ego tendam texere sertam, mellis et inrigui haec austera absinthia miscam?34

Nonostante la dichiarata povertà linguistica e poetica, Fortunato è costretto a sciogliere con quest'opera il suo voto di gratitudine al Santo, che gli ha guarito una perniciosa malattia agli occhi (1, 40-44). Inizia a questo punto la parafrasi della narratio sulpiciana, che Venanzio, nella scia di Aratore, scompone – in omaggio alla tendenza ellenistica alla miniaturizzazione – in una ottantina di medaglioni, la cui estensione varia dai 2 agli 80 versi35. Li passo rapidamente in rassegna, con la dovuta attenzione all'ipotesto (Sulp. Mart. o dial.) e alla riscrittura del predecessore Paolino di Périgueux. 5.1. Sulpicio dedica quattro brevi paragrafi (Vita 2, 1-4) alle origini e all'infanzia di Martino, trattato come un personaggio storico, accennando al paganesimo dei genitori che erano di rango non umile (non infimis) e fornendo precise indicazioni topografiche (la città natale Sabaria in Pannonia 178

e la città di Pavia in Italia, dove è stato educato) e cronologiche (Costanzo e Giuliano). Paolino (1, 11-23), omettendo le indicazioni cronologiche, fa di Martino un personaggio della Gallia anche del suo tempo. Il parafraste aquitano sottolinea la diversa nobiltà di Martino rispetto al padre attraverso un elaborato ossimoro (bene degener). Nei cinque versi dedicati all'ipotesto sulpiciano (1, 45-49) Fortunato passa sotto silenzio la fede pagana dei genitori per non sporcare l'immagine del santo e introduce il lettore al suo racconto: Ergone dignus ero Martini gesta beati, Pannoniae geniti qua clara Sabaria uernat, adtrectare manu trepida uel pangere lingua? Non eget ille meis tenebris, quia luce coruscans, Gallica celsa pharus, fulgorem extendit ad Indos.36

Al prosaico verbo scribere impiegato da Sulpicio (1, 7 uitam scribere) Fortunato sostituisce pangere, un verbo poetico fortemente connotato sul piano della sacralità, che significa “celebrare” e comporta l'idea di perennità. Il nesso pangere lingua è lo stesso con il quale Fortunato apre l'inno in onore della santa croce (Pange lingua). Fortunato vuole cantare i Martini gesta: con il termine gesta, che esprime il tono laudativo ed epico del poema, il poeta si situa nella linea di Giovenco (praef. 19 Christi uitalia gesta) e di Ilario (Hymn. 1, 71); peraltro, poco prima Fortunato aveva presentato la sua opera come un'epopea agiografica e un panegirico (1, 43 huius pontificis solui praeconia uerbis). Sulpicio giustifica il servizio militare prestato da Martino per più di ventiquattro anni (dal 331/32 al 356), con il carattere ereditario dell'arruolamento dei figli dei veterani; tale arruolamento avrebbe interrotto l'evoluzione spirituale del giovane, che, all'età di dodici anni, aspirava al catecumenato e, all'età di quindici, alla vita nel deserto (Vita 2, 5-8). Alla giustificazione sulpiciana Paolino (1, 24-53) aggiunge un'energica uituperatio del padre e, invertendo l'ordine cronologico dell'ipotesto, presenta Martino come miles Christi prima ancora di essere soldato del mondo. Fortunato omette la menzione dell'arruolamento di Martino, sia perché ritiene noto l'episodio, sia perché non avverte l'esigenza di difendere davanti all'opinione gallo-romana un personaggio compromesso dalla carriera militare. Sulp. Vita 3 (divisione del mantello, apparizione di Cristo e battesimo) è parafrasato con ampiezza da Paolino (1, 54139), che rispetta l'ordo narrationis dell'ipotesto e, in termini 179

essenziali, da Fortunato (1, 50-67), che senza accennare alla condizione di soltato di Martino e al suo battesimo, descrive il paesaggio ricoperto dal gelo e si sofferma con variazioni sulla veste (vv. 50-67)37. Martino rifiuta il donativo per i servizi di guerra, scatenando l'ira di Giuliano, e affronta senza armi il nemico, che chiede la pace (Sulp. Vita 4). Il dettagliato racconto di Sulpicio è parafrasato in trentanove versi da Paolino (1, 14078), che drammatizza la narratio con l'impiego dell'oratio recta e delle interrogationes e la epicizza con reminiscenze virgiliane38, ed è, invece, abbreviato in soli dieci versi da Fortunato (1, 68-77), che riduce l'azione a un semplice gesto: il santo in preghiera. I primi tre paragrafi del cap. 5 della Vita, parafrasati da Paolino (1, 179-90), sono omessi da Fortunato. Martino converte un brigante sulle Alpi (Sulp. Vita 5, 4-6). Fortunato (1, 78-87) abbrevia la riscrittura paoliniana (1, 191-212), con la quale pure esibisce interessanti punti di contatto, specie nell'impiego di antitesi e nell'uso del paradosso. Nella pericope venanziana, che si conclude con due esametri trimembri (86-87 Seruantur simul, ille fide, hic corpore uiuens./Ambo ualent, dum nemo cadit. Sic uicit uterque) spicca l'interessante gioco paronomastico praedo/praeda (v. 84 atque suus praedo Martini praeda fit ultro) – probabilmente mutuato da Aratore (2, 1164 Praedo uenis sed praeda iaces) – che sottolinea l'inversione dei ruoli. Martino, tentato dal diavolo apparsogli in sembianze umane nelle vicinanze di Milano, lo mette in fuga (Sulp. Vita 6, 1-2). Fortunato (1, 88-103) segue da vicino sia l'ipotesto sulpiciano, sia la parafrasi in un numero quasi pari di versi del suo predecessore (1, 213-27), dal quale mutua il complesso gioco paronomastico del trimembre verso 99 Ne timeam timidum, timor est deus, arma timentum (~ Paul. 1, 225-26 metuens Dominum, contemno periclum/ ne timeam, timor ille facit)39. Efficace è, altresì, il Wortspiel umbra/obumbrat al v. 103 Sic umbra fugit quem Christus obumbrat, che punta sull'ambivalenza di umbra (la nociva ombra del diavolo contrapposta all'ombra protettrice di Cristo)40. L'accenno sulpiciano alla conversione della madre e al persistente paganesimo del padre (Vita 6, 3) è sviluppato in dieci versi da Paolino (1, 228-37) e in appena quattro versi da Fortunato (1, 104-107), che tace del padre. Il paradosso della madre partorita dal figlio, coniato a conclusione dell'episodio da Paolino, attento a sottolineare il valore teologico 180

del passo41, è portato all'estremo da Fortunato, che lo sostituisce alla narrazione.42 Sulp. Vita 6, 4 e 7 (che parla della lotta di Martino contro gli ariani, diffusi soprattutto nell'Illiria, ma anche in Gallia, dopo l'allontanamento di Ilario, e del suo eremitaggio a Milano, da cui è cacciato da Aussenzio) è parafrasato da Paolino (1, 238- 59) e da Fortunato (1, 123-48). La retractatio venanziana è un vero e proprio elogio di Ilario, che è anche un omaggio a Poitiers dove il poeta visse dal 567, costruito con un'interessante enumeratio: il poeta italiano passa dal ritmo ternario del v. 126, dove il vescovo è chiamato bucina, tuba e praeco, al ritmo binario e quaternario, dove come termini di confronto sono introdotti l'elettro e l'oro e i fiumi Po, Rodano, Nilo, Danubio (con allusione ai quattro fiumi del Paradiso e ai 4 Vangeli). Nell'elogio Fortunato ricorre a un copioso impiego di termini della luce e delle pietre preziose, mostrando la sua preferenza per quello che Roberts definisce «jeweled Style»43: le parole si valorizzano le une con le altre grazie a un “montaggio” che si avvicina al procedimento degli orafi, che mettono insieme e decorano l'una con l'altra le pietre di un gioiello. L'effetto estetico prodotto dal parallelismo e dall'antitesi trova significativi riscontri nell'arte dell'orefice. Del racconto sulpiciano (Vita 6, 5-6) del volontario esilio insieme con un prete nell’isola Gallinaria, dove con la preghiera sfugge alla morte per avvelenamento provocato dal consumo di elleboro, Paolino sviluppa in venticinque esametri il motivo della vittoria della preghiera sul veleno della pianta con considerazioni sulle virtù della medicina (1, 26084), mentre Fortunato dedica allo stesso motivo solo sei esametri (1, 149-154); anche in questo caso l'essenziale retractatio venanziana si conclude con un paradosso (et uiuente uiro intra se sua mortua mors est). Alla fondazione di un asceterio a 8 Km a sud di Poitiers (attuale Abbazia di Ligugé) (Sulp. Vita 6, 7 - 7, 1) Fortunato dedica solo quattro versi (1, 155-58) contro i tredici di Paolino (1, 285-97), che a questo punto inserisce una richiesta di ispirazione, sviluppando una critica alle Muse e ad Apollo, e conclude con una professione di modestia affettata, che serve a sottolineare la distanza tra l'autore e il lettore, al quale impone il rispetto per il protagonista del suo risibile canto (1, 298-316). Al racconto della resurrezione di un catecumeno (Vita 7, 2-7) Paolino dedica un'ampia riscrittura nella quale insiste sull'utilità del miracolo (1, 317-65), che è più del doppio di 181

quella di Fortunato (1, 159-78), tramata da antitesi e paradossi e marcata da una sorprendente sententia paradossale Ipse iterum post se uiuens, idem auctor et heres (176), ricalcata su Sedul. 4, 290 Ipse sibi moriens et postumus extat et haeres.44 L'episodio della resurrezione dello schiavo di Lupicino (Sulp. Vita 8) è riscritto in un numero quasi pari di versi dai due parafrasti, Paolino (1, 366-86), che si sofferma sull'importanza sociale di Lupicino, e Fortunato (1, 179-201). Il resoconto dell'elezione di Martino a vescovo di Tours – osteggiato dal vescovo Defensor45 – che occupa l'intero capitolo 9 della Vita sulpiciana è concisamente parafrasato da Fortunato in diciotto versi (1, 202-19) contro i sessantanove versi, che Paolino (2, 15-83) dedica all'episodio, con il quale egli – dopo un proemio di 14 versi incentrato sulla metafora della scrittura come navigazione46 – apre il secondo libro. La fondazione di un asceterio (la futura Abbazia di Marmoutier) sulla riva destra della Loira a due miglia a est di Tours, a una distanza che consentiva a Martino di coniugare i doveri episcopali con gli ideali ascetici, in un paesaggio appartato che Sulpicio descrive alla stregua del deserto dell'Alta Tebaide, e la vita che ivi conducevano circa ottanta monaci, dediti alla preghiera e alla copiatura di libri (Sulp. Vita 10), sono inspiegabilmente linquidate da Fortunato in tre versi (1, 220-22); mentre il suo predecessore non s'era lasciata sfuggire l'occasione di sviluppare l'ipotesto (2, 84-155). Al racconto del falso martire smascherato da Martino, che pone così fine al suo culto (Sulp. Vita 11), Paolino dedica una parafrasi, drammatizzata dall'impiego del discorso diretto, che è cinque volte superiore (2, 156-221) a quella essenziale, e, per ciò stesso, più efficace, di Fortunato (vv. 220-234). Con il segno della croce Martino immobilizza un funerale pagano e con lo stesso segno lo rimette in marcia (Sulp. Vita 12): Paolino (2, 222-50) e Fortunato (1, 235-248) utilizzano entrambi le antitesi presenti nell'ipotesto. La scena paoliniana termina con una sententia paradossale dal forte spessore soteriologico (v. 250 ius habuit uincire uagos, dissoluere uinctos); in Fortunato è da registrare un'interessante personificazione del segno della croce. Un pino abbattuto cade – per effetto del segno di croce e contro ogni legge di natura – dalla parte opposta, salvando Martino e convertendo i pagani (Sulp. Vita 13). L'episodio 182

è riscritto da Paolino in un numero di versi quasi triplo (2, 251-334) rispetto a quello di Fortunato (1, 249-279), che conclude con una sententia monostica Maiorem generans fructum cum decidit arbor. Fortunato riprende più di un termine e di una movenza stilistica da Paolino, che impreziosisce la riscrittura con reminiscenze virgiliane (Aen. 2, 627-31 e 6, 282) e con un'apostrofe a Martino relativa a questa sorta di giudizio divino e alla clemens uictoria che ha trasformato i pagani in fratelli. Martino con la preghiera allontana le fiamme appiccatesi a una casa (Sulp. Vita 14, 1-2): entrambe le riscritture metriche ruotano intorno al paradosso dei venti messi in fuga dalle fiamme, sviluppato con consimili immagini (Paul. 2, 335-60 ~ Ven. Fort. 1, 280-98).47 L'episodio della distruzione del tempio pagano a Levroux grazie all'intervento degli angeli, sollecitato dalle preghiere e dalla penitenza di Martino (Sulp. Vita 14, 3-7), è amplificato da Paolino (2, 361-429) in un numero quasi triplo di versi rispetto a Fortunato (1, 299-324), che vivacizza la narratio con un discorso diretto di undici versi rivolto dai due angeli della milizia divina al vescovo. Durante l'operazione di abbattimento di un tempio, un pagano, mentre sta per colpire Martino con la spada, perde l'equilibrio e cade (Sulp. Vita 15, 1-2): Paolino, attribuendo la caduta dell'aggressore a una sorta di intervento soprannaturale che ha paralizzato la sua mano, sviluppa un'amplificazione barocca movimentata dal susseguirsi di brevi interrogationes (2, 430-67); Fortunato (1, 325-44), mantenendosi più aderente all'ipotesto sulpiciano, conclude il suo medaglione con una sententia monostica moraleggiante, giocata sull'antitetica sorte toccata all'inops e al superbus (344 Dum uice diuersa stat inops, ruit ille superbus). Martino si salva, grazie al fatto che il coltello, sfuggendo dalla mano dell'assassino, si perde nell'aria (Sulp. Vita 15, 34): in un numero pari di versi l'episodio è riscritto da Paolino (2, 468-75) e da Fortunato (1, 345-353), che conclude anche questo medaglione con una sententia monostica di carattere moraleggiante (353 Inuita haec pietas quae perdidit unde noceret). Sul piano retorico-formale va segnalato l'olodattilico verso 347 dum rapit eripitur rapienda rapina rapaci, la cui efficacia deriva dalla figura etymologica e dall'incessante succedersi della sillaba allitterante /ra/. Il cap. 15 della Vita sulpiciana, che si conclude con il paradossale atteggiamento dei pagani cooperanti alla distruzione dei loro templi, è parafrasato in quattro versi da 183

Paolino (2, 476-79), che sviluppa il concetto della blanda azione esercitata dal vescovo sui duri cuori dei pagani e contrappone alla vecchia notte del peccato la luce della dottrina, e in sette versi da Fortunato (1, 354-60), che recupera il paradosso sulpiciano dei contadini che abbattono i loro templi. La guarigione della giovane paralitica di Treviri, che occupa tutto il cap. 16 della Vita, è riscritta in cinquantanove versi da Paolino (2, 480-538) e in sessantotto versi da Fortunato (1, 361-428), che ripristina l'oratio recta del modello. L'episodio della guarigione dello schiavo di Tetradio (Sulp. Vita 17, 1-4) è parafrasato da Paolino in trentaquattro versi, di cui i primi cinque costituiscono una sorta di transizione (2, 539-72) e da Fortunato in ventuno versi (1, 429449): entrambi i pafrasti giocano sulla doppia salvezza del padrone convertito, il cui nome è omesso da Paolino, e del suo schiavo liberato dal demonio. Martino libera un cuoco dal demonio, che è evacuato con un flusso del ventre (Sulp. Vita 17, 5-7): Paolino (2, 573601) e Fortunato (1, 450-471) riscrivono l'episodio in una maniera molto simile per numero di versi, immagini e lessico (Paul. 2, 586-87 Diffugiunt trepidi nec quisquam obsistere contra/audet ~ Ven. Fort. 1, 455 Terga dabant socii nec quisquam ire obuius audet). Fortunato fa registrare i seguenti scarti rispetto al predecessore: il gioco etimologico sul nome di Martino (458 Martius ergo calybs, Martinus belliger armis), che allude alla sua professione militare; la ripresa dall'ipotesto dell'apostrofe di Martino al demonio; la riflessione finale, sotto forma di esclamazione, sulla via di fuga del demonio (471 Tale iter arreptum sic te decet ire, uiator). Martino costringe un indemoniato a confessare che la diceria di una prossima invasione barbarica è opera di dieci demoni (Sulp. Vita 18, 1-2): l'episodio è parafrasato in un numero pari di versi dai due parafrasti (Paul. 2, 602-16 ~ Ven. Fort. 1, 472-486). La guarigione di un lebbroso (Sulp. Vita 18, 3) è parafrasata in diciotto versi da Paolino (2, 619- 36), che per la transizione da un episodio all'altro utilizza il topos della modestia affettata (617-18 Iam uero ut tantae pietatis gesta retexam,/ nec mens sufficiet sterilis nec pagina uilis) e in quattordici versi da Fortunato (1, 487-500), che gioca sul paradosso del lebbroso divenuto estraneo a se stesso e descrive le sue sofferenze attraverso un'interessante enumeratio, nella quale per undici volte ricorre il costrutto di un 184

aggettivo al nominativo con un sostantivo all'ablativo48. A differenza di Paolino, Fortunato elimina dalla scena i testimoni che assistono al miracolo e che hanno la funzione di divulgarne la conoscenza. A conclusione della guarigione del lebbroso, Venanzio, nella scia di Paolino (2, 637-49), sviluppa delle riflessioni sotto forma di esclamazioni, sul potere di Martino che con un gesto di pace mette fine agli assalti della malattia (1, 501504) e sulla sua fede che rende bello ciò che è ripugnante (1, 506 foedere fida fides formosat foeda fidelis: si noti il gioco di parola incentrato sull'antitesi tra formosat e foeda e l’allitterazione in /f/ che caratterizza il verso). Segue l’enumeratio dei luoghi, che hanno avuto la fortuna di fruire del suo passaggio, del suo sguardo e delle sue mani (505-10). Il libro si conclude con l'ingegnoso accostamento simbolico tra la saliva del bacio di Martino e l'acqua del Giordano. 5.2. Il II libro si apre con un breve proemio (vv. 1-10), consistente nella ripresa della metafora nautica: l'alleggerimento del peso dell'imbarcazione, esplicitamente ricondotto al completamento del primo libro, rende più lieve il compito del poeta-nauta, che invoca lo Spiritus alteuolans, perché gonfi le vele della sua ispirazione con una brezza favorevole e conceda una felice navigazione alla nave che trasporta un prezioso carico, Martino49. Segue la parafrasi delle virtù taumaturgiche di Martino: al potere miracoloso delle frange del vestito del Santo (Sulp. Vita 18, 4) i due parafrasti dedicano rispettivamente tre (Paul. 2, 650-52) e otto versi (Ven. Fort. 2, 11-18); alla guarigione della figlia di Arborio mediante l'applicazione sul petto di una lettera del Santo (Sulp. Vita 19, 1-2) Paolino (2, 65389) dedica un numero di versi quasi doppio rispetto a Fortunato (2, 19-37), che offre un saggio del suo virtuosismo nel trasformare la nube che protesse Mosè dal tizzone ardente (Ex 24, 15) e gli Ebrei dall'eccessivo calore del deserto (Ex 13, 217) nella rugiada trasudante dalla lettera di Martino, che estingue la fiamma della febbre quartana; alla guarigione dell'occhio di Paolino di Nola (Sulp. Vita 19, 3) Paolino (2, 690-702) dedica tredici versi, i cui ultimi tre sono una preghiera a Martino per ottenere un consimile beneficio, mentre Fortunato dedica sei versi (2, 38-43). Alla guarigione di Martino a opera di un angelo (Sulp. Vita 19, 4) Paolino dedica ventiquattro versi (2, 703-26) contro i quattordici di Fortunato (2, 44-57). 185

Alla partecipazione di Martino al banchetto offerto in suo onore dall'usurpatore Massimo (Sulp. Vita 20) Paolino, dopo il proemio al terzo libro in otto versi, nel quale fa professione di modestia (il suo flauto è indegno di cantare la gloria di Martino), dedica più del doppio dei versi (3, 9-143) di Fortunato (2, 58-121): entrambi i pafrasti sviluppano l'ipotesto con ekphraseis e amplificazioni poetiche. Degna di nota è la lunga enumeratio di paesi, venti e fiumi che ritroviamo in Fortunato (vv.72-79); il catalogo geografico, di ascendenza alessandrina, utilizzato da Sidonio Apollinare, consente di inserire nomi esotici dal forte impatto evocativo50. Un numero quasi pari di versi Paolino (3,144-51) e Fortunato (2,122-31) dedicano alla conversazione di Martino con gli angeli (Sulp. Mart. 21,1). Il racconto del diavolo, che si vanta dell’uccisione di un carrettiere (Sulp. Vita 21,2-5), è riscritto in cinquantadue versi da Paolino (3,152-203) e in trenta versi da Fortunato (2, 132-161)51. Ai travestimenti del diavolo (Sulp. Vita 22,1-2) Paolino dedica ventiquattro versi con una critica degli dei pagani (3, 204-27) contro i diciassette di Fortunato (2,162-178). Le provocazioni del diavolo sulla presenza a Marmoutier di milites convertiti e altri peccatori (Sulp. Vita 22, 3-6) sono sviluppate dai due parafrasti in un numero quasi uguale di versi e con l'impiego di interrogationes e sententiae (Paul. 3, 228-59 ~ Ven. Fort. 2,179-221). Il racconto dello smascheramento del falso profeta Anatolio (Sulp. Vita 23) è parafrasato da Paolino (3, 260-362) in un numero quasi doppio di versi rispetto a Fortunato (2, 222-277). Entrambi i parafrasti, omesso il racconto dei falsi profeti in Spagna e in Oriente (Sulp. Vita 24, 1-3), riscrivono l'episodio della falsa parusia di Satana (4-8) in un numero di versi, che, in questo caso, vede Fortunato (2,278-357) superare Paolino (3, 363-410). La riscrittura di Paolino è tramata da interrogationes e da un'apostrofe al diavolo che assume l'andamento di una uituperatio, là dove la più ampia parafrasi di Fortunato contiene l'amplificatio in oratio recta del botta e risposta tra il Santo e il diavolo. Il racconto della visita di Sulpicio a Martino e dell'accoglienza riservatagli dal santo, che gli propone come esempio Paolino di Nola (Sulp. Vita 25,1-5), è omesso da Paolino e fedelmente riscritto da Fortunato (2, 358-390)52. L'esposizione sulpiciana delle qualità intellettuali, morali e religiose di Martino (Vita 25, 6 - 27, 5) sono riscritte in qua186

rantotto versi da Paolino (3, 411-58) e in cinquantaquattro versi da Fortunato (2, 391-445), che si sofferma sulla dolcezza del carattere e soavità dell'eloquio e sul suo amore totalizzante per Cristo53. La conclusione sulpiciana (Vita 27, 6-7), omessa da Paolino, è sostituita da Fortunato con la descrizione della militia celeste e del trionfo di Martino in cielo (2, 446-467), che spiritualizza la figura del santo sulla cui milizia terrena il poeta italiano sorvola. Il libro termina con una interessante, ancorché tradizionale, professione di modestia: Cuius prosaicus cecinit prius acta Seuerus, uersibus intonuit Paulinus deinde beatus, aequiperare ualens inlustris uterque relator materie uicti sed et ipsi carmine cedunt . Luminibus tantis ego nubilus inseror audax, e minimis minimus, de magno maxima temptans, qui pede subtitubo, balbutio faucis anhelo, et, rudis eloquio, carpo quod condere certor54

e con una preghiera a Martino, affinché lo perdoni di averlo celebrato con la colpevole lingua (v. 476 Da ueniam, quia te cecinit rea lingua relatu55) e nel giorno del giudizio interceda in suo favore presso il Signore (2, 477-490). Già in Paolino di Nola il topos dell'oratore timoroso di non essere all'altezza del suo soggetto si trasforma in quello dell'autore che si riconosce peccatore. Solo il sentimento di umiltà rende il poeta cristiano degno della grazia e dell'ispirazione divina. Nella creazione poetica ispirata la misteriosa collaborazione della grazia divina si coniuga con la libertà umana dell'artista. Il poeta-peccatore, che osa parlare delle cose celesti grazie al dono di Cristo, si situa agli antipodi del poeta classico che ricorre invano alle Muse e al sordo Apollo.56 5.3. La metafora della navigazione ritorna variata e arricchita all'inizio del III libro (vv. 1-23), che è in effetti un nuovo inizio. Dopo le difficoltà affrontate nella stesura dei primi due libri, il poeta è atteso da un impegno maggiore, che è quello di parafrasare il racconto del monaco Gallo, protagonista dei Dialogi di Sulpicio Severo. Fortunato, riservandosi il più modesto ruolo di spettatore che durante la navigazione canta le gesta del santo, assegna a Gallo, a Martino e a Cristo il compito di condurre felicemente in porto l'imbarcazione:

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Remiget hic Gallus, Martinus uela gubernet, flamina Christus agat portum quibus unda reducat. Nunc quoque gesta sacri, dum nauigo, nauta loquatur57.

Improntate a non minore manierismo sono le lambiccate metafore che tramano la praefatio di Paolino al IV libro (120): il parafraste, accingendosi alla riscrittura dei Dialogi, nell'ambito della modestia affettata giustifica il suo progetto poetico con la pigrizia dei lettori, ai quali offre l'acqua torbida (turbida pocula) della sua parafrasi in vece dell'acqua viva e fresca (frigus) dell'opera di Sulpicio; e per risparmiare loro un viaggio lungo e faticoso consiglia di fermarsi nel frutectum del suo commentario invece di entrare nel nemus sulpiciano. Martino, ricoperto un povero infreddolito con la sua tunica, celebra la messa, durante la quale un globo di fuoco appare sulla sua testa (Sulp. dial. II 1-2,1-2): mentre nella parafrasi dell'episodio Paolino (4, 21-95) impiega settantacinque versi – marcati da una serie di interrogazioni retoriche – e conclude con l'esortazione a Martino a proseguire nelle sue azioni miracolose, Fortunato (3, 24-73) impiega cinquanta versi, nei quali si sofferma sul paesaggio stretto nella morsa del ghiaccio e conclude con l'apostrofe al diues pauper. La guarigione di Evanzio e dello schiavo morso da un serpente (Sulp. dial. II 2, 3-7) è riscritta in un numero quasi uguale di versi da Paolino (4, 96-149) e da Fortunato (3, 74 -120), che si mantiene più fedele all'ipotesto specie nella descrizione della piaga e della fuoriuscita del veleno. Il drammatico episodio del pestaggio subito da Martino a opera dei soldati di scorta al carro del fisco e del prodigioso irrigidirsi delle mule che si rifiutano di avanzare (Sulp. dial. II 3) è riscritto da Paolino (4, 150-244) in un numero di versi quasi triplo rispetto a Fortunato (3, 121-52), che dipende in qualche punto dal suo predecessore. La dichiarazione di Sulpicio (dial. 2, 4, 1-3) – secondo cui prima dell'episcopato la uirtus di Martino era superiore – è omessa sia da Paolino (4, 245-53), che a questo punto inserisce un'invocazione a Martino (mea Musa)58 e contrappone due fonti di ispirazione: le acque della fonte Castalia e quelle battesimali del Giordano59, sia da Fortunato. Tale omissione si spiega ovviamente con l'intento dei due agiografi di non attentare alla reputazione del vescovo. Martino evangelizza una folla di pagani e risuscita un bambino presso Chartres (Sulp. dial. II 4, 4-9): la riscrittura di Paolino (4, 254-91), che assume nel finale una coloritura 188

ecclesiologica, è per estensione inferiore a quella di Fortunato (3, 153- 208), che amplifica l'ipotesto con l'aggiunta dell'interessante metafora di Martino, agricola spiritalis. L'episodio dell'incontro di Martino con l'imperatore Valentiniano (Sulp. dial. II 5, 5-10) è parafrasato in cinquantatré versi da Paolino (4, 292- 344) e in trentotto versi da Fortunato (3, 209-46). L'episodio di Martino alla corte di Massimo (Sulp. dial. II 6-7) è riscritto da Paolino (4, 345-418) in un numero di versi più che triplo rispetto a Fortunato (3, 247-268): entrambi i parafrasti sfumano la connotazione biblica – presente nell'ipotesto – della moglie di Massimo, che ricorda la sposa di Salomone e serve Martino come Marta e lo ascolta come Maria. Degne di nota in Paolino sono le apostrofi all'imperatrice e a Martino, nonché la considerazione sull'uguaglianza di uomini e donne dinanzi alla grazia. Omessa la polemica di Sulpicio con alcune donne (dial. II 8, 1-5), Paolino (4, 419-52) e Fortunato (3, 269-78) riscrivono l'episodio delle vergini che venerano la paglia del letto di Martino (Sulp. dial. II 8, 6-8). All'episodio del filo di paglia, che libera un posseduto (Sulp. dial. II 8, 9) Paolino dedica dodici versi (4, 453-64) e Fortunato diciassette (3, 279-95) con un'ingegnosa comparazione tra un filo di paglia e una punta di ferro. All'episodio della liberazione di una giovenca posseduta dal diavolo (Sulp. dial. II 9, 1-4) Paolino dedica ventitré versi, ivi compresa l'apostrofe al demonio (4, 465-87) e Fortunato ventotto (3, 296-323). Il breve paragrafo sulpiciano (dial. II 9, 5) – relativo a Martino che si salva da un incendio – è parafrasato da Fortunato in due soli esametri (3, 324-25), mentre è tralasciato da Paolino, che inserisce qui otto versi nei quali fa professione di modestia e chiede l'ispirazione poetica a Martino (4, 488-96). Paolino (4, 497-519) parafrasa in ventitré versi il paragrafo sulpiciano relativo al salvataggio di un leprotto inseguito dai cani (dial. II 9, 6), utilizzando il vocabolario dell'epica e facendo ricorso alle interrogationes retoriche, e sviluppa l'episodio, concentrando l'attenzione soprattutto sui molossi intenti alla battuta di caccia. Fortunato (3, 326-367), viceversa, in un'amplificatio poetica – in questo caso di maggiori dimensioni (42 versi) –, costruita con le migliori risorse retoriche (enumerazioni, parallelismi, comparazioni e immagini ardite60), ricrea la scena dal punto di vista del leprotto. La narratio poetica si conclude con una sententia 189

monostica (v. 362 Hic fugit, ille redit, nullus perit, ecce salutem), che esprime il compiacimento di Fortunato per il mancato spargimento di sangue, e con una conclusione sulla bontà del Santo, che, in mancanza di uomini, ha fatto provare a una bestiola gli effetti del suo potere miracoloso. Sulpicio (dial. II 10) con l'intenzione apologetica di mostrare che il biografato era capace di battute di spirito, ricorda familiaria illius uerba spiritualiter salsa: la pecora tosata suggerisce l'immagine del povero che si riveste della tunica toltale; un porcaro nudo e infreddolito rappresenta Adamo; i tre aspetti del prato (brucato dalle pecore, saccheggiato dai porci, fiorito) simboleggiano il matrimonio, la fornicazione e la verginità. Il testo sulpiciano è riscritto in settantaquattro esametri da Paolino di Périgueux (4, 520-93), che sviluppa un'ampia ekphrasis del prato fiorito, e in venti esametri da Fortunato (3, 368-387), che lo segue con una maggiore fedeltà. Martino convince un soldato, che ha abbracciato la vita monastica, a vivere separato dalla moglie (Sulp. dial. II 11): Paolino (4, 594-639) dedica all'episodio quasi un triplo dei versi dedicati da Fortunato (3, 388-404). L'episodio della vergine consacrata, che, avendo fatto voto di non vedere mai più uomo in vita sua, si rifiutò di ricevere Martino (Sulp. dial. 2, 12, 1-10), è efficacemente parafrasato da Paolino (4, 640-63) ed è omesso da Fortunato, che, dopo essersi giustificato con l'impossibilità di raccontare tutto (3, 405-408), sviluppa in sei versi (3, 409-14) l'accenno agli angeli in visita a Martino, contenuto nel successivo § 12. Fortunato, mutando l'ordine del racconto sulpiciano, parafrasa, prima, dial. II 13, 8 ( un angelo informa Martino delle decisioni assunte nel Sinodo di Nîmes, al quale s'è rifiutato di partecipare) (3, 415-429), e, dopo, l'episodio (anch'esso omesso da Paolino) delle visioni di Agnese, Tecla, Maria e degli apostoli Pietro e Paolo (dial. II 13, 1-7). Il poeta italiano amplifica l'ipotesto con l'impiego dell'ekphrasis delle pietre preziose e delle nazioni, la cui enumerazione dà l'impressione della loro inesauribilità (3, 430-508). Omessa la sezione relativa all'Anticristo (dial. II 14, 1-4), Paolino (4, 664-73) termina il quarto libro con l'elogio dell'umiltà di Martino e Fortunato conclude il terzo libro con la gloria di Martino nel regno di Dio e, con la richiesta di ottenergli dal Signore l’indulgenza per i suoi peccati (3, 509-528).

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5.4. La metafora della navigazione ritorna, variata, nel proemio del IV libro insieme con il tema bucolico del pastore sdraiato sull'erba: il poeta affaticato si riposa in un rus amoeniferum (4, 4) tra gigli rose e viole61. Esortato da Gallo, riprende, quindi, la navigazione, già per tre quarti compiuta (v. 13 Fluctibus in trifidis tribus ii nauta libellis) sotto la guida della storia di Martino. A questa metafora segue la professione di modestia: Fortunato è un cesellatore maldestro, ma l'argomento del canto è una collana bella in sé, anche senza le bellezze dell'arte (vv. 1-27). Anche il corrispondente quinto libro di Paolino si apre con un proemio (5, 1-17), nel quale la professione di modestia si esprime attraverso le immagini della lingua impacciata e balbettante, che introducono alla guarigione della giovane muta operata da Martino. Il topos della modestia affettata assolve qui la funzione di sottolineatura della continuità tematica tra l'episodio raccontato e l'espressione dell'umiltà: due muti, il poeta e la giovane, attendono il soccorso di Martino. L'episodio della guarigione della dodicenne di Chartres muta dalla nascita (dial. III 2, 3-8) è parafrasato da Paolino (5, 18-100) in un numero di versi più che triplo rispetto a Fortunato (4, 28-51). L'accenno sulpiciano all'esitazione di Martino, che si sente impari al compito di guarire la fanciulla (§ 4 imparem se esse tantae moli), è sviluppato da Paolino con una serie di considerazioni sulla scrupolosa modestia del vescovo, sulla cui bocca viene posto un discorso rivolto all'implorante padre della fanciulla (vv. 48-59). Questo accenno è cancellato da Venanzio, che mostra il vescovo pronto a offrire l'aiuto del suo amore e della sua carità (v. 31 nec differt Martinus opem pietatis amicam). Al racconto dei due miracoli relativi all'olio benedetto da Martino (l'olio della moglie di Avitiano, che, pur traboccando dal vaso, non cade, e il vaso visto da Sulpicio cadere a terra, senza rompersi (Sulp. dial. III 3,1-6), Paolino (5,101-240) dedica una parafrasi che è quattro volte più ampia di quella di Fortunato (4, 52-86). In particolare, la parafrasi si apre con un'aggiunta sull'abitudine dei fedeli di conservare l'olio benedetto nei luoghi santi (5, 101-45) e si chiude con l'elogio di Sulpicio (vv. 195-213), al quale deve la materia del suo canto. Nella prima aggiunta il parafraste aquitano, inserendo Tours in una geografia del miracolo, compara Tours ai luoghi santi della Palestina. Al confronto la parafrasi di Fortunato si caratterizza per essenzialità e aderenza al modello. I due parafrasti ricreano – in un numero quasi uguale di 191

versi – la scena del cane che al sentire il nome di Martino smette di importunare con i suoi latrati i protagonisti dei dialoghi (Sulp. dial. III 3, 7-8). Paolino (5, 241-52) presenta un uomo, che, aggredito da un cane inferocito (diri molossi), lo ammansisce pronunciando il nome di Martino; Fortunato (4, 87-97) – più fedele al dettato sulpiciano – parla di discepoli di Martino importunati durante un viaggio dai latrati di un cane (anche qui molossus), che da uno di questi viene messo a tacere nel nome di Martino. Le riscritture metriche di Paolino di Périgueux (5, 253397) e Fortunato (4, 98-157) dell'episodio di Martino, che dissuade il conte Avitiano dal torturare i prigionieri e lo induce a fuggire (dial. III 4) sono state da me comparativamente analizzate in un ampio contributo, al quale mi permetto di rimandare il lettore.62 Omessa da entrambi i parafrasti la condanna sulpiciana dell'incredulità (dial. III 5), l'episodio di Martino che esorcizza gli indemoniati, che interrogati dicono di chiamarsi Giove o Mercurio (dial. III 6), è parafrasato da Paolino (5, 398-432) in un numero di versi più che doppio rispetto a quello di Fortunato (4, 158-172), che si tiene all'essenziale, conservando con una variazione i nomi con cui si presentano gli indemoniati (Iouem stolidum e Anubem63), e conclude con una sententia monostica, nella quale Martino è chiamato con un efficace ossimoro tortor pius. All'episodio della liberazione della campagna dei Senoni dal flagello della grandine (dial. III 7) Paolino dedica un numero doppio di versi (5, 433-79) rispetto a Fortunato (4, 173-194); il confronto, in particolare, delle ekphraseis dei danni prodotti dalla grandine (quella di Paolino, che si distende per ben ventitré versi ed è impreziosita da reminiscenze virgiliane, e quella più sobria di Fortunato contenuta in sette versi) mostra la differenza tra la scrittura barocca del poeta aquitano e l'essenzialità del poeta italiano. Martino scaccia con un'insufflazione un diavolo che era seduto alle spalle di Avitiano (post tergum ipsius daemonem mirae magnitudinis adsidentem [… ] qui ceruici tuae taeter incumbit (dial. III 8, 1-3). Dopo una parentesi di otto versi (5, 480-87), nei quali pur timoroso di proseguire nell'ambizioso compito il poeta aquitano dichiara l'intenzione di continuare per rispetto dei lettori e degli ascoltatori, che non avrebbero capito il suo improvviso silenzio, riscrive l'episodio (5, 488527), amplificandone i vari dettagli, dalla presentazione dell'orribile e insanguinato diavolo che preme con il suo peso sul malcapitato (uidet horrentis tetrique cruentam / daemo192

nis insani speciem ceruice reclinis, /innexam toto pronam decumbere nisu) (504-06); allo sviluppo attraverso due discorsi diretti del botta e risposta tra il conte e il vescovo e al recupero, infine, da parte del giudice, liberato del suo giudice (sine iudice iudex), di più miti sentimenti. Nella scia della parafrasi paoliniana si pone Fortunato (4, 195-209), che rispetto al predecessore impiega circa un terzo di versi per presentare il diavolo inequivocabilmente accampato sul collo del conte (vd. a es. 4, 206-207 et ceruice sedens inuasa sedilia liquit./ Libertate noua surgunt colla Auitiani). Anche nella riscrittura dell'episodio della distruzione ad Ambois di una torre pagana mediante una tromba d'aria propiziata dalle preghiere di Martino (dial. 3, 8, 4-7) Fortunato (4, 210-232) si pone nel scia del predecessore (entrambi concludono la pericope con l'elogio di Martino). Il poeta italiano impiega meno della metà dei versi impiegati da Paolino (5, 528-81), che amplia a dismisura l'ekphrasis della torre e della tromba d'aria, nonché i mezzi soprannaturali dispiegati dal Santo. Grazie alle preghiere di Martino una colonna, cadendo dal cielo, rovina sulla statua di un idolo posto sulla cima di una colonna, che va in frantumi (Sulp. dial. III 9, 1-2). Paolino nella parafrasi dell'episodio (5, 582-607) trasforma la colonna caduta dal cielo in una colonna di fuoco, che avvolge con la fiamma sulfurea la colonna pagana e la riduce in polvere. Tale trasformazione obbedisce all'intento – peraltro dichiarato – di legare in un dittico le due miracolose distruzioni: la prima operata mediante l'acqua e la seconda mediante il fuoco. Fortunato nella sua più breve parafrasi (4, 233-50), tornando a Sulpicio, parla della colonna che, scendendo dal cielo e attraversando dolcemente le nubi, si abbatte sulla colonna pagana, mandando in frantumi colonna e statua: la falsa divinità subisce la collera della vera divinità. La pericope termina con un'interessante riflessione sul vantaggioso riuso delle rovine dei templi pagani nell'edificazione delle Chiese cristiane.64 L'accenno alla guarigione di una donna emorroissa che tocca la veste di Martino, a immagine della donna evangelica (Sulp. dial. III 9, 3), è brevemente trattato da Paolino (5, 608-15), che riprende il riferimento evangelico e spiega che si tocca Cristo, quando si toccano le membra di un santo, ed è, invece, più ampiamente trattato da Fortunato (4, 25171), che tronca con la concisione pudica dei predecessori e sviluppa in modo manieristico il tema del flusso del sangue, ricorrendo all'ardita metafora del naufragio e del diluvio. 193

Martino intima a un serpente, che nuotava nella sua direzione, di tornare indietro (Sulp. dial. III 9, 4). Paolino (5, 61636) dedica alla retractatio dell'episodio ventuno versi – di cui la metà all'ekphrasis del serpente – e aggiunge altri quattordici versi, nei quali applica a se stesso la storia del serpente e chiede a Martino di guidarlo al bene. Più stringata è la retractatio di Venanzio (4, 272-283), che si muove nella scia del predecessore. Sarebbe interessante esaminare la presenza di Verg. Aen. 3, 203-11 in Paolino65 e in Fortunato. All'episodio della pesca miracolosa per il pasto pasquale di Martino (Sulp. dial. III 10, 1-5) Paolino dedica un'ampia parafrasi (5, 651-94), che collega il miracolo operato da Martino con quello evangelico narrato da Luca (5, 2- 11)66; più stringata è la riscrittura di Fortunato (4, 284-304), che conclude con un paradosso: il pesce, che con una perifrasi preziosistica è chiamato praeda natatilis, alla vita preferisce la morte per fornire il pasto pasquale a Martino. Arborio vede le dita di Martino ricoperte di pietre preziose, mentre consacra l’Eucaristia, e sente il loro tintinnio (Sulp. dial. III 10, 6): Paolino (5, 695-708) impiega la metà dei versi di Fortunato (4, 305-330), che amplifica il motivo dei gioielli e costruisce con una serie di interrogationes un elogio retorico di Martino: la pericope si conclude con una sententia monostica (v. 330 Est, homo, quod stupeas ubi nectit gratia telas) sul legittimo stupore dell'uomo dinanzi alle creazioni della grazia. In tre lunghi capitoli (dial. III 11-13) Sulpicio racconta la posizione di Martino a Treviri sull'eresia dei Priscillianisti e sugli eccessi della persecuzione; riferisce l'apparizione dell'angelo venuto a consolare Martino e a consigliargli di comunicare con Itacio, il responsabile della morte di Priscilliano, nell'interesse della Chiesa di Spagna; e accenna, infine, al venir meno della sua uirtus. Nella sua sbrigativa parafrasi (5, 709-31) Paolino – interessato alle questioni politiche più che a quelle teologiche e dommatiche – omette il ruolo svolto dal vescovo nell'affaire priscillianista, probabilmente in linea con le direttive di Perpetuo di tralasciare gli avvenimenti che avevano messo Martino in una posizione delicata, e concentra l'attenzione sull'apparizione dell'angelo a Martino, a cui aggiunge una sofisticata comparazione tra l'annunzio di Gabriele a Zaccaria e l'esortazione dell'angelo a Martino. Al primo toccò in sorte un figlio e al secondo la grazia, che risplende con un accrescimento di luce e di potenza (clarius adiecta uirtutum luce coruscans) (v. 731). Fortunato (4, 331-86), dopo aver giustificato l'ad194

breuiatio dell'ipotesto sulpiciano che occupa novantatré righi nell'ed. Halm (CSEL 1, 1866)67, non si sottrae al compito di dar conto per sommi capi dell'affaire priscillianista e amplifica il discorso dell'angelo, aggiungendo alle sue esortazioni il motivo topico dell'utilità della sofferenza. Il distico finale (Vlterius synodo neque se permiscuit insons/uirtutisque suae damnis noua lucra parauit) rende fedelmente il senso del § 6 di Sulpicio (Nullam synodum adiit […] imminutam ad tempus gratiam multiplicata mercede reparauit). L'accenno all'energumeno guarito da Martino prima di varcare la soglia del monastero (dial. III 14, 1) è sbrigativamente parafrasato da Paolino (5, 732-35), che si limita a parlare in generale degli ossessi guariti dal vescovo ed è, invece, sviluppato da Fortunato (4, 387-401), che indugia in una serie variata di antitesi tra l'hostis e il uir Dei. L'invocazione da parte di un mercante egizio, non ancora cristiano, del Dio di Martino placa una tempesta (dial. III 14, 1-2): Paolino (5, 736-86) amplifica poeticamente il motivo della tempesta, avvalendosi del riuso di citazioni virgiliane, ovidiane e giovenchiane; Fortunato (4, 402- 25) riscrive il modello con una certa fedeltà (cf. 415 Aegyptius unus ~ Aegyptius negotiator; 417 Martini deus, eripe nos ~ Deus Martini, eripe nos), senza rinunciare al riuso di Virgilio e di Lucano. Martino, pregando e digiunando per sette giorni e sette notti, libera dalla peste (lues) la casa di Liconzio, che lo ricompensa con una grossa somma di denaro, che viene impiegata per il riscatto dei prigionieri (Sulp. dial. III 14, 3-6): Paolino (5, 787-856), che non manca di dichiarare la sua inadeguatezza a cantare il prodigio, punta nella riscrittura dell'episodio sull'ekphrasis della lues che decimava la casa di Liconzio, alla quale sono riservati ben ventidue versi. Fortunato (4, 426-88) in una riscrittura un po' più breve limita a soli cinque versi la descrizione della malattia, e lascia ampio spazio a due discorsi diretti: la richiesta di aiuto (cinque versi) e il rendimento di grazie di Liconzio (ventuno versi). Il miracolo è collegato ai miracoli evangelici della resurrezione della figlia di Giairo, capo della Sinagoga di Cafarnao (Mt 9, 18-19; 23-26) e della guarigione del servo di un centurione (Lc 7, 9; Mt 8, 10).68 L'episodio di Martino, che dalla sua cella vede attraverso il muro un monaco svestito davanti a un braciere e ne rimprovera l'impudicizia (Sulp. dial. III 14, 7-9), omesso da Paolino, è riscritto da Fortunato (4, 489-519), che con un cumulo impressionante di interrogationes (se ne contano 195

ben dieci in trentuno versi) sfida docti sophistae, doctiloqui e diserti a spiegare razionalmente il fenomeno della penetrabilità dei corpi reso possibile al vescovo da Cristo. Sulpicio (dial. III 15) riferisce che un giorno Brizio, un novizio educato a Marmoutier da Martino e destinato a succedergli sulla cattedra episcopale, istigato da due demoni, si scagliò contro il vescovo con ingiurie di ogni genere. In particolare, gli rimproverava di essere stato da giovane un soldato e di essere ora un monaco esaltato e un vecchio fanatico. Rientrato in sé il giovane novizio, chiede e ottiene il perdono dal vescovo, che, ricordando l'episodio, soleva dire: Si Christus Iudam passus est, cur ego non patiar Brictionem? Paolino, di sua iniziativa o dietro consiglio di Perpetuo che inseriva Brizio nel calendario dei santi locali, omette la parafrasi di questa pagina, che tramanda le tensioni esistenti tra il veterano, giunto tardi alla Chiesa, e il novizio formato nel monastero e proveniente da un ambiente più elevato, e documenta l'esistenza se non di un vero partito anti-martiniano, certamente di un'opposizione in seno alla comunità di Marmoutier. Nel doveroso rispetto del modello sulpiciano prosegue, invece, la parafrasi di Fortunato (4, 520-571), che, pur seguendo all'inizio il modello, anche nel suo tenore letterale, se ne allontana bruscamente, riducendo l'alterco tra i due a uno scontro tra il vescovo e un giovane sotto l'influenza del demonio. Il medaglione si conclude con l'elogio dell'ex-soldato, divenuto miles Christi, che trionfa con le armi della pace, apre il cuore misericordioso alle parole del supplice, e riammette nella comunità il colpevole pentito. L'immagine del vescovo, che non s'adira contro nessuno e perdona tutti, esclude Martino dal novero degli asceti intransigenti. Paolino termina la parafrasi del terzo dialogo sulpiciano con un breve elogio di Martino, nel quale, accennando ai pellegrinaggi presso la sua tomba, stabilisce una linea tra i miracoli operati da vivo e la fede vissuta e praticata dai contemporanei (5, 857-70) e avanza la richiesta di gloria letteraria (871-73 Quam precor ut miseri manifeste in corde poetae / semper adesse uelis, ut, cum meditatio carmen / finierit, teneat transcripta oratio laudem). Fortunato eleva, invece, l'ultimo panegirico a Martino, presentato come il rappresentante delle virtù proprie di un vescovo modello (4, 572593); chiede al Santo di intercedere per la sua salvezza (4, 594-620) e, dopo aver fatto professione di modestia (il suo libro è come una veste mal tessuta che non conviene al Santo)69 rivolge un propempticon ad libellum, che ricorda 196

l'ultima epistola del libro I di Orazio, l'elegia proemiale dei Tristia di Ovidio, e, soprattutto, l'ultimo dei carmi di Sidonio Apollinare.70 Il libretto, partendo da Tours dove si trova la tomba di Martino, che sarà generoso con quella che è una sua creatura,71 si rechi in Italia, a Ravenna, rifacendo a ritroso l'itinerario da lui stesso percorso anni prima nel viaggio alla volta della Gallia72, e inviti i suoi antichi sodales ravennati a far conoscere attraverso componimenti in greco le gesta del Santo in Oriente (4, 621- 712). Il poema si chiude, come si era aperto, nel nome di Cristo (1, 1 Altithronus postquam repedauit ad aethera Christus73 e 4, 712 Et quo Christus habet nomen, Martinus honorem)74.

6. Saggio di analisi intertestuale (Sulp. Seu. Vita 21, 4 ~ Paul. Petr. 3, 187- 200~ e Ven. Fort. 2, 157-60). A mo' d'esempio vi propongo l'analisi della riscrittura metrica, operata dai nostri due parafrasti, di Sulp. Vita 21, 4 (il carrettiere, trovato in fin di vita, rivela di essere stato incornato da un bue), tratta dal mio contributo del 1999: Ita haud longe a monasterio iam paene exanimis inuenitur. Extremum tamen spiritum trahens, indicat fratribus causam mortis et uulneris: iunctis scilicet bubus dum dissoluta artius lora constringit, bouem sibi excusso capite inter inguina cornu adegisse. Nec multo post uitam reddidit.Videris quo iudicio Domini diabolo data fuerit haec potestas.75

Il commosso racconto «d'une belle histoire tragique»76, legata a un incidente che doveva essere piuttosto diffuso nei paesi in cui quest'animale era adibito al tiro77, termina con una notazione stranamente pessimistica sul potere dato da Dio al diavolo. La frase, improntata all'Apocalisse (6, 8 nomen illi Mors […] et data est illi potestas; cf. anche 9, 3; 13, 5 e 7) e volutamente trascurata dai parafrasti, allude ai poteri eccezionali sul mondo conferiti da Dio a Satana per una durata limitata. L'ingiusta morte del carrettiere – contro la quale nulla ha potuto il santo – trova la sua spiegazione (e giustificazione) nelle convinzioni millenariste dell'agiografo. Questo paragrafo è profondamente rielaborato da Paolino con addizioni originali e sviluppi poetici, che non trascurano nessun dettaglio dell'ipotesto sulpiciano: Nec mora quin praesens iam coniectura probetur. Seminecem egressi non longe a limine cernunt extrema efflantem miserum spiramina uitae.

197

190 Ille tamen leto languentia lumina soluens uix singultantis praeciso murmure linguae adtraxit tenuem glaciali a pectore uocem, uulneris exponens causas. Nam forte iuuencus, dum resoluta artis stringuntur uincula loris, 195 liberior ceruice uaga dominoque rebellis mollia tartareo transfoderat inguina cornu. Quae postquam exposuit pressoque ommutuit ore, tum fessum leto posuit caput, oraque et artus perfudit croceus glaciali corpore pallor. 200 Hoc fine interiit78

La parafrasi di questo brano – nel quale l'accorto impiego dell'amplificatio per congeriem79 è certamente finalizzato alla pubblica declamazione del poema – è meritevole di un'attenta analisi. La sintetica informazione di Sulpicio circa il ritrovamento del quasi esanime carrettiere non lontano dal monastero è parafrasata attraverso la ripresa quasi letterale nel v. 188 (dove metri causa il sostantivo limine sostituisce monasterio; cernunt sostituisce il passivo inuenitur e iam paene exanimis è sostituito con seminecem, un sostantivo che occorre nei poeti classici nella stessa sede metrica80). Il particolare del carrettiere che, esalando l'ultimo respiro, rivela ai monaci la causa della ferita (Extremum tamen spiritum trahens rimanda a Phaedr. 1, 21, 4 Leo quum iaceret spiritum extremum trahens) è poeticamente sviluppato nei vv. 189-93, nei quali è dato scorgere un interessante intertesto virgiliano. L'immagine del moribondo che scioglie nella morte gli occhi illanguiditi (v. 190 Ille tamen leto languentia lumina soluens) è ricreata su Verg. Aen. 10, 418 ut senior leto canentia lumina soluit: languentia ha tutta l'aria di essere una glossa di canentia (biancheggianti nell’agonia), termine di non immediata comprensione, così spiegato da Seru. ad Aen. 10, 418 Dicuntur enim pupillae mortis tempore albescere. Quanto alla sobria descrizione sulpiciana della scena della fatale incornata al carrettiere, Paolino riusa, adattandoli al contesto, i singoli termini della frase dissoluta artius lora constringit; esprime la sensazione di libertà dell'animale, parafrasando excusso capite con l'emistichio liberior ceruice uaga e con l'additio di dominoque rebellis che sottolinea l'insofferenza dell'animale aggiogato; qualifica inguina con mollia e cornu con tartareo, che allude al diavolo, l'ispiratore dell'incornata. Il poeta non rinuncia, quindi, al piacere di indugiare nella descrizione della morte del carrettiere, che, rivelate le cause della sciagura, ammutolì con le labbra serrate (v. 197 pressoque obmutuit ore) come la Sibilla (Verg. Aen. 6, 155) e 198

reclinò il capo spossato dalla morte (v. 198 tum fessum leto posuit caput), come Camilla (Verg. Aen. 11, 830 et captum leto posuit caput), mentre un pallore giallastro tinse il volto e le membra sul corpo irrigidito81. I vv. 198 ss. oraque et artus / perfudit croceus glaciali corpore pallor sono efficacemente modulati su Verg. Aen. 7, 458 s. ossaque et artus / perfudit toto proruptus corpore sudor: al sudore che bagna Turno, svegliato dalle minacciose parole di Alletto, il poeta aquitano accosta il pallore che bagna il corpo senza vita del carrettiere. La presenza virgiliana conferisce a questa pagina una patina epica, che non doveva certo dispiacere agli ascoltatori (e lettori) del poema agiografico. Rispetto all'efficace retractatio paoliniana che si distende in quattordici esametri, Fortunato versifica in soli quattro versi l'ipotesto sulpiciano, selezionando i dati essenziali di una narratio che considera nota al lettore: Semianimem inueniunt missi, suprema gementem, indicat atque necem, dum adhuc super halitus errat, quod sua laxato taurus foret inguina cornu explicitaque fide uitam cum uoce reliquit82.

Anche la breve parafrasi venanziana è tramata da intertesti virgiliani, che, privi come sono di particolari valori connotativi, operano al livello superficiale o discorsuale del brano: l'attacco del v. 157 semianimem rimanda a Verg. Aen. 4, 687 (stessa sede metrica) e la clausola suprema gementem a Verg. Aen. 11, 865 extrema gementem; il secondo emistichio del v. 158 dum adhuc super halitus errat è modellato su Verg. Aen. 4, 684 extremus si quis super halitus errat83; nel secondo emistichio del v. 160 uitam cum uoce reliquit il parafraste rovescia sintatticamente il secondo emistichio di Verg. Aen. 6, 735 cum lumine uita reliquit.

7. Conclusione

Lo sviluppo della parafrasi agiografica martiniana è strettamente legato all'evoluzione del contesto storico in Gallia tra il IV e il VI secolo e all'emergere di un nuovo spirito religioso, che fa del santo un protettore dotato di una potestas non più soltanto spirituale, ma anche temporale. Il contesto storico-religioso spiega la differenza tra la narratio sulpiciana e la riscrittura dei due parafrasti, che sono portatori di una diversa ideologia politica, riflettono una diversa spiritualità e obbediscono a diversi disegni poetici. 199

Il racconto di Sulpicio agevolava lo slittamento verso l'epopea di cui forniva gli elementi essenziali: una materia «storica», o considerata tale, e già entrata nella leggenda; fatti sufficientemente lontani per avvicinarsi al mito e sufficientemente attuali per essere popolari; un eroe dal destino eccezionale, successore degli Apostoli; i mirabilia; gli interventi di Dio, degli angeli, di Satana. Di qui prendendo l’abbrivo, i due parafrasti – la cui opera si pone comunque come il prolungamento del modello e contribuisce non meno di esso a diffondere la conoscenza dei mirabilia del santo e a edificare il pubblico dei fedeli – seguono rotte diverse e giungono a porti diversi. Di Martino Sulpicio aveva privilegiato il taumaturgo e l'uomo d'azione invece del vescovo e del predicatore. Paolino mette in rilievo la fragile umanità di Martino, attribuendogli una psicologia umana e ristabilendo il contesto terreno della sua esistenza. Interessato alle questioni politiche più che a quelle teologiche e dommatiche, il poeta aquitano fa di Martino il modello del vescovo-patronus, difensore dei deboli e degli oppressi, la cui uirtus è viva e operante tra i contemporanei. Paolino vuol contribuire allo sviluppo del culto martiniano a Tours, nella cui pratica gioca un ruolo significativo, e ha nel contempo di mira il conseguimento dell'alloro poetico. La sua opera si presenta come una vera e propria epopea agiografica, alla cui costruzione concorrono in pari misura la Scrittura, l'innodia martiriale e l'epos virgiliano. Elabora l'ipotesto sulpiciano con notevole enfasi e l'arricchisce con frequenti digressioni morali e descrizioni minute, originate dai più insignificanti dettagli. Rivolgendosi ai fedeli, che vuole edificare, e ai lettori pigri, ai quali vuole offrire la testimonianza dello storico, attualizza – in virtù di uno slancio spirituale nuovo e grazie all'aggiunta di un sesto canto dedicato ai miracoli compiuti alla sua epoca – la narratio sulpiciana. Il che non significa che tutti gli scarti dall'ipotesto sulpiciano si debbano spiegare con eventuali indicazioni di Perpetuo. Fortunato si sofferma, invece, sulle qualità carismatiche di bontà e d'indulgenza di Martino, preferendo quella carità sociale, che egli loda spesso negli epitafi dei vescovi. A differenza del predecessore, che dedica un intero libro alla carriera pre-episcopale del santo, Fortunato più che ai dettagli della sua precedente vita come soldato, laico e monaco è interessato a sottolineare il ruolo di vescovo. Minimizzando o ignorando l'opposizione episcopale a Martino, ne sottolinea il potere di guarigione e lo trasforma 200

in un doctor che dispensa la medicina con la parola. Martino, insomma, non è più il monaco contestato dal clero, ma è il mediatore celeste, che i vescovi del suo tempo debbono imitare. A differenza del predecessore, il poeta italiano ha di mira un'opera poetica, che si affianchi, senza sostituirla, alla narratio sulpiciana, che egli suppone nota al lettore e da cui seleziona gli episodi, che – in linea con il gusto estetico della tarda antichità – pone senza preoccupazioni cronologiche o formule di transizione, l'uno accanto all'altro, proprio come prima di lui avevano fatto Sedulio con il Paschale Carmen e Aratore con l'Historia Apostolica, o come egli stesso farà nelle Vitae in prosa84. Il che spiega l'essenzialità della parafrasi: ciascun combattimento spirituale di Martino, miles Christi, rappresenta una variante della lotta generale del bene contro le forze del male, rappresentate dal potere, dall'eresia, dai pagani, dalla morte o dalla malattia. I gesta di Martino si stagliano nitidi nell'eroico verso virgiliano senza l'ammanto talora soffocante delle amplificazioni retoriche e senza l'estenuante ‘preziosismo’ di certe descrizioni sidoniane. Il poema di Fortunato – che con Gregorio ha contribuito a fare di Martino il patrono della dinastia merovingia –, pur essendo legato al contesto della città di Tours, non è una versione attualizzata dell'opera sulpiciana. In esso il poeta italiano esprime una devozione personale per Martino e, partecipando anche della celebrazione ufficiale del santo, ne tesse il panegirico. La rassegna del contenuto dei due poemi e l'analisi comparativa – effettuata nei miei due saggi ricordati, di cui ho qui riprodotto solo un modesto specimen – tra i due parafrasti, così diversi tra loro per epoca storica, ambiente e formazione culturale (l’uno vescovo di una piccola città dell’Aquitania e l’altro chierico di vocazione tardiva ancora legato alla composizione di versi leggeri) consente di far giustizia di una consolidata tradizione critica risalente all'Ebert, che alla presunta semplicità di Paolino contrappone a torto una fastidiosa pretensiosità di Venanzio85. In quest'ottica importa notare non tanto come la parafrasi di Paolino abbia paradossalmente un carattere già medievale e Fortunato si presenti, invece, ancora come uomo dell'antichità86, quanto piuttosto come le operazioni parafrastiche di Paolino e di Fortunato attingano entrambe validità e originalità dalla diversa reazione alle attese dei committenti e, di conseguenza, dal diverso contributo che i due poeti hanno recato alla costruzione e allo sviluppo dell'agiografia martiniana. 201

Non è inopportuno riassumere qui le differenze sopra rimarcate tra i due poeti, in ordine sia alla concezione che alla pratica della parafrasi; tali differenze si spiegano con il diverso atteggiamento poetico e spirituale con cui essi accostano l'ipotesto sulpiciano, piuttosto che con l'esistenza di dossiers diversi su cui i due avrebbero lavorato.87 Premesso che Paolino e Fortunato non aggiungono al testo sulpiciano episodi nuovi, ma solo nuovi elementi, che arricchiscono il poema agiografico con i motivi propri del panegirico e della preghiera, possiamo tranquillamente affermare che le loro parafrasi obbediscono agli opposti principi retorici dell'amplificatio e dell'adbreuiatio. Il principio dell'amplificatio è costantemente seguito da Paolino, che sviluppa in 3116 esametri i due testi sulpiciani ( ai miracoli postumi raccolti da Perpetuo sono dedicati i 506 esametri del VI libro). Il poeta aquitano amplifica 66 episodi su 70, dando risalto agli avvenimenti che hanno un significato politico; abbrevia – come s'è visto – il solo episodio della persecuzione dei Priscillianisti. Dell'amplificatio egli si serve per dare un'unità spirituale agli episodi della vita di Martino, per insistere sul loro senso morale e spirituale e inserire gli avvenimenti del passato in una storia sacra unificata dalla Grazia. L'utilitas è il principio-guida della sua composizione, cui è subordinata la dulcedo dei versi. Moltiplicando le esclamazioni e le apostrofi rare nel modello, il poeta aquitano fa risuonare come un catecheta le gesta di Martino. Spiegando il testo originale secondo il metodo dei grammatici antichi e dei commentatori della Scrittura e aggiungendo epiteti e perifrasi, ekphraseis o sententiae, che accentuano il carattere edificante della narratio, egli dà un'interpretazione lirica di un racconto essenzialmente drammatico. Il poema paoliniano è il risultato di un esercizio spirituale, nel corso del quale l'autore medita ciascun dettaglio di una scena, sottolineando le analogie tra la vita di Martino e quella di Cristo. La quasi generale omissione di nomi propri mira a conferire un valore generale a fatti particolari e attenua la distanza tra il lettore e il contesto storico, nel quale si è svolta la vita di Martino, dalle cui gesta egli ricava insegnamenti morali e spirituali. La scrittura del poema, che conserva gli accenti della predicazione, è caratterizzata dalla copia uerborum, che ha la funzione di dispiegare sotto gli occhi del lettore la totalità di senso di un'opera, che celebra la uirtus sempre attiva di Martino. Il principio dell'adbreuiatio è, invece, privilegiato da Fortunato, che abbraccia la materia in 2243 esametri, non 202

mancando talora di affermare che la sua parafrasi ha fretta di giungere alla conclusione.88 Egli sviluppa 46 episodi su 70, omettendo la riscrittura di episodi difficilmente collocabili in un panegirico. Fortunato riduce all'essenziale il nucleo narrativo dell'ipotesto e accelera il ritmo della narratio, sopprimendone i dettagli secondari e astenendosi da considerazioni edificanti o patetiche. Il poeta italiano, che ricerca le raffinatezze dell'ekphrasis e dell'enumeratio, privilegia – come s'è visto – le sententiae (in genere monostiche), che concludono i singoli autonomi episodi della narratio, condensandone il significato ed esprimendolo con maggior energia, allo scopo di colpire e persuadere il lettore anche attraverso l'impiego di antitesi e paradossi. Nelle sententiae di conclusione Fortunato non manca di valorizzare le immagini visive. Nel trattare ciascun episodio come un'unità isolata e nel semplificare il contenuto narrativo fino a ridurre l'azione a un semplice gesto, egli mette in opera un'estetica che richiama – come hanno dimostrato Roberts e Labarre – le arti visive della sua epoca, fa sfoggio di una grande invenzione verbale e impiega una scrittura dal forte spessore metaforico, che si sforza di esprimere l'indicibile e di cogliere l'universale nel particolare.

Note

(1) La labilità dei confini tra parafrasi e commentari è stata più volte rilevata; vd. Quint. inst. 1, 9, 2 et breuiare quaedam et exornare saluo modo poetae sensu; Aug. conf. 1, 17, 27 ed Erasm. Roterod. epist. 1255, 38-39, (edd. P.S. Allen - H.M. Allen, V, Oxford 1924, p. 6 ) Nam et paraphrasis commentarii genus est; Id. epist. 1274, 36-39, (ibid. p. 47) Est enim paraphrasis non translatio, sed liberius quoddam commentarii perpetui genus, non commutatis personis. (2) C. Moreschini (Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, I, Brescia, Morcelliana, 1995, p. 581) ha osservato che la parafrasi tardoantica non si distingue molto dall'adattamento in latino di opere della letteratura pagana. (3) Cf. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. it. di R. Novità, Torino, Einaudi, 1997 (I ed.: Paris 1982), pp. 6-7. (4) Cf. E. R. Curtius, Letteratura Europea e Medio Evo latino, ed. it. a cura di R. Antonelli, Firenze 1992, p. 513: «La storia della salvezza cristiana, così com'è presentata dalla Bibbia, non tollera di essere calata in una forma

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pseudo-antica. In tal caso, infatti, non solo perde la sua impronta così singolare, efficace e piena di autorità, ma viene anche falsata dall'impiego di un genere preso a prestito dalla classicità antica e dalle formule convenzionali, linguistiche o metriche, richieste appunto da tale genere. Il fatto che, ciò nonostante, l'epica biblica abbia potuto godere di tanto favore, si spiega con l'esigenza di una letteratura religiosa che potesse contrapporsi a quella classica; si giunge così ad una soluzione di compromesso». (5) Cf. Ch. Mohrmann, (Études sur le latin des Chrétiens. II. Latin chrétien et médiéval, Roma 1961, pp. 219-20): «Ces paraphrases épiques des récits bibliques sont dépourvues d'inspiration religieuse, et l'on comprend la déception du lecteur moderne devant le traitement infligé à la Bible par la médiocre technique de versificateurs pédants». (6) Cf. Ven. Fort. uita Mart. epist. ad Greg. 2 Cum iusseritis ut opus illud, Christo praestante, intercessionibus domni Martini, quod de suis uirtutibus explicuistis, uersibus debeat digeri, id agite ut mihi ipsum relatum iubeatis transmitti. Nel corso del lavoro citerò il poema venanziano secondo Venance Fortunat, Vie de saint Martin. Texte établi et traduit par Solange Quesnel, Paris, Les Belles Lettres, 1996 e terrò anche presenti le versioni italiane di G. Palermo (Roma, Città Nuova Ed., 1985) e S. Tamburri (Napoli, D'Auria, 1991). (7) Cf. Greg. Tur. Hist. Franc. 10, 31, 18 (ed. M. Oldoni, Fondazione Lorenzo Valla 1981, vol. II, pp. 608-10) Quos libros licet stilo rusticiori conscripserim, tamen coniuro omnes sacerdotes Domini, qui post me humilem ecclesiam Turonicam sunt recturi […] ut numquam libros hos aboleri faciatis aut rescribi, quasi quaedam eligentes et quaedam pratermittentes, sed ita omnia uobiscum integra illibataque permaneant, sicut a uobis relicta sunt […] Sed si tibi in his quiddam placuerit, saluo opere nostro, te scribere uersu non abnuo. (8) Sulp. Seu. Vita 27, 6-7 De cetero, si qui haec infideliter legerit, ipse peccabit […] paratumque, ut spero, habebit a Deo praemium, non quicumque legerit, sed quicumque crediderit e dial. 1, 26, 5 Nam cum dominus ipse testatus sit istiusmodi opera, quae Martinus impleuit, ab omnibus fidelibus esse facienda, qui Martinum non credit ista fecisse, non credit Christum ista dixisse. (9) Sul monaco-vescovo Martino e la biografia sulpiciana si veda la monumentale opera di J. Fontaine in tre volumi pubblicati nelle Sources Chrétiennes: vol. I. Introduction, texte et traduction (SCh 133 [Paris 1967]); vol. II. Commentaire (SCh 134 [Paris 1968]); vol. III. Commentaire (suite) et index (SCh 135 [Paris 1969]). Utile è, altresì, Sulpicio Severo, Vita di Martino, in Vita di Martino, Vita di Ilarione, In memoria di Paola. Introduzione di Ch. Mohrmann, testo critico e commento a cura di A.A. R. Bastiaensen e J.W. Smit, traduzioni di L. Canali e C. Moreschini, Fondazione Lorenzo Valla 1975. Sulla prosa sulpiciana efficace è il giudizio di J. Fontaine (Naissance de la poésie dans l'occident chrétien, Paris 1981, p. 268): «Son sens du récit et du découpage des scènes, son goût du mouvement, ses inflexions pittoresques ou dramatiques, son style à la fois dense et fleuri, sont autant de qualitès d'une prose d'art que l'on pourrait aussi bien appeler une prose poétique». (10) Cf. E.C. Babut, Saint Martin de Tours, Paris s. d. [ma 1912], pp. 73 e 108. Martino è considerato dal suo agiografo come il pendant latino di Antonio, anche se per l'asceta-vescovo il rapporto tra «vita attiva» e «vita contemplativa» è più equilibrato. (11) Cf. Mohrmann, Introduzione, p. XVI. (12) Le gesta e i miracoli di Martino hanno avuto una larga diffusione in Gallia, prima e, poi, in tutta la cristianità. In Italia più di cinquanta comuni portano il suo nome. Moltissime le chiese a lui dedicate, circa 1. 600 nella sola Francia. In Italia, a esempio, portano il suo nome la Chiesa di San Martino ai Monti, fatta edificare a Roma da papa Simmaco (498-514); il duomo di Lucca (VI sec.); l’abbazia di San Martino delle Scale, vicino Palermo, fondata da Gregorio Magno. (13) Cf. Quesnel, Venance Fortunat, p. XXI. (14) Sono valide anche per le parafrasi agiografiche le motivazioni espresse da Sedulio nell'epistola a Macedonio (CSEL 10, 5) Multi sunt quos

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studiorum saecularium disciplina per poeticas magis delicias et carminum uoluptates oblectat. Hi quicquid rhetoricae facundiae perlegunt, neglegentius adsequuntur, quoniam illud haud diligunt: quod autem uersuum uiderint blandimento mellitum, tanta cordis auiditate suscipiunt, ut in alta memoria saepius haec iterando constituant et reponant. Il rapporto di scambio tra parafrasi bibliche e agiografiche non è, naturalmente, a senso unico; per C.P.E. Springer (The Gospels Epic in Late Antiquity, the “Paschale Carmen” of Sedulius, Leiden 1988, passim) Paolino di Périgueux è il più antico imitatore di Sedulio; Sedulio e Giovenco sono imitati anche da Fortunato. (15) Cf. A.H. Chase, The Metrical Lives of St. Martin of Tours by Paulinus and Fortunatus and the Prose Life of Sulpicius Severus, «Harv. St. Class. Phil.» 43 (1932), p. 57. (16) Cf. Quesnel, Venance Fortunat, p. XV. (17) Cf. Greg. Tur. uirt. s. Mart. 1 prol. (MGH RSM 1, 586): Vtinam Seuerus aut Paulinus uiuerent, aut certe Fortunatus adesset, qui ista discriberent! (18) Cf. R. van Dam, Images of Saint Martin in Late Roman and Early Merovingian Gaul, «Viator» 19 (1988), p. 2 . (19) Cf. Greg. Tur. uirt. s. Mart. 1, 2 (MGH RSM 1, 586s.) Paulinus quoque beatus Nolanae urbis episcopus post scriptos uersus de uirtutibus eius, quae Seuerus conplexus est, quinque libros illa conprehendit miracula, quae post eius gesta sunt transitum, id est in sexto operis sui libro; vd., anche, glor. conf. 108 (MGH RSM 1, 818); Guibert De Gembloux, Lettres 14 (ed. Derolez, p. 209): «Precor etiam magnopere quatinus opusculum beati Paulini Nolani episcopi, sex libellis de beatissimo patrono nostro Martino, qui ei oculum lesum reddidit, uersifice editum […] nobis ad transcribendum […] mittere non abnuatis». L'equivoco dura sino al 1589, quando François Juret pubblica il poema parafrastico sotto il nome di Paolino di Nola. L'editore nelle note della seconda edizione dell'epistolario di Simmaco (Paris 1604) riconoscerà di essere stato tratto in errore dalla testimonianza di Gregorio di Tours. (20) Cf. A. Huber, Die poetische Bearbeitung der Vita S. Martini, Kempten 1901, pp. 15-20. (21) Cf. Chase, The Metrical Lives, pp. 55 ss. Su Paolino e la composizione della sua opera si veda S. Labarre, Le manteau partagé. Deux métamorphoses poétiques de la Vie de saint Martin chez Paulin de Périgueux (Ve s.) et Venance Fortunat (VIe s.), Paris, Études Augustiniennes, 1998, pp. 1428. Nel corso del lavoro citerò il poema paoliniano secondo il testo critico stabilito da M. Petschenig in CSEL 16 (1886) e terrò anche presente Oeuvres de Paulin de Périgueux, revus sur plusiers manuscrits et traduits pour la premiere fois en français par E.-F. Corpet, Paris 1849. (22) Cf. Paul. Petr. uita Mart. 4, 1 Finierat sumptum translatio coepta uolumen, /percurrens sancti pura exemplaria libri. M. Roberts (Biblical Epic and Rhetorical Paraphrase in Late Antiquity, Liverpool 1985, p. 83) ritiene che, come in Sedul. epist. ad Maced. (CSEL 10, 172 fidem translationis esse corruptam) translatio ha qui il significato di «paraphrase». Non sfugga, inoltre, che l'impiego dell'agg. sanctus accosta il liber sulpiciano a un libro sacro. Insomma, l'uso del termine rivela che Paolino ha coscienza di compiere lo stesso programma letterario. (23) Cf. Paul. Petr. uita Mart. 5, 872-73 cum meditatio carmen / finierit, teneat transcripta oratio laudem. (24) Sull'intertestualità classica (Lucrezio, Virgilio, Ovidio, Stazio, Claudiano) di Paolino ha recentemente richiamato l'attenzione Th. Gärtner, Zur christlichen Imitationstechnik in der ‘Vita Sancti Martini’ des Paulinus von Petricordia, «Vig. Chr.» 55 (2001), pp. 71-85. Sulla presenza del Mantovano nel poeta aquitano si veda A.V. Nazzaro, Paolino di Périgueux, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, pp. 960-62. (25) Cf. L. Pietri, La ville de Tours du IVe au VIe s siècle: naissance d'une cité chrétienne, Paris 1983, p. 737s. (26) Cf. Paul. Petr. uita Mart. prol. 2 De sancti atque apostolici doctoris et domini meritis atque uirtutibus tam splendidam ad nos misistis historiam, ut rectissime, si ita iussisset uestra benedictio, ad totius orbis notitiam perueniret. Verum his me inhaerere uestigiis et posse aliquid adicere quasi expolitius

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censuistis, cum multo maius sit conperta promere quam prolata transcribere. (27) Un quadro preciso della figura e dell'opera del poeta italiano con una selezionata bibliografia è stato delineato da B. Clausi, Venanzio Fortunato, in Patrologia a cura di A. Di Berardino, IV, Genova, Marietti, 1996, pp. 315-34. Sull'epopea agiografica di Fortunato vd. anche Francine MoraLebrun, L'Enéide médiévale et la Chanson de geste, Paris 1994, pp. 84-94. (28) Cf. Ven. Fort. vita Mart. 1, 40-44 e 4, 686-87. Chase (The Metrical Lives, p. 57) ritiene committente Gregorio; Fontaine (Naissance, p. 270) pensa, invece, ad Agnese e Radegonda. (29) Cf. Ven. Fort. uita Mart. epist. ad Greg. 3 De uita eius uir disertus domnus Sulpicius sub uno libello prosa descripsit et reliquum quod dialogi more subnectit, primum quidem opus a me duobus libellis et dialogus subsequens aliis duobus libellis conplexus est, ita ut breuissime iuxta modulum paupertatis nostrae in quatuor libellis totum illud opus uersu in hoc ter bimenstre spatium, audax magis quam loquax, nec efficax, cursim, inpolite, inter friuulas occupationes sulcarem. Per la datazione del poema l'epistola a Gregorio fornisce come terminus post quem l'accessione del vescovo alla cattedra episcopale di Tours alla morte di Eufronio, avvenuta nel settembre 573, mentre il terminus ante quem si ricava dalla menzione in uita Mart. 4, 636s. di Germano vescovo di Parigi ancora vivente. Essendo Germano morto il 5 aprile 576, la Vita deve essere stata composta tra il 573 e il 576, durante l'estate (al § 1 dell'epistola dice in opere messium, id est in ipsa messe). Il che esclude sia il 576 che il 573, avendo Gregorio preso possesso della carica nel mese di settembre. (30) Cf. A.V. Nazzaro, Intertestualità biblico-patristica e classica in testi poetici di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia. Atti del Convegno Internazionale di Studi Valdobbiadene-Treviso 17-19 maggio 1990, Provincia di Treviso 1993, pp. 99-135. Si veda, anche, la mia voce Venanzio Fortunato, in Enciclopedia Virgiliana, V, Roma 1990, pp. 477-78. (31) Questa metafora è finemente analizzata nelle sue ascendenze classiche e negli sviluppi venanziani da C. Braidotti, Una metafora ripetuta: variazioni sul tema nautico nella “Vita S. Martini” di Venanzio Fortunato, «Giorn. It. Filol.» 45 (1993), pp. 107-19. (32) Ven. Fort. uita Mart. 1, 10-25: «I numerosi prodigi operati durante il soggiorno terreno da Cristo per lo stupore degli uomini, rivelati dai libri dei Vangeli, furono celebrati in ebraico, in greco e in latino, redatti in forma prosaica e in un linguaggio corrente. Il primo, in effetti, che, distinse il testo sacro in linee regolari e utilizzò la tecnica del verso per cantare l'opera della maestà divina fu Giovenco. In seguito brillò la lingua dell'insigne Sedulio, precetti concisi condensò Orienzio in una lingua fiorita e il prudente Prudenzio prudentemente dedicò ai pii martiri in una santa offerta i poemi che raccontano i loro atti. Paolino segnalandosi per la nobiltà di nascita e di cuore, per la fede e il talento, sviluppò in versi l’insegnamento del maestro Martino. Il poeta Aratore solcò con eloquenza abbondante quelli che si chiamano gesta e atti dell'ordine degli Apostoli. Il vescovo Alcimo con egregio acume ordinò ciò che già l'autore della Genesi aveva svolto nel seguito del libro sacro». L’accenno all'ascendenza illustre (stemmate) è la spia dell’errore in cui è incorso anche Venanzio. Nobiltà di nascita, purezza di cuore, fede e capacità artistica sono le doti che garantiscono la riscrittura paoliniana della dottrina del maestro Martino. Tale elogio conviene certamente più al nobile poeta di Bordeaux, anch’egli miracolato da Martino, che all'oscuro poeta di Périgueux. La metafora del testo agiografico (vd. supra, n. 29) o biblico come terra, che è dissodata con i solchi dell'esametro per renderla più fertile, è interessante ai fini della comprensione della parafrasi come fenomeno letterario. (33) Nella presentazione di Giovenco (vv. 14-15) echeggiano le parole di Hier. epist. 70, 5 (CSEL 54, 707-08) Iuuencus presbyter sub Constantino historiam Domini Saluatoris uersibus explicauit nec pertimuit Euangelii maiestatem sub metri leges mittere. (34) Ven. Fort. uita Mart. 1, 36-39: «E certamente tra queste vette di poeti sacri, tra questi fiumi di dottori e questi prati smaglianti di perle di dicitori, io, che non verdeggio di nessun fiore, dovrei tentare di intrecciare una ghir-

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landa e dovrei mescolare questi amari assenzi al miele irriguo?». Con gemmantia prata (v. 37) Fortunato ricrea l'immagine che Sidonio Apollinare impiega per la poesia di Stazio (carm. 9, 229 pingit gemmea prata siluularum). (35) Il 5% dei medaglioni va da 61 a 80 versi; il 13% è al di sotto di 10 versi; il 18% va da 21 a 30 versi; il 23% va da 31 a 60 versi; il 39% va da 10 a 20 versi. (36) Ven. Fort. uita Mart. 1, 45-49: «Sarò dunque degno di trattare con mano tremante o di celebrare con la parola le gesta del beato Martino, originario della Pannonia dove è fiorente l'illustre Sabaria? Egli non ha bisogno delle mie tenebre, perché risplendente di luce, potente faro della Gallia, estende il fulgore fino agli Indi». L'agg. clara e il verbo uernat – così come l'agg. fecunda in Paolino (1, 11) – sottolineano la fecondità spirituale della Pannonia, che ha dato i natali al santo. La metafora del faro contribuisce a sottolineare la dimensione ecumenica della sua influenza. (37) Sull'episodio della divisione del mantello – nel quadro di una più generale analisi comparativa delle due riscritture poetiche – si veda Labarre, Le Manteau partagé, pp. 147-59. Vedi, anche, Gärtner, Zur christlichen Imitationstechnik, pp. 72-74 (sui vv. 79-83). (38) L'immagine dell'alba (vv. 168-69 et iam prima nouo spargebat lampade terras/ orta dies) è il risultato della contaminazione di due immagini virgiliane (Aen. 4, 6 Postera Phoebea lustrabat lampade terras e 7, 148-49 postera cum prima lustrabat lampade terras / orta dies). (39) Errato è il tentativo di traduzione di Mora-Lebrun, L'Enéide médiévale, p. 91, n. 41: «afin que je ne craigne pas le (démon) craintif, ma crainte est le Dieu de ceux qui craignent les armes». (40) Eccessivamente severo è il giudizio di R. van Dam (Images of Saint Martin, p. 9), per il quale le sententiae monostiche che concludono, come in questo caso, le pericopi, «often became clumsy puns». (41) Cf. Paul. Petr. uita Mart. 1, 232-35 O tanto partu felix enixaque natum/per quem nata deo est, unoque et mater et infans/facta puerperio!genetrix generanda beato/ante utero peperit per quem nunc orta lauacro est; si veda il pertinente commento di Labarre, Le manteau partagé, pp. 137-38. (42) Cf. Ven. Fort. uita Mart. 1, 104-07 Interea matrem gentili errore resoluens, / illa istum mundo, hic illam generauit Olympo/ decrepitamque senem sancto facit amne renasci/ et meliore sinu generant sua uiscera matrem; si veda anche per questi il penetrante commento di Labarre, Le manteau partagé, pp. 140-41. (43) Cf. M. Roberts, The Jeweled Style. Poetry and Poetics in Late Antiquity, Ithaca-London 1989, p. 139. (44) Roberts (The Jeweled Style, pp. 139- 42) ritiene che nella parafrasi della resurrezione del catecumeno Fortunato si è direttamente ispirato a quella di Lazzaro di Sedul. Pasch. carm. 4, 271-90. Per lo studioso il contenuto spirituale del miracolo di Sedulio è più evidente, Fortunato utilizza dettagli visivi per intensificare la risposta emotiva al miracolo che descrive Sedulio; questi, insomma, si appella alla mente, Fortunato all'occhio. (45) La citazione di Ps 8, 3 (nella versione della Vetus Latina in uso nella liturgia gallo-romana) consente a Sulpicio e ai due parafrasti un facile gioco di parole su defensor e Defensor, su cui vd. Labarre, Le Manteau partagé, p. 225. (46) Si tratta di una metafora piuttosto complicata, che non viene ripresa, come avviene in Fortunato, negli altri esordi: il nuovo soggetto che egli imprende a trattare è un temibile nouum pelagus; gli atti di Martino monaco costituiscono la riva; le gesta di Martino vescovo sono l'alto mare, nel quale sia pure con paura il poeta si addentra, confortato dal favorevole soffio del Santo. (47) Non sarebbe infruttuoso un confronto tra questi due brani con Paul. Nol. carm. 28, 69-85 e 120-48. Non mi pare inutile segnalare la sorprendente immagine barocca delle fiamme, assimilate a uccelli, che mordono le piume del vento (vv. 289-90). (48) Un esametro costituito da tre membri in parallelismo (490 uir maculis uarius, cute nudus, uulnere tectus) è seguito da due esametri quadrimembri, con il chiasmo tra le coppie di membri (491-92 tabe fluens, gressu aeger,

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inops uisu, asper amictu, /mente hebes, ore putris, lacerus pede, uoce refrictus). Questa pagina è stata analizzata da M. Roberts (St. Martin and the Leper: Narrative Variation in the Martin Poems of Venantius Fortunatus, «The Journ. of Med. Lat.» 4 (1994), pp. 82- 100) in relazione sia all'ipotesto sulpiciano che alle altre sue riscritture dell'episodio del lebbroso. Non è da trascurare la presenza in questa pagina del brano in cui Sedulio (Pasch. carm. 3, 26-32 ) descrive la guarigione del lebbroso operata da Cristo. (49) Lo Spiritus alteuolans è l'equivalente cristiano di Nettuno (cf. Verg. Aen. 7, 23 Neptunus uentis impleuit uela secundis). (50) M. Roberts (Martin meets Maximus: The Meaning of a Late Roman Banquet, «REAug.» 41 (1995), pp. 91-111) in una finissima analisi della riscrittura metrica di questo episodio da parte dei due parafrasti ha messo in evidenza come essi s'inseriscano nelle tradizioni letterarie del banchetto antico e si riferiscano ai modelli del banchetto reale e imperiale offerti dai panegirici. Paolino, più attento al contesto sociale, interpreta le relazioni tra patroni e clienti attraverso la tradizione satirica della cena. (51) Su Vita Martini 21, 2- 5 e le riscritture metriche di Paolino di Périgueux (3, 160-203) e Venanzio Fortunato (2, 141-61) vd. il mio contributo La parafrasi agiografica nella tarda antichità, in G. Luongo (ed.), Scrivere di santi. Atti del II Convegno di Studio dell'AISCA, Napoli, 22-25 ottobre 1997, Roma, Viella, 1998, pp. 88-99. (52) Cf. Ven. Fort. uita Mart. 2, 376-78 Qui pater inlustris Paulini gesta beabat / floruit Italiae quo post antistite Nola, /qua regio Campana sedet rectore superno. («Il padre Martino celebrava le virtù del nobile Paolino, sotto il quale vescovo, guida superiore, fiorì poi in Italia Nola, dove si stende la regione della Campania»). La Quesnel (op. cit., p. 45) ha ben colto il doppio senso inerente a rector: governatore della regione (quale appunto era stato in gioventù Paolino) e governatore spirituale della Campania. (53) Negli ultimi versi (2, 440-45) della pericope Fortunato sottolinea il carattere cristocentrico della vita di Martino: Vir cui Christus amor, Christus honor, omnia Christus / flos, odor, esca, sapor, fons, lux, uia, gloria Christus. / Huius in affectu insertus, solidatus, adultus/ ac uelut arbor agri secus est ubi cursus aquarum,/ flore, comis, foliis et fructu perpete gaudens,/ ornata aeternae fert poma perennia uitae. («L'eroe per il quale Cristo era amore, Cristo era onore, Cristo era ogni cosa, Cristo era fiore, profumo, cibo, sapore, sorgente, luce, via, gloria. Nel suo amore era radicato, consolidato, alimentato e come l'albero piantato nel campo accanto a un corso d'acqua, che gode continuamente di fiori, chioma, fogliame e frutti, egli produce i mirabili perenni frutti della vita eterna»). Si noti la ripetizione epiforica di Christus e la reminiscenza al v. 344 di Ps 1, 3. (54) Ven. Fort. uita Mart. 2, 468-75: « Per primo Severo cantò le tue gesta in un racconto in prosa e più tardi il beato Paolino le intonò in versi, entrambi illustri biografi capaci di sollevarsi fino a te, ma vinti dall'argomento anch'essi cedono nel canto. Io ho l'audacia di inserirmi nuvoloso tra così grandi luci, il più umile degli umili, tentando il canto delle imprese eccezionali di un grande, io che vacillo con il piede e balbetto per l'affanno della lingua, e rozzo nell'eloquio gusto ciò che mi sforzo di costruire». Quesnel, Venance Fortunat, 141 ha opportunamente osservato che il v. 471 è parafrasi di Sulp. Seu. uita Mart. 24, 1 uicti materiae mole succumbimus e anche per carmine, che può riferirsi solo a Paolino, il poeta italiano tiene presente il citato luogo sulpiciano, che così continua ut inertes poetae extremo in opere neclegentes. (55) Il v. 476 assimila l'errore estetico al peccato morale, che si consuma quando il poeta è incapace di raggiungere l'altezza del soggetto sacro. (56) Cf. Paul. Nol. carm. 15, 32-33 munere Christi / audeo peccator sanctum et caelestia fari; vd., anche, A.V. Nazzaro, Il proemio della Laus sancti Iohannis (Carm. VI) di Paolino di Nola, «Vichiana» IV Ser., 1 (1999), p. 60. (57) Ven. Fort. uita Mart. 3, 21-23: «A questo punto remi Gallo, Martino governi le vele, Cristo diriga il soffio dei venti grazie ai quali l'onda mi conduca in porto. Ora, mentre io navigo, il nocchiero racconti pure le gesta del santo». Questo proemio – nel quale il poeta attraverso la metafora della navigazione trova il modo per sottolineare la modestia del suo ruolo nell'impresa

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poetica – corrisponde al proemio del quarto libro di Paolino (vv. 1-20), nel quale il poeta aquitano dichiara di voler proseguire la sua operazione parafrastica, definita come translatio, con la coscienza che lo stile energico e luminoso dell'originale perderà il suo vigore attraverso la versificazione. (58) Questa è la congettura di Th. Wopkens, recepita dal Petschenig; i mss. tramandano uia uersa, lez. accolta da E.-F. Corpet (Oeuvres de Paulin de Périgueux, Paris 1849), che traduce: «Grâce à toi, j'ai changé de route et d'inspiration» (p. 111). (59) Evidente appare il legame con Iuuenc. praef. 25-27. Entrambi i parafrasti, dopo l'inuocatio dell'introduzione, sono soliti inserirne altre nel corso dell'opera, allo scopo o di ornare la narrazione o di esprimere un atto di fede. (60) I cani, di cui Martino arresta la corsa, si muovono quasi cancri (3, 359). (61) Idillico è il paesaggio, che ricorda il cielo, soggiorno delle vergini, immaginato altrove da Venanzio (carm. 8, 3, 30 ista legit uiolas, carpit et illa rosas./Pratorum gemmas ac lilia pollice rumpunt). (62) Cf. A.V. Nazzaro, L'agiografia martiniana di Sulpicio Severo e le parafrasi epiche di Paolino di Périgueux e Venanzio Fortunato, in M.L. Silvestre -M. Squillante (edd.), Mutatio rerum. Letteratura Filosofia Scienza tra tardo antico e altomedioevo, Napoli, La città del Sole, 1997, pp. 301-46. (63) Anubis è il dio egizio dalla testa di cane (cf. Verg. Aen. 8, 698 latrator Anubis). (64) Cf. Ven. Fort. Mart. 4, 249-50 Quae subuersa suis genuerunt lucra ruinis/ac resoluta feris creuerunt templa fauillis. Si notino i due efficaci esametri leonini. (65) Sulla presenza dell'episodio virgiliano in Paul. Petr. 5, 619-36 rimando a Gärtner, Zur christlichen Imitationstechnik, pp. 81-83. (66) M. Roberts (The Jeweled Style, pp. 136-37) adduce i vv. 678-83 come esempio di «jeweled style» e ne analizza l'influenza ausoniana. (67) Cf. Ven. Fort. Mart. 4, 331-32 Historiae nobis oritur hic longior ordo,/ sed breuiore uia data per conpendia curram. (68) A proposito del v. 487, che è mutuato tal quale da Paolino (v. 857) e mal integrato nella frase, la Quesnel, Venance Fortunat, p. 165, insinua il dubbio che esso sia stato inserito per errore da un copista. (69) Sulla metafora della tessitura cf. Labarre, Le manteau partagé, pp. 67-70. (70) Per questo carme – oltre che per una storia dell'apostrofe al libro nell'antichità – si veda, ora, Sidonio Apollinare, Carme 24, Propempticon ad libellum. Introd. trad. e comm. a cura di Stefania Santelia, Bari, Edipuglia, 2002. (71) Cf. Ven. Fort. uita Mart. 4, 634 Scit nihil esse meum, sua sed sibi dona recurrunt: Martino è così il donatore e il donatario del libretto. (72) Sul viaggio compiuto da Venanzio si vedano M. Pavan, Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia Merovingica, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 11-23 e G. Rosada, Il “viaggio” di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum Loca e la strada per Submontana Castella, ibid., pp. 25-57. Sui motivi di questo viaggio (Venanzio clericus uagans, pellegrino, agente bizantino?) cf. Labarre, Le manteau partagé, pp. 33-35. (73) Vd.Quesnel, Venance Fortunat, p. 7. (74) Ven. Fort. uita Mart. 4, 712: «Dovunque si sente il nome di Cristo, si sente la gloria di Martino». (75) Sulp. Seu. Vita 21, 4: «Così non lontano dal monastero viene trovato quasi esanime. Tuttavia, nell' esalare l'ultimo respiro, rivela ai fratelli la causa della ferita mortale: mentre stava stringendo le redini allentate ai buoi che erano sotto il giogo, un bue liberò di scatto la testa dal giogo e gli affondò un corno nell'inguine. E dopo non molto tempo rese la vita. Vedi tu per quale giudizio del Signore al diavolo è stato dato questo potere». (76) La qualità formale del brano è stata efficacemente rilevata da Fontaine (SCh 135, 959s.): «rapidité du style et des expressions militaires, technique de reprise du vocabulaire expressif d'un récit à l'autre, propriété

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exacte des verbes de mouvement, densité obtenue par le style indirect et le relief discret de l'ordre des mots». (77) Le incornate dei buoi sono oggetto di disposizioni legali sia presso i Giudei (exod 21, 28) che presso i Romani (Iust. inst. 4, 9). (78) Paul. Petr. uita Mart. 3, 187-200: «E si verifichi ormai senza indugi questa congettura. Allontanatisi non di molto dai loro confini, vedono il poveretto mezzo morto mentre esalava gli ultimi soffi di vita. Egli, tuttavia, mentre scioglieva nella morte gli occhi illanguiditi, con un mormorio della lingua singhiozzante spezzato dai rantoli riuscì a emettere dal gelido petto un filo di voce ed esporre le cause della ferita. Un giovenco, mentre si accingeva a regolare le redini del giogo allentate stringendo le corregge, liberando con movimento ondulatorio la testa e ribellandosi al padrone, con il tartareo corno aveva trafitto il molle inguine. Dopo aver raccontato ciò, ammutolì, serrando le labbra, e allora reclinò il capo spossato dalla morte, mentre un pallore giallastro tinse il volto e le membra sul corpo irrigidito. Di questa fine morì». (79) Cf. Quint. inst. 8, 4, 26-27 Potest adscribi amplificationi congeries quoque uerborum ac sententiarum idem significantium. Nam etiam si non per gradus ascendant, tamen uelut aceruo quodam adleuantur. La congeries, che si realizza attraverso il moltiplicarsi di un solo fatto, si distingue dal synathroismòs, che si realizza attraverso l'accumulo di più fatti. (80) Cf., tra gli altri, Verg. Aen. 5, 275 seminecem liquit saxo lacerumque uiator (in questo caso è l'animale vittima della crudeltà dell'uomo) e Sil. 10, 454-457 confossus pectora telis, / seminecem extremo uitam exhalabat in auras / murmure deficiens iam Cloelius oraque nisu / languida uix aegro et dubia ceruice leuabat: al di là dell'impiego di seminecem, non è improbabile che il luogo siliano possa costituire il modello della pagina paoliniana. (81) Il nesso glaciali corpore rimanda a Ou. met. 9, 582 obsessum glaciali frigore corpus. (82) Ven. Fort. uita Mart. 2, 157-60: «I monaci incaricati lo trovano mezzo vivo, mentre esalava con gemiti gli ultimi respiri e, mentre ancora erra un alito di vita, spiega la sua morte: il toro, liberato un corno, gli ha trafitto l'inguine. Resa testimonianza alla verità dell'accaduto, lasciò la vita insieme con la voce». (83) L'intertesto virgiliano conferma la lez. errat contro la congettura iret di Leo. (84) La scomposizione del racconto sulpiciano comporta un affievolimento della grandezza epica; cf. H. Junod-Ammerbauer, Studien zur Vita Sancti Martini des Venantius Fortunatus (diss.), Vienna 1966, p. 159. (85) Cf. E. Ebert, Histoire Générale de la Littérature du Moyen Age en Occident (trad. fr.), I, Paris 1883, 573-76; D. Tardi, Fortunat. Étude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule Mérovingienne, Paris 1927, p. 184-87; L. Pietri, La ville de Tours, p. 74ss. Generico è anche il giudizio di R. Martin e J. Gaillard (Les genres littéraires à Rome, Paris 1981, p. 84 e 91), che, poco entusiasti di Giovenco e Sedulio, considerano la Vita Martini di Fortunato la sola vera epopea della letteratura latina cristiana, anche se parzialmente fallita. (86) Cf. Fontaine, Naissance de la poésie, p. 271: «Par un chassé-croisé chronologique, qui n'a rien d'isolé en ces ‘temps de transition’, c'est Fortunat qui, par tous ces traits, s'avère encore un homme de l'Antiquité, et c'est le long sermon de Paulin qui a déjà l'aspect le plus médiéval». (87) Di quest'avviso è il Chase, The Metrical Lives, p. 58. (88) Cf. Ven. Fort. uita Mart. 4, 520-21 Quod superest etiam memoretur honore patroni,/consummanda suo properat quia pagina textu.

