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Italian Pages 232 [227] Year 2016
a cura di Davide Righi Educazione, paideia cristiana e immagini di Chiesa
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collana BIBLIOTECA DI TEOLOGIA DELL’EVANGELIZZAZIONE diretta da Maurizio Marcheselli La collana pubblica studi e ricerche maturate nell’ambito della Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. Essa ospita indagini di taglio teologico e culturale, biblico e storico, filosofico e sistematico in riferimento alla teologia dell’evangelizzazione. Tale orientamento è caratteristico della Facoltà teologica emiliano-romagnola, in cui a percorsi di teologia dell’evangelizzazione se ne affiancano altri interessati al momento speculativo e sistematico e altri ancora alla storia della teologia. BTE s’interessa agli aspetti «fondativi» dell’annuncio del vangelo: il concetto di evangelizzazione, i destinatari-interlocutori, il contenuto e i metodi. Al tempo stesso, e proprio per la fedeltà al binomio vangelo e cultura che determina l’ambito di una teologia dell’evangelizzazione, la collana mantiene aperto l’orizzonte sui diversi fronti in cui il fare teologia è oggi impegnato. Dire il vangelo nell’attuale contesto culturale implica un’attenzione rigorosa a cerchi concentrici, sui versanti ecclesiale, culturale, missionario, ecumenico e interreligioso. 1. E. Manicardi, Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici 2. M. Marcheselli, «Avete qualcosa da mangiare?». Un pasto, il Risorto, la comunità 3. G. Benzi, Ci è stato dato un figlio. Il libro dell’Emmanuele (Is 6,1-9,6): struttura retorica e interpretazione teologica 4. M. Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione 5. E. Castellucci, Annunciare Cristo alle genti. La missione dei cristiani nell’orizzonte del dialogo tra le religioni 6. D. Gianotti, I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II. La teologia patristica nella Lumen gentium 7. G. Ziviani, Una Chiesa di popolo. La parrocchia nel Vaticano II. Prefazione di mons. Franco Giulio Brambilla 8. G. Sgubbi, Pensare sul confine. Saggi di teologia fondamentale. Prefazione di Pierangelo Sequeri 9. M. Tagliaferri (a cura di), Teologia dell’evangelizzazione. Fondamenti e modelli a confronto 10. D. Righi (a cura di), Educazione, paideia cristiana e immagini di Chiesa
In preparazione P. Boschini, Cristianesimo e pensiero borghese all’inizio del ’900
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a cura di Davide Righi
Educazione, paideia cristiana e immagini di Chiesa Atti del convegno della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna 29-30 novembre 2011
EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA
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Il presente volume, che raccoglie gli Atti del 6° Convegno annuale della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, è stato pubblicato con il contributo del Servizio Nazionale per gli Studi Superiori di Teologia e Scienze Religiose della Conferenza episcopale italiana.
Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze
Per i testi biblici: © 2008 Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena 2016 Centro editoriale dehoniano via Scipione dal Ferro, 4 – 40138 Bologna www.dehoniane.it EDB®
©
ISBN 978-88-10-45010-9 Stampa: Graphicolor, Città di Castello (PG) 2016
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Prefazione
I contributi che qui si offrono riproducono le relazioni offerte il 29-30 novembre 2011 in occasione del Convegno FTER curato dal Dipartimento di Storia della Teologia. Il tema Educazione, paideia cristiana e immagini di Chiesa era suggerito dal documento della Conferenza episcopale italiana Educare alla vita buona del Vangelo, con gli orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020. Alcune complicazioni della vita del Dipartimento, non ultimo l’avvicendamento di chi scrive a Daniele Gianotti, responsabile dell’organizzazione del convegno, hanno ritardato a oggi la pubblicazione degli atti, che ora si vogliono offrire senza ulteriore indugio in ossequio alla volontà dei docenti che con generosità e competenza si sono adoperati per la buona riuscita delle giornate di studio. Sono già trascorsi cinque anni e nuove lentezze esigerebbe una revisione della bibliografia di riferimento che, come si osserva, già in parte sarebbe da riconsiderare. I risultati che si desiderano divulgare non sono nel loro complesso affatto superati. Il convegno, articolato in quattro sessioni, era introdotto da un’indagine del binomio Chiesa-educazione nel presente contesto culturale. Una rivisitazione degli studi di Henri-Irénée Marrou invitava quindi a verificare l’influsso della paideia classica nel cristianesimo. Nei due momenti successivi si metteva dunque a fuoco la pratica di educare «tra Chiesa e mondo», nella concretezza della responsabilità della formazione del popolo di Dio. Di qui la successione degli articoli di Severino Dianich e di Paolo Boschini sull’orizzonte della ricerca, di Jean-Marie Salamito e di Maria Teresa Moscato, rispettivamente su Marrou e Agostino di Ippona, di Marco Settembrini, Giancarlo Giuseppe Scimè, Davide Righi, Fabrizio Mandreoli e Sergio Parenti, attenti a dinamiche presenti nelle Scritture
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Davide Righi
di Israele, in Basilio di Cesarea, nella Chiesa siriaca del VI-IX sec., nella scuola di San Vittore a Parigi nel XII sec., nelle premesse medievali della modernità, e infine gli scritti di Tullio Citrini e di Ilaria Vellani, rispettivamente sulla formazione del clero e sull’operato di Lazzati. d. Davide Righi direttore del Dipartimento di Storia della Teologia Bologna, Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna
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Evangelizzazione e educazione nella missione della Chiesa
Severino Dianich
1. Premessa Nonostante che l’opera educativa, di cui si assumono la responsabilità i singoli fedeli e le istituzioni ecclesiastiche, sia una componente importante della missione della Chiesa, l’argomento appare nella trattatistica ecclesiologica come un tema insolito. Sfogliando trattati e manuali non se ne scorge alcuna traccia. Il recente Dizionario di ecclesiologia1 non lo propone sotto un suo lemma specifico, né gli offre alcun riferimento nell’indice analitico. In un convegno della Facoltà Teologica di Palermo del 2004 su La Chiesa tra teologia e scienze umane2 non fu presentata alcuna relazione sui rapporti né della Chiesa, né dell’ecclesiologia con le scienze dell’educazione. Inutile dire che, al contrario, in molte delle ramificazioni disciplinari della teologia pastorale, il problema dell’educazione ha una presenza imponente. Sul piano della ricerca teologica generale appare fra le innumerevoli cosiddette «teologie del genitivo»: teologia della secolarizzazione, della liberazione, del corpo, dell’ecologia, del femminile, del lavoro, del dono, delle religioni, del diritto canonico ecc. È vero che si danno temi i quali, pur enunciati al genitivo, sono parte essenziale della trattatistica ecclesiologica: lo sono la teologia del laicato, del ministero ordinato, del papato, della missione, dei sacramenti ecc. Se fra queste teologie del genitivo non compare una teologia dell’educazione, non direi che si tratta di un’im-
G. Calabrese (a cura di), Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010. R. La Delfa (a cura di), La Chiesa tra teologia e scienze umane, Città Nuova, Roma 2005. 1 2
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perdonabile disattenzione degli studiosi della disciplina. Infatti, la teologia della missione porta al suo interno un’infinità di componenti diverse, proprio perché si tratta della comunicazione del vangelo all’interno di un complessivo servizio all’uomo e al bene comune: da questo punto di vista troppe «teologie del genitivo» dovrebbero costituire tanti rispettivi capitoli dell’ecclesiologia. È dal di dentro dell’antropologia, invece, che si prospetta la possibilità di una teologia dell’educazione, nell’incrociarsi delle problematiche della crescita dell’uomo con quelle, proprie della teologia morale, sulla formazione della coscienza e, quindi, con quelle della cura pastorale dei bambini e dei giovani.3 La tradizione ecclesiologica, da parte sua, si è interessata solo dei problemi le cui soluzioni vengono a determinare l’interpretazione della Chiesa nei suoi elementi costitutivi, quelli cioè che interferiscono con le problematiche dell’evangelizzazione e delle dinamiche dei sacramenti, in rapporto alla natura della Chiesa. Lo scopo di queste riflessioni, allora, non sarà l’esame critico delle questioni riguardanti i contenuti e i metodi dell’educazione religiosa in genere o dell’educazione cristiana nella linea propria della fede cattolica. I grandi e complessi problemi di carattere psicologico e pedagogico, come le interessanti questioni della didattica, che ogni educatore deve affrontare, dovranno essere affidati solo a chi ne ha la specifica competenza. Neppure qui si intende delineare un abbozzo della teologia dell’educazione, che lascio a chi studia l’antropologia teologica: in questo convegno è compito affidato a Paolo Boschini. Ciò che a me compete è collocarmi all’interno della problematica della missione della Chiesa e incontrarvi una delle sue infinite componenti, quella dell’opera educativa dei singoli fedeli, dei genitori e delle famiglie, delle comunità cristiane e delle istituzioni ecclesiastiche. Non per esaminarla nelle sue metodiche, ma per osservare criticamente come i non pochi processi di carattere educativo che, di fatto, nella lunga tradizione ecclesiale, sono stati e continuano a essere messi in opera nella Chiesa, si inseriscano nell’insieme della missione ecclesiale. Gli innumerevoli diversi processi operativi, che nel loro insieme vengono a comporre la missione, non si muovono su dei percorsi paralleli fra loro, ma in un momento o nell’altro tutti devono attraversare quello che è lo snodo del compito essenziale che giustifica la stessa esistenza della Chiesa nella storia, cioè la comunicazione a tutti gli uomini, di tutte le regioni del mondo e di tutte le generazioni, della memoria di fede in Gesù. Questo, infatti, è il nerbo portante di tutta la missione: tutte le altre attività che vi si affollano, compresa quella educativa, non sono altro che sue diramazioni. Il problema propriamente ecclesiologico è quello dei modi con cui le dinamiche della variegata opera educativa che si svolge
3 A. Martelli, «Teologia e educazione», in Note di Pastorale Giovanile XLIII(2009)3, 12-24, in particolare 14. Cf. anche G. Groppo, Teologia dell’educazione: origine, identità, compiti, LAS, Roma 1991.
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nella Chiesa si rapportano con il suo interesse originario e fondamentale, che è quello di comunicare agli uomini la fede in Gesù. La domanda che sorge all’interno della tematica dell’emergenza educativa, di cui oggi nella Chiesa italiana così impegnativamente ci si preoccupa, su quale sia il volto di Chiesa che si delinea, di fronte al mondo, in forza della sua presenza dentro il grande alveo dell’opera educativa della società civile, esige una riflessione critica tesa a rilevare le connessioni positive, così come le eventuali contraddizioni, che contrassegnano le intraprese ecclesiali nel campo dell’educazione in rapporto alla sua missione fondamentale, quella dell’evangelizzazione. È ovvio, ma è anche importante ricordarlo, che il tema dell’educazione «non è parte del contenuto fondamentale della rivelazione cristiana».4 Se è entrato nel gioco, questo è avvenuto soprattutto perché nei Paesi di antica tradizione cristiana, da più di un millennio, la Chiesa si è rigenerata di generazione in generazione attraverso il battesimo dei bambini e la comunicazione della fede all’interno della famiglia, coinvolgendo praticamente tutta la popolazione. Tutta l’impresa educativa, quindi, ha implicato anche la crescita dei bambini nella fede, che per natura sua è affidata, oltre che alla famiglia, alla comunità cristiana e alle istituzioni ecclesiastiche. Si tratta di una situazione che, per quanto sia di durata epocale, ha una natura contingente, in quanto è causa ed effetto di una società il cui ethos dominante è determinato dalla predicazione cristiana. In questo contesto l’incontro dell’uomo con il vangelo avviene lungo il processo di formazione della sua personalità, in cammino verso l’età adulta. Ben diverso è il quadro dell’evangelizzazione degli adulti. Riallacciare, quindi, troppo strettamente, al livello della concettualizzazione come a quello della prassi pastorale, i due aspetti della missione della Chiesa, rischia di bloccare l’ecclesiologia su quel modello di Chiesa, che non è affatto universale, né nel tempo né nello spazio, che è determinato dalla pratica del solo battesimo dei bambini e quindi dell’inserimento dell’incontro dell’uomo con il vangelo nel processo della sua crescita verso l’età adulta. Non sarebbe questa una piattaforma adeguata per cogliere la natura della Chiesa e del nerbo portante della sua missione, che è la proposta del vangelo a tutti e, quindi, non è interpretabile nei parametri dell’opera educativa dei bambini. Solo su questo piano la natura della Chiesa si svela nella sua rete di relazioni con il mondo, a tutti i livelli della vita della società civile, e nella condivisione con tutti della responsabilità della storia e del suo futuro. La riflessione teologica sull’opera educativa della Chiesa non può approdare a determinare di sé la forma ecclesiae nei suoi tratti costitutivi. Ciò non toglie che essa sia indispensabile e che oggi risponda a una questione tanto più attuale e complessa quanto più la società nei Paesi di antica tradizione cristiana ha assunto, e continua progressivamente
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Martelli, «Teologia e educazione», 18.
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ad assumere, una struttura sempre più secolarizzata. Ciò che in passato conservava spianata la strada all’educazione cristiana, cioè l’omogeneità culturale dell’impianto sociale e dell’ethos comune con la fede, oggi rischia di diventare, là dove ancora persiste e si cerca di sostenerlo, terreno di sabbie mobili. Il percorso della fede viene «in un certo senso anestetizzato quando è messo in atto dentro un contesto culturale in cui la Chiesa è oggetto di riconoscimento sociale e quindi anche di omologazione, e quando viene rivolto a adulti che aderiscono a questa Chiesa per tradizione sociologica».5 Anche la componente della missione consistente nell’opera educativa, come tutte le altre, ha bisogno di trovare cammini ed espressioni nuove e diverse, affinché nella situazione mutata possa coordinarsi in un valido equilibrio con quello che è il suo scopo essenziale, cioè la testimonianza da rendere alla fede nel vangelo di Gesù, come vero principio di salvezza per l’uomo e per la storia.