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GIOVANNI POLARA Università degli studi di Napoli “Federico II”

I carmina figurata di Venanzio Fortunato

Le scuole italiane che Venanzio poté frequentare alla metà del VI secolo erano ancora serie ed efficienti, e svolgevano bene il loro compito di garantire un minimo di mobilità sociale e di dare ai giovani una buona professione attraverso gli sperimentati studi classici, soprattutto quelli letterari, che costituivano da più di mezzo millennio il piatto forte di una formazione che aveva avuto non pochi meriti nell’assicurare all’impero un ceto dirigente capace di farlo durare così a lungo. Quello stesso Giustiniano che aveva voluto la completa distruzione del popolo ostrogoto tributava un non piccolo elogio al suo più grande re quando, nel 554, dichiarava di ispirarsi ai provvedimenti di Teoderico per quanto riguardava l’organizzazione della scuola a Roma1, mentre le notizie di cui disponiamo, grazie ad Ennodio, sulle scuole lombarde e ancor più quelle che Aratore e lo stesso Cassiodoro2 ci tramandano sulle scuole di Ravenna dimostrano la loro capacità di attrarre allievi non solo da tutta l’Italia settentrionale, ma anche dalla Gallia. La forza di queste scuole era soprattutto nella loro capacità di fornire agli studenti, proprio grazie a quei consolidati e sperimentati programmi, la possibilità di attrezzarsi a molte diverse professioni e di essere pronti ad adeguarsi, di volta in volta, alle necessità della vita: solo le arti del trivio – la grammatica, la retorica e la dialettica – potevano garantire tanta flessibilità, e perfino l’ultimo Cassiodoro, quello che nella seconda metà del secolo scriveva le Institutiones, non poteva che elogiarne le straordinarie potenzialità pratiche e professionalizzanti, di fronte alle caratteristiche divinamente teoriche, ma sostanzialmente un po’ troppo astratte, di quelle del quadrivio, tutte figlie della matematica. E senza dubbio la straordinaria fertilità di scrittore, la versatilità letteraria e la sorprendente disponibilità a parlare bene di tutti o quasi i potenti che incontrava sulla sua strada devono molto agli studi ravennati; ma nella scuola Venanzio acquisì anche una competenza (come la chiamano quelli che pensano che sia 211

possibile avere competenze che non siano anche e in primo luogo conoscenze) che non avrebbe mai creduto potesse tornargli utile, e invece gli risolse un difficile problema e gli garantì un posto di primo piano nella storia di un genere letterario strano ma meno irrilevante di quanto comunemente si creda. Che nella scuola si insegnassero i carmi figurati, quella specie di complicatissime parole crociate che all’epoca di Costantino avevano goduto di un particolare prestigio con Optaziano Porfirio, può sembrare oggi al di là di qualsiasi credibilità, e qualunque professore si illudesse di rinverdire la tradizione non produrrebbe altro risultato che l’intasamento delle linee del telefono azzurro; eppure perfino nel IX secolo – una delle non poche età che vengono gratificate del titolo di Rinascita o Rinascimento – Incmaro vescovo di Reims poteva rimproverare all’omonimo e odiato nipote, vescovo di Laon, che le sue pessime inclinazioni erano risultate evidenti già quando era ragazzino, perché non sapeva fare bene i carmi figurati che lo zio gli assegnava come compito3. Sembra, purtroppo, che né all’uno né all’altro dei due Incmari si riferisca il divertente epigramma riportato nel terzo volume dei Poetae Latini aevi Carolini, che Traube riteneva indirizzato contro il maggiore Incmaro e Cappuyns, invece, pensava che fosse scritto da lui contro il nipote4; ma le altre notizie che abbiamo sui due sono più che sufficienti per farci concludere che insegnare o imparare, più o meno bene, a comporre carmi figurati non fosse garanzia di buon carattere e vita specchiata: non è tuttavia questo che per il momento ci interessa, ma la prova – e questa è sicura – di una continuità dello studio dei carmi figurati, da Costantino a Carlo Magno e ai suoi immediati discendenti, ai fini della formazione dei futuri intellettuali5. A dire il vero, Venanzio nega esplicitamente di conoscere suoi possibili predecessori nel genere letterario, di cui pretenderebbe di essere in qualche modo il primus auctor, e in questo modo vorrebbe far credere che la sua poesia figurata non nasce dalla lettura del testo di Optaziano e da un’imitazione piuttosto fedele delle sue tecniche, ma piuttosto da una personale e originale meditazione su quel passo dell’ars poetica di Orazio in cui pittori e poeti vengono accomunati nella licenza che viene loro concessa di osare cose nuove6. È una bugia assolutamente motivata e giustificabile, perché l’esaltazione della novitas che contraddistinguerebbe una delle sue poesie figurate, quella inviata al vescovo Siagrio di Autun7, serviva a far crescere il valore del dono e 212

a facilitare dunque il conseguimento dell’onestissimo scopo che esso si proponeva, cioè la liberazione di uno schiavo di proprietà del vescovo8, ma è comunque una bugia: le tre composizioni che abbiamo sono costruite infatti fin nei minimi particolari secondo il modello optazianeo, con il quadrato formato da un numero dispari di versi, ognuno dei quali contenente un numero di lettere esattamente uguale a quello dei versi stessi. Due su tre, poi, corrispondono pienamente alla struttura prediletta da Optaziano, quella con 35 versi di 35 lettere, mentre la terza – proprio il carme per Siagrio – si differenzia di pochissimo, adottando un 33 per 33 che si dichiara motivato dall’intenzione di usare, simbolicamente, il numero degli anni di vita del Cristo, che liberò l’umanità dalla schiavitú del peccato; in un caso, infine, la figura stessa ricalca, sia pure in maniera un po’ semplificata, quella di un carme del poeta costantiniano9, con una coincidenza che non può essere assolutamente casuale e garantisce una sicura derivazione del testo di VI secolo da quello del IV. Ma anche se da Optaziano sono ripresi il genere e, insieme con questo, varie tipologie di formule e di tecniche espressive, Venanzio è comunque un innovatore, e i suoi carmi meritano attenzione non meno di quelli del predecessore o di quelli dei suoi successori di età carolina. Per motivi diversi, anzi, ciascuno dei tre carmi ci dà notizie di rilievo su Venanzio, sui destinatari dei suoi testi, sui modi con cui i carmi venivano stesi e – almeno in un caso – mostrano un’importante innovazione, che anticipa l’in honorem sanctae crucis di Rabano Mauro ed è quindi destinata ad avere notevole fortuna nella successiva produzione dei carmi figurati; può dunque valere la pena di riprendere in esame il complessivo significato dei tre carmi, nonostante sia abbastanza recente un lavoro di Margaret Graver che se ne occupa10. Non è facile stabilire un ordine cronologico dei tre componimenti, due dei quali compaiono nel secondo libro e sono dedicati ad Agnese e Radegonda11 mentre il terzo, che fa parte del quinto libro, è quello già ricordato per Siagrio, Augustidunensis opus tibi solvo Syagri, accompagnato da una lettera allo stesso vescovo sui motivi della dedica e sulla tecnica poetica impiegata: come ha, infatti, recentemente ribadito Marc Reydellet12, all’interno del primo corpus dei carmi, quello che comprende i libri dal primo al settimo, le poesie non sono disposte secondo l’ordine di composizione dei testi. Anche le dichiarazioni di novitas presenti nella let213

tera che accompagna il carme per Siagrio hanno scarso valore: se esse non sono credibili per quanto riguarda il rapporto con Optaziano, altrettanto poco ci possono garantire la priorità di quel carme rispetto agli altri due. Può darsi, insomma, che, dopo quello per Siagrio, Venanzio abbia ritenuto doveroso indirizzare anche alle sue generose protettrici qualche carme figurato, ma almeno altrettanto probabile è che siano state scritte prima le due poesie del secondo libro, e che le imprecisioni – peraltro pochissime in rapporto alla complessità del lavoro – che si riscontrano nell’altra non siano prova della sua priorità, ma solo conseguenza della fretta con cui essa fu composta, per tentare di riscattare al più presto lo schiavo, prima che avvenisse qualcosa di irreparabile. Ci sono anzi vari indizi che potrebbero essere addotti a favore di questa seconda tesi, anche se bisogna ammettere che nessuno di essi è di per sé sufficiente a costituire una prova. I due carmi del secondo libro sono collocati in una posizione di tutto rilievo, visto che, insieme con i distici in honore sanctae crucis, stanno nientemeno che fra il pange lingua e il vexilla regis prodeunt, dando così vita ad una sezione tutta dedicata alla croce, tematica cara a Radegonda ed Agnese, ma anche costantiniana quant’altre mai. Non per nulla l’invenzione di sant’Elena era all’origine della preziosa reliquia, donata nel 569 da Giustino, di cui andava orgoglioso il monastero della Santa Croce, e proprio in occasione di quel gesto di particolare considerazione da parte dell’imperatore che risiedeva nella città di Costantino Venanzio aveva scritto, appunto nel 569, il vexilla regis. Si aggiunga che Costantina, la figlia di Costantino il grande, nel dedicare a sant’Agnese la basilica romana, aveva voluto che vi si leggesse un’iscrizione acrostica con il proprio nome, che alcuni studiosi – sia pure senza argomenti particolarmente convincenti – vorrebbero attribuire proprio ad Optaziano13. C’erano dunque, con la croce e sant’Agnese, tutti i presupposti perché Venanzio si volesse identificare con Optaziano, attribuendo a Radegonda il ruolo di Costantino; l’innovazione, l’ammodernamento da apportare sarebbe stato quello di dare alla santa croce il ruolo fondamentale (e si potrebbe ben dire centrale, anche dal punto di vista della collocazione nella pagina) che nel libellus di Optaziano è invece attribuito, e non a caso, al monogramma di Cristo. Anche se qualche croce non manca, qua e là, nei carmi del poeta del IV secolo14, si tratta però sempre di immagini poco 214

marcate, al limite del motivo geometrico, e assai lontane dalla raffinatezza di altri simboli, in primo luogo quello dell’in hoc signo vinces15, ma pure le cifre che rappresentavano la ricorrenza dei primi vent’anni di regno, le quali ritornano in vari carmi con significativa frequenza16, o la palma della vittoria, la nave dello stato, lo schieramento delle truppe e altre rappresentazioni che oggi non ci è facile ricostruire, ma della cui presenza e significato simbolico il poeta stesso ci dà notizia nel testo dei componimenti. Optaziano, peraltro, non era un cristiano, e la sua adesione alla nuova fede era assai strumentale e si proponeva come fine quello di toccare le corde giuste nell’animo dell’imperatore per ottenere la revoca dell’esilio a cui era stato condannato: e non può essere un caso che la parola crux non ricorre mai nei suoi carmi, nemmeno in quelli siglati in figura dal nome di Gesù, Iesus, dal suo monogramma o dai suoi simboli. La croce di Venanzio si distingue invece per l’eleganza della sua figura, con fusto e traversa larghi, con i bracci tutti uguali (è iscritta in un quadrato, e l’incrocio fra i due assi coincide con il centro del foglio) e con un allargamento verso le estremità che la farebbero definire, in termini araldici, come una croce greca patente. Dal punto di vista della tecnica è poco più che una variante del carme 3 di Optaziano, con i quattro grossi esagoni agli angoli disposti a quadrifoglio: la differenza consiste, sostanzialmente, nell’ingrossamento degli assi centrali, che non hanno più lo spessore di una sola lettera, ma di cinque, e sono quindi delineati dal loro contorno, e nel completamento della cornice formata dal primo e dall’ultimo verso, dall’acrostico e dal telestico. L’effetto visivo è però completamente diverso, decisamente – mi si lasci dire questa banalità – più medievale; l’immagine della croce spicca netta, in coincidenza con il testo dei quattro versi che ne tracciano il perimetro e che hanno inizio, nell’esametro che parte dalla nona lettera del primo verso e si dirige verso il basso, prima inclinato in diagonale verso destra, poi dritto, poi di nuovo in diagonale ma verso sinistra, con la parola chiave crux e riesce ad evocare immediatamente le due destinatarie e il voto del poeta: crux pia, devotas Agnen tege cum Radegunde. È una raffigurazione che doveva piacere molto ai lettori di Venanzio, visto che in uno dei manoscritti che ci tramandano il testo viene ripresa17, ma stavolta come croce latina patente, in una rappresentazione che potremmo chiamare a tutto tondo, senza il quadrato che in Venanzio ne costituisce lo sfondo, e trova un ulteriore perfezionamento nello splen215

dido carmen figuratum de sancta cruce che compare nella raccolta dei cosiddetti versus Augienses18. Ma oltre e più che l’icona fu fertile di imitazioni e capace di Literaturprovokation, di stimolare la produzione di nuova letteratura, l’idea di dedicare un carme alla croce e alla sua immagine: l’intero, straordinario liber in honorem sanctae crucis di Rabano Mauro nasce, si può dire, da questo de signaculo sanctae crucis, anche se tra le sue fonti il futuro vescovo di Magonza ricorda Optaziano piuttosto che Venanzio19. Non poche delle tavole dell’in honorem si rifanno, però, alla nuova forma inventata dal nostro poeta, con croci che si allargano dal centro verso i margini del foglio20 e, anche se manca un’esatta riproduzione della croce di Venanzio, le vicende della tradizione dei carmi figurati in età carolina ci garantiscono che i dotti della generazione immediatamente precedente a quella di Rabano li conoscevano e li imitavano non meno di quelli di Optaziano21, a tal punto che si può pensare che comparissero insieme con essi in codici antologici analoghi al nostro Bernense 212, il quale raccoglie i testi di Optaziano insieme con altri di sicura attribuzione e certamente databili all’VIII/IX secolo e altri ancora di più difficile collocazione cronologica. Non ci si può certo spingere fino a sostenere, solo con questi argomenti, che almeno parte della tradizione di Optaziano riposi sul ragionevolmente ipotizzabile esemplare di cui poteva disporre Venanzio, ma senz’altro questa copia è un testimone rilevante della fortuna che ebbe il poeta costantiniano prima del grande recupero di età carolina e conferma quel passaggio dei suoi testi dall’Italia alla Francia, anche prima che dalla Spagna alla Francia22, di cui i codici più antichi sono già prova sicura, anche se non ancora sufficientemente indagata, soprattutto per la parte relativa ai primi secoli del medio evo23. Il secondo carme, però, non è importante solo come esemplare a cui si sono ispirati i continuatori carolini di Optaziano e di Venanzio: particolarmente preziose sono infatti le notizie che ci dà sulle modalità di redazione dei carmi per il semplice fatto di essere incompleto, e di testimoniare quindi una fase intermedia della stesura. Il componimento, che nei manoscritti segue immediatamente il de signaculo sanctae crucis, è privo di intitolazione, ma non c’è dubbio che anch’esso si proponesse di celebrare la croce; la sua collocazione nella sezione che comprende, con l’altro carme figurato, anche il pange lingua, il vexilla regis e i distici che vanno sotto il titolo di versus in honore sanctae crucis è già sufficiente a dimostrarlo, ma una sicura conferma 216

viene dalla presenza al primo verso del riferimento al veniabile signum, l’insegna del perdono che il sacrificio del Cristo meritò all’uomo afflitto dal peccato originale, e da altre frasi che ricorrono nei versi messi in evidenza dal differente colore, quelli che Optaziano chiamava versus intexti, come gli epiteti fidei decus, arma salutis, che si leggono alla fine dell’esametro che doveva costituire l’acrostico, e più ancora nel dulce mihi lignum, pie, maius odore rosetis dell’esametro che va in diagonale dal centro del primo verso alla prima lettera del verso centrale e poi da questa alla lettera mediana dell’ultimo, nel dumosi colles lignum generastis honoris dell’esametro a questo speculare e soprattutto nel ditans templa dei crux et velamen adornas del mesostico. Si diceva che il componimento è incompleto e si presenta in maniera assolutamente identica in tutti e quattro i manoscritti che lo tramandano, con i soli primi sei versi a cui vanno aggiunti tutti i versus intexti previsti dalla figura. Si potrebbe pensare che all’origine di questa lacunosità non ci sia il mancato completamento da parte dell’autore, ma piuttosto una vicenda della tradizione, insomma che non sia stato Venanzio a lasciare a metà il suo lavoro, magari ripromettendosi di riprenderlo successivamente quando le disponibilità di tempo e di spirito gli consentissero di affrontare la penosa fatica, ma il copista di quello che, a questo punto, dovremmo considerare l’archetipo dei quattro codici di IX-X secolo che ci hanno trasmesso il carme. Quest’ipotesi però non trova particolare credito fra gli studiosi, perché è certamente più probabile che Venanzio abbia incontrato nella scrittura difficoltà tali da dissuaderlo dal proseguire (del resto ci ha comunque lasciato un carme figurato sulla croce e il monastero di Radegonda) e non che un amanuense in possesso del testo integrale steso dall’autore abbia interrotto al verso 6 la trascrizione di un pezzo che aveva il suo principale valore nell’insieme policromatico della pagina e nell’alternanza di vuoto e pieno e abbia sprecato così quasi ogni merito del lavoro già fatto, e anche la stessa mancanza di un titolo fa pensare che il testo fosse da ritenere non compiuto, anche se non immeritevole di essere conservato a futura memoria, con la speranza di poterlo prima o poi completare. Venanzio stesso, del resto, nella lettera a Siagrio ci informa sul modo in cui procedeva alla collocazione delle lettere nella pagina: prima venivano composti i versi in risalto, quelli di diverso colore, quale ne fosse il percorso, orizzontale, verticale, obliquo o spezzato, e poi si procedeva al comple217

tamento della pagina scrivendo gli esametri del carme. Questo comportava, oltre l’obbligo di dare a ogni verso il medesimo numero di lettere24, la difficoltà di tener conto degli incroci, dove le lettere erano già bloccate25: bisognava rispettare i versi già tracciati, per non doverli trasformare rimettendo in discussione quanto si era fatto in precedenza, perché ogni modificazione dei versus intexti non poteva essere apportata senza conseguenze per tutta la parte superiore della pagina, dove già erano stati affrontati e positivamente risolti i nodi degli incroci26. Queste notizie coincidono non solo con il modo in cui si presenta il nostro testo, che ha i versus intexti completamente tracciati e il testo del carme in corso di composizione, ma anche con altre figure che sono più chiaramente nello stato di work in progress: il carme di San Gallo vive boni cultor gregis et mitissime pastor27, che per una curiosa coincidenza presenta esattamente la medesima figura del carme incompleto di Venanzio, è a un punto di elaborazione ancora più iniziale, visto che sono stati costruiti esclusivamente i versi della cornice e per gli altri versus intexti sono state bloccate soltanto alcune lettere, che lette di seguito danno pastor virtuosus, con pastor nelle linee oblique e nel mesostico e virtuosus nella prima, centrale e ultima lettera del primo, del centrale e dell’ultimo verso. Ma il carme di San Gallo è importante perché mostra come l’autore si attrezzasse per risolvere un problema che angosciava Venanzio, quello della necessità di intervenire a volte sugli incroci ritoccando i versus intexti già stesi; a questo fine accanto ad un primo esametro inserito nella figura ne è tracciato un altro, per così dire alternativo, che del primo condivide alcune lettere fondamentali per gli incroci immodificabili, ma non presenta i difetti e consente sostituzioni nelle altre sedi meno impegnative, ma sempre potenziali fonti di guai. Nell’acrostico, al posto di vix ubinam iustus intrat salvatur et ullus, che lascia uno spazio vuoto fra la diciassettesima e la diciannovesima lettera, si propone victor ubi validus intrat laudatur et agnus, che coincide nella vu iniziale, nella ti centrale e nella esse finale; nell’ultimo verso, sotto a s....... aulis gressum remanens ibis istis, con la difficoltà di inserire un intero piede e un longum nelle sette lettere incerte che seguono la esse iniziale, si legge salvantis regis hic purus splendes in aulis, che del primo esametro conferma le tre lettere in incrocio, e anche per il telestico si intravedono tracce di possibili varianti da usare in caso di necessità. E veniamo, finalmente, al carme per Siagrio. I due testi 218

del secondo libro ci dicono molte cose sullo specifico letterario, del genere e della sua evoluzione dalla tarda antichità al medioevo; questo del quinto libro, invece, insieme con la lettera di accompagnamento, è un testimone di grande interesse sul piano storico, per la rilevanza del destinatario e per la vicenda a cui fa riferimento. Si tratta di una di quelle piccole storie di piccola umanità che un tempo si ritenevano marginali rispetto alla corrente principale del grande fiume della storia e del progresso, e che invece oggi appassionano molto più della storia degli eventi, perché ci fanno conoscere le condizioni di vita della maggior parte degli esseri umani, quelli che quasi mai riescono a raggiungere la notorietà che solo la scrittura riesce ad assicurare. Siagrio era una persona importante, non solo e non tanto perché era vescovo di Autun, ma soprattutto per i suoi stretti legami con il potere politico. La Vita sancti Aridii abbatis28 ricorda che al venerabilis et egregius antistes Syagrius Aeduae civitatis episcopus si rivolgevano le preghiere di quanti cercavano un patrono presso la corte, eo quod honore dignissimus prae omnibus in regis palatio habebatur; ma la personalità del vescovo, le sue qualità, le sue ambizioni e i suoi difetti risultano evidenti sia dalle molte notizie dell’Historia Francorum sia, soprattutto, dalle numerose lettere di papa Gregorio a lui dirette o che di lui parlano. Lo PseudoFredegario sospetta che fosse così vicino a Mummolo da tramare con lui contro Guntramno per sostituirlo con Gundobaldo29; forse le cose non stanno così, ma se non dal tradimento certamente Siagrio non era immune da qualche altro peccato: dava ospizio a personaggi poco rispettabili, con una sorta di diritto d’asilo che impediva di punire pericolosi peccatori, per cui, qualche decennio dopo la vicenda di cui racconta il carme di Venanzio, papa Gregorio sarà costretto ad inviargli una dura lettera30 in cui gli ricorda che in certe situazioni risulta colpevole non solo chi commette i fatti, ma anche chi non si oppone adeguatamente, perché è come se fosse d’accordo con il criminale chi non si impegna come dovrebbe nell’eliminazione del rischio: consentire videtur erranti, qui, corrigenda ut resecari debeant, non concurrit. E non ci si ferma qui: nel luglio del 599 Gregorio è costretto a scrivere una lettera a vari vescovi gallici, fra cui Siagrio, perché non cadano nella simonia, non consacrino vescovi (evidentemente a pagamento) personaggi che non hanno ancora neppure preso gli ordini sacri, evitino le convivenze fra preti e donne31. È un quadro della Gallia e delle 219

abitudini di certi vescovi senz’altro sconsolante: “È cosa nota che in Gallia gli ordini sacri vengono concessi attraverso il peccato di simonia” deve scrivere Gregorio, invitando Siagrio e gli altri vescovi incolpati a convocare un sinodo per rimuovere tanti crimini dalle loro diocesi, e a riprova della poca fiducia che riponeva negli esiti della loro iniziativa scrive ad Aregio vescovo di Gap dandogli precise istruzioni di partecipare al sinodo che sarà indetto da Siagrio e di riferirgli puntualmente sul suo andamento32. Peggio ancora, a Siagrio e a un altro vescovo si rimprovera di aver costretto una monaca a sposarsi contro la sua volontà33, con toni particolarmente pesanti, lamentando il pericolo che i due si debbano giustificare dinanzi a dio di essere stati dei ruffiani piuttosto che dei pastori, quippe qui in ore lupi ovem laniandam sine certamine reliquistis. Poi, magari, si scopre che il problema non è solo, e forse non è tanto, nella violenza subita dalla monaca, ma sulla destinazione del suo cospicuo patrimonio, la cui disponibilità va tolta al marito, perché la santa donna ha dichiarato la sua precisa volontà che esso venga investito in opere di pietà, ma questo è un problema di Gregorio, non una notizia su Siagrio, così come un problema di Gregorio è che, contemporaneamente alle infocate lettere di cui si è detto, allo stesso Siagrio vengano indirizzate lettere di raccomandazione a favore di ecclesiastici impegnati in compiti più o meno spirituali di evangelizzazione, dal grande Agostino di Canterbury, l’apostolo degli Angli, al buon prete Candido34, amministratore del patrimonio papale in Gallia, cui patrimoniolum – un brillante neologismo della tarda antichità, attestato per la prima volta in Girolamo35 – ecclesiae nostrae in illis partibus constitutum commisimus. Ma Gregorio era un gran papa, consapevole delle responsabilità che la storia aveva caricato sulle sue spalle, e pronto a difficili scelte che avrebbero reso meno simpatica a molti la sua figura: lo provò a sue spese il candido Colombano, in occasione dei suoi scontri con la crudele Brunilde, e molte delle moderne polemiche sulla figura di Gregorio nascono dalla comoda posizione di chi, privo di ruoli di rilievo, può permettersi astratti moralismi. Così, Siagrio viene usato per quello che può e sa fare bene, nonostante il suo non irreprensibile comportamento di vescovo e di cristiano. Se i re franchi hanno sottratto al vescovo di Torino alcune sue proprietà in Gallia, è bene che Siagrio intervenga presso la corte in suo favore, per ottenerne la restituzione36; e per essere convincente Gregorio sa trovare 220

un argomento inoppugnabile: se non li fermiamo subito, crederanno di poterlo fare sempre impunemente, e quello che per ora è toccato al povero e poco importante Ursicino domani potrà capitare anche a vescovi potenti come te. All’abilità di questo ragionamento corrisponde l’eleganza di certe formulazioni retoricamente all’altezza del già ricordato patrimoniolum: per sottolineare il prestigio di cui Siagrio gode presso i re franchi si dice, con una litote che vale tanto di più dell’esplicita affermazione della Vita Aridii, [reges] quos vos in nullo credimus contristare. Tra le finezze diplomatiche di Gregorio, un posto a parte merita la concessione a Siagrio del mantello, da cui apprendiamo anche di un’altra delle debolezze del vescovo, che ci può rapidamente riportare a Venanzio e al suo carme, una vanità evidentemente connessa con una sostanziosa dose di ambizione37. Assentendo alle incalzanti richieste del vescovo, il pontefice gli concede infatti l’uso del pallio, ma solo all’interno dell’edificio ecclesiastico, ed esclusivamente al fine della celebrazione della messa; e nel concedergli questo segno di distinzione, insieme con il titolo ad Autun di seconda chiesa di Gallia dopo quella di Lione, Gregorio trova il modo di ammonire il suo interlocutore ricordandogli che un efficace svolgimento del sinodo contro la simonia e le altre gravi e diffuse irregolarità rimane condizione preliminare perché Siagrio possa fregiarsi del mantello, e lo invita ad impegnarsi presso i re franchi perché diano ogni possibile sostegno alle iniziative papali, quia praecellentissimos filios nostros Francorum reges magnam vobis novimus dilectionem impendere. A questo personaggio, segnato dalla sua stessa potenza e le sue umane debolezze, si dirige Venanzio perché voglia dare la libertà ad uno schiavo di sua proprietà, il giovane figlio di uno sfortunato cittadino di Poitiers. Ma come riscattare il prigioniero? Come versare un prezzo a Siagrio che certo non aveva bisogno di danaro? Di qui la composizione del carme, costruito anch’esso con la semplificazione di una figura di Optaziano, quella del monogramma di Cristo, privata dell’arco superiore che completa la lettera rho, e destinato ad avere imitatori fra i carolini e i loro primi successori, in particolare Milone di Saint Amand ed Eugenio Vulgario38, di qui la bugia che si trattasse di un genere nuovo (e certo Siagrio non era tipo da sapere qualcosa su Optaziano); di qui il suggerimento di collocare la figura, come un quadro, all’ingresso (di casa o della chiesa?): hoc opere parieti conscripto pro me ostiario pictura servet vestibulum39. 221

Il carme fu composto in fretta e reca, nel testo più che nell’immagine, le tracce di questa premura. La figura ha una sola grossa irregolarità, peraltro molto ben risolta: il primo verso, quello di dedica a Siagrio, non conta 33 lettere, ma 34: in quo quippe exordio supercrescente apice non licuit vel solvere vel fila laxare, ne numerum transiliens erratica se tela turbaret, come dice l’autore nella lettera40. Ed ecco l’idea di farne un fuori opera, non legato agli incroci, che vincolano i versi da 2 a 34, che magari sarebbe meglio numerare da 1 a 33, secondo le intenzioni del poeta, assegnando ad Augustidunensis opus tibi solvo Syagri il numero 0 o, a scelta, una lettera o un numero romano, e per di più di tracciarlo non in linea retta, ma leggermente ricurvo, sopra una piccola croce, quasi si trattasse del sostegno per sorreggere la tavola sulla parete. Per quanto riguarda la tecnica, si può segnalare solo un’altra particolarità, la presenza dell’abbreviazione q; per que ai versi 17 e 34, in modo da risparmiare due lettere e non avere problemi agli incroci: una libertà che non si riscontra nei carmi del secondo libro e in nessuno di quelli genuinamente optazianei, bensì solo negli apocrifi 22 e 2441. Per il testo, la situazione è piuttosto diversa, anche se non così compromessa come vorrebbe il Leo. Alla pari di molti filologi, non solo del suo tempo, l’editore è convinto che i carmi figurati siano solenni porcherie e che i loro autori, invece di vergognarsene come avrebbero dovuto, si sentissero autorizzati alle peggiori nefandezze nei riguardi di lingua e metrica, per la difficoltà dell’impresa affrontata42: è un po’ l’atteggiamento che ha portato Shackleton Bailey ad escludere dalla sua Anthologia Latina teubneriana i centoni e altri componimenti ritenuti per vari motivi immeritevoli delle cure ecdotiche43, peraltro senza troppi danni per la scienza filologica, visto che comunque del Riese non si può tuttora fare a meno. A scorrere l’edizione dei Monumenta, non si può non sottolineare l’evidente differenza tra i carmi del secondo libro, per i quali non ci sono particolari rilievi da parte dell’editore, e questo del quinto, dove in almeno tre passi si segnala che Venanzio coactus (evidentemente dalla tecnica del carme figurato) insana scripsit. Ma, se non c’è dubbio che la caratteristica di instant book, da spedire al più presto per pagare il riscatto del prigioniero, avrà comportato un po’ di sciatteria, bisogna però pur dire che non sempre, anzi quasi mai, i rimproveri di Leo sono davvero convincenti, e già Reydollet e con lui Di Brazzano lo hanno a volte segnalato. Al v. 17, che l’editore stampa reptantisque dolo Eoois 222

excluditur ortu, gli incroci non lasciano dubbi sul fatto che le lettere situate al centro del verso siano proprio EOOIS e che l’ultima parola appartenga alla quarta declinazione, ORTV; il testo però non piace a Leo, che annota: “debuit reptantisque dolo Eoo excluditur horto”. La conseguenza del peccato originale, del cedimento all’inganno del serpente (reptantisque dolo) è la perdita dello stato di grazia di cui Adamo godeva nel paradiso terrestre, ampiamente descritta secondo il topos del locus amoenus nei versi da 6 in poi, e quindi l’esclusione (excluditur) da qualcosa che deve risultare dalle lettere incriminate EOOIS ... ORTV. Per quanto riguarda la crux denunciata da Leo, è certo che Eoois è indifendibile: non è una forma esistente o ammissibile di Eous e per sintassi non avrebbe con chi coordinarsi, mentre è necessario un attributo del sostantivo collocato alla fine del verso, un singolare maschile coordinato con ortu-giardino o ortu-grazia primitiva, ma non c’è bisogno di pensare ad una follia dell’autore che si sarebbe inventato una parola inesistente. Et homo de terra tum denuo decidit illuc / reptantisque dolo Eoo is excluditur ortu, come giustamente ha ipotizzato Blomgren44 e stampano Reydollet45 e Di Brazzano, si limita a ripetere, col pronome is, il soggetto homo, quell’uomo nato dalla terra e tornato nel fango con il peccato, privato della nobiltà di cui il creatore aveva voluto fargli dono. Is è breve, non c’è dubbio, e ben avrebbe fatto Reydollet a ricordare questo problema prosodico, ma lo stesso Leo46 ci dà un elenco piuttosto ampio – più di una ventina di casi – delle sillabe brevi seguite da consonante che diventano lunghe in tempo forte, o perfino in tempo debole, e delle brevi che si allungano anche senza essere in sillaba chiusa, tra cui un caso in questo stesso componimento, al v. 29, sero vera data est vitalis emptio morte; e comunque fra un non irragionevole allungamento in sinalefe e in tempo forte e un iato come quello suggerito dall’ipotetica “correzione” di Leo, reptantisque dolo Eoo excluditur horto, con le cinque vocali consecutive che valgono per ben quattro sillabe tutte lunghe, la scelta, sul piano della metrica, non sarebbe delle più facili. Per l’ortu=horto è vero che molto, nei versi precedenti, indirizzerebbe verso l’immagine del giardino, con tanto di fiori e ruscello; la descrizione della condizione di grazia precedente al peccato non si limita però al luogo in cui Adamo vive: di lui, e di Eva, si ricordano la felicitas, il mantello di luce che li ricopre, l’onore di cui godevano come signori di tutta la terra. Di Brazzano parafrasa duplicando “egli è cac223

ciato dall’Oriente, dai paesi dell’Aurora”, sulla scia dell’”il est chassé de l’Orient, du pays de l’Aurore” di Reydollet, che allarga l’hortus, tutt’altro che conclusus, ad un’intera e ampia regione47. Può darsi, anzi è probabile, che Venanzio, come Isidoro48 fosse convinto che hortus nominatus quod semper ibi aliquid oriatur, e che perciò dell’acca si potesse tranquillamente, o addirittura si dovesse, fare a meno; può darsi perfino che ne facesse per comodità un eteroclito49, più o meno convinto di non infrangere particolari norme grammaticali, ma non è detto che non volesse invece fare riferimento proprio all’ortus di Adamo, alla sua origine divina, ai suoi diritti di nascita, all’originale stato di grazia di cui godeva in quella lontana regione dell’oriente dove la fantasia dei poeti e del mito collocava il primo paradiso. A leggere la coppia di versi 16-17, che come si è visto costituisce un’unità sintattica, sembra anzi che solo questa possa essere la soluzione capace di dare un senso all’intera frase: col peccato originale, fra le due origini dell’uomo, quella dal fango della terra e quella soprannaturale, prevale la prima, e l’uomo torna alla terra da cui è stato tratto, ed è privato della luminosità solare dell’origine celeste. Infine, un fons che conferma la sicura conoscenza dei carmi di Optaziano da parte di Venanzio: nel carme 27, quello che ripropone la classica figura della zampogna di Pan, al quindicesimo e ultimo verso Optaziano scriveva Eoo lucis canit invitata sub ortu. È un ortus che non ha niente a che fare con quello venanziano, quale che sia l’interpretazione che di quest’ultimo si voglia dare, e anche Eous ha significati e connotazioni sostanzialmente diversi, con quell’immagine del sole che spunta ad oriente accompagnato dalla musica, ma la collocazione finale del sostantivo e la coincidenza dell’attributo sono significative e confermano il ruolo di modello che il libro di Optaziano, compresi i calligrammi50, ebbe per Venanzio. Gli altri due luoghi incriminati da Leo sono al v. 26 e al v. 29; dopo essersi soffermato sul mistero dell’incarnazione, Venanzio affronta la passione (vv. 24-30): a patre iure deus, homo dehinc carneus alvo, ut nos eriperet, vili se detrahit auctor. o regis venale caput, quod de cruce fixit, telo voce manu malfactus verbere felle, ac tu hac solvis captivos sorte, creator: sero vera data est vitalis emptio morte; ymnos unde deo loquor absolvente reatu.51 224

25

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Leo, in apparato al v. 2952, attribuisce l’uso di venale nel v. 26 alla necessità di mantenere il verso in un numero limitato di lettere, che avrebbe costretto il poeta ad alterare così un più opportuno veniale, e ritiene frutto delle medesime costrizioni il vitalis emptio, al posto del quale avrebbe preferito vitali exemptio. In effetti Venanzio usa veniabilis in riferimento alla croce e al perdono che essa recò all’umanità, proprio in un altro dei carmi figurati, quello incompleto del secondo libro53, e in questo del quinto poco più avanti tornano l’idea del riscatto (emptio, v. 29) e dell’assoluzione, della liberazione (absolvente, v. 30); non sarebbe perciò assurdo ipotizzare che qui il capo di Cristo, agnello di dio, venga visto come causa della misericordiosa assoluzione che restituisce gli uomini allo stato di grazia. Ma Venanzio dice venale, e quindi il significato del passo va cercato con questa parola, diversa anche per prosodia, seppur metricamente equivalente a veniale; e in fondo la parola scelta da Venanzio non è affatto fuor di luogo nella descrizione delle vicende che accompagnano la morte del Cristo, con la vendita da parte di Giuda54: ai trenta denari e alla vilitas cui fu soggetto Cristo fa riscontro l’emptio con cui egli ripagò la colpa dei primi genitori, una vitalis emptio, anche se data con la morte, che a Venanzio premeva mettere in risalto anche per ribadire la finalità che il carme si proponeva, cioè quella di pagare il prezzo necessario perché Siagrio accettasse di rimandare a casa uno schiavo in suo possesso. Non un’exemptio, dunque, termine troppo tecnico e giuridico perché potesse avere le giuste risonanze emotive e trovare spazio sia in riferimento alla passione di Cristo, sia per la liberazione del giovane prigioniero, ma piuttosto un’emptio, parola più usuale e capace di caricarsi metaforicamente rivitalizzando letterariamente quotidiane esperienze individuali; e non c’è bisogno dell’ossimoro vitali morte per dare un tono retorico alto al passo, che è anzi già così uno dei più efficaci del carme, con l’accumulatio del v. 27 e con la rapidità con cui viene ripercorsa la scena della crocifissione. Il testo dunque, in tutti e tre questi casi, non sembra condizionato da rimaneggiamenti causati dalla tecnica, ma piuttosto prodotto dalla libera scelta dell’autore, per quanto libera possa essere la scrittura di chi comunque si sottopone a regole e legami sempre presenti nelle composizioni in versi. E lo stesso vale forse anche per il luogo in cui più chiaro è l’affanno del poeta, il verso 19. Qui si ripropone l’identico problema che al v. 17 aveva indotto Leo a ritenere che l’intreccio fosse risultato troppo complesso per le capacità del225

l’autore, perché i due versi che scorrono nelle diagonali sono al punto di maggiore vicinanza al mesostico55 e quindi ben tre lettere una subito dopo l’altra sono costrette al rispetto delle esigenze dei versus intexti. Senza possibilità di alternative, l’esametro è at deus excellens aie et de lumine lumen, e l’aie, comunque vada interpretato56, è un pesante tributo pagato alla tecnica; già nel 1926, però, il Weyman57 ha dato la soluzione che risulta finora più convincente, spiegando che dal calco latino aius per ®gioj (l’acca cade anche nel successivo ymnos, e non vale la pena di interrogarsi troppo sulle motivazioni o sugli esiti prosodici della caduta del gamma) deriva questo avverbio dalla precaria fortuna, ma capace di dare un senso e una credibilità linguistica perfino a questo non felicissimo verso.

Note

(1) Nella Prammatica sanzione (la Novella pro petitione Vigili, app. VII 22 Schoell) si stabilisce la conferma dei finanziamenti deliberati da Teoderico a favore delle scuole di Roma; altra questione è se le disposizioni di Giustiniano furono rispettate, nella drammatica situazione che di lì a poco si sarebbe creata con l’invasione longobarda: cf. P. Riché, Educazione e cultura nell’occidente barbarico dal VI all’VIII secolo, tr. it., Roma 1966. (2) Arator ad Parth.; Cassiod. var. VIII 12. (3) Capitula adv. Hincm. Laudun. LV 43; sulla disputa fra i due Incmari e sul sinodo di Attigny (870) ancora preziose sono le pagine di M. Manitius, Geschichte der lateinische Literatur des Mittelalters, I, München 1911, p. 352 e passim. (4) Hic iacet Hincmarus cleptes vehementer avarus: / hoc solum gessit nobile, quod periit. Sulla ripresa ausoniana individuata da G. Bernt e sui motivi per cui non ci sono prove attendibili che destinatario del testo sia uno dei due più noti Incmari, v. F. Brunhölzl, Histoire de la littérature latine du moyen âge, tr. fr., I 2, Louvain-la-Neuve 1991, p. 228 e nota 182. (5) Cronologicamente più vicina a Venanzio è la testimonianza di Beda, che nel de rythmo del suo de arte metrica (GL Keil VII 258) ricorda i carmi figurati di Optaziano per le loro caratteristiche metriche, ma dichiara di non volerli trattare nel dettaglio per il loro carattere non cristiano: eppure quel povero poeta aveva fatto di tutto per compiacere Costantino, collocando perfino il monogramma del Cristo in molte delle sue figure. (6) Hor. ars 9-10; cf. I. Closa Farrés, Horacio, Fortunato y Alexandro de Ville-Dieu, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 259-266 (p. 262).

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(7) Ven. Fort. carm. V 6, 12 his incertus et trepidus, ipsa novitate suspensus utrumne temptarem quae numquam adgressus sim, an cautius respuerem quam incaute proferrem, tamen, licet invitus, loquor paene quod nescio. Le citazioni seguono il testo della recentissima e preziosa edizione di S. Di Brazzano, Aquileia 2001 (Corpus scriptorum ecclesiae Aquileiensis VIII/1), con qualche piccolo intervento sulla punteggiatura o nell’uso delle maiuscole. (8) Nulla sembra confortare l’ipotesi, ancora in circolazione, che a Siagrio si chieda di riscattare per conto terzi uno schiavo altrui, che nasce dall’eccesso di scrupoli di chi temeva di offendere Siagrio, e forse con lui tutti i vescovi, attribuendogli la proprietà di schiavi; giustamente Di Brazzano, nonostante quanto ipotizzato alla nota 47 di p. 304, traduce il secondo versus intextus (captivos laxans domini meditatio fies) con “lasciando liberi i prigionieri”. Allo stesso modo è inutile pruderie cercare cavilli casuistici per escludere che Venanzio mentisse sapendo di mentire nell’attribuire a se stesso l’invenzione del carme optazianeo. (9) Ven. Fort. carm. II 5, Opt. Porf. carm. 18; la figura, con la semplificazione introdotta da Venanzio, ritorna nei versus de sancta cruce ad Carolum di Alcuino, nel carme figurato di Teodulfo e in un carme incompleto del monastero di San Gallo (cf. L. Caruso - G. Polara, Iuvenilia loeti, Roma 1969, Livorno 19932); per le deduzioni che si possono trarre da questa fortuna della figura venanziana a proposito della diffusione dei suoi carmi figurati si veda quanto si dirà più avanti. (10) M. Graver, “Quaelibet audendi”: Fortunatus and the Acrostic, «Transactions of the American Philological Association» 123 (1993), pp. 219245. L’articolo è però quasi tutto dedicato ad illustrare la lettera a Siagrio, definito “unknown” anche perché si ignorano le lettere di papa Gregorio a lui dirette, o nelle quali si parla di lui; anche la situazione che dà origine alla lettera e al carme non è pienamente intesa: la Graver è fra quanti pensano che a Siagrio non si chieda lo schiavo, ma i soldi necessari per riscattarlo. (11) Ven. Fort. carm. II 4; 5. (12) M. Reydellet, Tradition et nouveauté dans les carmina de Fortunat, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 81-98 (p. 84). (13) Opt. Porf. carm. 31; cf. il commento nel vol. II dell’edizione paraviana, Torino 1973, pp. 168-169. (14) Carm. 2; 3; 18. (15) Carm. 8; 14; 19. Forti dubbi ci sono sull’autenticità optazianea del carm. 24, anch’esso con il monogramma del Cristo: cf. Publilii Optatiani Porfyrii Carmina, Augustae Taurinorum 1973, I pp. XXX-XXXI; II 153-157. (16) Carm. 5; 7; 18; 19. (17) Ven. Fort. carm. app. 2. (18) MGH poetae IV 3, pp. 114-116. (19) Prol. 67-69 Perrin (CCh cm C). (20) Così è, ad esempio, per il carme 6, de quatuor virtutibus principalibus, il 18, de mysterio quadragenarii numeri, il 23, de numero vicenario et quaternario, mentre il carme 8, de mensibus duodecim ricorda piuttosto il carme 3 di Optaziano. (21) Cf. sopra nota 9. (22) Cf. Albarus Cordubensis, Vita sancti Eulogii archiepiscopi Toletani et martyris 3. (23) Fra Venanzio e i carolini occupa una posizione importante Beda, che conosceva sia Optaziano sia Venanzio; per la diffusione dei carmi figurati in Inghilterra va tenuta presente anche la testimonianza di Milret di Worcester (MGH ep. I 122, p. 245, ll. 3-4). (24) Ven. Fort. carm. V 6, par. 8. (25) Ven. Fort. carm. V 6, par. 10. (26) Ven. Fort. carm. V 6, parr. 10-11. (27) MGH poetae V 1, p. 528. (28) MGH scr. rer. Mer. III, p. 695. (29) Chron. III 83, MGH scr. rer. Mer. II, p. 117. (30) Greg. M. epist. 9, 224. (31) Greg. M. epist. 9, 219.

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(32) Greg. M. epist. 9, 220. (33) Greg. M. epist. 9, 225. (34) Greg. M. epist. 6, 55. (35) Hier. epist. 54, 15, 1. (36) Greg. M. epist. 9, 215. (37) Greg. M. epist. 9, 223. (38) Per quanta fantasia si voglia mettere in campo, è praticamente impossibile riconoscere nell’incrocio di mesostico e diagonali all’interno di una cornice formata dal primo e dall’ultimo verso, dall’acrostico e dal telestico “la facciata di una chiesa” o “la finestra di una prigione”, come vorrebbe la Graver (e come erano le prigioni di Siagrio? e, più ancora, come erano le loro finestre?). (39) Ven. Fort. carm. V 6, par. 17. (40) Ven. Fort. carm. V 6, par. 8. (41) Cf. Publilii Optatiani Porfyrii Carmina, cit., I pp. XXIX-XXXI; II pp. 140141; 153-157. Rabano Mauro (in honorem sanctae crucis, prol. 65-69 Perrin) si riferisce evidentemente a questi due carmi, da lui ritenuti autentici, quando dice di non essersi permesso abbreviazioni se non quelle già attestate da Optaziano, e cioè per la congiunzione que e per la finale bus di dativi e ablativi plurali. (42) Ven. Fort. Opera poetica, recensuit et emendavit F. Leo, Berolini 1881, MGH aa IV 1, p. XXV: “in artificiosis carminum quadratorum ineptiis sine dubio admisit talia: ortus ymnus paradyssus Cristus, impeditus scilicet difficultatibus quibus superandis quantopere desudaverit ipse verbose exponit (V, 6) quibusque coactus plane insana sibi indulsit (cf. ad V, 6 carm. 17)”. Questa convinzione consente all’editore di normalizzare la grafia dei manoscritti, attribuendo gli “errori” ai copisti, nonostante la sicura presenza di forme innovative appunto in quei componimenti che, come i carmi figurati, possono dare sicure notizie sulle scelte grafiche dell’autore proprio per la loro stessa tecnica compositiva. (43) Anthologia Latina I 1, edidit D.R. Shackleton Bailey, Stutgardiae 1982, p. III: “Centones Vergiliani (Riese 7-18), opprobria litterarum, neque ope critica multum indigent neque is sum qui vati reverendo denuo hanc edendo contumeliam imponere sustineam”. (44) S. Blomgren, In Venantii Fortunati carmina adnotationes, «Eranos» (1946), pp. 107-109. (45) Il carme è stampato come figura nell’edizione, ma è poi riportato con la suddivisione delle parole nelle note alle pp. 171-172. (46) Ed. cit. p. 423. (47) Da Blomgren dipendono, per la difesa di ortu, sia Reydollet sia, ovviamente, Di Brazzano; Blomgren considera il sostantivo un’inutile ripetizione del concetto di “sorgere” già presente in Eoo; di qui la duplicazione nelle traduzioni. (48) Isid. orig. 17, 1, 1. (49) La paretimologia, secondo Carisio, risale a Varrone; l’ablativo in -u sarebbe invece solo di Venanzio: cf. ThlL VI 2, 3015, 32; 35-40. (50) La cosa non è senza rilevanza ai fini di una possibile ricostruzione del testo di Optaziano di cui disponeva Venanzio: il c. 27 compare solo in un ramo della tradizione, plenior rispetto a quello più documentato dai testimoni di età carolina; se l’integrazione del Bernense 212 e del ramo a cui fanno capo il Parigino 7806 e l’Augustaneus 9 Guelferbytanus avessero a che fare con il codice di Venanzio (e con Beda?) si potrebbe avere un po’ più di luce sui percorsi delle due sillogi del testo di Optaziano. Cose fondamentali, in questo senso, ha del resto già detto D. Schaller, Die karolingischen Figurengedichte des Cod. Bern. 212, in “Medium aevum vivum”. Festschrift W. Bulst, Heidelberg 1960, pp. 22-47. (51) Così stampano Leo, Reydollet, Di Brazzano, ma non escluderei che al v. 28 non si debba leggere ac tu, perché mi sembra che actu sia richiesto dall’andamento della frase, fortemente scompensato da quella congiunzione che coordinerebbe il v. 28 alla parte precedente, la quale invece ha bisogno di far parte della stessa proposizione per giustificare in maniera più chiara il

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maschile malfactus (sc. tu – sottinteso! – soggetto di solvis, a cui fa riferimento il secondo vocativo, il maschile creator); per l’uso di actus in relazione all’impresa salvifica del Cristo cf. Cypr. Gall. iud. 1. (52) “Ut v. 26 veniale, hic scribendum fuerat vitali exemptio”. (53) Ven. Fort. carm. II 5, 1 extorquet hoc sorte dei veniabile signum. (54) Giustamente Di Brazzano traduce “o capo del re messo in vendita”. (55) Nel v. 18 non sono vicini, ma sovrapposti, e questo da un lato comporta la necessità di individuare una lettera che vada bene per tutti e tre, oltre che per il verso orizzontale (e Venanzio si sofferma a lungo su questo nella lettera a Siagrio, ai paragrafi 9 e 15), dall’altro però non provoca una serie di tre lettere consecutive bloccate nel testo del carme. (56) Prima di Weyman (cf. infra nota 57) l’unica ipotesi meritevole di essere presa in considerazione era quella di Mommsen, citata in apparato da Leo, che dietro aie si dovesse leggere il greco ¶eà: la trascrizione dell’avverbio non sarebbe delle più “regolari”, ma già Optaziano si permette qualche libertà nell’uso delle parole greche (cf. 19, 14); sembra purtroppo improbabile un ãîe =aie, non tanto per il mancato computo delle nasali nel rigo (pro m littera alicubi virgulam super antecedentem sibi vocalem notavi, Rab. in hon. s. c., prol. 67-69 Perrin), quanto per il complessivo significato del passo, per i rapporti sintattici fra le parole (et dovrebbe essere in iperbato) e soprattutto per la sostituzione del dittongo con la semplice e. (57) C. Weyman, Beiträge zur Geschichte der christilich-lateinischen Poesie, München 1926, p. 166.

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FRANCA ELA CONSOLINO Università degli studi dell’Aquila

Venanzio poeta ai suoi lettori Sul soggiorno di Venanzio Fortunato nella Gallia dei merovingi e sui suoi rapporti con re, dignitari e vescovi abbiamo solo la testimonianza dei suoi scritti (perfino Gregorio di Tours, suo destinatario privilegiato, lo menziona solo una volta e solo per meriti letterari)1: una testimonianza – come ci ha ricordato Cristina La Rocca – unilaterale e non sempre soddisfacente, che non ci informa né sulle ragioni di quell’episodio fondamentale della sua vita che fu il viaggio in Francia2, né sul perché decise di stabilirvisi, né sulla sua carriera ecclesiastica (non sappiamo neppure in che anno divenne vescovo di Poitiers). Preciso perciò subito che in questo mio intervento non prenderò in esame le notizie strettamente biografiche disseminate nei carmi di Venanzio – peraltro già sfruttate al meglio in egregie ricostruzioni della sua carriera e dei milieu in cui questa si svolse3 – e analizzerò invece il modo in cui egli presenta la propria attività di poeta e la ‘situa’ nel contesto della società merovingia: le ragioni per cui egli dice di scrivere, i giudizi da lui espressi sulla propria poesia, le sue eventuali aspettative a questa collegate. Quanto al pubblico cui Venanzio si rivolge, credo si possa tranquillamente affermare che già al momento in cui scriveva – ben prima di mettere insieme le due raccolte di carmi da lui composti nelle e per le più svariate circostanze4 – oltre che agli effettivi e identificati dedicatari e/o committenti egli pensasse ad un più largo raggio di potenziali lettori. Un testo non pubblicato dall’autore come carm. XI, 6, in cui – a sgombrare il campo da malevole insinuazioni – il poeta ribadisce alla badessa Agnese di amarla di amore casto e fraterno, ha senso solo se scritto per varcare le mura del convento ed essere letto da persone esterne alla comunità monastica della Sainte-Croix. Né va sottovalutato che la gran parte dei suoi carmi non recitati in pubblico – avendo per committenti e/o dedicatari uomini di Chiesa ed esponenti dell’aristocrazia galloromana e franca – dovette comunque circolare fra costoro5. È poi scontato che egli pre231

vedesse un’ampia circolazione della sua opera poetica più impegnativa, la vita sancti Martini, che già nasce con due destinazioni dichiarate: il monastero di Radegonda a Poitiers, come mostra la dedica in distici a lei e ad Agnese, e la diocesi di Tours, come è provato dall’epistola in prosa con cui Venanzio accompagna l’invio del testo all’amico vescovo Gregorio6, il quale – impegnato com’era ad accrescere la fama di Martino e il prestigio della propria sede – non avrebbe mancato di promuovere la diffusione del poema. Gelegenheitsdichter, secondo la fortunata definizione di Wilhelm Meyer,7 Fortunato mise a frutto la propria musa per persone e circostanze diverse, come è testimoniato dalla eterogeneità dei suoi ‘pezzi’: brevi biglietti o più estese epistole di saluto ad amici lontani, commendaticiae, epigrammi, epitafi, carmi consolatori, un epitalamio, un poemetto de virginitate, elegie, inni, encomi sacri e profani (ma un carattere più o meno spiccatamente encomiastico può riconoscersi alla maggior parte dei suoi componimenti). All’interno di questa variegata produzione, c’è un certo numero di passi in cui Venanzio si esprime sul valore e le motivazioni del suo comporre, spesso attingendo a loci communes previsti dalla precettistica dei retori. In questa sede mi propongo un riesame sistematico di questi passi, teso a mostrare come egli si serva dell’armamentario messo a sua disposizione dalla retorica scolastica, quali temi privilegi, quali trascuri, se apporti novità e quali, come e quanto nelle sue autorappresentazioni di poeta egli attui «un compromis entre les exigences de la tradition littéraire qu’il s’efforce de continuer et la nécessité d’exprimer une réalité qui n’est plus celle des élégiaques latins ou même des poètes de l’Empire chrétien»8. Ne risulterà – mi auguro – anche una miglior messa a fuoco del tipo di legame che Venanzio, «ultimo poeta romano» o «più antico poeta medievale di Francia»9, intrattiene con la tradizione letteraria di Roma.

1. Il poeta al cospetto dei re: i panegirici di Sigeberto e Chilperico

La prima volta in cui Venanzio parla di se stesso poeta è nel carme in lode di Sigeberto e Brunilde (Carm. VI, 1a), che – insieme con l’epitalamio loro dedicato (Carm. VI, 1) – dovrebbe aver segnato nel 566 il suo debutto poetico nella Gallia merovingia. È un breve accenno ai limiti del suo ingenium e si trova in apertura (vv. 1-6)10: 232

Victor ab occasu quem laus extendit in ortum et facit egregium principis esse caput, quis tibi digna ferat? Nam me vel dicere pauca non trahit ingenium, sed tuus urguet amor. Si nunc Vergilius, si forsitan esset Homerus, nomine de vestro iam legeretur opus. Questi versi combinano ben quattro temi panegiristici: la gloria del principe che si estende fino ai confini del mondo; la conseguente impossibilità di cantarne degnamente le lodi11; la menzione, anch’essa di prammatica, dei due massimi poeti epici di Roma e della Grecia12 per affermare che – se uno di loro fosse in vita – forse circolerebbe già un poema intitolato al re; il dubbio insinuato da forsitan sulla loro capacità di affrontare un tema così impegnativo13: affermazioni, queste, che rispondono ai dettami retorici sul panegirico in generale e sul basiliκÿj l’goj in particolare14. Dall’elogio imperiale deriva anche il tema della victoria15, ma l’appellativo di victor, su cui si apre il carme, acquista qui un’ulteriore determinazione attraverso l’interpretatio del nome di Sigeberto: un’interpretatio la cui veridicità trova conferma nel prosieguo del carme, dove si evoca la recente vittoria del re su Sassoni e Turingi16. Ma la vera novità di questo encomio sta nel particolare movente – l’amor per il destinatario – addotto da Venanzio a ragione del canto. Infatti, benché il deprezzamento dell’ ingenium sia topico nelle professioni di modestia17, l’amor per il dedicatario non è invocato a motivare la composizione di nessun panegirico tardoimperiale – in prosa o in versi – destinato a un sovrano18. L’espressione urget amor, nella stessa sede metrica di Venanzio, che da lui la riprende, si trova invece nella prefazione di Claudiano al panegirico per il consolato di Mallio Teodoro19. Dopo aver avvertito la sua Musa che sta esponendosi al giudizio dell’universo intero mettendo a rischio l’alta fama finora conquistata, Claudiano esclama che ad incalzarlo è il suo soverchio affetto per il console: ah nimius consulis urget amor!20. Ma è evidente che – pur nell’identità di dettato – l’amor di Claudiano per un uomo di non nobile origine e di notevole cultura come Mallio Teodoro (autore di un de metris, esponente di spicco del neoplatonismo cristiano, e già dedicatario del de beata vita di Agostino) presuppone l’esistenza fra i due di un rapporto molto più paritario di quello implicito nel deferente amor del poeta di Ravenna per il re d’Austrasia. Un amor che – nella sua indeterminatezza – consente all’italiano Venanzio, il quale non è 233

suddito di Sigeberto e non ha alcun ruolo ufficiale alla corte di Metz, di accreditarsi come poeta sottraendosi all’imbarazzo di specificare a che titolo stia parlando. Dal confronto con Claudiano emergono anche altre differenze. Mentre il poeta di Alessandria si mostra consapevole del proprio valore e preoccupato di non deludere la sua qualificata audience, Venanzio non prende in considerazione il pubblico presente alla recita e deprezza il proprio ingenium nel contesto di una captatio benevolentiae rivolta esclusivamente alla coppia regale. Inoltre, mentre Claudiano (come il suo imitatore ed epigono Sidonio Apollinare) compone in esametri i panegirici e in distici elegiaci le loro prefazioni, che rappresentano il luogo in cui di preferenza egli riflette sulla sua poesia21, Venanzio ha abolito la prefazione, e il tema trattato da Claudiano nella prefazione al panegirico di Mallio Teodoro lo ha svolto all’inizio dell’elogio, che è però scritto in distici elegiaci, come le prefazioni claudianee. A spiegare la scelta di questo metro non credo basti la predilezione di Venanzio per il distico elegiaco, dal momento che essa non gli aveva impedito di comporre in esametri (preceduti da alcuni distici introduttivi) il contemporaneo e molto più tradizionale epitalamio per Sigeberto e Brunilde, né gli impedirà di usare l’esametro per l’epos sulla vita di Martino, cui, conformandosi all’uso di Claudiano, premetterà un prologo in distici elegiaci22. Se poi si considera che Venanzio, fresco arrivato in Gallia, aveva tutto l’interesse di guadagnarsi l’apprezzamento e la simpatia di alcuni dignitari d’Austrasia orgogliosi del loro alto livello culturale23, l’impiego del distico elegiaco in luogo dell’usuale esametro nel primo degli elogi regali da lui pronunciati24 non può essere privo di significato (diverso è il caso degli encomi successivi, cui questo farà da precedente). Con la scelta del metro Venanzio, che non era poeta di corte né panegirista ufficiale, avrà inteso sottolineare la sua presa di distanza dai canoni del panegirico claudianeo, cui si era attenuto Sidonio Apollinare25. Una presa di distanza evidente anche nell’organizzazione del carme, che rinuncia al decoro mitologico e non rispetta in pieno gli schemi del basiliκÿj l’goj26. L’abilità con cui Venanzio ricorre a luoghi comuni per dare un preciso senso alla sua pubblica performance risulta ancor più evidente nel panegirico di Chilperico (Carm. IX, 1), da lui recitato nel 580 al concilio di Berny-Rivière. Il concilio era stato convocato dal re, che vi sedeva in veste di giudice, per accertare l’eventuale colpevolezza di Gregorio 234

di Tours, imputato di aver attribuito alla regina Fredegonda una relazione adultera con il vescovo Bertrando di Bordeaux. Questo scontro, probabilmente il più grave fra quelli che opposero Gregorio e Chilperico, implicava pesanti rischi da entrambe le parti: se si fosse dimostrata l’inconsistenza delle accuse di Gregorio, questi sarebbe risultato colpevole di calunnia; se viceversa se ne fosse provata la fondatezza, la regina sarebbe risultata colpevole di adulterio. Sostenuto da una parte dei vescovi presenti, mentre la folla tumultuava a sua difesa fuori dal palazzo27, Gregorio si era discolpato di fronte al re nell’unico modo possibile, giurando – nel contesto di una solenne cerimonia liturgica – di non aver mai fatto su Fredegonda le gravi affermazioni attribuitegli. Non sappiamo se Fortunato recitò il suo panegirico prima del giudizio, o (come ritengo più probabile) a chiusura dell’incidente diplomatico creatosi fra il re e quella parte dei vescovi che sosteneva Gregorio28. Siamo invece certi che Venanzio parlò anche a nome dei vescovi presenti, perchè a loro è rivolta la Anrede che apre il carme (v. 1 ss.): ordo sacerdotum venerandaque culmina Christi, quos dedit alma fides religione patres, parvolus opto loqui regis praeconia celsi: sublevet exigui carmina vester amor. La dichiarazione di voler cantare le lodi del re è accompagnata dalla rituale professione di modestia, qui giocata sull’opposizione fra la piccolezza del poeta e la grandezza del sovrano (parvolus, exigui vs. celsi regis). Venanzio non è il primo a porre in atto una captatio benevolentiae che faccia leva sull’amor del qualificato uditorio per il personaggio lodato: basterebbe ricordare il precedente di Claudiano, che in Get., Praef. 17 s. fra le sue ragioni di fiducia nell’indulgenza del senato di Roma menziona l’amore che esso porta a Stilicone (nam mihi conciliat gratas inpensius aures/ vel meritum belli vel Stilichonis amor). Fortunato introduce però un elemento nuovo, che non mi risulta abbia paralleli nella tradizione letteraria latina: in questa captatio benevolentiae, l’amor dei vescovi per il re non viene invocato per guadagnare al poeta la loro indulgenza, ma per supplire alle deficienze del suo carme29, alla stessa maniera in cui l’amor dello stesso Venanzio era invocato a giustificare la sua temerarietà nella captatio benevolentiae dell’elogio di Sigeberto30. L’esortazione (o il desiderio?: il 235

congiuntivo sublevet autorizza anche questa interpretazione) introdotta da sublevet viene così a coinvolgere direttamente i patres nel gesto di omaggio del poeta al sovrano, e suggerisce a Chilperico, il quale non era digiuno di studi letterari31, che essi ne sono stati i committenti. Solo a conclusione del suo elogio, dopo aver dato di qualità e azioni di Chilperico la versione più conveniente al re32, Venanzio parla esclusivamente a nome proprio contrapponendo – come già i poeti elegiaci – l’omaggio delle sue parole ai ricchi doni di altri (vv. 147-148 regibus aurum alii aut gemmarum munera solvant:/ de Fortunato paupere verba cape). Venanzio recupera così alla poesia epidittica un tema proprio dell’elegia, da cui prende però le distanze in quanto – diversamente dagli elegiaci – egli non accenna all’immortalità garantita dai suoi versi.

2. La funzione testimoniale del poeta

L’opposizione fra ingenium e amor ricorre anche in un altro carme composto durante il soggiorno alla corte di Austrasia, e destinato al vescovo Igidio di Reims33. L’amor costringe Venanzio a cantarne le lodi, perché non farlo sarebbe da parte sua una colpevole omissione (Carm. III, 15, 1 ss.): Actibus egregiis venerabile culmen, Igidi, ex cuius meritis crevit honore gradus, subtrahor ingenio, compellor amore parato laudibus in vestris prodere pauca favens. Namque reus videor tantis existere causis, si solus taceam quicquid ubique sonat. Le lodi che non abbracciano tutti i meriti del personaggio elogiato (v. 4 laudibus in vestris prodere pauca), e l’amor che ‘costringe’ il poeta, pur consapevole dei propri limiti, a vincere ogni resistenza (v. 3 subtrahor ingenio, compellor amore parato) sono temi che il carme a Igidio condivide con il contemporaneo encomio di Sigeberto34. La necessità – qui espressa riecheggiando un passo claudianeo35 – di evitare la colpa del silenzio è invece riconducibile ad un altro motivo encomiastico caro a Venanzio: l’intenzione di non volersi lui solo sottrarre ad un generale coro di elogi. Tale intenzione è dichiarata anche in un carme rivolto all’influente duca Crodino36, e la si ritrova in uno dei carmi 236

che il poeta – alla ricerca di un patrono sul suolo di Francia – dedicò all’esaltazione del potente e ambizioso vescovo Leonzio II di Bordeaux. Fortunato afferma di aver voluto introdurre una deviazione nel suo itinerario per offrire a Leonzio un piccolo omaggio poetico (pauca ferens carmine)37, e si impegna, preso dall’affetto per lui, a non passare mai sotto silenzio ciò che è degno di ricordo (v. 3 captus amore tui numquam memoranda tacebo)38. Insistendo sulla funzione testimoniale dei propri versi, il poeta si mostra consapevole – e lo ricorda ai suoi dedicatari, non importa se laici (come Crodino) o ecclesiastici (come Igidio e Leonzio) – che la sua voce (così come un suo eventuale silenzio) non passa inosservata. Consapevolezza espressa in termini paradossali in un carme di quegli stessi anni a Gogone, consigliere di re Sigeberto. Fortunato dice che – se anche egli ne tacesse i meriti – Gogone non dovrebbe badare alle parole, poiché possiede il cuore del poeta, e saprebbe che questi lo loda anche quando mantiene il silenzio39, ma il silenzio è un’eventualità contemplata solo in linea teorica, perché Venanzio indirizza a Gogone un poemetto di lodi in cui sostiene di esprimere ciò che il popolo stesso può testimoniare40. Alla testimonianza del popolo Venanzio fa appello anche in alcuni carmi a carattere ufficiale, recitati al cospetto di vescovi e/o di re: a questo appello si limita il suo intervento in prima persona nel panegirico di re Cariberto.41 Come portavoce della comunità egli si presenta invece quando recita l’encomio del vescovo Felice di Nantes in occasione di una solennità liturgica: la gioia del luminoso giorno di festa lo ‘costringe’ a dar voce egli solo con affetto (amor) a quei sentimenti che il popolo dei fedeli potrebbe esprimere42. Dopo la morte di Chilperico (584) e a seguito del trattato di Andelot (587), le città di Tours (sede del vescovo Gregorio) e Poitiers (residenza di Fortunato) erano tornate sotto il dominio dei sovrani d’Austrasia Childeberto II e la regina madre Brunilde. Il breve encomio loro rivolto – il suo ultimo in ordine cronologico fra quelli dei re – è quello in cui con più forza Venanzio sostiene di esprimere un generale sentire: il topos dell’Unsagbarkheit è riferito alla difficoltà di dare degna espressione all’amor del popolo43, il quale ripone fiducia e speranza nei domini, di cui va orgoglioso. Ai voti del popolo il poeta unisce i suoi, auspicando di meritarsi un ritorno a corte per portarvi di nuovo il proprio deferente saluto44.

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3. Iussa dei committenti e obsequium del poeta Si facundiae deest meritum, gratia subveniat obsequendi45. Queste parole, con cui Ennodio accompagnava il celere invio di un epitafio a lui richiesto, sono un luogo comune nelle dediche fra tarda antichità e medioevo, che spesso traggono partito dagli ‘ordini’ dei committenti per renderli corresponsabili dell’opera e dei suoi eventuali difetti46. A questa responsabilità dei committenti Venanzio fa appello in Carm. II, 9, un elogio del clero parigino la cui stesura risale all’inverno 566-567. Nei primi versi il poeta si scusa per la dubbia qualità del suo canto, composto per corrispondere al desiderio dei venerati patres della Chiesa di Parigi, che gli hanno fatto riprendere l’attività poetica da tempo dismessa (vv. 1-8):

Coetus honorifici decus et gradus ordinis ampli, quos colo corde fide religione patres, iam dudum obliti desueto carmine plectri cogitis antiquam me renovare lyram. En stupidis digitis stimulatis tangere cordas, cum mihi non solito currat in arte manus. Scabrida nunc resonat mea lingua rubigine verba exit et incompto raucus ab ore fragor. I termini scabridus, incomptum os, rubigo, con cui Venanzio definisce i difetti derivanti alla sua poesia dall’assenza di esercizio, appartengono alla terminologia retorica tardoantica47, per cui già il loro uso viene a mostrare la competenza del poeta, confermata da cogitis antiquam me renovare lyram, verso che allude ad un più glorioso passato48 (che la decadenza riguardi solo l’oggi è ribadito dal nunc di v. 7). Pur consapevole che non si può rifare la lama a un ferro arrugginito e che la fuliggine toglie splendore al bronzo49, il poeta decide di obbedire (obsequor) alla affettuosa cortesia (dulcedo) della loro insistenza, condotto artis ad officium dall’amor dei suoi committenti50. Dalla lira con cui aveva cantato il clero parigino, alla zampogna, con cui Venanzio intona un canto – a suo dire stridulo e rozzo – per ubbidire al vescovo Avito di Clermont51: Paruimus iussis, sacer ac venerande sacerdos et pater, imperiis, dulcis Avite, tuis, garrulitate levi potius stridente cicuta quam placeat liquido nostra camena melo. 238

Sed tamen ut veniam tribuas, pietatis amator, intende obsequium nec trutinato sophum. Munere pro magno modicus haec parvula solvo: pensetur votis est cui lingua rudis. Posteriore al 571, data di ascesa di Avito al soglio episcopale, questo breve carme fa da prefazione al successivo (III, 22a), che contiene le lodi del vescovo. L’attacco del carme evoca il ricordo degli haud mollia iussa di Mecenate, ma – diversamente da quello – con i suoi iussa, ribaditi dagli imperia del verso seguente, Avito non spinge in mare aperto il poeta, il cui tributo, troppo imperfetto per piacere, non va giudicato in base ai meriti, ma per le intenzioni. Anche in questo caso, la attenta scelta della terminologia mostra Venanzio in possesso di quella abilità che vorrebbe negare. Liquido melo è un nesso raro52, la garrulitas – una caratteristica negativa che spesso, nell’ambito di professioni di modestia, indica la vacua loquacità di chi scrive53 – qui, contrapposta a liquido melo, sembra riferirsi alla sgradevolezza del suono54; l’aggettivo levis che la accompagna è contemporaneamente una forma di understatement e un’indicazione di poesia non alta55. Al poco elevato livello del carme potrebbe riferirsi anche il termine cicuta56, che in nesso con stridente (un nesso che non sembra attestato altrove) ribadisce la scarsa armoniosità del canto57. Il motivo del canto come omaggio sincero, ma inadeguato per la sua disarmonia, ha un precedente in Sidonio Apollinare, il quale nella prefazione al panegirico di Antemio aveva messo a contrasto con la lira di Apollo la rauca zampogna pastorale (fistula rauca) dei cicuticines Panes58 che avevano celebrato la vittoria di Giove sui giganti, riuscendogli graditi per le intenzioni nonostante la dubbia qualità del canto. Il poeta aveva paragonato la sua umile offerta (v. 24: parvula tura) alla loro e a quella di Chirone59, il centauro al cui sgraziato canto per le nozze di Peleo e Teti egli implicitamente paragona la pauperies del suo in un altro carme destinato alla pubblica recita: la prefazione all’epitalamio di Polemio e Araneola60. Questo tema, con cui Sidonio aveva introdotto composizioni di tono solenne e destinate alla pubblica recitazione, Venanzio lo riconduce alla sfera del privato sia qui, sia nella prefazione ad un carme celebrativo sì (vi compare anche l’Unsagbarkeitstopos61), ma breve e a carattere non ufficiale. Sempre in contesto privato, il poeta tornerà sulla paupertas della sua offerta poetica molti anni dopo in un biglietto di raccomandazione smaccatamente 239

elogiativo indirizzato a re Childeberto, e tutto costruito su giochi di parole, che smentiscono le affermazioni autodenigratorie del poeta62. Se il riferimento agli imperia del committente è un luogo comune nella poesia di Venanzio, le notizie che egli talvolta fornisce sulle circostanze della composizione offrono al lettore elementi più specifici di valutazione. Lo si vede molto bene nel caso di due imperia – l’uno più lieve e gradevole, l’altro decisamente impegnativo – che entrambi Venanzio riceve da Gregorio di Tours. Il primo ‘ordine’ riguarda la composizione di versi da incidere nella cellula di S. Martino63: una domanda che il poeta, amico di Gregorio e devoto del santo, si dice ben lieto di soddisfare64. La necessità di ovviare ad una situazione particolarmente difficile detta invece la pressante richiesta di un carme che – sulla falsariga delle notizie fornite da Gregorio stesso – celebri la forzosa conversione dei giudei d’Auvergne operata nel 576 dal vescovo Avito di Clermont55. Secondo la convincente ricostruzione di Brennan, questo carme – quasi certamente destinato alla recitazione – doveva fornire la versione ‘giusta’ degli avvenimenti, appianando le tensioni create in città dall’intransigenza di Avito, e contribuendo a creare consenso intorno all’azione del poco duttile vescovo66. Dall’epistola in prosa che accompagna il poemetto (Carm. V, 5a) apprendiamo che Venanzio, incalzato dal messo di Gregorio, ebbe a disposizione pochissimo di tempo: l’affermazione di avere scritto in fretta, preoccupato di ubbidire all’amico più che di piacergli, in questo caso non è solo la ripresa di quello che è un luogo comune delle dediche. Le stesse considerazioni sono svolte nella parte conclusiva del carme dove – dopo aver confessato la sua inadeguatezza, aggravata dalla fretta con cui ha dovuto comporre – Venanzio osserva come l’opera commissionatagli rientri nella strategia di Gregorio, il quale ‘costringe’ anche gli altri ad applaudire i meriti del suo maestro Avito (Carm. V, 5b, 137-144): Haec inculta tibi reputa, pater alme Gregori, qui Fortunato non valitura iubes. Adde quod exiguum me portitor inpulit instans et datur in spatiis vix geminata dies. Novimus affectu potius quo diligis illum hinc quem corde vides semper et ore tenes. Hoc tibi nec satis est huius quod es ipse relator: conpellis reliquos plaudere voce sibi. 240

Compulsus da Gregorio all’elogio e compellens a propria volta chi ascolterà il suo carme, con esso Venanzio rende ad Avito un omaggio per cui si attende in contraccambio le preghiere congiunte di lui e di Gregorio stesso: me quoque vos humilem pariter memoretis utrique/ et pro spe veniae voce feratis opem (vv. 149-150). Ma la richiesta di preghiere, oltre che nei messaggi di saluto a uomini di chiesa viventi, Venanzio suole rivolgerle – secondo una prassi che ha un illustre precedente nelle suppliche ai martiri con cui si chiudono alcuni inni del peristephanon prudenziano67 – a personaggi in odore di santità68, e più ancora a santi di cui ha esaltato le gesta come Martino, Medardo o i martiri di Agaunum69. La richiesta di preghiere che chiude la rievocazione apologetica di (Carm. V, 5b) fa di Venanzio l’agiografo del vivente Avito, della cui santità Gregorio si è già fatto promotore.

4. La poesia come gesto di amicizia

L’amor per il destinatario è uno dei moventi che più spesso ricorrono in Venanzio a giustificazione del suo impegno in composizioni di vario genere: elogi a carattere pubblico o privato, l’invio di un saluto a un amico, l’estremo tributo di affetto ad una persona cara scomparsa70. Maestro nel praticare la «courtoisie of commendation, as well as that of friendship»71, il poeta indica in questo amor il movente che lo spinge a scrivere pur conoscendo – e dichiarando – i limiti della sua arte. Come nell’epistola poetica ad Eufronio, zio e predecessore di Gregorio sul soglio di Tours72: Quamvis pigra mihi iaceat sine fomite lingua nec valeam dignis reddere digna viris, attamen, alme pater, Christi venerande sacerdos Eufroni, cupio solvere parva tibi. Debeo multa quidem, sed suscipe pauca libenter: sit veniale precor quod tuus edit amor. Venanzio – da poco in Francia e alla ricerca di patroni (Eufronio morì nel 573: in parallelo il poeta fa i suoi omaggi a Leonzio di Bordeaux) – afferma il suo forte desiderio (cupio) di tentare un impari contraccambio per pagare il suo debito di gratitudine. Così facendo, egli mette in opera una duplice strategia: conquistarsi l’appoggio di un vescovo appartenente all’aristocrazia galloromana e mostrare a 241

quanti lo leggeranno il suo forte legame con un personaggio influente. La forza di un amor che – in questo come in altri carmi per la regina-monaca e la badessa Agnese – viene ricondotto alla sfera degli affetti familiari73, giustifica anche la composizione di un breve carme dell’Appendix (XII, 1 ss.) rivolto dal poeta a Radegonda per manifestarle devoto affetto e chiederle di pregare per lui: Dum volo carminibus notum percurrere plectrum, incipio solito pigrius ire pede, nec mihi doctiloqua consentit harundine Musa, quae desueta suum pandere nescit opus. Sed quamvis dubio trepidet mea chorda relatu, audacter solo promptus amore loquor. L’inadeguatezza che deriva da mancanza di esercizio era addotta a scusante anche nel carme sul clero di Parigi, dove si giustificava con la necessità di obbedire ad un ordine74: qui invece, con una variazione sul tema, l’omaggio è presentato come una spontanea iniziativa del poeta75. Le due monache della Sainte-Croix non sono le sole a ricevere carmi che Venanzio dice nati da uno slancio di sincera amicizia. In un contesto che dà grande valore agli affetti si colloca la dichiarazione dell’incapacità del poeta ad esprimere appieno le lodi del dux di Provenza e Austrasia Bodegiselo76: Venanzio presenta il pur insufficiente elogio del destinatario come un grato contraccambio per ciò che la consuetudine amicale di Bodegiselo gli ha dato: colloquio dulci satiasti pectus amantis:/ nam mihi devoto dant tua verba cibum (Carm. VII, 5,7 s.)77. Con l’intensità di un legame per cui l’amico possiede il cuore del poeta e ne domina i pensieri78 Venanzio motiva la scrittura di numerosi carmi a dignitari e vescovi: l’epistola, o il breve biglietto, ha lo scopo di mantenere i contatti con chi è fisicamente lontano, e alleviare il dolore dell’assenza79; talvolta, ha solo il compito di inviare un rapido saluto, insufficiente manifestazione di un affetto non esprimibile a parole80. Le proteste di affetto spesso adottano toni e linguaggio dell’elegia d’amore: come nel breve biglietto ad Ilario81 e più ancora nel carme al diacono e futuro vescovo di Parigi Ragnemodo, chiamato con il vezzeggiativo Rucco82. Pignus amicitiae è il biglietto per il diacono Giovanni83, pignus amantis sono i versiculi indirizzati al diacono Antemio, da cui Venanzio prende congedo con un carme non avendo voluto 242

svegliarlo al momento della partenza84. Carm. VII, 11 è la richiesta al patrizio e governatore di Provenza Giovino di una pagina che gli risollevi l’animo, mentre toni di più intima partecipazione assume Carm. VII, 12, «a longer verse-epistle, meditating on friendship in absence»85 a lui rivolta dopo che è caduto in disgrazia, e in cui gli chiede di rispondere ai suoi numerosi messaggi86. Anche la missiva in versi al referendario Faramodo, cui il poeta chiede di raccomandarlo ai sovrani87, assume la forma di un saluto all’amico assente, e che tarda ad inviare un suo scritto.

5. La poesia come lusus: prove di virtuosismo

Oltre che le proteste di affetto, Venanzio affida ai propri versi il compito di fissare su carta quei petits riens che scandiscono le sue giornate: la rilassatezza dei versi che seguono un lauto convito o che ne commentano la ricchezza in grato omaggio alle ospiti80; l’impegno – espresso in un biglietto di ringraziamento per l’invio di un libro – a far risuonare più forte il nome di Gregorio di Tours89; ma anche l’improvvisazione (messa in rilievo con la consueta ‘modestia’) di un carme, fatta durante un banchetto in villa s. Martini dinanzi agli esattori del fisco90. La quotidianità testimoniata dai carmi si fonda spesso sulla condivisione di gusti e interessi culturali con i destinatari91, al cui orgoglio di letterati – testimoniato da un’epistola del dignitario austrasiaco Gogone92 – Venanzio rende omaggio anche in prosa, complimentandoli per la loro bravura in lettere di stile contorto e prezioso, alla maniera di Sidonio Apollinare93. Da questi frequentatori dei classici il poeta italiano si aspetta che ne riconoscano traccia nei suoi versi. È così per un’indigestione, descritta in toni di parodia epica evocando un passo dell’Eneide94; o nell’elogio di Gogone, poeta e scrittore in proprio che Venanzio paragona ad Orfeo perché con la dolcezza del suo eloquio attira a sé gli stranieri nel suo lontano regno95; o nei dotti riferimenti del carme encomiastico rivolto al duca Lupo di Champagne, che egli loda, unendo i suoi versiculi ai carmina dei barbari96. I rapporti instaurati da Venanzio con i suoi dotti e potenti amici assumono a volte i connotati del gioco letterario. In questa dimensione rientra la blanda canzonatura dei carmi composti dal vescovo Bertrando di Bordeaux, ai cui ioci Venanzio si dice costretto a rispondere97; una richiesta di 243

‘tenzone’ poetica è il carme in versi ecoici inviato al vescovo Sindulfo98. Questa complicità fra letterati assume una peculiare configurazione in Carm. VII, 18: all’amico Flavo, che non risponde, vengono elencati gli strumenti scrittorî a sua disposizione. Tutti Flavo può usarli purché egli scriva al poeta, che gli ricorda anche alcune forme di crittografia: un consiglio per il quale non escluderei l’influenza dell’epistola poetica in cui Ausonio, nel sollecitare una risposta da Paolino di Nola, gli suggerisce una serie di espedienti (anche in quel caso c’è un forte gusto per l’elenco) con cui evitare che il suo scritto venga decifrato dalla moglie Terasia99. Praeceps amor e ideali letterari condivisi caratterizzano anche un’epistola al patrizio e governatore di Provenza Dinamio di Marsiglia100, nella quale Venanzio esibisce in pari misura competenza di poeta e sollecito affetto per l’amico. Costretto ad un forzoso silenzio dalle sue condizioni di salute, che gli impediscono di scrivere, egli afferma di posporre i suoi malanni al desiderio di salutarlo, paragona la sua ansia di incontrarlo a quella con cui Aiace Telamonio si affrettava ad abbracciare il padre (v. 43 s.), e orazianamente definisce Dinamio metà della sua anima101. Infine, dopo aver caldamente elogiato i versi inviatigli da Dinamio sotto altro nome, conclude promettendogli per il futuro un più degno carme (71 s. haec tibi nostra chelys modulatur simplice cantu,/ sed tonat archetypo barbitus inde sopho)102. Nel combinare il biotico (il salasso che gli blocca il braccio e gli impedisce di scrivere), con una forte affettività e una decisa ostentazione di cultura, Fortunato ritrae un sodalizio fra intellettuali che fanno della pratica letteraria una consuetudine di vita. Per questo tipo di sodalizio, non è prudente additare un modello letterario nel circolo di Catullo, un poeta che non sappiamo in che misura fosse conosciuto da Venanzio (ma proprio un punto del carme a Dinamio ne attesta una qualche conoscenza)103, e forse non è il caso di scomodare nemmeno Plinio il Giovane. Basterà ricordare che questo tipo di corrispondenza fra dotti ha un precedente non troppo remoto nel circolo di Sidonio Apollinare104, e che – più indietro nel tempo ma sempre in Gallia – Ausonio aveva dato prova di virtuosismo nelle sue epistole poetiche. Infine, più vicine al nostro per la disparità di condizione fra scrivente e destinatario, le due epistole in distici elegiaci inviate a Olibrio e Probino (c.m. 40 e 41) da Claudiano, un poeta ben noto a Venanzio, il quale in un carme a Gregorio di Tours riecheggia proprio un verso del biglietto a Olibrio105. 244

Se in genere Venanzio parla dei suoi carmi con una modestia non esente da civetteria, almeno in due occasioni egli dà forte rilievo alla propria abilità tecnica, attirando su di essa l’attenzione del destinatario. Il primo caso è rappresentato da un’epistola in prosa all’influente vescovo Siagrio di Autun, che Venanzio prega di intercedere in favore di un giovane prigioniero, il cui padre piangente si è presentato a lui106. Per ‘pagare’ l’interessamento del vescovo, Fortunato si lascia convincere da Orazio (Ars 9 s. pictoribus atque poetis/ quaelibet audendi semper fuit aequa potestas) a lanciarsi temerariamente nella composizione di qualcosa che è insieme pittura e poesia: un carme figurato, di cui egli si diffonde a spiegare le caratteristiche107. Le dettagliate spiegazioni tecniche a commento di un’esibizione di virtuosismo sono nuove per questo tipo di composizione108, ma non sono in assoluto una novità: basterebbe ricordare quelle da cui Ausonio fa precedere il suo cento nuptialis, e che anch’esse servono a sottolineare le difficoltà dell’impresa, facendo rilevare la bravura di chi la compie. Poiché sul carme e l’epistola che lo precede si è già soffermato Giovanni Polara, mi limiterò ad osservare come tutti i mezzi siano buoni per valorizzare agli occhi del destinatario il componimento, la cui originalità – resa assoluta dal silenzio del poeta sui suoi predecessori109 – viene ribadita da un paragone fra Venanzio e un marinaio che intraprende una rischiosa navigazione (Carm. V, 6, 13): tema, questo, spiccatamente proemiale, e caro a Fortunato, che ne fa il Leitmotiv della Vita Martini110. E se la citazione dell’Ars poetica mette il carme sotto l’egida della indiscussa autorità di Orazio (l’unico poeta di cui Venanzio citi una sententia nelle sue opere111), il suo valore tecnico viene sanzionato e trae dignità dal confronto con il tessitore di drappi damascati che – come Siagrio sa dalla Bibbia – ha intessuto con fili di vario colore le vesti del grande sacerdote112. L’altro tour de force tecnico su cui Venanzio attira l’attenzione del lettore è la composizione – su richiesta dell’amico Gregorio di Tours – di un carme in strofe saffiche113. Il poeta chiede a Gregorio, che ha voluto farlo cantare nel metro – per lui nuovo – di Saffo, Pindaro e Orazio, perché gli impone un canto lirico di cui non è capace (vv. 1-16). E se anche lo fosse stato nei suoi anni di scuola, dopo tanto tempo non ricorderebbe114: l’impresa è faticosa già per chi è dotto, e risultano abbastanza pochi i poeti che hanno praticato questi metri (vv. 17-24). Non è semplice per il navigan245

te attraversare con la sua imbarcazione il mare, né superarlo a nuoto, e quando soffia l’austro tempestoso il porto si guadagna a stento (vv. 25-28). Difficile è il cammino per cui Gregorio gli ordina di andare, tuttavia egli andrà con la forza del desiderio: se non è in grado di camminare, si lascia condurre dall’affetto (vv. 29-32). Gregorio ha voluto procurargli un libro composto con stile ridondante (v. 34 codicem farsum tumido cothurno), di cui Venanzio a fatica afferrava il senso, e che con le sue parole solenni si rifiutava di svelare a quel Mopso che egli è la dottrina dei sapienti (vv. 33-40). È un testo di metrica che passa in rassegna un gran numero di autori i cui nomi spezzerebbe se li citasse115, soprattutto considerato che dopo vent’anni, perduta la pratica, Venanzio ora riusa il metro in cui la Lesbia virgo compose accompagnandosi con la cetra (vv. 41-52)116. Si fa prima a contare i granelli della sabbia africana che ad impadronirsi della metrica, e Venanzio, tardato da varie ragioni e senza il tempo e la calma necessari, non ha ancora finito di leggere di seguito l’intero testo; ma per chi vuol bene la volontà da sola è sufficiente (vv. 53-64). Perciò il libello vada velocemente da Gregorio, accompagnato dalle preghiere di Venanzio, che – impedito di andare di persona dove lo chiama l’amato volto dell’amico – gli chiede di salutarlo in sua vece (vv. 65-76) e di portargli i saluti di Agnese, di Radegonda e della nipote di Gregorio, Giustina (vv. 77-84). Il carme si chiude con una professione di modestia da parte del poeta che, pauper arte,/ sed tamen largo refluens amore (vv. 85-88), è riuscito a fatica ad assolvere il compito. Venanzio proclama la propria incapacità di padroneggiare il difficile metro di Saffo nel momento stesso in cui, adoperandolo, dimostra il contrario. L’articolazione del carme è curata: l’adonio care Gregori della prima e dell’ultima strofe stabilisce una Ringkomposition; c’è rispondenza interna con variatio nel duplice rinvio – nella stessa sede metrica: l’adonio finale – a Saffo, docta puella (v. 8)117 e Lesbia virgo (v. 52). Dà tono al carme anche l’apostrofe al libello, svolta qui in forma più tradizionale che nella Vita Martini, con cui il poemetto in saffiche condivide anche la metafora della navigazione. Quest’ultima poteva rinviare un lettore colto alla descrizione in saffiche di una tempesta nella lettera che chiude l’epistolario di Sidonio Apollinare118. Ma proprio il confronto con Sidonio esalta la difficoltà dell’impresa per Venanzio, poiché Sidonio ricorre al motivo della tempesta per dichiarare di essere giunto felicemente in 246

porto, Venanzio, invece, per dire che è in alto mare e in balìa dei flutti. Al di là della cura stilistica, resta la vaga inconcludenza di un carme tutto giocato sull’affermazione che il poeta sta componendo in un metro non ovvio e per lui difficile: una affermazione cui si è dato credito per la non eccelsa qualità del risultato119. Ma, anche ad ammettere che le difficoltà incontrate dal poeta – il quale non ama comporre in metri diversi dal distico elegiaco e dall’esametro120 – abbiano compromesso la riuscita del carme121, il fatto che esso appaia a noi come un decoroso esercizio di scuola non implica che tale apparisse a Venanzio e ai suoi lettori. Già più di un secolo prima, sempre in Gallia e scrivendo per la ristretta cerchia di intellettuali suoi amici, Sidonio aveva premesso ad una sua raccolta di versi un carme in cui, manifestando la propria abilità proprio nell’elencazione virtuosistica di ciò che non avrebbe cantato, egli chiudeva senza aver mai dichiarato (né tantomeno svolto) il soggetto del suo canto122.. Se lo si guarda da questa prospettiva, l’esperimento di Venanzio può considerarsi riuscito, perché egli ha mostrato di saper comporre nel verso richiestogli da Gregorio. Come nel caso del carme figurato a Siagrio, anche qui Venanzio si mostra ingeneroso nei confronti di chi lo ha preceduto. Dei poeti che hanno usato la saffica, egli ricorda infatti soltanto l’inventrice Saffo e Pindaro (che non risulta abbia mai composto in saffiche) per i greci, e quell’Orazio la cui conoscenza egli condivide con Gregorio123 per i latini. A parte l’ignoranza su Pindaro, Venanzio doveva avere idee poco chiare anche su Saffo, a giudicare dalla vaghezza del Dionaeos memorans amores in cui egli riassume l’argomento della sua poesia124. È invece impossibile che – a parte Catullo, di cui egli ebbe conoscenza almeno antologica125 – Venanzio ignorasse tutti i poeti latini che prima di lui avevano scritto in saffiche: Ausonio, Paolino di Nola, Prudenzio, Sidonio, Ennodio, Boezio, e colpisce in particolare la mancata menzione di Prudenzio, l’Orazio cristiano che in saffiche aveva composto due inni126. Difficoltà di ordine prosodico possono avere scoraggiato la citazione di alcuni127, ma sarebbe stato comunque possibile accennare all’esistenza di poeti che – dopo Orazio e prima di Venanzio – si erano cimentati nel metro di Saffo. Venanzio non lo fa, e questo autorizza l’ipotesi che – invece di mostrarsi come l’ultimo di una serie illustre – egli preferisca porsi in immediata continuità con il prestigioso autore dell’Ars Poetica. 247

6. Debita solvere: l’omaggio devoto della Vita Martini

Composto nel corso del 574 o – meno probabilmente – nell’anno successivo128, l’epos in quattro libri sulla vita di Martino è preceduto da una epistola in prosa che accompagna l’invio dell’opera a Gregorio di Tours, e da un prologo in versi a Radegonda e Agnese. Come spesso avviene nei casi di doppia prefazione129, la premessa in prosa si incarica di descrivere l’organizzazione dell’opera, di cui il poeta indica le fonti (rispettivamente la vita Martini di Sulpicio Severo per i primi due libri e i Dialogi per gli altri due). Rivolgendosi a Gregorio, il poeta lo informa che – viste le manchevolezze della propria institutio – rinuncerà ad esprimersi in modo retoricamente elaborato, e confessa la temerarietà con cui ha vergato il poema di fretta, nel giro di sei mesi, audax magis quam loquax, nec efficax, cursim, inpolite, inter frivulas occupationes130. Venanzio insiste sulla destinazione ultima dell’opera a Martino, in onore del quale, se solo questi gli otterrà un congedo, il poeta si preoccuperà di far trascrivere il testo, pregando perché la pietas del santo, reparata da Gregorio, non cessi di intercedere per lui, suo umile e devoto servitore131. La lettera presenta quella combinazione di quotidianità (l’impegno della mietitura, il temporale che ha cancellato l’inchiostro della lettera) e di cultura condivisa (lo sfoggio di erudizione con cui il poeta elenca ciò che ignora, le lodi per la dottrina dell’amico, l’invito a non essere troppo severo nel giudizio)132 che abbiamo visto caratterizzare una significativa parte dei carmina. La rapidità della stesura non viene però giustificata con la necessità di obbedire agli ‘ordini’ di Gregorio, e ciò prova che egli non è il committente del poema133. Di imperia Venanzio parla invece nel prologo, indirizzato ad Agnese e Radegonda, chiamate ad ottenergli con le loro preghiere l’ispirazione del Verbo (v. 39 ferte precanter opem et de Verbo poscite verba) perché egli possa aggiungere pochi talenti al tesoro celeste del santo134. La richiesta di aiuto a Martino per il tràmite delle dedicatarie mostra con chiarezza la loro responsabilità di committenti135. Composto in distici elegiaci secondo il modello rappresentato da Claudiano, il prologo istituisce un confronto fra il poeta e il nauta che si impegna in una rischiosa navigazione. Come il navigante inesperto deve necessariamente soccombere alla tempesta, così lui, de modicis minimus, è costretto a cimentarsi nell’impresa promessa, per la quale 248

non ha forze sufficienti (v. 29 tendere pollicitum quia cogor ad ardua gressum/ imperiis tantis, viribus impar, agor). Non irrigato dall’onda della Musa, l’ingenium del poeta si dibatte, poiché, pur avendo intenzione di cantare Martino, egli non è all’altezza del compito. Il paragone si ispira alla prefazione al I libro del de raptu Proserpinae, ma da questa Venanzio non riprende il tema della fiducia in se stesso progressivamente acquisita dal nauta136, e utilizza invece la metafora nautica come un filo rosso che scandisce da un libro all’altro i progressi della narrazione137 ed è presente anche all’inizio del II libro. È questa la stessa sede in cui essa ricorre per l’unica volta in Paolino di Périgueux: ma Venanzio non fa espliciti rinvii al suo predecessore138, e non collega – né qui né altrove – la metafora stessa ad alcuna dichiarazione di poetica. A situare se stesso e la propria opera nel contesto della poesia cristiana, il poeta provvede nel luogo deputato: il proemio del I libro. In esso, egli menziona i suoi predecessori partendo da Giovenco, ‘inventore’ dell’epos a soggetto cristiano, per poi ricordare Sedulio, Orienzio, Prudenzio, Paolino di Périgueux, Aratore, Avito di Vienne, e infine se stesso139, ultimo in senso non solo cronologico inter tot sanctorum culmina vatum (I, 36). In questo elenco, l’unico ad essere menzionato con piena pertinenza è Paolino di Périgueux (forse confuso con il Nolano): Giovenco, Sedulio, Aratore e Avito hanno infatti composto parafrasi epiche, ma a soggetto biblico; Prudenzio ha sì cantato i santi, ma nella forma innica del Peristephanon, e non si capisce a che titolo venga ricordato Orienzio140. È come se Venanzio – mettendolo in serie con altri poeti – volesse minimizzare l’importanza dell’unico effettivo precedente poetico con cui egli ha dovuto misurarsi in un rapporto di aemulatio che pur risulta evidente già dalla strutturazione dell’opera141. Questa impressione trova conferma nell’altro passo in cui Venanzio ricorda Paolino, e che è parte dell’invocazione al santo che chiude il II libro (vv. 468-475): Cuius prosaicus cecinit prius acta Severus, versibus intonuit Paulinus deinde beatus, aequiperare valens inlustris uterque relator materie victi sed et ipsi carmine cedunt. Luminibus tantis ego nubilus inseror audax, e minimis minimus, de magno maxima temptans, qui pede subtitubo, balbutio faucis anhelo, et, rudis eloquio, carpo quod condere certor. 249

Nella captatio benevolentiae di cui è destinatario Martino, i suoi due precedenti biografi hanno un ruolo paragonabile a quello assolto in altre professioni di modestia da Omero e/o Virgilio, e la contemporanea menzione della prosa di Sulpicio Severo e della poesia di Paolino evita anche in questo caso un più diretto confronto fra Venanzio e quest’ultimo. Accanto alla metafora della navigazione, un altro filo rosso che corre per l’intero pema è rappresentato dalle invocazioni al santo. Così come il secondo, anche il terzo libro si chiude con una supplica a Martino, senatore di Dio, perché guadagni indulgenza al poeta (III, 525-529), e ancora alla fine del IV libro Venanzio rivolge un’ultima preghiera a Martino, chiedendogli di nuovo intercessione (IV, 594-620). Questo genere di apostrofi, oltre ad avere precedenti autorevoli nella poesia cristiana142, trova riscontro nella richiesta finale di intercessione rivolta dal poeta a S. Medardo nel carme in suo onore, che anch’esso mette in versi una precedente narrazione in prosa143. Ma nel caso dell’epos su Martino c’è qualcosa di più, perché è la sua stessa composizione a venire presentata come il pagamento di un debito contratto con il santo144. Infatti, sempre nel proemio del I libro, dopo una ampia e articolata dichiarazione di indegnità145, Venanzio afferma di non aver potuto sottrarsi – pena il cadere in una colpa più grave – al dovere di cantare quel vescovo a causa del quale egli è giunto in Francia (I, 40-44): Quod tamen ut facerem, fieri res illa coegit, quominus ipse reus pro crimine redderer amplo: convenienter enim ratio quia plena poposcit huius pontificis solvi praeconia verbis cuius causa fuit hac me regione venire. Lo stesso debito personale nei confronti del santo il poeta lo ribadisce, dopo avere illustrato la propria inadeguatezza146, nel proemio al IV libro (vv. 26-27): Attamen officii quae restant debita solvam et cui magna nimis modo debeo parva rependo. Non è questo l’unico, importante tratto autobiografico della Vita Martini147, in quanto essa si chiude con una apostrofe al libello da parte del poeta, che lo incarica di compiere à rebours l’itinerario che lo portato dall’Italia in Gallia 250

(vv. 621-712), e di arrestarsi a Ravenna nel luogo in cui Martino gli ha reso la vista. Il tema, non nuovo in poesia latina148 e presente anche a conclusione delle nugae di Sidonio Apollinare149, è svolto dall’exul Venanzio150 – sulla falsariga di Ovidio Trist. I, 1, che dall’esilio spedisce a Roma i suoi versi, perché rivedano in sua vece ciò che gli era più caro. Pur riconducendosi al genere epico, che dovrebbe essere per definizione il più ‘obiettivo’, la Vita Martini si conclude dunque nel nome di una soggettività ad esso estranea, ma – proprio per questo – di maggior efficacia nel ribadire l’immagine di sé che Venanzio intende trasmettere ai suoi lettori: un poeta pio che assolve un obbligo devozionale.

7. Orfeo ebbro o cantore cristiano? La doppia identità di Venanzio poeta

Il viaggio dall’Italia verso la Francia, che a chiusura della Vita Martini sembra dettato dalla devozione per il santo, appare in una luce ben diversa nella rievocazione che Fortunato ne fa due anni dopo, nella dedica della sua prima raccolta di carmina a Gregorio di Tours. Il poeta osserva che, mentre le opere dei grandi sopravvivono loro, e permettono ai loro nomi di correre sulle bocche dei viventi, i testi immeritevoli bene farebbero a cadere nell’oblio, piuttosto che a suscitare postuma critica e irritazione in chi li legge: Venanzio è perciò meravigliato dell’insistenza con cui Gregorio lo incalza a pubblicare la sua opera, che non ne è meritevole151. Fin qui Venanzio adotta lo stesso copione di ascendenza pliniana già seguito nella cerchia di Sidonio Apollinare: di fronte all’insistenza di un dotto amico che ne sollecita la pubblicazione, egli ribadisce l’indegnità delle sue nugae, che – se pubblicate – rischiano di rovinargli la reputazione152. E, come nel caso dei suoi illustri predecessori, egli conclude il suo “vorrei e non vorrei” con un sì, naturalmente accompagnato dalla drastica raccomandazione di non far circolare l’opusculum che potrebbe comprometterne il pudor. Ma se il motivo dell’obbedienza – per amicizia o per gratitudine – ad un ordine o a un desiderio dell’amico è svolto in maniera tradizionale153, nuova è la ragione addotta dal poeta per giustificare la bassa qualità dei suoi versi: le condizioni particolari in cui egli li ha composti, nel viaggio da Ravenna alla Francia, attraversando fiumi e valicando i Pirenei innevati (Carm., praef., 4):

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praesertim quod ego inops de Ravenna progrediens ... Aquitaniae maxima fluenta transmittens, Pyrenaeis occurrens Iulio mense nivosis paene aut equitando aut dormitando conscripserim, ubi inter barbaros longo tractu gradiens aut via fessus aut crapula, brumali sub frigore, musa hortante nescio gelida magis an ebria, novus Orpheus lyricus silvae voces dabam, silva reddebat. Complice il gelo, l’Orfeo ubriaco di Venanzio evoca alla memoria del lettore l’Orfeo virgiliano che piange Euridice gelidis sub antris, frequenta il Tanai nevoso e i campi rifei mai privi di ghiacci154; come le rive dell’Ebro rinviano l’eco della voce di Orfeo155, così fa la selva con il canto di quell’Orfeo degradato che Venanzio dice di essere156. E ancora a Virgilio (stavolta alle Bucoliche) Venanzio rinvia con la successiva affermazione di essersi dovuto esibire dinanzi ad un uditorio incapace di cogliere la differenza fra lo stridor anseris e il canor oloris157: Quid inter haec extensa viatica consulte dici potuerit? ... ubi mihi tantundem valebat raucum gemere quod cantare apud quos nihil disparat aut stridor anseris aut canor oloris, sola saepe bombicans barbaros leudos arpa relidens ut inter illos egomet non musicus poeta sed muricus deroso flore carminis poema non canerem sed garrirem, quo residentes auditores inter acernea pocula salute bibentes insana Baccho iudice debaccharent (Carm., praef. 5). Che non ci si potesse attendere gran che da carmi composti in viaggio, già Plinio lo faceva presente all’amico Tacito158; e – in tempi più recenti – Sidonio spiegava a Catullino di non poter attendere alla poesia fra gli olezzi di cipolla e il frastuono degli occupanti Burgundi159. Sarebbe perciò ingenuo considerare come una fedele fotografia dell’esperienza di Fortunato160 questa pagina brillante che fa appello alla conoscenza e al fascino dell’antichità per capovolgere il topos classico dei simposi letterari in cui grandi poeti recitavano le proprie opere davanti ad una accolta di gente rispettosa e grata161. In ogni caso, qualsiasi grado di convenzionalità (o anticonvenzionalità) si voglia attribuire alla dedica, in questo resoconto il viaggio di Venanzio verso la Gallia non ha alcun carattere religioso, e l’Orfeo ebbro che garrisce poemi fra l’infuriare di Lieder e arpe germaniche non ha nulla da spartire con il pio poeta che solo due anni prima, nella Vita Martini, aveva motivato il suo viaggio in Gallia con la devota riconoscenza al santo. 252

Perché questa diversa autorappresentazione? Marc Reydellet ha fatto notare come i carmi dei primi sette libri siano ordinati in modo tale da suggerire al lettore, senza bisogno di esplicitarli, i criteri che regolano la successione dei libri e quella dei singoli pezzi in ciascun libro162. Ora, quando pubblica la prima raccolta dei carmi, non solo Venanzio è già l’autorevole cantore di Martino (è proprio in nome della comune devozione al santo che egli dice di cedere alle pressanti richieste dell’amico Gregorio di Tours163), ma al centro della raccolta egli pone il libro IV, per larghissima parte costituito da epitafi di pii vescovi. L’immagine di poeta itinerante, che compone fra i fumi dell’alcol, gli consente a mio avviso di mettere in valore l’altro aspetto della sua produzione, quello appunto legato alla Gelegenheit, ai carmi che – Orfeo ridivenuto sobrio – egli ha mostrato di saper comporre nel corso di un soggiorno ormai decennale in Francia. Questi carmi non li ha improvvisati nel ghiaccio dei Pirenei, ma, fissando in questa istantanea il suo esordio di cantore italiano fra i barbari, egli si evita l’imbarazzo di chiarire meglio il suo ruolo di poeta nella realtà sempre mutevole della Gallia merovingia.

Neiges d’antan. Venanzio nel suo studio

Apre la seconda raccolta dei Carmina (libri VIII e IX)164 un’epistola metrica ex nomine suo ad diversos, in cui Venanzio si rivolge a tutte le persone dotate di cultura profana e sacra165 perché forniscano sanctorum carmina vatum166 alla biblioteca del convento di Poitiers. Protagonista del carme è Radegonda, entusiasticamente esaltata per la sua cultura e perché possiede da sola, e in più alto grado, tutte quante le virtù che il poeta ha letto essere state singolarmente proprie delle amiche di Girolamo, di Marta e Maddalena, delle martiri Eugenia e Tecla. Di se stesso invece Venanzio dice molto poco, e quel poco non riguarda la sua attività di poeta: è dunque legittimo chiedersi perché mai egli abbia collocato in apertura proprio questo carme, privo di qualsiasi carattere poemiale e che rappresenta come viva Radegonda, già morta da almeno tre anni167. Credo tuttavia che una spiegazione di questa scelta, strana all’apparenza, possa venirci da una più attenta lettura del testo. Innanzitutto, va osservato che Venanzio parla anche di sé, sia pure solo per fornire la propria succinta biografia (vv. 11-14 e 21): 253

Fortunatus ego hinc humili prece voce saluto, – Italiae genitum Gallica rura tenent, – Pictavis residens qua sanctus Hilarius olim natus in urbe fuit, notus in orbe pater. Martinum cupiens voto Radegundis adhaesi In secondo luogo, la menzione al v. 24 del cugino di Radegonda, Amalafrido, prova che il carme è stato composto circa vent’anni prima168 in circostanze che ci sfuggono, ma con il chiaro intento di sottolineare l’elevato livello culturale del monastero e della regina che lo abita169. Quando però Venanzio mise insieme la sua seconda raccolta, nel 590-591, il prestigio della Sainte-Croix doveva essere alquanto appannato. Infatti, come apprendiamo da Gregorio di Tours, poco dopo la quasi contemporanea morte di Agnese e Radegonda, due principesse merovingie avevano capeggiato contro la nuova badessa una rivolta che lo stesso Gregorio era intervenuto a sedare170. Fra i carmi contenuti nei libri VIII e IX, e di cui Agnese e Radegonda sono in notevole misura le dedicatarie, ce ne sono due in cui Venanzio invoca l’intervento di Gregorio in occasione della sommossa alla Sainte-Croix171. La loro presenza nella raccolta e il ricordo ancora fresco dello scandalo potrebbero a mio avviso spiegare il riuso con funzione prœmiale di un carme originariamente scritto con tutt’altro scopo. Nato come una semplice richiesta di libri per il monastero, della cui santa e nobile fondatrice offriva ai destinatari un lusinghiero ed entusiastico ritratto, quando viene posto in cima alla raccolta esso trae da questa collocazione un diverso significato ed un nuovo ruolo172: quello di ricordare ai contemporanei e fissare nella memoria dei posteri l’immagine di Radegonda e degli anni gloriosi in cui il convento era abitato dalla santità. All’ombra di Radegonda, non inferiore per virtù alle sante amiche di Girolamo, Venanzio, novello Girolamo, ritrae in versi di tono epigrammatico173 se stesso e la sua vita, vista come un percorso rettilineo che, Martino duce, da Ravenna lo ha condotto a Poitiers.•



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Ringrazio Lucio Ceccarelli per la sua paziente e preziosa lettura.

Note

(1) Praef. Virt. Mart. I, MGH, SRM I, 2, p. 586, 3-4 Utinam Severus aut Paulinus viverent, aut certe Fortunatus adesset, qui ista discriberent! Gregorio è il destinatario della maggior parte dei carmina del V libro (Carm. V, 4-5b e 8-17), di molti dell’VIII (VIII, 11-21), e di Carm. IX, 6-7 e X, 12a. Alla sua committenza si debbono i componimenti legati al culto di Martino (carm. I, 4-5 e X, 5-6), e forse anche gli epitaphia dei suoi tre zii vescovi (Carm. IV, 2; 3 e 4). Dietro sua esortazione Venanzio – il quale nel 573 ne aveva celebrato l’elezione a vescovo di Tours (Carm. V, 3) – pubblicò la sua prima raccolta poetica (libri 1-7: cfr. Carm., Praef.), e a lui fece appello in occasione dello scandalo verificatosi al monastero di Poitiers dopo la morte di Radegonda (Carm. VIII, 12 e 12a). Ci è anche giunto un deferente biglietto inviato dal poeta alla madre di Gregorio, Armentaria (Carm. X, 15). (2) Sulle possibili ragioni del viaggio in Francia cfr. J.W. George, Venantius Fortunatus. A Latin Poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992, pp. 24-27; M. Reydellet, Introduction a Venance Fortunat, Poèmes, Tome I, Paris 1994, pp. XIV-XIX. Poiché Venanzio non si recò a Tours immediatamente, ma dopo aver trascorso un intero anno a Metz e il successivo inverno a Parigi, lo scopo di sciogliere il voto a san Martino non può essere stato l’unica ragione del suo viaggio; una causa (o concausa) per l’abbandono dell’Italia potrebbe essere un suo coinvolgimento nello scisma dei tre Capitoli. Con il desiderio del poeta di non prendere posizione in merito spiega il viaggio in Gallia G. Rosada, Il “viaggio” di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum loca e la strada per submontana castella, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Valdobbiadene-Treviso 1990), Treviso 1993, pp. 25-57, rilevando la non altrimenti spiegabile stranezza di un itinerario svoltosi «per scelte incongrue e per tappe disarticolate» (ibidem, p. 48: ma sulla questione egli è ora ritornato in questo convegno). Non provata e al limite della fantapolitica mi sembra invece l’ipotesi di J. Sˇasˇel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, in Aquileia e l’Occidente, Antichità altoadriatiche XIX, Udine 1981, pp. 359-375 secondo cui il poeta sarebbe andato in Gallia come agente diplomatico al soldo di Bisanzio: si veda la convincente confutazione di B. Brennan, Venantius Fortunatus: Byzantine Agent?, «Byzantion» 65, 1995, pp. 7-16. (3) Mi limito a ricordare B. Brennan, The Career of Venantius Fortunatus, «Traditio» 41, 1985, pp. 49-78; George, Venantius Fortunatus; Reydellet, Introduction e da ultimo S. Di Brazzano (a cura di), Venanzio Fortunato, Opere/1, Aquileia 2001, Introduzione generale. (4) I libri I-VII vennero pubblicati nel 576 o poco dopo; terminus post quem per la pubblicazione dei libri VIII-IX è il 590: vedi Reydellet, Introduction, pp. LXVIII-LXXI. (5) Cfr. L. Pietri, Venance Fortunat et ses commanditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto Medioevo Occidentale, Settimane di Spoleto XXXIX, Spoleto 1992, II, pp. 729-758 (in part. per questo aspetto pp. 729-731). Sui legami di Venanzio con i singoli committenti si rinvia all’attenta e documentata analisi della George, Venantius Fortunatus; sulle strategie da lui messe in atto per costruirsi una rete di rapporti vedi da ultimo V. Epp, Amicitia. Zur Geschichte personaler, sozialer, politischer und geistlicher Beziehungen im frühen Mittelalter, Stuttgart 1999. (6) Cfr. S. Quesnel, Introd. a Venance Fortunat, Oeuvres, Tome IV, Vie de Saint Martin, texte établi et traduit par S. Quesnel, Paris 1996, p. XV. (7) W. Meyer, Der Gelegenheitsdichter Venantius Fortunatus, Abhandlungen der Königlichen Gesell. der Wiss. zu Göttingen, phil.-hist. Klasse, Berlin 1901. (8) I modi in cui la produzione poetica di Venanzio ha risposto all’esigenza di questo compromesso sono al centro dell’indagine di M. Reydellet, Tradition et nouveauté dans les carmina de Fortunat, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 81-98 (la citazione da p. 82).