2. Evangelizzazione
e educazione
L’evento dell’evangelizzazione non ha il suo modello autentico nella crescita del bambino nella fede, ma nella comunicazione della fede all’adulto. Ora, a parte la difficoltà di parlare di educazione fra adulti, se l’educazione si può definire come il «metodico conferimento e apprendimento di principi intellettuali e morali, validi a determinati fini, in accordo con le esigenze dell’individuo e della società»,6 l’evangelizzazione non può essere pensata come un processo educativo. La comunicazione della fede, infatti, è trasmissione da parte del credente al non credente della sua personalissima esperienza di accoglienza di una grazia di Dio, per la quale egli aderisce a Gesù come al signore della sua esistenza, la cui memoria, trasmessa da persona a persona, a partire dai primi testimoni di lui, egli ora sta comunicando al suo interlocutore. L’efficacia dell’atto comunicativo non è attesa dall’efficienza dello strumento linguistico o dall’adeguatezza del metodo comunicativo, ma solo dall’eventuale felice intreccio dell’azione divina della grazia con la disponibilità interiore dell’uomo ad accoglierla.7 C’è una sorta di sacramentalità dell’atto evan-
5 E. Biemmi, «Catechesi e iniziazione cristiana. Una sfida complessa», in La rivista del clero italiano 93(2012)1, 59. 6 G. Devoto – G.C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1990. Il Dizionario della lingua italiana di Sabatini – Coletti definisce l’educazione «Trasmissione di valori morali e culturali da una generazione all’altra». 7 Riconosco che ha ragione Massimo Nardello quando, intervenendo nella discussione seguita alla mia esposizione orale e ricordando la teologia di Rahner, Alfaro e De Lubac, ha insistito sul fatto che la grazia del Cristo opera anche là dove si educa per umanizzare autenticamente le persone, anche se questo non avviene in un contesto di fede consapevolmente professata. È sempre per grazia, anche quando non si evangelizza, che si aiutano le persone a crescere, sia pure solo sul piano umano. Ritengo però che, ricordando ancora Karl Rahner, resti utile, quando si parla dell’opera di evangelizzazione, collocare il termine sul piano categoriale e non su quello trascendentale, perché solo su questo piano possiamo
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gelizzatore, il cui effetto è sempre sproporzionato e poco condizionato dall’efficienza comunicativa del locutore. La fede, quindi, non può essere ritenuta frutto di un processo educativo e le caratteristiche di questo singolare atto che è la comunicazione della fede lo confermano.8 Se è così, non è possibile parlare di «educazione alla fede», ma solo di «educazione del credente nella fede».9 La prima professione di fede in Gesù che sia mai stata pronunciata, quella sulla bocca di Pietro, narrata in Mt 16,16s, fu esaltata dal Signore «perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli». Paolo è netto nel distinguere il suo rapporto di portatore del vangelo con coloro che hanno aderito alla fede da quello dei loro maestri che li aiutano a crescere nella fede: «Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo».10 La mia insistenza sulla distinzione dei due concetti è dovuta anche alla preoccupazione per la diffusa abitudine a usare il termine evangelizzazione in un senso generico, nel quale è possibile includere qualsiasi operosità ecclesiale. Questo accade perché, quando una popolazione nella sua grande maggioranza è composta di battezzati, si parte dall’inconscio presupposto che il destinatario della missione della Chiesa sia, sempre e comunque, un credente che ha ricevuto il battesimo da neonato. Stenta a entrare nel quadro mentale del cattolico medio europeo l’idea di una società davvero pluriculturale e plurireligiosa, come di fatto è quella in cui viviamo. Ora è vero che i credenti hanno bisogno di essere sempre rievangelizzati. Però l’evangelizzazione vera e propria è un’altra cosa: è la comunicazione della fede ai non credenti, dovunque si trovino e vivano, siano fedeli di altra religione, agnostici o atei da sempre o diventati tali, pur se già battezzati. Per queste ragioni la Chiesa di oggi sente imperioso il bisogno che l’evangelizzazione vera e propria, nella chiarezza del suo vero e più decisivo significato, ritorni a essere il centro della sua missione. Trarne le conseguenze per l’impostazione dei programmi educativi della Chiesa non è cosa facile: anche il documento della Conferenza episcopale italiana Educare alla vita buona del vangelo tradisce la difficoltà dell’impresa; la problematica della missione educatrice della Chiesa vi è affrontata senza tratteggiare con chiarezza l’atteggiamento da tenere nei confronti di bambini battezzati e già educati nella fede, di quelli che sono stati battezzati ma non hanno ricevuto dalla famiglia l’annuncio della fede, degli adolescenti ai quali i genitori impongono di accedere alla
condurre un’analisi della prassi, giacché ciò che avviene solo sul piano misterico sfugge ad ogni nostra analisi e verifica. 8 F. Pajer, «Le teorie contemporanee dell’educazione religiosa. Una ricognizione sintetica», in Religio: enciclopedia tematica dell’educazione religiosa, Piemme, Casale Monferrato 1998, 275-314. 9 CEI, Educare alla vita buona del vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n. 37, in Il Regno. Documenti 55(2010)19, 615s. 10 1Cor 4,15.
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cresima ma della cui adesione alla fede è possibile dubitare, dei giovani che chiedono il sacramento del matrimonio ma di cui uno, pur già battezzato, non è più credente, e così via. La stessa distinzione fra l’opera della Chiesa di educazione nella fede dei credenti e la cooperazione che essa offre alla società civile all’interno e a fianco delle sue istituzioni destinate all’educazione non vi è disegnata con chiarezza. Il modello imperativo di ogni riflessione sull’evangelizzazione è e deve restare quello della comunicazione della fede all’adulto non credente, pena l’innescarsi di tutta una catena di equivoci. Detto questo, nessuno potrebbe ignorare che, nell’esperienza di moltissime Chiese, la prassi dell’evangelizzazione di gran lunga più diffusa è intrecciata alla prassi dell’educazione dei bambini e dei giovani. Ora, la comunicazione della fede, che il battezzato da bambino riceve nella primissima infanzia, sta semplicemente nella trasmissione di un sentimento religioso, che è assimilabile alla fede in quanto, nella famiglia credente, è «legato alle esperienze vissute in famiglia». Infatti, nella cultura del gruppo primario di appartenenza in molte di esse si evidenzia un’analogia comportamentale e simbolica tra vita familiare e vita religiosa […]. Il comportamento dei genitori funge da modello: il bambino assume spontanea mente i valori religiosi familiari, si conforma ad essi, li vive rinsaldando il suo rapporto con i genitori, attiva quindi un’identificazione alla loro religione.11
Il linguaggio della comunicazione non è quello logico-concettuale, bensì quello simbolico, nell’ampiezza e pregnanza del termine. Bernard Lonergan, nelle sue lezioni di Cincinnati del 1959 sull’educazione, descriveva con acutezza la potenza comunicativa del linguaggio comportamentale: Con il significato simbolico noi raggiungiamo un punto, per molti versi, di fondamentale importanza. Nel simbolico si ha una coscienza che oggettiva, che rivela, che comunica […]. Il simbolo non dà prove, ma rinforza il suo enunciato con la ripetizione, la variazione e tutte le arti della retorica. […] Nel simbolo c’è una condensazione, una sovrabbondanza. […] Se si apprende ciò che è inteso con il simbolico e con l’artistico, si ha un’apprensione della realtà dietro l’astrazione delle «figure del discorso». Queste sono una costruzione riflessiva dei grammatici i quali proprio non comprendono perché la gente viva e parli nel modo da loro considerato manifestamente irrazionale. Ma il vero significato del simbolo, della metafora, della sineddoche, e tutto il resto, è il flusso normale della coscienza simbolica.12
Ora, il linguaggio comportamentale e simbolico complessivo della famiglia cristiana contiene ed esprime i dati fondamentali della fede in
R. Finamore, «Dinamiche», in Religio, 341-366, qui 344-346. B. Lonergan, Sull’educazione: le lezioni di Cincinnati (1959) sulla Filosofia dell’educazione, a cura di N. Spaccapelo – S. Muratore, Città Nuova, Roma 1999, 313s (trad. it. da Collected Works of Bernard Lonergan, 10: Topics in Education: The Cincinnati Lectures of 1959 on the Philosophy of Education, University of Toronto Press, Toronto 1988). 11 12
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Cristo, indipendentemente dalla comunicazione verbale propria della catechesi. Così l’esperienza rituale della famiglia, soprattutto nelle feste familiari e nell’utilizzazione spontanea di molti elementi di una simbolica ecclesiale, costituisce di fatto un primo campo comunicativo dei contenuti della fede cristiana, in un senso ben determinato, e non solo delle componenti di una qualsiasi esperienza religiosa. Si può dire, quindi, che in maniera preconcettuale lo stesso kerygma è del tutto implicito nell’immissione del bambino nell’esperienza credente dei genitori. Sarà in seguito la catechesi a comportare processi di oggettivazione dell’esperienza di fede nello squadernamento dei contenuti già vitalmente creduti. Questa, propriamente parlando, non è destinata a comunicare la fede, ma la presuppone: essa fa sviluppare al bambino, con tutta la sua ricchezza, l’esperienza simbolica già vissuta, giovandosi di tutta l’ampia gamma dei diversi linguaggi, da quello narrativo a quello di una prassi testimoniale più ampia di quella familiare a quello logico-concettuale. L’evangelizzazione degli adulti, invece, presenta delle analogie piuttosto con i processi dell’insegnamento, che sono parte essenziale dell’opera educativa, dal punto di vista della trasmissione di conoscenze su Gesù, la sua vita e il suo messaggio. Ciò nonostante, l’agire comunicativo dell’evangelizzazione non può essere assimilato a quello di un’azione educativa. L’adulto non cristiano, infatti, può accettare che un cristiano intenda «convertirlo», ma non che intenda «educarlo». La proposta di una conversione, infatti, contiene il progetto di una nuova impostazione di vita, che l’adulto, se lo vorrà, accoglierà con una sua libera decisione personale. Se non l’accoglierà, non potrà essere giudicato un immaturo che ha bisogno di essere educato. Proporre la fede al modo di un’azione educativa mette il destinatario in una condizione di minorità. Ora non si può ignorare che il manifesto kantiano dell’illuminismo, inteso come uscita dell’uomo dalla «incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro», e il proclama «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!»,13 hanno determinato a fondo la nostra cultura e la sensibilità diffusa dell’uomo occidentale. Impostare un rapporto di guida nei confronti di un adulto nel cammino della fede sarà da lui accettabile solo dopo che egli avrà preso la sua decisione di credere; a quel punto egli se ne riconoscerà bisognoso, accogliendo senza difficoltà l’esortazione dell’apostolo: «Come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza».14 Se vogliamo distinguere l’atto comunicativo del vangelo da una qualsiasi asettica trasmissione di idee riguardanti la fede cristiana, anche nel caso dell’adulto ci troviamo di fronte a un agire comunicativo complesso per la variopinta rete del linguaggio simbolico che inevitabilmente è prevalente. Ciò che è sorprendente è che, se esaminiamo i grandi testi
13 I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? [1784], in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto di Immanuel Kant, UTET, Torino 1965, 141. 14 1Pt 2,2.
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della tradizione e del magistero, li troviamo reticenti nell’offrire a chi evangelizza una precisazione del contenuto minimo, concettualmente elaborabile ed esprimibile, sul quale l’interlocutore, nell’accogliere la fede, porrà il suo assenso.15 Le precisazioni abbondano, a cominciare dai testi liturgici della celebrazione del battesimo, ma per la fase successiva alla decisione di credere. Le definizioni concettualmente elaborate sembrano destinate a garantire la regola dell’ortodossia della fede, che si dovrà rispettare in seguito, più che a precisare il contenuto dell’atto di fede originario. In realtà è impensabile che un adulto possa ritenersi ed essere ritenuto un cristiano se ignora tutto di Gesù e nulla percepisca del suo mistero di Figlio di Dio vivente in carne umana. Sembra giocoforza, però, ritenere che egli possa averne una conoscenza di carattere immediato e pragmatico, consistente nella sincera partecipazione all’esperienza di quei credenti dai quali ha ricevuto la fede, ma tale da non essere in grado di esprimerla in un linguaggio logico-concettuale. È in altri termini ciò che i medievali dicevano quando parlavano di fides maiorum e di fides minorum.16 Né mai converrebbe dimenticare la celebre affermazione di san Tommaso: «Actus autem credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem»,17 e la res è ben di più degli enunciati da trasmettere. La differenza dall’insegnamento è profonda: è vero che anche nell’insegnamento si dà una potenza comunicativa derivante dalla personalità del docente e dal rapporto interpersonale di carattere emotivo che questi instaura con l’allievo, ma questa mai e in alcun modo potrebbe sopperire alle sue eventuali carenze della competenza o alle deficienze metodologiche. Il contrario accade nella comunicazione della fede, dove la competenza nella trasmissione dei contenuti mai potrebbe sopperire a una sua eventuale carenza di convinzione e alla mancanza di passione per Cristo e per il suo progetto di vita. La costante attenzione alla distinzione dei concetti di evangelizzazione e di educazione sarà preziosa anche per sciogliere alcuni nodi molto delicati dell’intreccio fra l’opera dell’evangelizzazione e il servizio educativo che la Chiesa offre alla società, soprattutto nell’ambito dell’istruzione e soprattutto nei Paesi che non hanno una tradizione cristiana, in modo da dare con evidenza a questo servizio il suo naturale indirizzo al bene comune di un popolo e non al bene proprio della Chiesa. Basti ricordare che, anche secondo l’Intesa del 1985 e la sua revisione del 1990 tra il Ministero della pubblica istruzione e la Conferenza episcopale italiana, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole dello Stato deve
15 Ne ho documentato l’assenza nelle testimonianze della prassi antica e nelle attuali norme canoniche e liturgiche nel mio saggio «Cosa si deve credere per diventare cristiani», in Ad gentes II(1988)2, 133-153. 16 Cf. in Tommaso d’Aquino l’articolo 6: STh II-II, q. 2 e in particolare l’ad 1: «Explicatio credendorum non aequaliter quantum ad omnes est de necessitate salutis, quia plura tenentur explicite credere maiores, qui habent officium alios instruendi, quam alii». 17 Tommaso d’Aquino, STh II-II, q. 1, a. 2, ad 2.
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Evangelizzazione e educazione nella missione della Chiesa
«collocarsi nel quadro delle finalità della scuola».18 Se la Chiesa si attribuisce, come afferma il concilio Vaticano II, un «compito specifico in ordine al progresso e allo sviluppo della educazione», è solo perché per il «mandato ricevuto dal suo divin Fondatore, che è quello di annunziare il mistero della salvezza a tutti gli uomini», essa ha «il dovere di occuparsi dell’intera vita dell’uomo».19
3. L’«iniziazione
cristiana »
Con questa espressione la letteratura pastorale dedicata all’educazione è solita indicare normalmente la crescita nella fede dei bambini e dei giovani battezzati, in rapporto alla loro graduale introduzione nella vita sacramentale. Si tratta di un processo di educazione nella fede, a partire dal presupposto che il battesimo e l’esperienza familiare abbiano fatto del bambino già un credente. Il termine «iniziazione» compare assai presto, con Clemente Alessandrino e Tertulliano,20 ma nel contesto della conversione di persone adulte alla fede e della loro introduzione nella Chiesa e nella vita sacramentale. Tutto questo, però, con preoccupata attenzione a evitare ogni accostamento agli usi pagani.21 Man mano che si allarga la cristianizzazione della società e si perviene a una forma di Chiesa che abbraccia la maggioranza della popolazione e si afferma la prassi diffusa del battesimo dei bambini, il termine «iniziazione» scompare rapidamente, per ricomparire e diffondersi nell’uso soltanto lungo il secolo scorso. La fortuna dell’opera di Odo Casel, il quale aveva recuperato il senso del mysterium alla comprensione della liturgia cristiana e aveva proposto la valorizzazione di alcuni elementi propri dei culti misterici del mondo ellenistico per l’interpretazione dei sacramenti,22 ha contribuito notevolmente al recupero e alla valorizzazione del lessico dell’«iniziazione». Ma c’è, dietro, anche la consapevolezza di una nuova situazione, nella quale si fa sempre più frequente il caso di battezzati che non sono mai stati introdotti in una vera esperienza di fede o che l’hanno abbandonata. Allora si è portati a impostare la preparazione dei bambini e dei giovani alla cresima e alla comunione eucaristica come si trattasse di un vero e proprio inizio della loro vita di fede. «Iniziazione», così, intende suggerire un cammino nel quale la persona sia coinvolta in tutte le sue potenzialità, da quelle cognitive a quelle affettive, dal gusto della verità a quello della bellezza, dalla capacità contemplativa a quella operativa, dall’area della coscienza indivi-
N. 1.1, in http://www.irc4.it/Leggi/Normativa_Insegnamento.pdf. Concilio Vaticano II, Dichiarazione sull'educazione cristiana Gravissimum educationis. Proemio: EV 1/821. 20 Protrett. 12, 120: PG 8,42; Apol. 7,7: PL 1,509. 21 Cf. A. Hamman, «Iniziazione cristiana», in Dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Casale Monferrato 1984, II, 1779-1781. 22 O. Casel, Il mistero del culto cristiano [1932], Borla, Torino-Leumann 1966. 18 19
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duale a quella relazionale e sociale. Non credo sia banale, però, data la constatata grande difficoltà della comunicazione fra la Chiesa e il mondo, suggerire la necessità di fare più attenzione ai significati che si trasmettono, al di là delle intenzioni, con l’uso di certe parole. Se consultiamo il Vocabolario della lingua italiana a cura di Devoto-Oli, troviamo che nella lingua italiana di oggi «iniziazione» significa qualcosa di assai diverso, cioè l’«ammissione nell’ambito di una conoscenza o di una pratica riservata o segreta, generalmente di contenuto religioso». L’introduzione del credente nella vita sacramentale, in realtà, non ha nulla a che fare con pratiche riservate o segrete, non comporta alcuna messa alla prova dell’adolescente, che dovrebbe dimostrare di essere degno di entrare nella comunità degli adulti. Si è accolti nella Chiesa non in forza dei propri meriti, non perché si è all’altezza della vocazione cristiana, ma perché si è attratti e sostenuti dalla grazia: la Chiesa, nella quale si viene introdotti accedendo alla fede e ricevendo i sacramenti, non è affatto una società iniziatica. Caso mai, più che l’accesso ai sacramenti, sono le procedure di ingresso in comunità ecclesiali particolari che a volte assomigliano a dei processi iniziatici, per la verifica rigorosa delle attitudini a viverne il particolare programma, per la messa alla prova dei novizi prima che possano essere accolti, per particolari rituali che restano poco noti agli estranei e per la formazione e l’uso di un particolare linguaggio, fortemente comunicativo all’interno e scarsamente all’esterno. Non ha queste caratteristiche l’accesso alla grande Chiesa, che è il popolo di Dio, né alcuno vorrà pensare che la tradizione della catechesi mistagogica, come spiegazione del rito, successiva alla sua celebrazione, volesse dire che la celebrazione del sacramento sia una specie di salto nel buio, e che al battezzato ne sarà rivelato il significato solo quando egli sarà diventato di fatto membro della comunità. Interrogativi sul carattere iniziatico dei sacramenti si possono sollevare a proposito della ritualità sacramentale, ma essi si aprono inevitabilmente sul problema dei necessari processi educativi che la preservino dal rischio di trasformarsi in un procedimento di «ammissione nell’ambito di una conoscenza o di una pratica riservata o segreta». È vero che il linguaggio sacramentale esercita la sua potenza comunicativa solo nel contesto linguistico dei credenti: soprattutto la sua componente non verbale resta priva di significato per i non credenti. Però, attraverso la parola, il segno si carica di significati fruibili da tutti: è memoria e racconto degli eventi fondatori della fede, con al centro la narrazione della vita di Gesù. Questi sono narrabili ai credenti e da loro comprensibili in tutta la pregnanza dei loro significati, ma hanno significato anche per i non credenti in quanto restano pur sempre eventi della storia dell’uomo. Affrontando i problemi dell’educazione nella fede in rapporto ai sacramenti è, quindi, necessario collegarne il valore non solo al mistero di grazia che vi si compie, ma anche alla parola che lo rivela e che non è destinata agli iniziati, ma chiede di essere considerata veicolo di comunicazione assolutamente universale. In questo senso l’educazione diretta a maturare l’esperienza
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sacramentale è educazione al dialogo e alla missione. L’ingresso nella Chiesa non è un’uscita dal mondo, ma un nuovo ingresso nel mondo, ora visto, visitato e abitato con occhi nuovi, nella visione di un cammino di ricapitolazione in Cristo di tutte le cose.23 Il carattere aperto e non iniziatico della comunità ecclesiale le impone una considerazione, priva di interruzioni e smagliature, del fatto che la potenza della grazia di Dio e l’efficacia dell’azione educativa non garantiscono a priori la futura persistenza del credente nella vita ecclesiale, e neppure la permanenza del battezzato nella fede. Tutto, infatti, dovrà anche in futuro passare attraverso il filtro della libertà del soggetto. L’appartenenza ecclesiale per la sua stessa natura, essendo fondata sulla fede, non è mai un dato acquisito, ma si costituisce di momento in momento in forza della decisione personale e libera del soggetto. Il patto con la Chiesa in nessun momento potrebbe, in forza della considerazione del battesimo ricevuto, essere forzato. Quando per qualsiasi ragione cessa l’intenzione del soggetto di appartenere alla Chiesa o di credere in Cristo, comminare la scomunica o una sentenza di apostasia risulterebbe ormai fuori contesto, perché tali atti hanno senso solo finché il soggetto intende restare membro della Chiesa. Il battezzato assente dalla vita ecclesiale, o non più credente, non è riducibile a oggetto di deplorazione da rieducare: ciò che si impone invece alla Chiesa è la ripresa del compito fondamentale della missione ecclesiale, cioè della proposta e dell’instancabile riproposta della fede, in uno spirito di fraternità e nel pieno rispetto delle personali decisioni di ciascuno. Educare nella fede i battezzati non è quindi un’impresa che si conclude in una cooptazione rassicurante all’interno di una casa autosufficiente. Il cristiano infatti riceve la grazia dei sacramenti nella Chiesa per essere inviato in missione. Oltre a questa considerazione, bisogna anche aver chiaro che il processo di educazione nella fede non approda ad alcun punto d’arrivo che possa essere considerato, da allora in poi e per sempre, fuori discussione. Coloro che sono passati attraverso questo processo che si vuol chiamare «di iniziazione», infatti, non si ritrovano affatto rinchiusi in una comunità iniziatica, ma continuano a essere padroni della loro libertà e solo fruendo della stessa libertà che caratterizza l’originale atto della fede essi sono in grado di restare realmente nella fede e vivere la loro appartenenza ecclesiale. La soglia della Chiesa non divide il mondo in due, sì che colui che non l’attraversa debba essere considerato un estraneo e colui che l’ha attraversata ne sia diventato un ostaggio. L’uomo contemporaneo è così geloso della sua individualità e della sua libertà, che mai potrebbe aprirsi con simpatia a una Chiesa che non gliene garantisse il rispetto. Riflettere sull’educazione conservando il discorso sempre sullo sfondo della missione ecclesiale della comunicazione della fede ai non credenti
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Gv 17,15; Ef 1,10.
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e agli uomini di altre fedi, comporta spontaneamente uno spostamento di accento dall’impegno dell’educazione alla vita sacramentale dei battezzati alla cura del rapporto con coloro che non hanno mai ricevuto il vangelo o hanno perso la fede in Cristo. Non perché non sia da prendere sul serio l’emergenza educativa di cui oggi si parla, ma perché è cambiato il volto spirituale della popolazione europea, che non percepisce più come cosa ovvia la sua appartenenza alla Chiesa, né vive quasi fisiologicamente nell’alveo della tradizione cristiana. In una società non più compatta intorno alla tradizione cristiana ma pluralista, enormemente frammentata, liberale e democraticamente governata, non si possono affidare le sorti del vangelo solo al battesimo dei bambini e alla successiva catechesi di giovani e adulti. Il concilio Vaticano II ha inteso imprimere alla Chiesa una svolta nel suo rapporto con il mondo, perché ha percepito che, per aprirsi la via alla comunicazione del vangelo, bisognava uscire dal plurisecolare conflitto della Chiesa con la cultura moderna, abbandonando l’idea di dover ripristinare la societas christiana, per rivolgere il messaggio alla libera accoglienza delle coscienze. I padri conciliari sanno benissimo che dalla concentrazione della missione nel suo contenuto religioso «scaturiscono compiti, luce e forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina», ma allo stesso tempo sono consapevoli che la Chiesa «cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena». Per questo essa non pretende di coprire tutto lo spazio della società civile, ma guarda «con grande rispetto tutto ciò che di vero, di buono e di giusto si trova nelle istituzioni, pur così diverse, che l’umanità si è creata e continua a crearsi». È consapevole di ciò che essa può dare alla società, ma allo stesso tempo «non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano». Guardandosi indietro, i padri conciliari ricordano che la Chiesa, «fin dagli inizi della sua storia, imparò a esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: e ciò allo scopo di adattare il vangelo, nei limiti convenienti, sia alla comprensione di tutti, sia alle esigenze dei sapienti», fondando così la loro convinzione che «l’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa».24 Come si possa scoprire la verità di queste affermazioni proprio nel campo dell’educazione lo mostrano molto bene gli studi sui padri e su alcuni autori medievali che sono presentati in questo medesimo convegno di studio.
24 Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes [GS], nn. 40, 42, 44: EV 1/1442ss.