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(9) La prima definizione è di F. Leo, Venantius Fortunatus, der letzte römische Dichter, «Deutsche Rundschau» 32, 1882, pp. 414-426; la seconda («der älteste mittelalterliche Dichter Frankreichs») si deve a Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 3. (10) Per i libri I-VIII i Carmina vengono citati secondo l’edizione curata per Les Belles Lettres da M. Reydellet (Tomes I e II, Paris 1994 e 1998), gli altri secondo l’edizione di F. Leo, MGH AA IV, Berlin 1881 (ristampa München 1981). (11) Questo tema in particolare è ampiamente svolto da Claudian., I Stil., 10-24. (12) Ancora ricordati, pochi anni prima di Venanzio, dal grammatico Corippo in Iohannis, praef., 5-14, dove egli svolge il tema della poesia come garante di immortalità, e – secondo una prassi per cui «il poeta giunge ad annullarsi di fronte al soggetto del canto» (Flavii Cresconii Corippi Iohannidos liber primus, introd., testo critico, trad. e commento a cura di M. A. Vinchesi, Napoli 1983, p. 78 a praef. 13-14) – conclude il confronto con Virgilio e Omero affermando che il suo soggetto è maggiore dei loro anche se minore è la sua abilità. Il contesto è dunque diverso, ma testimonia la perdurante efficacia della precettistica di scuola, che assume Virgilio e Omero a modelli di perfezione per un impari confronto (altra questione, a tutt’oggi aperta, è la conoscenza delle opere di Corippo da parte di Fortunato; i loci paralleli a mio avviso più convincenti in M. Manitius, Zu spätlateinischen Dichtern, «Zeit. Für österr. Gymnasien» 37, 1886, p. 253). Un rinvio ad Omero, che avrebbe reso il celebrando più noto di Achille, Venanzio fa anche in Carm. III, 10, 3-6, dedicato al vescovo Felice di Nantes, mentre il riferimento a Virgilio ricorre anche in contesti più confidenziali: cfr. p. es. Carm. VIII, 18, 1-5 a Gregorio di Tours. (13) Forsitan, benché riferito a legeretur, è collocato davanti ad esset: l’artificiosità della Wortstellung può spiegarsi con una tecnica versificatoria che – perduto il senso delle quantità – si basa molto sulla memoria poetica. Il v. 5 ricalca infatti Claudian., c.m. 23, 15 sed non Vergilius, sed non accusat Homerus. La corrispondenza dell’anafora di sed in Claudiano con quella di si in Venanzio è una ulteriore prova a favore del testo claudianeo tràdito dai manoscritti (contro il non accusaret Homerus proposto da Hall nella sua edizione), ed ora egregiamente difeso da B. Moroni, La deprecatio in Alethium quaestorem di Claudiano, in I. Gualandri (a cura di), Tra IV e V secolo. Studi sulla cultura latina tardoantica, Quaderni di Acme 50, Milano 2002, pp. 75-96. (14) Menandro, nostra fonte sulla precettistica tardoimperiale, consiglia di sottolineare nel secondo proemio (quando viene aggiunto per amplificatio) che la materia richiederebbe poeti come Omero e Orfeo, e che anch’essi difficilmente avrebbero potuto assolvere l’arduo compito (epid. 369, 7-13, p. 78 ed. Russell-Wilson). Sulla professione di modestia cfr. E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it. Firenze 19952, pp. 97-99; sul basiliκÿj l’goj ibidem, p. 180. (15) Il tema, già presente nell’esaltazione di Augusto, è particolarmente sentito nel tardo impero, quando la sicurezza è minacciata dalla preoccupante avanzata dei barbari: i termini della questione sono già formulati in J. Gagé, La Théologie de la victoire impériale, «Rev.Hist.» 171, 1933, p. 1 ss. e M.P. Charlesworth, Pietas and Victoria. The Emperor and the Citizen, «JRS», 33, 1943, pp. 1-10 (poi ristampato in trad. tedesca in Ideologie und Herrschaft in der Antike, hrsg.von H. Kloft, Darmstadt 1979, pp. 473-495). Sulla cristianizzazione del motivo della vittoria, vista come premio alla fede dell’imperatore, basterà qui rinviare a M. Forlin Patrucco, Il tema politico della vittoria e della croce in Ambrogio e nella tradizione ambrosiana, in Paradoxos Politeia. Studi patristici in onore di G. Lazzati, Milano 1979, pp. 406-418 e R. Perrelli, La vittoria ‘cristiana’ del Frigido, in F.E. Consolino (a cura di), Pagani e cristiani da Giuliano l’Apostata al sacco di Roma, Soveria Mannelli 1995, pp. 257-265. (16) Vv. 7-18. In particolare, nei vv. 9-10 (cuius rapta semel sumpsit Victoria pinnas/ et tua vulgando prospera facta volat), l’immagine della Vittoria alata che rende noti i successi del sovrano ‘contamina’ il motivo della Vittoria che vola a coronare l’imperatore – tema svolto da Ausonio in un epigramma

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per Graziano (Praec. 1 Green= Epigr. I S., 2-4, su cui cfr. F.E. Consolino, L’elogio di Graziano e le Clariae Camenae di Giuseppe Scaligero, «Filolologia Antica e Moderna» 12, 1997, pp. 31-46, in part. p. 33; L. Mondin, Un manifesto di ideologia tardoimperiale; Ausonio, Precatio 1 Gr., «Lexis» 20, 2002, pp. 171-202) – con l’immagine della Fama virgiliana. Sigeberto era stato l’unico dei figli di Clotario a combattere contro nemici stranieri: cfr. Venantius Fortunatus: Personal and Political Poems, translated with Notes and Introduction by J. George, Liverpool 1995, p. 29, nota 24 e p. 31, nota 38. (17) Cfr. Curtius, Letteratura europea, pp. 97-98; T. Janson, Latin Prose Prefaces. Studies in Literary Conventions, Stockholm 1964, p. 125. Una formulazione del concetto piuttosto vicina alla nostra si trova in Ennodio, dictio 1, 4: a chi parla spinto dall’affetto, amor suggerit quod negat ingenium. In Venanzio essa ricorre – sempre collegata al motivo ecomiastico del dicere pauca rispetto al molto che si potrebbe (su cui cfr. Curtius, Letteratura europea, p. 180) – in Carm. III, 15, 3-4 subtrahor ingenio, compellor amore parato / laudibus in vestris prodere pauca favens, composto pressappoco nello stesso periodo per il vescovo di Reims (vedi infra, p. 250), l’altra capitale del regno di Austrasia. La stessa contrapposizione troviamo anche in una epistola del consigliere di Sigeberto, Gogone, dove figura anche il motivo del confronto impari con Virgilio: et licet in tuis laudibus me inparem esse sentiam, adtamen amoris inpulsu tardum promovisse dinoscor ingenium, et, in cuius laudem vix sufficere poterat eloquentia Maroniana, praeco inperitiae meae audacia praestabit ingressum (Ep. Austras. 13, MGH Epp. III, p. 128, 17-19). (18) Nei Panegyrici Latini l’oratore non parla spinto dall’amor, ma ha semmai, come Pacato 1,3, il problema di dare degna espressione all’amore del senato per Teodosio (un analogo concetto in Cassiodoro, orat. Rel. Taur. IIr, MGH AA XII, p. 465, 4-7 o quam nimium est amorem publicum ieiuna oratione saturare et quam arduuum de celsis principibus humiles loqui). Un po’ più vicino al nostro passo, Sidonio Apollinare (Carm. VI, 29-36), il quale – sempre nel contesto di una captatio benevolentiae – aveva paragonato le intenzioni del suo panegirico per il publicus pater Avito alla pietas (un termine deputato all’espressione del particolare rapporto che si stabilisce fra imperatore e sudditi), che aveva ispirato ad Orfeo le lodi della madre Calliope. (19) Claudian., Carm. 16, 10 Ah nimius consulis urget amor! La ripresa da Claudiano – qui e in Carm. 7, 8, 60 (hinc meus urguet amor, hinc tuus obstat honor, stavolta nella prima parte del pentametro e in contesto differente) – è segnalata da S. Blomgren, De Venantio Fortunato Lucani Claudianique imitatore, «Eranos» 48, 1950, p. 155. Sulla costruzione di entrambi i passi di Venanzio potrebbe avere influito anche la memoria di Claudian., carm. 26, 405 sic ducis urget amor, che non presenta analogie tematiche con nessuno dei due, ed occupa la prima metà di un esametro. (20) Cfr. Claudian., Carm. 16, 1-10 Audebisne, precor, doctae subiecta catervae,/ inter tot proceres, nostra Thalia, loqui?/ nec te fama vetat, vero quam celsius auctam/ vel servasse labor vel minuisse pudor?/ an tibi continuis crevit fiducia castris/ totaque iam vatis pectora miles habet?/ culmina Romani maiestatemque senatus/ et, quibus exultat Gallia, cerne viros./ omnibus audimur terris mundique per aures/ ibimus. Ah nimius consulis urget amor! (21) Come ha rilevato R. Perrelli, I proemî claudianei. Tra epica ed epidittica, Catania 1992, p. 102, l’allusione del poeta a se stesso o all’uditorio è tipica delle prefazioni di Claudiano che non contengono informazioni supplementari rispetto al testo prefato. (22) Vedi sotto, pp. 252-253. Su caratteri e funzioni delle prefazioni claudianee si veda ora F. Felgentreu, Claudians Praefationes. Bedingungen, Beschreibungen und Wirkungen einer poetischen Kleinform, Stuttgart und Leipzig, 1999. (23) Vedi infra, p. 247. (24) Gli altri sono Carm. VI, 2, panegirico di Cariberto, di poco successivo; IX, 1 panegirico di Chilperico (580); e X, 8, in lode della reggente Brunilde e di suo figlio Childeberto II (587). (25) Sul nuovo taglio dei panegirici di Venanzio, che rinuncia al grande

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affresco delle parti narrative, ha attratto l’attenzione P. Godman, Emperors and Poets. Frankish Politics and Carolingian Poetry, Oxford 1987, p. 13. (26) È infatti un testo breve (solo 42 versi) e in cui manca del tutto la parte relativa a genitori, nascita, educazione (cfr. George, Venantius Fortunatus, pp. 40-42): queste sono omissioni comunque rilevanti sotto il profilo letterarioformale, e le persone colte che gravitavano intorno alla corte di Austrasia (vedi infra, p. 247) non avranno mancato di notarle. (27) Nostra unica fonte sulla vicenda, molti aspetti della quale restano per noi oscuri, è Gregorio, HF V, 49. (28) Nel rievocare l’episodio, Gregorio di Tours ricorda come determinante per il buon esito della vicenda la veglia di preghiera della principessa Rigonda, mentre non fa parola del panegirico di Venanzio. Ciò non si spiegherebbe se il carme avesse avuto il significativo ruolo di mediazione che alcuni studiosi (in particolare Koebner e George) gli attribuiscono: vedi F.E. Consolino, Poesia e propaganda da Valentiniano III ai regni romanobarbarici (secc. V-VI), pp. 222-224, in Letteratura e propaganda nell’occidente latino da Augusto ai regni romanobarbarici, Atti del Convegno Internazionale di Rende a cura di F.E. Consolino, Roma 2000, pp. 181-227. (29) Mi fa notare Lucio Ceccarelli, che ringrazio, come exigui occupi qui la stessa sede metrica di exiguo in Prop. III, 9, 36 (tota sub exiguo flumine nostra mora est) e IV, 1, 59 (sed tamen exiguo quodcumque e pectore rivi/ fluxerint) – due casi in cui il poeta dichiara i limiti della propria poesia – . Meno attinente Prop. I, 12, 12 (quantus in exiguo tempore fugit amor!), diverso per contesto, ma con il pentamentro chiuso, come in Venanzio, da amor. (30) Vedi sopra, p. 237. (31) Chilperico aveva promosso una riforma dell’alfabeto ed era anche poeta in proprio, come testimonia il suo acerrimo nemico Greg. Tur., HF V, 44 e VI, 46, che ne critica i versi e ne irride (HF V, 44) gli interessi culturali, qui elogiati ai vv. 91-94. (32) Senza peraltro mai affermare il falso: lo ha dimostrato, un secolo fa, la puntuale analisi di Meyer, Der Gelegenheitsdichter, pp. 113-126. (33) Carm. III, 15, che si data al 566: Reydellet, Venance Fortunat I, p. 197, nota 97. (34) Vedi sopra, p. 237. In particolare, prodere pauca di v. 4 trova corrispondenza in vel dicere pauca di Carm. VI, 1a, 3. (35) Claudian. c.m. 26, 7-10 nonne reus Musis pariter Nymphisque tenebor,/ si tacitus soli praetereare mihi?/ indictum neque enim fas est a vate relinqui/ hunc qui tot populis provocat ora locum? (è l’elogio di Abano). Il rinvio a Claudian., c.m. 26, 7-8 si deve a Blomgren, De Venantio Fortunato, p. 154. La necessità di sottrarsi alla colpa è invocata anche per motivare la composizione della Vita Martini (Vita Mart. I, 40-44): sarebbe un crimine per Venanzio non cantare le lodi del santo cuius causa fuit hac me regione venire. (36) Cfr. Carm. IX, 16, 3 s. non ego praeteream praeconia celsa, Chrodine,/ ne videar solus magna silere bonis. Il carme, privo di elementi che ne permettano la datazione, fu composto entro il 582, anno di morte di Crodino (cfr. PLRE III A, Chrodinus, p. 312 s.). (37) Carm. I, 20, 1 ss. Quamvis instet iter retraharque volumine curae,/ ad te pauca ferens carmine flecto viam./ Captus amore tui numquam memoranda tacebo/ te neque praetereo praetereundo locum./ Cui quae digna loquar? Oggetto del canto è la villa di Leonzio a Preignac. Riguardano Leonzio i carmi 6 e 8-20 del I libro: cfr. George, Venantius Fortunatus, pp. 108-113. (38) L’origine virgiliana (Ecl. VI, 10 e Aen. XII, 392) di captus amore e le ulteriori sue attestazioni prima di Fortunato in S. Zwierlein, Venantius Fortunatus in seiner Abhängigkeit von Vergil, Diss. Würzburg 1926, p. 16. Il riferimento all’amor è presente anche nel contesto di un vero e proprio panegirico di Leonzio, in cui il poeta afferma che l’affetto lo ‘costringe’ a ricordare, sia pur brevemente, le molte qualità di Placidina, sposa del vescovo e nipote di Sidonio Apollinare: Carm. I, 15, 93 cogor amore etiam Placidinae pauca referre e 107 plurima cur referam quantis sit praedita rebus ...? (39) Carm. VII, 1, 45 s. Haec bona si taceam, te nostra silentia laudant/ nec voces spectes qui mea corda tenes. Su vita e carriera di Gogone (†581),

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cfr. PLRE III, 1 A, Gogo, p. 541 s. Il carme (su cui vedi infra, p. 247 e nota 95) si data al 566-567. (40) Carm. VII, 1, 47 s. vera favendo cano, neque me fallacia damnat,/ teste loquor populo: crimine liber ero. (41) Carm. VI, 2, 105 s. Muneribus largis replet tua gratia cunctos:/ ut mea dicta probes, plebs mihi testis adest. (42) Carm. III, 8, 1 s. Inluxit festiva dies, me gaudia cogunt/ Ut quod plebs poterat solus amore loquar. Il carme è analizzato da George, Venantius Fortunatus, pp. 77-79; su Felice di Nantes, destinatario dei carmi III, 4-10, ibidem, pp. 113-123. (43) Carm. X, 8, 1 ss. 1 si praestaretur praeconia pandere regum,/ non mihi sufficeret nocte dieque loqui,/ qualiter hic populus dominorum pendet amore/ et vestris oculis lumina fixa tenet. (44) Carm. X, 8, 13 s. hic ego cum populo mea vota et gaudia iungo,/ quae pius amplificans crescere Christus agat e 27-30 hic ego promerear rediens dare verba salutis,/ congaudens dominis parvulus ipse piis:/ prospera sint regum, populorum gaudia crescant;/ exultet regio, stet honor iste diu. (45) Ennod. Ep. V, 7, 1 ad Euprepia Quamvis saepe ingenii mei maciem cognovisses, periclitari tamen ieiunia oris olim probati iussionis celeritate voluisti. Sed ego non abnuo oboedire diligenti, ut si facundiae deest meritum, gratia subveniat obsequendi. (46) Una ricca raccolta di topoi dedicatori (spesso però non abbastanza discussi) offre G. Simon, Untersuchungen zur Topik der Widmungsbriefe mittelalterlicher Geschichtsschreiber bis zum Ende des 12. Jahrhunderts, «Archiv f. Diplomatik» 4, 1958, pp. 52-119 (per il motivo in questione e i suoi precedenti classici, cfr. pp. 61-62); cfr. anche Janson, Latin Prose Prefaces, p. 124. (47) Scabridus è già in Ennod., Ep. 2, 27, 3 (lingua); 5,7, 2 (scabridis officiis); l’aggettivo è da Venanzio attribuito ai suoi verba anche nella professione di incapacità che introduce il IV libro della Vita Martini (vv. 17-19 Martini vita patroni, /quam nitor scabridis indignus scalpere verbis/ rusticus, arte rudis temptans formare monile). Il nesso incomptum os non sembra avere altre attestazioni (l’aggettivo si accompagna piuttosto con ars, oratio, verba: cfr. TLL 997, 48-63), ma incomptus, come inconpositus, incultus, inpolitus, è nella tarda latinità fra le «elocutiones, quibus potissimum scriptores utantur ad significandam rusticitatem sermonis» o figura come espressione di affettata modestia: H. Bruhn, Specimen vocabularii rhetorici ad inferioris aetatis latinitatem pertinens, Diss. Marpurgi Cattorum 1911, p. 18 s. e p. 25 (la citazione da p. 17). Allo stesso ambito concettuale rinvia rubigo (cfr. ibidem, p. 21), che ricorre anche in VM I, 31, sempre all’interno di una professione di incapacità: anche lì il poeta, cui vix rubigo recessit (v. 31), è mente hebes, arte carens, usu rudis, ore nec expers (v. 28), e ha dimenticato quel che aveva a suo tempo appreso (v. 32). (48) Cogitis antiquam me renovare lyram tradisce forse la memoria di Claudian., Carm. II, 16 (convenit ad nostram sacra caterva lyram). (49) Carm. II, 9, 9-10 Vix dabit in veteri ferrugine cotis acumen/aut fumo infecto splendet in aere color. (50) Carm. II, 9, 11-16. Sed quia dulcedo pulsans quasi malleus instat/.../ obsequor hinc, quia me veluti fornace recocto/ artis ad officium vester adegit amor. Dulcedo, qui sinonimo di amor dulcis (per questa accezione del termine in Venanzio cfr. S. Blomgren, Studia Fortunatiana, Upsaliae 1933, p. 114), «in Venantius’ usage, evokes the reciprocity of the relationship between poet and patron»: cfr. Godmann, Poets and Emperors, p. 18, alla cui analisi (pp. 16-18) rinvio. (51) Carm. III, 22, qui riportato per intero. I vv. 3-4, in cui il congiuntivo placeat dipende dall’ablativo assoluto stridente cicuta, non possono costituire un periodo a sé stante: non condivisibile appare perciò la scelta di Reydellet, che li isola fra due punti fermi. Distaccandomi dalla pur accettabile interpunzione di Leo, che mette punto alla fine di v. 2 e punto e virgola alla fine di v. 4, collegando sintatticamente il distico a quel che segue, preferisco legare i vv. 3-4 al distico che precede, in quanto essi forniscono una precisazione sul modo in cui il poeta ha ubbidito agli ordini ricevuti.

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(52) Benché il termine melos (impiegato sia come maschile che come neutro) abbia notevole fortuna in poesia latina tarda (cfr. TLL ad loc.) e sia caro a Venanzio (Carm. III, 9, 30; VII, 1, 7; VII, 8, 28; VII, 12, 30 e 112; X, 9, 52), questa iunctura si trova soltanto qui e – riferita al canto dell’usignolo – in AL 658, 24, testo più tardo se è valida la sua attribuzione ad Eugenio di Toledo. Liquidus, d’altra parte, ricorre piuttosto in combinazione con vox, opposto a raucus, asper, cfr. TLL s.v. liquidus, col. 1486, 11-32. (53) Cfr. Bruhn, Specimen, p. 25: in questa accezione il termine è spesso adoperato da Ennodio, cfr. TLL 1697, 44-49. (54) Benché non sia questo il significato più frequente, garrulus, garrire, garrulitas possono indicare un suono rauco o stridulo: cfr. Mart. 3,93,8 ranae garriant; Ser. Samm. 669 (rana) rauco garrula questu; Hier. in Tit. 3, 9 latratu garrire canum; Ps. Aug., serm. 283, 2 (i fedeli) qui ita alta garrulitate .... cum strepitu vocis orant, ut iuxta se alios orare non permittant; Servio ad Aen. VII, 14 arguto pectine chiosa l’aggettivo con garrulo, stridulo; Isid. Orig. 10, 114 sumptum nomen (scil. garrulus) a graculis avibus, qui inportuna loquacitate semper strepunt; 12, 6, 58 ranae a garrulitate vocatae, eo quod circa genitales strepunt paludes, et sonos vocis inportunis clamoribus reddunt. E lo stesso Venanzio, in Carm., praef. 5 dice di sé poema non canerem, sed garrirem. (55) Per questa accezione di levis, cfr. TLL 1211,76-1212, 80: in particolare, per levis come inadeguato a poesia encomiastica, cfr. Merob., Carm. 4, 16 (non levibus canenda Musis, detto della moglie di Ezio). Meno probabile, visto l’uso generalizzato del distico elegiaco da parte di Venanzio, è che (come in Ovid., Am. I, 1, 19 e II, 1, 21; Trist. II, 331; P. IV, 5, 1) levis si riferisca anche al metro prescelto. (56) Con questa connotazione il termine ricorre in Sidonio, carm. XXIII, 4 (cantum ... pauperis cicutae in luogo del solenne carme cui lo esorta l’amico Consenzio). (57) La combinazione di levis garrulitas e stridente cicuta potrebbe avere influenzato il garrulus stridor di cui l’autore della vita di Amanzio di Rodez – testo di incerta datazione (cfr. Bibliotheca sanctorum I, 933 e MGH AA IV, 2, pp. XXI-XXII) arbitrariamente attribuito a Venanzio Fortunato dal Surius – si scusa nel prologo con un generico lector: Vita S. Amantii praef. 2, p. 55, 5-7 ignosce, quaeso, lector, cum dissonam manibus paginam sumpseris, cum aures tuas murmur indoctum garrulo stridore percusserit. (58) Carm. I, 15 s. Alta cicuticines liquerunt Maenala Panes/ postque chelyn placuit fistula rauca Iovi. (59) Carm. I, 19 s. semifer audiri meruit meruitque placere,/ quamvis hinnitum, dum canit, ille daret. (60) Carm. XIV 23 ss. cito, diva, necte chordas,/ nec, quod detonuit Camena maior,/ nostram pauperiem silere cogas./ Ad taedas Thetidis probante Phoebo/ et Chiron cecinit minore plectro,/ nec risit pia turba rusticantem,/ quamvis saepe senex biformis illic/ carmen rumperet hinniente cantu. (61) Carm. III, 22a, 9-10 si mea vox iugi resonaret acumine carmen,/ laude minor loquerer, maior amore, pater. (62) Appendix 5, 11 (composto intorno al 587) Childebercthe cluens: haec Fortunatus amore / paupere de sensu pauper et ipse fero. (63) Carm. I, 5, composto per essere inciso in cellula sancti Martini ubi pauperem vestit (questa destinazione è provata in modo convincente da H. Delehaye, Une inscription de Fortunat sur Saint Martin (1,5), in Idem, Mélanges d’Hagiographie grècque et latine, Subs. Hag. 42, Bruxelles 1966, pp. 204-211). (64) Come Venanzio dichiara nel distico ad Gregorium posto in explicit al carme: Imperiis parere tuis, pie care sacerdos,/ quantum posse valet, plus mihi velle placet. (65) Sarà Carm. V, 5b. Sull’intervento di Avito, cfr. Greg. Tur., HF V, 11. (66) Per B. Brennan, The Conversion of the Jews of Clermont in AD 576, «JThS» 36, 1985, pp. 321-337, il tema centrale del poema, la coesione sociale basata sull’unità religiosa (p. 328), è in certo senso una discolpa di Avito dall’accusa di «social disruption» causata dal suo intempestivo zelo missionario (p. 337). M. Reydellet, La conversion des Juifs de Clermont en 576, in

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De Tertullien aux Mozarabes. Mélanges offerts à Jacques Fontaine, Paris 1992, Tome I, pp. 371-379 nota a sua volta come, insistendo sul significato teologico dell’avvenimento, Venanzio faccia passare in secondo piano la contrapposizione fra i giudei e i cristiani (spec. p. 174). (67) Perist. II, 573-584 (per cui cfr. Vita Mart. IV, 594-620); IV, 193-200; V, 545 ss. (ma è una preghiera collettiva); VI, 160-162 (un auspicio che il santo abbia riguardo a lui per la sua opera poetica; X, 1136-1140 (Prudenzio si augura che Romano lo raccomandi a Dio). (68) Carm. IV, 7, 25 s. per il vescovo Calectrico di Chartres, dove il poeta esprime anche una personale partecipazione al lutto (vedi infra, nota 70): haec qui, sancte pater, pro magnis parva susurro,/ pro Fortunato, quaeso, precare tuo; Carm. IV, 6, 19-22 per il vescovo Exocius di Limoges miliciam peragens, capiens nova praemia regis / pro Fortunato supplice funde precem./ Obtineas votis, haec qui tibi carmina misi, / Ut merear claudi quandoque clave Petri; Carm. IV, 27, 19-22 per Eufrasia, pia vedova di un vescovo consacratasi a Dio (i vv. 20-22 sono gli stessi che chiudono l’epitafio di Exocius, mentre ne differisce il più partecipato v. 19 sed rogo per regem paradisi gaudia dantem). (69) Rispettivamente in Carm. I, 5, 21 s. Tu quoque qui caelis habitas, Martine precator,/ pro Fortunato fer pia verba deo, che rievoca l’episodio del mantello diviso col povero (per la Vita Martini vedi infra, p. 254); Carm. II, 16, 165 s. Haec, pie, pauca ferens ego Fortunatus amore/ auxilium posco, da mihi vota, precor (a chiusura del carme per Medardo e dopo una professione di modestia); Carm. II, 14, 29 s. Fortunatus enim per fulgida dona Tonantis,/ ne tenebris crucier, quaeso feratis opem (a chiusura del carme sui martiri di Agaunum). (70) Come tributo di amicizia, e testimonianza di dolore per la morte di una persona cara sono presentati tre dei carmi funerari raccolti nel libro IV. Carm. IV, 10 per Leonzio di Bordeaux, vv. 3 s. (Malueram potius cui carmina ferre salutis,/ perverso voto flere sepulchra vocor) e 18 (et mihi qualis erat pectore flente loquor); Carm. IV, 7 per il vescovo Calectrico di Chartres (v. 1 ss. inlacrimant oculi, quatiuntur viscera fletu/ nec tremuli digiti scribere dura valent,/ dum modo qui volui vivo, dabo verba sepulto,/ carmine vel dulci cogor amara loqui./ Digne tuis meritis, Chalacterice sacerdos,/ tarde note mihi, quam cito, care, fugis!/ Tu patriam repetis, nos triste sub orbe relinquis,/ te tenet aula nitens, nos lacrimosa dies); Carm. IV, 18, 1-4 (inpedior lacrimis prorumpere nomen amantis/ vixque dolenda potest scribere verba manus./ Coniugis affectu cogor dare pauca sepulto,/ si loquor affligor, si nego durus ero) per Basilio, probabile committente di Carm. I, 7 (su di lui PLRE III A, p. 175, Basilius 4; K.F. Stroheker, Der senatorische Adel in spätantiken Gallien, Tübingen 1948, p. 156, n. 65). (71) P. Dronke, Medieval Latin and the Rise of the European Love-Lyrik, Oxford 19682, p. 200. (72) Carm. III, 3,1-6. Eufronio di Tours (PLRE IIIA, p. 466 Euphronius 1) è dedicatario anche di due epistole in prosa, Carm. III, 1 e 2, che precedono immediatamente. (73) App. 12, 7-10. Sul legame rispettivamente filiale e fraterno di Venanzio con Radegonda e Agnese, cfr. in particolare la dichiarazione di Carm. XI, 6. (74) Carm. II, 9, 3-6: vedi sopra, p. 242. (75) Per l’audacia del poeta in ambito dedicatorio cfr. Vinchesi p. 76 a Corippo, praef. 1. Innalza il livello stilistico del carme il composto epicizzante doctiloquus: benché esso piaccia ai poeti tardi (a parte Ennio 593S=583V2, sono praticamente i soli ad usarlo: cfr. TLL ad loc.), è questa la sua unica attestazione in nesso con harundo. (76) Carm. VII, 5, 1 s. pectore de sterili si flumina larga rigarem,/ non te sufficerem, dux Bodegisle, loqui; 15-18 quae tibi sit virtus si possem, prodere vellem,/ sed parvo ingenio magna referre vetor./ Exiguus titubo tantarum pondere laudum,/ sed melius gradior quem tua facta regunt, dove alla professione di modestia e all’Unsagbarkheitstopos si aggiunge la fiduciosa affermazione (anch’essa prevista dell’insegnamento retorico: vedi sopra, nota

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12) che è il soggetto stesso a guidare la lode del poeta. Su Bodegiselo (†585) cfr. PLRE III A, p. 235 s., Bodegiselus I. (77) Sul passo cfr. Godmann, Poets and Emperors, p. 18 s. Per la metafora della parola-cibo in Venanzio cfr. Epp, Amicitia, p. 84. (78) Sulla doppia origine – classica e cristiana – del tema, sulla sua diffusione nei tardi autori latini e in Venanzio vedi Dronke, The Rise, p. 195 ss. (79) Cfr. Carm. 13, 5 s. ai diaconi Lupo e Valdone Quod valeo facio: absens vel dependo salutem: / si non possum oculis, vos peto litterulis. Il motivo dell’amico lontano dagli occhi ma non dal cuore è particolarmente caro a Venanzio, che vi fa ricorso anche nelle due epistole in prosa al vescovo Eufronio di Tours (Carm. III, 1,1 e III, 2, 1). (80) Cfr. Carm. VII, 10, 19 s. a Magnulfo, fratello di Lupo, in cui il poeta si scusa per l’obbligata brevità: da paucis veniam, quoniam mihi portitor instat:/ nam de fratre Lupi res monet ampla loqui. O Carm. VII, 25, 17 s. al comes Galattorio plane hoc quod superest solvat vel epistula currens:/ littera, quod facerem, reddat amore vicem. O Carm. VII, 17, 1 ss. a Gunduario: si prodi verbis affectus posset amantis,/ carmina plura tibi pagina nostra daret./ Sed quod ab ore loqui nequeo quod pectore gesto,/ sit satis ex multis vel modo pauca dari. / Nam si respicias votum per verba canentis,/ malueram maius qui tibi parva fero. Gunduario era l’amministratore del patrimonio di una regina, forse Brunilde: PLRE III A, p. 567, Gunduarius. (81) Carm. III, 16: Lux sincera animi, semper mihi dulcis Hilari,/ quamvis absentem quem mea cura videt,/ cuius honestus amor tantum mea corda replevit,/ ut sine te numquam mente vacante loquar,/ versibus exiguis mandamus vota salutis:/ quae dedit affectus sint tibi cara, precor. Ilario è forse da identificare con l’aristocratico dedicatario di un epitafio (Carm. IV, 12): cfr. PLRE III A, p. 598 Hilarius 2; Stroheker, Adel, p. 183, n. 195. (82) Carm. III, 26, 5 ss. ad Rucconem diaconum: la distanza non separa i loro cuori (v. 6 divisos terris alligat unus amor). (83) Carm. III, 28, 1-4 (Pignus amicitiae semper memorabile nostrae/ versibus exiguis, care Iohannis, habe/ ut, cum me rapiunt loca nunc incognita forsan/ non animo videar, dulcis, abesse tuo), che accomuna nel saluto anche gli amici Antemio e Ilario. (84) Carm. III, 29, 1 s. suscipe versiculos, Anthimi, pignus amantis,/ quos tibi sincero pectore fudit amor e 13 s. sed cui plura volens poteram tunc dicere praesens/ nunc faciat paucis pagina missa loqui. Per Dronke, The Rise, p. 201 il carme è fra i più personali di Venanzio. (85) Dronke, The Rise, p. 201. (86) Carm. VII, 12, 105 s. misimus o quotiens timidis epigrammata chartis/ et tua, ne recreer, pagina muta silet. Su Giovino cfr. PLRE III A, p. 715 s. Iovinus 1. (87) Carm. IX, 12, 3-8 Si non ipse adii, te pagina missa salutet/ solvat et obsequium quod minus ipse gero./ Commendesque libens domnis me regibus, oro,/ et referas grates pro pietatis ope./ Inpenso affectu me pagina vestra requirat,/ hoc remeante tamen redde benigne vicem. Su Faramodo cfr. PLRE III A, p. 477 Faramodus. (88) Rispettivamente Carm. VII, 2, 9, un biglietto a Gogone per ringraziarlo della cena che gli ha offerta, e Carm. XI, 23, composto come piccolo contraccambio (v. 12 carmina parva dedi) durante un ricco pranzo offertogli da Radegonda e Agnese. (89) Carm. V, 8 b, 7 s. pro munere tanto/ tunc magis ore meo gratia vestra sonet. (90) Carm. X, 11, 1-6 Cum videam citharae cantare loquacia ligna/ dulcibus et chordis admodulare lyram/ (quo placido cantu resonare videntur et aera) mulceat atque aures fistula blanda tropis:/ quamvis hic stupidus habear conviva receptus,/ et mea vult aliquid fistula muta loqui. (91) Osserva Reydellet, Introduction, pp. L-LI, che i carmi per Dinamio, Gogone, Lupo e Giovino sono quelli più elaborati e raffinati, e testimoniano il buon livello della corte di Metz, confermato dalle epistolae Austrasiacae. Sul contesto socio-culturale di Gallia in cui Venanzio opera, vedi George, Venantius Fortunatus, pp. 12-18. Sulla pratica delle lettere alla corte di

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Austrasia nel corso del VI secolo c’è ora il contributo di E. Malaspina, Letterati forestieri a servizio della corte austrasica (511-596), in M. Rotili (a cura di), Incontri di popoli e culture tra V e IX secolo. Atti delle V Giornate di Benevento, Napoli 1998, pp. 59-88. (92) Ep. Austras. 16, MGH, Epp. III, p. 130 [= pp. 126-128 ed. Malaspina, Il liber epistolarum della cancelleria austrasica (sec. V-VI), Roma 2001]. (93) Come Carm. III, IV, epistola in prosa di tono encomiastico al vescovo Felice di Nantes, o Carm. V, I, lettera in prosa al vescovo Martino di Braga, elogiato anche (ibidem, 6-7) per la qualità dei suoi scritti. Sulla prosa di Venanzio, cfr. Reydellet, Introduction, pp. LIV-LV e M. Reydellet, Venance Fortunat et l’esthétique du style, in Haut Moyen âge: culture, éducation et société. Etudes offertes à Pierre Riché, La Garenne-Colombes 1990, pp. 69-77. (94) Carm. VII, 14, 31-34 all’aristocratico galloromano Mummoleno (PLRE III B, p. 898 s., Mummolenus 2): per la tempesta scatenata nelle sue viscere da un pasto troppo abbondante, a v. 31 (non sic Aeoliis turbatur arena procellis) Venanzio si ricorda di Verg., Aen. V, 790-791 (maria omnia caelo/ miscuit, Aeoliis nequiquam freta procellis: è la tempesta che ha sbattuto Enea sulle coste d’Africa): cfr. Godman, Poets and Emperors, p. 19. (95) Carm. VII, 1, 1-20, su cui si rinvia alla traduzione commentata di J. George, Poems, p. 57 s. Una analisi dei primi 14 versi in A.V. Nazzaro, Intertestualità biblico-patristrica e classica in testi poetici di Venanzio Fortunato in Venanzio Fortunato fra Italia e Francia, pp. 104-106, il quale fa giustamente rilevare le differenze rispetto al trattamento dello stesso tema in Draconzio mentre Godmann, Poets and Emperors, pp. 16-21 dà rilievo solo agli elementi comuni. Di Gogone ci sono conservate quattro epistole (Epistolae Austrasicae 13, 16, 22 e 48, MGH Epp. III, pp. 127 s.; 130; 134 s. e 152 s. = pp. 116-118; 126-128; 142-144 e 218-220 ed. Malaspina), mentre i suoi versi sono perduti. A lui Venanzio Fortunato dedica Carm. VII, 1-4: sulle loro relazioni cfr. George, Venantius Fortunatus, pp. 136-140. (96) Carm. VII, 8, 69-73 nos tibi versiculos, dent barbara carmina leudos:/ sic variante tropo laus sonet una viro./ Hi celebrem memorent, illi te lege sagacem,/ ast ego te dulcem semper habebo, Lupe. Il carme è analizzato dalla George, Poems, pp. 62-4, che lo data al 576 circa. L’implicito confronto che il poeta vi propone fra il proprio canto e quello di un viandante stanco che finalmente riesce a raggiungere l’ombra rimanda sia alla cultura classica che a quella cristiana: vedi Nazzaro, Intertestualità, pp. 101-102. (97) Carm. III, 18, 19 s. Sit tua vita diu, cuius modulante Camena/ cogimur optatis reddere verba iocis. (98) Carm. III, 30, 21 s. (è la conclusione) carmina parva ferens tibi debita reddo salutis,/ des meliora, precor, carmina parva ferens. (99) Auson. epist. 23 Green, 10-31. (100) Carm. VI, 10. Su Dinamio cfr. PLRE IIIA, p. 429, Dynamius 1, Stroheker, Adel, p. 164, n. 108. Autore di versi, abbiamo due sue epistole (Ep. Austrasicae 12 e 17, MGH, Ep. III, pp. 127 e 130-131 = pp. 116 e 128-131 ed. Malaspina), una vita di Massimo di Riez (PL 80, 31 ss.) e un epigramma (AL 786a): sulla paternità di queste ultime due opere avanza dubbi Malaspina, Letterati, p. 79 s. (101) Carm. VI, 10, 48 animae pars mediata meae per cui cfr. Hor. Carm. II, 17, 5 te meae ... partem animae (Mecenate) e Carm. I, 3, 8 animae dimidium meae (Virgilio). (102) Una testimonianza di corresponsione potrebbe venirci dall’ep. 12 di Dinamio, se – come proponeva W. Gundlach (Die Sammlung der Epistolae Austrasicae «Neues Archiv der Gesell. für ältere Geschichtskunde» 13, 1887, pp. 365-387, p. 369), Venanzio fosse l’amico cui essa è rivolta. Nel carme si segnalano riprese da Virgilio, Orazio, Ovidio, Giovenco, Claudiano e perfino da Catullo (vedi nota seguente). (103) Ad una reminiscenza di Catullo 68, 62 (aestus hiulcat agros) al v. 6 (et per hiulcatos fervor anhelat agros), segnalata da Max Manitius (MGH, AA IV, 2, p. 134) aggiungerei il probabile ricordo di Catullo 101, 10 atque in perpetuum, frater, ave atque vale, che credo possa leggersi in filigrana dietro v. 64: felix perpetue, dulcis amice, vale. Alcune presenze di Catullo in Venanzio

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sono individuate da W. Bulst, Radegundis an Amalafred, in Bibliotheca docet. Festschrift Carl Wehmer, Amsterdam 1963, p. 379. (104) Per l’ambiente mondano e l’atmosfera in cui si svolge l’esercizio letterario, vedi A. Loyen, Sidoine Apollinaire et l’esprit précieux en Gaule aux derniers jours de l’empire, Paris 1943, in part. capp. V e VI; A. La Penna, Gli svaghi letterari della nobiltà gallica nella tarda antichità. Il caso di Sidonio Apollinare, «Maia» 47, 1995, pp. 3-34. Il sotteso invito a decriptare le sue dotte allusioni, che Sidonio rivolge ai propri corrispondenti, è stato messo bene in luce da I. Gualandri, Furtiva Lectio. Studi su Sidonio Apollinare, Milano 1979. (105) Carm. IX, 6 con cui Venanzio accompagna l’invio di alcuni carmi commissionati da Gregorio e si scusa per non aver ancora composto le saffiche promessegli. Blomgren, De Venantio Fortunato, p. 156 confronta Carm. IX, 6, 1 pollente eloquio pervenit epistula cursu con Claudian. c.m. 40, 21 crebraque facundo festinet littera cursu; meno certa mi sembra per questo verso l’influenza, sempre segnalata da Blomgren (qui e in S. Blomgren, De P. Papinii Statii apud Fortunatum vestigiis, «Eranos» 48, 1950, p. 65), di Silv. IV, 8, 36 protinus ingenti non venit nuntia cursu/ littera. (106) Carm. V, 6, che è l’epistola in prosa premessa al carme figurato. (107) Carm. V, 6, 8 ss. (108) L’epistola ci offre infatti l’inedita opportunità di inquadrare dalla prospettiva del poeta stesso la composizione di un carme figurato, come rileva (p. 226) M. Graver, Quaelibet Audendi: Fortunatus and the Acrostic, «TAPhA» 123, 1993, pp. 219-245, alla cui analisi rimando. (109) Carm. V, 6, 11 inter haec illud me commovens, quod tale non solum feceram, sed nec exemplo simili trahente ducebar: è possibile che questo sia il primo carme figurato composto da Venanzio, ma è molto improbabile che egli ignorasse Optaziano Porfirio. Se anche, come ipotizza Reydellet, ed. cit., p. 171, nota 91, la novità fosse da intendersi riferita alle specifiche ‘dimensioni’ (33 versi di 33 lettere) del carme, il modo in cui Venanzio si esprime non lascia sospettare a chi già non la conosca l’esistenza di precedenti per questo tipo di poesia. (110) Vedi infra, p. 254 s. Per la metafora della navigazione, cfr. T. Janson, Latin Prose Prefaces, p. 156 s.; Curtius, Letteratura europea, p. 147 s. (111) Lo osserva M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, I, München 1911, p. 178. (112) Carm. V, 6, 16 velut aragnea arte videmur picta fila miscere: quod vobis compertum est in Moysi prophetae libris, polimitarius artifex vestes texuit sacerdotis (il riferimento è a Exod. 28,8 ss. e 35,35): per l’intero passo, si veda l’analisi di Graver, Quaelibet, p. 237. (113) Carm. IX, 7, tradotto e annotato da George, Poems, pp. 90-95. (114) Anche questo motivo ricorre di frequente nelle professioni di incapacità: cfr. Janson, Latin Prose Prefaces, pp. 132 e 137-138. (115) Nota peraltro Manitius (Geschichte I, p. 176, nota 3) che i nomi di Catullo, Tibullo e Properzio (e, se necessario, anche Orazio) potevano benissimo entrare nelle saffiche. (116) Come inventrice di versi che vanno sotto il suo nome Saffo era menzionata da Ausonio, Ep. Green, 91 a Teone: sunt et quos generat puella Sappho (nell’ambito di una rassegna sui vari tipi di verso). (117) Docta puella: detto di Cinzia da Prop. 2, 11, 6 (George, Poems, ad loc.). (118) Apoll. Sid., Epist. IX, 16, 3: vedi Di Brazzano, Venanzio Fortunato, p. 486, nota 55. (119) George, Poems, p. 92, nota 109: «he stresses the fact that writing in this meter is slow work (Poem 9.6.10), and difficult (Poem 9.7. 25-32); his insistence on this point, and the slight content of the poem itself, lend credence to his plea». (120) Si contano solo quattro eccezioni: a parte le nostre saffiche, in due casi si tratta di dimetri giambici alla maniera di Ambrogio (Carm. I, 16 e II, 6); nel terzo di settenari trocaici (Carm. II, 2). (121) È l’opinione espressa da Di Brazzano, ed. cit., p. 486, nota 54, il

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quale, radicalizzando l’osservazione della George (vedi sopra, nota 119), sostiene che la desuetudine ha fatto scrivere a Venanzio un testo fiacco. (122) Apoll. Sid., Carm. IX, su cui vedi F.E. Consolino, Codice retorico e manierismo stilistico nella poetica di Sidonio Apollinare, «ASNP» 4, 2, 1974, pp. 423-460; S. Santelia, Le dichiarazioni del poeta: il carme IX di Sidonio Apollinare, «Inv.Lucernis» 20, 1998, pp. 229-254. (123) George, Poems, p. 91, nota 107: «The phrase “my Flaccus” here has the touch of a Latin poet writing for a cultured patron, complimenting Gregory by that literary bond». La convinzione di Venanzio che Orazio imitasse Pindaro – Pindaricus egli lo definisce nell’epistola a Siagrio (Carm. V, 6, 7) – è con ogni probabilità responsabile della sua attribuzione di saffiche al poeta greco. (124) In Dionaeos amores, il riferimento a Venere indica esclusivamente il carattere erotico della poesia di Saffo, con sottintesa contrapposizione all’amore spirituale dei cristiani. (125) Vedi sopra, nota 103. (126) Cathem. 8 e Perist. 4. (127) I nominativi Pru¯de¯ntı˘us e Sı¯do¯nı˘us possono collocarsi nell’endecasillabo solo dal IV al VII elemento e solo se seguiti da vocale; Enno¯dı˘us e Auso¯nı˘us solo dal V all’VIII elemento e solo se seguiti da consonante; tecnicamente possibile ma sintatticamente difficile la loro collocazione, sempre se seguiti da consonante, nell’adonio finale. (128) La notizia che la stesura avvenne durante l’estate (in tempore messium), unita alla duplice menzione di Gregorio come vescovo di Tours (lo divenne in settembre del 573) e di Germano (morto in aprile del 576) come vescovo di Parigi restringe le possibilità di datazione a due anni, il 574 e il 575: vedi S. Quesnel, Introd., pp. XV-XVII. (129) C. Braidotti, Prefazioni in distici elegiaci in G. Catanzaro e F. Santucci (a cura di), La poesia cristiana latina in distici elegiaci, Atti del Convegno di Assisi 1992, Assisi 1993, pp. 57-83. (130) Ep. ad Gregorium, 3: le citazioni dalla Vita Martini seguono il testo dell’edizione Quesnel. (131) Ibidem, 4 Domino meo et pio domino Martino, si ipse commeatum obtinet, in quaternionibus quos direxistis ipsi, per vos oblaturus confestim transcribendos curabo, illud certe postulans ut eius a vobis pietas reparata pro nobis humilibus et suis peculiaribus intercedere non desistat. (132) Ibidem, 1: Venanzio afferma che tralascerà gli ornamenti retorici (evocati con terminologia greca) e fa appello all’affetto dell’amico, che – diversamente da lui – ben conosce tutte le discussioni in materia, chiedendogli indulgenza perché – impegnato nella mietitura – non ha potuto nec expedire ... nec tentare singula. (133) Da Gregorio il poeta si aspetta (ibidem, 2) solo la richiesta di mettere in versi i libri de virtutibus sancti Martini: cum iusseritis, ut opus illud Christo praestante intercessionibus domni Martini, quod de suis virtutibus explicuistis, versibus debeat digeri, id agite, ut mihi ipsum relatum iubeatis transmitti. (134) Vv. 41-42 vos date quod vobis cum fenore reddat alumnus,addam ut thesauris parva talenta suis. L’interpretazione del passo è problematica. Il termine alumnus viene riferito a Venanzio da F. Corpet, Venance Fortunat, Poème sur la Vie de Saint Martin, Paris 1849, p. 359 e G. Palermo (a cura di), Venanzio Fortunato, Vita di San Martino di Tours, trad., introd. e note, Roma 1985, p. 47 il quale traduce «il figlio adottivo» perché «Fortunato si stimava figlio in Cristo» delle due sante donne cui rivolge la sua richiesta. Contro questa interpretazione va però cum fenore reddat, espressione che non può riferirsi al poeta perché – come giustamente rileva la Quesnel (note compl. 10, p. 108) – è «incompatible avec la modestie du poète, qui ne peut prétendre de “rendre avec usure”». Più probabilmente, con un’immagine diffusissima negli autori cristiani, cum fenore allude alla parabola dei talenti, e designa qui gli interessi con cui Radegonda e Agnese vedranno ripagato in cielo il loro ‘investimento’ in preghiere per la riuscita del poema. Ma la ricompensa celeste potrà venire loro solo da Dio o da Martino, e a Dio, Figlio (il Verbum di v. 39) o Padre, in considerazione del doppio significato di alumnus (“qui alit et

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qui alitur”), pensa infatti la Quesnel. I tesori sarebbero dunque quelli del Figlio, oppure (ed è l’interpretazione preferita dalla Quesnel) quelli prodigati dal Padre a Radegonda e Agnese. Entrambe le interpretazioni mi lasciano perplessa: se si tratta di Cristo, non si vede quali tesori Venanzio possa dargli che questi già non abbia; se invece si tratta del Padre – anche a prescindere dal valore attivo, molto raro e non attestato in Venanzio, che si dovrebbe attribuire ad alumnus – è piuttosto improbabile che thesauris indichi i doni largiti da Dio alle due monache, perché in genere nei testi cristiani thesaurus e thesaurizare designano la ricchezza che ci si costruisce in cielo con le buone azioni della vita terrena, e in ogni caso l’idea che Venanzio possa accrescere i doni di Dio suonerebbe alquanto blasfema. Proporrei perciò, sia pur con qualche esitazione, che il termine alumnus designi Martino, tanto più che egli è definito Christi alumnus da Paul Petr., Vita Mart. IV, 315 (maestitiam sancti miseratus alumni/ Christus). Per i santi come alumni di Cristo, cfr. Commodian. Apol. 215 deus misit alumnos (gli Apostoli); Paul. Nol., Carm. XVI, 161 (domini ... alumnum) di San Felice e XIX, 604 s. (dextera Christi .... meritum cari monstraret alumni); e Venanzio (per S. Medardo) Vita Medardi III, 10 ut Christi merito potaretur alumnus. I parva talenta rappresentati dal poema di Venanzio incrementano i thesauri del santo perché con l’ispirazione a lui offerta Martino accresce in cielo le proprie benemerenze: sui thesauri spirituali di Martino, cfr. VM IV, 573 (haec tibi divitiae, thesauri, regna, talenta). (135) Cfr. Quesnel, p. XV, nota 23. Come osserva C. Braidotti, Prefazioni in distici elegiaci, pp. 57-83, la richiesta indiretta di ispirazione è una «raffinata variante alla invocatio» (p. 75). (136) Cfr. C. Braidotti, Una metafora ripetuta: variazioni sul tema nautico nella «Vita S. Martini» di Venanzio Fortunato, «GIF» 45, 1993, pp. 107-119, in part. p. 114. (137) Essa è ripresa nel proemio del II libro, in quello del III, e infine all’inizio del IV e ultimo libro, che si sofferma sul percorso finora compiuto: dopo il riposo sull’erba di un prato fiorito, tocca riprendere la navigazione; ad evitare che il poeta si arenasse fra sabbie bibule, c’è stato nei primi tre libri, quale guida, l’illustre vita del patrono Martino (IV, 1-17). (138) Mentre Venanzio (II, 1-10) invoca lo Spirito Santo perché ne favorisca la navigazione, Paul. Petr. II, 1 ss. dice di star portando la sua malconcia barca in alto mare: dopo aver navigato lungo costa per Martino monaco, si dovrà spingere al largo per Martino vescovo. Per un confronto sulla metafora della navigazione nei due poeti biografi di Martino, cfr. S. Labarre, Le manteau partagé. Deux métamorphoses poétiques de la Vie de saint Martin chez Paulin de Périgueux (Ve s.) et Venance Fortunat (VIe s.), Paris 1998, pp. 64-66. (139) Vita Mart. I, 14-35. (140) Se questi è da identificare con il vescovo di Auch, autore del Commonitorium, non andrebbe menzionato fra gli autori di parafrasi epiche dei testi sacri (a meno che non gli abbiano dato titolo alla citazione i 7 esametri de nativitate domini o i 95 esametri de trinitate attribuitigli dal cod. Turonensis, o che gli venissero attribuite opere di cui non abbiamo notizia). (141) S. Quesnel, La «vita Martini» de Fortunat: une conception de la «retractation poétique», in Au miroir de la culture antique: mélanges offerts au président René Marache, Rennes 1992, pp. 393-407. (142) Vedi sopra, p. 245 e nota 67. (143) Carm. II, 16: questa sua similarità con i libri su Martino era già rilevata da Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 15. Sappiamo da Gregorio di Tours (HF IV, 19 e 51) che Clotario aveva traslato nella capitale di Soissons le spoglie del vescovo Medardo di Noyon e che aveva iniziato la costruzione sulle sue reliquie di una cattedrale poi compiuta dal figlio Sigeberto. La narrazione procede per riquadri, introdotta da un tema panegiristico (da che parte cominciare: II, 16, 25 s. Quae prius incipiam sacri miracula facti,/ cum, quicquid facias, omnia prima micent?) e vivacizzata da alcuni commenti ai miracoli (II, 16, 65 ss. Hinc tamen ut potero, cum raptus ab orbe fuisses, / quae dederis populis signa verenda loquar; 157 ss. quid referam mutis qui verbo verba dedisti?). Dopo aver chiesto al santo di proteggere Sigeberto, che gli ha costruito il tempio (culmina custodi qui templum in culmine duxit), il poeta conclude

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chiedendo per se stesso il sostegno del santo (v. 165 s.: Haec, pie, pauca ferens ego Fortunatus amore/ auxilium posco, da mihi vota, precor). (144) Al tipo di devozione (da cliens a patronus, si direbbe) manifestata da Venanzio per Martino ben si attagliano le osservazioni di P. Brown, Il culto dei santi, trad. it. Torino 1983, pp. 75-100 sul rapporto di fiducioso abbandono che lega Paolino di Nola a San Felice. (145) Vita Mart. I, 26-39 Ast ego, sensus inops, Italae quota portio linguae,/ faece gravis, sermone levis, ratione pigrescens,/ mente hebes, arte carens, usu rudis, ore nec expers,/ parvula grammaticae lambens refluamina guttae,/ rhetorici exiguum praelibans gurgitis haustum,/ cote ex iuridica cui vix rubigo recessit,/ quae prius addidici dediscens et cui tantum/ artibus ex illis odor est in naribus istis,/ non praetexta mihi rutilat toga, paenula nulla,/ famae nuda fames superest de papere lingua./ Scilicet inter tot sanctorum culmina vatum,/ flumina doctorum et gemmantia prata loquentum,/ nullo flore virens, ego tendam texere sertam,/ mellis et irrigui haec austera absinthia miscam? (146) Vita Mart. IV, 16-25 Me tamen in bibulis ne mergeret auster harenis,/ summa gubernavit Martini vita patroni,/ quam nitor scabridis indignus scalpere verbis/ rusticus, arte rudis, temptans formare monile,/ quod nec lima polit neque malleus addit acumen,/ non incudo terit fornaxque examinat igne/ nec mordax gemino forceps trutinavit obunco,/ sed magis incomptum profert mea lingua metallum./ Res tamen illa iuvat sine qualibet ullius arte,/ quod per se pulchram praefert sua gratia gemmam. (147) Sulla presenza di tratti autobiografici nelle dichirazioni dei poeti cristiani, cfr. F.E. Consolino, Il discorso autobiografico nella poesia latina tarda, in G. Arrighetti e F. Montanari, La componente autobiografica nella poesia greca e latina fra realtà e artificio letterario. Atti del Convegno di Pisa (16-17 maggio 1991), Pisa 1993, pp. 209-228. (148) Cfr. Quesnel, Introduction, pp. LXI-LXII. (149) Carm. 24, su cui si rinvia ora a Sidonio Apollinare, Carme 24. Propempticon ad libellum, Introd., traduzione e commento a cura di S. Santelia, Bari 2002. (150) Così egli si definisce in Carm. VII, 9, 7, ma anche in altre occasioni le lodi a vescovi e dignitari che mettono a proprio agio gli stranieri contengono una voluta allusione alla sua condizione di poeta italiano in Gallia. (151) Carm., Praef. 4. Unde, vir apostolice, praedicande papa Gregori, quia viritim flagitas ut quaedam ex opusculis inperitiae meae tibi transferenda proferrem, nugarum mearum admiror te amore seduci quae cum prolatae fuerint nec mirari poterunt nec amari. (152) Cfr. Apoll. Sid., Epist. I, 1 a Consenzio, il quale a sua volta si esprimerà in modo analogo nell’epistola al vescovo Censorio di Auxerre, cui invia la Vita Germani Autissiodorensis (cfr. F. E. Consolino, Ascesi e mondanità nella Gallia tardooantica. Studi sulla figura del vescovo nei secc. IV-VI, Napoli 1979, pp. 69-70). Le modalità di questo gioco delle parti sono illustrate da A. Loyen, Sidoine Apollinaire Paris 1943, p. 97 ss. (153) Come suggeriva già Quintiliano, Inst. 4, 1, 7: quare in primis existimetur venisse ad agendum ductus officio vel cognationis vel amicitiae: G. Simon, Untersuchungen, p. 59. (154) Rispettivamente in Georg. IV, 509 e 517 ss. (155) Georg. IV, 525 ss. Eurydicen vox ipsa et frigida lingua, / ah miseram Eurydicen! Anima fugiente vocabat;/ Eurydicen toto referebant flumine ripae. (156) Orfeo è un termine di paragone caro a Venanzio, che lo utilizza anche per l’eloquenza di Gogone (vedi sopra, p. 247 e nota 95). Ad Orfeo si era paragonato Claudiano nella praef. a rapt. II. (157) Ecl. IX, 36 Argutos inter strepere anser olores; ma vedi anche Prop. II, 34, 83 s. canorus / anseris indocto carmine cessit olor: S. Blomgren, De Venantio Fortunato Vergilii aliorumque poetarum priorum imitatore, «Eranos» 42, 1944, p. 85. (158) Ep. IX, 10, 2 (a Tacito) in via plane non nulla leviora statimque delenda ea garrulitate, qua sermones in vehiculo seruntur, extendi Stesso motivo del comporre in viaggio in Ep. IV, 14, 2; VII, 4, 8 e III, 5, 15.

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(159) Apoll. Sid., Carm. XII. (160) Come fa p. es. R.R. Bezzola, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident, Paris 1944, p. 42, che vede nel passo una testimonianza relativa al passaggio del poeta fra Bavari e Alamanni. (161) L’osservazione si deve a Godmann, Poets, p. 3, secondo il quale in questo autoritratto di moderno Orfeo Venanzio sottolinea la propria posizione di poeta latino esponente dell’antica cultura fra i Franchi, e dei classici mette a frutto la persistente forza di attrazione per conquistarsi «contemporary sources of patronage» (p. 4 s.). (162) M. Reydellet, Tradition et nouveauté, p. 84. (163) Carm., Praef. 6 Sed quoniam humilem inpulsum alacriter, acrius renitentem, sub testificatione divini mysterii et splendore virtutum beatissimi Martini coniurans hortaris sedulo ut contra pudorem meum deducar in publicum, …oboediendo cedo virtuti. (164) Cfr. Reydellet, Introduction, p. LXX. (165) I primi sei versi sono rivolti agli amanti degli autori profani (Demostene, Omero, Cicerone, Virgilio), i 4 versi successivi ai cultori di Pietro e Paolo: cfr. Nazzaro, Intertestualità, p. 100 s. (166) V. 65. Non concordo con Reydellet, il quale ritiene che sanctorum vatum indichi i profeti. Dal momento che gli interlocutori sono presentati come possibili cultori di Omero e Virgilio, e considerato che in Vita Mart. I, 36 sanctorum culmina vatum indica i poeti che hanno preceduto Venanzio (vedi sopra, p. 253), ritengo che qui debba trattarsi di autori cristiani. (167) Radegonda era morta nel 587, mentre la pubblicazione dovrebbe essere avvenuta nel 590-591 (cfr. Reydellet, Introduction, p. LXX). (168) Il carme dovrebbe essere anteriore alla missione a Bisanzio per ottenere le reliquie della croce, avvenuta fra gli ultimi anni 60 e i primissimi anni 70 del 500, poiché viene dato per vivo Amalafrido, il cugino di Radegonda che risiedeva a Costantinopoli, e di cui la regina apprese la morte in quell’occasione. (169) Brennan, Byzantine Agent?, p. 12 ritiene che scopo secondario del carme sarebbe stato quello di promuovere in Oriente la conoscenza di Radegonda e del suo convento nella lontana Poitiers. (170) Cfr. Greg. Tur., HF, IX, 39. (171) Carm. VIII, 12 e 12a a Gregorio di Tours, che viene pregato di intervenire. D. Tardi, Fortunat. Étude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927, p. 93 s., che è stato il primo a ricollegare carm. VIII,12 a quello scandalo, ipotizzava che i copisti avessero alterato l’originario ordine dei carmi, inserendo qui un testo che doveva invece far parte di una terza raccolta, verisimilmente pubblicata nel 592 e rappresentata dal X libro. Una convincente confutazione di questa ipotesi in Reydellet, Introduction, p. LXX, nota 235. (172) Sulla significazione aggiunta che i carmi di Venanzio traggono dalla loro collocazione nel contesto di una raccolta, vedi M. Reydellet, Tradition et nouveauté, p. 85. (173) In particolare, v. 12 (Italiae genitum, Gallica rura tenent) ricorda l’epitafio di Virgilio.

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FRANCESCO STELLA Università degli Studi di Siena

Venanzio Fortunato nella poesia mediolatina Il tema che mi è stato affidato rappresenta qualcosa di più che un capitolo di storia letteraria sulla fortuna di un autore tardo-antico o romano-barbarico (a seconda dei punti di vista) nel lungo millennio medievale: è un filo rosso che attraversa molti secoli e molti paesi come una matrice sempre attiva, un modello-codice imitato a più livelli, continuamente richiamato e reinterpretato in ambiti espressivi e ambienti culturali di ampia estensione e grande varietà. Pretendere di fornire un quadro completo di questa multiforme germinazione sarebbe un impegno, oltre che ambizioso, certamente non sintetizzabile nello spazio che ci è gentilmente concesso in questa sede. Mi è sembrato perciò inevitabile procedere con sondaggi, articolati per tipologie in modo da proporre elementi utilizzabili per un panorama sistematico1. Punto di partenza saranno i pochi contributi esistenti sull’argomento2, integrati con le esperienze personali di lettura della poesia mediolatina. La fortuna di Venanzio era iscritta evidentemente nel suo stesso nome, e oggi possiamo inserire questa storia all’interno del flusso di rivisitazioni che negli ultimi decenni ha valorizzato il ruolo della tarda antichità sulla formazione e la cultura del medioevo sia nel suo standard espressivo sia nelle punte creative dei vari preumanesimi: sempre più riscontriamo che le espressioni originali e mature della letteratura medievale sono state ispirate non tanto dalla reviviscenza degli autori cosiddetti classici, cioè della Roma repubblicana e protoimperiale, quanto da quella che Curtius ha definito la meravigliosa iridescenza della stagione tardoantica. I classici che fanno scuola nel primo medioevo, ormai lo sappiamo con certezza, non sono Orazio e Ovidio ma Sedulio e Venanzio, così come la prosa non fa riferimento a Cicerone, Sallustio e Tacito ma a Girolamo, Agostino e Orosio. Questa trasformazione del paradigma storiografico consente di impostare il problema della fortuna di un autore del VI secolo non più come sequenza di recuperi occasionali o rapporti privilegiati con un focolaio di imitazione o una 269

ripresa individuale, bensì come tradizione continua, con i suoi picchi e le sue stagnazioni, soggetta a reinterpretazioni e riscritture ma anche a rapporti mediati: se infatti ci si riferisce a una continuità anziché a una costellazione di iniziative isolate, dobbiamo fare i conti non più con relazioni bilaterali fra modello e ripresa ma con relazioni multilaterali, grazie anche all’ampio ventaglio di generi praticato da autori come Venanzio, e alla frequenza di imitazioni a più livelli: si può trovare cioè un poeta che impiega tasselli dei Carmi di Venanzio per confezionare i suoi versi, ma anche uno scrittore che cita sue espressioni proverbiali attingendole non dall’opera originale ma da un imitatore intermedio. È più facile, cioè, imbattersi in imitazioni di secondo grado, come sono state chiamate, e dunque più complesso ricostruire l’albero completo dei riferimenti e delle ascendenze, come accade ogni volta che ci si trova di fronte a quello che la critica definisce “modello-codice”.

La tradizione manoscritta

La prima ricognizione in queste indagini parte tradizionalmente dalla trasmissione manoscritta: nel nostro caso possiamo fondarci sulla sintesi recentissima, presentata da Antonio Placanica nel convegno SISMEL di pochi mesi fa riguardo alla tradizione dei Carmina: i dati ivi forniti confermano sostanzialmente quanto esposto da Marc Reydellet nella sua edizione, e cioè un’ampia diffusione dei manoscritti fra i secoli VIII e XI. Fra questi vanno compresi alcuni testimoni3 che gli editori più o meno conoscono ma non utilizzano, limitandosi abitualmente ai 15 più importanti e all’edizione Brower del 1603 fondata su codici di Treviri ora perduti.4 Placanica riesamina la collocazione stemmatica dei manoscritti principali, fra i quali nonostante la contaminazione si riesce a disegnare un albero di relazioni attendibile, e vagliandola al confronto con le lezioni ricostruibili dalla tradizione indiretta giunge alla conclusione che “nella Francia del IX secolo, così come in area iberica tre secoli più tardi, non circolava tradizione dei Carmina di Venanzio Fortunato diversa da quella serbata nei manoscritti a noi pervenuti”5. I codici che noi possiamo consultare dunque ci porrebbero dinanzi al testo che potevano leggere i letterati angli e franchi nell’VIII secolo o i cultori di san Giacomo nella Galizia dell’XI secolo. In realtà la situazione è più complessa di come appare 270

dai prolegomena filologici: da una parte, infatti, sarebbe importante disporre di una descrizione dei manoscritti a carattere storico-culturale e non solo ecdotico, per poter penetrare nelle motivazioni dei committenti e ricostruire il tipo di pubblico interessato alle singole trascrizioni, dall’altra bisogna tenere presente che le edizioni esistenti si basano comunque su un numero selezionato di testimoni, che non rendono un’idea adeguata della diffusione di Venanzio nel medioevo. Brani, estratti, collages di poesie di Venanzio, in particolare degli inni e di testi interpretabili o adattabili come inni6, si trovano in molti manoscritti che gli editori abitualmente non utilizzano7. Reydellet li considera a priori ininfluenti per la constitutio textus, ma riconosce che una ricognizione su questo materiale sarebbe importante per la ricostruzione della presenza e della fruizione delle poesie di Venanzio.8 È da questa esplorazione che si dovrebbe partire per seguire le tracce del nostro poeta nei secoli medievali. Un esempio fra tanti è il ms. Bamberg, Staatliche Bibliothek B. II. 10, una silloge di poesia religiosa selezionata da Alcuino di York per uso non tanto di liturgia pubblica quanto di devozione privata, probabilmente non solo personale9: qui si trovano estratti venanziani dal De virginitate accorpati a citazioni da Giovenco Sedulio Draconzio e altri poeti cristiani, in modalità centonistiche. L’esistenza di questo codice conferma le indicazioni di Alcuino sulla presenza di Venanzio nella biblioteca di York e le tracce, individuate da R.W. Hunt, di una tradizione manoscritta anglosassone la cui importanza ci era nota solo dalle attestazioni indirette.10 In questo caso un’analisi del contesto di produzione del manoscritto ci indirizza verso personaggi – come appunto Alcuino – che si rivelano determinanti anche nella storia della fortuna poetica di Venanzio. Un esempio analogo è quello del manoscritto F XIV 1 di San Pietroburgo, trascritto a Corbie, sul quale sembra che abbia letto Venanzio uno dei suoi imitatori più fedeli, il misterioso autore del poema carolingio Karolus magnus et Leo papa11. Uno studio più contestuale della trasmissione manoscritta ci porta dunque anche a contatto con tappe importanti della fortuna poetica.

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Valutazioni dei posteri e lettura scolastica: testimonia

In effetti è proprio la tradizione indiretta l’oggetto di osservazione più redditizio in un’esplorazione di questo genere. Su questo terreno possiamo muoverci in due direzioni: le valutazioni o celebrazioni del poeta e il reimpiego delle sue opere. Per il primo campo la prima occorrenza di un certo rilievo si trova in una poesia ritmica sull’eccellenza della città di Poitiers, conservata in due codici con opere dello stesso Venanzio12: qui, in un latino esuberante e sconnesso che si colloca bene in età merovingia, si fa risalire la gloria di Poitiers a Venanzio (Ex Fortunato ab Ravenna Pictonum floret civitas) come quella di Betlemme a Girolamo e quella di Tours a san Martino. Un tributo apparentemente popolare, limitato alla circolazione locale, che proietta però Venanzio in una dimensione di grandezza assoluta, fra sapienza e santità. La celebrazione più nota del poeta nel periodo precarolingio è tuttavia nell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, che come sappiamo dedica a Venanzio il cap. 13 del secondo libro, motivando questa inserzione con l’amicizia che legava il poeta a Felice, il vescovo di Treviso uscito incontro ad Alboino sul Piave intorno al 568. Paolo si basa sulle notizie ricavabili dall’opera stessa del poeta per tracciare una breve biografia di Venanzio, sulla quale si fondano poi tutte quelle successive, da Aimoino di Fleury a Odoranno di S. Pietro Vivo (a Sens) a Eccheardo di Aura (in Baviera) a Sigeberto di Gembloux13 fino ai nostri giorni. Lo definisce vir venerabilis et sapientissimus, e poco dopo nulli poetarum secundus, concludendo il capitolo con l’epitafio che egli stesso avrebbe composto dopo essersi recato a pregare sulla tomba del poeta: è lì che troviamo la celebre formula Fortunatus apex vatum, onorato per aver fissato nella memoria le gesta dei santi. Paolo si sente investito, sia nei versi che nella chiusa prosastica del capitolo, della missione di trasmettere il ricordo di quest’uomo, gloria della Gallia e ormai venerato come santo, nella sua terra d’origine, la patria longobarda condivisa con Paolo pur nella probabile differenza etnica. Questa fama istantanea e duratura di Venanzio gli conferì da subito lo statuto di classico della poesia medievale: il suo nome compare fin dall’epoca carolingia negli elenchi di poeti cristiani da studiare14, e il manuale della formazione religiosa carolingia e postcarolingia, il De clericorum institu272

tione di Rabano Mauro, ne consiglia la lettura insieme a quella di Aratore, Avito, Prudenzio e Paolino da Nola.15 I suoi versi vengono citati come sententiae efficaci nelle opere didattiche ed esegetiche16, e i trattati grammaticali li inseriscono presto fra gli esempi dei fenomeni linguistici e delle regole di composizione che intendono illustrare: dall’Anonymus de dubiis nominibus alla fine del VI sec.17 al De arte metrica di Beda, all’Excerptio de Arte grammatica Prisciani di Rabano Mauro e a tutti i suoi successori. Günter Glauche ne documenta la presenza in cataloghi di biblioteche medievali come quelli di Reichenau dell’821-22, StRiquier 831, Murbach (poco successivo all’840), Lorsch III (metà del IX sec.), Passau 930, Bobbio s. IX, fino ad Anchin e St-Evre di Toul nell’XI sec. e al Florilegio di Heiligenkreuz 227 del sec. XII (ff. 73e-107v)18. Nei codici perduti Venanzio compariva accanto a Prospero, Aratore, Sedulio, Giovenco e Avito ma anche a Sereno, Avieno e Virgilio. Ancora nel XII secolo la storia letteraria di Sigeberto di Gembloux dedica un capitolo della sua storia letteraria, il 45, a Venanzio come autore di un odeporico, della Vita Martini e soprattutto di inni per varie occasioni liturgiche in uno stile definito ancora una volta, come spesso si riscontra nei testimonia medievali, suavis e disertus.

Reimpiego e riscritture

Il secondo filone, quello del reimpiego per imitazione o citazione, si articola in una miriade di attestazioni che vanno dal VII secolo all’Umanesimo19, e che noi percorreremo soprattutto riguardo al primo periodo, nel quale ci soccorre maggiore dovizia di testimonianze e anche di strumenti, a partire dell’indice allestito dal Manitius per l’edizione di Krusch sulla base degli apparati dei Poetae Latini e degli Auctores Antiquissimi dei Monumenta Germaniae Historica, ampliato nella monumentale memoria viennese del 188620. Naturalmente bisogna fare i conti con l’inevitabile inquinamento dei dati dovuto alla frequente attribuzione di paternità venanziana a stilemi e clausole risalenti invece al poetese dell’epoca, cioè a quel repertorio convenzionale di tasselli metrici la cui genealogia è possibile ricostruire solo oggi, grazie alle concordanze elettroniche. Anche scremando i riferimenti di questo tipo, resta tuttavia una serie di casi estremamente significativa, che dimostra un ricorso intertestuale sicuro a Venanzio in Paolo Diacono, Alcuino, 273

Angilberto, Modoino, Hibernicus Exul, Teodulfo d’Orléans, Ermoldo Nigello, Rabano Mauro, Valafrido Strabone, Floro di Lione, i Carmina Salisburgensia, Milone di Saint-Amand, Agio di Corvey e altri autori fra VII e IX secolo, cui si possono aggiungere con sicurezza almeno i nomi di Engelmodo21, Dhuoda22, Valdramo23, Freculfo di Lisieux24, Micone di SaintAmand25, Oddone di Cluny26, Flodoardo di Reims27, la Vita Mathildis28, Dudone di St-Quentin29, Bertario di Verdun30, Adsone di Montier-en-Der31, Libellus de rebus Treverensibus32, Wulstano di Winchester33, Froumundo di Tegernsee34, Ruodlieb35, Alfano di Salerno36, Pietro di Cluny37, Osberno38, Pier Damiani39, Karolellus40, fino al Codex Calixtinus di Santiago menzionato anche da Placanica e naturalmente a Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri. La messe, ancora largamente provvisoria ma già evidentemente ingovernabile, conferma senza ombra di dubbio la statura di classico assunta da Venanzio nel Medioevo, e la pervasività della sua presenza in generi e autori di ogni paese, non solo delle zone più prossime a quelle percorse nella sua biografia, come Francia e Germania, ma anche in regioni, come le isole britanniche, dove non è attestato alcun manoscritto antico di Venanzio ma dove è sicuro che Venanzio fu letto e imitato assiduamente.41 Le modalità di questa presenza si estendono dal riuso scontato di incipit o clausole efficaci alla citazione di versi o emistichi proverbiali all’intarsio di raffinata intertestualità che assume Venanzio a ipotesto su cui ricamare le variazioni dell’opera nuova, fino alla sussunzione di uno schema di argomenti, cioè una griglia topica dai suoi prologhi, dalle sue consolationes o dalle sue iscrizioni, pronta per essere adattata alle situazioni e ai personaggi più diversi. Non manca il vero e proprio centone di versi venanziani, come quello composto dallo pseudoTurpino per il ritratto di Orlando nel Karolellus, e all’estremo opposto l’influenza su fattori microstilistici come la moda dell’asindeto nell’agiografia metrica del X secolo (Vita Romani di Gerardo di Soissons), che Manitius attribuisce all’imitazione di Venanzio. Un caso singolare è la catena di citazioni che si stabilisce nella cronachistica virdunense: dopo che Bertario nella seconda metà del IX secolo modella nei Gesta episcoporum Virdunensium il racconto dell’episodio di sant’Agerico (cap. 6) su Carmina III 23 e 23a, Ugo di Flavigny (n. 1065) ne reincorpora in blocco le citazioni venanziane nel suo Chronicon universale42.

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Il modello generativo: epitafio, “consolatio”, epica, innografia

Nel caleidoscopio di spunti può essere utile isolare alcune direzioni esemplari. La più proficua è la funzione di modello generativo, nella terminologia di Conte-Barchiesi43: Venanzio assume questa veste per più di un genere letterario. Il caso più diffuso è quello delle iscrizioni. Come è noto, il IV libro dei carmi è costituito da 28 epitafi in distici, sviluppati di frequente in forma di epicedio. La natura effettivamente epigrafica di questi testi è stata discussa fin da quando Le Blant e de Rossi li hanno inclusi, insieme a testi da altri libri dei Carmina, nella loro raccolte di iscrizioni cristiane44, seguiti da Jullian, Kraus e altri45, mentre Meyer e de Labriolle con altri negavano la possibilità o comunque la dimostrabilità di una realizzazione concreta delle presunte epigrafi, pensando piuttosto a testi da leggere in occasione delle esequie. Bernt46 ha ricordato l’esistenza di almeno un’attestazione di testi venanziani (non appartenenti all’edizione antica) incisi su pietra, sostenendo la natura epigrafica anche di qualche altro, mentre Favreau ritiene che solo I 5, scritta in cellula sancti Martini, sia stata composta su commissione verificabile di Gregorio di Tours: nonostante la lunghezza (24 vv.) esibisce infatti caratteristiche anche stilistiche più evidentemente riconducibili al frasario epigrafico, come l’apostrofe iniziale al lettore (Qui celerare paras, iter huc deflecte viator)47. Ma se si prescinde dal contesto materiale e si rimane comunque entro i confini di quella che è stata definita “epigrafia letteraria”, Venanzio mostra di aver creato un linguaggio per un genere destinato a un successo inesauribile per tutto il medioevo. Questo linguaggio – sviluppato su elementi di origine realmente epigrafica per gli scopi di un’epigrafia immaginaria oppure orale – viene riutilizzato, poi, in una sorta di processo circolare, per le iscrizioni reali di personalità politiche e religiose: lo stesso Favreau ha individuato negli epitafi dei pontefici Adriano I, Benedetto III, Nicola I, Sergio IV e altri il riuso di espressioni tipicamente venanziane (provenienti soprattutto dall’epigrafe per san Vittoriano del 558, Carmina IV 11), mentre un’iscrizione attribuita da Guglielmo di Malmesbury alla Glastonsbury del 700 sarebbe interamente costituita da versi attinti da Venanzio, e il corpus delle epigrafi francesi dei secoli VIII e IX rivelerebbe non meno di 80 espressioni riprese dalla sua opera. Lo stesso Favreau pone a questo proposito il dilemma del livello di imitazione: si tratta di ripre275

se dirette dal modello, o di imitazioni di secondo grado da un autore protocarolingio che a sua volta si rifà a Venanzio? E nel caso in cui le espressioni condivise si trovino anche in autori classici, come si può individuare la fonte effettiva senza un’analisi contestuale e linguistica estremamente minuta? Un sondaggio effettuato su tre clausole dimostra comunque che la percentuale di espressioni frequenti nell’epigrafia che risalgono solo a Venanzio e non sono attestate prima è quasi il 50%, una quota comunque altissima, che conferma al poeta il ruolo di padre dell’epigrafia letteraria medievale. Anche in questo come in altri casi avviene che la contiguità di un genere – qui l’epigramma o iscrizione – con un un altro genere – qui l’epistola poetica – estenda l’influenza dell’uno sull’altro, propagando stilemi epigrafici di Venanzio, secondo i rilievi di Bernt, anche alle lettere in versi di età carolingia, e non solo in autori come Alcuino e il suo allievo Rabano, già fortemente debitori a Venanzio nell’elaborazione di epigrafi più o meno letterarie, ma anche a poeti più autonomi e remoti come l’irlandese Sedulio Scoto. Un altro sottogenere strettamente interrelato con l’epitafio è la consolatio, che Venanzio sviluppa in schemi fortemente connessi all’epicedio in distici. Se ne era accorto già Ernst Robert Curtius in Medioevo Latino e letteratura europea, che nel capitolo sulla “Topica” cita cursoriamente Venanzio a proposito della cristianizzazione dei motivi consolatori, soprattutto degli exempla adibiti a ricordare la morte di personaggi celebri della storia e del mito, in una linea che lo collega a Bernardo di Clairvaux48. Il testo di Venanzio preso in considerazione è Carmina 9, 2, lunga elegia (140 vv.) dedicata al re Chilperico e alla consorte Fredegonda per la morte del figlio. Venanzio vi menzionava, come predecessori illustri nella morte, i protagonisti delle Scritture a partire da Adamo, attraverso una sorta di catalogo riassuntivo che inaugurerà uno stilema destinato a restare topico nel versante religioso del genere, e che potremo riscontrare fra l’altro nella consolatio di Teodulfo d’Orléans per la morte di un confratello49 oltre che in Alcuino50. Venanzio struttura la consolatio con una descrizione del dolore e un’illustrazione del senso cristiano della morte ineluttabile, esortando il re a sopportare il lutto paterno tramite il ricorso ancora una volta a precedenti biblici, come i figli perduti da Giobbe e Davide, “gemme strappate al fango del mondo e accompagnate al trono delle stelle” (v. 110): de 276

medioque luto ducit ad astra throno. Il modello di Venanzio, che compone altre consolationes in II 26 per Vilituta (pianta dal marito) e l’imbarazzante V 5 per la morte di Gelesvinta51, trova applicazioni e adattamenti non solo – come si è visto – in Teodulfo e Alcuino52, che come spesso avviene ne astraggono gli schemi riducendoli a topica, ma riscontra uno sviluppo di grande respiro nei 718 versi del Dialogus con cui nell’anno 874 il monaco Agio di Corvey rappresenta il dolore per la morte della badessa di Gandersheim Hatumoda in una sorta di fabula funeraticia drammatizzata, un contrasto funebre fra il poeta, che espone i suoi motivi consolatori, e le sorelle della defunta che contrappongono argomenti per il pianto mediante uno schema retorico che vede la successione iterata di concessio, argumentum e refutatio e trova una composizione nel superamento collettivo, in questo caso comunitario, del sentimento individuale, sancito da un’apparizione di Atumoda stessa.53 Agio propone un’innovazione importante e felice del genere combinando, come ha dimostrato Peter von Moos, la topica venanziana con lo schema amebeo dell’ecloga allegorica54. L’argomento cunctis commune mori mortalibus extat (v. 219) è supportato da esempi biblici che partono come in Venanzio dai protoplasti fino a Cristo, la cui morte conquistò per tutti una vita migliore, e la percursio comprende anche personaggi di cui la Bibbia non descrive ma presuppone la scomparsa: questo sviluppo prende in Agio quasi 100 versi, assumendo una sorta di autonomia compositiva. Peter Von Moos ha individuato ben 19 consolationes carolinge, cui nell’antologia ho fatto qualche ulteriore aggiunta55, a loro volta sfruttate come modelli nei secoli successivi: in tutte lo schema di base, incrociato e articolato come si è visto secondo le sollecitazioni del contesto e l’influenza di modelli allotrii, è quello biblico istituzionalizzato per primo da Venanzio.

Meno localizzabile ma più imponente è forse l’influenza del nostro poeta su sulla poesia epica. A questo proposito è stato più volte notato che la suddivisione in quattro libri di alcune opere epiche di età carolingia, come l’In honorem Hludowici di Ermoldo Nigello e quello del Poeta Saxo, dipenderebbe in senso emulativo o in senso contrappositivo dal modello della Vita Martini, che peraltro in questi poemi è presente anche come modello stilistico: questa osservazione da una parte conferma il prestigio per così dire ufficiale di cui godeva l’agiografia metrica di Venanzio, dall’altro pone un problema, che qui non possiamo affrontare, di clas277

sificazione dei generi, rinviando a una questione dibattuta e ovviamente irrisolta: se lo statuto delle opere panegiriche altomedievali sia realmente o piuttosto convenzionalmente epico, a fronte di una sostanza invece intrinsecamente e socialmente epica della grande agiografia sia biografica, come quella di Venanzio, sia istituzionale, come quella di Alcuino sulla storia della chiesa di York o di Paolo Diacono sui vescovo di Metz. La pervasività del modello martiniano come archetipo epico è dimostrata in questo versante proprio dall’influenza della Vita Martini anche su Alcuino, che ne imita intere scene. Così anche la parte iniziale della Vita Amandi di Milone, uno dei poemi agiografici più brillanti e riusciti del secolo IX, modella i capitoli iniziali – dalla nascita di Cristo alla prima predicazione degli apostoli – su testi di Venanzio Fortunato: in questo caso si tratta di Carmina 5, 2 a Martino di Braga e 8, 3 (il De virginitate)56. Anche indipendentemente dal problema del rapporto agiograficaepica, Venanzio è considerato il prototipo del poeta “istituzionale” nell’alto medioevo, l’autore che con maggiore disinvoltura, capacità di adeguarsi all’occasione e abilità di sintonizazione del tono stilistico ha saputo interpretare il rapporto con i vertici sociali della sua epoca, sia ecclesiastici sia politici, sia pubblici sia privati, con una sensibilità e insieme una confidenza e consapevolezza del proprio ruolo che non potevano non restare un modello ineguagliato fino almeno all’XI secolo e a figure come Alfano di Salerno e Ildeberto di Lavardin. Fra i poemi epici che si ritengono ispirati da Venanzio pare si debba collocare anche il cosiddetto Karolus magnus et Leo papa, denominato anche “Epos di Paderborn” (Beumann-Brunhölzl) o “Epos di Aquisgrana” (Schaller) e attribuito a vari autori della corte protocarolingia, in ultimo a Modoino di Autun57. Questo testo, che qualcuno ha ipotizzato essere solo il terzo libro di un’opera più estesa, dedica i versi 172-267 alla descrizione della famiglia imperiale e del suo seguito, la descrizione più ricca – secondo Godman58 – fra quelle analoghe nella poesia latina dopo Venanzio e “la più elaborata celebrazione delle donne della casa carolingia che sia stata scritta da un autore loro contemporaneo”. In questo caso il poeta non sembra avere fatto la “scelta, apparentemente prevedibile, di prendere a modello uno dei panegirici politici di Venanzio”. Ha attinto invece, come dimostra Godman, al De virginitate dello stesso autore: dietro la gerarchia della corte sta la gerarchia celeste presieduta dalla Vergine. Anche questo parallelo fra vertici terreni 278

e celesti ha una sua tradizione antica, che trova nella Laudes Regiae le sue formule più celebrate: in questo solco il recupero di un modello sacrale conferisce all’ingresso del corteo regale una sontuosa solennità. La scena successiva racconta la caccia a cavallo, e qui il modello torna all’archetipo postvirgiliano di Vita Martini II 326 ss., che viene variato accentuandone il carattere epico59 nella scelta degli aggettivi, nel colore del lessico, nelle clausole. Godman vede in questo processo un tentativo di Kontrastimitation mirata a sostituire san Martino, il principale antieroe della precedente agiografia, con l’eroica figura di Carlo Magno: un tentativo coronato dal successo grazie alla capacità di sfruttare le tensioni fra i modelli anziché limitarsi a giustapporli sfruttandone le disponibilità di repertorio selettivo. Il riutilizzo di singole scene o luoghi critici della Vita Martini trova i suoi punti più frequentati nei passi maggiormente indipendenti dalla fonte di Sulpicio: i prologhi (specie al primo e al terzo libro) e il commiato: dei primi, senza poterci soffermare sull’articolato delle riprese, viene imitato e variato in mille modalità il topos dello scrittore marinaio, un campo metaforico antico che Venanzio recupera anche nei carmi (3, 18) e che ha fruito di studi specifici da parte di Curtius,60 Lieberg61 e Braidotti62, ai quali mi sono riferito anch’io nel commentare il carme 65 IV Dümmler di Alcuino.63 Del secondo, ha colpito invece la disponibilità imitativa dei posteri l’idea del viaggio fluviale e dell’apostrofe al libro, che solo in parte dipendono dal propemptikon di Sidonio Apollinare al libretto in Carmina 24, ampliandolo sensibilmente come scenografia, partecipazione umana e varietà emotiva, ricchezza paesistica. Fra gli imitatori strutturali più fedeli si pone ancora una volta Alcuino di York, il cui carme IV ad amicos isola il topos costruendolo come poesia autonoma alla chartula che, dopo aver fatto il giro dei destinatari, aver loro annunciato le comunicazioni di Alcuino e averne a sua volta raccolto i saluti e le notizie, le riporta al mittente in una metafora perfetta di quella Zirkulardichtung che è patrimonio tipico delle corti, e in ispecie di quella carolingia. Ancora una volta dunque i loci topici della poesia di Venanzio, che è conosciuta e sfruttata come quella di un classico, vengono assimilati e reinventati nei secoli successivi come elementi autonomi, fino a costituire strutture compositive indipendenti, generando ramificazioni peculiari del sistema letterario. Ma il genere che più pervasivamente rivela l’influenza di Venanzio è ovviamente l’innografia, che già i medievali – da 279

Paolo Diacono a Sigeberto di Gembloux – riconoscevano come il terreno più felice della sua attività. È un tema che occuperebbe da solo ben più di una relazione, e che tocca quello che Brunhölzl ha definito il cuore della poesia religiosa di Venanzio64. Il nucleo di questa produzione è costituito come si sa dagli inni alla croce del II libro dei Carmina (1-6): fra questi troviamo il celeberrimo Vexilla regis prodeunt, che entra nella liturgia e diffonde nella poesia mediolatina le formule espressive dell’immagine legno/croce nel contesto del combattimento Cristo/morte: come sappiamo venne citato e rovesciato da Dante nel 34 dell’Inferno65: «”Vexilla regis prodeunt inferni / verso di noi; però dinanzi mira”, / disse ‘l maestro mio “se tu ‘l discerni”» (vv. 1-3). Ma ben prima di Dante quest’inno era stato oggetto non solo di riprese e imitazioni ma di rielaborazioni e adattamenti musicali, come in una sequenza di St. Martial,66 mentre in periodi successivi se ne hanno persino riscritture politiche come inno militare.67 Dedicato alla croce è anche il Pange lingua in terzine di settenari trocaici (II 2), il cui incipit fu variato da Tommaso d’Aquino nel proprio Pange lingua gloriosi corporis mysterium, scritto nel 1264 per l’introduzione della festa del Corpus Domini. Composizioni a carattere innodico sono sparse anche negli altri libri dei Carmina. In particolare la seconda parte del carme III 9 Ad Felicem episcopum de pascha, incipit Tempore florigero rutilant distincta sereno, che ha una tradizione autonoma sia come testo integrale sia, soprattutto, come brano iniziante con il v. 39 Salve, festa dies, toto venerabilis aevo: si tratta di una canzone primaverile la cui associazione fra Pasqua, amore e bella stagione ha esercitato un’influenza determinante anche sulla poesia romanza68 e medioinglese69 e dal quale in ambito mediolatino sono stati ricavati, soprattutto a San Gallo, centoni innodici ad uso processionale e messe in versi70. La diffusione di questi inni è attestata da una consistenza imponente della tradizione manoscritta: la presenza del Vexilla regis si può riscontrare in oltre 48 mss.71 per la maggior parte non conosciuti agli editori dell’opera poetica, ma il numero potrebbe salire se si includessero nel novero anche le “riscritture” transgeneriche come le sequenze di cui si è detto e le antifone che utilizzano o sono integralmente composte da strofe degli inni venanziani, secondo le recenti segnalazioni di Giampaolo Ropa.72 Nell’innografia i testi di Venanzio dimostrano una forza di attrazione costante, che a differenza di quanto accade per gli altri generi supera la soglia del XII secolo per arrivare fino 280

a Huysmans e Joyce, esercitandosi in ambiti diversi e in forme diverse ma con una caratteristica invariante che li accomuna, nel corso del medioevo, ai modi di reimpiego del De virginitate o della Vita Martini: non sono trattati quasi mai come un modello strutturale di genere, bensì come un’interpretazione autorevole del modello esistente (ambrosiano o prudenziano nel caso dell’inno), oppure di un suo tratto o tema specifico, che nella rielaborazione di Venanzio trovano un assetto efficace e funzionale destinato a incardinarsi nel patrimonio espressivo, a divenire topos o repertorio di topoi. Lo stesso Curtius cita spesso il nostro poeta, ma non lo chiama quasi mai in causa come inventor, prÒtoj euretøj di una forma, bensì come anello di trasmissione di una variante efficace e, appunto fortunata. Anche riguardo alle opere in prosa Berschin riconosce che le agiografie venanziane non solo imposero a lungo il modello vescovile sia nel genere agiografico sia come forma di storia della chiesa, ma rimasero per tutta l’epoca merovingia e oltre un repertorio di espressioni indispensabili nei momenti decisivi della biografia, e l’esempio di un modulo narrativo, sequenziale e accumulativo, che fece scuola per secoli.73 Il genio di Venanzio si rivela nella capacità di adattare forme e modelli, di elaborare incroci in grado di soddisfare le richieste di comunicazione poetica di una società nel momento in cui questa trovava gli assetti destinati a durare per quattro secoli. I secoli che vedono la massima diffusione dei manoscritti di Venanzio.

L’invenzione della “dulcedo”

Questa duttilità funzionale si esprimeva nell’equilibrio a suo modo classico di un codice poetico che i lettori medievali hanno sempre definito come dolce, eloquente, elegante, e che nasceva, per individuare un tratto simbolico, dalla capacità di rileggere il Cantico dei Cantici, ad esempio, attraverso la lente dell’Ovidio erotico e della galanteria di scuola retorica74. Il mistero della dolcezza di Venanzio è l’ultima tappa del nostro viaggio, quella nell’interrogazione antica sull’origine della cortesia. Nel 1944, dopo lo studio di Koebner75, Reto Bezzola dedicava quasi completamente a Venanzio il capitolo merovingio della sua celebre indagine sulle origini della letteratura cortese, e dunque dell’idea di amore che ha dominato attraverso l’interpretazione romantica il costume e la cultura occidentali76. A quello che egli definiva “il primo poeta di 281

corte del medioevo” (p. 41) Bezzola attribuiva la creazione di un ideale di maniere gradevoli, amicizia spirituale, nobiltà di carattere in personalità colte che trovava un suo simbolo espressivo nel termine dulcedo, ereditato dalla bassa latinità. Soprattutto, Venanzio avrebbe inaugurato quella “nuova adorazione mistica della donna” che la letteratura cortese avrebbe poi fatto maturare, in presenza di condizioni socioculturali nuove, grazie anche al recupero dell’elegia d’amore latina. Questo slancio sarebbe testimoniato non solo dalle poesie per Radegonda e Agnese, ma anche dalla mistica sensuale del De virginitate, costruito come è stato poi dimostrato da Schmid77 secondo la struttura e il sostegno intertestuale delle Heroides ovidiane. Bezzola trovava insomma riuniti in Venanzio per la prima volta molti elementi essenziali alla formazione di quella poesia cortese che proprio a Poitiers trovò i suoi natali sette secoli dopo: la continuazione dell’antico ideale di urbanitas trasformato nella dulcedo tardoantica, la sostituzione dell’ideale femminile degli elegiaci con quello della domina, moglie del gran signore, e poi della Vergine, combinato a elementi di mistica amorosa e a condizioni performative che prevedevano la recitazione pubblica di poesie d’amore78. Radegonda rappresenterebbe una sorta di prefigurazione delle nobildonne che promossero la cultura cortese come Adele, Matilde, Ermengarda, Maria ed Eleonora. Alcuni decenni dopo, Henri-Irenée Marrou, nel volume su I trovatori tradotto in italiano nel 1983, continuava a citare il precedente di Venanzio in quanto elemento di documentazione di un’ipotesi che accreditava la tradizione mediolatina come fattore decisivo nella formazione della cultura cortese,79 e ricordava che l’ipotesi di Bezzola era stata già anticipata nel romanzo Le Meneur de Louves, dove già nel 1905 Rachilde80 immaginava Radegonda come patrona cortese della poesia di Venanzio. Nel frattempo però Peter Dronke, nei suoi studi degli anni ’60 sulla poesia d’amore medievale tanto autorevoli quanto poco utilizzati dagli studiosi di Venanzio81, aveva contestato la ricostruzione di Bezzola. Pur riconoscendo il contributo di Venanzio all’elaborazione di stilemi del linguaggio amoroso (come l’elativo flos florum, che ritroviamo da Valafrido Strabone a Serlone di Wilton e Bonagiunta Orbicciani), Dronke interpretava il tono cortese di Venanzio come una impostazione generica, che nella sua scrittura rimane costante con qualsiasi destinatario, tanto da promettere baci sulle labbra perfino al nobile governatore Giovino e proferire amore al diacono Antimio. Dronke non vede in 282

queste poesie “un amore mistico per la donna, incarnazione della purezza”, “l’esaltazione religiosa di cui trova gli elementi nel culto della verginità perpetua di Maria”, come sosteneva Bezzola, perché opera una distinzione netta fra la tradizione di courtoisie, commendation e amicizia e l’aspetto di “intimità d’anima” con donne concrete, che non rappresentano l’incarnazione di entità generali. Il linguaggio dell’esaltazione non presenta a suo dire i tratti erotico-religiosi che gli sono stati attribuiti e non è collegato al culto della Theotokos. Inoltre, i riscontri carolingi di celebrazione della regina in Sedulio Scoto, che potrebbero ricostituire una prima testimonianza della continuità di questa linea cortese, non dipenderebbero tanto dal filone erotico di Ragedonda e Agnese quanto da quello panegiristico per Brunilda o Palatina. In conclusione, questo episodio nella storia della lirica d’amore non avrebbe influito sui trovatori, anche perché la loro performatività musicale li mantiene comunque distinti dai poeti mediolatini d’amore anche in epoca tarda82. Altrettanta severità si riscontra nelle pagine di Curtius, che nel capitolo sulle formule di devozione e di umiltà83, cioè sulla retorica della presentazione e della raccomandazione, considerava l’idea della dulcedo come un’invenzione del libro di Koebner su Venanzio (1915). L’uso di termini da questa famiglia lessicale per gli amici e i familiari sarebbe invece, a suo avviso, non una scoperta di Venanzio, ma un elemento comunissimo in latino. E adduceva al proposito Orazio per l’aggettivo dulcis, Macrobo e Teodosio per l’astratto dulcedo, mentre dulcissima gratia vestra è attestato nelle Formulae merowingici et Karolini aevi edite da Zuemer84 questa estensione sarebbe da ricondurre allo stile cerimoniale, elaborato nell’Italia imperiale a partire del 350, e poi tramandatosi nelle scuole di retorica sino a Venanzio. L’analisi di questa discussione e delle tesi a questo proposito presentate richiederebbe uno spazio autonomo e un orizzonte specifico, che negli ultimi anni è stato ulteriormente ampliato dalle ricerche di Franca Ela Consolino e Verena Epp85. Tuttavia è forse possibile proporre qualche considerazione: pur essendo infatti evidente che trovatori del XII secolo e poeti delle corti merovinge sono categorie diverse e discontinue, tuttavia risulta difficile negare che la riproposizione di un rapporto di affetto e di idealizzazione anche religiosa fra poeta e nobildonna laica o monacata trovi i suoi vertici espressivi prima, in modi sconosciuti alla poesia panegirica precedente, in Venanzio Fortunato, poi nei poeti del circolo della Loira (Ildeberto di Lavardin, Marbodo di 283

Rennes, Baldrico di Bourgueil) che allo stile di Venanzio non sembrano estranei e la cui continuità cronologica e geografica con i primi trovatori e le loro corti (fra Poitiers, Tours e Poitiers) risalta senza possibilità di contestazione. Se Marrou e Spanke86 per puntellare la loro ipotesi di derivazione mediolatina e paraliturgica della lirica cortese potevano addurre documenti come le raccolte di versus e i tropari di Saint Martial – dato che neanche Limoges è molto lontana da Poitiers – è pure vero che questi stessi codici contenevano fra gli altri anche testi di Venanzio Fortunato, e che proprio l’adozione di un frasario innografico per gli scambi di affettuosità e convenevoli dell’aristocrazia colta prepara la strada all’elaborazione di un linguaggio nuovo per la lirica erotica, un linguaggio che conquisti la carica mistica sconosciuta agli elegiaci latini e dunque consenta il salto necessario verso l’idealizzazione del destinatario femminile. In questo la condizione unica di Venanzio, primo poeta di corte ad essere anche autore di inni religiosi, non può non aver prodotto effetti determinanti nella combinazione di generi e temi. Su questo punto forniscono un contributo cursorio ma penetrante le letture di Peter Godman, che con grande raffinatezza ha analizzato l’uso del termine dulcedo nel capitolo iniziale del suo Poets and Emperors87, scoprendovi la persistenza dell’accezione alimentare, accanto a quella oratoria e stilistica: questa sovrapposizione dei campi d’immagine consentirebbe a Venanzio, e ai carolingi che ne riproducono il codice espressivo e in qualche caso anche l’atteggiamento cortigiano, di collegare in una metafora conviviale facilmente contigua anche all’immaginario biblico e mistico il rapporto fra scrittura poetica e patronato politico, elaborando un linguaggio che contribuirà a fornire gli strumenti per comunicare una sensibilità e un’esperienza inedite. Mi sono permesso per parte mia in questo senso solo una verifica lessicale, relativa proprio alla dulcedo di cui Curtius aveva tolto a Venanzio il primato di invenzione88. Si tratta di un lavoro che gli strumenti elettronici rendono oggi assai più facile e meno aleatorio che ai tempi di Curtius, e dunque la proposta non si pone in contrapposizione a un grande maestro del passato. Tuttavia questo controllo ha dato un esito inequivocabile: fra tutti i poeti latini in 1500 anni di storia da Ennio al XIII secolo, quello che più di tutti fa uso del lessema di dulcis e dulcedo, con netto distacco di Virgilio, Stazio e Carmina Burana, è Venanzio Fortunato. La dulcedo diventa in Venanzio l’interpretazione di un universo di valori, che molto più di un vezzo lessicale finisce con l’es284

sere la chiave del linguaggio con cui il poeta costruisce alla tumultuosa società merovingia un mondo espressivo in cui proiettare la propria idealizzazione.

Note

(1) Escluderemo naturalmente i carmina figurata e le agIografie, trattati in altre relazioni. (2) Mi riferisco soprattutto all’indice di Max Manitius Poetarum posteriorum loci expressi ad Fortunatum, pubblicato in appendice all’edizione Krusch dell’opera in prosa di Venanzio in M.G.H. Auctores antiquissimi IV/2, Berlin 1885, pp. 137-144 e al suo imponente studio in “Sitzungsberichte der phil-hist. Klasse der kaiserlichen Akademie”, n. 112, Wien 1886, pp. 535-634; al capitolo di D. Tardi, Fortunat. Etude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927, cap. VII L’influence de Fortunat au Moyen Age, pp. 270-281, dedicato esclusivamente ad alcuni poeti carolingi; agli articoli di A. Cordoliani, Fortunat, l’Irlande et les Irlandais, in Etudes mérovingiennes. Actes des journées de Poitiers 1952, Paris 1953, pp. 35-43; R.W. Hunt- M. Lapidge, Manuscript Evidence for Knowledge of the Poems of Venantius Fortunatus in Late Anglo-Saxon England, in “Anglo-Saxon England” 8 (1879), pp. 279-295, rist. in Id., Anglo-Latin Literature 600-899, London 1996, pp. 399-407. (3) Cfr. A. Placanica, La tradizione dei “Carmina” di Venanzio Fortunato, “Filologia Mediolatina” 9 (2002), pp. 15-33; F. Leo, Venanti … Opera poetica, Berlin 1881, rist. München 1981, pp. XIII-XIV; W. Meyer, Über Handschriften der Gedichte Fortunat’s, “Nachrichten von der königlichen Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen”, Phil-hist. Klasse 1980, pp. 82-114; K. Strecker, Die metrischen Viten des Hl. Ursmarus und des Hl. Landelinus, “Neues Archiv” 50 (1933-1935), pp. 149-155. Oltre ai codici E (Par. lat. 8311, s. X), U (Bruxellensis 5354-5361 s. X-XI), V (Vat. lat. 552 s. X) e W (Vat. Palat. 1718, s. XI), adibiti da Reydellet ma non da Leo, si tratta dei manoscritti Autun, Bibliothèque du Grand Seminaire 38 (saec. IX-X); Paris, B.N. lat. 18104 ff. 126r-167v (s. IX-X); London, B.L. Add. 24193 (s. IX-X, sigla Ad); Oxford, B.L. Auct. T. 2. 25 (Summary 20620, s. X-XI, sigla O); Wien, Staatsbibliothek (sic) Philol. 109, ff. 25r-44v e 49r-64v (Endlicher CCCLVIII; Tabulae 114, s. XI); Verdun, B.M. 77 (s. XI, ff. 33r-153v), su cui v. A.-M. Turcan-Verkerk, Entre Verdun et Lobbes, un catalogue de bibliothèque scolaire inédit. A propos du

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manuscrit Verdun BM 77, “Scriptorium” 46, 1992, pp. 157-203. Contraddittoria è la posizione dell’editore (Marc Reydellet, Introduction a Venance Fortunat, Carmina, vol. I, Paris 1994, p. LXXI): “les manuscrits des Carmina sont nombreux. En plus des témoins qui donnent le corpus des onze livres en totalité ou partiellement, beaucoup de pièces se prêtaient à entrer das des florilèges. En particulier, les hymnes à la Sainte-Croix se retrouvent dans des manuscrits liturgiques, parfois avec des variantes et des additions importantes. Il nous est apparu qu’un repérage de tous les manuscrits des Carmina était un travail utile, certes, pour la connaissance de la diffusion de l’oeuvre, mais qui n’apporterait pas grand-chose a l’établissement du texte. Nous y avons ajouté quatre témoins dont l’apport n’est pas sans intérêt: V, U, E et W.” (4) Venanti Honorii Clementiani Fortunati Italici presbyteri, episcopi Pictaviensis, vetusti et Christiani poetae Carminum, epistolarum et expositionum libri XI […] additi, praeter supplementa, de vita sancti Martini libri IV, Moguntiae 1603. (5) A. Placanica, op. cit., p. 32. (6) Vd. infra. (7) Leo ne cita alcuni nei prolegomena, p. xiii. (8) Per questo nell’edizione Belles Lettres non viene adoperato e non si cita lo studio di Hunt e Lapidge sulla scoperta di alcune testimonianze relative alla trasmissione delle poesie di Venanzio in Inghilterra. (9) Il codice sembra essere gemello di un Escorialense, b. IV. 17 del sec. X. Vd. al proposito il mio articolo Variazioni stemmatiche e note testuali alle “laudes Dei” di Draconzio. Con edizione del florilegio Paris, B. N. lat. 8093, f. 15v (sec. VIII-IX, in “Filologia Mediolatina” III 1996, pp. 1-33, a p. 11-12 e nn. 33 e 34). (10) Ne parla M. Lapidge nel contributo citato, e Placanica nella relazione inedita. (11) Anche attenendosi ai dati già noti agli editori, la principale attestazione di una storia postuma della poesia venanziana nella tradizione manoscritta è già la silloge dei testi pubblicati da Leo come Spuriorum appendix e contenuta in una della parti di epoca diversa di cui è composto il parigino 13048: fu messa insieme fra VIII e IX secolo in area corbeiese da un curatore zelante, il “clerc pieux” che appartiene a buon diritto al Fortleben della poesia venanziana. E se si pensa che da Corbie proviene anche il più antico testimone della tradizione, il ms. conservato ora a San Pietroburgo F XIV 1 dell’VIII secolo che fu probabilmente quello utilizzato dall’autore del Karolus magnus et Leo papa, possiamo ben fissare nell’abbazia reale dei carolingi un anello fondamentale della ricezione di Venanzio. In Autore e attribuzioni del Karolus magnus et Leo papa (negli atti del convegno Am Vorabend der Kaiserkrönung: Das Epos “Karolus Magnus et Leo papa” und der Papstbesuch in Paderborn, Berlin 2002, a cura di Peter Godman, Jörg Jarnut e Peter Johanek, Berlin 2002, pp. 19-34), ho avuto modo di sostenere, basandomi su una annotazione marginale di Manitius, che fu appunto questo il codice di Venanzio che aveva davanti il misterioso autore del poema Karolus magnus et Leo papa, un poeta della corte di Carlo Magno della prima generazione (a mio parere, come cerco di dimostrare nella relazione citata, Modoino di Autun). (12) London, B. L. Add. 24193, s. XI; Par. lat. 14144; ed. K. Strecker, MGH Poetae IV/2 p. 654-5 n. 95. (13) Aimoino di Fleury, Historia Francorum 13 (PL 139, 702B) CAPUT XIII. De Fortunato episcopo et ejus scientia. Ejus tempore Fortunatus, qui in rhetorica metricaque [0702B] arte famosus habebatur, ab Hesperia in Gallias transiens, Pictavis episcopus ordinatur. Hic multorum vitas passionesve sanctorum, partim prosa, partim metro composuit. Ad amicos quoque singula disticha elegans orator conscripsit. Unde praefato regi elegiacum misit carmen, congratulans ei in nuptiis Brunichildis. Quod equidem ego, cum sors librum ad diversos ab eo sibi familiares conscriptum manibus intulisset meis, legi atque in eo facunditatem viri, dulcemque affabilitatem satis admiratus sum. Odoranno di S. Pietro Vivo, Opuscula, PL 142 803C-D: Tunc temporis pe-

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ne per universam Galliam Fortunatus presbyter, natione Italus, vir disertissimus, clarus habebatur. Hic postquam Chlotarius rex hominem exuit, ejusque filius Sigebertus regnum suscepit, quaedam quae apud nos habentur, in ipsius Sigeberti laude et Brunechildis reginae opuscula edidit. Domna vero Theudechildis regina, quanto pietatis fonte redundaverit, quamque laudabilem [0804A] vitam duxerit, idem Fortunatus scribens ad illam, luculenter versibus exsequitur. Ecchehardus Uraugiensis, Chronicon Universale PL 154, 783: Felix quoque Tharvisianae aecclesiae presul et Fortunatus condiscipulus ejus fuerunt. Hic Fortunatus fuit de loco qui dicitur Duplabilis, non longe a Tharvisio, gramaticam vero et rethoricam [0783C] didicit apud Ravennam. Qui cum dolorem pateretur dentium, simulque socius ejus Felix, abierunt ambo ad aecclesiam sanctorum Johannis et Pauli, quae est in eadem civitate Ravenna, in qua est et altare sancti Martini, juxta quod fenestra est, in qua lucerna poni solebat, de cujus oleo super oculos suos posuerunt, et sanitatem receperunt. Pro qua causa Fortunatus beatum Martinum in tantum dilexit, ut patriam dimittens, ad sepulchrum ejus Turonum veniret, antequam Longobardi Italiam intrarent; indeque Pictavium tendens ibique manens, multas passiones sanctorum, alias per versus, alias per prosas composuit, ibique primum presbiter, postea episcopus factus est. Sigeberto di Gembloux, De scriptoribus ecclesiasticis, 45 (PL 160, 558 D): Fortunatus, natione Italus, liberalibus artibus eruditus, a dolore oculorum, virtute Martini Turonensis episcopi, sanatus, et pro hac causa ad Turones venit, et ad Pictavos progressus, primo ibi presbyter, deinde episcopus consecratus est. Scripsit metrice Hodoeporicum suum; [0558B] scripsit metrice quatuor libros De Vita sancti Martini, et multa alia, et maxime hymnos singularum festivitatum. Ad singulos amicos composuit versus suavi et diserto sermone. (14) Alcuino, De sanctis Euboricensis ecclesiae, 1550 ss.: Quid quoque Sedulius, vel quid canit ipse Iuvencus, / Alcimus et Clemens, Prosper, Paulinus, Arator, / Quid Fortunatus, vel quid Lactantius edunt, / Quae Maro Virgilius, Statius, Lucanus et auctor; Teodulfo, De libris quos legere solebam, carm. 45, 1-20: Sedulius rutilus, Paulinus, Arator, Avitus, / Et Fortunatus, tuque, Iuvence tonans¸/ diversoque potens prudenter promere plura / Metro, o Prudenti, noster et ipse parens. Il modello di questi elenchi è peraltro quello fornito da Venanzio stesso all’inizio della Vita s. Martini 1, 14-25. (15) Rabano Mauro, De institutione clericorum, III 18, P.L. 107, col. 396A e ed. A. Knöpfler, München 1900, p. 224 s.: Quamobrem non est spernenda haec, quamvis gentibus communis ratio [scil. metrica], sed quantum satis est perdiscenda, quia utique multi evangelici viri, insignes libros hac arte condiderunt, et Deo placere per id satagerunt, ut fuit Iuvencus, Sedulius, Arator, Alcimus, Clemens, Paulinus et Fortunatus, et caeteri multi. (16) Ne abbiamo riscontro per il periodo fra VIII e X sec. in Dungal Responsa ad Claudium, Haimone di Halbertstadt Homiliae, Usuardo di SaintGermain, Bertario di Verdun, Flodoardo di Reims, che lo definisce poeta noster come un tempo faceva Seneca con Virgilio. (17) Ed. F. Glorie, CC 133A, 1968, pp. 745 ss. (clm 14252, primo quarto del IX sec., ff. 185r-191r): G. Glauche, Schullektüre im Mittelalter. Entstehung und Wandlungen des Lektürekanons bis 1200 nach den Quellen dargestellt, München 1970, p. 8. (18) Glauche, Schullektüre, pp. 24, 27, 28, 30 ss., 69. (19) Ad es. nei testi di Pietro Crinito, De poetis latinis e Giorgio Platina, Vita Iohannis papae III: vd. Ivano Sartor, Venanzio Fortunato nell’erudizione, nella tradizione e nel culto in area veneta, negli atti del convegno Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 262-276. (20) Zu Aldhelm und Beda, “Sitzungsberichte der kaiserlichen Akademie””, Wien, Phil.-hist. Klasse 112 (1886), pp. 535-634; Beiträge zur Geschichte frühchristlicher Dichter im Mittelalter, ivi 117/12 (1889), 2-6 e Beiträge zur Geschichte frühchristlicher Dichter im Mittelalter II, ivi 121/7, pp. 178-9. (21) Usa frequentemente versi di Venanzio come modelli nelle sue poesie (vd. ed.Traube, PLAC III). (22) Cita gli inni alla croce.

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(23) Si ispira a carm. 9, 2 per la sua consolatio. (24) Attinge da Venanzio alcune espressioni nei 20 esametri che suggellano la lettera a Elisacar (MGH Ep. V 317, PLAC II p. 669 n. 23). (25) Usa esempi di Venanzio negli Exempla diversorum auctorum, e in una lettera a Radberto gli chiede la restituzione di un codice di Venanzio (M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, München 1911, vol. I p. 402). (26) Cita due versi della Vita Martini in un sermone (P.L. 133, 746C). (27) Usa la Vita Remigii come fonte del cap. 10 dell’Historia Remensis ecclesiae (MGH Scriptores XIII p. 413). (28) La redazione prior modella i rapporti con Enrico sulla Vita Radegundis, con riprese letterali; la redazione posterior introduce due citazioni dei Carmina. (29) Usa un verso del prologo della Vita Martini nella poesia al conte Rodolfo, e si attiene allo schema del prologo nella chiusa del II libro (P.L. 141, col. 653D). (30) Vd. infra. (31) Nella Vita s. Basoli ricava le notizie su Egidio di Reims (cap. 11, P.L. 137, col. 650A) da Carmina 3, 15. (32) L’epitaphium Warendrudis, della metà del X sec., è ripreso da schemi venanziani: Hic Warendrudis nimium veneranda quiescit / Abbatissa, animam sed paradysus habet. / Hetti pontificis fuerat soror, amita magni / Thietgaudi domini magnificique patris. / Cuius germanus vir clarus in omnibus extat / nomine Grimaldus, ore et honore potens (M.G.H. Scriptores XIV p. 106). (33) Reminiscenze e riprese di interi versi nelle poesie a Elfeg vescovo di Winchester e nella Narratio de S. Swinthuno: vd. Hunt-Lapidge, Manuscripts Evidence cit., p. 284. (34) Manitius individua due reminiscenze di Venanzio nelle poesie. (35) Attinge l’incipit a Carmina IV 8, 11 s. e 9, 11 s., e riprende schemi dalle vite dei santi. (36) Chiamato “il Venanzio del Sud”, ne dimostra l’imitazione in un periodo in cui era meno praticata (Manitius, Geschichte, vol. II p. 630). (37) Menziona Venanzio come precedente autore di opere encomiastiche nell’Ad calumniatorem (P.L. 189, col. 57). (38) Lo cita nella Panormia (1148-1179). (39) Ritmo 3 ed. M. Lokrantz, 1951 (=AH 48, n. 55), str. 4 v. 1, che riprende un verso del Vexilla regis: al proposito Ropa. art. cit. in n. 72, p. 282. (40) Segnalato dal Manitius, Geschichte, der lat. Literatur des Mittelalters, III, München 1923, p. 491 n. 1. Vd. infra. Solo una citazione è segnalata dall’ed. P.G. Schmidt, Stuttgart-Leipzig 1996. (41) Lapidge, Manuscript Evidence, e Peter Godman, in Alcuin. The Bishops, Kings, and Saints of York, edited by Peter Godman, Oxford, Clarendon Press 1982, pp. lxx s.; sull’Irlanda non è stato possibile reperire A. Cordoliani, Fortunat, l’Irlande et les Irlandais, in Etudes mérovingiennes. Actes des journées de Poitiers 1952, Paris 1953, pp. 35-43. (42) P.L. 154, coll. 29 e 128. (43) G.B. Conte-A. Barchiesi, Imitazione a arte allusiva, in Lo Spazio letterario di Roma antica, vol. I, Roma 1989, p. 94: “non come un esemplare ma come una sorta di matrice generativa: un modello di competenza che potremmo chiamare modello-genere […] il modello non è più un testo, una totalità concreta, ma un insieme di tratti distintivi, una struttura generativa”. In un altro contributo successivo G.B. Conte aveva elaborato la definizione di modello-codice: “istituto letterario che consente di produrre realizzazioni più o meno compiute, sistema di elementi consapevoli e deliberati attraverso cui l’autore riconosce l’identità dell’opera e le intenzioni secondo cui va decifrato il testo ch’egli ricostruisce” (A proposito dei modelli in letteratura, in “Materiali e discussioni” 6 (1981), pp. 147-157, a p. 148). (44) Edmond Le Blant, Inscriptions chrétiennes de Gaule antérieures au VIIIe siècle, I Provinces gallicanes, Paris 1836, pp. 4 sgg.; Jean-Baptiste de Rossi, Inscriptiones Chrstianae Urbis Romae septimo saeculo antiquiores, II/1, Romae 1888.