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4. Educazione e missione della C hiesa nella società contemporanea
In questo ambito, che il concilio auspica sgombro da tensioni di conflittuali concorrenze, si collocano le opere educative della Chiesa non destinate esclusivamente alla crescita nella fede dei bambini e dei giovani battezzati, ma a servire il bene comune in armonia e collaborazione con le istituzioni civili. Questo aspetto della missione della Chiesa non è al servizio di quello che è il suo scopo fondamentale, l’evangelizzazione, ma ne costituisce un risvolto essenziale. La comunicazione della fede cristiana, infatti, non consiste solo in parole ma, come la rivelazione originaria, anch’essa «comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole».25 Il racconto di ciò che Dio ha operato nella persona di Gesù, dal di dentro della sua vicenda umana, avviene anche prolungando nelle opere il servizio che Gesù ha inteso rendere all’umanità, nel suo amore per i peccatori, per i poveri, per gli emarginati e nella sua considerazione dei bambini, i veri ultimi nella società del suo tempo. Qualsiasi forma di dedizione dei cristiani e delle istituzioni ecclesiastiche al bene comune del popolo, in mezzo al quale vivono e operano, anche là dove il vangelo non può essere detto in parole, è, così, vero dispiegamento della rivelazione del mistero di Dio. Gravissimum educationis, n. 9, dopo avere presentato la forma ideale della scuola cattolica, si preoccupa di notare che essa «in base alle situazioni locali può assumere varie forme» e che «la Chiesa ha sommamente a cuore anche quelle scuole cattoliche le quali, specie nei territori di missione, son pure frequentate da alunni non cattolici», pensando all’urgenza in molti Paesi di offrire alla popolazione «istituti destinati all’alfabetizzazione degli adulti, allo sviluppo dei servizi sociali e a coloro che per difetti naturali abbisognano di assistenza particolare» e di «venire incontro soprattutto alle necessità di coloro che non hanno mezzi economici o sono privi dell’aiuto e dell’affetto della famiglia o sono estranei al dono della fede». Sulla stessa lunghezza d’onda, Ad gentes, n. 12, afferma che le attività educative della Chiesa vanno considerate non semplicemente come un mezzo privilegiato per la formazione e lo sviluppo della gioventù cristiana, ma insieme come un servizio di primaria importanza per gli uomini e specialmente per le nazioni in via di sviluppo, in ordine all’elevazione della dignità umana e alla preparazione di condizioni più umane (EV 1/1114).
25 Concilio Vaticano ii, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum, n. 2: EV 1/873.
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A questo compito sono chiamate le famiglie cristiane e tutti i fedeli, ciascuno a seconda dei suoi carismi e dei ruoli che ricopre nella società, sia all’interno delle istituzioni civili sia attraverso le istituzioni ecclesiastiche. Si pensi alla responsabilità dei cristiani attivi nella politica, dirigenti statali preposti all’istruzione, docenti di ogni tipo e grado di scuola. Curare l’educazione dei propri cittadini è funzione essenziale della comunità civile e la Gaudium et spes le riserva ampio spazio, non solo nel capitolo dedicato alla famiglia e in quello riguardante la promozione della cultura, ma vi ritorna quasi in tutte le sue pagine. Se la Chiesa è partecipe insieme con tutti gli uomini del cammino dell’umanità, per il concilio è naturale che essa si senta implicata e corresponsabile della crescita umana armoniosa dei giovani e della loro maturazione morale e civile, soprattutto in ordine all’auspicato sviluppo di una diffusa coscienza sensibile ai problemi della giustizia e aperta al dialogo, all’interno della nazione e fra le nazioni, in vista della costruzione della pace.26 Questo modo di impostare la missione della Chiesa nel campo dell’educazione non viene dalla sua tradizione, così come essa è maturata dal primo medioevo fino al sorgere della modernità. In tutte le civiltà antiche, infatti, che erano fondate su di un impianto sacrale, la scuola e il tempio erano una cosa sola. Questo carattere sacro dell’educazione, delle sue strutture e dei suoi metodi è persistente anche nella societas christiana, fino a che, a un certo punto, «figlia primogenita della Chiesa, la scuola passa agli ordini del sovrano».27 Ciò nonostante, dato che anche lo Stato nazionale moderno, con le sue monarchie assolute, ha amato vestire i panni della sacralità, il sistema dell’istruzione ha continuato a vivere a lungo in un’aura religiosa. Quando poi cominciò ad affacciarsi all’orizzonte quella che gli storici dell’educazione hanno chiamato «la nuova educazione», si aprì un vero e proprio campo di battaglia fra la Chiesa e le correnti più innovative della cultura moderna. Anche uno spirito illuminato come John Henry Newmann, il quale ha riflettuto a lungo sull’argomento, ha combattuto vigorosamente, con i suoi discorsi e i suoi scritti, contro l’avvento nel Regno Unito di un nuovo sistema dell’istruzione universitaria, che partiva dall’istituzione dei mixed colleges e si presentava sotto l’emblema della Godless University. Un sistema di istruzione pubblica liberale, aconfessionale, areligioso per Newmann era semplicemente cosa assurda. In un discorso del 1852 egli affermava che «la cosiddetta università che rifiuti di professare il Credo cattolico è, per sua stessa natura, ostile sia alla Chiesa sia alla filosofia».28 Eravamo al tempo in cui il magistero papale condannava qualsiasi forma di educazione che
GS 74, 75, 82 e 89. G. Mialaret – J. Vial (a cura di), Storia mondiale dell’educazione, 1: Dalle origini al 1515, Città Nuova, Roma 71986. 28 J.H. Newmann. Scritti sull’Università, a cura di M. Marchetto, Bompiani, Milano 2008, 1475. Cf. S. Rothblatt, The Modern University and Its Discontents: The Fate of Newman’s Legacies in Britain and America, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1997. 26 27
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non fosse sottoposta all’autorità della Chiesa. Pio IX nella Quanta cura del 1864 scriveva: Con tali empie opinioni e macchinazioni codesti fallacissimi uomini intendono soprattutto eliminare dalla istruzione e dalla educazione la dottrina salutare e la forza della Chiesa cattolica, affinché i teneri e sensibili animi dei giovani vengano miseramente infettati e depravati da ogni sorta di errori perniciosi e di vizi.
Non poteva quindi mancare nel Sillabo la condanna della tesi secondo la quale può approvarsi dai cattolici quella maniera di educare la gioventù, la quale sia disgiunta dalla fede cattolica e dall’autorità della Chiesa e miri solamente alla scienza delle cose naturali, e soltanto o per lo meno primieramente ai fini della vita sociale.29
Così, in difesa di questi princìpi, si veniva configurando un particolare modello all’interno del sistema pubblico dell’istruzione, quello della scuola confessionale, nella contrapposizione rigorosa di un sistema di educazione incentrato sulla verità della fede, considerato alternativo a qualsiasi altro sistema. Parlare di scuola confessionale, infatti, a proposito della tradizione precedente, sarebbe improprio, perché nessuna contrapposizione di questo genere era pensabile quando quel perno della fede, intorno al quale ruotava tutto il sistema educativo, era il medesimo intorno al quale si organizzava tutto l’ordinamento della società e si articolava l’ethos intero di un popolo. Risalendo invece all’epoca dei padri, prima che maturasse l’assetto culturale e sociale tipico della societas christiana, come risulta dalle relazioni degli esperti in questo stesso convegno, la linea educativa delle comunità cristiane era quella di una prassi, nella quale il giovane cristiano poteva tranquillamente ricevere la sua educazione in una qualsiasi scuola pubblica, nella quale l’istruzione era quella della classicità pagana. La guida spirituale della Chiesa doveva poi formare i giovani a discernere in quel patrimonio culturale ciò che era compatibile con la fede cristiana da ciò che invece non lo era. È curioso osservare che, se nel mondo antico ci fu un sistema scolastico che si volle di tipo – che oggi chiameremmo – confessionale, lo fu nel V secolo quello instaurato dalle riforme dell’imperatore Giuliano, detto l’Apostata: nella sua politica di ripristino del vecchio paganesimo, come fattore di coesione dell’impero di fronte al pluralismo determinato dalla presenza dei cristiani, egli emanò dei provvedimenti legislativi che proibivano ai cristiani di insegnare nelle scuole pubbliche, imponendo a tutto l’impero un sistema educativo fondato sulla tradizione pagana.30
EE 2/509.535. Sono grato al prof. Guido Bendinelli che mi ha fornito questa indicazione. Cf. A. Gallinari, Pensiero politico-educativo dell’imperatore Giuliano l’Apostata, Garigliano, Cassino 29 30
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È ciò che, in maniera rovesciata ma analoga, farà la Chiesa, quando, perduto il potere di determinare nello Stato laico il sistema dell’istruzione pubblica, intenderà preservare i propri fedeli da un’educazione laica e aconfessionale, che essa sentirà radicalmente alternativa,31 istituendo proprie scuole, che saranno statutariamente garantite nell’ortodossia dell’insegnamento e nella disciplina morale dalla stessa autorità ecclesiastica.32 La creazione della scuola confessionale cattolica fu in realtà, almeno per i Paesi di antica tradizione cristiana, solo un ripiegamento tattico, perché, dal punto di vista della posizione di principio, per il magistero della Chiesa lo Stato stesso avrebbe dovuto mantenersi garante della forma cristiana dell’educazione, come l’unica realmente valida e legittima.33 Si può ancora osservare un residuo di questa posizione in Italia, vigente grazie al Concordato del 1929 fino alla sua revisione del 1984, in quell’articolo 36, nel quale lo Stato riconosceva l’insegnamento della dottrina cattolica come il «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica».34 Stava sullo sfondo la dottrina per la quale la Chiesa non è solo la depositaria della verità rivelata, ma è anche deputata da Dio a essere l’unica e autentica interprete di quella legge naturale che si impone alla coscienza di tutti. Quest’ultima caratterizzazione della sua missione rendeva di fatto impraticabile in linea di principio il riconoscimento da parte della Chiesa del diritto dei singoli e delle famiglie, che lo Stato laico invece riconosceva, a godere dell’istruzione pubblica, senza doversi sottoporre a un sistema educativo fondato sulla dottrina della Chiesa cattolica. In linea di fatto si accettava un atteggiamento di tolleranza. In ogni modo ne veniva oscurato quell’essenziale aspetto di
1995; E. Germino, Scuola e cultura nella legislazione di Giuliano l’Apostata, Jovene, Napoli 2004. 31 Pio XI proibirà ai cattolici «la frequenza delle scuole acattoliche, o neutrali, o miste, quelle cioè aperte indifferentemente ai cattolici e agli acattolici, senza distinzione», ritenendo impraticabile «quella scuola mista (peggio, se unica a tutti obbligatoria), dove, pur provvedendosi loro a parte l’istruzione religiosa, essi ricevono il restante insegnamento da maestri non cattolici in comune con gli alunni acattolici» (Divini illius magistri: EE 5/497499). 32 La Lettera della Congregazione per l’educazione cattolica del 5 maggio 2009, al n. 6 (in http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/documents/rc_con_ ccatheduc_doc_20090505_circ-insegn-relig_it.html) precisa che «una scuola cattolica si caratterizza dal vincolo istituzionale che mantiene con la gerarchia della Chiesa, la quale garantisce che l’insegnamento e l’educazione siano fondati sui principi della fede cattolica e impartiti da maestri di dottrina retta e vita onesta». 33 «Come non può darsi vera educazione che non sia tutta ordinata al fine ultimo, così, nell’ordine presente della Provvidenza, dopo cioè che Dio ci si è rivelato nel Figlio Suo Unigenito, che solo è “via e verità e vita”, non può darsi adeguata e perfetta educazione all’infuori dell’educazione cristiana. […] Ogni insegnamento, al pari di ogni azione umana, ha necessaria relazione di dipendenza dal fine ultimo dell’uomo, e però non può sottrarsi alle norme della legge divina, di cui la Chiesa è custode, interprete e maestra infallibile» (Divini illius magistri: EE 5/447). 34 Concordato fra la Santa Sede e l’Italia: AAS 21(1929), 291.
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decisione libera e personale che caratterizza la proposta della fede e si andava alimentando la divaricazione con la cultura liberaldemocratica, mentre andava crescendo la diffidenza di molti anche nei confronti della stessa proposta della fede.35 Nel frattempo maturava negli studi e nei dibattiti sui problemi dell’educazione il movimento promotore di quella che si chiamò un’«educazione nuova per un mondo nuovo». Sempre di più si sentiva la necessità di sviluppare in modo originale il modello educativo tradizionale e le sue istituzioni per adattarle a sopravvenute trasformazioni della società, o di modificarle profondamente in qualche suo [sic!] aspetto (contenuti – metodi – sistemi di valutazione) o di sostituirlo [sic!] con un modello del tutto diverso.36
Si trattava di rapportare i processi educativi a una cultura ormai fortemente determinata dagli sviluppi della scienza, dai processi di industrializzazione, dall’avvento dell’istruzione di massa. Si sentiva soprattutto la necessità di mettere il soggetto da educare al centro dell’attenzione, con le sue esigenze particolari e considerandolo inserito nella rete delle sue proprie relazioni sociali. Il dibattito si era spostato ormai dal piano politico, sul quale il magistero cattolico lungo l’Ottocento aveva tentato di opporsi al corso degli eventi, al piano dei contenuti, dei metodi e di una vera e propria filosofia dell’educazione. Pio XI, nella Divini illius magistri del 1929, quasi collocandosi all’esterno, osserverà il movimento ancora con sospetto, parlandone con ironia: In verità, non mai come ai tempi presenti si è ragionato tanto di educazione; onde si moltiplicano i maestri di nuove teorie pedagogiche, si escogitano, si propongono e discutono metodi e mezzi, non solo a facilitare, ma a creare una educazione nuova di infallibile efficacia, la quale valga a formare le nuove generazioni per l’agognata felicità su questa terra.37
Per un giudizio storico corretto di questa posizione del papa, però, non bisogna dimenticare che eravamo nel 1929 e che la posta in gioco non era tanto quella di una presa di posizione nei dibattiti sulla filosofia dell’educazione, bensì quella di una risposta alla drammatica sfida dei regimi dittatoriali, che si arrogavano il potere esclusivo dell’educazione della gioventù, ai fini di compattare l’intera società intorno al capo, al partito e all’ideologia. Contrapporre al potere statale l’affermazione di principio dei diritti della famiglia e della Chiesa significava, quindi, in quella situazione, difendere la dignità della persona umana e la libertà dell’educazione. Nella nuova situazione, invece, creatasi dopo la seconda guerra mondiale, risultò imperioso il bisogno di affer-
Cf. S. Dianich, Chiesa e laicità dello stato, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011. G. Giugni, «Educazione nuova per un mondo nuovo», in G. Mialaret – J. Vial (a cura di), Storia mondiale dell’educazione, 4: Dal 1945 ai nostri giorni: metodi e tecniche, Città Nuova, Roma 1988, 9-17. 37 Divini illius magistri: EE 5/445. 35 36
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mare il primato dei diritti della persona umana, e in particolar modo del soggetto, cioè del bambino e del giovane, anche nel campo dell’educazione. Il movimento della «nuova educazione» trovava così solenni conferme nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo emanata dall’ONU nel 1948, nella quale all’articolo 26 si dichiarava che l’opera educativa deve tendere «al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Vi si precisava inoltre che «essa deve favorire la comprensione, la tolleranza e l’amicizia fra le nazioni e tutti i gruppi razziali o religiosi». Non stupisce quindi che, nonostante il prolungarsi dei conflitti sul piano politico, molti cattolici abbiano accompagnato con favore, a fianco delle diverse correnti pedagogiche laiche, idealistiche e marxiste, il movimento.38 Nel 1959 un pensatore come Bernard Lonergan, di indubitabile fede cattolica e fedele spirito ecclesiale, non condivideva più quelle che erano state le preoccupazioni di Newmann in ordine agli imperativi invalicabili della verità, da affermare in maniera esclusiva nell’opera educativa. La presa d’atto, infatti, dell’avvento di una società pluralista poneva in primo piano le esigenze della persona, all’interno del suo contesto culturale e sociale, con il conseguente bisogno di aprirla al riconoscimento dei valori degli altri e, attraverso il dialogo, all’operare nella società per la concordia e la pace. Di conseguenza Lonergan denunciava la debolezza di una filosofia educativa che faccia appello agli elementi immutabili delle cose, alle loro proprietà eterne, alle verità che valgono per ogni età […]. [Essa] non offre una visione, una comprensione, un principio di integrazione e di giudizio […]. Se ci si appella semplicemente a ciò che è immutabile, allora ci si appella a ciò che vale ugualmente per l’educazione dei primitivi, per quella degli antichi egizi, greci e romani, per quella degli uomini del medioevo e del rinascimento, per quella della gente dell’illuminismo del XVIII secolo e per quella dei nostri contemporanei. E questo non risponde alla sfida. Esso fonda un’educazione astratta per esseri umani astratti.39
Gradualmente, a partire dall’affermazione del valore della democrazia, riconosciuto per la prima volta da Pio XII nel 1944,40 anche il magistero della Chiesa si apriva all’accettazione della struttura laica dello Stato, non solo come di un dato di fatto purtroppo insuperabile, ma come di una condizione positiva per il rispetto della dignità umana, garantendo a tutti il godimento degli stessi diritti, nella pluralità delle fedi e delle visioni del mondo. È interessante, però, osservare come la vischiosità storica abbia determinato il linguaggio di papa Giovanni XXIII, il quale, con spontaneità, ancora nel 1961 presentava la Chiesa come «madre e maestra di tutte le genti», anche se poi l’espressione veniva
Giugni, «Educazione nuova», 18. Lonergan, Sull’educazione. 40 Pio XII, Radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1944: AAS 37(1945), 10-23. 38 39
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a sfumarsi in riferimento al suo compito di educare e governare i propri figli, «guidando con materna provvidenza la vita dei singoli come dei popoli, la cui grande dignità essa sempre ebbe nel massimo rispetto».41 Pochi anni dopo, nel 1967, Paolo VI nella Populorum progressio sente il bisogno, quasi, di giustificarsi nell’indirizzare le sue esortazioni non solo ai pastori e ai fedeli cattolici, ma «a tutti gli uomini di buona volontà»: la Chiesa, «lungi dal volersi intromettere nella politica degli stati», sentendosi «esperta in umanità», mette semplicemente a disposizione di tutti la sua più che millenaria esperienza dell’umano, con «un unico scopo: continuare, sotto l’impulso dello Spirito consolatore, la stessa opera del Cristo, venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità, per salvare, non per condannare, per servire, non per essere servito».42 Nessuno, infatti, potrebbe oggi pretendere che tutti gli uomini, credenti di altre religioni, uomini religiosi non legati ad alcuna credenza determinata, agnostici e atei, a qualunque nazione appartengano, la debbano riconoscere come madre e maestra.43 Certamente la Chiesa è madre e maestra dei battezzati che continuano a professarsi credenti in Cristo, in quanto dalla Chiesa il credente riceve la fede dalla quale è generato a vita nuova. Ma la classica immagine della Chiesa madre deve fare i conti con l’assoluta peculiarità di una maternità che, per sussistere, ha bisogno di essere desiderata e liberamente accolta e sperimentata. Se questo è vero, non le basta fondare il suo rapporto da madre a figli solo sul battesimo ricevuto: è vero che l’amore della madre sussiste anche verso coloro che la abbandonano, ma i figli ne percepiscono la maternità, e quindi ne possono accettare l’autorità, solo in quanto permangono nella fede, liberamente voluta e professata. Senza dover dire a proposito delle istituzioni civili che queste, in uno Stato laico e democratico, non possono essere caratterizzate dalla fede religiosa dei propri cittadini, neanche se questi fossero in grande maggioranza cattolici: la loro condizione di figli della Chiesa, in quanto determinata dalla loro fede, non passa dalle persone alle istituzioni. Di questo oggi la coscienza ecclesiale matura e il suo magistero sono ben consapevoli. La Chiesa, infatti, avanza due sole rivendicazioni sul sistema educativo dello Stato: il diritto di istituire e gestire scuole proprie e l’autorità di definire i «contenuti autentici dell’insegnamento della religione cattolica», in qualunque «scuola, statale o non statale, cattolica o non cattolica», in cui si intenda impartirlo.44 Determinante nella svolta è stato il concilio Vaticano II, i cui documenti si collocano, pur partendo da premesse diverse, sulla stessa linea delle acquisizioni della modernità, così come sono state espresse dalla Dichiarazione universale dei diritti
Giovanni XXIII, Mater et magistra, n. 1: EE 7/195. Paolo VI, Populorum progressio, n. 13: EE 7/659. 43 L.A. Gallo, «La comunità degli uomini in Cristo», in Religio, 189-215. 44 Lettera della Congregazione per l’educazione cattolica, nn. 13-14. 41
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umani. La Dignitatis humanae afferma, infatti, il dovere di ogni persona di cercare la verità, ma precisando che la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento o dell’educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo.45
Questa affermazione di principio si riflette immediatamente sull’impostazione dell’opera educativa della Chiesa, soprattutto quando questa si svolge al servizio di tutti, cristiani o religiosi di altre fedi o non aderenti a nessuna religione particolare. La dichiarazione conciliare Gravissimum educationis, n. 1, afferma, infatti, che «la vera educazione deve promuovere la formazione della persona umana» non solamente «in vista del suo fine ultimo», ma anche in ordine al «bene dei vari gruppi di cui l’uomo è membro e in cui, divenuto adulto, avrà mansioni da svolgere». Se il fine da perseguire è la crescita della persona, non si può perseguirne il conseguimento indipendentemente dal contesto, sia quello cristiano, sia quello di altre religioni o di un contesto non religioso, in cui essa vive. È un’esigenza che coinvolge soprattutto le attività scolastiche delle istituzioni cattoliche nei Paesi in cui pochi sono i cattolici e il soggetto da educare è destinato a vivere, anche se un giorno abbracciasse la fede cristiana, nel medesimo contesto. Questa svolta della coscienza ecclesiale a proposito delle sue opere destinate all’educazione non è altro che la conseguenza dell’evoluzione avvenuta nel modo di concepire tutta la missione della Chiesa. Resta fermo e chiaro il fatto che il suo compito essenziale è la comunicazione della fede a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutte le parti del mondo. Però la rinnovata riflessione sulla prospettiva biblica del regno di Dio, come linea interpretativa della storia dell’umanità, ha permesso di superare quella sottintesa identificazione fra Chiesa e Regno, che conduceva a pensare che il destino del mondo fosse la Chiesa e che nel cammino dei popoli e delle loro istituzioni nulla ci fosse che potesse preludere all’avvento del Regno se non convergendo nella Chiesa. Questo ha permesso l’aprirsi della sua autocoscienza all’idea che essa è uno strumento al servizio del mondo in vista del Regno. Questo sentirsi «segno e strumento» della salvezza del mondo, nella Lumen gentium, si dirama in due direzioni: la Chiesa deve porsi al servizio degli uomini, come segno e come strumento «dell’intima unione dell’uomo con Dio» e, poi, deve essere un segno indicatore e uno strumento efficiente dell’auspicato cammino del
45 Concilio Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, n. 3: EV 1/1048. Cf. anche GS 28: «Il rispetto e l’amore deve estendersi pure a coloro che pensano o operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose, poiché con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei loro modi di vedere, tanto più facilmente potremo con loro iniziare un dialogo».
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mondo verso «l’unità di tutto il genere umano».46 Nella prima direzione si colloca il nucleo strettamente religioso della sua missione, nella seconda il suo impegno per la riconciliazione, la giustizia e la pace. Il suo compito di donare agli uomini la fede si congiunge in tal modo con il servizio che essa è chiamata a rendere al bene comune in ogni Paese in cui vive, quindi anche con la sua cooperazione, all’interno della società civile, a quell’opera educativa che, secondo la solenne intesa fra le nazioni che hanno sottoscritto la Carta dei diritti dell’uomo, deve tendere «al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», con l’intento specifico di «favorire la comprensione, la tolleranza e l’amicizia fra le nazioni e tutti i gruppi razziali o religiosi». Pur con il suo statuto confessionale, in questa prospettiva si colloca anche la scuola cattolica, ben in grado di attingere dal vangelo l’ispirazione necessaria per coniugare la sua testimonianza a Gesù Cristo con il suo servizio nel campo dell’educazione, offerto generosamente a beneficio della crescita umana dei bambini e dei giovani, soprattutto dei poveri, del Paese in cui vive. Renderanno la medesima testimonianza non solo le istituzioni cattoliche, ma anche tutti i fedeli che operano all’interno delle istituzioni civili, nel rispetto della loro laicità, della deontologia professionale e nell’osservanza delle norme dettate dall’autorità civile, nello stile proprio di chi è animato dalla carità di Cristo. Il loro servizio al vangelo non consisterà in una surrettizia opera di evangelizzazione, ma sarà tanto vero ed efficace quanto sarà alto il livello della loro competenza e correttezza professionale, unita a una misura di dedizione al servizio dei bambini e dei giovani, che non si limiterà alla pura osservanza del loro stretto dovere. Il concilio «esorta i cristiani, cittadini dell’una e dell’altra città, di sforzarsi di compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del vangelo». Se, infatti, il cuore della missione della Chiesa è la comunicazione della fede, si è ben consapevoli che «da questa missione religiosa scaturiscono compiti, luce e forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina».47 Con queste convinzioni la Chiesa è in grado di mantenere attive le sue istituzioni scolastiche anche in Paesi che non godono dell’ordinamento di uno Stato laico e nei quali la pubblica istruzione è basata sui dettami di un’altra fede, come avviene in molti Paesi musulmani, nei quali la scuola cattolica deve ospitare l’insegnamento del Corano e non può insegnare la propria dottrina. Questo condizionamento, così grave e decisivo, non impedisce alla Chiesa di obbedire all’imperativo di porsi al servizio del bene comune, offrendo a tutti, e soprattutto ai poveri, quando le istituzioni civili non vi provvedono, un’istruzione adeguata, adattandosi alle situazioni più
46 Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium [LG], n. 1: EV 1/284. 47 GS 42s.
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diverse, restando in questo modo realmente fedele alla sua missione. Questo tratto estremo serve a delineare nella maniera più decisa l’atteggiamento più genuino della Chiesa, modellato su quell’essere venuti per servire, non per essere serviti, che caratterizza la missione di Gesù. A partire dal convincimento che la Chiesa non ha da «intromettersi nel governo della città terrena» e che suo desiderio è solo quello «di servire gli uomini amorevolmente e fedelmente, con l’aiuto di Dio», riflettendo sull’opera missionaria della Chiesa, i padri del Vaticano II osservano che i cristiani, «mantenendosi in stretto contatto con gli uomini nella vita e nell’attività, si ripromettono così di offrir loro un’autentica testimonianza cristiana e di lavorare alla loro salvezza, anche là dove non possono annunciare pienamente il Cristo». Attraverso la carità, infatti, gli uomini vengono aiutati a raggiungere la salvezza, anche dove la Parola deve essere taciuta, e questo fa «risplendere il mistero del Cristo, in cui appare l’uomo nuovo, creato a immagine di Dio, e in cui si rivela la carità di Dio».48 Non stupisce, quindi, che il concilio affermi che «bisogna curare assiduamente l’educazione civica e politica», fino a esortare in maniera esplicita tutti «coloro che sono o possono diventare idonei per l’esercizio dell’arte politica, così difficile, ma insieme così nobile» a prepararsi a esercitarla coltivando la virtù dell’integrità e della saggezza per operare efficacemente «contro l’ingiustizia e l’oppressione, l’assolutismo e l’intolleranza d’un solo uomo e d’un solo partito politico».49 Fa eco a questa presa di posizione anche Gravissimum educationis, n. 2: Essi inoltre, consapevoli della loro vocazione, debbono addestrarsi sia a testimoniare la speranza che è in loro (cf. 1Pt 3,15), sia a promuovere l’elevazione in senso cristiano del mondo, per cui i valori naturali, inquadrati nella considerazione completa dell’uomo redento da Cristo, contribuiscano al bene di tutta la società.