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(45) Si veda R. Favreau, Fortunat et l’epigraphie, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 161-173. (46) G. Bernt, Das lateinische Epigramm im Übergang von der Spätantike zum frühen Mittelalter, München 1968, pp. 118-132. (47) Una ricostruzione in Venanzio Fortunato, Epitaphium Vilithutae (IV 26), a cura di Paola Santorelli, Napoli 1998. (48) P. 94 della trad. it. (Roma 1992). Più di recente Judith W. George, Variation on themes of consolation in the poetry of Venantius Fortunatus, “Eranos” 86 (1988), pp. 53-66. (49) Carme 21, PLAC I pp. 477-480. (50) Carmi 102, 106, 198. (51) Principessa visigota sposta con Chilperico e fatta uccidere proprio da quella Fredegonda lodata da Venanzio in altre liriche. (52) Questo filone, come altri fra quelli individuati da Curtius, è stato studiato con monumentale meticolosità da Peter von Moos nei tre volumi dedicati alla Consolatio. Studien zur mittellateinischen Trostliteratur über den Tod und zum Problem der christlichen Trauer, München 1973. (53) Vd. testo parziale e traduzione in F. Stella La poesia carolingia, Firenze 1995, con commento alle pp. 479-481. Discussione della topica biblica in F. Stella, La poesia carolingia latina a tema biblico, Spoleto 1993, pp. 446-447. (54) Documentato in quell’epoca da Pascasio Radberto (PLAC III, 45-51). (55) Valafrido Strabone 5 e Rabano Mauro 37. (56) La poesia carolingia latina a tema biblico, Spoleto 1993, pp. 443 s. (57) F. Stella, Autore e attribuzioni del “Karolus Magnus et Leo papa” in Am Vorabend der Kaiserkrönung. Das Epos “Karolus Magnus et Leo papa” und der Papstbesuch in Paderborn 799, cit. in n. 11. (58) Il periodo carolingio, in Lo Spazio Letterario del Medioevo. Il Medioevo latino, vol. III, La ricezione dei testi, Roma 1995, pp. 339-373, a p. 349. (59) Come osserva Godman, la praeda volubilis di Venanzio v. 340 diventa la praeda sanguinea di Karol. magn. et Leo papa 274, e i cani inseguitori non sono quelli da caccia ma i magnanimi molossi di Virgilio (v. 286), mentre l’immagine del cinghiale braccato (v. 293) è ricavata da Ovidio Ars 2, 374. (60) Letteratura Europea e Medio Evo Latino, pp. 147 sg. (61) G. Lieberg, Seefahrt und Werk. Untersuchungen zu einer Metapher der Antiken, besonders der lateinischen Literatur, von Pindar zu Horaz, “Giornale Italiano di Filologia” 21 (1969), pp. 209-213. (62) C. Braidotti, Una metafora ripetuta: variazioni sul tema nautico nella “Vita s. Martini” di Venanzio Fortunato, “Giornale Italiano di Filologia” 45 (1993), pp. 107-19. (63) La poesia carolingia, numero 37, pp. 455-456. (64) F. Brunhölzl, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, I, München 1975, p. 123. (65) Alexandr Lobanov, Note dantesche, in “Italienisch” 16 (1994/1), pp. 27-36. (66) AH 7, 105-106. (67) J.M. De Smedt, Le “Vexilla regis prodeunt” du cod. Bruxelles 9837 à 9840 composé pour l’expedition de Louis le Gros contre le meurtriers de Charles le Bon (1127), “Revue d’Histoire Eccléstastique” 46 (951), pp. 165-169; vd. The political songs of England, ed. Th. Wright, London 1839, pp. 258-259. (68) H. Brinkmann, Anfänge lateinischer Liebesdichtung in Mittelalter, “Neophilolo-gus” 9 (1924), p. 49 ss.; D. Scheludko, Zur Geschichte des Natureinganges bei den Trobadors, “Zeitschrift für französische Sprache und Literatur” 60 (1936), pp. 257-334, spec. pp. 261-263. (69) R.E. Messenger, Salve festa dies …, “Transactions of the American Philological Association” 68 (1967), pp. 208-222 e R.H. Robbins, Middle English Carols as Processionals Hymns, “Studies in Philology”, 56 (1959), pp. 559-582. (70) Per la fortuna di Tempore florigero vd. J. Szövérffy, Dia Annalen der lateinische Hymnendichtung Berlin 1970 I, pp. 137 s., 165, 274, 386, 403. (71) Budapest, E.K. 42, f. 14v; Budapest, E.K. 48, f. 21; Uppsala, UB, C

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264, f. 55; Montserrat, Archivio y Biblioteca de la Abadía 73, s. XII; ivi 145 f. xxxii; ivi 757-I s. XII; Cambridge, St. John’s College 262, f. 43; Zürich, Rheinau 80; Helsinki, UB Frag 16 sec. XII-XIII, ff. 5-6; ivi, Frag. 150 ss. XIV-XV f. 3; ivi, Frag. 180 s. XV ff. 3-4; München, UB 2° 173 f. 19; Oxford, Keble College 29, f. 5, iv; Oxford, Keble College 31, f. 4 vi; ivi 59 f. 5; Stuttgart, W.L.B., Mus. fol. I 24 f. 15; Paris, Mazarine 512 f. 133v; Washington f. 7; D.C., LC, 2; Einsiedeln, Stiftsb. 148, f. 266; ivi, 39 f. 50v; Engelberg, Stiftb. 156 f. 469v; ivi 40 f. 166; ivi 8 f. 186; El Escorial, S. Lorenzo b II 1 f. 498; Sankt Gallen 196 p. 42; Vaticano lat. 10774 f. 145v; Wien 1557 ff. 11, 20; ivi, 15604 f. 10; ivi, 15807 f. 9; ivi 15942 f. 7b; ivi 15943 f. 3r; ivi, 16139; ivi 16193 ff. 11, 20; ivi 16197 f. 7; 16198 ff. 15-16; ivi 16199 ff. 10, 18-19; ivi 16523, f. 28; ivi, 16697 f. 41; ivi, 16709 ff. 11, 17; ivi, 17434; ivi, 19030 f. 15; ivi, 19083 ff. 19, 26; ivi, 19201; ivi, 19426 ff. 15-16; Kornik, Bibl. Publ. 26 f. 132; Wolfenbüttel, H.-A.-B., Weissenb. 78 f. 33; Brno, Statni Oblastni Arch., Cerr II, c. 11, ff. 91-92. (72) G. Ropa, L’immaginario biblico nella lirica liturgica, in La Scrittura infinita. Bibbia e poesia in età medievale e umanistica, a cura di F. Stella, Firenze 2001, pp. 261-290, specialmente pp. 282-284: l’esempio addotto è quello del Graduale di Saint-Yrieix, Paris., B.N. lat. 903, del sec. XI. (73) W. Berschin, Biographie und Epochenstil im lateinischen Mittelalter, I Von der Passio Perpetuae zu den Dialogi Gregors des Großen, Stuttgart 1986, p. 286. (74) Sulla compresenza e commistione di fonti pagane e cristiane in Venanzio vd. A.V. Nazzaro, Intertestualità biblico-patristica e classica in testi poetici di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 99-135. (75) R. Koebner, Venantius Fortunatus. Seine Persönlichkeit und seine Stellung in der geistigen Kultur des Merowingerreiches, Leipzig-Berlin 1915. (76) R.B. Bezzola, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident (500-1200). Première partie La tradition impériale de la fin de l’Antiquité au XIe siècle, Paris 1944. (77) W. Schmid, Ein christlicher Heroidenbrief des sechsten Jahrhunderts, in Festschrift Jachmann, Köln 1959, pp. 253 sgg. (78) Lo testimonierebbe il testo stesso di Venanzio in Appendix 31: In brevibus tabulis carmina magna dedisti, ecc. (79) H.-I. Marrou, I trovatori, trad. it. Milano 1983, p. 142. (80) Moglie di Vallette del Mercure de France. (81) P. Dronke, Medieval Latin and the Rise of European Love-Lyric I Problems and Interpretations II Medieval Latin Love-Poetry. Texts Newly Edited from the Manuscripts and for the Most Previously Unpublished, Oxford 1965-1966, 19682. (82) Secondo l’ipotesi di H. Spanke, Beziehungen zwischen romanischer und mittellateinischer Lyrik mit besonderer Berücksichtigung der Metrik und Musik, “Abhandlungen der Gesellaschaft der Wissenschaften”, Phil.-hist. Kl. III 18, Berlin 1936, p. 187. (83) Letteratura europea cit., pp. 458-9. (84) Hannover 1886, pp. 23-24. (85) F.E. Consolino, Amor spiritualis e linguaggio elegiaco nei carmina di Venanzio Fortunato, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» 7, 1977, pp. 1351-1368; V. Epp, Männerfreundschaft und Frauendienst bei Venantius Fortunatus, in Variationen der Liebe: Historische Psychologie der Geschlechterbeziehungen, a cura di Th. Kornbichler e W. Maaz, Tübingen 1995, pp. 9-26. (86) Spanke, Beziehungen; Marrou, I trovatori, pp. 130-131. (87) P. Godman, Poets and Emperors. Frankish Politics and Carolingian Poetry, Oxford 1987, pp. 1-39. (88) Al termine dulcedo dedica qualche riflessione, in consonanza col capitolo di Godman, A.V. Nazzaro nell’art. cit., pp. 103-104.

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PAOLA SANTORELLI Università degli studi di Napoli “Federico II”

Le prefazioni alle vitae in prosa di Venanzio Fortunato

I momenti di inizio di un’opera – i più suggestivi, quale che sia il genere letterario di appartenenza – sono il luogo del progetto e della sua definizione, sono lo spazio in cui prende forma il rapporto tra autore e fruitore, in bilico tra il non scritto e l’annuncio ufficiale della scrittura con forme e contenuti precisi. È lì infatti che lo scrittore svela il suo universo narrativo al lettore, fornendogli la chiave di accesso interpretativa al testo, per compiere insieme un itinerario all’interno del quale, nonostante le affermazioni più o meno esplicite dell’esordio, possono aprirsi in progress nuovi e non sospettati percorsi, prima di arrivare alla fine1. Nella letteratura classica la parte proemiale di un’opera assolve una funzione specifica, addirittura tecnica: ne rende esplicito lo scopo, definisce i rapporti con il dedicatario o il committente – o entrambi –, serve a dichiarare l’inadeguatezza dell’autore di fronte alla grandezza dell’impresa e a invocare una superiore, divina assistenza durante lo svolgimento dell’opus. La presenza di tutte queste funzioni, il loro accavallarsi, fa sì che gli esordi siano costituiti prevalentemente da un succedersi di topoi2, quei segmenti cioè destinati a ripetersi nel loro schema, attraverso i quali l’autore individua e delimita a vantaggio del lettore l’ambito del percorso che intende seguire3. I paragrafi che aprono le vitae in prosa scritte da Venanzio Fortunato, per i quali si può adoperare convenzionalmente il termine di praefatio, rientrano a buon diritto in questo tipo di analisi. La specificità dell’agiografia come genere letterario confluisce inevitabilmente negli incipit delle vitae: l’autore deve tendere a stabilire con i fruitori del testo un’intesa immediata, basata su una forte affinità ideologica e, grazie all’uso di ogni strumento retorico di cui è a conoscenza, provvede a far passare il messaggio di edificazione contenuto nella vita santa. Se è vero che talvolta anche il racconto della vita, scandito prevalentemente da una più o meno numerosa 291

elencazione di miracoli, finisce con l’essere una ripetizione di temi e motivi sempre uguali, è nel prologo che più fitti si addensano i loci communes. I topoi ricorrenti nei prologhi agiografici latini riguardano “la grandezza e la vastità dell’argomento da trattare, la conclamata incapacità dell’autore, la necessità per contro di non passare sotto silenzio il personaggio da celebrare, l’opportunità di una selezione, la richiesta di credito all’ascoltatore in nome di una dichiarata fedeltà alla verità storica”4. Per Venanzio agiografo la questione è ancora più complessa. Se la Vita Martini in quattro libri di esametri5 gli ha consentito lo sfoggio della sua versatilità, conoscenza retorica, padronanza metrica, in una parola della sua competenza estrema di intellettuale di solida formazione, impegnato nel non semplice esercizio letterario della parafrasi agiografica6, per tutti questi motivi doveva essersi reso conto che l’opera, proprio per la sua strutturazione, non poteva avere come scopo primario quello di raggiungere il maggior numero possibile di persone ad aedificationem plebis. Diversa avrebbe dovuto essere la forma – prosa, non poesia – diverso il tono, più dimesso e accessibile7. Tuttavia Venanzio anche nella stesura delle vitae in prosa si ritaglia un segmento, il prologo, dove poter mantenere inalterati lo stile e quel suo modo lussureggiante e complesso di scrivere, riservando alla narrazione vera e propria l’intento di perseguire attraverso una maggiore semplicità una più facile percezione8. Non si coglie tuttavia alcuna contraddizione tra la modestia affettata e l’umiltà cristiana9: il doppio registro stilistico va ascritto alla versatilità venanziana, che egli coscientemente dispiega nella direzione di un’esplicita differenziazione dei destinatari tra i prologhi e le vitae vere e proprie; né peraltro bisogna immaginare la scrittura delle vitae veramente improntata alla rusticitas di cui il poeta fa professione, ma è come se il miracolo stesso, struttura portante della vita dei santi richiedesse, per essere narrato, una prosa ‘semplificata’, livellata secondo uno stile agiografico. In conclusione ciò che è prima del racconto resta la palestra in cui egli può cimentare la sua consumata abilità, prima del fatidico Igitur Albinus episcopus V 11 (Sacratissimus igitur Paternus … III 9; Beatissimus igitur Marcellus … IV 13; Igitur beatus Hilarius … III 6). Tutto ciò che precede queste frasi, che costituiscono i veri e propri incipit, individuati come tali anche dalla riproposizione del medesimo schema, sarà oggetto di analisi. Molte delle informazioni contenute nei prologhi, nel caso 292

di questo specifico prodotto letterario, e delle intenzioni espresse – la dedica, la volontà di attenersi alla brevitas, l’adfirmatio modestiae, in parte anche la richiesta di aiuto alla divinità – paiono del tutto estrinseche allo scopo primario delle vitae agiografiche, cioè l’edificazione, il convincere con l’esempio, il raccontare vite speciali che funzionino da modello. Il proemio sembra riguardare per certi versi più l’autore che il fruitore: è il luogo in cui egli consuma il suo rapporto non sempre semplice con il genere letterario che si appresta a affrontare, con il suo essere intellettuale e collocarsi con le sue specifiche peculiarità dentro un filone già tracciato, di cui deve accettare le regole, con le aspettative forti e dichiarate del committente. È come se nel caso di queste vitae ci fosse uno iato tra i destinatari del prologo e coloro che effettivamente ‘usano’ l’opera, una sottile ma tenace linea di demarcazione tra i primi, un esiguo gruppetto di letterati esigenti, e gli altri, i fruitori del testo vero e proprio, il più ampio pubblico dei fedeli10. Va ricordata, a questo proposito, la frequenza con cui ricorre, accanto alla consueta tapinosi, “un atteggiamento di umile obbedienza nei confronti di una auctoritas che induce il biografo a iniziare la sua fatica: si tratta di un interlocutore privilegiato, una sorta di primo lettore cui dedicare il bioj”11. L’incipit, in quanto momento di presa di contatto, è infatti un luogo privilegiato in cui tendono a concentrarsi una serie di segni indirizzati ai destinatari al fine di ‘sedurli’ e soddisfare le loro aspettative12: la captatio benevolentiae in tutte le sue forme, è una delle possibili strategie. Con uno stile estremamente ricercato Venanzio dimostra la sua competenza e abilità, con un ricco corredo di artifici smentisce, nel momento stesso in cui lo enuncia, il topos puramente convenzionale della scarsa capacità letteraria, dell’insufficiente cultura13; dopo, nella stesura delle vitae, può tentare la strada di una scrittura pensata per l’ascolto, può cimentarsi con un uditorio, di cui non bisogna perdere l’attenzione, che non va annoiato con troppe ripetizioni, che va sedotto con una prosa semplice, scorrevole, di impatto più immediato. E di cimento si tratta per un intellettuale come Venanzio, che deve rinunciare all’ubertas a vantaggio della exiguitas, della rusticitas e al quale resta come unica preoccupazione quella di mantenere un equilibrio tra due concetti più volte espressi: l’attenzione costante alla brevitas e il timore che ciò possa privare l’ascoltatore di una dettagliata descrizione di tutti i miracoli compiuti dal santo. Quanta di questa consapevolezza, della coscienza di un 293

problema e insieme del tentativo di risolverlo, confluiscono nei proemi? Per comprenderlo è opportuno mettere più a fuoco l’oggetto di queste analisi. Bruno Krusch nella prefazione alle vite agiografiche in prosa nei MGH AA. aa IV 2, Berolini 1885 ne attribuì a Venanzio sei: la vita Hilarii, la vita Germani, la vita Albini, la vita Paterni, la vita Marcelli, la vita Radegundis. Più tardi, nel 1902, H. Quentin scoprì la vita Severini considerata venanziana sulla base di un luogo di Gregorio di Tours14 e dell’analisi dell’usus scribendi e pubblicata da W. Levison nei MGH Script. Rer. Mer. VII, Hannoverae 1920. Dell’intero corpus tuttavia sono escluse da questa indagine tre vitae: la vita Radegundis, in quanto il prologo è incentrato sulle problematiche specifiche, che parlare di una donna – e regina e suora – comporta15; la vita Germani, che si apre direttamente con beatus igitur Germanus (I 1) ed è probabile che ciò sia da ascrivere al fatto che il testo si configura come una sorta di lungo libellus miraculorum – si articola in ben 76 paragrafi –, in cui la parte biografica è ridotta al minimo; la vita Severini, priva di prologo16. La realizzazione di una griglia che consente di analizzare sinotticamente i paragrafi introduttivi restituisce delle evidenze e consente alcune riflessioni. Per essere da sempre considerati come un’accozzaglia di topoi questi exordia si presentano molto diversi l’uno dall’altro, finanche per quanto riguarda la lunghezza; le tematiche previste ci sono tutte, ma inegualmente distribuite e non presenti in ciascuno. Si può subito escludere una meccanica riproposizione del materiale, che si connoti come un pedissequo ossequio al genere, perché ciò avrebbe determinato prodotti più omogenei. Il peso del genere letterario, la guida dei suoi confini, si avvertono paradossalmente più nella stesura vera e propria delle vitae, mentre in questi prologhi, che il poeta ha deciso di lasciare liberi dal diktat della facilità e dell’immediata comprensione, e che con tutta probabilità erano esclusi dalla lettura, egli si consente di esercitare liberamente il suo naturale talento, che lo aveva reso tanto famoso e ammirato in Gallia, cioè quello di saper esprimere in maniera elaborata ogni cosa, anche la più semplice (per parafrasare ciò che dice nella vita Marcelli 3) e di ripetere il medesimo concetto molte volte, sempre in maniera diversa, al punto da renderlo quasi irriconoscibile17. Vediamo più da vicino le somiglianze e le ricorrenze18.

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Vita Albini. Se, come sostiene il Krusch19 per tutta una serie di motivi interni al testo, questa è la prima vita a essere stata scritta, ciò potrebbe giustificare il prologo più lungo e particolareggiato, con una più significativa presenza di motivi, l’unico in cui sono espresse l’attenzione alla veridicità delle testimonianze e, proprio alla fine, l’importanza che può avere la divulgazione delle vite ricche di meriti: in tal caso costituirebbe idealmente il prologo alle vitae tutte di Venanzio20. Anche l’ordine degli elementi sembrerebbe testimoniare in tale direzione: alla dedica, al racconto dell’incontro con Domiziano, succeduto ad Albino come vescovo di Angers21, alla sua proposta a Fortunato segue una vera e propria definizione di quello che deve essere lo scopo di una vita agiografica: ad aedificationem plebis. Lo scritto dovrà promuovere il culto del santo e spingere il popolo a migliorare i propri costumi (1)22. Il valore della scrittura come salvezza dall’oblio è ribadito23(2) insieme all’urgenza dell’opera e numerose locuzioni sparse nel paragrafo seguente, secondo il vezzo di Venanzio di dire più volte la stessa cosa in maniera rigorosamente diversa, garantiscono al lettore la validità della testimonianza: iuxta fidem, indubitabiliter, per veritatis indaginem, sine ambiguitate, suo testimonio, dubitare non liceat. L’attendibilità delle notizie del resto si fonda sull’autorità della fonte, Domiziano stesso, e sul racconto di persone affidabili. Un inviato del vescovo, suo discepolo, esorta Venanzio a dedicarsi subito all’opera e a mettere per iscritto senza esitazione ciò che lui poteva raccontargli sul personaggio da rappresentare (3-4). A questo punto il discorso si dispiega con lodi al narratore e al committente, legati dal rapporto discepolo/maestro (5), per arrivare al punto di forza del proemio, opportunamente collocato al centro, la dichiarazione di inadeguatezza, in cui più e meglio il poeta lascia che si sbrigli l’esuberante cascata di eloquenza, coltivata alla scuola retorica di Ravenna. Va detto, infatti, che questa funzione, presente peraltro in tutte e quattro le vitae, è anche quella a cui è dedicato più spazio. L’adfirmatio modestiae, all’interno della più ampia figura retorica della captatio benevolentiae, è destinata, probabilmente ogni qualvolta si presenti all’interno di un esordio, alla sorte singolare di essere contraddetta nel momento stesso in cui è formulata o, per meglio dire, dal modo stesso. È nei prologhi, infatti, che gli scrittori si dichiarano incapaci di attendere l’opus che stanno per cominciare, è nei prologhi che fanno confluire tutte le loro competenze e capacità espressive per colpire il lettore. L’effetto prodotto, di forte 295

antitesi tra significante e significato, è esasperato nel caso di Venanzio, in cui chi legge è colpito e travolto dall’incalzante profluvio di parole, raffinatamente intessute allo scopo di manifestare la sua incapacità e limitatezza nella scrittura. Il singolare esito è sortito dalla contrapposizione tra le prerogative indispensabili a chi voglia portare a termine questo compito, articolate in un’accumulazione di locuzioni simili (exertis ingenio, facundis eloquio, devotis officio, probatis stilo), seguita da una brusca variatio (qui sunt sensu divites, linguae rota torrentes, famulatu celeres, carmine coruscantes) e la minuziosa descrizione delle irreparabili manchevolezze del poeta (ad scribendi seriem nec naturam profluum nec litteratura facundum nec ipse usquequaque usus reddit expeditum … pigri relatoris impar lingua … nube sermonis). Nei paragrafi 6-9, insomma, Venanzio non perde occasione per sottolineare l’exiguitas (6)24, la sterilitas (7), la rusticitas (8), la mediocritas (9) che connotano il suo stile25; merita di essere citata l’iperbole con cui afferma che l’eloquenza di Domiziano è superiore persino a quella di Cicerone, retore per eccellenza, e a quella di Cesare, con un riferimento a Quintiliano, inst. 10, 1, 11426 (6); egli sceglie tuttavia di cedere per obbedienza (per oboedientiam, me oboedire)27, con lo scopo che sia approvato l’affectum, se pure darà fastidio l’eloquium, e che in hoc opere ad aures populi minus aliquid intellegibile proferatur (8). Quest’affermazione, incastonata in tanta magniloquenza, è di grande importanza. Venanzio vuole essere compreso e adopera due parole-chiave, la cui importanza non può essere sottovalutata: aures populi. Il dibattito sulla destinazione finale di queste vitae dovrebbe trovare risposta in questo luogo: Venanzio si accinge a creare un prodotto indirizzato non tanto alla lettura di pochi quanto all’ascolto di molti, del populus, della plebs, termini che, in ogni loro accezione, fanno comunque riferimento ad un numero elevato di persone: le vitae erano lette davanti a un pubblico nell’anniversario del dies natalis del santo e era sempre più diffusa la tendenza a introdurre queste letture nel servizio divino in occasione di una celebrazione liturgica28. Se tutto questo è vero, una luce diversa si riverbera sull’insistito elenco di prerogative appena citate, atte a definire i limiti della sua scrittura, in quanto solo la pratica di uno stile humilis avrebbe consentito di ottenere una consistente diffusione. E, per avvalorare quanto ha detto, Venanzio invoca Dio, che lo assisterà nell’impresa, come testimone della sua volontà di obbedienza. Il paragrafo 10, presentato come una massima che faccia da tramite all’inizio vero e proprio, con296

ferma questa ipotesi in quanto contiene e ribadisce il concetto appena espresso, aggiungendo però un elemento fondamentale, l’importanza della divulgazione appunto (ad quod propalandum …), permessa soltanto dalla diffusione voce populorum della vita di uomini religiosi. Si tratta in conclusione di un vero e proprio progetto di politica culturale, che teorizza la propalazione di contenuti fondamentali per la formazione dei fedeli – gli exempla delle vitae dei santi – e la rende possibile attraverso mezzi espressivi adeguati. Venanzio, sostenendo di non essere adatto al compito per l’angustia di una preparazione culturale poco profonda, rientra senz’altro nel solco della tradizione che convenzionalmente fa confluire quest’affermazione nel Prologo di un’opera, ma nel contempo intuisce che solo la pratica delle prerogative che si è tanto rammaricato di possedere permetterà ai suoi testi di raggiungere un pubblico più numeroso. Vita Hilarii. Nel primo paragrafo di questo Prologo sono esaltate le doti del committente, il vescovo Pascenzio29, ed è ribadito il fine per cui le vitae sono scritte, già presente nell’incipit della vita Albini: ad aedificationem plebis (2)30. Segue l’esplicitazione della committenza e un approfondimento del rapporto molto stretto che lega Ilario al vescovo, allevato sin dall’infanzia nella sua famiglia. In queste prime due vitae Venanzio accentua il ruolo dei committenti: sia Domiziano che Pascenzio sono determinati a ottenere un risultato, vogliono presentarsi ai fedeli come gli eredi diretti di predecessori gloriosi, intendono adoperare questi racconti nelle cerimonie liturgiche in occasione della festività del santo e riunire l’intera comunità cittadina31. La consueta dichiarazione di inadeguatezza, che comincia subito dopo (3-4), è giocata sulla contrapposizione con le riconosciute capacità di scrittore di cui Ilario aveva dato prova (brevitatem / immensitatem), aggravata dal rifiuto di Girolamo ad attendere l’opera, nonostante fosse dotato di torrens eloquium (3). Il concetto è ripreso e approfondito con le immagini dell’acqua (4), cui Venanzio ricorre di frequente parlando di eloquenza32, con l’antitesi tra i suoi siccos cursus e gli ingentia flumina di Ilario e Girolamo, uniti nell’encomio comune e il poeta conclude che solo l’eloquio fiorito di Ambrogio avrebbe potuto assolvere il compito33. Un appello alla brevità è implicito nell’esortazione a evitare il fastidium (5). Questo concetto, che parte da Quintiliano, inst. 5, 14, 3034, è ricorrente nei prologhi venan297

ziani: l’autore deve selezionare, scegliere pauca de plurimis, affinché l’abbondanza di notizie e particolari non rischi di annoiare il lettore. Alla fine dell’opera, nel penultimo paragrafo, Venanzio ritorna a parlare dei suoi limiti, che non gli hanno consentito di narrare tutte le imprese del santo e, facendo riferimento al tentativo espresso all’inizio di non infastidire il lettore con un racconto troppo lungo (5), chiede perdono per aver trascurato molte cose35. La ripresa di tematiche di carattere introduttivo al di fuori del prologo avviene probabilmente al traino del lungo elenco di doti del santo, una buona parte delle quali riguarda quelle stesse capacità di oratore e scrittore, di studioso e di intellettuale, che potrebbero aver indotto Venanzio al confronto (51)36. Dopo questo monito alla brevità, egli accetta il compito per devozione e dedica a Pascenzio l’oboedientiam. Sempre in questo paragrafo c’è un riferimento all’auditor, già implicitamente evocato dalle parole del paragrafo 2 quatinus dum sui gregis auribus vox quodam modo et vita pastoris antiquissimi resonaret. Si coglie in questa vita un elemento di assoluta novità: il rapporto dell’autore con la materia è puramente formale, letterario, a causa del lungo lasso di tempo passato dalla morte di Ilario. Se già precedentemente erano state compilate vitae da scrittori che non avevano conosciuto personalmente l’eroe della narrazione, tuttavia gli autori rielaboravano ciò che avevano sentito dire o che avevano letto, in quanto appartenevano pur sempre alla ristretta cerchia dei protagonisti. Nella metà del VI secolo in Gallia è uno scrittore straniero che ha il compito di scrivere la vita di Ilario37 e Venanzio in questo caso ricava i dati biografici soprattutto dai Chronica di Sulpicio Severo. Vita Paterni. Nel Prologo di questa vita38, aperta, come tutte, dalla dedica, la committenza dell’abate Marziano, amico del defunto (3), è preceduta dall’affermazione dell’importanza della memoria per contrastare la dimenticanza (2). Nel paragrafo 4, in un solo periodo molto complesso, c’è la descrizione dello status attuale del santo, una condizione dove sono definitivamente neutralizzate mors e vis; si tratta di una tematica non presente altrove, che ribadisce un fondamento della religione cristiana secondo cui la vera vita, quella spirituale, si realizza solo dopo la morte fisica. È un caso questo in cui la figura etimologica mors mortuum sottolinea felicemente l’antitesi tra i due concetti. Il topos della inadeguatezza è giocato qui sulla contrap298

posizione tra volontà e capacità (velle … posse, voluntas … facultas), con la determinazione a far prevalere la prima. All’accettazione del compito per obbedienza (ad oboediendum, causa oboedientiae), si aggiunge il concetto di amore (karitas, amor), che, quando mensuram non habet, consente di superare i propri limiti (5-6)39. Nella conclusione del più breve dei quattro prologhi è ribadita l’importanza della testimonianza orale dei miracoli del santo soprattutto nei confronti dell’extrinsecus advena, per il quale non è necessaria la scrittura (7). Il periodo finale si apre con un tamen dal forte valore avversativo: infatti per il popolo, il grex devotus, cui Venanzio si rivolge, è di fondamentale importanza potersi rigenerare ogniqualvolta si ascolti il racconto dei miracoli compiuti nell’arco di una vita santa (8). Questo è dunque il compito cui il poeta non può sottrarsi, cui la sua volontà deve obbedire, quello cioè di scrivere, quale che sia la sua capacità, perché la sua opera possa essere letta e quindi ascoltata da molti e il grex devotus corroboratur; questo periodo finale è molto importante per definire meglio l’ambito di diffusione delle vitae: il grex devotus è l’assemblea dei fedeli, che si fortifica nell’ascolto; il verbo recreo suggerisce un valore sacramentale e una funzione liturgica, il termine auditu è un inequivocabile riferimento, più e prima che alla lettura diretta, all’ascolto della vita. È possibile così ricostruire la tipologia dei destinatari: persone cioè cui doveva essere certamente più consono ascoltare che leggere e a cui era necessario rivolgersi in modo semplice e chiaro per poter essere compresi. Vita Marcelli40. Se un agiografo, come si è già detto, non è tenuto a conoscere direttamente le notizie a proposito del santo di cui scrive, è evidente che non gioca più alcun ruolo determinante la vicinanza cronologica41. Il vescovo Germano di Parigi indusse Venanzio Fortunato a comporre la vita di Marcello, un suo predecessore vissuto nella prima metà del V secolo. Come nella vita Albini, Venanzio premette un ampio prologo, che costituisce circa un quarto dell’intera vita. In esso una parte consistente è costituita dal topos dell’inadeguatezza, che Venanzio dilata in maniera significativa. Dopo la dedica, infatti, il poeta, affrontando il tema da lontano con un procedimento di amplificatio retorica, si dilunga a definire la differenza fra docti e indocti, le cui capacità sono descritte in positivo e in negativo – sia cioè che ce l’abbiano o che ne siano privi – attraverso una congerie di immagini a lui care, di aridità e sterilità per gli uni, 299

acque che scorrono in abbondanza per gli altri, che si dispiegano secondo una struttura complessa e intricata: anche una materia sterilis e un siccum thema possono essere trattati con abbondanza (copiosius) da coloro che possiedono sui fluminis ubertatem, fontes eloquentiae e carmen inriguum; mentre l’ariditas angustae intellegentiae e la mancanza di affluentia inundantis eloquii con cui mitigare suae siccitatis inopiam non consentono di esprimersi con facilità (2-3)42. Queste due categorie vengono ulteriormente connotate da una metafora attinta dal mondo militare, che lo aiuta a ridefinire l’assunto già accennato: il guerriero esperto cerca di ottenere delle spoglie, il debole teme di diventare preda, così come il forte desidera trovare ciò che l’incapace teme anche solo di udire (4). Ciò gli consente il passaggio logico alla vera e propria dichiarazione di inadeguatezza, espressa qui con la meraviglia che gli sia stato affidato un compito di tale portata, dal momento che egli rientra nella categoria degli indocti: è un esempio di come un’affermazione topica si lasci volgere nel suo preciso contrario attraverso mezzi stilistici. Il discorso è arricchito da uno stringente confronto con il santo, condotto sul filo della contrapposizione, accentuata dalla simmetria delle frasi (ego … ille, ego … ille), con un evidente, significativo squilibrio: ai limiti di Venanzio, prettamente tecnici e riferiti alla scrittura, fanno da pendant le doti di Marcello, squisitamente spirituali43. Subentra subito dopo un elemento nuovo, su cui il poeta si sofferma: la sua incapacità infatti è enfatizzata dal confronto con l’eloquenza gallica (5)44. Nei paragrafi successivi descrive l’estrema scioltezza di eloquio che caratterizza gli autori della Gallia e poi imposta un paragone che vede l’italica patavinitas45 accostata a una vilis saliunca tra rose e gigli (6-7). Con questa affermazione Venanzio porta al più alto livello di rarefazione il topos, dilata all’inverosimile la climax che ha costruito fin qui. In un periodo in cui riecheggia esplicitamente Girolamo46 – Gallicano cothurno – dopo un riferimento a Quintiliano, nella manifestazione cioè della massima competenza di scrittore e cultura di intellettuale, la domanda che pone al paragrafo 7 (cur …) appare ben più che retorica e lo rivela assolutamente maestro di questa forma di scrittura. Non solo, ma da un’analisi più ravvicinata dei luoghi di riferimento e da un approccio intertestuale emerge la possibilità di una lettura diversa: infatti se è innegabile constatare in Girolamo una sfumatura negativa dell’espressione Gallicano cothurno, nonostante siano ben noti il rispetto e l’ammirazione che nutre nei confronti di Ilario, di 300

contro in Quintiliano47 l’italica patavinitas era considerata da Pollione come una prerogativa di Livio, che altrove il retore definisce mirae facundiae vir, non lasciando dubbio sulla valenza positiva del termine. I lettori che avessero riconosciuto i testi di riferimento sarebbero stati in grado di cogliere l’allusione e quindi il senso autentico nascosto nella frase. Del resto affermare negando, in un gioco di specchi e di apparenze, è ciò che egli fa continuamente in questi Prologhi e che probabilmente lo diverte: dire che non è capace, ma dirlo nella maniera più complicata e retoricamente costruita e diversa ogni volta. Dopo una domanda che non aspetta risposta si torna a un tema più concreto, la contrapposizione tra memoria e oblivio – e la necessità dell’una per contrastare l’altra – e l’importanza della scrittura per arginare il vento della dimenticanza; scrivere una vita a grande distanza di tempo comporta inevitabilmente che non si conosce molto altro del santo al di là della ‘sopravvivenza’ nel miracolo, che diventa l’argomento principale della vita stessa (8-9)48. Nei tre paragrafi successivi (10-12), con un’accumulatio di immagini che si snodano in un profluvio di quell’eloquenza di cui si è appena dichiarato privo, accetta per obbedienza (oboedire me doceas) e amore (devotio, plenus affectus) il compito che gli è stato imposto. Devotio è la parola-chiave che consente lo scioglimento finale delle esitazioni e dei dubbi che Venanzio ha diffusamente esposto; nonostante le difficoltà non si arriverà mai al rifiuto esplicito di una committenza e lo scrittore chiude le sue riflessioni con un chiaro monito Sed differre non licet quod pater iniungit …49. In conclusione, come appare ancor più evidente dalla disposizione sinottica dei testi, quattro sono i motivi presenti in ciascuna delle praefationes: la dedica, la committenza, la dichiarazione di inadeguatezza di fronte a un’affermazione esplicita della difficoltà dell’impresa, l’accettazione del compito per obbedienza. Questi elementi, peraltro, sono a loro volta soggetti a variatio: simili nel contenuto, hanno lunghezza non uguale, sono collocati in ordine diverso e con varie connotazioni, quasi a soffocare l’identità all’interno di una molteplicità di motivi altri, tutti però dentro i solchi del genere al punto che, messi insieme, costituiscono una summa pressoché esaustiva delle tematiche pertinenti e restituiscono ai prologhi, evidentemente non eseguiti a calco, vita autonoma.

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Note

(1) Alcuni recenti studi rivalutano l’importanza degli incipit, individuandone il ruolo strategico decisivo e tentandone talvolta una sistemazione: cfr. La fine dell’inizio. Una riflessione e quattro studi su incipit ed explicit nella letteratura latina, a cura di L. Spina, Napoli 1999 e la bibliografia ivi contenuta; F. Felgentreu, Claudians Praefationes. Bedingungen, Beschreibungen und Wirkungen einer poetischen Kleinform, Stuttgart-Leipzig 1999, pp. 1-57, che in un’ampia introduzione ridefinisce gli aspetti teoretici della praefatio, analizza i sinonimi (prooemium, exordium, prologus, praelocutio), avanza l’ipotesi di adoperare il concetto di genere letterario anche per esiti molto diversi. Cfr. anche alcune pagine dell’Introduzione – 9-17 – del volume di M. Rizzi, Ideologia e retorica negli ‘exordia’ apologetici. Il problema dell’’altro’, Milano 1993, un lucido saggio di I. Calvino, Cominciare e finire, in Saggi 1945-85, vol. I, Milano 1995, pp. 743-753 e una lunga dissertazione in due parti di G. Simon, Untersuchungen zur Topik der Widmungsbriefe mittelalterlicher Geschichtsschreiber bis zum Ende des 12. Jahrhunderts 1 e 2, “Archiv für Diplomatik” 4 (1958), pp. 52-119 e 5/6 (1959/60), pp. 73-153, che, all’interno di uno studio sui prologhi delle opere storiografiche mediolatine, prende in esame in maniera molto dettagliata le possibili tipologie di esordio, catalogandole secondo la forma e secondo il contenuto. (2) Nell’opera non recente, ma per molti versi ancora attuale, di E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo Latino, Berna 1948, trad. it. di R. Antonelli, Firenze 1992, un’attenzione particolare è dedicata alle tematiche dei prologhi nella loro sopravvivenza dall’ambito classico al cristiano: la modestia affettata, l’eloquio insufficiente e rozzo, la preghiera o addirittura il comando di un amico o un potente, il proposito di risparmiare al lettore il fastidium (pp. 97-99, 170). Cfr. anche R. Grégoire, Manuale di agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, Fabriano 1987, pp. 219-221. (3) G. Polara, Precettistica retorica e tecnica poetica nei proemi della poesia latina, in Retorica e poetica, Quaderni del Circolo FilologicoLinguistico Padovano 10, Padova 1979, pp. 95-113 ribadisce che i proemi poetici si uniformano alla precettistica stabilita per gli esordi prosastici e sostiene che, secondo la teoria dell’exordium presente nella Rhetorica ad Herennium, in Cicerone, in Quintiliano era necessario rendere l’ascoltatore benevolum, docilem, attentum attraverso un prooemium premesso proprio a questo scopo. (4) Questa efficace enunciazione è tratta da G. Luongo, Il prologo dell’Encomio di sant’Acacio di Melitene del cod. Patmiaco 254, in Mathesis e Philia. Studi in onore di M. Gigante, a cura di S. Cerasuolo, Napoli 1995, pp. 293-314, il quale, nelle prime pagine del lavoro, dedicate alla codificazione del prologo in questo tipo di testi, riscatta, per così dire, i topoi dalla valutazione pesantemente negativa che il più delle volte a essi si accompagna: la loro ripetitività e schematicità li rende certamente inutilizzabili per ricostruire la realtà storica, ma, oltre che mere riprese retoriche, essi sono retaggio della tradizione culturale e riflesso della mentalità comune a scrittori e lettori. (5) Nell’epistola dedicatoria a Gregorio di Tours, che precede il testo, il poeta dice di aver preso come base del suo racconto la Vita (nei primi due libri) e i Dialogi (negli altri due) di Sulpicio Severo, ma non cita Paolino di Périgueux, che aveva versificato gli scritti sulpiciani in sei libri. G. Strunk, Kunst und Glaube in der lateinischen Heiligenlegende. Zu ihrem Selbstverständnis in den Prologen, München 1970, pp. 43-47 rimarca la differenza con la scrittura di Sulpicio, modello esplicito di Fortunato per la vita Martini, indirizzata a un pubblico colto, in grado di leggere il testo e di apprezzarne le qualità letterarie. (6) Cfr. A.V. Nazzaro, L’agiografia martiniana di Sulpicio Severo e le parafrasi epiche di Paolino di Périgueux e Venanzio Fortunato, in Mutatio Rerum. Letteratura Filosofia Scienza tra tardo antico e altomedioevo, Atti del Convegno di Studi, Napoli, 25-26 novembre 1996, 1997, pp. 301-346 e La parafrasi agiografica nella tarda antichità, in Scrivere di santi, Atti del II

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Convegno di studio dell’Ass. ital. per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia, Napoli 22-25 ottobre 1996, 1997, pp. 69-106. (7) È giusto quanto sostiene S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Valdobbiadene 17 maggio 1990 – Treviso 18-19 maggio 1990, p. 177, il quale, nel diverso sviluppo dell’elogio di Ilario nella vita Martini e nel prologo alla vita Hilarii, individua un segnale “del diverso ufficio che Fortunato commette all’uno e all’altro genere di scritti, al poema celebrativo – letteratura “alta”, destinata a un pubblico colto, che apprezza il metro, il richiamo erudito, l’accumulazione dei vocaboli e delle immagini – e al racconto agiografico in prosa”. (8) La possibilità che le vitae fossero lette, ampiamente credibile anche grazie ai numerosi riscontri interni (vita Hil. 2 … dum sui gregis auribus vox quodam modo et vita pastoris antiquissimi resonaret …; 5 Sed ne protracta pagina fastidium potius generet quam provocet auditorem; vita Albin. 8 ad aures populi minus aliquid intellegibile proferatur; vita Pat. 8 … grex devotus … praemissarum virtutum ipso recreatur auditu) è del tutto improbabile che possa riguardare anche i prologhi, la cui struttura compositiva di estrema complessità è tale da rendere talvolta ardua la comprensione anche al lettore e del tutto impossibile dunque all’ascoltatore. Cfr. S. Pricoco, Gli scritti agiografici, pp. 177-178 e ancora R. Collins, Observations on the Form, Language and Public of the Prose Biographies of Venantius Fortunatus in the Hagiography of Merovingian Gaul, in H.B. Clarke - M. Brennan edd., Columbanus and Merovingian Monasticism, Oxford 1981, pp. 105-131. (9) G. Strunk, Kunst und Glaube, pp. 43-47 individua il coesistere nel poeta di due tradizioni ugualmente pressanti, la modestia affettata e l’intransigente umiltà cristiana, che non arrivano a fondersi, ma lasciano inalterate le tracce di un conflitto tra le inclinazioni estetiche e le pratiche religiose. Molte volte il poeta disprezza se stesso e la sua musa, riferendosi alla sua umiltà e pochezza o alla sgradevolezza della sua voce: praef. 6 me humilem; 5, 5, 139 adde quod exiguum me portitor inpulit instans; 5, 15, 6 Fortunati humilis te, pater, orat apex; 8, 15, 11 me Fortunatum humilem commendo patrono; 9, 7, 14 voce qui rauca modo vix susurro?; 10, 3, 1 ad linguae nostrae rubiginosam facundiam. (10) G. Genette, Soglie, trad. it. di C.M. Cederna, Torino 1989, pp.191192 coglie la differenza tra il destinatario ultimo del testo e una sorta di destinatario-intermediario cui è rivolta la prefazione. (11) Cfr. E. Giannarelli, La biografia femminile: temi e problemi, in La donna nel pensiero cristiano antico, a cura di U. Mattioli, Genova 1992, p. 231. (12) G. Genette, Soglie, pp. 195-197 e 206-207 sostiene che il prologo, come la prefazione, il proemio e quant’altro preceda il testo vero e proprio, assolve la funzione primaria di trattenere il lettore attraverso una tecnica tipicamente retorica di persuasione: si tratta di un processo di valorizzazione, attraverso la dissociazione tra argomento (sempre lodevole e la cui importanza può essere ribadita dall’amplificatio) e suo trattamento (sempre indegno). Cfr. A. del Lungo, Pour une poétique de l’incipit, “Poétique” 94, (1993), pp. 131-151. (13) Un atteggiamento molto simile nei proemi di alcuni storiografi bizantini riscontra R. Maisano, Il problema della forma letteraria nei proemi storiografici bizantini, “Byzantinische Zeitschrift” 78, (1985), pp. 333-334. E.R. Curtius, Letteratura europea, pp. 457-458 individua per la dichiarazione di incapacità la dipendenza da un modello pagano romano e riporta per questo genere di affermazioni un gran numero di locuzioni stereotipate. (14) Greg. Tur., glor conf. 44 … vitam huius … a Fortunato presbytero conscriptam cognovimus (MGH Script. Rer. Meroving. 1, 2, p. 325) (15) Cfr. E. Giannarelli, La biografia femminile, pp. 223-245. Quest’ultima vita, inoltre, si configura diversamente anche per la mancanza di un committente, dal momento che Venanzio, a causa del suo intenso legame con la santa, decise autonomamente, dopo la sua morte, di scrivere l’opera, come conferma l’assenza di qualunque dedica. Non sarà preso in considerazione neanche il Liber de virtutibus s. Hilarii, che pure si apre con un’ampia pro-

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fessione di modestia, parte integrante delle praefationes prese in esame, in quanto l’opera trova spazio in un genere letterario diverso, anche se contiguo. Nelle vite dei santi, infatti, hanno ampio spazio i racconti di miracoli, ma queste narrazioni, da sole, costituiscono un genere autonomo, molto fertile per altro, che ne comprende tutte le tipologie. (16) Per correttezza metodologica bisogna ricordare che i prologhi – le prefazioni, le dediche – sono per definizione parti a rischio nella tradizione manoscritta di un testo. In linea di principio quindi non si può affermare con certezza che queste vitae siano state composte prive di prologhi, anche se resta questa comunque l’ipotesi più probabile. (17) Va ricordato, anche se non particolarmente determinante ai fini di questa indagine, che solo nella vita Paterni, tra quelle prese in esame, prevale il modello ascetico-monastico, mentre negli altri casi si afferma un exemplum di santità vescovile. (18) I testi di riferimento sono quelli editi da B. Krusch, MGH AA. aa. 4, 2, Berolini 1885, pp. 1-7 (vita Hilarii), pp. 27-33 (vita Albini), pp. 33-37 (vita Paterni), pp. 49-54 (vita Marcelli). La vita Albini è riportata per prima sia in questo lavoro che nello schema, in quanto il prologo che la apre è più lungo e dettagliato degli altri e più ricco di tematiche, mentre per le altre vitae è seguito l’ordine scelto dal Krusch. (19) Cfr. Prooemium, p. XIII dove lo studioso perviene a questa conclusione sulla base di un periodo contenuto in vita Albini 6 quem ad scribendi seriem nec natura profluum nec litteratura facundum nec ipse usquequaque usus reddit expeditum; negli stessi anni una motivazione simile adduce A. Ebert, Histoire Générale de la Littérature du Moyen Age en Occident, Paris 1883, pp. 576-577. (20) Il prof. Y.-M. Duval, nella relazione presentata a questo stesso convegno La vie d’Hilaire, ha sostenuto la priorità della vita Hilarii, se pure ha riconosciuto che le due vitae sono cronologicamente molto vicine. Tale ipotesi tuttavia non modifica l’assunto di questo lavoro. (21) Su Domiziano esiste una documentazione per il periodo che va dal 566 al 569; il compito di redigere la vita deve essere stato affidato quindi a Venanzio nei primi anni del suo soggiorno in Gallia, forse quando il poeta incontrò il vescovo che lo condusse alla celebrazione della festa in onore di Albino (carm. 11, 25, 9-10 hinc sacer antistes rapuit me Domitianus, / ad sancti Albini gaudia festa trahens); cfr. R. Collins, Observations on the Form, p. 108, n. 47 e W. Berschin, Biographie und Epochenstil im lateinischen Mittelalter, II, Stuttgart 1988, p. 279. (22) G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, pp. 62-63 ritiene che nel paragrafo 1 sia contenuto poco più di un occasionale incitamento, interpretato da Venanzio come una sicura committenza Memini, vir apostolice, … etiam de sacratissimo viro Albino vestro antestite vos fecisse tenuiter mentionem, ut eius vita … fixa conderetur in chartis. In realtà l’accenno all’urgenza – inconperendinatim – contraddice la tesi sostenuta dalla studiosa di una committenza come motivo secondario, se non addirittura fittizio, restituendole la sua importanza. (23) Sottrarre all’oblio gesta straordinarie è considerato da G. Penco, Significato e funzione dei prologhi nell’agiografia benedettina, “Aevum” 40, (1966), p. 472 un elemento ricorrente nei prologhi agiografici. (24) Il paragrafo 6 è preso in considerazione da G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, p. 116 per sottolineare la consapevolezza dell’autore hoc debere committi exertis ingenio, facundis eloquio, devotis officio…; nelle espressioni che seguono l’A. individua un’affermazione che attraverso la sua analisi risulta essere ricorrente nei prologhi: un tema importante richiede un autore di uguale livello e uno scrittore incapace può offuscare lo splendore di un argomento importante con una narrazione maldestra quia radiantem vitam si pigri relatoris impar lingua praedicat obsoletat et quod inluminare debuit hoc nube sermone abscondit (1959/1960, pp. 79-80). L’espressione exertis ingenio, facundis eloquio, devotis officio, probatis stilo è emblematica del tipo di sonorità che Venanzio perseguiva, in questo caso con il gioco delle rime intrecciate in un isocolon.

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(25) La contrapposizione tra l’altezza dell’opera e la limitatezza del suo ingegno è espressa da suggestive metafore: quella della luce, per indicare il pericolo che una vita splendente narrata da una lingua inadeguata sia coperta dall’oscurità del discorso; quella della sterilità dell’orzo in confronto al frumento. (26) Quintiliano, inst. 10, 1, 114 vero Caesar si foro tantum vacasset, non alius ex nostris contra Ciceronem nominaretur. (27) G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, p. 99 collega la speranza di indulgenza alla professione di obbedienza; lo stesso concetto è espresso in vita Hil. 5 etsi cum mea verecundia vobis quidem oboedientiam et illi impendo de quo non digne loquor iniuriam, sed concedi veniam credimus quod devotione peccamus; qui è anche ribadita l’insufficiente capacità dell’autore di fronte alla statura di Ilario. (28) Cfr. R. Collins, Observations on the Form, pp. 107-108 parla di un pubblico di audientes, termine che designa un gruppo non ristretto, che si contrappongono ai legentes di Sulpicio Severo; cfr. n. 8. A.V. Nazzaro, L’ideale del popolo di Dio nei Carmi di Venanzio Fortunato, in Sacerdozio battesimale e formazione teologica, Convegno di studio. Fac. Lett. crist. e class., Roma 14-16 marzo 1991, 1992, pp. 133-162 individua nell’opera tutta di Venanzio un’alta ricorrenza dei termini populus e plebs nell’accezione di ‘popolo dei fedeli’. (29) La dedica a Pascenzio consente di collocare l’opera tra l’arrivo di Fortunato in Gallia e la morte di Sigiberto (575), perché il vescovo morì quando ancora il sovrano era vivo. (30) Pur nella determinazione di non affrontare una per una le molteplici figure retoriche e arditezze stilistiche di cui Venanzio infioretta la sua scrittura, non si può non soffermarsi con intento esemplificativo su una locuzione come exercitaris intentus et intendis exertus, dove alla simmetria del verbo che precede il participio fa da pendant la struttura chiastica di una figura etimologica vera e propria – intentus / intendis – e di una paronomasia – exercitaris / exertus. (31) Cfr. R. Collins, Observations on the Form, pp. 107-109. (32) Nella vita Martini, che risale più o meno agli stessi anni, Venanzio insiste nel confronto tra l’eloquenza di Ilario e l’abbondanza delle acque di un fiume: 1, 128-133 largior Eridano, Rhodano torrentior amplo, / uberior Nilo, generoso sparsior Histro, cordis inundantis docilis ructare fluenta, / fontibus ingenii sitientia pectora rorans. Girolamo per primo aveva definito Ilario latinae eloquentiae Rhodanus (in Gal. 2 praef., PL 26, p. 355). (33) Cfr. V. Messana, Note sulla Vita sancti Hilarii di Venanzio Fortunato, in L’agiografia latina nei secoli IV-VII, XII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, “Augustinianum” 24 (1984), pp. 201-211. G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, pp. 78-79, cita una frase del paragrafo 4 cum de illo etiam doctissimi viri quicquid dicere potuerunt, minus est quam meretur tra molti altri esempi in cui l’esortazione alla lode è temperata dalla consapevolezza che un tema elevato possa essere trattato solo da una Tulliana facundia. Più avanti, nello stesso paragrafo, è espresso il concetto che non basta solo l’eloquenza per scrivere vite di santi Aequabilius fuerat haec beato Ambrosio de fratre scribenda mandare, cui verba virtutibus coniuncta florebant (p. 95). (34) Quintiliano, inst. 5, 14, 30 Locuples et speciosa vult esse eloquentia; quorum nihil consequetur si … ex copia satietatem et ex similitudine fastidium tulerit. Cfr. G. Penco, Significato e funzione, pp. 474-475 e E.R. Curtius, Letteratura europea, p. 180 che fa rientrare la dichiarazione dell’autore di trattare solo pochi argomenti, dei tanti che sarebbero da narrare (pauca e multis) tra i topoi dell’inesprimibile, cioè dell’accentuazione, da parte dell’autore, della personale incapacità di parlare degnamente dell’argomento. Lo stesso concetto è espresso nel paragrafo conclusivo della vita Radegundis di Venanzio 91 Sed de beatae virtutibus sufficiat exiguitas, ne fastidiatur ubertas, nec reputetur brevissimum, ubi de paucis agnoscitur in miraculis amplitudo … Quest’osservazione è in apparente contrasto con quanto detto al paragrafo 75 della stessa vita Si propter brevitatem multa praetermittimus, plus peccamus: in realtà compito dello scrittore è realizzare

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un equilibrio tra queste due esigenze entrambe forti. Ancora più illuminante è liber de virtutibus S. Hil. 37 Vellem adhuc insatiatus sacratissimi viri miracula quasi peculiariter decantare, sed vereor ne unde meam cupio devotionem ostendere auditoris animum fastidio nascente videar obdurare, dove G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1959/1960, pp. 87-88, n. 101 vede un’utilizzazione del topos brevitas-fastidium allo scopo di evitare l’ammissione di non avere più miracoli da raccontare. Subito dopo, infatti, nel paragrafo 38 Venanzio fa seguire una richiesta di perdono a Ilario Da mihi, pie, veniam de textus huius parvitate … e conclude Sed praesumo plurima de te minus dicere, ut de te legere populum brevitas plus invitet. (35) vita Hil. 53 Sed mea lingua non sufficit singula de sancto spiritu qui per eum et operatus est et locutus, sicut illi dignum est, cuncta proferre. Det mihi pius veniam, quia multa praeterii qui vix pauca conscripsi. Un’espressione simile compare a 11, 1, 1 ne … prolixitate verbi generetur fastidium. (36) vita Hil. 51 Quam fuit in dissertione providus, in tractatu profundus, per litteraturam eloquens, … in complexionibus multiplex, in resolutione subtilis, … conditi sal ingenii, fons loquendi, thesaurus scientiae. (37) Cfr. W. Berschin, Biographie, pp. 279-280. (38) Anche per questa vita non è possibile una datazione precisa: Paterno di Avranches è certamente vescovo intorno al 556. (39) Il paragrafo 5 della vita Albini è preso in esame da G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1968, la quale individua due tematiche ricorrenti durante tutto il Medioevo: l’ubbidienza volenterosa espressa da libenter, p. 68 e la volontà e l’amore che bastano a garantire approvazione all’opera, anche se le capacità non sono sufficienti, p. 103. (40) Nell’assenza di più precise indicazioni cronologiche, l’opera va collocata tra l’arrivo di Fortunato in Gallia – intorno al 567 – e la morte di Germano il 28 maggio 576. Diversamente dalle altre vitae in buona sostanza trascurate dagli studiosi, questa di Marcello è conosciuta grazie al saggio di J. Le Goff, Cultura clericale e tradizioni folkloriche nella civiltà merovingia, in Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, pp. 193-207, che accentua il carattere folklorico; si ricorda anche l’articolo di J.-C. Picard, Il était une fois un évêque de Paris appelé Marcel, in Haut Moyen Age: culture, éducation et société. Êtudes offertes à P. Riché, Paris 1990, pp. 79-91. (41) Cfr. W. Berschin, Biographie, pp. 280-281. (42) Già nella praefatio della vita Hilarii si sono incontrate metafore simili a queste. (43) G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, pp. 102-103 nota attraverso un’ampia messe di esempi come spesso al topos retorico della modestia corrisponda un panegirico dei destinatari o dei protagonisti degli scritti. (44) Venanzio adopera il nesso quadratis iuncturis; l’aggettivo rimanda a Quintiliano, inst. 2, 5, 9 Tum, in ratione eloquendi, quod verbum proprium, ornatum, sublime, ubi amplificatio laudanda, quae virtus ei contraria, quid speciose tralatum, quae figura verborum, quae levis et quadrata, virilis tamen compositio. L’uso di un’espressione che in ambito retorico ha un significato specifico funziona come un ammiccamento complice al più ridotto pubblico dei proemi. (45) È un caso questo in cui l’intertestualità consente di operare una scelta più sicura in ambito filologico: le varie lezioni dei codici e le congetture degli studiosi riportate in apparato dal Krusch sono da respingere a vantaggio di patavinitas, termine adoperato da Quintiliano e scelto anche dall’editore. Infatti la precedente allusione al retore induce a pensare che Venanzio avesse ben presente la sua opera, quantomeno in questo momento della scrittura. (46) Così Girolamo parlava del modo di scrivere di Ilario epist. 58, 10 (CSEL 54, p. 539) Sanctus Hilarius Gallicano coturno adtollitur et, cum Graeciae floribus adornetur, longis interdum periodis involvitur et a lectione simpliciorum fratrum procul est; la stessa espressione egli adopera in epist. 37, 3 (CSEL 54, p. 288) Est sermo quidem compositus et Gallicano coturno fluens: sed quid ad interpretem, cuius professio est non, quomodo ipse disertus appareat, sed quomodo eum, qui lecturus est, sic faciat intellegere, quo-

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modo intellexit ille, qui scripsit? a proposito di Reticio, vescovo di Autun – sede della più celebre scuola retorica di Gallia – di cui criticava lo stile. Pare inevitabile dal contesto attribuire un valore negativo all’espressione gallicano cothurno. (47) In due luoghi Quintiliano fa cenno alla patavinitas inst. 1, 5, 56 nam, ut eorum sermone utentem, Vectium Lucilius insectatur, quemadmodum Pollio reprehendit in Livio patavinitatem, licet omnia Italica pro Romanis habeam e 8, 1, 3 Et in Tito Livio, mirae facundiae viro, putat inesse Pollio Asinius quamdam patavinitatem; quare, si fieri potest, et verba omnia, et vox, huius alumnum urbis oleant, ut oratio romana plane videatur, non civitate donata. Il riferimento a Quintiliano è esplicito ed è un’ulteriore conferma che Venanzio si rivolge a quanti erano in grado di coglierlo. (48) Accanto alle consuete e convenzionali giustificazioni per un’ubbidienza esitante – indegnità di fronte a un argomento di rilievo, incapacità, istruzione mancante – affiorano ogni tanto reali e più fondati motivi, come, in questo caso, la tradizione incompleta sul tema da trattare; cfr. G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, pp. 66-67. Del resto il racconto agiografico si evolve senza vera critica delle fonti, in quanto l’autore tende a creare una stilizzazione dei personaggi più che a ricostruire la loro dimensione storica. (49) Cfr. G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, pp. 66-67 e 102.

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Vita Albini

(1) Domino Sancto Et Apostolicis Meritis Reverentissime Praeconando Domno Domitiano Papae Fortunatus Vester.

Vita Sancti Hilarii

Lode del committente Religiosi pectoris studio sollicitante commonitus, quo, papa beatissime, divinis in actibus sacri conversatione propositi iugiter exercitaris intentus et intendis exertus, ut facile sit perspicuum ad culturam ecclesiasticae disciplinae et fuisse te genitum et esse provectum: inrefragabiliter veteris dispositionis ac catholici dogmatis fundamentum custos observans

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Vita Sancti Paterni

Dedica (1) Domino Sancto Et (1) Domino Sancto Et Meritis Beatissimo Venerabili Meritis ToPatri Pascentio Pa- toque Sinu Pectoris pae Fortunatus. Amplectendo In Christo Patri Martiano Abbati Fortunatus Humilis.

Sopravvivenza grazie al ricordo (2) Magnae karitatis profert testimonium cuius curam in amico nec mors subtrahit post sepulchrum, nam qui famam amatoris studet post obitum ipsam memoriam fortiter diligit in defuncto, denique affectum viventis toto bibit in pectore, quem nec sepultum abstulit oblivio de sermone.

Vita Sancti Marcelli

(1) Domino Sancto Et Meritis Obtinentibus Apostolico Viro In Christi Caritate Fundato, Meo Lumini Praeponendo, Domino Et Dulci Patri Germano Papae Fortunatus. Differenza tra docti e indocti (2) Facundissima inlustrium oratorum ingenia sermonum flore variante distincta et eloquii vernantibus pampinis obumbrata solent sibi viles causas sterilemque materiam quaerere, ut magna dicendo de minimis videantur ostendere sui fluminis ubertatem, quia habentes intra se fontes eloquentiae de ipso sicco themate didicerunt undas haurire. Unde quidquid illis iniungitur carmine inriguo copiosius explicatur. (3) Verum econtra quicumque angustae intellegentiae ariditate torrentur nec habent affluentiam inundantis eloquii, per quam vel alios reficere vel suae siccitatis possint inopiam temperare, tales non solum aliqua non per se dicere appetunt, verum etiam si quid eis iniunctum fuerit per-

Vita Albini

Vita Sancti Hilarii

Vita Sancti Paterni

Vita Sancti Marcelli

horrescunt, quoniam quantum doctis proloqui tantum indoctis utile fit tacere. Nam illi de parvis magna disserere, isti de magnis nesciunt vel parva proferre, et ideo quod ab aliis quaeritur ab aliis formidatur. (4) Sic belligerator expertus in armis damni esse reputat, si non possit iugiter invenire quod vincat. Sed sicut fortis requirit unde ducat spolia, sic debilis metuit, ne ducatur in praedam: et quod acer invenire desiderat iners vel audire formidat. Memini, vir apostolice, cum ad urbem quam Christo praesule regitis vestris praesentandus obtutibus occurrissem, inter reliqua maturitatis consulta quae sensus vester torrentis more mihi visus est inundare etiam de sacratissimo viro Albino vestro antestite vos fecisse tenuiter mentionem, ut eius vita, quae inmarcescibilibus meritis florere probatur caelestibus inpressa libellis ad aedificationem plebis humanis etiam fixa conderetur in chartis: duplici beneficio populis con-

Committenza e scopo dell’opera et ad aedificationem (3) Quo voto solliciplebis amantissimae tante, pater veneranveluti bonus instruc- dissime, de beati tor adiciendo aliquid Paterni opinione tam culmen fabricae con- celebri iniungere non tinuare festinans non distulisti a nobis alisine timore divino. qua loquente pagina (2) Cuius operis promulgari. amore praeventus eo usque me dignatus es perurguere, quo de actibus sacratissimi viri Hilarii confessoris, qui te ab ipsis cunabulis ante sua vestigia quasi peculiarem vernulam familiariter enutrivit, ut impensi muneris vel verba rependeres, ideo etsi non plena vel ex parte complexa perstringerem: quatinus dum

(5) Cuius exempli gratia cum ipse sterilis scientiae convenienter accuser nec sit in me aliquid quod venusti sermonis ornamenta commendent, quid tibi visum fuerit, pater beatissime atque amantissime, cunctanter admiror, ut de sanctissimi viri Marcelli antestitis vita nullo fine claudenda et de illa caelesti lampade meae aliquid dignum committeres scintillae,

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Vita Albini

Vita Sancti Hilarii

sulitura, dum et in illo cernerent admiranda quae colerent et in se respicerent quod unusquisque sagaciter emendaret, id est dum apud unum tot praedicanda co-gnoscerent, apud se resecare vitia singuli non differrent, quatenus tam unica beati viri relatio medella publica fieret audientium.

sui gregis auribus vox quodam modo et vita pastoris antiquissimi resonaret, et ille probaret ministerium et ipse non celares affectum.

Importanza della scrittura per il ricordo

Descrizione dello stato attuale del santo

(2) Intellegitis sane velociter fugientes a saeculo memoriae subripi, et si de vita sanctissimi neglegantur aliqua cito lapsura litteris alligari, non facile rursus in animum recipi quod semel inceperit oblivione temporis invadente subduci.

(4) Qui certe vir apostolicus nec apud vos oblivione nec apud nos absens est in virtute, cum magis sacratis actibus nunc veram vitam possidet, in qua mors non invenit quod extinguat nec vis habet ultra quod noceat, cum sub pede iusti potius ipsa subcumbat et conteratur calce, quae quondam fuerat in timore, confitens illa se supplicem, quia in gloriam plaudentis respicit quem invasit et magis ordine converso felicissimo triumpho didicit timere mors mortuum.

Urgenza dell’opera e garanzia di autenticità (3) Huius rei inpulsor quidam postmodum mandata vestrae bea310

Vita Sancti Paterni

Vita Sancti Marcelli

Vita Albini

Vita Sancti Hilarii

Vita Sancti Paterni

Vita Sancti Marcelli

titudinis exequens a me si quidem annuerem inconperendinatim id fieri flagitavit. Illud vero adiciens, ut quae ipse de gestis sancti viri Albini iuxta fidem conpererat eo insinuante indubitabiliter propalarem, in hoc se magis querimoniarum mole conficiens, eo quod quae praedictus vir occulte quidem sed digna relatu gesserat per veritatis indaginem nec ad ea singula meruerit pervenire et aliqua se de cognitis memoraret a memoria abolevisse. (4) In his autem qui meminit sine ambiguitate suo testimonio populum nobis attulit assentantem, cum certe de eius praeteritis dubitare non liceat qui operatur in singulis cotidie clariora. Lode al narratore e al committente (5) Congratulatus sum relatori, eo quod de vestris nutrimentis talis vir adoleverit, qui iniuncta sibi tam strenue peroraret et de proprio aliquid causa venustatis non inconpetenter offerret, immo dilucide ipse per se quod aliunde poposcerat explicaret. Si quidem quidquid de illo elicitur, 311

Vita Albini vestris hoc praeconiis deputatur, quoniam est meritum magistri laus discipuli et ministri solatia sunt pontifici ornamento.

(6) Quod cum ego meae exiguitatis conscius attingere trepidarem, re vera qui noverim hoc debere committi exertis ingenio, facundis eloquio, devotis officio, probatis stilo, qui sunt sensu divites, linguae rota torrentes, famulatu celeres, carmine coruscantes, cum ante vestram peritiam ipsa Ciceronis ut suspicor eloquia currerent vix secura, et cui apud Caesarem Roma aliquid deliberans Aquitanico iudice forsitan Galliam formidaret, incongruum esse persensi, quod a me infra doctorum vestigia latitante res alta requireretur, quem ad scribendi seriem nec natura profluum nec litteratura facundum nec ipse usquequaque usus reddit expeditum, cum etsi voto traherer, rei magnitudine deterrerer, quia radiantem vitam si pigri relatoris impar lingua 312

Vita Sancti Hilarii

Vita Sancti Paterni

Dichiarazione di inadeguatezza in confronto alla grandezza del santo, di Girolamo e Ambrogio (3) Sed cum mei ingenii brevitatem mensuro, adeo beati Hilarii immensitatem fortem cognosco, ut pene mihi videatur aequale tam istud posse dicere quam digito caelum tangere, praesertim quod etiam ut audio beati Hieronymi torrens illud eloquium recusaverit attemptare, qui materiae eius se imparem eatenus iudicaverit, ut taceret. (4) Ego vero cui nullius scientiae inrigua fluenta succurrunt, quem vix stillicidii pauperis attenuata gutta perfudit, nihil proprio de fonte respirans, qua temeritate inter ingentia flumina Eufraten Hilarii et Nilum Hieronymi siccos velim cursus extendere, cum de illo etiam doctissimi viri quicquid dicere potuerunt, minus est quam meretur, et virum sanctissimum consultius mihi sit mirari quam loqui?

(5) Quod opus in re licet ista adituri, quam ante mihi commiseris, tamen ad oboediendum libenter me invadis et in tua iura transcribis, quoniam apud diligentem sufficit ipsum velle, si deficit posse.

Vita Sancti Marcelli

in confronto alla grandezza del santo e all'eloquenza gallica cum ego pauper ingenio et ille dives sit merito, ego sim humilis in sermone et ille sit egregius in mercede, praesertim cum vobis multorum prudentium famosae abundantiae sufficiat eloquentia Gallicana et quadratis iuncturis verba trutinata procedant. (6) Qui si velint sermone possunt depingere quidquid animus figuravit, apud quos ipsum loqui dictare fit et quae vix corde concipitur mox in pagina res formatur. (7) Cur itaque ut dictum est inter Gallicanos cothurnos Itala Patavinitas plano pede ire praesumat, ad quorum conparationem velut inter rosas et lilia nostrae linguae vilis saliunca respirat?

Vita Albini

Vita Sancti Hilarii

praedicat obsoletat et quod inluminare debuit hoc nube sermonis abscondit, ubi ageretur rectius, si quae ab aliis poscitis ipse ederetis. (7) Unde certus intellego non vos posse huiusmodi quopiam indigere, sed id voluisse ut de peregrinis etiam nostra vobis aliquid sitarcia non negaret, velut si quicquam inter fruges triticeas sterilitatis meae ordiatia conferant.

Aequabilius fuerat haec beato Ambrosio de fratre scribenda mandare, cui verba virtutibus coniuncta florebant.

Vita Sancti Paterni

Vita Sancti Marcelli

Importanza della scrittura per il ricordo (8) Accedit etiam ad difficultatem ingenii inpediti res altera, quod de actibus beatissimi Marcelli plurima sunt invisenda, temporum vetustate subrepta, nec facile memoria recolit quod annositas numerosa fraudavit, quoniam quidquid in libris non figitur vento oblivionis aufertur. (9) Pauca quidem de eius gestis felicibus sunt ad nostra tempora relatione vivente perducta, ne in totum quod sui amatores in posterum quaererent deperiret, quia etsi sancta membra iam dudum sepulchro sunt condita, non tamen miracula sunt sepulta, quae tanto 313

Vita Albini

Vita Sancti Hilarii

Vita Sancti Paterni

Vita Sancti Marcelli

clariora sunt quanto plus memoria vivere meruere non scripta, quoniam licet non tenerentur in pagina, fixa sunt in cordis membrana. Accettazione del compito per obbedienza e amore (8) Nunc itaque cau- (5) Sed ne protracta Quippe ubi devota (10) Unde inter haec sas ambiguitatis in pagina fastidium est karitas, voluntas difficilia dubito quo arbitrii statera su- potius generet quam maior est quam fa- convertar, utrum vel spendens, eligo rusti- provocet auditorem, cultas, nam placere digitos ad scribencus agnosci per etsi cum mea vere- vult integre qui cau- dum praeparem, oboedientiam magis cundia vobis quidem sa oboedientae etiam cum dictare lingua quam indevotus effici oboedientiam et illi suas vires transcen- formidet. Sed differre per doctrinam, ut impendo de quo non dit. Unde quia ultra non licet quod pater cuius fastidire poteri- digne loquor iniu- se tendit et plus iniungit, cum se tis eloquium saltem riam, sed concedi quam valet appetit, magis ipse gravi credimus amor mensuram non pugno feriat qui tibi adprobetis affectum, veniam et ne mihi videlicet in quod devotione pec- habet. (6) Itaque di- repugnat, praesertim hoc opere ad aures camus. Nunc de eius lectione et in his qui ut oboedire me populi minus aliquid vita proponamus. quae supra me sunt doceas et quod intellegibile proferadebitorem profiteor sustinere non valeo inponis, tur. (9) Idcirco tota atque quantum value- libenter mediocritate contenro affectui fenora sol- maior enim devotio in tus etsi relator ineptus vere procurabo: sed re difficili conprobatamen beatae vitae tamen et solvere plus tur. (11) Denique ibi cupio gesta breviter debeo, quoniam kari- plenus affectus est, intimare: tati numquam totum ubi etsi virtus non redditur quod debe- tolerat, tamen animus non recusat, et tur. ego magis hoc venerer quod caritas non leviter exigit sed audacter extorquet. Denique ex hac parte mihi ipsi conveniat proficere, quia qui magna vituperat ducere ad maiora festinat. (12) Quibus suggestis vellem hoc opus aliorum lingua nitescere potius quam nostra sordere. Sed quod primi differunt vel ultimi prosequantur: quae 314

Vita Albini

Vita Sancti Hilarii

Vita Sancti Paterni

Vita Sancti Marcelli

cum displicere videatur eloquio, placere incipiat vel ex voto. Appello alla divinità

Importanza della testimonianza orale

superest ut qui novit me oboedire magis quam praesumere ipse fluctuanti paginae portum suae dexterae subministret, qui vivit et regnat deus per omnia saecula saeculorum. Amen.

(7) Religiosorum gesta praedicabilia subcrescente provectu virtutis adulta ac venerandis operibus in cumulum sacratae benedictionis educta, miraculorum fidelium iam transmissi temporis testimonio declarata ac vivacibus meritis semper adsistunt oculis, etsi non adfixa teneantur in paginis, quoniam extrinsecus advena teste non indiget qui domesticae gloriae documentis excellit.

Importanza della divulgazione delle vite ricche di meriti

Importanza dell’ascolto dei miracoli

(10) Religiosorum vita virorum quantum est meritis clarior tantum voce crebrior populorum, quia dum illis universis beneficia tribuit, in suam laudem linguas excitat singulorum, ad quod perspicacissime propalandum vita vel gesta beatissimi Albini deducantur ad medium.

Et tamen corroboratur grex devotus de pastoris suffragio, quotiens praemissarum virtutum ipso recreatur auditu.

(11) Igitur Albinus episcopus ...

(6) Igitur beatus Hi- (9) Sacratissimus igi- (13) Beatissimus igilarius … tur Marcellus … tur Paternus … 315

LUCE PIETRI Université de Paris-Sorbonne Francia Fortunat, chantre chrétien de la nature «Les larcins faits aux poètes anciens parlent un langage nouveau»1: ce jugement qu’il porte sur les compositions de l’un de ses correspondants, Venance Fortunat aurait pu l’ appliquer à ses propres vers, notamment à ceux, très nombreux, qu’il a consacrés à la nature. Dans le traitement de ce thème, central dans toute son œuvre poétique, le «rejeton de l’Italie» exilé en terre gauloise2 doit effectivement beaucoup à la formation littéraire reçue aux écoles de Ravenne où, comme le précise Paul Diacre, il s’était «distingué tout particulièrement dans la grammaire, la rhétorique et la métrique»3. Fortunat lui-même cite à diverses reprises les noms de poètes, en majorité classiques, étudiés avec profit dans sa jeunesse. Leur fréquentation lui a permis d’acquérir cette virtuosité technique dont il fait preuve dans le maniement de la langue et des figures de style comme dans celui des mètres les plus variés. Elle fut aussi une source à laquelle s’est abreuvée son inspiration, plus personnelle cependant que ne pourraient le laisser croire les listes, dressées par éditeurs ou critiques modernes, d’emprunts directs – au demeurant limités en chaque cas à quelques expressions – ou de réminiscences plus fugaces et parfois douteuses. Car ses lectures, en éveillant sa sensibilité, l’ont surtout préparé à célébrer, dans nombre de ses carmina ainsi que dans la Vita Martini, la beauté des spectacles naturels qu’il dépeint en poète-paysagiste, pour la faire découvrir à ses lecteurs. Mais tout en exploitant une veine dans laquelle s’étaient illustrés les plus grands, notamment Virgile et Ovide, Fortunat parle un langage nouveau, celui d’un chrétien fervent qui s’est doté à Aquilée, auprès du patriarche Paulus4, d’une solide culture religieuse, complétée ensuite en Gaule5, auprès du monastère Sainte-Croix de Poitiers: dans l’univers naturel qu’il dépeint, il lit et veut faire découvrir Dieu à l’œuvre dans sa création, en se faisant l’interprète du Liber naturae.

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Le poète-paysagiste

Abandonnant pour ne jamais y revenir les régions voisines de l’Adriatique, où, en Vénétie-Istrie et dans la Flaminia voisine, entre Aquilée et Ravenne, s’étaient déroulées les années de son enfance et de sa jeunesse, Fortunat découvre de vastes contrées aux horizons divers et, pour une part, nouveaux pour lui. Sa culture poétique, parfaitement assimilée, lui permet, sans jamais l’inciter à plaquer des souvenirs livresques sur l’univers exploré, de traduire avec bonheur les expériences vécues au contact d’une nature aux aspects contrastés, au cours de ses expéditions les plus lointaines aussi bien qu’à la faveur de randonnées plus courtes et de séjours plus ou moins prolongés dans le cadre agreste de riches villae. Il se fait poète-paysagiste, tantôt pour dépeindre, en des fresques où il rivalise avec l’art du pictor, les sites offerts à sa vue, tantôt seulement pour évoquer ceux-ci de quelques touches suggestives. Ce faisant, il s’efforce aussi de rendre tout ce que ses autres sens ont su capter, afin de restituer, au profit de ses lecteurs, sensations et émotions ressenties. Les premières années qui suivent son départ de Ravenne, à l’été ou à l’automne 565, sont pour Fortunat celles des plus grands voyages. Ceux-ci lui procurent une impression de dépaysement, au sens étymologique du terme, puisqu’ils lui font traverser des sites très différents des «plaines unies de Vénétie»6 qui lui étaient familières. C’est le sentiment dominant éprouvé au cours du périple qui le conduit d’abord jusqu’au royaume d’Austrasie, en traversant les Alpes Juliennes puis les Alpes du Norique et de la Bavière. Avec la précision d’un auteur d’Itineraria, il en a noté les principales étapes dans l’Envoi de la Vita Martini, refaisant en sens inverse le parcours qu’il avait lui-même naguère emprunté, afin que son poème parvienne à ses parents et amis7. L’idée d’acheminer ainsi son ouvrage, tel un voyageur chargé de messages, lui a peut-être été lointainement suggérée à la lecture de la pièce liminaire du livre III des Tristes, dans laquelle Ovide, relégué à Tomi sur les bords de la Mer Noire, avait expédié son recueil à destination de Rome et de ceux qu’il y avait connus. En tout cas, c’est dans la lettre-préface de la première édition des Carmina, dédiée à son ami Grégoire de Tours, que Fortunat a le mieux exprimé les impressions recueillies au cours de ce «long voyage», qui s’est ensuite prolongé, après les séjours austrasien et parisien et une première halte à Tours puis à Poitiers, à travers l’Aquitaine jusqu’au pied des 318

Pyrénées et probablement au-delà, en terre hispanique8. Si, à l’issue de cette vaste tournée, le poète se fixe plus durablement à Poitiers auprès de Radegonde, il reprend encore, avant 573, la route pour se rendre jusqu’à la «mer océane» et séjourner dans une île cernée par l’«onde britannique»9. Une dernière fois, en 588, à la faveur de l’ambassade conduite par Grégoire auprès du roi Childebert II, il retourne, en compagnie de son ami, en Austrasie où il effectue une croisière mouvementée sur la Moselle10. Non sans un frisson d’effroi rétrospectif, Fortunat évoque par la suite les paysages grandioses contemplés en ces occasions: ceux d’une nature sauvage et donc, à ses yeux de citadin italien policé, aussi barbare – c’est ainsi qu’il qualifie le Rhin et le Danube11 – que les peuples qui la hantent. Terrifié mais fasciné, le musicus poeta doit aguerrir sa muse à cet environnement hostile: nouvel Orphée, il tente d’émouvoir les bêtes fauves et de faire résonner ses vers aux échos des forêts; mais sa lyre est impuissante à rivaliser avec la «harpe bourdonnante» au son de laquelle ses compagnons germaniques entonnent des lieder, mieux en harmonie avec le paysage12. Sa première expédition l’entraîne dans l’univers sévère de la haute montagne – ces horrentia saxa qu’évoquait Ovide (Metam. IV, 777) – qu’il dépeint avec une rare justesse dans le choix des traits évocateurs. Les Alpes, dont les cimes se perdent dans les nuages, sont creusées de gorges rocheuses, parcourues de torrents rapides, difficiles à franchir13 pour le voyageur qui se sent «suspendu au-dessus des abîmes»14. Des Pyrénées, Fortunat conserve le souvenir de montagnes couvertes de neige en plein été15. Aussi peutil se représenter sans peine les obstacles que leur franchissement a offerts aux princesses wisigothes, Brunehaut et Galeswinthe, se rendant successivement dans le royaume des Francs pour y épouser respectivement Sigebert et Chilpéric. La première affronte «les frimas et les congères» de l’hiver pour passer les hauteurs montagneuses16; la seconde franchit celles-ci sur des routes vitrifiées par le verglas, «au milieu des nuées» au-dessus desquelles, s’enfuyant vers le ciel, «émerge la pointe d’une crête» blanchie de neige, à l’époque où «juillet grelotte dans les ondes glaciales»17. Plus épisodiquement, il évoque aussi, aperçus lors d’un de ses voyages en Austrasie, les Vosges et les Ardennes couvertes de hautes futaies18, où il imagine son ami Gogon, un haut fonctionnaire lettré, occupé à chasser les animaux sauvages19. 319

Nés dans ces différentes montagnes et grossis de leurs affluents, les grands fleuves de la Germanie et de la Gaule suscitent également l’attention toujours renouvelée de l’Italien. Ce dernier mérite amplement le titre de «poeta dei fiumi» que lui décernait ici-même en 1990 le Prof. della Corte20. Célébrant le torrent d’éloquence jailli de la bouche de l’évêque Leontius de Bordeaux, Fortunat l’égale au Rhin «qui descend des Alpes à bride abattue» et au Danube «qui porte loin ses eaux»; et il ajoute: «j’ai traversé ces fleuves et je juge sur ce que je connais»21. Il en va de même pour le Rhône «aux eaux rapides»22 et pour la Garonne qu’il redoute de franchir, lorsque ses eaux, gonflées comme une montagne – une image peut-être empruntée à Virgile (Aen. I, 105) –, «grondent écumeuses sur les rouleaux des vagues»23, pour «gonfler l’Océan de son cours bouillonnant»24. Plus modestes et en apparence plus paisibles, d’autres cours d’eau, parmi tous ceux que ses vers énumèrent, peuvent, dans leur cours supérieur, surprendre le voyageur imprudent par leurs brusques sautes d’humeur. Grossie par la pluie et sous le souffle du vent, la Moselle a bien failli engloutir une première fois le poète embarqué sur un frêle esquif25, une mésaventure qui paraît se renouveler, une vingtaine d’années plus tard, au début de la croisière royale à laquelle il est convié sur cette même rivière: là où cette dernière est resserrée entre des falaises rocheuses, un courant rapide, que vient redoubler l’affluent de l’Orne, entraîne dangereusement son navire26. Rétrospectivement, Fortunat évoque avec humour la peur éprouvée en ces deux circonstances, de même qu’il se plaît à dépeindre sur un mode plaisant, mais avec une sûreté de touches remarquable, les caprices du Gers: le maigre filet d’eau qui «lèche les sables abandonnés» se gonfle soudain de ce qu’il «a bu de l’ondée abattue dans les montagnes» et peut alors révéler sa force destructrice, en inondant les champs et les pâturages de «ses tourbillons impétueux»27. Mais c’est encore par la découverte de l’Océan que le poète demeure le plus fortement impressionné. Certes, naguère, il avait navigué «sur les flots écumants de l’Adriatique, entraîné par le remous des eaux, dans les grondements sourds de la tempête fracassante»28. Cependant, ce souvenir pâlit devant le grandiose spectacle de la «mer océane» qu’il célèbre avec des accents parfois proches de ceux arrachés à Ovide par le Pont-Euxin, mais avec un talent personnel certain. Fortunat est subjugué par le phénomène de la marée dont le flux «met en fuite le sable du 320

rivage» et «naufrage la terre», avant de redescendre dans un reflux au cours duquel «l’eau se retire glacée pour revenir bouillonnante»29. Tel un peintre de marines, il donne à voir, «sous les tourbillons rageurs de l’orage» ou sous la tempête déchaînée30, les «gouffres marins»31 qui se creusent au pied des vagues dressées «en falaises mouvantes» ainsi que, seules touches colorées, «les lames glauques» et «la crête des eaux noires». Bien plus, par le rythme de ses mètres, il reproduit le mouvement des masses liquides qui se gonflent avant de s’abattre dans un déferlement furieux, en fouettant l’air de gerbes d’écume et, par les sonorités de ses vers, il fait entendre «le grondement des vagues», semblable, tantôt à un «mugissement rauque»32, tantôt à un «aboiement furieux»33, suivi du claquement des «masses déferlantes». A cet égard, le Prologue de la Vita Martini représente sans conteste une véritable page d’anthologie. Contrastant avec les paysages austères d’une nature indomptée qu’il découvre au cours de ses plus lointains voyages, les contrées plus riantes au sein desquelles il réside habituellement offrent à Fortunat une autre source d’inspiration. Fixé à Poitiers, le poète a cependant maintes occasions de goûter aux plaisirs de la campagne. En Poitou même ou aux confins de la Touraine voisine, il a obtenu la jouissance d’un domaine rural, gracieusement mis à sa disposition par l’évêque Grégoire sur les bords de la Vienne34. Il ne quitte ce paisible séjour que pour faire, à ses plus proches voisins, des visites qui l’amènent à sillonner la Lyonnaise Troisième, de Tours35 à Nantes36, en passant par Angers37, ou à pousser quelques incursions dans les provinces voisines de Sénonaise pour y gagner Paris38 et peut-être Nevers39 ou dans celle d’Aquitaine Seconde pour se rendre auprès de l’abbé limousin Aredius40 ou auprès de l’ évêque de Bordeaux41. En ces diverses circonstances, il est souvent accueilli par ses hôtes dans le cadre d’une villa rurale dont, en guise de remerciement, il loue les agréments par l’offrande d’un carmen. Dans ce genre de compositions, célébrant des plaisirs agrestes qui rappellent peut-être à l’Italien ceux du domaine familial de Duplavilis, affleurent des réminiscences virgiliennes des Bucoliques. Abandonnant la harpe du barde errant pour le chalumeau du berger, le poète, étendu à l’ombre d’un bosquet, au bord d’«une source transparente», unit le chant de ses vers à celui des oiseaux42. Bien que d’une veine plus convenue, ces carmina évoquent avec sensualité «le charme naturel de la campagne» (naturalis gratia ruris)43, sa grâce riante (amoenus ager; amoena 321

ruris)44. Si Fortunat rappelle parfois d’un trait la rigueur de l’hiver et son cortège de brumes et de gel durcissant le sol45, ou la chaleur étouffante de la canicule estivale «qui halète sur les terres crevassées»46, c’est toujours pour mieux faire apprécier la douceur du printemps, sa saison préférée, longuement chantée dans l’épithalame de Sigebert47 et dans le grand poème adressé à Felix de Nantes48, mais aussi dans de nombreux autres carmina49. Il peut alors jouir, ainsi «sous le ciel radieux de l’Aquitaine»50, du panorama «ravissant» que présentent à sa vue, depuis le sommet d’un mamelon, les collines doucement ondulées51 ou les plaines largement ouvertes52. En ces lieux, la nature disciplinée par la présence et le travail des hommes a des attraits qui «enchantent l’âme rêveuse» du poète53. Les bois, dont «les bêtes fauves ont été chassées»54, offrent la protection de leurs vertes frondaisons au promeneur fatigué55. Les fleuves, apaisés dans leurs cours inférieur56 et parfois ingénieusement canalisés57, roulent mollement leurs eaux «nourricières»58 pour fournir en abondance du poisson aux habitants59 et fertiliser leurs terres60. En contrepoint au «doux murmure» de la rivière61 ou au gazouillement d’une source62, le chant des «oiseaux babillards»63 se mêle, en un concert champêtre, au bourdonnement des abeilles64. Les champs, où le laboureur «a tracé avec art un sillon dont la ligne forme un contraste de couleurs»65, se couvrent, au fil des semaines, de lourds épis de blé66 d’un ton d’abord «laiteux»67 puis blondissant68. Des différents vignobles du Bordelais, de la Loire et de la Moselle, le poète dépeint aussi les transformations: émondés de leurs rameaux, les sarments «laissent perler» la sève montante69, puis la vigne se gonfle de pampres bourgeonnants70, avant de déployer ses «ombrages apaisants»71 et de laisser pendre ses grappes dorées72. Les près, dont la chevelure odoriférante73 ondoie sous la brise74, se parent des couleurs de mille fleurs parfumées qui émaillent «le gazon de leurs yeux et lui donnent un sourire»75. Dans les vergers, les branches des arbres s’alourdissent de fruits dont la senteur donne un avant-goût de la saveur76. Ainsi tous les sens du poète participent-ils aux doux plaisirs qui lui sont offerts et qu’il tente de faire partager à son lecteur: dans les séjours champêtres qu’il affectionne, les formes et les couleurs ravissent sa vue, les sonorités harmonieuses charment ses oreilles, tandis que les parfums chatouillent agréablement ses narines, comme autant de promesses pour son palais de gourmet, et que la brise caresse doucement son front77. 322

L’interprète du Liber naturae

Fortunat peut ainsi paraître, dans nombre de ses vers, inviter son lecteur à une simple promenade dans les sites naturels qu’il a lui-même visités et dont il souhaite lui faire découvrir la beauté, animé du seul désir de rivaliser avec les plus grands de ses devanciers et modèles, au point de peupler parfois les bois, les montagnes et les eaux de nymphes et de divinités antiques78. Mais c’est là pure coquetterie littéraire de la part d’un poète profondément chrétien qui, ainsi qu’en témoignent explicitement nombre de ses compositions, voit dans la nature l’œuvre du Dieu Trinitaire qui l’a créée et qui, à travers elle, comme à travers l’Écriture Sainte, se révèle aux hommes dans son secret le plus intime. C’est donc à une découverte spirituelle que convie Fortunat, en interprète de ce Liber naturae dont la lecture, selon Augustin, l’un des Pères de l’Église auquel il fait référence à plusieurs reprises, doit instruire de la vérité divine l’ignorant lui-même (C. Faustum, 32, 20; Enn. in Ps. 45, 7). Pour le poète, l’univers tout entier (totus orbis)79, avec ses éléments80, est celui que Dieu, rerum creator81, a, ainsi que l’enseigne le prologue de la Genèse, façonné au commencement par le jaillissement de sa force créatrice dont la nature, là où elle demeure indomptée, conserve encore l’empreinte dans la majesté inviolée ou le déchaînement incontrôlé de ces mêmes éléments. Dans ses méditations, il évoque en effet les six jours de la création, le temps où «l’esprit (de Dieu) se mouvait au-dessus des eaux»82, celui où sa puissance fut «porteuse de lumière»83, avant qu’il ne fit «la mer, les astres et l’homme à son image»84. A l’acte créateur est associé le Fils, coéternel au Père, bone conditor à l’égal de ce dernier85, car Il est «celui de qui la main contient tout l’univers»86 et maintient «les cieux suspendus, les terres solides, les eaux liquides» et celui grâce au pouvoir duquel «vit tout ce qui habite l’espace»87. Le Dieu trinitaire a ensuite placé l’homme, avec sa compagne, dans de pia regna88, afin que tous deux puissent y jouir d’un bonheur paradisiaque89, la terre entière obéissant dès lors «merveilleusement à ces deux êtres»90. Mais du séjour idyllique de l’Eden les premiers parents ont été chassés pour avoir mangé le fruit de l’arbre de la connaissance. Poursuivant sa lecture commentée de la Genèse, Fortunat se plaint amèrement de leur désobéissance: celle-ci a condamné non seulement la descendance humaine, mais également la nature tout entière à la condi323

tion mortelle: «il n’est pas un arbre resté debout, gémit-il, qui ne porte la mort dans ses racines;… la possession de l’arbre du malheur a blessé toutes choses91, et, conclut-il, Ève a détruit l’univers». Cependant le poète se refuse à ajouter sa propre condamnation à celle qui a frappé Adam, «le disgracié dont la faute nous a valu la grâce»92. Car le Fils de Dieu est venu «réparer ce qui était dès longtemps perdu ; voilà, conclut-il, ce que les fruits de l’arbre défendu ont produit de bon». C’est le felix culpa d’Augustin93, étendu par Fortunat à l’ordre cosmique, puisque le sacrifice du Christ, rachetant l’humanité pécheresse, restaure aussi la nature corrompue par la faute première: «La haute puissance de la croix … ramène tout ce qui dans le monde était perdu»94, car, par le sang et l’eau qui se sont écoulés du flanc du crucifié, «terre, mer, astres, monde sont lavés»95. En effet, «sur la croix, la mort du Christ a guéri ce qui dans le monde était mort»96. De la rédemption apportée par le Christ, la nature offre à tous le témoignage. La restauration de l’ordre divin s’y manifeste clairement dans la mesure, tout d’abord, où elle a été opérée par un élément naturel identique à celui qui l’avait perturbé: le bois d’un arbre, ainsi que le remarquait déjà au début du Ve s. Claudius Marius Victor dans sa paraphrase poétique de la Genèse: per lignum ingruerit mundo populisque futuris/ possit adhuc aliquod per lignum vita redire97. Qu’il ait été ou non inspiré par ces vers, Fortunat met lui aussi en rapport le bois de l’arbre de la perdition et celui de la croix réparatrice: «Le créateur de notre premier père, affligé de la faute de ce dernier, …afin de réparer les dommages du bois, lors désigna le bois»98, conformément à la prédiction de David: «Dieu a régné du haut du bois». Le poète, désignant la croix par le bois99 dans lequel celle-ci fut taillée – «nous recevons l’unique salut par le bois»100 –, assimile plus directement encore l’instrument de la Passion à un arbre: «Croix fidèle, arbre unique et noble»101. Plantée (plantata) au bord des eaux102, elle protège par ses frondaisons (sub frondibus arboris) des brûlures de la canicule le jour et de la lune la nuit103 et porte, suspendue à ses bras, la vigne (vitis vera)104, le Christ, selon Jean 15, 1. De son tronc (stipes)105 à l’écorce (cortex) parfumée106, partent les branches (rami)107 sur lesquelles ont été écartelés les membres du Seigneur108. La croix-arbre produit en abondance109 des fruits qui sont nouveaux (nova poma)110 et désormais inoffensifs111, préparant ainsi une «vie nouvelle»112. De cette promesse d’une vie nouvelle apportée par l’ar324

bre du salut, la nature toute entière offre aux yeux de tous le gage lorsque, au retour du printemps, la végétation se réveille de la mort hivernale pour participer à la Résurrection du Christ. Alors, avec le soleil qui «déploie le jour sur l’univers»113, la lumière croît dans le ciel, image du Fils de Dieu, «vive Lumière qui tira le monde des ténèbres»114. Alors aussi, «lorsque l’année lui rend le faste du printemps, la terre, en harmonie et partout en travail, déverse ses présents»115. C’est en ces termes que débute le grand poème sur la Pâque qui, dédié à l’évêque de Nantes, Felix116, décrit la splendeur du renouveau printanier en des vers d’inspiration virgilienne. Mais de ce tableau bucolique (v. 1-30) qu’il a tracé en bien d’autres carmina, Fortunat, ici, donne ensuite explicitement, dans un second volet (v. 31-88), la lecture chrétienne: «Voici que le charme du monde qui revient à la vie atteste que tous les biens lui sont rendus avec son Seigneur» (v. 31). C’est le Christ, salus rerum, bone conditor atque redumptor (v. 47), «triomphant après avoir connu le sombre Tartare» (v. 33; cf. VIII, 7, 3), que, «de toutes parts, célèbrent le bois par ses frondaisons, l’herbe par ses fleurs» (v. 34). Entonnant un «chant d’amour» (amore canto, v. 46), le poète mêle, à l’adresse du Seigneur, ses louanges à celles de la nature: «la forêt vous applaudit de ses palmes, ainsi le champ de ses épis, ainsi la vigne vous rend grâce par ses sarments silencieux» (v. 43-44). A l’approche de la Pâque, l’univers est arraché à la mort avec et par le Christ ressuscité qui lui apporte la «vie nouvelle» (nova vita, v. 88). Celle-ci est également promise aux candidats au baptême qui, grâce à l’apostolat de Felix, seront lavés de l’ «antique péché dans un fleuve nouveau» (v. 92). L’épilogue du carmen (v. 89-110) est un éloge de l’évêque qui «consolide la bergerie de Dieu» (v. 98) et fait «sur les ronces pousser le blé» (v. 102), «remplissant les greniers du fruit d’une moisson abondante» (v. 106). Ces métaphores sont de celles que Fortunat file avec prédilection en s’inspirant des paraboles «agricoles» du Nouveau Testament dont le souvenir affleure dans nombre de ses carmina: envoyé par le Père, Dieu agriculteur et vigneron117, le Christ est présenté par le poète tantôt comme le bon berger qui donne sa vie pour ses brebis118, tantôt comme le maître d’un champ – le monde- qu’il ensemence de sa parole (Christi rura)119. Fidèles serviteurs du Sauveur, les bons évêques sont en conséquence ceux qui œuvrent à leur tour au profit de cette agriculture divine. En développant ce thème, Fortunat puise aussi largement à un répertoire 325

depuis longtemps illustré par la pastorale qui, pour mieux être comprise des fidèles, emprunte volontiers ses exempla à la nature. Qu’il suffise ici de rappeler les enseignements dispensés par Martin de Tours, tels que les rapporte Sulpice Sévère et que les habille de vers Fortunat120, tirant argument de la vue d’une brebis tondue, de celle d’un porcher ou encore d’un pré en partie fouillé, en partie brouté et en partie fleuri; ou encore les termes de la lettre adressée à Radegonde par l’évêque Eufronius de Tours et par six autres évêques, invoquant «l’héritage confié (par Dieu) à la culture ecclésiastique des personnes qualifiées qui, avec une intense activité, cultivent son sol, munies du râteau de la foi…».121 Dans cette même optique, pour Fortunat, tout successeur des apôtres est établi, tel Carentinus de Cologne, comme un «colon de Dieu» (colonus Dei)122 pour mettre en valeur «les terres du Christ»123, ou, tel Martin de Braga, cet «Adam plus fort», comme un inexpugnabilis accola, grâce auquel est replanté à l’Occident le jardin d’Eden perdu en Orient124. Le responsable d’une communauté est souvent dépeint sous les traits du «pasteur de la bergerie apostolique»125 qui paît ses brebis126, en les protégeant de la morsure du loup127 et les plonge dans les ondes pures afin qu’elles ne portent pas plus longtemps une «toison souillée»128. En d’autres vers, il est célébré comme «un cultivateur habile»129 qui débarrasse les champs de leurs ronces130 et de «l’ivraie amère»131, avant de les labourer132 et de les ensemencer de sa parole133, pour récolter une riche moisson134 dont «les fruits du froment sont battus sur l’aire du Christ»135. Ou bien, il est un arboriculteur avisé qui «ente les pieux greffons de la foi», «pour que l’ancien tronc sauvage verdoie en olivier fertile»136, ou encore le «vigneron des biens apostoliques» qui «extirpe la lambruche stérile» si bien que «le raisin apparaît à la place des broussailles»137. Certes, Fortunat ne fait guère que broder sur des topoi des variations poétiques et, ce faisant, il cède un peu trop souvent à la facilité en reprenant d’un elogium à l’autre les mêmes formules. Mais son insistance même à se répéter s’enracine dans la tranquille espérance en la vie éternelle, une espérance aussi assurée que les promesses tenues ici-bas par les terres de labour ou de pâture: car la foi fait lever des moissons qui seront engrangées dans les greniers du Christ138 et conduit les ouailles fidèles vers les «pâturages éternels du Christ»139 et les près émaillés de fleurs du paradis140.

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Fortunat a été longtemps considéré comme un écrivain mineur, voire décadent. Depuis quelques décennies, heureusement, les recherches entreprises sur ses œuvres – et ce colloque en apporte l’illustration – parallèlement à de nouvelles éditions et traductions de ces dernières, permettent enfin de lui rendre pleinement justice. L’enfant de Trévise installé en terre gauloise se révèle un authentique poète, non seulement parce qu’il maîtrise parfaitement son art, mais aussi parce qu’il met celui-ci au service d’un idéal spirituel profondément médité, ainsi que j’ai tenté de le montrer en étudiant la place qu’il accorde dans ses vers à la nature.

Note

(1) Fortunat, Carm. III, 18, 4. Les citations des œuvres poétiques de Venance Fortunat renvoient à l’édition de F. Leo, MGH aa IV, 1 et leur traduction française à celle procurée, pour les huit premiers livres des Carmina, par M. Reydellet, Coll. Univ. de France, t. I (livres I-IV), Paris, 1994 et t. II (livres VVIII), Paris, 1998, et, pour la Vita Martini, à celle de S. Quesnel, dans la même collection, Paris, 1996. (2) Carm. VIII, 9, 7-8 et VIII, 1, 12. (3) Paul Diacre, Hist. Lang. II, 13, MGH srl, p. 79. (4) VM IV, 661-662. (5) Sur ce theologiae tirocinium, carm. V, 1, 7. (6) VM IV, 656. (7) VM IV, 630-688. (8) Carm., Praef., 4-5. L’épitaphe de l’abbé Victorianus du monastère d’Asan (carm. IV, 11), près de Huesca, ainsi que la lettre (carm. V, 1) et le poème (carm. V, 2) adressés à Martin de Braga semblent témoigner de cette incursion au sud de la chaîne pyrénéenne.

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(9) Carm. III, 26 ; App. 29. (10) Carm. X, 9. (11) VM IV, 640. (12) Carm., Praef., 5 ; cf. VII, 8, 63-69. (13) VM IV, 641-645. (14) Carm., Praef., 4. (15) Ibid. (16) Carm. VI, 1, 113-117. (17) Carm. VI, 5, 209-212. (18) Carm. III, 12, 1-4; VI, 1, 3; X, 9, 25-27. (19) Carm. VII, 4, 19-22. (20) Fr. Della Corte, Venanzio Fortunato, il poeta dei fiumi, Atti del Convegno internazionale di Studi, ‘Venanzio Fortunato tra Italia e Francia’, Valdobbiadene-Treviso (1990), Treviso, 1993, p. 137-147. (21) Carm. I, 15, 71-76. (22) Carm. II, 14, 1-4. (23) Carm. VII, 25, 13-14. (24) Carm. I, 21, 9. (25) Carm. VI, 8, 21-30. (26) Carm. X, 9, 5-14. (27) Carm. I, 21, 37-46. (28) VM III, 8-9; c’est ainsi également que le poète imagine la tempête qu’ avait jadis, dans la mer Tyrrénienne, au témoignage de Sulpice Sévère, apaisée l’invocation du Dieu de Martin (VM IV, 404-423). Sur la métaphore de la navigation, inspirée à Fortunat par la Préface de Claudien au livre I du De raptu Proserpinae, F.E. Consolino, L’eredità dei classici nella poesia del VI secolo, in Prospettive sul Tardoantico, «Biblioteca di Athenaeum» 41, 1998, p. 87-88. (29) Carm., App. 29, 1-7. (30) Carm. III, 30, 13; I, 17, 4. (31) Carm. V, 1, 45. (32) VM, Prol., 1-14. (33) Carm. App. 29, 1-7. (34) Carm. VIII, 19 et 20. (35) Carm. V, 11, 6; X, 7, 10-11. (36) Carm. III, 4 à 10. (37) Carm. XI, 25. (38) Carm. VIII, 2. (39) Carm. III, 9. (40) Carm. VI, 7. (41) Carm. I, 18. (42) Carm. VII, 8, 1-32. (43) Carm. I, 20, 8. (44) Carm. III, 12, 17; X, 9, 11. (45) Carm. V, 11, 6; VIII, 7, 1-2; IX, 3, 1-4; XI, 26, 1-12; App. 23, 7-8. (46) Carm. VI, 10, 5-6; VII, 8, 1-32. (47) Carm. VI, 1, 1-14. (48) Carm. III, 9. (49) Carm. VIII, 7, 3-4; VIII, 10, 5-14; IX, 3, 7-10. (50) Carm. I, 15, 11. (51) Carm. I, 6, 13-18; I, 19, 3-6; I, 20, 9-10; V, 7, 8; X, 9, 19. (52) Carm. X, 9, 11; VM III, 344. (53) Carm. IV, 12, 18. (54) Carm. I, 18, 17-18. (55) Carm. III, 9, 22 et 34; V, 7, 10; VI, 1, 4; IX, 3, 8. (56) Carm. V, 7, 7; VI, 5, 233 (la Loire). VI, 5, 214 (l’Aude). III, 12, 10-12; III, 13, 1-4 (la Moselle). (57) Carm. V, 10 (la Loire ou l’Erdre); III, 12, 37 (la Moselle); I, 19, 11-12 (la Garonne); IX, 9, 27 (le Rhin). (58) Carm. VII, 4, 7. (59) Carm. I, 20, 17; III, 12, 11; III, 13, 10; X, 9, 49-50 et 71-74.

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(60) Carm. I, 19, 1. (61) Carm. VII, 4, 11. (62) Carm. VII, 8, 18. (63) Carm. VI, 1, 12; III, 9, 27-30. (64) Carm. III, 9, 25-26; VI, 1, 7-8. (65) Carm. VI, 10, 44-46. (66) Carm. III, 12, 13-14. (67) Carm. III, 9, 15. (68) Carm. I, 20, 15. (69) Carm. III, 9, 17. (70) Carm. VI, 1, 5-6. (71) Carm. I, 20, 16; III, 13, 13; V, 7, 9; VI, 1, 5-6; VII, 4, 7-9; VII, 8, 3. (72) Carm. X, 9, 30-43. (73) Carm. I, 18, 2. (74) Carm. I, 20, 12-14; III, 9, 11. (75) Carm. III, 9, 13-14. (76) Carm. VI, 6, 14; VI, 7, 9-10. (77) Carm. I, 20, 13; VII, 8, 24; X, 9, 32. (78) Carm., Praef., 5; III, 14, 15; III, 23a, 1; IV, 28, 8; VI, 1, 20, 38, 49 et 60. (79) Carm. X, 19, 21. (80) Carm. IX, 7, 74. (81) Carm. III, 1, 1. (82) Carm. XI, 26, 13-14 (Gn. 1, 2). (83) Carm. II, 4, 2 (Gn. 1, 3). (84) Carm. II, 4, 4 (Gn. 1, 28). (85) Carm. III, 9, 47. (86) Carm. III, 9, 69 (Isaïe 40, 12). (87) Carm. III, 9, 53-54. (88) Carm. V, 6a, 5. (89) Carm. II, 4, 9 (Gn. 2, 8). (90) Carm. V, 6a, 11 (Gn. 1, 28). (91) Carm. X, 2, 2-4 (Gn. 3, 17). (92) Carm. X, 2, 5. (93) Carm. II, 3, 9-10, avec la note 17 de M. Reydellet, p. 182. (94) Carm. II, 3, 2. (95) Carm. II, 2, 20-21. (96) Carm. II, 4, 35. (97) Claudius Marius Victor, Alethia I, 546-547. (98) Carm. II, 2, 4-6. (99) Carm. II, 6, 13-16 (Ps 95, 10). (100) Carm. II, 4, 16; cf. II, 5. (101) Carm. II, 2, 25; II, 4, 20; II, 6, 17. (102) Carm. II, 1, 15 (Ps 1, 3). (103) Carm. II, 1, 13-14 (Ps 120, 6). (104) Carm. II, 1, 17-18. (105) Carm. II, 2, 18 et 27; II, 6, 19. (106) Carm. II, 6, 29; II, 5. (107) Carm. II, 1, 9; II, 2, 25. (108) Carm. II, 3, 7; II, 6, 17-20. (109) Carm. II, 6, 31. (110) Carm. II, 1, 9-10. (111) Carm., App. 9, 5-8. (112) Carm. II, 4, 20. (113) Carm. III, 9, 6. (114) Carm. V, 6a, 23. (115) Carm. III, 9, 9-10. (116) Carm. III, 9. (117) Carm. II, 1, 17-18 (Jn 15, 1). (118) Carm. II, 1, 4; II, 3, 5-6; III, 9, 84 (Jn 10, 11 et 14). (119) Carm. III, 4, 11; III, 30, 10 (Mt 13, 37-43). (120) VM III, 368-387 (Sulpice Sévère, Dial. II, 10).

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(121) Dans Grégoire de Tours, Hist. IX, 39, MGH srm I, 1, p. 461. (122) Carm. III, 14, 4. (123) Carm. III, 30, 10. (124) Carm. V, 1, 1. (125) Carm. III, 11, 3. (126) Carm. III, 11, 19; III, 21, 6; V, 9, 2 … (127) Carm. III, 3, 27-30; III, 6, 15-16; III, 8, 39-40; III, 13, 25-26. (128) Carm. III, 11, 3-4; III, 9, 98. (129) Carm. III, 19, 2. (130) Carm. III, 15, 27-28. (131) Carm. V, 2, 41-42. (132) Carm. III, 4, 11. (133) Carm. III, 19, 2; IV, 1, 25; V, 2, 23. (134) Carm. III, 23a, 8. (135) Carm. III, 9, 63-64 et 106. (136) Carm. V, 2, 29-30 (Rm 17-24). (137) Carm. V, 2, 39-40. (138) Carm. II, 9, 63-64 et 106. (139) Carm. III, 21, 7; V, 2, 45-48; V, 3, 17-20; V, 9, 5; V, 19, 5; IX, 9, 13-16… (140) Carm. VIII, 4, 11-12; VIII, 8, 10-12.

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GUIDO ROSADA Università degli studi di Padova

Venanzio Fortunato e le vie della devozione Vere novo, tellus fuerit dum exuta pruinis, se picturato gramine vestit ager, longius extendunt frondosa cacumina montes et renovat virides arbor opaca comas: promittens gravidas ramis genitalibus uvas palmite gemmato vitis amoena tumet. … Ven. Fort., Carm., VI, 1, 1-6

Ritornare su qualcosa di cui egli stesso si è occupato quasi dieci anni or sono dovrebbe portare uno studioso a proporre qualche riflessione in più in relazione alla materia a suo tempo indagata. Confesso di credere che a riguardo del nostro tema la principale nuova riflessione, che tuttavia procede da considerazioni già esposte, potrebbe essere in sostanza riconoscere che Venanzio Fortunato, anche nei versi da sempre suscettibili di un interesse topografico, meglio sarebbe letto e spiegato da filologi, da storici della letteratura e, caso mai, da storici della chiesa, perché semplicemente in lui prevalevano il poeta e l’uomo di cultura. Si sa che in particolare su Venanzio e il suo viaggio ad Turones è stato detto e scritto molto, leggendo i versi del IV libro della sua Vita Sancti Martini attraverso differenti approcci interpretativi. Di quell’impresa (come è noto, ogni viaggio nell’antichità, ma anche in tempi assai più vicini a noi, assumeva spesso le caratteristiche di una pericolosa avventura) in realtà colpivano l’attenzione e la curiosità del lettore soprattutto i motivi esplicitati del viaggio e ritenuti tuttavia non completamente convincenti: la partenza in un momento storicamente epocale, la città da cui egli mosse verso la Gallia abbandonando definitivamente l’Italia, senza dubbio il suo strano “itinerario” seguito tra Ravenna e i valichi alpini, nonché le particolari tappe segnalate e i fiumi superati lungo tutto il cammino percorso, la personalità infi331

ne di Venanzio, per tutta la sua vita letterato e poeta e soltanto negli ultimi anni vescovo di Poitiers1. Erano questi gli aspetti che in parte sottolineavo già nel mio lavoro edito nel 1993 negli atti di un convegno tenutosi tre anni prima (Venanzio Fortunato tra Italia e Francia) di cui le giornate di studio di oggi riprendono per molti temi il filo2. Rispetto ad allora è forse necessario precisare meglio alcuni contorni del problema e modificare un poco certe affermazioni troppo nette, ma non mi pare che siano intervenuti fatti nuovi o nuove scoperte, tali da sovvertire quanto in quell’occasione si era detto; anzi mi pare che tutta una ulteriore serie di considerazioni, che derivano da riscontri di ordine storico-topografico, portino a ribadire alcuni punti fermi, pur nell’attenuazione degli aspetti per così dire “più ideologici” e “politici” della questione. Ma andiamo con ordine. Innazitutto di Venanzio Fortunato, della sua vita e del suo operare sappiamo in sostanza solo quello che traspare dalle sue opere e da un breve excursus di Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum. Per esempio non soltanto non siamo affatto certi della sua data di nascita, forse intorno al 5353, ma, nonostante la concordia in questo caso degli studiosi, potremmo avanzare qualche dubbio, almeno filologico, anche sul suo preciso luogo natale. Quanto egli stesso dice, Per Cenetam gradiens et amicos Duplavenenses,/qua natale solum est mihi sanguine, sede parentum,/prolis origo patrum, frater, soror, ordo nepotum…4, potrebbe infatti porre la sottile questione se quel richiamo del nesso relativo qua sia riferibile al comprensorio tra Ceneta e il Piave nel suo insieme, piuttosto che unicamente ai Duplavenenses (come è solitamente inteso), per i quali si deve supporre un rimando ad sensum al sostantivo toponimico Duplavenis. Si spiegherebbe così meglio l’assenza di indicazioni specifiche per Ceneta, riprese complessivamente nei due versi seguenti a integrazione anche degli amicos Duplavenenses5. È certo vero che tale perplessità iniziale è subito superata dall’autorevole testimonianza di Paolo Diacono, che afferma in modo esplicito che Fortunatus natus quidem in loco qui Duplabilis dicitur fuit, specificando di seguito che il locus haut longe a Cenitense castro vel Tarvisana distat civitate6, ma non è neppure da escludere che anche lo storico longobardo sia incorso in una lectio facillima dei versi della Vita di S. Martino, da lui ben conosciuti come del resto egli stesso dice poco più avanti (…ut in suis ipse carminibus refert…)7. C’è tuttavia un’altra questione assai più importante (per 332

quanto almeno verremo a dire nello svolgere successivo della presente nota) che va evidenziata circa gli anni giovanili e la formazione culturale del nostro personaggio. Da ultimo la sottolinea Di Brazzano, quando avverte che una certa communis opinio propenderebbe a vedere Venanzio trasferitosi primaevis…ab annis ad Aquileia presso Paolo (quindi ancor prima che questi fosse eletto vescovo nel 557), dove avrebbe acquisito la sua prima educazione8. Giustamente lo studioso ribadisce che in proposito non abbiamo elementi per confermare una tale ipotesi, se non la non univoca breve espressione che appunto ci informa sul …pium Paulum… /qui me primaevis converti optabat ab annis9. Che ciò significhi una frequentazione aquileiese o non piuttosto la conoscenza di Paolo avvenuta “in uno dei centri urbani del bacino del Piave: Acilum (Asolo), Tarvisium (Treviso), Opitergium (Oderzo), Altinum” (“tutti erano sedi di vescovati e molto probabilmente in ognuno di questi era possibile conseguire una formazione scolastica…”), non lo possiamo dire, con i dati che abbiamo, con certezza, sebbene la seconda argomentazione ci sembri forse nel merito più ragionevole. In ogni caso una adeguata formazione di base, diciamo così in loco, non solo sarebbe stata ben possibile, ma insieme avrebbe in ugual misura favorito l’acquisizione, sempre in loco, di quella cultura separatista o scismatica diffusa nelle chiese dell’Italia nord orientale segnatamente a seguito della condanna giustinianea nel 543 (e successivamente confermata a più riprese) delle dottrine sostenute dai Tre Capitoli circa la natura della figura del Cristo; dottrine che apparivano in netto contrasto con le tesi monofisite soprattutto condivise dalle chiese d’Oriente10. Ma su questo avremo modo di ritornare. Quel che conta comunque qui rimarcare è che Venanzio, già in possesso di una probabile istruzione primaria, ad un certo punto, secondo le parole di Paolo Diacono, Ravennae nutritus et doctus, in arte gramatica sive rethorica seu etiam metrica clarissimus extitit. Di quel periodo vi è un solo accenno diretto, pur significativo e non fuggevole, nella Vita Sancti Martini, allorché, dopo aver considerato tutti i luoghi della città legati alla fede, invita (precor) il libellus a require sodales… in modo, tra altre cose, da poter dare loro materiam…hanc…, ut ore rotundo/Martini gestis florentia carmina pangant/et claro ingenio texant spargenda per ortum11. È evidente che il riferimento è a compagni di studi letterari e poetici, in grado di comporre ore rotundo, cioè con magistrale capacità formale, florentia carmina e non certo com333

ponimenti dozzinali: si ritrova insomma in queste parole la consapevolezza di essere cresciuto nel contesto di una scuola elitaria e di validi sodales, così da diventare, come di lui si disse, venerabilis et sapientissimus Fortunatus. In questo senso Ravenna poteva appieno soddisfare le esigenze di formazione dei giovani dotati, offrendo loro, attraverso la tradizione delle sue numerose scuole, proprio quegli insegnamenti grammatici, retorici e di metrica che erano i principî fondamentali di ogni corretta educazione e che conservavano ancora “le dernier éclat de la culture classique”12. Come è stato detto, importante fu probabilmente il “curriculum di studi svolto da Venanzio a Ravenna, là dove dovette maturare in lui la vocazione di poeta di corte (non si dimentichi che egli visse in quella città nel periodo di transizione dal dominio gotico a quello bizantino, potendone scorgere le tracce dell’uno e le iniziative dell’altro…)”13, in un ambiente tuttavia che doveva anche coltivare discipline di altra natura, in primis quelle geografiche, tese attraverso scuole e circoli soprattutto alla conoscenza degli itinerari legati ai luoghi santi (ad loca sancta), nonché a “costruire”, appunto nei secoli tra VI e VII, una descrizione del mondo conosciuto integrata in una visione “teologica” complessiva. Anche di ciò bisognerà tenere conto tirando infine le fila del nostro ragionare. Appare comunque del tutto evidente che già tali questioni, qui solo brevemente accennate, costituiscono temi di peso e non a caso fanno parte a se stante in alcuni interventi di questo Convegno. In particolare credo sia proprio la città di Ravenna che diventa il fulcro e il motore dell’avventura europea di Venanzio; egli infatti, da poeta, crea i presupposti di un viaggio che proprio lì ha il punto di partenza ed è direttamente correlato, pur a grande distanza, con la meta finale. Sono ben note le ragioni, riprese per altro da Paolo Diacono14, che sono addotte per giustificare la partenza ad Turones. Nella basilica ravennate di san Giovanni e Paolo si trovava infatti il Martini loculum, il cui sacellum era ornato da una pittura parietale con l’immagine del santo (paries retinet sancti sub imagine formam) che nella seconda metà del IV secolo era stato vescovo di Tours. Lì convengono, entrambi afflitti da un forte dolore agli occhi (Hic cum oculorum dolorem vehementissimum pateretur, et nihilominus Felix iste ipsius socius pari modo oculos doleret), Venanzio e l’inlustris socius suo Felice (futuro vescovo di Treviso)15 e con l’olio benedetto di una lucerna dolentia lumina tetigerunt; subito lumen Martinus reddidit olim ovvero ilico dolore fugato sani334

tatem, quam optabant, adepti sunt. Questo è dunque il motivo, ribadito altre volte16, qua de causa Fortunatus in tantum beatum Martinum veneratus est, ut, relicta patria, paulo antequam Langobardi Italiam invaderent, Turonis ad eiusdem beati viri sepulchrum properaret. Inizia così il “viaggio” per voto che dopo un lungo percorso portò il pellegrino agli Turonum … moenia supplex/ qua Martinus habet veneranda sepulchra sacerdos17, che si trovavano al di fuori delle mura, dove sorgeva anche una basilica in onore del santo18. Qui dunque, a Tours, si esaurisce il voto, specularmente alla promessa pronunciata a Ravenna, qui viene celebrata la vita di Martino, come del resto il libellus caldeggia si faccia, al suo “ritorno”, presso la basilica dei santi Giovanni e Paolo, davanti alla sancti sub imagine formam, da parte degli altrettanto speculari poeti sodales. Non credo che siano da trascurare questi aspetti e questi chiasmi per avanzare nella comprensione del testo e delle intenzioni di Venanzio. Ora, come si è detto, molto si è discusso, anche di recente, sulle tappe dell’itinerario fortunatiano, nonché sulla direttrice scelta per arrivare alla meta dove sciogliere infine il voto19; non è il caso quindi di riprendere partitamente analisi già note. Vale tuttavia sottolineare con maggiore risalto piuttosto alcune particolarità che ci possono ulteriormente aiutare nelle successive considerazioni. Anzitutto non vi è dubbio alcuno circa l’evidente incongruità del percorso prescelto attraverso le terre orientali della Venetia: non solo vi era infatti l’alternativa molto più diretta della valle dell’Adige20 o della via Claudia Augusta21, ma segnatamente a partire almeno dalla metà del IV secolo esisteva un itinerarium scriptum devozionale22 redatto da due o più pellegrini che da Burdigala si erano recati ad loca sancta, cioè Hierusalem usque e di lì erano poi ritornati ab Heraclea per Aulonam et per Urbem Romam Mediolanumque usque23. Ora, si sa che la via indicata in partenza da Bordeaux si snodava attraverso Tolosa, Narbo (Narbonne), Arelate (Arles); di qui risaliva il corso del Rhodanus fino a Valentia (Valence) per poi superare le Alpi al passo Matrona (Monginevro), proseguire per Segussio (Susa), civitas Taurinis/Augusta Taurinorum e Mediolanum; da Milano si utilizzava la cosiddetta via Gallica che toccava Bergamum, Brixia e infine Verona, da dove si seguivano per un tratto la Postumia fino a Vincentia e di qui la via per Patavium e infine, per giungere ad Aquileia, ai confini orientali dell’Italia, la via Annia che a Concordia confluiva in un’u335

nica direttrice con l’ultimo segmento della Postumia24. Al ritorno, a partire da Costantinopoli, i pellegrini cambiano strada e, come già recita il titolo dell’Itinerarium, da Eraclea di Tracia raggiungono Aulona (Valona), si portano in Puglia dopo aver attraversato (traiectum) il braccio di mare Adriatico e lungo la via Traiana prima e la via Appia dopo risalgono fino a Roma; di qui con la Flaminia arrivano ad Ariminum (Rimini) e poi con la Aemilia e un successivo raccordo da Placentia si ricollegano infine a Milano con il percorso di andata25. Come si vede le possibilità di arrivare ad Turones con assai più brevi percorsi e itinerari in ogni caso assai frequentati non mancavano: in sostanza da Ravenna si poteva giungere comodamente e con diretto cammino fino a Milano26 seguendo in gran parte la via Aemilia come i pellegrini del Burdigalense e come questi ultimi si poteva poi attraversare le Alpi al passo del Monginevro e riprendere la citata direttrice verso Burdigala27; ma ancor meglio da Milano era possibile avviarsi lungo la strada della Val d’Aosta, di Augusta Praetoria e del Piccolo S. Bernardo (in Alpe Graia), oltre il quale si raggiungeva Vienna (Vienne)28 e da qui Lugdunum (Lyon), Augustodunum (Autun), Limovicum (Limoges), Lemonum (Poitiers)29 e da ultima la città dei Turones. E invece Venanzio, come è noto, opta per un’altra soluzione e si avvia a compiere un giro assai più lungo volgendosi dapprima verso la Venetia orientale per poi risalire a settentrione ed entrare nelle terre controllate dai Franchi, attraversare il Noricum, la Baiovaria, l’Austrasia, toccando infine anche Parisii prima di pervenire alla meta prefissata. Un “viaggio” senza dubbio possibile in sè, ma altrettanto strano, se non stravagante per le sue scelte di percorso, tale comunque da porre degli interrogativi che non sono solo in relazione all’itinerario stradale seguito dal libellus. Per dare qualche risposta soddisfacente è forse utile riconsiderare quanto Venanzio stesso ci dice circa le tappe del suo/non suo improbabile itinerario (secondo quanto apparirà ancor più chiaro in seguito), seguendolo passo passo e mantenendo l’ordine sequenziale che ci forniscono i suoi versi. Infatti, conta sottolinearlo ancora, non è il movimento di andata che ci viene descritto, né un vero e proprio “ritorno”, ma solo una proiezione ideale, metaforica di un desiderio che non fu volontà attiva, né un disegno attuato. Si deve anzitutto ribadire una volta di più che nel IV libro della Vita Sancti Martini è appunto solo il libellus che viene 336

invitato da Venanzio a muoversi verso l’Italia, ricorrendo a un’immagine letteraria che, come ho già sottolineato altrove30, si ritrova molti secoli dopo, in pieno “Stil novo”, esemplarmente ripresa nella ballata di Guido Cavalcanti che così principia: “Perch’io no spero di tornar giammai,/ ballattetta, in Toscana,/ va’ tu, leggera e piana,/ dritt’a la donna mia,/ che per sua cortesia /ti farà molto onore…”31. La rinnovata citazione non mi sembra peregrina per quanto diremo da ultimo. Il libellus dunque si muove dalla città dei Pictavi, dove Venanzio aveva conosciuto la regina Radegonda e dove alla fine diventò vescovo negli ultimi anni della sua vita, e come prima tappa va contentus e supplex agli Turonum moenia, all’esterno dei quali si trovava la tomba del santo Martino (vv. 629-631): si inizia cioè il “viaggio” dalla sua conclusione e dallo scioglimento del voto (avvenuti tanto tempo prima) e comunque dalla figura di Martino sacerdos. La tappa di Parigi è definita da vari aspetti caratterizzanti: il primo di cui si deve tener conto, perché ricorrente più volte, è l’ipotetica si tamen urgueris, a cui segue l’invito ad affrettarsi serenamente verso la città (inde Parisiacam placide properabis ad arcem) che è retta dal vescovo Germano32, erede spirituale del protovescovo Dionisio (Dionysius olim), martire della persecuzione di Decio alla metà del III sec. d.C. (249-251 d.C.) (vv. 635-637). I versi 638-639 con la citazione di Remedio e di Medardo riportano, sebbene i siti non siano esplicitamente nominati, rispettivamente ai vescovi di Remus/Reims e dei Suessiones/ abitanti di Soissons: in particolare il primo fu colui che battezzò il re franco Clodoveo33, mentre del secondo Venanzio celebra in un suo carme la basilica (templa) costruita in suo onore34. Anche in questo caso la prosecuzione dell’itinerario è introdotta da un’ipotetica, si pede progrederis, a cui segue con ancora maggiore risalto quella che introduce la possibilità, si tibi barbaricos conceditur ire per amnes, di placide Rhenum transcendere…et Histrum (vv. 640-641), dove la sottolineatura di una qualche incertezza circa il cammino intrapreso prende concretamente corpo nel confrontarsi con la difficoltà di superare non solo corsi d’acqua, ma anche un contesto “barbarico”. Ancora fiumi, il Virdo e il Licca (ora Wertach e Lech), confluiscono ad Augusta (Vindelicum, ora Augsburg), sede vescovile già dal III sec. d.C. e città che conserva le venerabili reliquie di Afra, un’altra martire della fede sotto la persecuzione di Diocleziano (vv.642-643)35. Presso il passaggio delle Alpi36 nuovamente l’incertezza viene espressa da un si 337

vacat ire viam, a cui si aggiungono gli eventuali ostacoli frapposti dai Baiovari se non anche dai vicini Breoni, prima di inoltrarsi là dove rapido qua gurgite volvitur Aenus (ora Inn; vv. 644-646). Superate queste difficoltà si deve Valentini benedicti templa require (v. 647), che alcuni ragionevolmente vogliono riconoscere in un vescovo del V secolo itinerante nel comprensorio delle Alpi Retiche, morto a Maia/ Merano/Meran e sepolto nella basilica di Passau in Baviera, sede principale del suo culto37; non escluderei tuttavia che si potesse riconoscere nel ricordo di questo santo anche uno tra due altri personaggi con il medesimo nome, un prete romano decapitato sulla via Flaminia nel corso della persecuzione di Claudio II del 269-270 e il vescovo di Terni decapitato a Roma qualche tempo dopo38. La localizzazione dei Valentini templa lungo la strada del Resia/Reschenpass e la Val Venosta/ Vinschgau sembrerebbe avvalorata anche dalla persistenza toponomastica rilevabile nel paesino di S. Valentino alla Muta/St.Valentin an dem Haide tra il lago di Resia/Reschen See e il lago della Muta/Haider See39. Si entra quindi insieme al libellus nei Norica rura…,ubi Byrrus vertitur undis e oltre il quale per Drauum itur iter (vv. 648649). Seguendo l’ampia vallata della Drava (Drautal) con i suoi castella si arriva così ad Aguontus, che sedens in colle superbit (v. 650). Come ho già chiarito40, l’Aguntum a cui ci si riferisce nel testo venanziano è certamente quello della seconda metà del VI secolo e non più dunque la città romana segnalata dall’Itinerarium Antonini sulla sinistra della Drau/Drava, poco a oriente di Lienz, lungo la strada che collegava la Val Pusteria/Pustertal e Sebatum a Teurnia (St. Peter im Holz) e a Virunum (Zollfeld), nonché, attraverso il Passo di Monte Croce Carnico/Plöckenpass, a Iulium Carnicum (Zuglio) e ad Aquileia41. All’inizio infatti del V secolo il vescovo di Aguntum si era adoperato per far costruire sul rilievo oggi conosciuto come Kirchbichl di Lavant42 un primo edificio di culto che, dati i tempi, fu fortificato; successivamente tale iniziale insediamento fu accresciuto con una chiesa e un battistero e ospitò quindi la nuova sede vescovile, ivi poi trasferitasi, per ragioni di sicurezza, dal fondovalle43. Ora, proprio la posizione del complesso del Kirchbichl, alta e dominante sulla piana della Drava, si attaglia bene a quella sorta di descrizione morfologica che si può ricavare dal testo della Vita Sancti Martini, dove appunto si dice che “qui superba sul colle si erge Agunto”. In ogni caso, vale sottolineare che è ancora una volta la sede di un vescovo, qui come altrove, la tappa prescelta da Venanzio 338

per il libellus, una sede che oltre tutto era subordinata alla chiesa metropolita di Aquileia. Il “cammino” poi prosegue salendo al citato Passo di Monte Croce Carnico (la Iulia Alpes)44 e prendendo pertanto la strada che portava a Iulium Carnicum, oggi Zuglio (vv. 651-653)45. In realtà il verso riporta Forum Iulii ovvero l’attuale Cividale, ma la letteratura in proposito46 è univoca nel considerare la citazione come un errore del poeta, in quanto il centro del primo ducato longobardo è situato molto più a sud est di Zuglio e soprattutto dopo lo sbocco in pianura del Tagliamento e oltre Osoppo e Ragogna (citate successivamente nel testo). Anch’io propendo prioritariamente per questa lettura, se non altro considerando il collegamento diretto con il valico che si legge nella stessa espressione inde Foro Iuli…exi, immediatamente successiva alla segnalazione della Iulia Alpes, e soprattutto pensando al centro episcopale che fu Iulium Carnicum a partire con ogni probabilità tra la fine del IV e la prima metà del V secolo47. Tuttavia bisogna anche dire che nella logica a cui sembra conformarsi, come vedremo, Venanzio, non si potrebbe neppure escludere, ancora una volta, il riferimento proprio a Cividale, che naturalmente avrebbe comportato dalla valle della Drava un assai più lungo (e si deve ammettere all’apparenza più improbabile) “percorso” attraverso i valichi di Tarvisio/Saifnitz, di Predil e la Staro Selo/Sella di Caporetto48. Comunque, ripeto, è un’ipotesi che nei fatti pare meno proponibile se non altro per l’assenza allora di una tradizione di particolari “attrattive” (martiri, vescovi, tombe) a Cividale49 e per “la funzione di controllo su un’area di confine e di caposaldo avanzato alpino della stessa Aquileia” che invece era venuta ad assumere Zuglio50. Che infine il Forum Carnicum che aveva in mente Venanzio fosse quello dove era ubicato il municipio romano o fosse piuttosto, come Agunto, in alto sulla collina, presso l’antica chiesa di S. Pietro che ha fornito resti di strutture forse cultuali datate tra V e VII secolo, questo non è possibile dire con certezza, sebbene rimanga una possibilità di indubbia suggestione51. I centri citati successivamente da Venanzio sono Osopus (Osoppo)52 e Reunia (Ragogna), ambedue legati dalla presenza vicina delle acque del Tagliamento (vv. 654-655: per Ragogna si dice che super instat aquis Reunia Teliamenti)53 e dal fatto che si trovano allo sbocco in pianura del fiume, laddove i possibili percorsi da seguire si moltiplicano. Del resto una chiara indicazione in questo senso viene dai versi subito seguenti: Hinc Venetum saltus campestria perge 339

per arva/ submontana…castella per ardua tendens (vv. 656657). In sostanza usciti dalle asperità alpine e dalle vallate fluviali si aprivano all’orizzonte l’ampia estensione planiziare della Venetia orientale e le direttrici che la attraversavano54. Una di queste era la strada che correva a ridosso delle Prealpi Carniche, lungo una linea sin dai tempi più remoti interessata da presenze insediative più o meno organizzate che dovettero evolversi verso la tarda antichità in forme arroccate e ancor più caratteristicamente castellane nel Medioevo55. Ma in aggiunta a questa via campestria per arva, due altre sono più “pressanti” per il libellus. La prima è di certo quella che si impone per importanza assoluta ed è ancora una volta introdotta da un si ipotetico, da una scelta che si è chiamati a fare: Aquileiensem si forte accesseris urbem (v. 658). Si capisce subito dopo il perché dell’importanza dell’itinerario, dal momento che nei pressi dell’antica colonia romana Cantianos domini…venereris amicos (v. 659). Ora noi sappiamo bene chi erano questi Canziani: tre fratelli, Canzio, Canziano e Canzianilla, che subirono il martirio all’epoca di Diocleziano ed ebbero degna sepoltura e continua venerazione dove oggi è San Canzian d’Isonzo (non precisamente quindi sulla strada per Aquileia, ma a circa otto chilometri a oriente di questa)56. Nei due versi che seguono vi è poi l’invito a venerare anche l’ “urna” di Fortunato che, come è noto, insieme a Felice fu un altro martire dioclezianeo57, ma soprattutto, si dice, pontificem pium Paulum cupienter adora (vv. 660-661). Si tratta di Paolo, vescovo di Aquileia dal 557 all’anno della sua morte, nel 569, il vescovo che con l’arrivo dei Longobardi in Italia trasferì la sede episcopale a Grado portando con sè il tesoro patriarcale58, ma soprattutto il primo vescovo eletto dopo lo scisma, in relazione ai cosiddetti Tre Capitoli, operato dalle chiese metropolite di Milano e Aquileia nei confronti della sede romana. In particolare Paolo “resistette anche alle minacce di papa Pelagio di ricorrere all’ausilio dell’autorità imperiale” per far recedere Aquileia dalla scelta scismatica; era pertanto “un fervido sostenitore della battaglia dottrinaria contro Bisanzio e contro Roma”59. La scelta successiva della seconda via che si può aprire al libellus giunto in pianura (in verità sarebbe la terza tenendo conto di quella per submontana castella) è anch’essa condizionata dalla possibilità del si petis illud iter e ha come meta Concordia, probabile sede vescovile dalla fine del IV secolo60, dove l’omaggio è da tributare al pretiosus Augustinus e a Basilius (vv. 663-664). Come è stato giustamente osservato, di tali personaggi non sembra restare 340

traccia nel ciclo santoriale o martirologico concordiese, così che potrebbero riconoscersi non come martiri, ma come “due grandi dottori della Chiesa sant’Agostino di Ippona e san Basilio Magno di Cesarea”61. Dopo Concordia si apre una sorta di parentesi familiare perché i punti di riferimento (a partire da Concordia, da Reunia?, non è chiaro) sono in ordine anzitutto la mea Tarvisus, alla quale si fa comunque seguire l’ipotetica si molliter intras, e il suo vescovo, quell’inlustrem socium Felicem che Venanzio raccomanda di cercare (quaeso require) perché è colui con cui condivise gli studi e la grazia di Martino a Ravenna, ma è anche colui che fu il coraggioso interlocutore di Alboino sul Piave (vv. 665-667)62. Non distanti da Treviso si aggiungono poi, come tappe di questo “viaggio nel viaggio”, Ceneta e Duplavenis, ovvero i luoghi natali del poeta, “dove è la terra dei miei genitori, da dove trae origine la mia famiglia, dove stanno mio fratello, mia sorella, tutti i nipoti”: lì deve andare il libellus perché vi sono persone amate, legate da vincoli saldi di affetto e quindi da salutare con calore (quos colo corde fide, breviter peto redde salutem: vv. 668-671). Non sfuggirà che in questo excursus sul filo della memoria e del ricordo i familiari, su cui pur ci si sofferma per qualche verso, vengono tenuti per modestia e opportunità da ultimi. Si “giunge” poi a Padova con una evidente incongruenza topografica e sequenziale, ma soprattutto con una ulteriore posizione di dubbio, espressa da si Patavina tibi pateat via, pergis ad urbem (ancora una volta sottolineando l’incertezza della via); naturalmente huc sacra Iustinae, rogo, lambe sepulchra beatae, che in particolare ha sulle pareti del sacello pitture che ricordano la figura di Martino (vv. 672-674). Giustina63, come si sa, è anch’essa una martire della fede, decapitata nel corso della persecuzione di Diocleziano, e insieme a lei è degno di onore pure il vescovo Giovanni con suis genitis64, che vengono definiti sociis per carmina nostris (vv. 675-676), poeti quindi, amici per questo di Venanzio. Potrebbe aver ragione a mio avviso chi ravvisa nel vescovo il bonus antistes accumunato in un carme a Vitale65, vescovo probabilmente di Ravenna e non di Altino (il Vitale altinate ebbe, come diremo più avanti, molte e gravi traversie con l’avvento dei Bizantini e di Narsete)66. Da Padova i versi sembrano dare un ritmo più veloce ai tempi del “viaggio”, favoriti dalla presenza di fiumi come il Brenta, il Retrone, l’Adige e il Po che con la loro corrente o con i tratti stradali che seguono il loro corso rendono più spedito l’avvicinamento alla meta finale: hinc tibi Brinta 341

fluens iter est, Retenone secundo;/ ingrediens Atesim, Padus excipit inde phaselo,/ mobilis unde tibi rapitur ratis amne citato (vv. 677-679). Le incertezze delle scelte non ci sono dunque più e le acque portano direttamente a Ravenna. Inde Ravennatem placitam pete dulcius urbem (v. 680): come si vede già la fortemente evidenziata aggettivazione, placita, dulcius, crea un clima particolare che pare ricongiungersi idealmente all’inizio dell’itinerario, quando si erano utilizzate pressoché le medesime parole nel medesimo ordine (v. 636: Inde Parisiacam placide properabis ad arcem; cfr. anche I, 487: Inde Parisiacam sacer intrans concite portam). Anche nella città adriatica alfine raggiunta il ritmo non diminuisce, anzi cresce man mano fino alla conclusione, con gli inviti pressanti per correre (recurrens) ai luoghi di culto dei santi e soprattutto ad adorare “le tombe del grande martire Vitale e del mite Ursicino che una sorte comune rese beati” (vv. 681-683), entrambi vittime di persecuzioni, al tempo di Diocleziano il primo, di Massimino Daia il secondo, forse un illirico67. “Poi recati al santuario del caro Apollinare,/ gettati a terra supplice (fusus humi supplex: ancora si può fare un riscontro con un verso “iniziale” – v. 630 –, contentus tantum Turonum pete moenia supplex) e affrettati subito dopo a visitare tutte le cappelle” (vv. 684685): qui si è giunti al primo vescovo e missionario del cristianesimo in ambito ravennate, quindi una sorta di archetipo della fede, anch’esso per di più martire68. Il culmine infine della trama itineraria è naturalmente il sacello di Martino presso la basilica dei santi Giovanni e Paolo (Expete Martini loculum…: v. 686) che conclude, come si è detto, in termini quasi circolari l’avventura del libellus. Ma non è ancora proprio finita; infatti, secondo quanto si è già anticipato al principio di questa nota, c’è un ultimo significativo invito: “Con animo pieno di affetto ti prego di cercare i miei compagni./Se parlerai con loro, con la tua devozione ti meriterai la loro indulgenza./A loro io offro questa mia opera, perché con stile perfetto/compongano splendidi carmi sulle gesta di Martino/ e con la loro riconosciuta capacità ne curino la stesura e li diffondano nell’Oriente”(vv. 702-706). Non vi è dubbio che in questi versi vi è un forte ricordo della fiorente scuola di retorica ravennate frequentata da Venanzio e dei bravi suoi compagni, capaci di diffondere significativamente un alto messaggio di contenuto e di poesia nell’Impero d’Oriente. In sostanza quanto abbiamo detto può riassumersi nel seguente schema: 342

Turones Parisii (si) Remus (si)

Suessiones Rhenus (si) Histrus Augusta

Martino Vesc. Germano Protovesc. Dionisio, martire (m. 576 d.C.) (Decio, 249-251 d.C.) Vesc. Remedio (m. 553 d.C.) (battezza Clodoveo) Vesc. Medardo (m. 560 d.C.; basilica in suo onore) transcendere Afra martire dioclezianea

Sede vescovile (dal III d.C.)

Virdo Licca Baiovarii (si) Aenus Valentini Valentino templa martire del III d.C. Byrrus Dravus Trasferimento del Aguontus vescovo (V d.C.) Iulia Alpes Forum Sede vescovile Edificio di culto presso Iuli (tra IV e S. Pietro (V-VII d.C.)? V sec. d.C.) Osopus Reunia Teliamentum Venetum saltus Fortunato Aquileia (si) Canziani martiri dioclez. martire dioclez. Vesc. Paolo (m. 569 d.C.) scismatico trasferitosi a Grado (Longobardi) Concordia (si) Sede vescovile Agostino di Ippona (dalla fine (IV-V sec. d.C.) del IV d.C.) Basilio Magno di Cesarea (IV sec. d.C.) dottori della chiesa?

343

Tarvisus (si) Vesc. Felice socius (Alboino) Ceneta Famiglia e amici Duplavenis Famiglia e amici Patavium (si) Giustina Vesc. Giovanni con suis martire dioclez. genitis, sociis per carmina nostris Brinta Hinc tibi iter est Retenus Atesis Padus Vitale Ursicino, martire Ravenna martire dioclez. (Massimino Daia, 305 d.C.)? Protovesc. Apollinare martire (II-III d.C.) Martino Si sociis loqueris … …ut ore rotundo …carmina pangant …spargenda per ortum

Accostiamo ora, per completare il quadro, i riferimenti geo-topografici contenuti nella Praefatio dell’opera di Venanzio Fortunato69, riferimenti che ripercorrono sostanzialmente questo “viaggio”, tuttavia in “andata” (mentre nello schema che si propone la sequenza, per omogeneità con quella precedente, è in “ritorno”): Pyrenaei Maxima fluenta Aquitaniae

Germania Alamannia Baivaria Breuni Noricum 344

Garonna (Garonne) Liger (Loire/Loira) Sequana (Seine/Senna) Axona (Aisne) Mosa (Meuse) Mosella (Moselle) Rhenus (Rhein/Reno) Danuvius (Donau/Danubio) Licca (Lech) Oenus (Inn) Dravus (Drau/Drava)

Transmitto

Transeo

Alpes Iulia Teliamentum (Tagliamento) Liquentia (Livenza) Plavis (Piave) Brinta (Brenta) Atesis (Adige) Padus (Po) Ravenna (da)

Trano

Progredior

Gli schemi riassuntivi proposti mi sembrano utili per cogliere subito, guardando al primo di essi, la qualità delle tappe di “viaggio” proposte al libellus, tappe che si mostrano pressoché tutte legate a particolari presenze. Si contano infatti nei vari luoghi suggeriti (che sono 17 siti) almeno 11 martiri della fede, vittime delle varie persecuzioni; 8 vescovi citati a cui si aggiungono quattro sedi vescovili (senza contare Tours e Martino); forse due dottori della chiesa. Non vi è dubbio a mio parere che tali segnalazioni, che sembrano configurare chiaramente il percorso di un pellegrino presso santuari martiriali e centri devozionali, nonché presso personalità di grande prestigio religioso70, siano volute e certo mirate in un momento particolare che stava vivendo al suo interno la chiesa divisa dal cosiddetto e sopra ricordato scisma dei Tre Capitoli. Pertanto non si possono ritenere casuali le citazioni dei martiri, in gran parte dioclezianei, né delle sedi vescovili con i loro vescovi (tutte scismatiche), segnatamente quelle di Aquileia e di Paolo: quest’ultimo, oltre all’antica consuetudine con Venanzio, poteva vantare una doppia resistenza, al papato e all’impero da una parte, ai Longobardi, dall’altra71. A Concordia, se fosse confermata la proposta di riconoscere il ricordo di sant’ Agostino e di san Basilio Magno, avremmo significativamente due figure che con la loro vita e i loro itinerari di fede venivano a rappresentare nel cuore della cristianità scismatica due guide spirituali di antica e grande tradizione. Così come non è certo casuale, in questo contesto di valori, la preghiera, in chiusura della Vita, affinché gli amici di Ravenna compongano carmi sulle gesta di Martino e li diffondano per ortum. È quindi possibile immaginare, come scrivevo circa dieci anni or sono, in Venanzio una precisa reazione a quegli avvenimenti epocali che “trapassano trasversalmente tutta la società del VI secolo, nella fase cioè di transizione tra mondo tardoantico e mondo medioevale”, e che culminano 345

negli esiti del concilio di Costantinopoli del 553 e successivamente nelle prime avvisaglie della invasione longobarda72, se non anche nella morte di Giustiniano (565 d.C.). Ed è certo che questa scomparsa insieme a quella del papa Pelagio (561 d.C.), ovvero del papa che aveva cercato di rendere meno inconciliabili le posizioni circa la questione dei Tre Capitoli, dovettero portare “nuove incertezze a un equilibrio politico-religioso che già si presentava instabile”. Di qui sono venute, come si accennava all’inizio di questa nota, una consistente e variata serie di ipotesi per giustificare in modo più convicente di un semplice scioglimento di un voto il “viaggio” ad Turones. Tra le più suggestive e industriosamente articolate sono da annoverare le argomentazioni che portano Sˇasˇel a vedere in Venanzio una sorta di agente bizantino alla corte franca, un politico dall’intuito esercitato intento a tessere trame politiche di altissimo livello, “creando…contatti con tutte le corti territoriali franche, con i re e con gli appartenenti alla gerchia sociale…” dove infine “tutti i fili – in un certo senso – correvano verso il monastero di Radegunda in Poitiers”73. In verità pare assai strana e di difficile praticabilità una tale lettura74 che si basa su un nulla di esplicito e su un tutto deduttivo, molto “costruito” ipotesi su ipotesi. Oltre tutto non si capisce come un filoscismatico quale era Venanzio potesse mettersi al servizio di una corte che osteggiava fortemente Aquileia e tutto ciò che questa diocesi rappresentava nella chiesa d’Occidente75. Con riscontri assai più validi e perciò più condivisibili si ripropone invece l’interpretazione, già per primo avanzata da Köbner e, tra gli altri, ripresa di recente anche da Pavan e da me76, che la scelta di abbandonare Ravenna e l’Italia sia da configurare “come una sorta di ‘opzione franca’, un atto di fiducia nei confronti di un regno che aveva avuto modo di mostrare solidarietà tangibile ai vescovi dell’Italia settentrionale (in chiave antimperiale)”. D’altra parte Venanzio doveva conoscere bene, pur non facendo mai riferimento esplicito al fatto, che “ante annos plurimos la morte di Giustiniano, il vescovo di Altino Vitale aveva trovato rifugio appunto ad Francorum regnum…, hoc est ad Agonthiensem civitatem, ovvero presso Aguntum; e ugualmente doveva essere noto che proprio nello stesso 565 era avvenuta una forse annunciata ritorsione per mano di Narsete, che addirittura imprigiona Vitale (nel frattempo rientrato) e lo condanna aput Siciliam exilio”77. Per queste ragioni e per l’analisi sopra rappresentata, io affermavo che “il viaggio di Fortunato” assumeva una valenza “tutta impregnata di una 346

connotazione ideologica assai chiara: ‘la scelta’ potrebbe significare cioè il rifiuto di un mondo senza più i valori fondamentali di riferimento e il tentativo di acquisirne un altro, con una spiritualità diversa, ma fedele alla tradizione. Allora” – aggiungevo – “si capisce anche che l’ ‘opzione franca’ e il pellegrinaggio attraverso l’Europa centrale diventano… una sorta di itinerarium in fidem, una progressiva evoluzione spirituale…”. A quasi dieci anni di distanza, credo di consentire ancora nella sostanza con una simile lettura di quello che giustamente definivo un “itinerario/non itinerario, … simbolico … un itinerario ‘ideologico’ e poetico…”. Mi pare infatti ragionevole continuare a pensare a una non estraneità di Fortunato, se non proprio a una sua radicale presa di coscienza (mai del resto esplicitata con chiarezza) in merito agli avvenimenti che caratterizzarono in termini epocali la seconda metà del VI secolo. Solo che oggi io ribadirei con più forza soprattutto l’aspetto o meglio l’impegno culturale e poetico del personaggio e pure di conseguenza del suo “viaggio” ad Turones, che probabilmente può anche rappresentare la sintesi metaforica di un tratto della sua vita, ma che in ogni caso deve essere più in particolare ricondotto nei paradigmi e nei moduli della poesia. Sono in realtà gli stessi aspetti che traspaiono dall’opera fortunatiana che portano a considerarla come un prodotto di quel mondo culturale che fiorì nella Ravenna del VI secolo e che dovette informare di sè gran parte del ceto intellettuale di quel periodo. Ora è risaputo del ruolo di Ravenna come erede dei valori di Roma e come “città tramite fra Occidente e Oriente”: una fisionomia di fondo che la permeò anche in epoca gota, che segnò “una sicura ripresa della vita civile e culturale”. Se ai Romani fu lasciato preferibilmente “il culto delle lettere”, ai Goti “non mancò una spiccata attenzione verso aspetti tecnici e applicativi” delle conoscenze di tradizione antica. Si spiega così il recupero di molta eredità latina legata a temi di geometria, di agrimensura, di aritmetica etc. e la costituzione in Ravenna di una sorta di centro di produzione di manoscritti che copiavano o elaboravano testi precedenti. Non è un caso quindi, secondo le parole di Cavallo, che “ancora alla metà del secolo VI a Ravenna studiava grammatica, retorica e diritto il poeta Venanzio Fortunato acquisendovi…non solo un’agile maestria metrica ma anche una vasta conoscenza di autori classici”78. Non è questa naturalmente la sede per discutere su questo fenomeno storico, ma vale tuttavia sottolineare una volta di più 347

l’importanza di queste scuole ravennati di arte della scrittura e dell’insegnamento letterario, alle quali si affiancarono quelle di stampo più tecnico-scientifico; furono queste ultime inoltre che, una volta abbassatosi decisamente “il tono degli studi retorico-letterari” nel VII secolo, continuarono a fiorire e a produrre opere importanti desumendole dalla tradizione precedente. Per quanto ci riguarda fondamentale in questo quadro risulta la Cosmographia del cosiddetto Anonimo o Geografo Ravennate, che trae spunto dal grande patrimonio latino degli itineraria scripta vel adnotata, nonché dagli itineraria picta79, per descrivere il mondo in un’ “opera di informazione geografica d’indole prevalentemente nozionistica”, ma che tuttavia “trascende il suo stesso carattere compilatorio per porsi, piuttosto, come proiezione di uno strumento geografico” maturato nel contesto di un ambiente di scuola e cristiano. Un’opera quella del Ravennate “che s’inquadra nel vivo dei problemi dell’epoca in cui è stata composta; problemi di un nuovo dibattito culturale, guidato dalla Chiesa e dal suo clero”, dove il libro e la cultura in genere diventavano momenti di “edificazione religiosa o, più semplicemente, come cosa sacra e simbolo del sacro”80. Da questo ambiente ravennate tra VI e VII secolo, fervido di scuole a cavaliere di una transizione epocale, è ben probabile prenda spunto anche la personalità letteraria di Venanzio Fortunato81 che fa tesoro dell’insegnamento dei più famosi autori latini e al contempo non manca di essere influenzato da molti caratteri di quel sapere anche geografico che doveva comunque essere uno dei fondamenti per una corretta formazione educativa e cristiana. In tal senso a me pare che a proposito del “viaggio” del libellus si intreccino abilmente proprio questi due momenti della formazione culturale ravennate: quella dei classici nella sapiente costruzione dei versi e nelle corrispondenze testuali82 e insieme la tradizione degli itineraria, riciclata e utilizzata nelle descrizioni “ideologiche” cristiane, dove la strada non è più diretta, ma segue i percorsi del nuovo impero celeste. Credo in sostanza che la medesima scuola che informerà circa un secolo più tardi la Cosmographia83 sia alla base dell’itinerario/non itinerario84 di Venanzio, che, al di là delle contingenze storiche e politiche che pure sembrano essere sottese nei suoi versi, mostra i segni culturali e letterari di un poetico itinerarium in fidem. In sostanza il “viaggio” di cui si è discusso a me pare oggi l’espressione, prima ancora di una scelta politica (che 348

comunque esiste) in opposizione a Papato e Impero, di un solido impianto poetico su cui si innestano le forti istanze delle contingenze storiche e religiose che non potevano non avere un forte impatto e una conseguente ricaduta in una personalità acculturata e sensibile. Ci sono infine due altri aspetti che sembrano rappresentare bene queste diverse urgenze e fisionomie nel testo di Venanzio che abbiamo considerato. Mi riferisco da una parte alle molte ipotetiche (che sottointendono una almeno momentanea incertezza) introdotte dal si con cui è volutamente inframmezzato il percorso, dall’altra alla molta attenzione riservata ai corsi d’acqua che il libellus deve attraversare. Circa le prime, dallo schema proposto se ne possono contare ben 9, di cui 8 dislocate in punti precisi e significativi del “viaggio”. Tre infatti sono all’inizio, in corrispondenza delle tappe di Parigi e di Reims, nonché al momento di attraversare il Reno e il Danubio; una quarta è presente probabilmente lungo la direttrice del passo di Resia, dove i Baiovarii potrebbero frapporre ostacolo; gli altri quattro si sono in riferimento ad Aquileia, a Concordia, a Treviso e a Padova, ovvero alle fasi centrali e conclusive e quindi anche cruciali del percorso. Da Padova Brenta, Adige e Po favoriscono poi l’arrivo a Ravenna, laddove l’ultima possibilità di scelta viene infine data per l’incontro con gli amici di poesia ai quali si può lasciare il compito di propagandare in Oriente, attraverso splendidi versi, la fama e le gesta di Martino. Non vi è dubbio che il messaggio insistito sembra diventare trasparente per il suo significato riferibile verosimilmente al travaglio del cristiano, il cui libero arbitrio è di continuo messo di fronte a delle scelte per procedere in avanti nel personale itinerarium in fidem. E che queste scelte necessarie coincidano, oltre che con luoghi specifici, talora allusivi a ostacoli naturali di difficile superamento85, anche con realtà devozionali fortemente radicate grazie a martiri e comunque a personaggi emblematici da un punto di vista delle esperienze di vita, ciò mi pare con chiarezza far intendere una aperta e non dubitabile vena polemica con la situazione che Venanzio aveva lasciato in Italia. Ma tuttavia si deve riconoscere insieme che questi stessi segni sono pur sempre calati all’interno di un’architettura letteraria che sembra stemperare l’impatto polemico nel contesto più articolato di un intento poetico. Per quanto riguarda la sottolineatura ugualmente insisti349

ta (per 12 volte) circa l’attraversamento dei fiumi, Reno e Danubio (transcendere), Wertach, Lech e Inn, Rienza e Drava, Tagliamento, o in qualche caso la loro navigazione, Brenta, Retrone, Adige e Po, questa trova un confronto diretto nella stessa Praefatio di Venanzio (cfr. il secondo schema), dove si utilizzano anche verbi diversi per meglio evidenziare questi passaggi: transmittere per Garonna, Loira, Senna, Aisne, Mosa, Mosella, transire (in luogo di transcendere nella Vita) per Reno, Danubio, Lech, Inn, Drava, tranare per Tagliamento, Livenza, Piave, Brenta, Adige e Po. Ora questa scrupolosa e attenta segnalazione di tutte queste presenze idrografiche lungo il percorso (ben 16, se si esclude la Garonna) sembra di fatto un altro marcatore che scandisce le tappe successive di un cammino del tutto particolare. Resto infatti ancora del parere che questi “segni” ripetuti “vadano oltre il puro significato geografico di caratterizzazione territoriale, né siano da ricondurre solo a una sorta di pietre miliari di riferimento ‘cartografico’, ma siano soprattutto e piuttosto da vedere nel solco della tradizione cristiana delle acque fluenti e purificatrici, a partire dai quattro fiumi del paradiso terrestre, e di quella, ancora più antica, che comprende i riti di passaggio e di transizione”86. Anche questi passaggi si possono intendere in realtà come momenti di salvazione lungo la strada della fede. C’è naturalmente da dire che la citazione e la presenza di corsi d’acqua non sono limitate solo ai versi finali della Vita Sancti Martini o alla Praefatio, ma sono assai diffuse e comuni in tutta l’opera venanziana, al punto che Della Corte lo definisce “il poeta dei fiumi”, ripercorrendo tutte le sue citazioni “potonomastiche”87: nel caso, questo aspetto sembrerebbe essere in concreto una conferma dell’inserimento del nostro autore in un filone di tradizione letteraria, dove gli aspetti naturali e insieme idrografici del paesaggio venivano segnatamente considerati ed esaltati (basti pensare ad Ausonio)88. Si potrebbe quindi desumere che è un’ “Europa dei fiumi …quella che emerge dalla scrittura di Venanzio”, ma si deve anche aggiungere che “per lui il fiume non è soltanto la massa d’acqua che scorre… È qualcosa di più. Nel nobile disegno del Creatore è l’elemento fertile di una natura che, senza il fiume, resterebbe arida e infeconda.…crede nella funzione benigna del fiume che irriga i campi assetati, alimenta i numerosi pesci, dà frescura e refrigerio e perciò contribuisce all’amenità del paesaggio.…il regno animale e quello vegetale non sarebbero vissuti senza questo prezioso elemento. Che è anche salvifico: mentre la distruzione 350

del fuoco è simbolo del peccato, il lavacrum dell’acqua viva e corrente rappresenta la salvazione. Il valore sacrale dell’acqua non è più di concezione pagana. Come fu quella del Giordano (X 6, 36; 100; Vita Mart., I 512), ci riporta al battesimo per cui (V 5, 110) virgilianamente può dire: et nova progenies reddita surgit aquis”89. Come si vede ritorna in queste parole di Della Corte la fisionomia indissolubile di un uomo colto e certo di parte, che aveva fortemente sentito i problemi del suo tempo, politici e religiosi, ma che insieme sentiva sostanzialmente di dare il meglio di sè come letterato e poeta di corte90.

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Le strade del libellus in Europa (elab. G. Rosada, dis. G. Penello).

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Le strade del libellus nell’Italia settentrionale (elab. G. Rosada, dis. G. Penello).

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Note

(1) Cfr. in generale su Venanzio M. Schuster, s.v. Venantius Fortunatus, in RE, VIII A, Stuttgart 1881, cc. 677-695; B. Brennan, The Career of Venantius Fortunatus, «Traditio», XLI (1985), pp. 49-78 e la bibl. citata più oltre nelle note (insieme agli altri contributi di questo volume, si veda poi segnatamente quello di Di Brazzano, dove si sottolinea “come la presentazione del viaggio quale pellegrinaggio devozionale non sia pienamente credibile”). (2) G. Rosada, Il “viaggio” di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breunia loca e la strada per submontana castella, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Dosson (Treviso) 1993, pp. 25-57. (3) S. Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato da Ravenna a Tours, in Cammina, cammina… Dalla via dell’ambra alla via della fede, a cura di S. Blason Scarel, Aquileia (Udine) 2000, p. 145 (145-152) e in questo volume. (4) Vita Sancti Martini, IV, 668-670 (in Opera poetica, MGH, Auct. ant., IV, pars prior, rec. et emend. F. Leo, Berolini 1881, pp. 292-370). Un ricordo dei propri cari, che richiama e riproduce in parte il verso citato, si trova anche in Carm., VII, 9, 7-11, allorché il poeta dice di non aver mai ricevuto lettere da essi dall’epoca della sua partenza: Exul ab Italia nono, puto, volvor in anno/…/tempora tot fugiunt et adhuc per scripta parentum/ nullus ab exclusis me recreavit apex./ Quod pater ac genetrix, frater, soror, ordo nepotum,… Da un altro passo sappiamo che la sorella si chiamava Tiziana (Carm., XI, 6, 8: …quam soror ex utero Titiana fores,…). In proposito sarebbe suggestivo che Titiana fosse il nome appartenuto a una martire cenetense. (5) Un dubbio analogo deve essere venuto anche a Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 146, se così si esprime in proposito: “Lasciata Duplavenis si diresse alla vicina Cenita, l’odierna Vittorio Veneto, ove, a quanto par di capire, dimoravano altri suoi parenti e amici” (non così in questo volume). (6) Hist. Lang., II, 13 (in MGH, Script. rer. Lang. et Ital., saec. VI-IX, ed. L. Bethman, G. Waitz, Hannoverae 1878). (7) Ibid. Bisogna dire tuttavia in proposito che, come noi, probabilmente “Paolo Diacono non aveva altri elementi per ricostruire la biografia di Venanzio, se non le sporadiche indicazioni autobiografiche”. Cfr. F. Della Corte, Venanzio Fortunato, il poeta dei fiumi, in Venanzio Fortunato (2), p. 138 (137-147). (8) Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), pp. 145, 147 e in questo volume. (9) Vita Sancti Martini, IV, 661-662. (10) Su questo fondamentale tema, si vedano in generale C. Capizzi, I vescovi illirici e l’affare dei “Tre Capitoli”, «AttiMemSocDalmStPatria», 12, n.s.1 (1967), pp. 71-117; G. Cuscito, Aquileia e Bisanzio nella controversia dei Tre Capitoli, «AAAd», XII, 1 (Aquileia e l’Oriente mediterraneo) (1977), pp. 231-262, con bibl. ivi; più in particolare, cfr. G. Fedalto, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa nella “Venetia maritima”, in A. Carile, G. Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 303-314 (251-427); S. Tramontin, Le origini del cristianesimo a Treviso, in Storia di Treviso, I, Origini, a cura di E. Brunetta, Venezia 1988, pp. 319-324 (311-356); M. Pavan, Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia Merovingica, in Venanzio Fortunato (2), pp. 11-23 e naturalmente il contributo di Rajko Bratozˇ in questi Atti. (11) Vita Sancti Martini, IV, 702, 704-706. (12) Tutti aspetti di una scuola che si possono ben rintracciare nell’opera poetica di Venanzio; anzi si è detto addirittura, a proposito della Vita Sancti Martini, che essa è la testimonianza della “sopravvivenza della tradizione greco-romana in un’epoca di profonda crisi e trasformazione” e, a proposito del suo autore, che egli fu “un dernier représentant de la poésie latine”. Cfr. D. Tardi, Fortunat. Étude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927; A. Longpré, L’étude de l’examètre de Venantius Fortunatus, «CahiersÉtAnc», 5 (1976), pp. 45-58; M. Reydellet,

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Tradition et nouveauté dans les Carmina de Fortunat, in Venanzio Fortunato (2), pp. 81-98, nonché i contributi di Cristina La Rocca e di Antonio Carile in questi Atti; più in generale, U. Pizzani, La cultura in Italia e in Gallia nel sesto secolo, in Venanzio Fortunato (2), pp. 63-79. (13) N. Scivoletto, Commento conclusivo e proposte, in Venanzio Fortunato (2), pp. 241-242 (237-243). (14) Utilizzo qui sia il passo della Vita Sancti Martini, IV, 686-701, sia quello della Hist. Lang., II, 13, che si serve spesso delle medesime espressioni di Venanzio. Cfr. Rosada, Il “viaggio” (2), p. 26. (15) È, come si sa, l’episcopus Tarvisianae ecclesiae che si incontrò con Alboino quando questi ad fluvium Plabem venisset (Paul. Diac., Hist. Lang., II, 12). Con Felice Venanzio aveva avuto un sodalizio di studio (…quoniam patriae fuit aula sodalibus una…) e forse continuava ad avere con lui rapporti epistolari (Carm., VII, 13). (16) Ven. Fort., Carm., VIII, 1, 21; Vita Sancti Martini, I, 44, oltre che IV, 667. (17) Ven. Fort., Vita Sancti Martini, IV, 630-631. (18) Nella Vita Sanctae Radegundis, XIV (in Opera poetica, MGH, Auct. ant., IV, pars posterior, rec. et emend. B. Krusch, Berolini 1885, pp. 38-49 e in Fredegarii et aliorum chronica. Vitae sanctorum, MGH, Script. rer. Meroving., II, ed. B. Krusch, Hannoverae 1888, pp. 358-377), Venanzio cita in proposito l’esistenza di Sancti Martini atria, templa e appunto di una basilica. (19) Da ultimi per un’analisi puntuale del percorso, cfr. Rosada, Il “viaggio” (2) e Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3). (20) Già da me discussa in Rosada, Il “viaggio” (2), pp. 41-43. (21) Cfr. per questa direttrice W. Czysz, Römische Staatsstraße Via Claudia Augusta. Der nördliche Streckenabschnitt zwischen Alpenfuß und Donau, in La Venetia nell’area danubiana. Le vie di comunicazione, Padova 1990, pp. 253-283; G. Rosada, Sessant’anni dopo. Per capire una strada, in La via Claudia Augusta Altinate, Venezia 2001 (rist. an.dell’opera edita a Venezia 1938), pp. XI-XXXI e bibl. precedente ivi; Id., … viam Claudia Augustam quam Drusus pater … derexserat …, in Via Claudia Augusta: un’arteria alle origini dell’Europa: ipotesi, problemi, prospettive, Asolo (Treviso) 2002, pp. 37-68; S. Di Stefano, La via Claudia Augusta attraverso le Alpi: ricostruzione degli itinerari attraverso l’Alto Adige e il Tirolo sulla base delle evidenze archeologiche, ibid., pp. 193-218; E. Walde, G. Grabherr, Neue Forschungen an der via Claudia Augusta, ibid., pp. 219-240; W. Czysz, Via Claudia Augusta: der bayerische Streckenabschnitt zwischen FoetibusFüssen und Submontorium an der Donau. Neue Entdeckungen, Ausgrabungen, Forschungen, ibid., pp. 241-264 e la bibl. contenuta in questi contributi. La Claudia Augusta con il suo percorso, che io ho ricostruito da Altino attraverso Treviso e la valle del Piave prima che si dirigesse con ogni probabilità alla volta della Valsugana e successivamente della Val d’Adige, avrebbe oltre tutto consentito le tappe di Padova (grazie alle vie Popillia e Annia), di Treviso e di Valdobbiadene-Ceneda, che a Venanzio stavano molto a cuore (presso Valdobbiadene/Duplabilis è da riconoscere inoltre la mansio di ad Cerasias, riportata dall’It. Ant., 280-281, p 42, lungo la direttrice Opitergium-Tridentum; cfr. L. Bosio, Le strade romane della Venetia e dell’Histria, Padova 1991, pp. 141-143). (22) Tra i tanti altri che dovevano allora circolare e di cui conosciamo solo un altro esempio, questo tuttavia “laico”, pervenutoci con il titolo di Imperatoris Antonini Itinerarium Provinciarum. Cfr. Itineraria Romana, I, ed. O. Cuntz, Lipsiae 1929. (23) Il cosiddetto Itinerarium Burdigalense, ibid. A esso fa riferimento anche Di Brazzano in questo volume. (24) It. Burdig., 549-559,13, pp. 86-88. (25) Ibid., 601, 6-617, 9, pp. 99-102. (26) Per giungere a Milano si poteva naturalmente seguire pure la strada per Patavium, lungo le vie Popillia e Annia o/e risalendo la via endolagunare e la corrente dei fiumi (quella direttrice cioè che da Padova a Ravenna indica proprio Ven. Fort., Vita Sancti Martini, IV, 677-680: Hinc tibi Brinta fluens iter est, Retenone secundo./Ingrediens Atesim, Padus excipit inde phaselo,/…Inde

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Ravennatem …urbem). Sulle direttrici terrestri, cfr. Bosio, Strade romane (21), pp. 59-81; su quella endolagunare, cfr. G. Rosada, La direttrice endolagunare e per acque interne nella decima regio: tra risorsa naturale e organizzazione antropica, in La Venetia nell’area padano-danubiana (21), pp. 153-182. (27) Bordeaux si trova a una distanza compatibile da Tours e, secondo le sue stesse parole, il tragitto tra Ligerem et Garonnam fu praticato da Venanzio (Praefatio, 4). (28) It. Ant., 344, 3-346, 9, p. 51 s. (29) It. Ant., 459, 6-460, 8, p. 71. (30) Rosada, Il “viaggio” (2), p. 46. (31) Come si sa, a lungo è stato discusso sulla struggente malinconia che avrebbe suggerito al poeta, lontano dagli affetti ed esiliato dalla sua Toscana, questi versi accorati e intrisi di autobiografia. Più recentemente tuttavia si è messo anche in risalto l’impianto tutto letterario dello spunto ispiratore della composizione (cfr. G. Cavalcanti, Rime, a cura di D. De Robertis, Torino 1986). (32) Di Germano Venanzio tesse l’elogio in Carm., II, 9 e VIII, 2 (di lui scrisse anche la biografia; cfr. Vita Sancti Germani, in MGH, Auct. ant., cit a nota 18, pp. 11-27). (33) Fu inoltre ascoltato consigliere del re e creò molte sedi vescovili. Cfr. la Vita Sancti Remedii, inserita tra gli Opuscula Venantio Fortunato male adtributa, in MGH, Auct. ant. (18), pp. 64-67. (34) Carm., II, 16. Cfr. la Vita Sancti Medardi, inserita tra gli Opuscula Venantio Fortunato male adtributa, in MGH, Auct. ant. (18), pp. 67-73. (35) Cfr. C. Egger, s.v. Afra, Ilaria, Degna …, in Bibl. Sanct., I, Roma 1961, cc. 283-287; Fr. Prinz, Die heilege Afra, «Bayer. Vorgeschichtsbl.», 46 (1981), pp. 211-215; cfr. anche L. Bakker, Ausgrabungen bei St. Ulrich und Afra, Stadt Augsburg, Schwaben, «Das Archäol. Jahr in Bayern», 1983 (1984), pp. 130-133 e W. Czysz, Augusta Vindelicum nell’itinerario di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato (2), pp. 59-61, solo per la bibl. (36) Su questo passaggio, cfr. in particolare H. Wopfner, Zur Reise des Venantius Fortunatus durch die Alpen, «Deutsche Gaue», 37 (1937), pp. 2125 e G. Conta, Il viaggio di Venanzio Fortunato attraverso le Alpi, «Rivista per l’Alto Adige. Rivista di studi alpini», 77 (1983) (I. Corona Alpium. Miscellanea di Studi in onore del Prof. C.A. Mastrelli), pp. 35-67. (37) H. Wopfner, Die Reise des Venantius Fortunatus durch die Ostalpen. Ein Beitrag zur frümittelalterlichen Verkehers-und Siedlungsgeschichte, in Festschrift zu Ehren E. v. Ottenthals, «Schlernschriften», Heft 9, Innsbruck 1925, pp. 370-371(362-417); K. Kunze, s.v. Valentino di Passau, in Bibl. Sanct., XII, Roma 1969, cc. 890-896; Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 148. (38) Cfr. A. Amore, s.v. Valentino, presbitero martire, in Bibl. Sanct., XII, Roma 1969, cc. 896-997; Id., s.v. Valentino, santo, martire di Terni, ibid, c. 899. (39) Tuttavia per una direttrice e una localizzazione diverse, sulla strada del Brennero, cfr. tra altri K. Staudacher, Das Reisegedicht des Venantius Fortunatus, «Der Schlern», 15 (1934), pp. 276-279; Conta, Il viaggio di Venanzio Fortunato (36). La via per il Brennero, prescindendo dalla questione dei Valentini templa, sarebbe comunque stata la direttrice più naturale per un viaggio “normale” (dal Brennero si potevano seguire infatti le valli dell’Isarco prima e dopo dell’Adige fino a Verona). (40) Rosada, Il “viaggio” (2), pp. 32-34. (41) It. Ant., 279-280, p. 42. Cfr. Bosio, Strade romane (21), pp. 182-183. Aguntum diventò municipio probabilmente in epoca claudia; in seguito, nel II secolo fu provvisto di una solida cinta muraria e a partire dal IV secolo fu sede episcopale. Cfr. W. Alzinger, Das Municipium Claudium Aguntum. Von keltischen Oppidum zum frühchristliche Bischofssitz, in ANRW, II, 6, Berlin, New York 1977, pp. 380-413. (42) Lavant si trova a non molta distanza dal municipio romano, verso oriente e in destra Drava. (43) Cfr. Alzinger, Das Municipium Claudium Aguntum (41), pp. 403-413 e in particolare: F. Miltner, Die Ausgrabungen auf dem Kirchbichl von Lavant in Osttirol, «ÖJh», XXXVIII (1950), Beibl., cc. 37-102; Id., Die Ausgrabungen

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in Lavant /Osttirol, ibid., XL (1953), Beibl., cc. 15-92; Id., Die Grabungen auf dem Kirchbichl von Lavant /Osttirol, ibid., XLI (1954), Beibl., cc. 34-84; Id., Die Grabungen auf dem Kirchbichl von Lavant /Osttirol, ibid., XLIII (19561958), Beibl., cc. 89-124; W. Alzinger, Lavant, «Öst.Arch.Inst. Grabungen» (1966), pp. 64-68; F. Glaser, Frühes Christentum im Alpenraum. Eine archäologische Entdeckungsreise, Graz, Wien, Köln 1997, pp. 141-147; P. Gleischer, Der Drei-Kapitel-Streit und seine baulichen Auswirkungen auf die Bischofskirchen im Patriarchat von Aquileia, «Der Schlern», 74 (2000), p. 1114 (9-18). Per qualche altra considerazione e ulteriori riferimenti bibliografici, cfr. infine Rosada, Il “viaggio” (2), nota 32. (44) Cfr. An. Rav., IV, 37, 1-2, p. 76 (Itineraria Romana, II, ed. J. Schnetz, Lipsiae 1940): …iugus Carnium dicebatur (ab) antiquitus Alpis Iulia. (45) Su Iulium Carnicum, oltre a M. Mirabella Roberti, Iulium Carnicum centro romano alpino, «AAAd», IX (Aquileia e l’arco alpino orientale) (1976), pp. 91-101, cfr. il recente Iulium Carnicum. Centro alpino tra Italia e Norico dalla protostoria all’età imperiale, a cura di G. Bandelli e F. Fontana, Roma 2001, con bibl. precedente ivi. (46) Tra gli altri, cfr. Wopfner, Die Reise (37), p. 368; Conta, Il viaggio (36), pp. 29-31 e più di recente Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 147 (“Non sarà naturalmente da pensare a Cividale, ormai lasciata a sud-est, quanto piuttosto a una denominazione poco precisa di Iulium Carnicum”. Qui non si comprende tuttavia l’espressione “ormai lasciata”, che è nel caso del tutto impropria). (47) C. G. Mor, Un capitolo sconosciuto della storia del vescovado carnico, in Darte e la Cjargne, Udine 1981, pp. 84-93, segnatamente p. 89; Glaser, Frühes Christentum (43), pp. 91-93. (48) Una volta raggiunta Cividale, si sarebbe potuto lungo il tracciato stradale detto “Bariglaria” continuare il percorso fino a Tricesimo e di qui risalire a Osoppo. Sulla “Bariglaria”, cfr. Bosio, Strade romane (21), pp. 168-171. (49) L. Bosio, Cividale del Friuli. La storia, Udine 1977, pp. 46, 62; S. Tavano, Grado e Cividale, in Patriarchi. Quindici secoli di civiltà fra l’Adriatico e l’Europa Centrale, a cura di S. Tavano e G. Bergamini, Milano 2000, p137138 (137-155). In realtà una possibile riconsiderazione del comprensorio di Cividale, almeno inteso in senso lato, potrebbe venire dalla recente scoperta di Tonovcov in Slovenia, a settentrione di Caporetto, di un vasto complesso di culto caratterizzato da due basiliche parallele, rettangolari e dotate di banco presbiteriale (che sembrano inserirsi nello schema della basilica doppia “primitiva” di tipo aquileiese) e da una terza chiesa di analoga planimetria (cfr. S. Ciglenecˇki, Scavi nell’abitato tardo-antico di Tonovcov Grad presso Caporetto (Kobarid) Slovenia. Rapporto preliminare, «AqN», LXV (1994), cc. 185-208; Id., Il sito archeologico di Tonovcov grad presso Kobarid. Guida, Ljubljana 1997. Aveva considerato il sito anche F. Lazzarini, La diffusione della basilica doppia paleocristiana nell’area altoadriatica e balcanica: una nota topografica, «AttiMemSocIstrArchStPatria», XCIX, n.s. XLVII (1999), p. 33 e nota 19 con bibl. ivi (27-48). Devo la risegnalazione a Sergio Tavano, che ringrazio). È indubbio che un simile polo avrebbe potuto essere bene inserito in un percorso devozionale. (50) Rosada, Il “viaggio” (2), p. 35 e nota 42. (51) Rosada, Il “viaggio” (2), pp. 34-36 e note relative; S. Piussi, Dal IV al V secolo, in Patriarchi (49), p. 77 (75-95), oltre che Mirabella Roberti, Iulium Carnicum (45), p. 95. (52) Per recenti indagini archeologiche su Osoppo, cfr. F. Piuzzi, C. Vouk, Ricerche archeologiche nella Pieve di San Pietro ad Osoppo, «AqN», LX (1989), cc. 239-274. (53) Per recenti indagini su Ragogna, cfr. S. Lusuardi Siena, L. Villa, Castrum Reunia (Ragogna, Udine): gli scavi nella chiesa di S. Pietro in Castello, in Scavi Medievali in Italia 1994-1995, a cura di S. Patitucci Uggeri, Roma 1998, pp. 179-198; L. Villa, Ricerche archeologiche nel castrum Reunia, in Alle origini dei siti fortificati: oltre l’archeologia e il restauro. Esperienze a confronto e orientamenti alla ricerca, a cura di F. Piuzzi, Udine 1999, pp. 69-76.

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(54) Sulla viabilità in ambito friulano, cfr. in generale Bosio, Strade romane (21), passim e più in particolare G. Rosada, Viabilità e centuriazione nel Friuli romano. L’infrastruttura logistica in una regione di frontiera militare ed economica, in Dalla Serenissima agli Asburgo. Pordenone-Gemona. L’antica strada verso l’Austria. Studi e ricerche, Treviso 1997, pp.22-34; Id., Le vie per il Norico, in Tesori della Postumia. Archeologia e storia intorno a una grande strada romana alle radici dell’Europa, Milano 1998, pp. 265-266; Id., .…mansi positi in villa de Morsano subtus Stratam altam… Mito e storia di una strada, «QdAV», XV (1999), pp. 194-201; Id., L’agro concordiese come terra di frontiera, in Antichità e altomedioevo tra Livenza e Tagliamento. Contributo per una lettura della carta archeologica della Provincia di Pordenone, a cura di G. Cantino Wataghin, Pordenone 1999, pp. 43-58; Id., Tra mare, fiumi e terra …colonia Concordia, flumen et portus Reatinum… (Plin., Nat. hist., III, 126), in La Loire et les fleuves de la Gaule romaine et des régions vosines, «Caesarodunum», XXXIII-XXXIV (1999-2000), pp. 231-155. (55) Sulla viabilità pedemontana e sulle sue realtà insediative, cfr. A.N. Rigoni, G. Rosada, Insediamenti pedemontani del Veneto e del Friuli: emergenze archeologiche, continuità e discontinuità tra protostoria e incastellamento medioevale, «AAAd», XXXII (Aquileia e le Venezie nell’Alto Medioevo) (1988), pp.281-324; G. Rosada, Il territorio in età romana: nota topografica, in Siti archeologici dell’Alto Livenza, a cura di S. Pettarin e A.N. Rigoni, Fiume Veneto (Pordenone) 1992, pp.15-19; Id., Il “viaggio”, in Venanzio Fortunato (2); Id., Dalle civitates ai castella. L’incastellamento lungo la fascia pedemontana tra Veneto e Friuli occidentale. Una nota topografica, in L’incastellamento nel Nord-est italiano (IX-XII secolo). Stato della ricerca e prospettive d’indagine, a cura di F. Piuzzi, Udine 2000, pp. 9-13. (56) Cfr. in generale S. Tavano, Aquileia cristiana, «AAAd», III (Aquileia cristiana) (1972) (3-210) e p. 20 ss.; G. Cuscito, Il primo cristianesimo nella “Venetia et Histria”, Reana del Roiale (Udine) 1986 e p. 14 s.; più in particolare I. Daniele, s.v. Canzio, Canziano e Canzianilla, in Bibl. Sanct., III, Roma 1963, cc. 758-760; S. Tavano, S. Canzian d’Isonzo-Piccola guida, Trieste 1977; G. Cuscito, Cristianesimo antico ad Aquileia e in Istria, Trieste 1979 (1977), p. 88 ss.; Id., La societas christiana e le nuove congiunture storiche, in Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra l’Europa e l’Oriente dal II secolo a.C. al VI secolo d.C., Milano 1980, p. 662 ss. (659-694); R. Bratozˇ, Il cristianesimo aquileiese prima di Costantino fra Aquileia e Poetovio, Ricerche per la Storia della Chiesa in Friuli, 2, Tavagnacco (Udine) 1999, pp. 366-388; L. Villa, Itinerari devozionali e antichi luoghi di culto lungo le principali direttrici stradali del Friuli: il contributo dell’archeologia, in Cammina, cammina… (3), pp. 153-154; G. Cuscito, Culto delle reliquie tra Aquileia e Grado (secc. IV-XIV), in Cammina, cammina… (3), pp. 209-218; Id., I martiri aquileiesi, in Patriarchi (49), pp. 4967; cfr. anche Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 147. (57) Non vi è dubbio, a mio avviso, che in questo riferimento del poeta, insieme naturalmente al ricordo successivo del vescovo trevigiano, si possa anche intravvedere un coinvolgimento personale, dal momento che Fortunato e Felice riproponevano la coppia di socii risanata a Ravenna da Martino (Venanzio li ricorda insieme in Carm., VIII, 3, 165-167: Felicem meritis Vicetia laeta refundit/ et Fortunatum fert Aquileia suum). Per Fortunato e Felice martiri, cfr. P. Paschini, G. Lorenzon, s.v. Felice di Vicenza e Fortunato di Aquileia, in Bibl. Sanct., V, Roma 1964, cc. 588-591; Tavano, Aquileia cristiana, (56), p. 20 ss.; Fedalto, Organizzazione ecclesiastica (10), p. 290 con bibl. ivi; Cuscito, Primo cristianesimo (56), pp. 15 ss., 22; J.-Ch. Picard, Le souvenir des évêques. Sépultures, listes épiscopales et culte des évêques en Italie du Nord des origines au Xe siècle, Roma 1988, pp. 581-583. (58) Come testimoniano le esplicite parole in proposito di Paolo Diacono: …beatus Paulus patriarcha…qui Langobardorum barbariem metuens, ex Aquileia ad Gradus insulam confugiit secumque omnem suae thesaurum ecclesiae deportavit (Hist. Lang., II,10). Cfr. A. Carile, La formazione del ducato veneziano, in A. Carile, G. Fedalto, Le origini di Venezia (10), p. 187 (11237); G. Fedalto, Organizzazione ecclesiastica (10) pp. 309-314. (59) Cfr. Pavan, Venanzio Fortunato (10), pp. 15, 18-19.

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(60) Y.M. Duval, Aquilée et la Palestine entre 370 et 420, «AAAd», XII, 1 (Aquileia e l’Oriente mediterraneo), (1977), pp. 315-317 (263-322); Fedalto, Organizzazione ecclesistica (10), p. 282 ss.; P. Zovatto, La diocesi di Concordia e il patriarcato di Aquileia, in Patriarchi (49), pp. 253-257. (61) Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 147. (62) Con Felice Venanzio doveva intrattenere qualche rapporto epistolare, almeno secondo quanto si può ricavare da Carm., VII, 13. (63) Venanzio la nomina ancora, Iustinam Patavi…, in Carm., VIII, 3, 169. Cfr. Cuscito, Primo cristianesimo (56), pp. 10 s., 22 ss. Di essa non vi è comunque menzione nei martirologi: cfr. A. Amore, s.v. Giustina, in Bibl. Sanct., VI, Roma 1965, cc. 1345-1348; Picard, Le souvenir (57), pp. 641-644. (64) Come sottolinea Bratozˇ in questo volume, appare strano il fatto che Giovanni abbia dei figli e quindi possa essere sposato. Di questo vescovo tuttavia nulla si sa: cfr. Picard, loc. citato nella nota precedente. (65) Carm., I, 2, 25: bonus antistes Vitale urguente Iohannes. Cfr. Picard, Le souvenir (57), p. 489. (66) Anche Vitale è detto in un altro carme (I, 1, 1) antistes domini. Sull’accostamento tra Giovanni e Vitale, cfr. Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 146. Su Vitale, cfr. anche Bratozˇ in questo volume. (67) In realtà la tomba di Vitale si trovava a Bologna. Cfr. G.D. Gordini, s.v. Vitale e Agricola, in Bibl. Sanct., XII, Roma 1969, cc. 1225-1228; G. Lucchesi, s.v. Ursicino (Ursicio), santo, martire nell’Illirico, ibid., cc. 856-857; Picard, Le souvenir (57), pp. 294-295, 655-657; Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 146. È da dire che un altro Ursicino fu anche il vescovo di Ravenna che nella prima metà del VI secolo fece iniziare la costruzione della basilica di S. Apollinare in Classe (consacrata dal primo arcivescovo ravennate Massimiano nel 549 con la traslazione delle spoglie del santo). Cfr. ancora Picard, Le souvenir, pp. 116 ss., 130, 161, 166-172, 690. (68) Cfr. G. Lucchesi, s.v. Apollinare, in Bibl. Sanct., II, Roma 1962, cc. 239-246. (69) Praef., 4. (70) Su queste vie dei pellegrini, cfr. G. Cantino Wataghin, L. Pani Ermini, Santuari martiriali e centri di pellegrinaggio in Italia tra tarda antichità e alto medioevo, Akten des XII Internationalen Kongresses für Christliche Archäologie, Münster 1995, pp. 123-151; G. Cantino Wataghin, I percorsi stradali di età tardoantica, i nuovi itinerari altomedioevali e i percorsi dei pellegrini fino alla via Francigena, in Tesori della Postumia (54), pp. 623-629; L. Gnesda, Pellegrinaggi ed ospizi nelle terre del patriarcato di Aquileia, in Cammina, cammina… (3), pp. 174-180; H. Nothdurfter, I valichi alpini in età altomedievale, in Uso dei valichi alpini orientali dalla preistoria ai pellegrinaggi medievali, a cura di E. Cason, Udine 2001, pp. 131-150. A proposito del passo della Vita Sancti Martini di cui qui si sta discutendo, è significativa l’espressione di S. Quesnel (Introduction, in Venance Fortunat, Oeuvres, IV, Vie de Saint Martin, Paris 1996, p. LXII) che lo definisce “… un vrai guide du voyager-pèlerin au VIe siècle…”. Sul cristianesimo in ambito alpino, le prime sedi vescovili, i martiri, cfr. Glaser, Frühes Christentum (43), pp. 17-35, 49-55 e anche R. Bratozˇ, I primi vescovi, in Patriarchi (49), pp. 69-73. (71) La resistenza ai Longobardi lo accomunava a Felice di Treviso. Il trasferimento di sede episcopale da Aquileia a Grado avvicinava il caso a quello di Aguntum (e forse anche a quello di Iulium Carnicum), il cui vescovo si spostò nel più alto e sicuro sito del Kirchbichl. (72) Per questa possibile e prossima invasione, che avrebbe cambiato comunque le realtà politiche della nostra penisola, si doveva pur avere una qualche preoccupazione, nonostante i Longobardi fossero stati solidali con i Bizantini, avendo combattuto con Alboino a fianco di Narsete all’epoca della guerra gota. Cfr. Rosada, Il “viaggio” (2), p. 43 e bibl. ivi. (73) J. Sˇasˇel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, «AAAd», XIX (Aquileia e l’Occidente) (1981), pp. 359375; cfr. anche, su questa linea, M. Rouche, Autocensure et diplomatie chez Fortunat à propos de l’élégie sur Galeswinthe, in Venanzio Fortunato (2), p. 157 (149-159).

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(74) Del tutto contrario alla tesi di Sˇasˇel è più recentemente B. Brennan, Venantius Fortunatus: Byzantine Agent?, «Byzantion», LXV (1995), pp. 7-16. (75) Di questa sua posizione fa ulteriormente fede un passo di un carme (App. carm., II, 21-28), dove il poeta tesse l’elogio motivato di Giustino II succeduto a Giustiniano come imperatore d’Oriente: Gloria summa tibi, rerum sator atque redemptor,/qui das Iustinum iustus in orbe caput./Ecclesiae turbata fides solidata refulget/ et redit ad priscum lex veneranda locum./ Reddite vota deo, quoniam nova purpura quidquid/ concilium statuit Calchedonense tenet./ Hoc meritis, Auguste, tuis et Gallia cantat,/ hoc Rhodanus, Rhenus, Hister et Albis agit. Sull’argomento, cfr. anche Bratozˇ in questo volume. (76) R. Köbner, Venantius Fortunatus. Seine Persönlichkeit und seine Stellung in der geistigen Kultur des Merowingerreiches, «Beiträge zur Kulturgeschichte des Mittelalters und der Renaissance», 22, Leipzig, Berlin 1915, in part. pp. 13-14 e 125; Pavan, Venanzio Fortunato (10), pp. 18-22; Rosada, Il “viaggio” (2), pp. 44-46. (77) I passi citati sono di Paul Diac., Hist. Lang., II, 4. (78) G. Cavallo, La cultura a Ravenna tra Corte e Chiesa, in Le sedi della cultura nell’Emilia Romagna. L’Alto Medioevo, Milano 1983, pp. 29, 31, 36 (29-51). (79) Veg., Epit. rei mil., III, 6. (80) Cavallo, La cultura a Ravenna (78), p. 38. (81) Non a caso in Gallia era considerato come Fortunatus ab Ravenna (De privilegio, 20, in MGH, Poetae Latini medii aevi, IV, 2, ed. K. Strecker, Berolini 1914, p. 654 s.), sebbene di sè egli dicesse Fortunatus ego … / (Italiae genitum Gallica rura tenent)/ Pictavis residens …(Carm., VIII, 1, 11-13). (82) Cfr. la nota 12 e ancora in proposito A.V. Nazzaro, Intertestualità biblico-patristica e classica in testi poetici di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato (2), pp. 99-135. Tra i molti riferimenti possibili (alcuni dei quali già evidenziati), si ricordi nel testo esaminato il verso 649, dove si legge, per es., per Drauum itur iter. (83) Sull’Anonimo Ravennate e il suo ambiente, cfr. J. Schnetz, Untersuchungen über die Quellen der Kosmographie des anonymen Geographen von Ravenna, München 1942; S. Mazzarino, Da Lollianus et Arbetio al mosaico storico di S. Apollinare in Classe, «Helikon», V, 1 (1965), pp. 45-62 (la Cosmographia è definita “la più notevole documentazione della cultura ravennate del 7° secolo”, p. 47); G.A. Mansuelli, I geografi ravennati, «XX Corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina», Ravenna 1973, pp. 331-346. (84) Non si ripeterà mai abbastanza che anche la Cosmographia non è un itinerario, ma solo utilizza la tradizione formale dei veri e propri itinerari. (85) Si pensi ai fiumi, alle montagne, alle popolazioni ostili via via segnalati. (86) Rosada, Il “viaggio” (2), p. 47. Cfr. anche, per un accenno nell’Anonimo Ravennate (I, 8, 12-13, p.8) ai quatuor flumina, id est Geon Phison Tigris et Euphrates citati pure dalla Genesi (I, 2, 10-14), Mazzarino, Da Lollianus et Arbetio (82), p. 54. (87) Della Corte, Venanzio Fortunato (7). (88) Cfr. L. Navarra, A proposito del “De navigio suo” di Venanzio Fortunato in rapporto alla Mosella di Ausonio e agli “Itinerari” di Ennodio, «Studi storico-religiosi», 8 (1979), pp. 80-131. Cfr. anche M.E. Vazquez Bujan, “Vernat amoenus ager”. Sobre les descripciones de la naturaleza en la poesia de Venancio Fortunatus, «Euphrosyne», 13 (1983), pp. 95-105. Si veda in proposito anche Luce Pietri in questo volume. (89) Della Corte, Venanzio Fortunato (7), pp. 145-146. (90) Come giustamente sembra emergere dai contributi già del Tardi, Fortunat (12) e di J.W. George, Venantius Fortunatus. A Latin Poet in Merovingiam Gaul, Oxford 1992; L. Pietri, Venance Fortunat et ses commanditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, «CISAM», XXV (Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale) (1992), pp. 729-758. Cfr. anche nota 12.

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ˇ RAJKO BRATOZ Università di Ljubljana Slovenia Venanzio Fortunato e lo scisma dei Tre Capitoli

1. Introduzione

Sui rapporti di Venanzio Fortunato con lo scisma dei Tre Capitoli sono stati espressi finora diversi pareri. Unica base per approfondire questo problema è l’opera del poeta1. Una breve annotazione biografica stilata due secoli più tardi da Paolo Diacono2 si fonda infatti soltanto sulla conoscenza della sua produzione letteraria mentre la questione stessa non vi è trattata nemmeno di sfuggita. Nel cercare una risposta al nostro quesito i singoli studiosi ricorsero sia all’analisi di singoli frammenti dell’opera poetica sia inserendo tale opera nel contesto del quadro politico ed ecclesiastico caratteristico dell’Italia settentrionale e dell’Occidente in genere nella seconda metà del VI secolo. In questo caso il rapporto di Venanzio nei confronti dello scisma dei Tre Capitoli si configurava come parte integrante di una delle questioni base per la comprensione della vita e della produzione del poeta e dei motivi della sua partenza per la Gallia nel 5653. Una volta trasferitosi nella nuova patria Venanzio ebbe pochissimi contatti con l’Italia ed evidentemente smise di interessarsi allo sviluppo delle vicende italiche; d’altronde la disputa ecclesiastica era di poca attualità nella Gallia merovingia. Pertanto il poeta avrebbe potuto definire il suo rapporto verso lo scisma anteriormente alla partenza per la Gallia, vale a dire nel periodo della sua giovinezza e maturazione nella Venetia e a Ravenna. Al momento della partenza dall’Italia, Venanzio Fortunato avrebbe avuto dai 25 ai 30 anni. La data della sua nascita è difficile da stabilire (gli studiosi la collocano entro il decennio dal 530 al 540) ma è anche tutt’altro che chiara la ricostruzione cronologica della vita del poeta per il periodo italico, il primo della sua produzione4. Indubbiamente nel periodo dei suoi studi a Ravenna, Venanzio avrà acquisito un’eccellente istruzione e arricchito le sue conoscenze nei più diversi campi compresa la padronanza almeno elementare 363

del greco5. In qualità di discendente di famiglia benestante ebbe numerose aderenze nella nativa Venetia, che andavano ben oltre il luogo nativo in alcune città vicine e lontane. Per il periodo anteriore alla partenza dall’Italia non è da attendersi una sua particolare notorietà quale poeta visto che dei 230 componimenti poetici rimastici soltanto i primi due sono stati prodotti in terra italica ma nessuno della prosa. E altrettanto non è dimostrabile per il periodo in questione la presenza di suoi eventuali contatti personali o politici con importanti personalità ecclesiatiche e civili che trascendessero il territorio compreso fra Ravenna e Aquileia, quei contatti che più tardi, nella Gallia merovingia, dovevano segnarne profondamente la vita e le opere. Pare che nella patria veneta Venanzio coltivasse rapporti (anzitutto) coi chierici visto che tra i pochi singoli menzionati (se si eccettuano i parenti stretti) non troviamo laici. Il suo giovanile indirizzo religioso sarebbe suggerito anche dal suo nome poetico: delle quattro sue componenti (Venantius Honorius Clementianus Fortunatus) usò di preferenza l’attributo Fortunatus. Il quale, ripreso dal nome dell’omonimo martire aquileiese6, manifestava in primo luogo il suo orientamento spirituale e religioso e non tanto la sua appartenenza a ceti benestanti. In veste di giovane intellettuale fortemente religioso, Fortunato fu nel decennio anteriore alla partenza per la Gallia testimone di avvenimenti che dovevano incidere profondamente sulla sfera spirituale ed ecclesiale.

2. Rapporti di Venanzio riconducibili allo scisma dei Tre Capitoli a. Rapporti di Venanzio con Aquileia e col patriarca Paolo

Lo scisma dei Tre Capitoli, effetto degli sviluppi e dei risultati del V Concilio Ecumenico ovvero della politica religiosa portata avanti da Giustiniano, si manifestò in forma acuta nell’Italia nord-orientale nel 557. Al soglio patriarcale di Aquileia era stato eletto Paolo (o Paolino) che troncò i rapporti con Roma (papa Pelagio I)7. Nel corso di questi avvenimenti di carattere decisivo per la Chiesa nella Venetia, Venanzio Fortunato avrebbe avuto 20 anni circa. A quest’età poteva essere semplice testimone oculare di tali vicende anche se in quanto giovane intellettuale era ben cosciente 364

della loro importanza. Gli eventi legati alla sua fanciullezza, in primo luogo la guerra gotico-bizantina (535-552) che toccò almeno una volta Treviso e l’area adiacente8, non lasciano traccia nella sua opera. Sulla scorta delle sue note autobiografiche non è possibile dimostrare che da fanciullo o da giovane abbia soggiornato mai ad Aquileia. È certo comunque che con questa città poté avere contatti che si sarebbero dovuti svolgere in forma di visite o di corrispondenza epistolare9. Allora Aquileia era il centro dell’amministrazione della provincia e sede metropolitica non solo per la Venetia et Histria ma anche per tutta l’area del Norico Mediterraneo, i resti della parte occidentale delle provincie pannoniche e quella meridionale delle retiche. L’immagine della città alla metà del VI secolo, a cent’anni dalla sua distruzione ad opera degli Unni e immediatamente dopo la fine della guerra gotico-bizantina, non era naturalmente paragonabile con quella del IV secolo quando Aquileia era per grandezza e importanza la terza città d’Italia e la nona dell’Impero. Dopo le modeste realizzazioni edilizie del periodo di Odoacre e Teodorico, la ricostruzione sistematica della città fu avviata come altrove in Italia appena dopo la conquista bizantina del 552 ovvero, finita la guerra gotica, nel 55510. Due inserti poetici su Aquileia mostrano che Venanzio nei componimenti del periodo attorno al 575 (Vita s. Martini) o degli anni 576-580 circa (Carmina 8,3: De virginitate) si riferiva alla Aquileia della sua gioventù, del periodo anteriore alla partenza per la Gallia (565). Dalle brevi menzioni non si ricava l’impressione che il poeta sapesse degli importanti eventi che dopo il 565 avrebbero cambiato l’immagine e l’importanza della città: nel 568 il centro ecclesiale si rifugia a Grado, segue la conquista da parte dei Longobardi e una seconda distruzione della metropoli per quanto non paragonabile a quella di Attila nel 452. Ambedue le menzioni di Aquileia si riferiscono in primo luogo alla venerazione nella città dei martiri locali e il libro del poeta avrebbe diffuso colà anche la fama di s. Martino11. La città è indicata quale Aquiliensis urbs; la denominazione di urbs, peraltro rara per il periodo in oggetto, rimandava a centri cittadini grandi e importanti12. La forma aggettivale di Aquiliensis (invece della più antica Aquileiensis e della posteriore medioevale Aquileg(i)ensis) era allora evidentemente abbastanza diffusa se la troviamo spesso in scritti di provenienza ecclesiastica risalenti al periodo dalla seconda metà del VI alla fine del VII o primi dell’VIII secolo13. Venanzio Fortunato in due brani cita i santi aquileiesi le cui tombe 365

erano allora generalmente conosciute fino a rappresentare mete di pellegrinaggio. Accanto alla unica menzione del gruppo dei Canzii (Cantianos domini nimium venereris amicos [sc. libellus Vitae s. Martini]) si hanno ben due menzioni della venerazione del martire Fortunato, omonimo del poeta e uno dei due santi della coppia Felice e Fortunato le cui spoglie mortali si custodivano allora ad Aquileia14. Sulla scorta della duplice e pertanto rilevata menzione di Fortunato, martire di Aquileia15, sembrerebbe che la venerazione di tale santo fosse assai diffusa nella città e particolarmente cara a Venanzio. Il suo concittadino, coetaneo, amico e compagno di studi a Ravenna, il futuro vescovo di Treviso Felice16 porta altresì il nome del secondo martire della coppia di santi. Dato che nella tradizione aquileiese si hanno più Fortunati si dà la possibilità, peraltro teoricamente piccola, che la menzione di Fortunato nel poema Vita s. Martini non si riferisse al compagno di martirio di Felice bensì all’omonimo diacono di Ermacora che troviamo citato al primo posto (cioè prima del vescovo) nell’elogio del Martirologio Geronimiano (metà del V sec.), l’unica documentazione scritta di questo gruppo di martiri tramandataci dall’antichità. Mentre la tomba e le reliquie di Ermacora e Fortunato prima della loro “scoperta” all’inizio del VII sec., non erano note, la benedicta urna del compagno di martirio di Felice era ormai un noto luogo di pellegrinaggio17. Un’attenzione particolare meritano i due versi riguardanti il vescovo di Aquileia Paolo (o Paolino). Il vescovo vi è indicato in termini eccezionalmente rispettosi e nel contempo personali, il che mostra che i due si conoscevano bene. Paulus (e non Paulinus come menzionato nelle lettere di papa Pelagio I)18 vi è detto pontifex pius, con un attributo dunque che ne rileva le virtù personali. Anche il termine pontifex, se non fosse stato scelto per ragioni di metrica, è più solenne del comune episcopus e spetta al titolare di diocesi importante19. Il libro che il poeta invia dovrebbe al suo arrivo ad Aquileia fare in modo particolarmente rispettoso atto di reverenza al presule di colà (cupienter adora), dove dall’impiego del verbo adorare non risulta chiaro se il poeta si riferisse al vescovo ancora attivo (a nostro parere più probabile) o ormai defunto20. Un rapporto personale che si sarebbe potuto sviluppare in base a un’assidua frequentazione. Il poeta riferisce che Paolo aveva cercato di indirizzarlo fin dai più teneri anni (primaevis ab annis) alla vita spirituale (qui me ... converti optabat). Essendo Paolo stato monaco prima della consacrazione a vescovo e visto che il 366

poeta per indicare l’opera di persuasione usa il verbo converti, sembrerebbe che cercasse di indurlo a prendere il saio. Dalla letteratura agiografica del V e VI sec. si sa di vari casi di asceta adulto che educa il fanciullo nello spirito della conversione monastica, come ad es. quello descritto da Ennodio21. Lo scritto peraltro indica solamente l’intimità dei rapporti di Venanzio Fortunato col monaco aquileiese Paolo22, futuro patriarca, sotto il cui influsso il fanciullo sarebbe maturato spiritualmente. Il fatto che Venanzio non sperimentasse la conversio per seguire il cammino dell’ascesi dimostra che tali contatti non erano poi tanto intensi da portare al raggiungimento dello scopo. Cionondimeno il poeta sentì questo ideale costantemente vicino e lo ebbe tutta la vita in grande stima. Il giovane Venanzio crebbe e maturò nel periodo in cui il dissidio dei Tre Capitoli si faceva sempre più aspro. Finita la guerra gotico-bizantina (555) con la successiva cacciata dei Franchi e del resto dei Goti dal Norditalia (561/563)23, la controversia ecclesiale vi diventa il problema politico centrale. Mentre nelle altre parti dell’Italia bizantina il dissidio si viene gradualmente mitigando e calmando, il papa e il potere bizantino in Italia si trovano impegnati a spegnere questo focolaio di crisi24. Le lettere di papa Pelagio I ai vari dignitari bizantini permettono di farci un’idea circa le forme e l’intensità delle pressioni sul patriarca scismatico soltanto per il breve periodo che va dal febbraio all’aprile 559. Nella lettera indirizzata al patrizio Giovanni, febbraio 559, Pelagio I attacca con violenza gli scismatici indicando ironicamente il vescovo aquileiese come patriarca delle Venezie e dell’Istria nonché “corifeo” degli scismatici (quispiam Venetiarum, ut ipsi putant, atque Histryae patriarcha ... eorum princeps ... non consecratus sed execratus episcopus ...)25. Allorché Paol(in)o scomunica questo dignitario bizantino, che doveva ovviamente trovarsi ad Aquileia, il papa interviene verso la fine di marzo inasprendo il tono e ricorrendo a concrete minacce: nella lettera indirizzata al patrizio Valeriano il pontefice riporta in tono polemico le ragioni del duro intervento26, né manca di sollecitare il patrizio Giovanni a prendere misure più aspre contro lo scismatico usurpatore della sede vescovile (Aquileiensis ecclesiae inuasor)27. Di tenore analogo sono anche le altre lettere papali inviate nell’aprile del 559 ai patrizi Valeriano28 e Narsete e ad altri dignitari per reprimere i vescovi in altre parti dell’Italia29. Negli anni della pressione sul patriarca aquileiese, Venanzio Fortunato si trovava a Ravenna, allora rivale di Aquileia: il vescovo Agnello 367

stava decisamente dalla parte del papa che inoltre non mancò di sollecitare i dignitari laici di quella città ad agire con decisione contro Paolo. Dopo le lettere del papa del 559, le fonti su Paol(in)o tacciono fino alla calata dei Longobardi nove anni più tardi. Cosa succedesse al patriarca nel periodo 559-565 quando Fortunato si trovava a Ravenna non è noto ma è altresi evidente che lo “scismatico” riuscì a resistere alle pressioni di Ravenna e Roma se è proprio lui quello che di fronte al pericolo longobardo e nell’assenza assoluta del potere laico presiede al trasferimento del centro ecclesiastico e quindi anche della maggior parte della popolazione da Aquileia a Grado30. Tra le reliquie di un notevole numero di martiri che stando alla tradizione posteriore vennero traslate dopo il ritiro dei Longobardi dalla città abbandonata a Grado, si fa menzione di quelle dei martiri del gruppo dei Canzii, non però delle reliquie del martire Fortunato31. Dopo la conquista e la distruzione da parte dei Longobardi, Aquileia era rimasta deserta, i frutti della parziale ricostruzione cancellati. L’anno seguente il patriarca Paol(in)o muore a Grado dopo un pontificato dodecennale in circostanze non chiarite32. Sembra che dopo la sua partenza per la Gallia il poeta non avesse notizia alcuna da Aquileia. Nel periodo in cui furono scritti i due brani su Aquileia Paol(in)o era morto da vari anni e il centro ecclesiale si trovava a Grado. Qui, e non più ad Aquileia, sono custodite le reliquie dei martiri del gruppo dei Canzii mentre per quelle del martire Fortunato si perde temporaneamente qualsiasi traccia. L’Aquileia longobarda degli anni settanta del VI sec., gravemente danneggiata, non era né avrebbe potuto essere una meta di pellegrinaggio quando la maggior parte delle reliquie dei martiri del luogo si trovava a Grado.

b. Venanzio e le chiese nella Venetia

Per la Venetia Venanzio riferisce di tre chiese: Concordia, Treviso e Padova. Quanto a Concordia lo scritto del poeta riguarda soltanto la venerazione dei santi33 e non riporta alcuna reminiscenza al periodo contemporaneo per cui è di scarso interesse per la nostra trattazione tanto più che è ignoto anche il vescovo di quella sede negli anni sessanta del VI sec. Del tutto diversa è la menzione di Treviso, diocesi natale del Venanzio. Qui il poeta non pensa tanto a riferire sul culto 368

del santo locale quanto del concittadino, amico e compagno di studi a Ravenna, Felice, assieme al quale aveva sperimentato una guarigione miracolosa davanti all’immagine di s. Martino34. L’inlustris socius del poeta, Felice, sceglie un’altra strada. Non si sa quando, ma quasi di sicuro dopo il loro commiato alla partenza di Fortunato per la Gallia (565), diventa vescovo nella natia Treviso. Se era coetaneo di Fortunato (e quindi nato attorno al 535) aveva raggiunto alla nomina a vescovo (non molto dopo il 565) i trent’anni (e giù di lì), ma comunque troppo pochi per poter secondo la legislazione del tempo assumere la dignità vescovile35. Quanto durasse il suo pontificato non si sa. Dopo la sorprendente assenza della chiesa trevigiana dal Sinodo di Grado (579), il successore Rustico è menzionato soltanto per il periodo del Sinodo di Marano (590), il vescovo successivo, anch’egli Felice, menzionato un anno più tardi nella lettera dei vescovi veneziani all’imperatore Maurizio, non è ovviamente da identificare con l’amico di gioventù di Fortunato. Quel Felice doveva avere una personalità vigorosa e decisa se nell’estate del 568 all’avvicinarsi dei Longobardi, unico tra i vescovi italici affronta temerariamente gli invasori andando personalmente incontro ad Alboino da cui riesce ad ottenere la promessa scritta che i Longobardi avrebbero risparmiato le proprietà ecclesiastiche36. In tal modo riuscì a salvare, almeno per un certo tempo, la propria comunità dal destino toccato a tante altre al passaggio sotto il dominio longobardo. Così Felice diventò in effetti il predecessore di quei vescovi scismatici del VII sec. che con la protezione del potere longobardo riuscirono a evitare la pressione religiosa dei papi e di Bisanzio e a resistere nello scisma fino al 698. Di lui non riferisce alcuna altra fonte. Visto l’atteggiamento dell’intera chiesa metropolitana aquileiese, Felice deve aver aderito allo scisma dei Tre Capitoli come tutti gli altri sodali delle Venezie e come i successivi due vescovi di Treviso conosciuti, Rustico (590) e Felice [II] (591)37. Alquanto più ampiamente Venanzio parla della chiesa padovana dove troviamo come per Aquileia ambedue gli elementi: venerazione del santo e menzione di un autorevole contemporaneo e conoscente38. Anche questa località era ovviamente ben nota a Venanzio Fortunato se cita un particolare di quella chiesa oltre a conoscerne il vescovo Giovanni per cui peraltro usa di rado l’attributo “eccelso” (celsus Iohannes)39. Data la poca chiarezza dell’espressione e il fatto che Giovanni non viene menzionato in nessun’altra fonte, non sappiamo di lui praticamente niente40. Insolito e 369

perciò difficilmente comprensibile è l’ultimo verso: il saluto del libro di Venanzio vada anche “ai figli di Giovanni, nostri soci per il tramite della poesia”. Col che un nuovo quesito resta senza risposta. Affatto insolito e in sostanza contrario alle leggi in vigore sarebbe per quel tempo il caso di un vescovo dello stato bizantino che prima di assurgere al soglio vescovile fosse sposato e con prole41. I versi che si riferiscono a Padova non forniscono alcun dato riconducibile al rapporto del poeta nei confronti dello scisma dei Tre Capitoli. Il seguente vescovo padovano conosciuto Virgulus o Bergullus partecipa al Sinodo di Grado (579) in veste di vescovo del patriarcato scismatico di Aquileia42. Come pare, l’elezione dei due nominati vescovi della Venetia nella metropoli scismatica di Aquileia non era conforme alla legislazione giustinianea. I due vescovi sunnominati, il primo dei quali era (probabilmente) troppo giovane, il secondo invece sposato e con prole, non trascendevano in modo eccessivo i limiti dell’assetto giuridico. Questi due casi non erano comparabili con il caso del loro collega e coetaneo vescovo Eufrasio di Parenzo il quale sarebbe stato a detta del papa Pelagio I colpevole di gravissimi delitti, per i quali la legislazione giustinianea prevedeva la pena di morte43.

c. I vescovi di Venanzio Vitale e Giovanni: loro provenienza e presa di posizione nella controversia dei Tre Capitoli

Mentre le menzioni dei vescovi di Aquileia e di Padova nella Vita s. Martini sono ben definibili quanto al luogo e al tempo, la presentazione di altri due vescovi italici, Vitale e Giovanni, è poco chiara e offre il destro a spiegazioni contrastanti. I due vescovi compaiono nelle due poesie della produzione venanziana, le uniche a essere indubbiamente scritte in terra italica. La prima è indirizzata al vescovo “ravennate” Vitale, l’altra descrive la chiesa di s. Andrea da lui eretta e arricchita dal sodale Giovanni di preziose reliquie. Controversa risulta la spiegazione di quel vescovo “ravennate”44. Dato che la tradizione della chiesa ravennate per il periodo in questione non fa menzione di alcun vescovo di nome Vitale – durante il soggiorno di Venanzio nelle Venezie e a Ravenna la chiesa di quest’ultima era stata retta da Massimiano (546-557)45 e Agnello (557-569/70)46 – la menzione di un terzo vescovo diede la stura a varie spiegazioni che si escludevano a vicenda. Ci sia concesso di pre370

sentare brevemente il contenuto dei due componimenti. Nel primo47 il poeta presenta il citato vescovo al superlativo descrivendone la magnifica impresa, l’erezione della chiesa di s. Andrea, a detta di Venanzio un edificio di straordinaria bellezza e splendore di mosaici48. Nella costruzione hanno ben meritato anche due non meglio identificati egregii viri che il vescovo era riuscito a interessare all’impresa: il comandante militare (dux ... armis) e un alto magistrato o funzionario dell’amministrazione (praefectus legibus)49. Il poeta chiude il componimento con toni solenni da inno esprimendo l’auspicio che Vitale possa erigere altri templi divini (Dei ... templa). Il secondo componimento50, che conta come il primo 28 versi, ricorda le iscrizioni in versi sulle chiese del VI sec. quali si conservano a Parenzo, Grado, Ravenna e altrove nell’area norditalica51. Dopo i versi introduttivi (1-6) che ancora celebrano il Vitale costruttore della chiesa di s. Andrea, sono presentati i santi le cui reliquie (veneranda viscera, viscera sancta) si custodiscono nella chiesa. Quale persona che più ha meritato per la loro acquisizione si cita un “buon vescovo Giovanni” (bonus antistes ... Iohannes) che queste reliquie su sollecitazione del vescovo Vitale avrebbe seppellito al posto d’onore (egregio loco), evidentemente nell’altare52. Le reliquie di ben sette santi singoli (tre apostoli, tre martiri, un asceta e vescovo) e di un gruppo di martiri (un vescovo-martire coi tre accompagnatori) sono brevemente presentate dal poeta per provenienza e modalità della morte. Sono: gli apostoli Pietro, Paolo e Andrea, i martiri romani Lorenzo e Cecilia, il martire bolognese Vitale, l’asceta e vescovo gallico Martino, il vescovo e martire tridentino Vigilio, i martiri Marturio, Sisinnio e Alessandro53. L’elenco delle reliquie coincide in notevole misura con quelle di cui disponeva allora la chiesa ravennate e che la tradizione locale vuole traslate nella chiesa di s. Stefano dal vescovo Massimiano54. Chi si cela dietro ai quattro contemporanei di Venanzio (due vescovi e due dignitari laici) che vengono menzionati nei due componimenti: il vescovo Vitale a cui è indirizzata la poesia e il suo collega Giovanni nonché i due non meglio specifiati dignitari, un militare e un civile? Nel cercare la risposta al quesito il rilievo era ovviamente dato a Vitale, mentre l’individuazione degli altri personaggi era subordinata alla spiegazione del primo. A quanto ci è dato di sapere, gli studiosi hanno fornito almeno quattro spiegazioni circa la sua provenienza e ambedue le possibili spiegazioni sulla 371

sua posizione politico-religiosa (seguace dello scisma dei Tre Capitoli o suo avversario). Dietro Vitale si celerebbe un vescovo (1) ravennate, (2) milanese, (3) altino-aguntese o (4) istriano. Ci sia permesso di presentarli brevemente riservandoci di dedicare più attenzione alle ultime due spiegazioni. La spiegazione di più antica data dice ovviamente trattarsi di un vescovo ravennate come indicato dal poeta stesso nei due componimenti. Fermo restando che secondo la tradizione della chiesa ravennate nel periodo in questione non era noto alcun Vitale, si sono suggerite due possibili soluzioni al problema. Secondo la prima, dietro questo nome si celerebbe il vescovo Massimiano (546-557), personalità di spicco della chiesa ravennate, oriundo dalla diocesi di Pola in Istria che Giustiniano aveva elevato alla prestigiosa sede e che ai tempi della controversia sui Tre Capitoli era considerato personaggio centrale della politica religiosa dell’imperatore in Italia55. I patrocinatori di questa tesi riportavano a riprova il fatto che la tradizione locale attribuisce proprio a Massimiano il restauro della chiesa di s. Andrea a Ravenna. Un’impresa cui avrebbero potuto collaborare le massime autorità civili e religiose dell’Italia del tempo: così il dux armis sarebbe Narsete, il “buon vescovo Giovanni” papa Giovanni III (561-574) in persona56. Un’ipotesi oggi respinta in quanto fondata su premesse affatto fragili e improbabili57. Massimiano non appare in nessun luogo con l’attributo “Vitalis” che non troviamo neanche in nessuna delle sue iscrizioni edilizie; a Ravenna c’era già la chiesa di s. Andrea che Massimiano restaurò e a cui fece dono delle reliquie dell’apostolo Andrea per cui non potrebbe in nessun caso ricoprire il ruolo di edificatore a fundamentis ad dedicationem bensì, nel migliore dei casi, quello del “buon vescovo” Giovanni58. Il quale ultimo non è menzionato in nessuna fonte ravennate del tempo. Una base più concreta alla tesi secondo cui nel caso di Vitale si tratterebbe realmente di un vescovo ravennate è stata data da Ernst Stein59. Dopo ripetute analisi delle fonti sulla storia della chiesa ravennate della metà del VI sec. in cui non si fa menzione di alcun Vitale e di fronte al (supposto) iato cronologico di più di due anni tra la morte di Massimiano (secondo Stein 554 ca.) e la nomina di Agnello (23 giugno 557) lo Stein suggerisce che in questo periodo reggesse la sede ravennate proprio il Vitale cantato da Venanzio Fortunato. Il suo pontificato, peraltro di scarso rilievo e perciò appena avvertito (nella tradizione ravennate 372