5. L’educazione
al sensus ecclesiae
L’atto della fede come adesione libera e personale a Gesù Cristo e al suo vangelo avviene dentro un’atmosfera vitale, che è quella della Chiesa, anche se questa è rappresentata da una sola o da quelle poche persone che al nuovo credente hanno comunicato la fede. L’approccio ai sacramenti costituisce poi un vero e proprio ingresso nella grande Chiesa, con l’insorgenza di un senso profondo e impegnativo di appartenenza. Si tratta della coscienza di essere parte di un insieme vitale, nel quale ci si ritrova continuamente a ricevere e a dover dare, nel quale poi, lungo il cammino della vita, si sperimentano momenti di gioiosa esaltazione, ma anche di contraddizioni, di dubbi e di fatiche. La formazione nella fede
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Concilio Vaticano II, Decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes, n. 12. GS 75.
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in nessun momento si muove intorno al puro e solo rapporto del credente con Dio, come se questi nel credere non respirasse dentro l’atmosfera della fede comune, sia nel senso generale di sentirsi parte della Chiesa cattolica, sia nell’esperienza quotidiana della partecipazione alla vita di una comunità determinata. Ora, alcuni filoni dello sviluppo della modernità si rivelano profondamente coerenti con i valori fondamentali del cristianesimo, che si coagulano intorno al senso della libertà della fede, del suo carattere personalistico e, quindi, di una considerazione alta della dignità della persona umana. Ma è anche innegabile che l’evoluzione più recente ne ha derivato, con la fuoriuscita dal senso fortemente comunitario della persona e dall’ispirazione cristiana dell’esistenza, una visione individualista dell’uomo e della concezione etica della vita. Il fenomeno si è anche nutrito del processo di emancipazione della società e degli individui dall’egemonia che la Chiesa nell’ancien régime aveva esercitato sul vivere civile e che, se pure con forme molto diverse, ha sempre cercato di mantenere, attraverso la sua influenza sulla vita politica, almeno nei Paesi dalla popolazione in maggioranza cattolica. Non meraviglia, quindi, che il primo fattore della tradizione cristiana a subire una crisi di credibilità sia stato proprio quello del sensus ecclesiae. L’assioma di origine illuminista, che vuole la religione estranea alla vita pubblica, esperienza così intimamente personale da doverla vivere esclusivamente nel privato, domina la mentalità contemporanea. Ne deriva inevitabilmente, poiché un cristianesimo individualistico non esiste, anche una vera e propria crisi del cristianesimo stesso. I conflitti, che il concilio Vaticano II aveva voluto esorcizzare, aprendo la strada del dialogo con il mondo e della riconciliazione, in questi ultimi due decenni si sono riacutizzati e la perdita di fiducia nella Chiesa sta producendo fenomeni, non più tanto rari, di vero e proprio abbandono della fede. È in questo quadro che si pongono oggi i problemi dell’educazione al sensus ecclesiae. Non sarà certo il ritorno all’integralismo cattolico dell’Ottocento a suggerire la via giusta, ma l’aiuto a una maturazione dei credenti, che punti vigorosamente sul suo vero fondamento, l’adesione a Gesù crocifisso e risorto come al Signore e Salvatore della propria vita e della storia. L’amore sincero alla Chiesa non verrà necessariamente dalla condivisione acritica di tutti suoi atteggiamenti in tutte le sue componenti, ma dalla consapevolezza di esserle debitori della fede di cui si gode, di doverle obbedienza in tutte le cose da credere, dandole allo stesso tempo la cooperazione del proprio giudizio, aiutandola continuamente a purificarsi, adottando le riforme necessarie per poter donare con maggiore efficacia il vangelo agli uomini del nostro tempo.
5.1. Fede e appartenenza ecclesiale Quando in un certo contesto umano, culturale, religioso e politico, la Chiesa è un’aggregazione religiosa fortemente minoritaria ed è priva di una rilevante figura pubblica, il senso dell’appartenenza è percepito in
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maniera molto forte e i legami comunitari, che legano fra di loro i fedeli, sono profondamente sentiti. Se vi si aggiunge l’esperienza di vivere in una società ostile, di soffrire emarginazione e persecuzione, è facile che accada che la comunità si ripieghi su se stessa e subisca la tentazione di assumere l’aspetto di una società iniziatica ed esoterica. L’esperienza della Chiesa in Europa, invece, è stata di segno contrario: è la non appartenenza alla Chiesa, infatti, che determinava in passato l’emarginazione sociale degli uomini di altra religione e dei non credenti. Con l’avvento della società secolarizzata e liberale, come è accaduto agli ebrei i quali, una volta riconosciuti cittadini uguali a tutti gli altri, hanno dovuto ridefinire la propria identità, accade anche ai cristiani, abituati, al contrario, a sentirsi essi soli i cittadini della società cristiana, di doversi ridefinire come cittadini e credenti, in un nuovo equilibrio del loro senso di appartenenza alla Chiesa con il loro senso di appartenenza alla società civile. È un problema che, secondo il concilio, coinvolge a fondo la coscienza credente, giacché la «compenetrazione di città terrena e città celeste non può certo essere percepita se non con la fede».50 La situazione ha prodotto, da un lato, il cattolicesimo integralista, che appiattisce l’adesione alla fede su una propria adesione alla Chiesa, incapace di distinguere l’essenziale dal contingente; da un altro lato, dei cristiani che vorrebbero essere tali ma svincolati dalla Chiesa. Fra i due estremi si moltiplicano le forme del senso di appartenenza, fra le quali non mancano esperienze di appartenenze parziali e condizionate, anche sul piano della dottrina morale, ma soprattutto sul complesso terreno dei suoi riflessi sulla società civile. Si tratta di affrontare i nuovi problemi che il cristiano incontra nel fatto di dover vivere la sua fede in una società che non gli offre più, come accadeva nel passato, il supporto di un ethos fondamentalmente condiviso, una legislazione rispettosa della morale cattolica e un ritmo di vita comune scandito sul calendario della cristianità e di dover esercitare la sua responsabilità di cittadino in una società laicamente e democraticamente governata. Educare al sensus ecclesiae è una componente essenziale dei processi di educazione dei battezzati nella fede ed è un compito che non può essere affrontato senza tenere conto del clima culturale in cui si procede. Alle ragioni di difficoltà già indicate si aggiunga l’estenuazione, avvenuta nello spirito del tempo, del senso di un qualsiasi ordine gerarchico all’interno del rapporto sociale.51 Anche nell’autocoscienza ecclesiale,
GS 40. Cf. le osservazioni di Giovanni Filoramo sulla crisi delle forme tradizionali della direzione spirituale: «Più in generale, l’individualismo libertario tipico delle nostre società, con la sua svolta antropologica, si è rivelato restio a lasciarsi inquadrare nei quadri tradizionali sia della cura d’anime sia della vera e propria direzione spirituale. In parallelo, la crisi generale conosciuta dal concetto di autorità e dalla figura del padre in una “società senza padre”, non potevano restare privi di conseguenza sulle modalità di intendere una pratica che, in epoca moderna, si è costruita in funzione di società rigidamente gerarchiche e di forti modelli di autorità, cui si doveva un’obbedienza perinde ac cadaver» (G. Filoramo, «Intro50 51
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il passaggio da un’ermeneutica ecclesiologica di tipo giuridico a quella determinata dalla categoria di comunione ha accentuato la consapevolezza che nella Chiesa «vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo».52 Se, quindi, nel passato un buon sensus ecclesiae dei fedeli si concentrava nella virtù dell’obbedienza, oggi esso implica un complesso più articolato di responsabilità. Oltre all’attenzione da prestare alle difficoltà provenienti dall’evoluzione della cultura e del costume, bisogna anche considerare che il senso dell’appartenenza ecclesiale si è reso più articolato nella duplice prospettiva, oggi più determinante che nel passato, di un’appartenenza alla Chiesa cattolica in quanto tale e dell’appartenenza alla Chiesa locale, declinata nelle forme della vita comunitaria della parrocchia e della diocesi. Si aggiungano le infinite appartenenze particolari di fedeli che si aggregano nelle più diverse forme associative.53 Ora, l’accesso alla fede e il battesimo determinano la forma fondamentale dell’appartenenza: in qualunque comunità l’evento accada è sempre un ingresso del fedele nella Chiesa in quanto tale, né l’uscita, qualsiasi ne fosse la ragione, da una comunità particolare cancellerebbe l’appartenenza alla Chiesa universale. Però l’esperienza cristiana non si svolge in alcun improbabile altro luogo, al di fuori delle coordinate dello spazio e del tempo e, quindi, della rete di relazioni interpersonali che vi si tessono fra persone in carne e ossa. È così che il cristiano, salvo il caso che vi sia costretto da particolari situazioni costringenti, non può essere condotto a una vita di fede matura, senza vivere nella rete relazionale di una determinata comunità particolare. Un maturo sensus ecclesiae si esplicita necessariamente nella sperimentazione di una vita comunitaria circoscritta, dalla quale ogni fedele concretamente molto riceve e molto ha da dare. L’opera educativa, quindi, dovrebbe sempre svolgersi in un movimento «a saliscendi», in modo da favorire un forte senso di appartenenza alla comunità hic et nunc determinata, la comunità parrocchiale, il gruppo, l’associazione, ma anche favorendo l’autonomia del soggetto, il quale dovrà essere capace di risalire sempre all’appartenenza al livello più alto, che gli permetta una vita di fede anche qualora nel suo territorio non esistesse una Chiesa o le circostanze gli rendessero penosa l’appartenenza a una comunità determinata. Allo stesso tempo, bisogna che persista l’impegno di scendere dal senso di un’appartenenza alta, quella alla forma cattolica della Chiesa, che di fatto potrebbe favorirne l’anonimato e il disimpegno, a un’appartenenza a una comunità determinata di persone determinate. Ogni educatore conosce i problemi che
duzione», in Id. [a cura di], Storia della direzione spirituale, 1: L’età antica, Morcelliana, Brescia 2006, 34s). 52 LG 37. Cf. anche LG 32. 53 Cf. S. Dianich – C. Torcivia, Forme del popolo di Dio tra comunità e fraternità, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012.
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si presentano soprattutto, ma non esclusivamente, nell’esperienza dei gruppi giovanili, nei quali il rapporto di affetti e di amicizie all’interno del gruppo rischia di non produrre mai il salto di qualità verso un’appartenenza realmente fondata sulla comunione della fede, che va anche al di là della cerchia degli amici. Infine, qualsiasi crescita del senso comunitario dell’esperienza cristiana si svuoterebbe del suo valore se l’appartenenza non fosse sentita e vissuta come destinata alla missione e quindi essenzialmente aperta, anzi espressamente destinata, alla relazione con il mondo. La Chiesa, infatti, non è fine a se stessa, ma è segno e strumento del regno di Dio per tutti gli uomini.