“dimenticato”), potrebbe cadere nel periodo successivo a Massimiano in quanto appena quest’ultimo riesce ad avere dalla capitale le reliquie dell’apostolo Andrea. Stando a questa spiegazione Vitale sarebbe il vescovo cattolico (antiscismatico), il dux ... armis menzionato da Venanzio invece Narsete. Tesi che, malgrado l’indiscutibile autorevolezza del proponente, è accolta nella maggioranza dei casi con varie riserve quale probabile o almeno possibile soluzione del problema60. L’ipotesi secondo cui dietro al Vitale venanziano si nasconderebbe l’omonimo vescovo scismatico di Milano (552/3-556/7) è stata data come soluzione possibile senza essere sufficientemente comprovata61. Benché sia il nome in oggetto sia la cronologia del pontificato del vescovo milanese Vitale sembrino corroborarla, tale ipotesi a noi pare poco fondata. Non è noto che Venanzio Fortunato intrattenesse rapporti con l’area milanese dove inoltre niente si sa dell’erezione della chiesa di s. Andrea. Una terza supposizione vuole che dietro a questo vescovo si nasconda il presule di Altino Vitale che dopo la vittoria bizantina sui Goti e la cacciata dei Franchi dall’Italia del Nord, “molti anni” prima del 565 si rifugiò nel regno franco e precisamente ad Agonthiensem civitatem (più probabilmente ad Aguntum che a Magonza). Il generale bizantino Narsete lo avrebbe fatto prigioniero l’anno della morte di Giustiniano e dell’elevazione di Giustino II al soglio, quindi nel 565, e punito confinandolo in Sicilia62. Vitale sarebbe stato un vescovo filofranco e pertanto avversario dei Bizantini e di conseguenza partigiano dello scisma dei Tre Capitoli. La fuga di Vitale in territorio franco si potrebbe ricondurre alle vittorie di Narsete sui Franchi, battuti definitivamente nel 561/3, e alle misure da lui prese contro i vescovi scismatici63. Dati gli intimi legami fra Vitale e Venanzio, il presule sarebbe stato persino “primo patrono di Venanzio Fortunato” che l’anno della cattura da parte dei Bizantini e la conseguente punizione del questo vescovo si sarebbe ritirato in Gallia, avrebbe visitato strada facendo Agunto dove sembra avesse soggiornato per “molti anni” il suo patrono e sodale Vitale64. Come aveva fatto prima il vescovo di Altino, anche il poeta avrebbe più tardi ripiegato dal territorio bizantino in quello franco per motivi politico-religiosi, anzi di più: grazie alla frequentazione di Vitale Venanzio avrebbe ricevuto lettere di raccomandazione che gli aprivano l’accesso alle alte sfere laiche ed ecclesiastiche del regno merovingio65. Questa spiegazione trova vari patrocinatori ma nondime373

no, dato e non concesso che il vescovo “ravennate” si possa identificare con quello di Altino, contiene alcuni punti dubbi. Così non vi troviamo elementi a sostegno dell’identificazione del secondo vescovo e coetaneo di Vitale, Giovanni, che alla chiesa aveva fatto dono di molte preziose reliquie e doveva pertanto avere un qualche rapporto con qualcuno dei più importanti centri ecclesiali quali Ravenna, Milano od Aquileia66. Né vi sono elementi affidabili anche per la spiegazione dei non meglio identifiati dignitari laici (dux ... armis, praefectus legibus)67. Non si sa neppure di opera edile ad Altino rapportabile al contesto in questione68. Nella zona di Agunto in territorio franco dove si rifugiò il presule di Altino non vi è edificio comparabile con la descrizione di Venanzio. Nella stessa Agunto (Lienz-Patriasdorf) sono stati scoperti sotto il pavimento della pieve dedicata all’apostolo Andrea (!) resti di una chiesa paleocristiana del V-VI sec., pur tuttavia non va dimenticato che l’inizio del patrocinio è da collocarsi con fondatezza appena nel periodo carolingio e che gli stessi resti della chiesa denotano un edificio sacro ben più modesto. Inoltre l’Agunto venanziana non è evidentemente identificabile con la città romana di Lienz bensì con la fortezza alpestre di Kirchbichl a monte di Lavant, a sudest dell’antica città. E ancora: non possiamo immaginare che Vitale vescovo profugo in veste di ospite del vescovo di Agunto (di cui le fonti tacciono) abbia potuto erigere in proprio una chiesa così prestigiosa come quella descritta da Venanzio69. A conclusioni affatto diverse riconduce l’ipotesi secondo la quale Vitale sarebbe un vescovo istriano ortodosso, spiegazione che non si fonda sull’identità col nome di un vescovo noto da altre fonti (come il Vitale di Altino o il Vitale di Milano) ma sulla diffusione sul territorio dell’Istria bizantina di chiese dedicate all’apostolo Andrea. Tale spiegazione si basa sulla provenienza istriana del vescovo ravennate Massimiano e sul tentativo di quella chiesa di allargare la propria sfera nell’Istria (meridionale). Su decisione dell’imperatore Giustiniano, papa Vigilio consacra vescovo di Ravenna Massimiano (546-556), oriundo della diocesi di Pola, nella greca Patrasso, luogo del martirio di s. Andrea70. Da allora in poi Massimiano sarà un fedele ancor più assiduo dell’apostolo e nella veste di presule della chiesa ravennate deciso fautore dell’ortodossia. Da istriano e quale vescovo ortodosso Massimiano si impegna a rafforzare, col sostegno del potere politico bizantino, la propria posizione in Istria. Nel 548 dopo che fu risolta una 374

controversia circa il possesso di un bosco a Vistro nei pressi di Rovigno (suo presunto luogo natio), ricevette da Giustiniano tutta l’area in duraturo possesso della chiesa ravennate71, quindi eresse a Pola l’imponente chiesa di S. Maria Formosa e il vescovado72. Secondo un atto di donazione di dubbio valore datato 21 febbraio 546 (?), Massimiano avrebbe fatto preziosi doni al monastero di s. Andrea sull’isoletta all’imbocco del porto e alla ricordata chiesa mariana di Pola. La donazione sarebbe stata autenticata dalle firme del vescovo di Aquileia Macedonio, di Trieste Frugifero, di Pola Isacio, nonché dai vescovi Germano e Teodoro di ignota provenienza73. L’atto di donazione che si conservò in una copia rinvenuta appena nel 1657 contiene oltre a dati non verificabili anche altri scorretti come ad esempio la data (anno) della scrittura, se Massimiano fu consacrato appena il 14 ottobre dello stesso anno. Nondimeno lo scritto riporta anche dati confermati da altre fonti, specie per quanto riguarda l’impegno della chiesa ravennate ad allargare la propria influenza nell’Istria meridionale. La presenza di un monastero di s. Andrea all’isola alle porte di Pola è confermata dalle ricerche archeologiche74 e da documenti scritti risalenti al 1000 circa75. Oltre alla chiesa mariana e al monastero di s. Andrea a Pola, Massimiano avrebbe eretto un secondo monastero di s. Andrea sull’isola di Serra presso Rovigno, come confermato dai reperti archeologici (nelle fonti scritte se ne fa menzione appena verso la metà del IX secolo)76. Per cui all’impegno del nostro vescovo ravennate si deve la costruzione di tre edifici sacri nell’Istria meridionale77. Un ulteriore elemento di chiarificazione del problema del ruolo della chiesa ravennate nell’erezione delle chiese istriane dedicate all’apostolo Andrea è stato portato dalle ricerche archeologiche condotte negli anni 1975-1977 nell’area del complesso monastico di s. Andrea a Betica presso Barbariga (pressappoco a metà strada fra Pola e Rovigno) che hanno portato alla luce un centro paleocristiano risalente al periodo dalla metà del V alla fine del VI secolo e da cui sarebbe sorto un monastero78. Questo centro ecclesiale, forse identificabile con l’istriana Cissa79, era dedicato a s. Andrea e si distingue per ricchezza di suppellettili. Nella cappella trilobata e con altare-tomba erano conservate le reliquie di santi purtroppo non nominati. Si è scoperta così una terza chiesa paleocristiana dedicata a s. Andrea e ubicata in un’area relativamente esigua fra ambedue le chiese isolane, quella sull’isolotto prospiciente Pola e l’altra sull’iso375

la nei pressi di Rovigno. La descrizione fornitaci da Venanzio Fortunato riporta taluni elementi che si potrebbero ricollegare con quest’ultima chiesa (ricchi mosaici, reliquie dei santi nell’altare-tomba) mentre sono presenti anche talune incoerenze: la basilica col pavimento musivo fu costruita nella prima metà o verso la metà del V secolo, quindi un intero secolo prima della poesia di Venanzio, il battistero e la futura eventuale ornamentazione dell’altare-tomba sono della metà del VI secolo80. L’incoerenza cronologica di un secolo Branko Marusˇic´ cercò di spiegarla con l’ipotesi per cui Venanzio avrebbe presentato Vitale quale costruttore dell’intero complesso che andò poi gradualmente trasformandosi nell’arco di più di cent’anni. A suo giudizio, dietro il costruttore del complesso di Betica si celerebbe il bonus antistes Johannes, presumibilmente primo vescovo (ortodosso) di Cissa81 mentre il suo supposto successore Vindemio, che partecipò al sinodo di Grado, sarebbe passato nel campo scismatico. Nel contesto di ambedue le poesie di Venanzio Fortunato l’evoluzione delle chiese sudistriane del tempo acquisterebbe in tal modo un’immagine chiara82. La definizione di “vescovo ravennate” per Vitale potrebbe intendersi in senso traslato come indicazione di vescovo ortodosso che attuava una politica ecclesiastica “ravennate” nello spirito dell’impegno del vescovo Massimiano. I due vescovi cattolici dell’Istria Vitale e Giovanni avrebbero operato quali esponenti della chiesa di Ravenna concordemente coi rappresentanti della politica ufficiale bizantina come i non meglio definiti dux armis e praefectus legibus. Loro campo d’azione sarebbe stata l’Istria meridionale e ambedue avrebbero dimorato nell’area della diocesi di Pola83. L’affermazione della chiesa ravennate in Istria sarebbe provata anche da elementi ravennati nella liturgia (nel 559 papa Pelagio I insistè perché nel canon missae venissero inclusi su tutto il territorio della chiesa aquileiese soltanto i nomi del pontefice e del vescovo di Ravenna!)84 nonché dal ruolo della chiesa ravennate nei decenni successivi, quando la capitale dell’Italia bizantina diventa il centro della lotta contro lo scisma dei Tre Capitoli. Attorno agli anni 585/6 Pelagio II impone al patriarca scismatico Elia e ai suoi suffraganei di venire, se paventassero il lungo viaggio a Roma, a Ravenna per incontrarvisi con lui85, attorno al 588/590 l’esarca Smaragdo porta con la forza il patriarca Severo e i suoi tre suffraganei istriani a Ravenna per costringerli a passare al cattolicesimo86. Ancora nel 599 Gregorio Magno di fronte ai 376

fatti dell’insula Capritana pone l’isola capodistriana sotto la giurisdizione della chiesa ravennate dove rimarrà fin quando i vescovi scismatici non saranno ritornati in grembo all’ortodossia87. Le ricerche archeologiche compiute a Betica aggiungono un nuovo elemento suscettibile di approfondire l’interpretazione delle poesie di Venanzio. La venerazione di s. Andrea nell’Istria meridionale e la presenza di chiese a lui dedicate (due monastiche e una presumibilmente diocesana) sono così confermate con molta probabilità su un’area relativamente piccola della diocesi di Pola già nel VI sec. e in ben tre casi. Naturalmente le scoperte archeologiche non sono in grado di rispondere in maniera affidabile al quesito se si tratta della stessa chiesa menzionata da Venanzio. Se dietro la descrizione venanziana della chiesa di s. Andrea si cela una delle chiese istriane (quella sull’isolotto prospiciente Pola o quella di Betica) insorge il problema se Venenzio sia andato in Istria e abbia visto la costruzione in oggetto, dato che la descrizione mostra una buona conoscenza dell’edificio. Pertanto ricollegare l’ignoto costruttore del complesso di Betica col vescovo venanziano Giovanni in veste di primo presule di Cissa (560 ca.) è possibile soltanto a livello di ipotesi88. Il carattere dubbio di tale conclusione è ulteriormente rafforzato dal fatto che la traslazione delle reliquie di s. Andrea o la consacrazione all’apostolo delle chiese istriane (quindi nell’area facente capo alla chiesa aquileiese) non possono necessariamente essere rapportate all’attività del vescovo ravennate Massimiano. Le reliquie dell’apostolo Andrea erano presenti nell’Aquileiese fin dal 400 ca. quando se ne fa menzione a Concordia ed Aquileia89, mentre un’altra chiesa dedicata al Santo sarebbe stata consacrata secondo la tradizione posteriore dal patriarca scismatico Elia (571-586 ca.)90. Nello spirito della tesi “istriana” circa il vescovo Vitale e il suo collega Giovanni quali esponenti dell’arcivescovo ravennate Massimiano (o del suo successore Agnello), il rapporto del poeta nei confronti dello scisma dei Tre Capitoli si presenterebbe in una luce affatto dubbia, se nel menzionare i quattro (o cinque) vescovi italici (Paolo di Aquileia, Felice di Treviso [divenuto vescovo dopo 565], Giovanni di Padova nonché Vitale e Giovanni di non definibile provenienza) usa attributi oltremodo rispettosi91 senza peraltro accennare minimamente alla loro eventuale presa di posizione nella controversia religiosa del tempo provocata dalla politica giustinianea nel campo religioso. Da altre fonti 377

veniamo a sapere che il primo era un corifeo degli scismatici, i due successivi probabilmente suoi seguaci. Di Vitale e Giovanni non si sa niente di sicuro: se fosse valida la tesi “altino-aguntese” risulterebbero vescovi scismatici anche questi due; nel caso della validità della tesi “istriana” il poeta esprimerebbe il suo attaccamento ai due vescovi dell’Istria meridionale, partigiani del vescovo ravennate Massimiano e di conseguenza anche della politica religiosa di Giustiniano. Le due ipotesi si escludono a vicenda per il fatto che portano a conclusioni contrastanti sulla personalità del poeta e sui motivi della sua partenza per il regno franco. Nel periodo anteriore alla partenza del Venanzio per la Gallia le tensioni presenti nel Norditalia bizantina si manifestano in primo luogo attraverso le polemiche politico-religiose nella pubblicistica (corrispondenza di papa Pelagio I) e solo in singoli casi in forma di violenza fisica (intervento di Narsete contro il vescovo di Altino Vitale rifugiatosi in territorio franco e sua condanna col bando). L’indicazione rispettosa ma ideologicamente “neutra” usata dal poeta per i vescovi mostra che negli anni successvi allo scoppio aperto del dissidio (557) ci si poteva “distanziare” dai drammatici eventi e dai loro protagonisti92, cosa che più tardi fu sempre più difficile e una generazione dopo (588-591 ca.), quando la controversia assume forme di violenza fisica93, assolutamente impossibile.

d. La descrizione di Venanzio del dissidio sui Tre Capitoli

Il rapporto del poeta nei confronti dello scisma dei Tre Capitoli è presentato nel modo più palese nella poesia di ringraziamento indirizzata al successore di Giustiniano Giustino II (565-578) e alla sua consorte Sofia dopo che i sovrani ebbero esaudito la preghiera della protettrice del poeta Radegonda e le ebbero fatto dono di reliquie della Santa Croce. I fatti che fanno da sfondo al componimento (preghiera di Radegonda rivolta ai sovrani bizantini previo assenso del re Sigiberto, missione e quindi traslazione delle reliquie e loro solenne arrivo a Poitiers, ringraziamento alla coppia imperiale) sono collocabili negli anni 569/570 al più tardi94. Per quanto taluni attribuissero, senza solide basi, la paternità della poesia in oggetto alla stessa Radegonda, possiamo senza ombra di dubbio giudicarla opera di Venanzio95. Nei 100 versi della gratiarum actio il poeta enumera in tono panegirico le virtù della coppia imperiale para378

gonata a quella di Costantino e della madre Elena (v. 65-68). Il poeta accenna pure al rapporto dell’imperatore nei confronti dell’allora oltremodo attuale controversia sui Tre Capitoli non mancando di ribadire ripetutamente la propria assoluta fedeltà al Concilio di Calcedonia e alla posizione delle chiese d’Occidente. Nei versi introduttivi (vv. 1-10) dichiara in forma poetica la parte essenziale del proprio “credo”, il reciproco rapporto fra le persone della SS. Trinità che concorda con la formula calcedoniana del credo96. Nel prosieguo (vv. 11-22) esprime il plauso per l’atteggiamento dell’imperatore “che segue la dottrina promulgata dal trono di Pietro” (cioè papale). Alla parte introduttiva succede un’interessantissima descrizione della controversia ecclesiale che sarebbe stata eliminata con l’intervento di Giustino II. Il quale avrebbe ribadito la validità delle conclusioni del Concilio di Calcedonia per cui viene magnificato dal poeta quale restauratore del credo calcedoniano97, cioè del credo su cui insistevano a giurare i partigiani dello scisma dei Tre Capitoli98. Per questi il concilio rappresentava il presupposto ideologico del loro distacco dalla chiesa cattolica, laddove la revisione parziale delle sue decisioni ad opera di Giustiniano ne costituiva la causa immediata99. Il Concilio di Calcedonia ebbe sempre un posto centrale nella polemica antiscismatica dei papi Pelagio I, Pelagio II e Gregorio Magno che tornavano a ripetere non aver Giustiniano in nessun modo fatto violenza al credo calcedoniano, le cui decisioni trovano consenzienti anche loro stessi100 o, come si espressero direttamente papa Pelagio II e successivamente Gregorio Magno, le questioni controverse erano superflue101, il motivo dello scisma dunque futile102. Il poeta evita di menzionare l’imperatore Giustiniano e la sua politica religiosa e specialmente le decisioni del V concilio ecumenico. L’espressa glorificazione del nuovo imperatore Giustino II con l’accento sulle essenziali novità positive della sua politica getta già di per sé ombra sulla politica religiosa del predecessore e fa presupporre al minimo un rapporto critico di Venanzio nei suoi confronti. Per quanto Venanzio fosse cresciuto, educato e maturato sotto il regno di Giustiniano, l’imperatore non è da lui mai menzionato come non si fa menzione dei papi suoi contemporanei (Pelagio I, 556-561 e Giovanni II, 561-574) anch’essi avversari dei Tre Capitoli103. L’atto più importante del nuovo sovrano, una volta salito al soglio, fu la revoca della pena del bando per tutta una serie di vescovi espulsi in base agli editti giustinianei. Un’azione a cui il poeta attribuisce importanza e portata 379

eccezionali104. A questo proposito va rilevato che le altre fonti danno al provvedimento un rilievo molto più modesto: la revoca della pena per i vescovi banditi è menzionata soltanto dal contemporaneo Euagrio e su questa scorta se ne ha una annotazione posteriore105, mentre la breve nota di un contemporaneo cronista spagnolo è affatto generica e si presta alle più svariate interpretazioni106. La tradizione delle fonti non attribuisce al fatto l’importanza datagli da Venanzio (le fonti più esaustive del tempo non ne fanno neppure menzione). In effetti la politica religiosa del nuovo imperatore era moderata e la sua rottura col periodo giustinianeo neanche lontanamente radicale107. Il ritorno all’ortodossia sul trono imperiale avrebbe provocato un grande entusiasmo in tutto l’Occidente, entusiasmo che il poeta descrive in due cataloghi, “geografico” il primo coi nomi dei fiumi, dei paesi e dei popoli dell’Occidente108, etnografico il secondo in cui sono elencati i popoli che si rallegrano per il cambiamento109. Ambedue i cataloghi differiscono notevolmente per ambito geografico. Il primo catalogo è decisamente “occidentale”. I riferimenti riportativi riguardano tre paesi. In primo luogo la Gallia o meglio l’intero stato merovingio dato che dei quattro fiumi che segnano questo paese (Rodano, Reno, Danubio ed Elba)110 gli ultimi due rimandano al territorio degli Alemanni, dei Bavari e Turingi (presso il fiume Elba) che i Franchi avevano sconfitto più di tre decenni prima (Alemanni già 506/507, Turingi e Bavari 531/534 ca.) e che nella raffigurazione dei contemporanei erano parte integrante della Germania e non della Gallia111. Il riferimento successivo riguarda la Galizia spagnola, quindi l’entità statale cattolica dei Suebi popolata anche da Baschi e Cantabri; l’ultimo parla della Britannia oltremare. Genericamente parlando possiamo dire che le misure giustinianee contro i partigiani dei Tre capitoli, specie il bando dei vescovi, non toccarono direttamente queste terre che nella controversia restarono o passive (ad es. la Britannia) o genericamente neutrali; il loro coinvolgimento nella controversia fu breve, soltanto parziale, fondato sulle informazioni scarse ovvero sulla ignoranza del contenuto teologico della controversia, e per questo senza effetti importanti o durevoli (stato franco e chiesa spagnola). In tal caso è evidente l’aver il poeta esagerato nella maniera della poesia panegirica. Tuttavia il suo parere non fu del tutto isolato. Un’affermazione similmente esagerata fu espressa già prima di lui dal vescovo Nicezio di Treviri nella sua lettera a Giustiniano112 e anche due decenni più tardi 380

nella lettera all’imperatore Maurizio (591) i vescovi scismatici della Venetia supponevano che la condanna dei Tre Capitoli colpiva le totius mundi ecclesias113. Il secondo catalogo offre un quadro ben più concreto e preciso dell’area interessata alla politica religiosa di Giustiniano: Tracia, Italia, Scizia, Frigia, Dacia, Dalmazia, Tessaglia e Africa, dunque l’area balcanico-danubiana, Italia, Africa, in parte anche le terre greche e l’Asia Minore. In quattro degli otto paesi menzionati (Dacia, Dalmazia, Italia e Africa) la resistenza alla politica di Giustiniano è forte e (specie in Africa) vari vescovi del luogo vengono deposti e banditi per poter farvi ritorno all’ascesa al trono di Giustino II. Pochissimo o niente si sa della resistenza a tale politica nella diocesi tracia (Tracia, Scizia) e poi in Tessaglia e Frigia. L’inserimento di queste terre nell’elenco è possibile soltanto se il poeta aveva in mente anche altre controversie religiose del periodo giustinianeo (negli ultimi anni del suo regno specie l’aftartodocetismo che provoca l’intervento imperiale nell’organizazzione ecclesiale) che potevano interessare, almeno parzialmente, anche i paesi citati sopra114. Comunque possiamo dire che i due “cataloghi” di Venanzio sulle terre e sui popoli colpiti dalla politica religiosa di Giustiniano non sono in pieno prodotto della fantasia del poeta ma, esagerazioni a parte, corrispondono in notevole misura alla situazione concreta. Il poeta che al momento in cui stila le poesie si trova da circa cinque anni in Gallia, deve ovviamente aver conosciuto bene gli effetti della politica religiosa dell’imperatore antecedente. Il suo entusiastico panegirico di Giustino II è espressione del rifiuto o almeno di una critica indiretta della politica del predecessore, specie nella parte di importanza capitale per l’Occidente: la pressione esercitata sui partigiani dei Tre Capitoli.

e. Il “credo” di Venanzio

Le concezioni teologiche di Venanzio, che il poeta espone ripetutamente nelle sue opere in poesia e in prosa, non sono in grado di fornire alcun dato affidabile sul suo rapporto nei confronti dello scisma aquileiese. Durante il soggiorno di Venanzio in Italia, dunque fino al 565, la chiesa scismatica aquileiese non sviluppò una sua teologia specifica donde si potrebbe ricavare la distinzione fra il Concilio di Calcedonia e il il Concilio di Costantinopoli, né si sono conservati i testi che potrebbero farvi da base. La posteriore e 381

pertanto inaffidabile ricostruzione del credo del Sinodo di Grado, di cui riferisce appena Dandolo, è per contenuto una formula alquanto semplificata del Concilio di Nicea, confermata e completata nei successivi concili ecumenici, compreso quello di Calcedonia (451) e quindi priva di tratti originali di sorta115. L’interpretazione dei monumenti materiali (ad es. la composizione musiva della basilica eufrasiana di Parenzo o le chiese paleocristiane del Norico del VI sec.) cui sarebbe affidata l’espressione di un “programma” teologico degli scismatici è possibile solo in chiave di ipotesi116. Nelle condizioni di separazione dalla chiesa cattolica e di polemica coi papi relativa alle questioni teologiche allora di attualità, i patriarchi aquileiesi si sforzarono di acquisire la relativa letteratura teologica per approfondire le proprie conoscenze in materia. Gli scritti del VII sec. sul periodo della controversia monotelita e sull’ultimo periodo dello scisma aquileiese mostrano, che nel patriarcato di Aquileia erano diffusi gli scritti dei teologi orientali le cui opere erano all’origine di tali controversie (i teologi pronestoriani o diofisiti Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro, Iba di Edessa, forse anche lo scrittore monofisita Severo di Antiochia) e gli altri scritti di importanza per la chiesa scismatica (Facondo di Ermiane, atti del concilio di Calcedonia nella versione latina del Rustico Diacono etc.)117. Pur tuttavia per il primo periodo dello scisma per gli anni anteriori alla partenza di Venanzio per la Gallia (565) non vi sono conferme della presenza di uno specifico “programma teologico” scismatico. Non va dimenticato che i contatti del poeta con la patria dopo la partenza per la Gallia si diradarono118. I testi in cui Venanzio esprime le proprie convinzioni teologiche furono scritti in Gallia nel periodo dal 570 ca. (poesia in onore di Giustino II) fino ai tardi anni della sua produzione (componimento in onore della Vergine, commenti in prosa al credo)119, per cui non poterono essere stilati sotto l’influsso della situazione nella patria del poeta e per di più non riflettono affatto il rapporto di Venanzio nei confronti della controversia religiosa. La presentazione della SS. Trinità nell’introduzione alla poesia di ringraziamento in onore della coppia imperiale bizantina è una sintesi poetica della dottrina della SS. Trinità120. Anche il componimento in onore della Vergine la cui paternità restò a lungo controversa, rientra oggi secondo il parere della maggioranza degli studiosi fra le opere tarde del poeta e anch’essa non denota peculiarità teologiche di sorta121. Tra le interpretazioni ortodosse del credo sono tre brevi testi in prosa: l’Expositio symboli, il Symbolum 382

Athanasianum e l’Expositio fidei catholicae. In tutti riscontriamo una caratteristica componente del vecchio credo aquileiese (nonché del credo di alcune altre, dapprima rare, chiese) come riferisce e spiega verso il 400 Rufino: la raffigurazione di Cristo che scende agli inferi (descendit ad infernum rispettivamente descendit ad inferos)122. Del credo aquileiese non si incontrano altre particolarità, va comunque rilevato che la raffigurazione stessa della discesa di Cristo negli inferi è notevolmente diffusa in Occidente nel VI sec. Il credo di Venanzio lo definiamo “aquileiese” pur con riserve123. La suddetta particolarità non ebbe peraltro ruolo alcuno nella controversia dei Tre Capitoli.

3. Conclusione: Lo scisma dei Tre Capitoli è uno dei motivi della partenza del poeta dall’Italia?

La menzione degli eventi e dei personaggi collegati allo scisma dei Tre Capitoli permettono di dare almeno un giudizio di massima circa il rapporto del poeta nei confronti dello scisma. Anzitutto va premesso che Venanzio non fa in nessun luogo espressa menzione dello scisma e soltanto in un punto si limita a descriverlo per immagine (ecclesiae turbata fides)124. Sulle persone che furono protagoniste dello scisma (il patriarca Paolino) o suoi partigiani (il coetaneo del poeta e futuro vescovo di Treviso Felice, presumibilmente anche il vescovo padovano Giovanni) si esprime rispettosamente, il che dimostra che le stimava altamente. Mai il poeta non fa menzione degli avversari dello scisma quali in primo luogo papa Pelagio I e l’imperatore Giustiniano, mentre presenta in luce molto positiva Giustino II che, salito al trono, revoca i più radicali provvedimenti di Giustiniano contro i fautori dello scisma (... reddis et ipse fidem ...). La cornice “spaziale” così tracciata mostra, che Venanzio aveva preso in considerazione l’intero mondo cristiano del tempo e non esplicitamente le Venezie, l’Istria o il patriarcato di Aquileia dove il dissidio aveva assunto le forme estreme. Tutte le menzioni del poeta dei fatti e dei protagonisti dello scisma risalgono al primo decennio della sua permanenza nel regno franco. Sulla scorta dei suoi precari contatti con la patria125 possiamo spiegarci la sua imprecisa informazione sulle condizioni in cui si trovava. Il poeta non conosce o perlomeno non prende in considerazione tutta una serie di cambiamenti verificatisi nel periodo 565-575, come gli effetti dell’invasione longobarda i quali avrebbero potuto rappre383

sentare, come i Bavari citati nella Vita s. Martini126, un ostacolo al viaggio fantastico della biografia poetica di s. Martino da Tours a Ravenna, né tiene conto degli effetti della seconda caduta di Aquileia, dell’altra sua distruzione e del precedente trasferimento del centro ecclesiale a Grado. Per quanto riguarda le sorti dei singoli personaggi, non sa dell’impresa del vescovo trevigiano Felice alla venuta dei Longobardi nel 568 né molto probabilmente della morte del patriarca Paol(in)o a Grado nel 569. Di importanza capitale per un giudizio sul rapporto di Venanzio nei confronti dello scisma dei Tre Capitoli e in genere nei confronti dei centri del potere in Italia e in Occidente è la comprensione delle prime due poesie della raccolta in cui magnifica l’eccezionale realizzazione edilizia del vescovo “ravennate” Vitale. Se Vitale era davvero vescovo ravennate (e successore di Massimiano) o se era un vescovo che in terra istriana attuava la politica religiosa “ravennate”, allora ci troveremmo di fronte a un vescovo cattolico in linea con la politica religiosa di Giustiniano, in altre parole uno che, almeno per presa di posizione politico-religiosa, era avversario degli scismatici, assieme al ricordato Giovanni di cui non conosciamo la provenienza. Se dietro questo Vitale si nascondesse l’omonimo vescovo scismatico di Altino che per fuggire ai nemici dello scisma si rifugiò in territorio franco, la spiegazione dei fatti sarebbe più chiara: i Bizantini con Narsete sarebbero penetrati in territorio franco e avrebbero punito il vescovo fuggiasco Vitale perché scismatico filofranco. Il poeta, che non si espone politicamente, sarebbe riparato in Gallia anche per evitare il destino di quel presule. Il problema dell’identificazione dei personaggi nelle prime due poesie è di capitale importanza per la spiegazione delle cause e dei motivi per la partenza di Venanzio per la Gallia. Tutti gli studiosi moderni convengono che il motivo menzionato dal poeta stesso, il pellegrinaggio alla tomba di s. Martino per la miracolosa guarigione davanti all’immagine del santo in una delle chiese ravennati (peregrinatio religiosa), è di importanza secondaria127. Il poeta si autodefinisce exul128 (e non peregrinus alla tomba del santo), il che mostra che il motivo molto importante della partenza non è di natura religiosa, per quanto anche le componenti religiose in un poeta profondamente religioso e che mantiene rapporti soprattutto coi dignitari ecclesiastici ed evidentemente era un assiduo visitatore delle tombe dei santi e veneratore delle loro reliquie, non sono da minimizzare o persino da escludere. 384

Su quali fossero i principali motivi “profani” si sono date varie spiegazioni o difficilmente concordabili o che tra loro letteralmente si escludono. Accanto alla spiegazione generica sui motivi politici129 ne sono state ventilate due altre che tentano di dare una risposta concreta al quesito: (1) il poeta avrebbe lasciato l’Italia perché partigiano dello scisma dei Tre Capitoli130; (2) avrebbe lasciato la patria per agire nel regno merovingio, come una specie di diplomatico segreto, per gli interessi dello stato bizantino131. Le due ultime spiegazioni si escludono a vicenda e nell’ultimo decennio sono state respinte nella forma originale132. I motivi della partenza del poeta sembra che fossero tanti. Motivi e cause che reciprocamente si intrecciano e condizionano per cui è praticamente impossibile enuclearne il principale. In primo luogo va rilevato che la partenza per l’estero quale peregrinatio religiosa non è tutto sommato un motivo tanto di importanza secondaria da doverlo necessariamente subordinare a uno concreto scopo “profano”, come illustrato da vari esempi della tarda antichità133. Judith W. George lo ricollega ai tentativi di Venanzio di trovare un patrono colto e influente, al fatto che nel caso di Venanzio Fortunato si tratta di un “poeta itinerante” quali ce n’erano a quei tempi anche altrove (ad es. in Egitto)134. Il poeta avrebbe collegato il pellegrinaggio alla tomba del santo con l’impegno a trovare così un patrono. In questo avrebbe avuto l’appoggio del vescovo di Altino Vitale con le sue aderenze nel regno franco, che gli avrebbe facilitato con lettere di raccomandazione l’accesso ai più influenti presuli della Gallia135. I motivi della partenza dall’Italia erano anche (o anzi tutto) di carattere personale come la sua posteriore decisione di restare nella nuova patria136. Dietro le decisioni del poeta era infine la situazione nel Norditalia nel periodo dal 560 al 565, situazione oltremodo complessa tanto in sede politico-militare che ecclesiale, e ambedue spesso fortemente intrecciate fra loro. Anche dopo le vittorie nell’Italia del nord di Narsete (tra 560 e 563) permangono nell’area di confine al nord tensioni che sfociano in saltuari scontri137. Di fronte alla fluida situazione politico-militare si intensificano anche le tensioni religiose per le pressioni sempre più forti sulla scismatica chiesa aquileiese, pressioni che da un avvio polemico si vanno via via inasprendo in forma di intervento militar-poliziesco contro quei vescovi, come dimostra il caso dell’arresto e punizione dello scismatico e filofranco presule di Altino Vitale nel 565. La scismatica chiesa di Aquileia retta dal patriarca Paolo, era, 385

per la sua posizione al confine, particolarmente esposta alle ingerenze sia dei Bizantini che dei Franchi138. In tali condizioni la partenza per la Gallia sembrava garantire, malgrado i forti rischi, un futuro più tranquillo. E ancor più della decisione di partire ci sembra comprensibile, vista la situazione nell’Italia nordorientale, la sua deliberazione di restare in Gallia. Se nella Vita s. Martini Venanzio descrive il viaggio come relativamente sicuro dato che come unico elemento di disturbo nei viaggi oltralpe sono presentati i Bavari, l’invasione dell’Italia da parte dei Longobardi nel 568 rappresenta un sostanziale peggioramento della situazione. Il formarsi nel vicino est di un khaganato avaro con centro in Pannonia e la calamità delle scorrerie di Avari e Slavi (anzi temporaneamente indirizzate verso le terre balcaniche) significò una potenziale minaccia anche per l’Italia nordorientale139. A confronto con la situazione pericolosa e affatto imprevedibile nel Norditalia dopo il 568, la situazione politica e religiosa in Gallia si presenta stabile e migliori erano anche le prospettive di un’attività culturale che nell’Italia longobarda del tempo s’era quasi completamente dissolta ed era in declino anche nell’Italia bizantina140. Assieme a una serie di motivi personali e oggettivi, fra loro intrecciati, che portano alla decisione di partire per la Gallia e più tardi di rimanervi, non vanno ignorati, almeno in via indiretta, quelli legati alle condizioni conflittuali nella chiesa provocate dallo scisma dei Tre Capitoli.

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Note

Abbreviazioni: AAAd ACO AMSI

Antichità Altoadriatiche, Udine. Acta conciliorum oecumenicorum, Berlin (Strassburg, München). Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria, Trieste. Corpus Christianorum. Series Latina, Turnhout. CCSL Corpus scriptorum ecclesiae Aquileiensis, Aquileia. CSEA Inscriptiones Latinae Christianae veteres (ed. E. Diehl), DublinILCV Zürich 19703. The Loeb Classical Library, Cambridge (Massachusetts) - London. LCL Monumenta Germaniae Historica, Hannover-Berlin. MGH MGH AA Monumenta Germaniae Historica. Auctores antiquissimi, BerlinMünchen. Patrologia Graeca, Paris. PG Patrologia Latina, Paris. PL PLRE III The Prosopography of the Later Roman Empire, Vol. IIIa-b A.D. 527-641 (by J.R. Martindale), Cambridge 1992. Reallexikon für Antike und Christentum, Stuttgart. RAC Rerum Italicarum Scriptores (Raccolta degli storici italiani dal cinRIS quecento al millecinquecento, ordinata da L.A. Muratori. Nuova edizione riveduta ampliata e corretta), Bologna.

*L’autore ringrazia il prof. Sergio Tavano per la revisione del testo. Con alcune pubblicazioni difficilmente accessibili hanno aiutato: dott. Stefano Di Brazzano (Trieste), dott. Reinhardt Harreither (Vienna), prof. Peter Sˇtih (Ljubljana) e prof. Gerhard Waldherr (Regensburg).

(1) I dati riferiti riprendono l’edizione: Venanti Honori Clementiani Fortunati presbyteri Italici Opera poetica, recensuit et emendavit F. Leo, MGH AA 4,1, München 19812; Venanti Honori Clementiani Fortunati presbyteri Italici Opera pedestria, recensuit et emendavit B. Krusch, MGH AA 4,2, München 19952. Per il commento andrà presa in considerazione anche l’edizione in PL 88, coll. 9-596. Le nuove edizioni bilingui con commento: Venance Fortunat, Poèmes, Tome 1 (Livres I-IV), ed. M. Reydellet, Paris 1994; Tome II (Livres V-VIII), ed. M. Reydellet, Paris 1998; Venance Fortunat, Oeuvres, Tome 4: Vie de saint Martin, ed. S. Quesnel, Paris 1996; Venanti Honori Clementiani Fortunati Opera 1 Venanzio Fortunato, Opere 1 (a cura di S. Di Brazzano), CSEA 8/1, Aquileia 2001. Traduzioni e commenti (di opere a noi accessibili): Venantius Fortunatus: Personal and Political Poems. Translated with notes and introduction by J. George, Translated Texts for Historians 23, Liverpool 1995; Venanzio Fortunato, Vita di san Martino di Tours. Traduzione, introduzione e note a cura di G. Palermo, Collana di testi patristici 52, Roma 19952. (2) Paulus Diaconus, Historia Langobardorum 2,13 (ed. L. Capo, Fondazione Lorenzo Valla 20005, pp. 90-95 e 436-437). (3) La bibliografia essenziale sul problema in oggetto (in successione cronologica della pubblicazione): R. Koebner, Venantius Fortunatus. Seine Persönlichkeit und seine Stellung in der geistigen Kultur des Merowingerreiches. Beiträge zur Kulturgeschichte des Mittelalters und der Renaissance 22, Leipzig 1915; H. Wopfner, Die Reise des Venantius Fortunatus durch die Ostalpen. Ein Beitrag zur frühmittelalterlichen Verkehrsund Siedlungsgeschichte, “Schlern-Schriften” 9 (Festschrift zu Ehren Emil von Ottenthals), Innsbruck 1925, pp. 362-417, specie p. 365; D. Tardi, Fortunat: Étude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927; E. Stein, Histoire du Bas-Empire II, Paris 1949, pp. 833-

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834 (attaccamento allo schisma); G. Cuscito, Cristianesimo antico ad Aquileia e in Istria, Trieste 1977, pp. 287-288; Id., Venanzio Fortunato e le chiese istriane. Problemi e ipotesi, AMSI 78 (26 n.s., 1978), pp. 207-225; J. Sˇasˇel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, AAAd 19 (1981), 359-375 (= Id., Opera selecta, “Situla” 30, Ljubljana 1992, pp. 766-782); H. Berg, Bischöfe und Bischofssitze im Ostalpen- und Donauraum vom 4. bis zum 8. Jahrhundert, in Die Bayern und ihre Nachbarn I (a cura di H. Wolfram e A. Schwarcz), Wien 1985, pp. 61-108, specie p. 8485; B. Brennan, The Career of Venantius Fortunatus, “Traditio” 41 (1985), pp. 49-78; Id., Venantius Fortunatus: Byzantine agent?, “Byzantion” 65 (1995), pp. 7-16; J.W. George, Venantius Fortunatus. A Latin Poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992; H. Krahwinkler, Friaul im Frühmittelalter, Wien, Köln, Weimar 1992, specie pp. 24-26; L. Pietri, Venance Fortunat et ses commanditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, “Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo” 39 (1992), pp. 729-754; M. Pavan, Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia merovingica, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia (Atti del Convegno internazionale di Studi), Treviso 1993, pp. 11-23 (= Id., Dall’Adriatico al Danubio, Padova 1991, pp. 331-344; specie l’adesione allo scisma e insieme il voto in seguito alla guarigione); G. Rosada, Il “viaggio” di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum loca e la strada per submontana castella, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia (Atti del Convegno internazionale di Studi), Treviso 1993, pp. 25-57, specie pp. 43-48 (specie l’adesione allo scisma nelle peraltro difficili condizioni nell’Italia nordorientale negli anni avanti l’invasione longobarda). (4) Le date proposte per la nascita del poeta: R. Koebner, Venantius Fortunatus, p. 11 (nell’anno 540); D. Tardi, Fortunat, p. 24 (nell’anno 530); E. Stein, Histoire II, p. 694 (verso il 535); J.W. George, Venantius Fortunatus, p. 19 (un po’ prima del 540); B. Brennan, The Career, p. 50 nota 11 (propende per la proposta di J. Szövérffy, che fosse nato nella seconda metà degli anni trenta, ca. 535-540); G. Palermo, in Venanzio Fortunato (come alla nota 1), p. 5 (forse 535); M. Reydellet in Venance Fortunat (come alla nota 1), p. VII (nascita fra il 530 e il 540, ripulsa degli argomenti del Koebner che data al 540); R. Düchting, Venantius Fortunatus, “Lexikon des Mittelalters” 8 (1997), col. 1453 (prima del 540); N. Delhey, Venantius Fortunatus, in S. Döpp, W. Geerlings (ed.), Lexikon der antiken christlichen Literatur, Freiburg, Basel, Wien 19992, p. 622 (tra 530 e 540); cfr. ultimamente S. Di Brazzano in Venanzio Fortunato (cit. alla nota 1), p. 15. (5) Il “giudizio” del poeta sulla propria educazione (Venantius Fortunatus, Vita Martini 1, 26-35, p. 296; cfr. G. Palermo in: Venanzio Fortunato, Vita ..., p. 51) è un topos letterario (modestia dell’autore) donde è possibile desumere soltanto che studiò la grammatica, la retorica e il diritto. Cfr. anche Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2,13 (ediz. cit. alla nota 2, p. 90): ... Ravennae nutritus et doctus, in arte gramatica sive rethorica seu etiam metrica clarissimus extitit. Circa la sua conoscenza almeno elementare del greco cfr. G. Palermo in Venanzio Fortunato (cit. alla nota 1), pp. 9-10. Le sue opere non riflettono soltanto un’ottima conoscenza della poesia (sia classica che degli autori cristiani) ma anche dimestichezza con la teologia. Sull’ampiezza e lo spessore della cultura di Venanzio sono stati espressi pareri diversi; cfr. il giudizio in B. Brennan, The Career, pp. 52-53; J.W. George, Venantius Fortunatus, pp. 21-22. (6) Sul nome del poeta vedi J. Sˇasˇel, Il viaggio (come alla nota 3), pp. 359-361 (= Id., Opera selecta, pp. 766-768); J.W. George, Venantius Fortunatus, p. 19; B. Brennan, The Career, p. 50; G. Palermo in Venanzio Fortunato, pp. 3-4. Lo indicano solo col nome di Fortunatus Gregorius Turonensis, De miraculis s. Martini 1,13-15 (PL 71, col. 926 B; col. 927 C) e Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2,13. (7) G. Cuscito, Cristianesimo antico, pp. 293-294.; C. Sotinel, Pelagio I, in Enciclopedia dei papi I, Roma 2000, pp. 529-536, specie pp. 533-534.; Ead. in Histoire de christianisme (a cura di J.-M. Mayeur, Ch. et L. Pietri, A. Vauchet, M. Venard), 3: Les Églises d’Orient et d’Occident (432-610) (a cura di L. Pietri), Paris 1998, pp. 441-442. (8) Procopio, Bellum Gothicum 3(7),1,35 (ed. H.B. Dewing, LCL, Procop.

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IV, London 1962, p. 162) menziona la battaglia di Treviso del 540 in cui i Goti capeggiati da re Ildibado inflissero una dura sconfitta ai Bizantini comandati dal generale Vitalio nelle cui file si batterono anche numerosi federati eruli; cfr. H. Wolfram, Die Goten, München 19903, p. 351; PLRE III, p. 614 (s.v. Ildibadus). (9) L’ipotesi secondo cui il poeta avesse trascorso vari anni della sua giovinezza ad Aquileia dove la famiglia avrebbe riparato di fronte alla campagna gotico-bizantina, è stata propugnata specie da D. Tardi, Fortunat, pp. 27-28 e pp. 35-37, in tempi più recenti è stata accolta anche da altri autori (G. Cuscito, Venanzio Fortunato, p. 209). Perché poco fondata la respingono E. Stein, Histoire II, p. 695 nota 1; B. Brennan, The Career, p. 51-52; J.W. George, Venantius Fortunatus, pp. 19-20 (cfr. la recensione del J. Gruber, Gnomon 71, 1999, p. 418). (10) Ausonius, Ordo urbium nobilium IX (ed. H.G.E. White, LCL, 1968, Aus. I, p. 274). Circa la conquista e distruzione di Aquileia ad opera degli Unni e la parziale sua riedificazione ai tempi dei vescovi Niceta e Marcelliano vedi R. Bratozˇ, La chiesa aquileiese e i barbari (V-VII sec.), in Aquileia e il suo patriarcato (a cura di S. Tavano, G. Bergamini, S. Cavazza), Udine 2000, pp. 101-149, specie pp. 112-116, 122-128 e 147-149. Sulla ricostruzione generale dopo la vittoria sui Goti delle città italiane distrutte riferisce l’ultima parte della cronaca di Copenhagen: Auctarii Hauniensis extrema, 3-4 (Chronica minora I, ed. Th. Mommsen, MGH AA IX, 1892, p. 337): (3) Narses patricius ... Italiam Imperio Romano reddidit urbesque dirutas restauravit ... (4) Narses patricius cum Italiam florentissime administraret et urbes atque moenia ad pristinum decorem per XII annos restauraret et populos suo iure atque prudentia foveret... L’impegno di Narsete per il restauro delle chiese è menzionato anche da Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 3 (... in recuperandis basilicis satis studiosus ...) e poi da Dandulus, Chronica A. 557-565 (ed. E. Pastorello, RIS XII/1, Bologna 1939, p. 73,13). Vedi brevemente S. Tavano, Aquileia e Grado, Trieste 1986, p. 45 e PLRE III, p. 926 (Narses 1). (11) I versi che si riferiscono ad Aquileia recitano (Vita s. Martini 4,656662, MGH AA 4/1, pp. 368-369): hinc Venetum saltus campestria perge per arva, / submontana quidem castella per ardua tendens; / aut Aquiliensem si forte accesseris urbem, / Cantianos domini nimium venereris amicos / ac Fortunati benedictam martyris urnam / pontificemque pium Paulum cupienter adora, / qui me primaevis converti optabat ab annis. Cfr. anche Venance Fortunat, Oeuvres IV (ed. S. Quesnel), pp. 99 e 170 (commento); Venanzio Fortunato, Vita di san Martino di Tours (ed. G. Palermo), pp. 151-152. (12) Aquileia compare indicata come urbs già nelle fonti a partire dal IV sec. in poi (una delle prime menzioni è fatta da Ausonius, Ordo urbium nobilium IX, 2 [nona inter claras Aquileia ... urbes], seguito da altri nelle fonti che vanno fino al IX sec.), pur tuttavia viene usata anche l’espressione civitas, termine più generalmente usato per indicare una città (cfr. R. Bratozˇ, Il cristianesimo aquileiese prima di Costantino, Udine-Gorizia 1999, p. 44 nota 43). Evidentemente Venanzio Fortunato si servì dell’espressione urbs più liberamente se nel prosieguo la troviamo nella menzione di Padova (vedi nota 38). (13) La forma aggettivale Aquiliensis (invece della più antica Aquileiensis) si trova nelle seguenti fonti: Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium 9; 17; 18; 19 (Concilium universale Constantinopolitanum sub Iustiniano habitum, ed. E. Schwartz, ACO IV/2, Argentorate 1914, p. 133,9 [in sancta Aquiliensi ecclesia]; p. 135,4 [in sancta sede Aquiliensi]; p. 135,11 [metropolitana Aquiliensis ecclesia]; p. 135,16 [ad Aquiliensem synodum]; p. 135,25-26 [matris nostrae Aquiliensis ecclesiae]); Concilium universale Constantinopolitanum tertium (ed. R. Riedinger, ACO, series secunda, I,1, Berlin 1990), Actio quarta (p. 155,7: episcopus sanctae ecclesiae Aquiliensis); per la nota cfr. R. Bratozˇ, Il patriarcato di Grado e il monotelismo, “Studi Goriziani” 87-88 (1998), pp. 7-37, specie p. 29 (forma greca Akylía); cfr. anche la versione tedesca ampliata del saggio in Slovenija in sosednje dezˇele med antiko in karolinsˇko dobo - Slowenien und die Nachbarländer zwischen Antike und karolingischer Epoche [a cura di R. Bratozˇ], Situla 39, Ljubljana 2000, pp. 609-658, specie p. 636). (14) Carmina 8,3, vv. 165-166 (MGH AA 4/1, p. 185): Felicem meritis

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Vicetia laeta refundit / et Fortunatum fert Aquileia suum... Circa la venerazione dei due martiri aquileiesi in questo periodo cfr. R. Bratozˇ, Il cristianesimo aquileiese (cit. alla nota 12), pp. 389-399; ultimamente G. Cuscito, I martiri aquileiesi, in Aquileia e il suo patriarcato (a cura di S. Tavano, G. Bergamini, S. Cavazza), Udine 2000, pp. 33-50, specie pp. 43-47. (15) Nel componimento De virginitate, vv. 137-176 (Carmina 8,3; MGH AA 4,1, pp. 184-185) il poeta enumera a parte i santi per così dire rappresentativi di ogni singola città o terra, di norma uno ogni menzione geografica e raramente (come per Roma e Milano) due santi. In questo caso Aquileia è rappresentata da Fortunato. Analogie dal vicinato: ... dat Siscia clara Quirinum (v. 153).... Vitalem ac reliquos quos cara Ravenna sepultat, / Gervasium, Ambrosium, Mediolane, meum: Iustinam Patavi... (vv. 167-169). (16) Vedi nota 34. (17) Cfr. G. Cuscito, I martiri aquileiesi, p. 45 e S. Di Brazzano in Venanzio Fortunato, p. 437 nota 24; poco chiaro per quest’aspetto G. Palermo, in Venanzio Fortunato (come alla nota 1), p. 152 nota 39 (martire dal tempo di Numeriano o Diocleziano) e S. Quesnel in Venance Fortunat IV (cit. alla nota 1), p. 170 nota 89 (F. vescovo e martire di Aquileia). Sulla questione dell’identificazione dei vari santi aquileiesi di nome Fortunato cfr. R. Bratozˇ, Il cristianesimo aquileiese, pp. 79-82, pp. 395-396. (18) Come Paulinus (pseudoepiscopus) è nominato solo da Pelagius I papa, Epistulae quae supersunt (556-561), Epist. 59,1 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, Montserrat 1956, p. 155 rispettivamente Epist. 46 in PL Supplementum I, Paris 1967, col. 1303) ed Epist. 57 (PL Suppl. IV, col. 1306 ovvero ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, p. 182). Come Paulus è nominato non solo da Venanzio Fortunato, ma anche due secoli più tardi da Paolo Diacono (vedi note 30 e 32) e successivamente dalle cronache veneziane (vedi G. Monticolo, Cronache veneziane antichissime, Roma 1890, p. 6, vv. 4 e 7 [Cronica de singulis patriarchis Nove Aquileie]; p. 41, v. 33; p. 42, vv. 4 e 26; p. 49, vv. 1 e 4 [Chronicon Gradense]; p. 62, vv. 9 e 15; p. 68, v. 4 [Iohannes Diaconus, Chronicon Venetum]); Origo civitatum Italie seu Venetiarum [ed. R. Cessi, Roma 1933], pp. 40-42, 72-75, 122-123, 128), e da Dandulus, Chronica, a. 557-569 (ed. E. Pastorello, Bologna 1938, pp. 72, 75, 76). (19) Vedi nota 11. Il titolo pontifex è in questo caso sinonimo di archiepiscopus (titolo usato dai vescovi scismatici per i patriarchi Elia e Severo; vedi Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium 6, 8, 9 [ACO IV/2, ed. E. Schwartz, Strassburg 1914, p. 133]). (20) Cfr. S. Quesnel, in Venance Fortunat IV, p. 170 nota 90. Vedi anche J.F. Niermeyer, Mediae latinitatis lexicon minus, Leiden 1976, s.v. adorare. (21) Ennodius, Vita beati Antoni 8-9 (ed. F. Vogel, MGH AA 7, 19612, p. 186): s. Severino educò Antonio dagli otto anni di età indirizzandolo sulla strada della futura vita ascetica. Cfr. A.N. Nock, Bekehrung, in RAC 2 (1954), coll. 105-118, specie col. 117; M. Rothenhäusler, Conversio morum, in RAC 3 (1957), coll. 422-424. (22) Pelagius I papa, Epist. 24,5 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, p. 75,17): ... Quid autem iam de eorum principe loquar, qui et monachum, si tamen aliquando fuit, inuadendi episcopatum ambitu perdidit... Cfr. S. Di Brazzano in Venanzio Fortunato, 16 (con la supposizione, che Venanzio abbia conosciuto Paolino in uno dei centri episcopali del bacino di Piave come erano Asolo, Treviso, Oderzo o Altino). (23) PLRE III, pp. 923-924 (Narses 1); E. Stein, Histoire II, pp. 610-611. (24) G. Cuscito, Cristianesimo antico, pp. 293-294; C. Sotinel, Pelagio I (cit. alla nota 7), pp. 533-534. (25) Pelagius I papa, Epistulae 24,1;5;7 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 73-75). Sul patrizio Giovanni vedi PLRE III, pp. 669-700 (Ioannes 71). (26) Pelagius I Papa, Epist. 52 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 134-139). (27) Pelagius I papa, Epist. 53 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 140142), specie 53,10 (p. 142, 33-36; il papa sollecitò il patrizio a mandare il vescovo aquileiese a difendersi davanti all’imperatore). Cfr. anche Epist. 52,14 (p. 138, vv. 64-65): ... hi qui talia praesumpserunt ad piissimum principem sub digna custodia dirigantur...

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(28) Pelagius I papa, Epist. 59 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 155158); sul patrizio Valeriano vedi PLRE III, p. 1361 (Valerianus 1). (29 Pelagius I papa, Epist. 60; 65 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 159173; con la domanda, ut ab ecclesiae unitate diuisi, et eius pacem iniquissime perturbantes, a saecularibus etiam potestatibus conprimantur [Epist. 65,5, p. 173,19-21]). (30) Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 10 (ed. L. Capo, cit. alla nota 2, p. 88 e p. 433-434): Aquileiensi quoque civitati eiusque populis beatus Paulus patriarcha praeerat. Qui Langobardorum barbariem metuens, ex Aquileia ad Gradus insulam confugiit secumque omnem suae thesaurum ecclesiae deportavit. Sul ruolo dei vescovi nella tarda antichità vedi S. Mochi Onory, Vescovi e città, “Rivista di storia del diritto italiano” 4 (1931), pp. 245-329 e 555-600; 5 (1932), pp. 99-179 e 241-312; 6 (1933), pp. 199-238. (31) Chronicon Gradense (G. Monticolo, Chronache veneziane antichissime, Roma 1890, pp. 40-41): ... qui sanctissimus patriarcha ... corpora autem sanctorum Cancii, Canciani et Cancianille in ecclesia sancti Johannis evangeliste celeberrime composuit ... corpora sanctorum Quirini, Illari et Taciani et ceterorum secum asportaverunt. Stando alla tradizione posteriore, le reliquie di Felice e Fortunato sarebbero state scoperte solo nel 628 e quindi traslate a Grado; cfr. Cronica de singulis patriarchis Nove Aquileie (G. Monticolo, Cronache, p. 10; R. Bratozˇ, Il cristianesimo aquileiese, p. 395 nota 141). (32) Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 25 (ed. L. Capo, p. 106): Paulus quoque patriarcha annis duodecim sacerdotium gerens, ab hac luce subtractus est regendamque ecclesiam Probino reliquit. (33) Vita s. Martini 4, 663-676 (MGH AA 4,1, p. 369): si petis illud iter qua se Concordia cingit, / Augustinus adest pretiosus Basiliusque. Della venerazione di questi santi a Concordia parla soltanto Venanzio Fortunato. Cfr. S. Tavano in La chiesa concordiese 389-1989 I. Concordia e la sua cattedrale (ed. C.G. Mor, P. Nonis), Pordenone 1989, p. 47; vedi anche S. Quesnel in Venance Fortunat IV, p. 171 nota 91 (che propende per il parere che dietro i due nomi si celino s. Agostino e Basilio Magno); sulla complessa questione cfr. anche P. Zovatto, Le origini del cristianesimo a Concordia, Udine 1975, p. 27-28; 82 (che ritiene trattarsi di due martiri locali). (34) Vita s. Martini 4, 663-676 (MGH AA 4,1, p. 369): Qua mea Tarvisus residet, si molliter intras, / inlustrem socium Felicem quaeso require, / cui mecum lumen Martinus reddit olim. L’episodio della miracolosa guarigione a Ravenna, che interessò Venanzio Fortunato e l’ipsius socius Felice, è descritto anche da Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 13 (ed. L. Capo, pp. 90-92) e da Gregorius ep. Turonensis, De miraculis s. Martini 1,15 (PL 71, col. 927 C). (35) Venanzio Fortunato lo indica con l’espressione socius, quindi non fa cenno del suo titolo vescovile che probabilmente portava nel 575 quando la poesia fu scritta. Secondo l’assetto ecclesiale della tarda antichità, Felice all’età di trent’anni sarebbe potuto diventare presbyter (Concilium Neocaesariense, c. 11; Concil. Trullanum, c. 14; vedi C. Kirch, Enchiridion fontium ecclesiae antiquae, Barcinone etc. 1965, p. 226; P.-P. Joannou, Les canons des conciles oecuméniques, Grottaferrata [Roma] 1962, p. 143). Con la legge giustinianea del 546 l’età minima per un vescovo era di non minus quam triginta quinque aetatis annos (Iustinianus, Novellae 123, 1,1 [Coprus Iuris civilis III, edd. R. Schoell, G. Kroll, Berlin 19597, p. 594]). Con la Constitutio pragmatica 11 (Coprus Iuris civilis III, p. 800) dell’anno 554 tutte le leggi imperiali erano in vigore anche per partes Italiae..., ut una deo volente facta republica legum etiam nostrarum ubique prolatetur auctoritas. (36) Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 12 (ed. L. Capo, pp. 90 e 435): Igitur Alboin cum ad fluvium Plavem venisset, ibi ei Felix episcopus Tarvisianae ecclesiae occurrit. Cui rex, ut erat largissimus, omnes suae ecclesiae facultates postulanti concessit et per suum pracmaticum postulata firmavit. L’atto di Felice, che ricorda l’incontro di Attila e di papa Leone Magno nel 452, ha varie analogie nel V e VI sec. quando i vescovi (o uomini in odore di santi) affrontando coraggiosamente i re barbari salvarono la propria comunità religiosa (cfr. alcuni esempi in R. Bratozˇ, Der “heilige Mann” und seine Biographie,

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in Historiographie im frühen Mittelalter [a cura di A. Scharer e G. Scheibelreiter], Wien, München 1994, pp. 222-252, specie p. 233 note 44 e 45). L’atto di Felice era oltremodo arrischiato non soltanto per l’incertezza dell’esito quanto perché da parte della propria comunità o del potere profano bizantino poteva essergli mossa l’accusa di tradimento della città. (37) Paulus Diaconus, Hist. Lang. 3,26 (ed. L. Capo, p. 158: ... Rusticus de Tarvisio); Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium, in ACO IV,2, p. 135 (Felix episcopus sanctae Teruisianae ecclesiae). (38) Vita s. Martini 4, 672-676 (MGH AA 4,1, p. 369): Si Patavina tibi pateat via, pergis ad urbem: / huc sacra Iustinae, rogo, lambe sepulchra beatae, / cuius habet paries Martini gesta figuris; / quove salutis opus celso depende Iohanni / atque suis genitis, sociis per carmina nostris. (39) Cfr l’epitafio del papa Felice IV. († 530; ILCV 986,4: ... promeruit ... celsum locum) e Giovanni II. († 535; ILCV 988,5: celso dignus honore). (40) I pareri dei commentatori su questo passo: S. Quesnel in Venance Fortunat IV, p. 171 nota 94: il Giovanni padovano è forse da identificarsi con vescovo Giovanni che aveva procurato le reliquie per la chiesa di s. Andrea a “Ravenna” (vedi nota 52); G. Palermo in Venanzio Fortunato, p. 153 nota 47 (vescovo di Padova di cui peraltro nulla si sa). (41) Stando alle leggi di Giustiniano del 528 (Codex Iustinianus 1,3,41,24 [Corpus iuris civilis II, rec. P. Krüger, Dublin-Zürich 196714, p. 26]) e poi del 531 (Codex Iustinianus 1,3,47 [ivi, p. 34]) non poteva essere nominato vescovo chi avesse moglie e prole; nel caso fosse stato eletto un vescovo così, la sua elezione era da considerarsi nulla. L’elezione del vescovo Giovanni, di una generazione più anziano del poeta e pertanto coetaneo del patriarca aquileiese Paol(in)o (i figli di Giovanni si erano dedicati già prima del 565 alla poesia!) era dunque illegittima. Sulla questione dei chierici del tempo coniugati riferisce brevemente R. Bratozˇ, Ecclesia in gentibus, in Grafenauerjev zbornik (a cura di V. Rajsˇp), Ljubljana 1996, 205-225, specie p. 217-218 nota 59. L’unico chierico con prole conosciuto nella metropoli scismatica aquileiese in questo periodo era Claudius arc(hidiaconus) di Parenzo, raffigurato insieme col figlio Eufrasio sul catino absidale della basilica Eufrasiana (M. Prelog, The basilica of Eufrasius in Porecˇ, Zagreb 1994, p. 66). (42) H. Wolff, Die Kontinuität der Kirchenorganisation in Raetien und Noricum bis an die Schwelle des 7. Jahrhunderts, in Das Christentum im bairischen Raum. Von den Anfängen bis ins 11. Jahrhundert (a cura di E. Boshof e H. Wolff), Köln, Weimar, Wien 1994, pp. 1-27, specie p. 26; vedi anche G. Fedalto, Aquileia. Una chiesa due patriarcati, Roma 1999, p. 350. (43) Pelagius I papa, Epist. 53,7-8 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 141142: ... Eufrasii ... scelera ... in homicidio ... incestuoso autem in adulterio ...). Cfr. Codex Iustinianus 9,9,29(30) (cit. alla nota 41, p. 376). (44) In una serie dei manoscritti il vescovo Vitale compare con l’attributo (nell’accusativo) di rauennensem (anche: rauensem, rauenatem), che non troviamo nell’elenco introduttivo della poesia (cfr. MGH AA 4,1, pp. 3 e 7; M. Reydellet, in Venance Fortunat I, pp. 19 e 166 [commento]; S. Di Brazzano, in Venanzio Fortunato, pp. 108-109). (45) Agnellus (qui et Andreas), Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis 6983 (ed. O. Holder-Egger, MGH Script. rerum Langob. et Ital. s. VI-IX, Hannover 1878, pp. 325-333); vedi le sequenti edizioni commentate: Codex pontificalis ecclesiae Ravennatis I (ed. A. Testi Rasponi, RIS II/3, Bologna 1924), pp. 186213; D.M. Deliyannis, The Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis: Critical edition and commentary, Ann Arbor (Michigan) 1994, pp. 523-533; Agnellus von Ravenna, Liber pontificalis - Bischofsbuch. Übersetzt und erläutert von C. Nauerth, Fontes christiani 21,1-2, Freiburg etc. 1996, pp. 300-337. (46) Agnellus (qui et Andreas), Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis 84-92 (ed. O. Holder-Egger, pp. 333-336). (47) Carmina 1,1 (MGH AA 4,1, pp. 7-8); cfr. Venance Fortunat, Poèmes I (ed. M. Reydellet), Paris 1994, pp. 20-21 e 166-167 (commento); Venanzio Fortunato (ed. S. Di Brazzano), pp. 108-111. (48) Cfr. Carm. 1,1,11-12 (p. 7): emicat aula potens, solido perfecta metallo, / quo sine nocte manet continuata dies.

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(49) Carm. 1,1, 19-22 (p. 8): Prosperitas se vestra probat, quae gaudia supplens / intulit egregios ad tua vota viros. / dux nitet hinc armis, praefectus legibus illinc: / venerunt per quos crescere festa solent. (50) Carm. 1,2 (MGH AA 4,1, pp. 8-9); cfr. Venance Fortunat, Poèmes I (ed. M. Reydellet), pp. 21-23 e 167-168 [commento]). Dato che Vitale vi è indicato con l’aggettivo di rauennensis soltanto in due manoscritti mentre in tutti gli altri è presentato con l’indicazione del luogo Rauenna o Rauennae, M. Reydellet (p. 166 nota 1) propende per l’opinione che Rauenna denoti il luogo dove la poesia fu scritta, luogo che gli amanuensi avrebbero poi scambiato con la sede vescovile del protagonista. (51) G. Cuscito, Venanzio Fortunato (cit. alla nota 3), p. 215, rileva la somiglianza con l’iscrizione eufrasiana di Parenzo (Inscriptiones Italiae X,2, 81). Cfr. anche: G. Cuscito, Vescovo e cattedrale nella documentazione epigrafica in Occidente. Italia e Dalmazia, in Actes du XIe congrès international d’archéologie chrétienne (a cura di N. Duval, Collection de l’École Française de Rome 123 - Studi di antichità cristiana 41), Roma 1989, pp. 735-776, specie pp. 746-753 e 759-765. (52) Carm. 1,2,25-26 (p. 9): haec bonus antistes Vitale urguente Iohannes / condidit egregio viscera sancta loco. (53) Carm. 1,2,7-24 (p. 8). Le reliquie degli apostoli (specie di Andrea) vennero traslate già verso 400 in Occidente e poi distribuite in varie chiese; cfr. Y.-M. Duval, Aquilée et la Palestine entre 370 et 420, AAAd 12, 1977, pp. 263-322, specie pp. 309-314. Sulla loro presenza nel Norditalia e nell’area aquileiese attorno al 400 cfr. anche R. Bratozˇ, Il cristianesimo aquileiese (cit. alla nota 12), pp. 97-98. (54) Delle reliquie menzionate di sette singoli santi e di un loro gruppo si accennò in quel periodo a ben cinque presenti a Ravenna. Il vescovo Massimiano eresse la chiesa di s. Stefano in cui conservò le reliquie di venti santi: quelle degli apostoli Pietro, Paolo e Andrea (!), al dodicesimo posto si menziona Lorenzo (Agnellus, Liber pontificalis, c. 72 [ed. O. Holder-Egger, come alla nota 45, pp. 327-328; ed. A. Testi Rasponi, p. 191; ed. D.M. Deliyannis, p. 525]); a Ravenna si trovavano pure le reliquie del martire Vitale, che secondo Venanzio era ritenuto martire ravennate (cfr. Vita Martini 6, 682), al quale il vescovo costruì una chiesa a parte (Agnellus, Liber pontificalis, c. 77, ed. O. Holder-Egger, pp. 329-330). Nel citato gruppo di reliquie ravennate mancano s. Martino, il vescovo tridentino Vigilio coi compagni (Marturius, Sisennus, Alexander; vedi A. Quacquarelli, I. Rogger [ed.], I martiri della Val di Non e la reazione pagana alla fine del IV secolo, Trento 1985, specie pp. 159-170), manca anche Cicilia (invece di Cecilia), nominata all’ultimo posto. Quest’ultima appare nello stesso tempo – e nella stessa grafia come in Venanzio (cioè Cicilia) – tra le raffigurazioni delle dodici sante nella basilica Eufrasiana di Parenzo (vedi M. Prelog [cit. alla nota 41], p. 19; R. Bratozˇ, Il cristianesimo aquileiese, p. 440 nota 273). (55) Agnellus, Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis 69-83 (ed. O. HolderEgger, pp. 325-333); Massimiano era un grande veneratore dell’apostolo Andrea; tra l’altro restaurò la chiesa a lui consacrata (Liber pontificalis eccl. Ravenn. 76; ed. O. Holder-Egger, p. 329; ed. A. Testi Rasponi, pp. 195-196). (56) Cfr. Luchi in PL 88, coll. 63-66 (commento); tesi accolta e in parte corretta da J. Dostal, Über Identität und Zeit von Personen bei Venantius Fortunatus, Separat-Abdruck aus dem “Jahres-Berichte des k. k. StaatsObergymnasiums zu Wiener-Neustadt”, Wiener-Neustadt 1900, p. 18 (secondo cui bonus antistes Iohannes non sarebbe papa Giovanni III salito al soglio solo dopo la morte di Massimiano [=Vitale], bensì il posteriore e omonimo vescovo di Ravenna (578-595), altrettanto, non senza distinguo, fa D. Tardi, Fortunat, pp. 31-33; parere condiviso pure da O. Holder-Egger, p. 329 nota 2. (57) Cfr. già O. Holder-Egger, p. 329 (commento); G. Cuscito, Venanzio Fortunato, pp. 215-216; M. Reydellet, p. 166 (commento); J.W. George, Venantius Fortunatus, p. 23 (che spiega la provenienza “ravennate” del vescovo come una congettura del copista che sapeva il poeta aver studiato a Ravenna). (58) Agnellus, Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis 76 (ed. O. Holder-

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Egger, p. 329): Ecclesiam vero beati Andreae apostoli hic Ravennae cum omni diligentia non longe a regione Herculana, columnas marmoreas suffulsit, ablatasque vetustas ligneas de nucibus, proconisas decoravit. Tunc ablatum corpus ipsius apostoli Ravennam ducere conabatur...); c. 82 (p. 332) ... sepultusque est in basilica sancti Andreae apostoli iuxta altarium, ubi barbas praedicti apostoli condidit. Cfr. il commento del A. Testi Rasponi, p. 195-196. (59) E. Stein, Beiträge zur Geschichte von Ravenna in spätrömischer und byzantinischer Zeit, “Klio” 16 (1920), pp. 40-71, specie pp. 53-56; brevemente Id., Histoire II, p. 832. (60) F.W. Deichmann, Ravenna. Hauptstadt des spätantiken Abendlandes II/2, Wiesbaden 1976, pp. 303-306. Cfr. anche C. Nauerth nella edizione: Agnellus von Ravenna, Liber pontificalis. Bischofsbuch (cit. alla nota 45), pp. 20-21 e pp. 314-315 nota 316; J.-Ch. Picard, Le souvenir des évêques. Sépultures, listes épiscopales et culte des évêques en Italie du Nord des origines au Xe siècle (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athenes et de Rome 278), Roma 1988, p. 489 (Picard assume l’ipotesi come possibile pur dando precedenza alla supposizione che si trattasse di un vescovo oriundo di Ravenna ma la cui sede era altrove). (61) Quale possibilità è citata da M. Reydellet, p. 166 (il vescovo milanese Vitale, successore del vescovo Dazio, venne in via eccezionale consacrato à Ravenna alla presenza delle autorità civili). Su Vitale, vescovo di Milano, cfr. E. Stein, Chronologie des métropolitains schismatiques de Milan et d’Aquilée-Grado, in Id., Opera minora selecta, Amsterdam 1968, p. 131 e J.Ch. Picard, Le souvenir des évêques, pp. 58 e 72-73. (62) Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2,4 (ed. L. Capo, pp. 82 e. 427-428 [commento]): Inter haec Iustiniano principe vita decidente, Iustinus minor rem publicam apud Constantinopolim regendam suscepit. His quoque temporibus Narsis patricius, cuius ad omnia studium vigilabat, Vitalem episcopum Altinae civitatis, qui ante annos plurimos ad Francorum regnum confugerat, hoc est ad Agonthiensem civitatem, tandem conprehensum aput Siciliam exilio damnavit. Cfr. O. Hageneder, Die kirchliche Organisation im Zentralalpenraum vom 6. bis 10. Jahrhundert, in Frühmittelalterliche Ethnogenese im Alpenraum, “Nationes” 5 (1985), pp. 201-235, specie pp. 219-220; H. Berg, Bischöfe und Bischofssitze (cit. alla nota 3), p. 84; H. Krahwinkler, Friaul (cit. alla nota 3), p. 24. Contrariamente al parere secondo cui dietro l’indicazione si celerebbe Aguntum, H. Wolff, Die Kontinuität (cit. alla nota 42), p. 11 nota 20 dà la preferenza ad alcuni manoscritti che riportano la forma ad Magonthiensem civitatem (Mainz/Magonza). Anche se alcuni manoscritti dal punto di vista della critica testuale permettono tale possibilità, ci pare tuttavia impossibile che Narsete avesse potuto arrestare il vescovo fuggitivo ben dentro lo stato franco. (63) Sulla conquista da parte di Narsete dell’Italia del Nord e sui provvedimenti contro gli scismatici vedi PLRE III, pp. 923-924 (Narses). (64) La supposizione che dietro al Vitale venanziano si celi il sunnominato vescovo di Altino è stata fatta per primo da R. Koebner, Venantius Fortunatus (cit. alla nota 3), pp. 120-125. In tempi più recenti questa tesi è stata accolta da H. Berg, Bischöfe (cit. alla nota 3), pp. 84-85; B. Brennan, The Career (cit. alla nota 3), pp. 53 e 58; J.W. George, Venantius Fortunatus (cit. alla nota 3), pp. 23 e 26 (se il Vitale di Venanzio è da identificarsi col vescovo di Altino rifugiatosi in territorio franco, è possibile trovare qui i prodromi delle “entrature franche” per il cui tramite Venanzio dispose di raccomandazioni prima della partenza per la Gallia); H. Krahwinkler, Friaul (cit. alla nota 3), pp. 24-25 (Vitale è indicato come amico del poeta); H. Wolfram, Österreichische Geschichte 378-907. Grenzen und Räume, Wien 1995, p. 98 (Vitale di Altino, primo patrono del poeta). Per questa spiegazione propende anche J.Ch. Picard, Le souvenir des évêques (cit. alla nota 60), p. 489. (65) J.W. George, Venantius Fortunatus, p. 26; B. Brennan, The Career, p. 57-58 espresse il parere che queste connessioni passassero attraverso il vescovo di Treviri Nicezio, che aveva connessioni con dignitari ecclesiastici nell’Italia settentrionale. (66) R. Koebner, Venantius Fortunatus, p. 125 nota 1 espresse il parere

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che il bonus antistes Iohannes fosse da identificare con l’omonimo vescovo padovano (celsus Iohannes; vedi sopra nota 40). (67) R. Koebner, Venantius Fortunatus, p. 123-124, suppone che dietro il secondo si celi il praefectus praetorio per Italiam, dietro il primo il comandante militare bizantino al confine settentrionale col titolo di dux, allora l’erulo Sindual, con sede a Trento (vedi PLRE III, pp. 1154-1155, s.v. Sindual). La poca affidabilità di tale spiegazione è stata rilevata da E. Stein, Beiträge (cit. alla nota 59), pp. 53-54 (note); Id., Histoire II, p. 832. (68) P. Testini, G. Cantino Wataghin, L. Pani Ermini, La cattedrale in Italia, in Actes du XIe congrès international d’archéologie chrétienne (cit. alla nota 51), 22 (“nessuna proposta di ubicazione”). (69) Sulle chiese paleocristiane nell’area di Agunto vedi F. Glaser, Die Christianisierung von Noricum Mediterraneum bis zum 7. Jahrhundert nach den archäologischen Zeugnissen, in Das Christentum im bairischen Raum. Von den Anfängen bis ins 11. Jahrhundert (a cura di E. Boshof e H. Wolff), Köln, Weimar, Wien 1994, pp. 218-221; Id., Frühes Christentum in Alpenraum, Graz, Wien, Köln, Regensburg 1997, pp. 143-147 (con una particolareggiata letteratura). Il toponimo di Patriasdorf e il patrocinio di s. Andrea la collocano nella sfera d’influenza aquileiese nell’alto Medioevo (cfr. H. Dopsch, Salzburg als Missions- und Kirchenzentrum, in Slovenija in sosednje dezˇele (cit. alla nota 13), pp. 683-684 (con letteratura particolareggiata). L’Aguontus di Venanzio (Vita s. Martini 4, 649) non sarebbe identificabile con Lienz (che sorge a valle) bensì con l’altura di Kirchbichl von Lavant quattro chilometri a sudest dell’antica città (montana sedens in colle). Cfr. G. Rosada, Il “viaggio” (cit. alla nota 3), pp. 33-34 e p. 53 note 30-33. (70) Agnellus, Liber pontificalis..., 69 (ex Polense ecclesia); 70 (Qui [sc. imperator] iussit consecrari beatum Maximianum Polensem diaconum episcopum a Vigilio papa in civitate Patras aput Achaiam); c. 76 (ed. O. HolderEgger, pp. 326 e 329). (71) Agnellus, Liber pontificalis, 74 (ed. Holder-Egger, p. 328). Nel periodo della controversia per il possesso del bosco Vistrum in Istria si recò due volte a Costantinopoli dove avrebbe convinto Giustiniano a emanare un praeceptum con cui il bosco conteso sarebbe appartenuto perpetue legaliterque alla chiesa ravennate. (72) Agnellus, Liber pontificalis, 76 (ed. Holder-Egger, p. 329): Aedificavitque ecclesiam beatae Mariae in Pola quae vocatur Formosa, unde diaconus fuit, mira pulcritudine et diversis ornavit lapidibus. Domum vero, ubi rector istius ecclesiae in ipsa civitate habitat, ipse haedificavit et omnes opes suas Ravennati ecclesiae tradidit... Cfr. brevemente G. Cuscito, Cristianesimo antico (come alla nota 3), p. 286-287. (73) F. Kos, Gradivo za zgodovino Slovencev v srednjem veku I, Ljubljana 1902, n. 38 (p. 32): ... huic donationi ... factae monasterio b. Andreae apostoli, vel basilicae s. Mariae, vel eisdem locis deservientibus... Cfr. anche B.M. De Rubeis, Monumenta Ecclesiae Aquileiensis, Argentinae 1740, pp. 192-193; P. Kandler, Codice diplomatico Istriano, Trieste 19862, a. 547. Cfr. anche G. Cuscito, Venanzio Fortunato, p. 218; Id., Cristianesimo antico, p. 287; A. TestiRasponi nella ediz. dell’Agnellus (RIS II/3), p. 194. (74) G. Cuscito, Venanzio Fortunato, pp. 218-219 (sulla scorta del Kandler); la menzione viene riportata anche da B. Marusˇic´, Das spätantike und byzantinische Pula, Pula 1967, p. 43; ultimamente Zˇ. Ujcˇic´, Pola paleocristiana alla luce del catasto austriaco dell’anno 1820, in Acta XIII congressus internationalis archaeologiae christianae III (a cura di N. Cambi, E. Marin), Città del Vaticano - Split 1998, pp. 743-758, specie p. 747 e p. 756 (l’autore respinge qualsiasi legame della chiesa di s. Andrea col fittizio atto di donazione). (75) Riferendo sugli avvenimenti della primavera del 1000 (arrivo a Pola del doge Orseolo II con la flotta) menziona il monastero Giovanni Diacono, Chronicon Venetum (G. Monticolo, Cronache veneziane antichissime, Roma 1890, p. 156,19-20: ... apud monasterii sancti Andreae insulam, quae iuxta Pollensem civitatem manet...), e poi il diploma di Ottone III dell’anno 1001 (MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae II/2. Ottonis III. diploma-

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ta, München 19802, n. 420, p. 854,20-21: ... cum monasterio et abbatia sancti Andraee (!) apostoli foras eandem civitatem [sc. Polam] in insula maris sita ...). Cfr. G. Cuscito, Venanzio Fortunato, p. 219. (76) Quest’ultimo è menzionato per la prima volta appena nell’858 (abbas monasterii sancte Marie et sancti Andree apostoli in insula que uocatur Serra partibus Hystriensis; vedi F. Kos, Gradivo za zgodovino Slovencev v srednjem veku II, Ljubljana 1906, n. 159 [p. 126]; cfr. anche n. 480 [p. 375] dell’anno 983). B. Marusˇic´, Das spätantike und byzantinische Pula, 43 è del parere che anche questo monastero sorgesse nel VI sec. e che successivamente gli fossero subordinate le due strutture di Pola. (77) I pareri se siano da ascriversi a Massimiano tutte e tre le strutture o soltanto le due di Pola divergono; mentre A. Testi Rasponi (commento all’Agnellus, Liber pontificalis [come alla nota 45], p. 213) propende per quest’ultimo, G. Bovini, L’opera di Massimiano da Pola a Ravenna, AAAd 2 (1972), pp. 155 e 160 ha in proposito delle riserve. (78) B. Marusˇic´, J. Sˇasˇel, De la cella trichora au complexe monastique de St. André a Betika entre Pula et Rovinj, “Arheolosˇki vestnik” 37 (1986), pp. 307-342. (79) B. Marusˇic´, Sˇe o istrski Kisi (Cissa) in kesenskem sˇkofu (episcopus Cessensis) (con riassunto: Noch einiges über das istrische Cissa und das kessensche Bistum [episcopatus Cessensis]), “Arheolosˇki vestnik” 41 (1990), pp. 403-430 (riassunto pp. 422-424); cfr. R. Bratozˇ, Il patriarcato di Grado (cit. alla nota 13), pp. 30-34 rispettivamente Id., Das Patriarchat Grado (cit. alla nota 13), pp. 638-644. (80) B. Marusˇic´, Sˇe o istrski Kisi, p. 418. (81) B. Marusˇic´, Sˇe o istski Kisi, p. 419. (82) Cfr. G. Cuscito, Venanzio Fortunato, pp. 221-223; Id., Cristianesimo antico, pp. 287-288. (83) F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), Faenza 1927, pp. 847-849, li inserisce (in via condizionale) nell’elenco dei vescovi di Pola (per Vitale specifica “vescovo ravennate in Pola?”, Giovanni è invece indicato come vescovo “presso Pola?”). (84) G. Cuscito, Venanzio Fortunato, p. 222 (con la citazione delle fonti); cfr. Pelagius I papa, Epist. 50 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, Montserrat 1956, p. 131). (85) Epistolae Pelagii Iunioris papae ad episcopos Histriae 2, 30 (ACO IV,2, 1914, p. 112,9-11): Uel si hoc pro longinquitate locorum uel temporum qualitate pauescitis, illic Rauennae fiat congregatio sacerdotum, quo nos etiam qui loco nostro intersint, diuinitate propitia dirigamus... Vedi anche G. Cuscito, Aquileia e Bisanzio nella controversia dei Tre Capitoli, AAAd 12 (1977), pp. 231-262; Id., Cristianesimo antico, pp. 293-304. (86) Paulus Diaconus, Hist. Lang. 3,26 (ed. L. Capo, pp. 156-158 e 480482); Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium 9 (ACO IV,2, pp. 133-134). Cfr. ultimamente P. Sˇtih, O seznamu sˇkofov v Paulus Diaconus, Historia Langobardorum III,26, (riassunto: La lista dei vescovi in Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, III, 26), in Zbornik Pravnog fakulteta Sveuc´ilisˇta u Rijeci, Suppl. 1, Rijeka 2001, pp. 105-116. (87) Gregorius Magnus, Registrum 9,156,22-27 (CCSL 140 A, p. 712713): Et idcirco sanctitas tua (il vescovo di Ravenna Mariniano) illic episcopum ordinet eandemque insulam in sua diocesi habeat, quousque ad fidem catholicam Histrici episcopi reuertantur... Vedi L. Margetic´, Histrica et Adriatica, Trieste 1983, pp. 113-114. (88) Cfr. R. Bratozˇ, Il patriarcato di Grado, (cit. alla nota 13), pp. 33-34; Id., Das Patriarchat Grado (cit. alla nota 13), pp. 643-644 nota 119. (89) R. Bratozˇ, Il cristianesimo aquileiese, pp. 97-98. (90) Origo civitatum Italie seu Venetiarum, ed. secunda (ed. R. Cessi), Roma 1933, pp. 78,27-29 e 164,25. Cfr. P. Zovatto, Il monachesimo benedettino del Friuli, Quarto d’Altino (Venezia) 1977, p. 80. (91) Il vescovo aquileiese Paolo è detto pius pontifex (Vita Martini 4, 661), l’amico di gioventù del poeta Felice, futuro vescovo di Treviso è inlustris socius (Vita Martini 4, 666), il padovano Giovanni celsus (Vita Martini 4, 675); dei

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vescovi di incerta provenienza Vitale, oltre a essere magnificato con una serie di attributi elogiativi, è anche apostolica praefulgens mente sacerdos (Carmina 1,1,5), infine Giovanni è bonus antistes (Carmina 1,2,25). (92) In una lettera indirizzata all’imperatore Maurizio nel 591, i vescovi scismatici presentano i prodromi dello scisma ai tempi di Giustiniano (cioè fino al 565) anzi tutto come uno scontro politico-religioso svoltosi solo in piccola misura in forma di coercizione diretta. Quest’ultima è suggerita dalla frase: Et licet postea imperiali pondere ad consensum damnationis capitulorum ipsorum paulatim singuli tunc fuerint coartati, nostrarum tamen prouinciarum uenerandi decessores, quibus indigni successimus, praedicti quondam Vigilii instructionibus informati, ad hoc inclinari nullo modo potuerunt (Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium 5, in ACO IV,2 [ed. E. Schwartz], p. 135,17-21). (93) Cfr. Paulus Diaconus, Hist. Lang. 3,26 (ed. L. Capo, p. 156: ... comminans exilia atque violentiam inferens ...[sc. Smaragdus patricius]); Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium 7-9, in ACO IV,2 (ed. E. Schwartz), pp. 135-136 (specie p. 133,39-42: ... archiepiscopo nostro Seuero quae contumeliae inlatae sint et quibus iniuriis ac caede corporali fustium et qua uiolentia ad Rauennatem fuerit ciuitatem perductus atque redactus in custodia, quibusque necessitatibus oppressus atque contritus fuerit ...). (94) Su Giustino II e la sua influentissima consorte Sofia vedi PLRE III, pp. 754-756 (Iustinus 5) e pp. 1179-1180 (Sophia 1); A. Cameron, The empress Sophia, “Byzantion” 45 (1976), pp. 5-21; ultimamente The Cambridge Ancient History XIV. Late Antiquity: Empire and Successors A.D. 425-600 (ed. A. Cameron, B. Ward-Perkins, M. Whitby), Cambridge 2000, pp. 86-94 e 828830. Per l’acquisizione delle reliquie della S. Croce alla luce di questa e di alcune altre poesie di Venanzio vedi J.W. George, Venantius Fortunatus (cit. alla nota 3), pp. 62-67; Ead., in Venantius Fortunatus, Personal and Political Poems (cit. alla nota 1), pp. 111-115. Tra le fonti contemporanee dell’acquisizione delle reliquie parla anche Gregorius Turonensis, Historiae 9, 40 (ed. R. Buchner, Darmstadt 1974, II, p. 302). Sulla scorta delle allusioni di Venanzio all’ascesa al trono di Giustino, non però degli avvenimenti posteriori, A. Cameron, The empress, p. 13, che data la traslazione delle reliquie “non molto dopo il 566/67”. (95) B. Brennan, The disputed authorship of Fortunatus’ Byzantine poems, “Byzantion” 66 (1996), pp. 335-345 (l’autore confuta in maniera convincente l’ipotesi per cui la paternità della poesia sarebbe da attribuire a Radegonda). (96) Vedi sotto nota 120. (97) Appendix II, 21-26 (MGH AA 4,1, p. 276): gloria summa tibi, rerum sator atque redemptor, / qui das Iustinum iustus in orbe caput. / Ecclesiae turbata fides solidata refulget / et redit ad priscum lex veneranda locum. / Reddite vota deo, quoniam nova purpura quidquid / concilium statuit Calchedonense tenet. Cfr. S. Di Brazano, in Venanzio Fortunato, pp. 630-637, specie pp. 632-633. (98) Concilium unversale Chalcedonense, Actio 5, 32 (ed. E. Schwartz), ACO III/1, Berlin-Leipzig 1935, p. [394] 135; cfr. anche A. Hahn, Bibliothek der Symbole und Glaubensregeln der Alten Kirche, Breslau 1897, pp. 166-168 e H. Denzinger, A. Schönmetzer, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Barcinone etc. 197335, p. 108 (301-302). (99) Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium 3-4 (ACO IV/2, p. 133,8-15): ... scandalum ecclesiae, quod tempore diuae memoriae Iustiniani principis totius mundi ecclesias conturbauit ... quae in sancta synodo Chalcedonensi recepta sunt, et Vigilio tunc Romano praesuli atque omnibus paene sacerdotibus damnatio ipsa (sc. trium capitulorum), sicut reuera contraria sancti Chalcedonensis concilii, execrabilis noscitur extitisse. (100) Cfr. Epistolae Pelagii Iunioris papae ad episcopos Histriae I-III (ACO IV/2, 1914, pp. 105-132), specie Epist. I, 11-13 (p. 106); Epist. II, 11-17 (p. 109-110); Epist. III (passim; il polemico trattato sarebbe opera del futuro papa Gregorio); Gregorius Magnus, Registrum epist. 3,10 (CCSL 140, pp. 157-158); 4,3 (ivi, pp. 219-220); 4,4 (pp. 220-221); 4,37 (pp. 257-258); 5,52

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(pp. 346-347); 6,2 (p. 370-371); 8,4,75-79 (CCSL 140A, pp. 520-521); 9,148,52-118 (pp. 700-702). (101) Pelagius II, Epistula II ad episcopos Histriae 16 (ACO IV/2, p. 110,8-10: ... quantum sit periculum pro superfluis quaestionibus et haereticorum defensione capitulorum tam diu ab uniuersali ecclesia segregari.); 19 (ivi, p. 110,26-27: ... tantis temporibus per superfluas quaestiones ab ecclesia dei ... diuidi uos ... duratis). (102) Cfr. Gregorius Magnus, Registrum epist. 4,3,12-13 (CCLS 140, p. 218): ... postquam talis scissura pro nulla re facta est, iustum fuit ut sedes apostolica curam gereret... (lettera indirizzata al vescovo di Milano Costanzio nell’anno 593). (103) Cfr. E. Stein, Histoire II, pp. 669-675; vedi anche E. Caspar, Geschichte des Papsttums II, Tübigen 1933, pp. 286-305; Enciclopedia dei papi I, Roma 2000, pp. 529-536, s.v. Pelagio I. (C. Sotinel); pp. 537-539, s.v. Giovanni III. (M.C. Pennachio). (104) Appendix II, 39-44 (ivi, p. 276): Exilio positi patres pro nomine Christi / tunc rediere sibi, cum diadema tibi. / Carcere laxati, residentes sede priore / esse ferunt unum te generale bonum. / Tot confessorum sanans, Auguste, dolores / innumeris populis una medella venis. (105) Euagrius, Hist. eccl. 5,1 (PG 86, col. 2789 A); nel contenuto ampliato e più preciso è il rapporto di Nicephorus Callistus, Hist. Eccl. 17,33 (PG 147, col. 304 D). (106) Johannes Biclarensis, Chronica, ad a. 567 (ed. Th. Mommsen, MGH AA XI, 1894, p. 211 ovv. PL 72, col. 863 B): Qui Justinus anno primo regni sui, ea quae contra synodum Chalcedonensem fuerant commentata, destruxit... (107) Cfr. E. Stein, Histoire II, pp. 681-681 nota 1; Histoire du christianisme 3 (a cura di L. Pietri), Paris 1998, pp. 461-462; The Cambridge Ancient History XIV (cit. alla nota 94), pp. 828-829. (108) Appendix II, 27-32 (ivi, p. 276): Hoc meritis, Auguste, tuis et Gallia cantat, / hoc Rhodanus, Rhenus, Hister et Albis agit. / Axe sub occiduo audivit Gallicia factum, / Vascone vicino Cantaber ista refert. / Currit ad extremas fidei pia fabula gentes / et trans Oceanum terra Britanna favet. (109) Appendix II, 45-46 (ivi, p. 276): tot confessorum sanans, Auguste, dolores, / innumeris populis una medella venis. / Thrax Italus Scytha Phryx Daca Dalmata Thessalus Afer / quod patriam meruit nunc tibi vota facit. (110) Cfr. F. Della Corte, Venanzio Fortunato, il poeta dei fiumi, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia (cit. alla nota 3), pp. 137-147. (111) Cfr. MGH AA 4,2, p. 129 (Index regionum et locorum, s.v. Germania). Fa eccezione Gregorius Turonensis, Historiae 4,23 e 4,29 (ed. R. Buchner, Darmstadt 1974, I, pp. 224 e 232); l’autore descrive le due marcie degli Avari contro il regno franco (nel 561e ripetutamente nel 566) con le battaglie decisive nella Turingia come due invasioni in Gallia (Chunni Gallias appetunt ... iterum in Gallias venire conabantur). Più preciso era Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2,10 (ed. L. Capo, pp. 88-90: ... in Turingia ... iuxta Albem fluvium ... in locis ubi et prius pugnantes...) (112) Epistulae Austrasicae 7, 8,62-64 (ed. W. Gundlach, CCSL 117, 1957, p. 418): Nam notum tibi (sc. Iustiniano) sit, quod tota Italia, integra Africa, Hispania uel Gallia coniuncta nomen tuum cum deperditione tua plorant, anathematizant. L’affermazione del vescovo gallico è interessante anche perciò Nicezio fu uno dei primi a invitare e a proteggere Venanzio Fortunato; il poeta lo aveva visitato anche prima del suo arrivo a Metz. Cfr. B. Brennan, The Career, pp. 57-58; J.W. George, Venantius Fortunatus (cit. alla nota 3), pp. 26-28. (113) Vedi sopra nota 99. Sugli echi della controversia tricapitolina in Occidente vedi Histoire du christianisme 3. Les Églises d’Orient et d’Occident (432-610) (a cura di L. Pietri), Paris 1998, pp. 431-433 e pp. 747-750; brevemente anche É. Amann, Trois-Chapitres, in Dictionnaire de théologie catholique 15/2, Paris 1950, coll. 1868-1924, specie coll. 1913-1914; R. Schieffer, Zur Beurteilung des norditalischen Dreikapitel-Schismas. Eine überlieferungsgeschichtliche Studie, “Zeitschrift für Kirchengeschichte” 87 (1976), pp. 167-

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201, specie pp. 168-169; C. Sotinel, Le concile, l’empereur, l’évêque. Les statuts d’autorité dans le débat sur les Trois chapitres, in Orthodoxie, christianisme, histoire (Collection de l’École Française de Rome 270), Roma 2000, pp. 275-299, specie pp. 285-286. (114) Vedi brevemente E. Stein, Histoire II, pp. 681-682, nota 1. Sullo stato delle terre greche dell’Illirico Orientale (cui faceva capo anche la Tessaglia) e della diocesi Dacia vedi Ch. Pietri, La géographie de l’Illyricum ecclésiastique et ses relations avec l’Église de Rome (Ve - VIe siècles), in Villes et peuplement dans l’Illyricum protobyzantin (Collection de l’École Française de Rome 77), Roma 1983, pp. 21-62, specie pp. 52-53; per l’Illirico occidentale vedi C. Capizzi, I vescovi illirici e l’affare dei “Tre Capitoli”, “Atti e memorie della Società dalmata di storia patria” 12 (1987), pp. 71-117, specie pp. 108-117; Per l’Africa, Illirico e Italia Histoire du christianisme 3, pp. 433-434; pp. 705709; brevemente É. Amann, Trois-Chapitres (cit. alla nota 113), coll. 19111913. Circa la menzione di Tracia e Frigia, che in quanto parte del patriarcato costantinopolitano ligio a Giustiniano non ebbero ruolo alcuno nella controversia, E. Stein (l.c.) propone due possibili spiegazioni: o la menzione si riferisce a un’altra controversia in cui le due terre potrebbero state coinvolte (aftartodocetismo; cfr. brevemente A. Fliche, V. Martin [ed.], Storia della Chiesa IV, Torino 1972, pp. 607-608; A. Grillmeier, Aphthartodoketismus, in Lexikon für Theologie und Kirche [19932], coll. 803-804) o i due monosillabi di Thrax e Phryx vi furono introdotti per motivi di metrica. La prima proposta ci pare la più probabile. (115) Dandulus, Chronica, A. 579 (ed. E. Pastorello), Bologna 1938, p. 83); vedi G. Cuscito, La fede calcedonese e i concili di Grado (579) e di Marano (591), AAAd 17 (1980), pp. 207-230, specie pp. 217 e 228. (116) In questo senso J. Kastelic, Lo stile e il concetto dei mosaici della basilica Eufrasiana a Parenzo, in Atti del VI congresso internazionale di archeologia cristiana, Ravenna (1962) 1965, pp. 485-489 (versione slovena: Stil in ideja mozaikov Eufrazijeve bazilike v Porecˇu, “Situla” 8 [1965], 209-212); P. Gleirscher, Der Drei-Kapitel-Streit und seine baulichen Auswirkungen auf die Bischofskirchen im Patriarchat von Aquileia, “Der Schlern” 74 (2000), pp. 9-18. (117) Cfr. brevementze R. Bratozˇ, Il patriarcato di Grado (cit. alla nota 13), pp. 21-22 e 36; Id., Das Patriarchat Grado (cit. alla nota 13), pp. 626-627 e 648. Di importanza fondamentale per questo problema R. Schieffer, Zur Beurteilung (cit. alla nota 113), specie pp. 176-180 (secondo questa analisi esistevano nel patriarcato di Aquileia fondamentali testi per gli scismatici come per esempio gli scritti di Facundo di Ermiane [Pro defensione trium capitulorum, In Mocianum] e la traduzione latina dei voluminosi atti del concilio calcedonese e vari estratti degli atti con gli passi più attuali). Un’attività publicistica degli scismatici è documentata appena per il tempo degli patriarchi Elia (571-587) e Severo (588-606). (118) Cfr. Carmina 7,9,7-12 (MGH AA 4,1, p. 163): exul ab Italia nono, puto, volvor in anno / litoris Oceani contiguante salo: / tempora tot fugiunt et adhuc per scripta parentum / nullus ab exclusis me recreavit apex. / Quod pater ac genetrix, frater, soror, ordo nepotum, / quod poterat regio, solvis amore pio. Cfr. anche Carm. 9,7,89 (ivi, p. 214): ... me in Galliis posito post tot annos... (119) Carmina 11,1 (= Expositio symboli [MGH AA 4,1, pp. 253-258; con traduzione e commento S. Di Brazzano in Venanzio Fortunato, pp. 600-613]); Symbolum Athanasianum (ed. B. Krusch, MGH AA 4,2, 1995, pp. 105-106); Expositio fidei catholicae (ivi, pp. 106-110). (120) Appendix II, 1-10 (MGH 4,1, p. 275): Gloria summa patris natique et spiritus almi, / unus adorandus hac trinitate deus, / maiestas, persona triplex, substantia simplex, / aequalis consors atque coaeva sibi, / virtus una manens idem, tribus una potestas, / (quae pater haec genitus, spiritus ipsa potest), / personis distincta quidem, coniuncta vigore, / naturae unius, par ope luce throno, / secum semper erat trinitas, sine tempore regnans, / nullius usus egens nec capiendo capax. Cfr. la descrizione della SS. Trinità nell’editto di Giustino II, di un credo commentato (Euagrius, Hist. Eccl. 5,4 [PG 86, coll. 2793-2801, specie coll. 2796]) e nel panegirico in onore di Giustino II (Corippus, In laudem Justini 4, 290-299 [PL Supplementum IV, Paris 1967,

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coll. 1177-1178]); vedi anche J.W. George in Venantius Fortunatus: Personal and Political Poems (cit. alla nota 1), pp. 111-112 nota 3; A. Cameron, The empress (cit. alla nota 94), p. 13; L. Pietri, Venance Fortunat (cit. alla nota 3), pp. 752-753. (121) In laudem sanctae Mariae (MGH AA 4,1, pp. 371-380; dall’editore F. Leo segnalata come spuria). Cfr. R. Koebner, Venantuis Fortunatus, pp. 143-148 (secondo il suo parere un’opera tarda di Venanzio); J.W. George, Venantius Fortunatus (cit. alla nota 3), p. 66 note 20; A. Di Berardino, Patrologia IV, Genova 1996, p. 328. La presentazione poetica della Vergine in 360 versi rassomiglia alla breve (in 18 versi) e di alcuni decenni anteriore (566/567 ca.) descrizione poetica di Corippus, In laudem Justini 2, 52-69 (PL Supplementum IV, coll. 1148-1149); cfr. S. Di Brazzano in Venanzio Fortunato, p. 633 nota 24. (122) Carmina 11,1,29 (= Expositio symboli 29 [MGH 4,1, p. 256: descendit ad infernum]); Expositio fidei catholicae 36 (MGH AA 4,2, p. 110: descendit ad inferos); in stesso modo anche Symbolum Athanasianum 36 (ivi, p. 106); cfr. Rufinus, Expositio symboli 12; 14-16 (CCSL 20, pp. 149-153: descendit in inferna); R. Bratozˇ, Il cristianesimo aquileiese (cit. alla nota 12), pp. 129-134. Per la relazione tra Rufino e Venanzio vedi F. Kattenbusch, Das apostolische Symbol I, Leipzig 1894, pp. 102, 106 e 130-132. Lo stesso motivo si trova anche nella poesia In laudem sanctae Mariae, vv. 328-330 (MGH AA 4,1, p. 379: ... cuius et agnus ovis conterit ora lupi, / Tartara disrumpens, patriae captiva reducens / et libertati post iuga pressa refers ...). (123) Cfr. J.N.D. Kelly, Altchristliche Glaubensbekenntnisse. Geschichte und Theologie, Berlin 1971, pp. 371-377 e 403-411. Per i pareri diversi sopra l’origine del credo di Venanzio (Aquileia o Pictavii) vedi F. Kattenbusch, Das apostolische Symbol II, Leipzig 1900, pp. 458-459 nota 1 e p. 482 nota 13). (124) Vedi nota 97. (125) Vedi nota 118. (126) Vita s. Martini 4, 644 (MGH AA 4,1, p. 368): si vacat ire viam neque te Baiovarius obstat. (127) Per il miracolo vedi Vita s. Martini 4, 686-701 (MGH AA 4,1, pp. 369-370; ed. S. Quesnel [cit. alla nota 1], pp. 100-101; traduz. di G. Palermo [cit. alla nota 1], pp. 153-154); ne parlano anche Gregorius Turonensis, De miraculis s. Martini 1,15 (PL 71, col. 927 C) e Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 13 (ed. L. Capo, pp. 90-92). Dell’importanza secondaria del motivo religioso ha scritto già R. Koebner, Venantius Fortunatus, p. 14. (128) Carmina 7,9,7 (MGH AA 4,1, p. 163: exul ab Italia; vedi nota 118); cfr. Carmina 3,13,32 (ivi, p. 66: exul; cfr. J.W. George, in Venantius Fortunatus: Personal and Political Poems [cit. alla nota 1], p. 2 nota 6]). Anche i vescovi scismatici, banditi da Giustiniano e poi graziati da Giustino II alla sua ascesa al soglio, vengono indicati dal poeta come exilio positi patres (Appendix carminum 2, 39; ivi, p. 276). (129) R. Koebner, Venantius Fortunatus, p. 14; H. Berg, Bischöfe (cit. alla nota 3), pp. 84-85 (malcontento per il governo bizantino); H. Krahwinkler, Friaul (cit. alla nota 3), 25 (supposta posizione antibizantina). (130) H. Wopfner, Die Reise, pp. 365-366 e specie E. Stein, Histoire II, pp. 833-834 (cit. alla nota 3). (131) Nella forma più perfezionata J. Sˇasˇel, Il viaggio (cit. alla nota 3); l’opinione è fatta propria anche da M. Rouche, Autocensure de diplomatie chez Fortunat à propos de l’élégie sur Galeswinthe, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 149-159, specie pp. 157-158. (132) Cfr. L. Pietri, Venance Fortunat, pp. 735-736; B. Brennan, Venantius Fortunatus: Byzantine agent? (cit. alla nota 3). (133) Vogliamo citare solo due esempi, per i quali esistevano spiegazioni diverse (peregrinatio religiosa ovvero intenzioni soprattutto politiche) per i motivi della partenza – temporanea o permanente – in paesi lontani: s. Severino di Norico († 482) e s. Martino di Braga († ca. 580; con questo Venanzio Fortunato ebbe contatti epistolari, vedi Carm. 5,1-2, pp. 101-106). Per i vari giudizi sopra s. Severino vedi R. Bratozˇ, Der “heilige Mann” (cit. alla nota 36), pp. 246-252 (con bibliografia); a s. Martino di Braga ha accen-

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nato J. Sˇasˇel, Il viaggio (cit. alla nota 3), p. 373; Id., Divinis nutibus actus, “Historia” 27 (1978), pp. 249-254 (= Id., Opera selecta, pp. 740-745 e 780) per le intenzioni politiche, B. Brenan, Venantius Fortunatus (cit. alla nota 3), p. 10 invece respingeva tale spiegazione. (134) A. Cameron, Wandering Poets: A Literary Movement in Byzantine Egypt, “Historia” 14 (1965), pp. 470-509, specie p. 484. (135) J.W. George, Venantius Fortunatus, p. 26; cf. anche I.N. Wood in The Cambridge Ancient History XIV (cit. alla nota 94), p. 433. (136) Cfr. L. Pietri, Venance Fortunat, p. 736. (137) Ancora intorno al tempo della partenza del poeta per la Gallia scoppiava – dopo la morte dell’imperatore Giustiniano alla metà del novembre 565 – l’insurrezione degli Eruli nel Tridentino, che proclamavano re il loro duca Sindual. Narsete, vinto l’usurpatore, lo cacciò e fece uccidere (probabilmente nel 566); vedi PLRE III, p. 1155, s.v. Sindual. Le dimensioni e l’importanza dei pericoli alla frontiera settentrionale dell’Italia bizantina si riflettono nel commento alla vittoria di Narsete sopra gli Eruli ribelli in Liber pontificalis, LXIII (Iohannes III), 2 (ed. L. Duchesne, Paris 19552, p. 305): Erat enim tota Italia gaudens. (138) Le pressioni successive dall’una e dall’altra parte sono presentate brevemente dall’Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium (ACO IV/2, pp. 132-135), specie cap. 7-10 (p. 133; pressioni del potere bizantino in Italia negli anni ca. 586-590) e cap. 18-19 (p. 135; le minacce dei Galliarum episcopi al tempo di Giustiniano e la ripetuta insicurezza da questa parte intorno 590). (139) Tutte le indicazioni del poeta sopra questo territorio si riferiscono ai tempi passati. La Pannonia (e una volta Savaria) è menzionata come la patria di s. Martino (Vita s. Martini 1,46; Carmina 10, 6, 93; MGH AA 4,1, pp. 237 e 296), e come la patria del s. Martino di Braga (Carmina 5, 2, 21; p. 104), Siscia come patria del martire Quirino (Carmina 8, 3, 153; p. 185). L’Illirico è menzionato solo in connessione con la missione dell’apostolo Paolo (Carmina 5, 2, 7; p. 104) e come il territorio infettato dall’eresia ariana (Vita s. Martini 1,110; p. 299). Sulle condizioni nei paesi danubiano-balcanici negli anni 567ca. 600 vedi W. Pohl, Die Awaren, München 1988, pp. 58-162. (140) Cfr. brevemente in The Cambridge Ancient History XIV, pp. 416 e 873.

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ALESSIO PERSˇICˇ Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Venanzio Fortunato presbyter Italicus Lettura dell’Expositio symbuli e dell’Expositio orationis dominicae alla luce della tradizione di fede della Chiesa di Aquileia, con un poscritto sull’Expositio fidei catholicae Fortunati

1. Alle radici di un’identità culturale

Riscoprire e precisare le tracce dei legami di Venanzio Fortunato con la terra delle origini, la Venetia, resta un impegno storiografico valido, ma tuttora irrisolto: ciò si avverte soprattutto quando ipotesi rivolte all’incremento dei ‘fatti’ cerchino di dimostrarne la plausibilità a partire ancora dal fondamento consunto delle espresse testimonianze autobiografiche del poeta, che restano invece parsimoniose e non sempre di facile interpretazione1. Dunque immagino, raccogliendo di buona voglia una sfida già antica negli studi fortunaziani, che ormai sia prudente spostare con più decisione la mira dai fatti alle idee e imitare l’intuito affettuoso che mosse Paolo Diacono a ricordarlo come compatriota: Ingenio clarus, sensu celer, ore suavis, ... Fortunatus, apex vatum, ... Ausonia genitus2. L’intento sarebbe allora di riuscire a cogliere la forma di un’identità culturale nativa – che supponiamo ‘aquileiese’3 – dove meglio e con maggiore probabilità Fortunato dovrebbe rivelarla: nella confessione di una fede cristiana dai tratti personali e classificabili, e nei loro diretti riverberi sull’immaginario poetico più teologicamente ispirato. Rispetto a una ricerca biografica di avvenimenti, questo percorso critico si prefigura, almeno in abbrivio, meno accidentato, perché virtualmente inscritto nella interpretazione di poche fonti specifiche e a priori sufficienti a fornire informazioni del tipo ricercato: intendo, innanzitutto, le brevi (e piuttosto neglette) prose teologiche Expositio orationis Dominicae (c. X, 1) e Expositio Symbuli4 (c. XI, 1), che il presbyter Italicus scrisse in età matura, se non dopo la consa403

crazione a vescovo di Poitiers (a. 591)5. Sono opere il cui evidente debito di contenuti, in un plasma di nuovo caratterere, ma omogeneo con le fonti, assumono uno speciale valore indiziario per la comprensione della cultura teologica di Fortunato6. La seconda, in particolare, consiste nel riassunto dell’omonimo trattato composto da Rufino d’Aquileia verso l’anno 4047 e testimonia quindi il ricorso a un’opera senza dubbio celebre: ma tale interesse difficilmente si vorrebbe ammettere non determinato in Fortunato da una conoscenza remota, eppure viva ancora nella terra di emigrazione. Dall’Expositio Symbuli, appunto, mi sembra possano trarsi gli elementi di base per un’indagine sul carattere aquileiese della sensibilità cristiana dell’Autore, considerando vantaggio qualsiasi segno di continuità con un passato che nella sua opera si dimostri il sedimento profondo di una personalità.

2.1 L’ambientazione litugica dell’Expositio symbuli

Tuttavia, in concreta aderenza alla natura di uerbum breuiatum propria del simbolo di fede8, l’epitome è tanto stringata da lasciare indovinare che, rispetto alla fonte, diversa ne sia la funzione e perciò il genere letterario. Non aveva torto Antonio Meneghetti, quando – gettandovi uno sguardo fugace benché apprezzabile, considerato il relativo disinteresse critico per questo minuscolo scaffale della biblioteca venanziana – osservava: “Ben diversa [a confronto con quella impiegata nelle epistole] è la prosa degli scritti teologici (X, 1; XI, 1). È lo stile dell’interpretazione vocale, una specie di predica, donde la costruzione retorica delle frasi. La lingua, però, è relativamente pura, i periodi sono piani e facili, e fuggono dalle allitterazioni, dalle figure etimologiche, dalle anafore e dagli altri giochi di parole e di suoni”9. In effetti, entrambe le prose di Fortunato, dove l’avita Itala Patavinitas – cioè la lingua e lo stile oratorio della Venetia – sembra plano pede farsi rivalere inter Gallicanos cothurnos10, si comprendono con maggiore profitto qualora si ammetta che fossero state concepite non come lettura d’aggiornamento teologico, bensì per un uso liturgico appropriato. È verosimile pensare che la concisa Expositio Symboli trovasse l’ambientazione propria nel rito della Traditio Symboli ai catecumeni, celebrata la Domenica delle Palme (o, in epoca più tarda, il sabato precedente) in modo assai 404

simile quanto allo svolgimento generale, se non quanto al testo preciso, così nell’Italia del nord come in Spagna o in Gallia: un rito più semplice di quello romano corrispondente, l’Aurium aperitio11, nella quale tuttavia era impartito per lo più il Credo niceno (sia in latino sia in greco, nei testi liturgici più antichi), e non quello Apostolorum12. Se si esaminano documenti riconducibili approssimativamente al contesto locale della giovinezza di Venanzio, il rito aquileiese antico sembra sufficientemente preservato dall’ordo scrutinii catechumenorum edito da Francesco Bernardo Maria De Rubeis (1687-1775)13 e risalente alla metà del secolo IX (patriarca Lupo I) o X (Lupo II): esso ingloba la Traditio Symboli, praticamente intatta, nell’Aurium aperitio del Gelasianum. Un’allocuzione di esordio richiamava i catecumeni all’ascolto delle parole da cui nasce la fede (fides ex auditu, auditus constat ex verbo). Poi il vescovo e il diacono guidavano il coro nella recitazione del Credo in una tradizionale versione aquileiese, risalente con verosimiglianza – come ritengo – agli anni a cavallo fra sec. IV e sec. V (salva la possibilità di marginali rimaneggiamenti posteriori): seguiva un’expositio symboli, per la quale il rituale suggeriva parole di sobria, ma essenziale illustrazione a ciascun articolo di fede14. È questa la pagina della liturgia episcopale che pare corrispondere esattamente, quanto a genere letterario, all’expositio sunteggiata da Venanzio Fortunato: per le sue ridotte dimensioni essa doveva rispondere allo stesso fine, tenuto conto del diritto che ciascun vescovo aveva alla libertà di creare e rinnovare i formulari liturgici della propria Chiesa, pure nel rispetto di certe tradizioni consolidate15.

2.2 Il Credo di Fortunato

Individuato nella catechesi liturgica il genere letterario dell’operetta fortunaziana, spicca però con maggiore evidenza la sua vera particolarità: il simbolo spiegato da Fortunato con l’aiuto preponderante di Rufino non è il medesimo che questi aveva esposto nel proprio trattato. Già se ne era accorto il benedettino cassinese, poi cardinale Michelangelo Luchi (1744-1802), editore dell’Opera omnia di Venanzio Fortunato (1786); aveva quindi corretto opportunamente l’eccesso d’amor patrio del biografo friulano Gian Giuseppe Liruti (1689-1780)16 – secondo cui “la sposizione del simbolo pubblicata da Fortunato perfetta405

mente combaciasi con la dianzi pubblicata da Rufino” (1760)17 – obiettando “che Fortunato, avuta in mano la sposizion di Rufino, abbia amato di adattarla all’istruzion popolare di Poitiers, e non già abbia attinto gli elementi del cristianesimo dalla fonte della stessa chiesa”18. Solo a un esame superficiale, infatti, il Credo esposto da Venanzio Fortunato avrebbe continuato a mostrare la parvenza di una semplificazione del Credo rufiniano, severa quanto fosse bastato alla realtà missionaria di molte Chiese galliche, dove perduravano teologie primitive e la necessità di catechesi elementari19. Esclusa dunque con buona ragione tale eventualità, il Luchi lasciava intuire la propensione a supporre che Fortunato avesse spiegato con parole di Rufino un Credo affatto diverso dall’aquileiese: verosimilmente, quello di Poitiers. Questa opinione fu resa esplicita e corrente dalla storiografia ottocentesca20; da allora è sembrato cadere ogni interesse per una professione locale di fede classificata ormai fra le tardive e perciò di minor significato21.

2.3 Confronti e affinità

Eppure la questione storico-teologica sul simbolo di Fortunato deve considerarsi soltanto sospesa e richiede quindi d’essere rimessa in gioco. Va perciò riesaminata, per quanto possibile, l’ipotesi che il simbolo fortunaziano rappresenti un Credo gallico in uso nella seconda metà del secolo VI. Contestualmente va anche riproposta, con energia, la domanda che fu presto e senza troppo vaglio accantonata: esiste invece una relazione fra questo Credo e il simbolo aquileiese di Rufino? La questione non consente di eludere un’immediata sfida metodica: porre il Credo di Fortunato a diretto paragone con quelli di Rufino e del patriarca Lupo, entrambi incontestabilmente aquileiesi, non senza aggiungere il testimone veronese (L) del simbolo battesimale della Traditio Apostolica di Ippolito (TA): per la sua intima affinità con il Credo dipinto in una tomba pure veronese degli inizi dell’VIII secolo22, L di TA deve essere considerato altrettanto pertinente alla medesima regione metropolitana. Nella sinossi sarà marcato con sottolineatura quanto manca o diverge rispetto al simbolo di Fortunato.

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PALINSESTO VERONESE (L)23

FORTUNATO24

RUFINO25

LUPO26

(Credo in Deum Patrem27 omnipotentem).

Credo in Devm Patrem omnipotentem.

Credo in Deum Patrem omnipotentem,

Credis in Chr(istu)m Ie(su)m Filium D(e)i,

Et in Iesvm Christvm vnicvm Filivm28,

qui natus est de Sp(irit)u S(an)c(t)o ex Maria uirgine et crucifixus sub Pontio Pilato32

qui natvs est de Spiritv Sancto et30 Maria virgine, crvcifixvs sub Pontio Pilato33

Credo in Deo Patre omnipotente inuisibile et inpassibile. Et in Iesu Christo unico Filio eius, Domino nostro29, qui natus est de Spiritu Sancto ex Maria uirgine, crucifixus sub Pontio Pilato

et sepultus35, descendit ad infernum, et resurrexit die tertia tertia die resvrrexit, viuus a mortuis et ascendit in caelis ascendit in caelvm39 et sedit ad dexteram Patris uenturus ivdicatvrvs40 iudicare vivos et mortvos. uiuos et mortuos? Credo in Spiritv Credis in Sp(irit)u Sancto41, S(an)c(t)o sanctam et sanctam Ecclesiam44, Ecclesiam43

et carnis resurrectionem46?

remissionem peccatorvm, resvrrectionem carnis47.

[et sepultus (?)]36, descendit in inferna37, tertia die resurrexit, ascendit in caelos, sedet ad dexteram Patris, inde uenturus iudicare uiuos et mortuos. Et in Spiritu Sancto, sanctam Ecclesiam, remissionem peccatorum, huius carnis resurrectionem.

Et in Iesum Christum Filium eius unicum Dominum nostrum, qui natus est de Spiritu Sancto et31 Maria uirgine, qui34 sub Pontio Pilato crucifixus est et sepultus,

tertia die resurrexit uiuus38 a mortuis, ascendit in caelum, sedet ad dexteram Patris, inde uenturus est iudicare uiuos et mortuos. Credo in Sanctum Spiritum42, sanctam Ecclesiam catholicam45, remissionem peccatorum, carnis resurrectionem et uitam aeternam48.

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L’impressione immediata che scaturisce dal confronto è che il Credo di Fortunato sia incluso, sussunto in quelli di Rufino e di Lupo, quasi ne costituisca l’intelaiatura. Prende così corpo il sospetto di qualche reciproca affinità. Dal Credo di Fortunato, comunque, risultano assenti due dei tre peculiari connotati aquileiesi rimarcati da Rufino: a) invisibile et inpassibile; b) huius come specificazione di carnis. Compare tuttavia l’importante menzione del descensus, fatto non strano in un ipotetico contesto gallico, dove quel teologhema era acquisito – come a Aquileia – sin dalla fine del sec. II per il tramite d’Asia Minore. In tempi prossimi a Fortunato, Cesario di Arles (470 ca. - 543) l’aveva poi volentieri professato e reso popolare con un’immaginifica predicazione49. Colpisce invece la mancanza di tratti quasi onnipresenti nei simboli occidentali: c) dominum nostrum50 e d) sepultus51. Sono assenze però utili a stabilire una concordanza significativa, sia con il Credo della TA, sia con quello di Remesiana52: e se ne trae la suggestione di una pronunciata arcaicità.

3.1 Simbolo gallico?

Un hàpax davvero stupefacente, d’altra parte, è il silenzio dell’immancabile clausola sedet ad dexteram Patris: una particolarità assoluta in Occidente, la quale d’acchito si potrebbe interpretare come indizio formale o di primitività o, al contrario, di abbreviazione recenziore53. La seconda eventualità implicherebbe di supporre ormai che il simbolo di Fortunato risultasse dalla semplificazione di un testo maggiore, o ritagliato dall’Autore, o così già rielaborato – ma non prima del secolo V – nella Chiesa per cui il commento fosse stato scritto54: constateremmo allora il plausibile aggiornamento di un formulario locale, in analogia con le avvertenze espresse da Ambrogio, quando – autorevolmente libero nei confronti della tradizione (ma piuttosto arrogante verso gli Aquileiesi) – aveva giudicato d’ingombro alla dialettica antiariana le “addizioni” – fra le quali, però, anche il descensus! – al genuino Credo dei Dodici, inserite a suo giudizio per eccesso di zelo (“cautele di vescovi”)55. Così, tuttavia, dovremmo accantonare un principio non trascurabile di metodo: quello per cui un testo più breve e semplice nel suo complesso abbia maggiore probabilità di essere anche più antico. 408

3.2 Un Credo arcaico

Eppure, anche affacciate queste possibilità, a mio avviso non acquistano forza i dubbi sull’autenticità originaria e venerabile delle scarne formule di fede professate da Fortunato. Anzi, osserviamo che il teologo, in effetti, sente la necessità di recuperare i dati dottrinali ‘omessi’: ma si limita a richiamarli in sede di commento, come trasparente sottinteso di una professione tradizionale immodificabile. Se però neghiamo che un verbum breviatum in tal modo ribadito nella sua valida sufficienza sia risultato da esperimenti pastorali di omologazione riduttiva, si impone seriamente la considerazione dell’alternativa opposta: l’ipotesi di una straordinaria, sorprendente arcaicità del Credo di Venanzio Fortunato.

3.3 Aquileiese?

In questa direzione il confronto più calzante è offerto dal simbolo della TA56, con cui il Credo fortunaziano coincide quasi perfettamente, poiché due sole differenze reciproche appaiono distinguerli: unicum (attributo di Filium) manca nella Traditio, mentre sedet ad dexteram Patris tace in Fortunato. Due sole differenze, dico, perché tale non considero quella che potrebbe apparire come terza: al descendit in infernum di Fortunato, infatti, risponde il vivus, cui anch’io, come Remo Cacitti in un suo recente intervento57, attribuisco perfetta equivalenza con il descendit. È d’altronde un fatto evidente che, nei simboli dove compaia il predicato cristologico vivus, sia sempre assente il descendit, e vice versa. Per altro, che la peculiare funzione dogmatica del vivus sia di alludere al soggiorno di Cristo fra i morti per la salvezza dell’umanità precedente, riceve palese conferma dal passo della Kirchenordnung egiziaca parallelo a quello della Traditio: resurrexit tertia die, liberavit uinctos (in corrispondenza con vivus [a mortuis] della TA), ascendit in caelos58. A un Aquileiese come Gerolamo veniva perciò spontaneo predicare che il Cristo, facta praeda in inferno, uiuus exiit de sepulcro59. Meno d’accordo con Cacitti sarei piuttosto quando inferisce che il predicato vivus sia “un compendio probabilmente recenziore del descensus in inferna”60: almeno i Credo 409

occidentali, infatti, dimostrano sin dalla loro prima attestazione una varianza sincronica vivus / descendit. Ne offrono documento già Remesiana61 e Aquileia, in aree fra loro contigue; e, ancor meglio, il Credo del palinsesto della Biblioteca Capitolare di Verona (resurrexit tertia die vivus a mortuis), riconosciuto rappresentante della “Vorlage per le traduzioni orientali” della Traditio apostolica62. D’altra parte, il simbolo dipinto nella tomba precarolingia del secolo VIII sotto la cattedrale di Verona (tertia diae sur[rex]it vivvus ad mortuis)63, così come quello parzialmente testimoniato nella tomba nella chiesa suburbana di S. Pietro in Castello (surrexit uiuus a mortuis)64, affermano, insieme al Credo del patriarca Lupo (sec. IX-?X: tertia die surrexit uiuus a mortuis), che in una stessa area metropolitana – la Venetia aquileiese – erano compresenti confessioni di fede la cui omogeneità era compatibile con la varianza indicata. Una complementarità formulare, dunque, che perdurò vitalmente fino all’età carolingia, quando fu pretesa una generale uniformità liturgica nel rinnovato impero cristiano d’Occidente; ma che, almeno nella più conservatrice Chiesa madre aquileiese, si dovette protrarre fino al tempo della vastata Hungarorum del Friuli (sec. X-XI)65. Al complesso dei segnali rilevati si aggiunga infine un dato accessorio, ma interessante: la rara concordanza della desinenza ablativa nell’articolo sullo Spirito Santo, che intercorre fra i simboli del palinsesto (Credis in Spiritu Sancto?) e della tomba veronesi (Credo [in Spiritu Sancto])66 e il simbolo fortunaziano (Credo in Sancto Spiritu)67; essa tutti in qualche modo collega all’assoluta particolarità del credo in + ablativo nell’intera formulazione di fede trinitaria fissata dal simbolo aquileiese di Rufino68. Termino la manovra di aggiramento e cerco una necessaria conclusione. Ho tentato di fondare la plausibilità dell’ipotesi che nell’area aquileiese circolassero symbola di indole affine, ma in redazioni varianti rispetto a quella esposta da Rufino come in uso fra IV e V secolo nella Metropoli. Pluralità di redazioni forse anche in concorrenza, se la stessa liturgia patriarcale, in epoca successiva, dimostra aver preferito una formula diversa da quella rufiniana. Entro il quadro prospettato, se il Credo spiegato da Venanzio Fortunato in Gallia potesse supporsi da lui importato, esso allora andrebbe senz’altro identificato con un antico Credo di area aquileiese, poiché – salva una relativa 410

autonomia – presenta un grado notevole di affinità con altri simboli della regione. La connaturalità di testi inscrivibili in una tradizione comune fornirebbe quindi un’ulteriore motivo dell’agio con cui Fortunato adatta l’Expositio di Rufino al commento del ‘proprio’ Credo, mentre la maggiore brevità del simbolo varrebbe davvero come indice di particolare e autentica arcaicità: verosimilmente, questa sarebbe stata preservata dalla condizione marginale della Chiesa suffraganea che lo avesse professato (Oderzo?, Ceneda?, Treviso? ...)69. Se ci si chiedesse, infine, perché mai il presbyter italicus Venanzio Fortunato avrebbe scelto di commentare e, forse per l’acquisita autorità di pastore-liturgo, proporre a fedeli merovingi il Credo ricevuto dalla propria Chiesa nativa, potrebbe aiutare l’analogia di un esempio. Anche per un intellettuale cosmopolita come Rufino, al momento del bisogno, era scattato il richiamo forte e rassicurante della fede atavica: appunto dal Credo di Aquileia ricavò la difesa della propria ortodossia di fronte al sospetto del papa Anastasio70; e con atto per lui di raro orgogoglio dichiarò energicamente che praeter hanc fidem, quam ecclesia Romana et Alexandrina et Aquileiensis nostra tenet quaeque Ierosolymis praedicatur, aliam nec habui umquam nec habeo, in Christi nomine, nec habebo. Non è affatto escluso che Fortunato abbia letto anche quelle parole, vista la probabilità di rimembranze dell’Apologia ad Anastasium nelle sue prose teologiche71.

4. Venanzio Fortunato catecheta ‘aquileiese’

Tuttavia, nell’addentrarci in un’analisi sommaria di alcuni specifici elementi della catechesi fortunaziana, si potrebbe pur affermare paradossalmente che non riteniamo decisivi gli argomenti sinora discussi. Infatti, apparirà comunque evidente che l’animus del teologo emigrato si mostra ancora pregno della tradizione dottrinale in cui se ne compì la giovanile formazione cristiana: non perché Fortunato in persona – con modestia non troppo di cortesia – confidi a un amico oriundo dalla Pannonia aquileiese di conoscere poco i filosofi greci e meno ancora i grandi teologi cristiani, come Ilario, Gregorio, Ambrogio e Agostino; neppure per ovvie ragioni estrinseche, cioè perché epitoma una fonte aquileiese72; piuttosto, invece, perché seleziona dal copioso materiale raccolto da Rufino proprio gli ele411

menti distintivi, caratteristici della tradizione in esso testimoniata. Senza dire di inaspettati tocchi personali, che, nel modo di integrare la fonte, confermano in pieno l’ascendenza aquileiese della cultura teologica di Fortunato. Procedo solo a sprazzi, rimontando dalla fine sino al cuore kerygmatico della catechesi impartita da Fortunato sul verbum breviatum della sua fede. Resurrectionem carnis: summa perfectionis concluditur et caro ipsa quae cadit ressurrectura erit73. Benché nel sec. VI fosse ormai sopita ogni polemica al riguardo, l’insistenza marcata dall’espressione rafforzativa caro ipsa traghetta evidentemente il medesimo significato dello huius carnis vantato a suo luogo da Rufino74. Ribadisce anzi un concetto che lo stesso Fortunato si era premurato di anticipare sin dall’esordio del suo commento, dicendo di voler spiegare qualiter (...) resurrectio humani generis in eadem carne in vitam aeternam futura sit75: affermazione che collega tale modalità della risurrezione dell’uomo in un immediato rapporto di effetto – causa con la verità che “il Figlio di Dio nato dalla Vergine” è “asceso ai cieli” in carne ipsa76. Quasi più esplicitamente che da Rufino, è detto così che l’identità della carne umana risorta con quella “caduta” si fonda sull’identità della carne assunta dal Figlio con quella che “siede alla destra del Padre”. Tertia die resurrexit. A prima vista, il commento di Fortunato è così lapidario da lasciare interdetti, anche se è chiaro che secondo la tradizione da esso manifestamente condivisa la Pasqua di Cristo coincide essenzialmente con la sua Passione: De resurrectione eius (...) prophetae plura locuti sunt; quod et ‘Ionas’, ipse triduo in ventre ceti permanens, designavit. L’‘aquileiesità’ di Rufino, anche a paragone d’un compendio che non si potrebbe immaginare più sommario, qui appare surclassata da Fortunato: infatti, nonostante che il signum Ionae prophetae (Mt 12, 39-40; 16, 4; Lc 11, 29-30) senza alcun dubbio rientrasse in modo speciale nella predicazione aquileiese della Pasqua (lo attesta Cromazio e – indirettamente – fors’anche Gerolamo77), per sorpresa dei posteri Rufino ne aveva trascurato – com’è stato notato78 – ogni accenno. Fortunato, invece, sembra avere ancora negli occhi, benché cancellato da più di due secoli, il tappeto musivo 412

che nella chiesa madre di Aquileia aveva tradotto in stupenda emozione visiva gli argomenti di un’originale catechesi pasquale. Crucifixus sub Pontio Pilato descendit ad inferna: il Credo fortunaziano marca, nella sua semplice articolazione sintattica, la sincronia fra ‘morte in croce’ e ‘discesa agli inferi’ con una fermezza che in quello di Rufino parrebbe ormai già manomessa, a causa dell’interposizione ‘et sepultus’ (Crucifixus sub Pontio Pilato et sepultus descendit in inferna)79. Il concetto della sincronia fra ‘morte in croce’ (piuttosto che ‘permanenza nel sepolcro’) e descensus, espresso dal Credo di Fortunato in maniera ancora intatta, denota la remota ascendenza giudeocristiana comune alla notizia evangelica che, nell’istante della morte in croce, “molti corpi dei santi che erano morti risorsero” (Mt 27, 52)80: in altre parole, il Credo fortunaziano si rivela strutturalmente compatibile con la comprensione aquileiese tradizionale dell’evento salvifico universale, compiutosi sulla Croce e nell’inferno, come spiegava limpidamente Gerolamo: Postquam enim exaltatus est, id est, a Iudaeis in cruce suspensus est, (...) mox ut spiritum reddidit, statim unitate suae diuinitatis anima ad infernorum profunda descendit81. Questa è la ragione di fondo per capire l’intelligenza empatica con cui Fortunato sa affrontare – qui con l’effetto di maggiore risalto – l’esteso trattato di Rufino e sceverarne i materiali basilari. Infatti, rammentati molto sommariamente i dati accessori della crocifissione, egli estrae a colpo sicuro i soli argomenti soteriologici indispensabili per rispondere al paradosso della sottintesa domanda preliminare: perché il Salvatore abbia scelto per la sua morte il patibolo più infame82. Ne risulta che la teologia pasquale aquileiese è illustrata nella riconosciuta specificità dei suoi contenuti e accenti, con espressione tanto concisa quanto esauriente e fedele al linguaggio della tradizione: Crux species tropaei est, quod devictis hostibus solet fieri triumphanti; et quia dominus tria regna subiecit, suspensus in aera victoriam de caelestibus et spiritalibus nequitiis est adeptus; expandens autem manus ad populos, palmam de terrenis. La catechesi infine culmina nell’evocazione del descensus con formula epica e classicheggiante, consona all’ispirazione poetica di Fortunato, ma anche all’importanza che tale mistero riveste nella spiritualità documentata dalla sua opera intera: Quod vero sub terra fixa est, ostendit eum et de Tartaro triumphare83. 413

Questa concentrazione simbologica complessa, che tutta rivendica alla morte in croce l’efficacia salvifica della Pasqua di Cristo, è d’altronde caratteristica della teologia giovannea, prediletta così dagli Aquileiesi come dalle Chiese quartodecimane d’Asia Minore, donde era stata divulgata attraverso l’Italia settentrionale e fino in Gallia dopo la metà del secolo II. Pascha passio Christi est, unde et pascha nomen accepit, predicava Cromazio – con ormai consapevole paretimologia – ancora alla fine del IV o al principio del V secolo ...84: Fortunato rimanda l’eco sincera di quegli insegnamenti.

5. Prova di coerenza ‘aquileiese’ in un excursus autonomo (Expositio symbuli 24-27)

Non stupisce, quindi, che proprio la theologia crucis ispiri a Fortunato la maggior parte dei rari interventi personali. Interrompendo l’epitome, infatti, al paragrafo 24 avverte che pro honore sanctae crucis nobis hic sermo distenditur, ut vobis aedificatio et illi crescat praeconium; nei tre paragrafi successivi perciò convoglia l’esposizione di varianti allegorico-soteriologiche che per lo più aveva già sfruttate come poeta della Croce. La prima è un’estensione in senso cosmologico del motivo giudeocristiano appena ripreso da Ruf. Exp. symb. 12, secondo cui il Cristo sospeso in croce aveva sconfitto i demoni dimoranti nell’aria85: Ergo quia nec ipsa sidera in conspectu Dei pro humano crimine non erant pura et erat tota terra polluta, ideo suspensus est Christus in aera, ut simul terras et astra purgaret (25, 123-125). È interessante che, sullo sfondo inespresso di Rm 8, 2021 (vanitati enim creatura subiecta est ...) e a complemento di Gn 3, 17-18 (quia comedisti de ligno [...] maledicta terra in opere tuo), emerga la parola di Gb 25, 5 (ecce etiam luna non splendet et stellae non sunt mundae in conspectu eius): quanto mai adatta per attrarre la creazione intera nell’economia salvifica di Cristo, Origene ne aveva trattato nel Peρã ¶ρcwˆ n con esiti cosmologicamente ‘rivoluzionari’86. O ancora: quia inter caelum et terram grandis erat discordia, ut tolleret reconciliator se mediante scandalum, in aera suspenditur, ut se in medio posito inter caelum et terram inter hominem et Deum pax rediret post odium. Qui si 414

riconosce uno stilema catechetico polivalente (Incarnazione / Passione) ben noto a Aquileia, dove Cromazio aveva predicato: Sed ideo Dei Filius descendit de caelo, ut damnaret diabolum auctorem discordiae, pacemque inter Deum et hominem faceret, hominem Deo reconciliando et Deum homini in gratiam reuocando87. Fortunato, però, nell’applicazione specifica di questo concetto all’immagine della ‘Croce cosmica’ o ‘di luce’88, si dimostra fra gli estremi testimoni di una tradizione fiorita in Asia Minore nel secolo II; e altrettanto accade se – autocitandosi! – guarda alla Croce come al nuovo ‘Albero di Vita’ (aut ideo crucifigitur, quia mortui eramus per pomum et arborem, ut denuo crux et Christus, id est arbor et pomum, per ipsam similitudinem nos a morte liberaret. Pomum dulce cum arbore!: 27, 137-139). L’omelia quartodecimana In s. Pascha si offre anche in questo caso come indicatore privilegiato del milieu in cui il nesso tipologico con Gn 2, 9 (x‹lon zwhˆ j) fu riconosciuto e da dove si diffuse per vie molteplici, approdando pure a Aquileia: qui conobbe durevole fortuna, rilanciata con naturalezza dallo stesso Cromazio: Quod praestare homini tunc non potuit arbor uitae in Paradiso, praestitit Christi passio; et recepit amissam gratiam per arborem crucis, quam tunc per arborem uitae recuperare non potuit89. Ultima originale inserzione sul canovaccio rufiniano è l’“idea tipicamente venanziana della Croce come bilancia”90: Aut ideo Dominus in cruce suspenditur, ut pro captivitate nostra pretium sui corporis mercator in statera pensaret. Un simbolismo di gusto popolare, del quale riesco a trovare l’unica precisa occorrenza – verosimilmente posteriore a Fortunato (sec. VII?) – solo nella farragine di omelie raccolte enigmaticamente sotto il nome dell’orientale Eusebio di Emesa (il cosiddetto ‘Eusebio Gallicano’)91; da essa sembra dipendere – per ripresa letterale (statera crucis) – un’oratio visigotica, che tuttavia trasferisce l’immagine dall’ambientazione mercantile a quella terapeutica del Cristo ‘medico’92. Forse suggerita da Gb 31, 6 (adpendat me in statera iusta et sciat Deus simplicitatem meam), la tradizionale allegoria della giustizia divina93 è stata riadattata da Fortunato a tradurre in efficacia visiva il concetto di ‘redenzione’, congeniale – per la sua matrice giuridica – alla mentalità concreta dell’Occidente; l’ideazione sembra rispondere alla stesso istinto comunicativo che aveva indotto un pastore come Cromazio a esclamare: Ecclesia totum mundum sanguine Christi mercata est!94; oppure, predicando in giorno di fiera, 415

a definire le Beatitudini – alla stregua della Croce – illa scala Iacob, cuius cacumen de terra pertingebat caelum, per quam qui ascendit, portam inuenit caeli (...). Hic noster mercatus, haec nundina spiritalis95! Ma anche colpisce, in questa elencazione aggiunta di suggerimenti esegetico-allegorici, la terminologia specifica denotante la Crocefissione: contro configebatur (una volta, riferito a latro) e crucifigitur (una volta), è nettamente preferita l’espressione suspensus est / suspenditur (quattro volte), sintomatica della durevole influenza di “un testimonium ricavato fin dalla più alta antichità da Dt 28, 66 LXX (‘La tua vita sarà sospesa davanti ai tuoi occhi e temerai notte e giorno e non crederai alla tua vita’) e applicato al Cristo in croce già da Melitone. (...) In forza di una glossa ùpã x›lou applicata a κρemamûnV, il testimonium era stato inserito nelle più antiche raccolte formatesi attorno al termine x›lon, nelle quali figurava anche Gn 2, 9 (x›lon zw≈j)”96. Cromazio aveva dimostrato di ben conoscerlo, tanto da farne citazione nella forma risalente alla sua più arcaica elaborazione di natura targumica, e l’aveva ampiamente commentato97; dopo Fortunato, sarà ancora Paolino di Aquileia a lasciarne trapelare il ricordo98. Abbiamo così un’ulteriore conferma che la catechesi di Fortunato si imposta complessivamente su coordinate teologiche coerenti e assolutamente compatibili con la grande tradizione aquileiese, dove l’eredità asiana (e alessandrina) del sec. II, con il suo portato giudeocristiano, era a lungo rimasta feconda di sviluppi esegetici e spirituali. Ciò permette senz’altro di pensare che la predilezione di Fortunato per la fonte rufiniana non è opportunità di comodo, ma segnale di un’intima intesa nel modo di pensare la fede secondo una tradizione condivisa; quindi bisognerebbe concludere che la teologia pasquale esposta da Fortunato non dimostra una fisionomia così nitidamente giovannea – aquileiese solo per la ragione contingente che egli epitoma Rufino: anche prescindendo dagli apporti più personali, ne è prova la stessa, evidente sicurezza con cui Fortunato acquisisce dalla fonte appunto gli elementi più caratteristici della teologia pasquale da essa documentata, in un modo – diremmo – che lascia intuire quanto gli siano famigliari. Se però esigiamo la certezza di altri indizi, allora ci soccorre in abbondanza il riscontro di pertinenti concordanze concettuali e espressive fra la sua Expositio (e, in controluce, 416

quella di Rufino) e i suoi ben più noti inni pasquali: perché è evidente sotto ogni riguardo che gli inni dedicati da Fortunato alla Croce, anche quando l’articolarsi triduano della celebrazione della Pasqua annuale era ormai in fase di sviluppo avanzata, furono concepiti come veri e propri ‘inni pasquali’.

6. Gli ‘inni alla Croce’ e l’Expositio simbuli: continuità teologico-spirituale nell’alveo della grande tradizione aquileiese

A queste poesie, naturalmente, si è spesso interessata la critica letteraria; resta però l’impressione che, nonostante l’utile apporto di molti interventi, soprattutto di competenza medievistica, la natura autentica di molte immagini che sostanziano gli inni non sia stata penetrata a sufficienza99: come spesso succede in simili casi, è mancato l’approccio specifico di una considerazione storico-teologica, qui in particolare sorretta da alcune nozioni che la storia letteraria del cristianesimo delle origini ha assodate solo piuttosto di recente; pure è stato omesso – ma questa non è affatto una sorpresa – il dubbio metodico di un istintivo riflesso ‘aquileiese’ nel pensiero religioso di un Autore proveniente da quella regione, quasi che essa non possa mai pretendere diritti di paternità culturale100. Basteranno comunque pochi esempi appena per accertare quanto basti consonanze significative fra l’Expositio symbuli di Fortunato e gli inni alla Croce, e quindi comprenderle inserite in un sistema armonico il cui impianto risale a Aquileia, ma che il teologo e poeta probabilmente avverte compatibili anche con la tradizione delle Chiese galliche, a ragione di antiche e perduranti affinità. Nell’inno Crux benedicta nitet101 la Croce cantata da Venanzio è la Croce trionfale, circonfusa di luce sfavillante (nitet, v. 1; micas, v. 15), trasfigurazione del suo antitipo, l’albero dell’Eden, “piantata” in fulgore presso l’acqua corrente (tu plantata micas, secus est ubi cursus aquarum, v. 15) in una ricreata primavera del mondo, ornata di fiori appena sbocciati, feconda di frutti “nuovi” (quando tuis ramis tam nova poma geris!, v. 10; spargis et ornatas flore recente comas, v. 16). Così, “al profumo nuovo” di quest’albero, “i corpi defunti risorgono / e ritornano a vita coloro che furono privati della luce” (cuius odore novo defuncta cadavera surgunt / et redeunt vitae qui caruere diem, vv. 11-12), mentre 417

dalla vite a esso “appesa”102 fluisce il vino del sangue, sacramento dello Spirito (appensa est vitis inter tua brachia, de qua / dulcia sanguineo vina rubore fluunt, vv. 17-18). In questi versi non solo riappaiono puntualmente l’arcaica sincronia fra la morte di Cristo sulla croce-‘albero di Vita’ e la ‘discesa agli inferi’, o il tòpos lirico-teologico della Pasqua come nuovo inizio del tempo (nel sottinteso di Es 12, 12)103, ma anche si perpetua un altro motivo caratteristico, antico e piuttosto raro: il “profumo mistico” (odore novo, v. 11), che s’intende emani da quel sacrificio vespertino. Il confronto con un brano di Ippolito di Roma consente di individuare in Fortunato l’eco distinta di un’esegesi ‘pasquale’ di Ct 1, 12-14: “Il nardo diffuso è il suo spirito ... un unguento di grazia fu diffuso, affinché anche la circoncisione potesse essere salvata ... potente era sul legno, mentre pativa, (il Signore) e , trafitto al fianco, emette un profumo come di balsamo ... sospeso egli sul legno apparve quale buon profumo d’unguento ... (il Verbo) stesso fu innalzato da terra (cf. Gv 12, 32) e apparve come profumo d’unguento e s’affrettò al cielo; diffuso dal cielo ascendeva dalla terra al cielo, poiché la rugiada (dello Spirito), producendo frutto, dall’alto discese, affinché gli uomini di questa terra fossero segnati per la vita”104. Una conferma originalmente formulata (e tanto più inattesa quanto a posteriori) della famigliarità aquileiese con questo testimonium del Cantico si può ritrovare ancora alla fine del sec. VIII presso il patriarca Paolino, teologo e poeta sensibile alla tradizione aquileiese più di quanto il consenso ai programmi riformatori di re Carlo lascerebbe immaginare: in un suo inno pasquale egli infatti riferisce che, “immolato a sera” (determinazione temporale extraevangelica, cara agli autori quartodecimani d’Asia Minore), il “divin sacrificio del corpo di vita (...) empì di profumi al mattino il cielo” (... immolatum uespere / corporis almi sanctum sacrificium / quod mane celum repleuit odoribus)105. Fortunato ribadisce la fisionomia giovannea della propria teologia pasquale anche nell’inno II 2 (Pange lingua gloriosi proelium certaminis), dove il Crocefisso è detto appunto redemptor ... immolatus (v. 3) e agnus (v. 18, cf. v. 30), da cui fluiscono i sacramenti del sanguis e dell’unda (v. 20). Ma soprattutto qui impressiona il rapporto – diremmo – omofonico (e forse non di semplice dipendenza) fra la stringente interpretazione rufiniana del significato cristiano della ‘croce’ (crux ista triumphus erat: triumphi enim insigne est tropaeum; tropaeum autem devicti hostis indicium est)106 e 418

l’intonazione su cui il poeta ne accorda la lode: super crucis tropaeo dic triumphum nobilem (v. 2). Se infine rileggiamo con curiosità altrettanto mirata il notissimo inno II 6 (Vexilla regis prodeunt), verificando la puntuale ricorrenza dei tratti già identificati107, non possiamo affatto sospettare che Fortunato versifichi in economia o tradisca penuria d’immaginazione poetica; se ne deve piuttosto accettare seriamente il valore sintomatico, apprezzando nel contempo la scarsa attitudine del poeta alla creatività esegetica come una virtù che garantisce la sua affidabilità di testimone: si dovrebbe cioè ammettere che nei lavori poetici di maggiore impegno dottrinale Fortunato non poteva che esprimersi nei termini coerenti della tradizione teologica e catechetica in cui la sua fede aveva preso identità. In tale caso, anche l’ipotesi di una dipendenza meccanica della theologia crucis fortunaziana dall’Expositio di Rufino risulterebbe un accessorio esplicativo solo eventuale, e magari fuorviante, perché meglio sarebbe supporle entrambe determinate, in ultima analisi, da un milieu comune. Un esempio in questo senso: soltanto alla luce di una Pasqua teologicamente giovannea-quartodecimana-aquileiese credo che si riesca appieno a capire Fortunato, quando – dimostrando una penetrante e autonoma capacità di approfondimento spirituale del mysterium crucis secondo la tradizione ricevuta – non esita infine a chiamare dulces anche quei “chiodi” che con più ovvietà già aveva detto “cruenti” (dulce lignum, dulces clavos, dulce pondus sustinens, II, 2, v. 8, 3; cf. II, 1, v. 7. 9: manus ... clavis confixa cruentis / ... o dulce, et nobile lignum): esito estremo dell’antichissima riflessione sulla Croce prefigurata dal ρ`ßbdoj con cui Mosè rese “dolci” le acque amare di Mara (Es 15, 23)108. In altre parole, l’atmosfera ricreata dagli inni alla Croce di Fortunato resta sensibilmente pervasa della freschezza di quella passionis felicitas che la sapienza contemplativa dei teologi era andata attingendo memore attraverso l’esperienza sofferta del martirio109. Ancora un indugio su qualche indizio debitorio. Sia nel Pange lingua sia nel Vexilla regis notiamo una perspicua allusione a un motivo della theologia crucis primitiva che senz’altro ad Aquileia era stato mantenuto vitale110: il shmeéon ùκpetßsewj (o ùκtßsewj), “segno dell’estensione (delle braccia)” che sul Golgota storicamente prefigura la riapparizione gloriosa della croce alla fine del tempo. 419

L’Apocalisse di Pietro, che è verosimile debba essere in qualche sua recensione identificata con il Giudizio di Pietro da Rufino annoverato fra i libri più autorevoli della sua Chiesa dopo quelli canonici111, infatti rivelava: “La venuta del Figlio del Signore è (…) sconosciuta. Ma, come il fulmine che appare dall’oriente all’occidente, così io verrò nella mia gloria sulle nubi del cielo con un grande esercito, e mi precederà la mia croce. Verrò nella mia gloria, sette volte più splendente del sole”112. Altrettanto, l’Anonimo Quartodeci-mano esclamava: “O divina estensione in tutte le cose e in ogni luogo! O crocifissione che si espande in tutta la realtà!”113. Fortunato, al pari di Rufino, aveva dimostrato già nell’Expositio di considerare irrinunciabile questa nozione: expandens autem manus ad populos palmam de terrenis (est adeptus)114; ciò confermano gli inni, dove con la naturalezza dell’inevitabilità, quasi obbedienza a un riflesso condizionato, si sottolinea: confixa clavis viscera tendens manus (II, 6 [Vexilla Regis], vv. 5-6), ovvero: Flecte ramos, arbor alta, tensa laxa viscera / … / ut superni membra regis mite tendas stipite (II, 2 [Pange lingua], vv. 25. 27). È pure notevole che l’immagine dell’expansio sia immediatamente connessa al sottinteso evidente di una metafora altrettanto tipizzante: Sola digna tu fuisti (...) portum praeparare nauta mundo naufrago (vv. 28-29), cioè la croce come l’albero maestro con il suo pennone trasversale, grazie a cui la nave raggiunge a gonfie vele il porto della salvezza115. Metafora di origine asiana, si appaia all’antica equivalenza nave – legno della Croce, di implicazioni battesimali, già documentata per esempio da Giustino (convertitosi in Asia Minore)116, ma anche – e forse soprattutto, in rapporto a Fortunato – da Cromazio d’Aquileia: questi vi era pervenuto con percorso inverso rispetto a Fortunato, commentando l’episodio evangelico della tempesta sedata (Mt 8, 23 ss.): Crux enim in quam Christus ad nostram redemptionem ascendit, haec nauicula intelligitur. (…) Qui omnem mundum creauit, crucis suae ligno saluauit. Periculum maris passus est (…). Quapropter (…) ad portum patriae caelestis peruenire mereamur117.

7.1 L’Expositio orationis Dominicae: apporti cromaziani?

È importante convincersi che Fortunato serbasse conoscenza di Cromazio e all’occorrenza lo stimasse come sicuro riferimento dottrinale. D’altronde, se deve considerarsi qui accertata la nitida, persistente impronta aquileiese del profilo 420

teologico di Fortunato, allora la fonte cromaziana non può valere alla pari di altre, pur disponibili nelle biblioteche di Gallia del sec. VI: deve piuttosto assumere il significato della prova ulteriore di un attaccamento irrinunciabile, di un riconoscimento di stima a un altro Padre della tradizione cristiana secondo la quale Fortunato continua a esprimere la propria fede. Tralascio tuttavia la ricerca di altre possibili concordanze cromaziane nella sua opera poetica, limitandomi invece a sostare là dove una sufficiente dimostrazione dell’assunto ora proposto è forse a portata di mano: l’Expositio orationis Dominicae, che completa il ridottissimo novero delle prose specificamente teologico-pastorali di Venanzio Fortunato. È tuttavia necessario premettere che, sia a ragione della schematica brevità della Praefatio orationis Dominicae di Cromazio, sia in presenza di una letteratura già varia e autorevole sull’argomento, Fortunato soddisfece all’esigenza di un commento piu esteso e discorsivo avvalendosi della fonte aquileiese secondo un metodo inverso a quello seguito con l’Expositio symboli rufiniana: così, da una parte, mi sembra che egli riservasse più volte alle suggestioni di Cromazio un ruolo importante di abbrivio nei vari passaggi esegetici118, insieme al beneficio di minute e libere rielaborazioni parafrastiche; dall’altra, sull’esempio più modesto del suo stesso modello, procedette anche alla collazione di materiali integrativi, configurando in maniera dotta un tractatus che, per dimensione, sembra tendenzialmente esulare dall’ambito liturgico. La forma espositiva, dunque, risultò analoga a quella delle ‘catene’ esegetiche, dove i commenti antologizzati non erano rifusi in un discorso continuo, bensì accumulati in distinta sequenza: a questo modo, nel lavoro di Fortunato, il trapasso da fonte a fonte (se non a inedite proposte dell’Autore) è riconoscibile abbastanza facilmente, spesso segnalato dall’usuale item.

7.2 Tentando una verifica

Propongo di seguito una sinossi essenziale di fonti cromaziane e di estratti significativi dalla corrispondente ripresa di Fortunato, ribadendo però l’avvertenza che i rapidi appunti esegetici dell’Aquileiese antico approdano di norma a esuberanti ‘variazioni’ nell’Aquileiese moderno, protratte sovente per lo spazio di più paragrafi: l’uso della sottolineatura intende perciò facilitare l’individuazione almeno delle omologie meglio circoscrivibili. 421

422

VEN. FORT. EXP. ORAT. DOMIN.

CHROM. AQUIL. PRAEF. ORAT. DOMIN.119

1, 1-3: misericordia (...) qua nos (...) ad portum perpetuae detulit libertatis

19: haec libertatis uox est

6, 43-44: per gratiam unigeniti nos effici meruimus adoptivi

22-25: uos (...) dignos exhibete adoptionem diuinam, quoniam scriptum est: “Quotquot crediderunt in eum, dedit eis potestatem filios Dei fieri” (Gv 1, 12)

9, 55-57: quisquis ergo Patrem illum appellat, sicut decet filium sic vitam suam inmaculate dispenset, quia ipse est filius qui non contribulat genitorem

21-22: nam Patrem suum qua temeritate dicere praesumit, qui ab eius uoluntate degenerat?

14, 92-94; 15, 97-100: numquid invenitur superior a quo Deus Pater sanctificari valeat, quasi ut nos videamur aliquid illi orando praestare (...)? (…) Deus cum sit (...) sanctus, ut in nobis nomen eius sanctificetur, id est firmiter teneatur, optamus et in ea qua nos abluit baptismi sanctitate vivamus

26-28: “Sanctificetur nomen tuum”, id est non quod Deus nostris sanctificetur orationibus, qui semper est sanctus, sed petimus ut nomen eius sanctificetur in nobis, ut qui in baptismate eius sanctificamur, in id quod esse incipimus perseueremus

19, 116-117: dubitari non licet Dominum Deum semper hic et ubique regnare ...

31-32: “Adueniat regnum tuum”. Deus namque noster quando non regnat maxime, cuius regnum est immortale?

19, 120-124; 20, 126-127; 21, 129: ... sed cum dicimus “adveniat regnum tuum”, (...) nobis (...) ut illud adveniat, quod per mediatorem Christum poscimus repromissum (...). Ipse enim postulavit a Patre dicens: “Pater, ubi ego sum, et isti sint mecum” (Gv 17, 24) (...). Denique ob hoc evacuavit Tartaros, ut repleat caelos

32-35: Sed cum dicimus: “Ueniat regnum tuum”, nostrum regnum petimus aduenire, a Deo nobis promissum, Christi sanguine et passione quaesitum

35, 212-216: audiamus ipsum Dominum Iesum Christum in infirmitate carnis positum quid

37-38: in eo fiat uoluntas tua, ut quod tu uis in caelo hoc in terra positi inreprehensibiliter faciamus

dixerit: (...) “verum non quod volo, sed sicut tu, pater” (cf. Mt 26, 39)

54, 333-337: Item “panem nostrum”: quisquis ad veram salutem pervenire meruit, Christum esse panem vitae perpetuae non ignoret, quia dixit: “ego sum panis vivus qui de caelo descendi” (Gv 6, 41). Unde iste panis non est communis cum reliquo, quia ille corpora protegit, iste novit animas enutrire

9-42: Hic spiritalem cibum intellegere debemus. Christus enim panis est noster, qui dixit “Ego sum panis vivus, qui de caelo descendi” (Gv 6, 41)

55, 340-342: Quod vero cotidianum panem petimus, hoc insinuare videtur ut communionem eius corporis, si est possibile, omnibus diebus reverenter sumamus

42-44: Quem cotidianum dicimus, quod ita nos semper immunitatem petere debemus peccati, ut digni simus caelestibus alimentis

58, 356-357: Bene post escam quaesitam postulatur venia peccatorum

46-47: Hoc praecepto significans, non nos aliter peccatorum posse ueniam promereri, nisi ...

A questi confronti, che affido a un giudizio di plausibilità, aggiungo l’osservazione di un dato singolare. Se in nessun luogo del commento di Fortunato al Pater noster non riconoscessimo un substrato di letteraratura e, comunque, di tradizioni catechetiche aquileiesi, maggiore sarebbe anche la sorpresa di rinvenirvi un pregevole relitto paleo(giudeo)cristiano120, l’insegnamento detto ‘delle due vie’: Quod autem de duabus viis, id est spatiosa et angusta, dicitur, ut quis per quam elegerit gradiatur quid est? Per spatiosam laxatis frenis libere discurrimus famulando peccatis; in angusta vero consideremus apostolum dicentem: ‘Vocatione qua vocati estis per Dominum Iesum Christum (Ef 4, 1)121. Esaurita la sua vitalità entro il sec. II122, alla fine del secolo VI questo arcaico motivo catechetico era ormai assolutamente desueto ovunque, se non forse nella conservativa area ecclesiastica aquileiese, dove ancora Rufino ricordava come restassero in uso e onorati in qualità di libri ecclesiastici due scritti di antichità subapostolica che lo tramanda423

vano autorevolmente: Il Pastore di Erma123 e il già menzionato Iudicium secundum Petrum, detto pure Duae viae, alias l’Apocalisse di Pietro124; sia questa, infatti, sia i romanzeschi scritti pseudoclementini – di cui Rufino tradusse le Agnitiones – erano ricorsi a una catechesi delle ‘due vie’ di formulazione prossima a quella riespressa da Fortunato: “conoscendo l’esistenza di queste buone e cattive azioni, (Dio) ci ha significato due vie, mostrando per quale ci si incammina verso la rovina e per quale invece si procede verso la salvezza e si è condotti a Dio. La via di coloro che vanno in rovina è larga e scorrevolissima, (...) mentre quella di coloro che si salvano è stretta e aspra”...125. Che Fortunato non citi semplicemente Mt 7, 13-14, ma lo attinga per il tramite del vecchio tòpos catechetico, è dimostrato chiaramente dalla generica espressione dicitur, che egli non usa mai per i richiami scritturistici. Fra gli autori successivi del primo millennio, conosco soltanto due altri autori – teologi e poeti – che riattingano, con intatta spontaneità e efficacia, a quella stessa tradizione; sono anch’essi aquileiesi: Paolo Diacono, proprio nell’epitafio in lode di Fortunato126; e Paolino d’Aquileia nell’Ubi caritas, l’inno scritto per inaugurare il Concilio di Cividale del Friuli nel 797127. ***

424

8. Poscritto: l’Expositio fidei catholicae Fortunati documento di ‘resistenza’ tricapitolina?

Di argomento e estensione simili a quelli dell’Expositio symbuli, ma di genere non liturgico, è un’Expositio fidei catholicae Fortunati di esigua tradizione manoscritta (tuttavia intersecata con quella di due altre recensioni128), che L.A. Muratori – facendo fede all’inscriptio del Cod. Ambr. M. 79 sup. – attribuì nell’editio princeps (Milano 1698) a Venanzio Fortunato: perciò lo considerò anche autore del credo in essa commentato, il simbolo pseudoatanasiano Quicumque vult129. Il Luchi, per considerazioni di stile letterario, si unì invece al partito di chi rifiutava la genuinità fortunaziana dell’opuscolo130; ragioni storico-teologiche (in particolare la processione dello Spirito Santo a Patre et Filio affermata da quel commento131) sembrarono quindi consigliare un’epoca di composizione successiva a quella di Fortunato: in tale prospettiva era quasi scontato che non si mancasse di suggerire addirittura Paolino d’Aquileia – paladino del Filioque132 – quale autore del simbolo Quicumque vult133. Fermo restava, almeno, che il commento in questione non potesse datarsi più tardi dell’anno 799 ...134. Prospettati dal Burn i legami del simbolo pseudo-atanasiano con la Gallia meridionale (Lerino, ultimi decenni del sec. V), un’inversione di tendenza si profilò quando il Künstle ritenne dimostrato che l’Expositio fidei catholicae Fortunati, a sua volta, non poteva essere posteriore al sec. VI135 e il Kattenbusch affermò di ritenerla forse genuina136; tale è il giudizio asseverato in tempi recenti dal Frede137, mentre la prudenza del dubbio sembra infine sciolta da Claudio Moreschini, apparentemente senza riserva: questi, tuttavia, non adduce ragioni esplicite della propria sicurezza nell’attribuire a Venanzio Fortunato il discusso commento138, e perciò la questione giace, in certo modo, sospesa.

8.1 Confronti con Rufino

Se tuttavia, incitati dal taglio di lettura sin qui applicato alle prose teologiche di autenticità fortunaziana certa, volessimo azzardare alcune osservazioni a latere in favore dell’unica attribuzione che dell’Expositio fidei catholicae la tradizione manoscritta propone139, innanzitutto potrebbe esser messo in evidenza il consistente e capillare apporto a quel 425

commento di una fonte assai famigliare a Fortunato: con l’Expositio symboli di Rufino è possibile infatti verificare una serie continua di paralleli plausibili, che ne denoterebbero l’utilizzo e la rielaborazione secondo uno stile di ‘camuffamento’ in tutto simile a quello seguito da Fortunato nell’Expositio orationis Dominicae, come quando l’abbiamo intravisto trattare la fonte cromaziana. Subito, perciò, esibisco in extenso lo scampolo di qualche schietto raffronto, non senza anticipare in nota talune convergenze con la stessa Expositio symboli di Fortunato: ne ricavo l’impressione – ora sfumata, ora assai netta – che memoria di letture rufiniane sopravviva anche nella cultura dell’Autore dell’Expositio fidei catholicae (marcate da sottolineatura sono le espressioni riprese dal simbolo Quicumque)

426

EXP. FID. CATH. FORTUNATI140

RUF. EXP. SYMB.

1, 16-19: Primo ergo omnium fides necessaria est, sicut apostolica docet auctoritas dicens: “Sine fide impossibile ...” (Eb 11, 6a)141

3, 19-20: ‘Credo’ ergo primo omnium ponitur, sicut apostolus Paulus ad Hebraeos scribens dicit: “Credere enim” ... (Eb 11, 6b)

6, 2-5; 8, 13-14: non ergo confundentes personas, quia tres personae omnino sunt. Est enim gignens, genitus et procedens. Gignens est Pater qui genuit Filium, Filius est genitus quem genuit Pater, Spiritus Sanctus est procedens, quia a Patre et Filio procedit. (...) Non ergo substantiam separantes, quia totae tres personae in substantia deitatis unum sunt

33, 15-21: Ut ergo fiat distinctio personarum, affectionis uocabula secernuntur, quibus ille Pater intellegatur, ex quo omnia et qui ipse non habeat Patrem; iste Filius, tamquam qui ex Patre natus sit; et hic Spiritus Sanctus, tamquam de Dei ore procedens, et cuncta sanctificans. Ut autem una eademque in Trinitate diuinitas doceatur ...

19-20, 14-20: ... per creaturam creator intellegitur secundum has comparationes (...). Sol, candor et calor et tria sunt vocabula et tria unum [al.: res una] Quod candet hoc calet et quod calet hoc candet: tria haec vocabula et res una esse dignoscitur. Item de terrenis vena, fons, fluvius tria itemque vocabula et tria unum [al.: res una] in sua natura. Ita trium personarum Patris et

4, 34-50: ... haec (...) de apertioribus requiramus. Fons quomodo ex se generat fluuium? Quo autem spiritu rapidum fertur fluentum? Quid est quod, cum unum et inseparabile sit fluuius et fons, tamen nec fons fluuius nec fluuius fons intellegi et appellari potest? (...) de terra (...) te (...) ad istud firmamentum, quod oculis uidetur, educam, et ibi (...) naturam huius uisibilis

Filii et Spiritus Sancti substantia et deitas unum est

luminis discute: quomodo ignis iste caelestis generat ex semetipso splendorem lucis; quomodo etiam producit uaporem; et cum sint tria in rebus, unum tamen sunt in substantia

21, ll. 22 ss.: Iesus Hebraice, Latine Salvator dicitur, eo quod salvat populum, Christus eo quod Spiritu Sancto sit divinitus delibutus, sicut in ipsius Christi persona Esaias ait: “Spiritus Domini super me, propter quod unxit me” et cetera142

6, 2-21 passim + 21-22: Iesus Hebraei uocabuli nomen est, quod apud nos Saluator dicitur [+ qui populum saluet]. Christus a chrismate, id est ab unctione appellatur (...): hic uero Sancto Spiritu perunctus, Christus efficitur, sicut (...) et Esaias praesignauerat, dicens ex persona Filii: “Spiritus Domini super me: propter quod unxit me, euangelizare pauperibus misit me”143

27, 1-6: Deus et homo Christus Deus, unus Dei Filius et ipse Virginis Filius, quia dum deitas in utero Virginis humanitatem adsumpsit et cum ea per portam Virginis integram et inlaesam nascendo mundum ingressus est Virginis Filius; et homo quem adsumpsit idem Dei Filius (...), ut deitas et humanitas in Christo, et Dei Patris pariter et Virginis matris Filius est

8, ll. 11-25: Qui enim in caelis unicus Filius est, consequenter et in terra unicus est et unice nascitur. (...) Ezechihel propheta (...) Mariam figuraliter portam Domini nominans, per quam scilicet ingressus est mundum (...), dicit: “Portam autem” (... Ez 44, 2). (...) Clausa fuit in ea uirginitatis porta: per ipsam introiuit Dominus Deus Israhel in hunc mundum, et per ipsum de utero Virginis processit, et in aeternum porta Virginis clausa, seruata uirginitate, permansit144

33, 28-32: Etsi Dei Filius nostram luteam et mortalem carnem, nostrae redemptionis conditionem, adsumpsit, sed tamen se nullatenus inquinavit neque naturam deitatis mutavit, quia si sol aut ignis aliquid inmundum tetigerit, quod tangit purgat et se nullatenus coinquinat. Ita deitas sarcinam quam ex nostra humanitate adsumpsit145 purgavit et a maculis et sordibus peccatorum (...) expiavit

10, 15-31: ... solis radius si in caeni alicuius uoraginem dimittatur, numquidnam aliquid inde pollutionis adquirit? Aut obscenorum inlustratio solis ducetur iniuria? Ignis quoque natura quanto est inferior his de quibus sermo est? Et nulla materia uel obscena uel turpis adhibita ei ignem polluisse credetur. (...) Nos hominem a Deo creatum de terrae limo dicimus. (...) Et ideo obscena haec esse non natura sed obseruantia docuit. Ceterum omnia quae sunt in corpore, ex uno eodemque luto formata, usibus tantum et officiis naturalibus distinguuntur146 427

428

34, 35-4: Ad hoc secundum humanitatem natus est, ut infirmitates nostras acciperet (...), ut eas a nobis tolleret, dum suae sacrae passionis gratia ac s a c r a m e n t o , “ c h i ro g r a p h o adempto” (Col 2, 14) redemptionem pariter147 et salutem animarum nobis condonaret

13, 14 ss.: Istud ergo uniuscuiusque chirographum (...) Christus detraxit adueniens ... delens quod aduersum nos erat chirographum et adfigens illud cruci suae traduxit principatus et potestates, triumphans eos in semetipso148

36, 6-9: Descendit ad inferna ut protoplastum Adam et patriarchas et prophetas et omnes iustos qui pro originale peccato ibidem detenebantur liberaret et de vinculo ipsius peccati absolutos, de eadem captivitate et infernale loco “suo sanguine redemptos” (Ap 5, 9) ad supernam patriam et ad perpetuae vitae gaudia revocaret ecc.149

27, 29-31: Igitur consummatam passionibus carnem atque in ea protoplasti lapsum resurrectionis uirtute reparatum in dextera sedis Dei in altissimis conlocauit ...

39, 19-23: Postea ascendit ad caelos, sicut psalmista ait: “Ascendens in altum captivam duxit captivitatem” (Ef 4, 8), id est humanam naturam, quae prius “sub peccato venundata” (Rm 7, 14) et captivata [nell’inferno], eamque redemptam captivam duxit in caelestem altitudinem et ad caelestis patriae regnum sempiternum ubi ante non fuerat eam collocavit in gloriam sempiternam

13, 7: hinc aduersum nos peccatorum chirographa scripta sunt, quia, ut propheta dicit, peccatis nostris uenumdati sumus150 + 29, 9-20: ... animarum de inferis captiuitate reuocata, ascendere memoratur ad caelos, sicut propheta praedixerat: “Ascendens in altum, captiuam duxit captiuitatem, dedit dona hominibus” (Ef 4, 8).(...) Donum ergo Spiritus Sancti hominibus dedit, quia captiuitatem, quam prius diabolus per peccatum deduxerat in infernum, Christus per mortis suae resurrectionem reuocauit ad caelos. Ascendit igitur ad caelos, non ubi Verbum Deus ante non fuerat (...), sed ubi Verbum caro factum ante non sederat151

Nella logica di questi confronti è interessante sbirciare anche l’apparato critico dell’edizione del Burn152. Uno dei due testimoni della recensione minore (B) dell’Exp. fid. cath. Fort., il cod. S. Gall. 27 (g1, del sec. IX), integra il brano concernente l’Ascensione (par. 39, l. 23) con una breve glossa153, cui segue immediata – quasi a compensare il silenzio del Quicumque circa la resurrezione della carne – l’esatta citazione di Fort. Exp. symb. 41, 206-208: ergo nec hoc credentibus impossibile iudicetur, quia qui potuit hominem de terra componere poterit hunc ex homine in angelis tranformare. Quindi interviene il collage di Ruf. Apol. ad Anast. 8, 5-8, in forma altrettanto letterale154: Reddent autem in die iudicii rationem hi qui offendicula et detractiones et scandala fratribus propter inuidiam et liuorem generant: brano che di per sé costituisce un parallelo possibile della frase conclusiva del Symbolum Athanasianum. Non riesco a interpretare questo caso se non come indizio del perdurare attraverso l’Alto Medioevo della notizia che i testi citati e i loro Autori fossero in rapporto di congruenza con l’Expositio fidei catholicae Fortunati. Afferro perciò l’occasione di segnalare qualche concordanza di Rufino e del Credo aquileiese con lo stesso simbolo Quicumque, sebbene il Kelly, che pure dedicò a entrambi monografie approfondite, abbia allora giudicato utile ricercare i paralleli dell’Atanasiano soltanto in Ambrogio, Agostino, Vincenzo di Lerino e in taluni scrittori gallici (soprattutto Faustino di Riez e Cesario di Arles)155: i confronti mirano solo a dare un’idea di come la struttura del Credo evidentemente sottostante al simbolo Quicumque rientrasse nella koinè formulare diffusa tra Gallia e Italia settentrionale sin dagli inizi del sec. V.

A) Alia est enim persona Patris, (...) alia persona Filii (...), alia Spiritus Sancti (9, 15-16) B) Et homo est (...) natus (...), ex anima rationabile et humana carne subsistens (...) qui passus est pro salute nostra C) discendit ad inferna D) surrexit a mortuis E) sedet ad dexteram Patris 429

F) inde venturus iudicare vivos et mortuos G) ad cuius adventum omnes homines resurgere habent cum corporibus suis et reddituri sunt de factis propriis rationem (42, 26-28)

a) Sicut enim unus dicitur Pater, et alius non est Pater; et unus dicitur unigenitus Filius, et alius unigenitus non est: ita et Spiritus Sanctus unus est, et alius non potest esse Spiritus Sanctus (Ruf. Exp. symb. 33, 12-15) b) ... carne et anima humana suscepta, homo factus et passus est pro salute nostra (Ruf. Apol. 1, 4, 32-33) c) descendit in inferna d) resurrexit a mortuis (Ruf. Apol. 1, 4, l. 35) e) sedet ad dexteram Patris f) inde venturus iudicare vivos et mortuos g) nos quoque resurrecturos esse credamus (...) nostra corpora recepturi (Ruf. Apol. in Hieron. 1, 4, 41-44) + ista fidei traditio cotidie nos uult de aduentu iudicis esse sollicitos, ut actus nostros ita praeparemus, tamquam reddituri imminenti iudici rationem (Ruf. Exp. symb. 31, 4-7) + reddent autem in die iudicii rationem hi qui offendicula et dissensiones et scandala fratribus propter inuidiam generant et liuorem (Ruf. Apol. ad Anastas. 8, 5-8)156

L’appello all’Apologia in Hieronymum di Rufino schiude pure l’eventualità di confronti con lo stesso commento ‘di Fortunato’: A) Exp. fid. cath. Fort. 18, 11-12: Coaeterna ergo Trinitas et inseparabilis unitas B) Exp. fid. cath. Fort. 20, 17-19: Ita Pater et Filius et Spiritus Sanctus tres personae in deitate substantiae unum sunt et individua unitas recte creditur

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a) Ruf. Apol. in Hieron. 1, 4, 17-19: coaeterna, inseparabilis (...) Trinitas b) Ruf. Apol. in Hieron. 1, 4, 16-17: ... sic teneo quod Pater et Filius et Spiritus Sanctus unius deitatis sit uniusque substantiae 8. 2 Configurazione polemica?

Di più. La rilettura della professione personale di fede esibita da Rufino nelle prime pagine della propria Apologia offre stimolo a un altro ordine di riflessioni. In quest’opera di equilibrata rivendicazione della libertà del teologo, Rufino, intendendo difendersi dall’accusa di eresia, oppone ai critici la santità e ortodossia della “tradizione” attraverso cui ha “ricevuta la grazia del battesimo” e “conseguito il segno della fede”157; quindi spiega in dettaglio una dottrina trinitaria che risulti ineccepibile da qualsiasi accusa di subordinazionismo, come esige la contingenza della polemica158, e delinea solo in poche parole una cristologia tale da dissipare ogni sospetto di apollinarismo159; elencati quindi sobriamente i misteri di passione, resurrezione dai morti, ascensione al cielo e giudizio universale, delucida infine con dovizia mirata a smontare ogni calunnia la propria teologia della resurrezione della carne. Paragonata a tale esposizione di fede rufiniana, anche l’Expositio fidei catholicae Fortunati appare svilupparsi secondo un’analoga struttura, cioè squilibrata da una configurazione polemica160. In premessa vi si afferma la dannazione eterna di chi non conservi la fede cattolica “integra e inviolata”161; segue una illustrazione dell’ortodossia trinitaria che alleggerisce con non pochi tagli il prolisso e ripetitivo formulario del Quicumque162: il contrasto con le deviazioni patripassiane (Sabellio) e subordinazioniste (Ario) è mantenuto nel tradizionale rilievo, ma si nota – in linea con la tendenza della teologia occidentale – un certo disinteresse agli approfondimenti pneumatologici163. Dilaga quindi la trattazione cristologica164, che, nell’affermazione forte delle “due sostanze in Cristo”, manifesta la dominante preoccupazione di rintuzzare il monofisismo di stampo apollinarista. La conclusione del commento è raggiunta brevemente, attraverso un catalogo dei restanti articoli di fede (Passione / Resurrezione della carne) dagli asciutti contorni esplicativi165: un indugio privilegiato, tuttavia, è concesso al descensus ad inferna166. 431

Nell’Expositio fidei catholicae Fortunati la spiegazione della teologia trinitaria, in parte aggiornando (ma anche semplificando e rinsecchendo) le non ignorate formule rufiniane, dimostra il carattere della trattatistica latina di ispirazione neonicena, fiorita nell’Italia settentrionale fra IV e V secolo167. Ma ciò che impressiona veramente, nell’economia dell’opuscolo, è l’effetto vistoso della cristologia: se non altro perché l’Autore le riserva un’estensione pari all’esposto trinitario, il quale nel simbolo Atanasiano occupa invece uno spazio proporzionalmente doppio. La distribuzione stessa degli argomenti dovrebbe significare che, analogamente a Rufino circa la Resurrezione della carne, nel commento ‘di Fortunato’ l’implicita contesa verta sulla fedeltà all’ortodossia cristologica, di primo acchito identificabile in quella calcedonese tradizionale168; cioè l’ortodossia formularmente esemplata sul documento che meglio aveva contribuito a definirla conciliarmente: la lettera dogmatica scritta il 13 giugno 449 a Flaviano di Costantinopoli dal vescovo romano Leone169, la cui memoria restava a Aquileia in benedizione170. Basterebbe d’altronde rileggere in controluce il vasto memoriale redatto a nome di papa Pelagio II (556-561) contro gli Aquileiesi del patriarca Elia dal diacono e futuro papa Gregorio (ca. a. 586)171 per constatare come gli oppositori alla condanna dei Tre Capitoli fondavano la propria ragione teologica e disciplinare sul fondamento capitale di estratti leonini172.

8.3 Cattolicità della fede e cattolicità della Chiesa

Se le osservazioni esposte persuadono al riconoscimento di indizi validi, non si dovrebbe allora esitare a ritrovare lo humus dell’Expositio fidei catholicae Fortunati proprio nell’ambito della conservazione tricapitolina di marca aquileiese; in un simile contesto di polemica teologica intraecclesiale anche l’enfasi del tutto particolare posta da quel commento sull’attributo “cattolico” della “fede” apparirebbe naturale: tanto più se si consideri che la sua prima comparsa nei simboli di fede sembra avvenuta proprio in ambito illirico, nel Credo di Remesiana e nella Fides Hieronymi a esso affine, verso la quale, per altro, il simbolo Quicumque lascia trasparire qualche debito173. Non per niente lo stesso papa Pelagio I (556-561), invocando a ogni passo l’intervento del braccio secolare a annientamento del ‘patriarca’ Paolo e dei suffraganei suoi complici (nolite tamen inpunitam prae432

sumptionem iniquorum hominum grassari permittere), ne sdegnava la presunzione di sedicenti ‘cattolici’: Ne enim sine illius [Dei] providentia factum esse credendum est, ut insensati et perversi homines ad hoc usque prosilirent, ut suam divisionem catholicam esse credentes Ecclesiam174. Anzi, con riaccreditata severità tertullianea, il papa negava risolutamente illos vel esse vel dici Ecclesiam posse, poiché nullam aliam esse constat nisi quae in apostolica est radice fundata: a quibus [= apostolis] ipsam fidem in universo propagatam orbe non potest dubitari175. Senza volere troppo sottilizzare, sembra quasi di notare che Roma insistesse sulla cattolicità della Chiesa e che Aquileia le opponesse la cattolicità della fede ... . In effetti, nelle occasioni più che rare in cui dai documenti trapeli la diretta voce di un Aquileiese, l’accento batte immancabilmente sulla integra cattolicità della fede custodita dalle Chiese resistenti alla condanna dei Tre Capitoli. Così è sin nell’esordio della famosa petizione rivolta nel 591 dai vescovi della Venetia all’imperatore Maurizio per la liberazione del patriarca Severo, detenuto sotto tortura a Ravenna: Pietatis uestrae est (...) preces (...) suscipere, quod etiam supplices deprecamur per Dominum Deum nostrum Iesum Christum saluatorem omnium, per fidem catholicam et regnum, quod meruistis a Deo concessum, (...) ut aditum inueniat supplicatio nostra ...176. Ancora una ventina d’anni più tardi il neoeletto patriarca Giovanni, scrivendo (ca. a. 610) al re longobardo Agilulfo, ricordava la violenta costrizione a ordinare quale vescovo di Grado il traditore Candidiano subita da tre vescovi istriani qui adhuc fidem sanctam tenebant, e esortava: Laborate et agite, quatenus et fides catholica vestris augeatur temporibus (...). (...) Christus Deus pietati vestrae erit bonorum omnium retributor177.

Mentre rilevo un’obiettiva assonanza di termini e concetti fra l’esordio dell’Expositio symbuli di Fortunato e lo stesso Quicumque, osservo che nella posizione parallela dell’Expositio rufiniana il sostantivo fides e l’aggettivo catholica sono invece assenti178: qui l’accento non cade – come ormai sarebbe stato in Fortunato e nello stesso Quicumque – sul requisito di una fede ortodossa a esclusiva garanzia della salvezza personale, bensì, con visione di maggior respiro, sulla funzione gnoseologica (ad agnitionem Dei) della uis credendi179:

433

VEN. FORT. EXP. SYMB. A) 1, 1-3: Summam totius fidei catholicae recensentes, in qua et integritas credulitatis ostenditur et unius Dei omnipotentis, id est sanctae Trinitatis, aequalitas declaratur B) 4, 24-25: ... quia salvus esse poterit qui recte salute crediderit.

SYMB. ‘QUICUMQUE’ + EXP. FIDEI CATH. FORT. a) 1-2: Quicumque vult salvus esse (...) teneat catholicam fidem: quam nisi quis integram (...) servaverit, (...) in aeternum peribit + 19: Aequalitatem personarum dicit, quia Trinitas aequalis et una deitas b) 42: Haec est fides catholica: quam nisi quis fideliter firmiterque crediderit, salvus esse non poterit.

Se, d’altronde, volessimo fomentare il sospetto di una riserva filo-tricapitolina anche nel Fortunato dell’Expositio symbuli, coglieremmo un buon argomento da un confronto ulteriore con Rufino: ne può risultare il sospetto che Fortunato, modificando il generico ecclesias e il tempo aoristico congregarunt, propostigli dalla fonte, nel singolare ecclesiam e nel presente congregant, abbia voluto significare a buon intenditore un oggetto preciso di polemica:

VEN. FORT. EXP. SYMB. 37, 188-190: ... de qua (ecclesia) in Canticis legitur: ‘Una est columba mea’ (Ct 6, 8)180: nam haeretici congregant ecclesiam ubi ruga et perfidiae macula comprobatur.

RUF. EXP. SYMB. 37, 9 ss.: Multi (...) et alii ecclesias congregarunt (...) haeretici. Sed illae ecclesiae non sunt sine macula uel ruga perfidiae (...). De hac autem ecclesia, quae fidem integram seruat, audi quid dicit Spiritus Sanctus in Canticis Canticorum: ‘Una est columba mea’ ecc. 434

Mi perito, infine, di considerare una corposa coincidenza testuale (evidenziata ancora con sottolineature) fra l’Expositio fidei catholicae e l’Expositio symbuli, a cui non sarà inutile affiancare il passo parallelo di Rufino, affinché meglio risalti la singolarità fortunaziana:

EXP. FID. CATH. FORT.

41: ‘Inde venturus iudicare vivos et mortuos’. Vivos dicit eos quos tunc adventus dominicus in corpore viventes invenerit et mortuos iam antea sepultos. Et aliter dicit vivos iustos et mortuos peccatores

VEN. FORT. EXP. SYMB. 33, 167-170: Aliqui dicunt vivos iustos, mortuos vero iniustos; aut certe vivos quos in corpore invenerit adventus dominicus et mortuos iam sepultos; nos tamen intellegamus vivos et mortuos, hoc est animas et corpora pariter iudicandas

RUF. EXP. SYMB. 31, 9-11: ... non quo alii uiui alii mortui ad iudicium ueniunt: sed quod animas simul iudicabit et corpora, in quibus uiuos animas, mortuos corpora nominauit

In questo caso la convergenza principale fra l’Exp. symb. di Fortunato e l’Exp. fid. cath. sta nell’originale equazione vivos = iustos / mortuos = peccatores, taciuta da Rufino; è però interessante che Fortunato, nella sua epitome, si fosse già discostato con inusuale determinazione dallo stimato modello, quando aveva ritenuta del tutto ammissibile (certe!) la spiegazione invece respinta da Rufino (forse a ragione di una letteralità teologicamente insignificante ...): questa stessa tuttavia riappare – secondo l’identica formula rielaborata da Fortunato! – nell’Exp. fid. cath.; qui, al contrario, è sparita la spiegazione preferita da Rufino, che pure Fortunato dimostra accolta nella sua epitome, anche se solo attraverso il superamento – sembrerebbe – di una iniziale perplessità (aut certe ...; nos tamen intelligamus ...), comprensibile per l’arcaicità ormai strana di quell’allegoria181. 435

8.4 In partibus Aquileie ...

Eventi ecclesiali di vario genere nei quali adottare un simbolo provinciale di rodata affidabilità e giusta tempra polemica come lo pseudo-atanasiano182, che, opportunamente commentato, valesse a ribadire senza estremismi l’attaccamento alla vecchia fede leonina-calcedonese, certo non mancarono negli anni convulsi in cui Venetia e Liguria, sostenute dalla permanente comunione con le Chiese galliche, consolidarono il proprio dissenso: come il Sinodo presieduto dal patriarca Elia (571-587) per la dedica della basilica gradese di S. Eufemia, patrona del Concilio di Calcedonia (3 nov. 579) compilò – o, piuttosto, ripubblicò – una confirmationem (...) ejusdem catholicae nostrae fidei183, altrettanto potrebbe essere avvenuto in altri conciliaboli meno noti, se non proprio a conclusione del “concilio particolare” aborrito da Pelagio I, in cui la condanna dei Tre Capitoli fu solennemente rifiutata e il monaco Paolo – antico padre spirituale di Fortunato – eletto quindi metropolita di Aquileia (a. 558 o 559)184. Suonerebbe allora meno peregrina anche la sorprendente tradizione rimbalzata da Gilberto Porretano († 1154), che fu, a partire dal 1142, lontano successore di Venanzio Fortunato sulla cattedra episcopale di Poitiers: Anastasius in partibus Aquileie episcopus (...) simbolum in quo omnes fere articuli fidei exponuntur contra omnes fere hereticos edidit scilicet ‘Quicumque uult’185: notizia impreziosita da un’acuta percezione sia dell’animus polemico sia del contenuto rapsodico di quella professione di fede; ma forse anche non trascurabile nella sostanza, se a quell’edidit si attribuisca il significato esteso di ‘divulgazione’, o ‘adozione ufficiale’. Tristemente memorabile, certo, fu il rogo dei libri ‘eretici’ ordinato da papa Sergio in seguito all’adunanza pavese del 699 (risolutiva dello scisma tricapitolino)186 e celebrato dall’ignobile canzonetta che il “devoto cultore della fede” cattolica re Cuniberto, figlio del battezzatore e sgozzatore longobardo di Giudei Bertarito, si compiacque di ispirare187: ma non sarebbe inverosimile affatto che un Credo, adottato dai Tricapitolini agli inizi della controversia come simbolo di bandiera, abbia pur continuato a godere – insieme al suo primo e militante commento – del favore già saldamente acquisito in Italia settentrionale, Francia e Germania durante un secolo e mezzo di resistenza ‘cattolica’ e di travagli politi436

co-ecclesiali per la riaffermazione di antiche identità e posizioni di rispetto, attraverso il guado di sopravvivenza fra la Tarda Antichità e l’Alto Medioevo. Solo molto più tardi, durante il sec. XIX, l’acceso dibattito nella Chiesa d’Inghilterra e nell’intera Comunione Anglicana a proposito dell’opportunità o meno che quel simbolo mantenesse il tradizionale prestigio nei libri liturgici188, avrebbe fatto riaffiorare il sentore della sua antica indole combattiva.

Note

(1) Per esempio, la ricostruzione dei possibili rapporti del giovane letterato con l’Istria, proposta a suo tempo da G. Cuscito (Venanzio Fortunato e le Chiese istriane. Problemi e ipotesi, “Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria”, N. S., 26 [1978] 207-225), risulta oggi improbabile per la premessa di una supposta ostilità di Fortunato verso i Tre Capitoli ... (cf. ibidem, p. 209): infatti, sulla giovinezza trascorsa dal poeta di Duplavenis in patria e a Ravenna, sulle testimonianze d’affetto verso famigliari e vecchi amici della Venetia e gli indizi inequivocabili del suo schieramento a favore dei Tre Capitoli vedi ora l’attenta e aggiornata biografia di S. Di Brazzano, Venanzio Fortunato: profilo biografico, Treviso 2001, pp. 3-5 e 1014 in particolare. (2) In Paul. Diac. Hist. Lang. 2, 13 (ed. L. Capo, Milano 19953, p. 92, 37 ss.), lungo capitolo interamente votato a Fortunato e alla celebrazione consolante di un passato migliore (cf. G. Vinay, Altomedioevo latino. Conversazioni

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e no [Esperienze 42], Napoli 1978, p. 134): l’epitafio fu composto in occasione di una visita – pellegrinaggio a Poitiers negli anni 782-786. Con accenti simili Alcuino celebrerà vivente l’amico Paolino d’Aquileia: O laus Ausoniae, patriae decus, inclytus auctor ... (Alcuin. Versus 17, 14; MGH, Poetae Latini aevi Carolini, 1, ed. E. Dümmler, p. 239). (3) Che Venanzio Fortunato sia un autore ‘aquileiese’ attiene all’ovvietà del dato anagrafico; altre questioni, invece, sono quella dei tratti identitari del cristianesimo aquileiese (alcuni dei quali si scontano qui per accertati) e quella – che ora direttamente interessa – del loro imprinting su Fortunato, teologo e innografo. I suoi primi biografi moderni non avevano mancato di accentuare ipoteticamente il rapporto con la città stessa di Aquileia, in cui si immaginò che Fortunato avesse soggiornato con la famiglia (cf. M. Luchi, Vita Venantii Fortunati, 11, in PL 88, Parisiis 1850 [Romae 1786], coll. 23-24) e dove G.G. Liruti suppose che fosse stato battezzato dall’amico e padre spirituale vescovo (poi patriarca) Paolo (Notizie delle vite ed opere scritte da’ letterati del Friuli ..., I, Venezia 1755 [rist. anast. Bologna 1971], p. 134). In seguito D. Tardi credette di cogliere specifiche intonazioni aquileiesi anche nella spiritualità del poeta (Fortunat. Étude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927, pp. 35-36); era allora troppo presto perché il giudizio risultasse provato a sufficienza, ma quasi settant’anni dopo esso pare ancora recisamente contestato: “(...) Aquileia , pur nominata tre volte dal poeta nel corso della sua opera, non è mai accompagnata da alcuna connotazione affettiva. Anche nel ricordo di Mart. 4, 661-662 (...) l’emozione del poeta pare legata alla persona di Paolino [cioè il patriarca Paolo], non alla città in sé. Né vi è traccia negli scritti di Venanzio di una specifica ‘spiritualità aquileiese’ (...)” (Di Brazzano, Venanzio Fortunato ..., cit., p. 30, n. 7). Naturalmente terrò conto, cercando di correggere quest’impressione negativa, che altra cosa è la città di Aquileia – che però custodiva il corpo del martire venerato dal poeta nel proprio nome ... (cf. c. 8, 3, 166; P. Paschini, Storia del Friuli, Udine 19904 (1934), p. 33; G. Brumat Dellasorte, Felice e Fortunato, in Santi e Martiri del Friuli e della Venezia Giulia, a c. di W. Arzaretti, Padova 2001, p. 44) – e altra cosa è la sua tradizione teologico-catechetica, secondo cui la Venetia declinò la propria fede cristiana. (4) Così secondo la lezione preferita da S. Di Brazzano, curatore del vol. VIII/1 del Corpus Scriptorum Ecclesiae Aquileiensis (Ven. Fort. Opera / I, Roma – Gorizia 2001, p. 600), da cui normalmente qui si citeranno i testi di Fortunato. (5) Cf. ibidem, p. 598 e Id., Venanzio Fortunato ..., cit., p. 26. Fortunato era prete sin da prima del 576 (ibidem, pp. 19-20) e non si deve escludere del tutto neanche la possibilità che già in tale stato – proprio come lo stesso Rufino a Aquileia – avesse composto su apposita commissione le sue catechesi: in tal caso si presterebbe fede all’intestazione dell’Expositio symbuli serbata dal Codice Ottoboniano (sec. XI): a Fortunato presbytero conscripta. (6) In questo senso direi che il giudizio di Claudio Moreschini – “opere certamente di nessuna originalità sul piano del contenuto” – ha un mero valore storico – letterario, non storico – teologico (in C. Moreschini – E. Norelli, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, II. Dal concilio di Nicea agli inizi del Medioevo, Brescia 1996, p. 719). (7) Ruf. Aquil. Exp. symb., CCL 20, ed. M. Simonetti, Turnholti 1961, pp. 133-182. (8) Rufino, benché traduttore delle “parole quasi infinite” (Orig. Comm. Ioh., 5, 5) che la sapienza esegetica greca non cessava di produrre, si era dichiarato convinto (Exp. symb. 1) che la verità dovesse essere detta “in forma semplice”, conscio che “lo Spirito Santo aveva provveduto che nelle “parole” della confessione di fede “non vi fosse nulla di ambiguo, di oscuro”: la Parola di Vita è infatti “parola che conclude con brevità e equità (uerbum consummans et breuians in aequitatem), poiché il Signore parlerà con poche parole (uerbum breuiatum faciet: cf. Is 10, 23 [LXX]) sulla terra”. Perciò l’Aquileiese si era proposto di tentar di restituire alle parole degli apostoli il loro carattere di semplicità (simplicitatem suam uerbis apostolicis reddere et adsignare). Analogamente, a proposito dei due massimi precetti evangelici, lo smirniota

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Ireneo aveva già citato la stessa profezia: “non è con la verbosità della legge che il genere umano si è salvato, bensì con la concisione della fede e della carità. Dice Isaia: ‘una parola concisa e breve nella giustizia, perché Dio manderà ad effetto una parola breve sulla terra’” (Iren. Dem. 87; trad. Bellini, Milano 19972). Fortunato, però, banalizza lo spunto rufiniano (multa in symbolo paucis verbis complexa ...: Exp. symb. 1, 10). (9) La latinità di Venanzio Fortunato, Milano 1917, pp. 33-34. Questo giudizio non è contraddetto, bensì meglio motivato, da A.F. Memoli, il quale, a conclusione di una puntuale analisi stilistica (Il ritmo prosaico in Venanzio Fortunato, Mercato S. Severino 1952, pp. 22-24 e 52-53 in particolare), afferma che i trattati teologici “si sviluppano in un’andatura chiara e piana, sempre però sorvegliata dal ritmo e ricca di tanti elementi retorici che contribuiscono a darle musicalità e colorito. Appunto per questi cospicui elementi positivi, la prosa (...) dei trattati teologici non è poi così scialba e slombata, come vorrebbe il Moricca [Storia della letteratura latina cristiana, Torino 1932, III, p. 277], giacché, se è vero che il ritmo prosaico non è molto adatto alle trattazioni teologiche e storiche, dove si desidererebbe un procedere più semplice e alla buona, un tono più discorsivo e didattico (...), è anche vero che esso rimane sempre segno di un’alta tecnica stilistica” (ibidem, pp. 95-96). (10) Cf. Vita S. Marc. 7. Con queste affettate espressioni di dotta modestia allusiva Fortunato non solo suggeriva un accostamento della propria arte con quella di Tito Livio (cf. Quintil. Inst. orat. 8, 1, 3: in Tito Livio, mirae facundiae viro, putat inesse Pollio Asinius quandam Patavinitatem), ma anche rimarcava di fatto – nell’ambito comune della ‘romanità’ – l’indelebile carattere della propria formazione culturale (ibidem 1, 5, 56: Taceo de Tuscis et Sabinis et Praenestinis quoque [verbis] – nam ut eorum sermone utentem Vettium Lucilius insectatur, quem ad modum Pollio reprendit in Livio Patavinitatem: licet omnia Italica pro Romanis habeam). “Stile agghindato e scorrevole al ritmo del coturno gallico” aveva definito Gerolamo quello di Reticio di Autun (e di Ilario di Poitiers!): “Una magniloquenza propria dei Galli – Romani?” (J. Fontaine, La letteratura latina cristiana [Saggi 127], Bologna 1973 [Paris 1970], p. 71). (11) Così come riportato dal Gelasianum e dai sacramentari gelasiani del sec. VIII. (12) Cf. H. Boone Porter, Maxentius of Aquileia and the North Italian Baptismal Rites, “Ephemerides Liturgicae” 69 (1955) 3. (13) Dissertationes duae: Prima de Turannio, seu Tyrannio Rufino Monacho, et Presbytero: Altera de vetustis Liturgicis aliisque sacris Ritibus, qui vigebant olim in aliquibus Forojuliensis Provinciae Ecclesiis, Venetiis 1754, pp. 238 ss.; l’ordo compare in un manoscritto del Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli / Cividât, risalente al sec. XIV (Cod. LXXVII, fol. 26v-28r). (14) Ibidem, p. 242. A. Olivar riprodusse il medesimo testo del De Rubeis nel saggio San Pedro Crisólogo autor de la ‘Expositio Symboli’ de Cividale, “Sacris Erudiri” 12 (1961) 294-312; quindi la ripubblicò, dopo nuova collazione del manoscritto, nel suo volume Los sermones de San Padro Crisólogo. Estudio critico (Scripta et documenta 13), Abadía de Montserrat 1962, pp. 494-495 e la ripropose con la sua nuova edizione di Pietro Crisologo nel CCL 24, Turnholti 1975, pp. 354-355. (15) “Come capo della sua Chiesa e suo liturgista per eccellenza, ciascun vescovo era perfettamente libero tanto di creare le proprie formule di preghiera quanto di scegliere letture appropriate” (C. Vogel, Medieval Liturgy: An Introduction to the Sources, Washington 1986 [Spoleto 1981], pp. 349350). (16) Cf. supra n. 3. (17) “Se si aggiunga la Sposizione del Simbolo, che del nostro Fortunato abbiamo (...), la quale in tutto s’uniforma, e segue l’ordine della Sposizione della Chiesa d’Aquileja, ravvisata nella famosa Sposizione del nostro Rufino, a cui quella di Fortunato è consimile, non potrà da veruno negarsi che Fortunato non abbia avuta la sua nascita in luogo immediatamente soggetto alla Chiesa d’Aquileja, costituito in Italia, e necessariamente in questa nostra

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provincia” (Liruti, Notizie delle vite ed opere ..., cit., pp. 134-135). A leggere obiettivamente, il Liruti non afferma identici i simboli, bensì del tutto simile e condivisa la loro interpretazione ‘aquileiese’; per il resto, esplicito era il suo generoso intento di ribadire che Fortunato era “stato così nella santità dei costumi, come nelle scienze, se non il primo, e più distinto, certamente tra i primi, e più distinti uomini dotti di quel secolo. Il qual onore non è ordinario, né comune ad ogni provincia di non grande estensione, qual è la nostra d’Aquileja, o, come diciam in oggi, di Friuli, che quasi in ogni secolo, del quale ci sono rimase Letterarie notizie, può senza jattanza, o esaggerazione darsi questo vanto” (ibidem, p. 163). (18) Cito il Luc(c)hi nella piacevole traduzione della sua biografia fortunaziana, Sopra la vita di S. Venanzio Fortunato, nativo di Valdobbiadene e vescovo di Poitiers, “nuovamente pubblicata” a Venezia nel 1846, in “occasione della di lui festa stabilita nel giorno 14 del mese di dicembre di ciascun anno, e conceduta alle sei Parrocchie del detto luogo con ispeciale decreto della S. Congreg. de’ Riti del 23 maggio 1846”, p. 15. Il Luchi corroborava la propria supposizione osservando “ che il simbolo di Aquilea, per attestazione di Rufino medesimo (Invest. in Hieronym., l. 1), secondo la tradizione e consuetudine di quella chiesa, nominava anche la risurrezione di questa carne, della qual giunta non trovasi alcuna traccia nel simbolo esposto da Fortunato” (ibidem, pp. 15-16). (19) In proposito vedi M. Van Uytfanghe, La Bible et l’instruction des laïcs en Gaule mérovingienne: des témoignages textuels à une approche langagière de la question, “Sacris Erudiri” 34 (1994) 67-123 (95 ss. in particolare), con esauriente bibliografia. (20) Cf. F. Kattenbusch, Das apostolische Symbol, I, Leipzig 1894, p. 130 ss. (21) Resta tuttavia notevole che il Credo di Fortunato sia stato passato sotto silenzio tanto da J.N.D. Kelly (I simboli della fede della Chiesa antica. Nascita, evoluzione, uso del Credo, Napoli 1987 [London 19723]), quanto da repertori come l’Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, a c. di H. Denzinger – A. Schömetzer, Freiburg im Br. 197336 e ss. (22) Vedi infra n. 63. (23) Traditio apostolica. Apostolische Überlieferung (Fontes Christiani 1), ed. W. Geerlings, Freiburg 1991, pp. 260-262; cf. Hippolyte de Rome. La Tradition apostolique d’après les anciennes versions, ed. B. Botte, SCh 11bis, Paris 19842, pp. 84-86. (24) Ven. Fort. Exp. Symb., ed. S. Di Brazzano, CSEA 8/1, Roma - Gorizia 2001, pp. 600 ss. passim; cf. Eiusd. c. X, 1, ed. F. Leo, MGH, Berolini 1881, pp. 255 ss. passim. (25) Ruf. Aquil. Exp. Symb., ed. M. Simonetti, CCL 20, Turnholti 1961, pp. 133 ss. passim. (26) Adduco il testo ricostruito da L.H. Westra, The Authorship of an Anonymous ‘Expositio Symboli’ (CPL 229A), “Augustinianum” 36 (1996) 527528, che, ricollazionando il codice cividalese, ha potuto correggere i “molti errori” (ibidem 526 n. 5) dell’edizione dell’Olivar (cf. supra n. 14); il medesimo A. ha riportato a saggio anonimato la paternità del simbolo e della sua expositio. (27) Lacuna ricostruita sulla base dei Canones Hippolyti (sec. IV?), rielaborazione egiziaca della Traditio apostolica: cf. Denzinger - Schönmetzer, Enchiridion ..., cit., p. 20 nr. 10 e p. 38 nr. 64. (28) Il Kelly, commentando il secondo articolo dell’Antico Credo Romano, nota che la formula Et in Christum Iesum Filium eius unicum Dominum nostrum “deve rappresentare un’elaborazione del vero originale, perché quasi certamente ‘unico’ fu inserito in seguito (...) ed è possibile che anche ‘Signore’ sia un’aggiunta successiva” (I simboli di fede ..., cit., p. 137; cf. p. 139). Nel medesimo senso, la concordanza del Credo di Fortunato con TA contro Rufino può valere come segnale notevole di arcaicità. (29) Fra tutti i simboli antichi, nell’atto di fede trinitario di Aquileia la costante costruzione di credo con in + ablativo resta un hàpax la cui sottovalutazione da parte della critica storica è utile anche qui denunciare. Non che la

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reggenza all’ablativo implichi sfumature particolari di significato teologico – spirituale, essendo stata sufficientemente dimostrata la sua perfetta equivalenza con quella in accusativo da sia da Th. Camelot, ‘Credere Deo’, ‘credere Deum’, ‘credere in Deum’. Pour l’histoire d’une formule traditionnelle, “Rev. des Sciences Philos. et Théol.” 30 (1941-1942) = “Les Sciences Philos. et Théol.” 1 (1941-1942) 149-155, sia da Chr. Mohrmann, Credere in Deum, in Mélanges Joseph de Ghellinck, I. Antiquité (Museum Lessianum. Sectio historica 13), Gembloux 1951, pp. 277-285 (non ho invece potuto consultare A. Treloar, Credere in Deum, “Prudentia” 15 [1983] 49-52); dai medesimi autori, tuttavia, si trae pure l’indicazione di una relativa maggiore arcaicità (e regressività) della costruzione credo in + ablativo, di conserva con la parallela tendenza evolutiva della stessa koinè greca (da piste›w ùn a piste›w eàj). Da parte mia, cosiderata la natura gelosamente conservativa delle professioni ecclesiali di fede, propendo a considerarla nel simbolo aquileiese di Rufino non una trascurabile variante di R (come ad es. lascia capire il Kelly, I simboli di fede ..., cit., pp. 170 ss. in partic.), bensì un connotato di autonomia genetica, in base a cui poter anche instaurare ipotetici legami di affinità specifica fra tale simbolo e tutti quelli che conservino almeno una traccia della costruzione credo in + ablativo, quali appunto il Credo di Fortunato e del palinsesto veronese (TA), che recitano ancora credo in Spiritu Sancto. È giusto ricordare che la prima forte e stimolante rivendicazione di questo “uso (...) certo e singolare della chiesa aquileiese” fu merito di Guglielmo Biasutti: in un saggio praticamente ignorato al di fuori della cerchia degli studiosi di storia locale, ne individuò il “fondamento” nella costruzione piste›w ùn peculiare del Vangelo di Marco (1, 15: piste›ete ùn t¸ ùuaggelàJ), così da rafforzare la verosimiglianza storica del tradizionale riferimento del cristianesimo aquileiese all’evangelizzazione petrino-marciana di matrice alessandrina, secondo un originario profilo spiccatamente giudeocristiano (Otto righe di Rufino, Udine 1970, pp. 35 ss.). L’ipotesi raccoglie oggi favori rinnovati e produce originali sviluppi (v. Cacitti, Rusticitas ..., cit. a n. 57, pp. 185-189 e 205 ss. in partic.). (30) Ex della edizione del Leo era correzione di Ch. Brouwer sulla base di Ruf. Exp. symb. 8, ma tutti i manoscritti hanno et (lo nota anche il Di Brazzano, che tuttavia non modifica il testo nella sua riedizione: p. 604 n. 11); questa lezione collega il Credo di Fortunato per un’interessante concordanza sintattica sia al Credo di Remesiana (natum ex Spiritu Sancto et ex uirgine Maria: cf. infra n. 52) e a quello di Lupo, in area aquileiese, sia alla forma originaria del simbolo romano (R: qui natus est de Spiritu Sancto et Maria virgine) e quello a esso affine di Pietro Crisologo (qui natus est de Spiritu Sancto et Maria uirgine: ed. Westra, The Authorship ..., cit., 528-529): et è congiunzione di significato avversativo, a denotare una teologia dell’Incarnazione (o, più in generale, una cristologia) piuttosto arcaica, in cui il mistero teandrico è espresso grazie alla dinamica tensione di formule antitetiche bimembri (così per es. in Ign. Ant. Ephes. 7, 2: κaã ùκ Maρàaj κaã ùκ qeoË). (31) Tanto il De Rubeis quanto l’Olivar leggevano erroneamente ex. (32) L omette la successiva clausola et mortuus est (¶poqan’nta; v. Geerlings, Apostolische Überlieferung ..., cit., p. 262), accettata invece come originaria nel simbolo della TA sia dal Geerlings (l. c.), sia dal Botte (Hippolyte ..., cit., pp. 84-85); essa compare invece, come in molti simboli orientali, anche nel Credo di Niceta di Remesiana (v. infra n. 52), insieme alla clausola passus/um (paî’nta): quest’ultima si riscontra pure in un Credo tràdito da un ms. di Berna (sec. VII) e assegnato da A. Hahn - G.L. Hahn, Bibliothek der Symbole und Glaubensregeln der Alten Kirche, Breslau 18973, pp. 208-209, alla Germania meridionale, d’influenza aquileiese: la facies di questo laconico simbolo, che menziona il descensus, mi induce a consentire con i primi editori, piuttosto che con R. Gounelle, La descente du Christ aux enfers: institutionnalisation d’une croyance (Coll. des Études augustiniennes. Sér. ‘Antiquité’ 62), Paris 2000, pp. 322 e 392, il quale preferisce assegnarlo alla Gallia settentrionale. Comunque, se è pur vero che l’aggiunta di mortuus o di passus, “con le conseguenti alterazioni della struttura della frase, sembra (...) priva di importanza dottrinale” (Kelly, I simboli della fede ..., cit., p. 369), la sua assenza in L vale però come ulteriore concordanza con i simboli posti in sinossi.