5.2. Appartenenza e discernimento Se oggi assistiamo anche nell’ambito della fede cattolica a una frammentazione del senso dell’appartenenza ecclesiale, l’impegno di crescere e di aiutare a crescere nella coscienza ecclesiale deve tenerne conto e offrire ai fedeli criteri di discernimento. Un primo sussidio è suggerito dall’esperienza ecumenica e dalla valutazione che ne ha dato il concilio, indicando nella valorizzazione della hierarchia veritatum un cammino per ritrovare e valorizzare, sotto le differenze, la fede comune. Questo significa concentrare la vita di fede sul suo nucleo essenziale, non con l’idea che tutti gli altri aspetti costituiscano un optional, ma sapendo riconoscere la differente incidenza che le diverse componenti dell’esperienza ecclesiale hanno sulla vita di fede di ciascuno. Solo così diventa possibile dare per acquisita una sincera appartenenza ecclesiale, anche da parte di credenti che stentano a condividere tutte e ciascuna delle espressioni con cui la Chiesa a tutti i livelli vive la sua fede. Ci sono, infatti, pluralità e diversità di carismi, senza che ciascuno di questi debba risultare omogeneo alla personalità di chiunque, e ci sono orientamenti di vita, presenti anche nei documenti del magistero, legati a particolari contingenze piuttosto che al patrimonio della fede. Ciò non toglie che sia necessario affrontare il problema diffuso del relativismo che sembra condizionare, nella cultura contemporanea, l’estimazione dei valori della vita, soprattutto nell’ambito della morale. È questo un fenomeno che accentua l’«emergenza educativa» odierna. Il presupposto che il confine tra il bene e il male non sia mai tracciabile può condurre, infatti, a negare la stessa possibilità di «educare». Ora, la prima risorsa di cui la fede cristiana dispone è proprio il sensus ecclesiae, perché in esso il fedele trova l’ambito vitale del suo sensus fidei. L’esperienza della fede comporta nello spirito umano la percezione di una certezza: credere non è avere un’opinione, per la fede si dà la vita. Però è una forma di certezza singolare, perché non è raggiunta dall’uomo come se egli la dovesse attingere dall’esperienza, o dal proprio ragionamento, o da una rivelazione che abbia illuminato direttamente il suo spirito. La fede viene da una rivelazione che è accaduta nella storia e la cui memoria è stata consegnata agli apostoli, la cui testimonianza si prolunga, lungo
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la storia e fino a oggi, nella Chiesa. La certezza della fede, quindi, può essere sperimentata solo all’interno della «totalità dei fedeli», la quale «avendo l’unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo».54 Questo senso della fede dell’universa ecclesia comprende, ovviamente, «la guida del sacro magistero», da accogliere in forza della fede nel sacramento che fonda il ministero dei pastori. Questa accoglienza però non si risolve nella pura legalistica obbedienza al magistero, ma si compie nella coscienza della comunione, per la quale il popolo santo di Dio partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e coll’offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo.55
Il fatto che la certezza della fede sia sperimentabile solo all’interno della comunità ecclesiale comporta anche una certa dialettica fra il giudizio del singolo credente e la varietà dei giudizi o, altre volte, la categoricità di un certo giudizio, all’interno della compagine ecclesiale. Educare alla comunione ecclesiale non significa contrapporre al relativismo una sorta di assolutismo, come se il campo della verità fosse già tutto occupato da inconfutabili certezze, senza alcuno spazio disponibile all’opinione, al giudizio di probabilità, e alla pazienza della ricerca e dell’attesa.56 Soccorre al problema quel senso già evocato della hierarchia veritatum, proposto dal concilio e la coscienza che la Chiesa è pellegrina nella storia in cammino verso il Regno: La Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento.57
Da qui scaturisce il bisogno che il credente sia una personalità capace di riflettere, di cercare, di accogliere l’insegnamento del magistero e, allo stesso tempo, di discernere i diversi gradi di autorità nei quali, da argomento ad argomento, esso viene esercitato. Solo educando alla maturità del discernimento la missione della Chiesa potrà avvalersi di un impegno serio dei fedeli laici nella società civile e nella vita politica. Soprattutto in questo campo, infatti, «spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena», senza pensare che «i loro pastori siano sempre esperti a
LG 12. Ib. 56 S. Dianich, «Il relativismo morale e la potenza del vangelo», in Servizio nazionale per il progetto culturale della CEI, L’emergenza educativa. Persona, intelligenza, libertà, amore, EDB, Bologna 2010, 323-325. 57 LG 8. 54 55
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tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta.58 Per il papa Benedetto XVI, i laici non sono «soltanto fruitori ed esecutori passivi» del magistero: essi infatti ne «sono protagonisti nel momento vitale della sua attuazione» e oltre a ciò sono chiamati a essere «collaboratori preziosi dei pastori nella sua formulazione, grazie all’esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze».59 Non è quindi la formazione all’obbedienza passiva a costituire lo scopo di una corretta educazione al sensus ecclesiae, ma anche la capacità dei cristiani di elaborare, dall’interno della loro esperienza familiare, professionale, sociale e politica, giudizi e orientamenti sul «che fare?» della Chiesa. Educare nella fede comporta, quindi, anche favorire lo sviluppo di quel senso critico sul mondo e sulla situazione della Chiesa stessa, necessario per non attestarsi sul dato acquisito, ma per guardare avanti e operare creativamente nell’ambito della testimonianza cristiana. Il concilio considera espressamente l’esistenza nella Chiesa di aspetti del costume e dello stesso «modo di enunziare la dottrina» che hanno bisogno di essere mutati, convinto che «la Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno».60 Se però i fedeli, sia i pastori sia i fedeli laici, non ne elaborassero la consapevolezza, la Chiesa, che è «santa e insieme sempre bisognosa di purificazione», non potrebbe avanzare «continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento»61 per rendersi sempre più adeguata a compiere la sua missione al servizio degli uomini.
6. Conclusione Il discorso sull’opera educativa della Chiesa, quando riguarda bambini e adolescenti, può avvalersi degli stessi motivi ispiratori che guidano la famiglia cristiana, una fondamentale espressione di comunità ecclesiale, nello svolgimento della sua missione. L’istituzione ecclesiastica le si pone a fianco, la sostiene e ne integra l’opera. Quando, invece, si intende considerare l’opera della Chiesa nel campo della catechesi e della formazione permanente degli adulti, il pensiero si imbatte in suggestive antinomie. Vengono facilmente alla memoria alcuni passi biblici, come Ger 33,34 sulla nuova alleanza e la legge inscritta da Dio stesso direttamente nei cuori, in modo tale che nessuno «avrà più da istruire il suo concitta-
GS 43. Discorso nel 50° anniversario dell’enciclica «Mater et Magistra», 16 maggio 2011, in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2011/may/documents/hf_ ben-xvi_spe_20110516_justpeace_it.html. 60 Concilio ecumenico Vaticano II, Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, n. 6: EV 1/520. 61 LG 8. 58 59
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dino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: “Conosci il Signore!”. Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro».62 In Gv 6,45, infatti, Gesù stesso dichiara: «Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno ammaestrati da Dio”», e ammonisce i discepoli: «Non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo».63 Nella Chiesa, quindi, più che in qualsiasi altra comunità umana, chi si colloca nella posizione dell’educatore lo può fare solo se convinto che avrà sempre e comunque qualcosa da imparare da chiunque sia il destinatario della sua opera. Una corretta relazione fra adulti, soprattutto nella cornice della fede e nella coscienza dell’opera della grazia di Dio, che previene e sostiene chi parla e chi ascolta, non può accettare alcuna dissimmetria che ponga una persona in uno stato di superiorità nei confronti dell’altra. Lo impedisce la fondamentale uguale dignità delle persone umane, che il concilio Vaticano II non ha potuto che affermare e ribadire: Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo.64
Una relazione dissimmetrica fra cristiani è plausibile solo a partire da competenze diverse e in ordine alla comunicazione specifica del loro oggetto. Se lo Spirito dona carismi diversi a questo e a quello, all’interno dell’esperienza della fede si configurano singoli determinati cammini, lungo i quali uno è maestro dell’altro, anche se non lo sarà riguardo alla totalità dell’esperienza credente, bensì nel campo comunicativo proprio del suo determinato carisma. In forza del loro sacramento i pastori della Chiesa sono maestri dei fedeli nelle cose della fede. È una dissimmetria della relazione che viene dal riconoscimento, che i credenti tributano l’uno all’altro, degli specifici carismi di ciascuno. Ne consegue che nella Chiesa, soprattutto fra adulti, si danno rapporti alterni e variegati tra i diversi soggetti, per cui, anche nel rapporto tra i fedeli laici e i pastori, non è detto che sempre e comunque siano i secondi i maestri dei primi: si danno, infatti, carismi e competenze in forza delle quali è il fedele laico che insegna al pastore e non viceversa. Proprio sul fecondo scambio di doni e di ispirazioni diverse di cui vive la comunione ecclesiale si può concludere questa laboriosa riflessione sui caratteri peculiari di cui l’opera educativa si riveste nella Chiesa. L’educatore e il maestro, chi comunica la fede e chi aiuta il fratello a crescere nella fede, tutti si ritrovano alla fine ad avere ricevuto molto di più di ciò che hanno dato. San Gregorio Magno si professava al termine di una sua omelia debitore dei suoi uditori di ciò che aveva loro detto:
Il passo viene ripreso da Eb 8,8-12. Mt 23,10. 64 LG 32. 62 63
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Severino Dianich So bene che molte cose, che nella sacra Scrittura da solo non sono riuscito a capire, le ho capite una volta posto di fronte ai miei fratelli. Compreso questo, ho anche cercato di capire per merito di chi me ne venisse data l’intelligenza. È evidente, infatti, che quanto mi è dato di capire a loro vantaggio mi è dato proprio dalla loro presenza. Così, per grazia di Dio, avviene che cresca il senso delle cose e diminuisca il mio orgoglio, giacché grazie a voi imparo ciò che a voi insegno.65
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Gregorio Magno, Omelia su Ezechiele 2,2,1: PL 76,948s.
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La problematica culturale e la questione del senso in teologia. Prospettive epistemologiche
Paolo Boschini
1. Impostazione
del problema
Comincio da una domanda secca: l’uomo, quello di oggi, quello che noi siamo, è ancora un essere culturale? Si intenda bene: non mi sto chiedendo se l’uomo sia capace di attribuire un senso a ciò che fa..1 Piuttosto: l’uomo occidentale di oggi è capace di cogliere il senso di ciò che gli altri sono, dicono e fanno? Riesce a gettare ponti che attraversino le prassi quotidiane, fino a comprendere il vissuto altrui? Questo è il problema con cui ha a che fare una teologia che voglia riflettere sul significato cristiano dell’educazione. Perché educare implica un trasferimento di senso, un’empatia tra vissuti differenti, l’intreccio tra mondi di valore tendenzialmente molto diversi l’uno dall’altro. Antropologicamente parlando, la crisi che oggi molte istituzioni educative stanno attraversando – la famiglia, la scuola, la Chiesa ecc. – è dovuta proprio a questa crescente incapacità di empatizzare con i vissuti altrui e di intersecare gli orizzonti. Questo è un problema che riguarda la teologia in quanto tale e non solo come riflessione su l’una o l’altra delle istituzioni educative che sono in crisi. Infatti, il problema della cultura oggi è lo stesso della teologia: è ancora possibile comprendere l’altro in quanto altro? Senza l’alterità non ci sarebbe la teologia e meno che meno ci sarebbe la fede. Oggi, insieme a questa alterità esistenziale che è quella del Totalmente Altro, la teologia deve fare i conti sempre più di frequente
1 Secondo l’idea weberiana di cultura, definita come «la sezione finita dell’infinità priva di senso dell’essere». Cf. M. Weber, «L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale», in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 21981, 55-141.
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Paolo Boschini
con nuove alterità culturali: la pluralità di teologie cristiane extra-occidentali; la molteplicità di opzioni religiose sincretistiche; la «macedonia» di secolarizzazioni in atto che rendono sempre più arduo il discorso sulla credibilità della fede. A quali condizioni la teologia può comprendere le alterità culturali? La mia tesi è che il processo educativo contenga una risposta sensata a questa domanda. Qui cercherò di pensare per paradigmi, ben sapendo che queste tipologie non esistono nella realtà dell’azione educante, ma solo nella mia e forse anche nella vostra testa. Con questo presuppongo (e dichiaro) già quello che voglio dimostrare: noi, anche se così diversi gli uni dagli altri, possiamo guardare nella medesima direzione. Il campo d’indagine è ancora troppo vasto e s’impone un secondo sezionamento che riguarda direttamente la teologia: oggi mi occuperò soltanto di quei paradigmi di educazione che la teologia dell’ultimo secolo ha assunto come parte integrante del suo discorso razionale sulla fede nel Dio cristiano.2 Restringiamo ancora il campo con un terzo sezionamento: mi limiterò alla teologia cristiana dell’ultimo secolo e, aggiungo, solo alla teologia europea o più in generale legata alla matrice culturale occidentale. Perché? Perché nel mondo occidentale contemporaneo e nella teologia che ne è parte consapevole la comprensione dell’alterità è diventato il problema filosofico per eccellenza, fino a coincidere con la questione della verità. Per l’uomo europeo contemporaneo la verità non è più l’atto di corrispondenza tra la realtà effettuale del mondo e l’idealità spirituale del concetto. È piuttosto il processo di disvelamento dello sconosciuto, la relazione con un’alterità che non recede dalla sua inafferrabilità concettuale e nel contempo si mostra come portatrice di un senso non ancora condiviso.3 Dunque, il mio discorso vuole analizzare la teologia contemporanea occidentale, la quale riflette su se stessa e sui paradigmi educativi che ha assunto per cercare di rischiarare il problema del senso, quale ci viene incontro nella relazione con l’alterità culturale. Ci mettiamo subito in una condizione di pluralità e di comprensibile avalutatività: non esiste una teologia per principio migliore di un’altra. Ma ogni approccio teologico illumina un aspetto saliente della questione: se sia possibile comprendere il senso intenzionato da altri nella loro esperienza culturale.