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(33) Nel Credo di Fortunato la clausola crucifixus è seguita immediatamente da quella del descensus, essendo omesso l’et sepultus: caso rarissimo, se non unico, fra i simboli latini di solito presi in esame dalla critica. Questa omissione, tuttavia, denota la perfetta coerenza espressiva di un simbolo antico e di originario e originale aspetto, quale sembra accreditarsi il simbolo di Fortunato, in particolare nella formulazione del 2° articolo: già Rufino, infatti, aveva apologeticamente opinata l’equivalenza kerygmatica dell’et sepultus con il descendit (Ruf. Exp. symb. 16, ll. 4-7; v. infra n. 36 e testo relativo). Se forse si può dubitare che il simbolo stesso di Rufino effettivamente riportasse l’et sepultus (v. infra l. c.), è invece certo che tale clausola manca anche nel simbolo dipinto della tomba veronese, a dispetto del palinsesto di L, che – nell’ambito della medesima Chiesa particolare – con quell’aggiunta aveva evidentemente innovato il testo primitivo del credo della TA (v. infra n. 35). D’altronde neppure i simboli greci riportano tutti la clausola κaà tafûnta: è infatti omessa dai più antichi, sia di area egiziana (Nicea e collegati, v. infra n. 39), sia antiochena. Il documento più interessante in proposito è però un importante credo omeo, il IV Simbolo di Sirmio (maggio 359), detto (ironicamente) ‘il Credo datato’: redatto in lingua latina (ma pervenutoci nella sola versione greca) da un comitato episcopale dove influente fu l’apporto di leader semiariani della regione illirica, quali Ursacio di Singiduno, Valente di Mursa e lo stesso Germinio di Sirmio, tale simbolo effettivamente palesa arcaici tratti ‘illirici’, se non altro “per essere stato il primo a dare un riconoscimento ufficiale alla ‘discesa agli inferi’” (Kelly, I simboli delle fede ..., cit., p. 287; testo greco in Hahn, Bibliothek der Symbole ..., cit., pp. 204-205; Gounelle, La descente ..., cit., pp. 277-294 azzecca qualche buon confronto testuale); la clausola alternativa et sepultus è di conseguenza assente: staurwqûnta κaã ¶poqan’nta, κaã eáj κatacq’nia κatelq’nta, ÷n pulwρoã zdou ád’ntej †fρixan (Gb 38, 17b), κaã ¶nastßnta ùκ neκρÒn t– tρàtV Ωmûρv. Solo otto anni prima, nel 351, il I Simbolo di Sirmio, redatto in greco e diffuso in Occidente nella traduzione latina di Ilario di Poitiers, aveva a sua volta recitato, con speculare coerenza: ... et crucifixus et mortuus et sepultus; qui et surrexit ex mortuis tertia die ... (in Denzinger - Schönmetzer, Enchiridion ..., cit., p. 59 nr. 139). (34) Omesso dai precedenti editori. (35) Soltanto il palinsesto veronese, fra i testimoni del Credo della TA, riporta la clausola et sepultus: cf. supra n. 33. (36) Ho un larvato sospetto che il Credo spiegato da Rufino non includesse la clausola et sepultus. Non solo perché due codici rufiniani la omettano, né perché Fortunato la trascuri del tutto nel suo commento, nonostante che, generalmente, egli almeno accenni ai particolari intesi per sottaciuti dal suo laconico simbolo: piuttosto, invece, perché proprio Rufino suggerisce di escluderla per il modo stesso in cui ne parla. Dal cap. 12, ove enuncia il crucifixus ecc., al cap. 15 manca cenno al sepultus; nello stesso cap. 15, poi, la morte in croce è collegata recto tramite al descensus; solo al cap. 16, lodata nel Simbolo Apostolico la sapienza del dettaglio temporale sub Pontio Pilato, Rufino ritorna sulla clausola aquileiese del descensus, precisando: Sciendum sane est quod in ecclesiae Romanae Symbolo non habet additum: ‘descendit in inferna’; e aggiunge: sed neque in Orientis ecclesiis habetur hic sermo. Perciò si preoccupa subito di giustificare tale particolarità, affermandone la perfetta equivalenza kerygmatico – concettuale con il sepultum / tafûnta altrove ricorrente: uis tamen uerbi eadem uidetur esse et in eo quod ‘sepultus’ dicitur (Ruf. Exp. symb. 16, ll. 4-7; si può accettare l’interpretazione che la “posture de défense” di Rufino sarebbe “la discrète trace de la résistance provoquée par la presence, dans le symbole de foi, d’un événement lié à la figure de Jésus-Christ, mais absent des évangiles”: Gounelle, La descente ..., cit., pp. 335 e 337 ; non concordo, invece, con la recisa negazione dell’equivalenza fra le clausole del descensus e l’et sepultus argomentata ibidem, pp. 332-335). Soltanto al cap. 25 l’et sepultus è brevemente richiamato, per addurne i testimonia, così come è stato d’altronde fatto per ogni singolo particolare della Passione implicato dal crucifixus; ma non si può non notare che la susseguente, terza e definitiva ripresa del descensus per il suo accredita-

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mento scritturistico è condotta secondo un climax di garbata insistenza, quasi a dissipare sottaciute riserve: Sed et quod in infernum descendit, euidenter praenuntiatur in Psalmis ... (...). Sed et Iohannes dicit ... (...). Sed et ipse Dominus per prophetam dicit ... (ibidem 26). Al cap. 46 (ll. 6-9), infine, la riepilogazione del Credo tace del tutto l’et sepultus; al contrario, il descensus è richiamato due volte, la seconda in relazione immediata con la Resurrezione: ... intelleximus (...) quid sacramentum crucis; quae utilitas diuini ad inferna descensus; quid resurrectionis gloria et animarum de infernis reuocata captiuitas. Forse, la menzione dell’et sepultus nel contesto del descensus fu suggerito da Catech. 4, 11-12 di Cirillo di Gerusalemme, autore che Rufino, pur nella sua autonomia, sembra talvolta utilizzare (cf. per es. M. Villain, Rufin d’Aquilée, commentateur du ‘Symbole des Apôtres’, “Recherches de Science Religieuse” 31 (1944) 135 ss.. In modo analogo a Rufino, d’altronde, Fortunato stesso, anticipando in esordio un riassunto del proprio Credo privo dell’et sepultus, ma professante il descensus, senz’altro dice: ostenditur (...) quomodo sepultus surrrexerit (Fort. Exp. symb. 1). (37) Cf. Ruf. Exp. symb. 26, l. 21: in infernum descendit; 28, ll. 10-11: descenderat in infernum; 46, 7-8: ad inferna descensus; Chrom. Ser. 16, 2, l. 46: uigiliam Domini (...) animae ad inferna celebrent. (38) Il De Rubeis aveva proposto – erroneamente, secondo Westra, The Authorship ..., cit., 538 n. 12 – la lezione uiuens, seguita da tutti gli editori successivi; uiuens sarebbe stato un interessante hapax fra i simboli latini, ricalcato sullo zÒnta supposto dalla versione latina del palinsesto veronese. (39) L’assenza della clausola sedet/-it ad dexteram Patris nel credo di Fortunato è, fra tutti i simboli occidentali, un hàpax; essa tanto più stupisce se si considera l’antichità e la diffusione stereotipica della sua associazione con la clausola ascendit in caelum/-os, già caratteristica del kèrygma petrino (Mc 16, 19b: adsumptus est in caelum et sedit a dextris Dei; cf. 1 Pt 3, 22 e Mc 12, 35-37 + sal 109, 1): il commentatore, da parte sua, ovvia a tale assenza richiamandone comunque la dottrina in sede di commento, sulla scorta di Ruf. Exp. symb. 30. Esiste tuttavia un parallelo orientale, ed è il più autorevole che si possa immaginare: anche il simbolo di Nicea (325) – al pari della sua probabile e parziale fonte, quello eusebiano di Cesarea di Palestina – non riporta la clausola del sedet; inoltre, il confronto da una parte con il Credo di Ario e Euzoio (327), che come il niceno professa il semplice ¶nelq’nta eáj to‡j o‹ρano›j, dall’altra con quello di S. Macario († 390), dove invece compare il solo κaqez’menon ùn dexi∏ to„ patρ’j, suggerirebbe per l’ambito egizio un’equivalenza interscambiabile delle due clausole. L’eventuale applicazione di queste osservazioni al Credo di Fortunato avvalorerebbe l’ipotesi di una data di sua composizione prossima almeno alla fine del secolo III. (40) Il semplice iudicaturus (senza riferimento esplicito all’adventus) è, fra i symbola fidei, sostanzialmente un hàpax, poiché non si può stabilire concordanza appropriata né con il Credo di Priscilliano (inde venturum et iudicaturum, espressione in cui “la preferenza” di quel part. fut. non dovrebbe peraltro giudicarsi “caratteristica” di quell’Autore, come pensa invece il Kelly, I simboli della fede ..., cit., p. 176), né con quello della liturgia mozarabica (inde venturus iudicaturus). Di per sé, la formula sintetica del Credo di Fortunato, benché narrativamente incompleta, è stilisticamente più elegante della perifrastica inde venturus iudicare, che si dimostra ricalcata sul generale modello dei simboli greci (ùρc’menon / ùleus’menon / üxonta κρònai) e più omogenea con la Sondersprache latinocristiana; era comunque di uso comune presso i teologi latini della seconda metà del sec. IV, per es. Ambrosiast. Comm. in Pauli ep. ad Tim. 4, 1 (testor coram Deo et Christo Iesu, qui iudicaturus est vivos et mortuos, et adventum ipsius et regnum eius), ma anche Ruf. Exp. symb. 31, 1 (quod autem ueniat iudicaturus uiuos et mortuos, multis ... testimoniis edocemur), Zenon. Veron. Tract. 2, 5, 58 (uenturus et iudicaturus est uiuos et mortuos) o Hier. Tract in ps. 84, 197 (scire debemus quoniam ipse est iudicaturus uiuos et mortuos, ipse ueniet ad iudicandum). (41) È del tutto ragionevole la preferenza per questa lezione manifestata dal Di Brazzano nella sua revisione del testo critico del Leo, dove invece si

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legge: in Spiritum Sanctum. Questa lectio difficilior stabilisce armonia con il simbolo del palinsesto di Verona e con quello a esso affine dipinto nella tomba 7 nel sepolcreto altomedievale sotto la cattedrale della città medesima (cf. infra n. 62); ma anche con il simbolo del Codex Laudianus (sec. VI-VII: v. Denzinger - Schönmetzer, Enchiridion ..., cit., p. 21 nr. 12), considerato rappresentante della forma detta Romana antiquior (R), dove peraltro si recita anche Et in Christo Iesu, Filium eius unicum, Dominum nostrum (sic!). (42) Gli editori precedenti avevano letto Spiritum Sanctum: in sede comparativa questa variante non è tuttavia di particolare rilievo. (43) La ricostruzione comparativa del 3° articolo del Credo della TA congegnata dal Botte (“Crois-tu en l’Esprit-Saint dans la sainte Église?”) dà poca fede a L, poiché, oltre a espungerne la clausola et carnis resurrectionem, vi suppone alterata la sintassi originaria, in base all’osservazione che “la sainte Église n’est pas un article de foi” (Hippolyte de Rome ..., cit., p. 87 n. 1): ragione poco comprensibile, se si rilegge Ruf. Exp. symb. 34: Non dixit: ‘in sanctam ecclesiam’ (…): si enim addidisset ‘in’ praepositionem, una cum superioribus eademque uis fuerat. (…) In ceteris uero, ubi non de diuinitate sed de creaturis et de mysteriis sermo est, ‘in’ praepositio non additur, ut dicatur: in sancta ecclesia, sed sanctam ecclesiam credendam esse, non ut Deum, sed ut ecclesiam a Deo congregatam. (…). Hac itaque praepositionis syllaba creator a creaturis secernitur et diuina separantur ab humanis (ll. 1-16). In questo senso neppure il testo ricostruito dal Geerlings appare troppo convincente: “Glaubst du an den Heiligen Geist, in der heiligen Kirche und an die Auferstehung des Fleisches?” (Apostolische Überlieferung, cit., p. 263) . (44) Mi attengo al testo del Leo nei MGH, in questo caso parendomi improbabile la lezione sancta Ecclesia adottata dal Di Brazzano nella sua revisione; questa non solo urterebbe con il susseguente remissionem, ma contraddirebbe il commento stesso di Fortunato, che al par. 36 condivide con Rufino le medesime argomentazioni sul significato teologico dell’alternanza sintattica credo in / credo + compl. diretto (ergo ‘in’ ubi praepositio ponitur, ibi divinitas adprobatur, ecc.; cf. supra nota precedente); ragioni che d’altronde erano state di recente riesposte anche da Fausto di Riez (De Spir. s. 1, 2; CSEL 21, pp. 103 ss.). È tuttavia un fatto che i manoscritti fortunaziani esitano significativamente fra credo in + abl. e credo in + acc., e specialmente nel citato paragrafo: ciò implica forse un’incertezza propria dello stesso simbolo originale, che nello stadio conosciuto da Fortunato poteva senz’altro riservare la forma all’ablativo al solo 3° articolo, e tuttavia presupporla anche negli altri due in una fase anteriore, prossima ancora all’uso linguistico recessivo attestato dal Credo di Rufino. (45) “Fu alla fine del IV secolo che ‘cattolica’ cominciò a comparire nei Credo occidentali. Il primo testimone attendibile che possiamo indicare è Niceta di Remesiana (…). Nella mente di Niceta esso delineava principalmente l’unicità della Chiesa ortodossa in opposizione alle sette. Egli parlò dell’‘unica Chiesa cattolica nel mondo intero, alla comunione della quale dovete essere fortemente uniti’, in contrasto con ‘le altre pseudo-Chiese’ che credevano e agivano da nemiche di Cristo e dei suoi apostoli. Era naturale che questo significato fosse di importanza primaria in un’epoca in cui l’arianesimo, il donatismo e altre eresie si erano diffuse e venivano propagandate da Chiese rivali” (Kelly, I simboli della fede …, cit., pp. 380-381); discorso analogo, naturalmente, vale per la coeva Fides Hieronymi (cf. infra n. 52) Pure a confronto con la tradizione rappresentata dal simbolo di Rufino, non c’è quindi motivo di pensare che nel Credo di Lupo le clausole catholicam e et vitam aeternam (epesegetica di carnis resurrectionem, pure attestata da Niceta e dalla Fides Hieronymi, ma comune nei simboli orientali) non siano ‘originarie’. Anche il Credo della Tomba 7 del ‘sepolcreto privilegiato’ veronese (cf. infra n. 63), sgrammaticato, ma assai conservatore – come dimostra la formulazione del 2° articolo e la sua prossimità alla TA, superiore a L –, recita sia sancta eclesia catolica, sia carnes resurrectionis in vitam eternam (in stretta contiguità con la Fides Hieronymi: carnis resurrectionem ad uitam aeternam). (46) B. Botte (Hippolyte de Rome ..., cit., p. 85 n. 2) considera questa

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clausola di L “un’interpolazione” del Credo battesimale primitivo della TA; in area aquileiese, tuttavia, l’affermazione della carnis resurrectionem è del tutto ammissibile almeno sin dalla fine del secolo II. (47) Il genitivo posposto non costituisce variante significativa. (48) Cf. supra n. 45. (49) Vedi per es. Caes. Arelat. Ser. 10, 1 (SCh 175, ed. M.-J. Delage, Paris 1971, p. 378): credite eum ad inferna descendisse, diabolum obligasse, et animas sanctorum quae sub custodia detinebantur liberasse, secumque ad caelestem patriam perduxisse. Sul Credo arelatense e la sua probabile confessione del descensus ad inferna v. Gounelle, La descente ..., cit., pp. 323-325. (50) Vedi però supra n. 28. (51) Cf. tuttavia supra n. 36. (52) Credo in Deum Patrem omnipotentem, [caeli et terrae creatorem]. Et in Filium eius Iesum Christum [dominum nostrum?], natum ex Spiritu Santo et ex virgine Maria, passum sub Pontio Pilato, crucifixum, mortuum; tertia die resurrexit uiuus a mortuis, ascendit in caelos, sedet ad dexteram Patris, inde uenturus iudicare uiuos et mortuos. Et in Spiritum Sanctum, sanctam ecclesiam catholicam, communionem sanctorum, remissionem peccatorum, carnis resurrectionem et uitam aeternam (cf. Denzinger - Schönmetzer, Enchiridion ..., cit., pp. 23-24 nr. 19; Kelly, I simboli ..., cit., p. 438). Punti di contatto notevoli con il Credo di Niceta presenta la così detta Fides Hieronymi (CCL 69, ed. V. Bulhart, Turnhout 1967, p. 275), databile alla seconda metà del sec. IV, che il Gounelle esclude vada attribuita a Gregorio di Elvira e considera piuttosto dell’Italia settentrionale (La descente ..., cit., pp. 338 e 393-394), non troppo diversamente dal Kelly, che non ne contestava il tradizionale riferimento al Dottore illirico-aquileiese (I simboli ..., cit., p. 384). Nella Fides Hieronymi – che ha tutto l’aspetto di una professione di fede personale – dunque compare la dottrina (esplicita) del descensus, espressa (al modo del IV Simbolo di Sirmio) con un ampliamento esegeticonarrativo integralmente assimilabile alla tradizione del kèrygma ecclesiastico aquileiese (ll. 8-10: passus est passione sub Pontio Pilato, sub Herode rege [cf. Lc 23, 6-12], crucifixus, sepultus, descendit ad inferna, calcauit [cf. 1 Cor 15, 26] aculeum mortis [cf. Os 13, 14 = 1 Cor 15, 55], tertia die resurrexit [a mortuis, cod. L], apparuit apostolis: cf. Chrom. Aquil. Ser. 16, 2, 36-38: morte sua Christus mortem destruxit, inferna calcauit, mundum saluauit et hominem liberauit [da confrontare con Hippol. Trad. apost. 4]; Eiusd. Ser. 17, 2, 27-30: non immerito dicitur contra mortem a propheta: ‘Ubi est, mors, aculeus tuus? Ubi est, mors, uictoria tua?’ [...] Descendit itaque uita ad mortem, ut ipsam mortem fugaret); inoltre – corollario parziale del descensus – vi è confessata al pari che nel Credo di Remesiana la communio sanctorum: concetto che trascende quello di ‘Chiesa’, per estendersi – come insegnava Niceta – tanto alle creature e potenze invisibili, quanto all’universalità passata presente e futura degli uomini “sigillati da un unico Spirito e così costituiti in un solo corpo” (Nic. Remes. Hom. 2); benché nella prospettiva dell’edificazione morale, analoga idea ritroviamo in Cromazio (Ser. 31, 4, 120-124), che esortava: debemus (...) studere pacem, concordiam, unanimitatem, ut communionem uitae aeternae cum tot ac talibus uiris habere possimus, de quibus dicitur: ‘Et erat’, inquit, ‘omnium credentium cor unum et anima una’ ecc. (cf. AT 4, 32). Nelle clausole finali, introdotte secondo la stessa avvertenza di Rufino dal semplice credo in forma transitiva (cf. supra n. 43), si osserva una totale corrispondenza tematica fra Remesiana e la Fides Hieronymi; in questa l’ordine soltanto risulta variato, per il tentativo di instaurare espliciti nessi logici fra le clausole: Credo remissionem peccatorum in sancta ecclesia catholica, sanctorum communionem, carnis resurrectionem ad uitam aeternam. L’evidente finalità di una personale attestazione di ortodossia ‘cattolica’ spiega gli inserti epesegetici ispirati alla teologia trinitaria di stampo neoniceno (l. 3: ... Filium Dei, natum de Deo, Deum de Deo; ll. 13-14: ... Spiritum Sanctum Deum non ingenitum neque genitum, non creatum neque factum, sed Patri et filio coaeternum): la terminologia tecnica è quella invalsa fra i Latini nei secoli IV-V (vedi natus = genitus; cf. Ruf. Exp. symb. 33, 18: Filius, tamquam ex Patre na-

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tus), ma verosimilmente anteriore alle formulazioni costantinopolitane del 381, anche se le supera affermando esplicitamente la divinità dello Spirito (v. ll. 1213: et in Spiritum Sanctum Deum non ingenitum neque genitum, non creatum neque factum; in Ruf. Exp. symb. 33, 19 ormai si legge: Spiritus Sanctus, tamquam de Dei ore procedens); la prudenza è confinata invece nel 2° articolo, dove latita qualsiasi aggettivo denotante ‘uguaglianza / identità’ o ‘somiglianza’ (sostanziale) del Figlio con il Padre: la Fides Hieronymi appare così disimpegnata dalla controversia fra omousiani e omeisti di ogni tendenza. Non era dunque fuori luogo il suggerimento di G. Morin (Un symbole inédit attribué à saint Jérôme, “Rev. Bénédict.” 21 [1904] 1-9) che questa fides fosse stata firmata da Gerolamo in Calcide nel 377/378: anni in cui la cautela era d’obbligo per chiunque, si chiamasse pure Basilio di Cesarea ... (cf. A. Persˇicˇ, Apollinare di Laodicea: la deificazione dell’uomo nel rapporto ‘genetico’ con l’unica natura incarnata del Cristo-Logos, “Studia Patavina” 29 [1982] 289-290 in partic.). Non occorre, tuttavia, supporre la base di un formulario antiocheno, poiché la Fides Hieronymi si imposta con sufficiente evidenza sulla struttura di un symbolum apostolorum di tipo illirico-aquileiese, affine a quello di Niceta. (53) Cf. supra n. 39. (54) Poitiers, una delle maggiori città della Gallia romana, con un anfiteatro di 40.000 posti, era ancora del tutto pagana alla fine del sec. III: il cristianesimo vi si impiantò nel secolo successivo, ma solo alla fine del sec. V la religione antica poté considerarsi scomparsa (cf. V. Saxer, Poitiers, in Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato 1983, coll. 2864-2865). (55) Cf. Ambr. Explan. symb. 4 (CSEL 73, ed. O. Faller, Vindobonae 1955): Patripassiani cum emersissent, putaverunt etiam catholici in hac parte [nel primo articolo del simbolo] addendum ‘invisibilem’ et ‘inpassibilem’ (...). Ergo esto, medici fuerint maiores nostri, voluerint addere aegritudini sanitatem medicina. (...) Et si (medicina) fuit tunc temporis quaerenda, nunc non est. Qua ratione? (...) Ex illo ‘remedio’ Ariani invenerunt sibi genus calumniae: et quoniam symbolum Romanae ecclesiae nos tenemus, ideo invisibilem et inpassibilem Patrem omnipotentem illi aestimarent et dicerent: ‘Vides quia symbolum sic habet?’ ut visibilem Filium et passibilem designarent! Quid ergo? Ubi fides integra est, sufficiunt praecepta apostolorum, cautiones, licet sacerdotum, non requirantur. Quare? Quia tritico immixta zizania sunt. Per quanto concerne la Chiesa di Poitiers, risulta dagli scritti del suo vescovo Ilario che alla metà del sec. IV il descensus vi era annunciato; occorre dunque pensare che questo teologumeno fosse da tempo considerato “comme partie intégrante du kérygme ecclésiastique, sans pour autant avoir fait partie du credo proprement dit” (Gounelle, La descente ..., cit., p. 328). (56) Cf. supra n. 23. (57) Vedi R. Cacitti, “Rusticitas”. Nuove prospettive storiografiche intorno all’antico tema delle origini del cristianesimo aquileiese, in Aquileia romana e cristiana fra II e V secolo (Antichità Altoadriatiche 47), a c. di G. Bandelli, Trieste 2000, p. 190. (58) Constitutiones Ecclesiae Aegyptiacae 16, 16, in Didascalia et Constitutiones Apostolorum, II. Testimonia et scripturae propinquae, ed. F. X. Funk, Paderbornae 1905, p. 110 ll. 16-17; H. Tattam (The Apostolical Constitutions or Canons of the Apostles in Coptic, London 1848) traduceva: Tertia die resurrexit, liberavit qui ligabantur, ascendit in caelos. La stessa immagine ricorre in Ruf. Exp. symb. 15, l. 7: Velut si quis rex pergat ad carcerem [al.: in quo uincti detinebantur] (...) et educat uinctos in remissionem, mentre Chrom. Tract. 27, I, 5, 28-31 conferma invece la relazione di vivus con il trionfo sull’Ade evocando così il signum Ionae (cf. infra n. 77 e testo corrispondente): Quid dicemus de Iona, qui (...) utero belluae clausus, in tantum orans meruit exaudiri, ut de profundo maris et de uentre tam immanis belluae incolumis et uiuus euaderet? Nel sec. VI Cassiodoro scriveva ancora: Ionas tacitus uociferabatur ad Dominum, qui in uentre ceti positus infernum uiuus intrauerat (Exp. psalmorum 129, 39; CCL 98). (59) Hieron. Tract. in psalmos series altera 93B (= Ser. de Pascha II, PL

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39, 2059-2061), 88 (ed. D. Ozimic, Der Pseudo-augustinische Sermo CLX. Hieronymus als sein vermutlicher Verfasser, seine dogmengeschichtliche Einordnung und seine Bedeutung für das österliche Canticum triumphale “Cum rex gloriae” [Diss. D. Univ. Graz 47], Graz 1979, pp. 19 ss.; cf. infra n. 81). (60) Cacitti, Rusticitas ..., cit., p. 190. (61) Cf. supra n. 52. (62) Geerlings, Traditio ..., cit., p. 149, in sintonia con E. Schwartz, Über die pseudoapostolischen Kirchenordnungen (Schriften der wissenschaftlichen Gesellschaft in Straßburg 6), Straßburg 1910 e R.H. Connolly, The SoCalled Egyptian Church Order and Derived Documents (Texts and Studies. Contribution to Biblical and Patristic Literature 8/4), Nendeln – Liechtenstein 19672 (Cambridge 1916). (63) Riproduco fedelmente la trascrizione integrale dell’epigrafe (ed. C. Fiorio Tedone, Le tombe privilegiate della chiesa B e il sepolcreto altomedievale, in La cattedrale di Verona nelle sue vicende edilizie dal secolo IV al secolo XVI, a c. di P. Brugnoli, Venezia 1987, p. 71), dove le parti non in corsivo “sono relative alla lettura dei frammenti sparsi poi integrati” (ibidem, p. 90 n. 143): CREDO IN D(e)O PATREM OMNIPOTENTE, ET IN [IESVM CHRISTVM FILIV]M E[I]VS D(omi)N(V)M M // QVI NATVS EST DE SP(irit)V S(an)C(t)O ET MARIA VERGINE [SVB PONTIO PILAT]o CROCEFI[X]VS EST ET // TERTIA DIAE SVRR[EX]IT VIVVUS AD MORTVIS ASCEND[IT] IN C[AELOS SED]IT A DEXTE[R]A PATRES, ENDEVEN[TVRVS] EST IVDICARE VIVOS ET MORTUOS, CREDO [IN SPIRITV SANCTO SANCT]A ECLESIA CATOLICA REMISIONE PE // CATOR(vm) // // CARNES RESVRRECTIONIS IN VITAM ETERNAM AMEN. Salva la legittima possibilità di considerare gli apparenti ablativi dell’espressione sintatticamente incoerente Credo in D(e)o Patrem omnipotente quali forme accusative del parlato volgare (ciò indicherebbe la desinenza -em di Patrem protetta in posizione intervocalica), resta pure il dubbio che all’‘errore’ non sottostia reale incertezza, originata da una tradizione formulare che, inizialmente impostata sull’in + abl. (vedi Rufino: cf. supra n. 43), era andata variamente cangiando per influenza della generale evoluzione sintattica del latino ecclesiastico verso l’in + acc.: e qui potrebbe dimostrarlo la formula in vitam eternam, la quale, dopo le precedenti (in) [sanct]a eclesia catolica, remisione pecatorum, lascia appunto l’impressione di essere un’aggiunta integrativa abbastanza recente. Nel Credo dipinto di Verona non v’è comunque dubbio sulla dicitura Credo in Spiritu Sancto, in linea con il fenomeno ben documentato di una compresenza alterna fra credo in + acc. e credo in + abl. entro un medesimo simbolo di fede: così nella stessa Expositio di Fortunato (Deum Patrem / Iesum Christum / Spiritu Sancto), come nel palinsesto veronese ([Deum Patrem] / Christum Iesum / Spiritu Sancto) e nel Codex Laudianus (Deum Patrem / Christo Iesu / Spiritu Sancto); quest’ultimo, inoltre, rivela nell’articolo concernente il Figlio una incertezza analoga a quella rimarcata nel simbolo della Tomba 7 a proposito del Padre (in Christo Iesu, Filium eius unicum), ma anche una coincidenza praticamente ad litteram con il medesimo nel tratto credo in Spiritu ... resurrectionis. (64) Fiorio Tedone, Le tombe privilegiate ..., cit., p. 72. (65) Sul pronto adeguamento della Chiesa veronese alle nuove direttive franche v. S. Lusuardi - Siena, Ipotesi interpretativa sullo sviluppo del complesso episcopale veronese, in La cattedrale di Verona ..., cit., p. 86. L’attitudine conservativa del cristianesimo nel Friuli altomedievale si rivela mano a mano che ne vengono riletti con avvertenza nuova i pochi documenti: sorprese in tal senso riserva non solo il riesame delle poesie religiose e liturgiche di Paolino d’Aquileia, ma anche quello di molte altre innodie dei secoli IX-XI, i cui arcaismi teologici dimostrano tenace attaccamento all’eredità delle origini aquileiesi. Come nel Rex gloriae (cf. infra n. 81), la continuità con l’antica tradizione kerygmatica sopravvive in sintesi tanto ammirabili quanto finora trascurate dalla curiosità storica; penso a testi quali l’inno post-longobardo per s. Giorgio, Laudes Christo persolvamus (in Analecta Hymnica 37, ed. C. Blume, Leipzig 1901, p. 177; cf. G. Pressacco, Tropi, prosule e sequenze del messale aquileiese. Un primo censimento [Monum. Eccl. Aquil. Liturgica. Pubblicaz. della Deputaz. di St. Patria del Friuli 23], Udine 1995, pp.

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365-370, con trascrizione della melodia): risalente all’epoca in cui restava in uso il Credo di Lupo, in quest’inno il poeta trovò spontaneo riassumere la vicenda salvifica del Cristo nei termini espressivi e teologici forniti dal paradigma della ‘discesa all’inferno’: Christus, verbum Dei patris, Quos in claustris trusit atris Zabuli versucia, / Carnem sumens alvo matris Hinc eductos more fratris Pares facit gloria (v. A. Persˇicˇ, “Dopo chê gran batae, I siôrs e la canae ’E verin par onôr Di fâssal protetôr”. La venerazione di San Giorgio a Grazzano e nel Friuli, “La Panarie. Riv. Friul. di cultura” 33 [2001] 56). (66) Il fatto è stato opportunamente segnalato, con prudenza che non esiterei per una volta a attenuare, da Cacitti, Rusticitas ..., cit., p. 190 n. 73: “senza sopravalutarne l’importanza, si potrebbe notare la terminale all’ablativo nell’articolo concernente lo Spirito”. (67) Cf. supra n. 41. (68) Cf. supra n. 29. Giunti quasi a capo di un importante tratto del percorso critico attraverso l’Expositio symbuli, si impone un breve esame del giudizio riduttivo che il Gounelle (La descente ..., cit., pp. 330-331) avanza circa l’intrinseco valore del Credo di Fortunato, pure ammettendone la matrice aquileiese. Egli infatti si dimostra impressionato dal contrasto fra la presenza in esso della clausola del descensus e l’assenza di questa nel Credo da noi detto ‘di Lupo’ (ritenuto senz’altro un “symbole postérieur de même provenance mais plus tardif que celui que commenta Rufin”): ne deduce che “l’influence très probable du Commentaire sur le Symbole des Apôtres de Rufin sur celui de Venance relativise cependant l’importance de ce témoin”: dunque, traducendo, un simbolo pasticciato a tavolino con quello di Rufino. Abbiamo già lamentato l’aporia accusata dallo studioso, che ignora la possibilità dell’equivalenza vivus / descendit ad inferna: ne sopporta le fastidiose conseguenze anche questo giudizio, con cui a torto il Credo di Fortunato è destituito di uno specifico e serio valore testimoniale. Tuttavia, anche a prezzo di una certa contraddittorietà, le conclusioni del Gounelle possono sembrare in qualche modo accordarsi – addirittura a oltranza – con la prospettiva che qui si cerca di verificare: “il semble que Venance ait utilisé une forme du credo qui n’avait plus cours dans son Église [si intenda: Aquileia], ou qui était en voie de réhabilitation après une période de non utilisation”. Ancor meglio, però, è detto in nota, dove, fatta menzione dell’eventuale mutamento di usanze ecclesiastiche dopo l’invasione attilana del 452 (a suo tempo prospettato dal Kattenbusch), è relegata la felice opinione che “il reste toujours la possibilité, difficilement étayable de nos jours, que ces symboles se rattachent à des communautés différentes”. (69) Ceneda, al cui territorio apparteneva Valdobbiadene e dove risiedeva la sorella di Venanzio Fortunato, non risulta registrata fra le suffraganee di Aquileia né al Concilio di Grado del 579, né al Concilio di Marano del 590 (v. G.G. Corbanese, Il Friuli, Trieste e l’Istria dalla preistoria alla caduta del Patriarcato di Aquileia. Grande atlante storico-cronologico comparato, [Udine] 1983, pp. 104-105 e la relativa bibliografia). L. Margeticˇ, tuttavia, propone che tale piazzaforte sia divenuta sede episcopale negli anni 540-566, quando il suo territorio era ormai politicamente separato da Oderzo, in mano bizantina (Le prime notizie su alcuni vescovati istriani, in Historica et Adriatica. Raccolta di saggi storico-giuridici e storici [Collana degli Atti. Centro di Ricerche Storiche. Rovigno, 6], Trieste 1983, pp. 126-130); G. Tomasi propende invece per il tardo secolo VII – inizio secolo VIII (La Diocesi di Ceneda. Chiese e uomini dalle origini al 1586, I, Vittorio Veneto 1998, p. 17). (70) Haec nobis de resurrectione tradita sunt ab his, a quibus sanctum baptisma in Aquileiensi ecclesia consecuti sumus ... (Ruf. Aquil. Apol. ad Anast. 4, 10-12; CCL 20, ed. M. Simonetti, Turnhout 1961): Rufino allude all’allora presbitero Cromazio, all’arcidiacono Giovino e al fratello di Cromazio, il diacono Eusebio, che gli era stato simul pater (...) et doctor Symboli ac fidei (Apol. in Hieron. I 4, dove pure ribadisce: Illi sic mihi tradiderunt et sic teneo). (71) Ruf. Aquil. Apol. ad Anast. 8. 1-4 (CCL 20, ed. M. Simonetti, Turnhout 1961). Per il verosimile utilizzo del medesimo opuscolo rufiniano da parte di Fortunato v. infra nn. 74 e 154 con testo relativo. (72) Ciò accade in c. 5, 1, 7, un’epistola Ad Martinum episcopum

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Galliciae, che Fortunato loda perché non si compiace tam pompa dogmatum quam norma virtutum; poco prima, infatti, aveva ammesso: Nam Plato, Aristotelis, Crysippus vel Pittacus cum mihi vix opinione noti sint nec legenti, Hilarius, Gregorius [di Nazianzo? di Nissa?], Ambrosius Augustinusque vel si visione noti fierent dormitanti (CSEA 8/1, p. 28663 ss.). (73) Ven. Fort. Exp. symb. 39 (CSEA 8/ 1, p. 612, ll. 197-8). (74) Ruf. Exp. symb. 39, 1-3; 41, 13-25; 43, 1-5; cf. Eiusd. Apol. in Hieron. 1, 5 e, soprattutto, Apol. ad Anast. 4 (carnis nostrae resurrectionem ... huius ipsius carnis ... hanc ipsam ...) La chiarezza su questo punto era decisiva nel contesto delle polemiche sull’ortodossia della dottrina origeniana sulla resurrezione dei morti. (75) Ven. Fort. Exp. symb. 1, 7-10. (76) L. c. l. 6. (77) Cromazio insegnava che nel ‘segno di Giona’ manifeste passionis ac resurrectionis dominicae mysterium demonstratum est: esso anzi s’identifica con il signum crucis quod solum ad salutem credentibus datum est (Tract. 54, 1, 3-4 e 16-17; cf. Tract. 52, 4, 124-126 e Tract. 27, I, 5, 28-31: perduto, purtroppo, il commento a Mt 12, 38-41, che doveva essere il più esteso); Gerolamo, per sua parte, dedicò proprio a Cromazio il Commento a Giona, forse il suo lavoro esegetico meglio riuscito. Ma, tra le fonti rufiniane, anche Cirillo di Gerusalemme aveva evocato Giona 2, 11 nel contesto della Resurrezione (Catech. 4, 12). (78) Cf. Di Brazzano, CSEA 8/1, p. 608-609, n. 26. (79) Cf. tuttavia supra n. 36. (80) Un dossier dei testi che documentano questa particolare esegesi è stato raccolto, per i secoli II-V, da R. Aguirre Monasterio, Exegesis de Mateo, 27, 51b-53. Para una teologia de la muerte de Jesus en el Evangelio de Mateo, Vitoria 1980, pp. 153-164 (ma cf. anche Cacitti, Grande Sabato ..., cit., pp. 104-105). Sono testi che alludono per lo più ai vv. 52-53 (la resurrezione dei “santi”), benché non tutti in modo incontestabile; ma neppure mancano autori che includono tra i fenomeni che segnalano il descensus anche quelli evocati dal v. 51b: così, ad es., Hilar. Pictav. In Ps. 58, 10 (CSEL 22, ed. A. Zingerle 1891, p. 188: cum moriente eo, obscurato sole, lux deperit, cum pendente eo in cruce tremit terra, cum descendente eo ad inferos sanctos eius inferi non tenent). La prospettiva esegetica è quella della vittoria di Cristo sul diavolo e la morte compiuta pienamente sulla croce stessa (cf. Col 2, 15, secondo l’interpretazione di Daniélou, Théologie du judéo-cbristianisme ..., cit., pp. 258-259), coniugata con la dottrina della Discesa agli inferi come liberazione dei santi di Israele. Vale in tal senso l’autorità di Origene, tradotto da Rufino (per es. In Rom. 5, 10: Prius ergo eum alligavit in cruce et sic ingressus est domum eius, i. e. infernum) e, sempre fra gli Alessandrini, soprattutto il testimone di Alessandro († 328), che – sulla scorta del melitoniano Peρã to„ Pßsca – esprime con dovizioso dettaglio la medesima concezione: cum Dominus noster in ligno pateretur ... patuit infernus, ... mortui ad vitam sunt regressi. ... dum crucis mysterium perficiebatur: quo tempore Dominus ... crucis tropaeum erexit ... ut corpus appareret sublime, mors autem sub carnis pede depressa. Tunc ... tremuere elementa ... montes vallesque et pelagus, ... caeli luminaria expaverunt, sol fugit ..., templo excessit attonitus post velum discissum angelus, tenebrae tellurem in qua Dominus eius oculos cìauserat. Interim infernus luce splenduit, quoniam illuc astrum descendit ... . Nam corpore Domini nostri suffixo, sepulcra ... aperta sunt, reclusus infernus ... animae in mundum sunt remissae (Hom. de anima et corpore deque passione domini, 6; traduz. dal siriaco, PG 18, 599a ss.). Nell’integrale utilizzo di Mt 27, 52-53 il passo di Alessandro offre un paragone esatto con la visione implicita nel Credo di Fortunato, mentre la sua palese coincidenza con un’altra omelia, collage di brani melitoniani (Ps.-Epiph., In s. Pascha, PG 43, 505-508; cf. P. Nautin, Le dossier d’Hippolyte et de Méliton, Paris 1953, pp. 151-159; Cantalamessa, I più antichi testi pasquali ..., cit., pp. 150 ss.), dimostra il comune, incontestabile debito verso la tradizione quartodecimana. Ma tali rapporti fra esegesi alessandrina e asiata non sono una novità, se anche Origene ne dipendeva per quanto concerne la dottrina del descensus (cf. soprattutto

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la Hom. in 1 Sam 28, che propone – come lo Ps.-Ippolito – il tema della prosecuzione nell’Ade dell’annuncio profetico del Cristo venturo: essa fu certo conosciuta da Rufino, che ne raccoglie la singolare esegesi di Lc 7, 20 applicato al descensus, nella sua Exp. symb. 26). Dalla sincronia illustrata non si discostava neppure la tradizione siriaca, secondo cui “Cristo sulla croce avrebbe liberato i morti con la sua voce”, e precisamente con il secondo grido (cf. la concordanza di Mt 27, 50 e Mc 15, 37!), emesso appena prima di spirare (Visonà, Pseudo Ippolito ..., cit., p. 501). La vasta e lodevole mobilitazione di fonti patristiche suscitata dal Gounelle (La descente ..., cit., 475 pp.) offre un’utile base di ricerca sul descensus nella letteratura cristiana antica, soprattutto dei secoli IV-V; l’Autore, tuttavia, sembra meno a proprio agio nell’analisi delle fonti più antiche (secoli I-III): talvolta, quindi, ne sottovaluta la persistenza d’influsso durante l’epoca in cui, a parer suo, si compirebbe l’”istituzionalizzazione” del teologumeno considerato, mentre preferisce sottolineare fattori di incentivo improbabili, quali l’arianesimo. Nell’ambito della letteratura latina tardo antica e medievale, invece, lo studio del descensus ancora attende una ripresa, dopo l’ormai insufficiente lavoro della R.E. Messenger, The Descent Theme in Medieval Latin Hymns, “Transactions and Proceed. of the Amer. Philol. Assoc.” 67 (1936) 126-147; ma anche una semplice cernita del materiale raccolto da W. Bulst, Hymni Latini antiquissimi LXXV. Psalmi III, Heidelberg 1956, permette il recupero di ulteriori interessanti attestazioni. Così, l’inno Rex aeterne allinea in stretta contiguità morte in croce, velo squarciato, resurrezione dei giusti e discesa agli inferi (ibid., p. 92, str. 7-11); con più esplicita evidenza, anche l’inno Ter hora trina (come il precedente, prescritto dalla Regola monastica di Cesario e Aureliano, V-VI sec.) fa coincidere la morte in croce con la discesa agli inferi (ibid., p. 96, str. 4-5); altrettanto, pare, gli inni Deus mirande di re Chilperico (VI sec., ibid., p. 119, str. 10-11): neppure manca il Crux benedicta nitet di Venanzio Fortunato (ibid., p. 127, str. 5-6 in particolare). (81) Hieron. Tractatuum in psalmos series altera, ser. 93A in die Paschae, 16-19 (CCL 78, ed. G. Morin [1903], Turnhout 1958). Si è già variamente alluso nelle pagine precedenti all’importanza che il mistero del descensus aveva assunto nella fede cristiana della regione di Aquileia, ma ora interessa ribadirne la persistenza nella pietà attraverso lunghi secoli, se, ancora nel sec. XVI, lo sloveno J. Gallus (Petelin) poté comporre una versione polifonica dell’antifona Cum rex glorie; la veneranda antifona, edita da codici friulani insieme alla trascrizione della melodia antica da G. Pressacco (Musical Traces of Markan Tradition in the Mediterranean Area, in Orbis musicae, 9, a c. di D. Halperin, Tel Aviv 1993/1994, pp. 37-39), era parte di un drammatico rito, in cui gli stessi inni alla Croce di Fortunato avrebbero potuto trovare un’ideale ambientazione: “The large rubric which accompanies this antiphon [nel Processionale Aquileiense del sec. XIV, cod. 7 ff. 41v ss. della Bibl. del Semin. Arciv. di Udine] shows a solemn procession that all the clergy of Aquileia performed in the middle of the night between Saturday and Easter Sunday to perform the two rites of Depositio and Elevatio crucis, representing Christ’s descent and re-ascent from Hell” (ibidem, p. 39; cf. p. 64). Il testo dell’antifona comunica ancora un’intensa emozione: Cum rex glorie Christus infernum debellaturus intraret et chorus angelicus ante faciem eius portas principum tolli praeciperet, sanctorum populus qui tenebatur in morte captivus voce lachrimabili clamaverat: ‘Advenisti desiderabilis, quem expectabamus in tenebris, ut educeres hac nocte vinculatos de claustris. Te nostra vocabant suspiria, te larga requirebant lamenta: tu factus es spes desperatis, magna consolatio in tormentis. Alleluya’. Immaginosa drammatizzazione del sal 106 (v.10; vv. 23 ss., applicabili alla situazione di Giona ...), questo testo liturgico è apparentato con Hieron. Tractatuum in psalmos series altera, ser. 93B (= ser. de Pascha II, PL 39, 2059-2061), 66 ss. (ed. Ozimic, Der Pseudo-augustinische ..., cit., pp. 19-36; circa il rapporto con l’antifona aquileiese v. ibid. pp. 103-106), scritto verso l’a. 400: post istas crudelium ministrorum infernalium uoces sine aliqua mora ad imperium domini ac saluatoris omnes ferrei confracti sunt uectes et ecce subito innumerabiles sanctorum populi, qui tenebantur in morte captiui, saluatoris sui genibus aduoluti lacrimabili cum ob-

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secratione deposcunt dicentes: aduenisti redemptor mundi; aduenisti quem desiderantes cotidie sperabamus. Aduenisti quem nobis uenturum lex nuntiauerat et prophetae. Aduenisti donans in carne uiuis indulgentiam peccatorum mundi. Solue defunctos captiuos inferni. Descendisti pro nobis ad inferos; noli nobis deesse cum fueris reuersus ad superos. Posuisti titulum gloriae in saeculo, pone signum uictoriae in inferno. Nec mora, postquam audita est postulatio atque obsecratio innumerabilium captiuorum, statim domini iussu omnes antiqui iusti iura potestatis accipiunt atque in suos tortores ipsi protinus tormenta conuertunt, humili supplicatione cum ineffabili gaudio clamantes domino ac dicentes: ascende domine iesu spoliato inferno et auctore mortis suis uinculis inretito; redde iam laetitiam mundo. Iucundentur in ascensu tuo fideles tui, aspicientes cicatrices corporis tui (testo ripreso ad litteram da Eus. ‘Gallic.’ Ser. extrav. 8, 100 ss., che ne documenta la fortuna nel VI-VII sec.). Sia l’antifona, sia il sermone geronimiano (adattamento, come gli altri della serie, di un originale origeniano? vedi V. Peri, Omelie origeniane sui salmi. Contributo all’identificazione del testo latino [Studi e Testi 289], Città del Vaticano 1980, pp. 41 ss. in partic.), magari neppure escludendo assonanze con testi liturgici già in uso a Aquileia alla fine del sec. IV, devono per altro supporre materiali comuni (e, in parte, forse anche più antichi) con la narrazione di Ev. Nicodemi 6-8 (rec. Lat. A, ed. C. Tischendorf, Lipsiae 1853, pp. 378-383). Nell’antifona, tuttavia, si distingue anche il richiamo a sal 23, 7 ss., non interpretato in rapporto all’Ascensione, bensì al descensus, in sintonia con l’esegesi minoritaria rappresentata dall’Ambrosiastro (per es. Quaest. Novi et Vet. Test., 111, 13: portas principis, id est diaboli, qui est princeps principum) o da Arnobio il Giovane (per es. Confl. cum Serap., 1, 14: ‘Tollite portas, principes uestras’ ... ut portae inferi non praeualeant). (82) Cf. Ruf. Exp. symb. 12, 9-13: Cum tot species mortis sint (…), cur ex his omnibus crucis potius species ad mortem dilecta sit salvatoris. (83) Fort. Exp. symb. 23, 114-119; cf. Ruf. Exp. Symb. 12, 12-16.19-24. La stessa Expositio symbuli si conclude con una vivace dossologia precale senza corrispondenza nella fonte: Fortunato sembra così sigillare la propria catechesi liturgica con il contrassegno di una ribadità fede aquileiese nella signoria salvifica di Cristo sulla storia, simboleggiata dal trionfo sull’Ade: Ergo moritur homo (...), ut resurgat (...), adsimiletur et angelo (cf. Mt 22, 30): quod ipse salutis auctor nobis tribuere dignetur, qui triumphato Tartaro cum Patre et Sancto Spiritu glorioso principatu intrans uictor regnat in caelo (par. 42). Non è questa la sede per esaminare approfonditamente il tema del descensus nelle opere di Fortunato; tuttavia, fra le numerose menzioni di esso, occorre almeno ricordare quella di Vita s. Martini 5: Et Stygis omnipotens adamantina claustra revellit, genuina continuazione formulare del κleéqρa ¶damßntina (in luogo del comune mocloà sidhroà / vectes ferrei, da sal 106, 16 e Is 42, 5) pronunciato da Ps.-Hippol. In s. Pascha 62, 16 (cf. Visonà, Pseudo Ippolito ..., cit., p. 514; cf. supra n. 80). Per altro, l’uso di claustra era corrente negli scrittori aquileiesi. (84) Chrom. Aquil. Ser. 17A, 1, 12-13. Negli stessi anni Gaudenzio di Brescia (400 ca.) insegnava invece: ‘Pascha est, inquit, Domini’ (Es 12, 11), hoc est transitus Domini (Gaud. Brix. Tract. in Ex. 2, 25; CSEL 68, ed. A. Glück, Wien – Leipzig 1936, p. 29); nel 398, infatti, Gerolamo – devoto corrispondente epistolare di Cromazio – aveva eccepito con esatta filologia di riporto origeniano: Pascha quod hebraice dicitur ‘phase’, non a passione ut plerique arbitrantur, sed a transitu nominatur (Comm. in ev. Matth. 4, 26, 2; CCL 77, Turnhout 1969, edd. D. Hurst – M. Adriaen, p. 245). (85) Fort. Exp. symb. 23: suspensus in aera victoriam de caelestibus et spiritalibus nequitiis est adeptus; su tale motivo – en pendant con la vittoria sulle potenze infernali – v. il classico J. Daniélou, Théologie du judéo-christianisme, Tournai 1958, p. 258. (86) Secondo un testo origeniano che, dopo tutto, poteva essere noto a Fortunato per la traduzione latina di Rufino, ““Giobbe sembra indicare non solo che le stelle possono essere soggette ai peccati, ma addirittura che neppure sono monde dal contagio stesso del peccato”; per l’Alessandrino ciò comportava l’ipotesi che gli astri fossero “dotati d’anima, e non solo, ma d’a-

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nima e di ragione” [Orig. De princ. I 7, 2-3; cf. Comm. Rom. 3, 6], così che tra essi dovesse concepirsi “la possibilità di qualche progresso e regresso”” (A. Persˇicˇ, Esegesi biblica cristiana e desacralizzazione del cosmo. Origene e Giovanni Filopono precursori della concezione galileiana del rapporto fra scienza e Rivelazione, “Studia Patavina” 32 [1985] 90-94 in partic.). (87) Chrom. Aquil. Ser. 39, ll. 35-38; in Ser. 12, 7, 134-135 si afferma anche che odium de diabolo (est) oppure: odii autem diabolus inuentor. La ‘polivalenza’ suaccennata deriva in ultima analisi dal significato onnicomprensivo della Pasqua della Chiesa delle origini, che in essa celebrava l’intero mistero della salvezza nella sua attualità realizzata. (88) Cf. Ps.-Hippol. In s. Pascha 51: “Quest’albero che riempie gli spazi celesti si è levato dalla terra ai cieli, fissandosi saldamente, quale pianta immortale, tra la terra e il cielo (...), vincolo cosmico che tiene unita la natura umana e quella di più varia specie, fissato con i chiodi invisibili dello Spirito, affinché, assicurato alla divinità, non se ne possa più sciogliere” (trad. G. Visonà, Pseudo Ippolito. In sanctum Pascha. Studio, edizione, commento [St. Patrist. Mediolan. 15], Milano 1988, p. 303). Il simbolismo della ‘Croce – albero cosmico’, vivissimo nelle antiche religioni dell’Oriente e largamente utilizzato anche nella Bibbia, passò ai cristiani arricchito delle suggestioni platoniche (cf. Timaeus 36b: l’‘anima del mondo’ come una X dispiegata nell’universo) raccolte da Filone Alessandrino. Compare dunque in Iust. I Apol. 60, 1, che vale come tempestivo testimone della teologia asiana; fu proprio un suo esponente di spicco, l’Anonimo Quartodecimano, a comporre un testo la cui dottrina può considerarsi termine esemplare di quella catechesi improntata al simbolismo della croce cosmica, le cui tracce, ancora fresche in Rufino, sono pur distintamente echeggiate da Fortunato. Ecco per es. la visione di “una croce di luce” in Acta Iohannis 98, sec. II, apocrifo dell’Asia Minore: “Sulla croce vidi lo stesso Signore, che non aveva alcuna forma, ma solo una voce. (...) ... considerata in se stessa, concepita ed espressa per noi, essa è la distinzione di ogni cosa, la stabile elevazione delle cose instabili e l’armonia della sapienza. Essendo dunque sapienza nell’armonia, in essa c’è posto per la destra e la sinistra, per la forza e la potenza, per le dominazioni e i demoni, per le opere e le minacce, per le ire e i diavoli, per satana e la radice profonda dalla quale procede la natura delle cose che vengono all’esistenza” (in Apocrifi del Nuovo Testamento, 2, a c. di L. Moraldi, Torino 1971, pp. 1184-1185; cf. R. Cantalamessa, I più antichi testi pasquali della Chiesa. Le omelie di Melitone di Sardi e dell’Anonimo Quartodecimano e altri testi del II secolo, Roma 1972, pp. 122-124). Analoga la visione del Martyrium Andreae prius 14, pure asiano: gli Acta Andreae, elaborati in latino (Lib. de miraculis b. Andreae ap.) da Gregorio di Tours, amico di Fortunato, presentano invece solo limitati spunti nel senso indicato. (89) Chrom. Aquil. Ser. 38, 2, 29-32. Lo Ps.-Ippolito, aveva sviscerato in ricchezza lo stessa tipologia: “piantando il legno a contrastare il legno e inchiodandovi piamente la sua mano incontaminata a causa di quella empiamente protesasi in origine, mostrò pienamente in se stesso la vera ‘vita appesa’ (Dt 28, 66) ... noi (...) ne mangiamo e mangiandone non moriamo” (In s. Pascha 50, trad. Visonà, Pseudo Ippolito ..., cit., p. 299). Precoce fu la recezione occidentale di questo sviluppo; per es. già Tertulliano – lettore dei Greci e sensibile in particolare agli stimoli provenienti dal cristianesimo asiano – scriveva: Et lignum, inquit, tulit fructum suum (Sal 1, 3), non illud lignum in paradiso quod mortem dedit protoplastis, sed lignum passionis Christi, unde vita pendens vobis credita non est (Tert. Adv. Iud. 13, 11). Sulla diffusione in Occidente dei testi di Melitone e dell’Anonimo Quartodecimano v. ancora H. Chadwick, A Latin Epitome of Melito’s Homily on the Pascha, “The Journ. of Thelog. St.”, N. S. 11 (1960) 76-82, e R. Cantalamessa, Questioni melitoniane. Melitone e i latini, “Riv. di Storia e Letterat. Rel.” 6 (1970) 245-259. (90) Di Brazzano, CSEA 8/1, cit., p. 608 n. 21. (91) dominus noster in statera crucis pretium nostrae salutis appendit, et una morte uniuersum mundum, sicut omnium conditor, ita omnium reparator, absoluit – indubitanter enim credamus, quod totum mundum sic et redimeret –: qui plus dedit quam totus mundus ualeret: meritum enim re-

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demptae mercis, dignitas insignis pretii supergressa est (Eus. ‘Gallic.’ Ser. extrav. 5, 5 ss.; CCL 101B, ed. F. Glorie, Turnholti 1971, p. 853). L’‘Eusebio Gallicano’, a confronto con la semplicità icastica, ma abbastanza rude, di Venanzio Fortunato, riduce a astrazione l’immagine, fornendone uno sviluppo teologizzante: di qui il mio sospetto che l’omelia – finora priva di letteratura critica – rientri fra i materiali più recenti della silloge, che giunse a compimento forse nel sec. VII (v. Fr. Glorie, CCL 101, Turnholti 1970, pp. IX ss.). (92) Statera crucis Christi, quae ruituro mundo subvenit ad vitam, operetur in vobis salutis optabilem medicinam. Amen (dall’Orazionale Visigotico, in un ms. del VII-VIII sec. originario di Tarragona e conservato nella Biblioteca Capitolare di Verona: in CCL 162A, ed. E. Moeller, Turnholti 1971, p. 817 nr. 2003): in questo caso la statera è a ogni effetto la bilancia del farmacista ... . (93) Cf. per es., a proposito di Ap 6, 5, Victor. Petav. Comm. in Apoc. (rec. Hieron.) 6, 2: Statera in manu: libra examinis in qua singulorum merita ostenderet (CSEL 49, ed. J. Haussleiter, Vindobonae 1916, p. 71, 15-16). (94) Chrom. Aquil. Tr. 42, 74-75. (95) Eiusd. Ser. 41, 163-168. Gn 28, 12-15 “faceva parte degli antichi testimonia sulla croce”, permettendo di valorizzarne “anche le dimensioni cosmiche” (Visonà, Pseudo Ippolito ..., cit., p. 472): così per Iust. Dial. 86, 2, per Iren. Dem. 45 (“Giacobbe lo vide in sogno ritto in cima alla scala, cioè al legno fissato dal cielo alla terra”, trad. Bellini, cit.), e per l’Anonimo Quartodecimano (“[Quest’albero] è la scala di Giacobbe e la via degli angeli, sulla cui sommità è veramente appoggiato il Signore”: Ps.-Hippol. In s. Pascha 51, 24-25). Cromazio aveva dimostrato che la medesima lettura tipologica era corrente nella catechesi della propria Chiesa, presentandola arricchita di sviluppi parenetico-morali: Scala firmata a terra usque ad caelum crux Christi est (...). In hac scala multi gradus uirtutum sunt (Chrom Aquil. Ser. 1, 6, 96-99). (96) Visonà, Pseudo Ippolito ..., cit., pp. 464-465; la storia del testimonium fu studiata da J. Daniélou, Études d’exégèse judéo-chrétienne: les ‘Testimonia’ (Théologie historique 5), Paris 1966, pp. 53-75. Tra le fonti v. Melit. Sard. Peρã to„ Pßsca 61, ma anche il già citato Tert. Adv. Iud. 13, 11 (cf. supra n. 89) e – senza riferimento alla croce – Clem. Alex. Strom. 5, 72, 23, che spinge l’interpretazione del testimonium verso una spiccata attualizzazione spirituale (“la nostra vita fu sospesa [all’‘albero della vita’ / Lògos ] perché avessimo fede”). (97) Vedi Chrom Aquil. Ser. 17, 1, 6-7: uidebitis uitam uestram pendentem in ligno die ac nocte et non credetis uitae uestrae. (98) Cf. Hymn. 12, 6, 3, dove non è incongruo ricondurre al testimonium medesimo l’enigmatica annotazione temporale mane. (99) Nella vecchia letteratura critica è facile spigolare giudizi alquanto generici, del tipo: “In essi [Pange lingua e Vexilla] è vivo il senso di pietà, la tenerezza, la nobiltà e l’esaltazione religiosa” (L. Alfonsi, La letteratura latina medievale [Le letterature del mondo 48], Firenze 1972, p. 58), oppure: nel Crux fidelis “vi è tutta una visione primaverile nell’invocazione alla croce”, mentre il Vexilla regis si apre “con un vivido, abbacinante raggio di luce” (A. G. Amatucci, Appunti fortunaziani, in Studi dedicati alla memoria di Paolo Ubaldi [Pubbl. dell’Univ. Catt. del S. Cuore, s. V, 16], Milano 1937, p. 366), ecc... Uno scavo storico-letterario metodologicamente impegnato fu invece intrapreso da J. Szövérffy, particolarmente nel suo Hymns of the Holy Cross. An Annotated Edition with Introduction (Medieval Studies: Texts and Studies, 7), Leyden 1976, pp. 7-20, che tuttavia poté mettere a fuoco solo alcuni dei confronti possibili con gli autori cristiani precedenti; più di recente, né C. Leonardi (in Il Cristo, 3. Testi teologici e spirituali in lingua latina da Agostino ad Anselmo di Canterbury [Scrittori greci e latini – Fondaz. L. Valla], Milano 19962, pp. 610-612), né S. Pricoco con M. Simonetti (La preghiera dei cristiani [Scrittori greci e latini - Fondaz. L.Valla], Milano 2000, pp. 637-638) hanno inteso proiettare maggiore luce sul complesso background teologico-letterario degli inni di Fortunato alla Croce. (100) Anche H. Rahner non sembrava vedere in Fortunato che un erede dell’idea del sacramentum ligni espressa da Agostino, il quale offre all’“evo-

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luzione occidentale del mistero della Croce (…) lo stampo del suo pensiero” e “la bellezza del suo linguaggio antitetico” (Miti greci nell’interpretazione cristiana [Collana di studi religiosi 23], Bologna 1971 [Zürich 1957], pp. 84-85): studioso dotto e sensibile, Rahner però sapeva smentirsi, almeno implicitamente … (cf. infra n. 115). Una rapida indagine circa il contributo scientifico su Fortunato offerto dalla cattedra di Letteratura Cristiana Antica dell’Università Cattolica di Milano (la seconda, cronologicamente, fra quelle italiane), pur rilevandone l’esiguità, mi ha comunque permesso di notare ad exemplum il progressivo indirizzarsi della ricerca nel senso su auspicato. Già nel 1935, in una tesi diretta da G.B. Pighi, si coglie sottolineata significativamente la radice aquileiese di Fortunato (G. Puccini, La poesia religiosa di Venanzio Fortunato, p. 37: “Durante la sua dimora ad Aquileia (...) Fortunato si era formato una pietà solida, riflessiva, la quale (...) si rivelerà nei suoi inni [Vexilla regis, Pange lingua] e nelle altre composizioni religiose”); quindi, sebbene un secondo lavoro risenta del sopravvenuto rarefarsi degli studi fortunaziani e non valga che come segno di un ravvivato interesse (R. Bestetti, Gli inni della Passione di Venanzio Fortunato, 1965, relatore E. Franceschini), la dissertazione di M.R. Tamponi (Il poeta Venanzio Fortunato nei ‘Carmi profani’ e negli ‘Inni alla Croce’, 1970), guidata da G. Lazzati, manifesta l’intuizione che l’immaginario poetico di Fortunato appartenga, nella spontaneità dell’espressione, al sedime profondo della sua formazione cristiana; a commento del Crux benedicta nitet infatti si scrive: “Non c’è (...) ostentazione di luoghi biblici, ma la ‘compenetrazione’ della cultura religiosa nel suo sentire è così radicale che suscita le immagini poetiche senza peraltro denunciarne lo ‘studio’ (...); c’è semmai l’uso a pensare con questi stilemi, con queste ‘visioni’ che sono forse un habitus della mente, ma più verosimilmente del cuore” (pp. 102-103). Non per niente quello studio poté avvalersi delle nuove prospettive che ormai suggeriva la lettura di R. Cantalamessa, L’omelia ‘In s. Pascha’ dello PseudoIppolito. Ricerche sulla teologia dell’Asia Minore nella seconda metà del II secolo (Scienze filologiche e letteratura 16), Milano 1967 ... . (101) Ven. Fort. Op. poet. II, 1 (De cruce domini): MGH, Auctores antiquissimi IV, 1 (ed. F. Leo, Berolini 1881), p. 27. (102) Su questo motivo specifico cf. supra nn. 96-98 e testo relativo. (103) Venanzio Fortunato offre nel c. III 9 (Ad Felicem ep. de Pascha) un eccellente esempio culminale della tradizione patristica che, saldamente innestata sul ceppo giudaico, trovò “precisi richiami tra il rinascere della natura a vita nuova in primavera e la Pasqua di Cristo fonte di vita nuova per l’universo” (Visonà, Pseudo Ippolito ..., cit., p. 375). La sua espressione lirica, e forse più antica, è data nell’In s. Pascha 17 dell’Anonimo Quartodecimano, con cui Cromazio mostra intima affinità, sia per l’esplicita connessione al commento di Es 12, 12 (il mese di Pasqua come “il primo dei mesi”), sia per la ripresa immagine del ritorno primaverile alla navigazione: Primus ergo mensis non est ianuarius quo omnia moriuntur, sed tempus Paschae, quo omnia uiuificantur. Nunc enim herbae pratorum uelut de morte resurgunt, nunc flores in arboribus sunt, nunc gemmae in uitibus, nunc iam ipse aer laetus est nouitate temporis, quo securus iam gubernator iter maris aggreditur ecc. (Ser. 17, 3, 50 ss.). Anche nel caso di Fortunato la magistrale descrizione della trasfigurazione primaverile del mondo in rapporto a una festività intesa come memoria attuale e onnicomprensiva degli eventi salvifici trova la sua acme nell’apostrofe al giorno pasquale come inizio del tempo, dove aleggia l’eco di Es 12, 12: Salve, festa dies, toto venerabilis aevo / qua Deus infernum vicit et astra tenet, / nobilitas anni, mensum decus, arma dierum, / horarum splendor ... (vv. 39-42). (104) Hippol. Rom. De cantico xi-xiii passim (CSCO 264 [Script. Hiberici 16], trad. lat. G. Garitte, Louvain 1965, p. 35-36): un commento di questo brano è proposto da P. Meloni, Il profumo dell’immortalità. L’interpretazione patristica di Cantico 1, 3 (Verba seniorum - n. s., 7), Roma 1975, pp. 127-130. Ct 1, 3 è interpretato di norma dai Padri come profezia dell’episodio evangelico di Betania, ma non manca chi connetta quel versetto – al pari di Ct 1, 1214 – direttamente alla Crocifissione e alla salvezza universale (cf. ibidem, pp. 274-282 e 296-297): e. g. Hieron. Tr. in Marci Ev. 10, 123 (CCL 78, ed. G.

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Morin, Turnhout 1958): hic, qui hoc unguento unctus est, crucifixus est; o anche Ps.-Aug. Ser. 1, 26 (ed. A.B. Caillau, in PLS 2, 948): magna (...) in cruce Salvatoris Dei dilectio erga humanum genus fragrat. (105) C. 12 Norberg (De resurr. Dom.), v. 6, 3. (106) Ruf. Exp. symb. 12, 13 ss. (107) L’apparato concettuale e terminologico è ancora di integrale matrice giovannea: immolata est hostia, v. 8; unda et sanguine, vv. 11-12; victima e, perciò, ara, v. 29; ecc. In particolare il kérygma lapidario che sigilla questo inno – morte vitam reddit, v. 30 – suppone il consueto motivo della sincronia fra morte in croce e descensus: esso infatti era stato richiamato in forma esplicita ai vv. 23-24 dove si diceva che la “croce” – “albero” statera facta est corporis / praedam tulitque Tartari, ragion per cui essa è segno di “trionfo” (plaudis triumpho nobili, v. 28). (108) … at ille clamavit ad Dominum, qui ostendit ei lignum, quod cum misisset in aquas, in dulcedinem versae sunt. In proposito, a commento di Ps.-Hippol. In s. Pascha 35, v. Cantalamessa, I più antichi testi pasquali …, cit., p. 115; cf. Visonà, Pseudo Ippolito …, cit., pp. 410-412. L’aquileiese Gerolamo, ovviamente, praticava la medesima esegesi: intellege ‘mara’ aquas occidentis litterae, quibus si inmitttatur confessio crucis et passionis dominicae sacramenta iungantur, omne, quod inpotabile et triste uidebatur et rigidum, uertitur in dulcedinem (Ep. 78, 7). (109) Cf. Passio Perp. et Felic. 17, 1: i martiri, durante l’ultimo pasto trasfigurato in agape, si mostrano contestantes passionis suae felicitatem. (110) Cf. ad es. Didaché 16, 6; Odi di Salomone 27, 1; 29, 7; 42, 1. (111) Al pari, cioè, del libro della Sapienza o del Siracide: cf. Ruf. Exp. symb. 36. Nell’identificazione su indicata convergo spontaneamente con Cacitti, Rusticitas …, cit., p. 203. (112) Apocal. Petri (rec. etiopica) 1, [1], in Apocrifi del Nuovo Testamento, 2, a c. di L. Moraldi, Torino 1971, pp. 1815-1817; cf. Cacitti, Il Grande Sabato …, cit., p. 106. (113) Ps.-Hippol. In s. Pascha 56, trad. Visonà; cf. Id., Pseudo Ippolito …, cit., p. 411. Il tema è ben presente, pur con diversa sfumatura, anche in Iren. Adv. haer. 5, 17, 4. (114) Cf. supra n. 83 e testo relativo. (115) Fortunato, qui soltanto allusivo, dispiega altrove in distici la stessa similitudine, a lui cara: Opto per hos fluctus animas tu, Christe, gubernes / arbore et antemna velificante crucis, / ut post emensos mundani gurgitis aestus / in portum vitae nos tua dextra locet (c. 8, 3 [De virginitate], vv. 997-400; CSEA 8/1, p 446; cf. infra n.117). L’Ippolito asiano aveva suscitato in modo prestigioso questa immagine (cf. De antichristo 59; GCS 1, 2, pp. 39 s.), che si ritrova in Ambrogio (Explan. Psalm. 43, 17; CSEL 64, p. 355, 8-16) e, con maggiore somiglianza, in Proclo di Costantinopoli (“I marosi sono alti. Ma il nocchiero viene dal cielo. Con rabbia infuria il turbine. Ma la nave porta in mezzo una croce […]. E la nave non sarà mai un relitto, perché la Vita stessa è al suo timone!”: Or. 27, 5; PG 65, 813B-C). Il simbolismo dell’albero maestro (äκρion) con la sua antenna (ùpàκρion), che collega l’immaginario greco a quello cristiano, è stato illustrato con fascino memorabile da Rahner, Miti greci …, cit., pp. 402 ss., a cui facciamo in parte riferimento. (116) Cf. Iust. Dial. 139, 2, dove il legno della croce è prefigurato dall’Arca di Noè. (117) Chrom. Aquil. Ser. 37, 1, 6-14. 2, 44-48. Traccia di una dipendenza da questo passo cromaziano è probabilmente riconoscibile nel c. 16 Norberg (Pro aeris temperie) di Paolino d’Aquileia, che comunque associa la medesima pericope evangelica alla salvezza procurata dal sangue sparso sulla croce. Fortunato, da parte sua, riprende la metafora marinara nel carme figurato II 4 (De s. crucis signaculo; CSEA 8/1, p. 154), variandola abilmente secondo il doppio significato di clavus (‘chiodo’ / ‘timone’): Velis das navita portum / tristia summerso mundasti vulnera clavo; in questo caso Gesù è il nocchiero, l’albero della vela la croce, il timone i chiodi conficcati. (118) L’analisi di S. Costanza – La quarta petizione in Venanzio Fortunato (rapporti con Agostino, Tertulliano, Cipriano), in Convivium Dominicum. Studi

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sull’Eucarestia nei Padri della Chiesa antica e miscellanea patristica, Catania 1959, a c. di E. Rapisarda – F. Sciuto, pp. 87-97 –, concernente i paragrafi 5257 dell’Exp. or. dom. di Fortunato, non solo aveva appurato la sostanziale comunanza di fonti e di indirizzo interpretativo con Cromazio, ma anche segnalata una significativa concordanza nell’uso del verbo advertere nella rielaborazione di Tert. De orat. 6 (cf. ibidem 95). (119) CCL 9A, ed. R. Étaix - J. Lemarié, Turnhout 1974, pp. 172-173. (120) Cf. Sal 1, 1. (121) Ven. Fort. Exp. orat. Domin. 43, 270-274. (122) V. in proposito la bibliografia indicata da G. Visonà, Didachè. Insegnamento degli Apostoli (Letture cristiane del primo millennio, 30), Milano 2000, p. 69 n. 52 in particolare. (123) Cf. Herm. Past. 35 (Mand. 6, 1), nella versione Palatina: Iustitia enim rectam viam habet, iniustitia autem perversam viam habet. (...) Via autem mala multa offendicula habet, et aspera et spinis plena. (...) Illi autem qui rectam viam ambulant molliter et plane et sine offensione perveniunt... (124) Cf. supra n. 111. (125) Hom. Pseudoclem. 7, 7, 1-2 (trad. Visonà, Didachè ..., cit.). È la concordanza con Mt 7, 13-14 che assegna questa formulazione (così come quella di Apoc. Petri 21 e di Clem. Alex. Strom. 5, 31, 1-2) alla specie medesima di quella di Fortunato. (126) Fortunatus ..., / cuius ab ore sacro sanctorum gesta priorum / discimus: haec monstrant carpere lucis iter (ed. Capo, cit., p. 94, 41-42): questa formulazione ellittica delle duae viae richiama forse in scorcio anche Gv 11, 9-10 (si quis ambulaverit in die non offendit, quia lucem huius mundi videt; si quis ambulaverit nocte offendit, quia lux non est in eo); Paolino d’Aquileia, parafrasando tale passo evangelico, concorda a sua volta con Paolo Diacono nell’uso di carpere: ... qui noctis tetra carpit, inpingit per tenebras (c. 4 Norberg, De Lazaro, 12, 2). (127) Paul. Aquil. c. 8, 10, 1-2: ardua et arta uia ducit sursum, / ampla est adque deuexa que deorsum (ed. D. Norberg, L’oeuvre poétique de Paulin d’Aquilée, Stockholm 1979, p. 140). Paolino formula le ‘due vie’, combinando il linguaggio di Mt 7, 13-14 (cf. nota precedente) con quello adottato per es. da Iren. Dem. 1: “... per coloro che vedono non c’è che una strada in salita, illuminata di luce celeste; ma per coloro che non vedono, le strade sono molte, senza illuminazione e in discesa. La prima strada conduce al regno dei cieli e unisce l’uomo a Dio, le altre conducono alla morte e separano da Dio” (trad. Bellini, cit.); ma cf. anche Orig. Hom. in Num. 12, 2 nella trad. di Rufino: Peccatum enim et iniquitas non ascendit sursum, sed semper ad ima et inferna descendit (GCS 30, ed. W.A. Baehrens, Leipzig 1921, p. 98, l. 20). (128) Vedi N.M. Haring, Commentaries on the Pseudo-Athanasian Creed, “Mediaeval Studies” 34 (1972) 208-252, che tuttavia non riesce del tutto nell’intento di ordinare con soddisfacente perspicuità la materia (cf. in partic. 208-210, 224-227). (129) Vedi B. Krusch, MGH, Auct. Antiquiss., 4, 2 (1885), pp. XXXI-XXXIII, alla cui edizione dell’Expositio (ibidem, pp. 106-110) qui si fa riferimento. Il simbolo Quicumque (ed. Krusch, ibidem, pp. 105-106; cf. J.N.D. Kelly, The Athanasian Creed [The Paddock Lectures for 1962-3], London 1964, pp. 1724) godette di tale favore da essere presto recepito nelle liturgie monastiche (v. Haring, Commentaries ..., cit., 208-209) e quindi nel Breviarium Romanum (Off. Dom. ad Primam) fino alla riforma intrapresa nel 1954. (130) Cf. Krusch, l. c. § 12. (131) Exp. fidei cathol. 6. (132) Cf. M. Qualizza, Aspetti della dottrina trinitaria in Paolino d’Aquileia e in particolare nel Concilio di Cividale, in XII Centenario del Concilio di Cividale (796-1996). Convegno storico-teologico. Atti, a c. di S. Piussi, Udine 1998, pp. 229 ss. in particolare. (133) Cf. E.S. Ffoulkes, The Athanasian Creed: by Whom Written and by Whom Published, London 1872, pp. 189 ss. e 281. (134) Cf. Exp. fidei cathol. Fortunati, 26 (p. 109, l. 1): in isto sexto miliario, in quo sumus.

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(135) K. Künstle, Antipriscilliana. Dogmengeschichtiliche Untersuchungen und Texte aus dem Streite gegen Priszillians Irrlehere, Freiburg in Br. 1905, p. 213. Sul Quicumque vult v. ora la bibliografia raccolta da Gounelle, La descente ..., cit., p. 393. (136) F. Kattenbusch, Das apostolische Symbol, II, Leipzig 1900, p. 447 n. 26. Sintesi bibliografica aggiornata sul Quicumque vult in Gounelle, La descente ..., cit., p. 393. (137) H.J. Frede, Kirchenschriftsteller. Verzeichnis und Sigel (Vetus Latina 1, 1) Freiburg 19953, p. 782. Il medesimo autore giudica forse genuina anche una seconda recensione dell’Expositio fidei catholicae (= Commentarii in Symbolum Athanasianum), edita da A.E. Burn, The Athanasian Creed and its early Commentaries (Texts and Studies 4, 1), Cambridge 1896, pp. 28 ss.: cf. J. Machielsen, Clavis Patristica Pseudepigraphorum Medii Aevi IIA. Theologica, Exegetica, Turnhout 1994, pp. 374-5 nrr. 1640-1641; E. Dekkers, CPL, Steenbrugge 19953, p. 340 nr. 1052. (138) Cf. Moreschini - Norelli, Storia della letteratura cristiana ..., cit., p. 719. Più recentemente, tuttavia, il netto parere negativo di S. Di Brazzano (v. CSEA 8, 1, cit., p. 611 n. 35) ricorda che la questione dell’autenticità fortunaziana di questa Expositio fidei catholicae resta lungi da una salda definizione. (139) Dopo tutto, mi sembra saggia la vecchia sentenza di Daniel Waterland: “There can be no reasonable doubt but that the comment really belongs to the man whose name it bears” (A Critical History of the Athanasian Creed ... with an Account of the Manuscripts. Versions and Comments, Cambridge 1724, p. 32). (140) Seguo l’edizione del Krusch, confrontata con quella di A.E. Burn, The Athanasian Creed and Its Early Commentaries, Cambridge 1896, pp. 2939; per il testo del simbolo Quicumque mi riferisco alla revisione del Kelly, The Athanasian Creed …, cit., pp. 17-24. (141) Il Burn (ibidem, p. 40) considera il brano da cui è estratta questa citazione (Primo ergo … ad speciem beatam D. N. I. C) interpolato da Alcuin. De fid. trin. 1, 2: ma potrebbe essere stato Alcuino a copiare. (142) In questo caso la fonte è attinta con tale passività e, perciò, evidenza, che ne è puntualmente trascritto il testimonium di Is 61, 1(a) nella stessa e ormai desueta versione pregeronimiana da cui Rufino citava. (143) Dalla Vulgata, alla quale di solito ricorre l’Autore dell’Exp. fidei cathol., così è reso Is 61, 1a: Spiritus Domini super me: eo quod unxerit Dominus me, ad adnuntiandum mansuetis misit me. (144) Questo parallelo deve necessariamente allargarsi a comprendere anche Fort. Exp. symb. 17, 79-82: sicut in sanctificatione Spiritus nulla fragilitas extitit, sic nec in partu eiusdem causa corruptionis apparuit; qui in caelis unus, in terris unicus, per portam virginis ingredi mundum dignatus est. In particolare, si nota la coincidenza esatta fra mundum ingressus dell’Exp. fid. cath. e ingredi mundum di Fortunato, contro introiuit in hunc mundum di Rufino. (145) Cf. anche Ruf. Exp. symb. 30, ll. 1-2: carnis adsumptae mysterium. (146) Anche in questo caso si impone una triangolazione con Fort. Exp. symb. 20, 93-94: sol aut ignis si lutum inspiciat, quod tetigerit purgat et se tamen non inquinat. Le coincidenze con l’Exp. fid. cath. mi sembrano impressionanti. (147) La sostanziale equivalenza di pariter con simul corrisponde all’uso di Ven. Fort. Exp. Symb. 33, 170 (cf. supra n. 183 e testo relativo). (148) Qui, per altro, Rufino appare citare Hilar. Pictav. De Trinitate 10, 48, 2 (CCL 62, P. Smulders, Turnhout 1979): Donans uobis omnia peccata, delens quod aduersus nos fuit chirografum in sententiis, quod erat contrarium nobis, tollens illud e medio et adfigens illud cruci, spolians se carnem, et principatus et potestates traduxit cum fiducia triumfans eos in semetipso. In questo caso, tuttavia, l’Exp. Fortunati esprime il medesimo concetto in un linguaggio prossimo a Cromazio: per es. Chrom. Aquil. Tract. in Matth. 59, 153: Denique, in hoc ipso sacramento, ad delendum chirographum, tempore passionis aqua et sanguis de latere Domini fluxit; Eiusd. Tract. in Matth. 20, 12: mysterium paschae (...) passionis suae sacramento compleuit, ecc. (cf. anche supra n. 108).

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(149) Il commento, adeguando la tradizione a più recenti elaborazioni teologiche (o forse sottilmente snaturandola), precisa inoltre: Reliqui vero qui supra originale peccato principalia crimina commiserunt, ut adserit scriptura (?), in penale tartaro remanserunt; il Gounelle, La descente ..., cit., p. 74 n. 40 osserva con obiettività: “Ce texte est d’une rare clarté sur la question des destinataires de l’action du Christ aux enfers. Dans son (...) Exp. Symb. 29 (...), Venance n’est pas si explicite”. (150) Già il Burn aveva segnalato il parallelo con Rufino, che qui arieggia un passo origeniano da lui stesso tradotto: Dei igitur sumus, secundum quod ab eo creati sumus; effecti vero sumus servi diaboli, secundum quod peccatis nostris venundati sumus (Orig. In Exod. hom. 6, 9). (151) A prescindere da ogni altra consonanza, qui la certezza dell’apporto di Rufino è incontestabile per il modo della citazione biblica, tratta da Ef 4, 8; ma, come Rufino la attribuisce al “profeta” (= Sal 67, 19), altrettanto il Commentatore del Quicumque, precisando, la riferisce al “salmista”, anche se questi presenta in realtà un testo diverso e di significato parzialmente opposto (ascendisti in altum, cepisti captivitatem, accepisti [!] dona in hominibus). È perciò inevitabile richiamare anche il confronto con Fort. Exp. symb. 31, 155-159, dove nessun agiografo è scontentato: Hoc psalmographus, prophetae et apostolus meminit, unde illud dictum est: “Ascendens in altum captivam duxit captivitatem”. Ergo post passionem Dominus caelos ascendit, non ubi erat Deus Verbum, qui semper in caelis est, sed ubi adhuc Verbum caro factum non sederat (cf. Chrom. Aquil. Tr. in Matth. 50, 27: ipse est enim qui ascendens in altum, ut David uel Apostolus manifestant, captiuam cepit captiuitatem et dedit dona hominibus). L’Exp. fid. cath. appare in rapporto affatto sintonico con i testi confontati, fra l’altro perché ammette del pari – sulla comune base di sal 67, 19 – l’immediato nesso fra descensus ad inferna e conseguente ascensus ad caelos di Cristo. Occorre rileggere, quanto mai esplicito in tal senso, Ruf. De ben. patriarch. 1, 6, 39: Denique rediens ab inferis et ascendens in altum captiuam duxit captiuitatem (cf. anche la sua traduz. di Orig. In Num. hom. 16, 4, 25: Victis adversariis daemonibus homines, qui sub ipsorum dominatione tenebantur, Christus quasi praedam victoriae suae ducit et spolia salutis reportat, sicut et in aliis de eo scriptum est quia: “adscendens in altum captivam duxit captivitatem”; ‘captivitatem’ scilicet illam humani generis, quam diabolus ad perditionem ceperat, iste rursus ‘captivam duxit’ et a morte revocavit ad vitam; parimenti, Eiusd. Comm. in Cant. cant. 3, GCS 33, p. 222, 30: ‘Adscendens’ enim ‘in altum captivam duxit captivitatem’, non solum animas educens, sed et ‘corpora’ eorum ‘resuscitans’, sicut testatur evangelium quia ‘multa corpora sanctorum resuscitata sunt, et apparuerunt multis, et introierunt in sanctam civitatem Dei viventis Hierusalem’). Altrettanto chiaro, per sua parte, Hieron. Tractatuum in psalmos series altera, ser. 93B (ed. Ozimic, cit. = ser. de Pascha II, PL 39, 2059-2061), 86: iucundentur in ascensu tuo fideles tui aspicientes cicatrices corporis tui); lo stesso Gerolamo, opportunamente, richiama Ef 4, 9 / sal 67, 19 in rapporto alla vicenda profetica di Giona: ne urgeat super me puteus os suum, neque me concludat infernus; non mihi deneget exitum, qui sponte descendi, sponte conscendam, qui uoluntarius captiuus ueni, debeo liberare captiuos, ut impleatur illud: ascendens in altum captiuam duxit captiuitatem; eos qui captiui fuerant in morte, iste cepit ad uitam (Comm. in Ionam 2, ll. 191 ss.; CCL 76). (152) Vedi Burn, The Athanasian Creed ..., cit., p. 38; cf. ibidem p. 28. (153) ... in gloriam sempiternam. [In ea scilicet carne in qua natus, in qua passus, in qua aetiam surrexit, in qua et ad caelos ascendit, in ipsa uenturus est ad iucandum]. (154) Così, secondo la precisa recensione del cod. Augiensis (inizi sec. IX), esponente autorevole del ramo minore fra i due soli in cui si divide la tradizione manoscritta dell’opuscolo rufiniano (cf. Simonetti, CCL 20, p. 22). Queste citazioni non erano state identificate dal Burn, così come un’altra del medesimo codice sangallese, tratta ancora dall’Exp. symb. rufiniana (par. 23, p. 31, l. 14: recupero della bella definizione spiritus sanctus de dei hore procedens et cuncta sanctificans [cf. supra n. 52]): sono solo il documento di

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una posteriore collazione integrativa, o dobbiamo supporre che rientrassero in una redazione originaria? (155) Cf. Kelly, The Athanasian Creed …, cit., pp. 24-34. (156) Cf. supra n. 154 e testo relativo. (157) Ruf. Apol. in Hieron. 1, 4. (158) Cf. ibidem, ll. 16-29. (159) Cf. ibidem, ll. 29-33. (160) In rapporto a ciò, si noti che la percezione di una certa vis polemica nel simbolo Quicumque era stata manifestata già dagli studiosi ottocenteschi. (161) Exp. fid. cath. Fortunati 1. (162) Ibidem 4-20. Con riferimento all’edizione del Burn (The Athanasian Creed ..., cit., pp. 4 ss.), risultano omessi dall’Exp. Fortunati i paragrafi 12, 14, 16, 18, 19b-22, 24b-27. (163) Sintomatica, in particolare, l’espressione a Patre et Filio (par. 6), di carattere obiettivamente semplificatorio, sporadica sin dai tempi di Agostino (v. Kelly, The Athanasian Creed ..., cit., p. 22); Rufino, in armonia con la teologia patristica classica, aveva scritto con più finezza: ... et hic Spiritus Sanctus, tamquam de Dei ore procedens et cuncta sanctificans (Exp. symb. 33, 19-20). L’Exp. Fortunati taglia via anche la principale definizione pneumatologica del Quicumque: Spiritus Sanctus a Patre et Filio, non factus nec creatus nec genitus est sed procedens (ed. Burn, The Athanasian Creed ..., cit., p. 5, 22; cf. la nota precedente). (164) Exp. fid. cath. Fortunati 21-34. (165) Ibidem 35-42. (166) Ibidem 36-37. (167) Ne è indice il richiamo di Exp. fid. cath. Fort. 5 all’interpretazione trinitaria di Is 6, 3 (la visione del “Signore” inneggiato in trono dai serafini), che era stata di frequente coinvolta nelle dissertazioni con cui la teologia latina dimostrava l’assimilazione in corso dell’ortodossia trinitaria scaturita dai duelli esegetici del secolo IV in Oriente: ad es. il Libellus de Spiritu Sancto, scritto intorno all’anno 400, dove è pure testimoniata (4, 2) l’incipiente introduzione dell’inno serafico nelle liturgie latine, secondo un esempio orientale già imitato da Aquileia al tempo di Cromazio (v. Chrom. Ser. 21, 1 [invece Ruf. Exp. symb. 5, ll. 23-30, sebbene, come Cromazio, richiami Is 6, 3 attraverso Ap 4, 8, utilizza il medesimo testimonium a conferma della divinità del Figlio, collocandosi in sostanza nella prospettiva esegetica divulgata a suo tempo da Eusebio di Cesarea e di nuovo in auge – con opportune correzioni – alla fine del sec. IV]; cf. L. Chavoutier, Un Libellus Pseudo-Ambrosien sur le SaintEsprit, “Sacris Erudiri” 11[1960] 174-191 e A. Persˇicˇ, L’esegesi patristica di Isaia 6 in alcuni autori di area palestinese, cappadoce e antiochena fra IV e V secolo [seconda parte], “Annali di Scienze Religiose” 6 [2001] 288-291 in partic.). D’altronde, anche il riferimento dell’Exp. fid. cath. a Is 6, 3 è introdotto con espressioni (4: ... Deum [...] veneremur et credamus et colamus et confiteamur ...) sensibilmente arieggianti il Te Deum, l’inno della metà del secolo IV (composto in area aquileiese?) in cui il Sanctus trovò la prima accoglienza liturgica fra i Latini (cf. Persˇicˇ, l. c.). (168) Ciò risulta evidente da un confronto di espressioni dell’Exp. fid. cath. Fort. con le antiche traduzioni latine della definizione di fede calcedonese; per es.: EXP. FID. CATH. FORTUN. 28-32 passim: (Dominus Iesus Christus) PERFECTUS DEUS, PERFECTUS HOMO, id est verus Deus, verus homo, (...) EX ANIMA RATIONA(BI)LI (...) et humana carne subsistens (...) QUI LICET DEUS SIT ET HOMO, NON DUO TAMEN SED UNUS EST CHRISTUS, id est duae substantiae [= naturae; cf. 32, l. 24: humanae naturae] (...) sed una (...) persona (...), UNUS OMNINO NON CONFUSIONE SUBSTANTIAE SED UNITATE PERSONAE ...; DEFIN. FIDEI CHALCED. (Acta Conc. Oecum. 2, 2, 1, ed. E. Schwartz, Berolini – Lipsiae 1932, pp. 8 [100] e 13 [105]-14 [106]): ... Dominum Iesum Christum (...) eundem in deitate perfectum, eundem in humanitate perfectum, Deum uere et uere hominem eundem ex anima rationali et corpore [al. corporis substantia], (...) quem in duabus naturis inconfuse (...) agnoscimus (...)

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utriusque naturae proprietate seruata et in unam concurrente personam atque substantiam (= ¤p’stasij), non in duas diductum diuisumue personas, sed unum et eundem ... (169) In Hahn, Bibliothek der Symbole ..., cit., pp. 321-330. (170) Con la “celeberrima lettera” indirizzata il 21 marzo 458 al vescovo di Aquileia Niceta il papa romano Leone Magno aveva infatti dimostrato affettuosa sollecitudine verso la Venetia, devastata sei anni prima dalla spaventosa incursione degli Unni comandati da Attila (v. Paschini, Storia del Friuli ..., cit., pp. 77-78). Comunque, dal confronto dell’Exp. fidei cath. Fortunati con il Tomus si possono rilevare interessanti convergenze: EXP. FID. CATH. FORT. 29 (ll. 11-13): AEQUALIS PATRI SECUNDUM DIVINITATEM, MINOR PATRE SECUNDUM HUMANITATEM, id est secundum formam servi quam adsumere dignatus est; TOMUS AD FLAVIANUM 3-4 passim: Assumpsit formam servi (...) et sicut formam servi Dei forma non adimit, ita formam Dei servi forma non minuit. (...) De nostro enim illi est minor Patre humanitas; de Patre illi est aequalis cum Patre divinitas. Ma anche al di là della pregnanza del confronto, è in particolare evidente che anche l’Exp. fid. cath. Fort., al pari di Leone nel Tomus, “continua a fare uso della terminologia dell’homo assumptus, (...) rifiutata dal Cirillo della lettera a Succenso” (M. Simonetti, Il Cristo, 2. Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII secolo, Milano 1986, p. 618), dove l’Alessandrino affermava che l’unigenito Figlio di Dio o‹κo„n gûgonen ©nqρwpoj, o‹κ ©nqρwpon ¶nûlaben (Cyr. Alex. ep. 45, 9). Infine, se pure ci si volesse spingere a un parallelo estremo, non potrebbe deludere neanche una spigolatura dalla lettera di Iba: EXP. FID. CATH FORT. 30, 13-14 + 32, 23: Passus (...) secundum id quod pati potuit, quod secundum humanam naturam, nam secundum divinitatem Dei Filius inpassibilis est + Non duo tamen sed unus est Christus (...) ... diximus duas substantias unam personam esse in Christo; IBAE EP. AD MARIM PERSAM (Acta Conc. Oecum. II 1, 3; ed. E. Schwartz, Berolini - Lipsiae 1935, p. 33, 1-2 e p. 34, 10): “La Chiesa dice così: due nature, un solo potere, una sola persona, la quale è il solo Figlio Gesù Cristo” + “... anatema su chi dice che la divinità subì la passione”. (171) Vedi Paul. Diac. Hist. Lang. 3, 20; cf. Paschini, Storia del Friuli ..., cit., p. 94. (172) Ciò era palesato dal papa stesso: Per ea quae piae memoriae Iustiniani principis temporibus acta sunt, fraternitas uestra suspicatur sanctam Chalcedonensem synodum fuisse conuulsam (...). Cui suspicioni in scriptis uestris ex sancti prodecessoris nostri Leonis epistolis ac enkycliis testimonia adiungitis, ut praefatam sanctam Chalcedonensem synodum inlibatam deberi seruari monstretis (Pelagii Iun. ep. 3 ad episcopos Histriae, 13-15, in Acta Conc. Oecum. IV, 2. Conc. univ. Constantinop. sub Iustiniano hab., ed. F. Schwartz, Argentorate 1914, p. 113, ll. 33-40). (173) Cf. supra n. 52. Benché sia alquanto aleatoria la possibilità di riconoscere fonti precise in documenti come il Quicumque vult, impastati della koinè espressiva di una teologia trinitaria ormai standard, potrebbe dirsi che esso mostri di avere ‘digerito’ anche le circonlocuzioni pneumatologiche della Fides Hieronymi (ll. 12-14: Spiritum Sanctum Deum non ingenitum neque genitum, non creatum neque factum, sed Patri et Filio coaeternum) e le conservi debitamente aggiornate: Spiritus Sanctus a Patre et Filio non factus nec creatus nec genitus est sed procedens (...) totae tres personae coaeternae sibi sunt (ed. Burn, The Athanasian Creed ..., p. 5, 22 e 24; cf. supra n. 163). (174) Così scriveva al patrizio Giovanni, appena scomunicato dagli ‘scismatici’ (PL 69, 396B-C; P. Jaffè, Regesta Pontificum Romanorum, Berlin 1851, p. 132). (175) PL 69, 411C; cf. Exp. fid. cath. Fort., 3: (fides) catholica universalis dicitur, id est recta, quam universa ecclesia tenere debet. Ecclesia quippe congregatio dicitur christianorum sive conventus populorum. Non enim sicut conventicula haereticorum .... Aggiungerei che, se l’Exp. fid. cath. Fort. fosse stata davvero redatta in tale contesto polemico, il suo assoluto silenzio sul te-

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ma dell’apostolicità della Chiesa (o della fede) avrebbe forse una spiegazione ulteriore ... . (176) Episcop. schismat. ep. ad Mauricium 1, in ACO 4, 2, pp. 132-133. I vescovi sottoscrissero la missiva precisando puntigliosamente: ... episcopus sanctae catholicae ecclesiae Bellunatae, ... sanctae catholicae Concordiensis ecclesiae, ... sanctae catholicae ecclesiae Vicentinae, ecc. (ibidem, p. 135). La favorevole risposta di Maurizio sottrasse Severo e i suoi al pericolo di essere dedotti prigionieri a Roma propter diuersam uoluntatem quam habent ad sacra et catholica dogmata sacrosanctae nostrae ecclesiae, come si espresse con tatto l’imperatore scrivendo al papa Gregorio (Mauricii ep. ad Gregorium papam, 1; ibidem, p. 136): il contenzioso dottrinale, infatti, verteva essenzialmente sul criterio interpretativo del concetto di cattolicità della fede. (177) In J.D. Mansi, Sacr. Conc. nova et ampliss. Collectio 14, Venezia 1767 (rist. anast. Graz 1960), coll. 495-496 = MGH, Epist., III, p. 693. (178) Si può facilmente verificare l’uso parsimonioso che Rufino dimostra del sintagma fides catholica, per lo più in contesti polemici (per es. Ruf. Apol. in Hieron. 1, 12, 3-4: protestatus sum me quidem ita credere sicut fides catholica tenet). (179) Ruf. Exp. symb. 3, 34-42. (180) Il testimonium di Ct 6, 8, in base alla tradizionale interpretazione ecclesiologica di quel libro biblico, era già stato addotto al medesimo proposito da Cypr. De eccl. cath. unitate 4 (recensione A, dove tace il cenno al primato del vescovo romano). (181) Non si tratta “di un’allegoria inutile, che denota una cattiva antropologia”, come si è criticato ricorrendo a una petizione di principio inappropriata: “a essere giudicato sarà infatti l’uomo nella sua interezza (corpo e anima). La dicotomia è di origine greca ed è incompatibile con l’insegnamento della Bibbia” (Di Brazzano, CSEA 8/1, p. 610 n. 32). Semmai, l’allegoria rufiniana diviene comprensibile (e apprezzabile) appunto qualora se ne scorga la soggiacente concezione antropologica di stretta osservanza biblica, che aborriva ancora vigorosamente ogni sospetto di dualismo para-gnostico fra anima e corpo. In questo modo essa era stata esemplarmente rappresentata dall’asiano Melitone: “il Peccato, (...) come complice della Morte, le apriva la strada nell’anima degli uomini e le apprestava in nutrimento i corpi dei morti. (...) Ogni carne cadeva sotto il peccato e ogni corpo sotto la morte (Rm 5, 12), e ogni anima era scacciata dalla sua dimora di carne: ciò che era stato tratto dalla terra tornava a disperdersi nella terra (Gn 3, 19) e ciò che era stato dato in dono da Dio (cf. Eccl. 12, 7) veniva rinchiuso nell’Ade. Era la disgregazione della bella armonia e il capolavoro del corpo si dissolveva. L’uomo era infatti diviso dalla morte. (...) In catene egli era trascinato sotto l’ombra di morte (Is 9, 2; Lc 1, 79), mentre l’immagine dello Spirito [= di Dio] giaceva abbandonata. Ecco quale fu la ragione per cui il mistero della Pasqua si è compiuto nel corpo del Signore” (Melit. Sard. Peρã to„ Pßsca 54-56; trad. Cantalamessa, I più antichi testi pasquali ..., cit.). Questo passo dimostra che “un’idea caratteristica di Melitone” è “quella della divisione del composto umano in anima e corpo, quale principale effetto del peccato” e perciò “un profondo assorbimento della concezione biblica dell’uomo quale unità armonica e inscindibile di anima e corpo”; in altre parole, “se la separazione dell’anima e del corpo è l’effetto più appariscente del peccato, coerentemente Melitone tende a presentare la redenzione di Cristo come riunione del composto umano” (Id., ibid., p. 97; v. anche Visonà, Pseudo Ippolito ..., cit., pp. 458 ss.). Sulla stessa linea, ormai nel sec. IV, ancora Alessandro d’Alessandria († 328): “Cristo unendo l’uomo a sé riunì ciò che la morte aveva disperso con la separazione dell’anima e del corpo” (De anima et corpore deque passione Domini, PG 18, 595). Ora, mi sembra indubbio che Rufino, piuttosto che avanzare una spiegazione personale, in questo caso più che mai si renda fedele portavoce di un’interpretazione tradizionale, mantenuta ancora di comune dominio nella catechesi mistagogica di Aquileia in continuità con la posizione documentata da Melitone: sintomatico, nella svelta esplicazione rufiniana, è il simul (pa-

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riter in Fortunato) con cui è denotata la ricongiunzione di corpi e anime nell’uomo risorto (e salvato così dalla morte) per il Giudizio finale. Anche Fortunato sembra collegare con sufficiente lucidità il perdono salvifico alla reintegrazione dell’unità psicofisica dell’uomo: valet innocentiam perditam restituere qui sepultos et membra perdita revocat ad salutem (Exp. symb. 38, 195-196). (182) Neppure il Kelly la nega (The Athanasian Creed ..., cit., p. 70). (183) In Mansi, Concil. omn. ampliss. collectio, 9, col. 925D; cf. Paschini, Storia del Friuli ..., cit., p. 92: “sebbene gli atti di esso [concilio gradese] siano una malaccorta falsificazione di età assai posteriore, (...) autentica pure [oltre all’elenco dei sottoscriventi] ma forse compilata qualche anno prima, è una professione di fede nella quale si professa di riconoscere il Concilio di Calcedonia insieme ai tre precedenti di Nicea, Costantinopoli ed Efeso, ma si tace del Costantinopolitano II in cui furono condannati i Tre Capitoli; essa è perciò di carattere scismatico e servì all’assemblea per insistere sul proprio atteggiamento”. (184) Cf. Paschini, Storia del Friuli ..., cit., p. 87. (185) Gisleb. Porret. Exp. in Quicumque uult, 5 (ed. N.M. Haring, A Commentary on the Pseudo-Athanasian Creed by Gilbert of Poitiers, “Mediaeval Studies” 27 [1965] 31). Annota l’editore riguardo l’insolita attribuzione: “One outstanding Porretan, Master John Beleth, writes that many scholars of his time considered Anastasius the author of the Quicumque [Summa de div. off. 40; PL 202, 50A]” (ibidem, 24). (186) Vedi Paschini, Storia del Friuli ..., cit., p. 121. (187) Si tratta del rozzo carme in trimetri giambici ritmici del monaco di Bobbio (?) Mastro Stefano (MGH, Poetae Latini Aevi Carolini, IV, 2, ed. K. Strecker, Berolini 1923, pp. 729-731; il nome fu decifrato dal doppio acrostico composto dalle lettere iniziali di ciascuna strofa): esso, infatti, lodava innanzitutto il sovrano (piissimo, /pien di devozione nel coltivar la fede cristiana..., degno figlio di quel Bertarito che alla fede convertire / fece i Giudei da battezzare, e chi credere / rifiutò, uccider con la spada [!]: str. 4 e 2 ); quindi così rievocava la strategica resa degli Aquileiesi a Pavia: Entrati nell’aula gli ortodossi insieme / contro i perversi presero a contendere, / leggendo i libri dannati dai Padri, / di Paolo e di Pirro [patriarchi di Costantinopoli (638-641 e 654; 641-653), anatematizzati dal Sesto Concilio Ecumenico (Costantin. III, cf. Paul Diac. Hist. Lang. VI 4): ma furono forse gli Aquileiesi a controesigere a Pavia la conferma della loro condanna ...] svelando l’eresia, / di Teodoro, di Iba e insiem di Teodorito (sic!). // Ma, già vinti riconoscendosi, subito / chiedono al re che giurino i cattolici / di meglio accettare il Quinto Concilio [impossibile accertare le precisazioni interpretative richieste ai ‘cattolici’ da parte aquileiese ...] / e promettono che poi [anch’] essi acconsentiranno / e giureranno di accettarlo da credere (strofe 9-10). Infine, a suggello del vincolo di carità instaurato nella riaffermata concordia (str. 11), ecco l’epilogo romano, con il proscioglimento dei peccatori (str. 16) e la bibliopirosi: A buon diritto, giustamente, l’apostolico pastor / i codici della setta perversa, / che scrissero i predetti autori, / ordinò – poiché n’eran degni – che fosser bruciati,/ affinché non inquinassero oltre / le menti dei perversi, che venivan dallo scisma (str. 17). Quanto ad altre concessioni a cui verosimilmente gli Aquileiesi dovettero piegarsi, se ne può forse scorgere un indizio leggendo in controluce la difficile str. 7 della ‘ballata’. Il poetastro, con la solita sintassi nebulosa e la sgangherata grammatica preromanza, sembra infatti elencarvi le particolarità teologico-liturgiche che fino ad allora continuavano a distinguere gli Aquileiesi, in quanto determinate – a suo ingenuo avviso – dalla costituzione dello scisma: Di accettare simile il lavacro del fonte / e insieme con noi professar la fede della Trinità / non accordandosi gli Aquileiesi, poiché il Quinto / Concilio – che intero concorda con i Quattro – / essi unico sprezzavano, colpevoli divennero fra tutti (“Fontis labacro recepere simile, / Nobiscum simul trinitatem credere / Aquiligenses dissedentes synodum / Quinta, qui totus concordat cum quattuor, / Una tempnentes rei facti omnium”). Si tratta, evidentemente, del rito battesimale e del connesso simbolo di fede, nel contesto

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liturgico della Grande Notte; se dunque talune concessioni furono fatte in proposito, si deve pensare a qualche significativo adeguamento degli usi tradizionali al cerimoniale romano (la soppressione, per es., della Lavanda dei Piedi quale parte integrante del rito sacramentale), nonché all’adozione di un formulario alternativo a quello della professione di fede testimoniata da Rufino e, probabilmente, ancora in sostanziale vigore alla fine del sec. VII: penso a un Credo che, magari proveniente dalla stessa area aquileiese, presentasse caratteri di attenuata originalità, così da più somigliare al Simbolo Romano. Risponderebbe senza dubbio a tali requisiti proprio il Credo attestato dall’ordo battesimale del patriarca Lupo, che, in particolare, non riporta nella professione trinitaria la clausola “invisibile e impassibile” relativa al Padre, e declina ‘normalmente’ all’accusativo (invece che al dativo) la reggenza di credo in (v. Westra, The Authorship ..., cit., 527-528; mi spiace di non avere confrontato questa analisi del ritmo di Mastro Stefano con quella di W. Meyer, Die Spaltung des Patriarchats Aquileja, 1898, pp. 3 ss., opera che mi è stata finora impossibile consultare). Alieno da qualsiasi recriminazione e, benché ‘aquileiese’, assai meno informato di Mastro Stefano, Paolo Diacono si limitò per suo conto a riferire che in questo tempo [nel 698 o poco dopo] il sinodo tenuto ad Aquileia [in realtà, avrebbe forse dovuto dire: “l’insieme dei vescovi della provincia aquileiese”] esitò, per ignoranza di fede, a riconoscere [“ob imperitiam fidei (...) suscipere diffidit”] il quinto concilio universale, fino a che, edotto dai salutari ammonimenti del beato papa Sergio, consentì anch’esso ad accettarlo, come tutte le altre Chiese di Cristo (Hist. Lang. VI 14; ed. L. Capo, Milano Verona 19953). (188) Vedi Kelly, The Atanasian Creed ..., cit., pp. 7 ss. e 49-51.

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ALBERTO VECCHI Università degli studi di Padova

Osservazioni conclusive Sono lietissimo di poter dire, anche se sottovoce, che moltissimi problemi sono stati avviati e molti sono stati conclusi grazie a queste giornate che contribuiscono a rettificare o concludere una folla di domande. Innanzitutto lo sforzo comune di oggi, e anche degli scorsi giorni, è stato di offrirci proprio a faccia a faccia l’uomo, il poeta Venanzio Fortunato, riscoprendo la sua realtà, i suoi difetti o – diciamo così – i suoi limiti. Sia pure entro le frivolezze di corte o le difficoltà del monastero, egli resta sempre personaggio da studiarsi con molta attenzione per l’ammirazione che si prova inevitabilmente verso la sua molteplice attività o anche per la freschezza delle sue poesie, pur talora di argomento leggero. Non sempre infatti i suoi componimenti si rivolgono ad argomenti di grande interesse, però c’è la possibilità di correggere queste prospettive partendo da quello che da ultimo qui abbiamo ascoltato. Alludo, in particolare, a Sergio Tavano. È stata sollevata infatti con molta cautela la religiosità del suo pellegrinaggio, oggi assunto e considerato con grande attenzione e grande rispetto, come è stata ugualmente posta la questione del suo soggiorno ravennate. Che cosa abbia indotto il giovane Venanzio ad abbandonare la natia regione per trasferirsi a Ravenna, si può immaginare: il Veneto era in zona di facile accesso alle orde barbariche, mentre Ravenna era città ben difesa, oltreché fornita di scuole letterarie. Fuga e richiamo ad un tempo, si direbbe! Più difficile da spiegarsi, almeno alla prima apparenza, è il motivo che lo trasse alla lunga “peregrinatio” da Ravenna a Tours. Sembra che la prima sollecitazione gli sia pervenuta da un asserito miracolo: la guarigione – per sé e per l’amico Felice – da una malattia o quanto meno da una forte stanchezza oftalmica, grazie all’ “olio di san Martino”. Era risultato sufficiente strofinarsi le palpebre con l’olio che manteneva accesa la lampada che, in Ravenna, pendeva davanti all’immagine del Santo, per sentirsi guarito. Donde il voto, per gratitudine, di recarsi alla tomba del Santo in quel di Tours. 465

Non si valuta a sufficienza l’impegno morale del miracolato nei confronti del Santo guaritore. Basta visitare un qualche museo santuariale, ad esempio quello di sant’Antonio a Padova, per rendersi conto della profonda riconoscenza che dal graziato sgorga per il Santo guaritore, e ciò introduce in qualche modo nelle motivazioni del pellegrinaggio d’oltralpe. Se ne è parlato durante queste giornate pur se i dubbi non sono del tutto fugati a motivo di tesi ed ipotesi, nuove o vecchie, che si affacciano continuamente a storici o studiosi del personaggio. Ne ha trattato con competenza di geografo il collega Guido Rosada (Università degli studi di Padova), bene mostrando come le tappe del giovane viaggiatore verso la Gallia non fossero puramente casuali, ma rispecchiassero una geografia della devozione che egli doveva toccare prima di giungere alla meta finale. Senonché, per tornare al miracolo, viene da pensare che qualcosa di analogo già era accaduto nella chiesa di Tours a personaggio illustre che si era subito dedicato al culto per il Santo pannonico. Il personaggio si chiamava Paolino; era aquitano e, in Aquitania, ricchissimo; altrettanto, la pia moglie Terasia. Possedeva inoltre moltissimi terreni nella dolce Campania italica; e qui s’era lasciato prendere da un affetto indescrivibile per le sue terre di Fondi e di Nola; soprattutto per Nola, dove si era scoperto proprietario della diruta chiesetta già eretta in onore del santo martire Felice, e dove infatti avviò la monumentale ricostruzione del santuario. Devoto alla memoria di Martino di Tours, il Santo della carità, sopraelevò di un piano il santuario, destinandolo ad uso di pellegrini e poveri. Paolino apparteneva al senato romano e ciò donava alla sua figura una rilevanza ragguardevole. Aveva molti amici. Tra questi, a uno era particolarmente legato: un avvocato di Bordeaux: si chiamava Sulpicio Severo. Paolino lo stimava soprattutto in quanto lo conosceva come autore di una stimatissima Vita Martini, ch’egli desiderava diffondere. La forte amicizia che legava i due poté suggerire, con centocinquant’anni di anticipo, l’oggetto votivo che il poeta italico avrebbe poi recato alla santa tomba di Tours: la traduzione poetica in lingua latina della Vita Martini di Sulpicio Severo. Erano così preparati i presupposti per una più larga diffusione della spiritualità martiniana. Forse i forti legami intessuti da Fortunato con l’ex regina Radegonda, badessa di Santa Croce in Poitiers, vanno collocati in questa luce. È vero, Marta Cristiani (Università degli studi di Roma Due) vi ha notato anche altre dimensioni psicologiche e spirituali. 466

Che il viaggio non fosse peraltro unicamente pellegrinaggio, ma si muovesse con attenzione diretta alle bellezze della natura si può supporlo – come ha evidenziato Luce Pietri (Università di Paris IV) –, anche per le notazioni emergenti in un bel numero di sue composizioni poetiche. Non dunque un qualunque cantore della natura, bensì con un talento personalissimo di poeta paesaggista Venanzio voleva celebrare la bellezza per farla scoprire a tutti col suo versificare. Altri nell’antichità classica l’avevano preceduto; in più, qui, lo sguardo del cristiano fervente scorgeva l’opera del Dio trinitario, creatore e rivelatore di sé attraverso la natura diventata in tal modo scoperta spirituale. Personaggio di larga valenza spirituale, nondimeno il Venanzio emerso in queste giornate è ugualmente carico di originalità poetica vera e propria. Antonio V. Nazzaro (Università degli studi di Napoli “Federico II”) ha analizzato la riscrittura esametrica in quattro libri della Vita Martini di Sulpicio Severo; mentre la riscrittura di Paolino di Périgueux conserva una sua logica compositiva diretta a proporre il Santo all’imitazione dei fedeli o alla meditazione spirituale, quella di Venanzio si sofferma invece sulle qualità carismatiche di bontà e d’indulgenza di Martino per evidenziarne la carità sociale, lodata spesso negli epitafi dei vescovi. L’intervento di Giovanni Polara (Università degli studi di Napoli “Federico II”) ha poi proposto un’analisi originale sui “carmina figurata” per i quali non manca di primeggiare il nostro poeta accanto ad altri cultori dell’età carolingia. Sempre sulla tematica di Venanzio poeta ha parlato anche Franca E. Consolino (Università degli studi dell’Aquila) evidenziando in particolare il motivo della “laus humilitatis” più riconoscibile nelle poesie che nella prosa. Sarebbe però riduttivo fermarsi alla perfezione stilistica di Venanzio, del resto con una sua posizione originale nella poesia mediolatina, obliterando un suo preciso influsso nella liturgia: ne ha trattato Francesco Stella (Università degli studi di Siena), mostrando come in particolare i suoi inni per la Croce siano stati accolti nella liturgia della Settimana Santa con una larga diffusione testimoniata anche dalle riscritture di Tommaso d’Aquino e Dante. Altrettanto vasto è stato il peso esercitato dalle sue vite in prosa, come modelli per l’agiografia del tempo, magari creando una vera retorica dell’espressione agiografica. Appunto in tali biografie si può cogliere una struttura che rispecchia le regole di un genere letterario e, nel contempo – come ha sostenuto Paola Santorelli (Università degli studi di Napoli “Federico 467

II”) –, esse si offrono con una attenzione differenziata a destinatari con diversa possibilità ricettiva. Entrare allora in tale ambito induceva a rivisitare le ragioni profonde di Venanzio in quanto agiografo. Se ne è trattato da varie angolature: Sofia Boesch Gaiano (Università degli studi di Roma Tre) da par suo ha riflettuto sulla peculiarità dello scrittore poeta alla luce della sua produzione letteraria, filtrata attraverso diverse interpretazioni storiografiche. Ormai nel secolo VI si stava evolvendo un genere letterario che non avrebbe trovato sosta nello scorrere dei tempi. Dalla santità descritta nelle passioni e negli atti dei martiri si procedeva ora verso altri modelli di santità che una diversa situazione storica non mancava di alimentare e, pertanto, di descrivere e documentare. L’indagine della santità in sé o correlata all’ambiente sociale di provenienza è stata oggetto di altri interventi. Cristina La Rocca (Università degli studi di Padova) ha prospettato una propria riflessione sulla conservazione della posizione sociale, sui collegamenti nobiliari con altri gruppi consimili, sull’ostentazione funeraria dei propri rituali, così da includere pure il controllo delle reliquie di santi locali. Certo, la figura del santo può essere considerata pure nella dimensione che le consuetudini nobiliari riservano per il culto del proprio casato o per la glorificazione di un eroe, magari di scarsi pregi. D’altra parte, l’approfondire tali aspetti della santità consente di elaborare delle categorie o dei caratteri della santità, che costituiscono dei punti di riferimento, presenti poi anche nella letteratura successiva. Si potrebbe ugualmente pensare che la concettualizzazione della santità quale è maturata nel secondo millennio, parta sempre da una struttura ormai consolidata nella pietà dei fedeli e nell’attenzione dei dotti agiografi fin dai primi secoli della storia cristiana. Si corre così il pericolo di idealizzare un santo e di perderne l’identità storica? Il problema non è di poco conto, anche perché si corre il rischio di sconvolgerne la personalità e l’eroicità delle sue virtù se già l’ambiente sociale di provenienza o quello che ne alimenta il culto esercitano propri interventi. L’idealizzazione del santo è possibile. Ha approfondito la questione Yves-Marie Duval (Università di Paris X) a proposito della biografia di Ilario scritta da Venanzio, dove all’interno di un certo numero di episodi, più o meno storici, si rivelano le preoccupazioni dell’autore. Se, come sembra, si tratta della sua prima opera in prosa allorché si sistemava a Poitiers, avremmo allora un modello che 468

Venanzio ha poi seguito nelle composizioni posteriori dello stesso genere. Che il modello del santo sia sempre imprescindibile da un punto di vista compositivo, emerge anche dalle altre biografie in prosa, dove si esalta la figura del vescovo. Di quale vescovo? È chiaro che con la progressiva importanza che andava assumendo all’interno della città, egli ne pretendesse adeguati riconoscimenti, per cui accanto alla tradizionale figura dell’asceta-taumaturgo, non è escluso potervi ugualmente vedere l’anticipazione del vescovo di matrice carolingia. Si arriva così all’uomo di religione, a Venanzio vescovo che ha maturato una propria fisionomia di carattere dottrinale-teologico. Con approfondimenti originali Rajko Bratozˇ (Università degli studi di Lubiana), sulla base di taluni versi della sua produzione poetica e di suoi interventi presso la corte bizantina, ha avanzato l’idea di una sua possibile connessione con la questione dei Tre capitoli, configurandolo quale partigiano moderato dello scisma: ipotesi certamente interessante. Alessio Persic (Università Cattolica “S. Cuore” di Milano) ha cercato di andare oltre, approfondendo l’aspetto pastorale: egli ha messo in luce il collegamento della sua Expositio symboli con l’omonimo scritto di Rufino di Concordia e con la professione di fede di Aquileia. Aggiungendovi inoltre dei prestiti cromaziani evidenti in un altro lavoro, viene documentato, pur in un Venanzio esule, il suo continuo ricordo con la tradizione dottrinale ricevuta in patria. Ogni convegno di studio che approfondisca una questione o un personaggio si situa sempre tra un passato ed un futuro. A distanza di dieci e più anni dal precedente convegno trevigiano, questo nostro incontro ha nuovamente scavato su un personaggio che colpisce per la qualità e la quantità delle sue relazioni umane d’oltralpe, per la sua produzione in poesia e in prosa, per il suo stile, ma che lascia anche perplessi per gli orizzonti nuovi aperti. Un giovane poeta di quella “Venetia” che si dibatteva allora tra Longobardi e Bizantini, in attesa di una propria identità politica ancora lontana da acquisire, intuì allora, per dir così, alcune direttrici di marcia verso le quali spostarsi: anzitutto la Gallia, che sarebbe stata la matrice di un’Europa non ancora costruita, ma che nel tempo avrebbe trovato il proprio artefice in re Carlo, in Carlo imperatore. Venanzio non fu tuttavia un isolato nella “Venetia”: altri prima e dopo di lui avrebbero per dir così glorificato la regio469

ne. I Padri aquileiesi del IV secolo non furono gli unici scrittori: dopo quella generazione altri avrebbero glorificato la regione da un punto di vista dottrinale e letterario facendo capo in qualche modo alla capitale Aquileia. Se ne è parlato nella tavola rotonda della prima giornata, nella quale si voleva discutere ed apprezzare il bel volume di Stefano Di Brazzano, con il suo impegnativo lavoro di traduzione e di commento dell’opera poetica di Venanzio, in attesa di vedere un secondo volume con l’edizione della restante produzione in prosa. Erano presenti Giorgio Fedalto (Università degli studi di Padova), Paolo Mantovanelli (Università degli studi di Padova), che si è soffermato sulla poetica di Venanzio analizzando la traduzione con puntuali citazioni dei testi, evidenziando il rapporto tra poesia e prosa e la connessione con la classicità, e Sergio Tavano (Università degli studi di Trieste), che prendendo lo spunto dal volume presentato è entrato in tematiche di carattere artistico, in particolare sul tema della luce all’interno del colorismo di matrice paleobizantina. Interventi tutti dovuti, anche per evidenziare la fatica del Di Brazzano, il quale aveva inoltre presentato un suo profilo biografico di Venanzio, stampato a parte dalla Fondazione Cassamarca. Pur con le solide nuove acquisizioni portate dal convegno, restano aperti ancora numerosi problemi: di carattere storico-biografico, come la formazione culturale e teologica di Venanzio nel Veneto e a Ravenna, prima di partire per la Gallia; le reali ragioni del suo esodo, come pure della sua fortuna. È vero che dal precedente convegno trevigiano non è mancata una valida produzione bibliografica sul nostro Autore, ma altro resta da dire sulle sue matrici dottrinali, sull’influsso da lui subito e prestato nel pensiero del tempo, sul suo concorso per la rinomanza di una regione che ha visto tanti suoi figli esuli nel mondo e che tanto hanno contribuito per cultura e fede cristiana. Per tornare al punto di partenza, quello della devozione santuariale, del pellegrinaggio e della riconoscenza al Santo guaritore, se l’argomento non è concluso, allora esso presenta ancora interessanti motivi di riflessione.

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Pubblicato a cura di: Fondazione Cassamarca Piazza S. Leonardo, 1 - 31100 Treviso Stampato nel mese di settembre 2003 presso Europrint (Tv)

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Convegno internazionale di studio

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Venanzio Fortunato e il suo tempo

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