E così ho dato anche la mia definizione di teologia. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976; É. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1990. 2 3
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2. Paradigmi
teologici
2.1. Teologia socratica: dall ’ implicito all ’ esplicito La questione educativa occidentale è debitrice a Socrate: forse non al filosofo ateniese, ma certamente al mito filosofico creato dal suo allievo Platone. Il senso è già dato, ma può essere conosciuto solo attraverso quell’esercizio maieutico che è il dialogo nella forma del domandarerispondere. Tra i due interlocutori c’è però una disparità: Socrate conosce già il senso; lo ha già incontrato. E tramite le sue domande spinge l’interlocutore a un atto personale di riconoscimento e di accoglienza. Questo è il paradigma della teologia di K. Rahner. La sua distinzione tra il piano «esistenziale» e quello «esistentivo», a cui corrisponde la dualità gnoseologica tra la verità in senso trascendentale e quella in senso categoriale, è profondamente debitrice al modello educativo socratico. È una teologia nata in un contesto di prima secolarizzazione. L’uomo contemporaneo non conosce più Dio, perché non ne ha consapevolezza esplicita. La secolarizzazione ha interrotto il collegamento tra la facoltà dell’immaginare (il pensiero, dove viene concepita l’idea di Dio) e il deposito delle immagini (la cultura e la tradizione, dove si conservano le rappresentazioni collettive di Dio). Così nella cultura odierna le immagini teologiche tradizionali sono percepite come obsolete, perché in questo stato di cose non c’è ricambio né adattamento. Il teologo Rahner – come un novello Socrate – ha già incontrato il senso. La sua fede ecclesiale e la sua riflessione teologica lo hanno preservato dalla secolarizzazione radicale e dalla perdita di memoria. In lui il ponte tra il suo pensare Dio e le immagini tradizionali non si è interrotto: grazie a una rigorosa riflessione razionale, riesce a ritrovare il senso profondo dell’alterità divina anche nelle sue rappresentazioni inadeguate. Come Socrate, l’esercizio della critica teologica lo rende inviso ai difensori delle sacre tradizioni. Come Socrate, prende per mano i suoi inesperti interlocutori e li guida – attraverso le macerie del mito, cioè delle visioni tradizionali di Dio – a scendere al piano trascendentale, dove l’uomo si trova incoativamente – senza saperlo, ma in forma assolutamente reale – in relazione con il senso ultimativo della sua esistenza. Nasce così la teologia del dialogo che vuole far passare il non-ancora- credente dall’implicito all’esplicito: dalla condizione di credere senza consapevolezza alla fede pensata e vissuta in modo teologicamente ed eticamente responsabile. Nella dialettica domanda-risposta si scopre che il senso è comune; e dunque la struttura profonda dell’essere umano è anch’essa comune. Unicità del senso; unicità della struttura umana. La pluralità di pensieri e rappresentazioni, di valori e di opzioni etiche deve essere ricondotta a un medesimo orizzonte di senso, che abita nel profondo di ogni uomo e che in fin dei conti coincide con Dio. La teologia educa e fa cultura perché svela questa identità originaria che sta nascostamente a fondamento delle pluralità storiche e culturali. 39
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Socrate-Rahner è una sorta di Platone agostinizzato, che vede il divino abitare nelle profondità dell’uomo. Occorre perciò che la teologia si dedichi a risvegliare la domanda esistenziale di senso, sopita e nascosta tra le mille risposte esistentive di significato. Il teologo si presenta così come un maestro esperto e capace di costruire una relazione di reciprocità – anche se non proprio alla pari – con i suoi contemporanei che accettano di cimentarsi con questa forma di dialogo che è la ricerca di senso. Come Socrate, egli deve fare molta attenzione al linguaggio, in modo che sia espressione del suo atteggiamento empatico, e deve incantare i suoi interlocutori esibendo uno spirito aperto e disincantato.
2.2. Teologia
kantiana : dal cattivo al buono
Nella modernità la questione educativa ha maturato un altro importante debito: nei confronti di Kant. Qui mi soffermo sull’ultimo Kant, il filosofo convinto che fosse possibile tramite l’educazione morale riscattare l’umanità dalla sudditanza al «male radicale».4 Nella vita morale il senso si fa inattingibile, quando l’essere umano antepone il piacere al dovere. Tutto il processo della conoscenza pratica viene così regolato dal principio-piacere. Quando questo avviene, l’uomo diventa una bestia. Questa è la realtà subdola, liquida del male radicale, che è capace di generarsi proprio nel processo più umano ed elevato che c’è: l’esercizio della conoscenza. Per sradicare il male, bisogna incidere sui processi cognitivi della coscienza etica. È un compito infinito: è una tela di Penelope, che ogni mattina bisogna ricominciare a tessere. In quanto religione razionale – prosegue Kant – il cristianesimo possiede la chiave di questo processo. Tuttavia, anch’esso – come ogni fenomeno umano – è caduto nel male radicale. Ha anteposto, all’amore per l’uomo e al riconoscimento della sua dignità, la modalità religiosa del principio-piacere: il cristianesimo ha assecondato il proprio bisogno di affermarsi, proponendo la sua verità e il suo bene come gli unici in grado di dare la salvezza. Così esso si è trasformato in una religione dogmatica. Conformemente al ragionamento kantiano, la teologia deve fare un lavoro di educazione di se stessa: da espressione della cattiva coscienza della Chiesa deve trasformarsi nella buona coscienza della religiosità umana. Questo è il progetto teologico di A. Harnack. La teologia può rendere gli uomini più buoni, perché essa ha accesso diretto alla fonte dell’etica razionale, che è il «semplice evangelo» di Gesù.5 Da qui deriva direttamente il «compito evangelico-sociale» della Chiesa, che consiste nell’immaginare e plasmare una nuova società fondata sui seguenti valori: auto-
4 I. Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, in Id., Scritti di filosofia della religione, Mursia, Milano 1989. 5 A. von Harnack, L’essenza del cristianesimo, Queriniana, Brescia 21992.
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rità come paternità (Dio); infinità dell’individuo (anima); fraternità tra gli uomini (mondo).6 L’obiettivo è la ri-generazione del senso. C’è un filo invisibile che tiene unite le vicende della storia umana e le riconduce alla sua fonte spirituale: è la coscienza etico-religiosa di Gesù.7 Attraverso il metodo storico-critico, la coscienza di Gesù può risuonare come contemporanea e significativa per quegli uomini di oggi che sono sinceramente preoccupati per le sorti future del nostro mondo. Ogni volta che la teologia solleva la questione morale – dentro la Chiesa, come dentro la società – essa dischiude lo scrigno della cristologia e dunque si fa pensiero di redenzione. Il senso sta nel passato, alle origini del messaggio cristiano. Il metodo storico lo rende accessibile. La teologia lo comunica e lo rende praticabile. Grazie alla teologia il senso entra nel presente, dove porta la sua forza soteriologica: agisce e trasforma il mondo attraverso l’intelligenza e il pathos etico degli uomini che hanno eletto Gesù e il suo messaggio come esempio da seguire. Anche questa è una teologia che nasce in un contesto di secolarizzazione. Il problema non è l’idea di Dio, ma il nichilismo che relativizza il bene e, amplificando il moderno politeismo dei valori, porterà il mondo occidentale al conflitto di tutti contro tutti. Il senso si presenta così come bene. Ci può essere pluralismo di verità e di dottrine, ma non si può dare contraddittorietà nel bene. È il modello della teologia che si fa custode del senso e che volentieri dialoga con le altre scienze che si rendono disponibili a concepire il senso come unico fattore di salvezza per una cultura altrimenti declinante e incapace di individuare il bene comune su cui convergere per evitare la frammentazione del mondo. Forte dell’alleanza con il metodo storico e con il razionalismo etico, la teologia di Harnack crede – è proprio il caso di dire così – anche ci sia una dimensione dell’uomo capace di resistere agli assalti congiunti del pensiero debole e delle ideologie identitarie della volontà di potenza. Questo luogo antropologico, dove il senso è custodito, comunicato e perpetuato per il futuro, è la coscienza individuale. L’individuo è il micro-cosmo che regge il macro-cosmo della società e della cultura. Se scompare l’individuo, muore l’uomo come soggetto libero e responsabile. Richiamandosi al valore infinito dell’individuo come luogo del senso, Harnack vuole difendere l’alterità come spazio di creatività e di libertà, anche se poi finisce per limitarla alla mera individualità: nella coscienza siamo tutti diversi, ma anche tutti uguali perché «l’uomo è sempre lo stesso».8
6 A. von Harnack, «Il compito evangelico-sociale della chiesa», in Id., Cristianesimo, storia, società. Due conferenze, a cura di P. Boschini, ETS, Pisa 2003. Questo compito teologico-educativo deve imprimere nella cultura il senso razionale di cui è portatrice la teologia attraverso due canali: la lotta alla povertà e l’istruzione pubblica. 7 A. von Harnack, «Il cristianesimo e la storia», in Id., Cristianesimo, storia, società. 8 Von Harnack, L’essenza del cristianesimo.
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2.3. Teologia
demitizzata : dal complesso al semplice
La teologia antica e medievale era ricca di simboli e di allegorie. Essi avevano una grande valenza educativa: basti pensare alle grandi cattedrali medievali. Esse sono dei testi viventi, aperti, inclusivi. Il senso comunicato da questa simbologia è stato efficace, finché l’orizzonte della vita quotidiana è rimasto aperto a cogliere la trascendenza. Ma quando sorge il mondo della scienza, questa complessa simbologia perde la sua forza evocativa. I simboli, e i miti che ne dilatano l’efficacia, non vengono più compresi come riferiti alla storia che narrano, ma sono ricondotti semplicemente a una surrealtà prodotta dalla fantasia. Il vangelo e la fede cristiana, che si erano legati a essi, perdono la loro rilevanza ed entrano a far parte dell’archeologia del mondo occidentale. In questa prospettiva, il senso è tutt’uno con l’atto della sua comunicazione: dove l’atto linguistico s’interrompe, il senso si trasforma subito in non-senso. La dimensione educativa dipende da questa linguisticità del senso, perché consiste nel mantenere vivi o nel ripristinare quei significati che hanno valore per l’esistenza. Il fattore decisivo nel percorso di riconoscimento del senso è il pro me. R. Bultmann è il teologo del XX secolo che meglio attua questo paradigma linguistico del rapporto tra teologia e cultura. Come scrive egli stesso nelle pagine in cui si difende dall’accusa di aver «heideggerizzato» il vangelo, la sua «demitologizzazione del Nuovo Testamento» non è una razionalizzazione del cristianesimo, né un adattamento a colpi di forbici alla mentalità scientifica contemporanea.9 È piuttosto un processo di essenzializzazione che libera il messaggio cristiano da quella simbolica medievale, ormai divenuta incomprensibile mitologia. La forza educativa del vangelo non consiste nell’abilitare gli uomini contemporanei a un sacrificium intellectus e nel persuaderli al credo quia absurdum est. Piuttosto, il vangelo educa alla comprensione del senso racchiuso nell’esistenza altrui. Perché ciò avvenga, occorre svolgere una duplice operazione ermeneutica. Anzitutto individuare con l’aiuto del metodo storico-filologico – e in particolare della storia delle forme letterarie – l’istanza esistenziale che è sottesa ad ogni racconto. Poi, con l’ausilio dell’antropologia, occorre ricondurre quell’istanza alla corrispondente questione esistenziale presente nella cultura odierna. In questa opera di decostruzione e ricostruzione del linguaggio evangelico si manifesta l’indole pedagogica di questo paradigma teologico, che intende il senso come l’evento in cui prende voce la domanda insondabile che alberga nel cuore umano e che lo rende perennemente inquieto.10
R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, Queriniana, Brescia 1990. R. Bultmann, «Il problema dell’ermeneutica», in Id., Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 21986. 9
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2.4. Teologia dialettica:
dal convenzionale all ’ originario
Quando un grande maestro della teologia medievale, Pietro Abelardo, propose la dialettica come metodo adeguato all’indagine e all’insegnamento della teologia, suscitò grandi perplessità e forti contrapposizioni. Il suo metodo dialettico sic et non introduceva una decisa razionalizzazione nel linguaggio teologico, perché riconosceva al discorso razionale sulla rivelazione la capacità di analizzare il suo oggetto decostruendo e ricostruendo il senso, in una sorta di movimento perpetuo del pensiero, che non aveva né inizio né fine. Era l’affermazione suprema di una teologia che si autoeduca alla comprensione del senso, quale si dischiude nelle parole della rivelazione biblica e della fede ecclesiale. Tuttavia, la dialetticità era anche il carattere intrinseco della ragione teologica, non solo del suo metodo: era l’espressione della sua creaturalità. In una conferenza del 1922, che fu una pietra miliare della teologia del XX secolo, K. Barth ripropose come impossibile e doverosa al tempo stesso questa condizione esistenziale del teologo, da cui prende forma la struttura epistemologica della teologia.11 Usava sì espressioni di sapore neo-kantiano, ma la struttura del suo uso dialettico della ragione teologica non era molto lontano dal sic et non di Abelardo. Perché nel XX secolo anche la teologia dialettica barthiana era la consapevole espressione di un tempo di profonda crisi antropologica. Nessuna delle istituzioni culturali tradizionali, né alcuna struttura del pensiero metafisico classico poteva più offrire garanzie di affidabilità. La teologia doveva procedere con le proprie gambe, contando solo sulle proprie forze e sulla propria capacità di comprendere il senso.12 In questa condizione di autonomia obbligata nei confronti degli altri saperi antropologici, la teologia si è trovata di fronte alla propria finitudine. Ma ha anche scoperto che, grazie a questa condizione di povertà epistemologica, essa è nella situazione favorevole per entrare in relazione con il senso, fuori dalle convenzioni concettuali e sociali, in cui si era esercitata come teologia della cultura borghese europea. Per Barth infatti teologia dialettica non significa teologia della crisi, ma teologia nella crisi.13 Povera di infrastrutture concettuali e di riferimenti culturali, questa teologia si è attrezzata per essere una teologia della ricostruzione dell’umano. Non nella direzione di un nuovo umanesimo, ma nell’assunzione dell’antimodernismo e del nichilismo del proprio tempo, come indicatori dell’attesa
11 K. Barth, «La parola di Dio come compito della teologia», in J. Moltmann (ed.), Le origini della teologia dialettica, Queriniana, Brescia 1976, 236-258. 12 Per questo motivo, considero il saggio di K. Barth su Anselmo, Fides quaerens intellectum (1931), perfettamente in sintonia con l’impostazione dialettica della sua teologia «tra i tempi» degli anni Venti. 13 K. Barth, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 1974.
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di una nuova tipologia di uomo che ancora deve sorgere.14 La profonda indole escatologica della teologia dialettica barthiana ha più di una consonanza con l’attesa dell’«oltre-uomo» preconizzata dallo Zarathustra di Nietzsche.15 Questa condizione di assenza della verità sull’uomo costringe la teologia in una condizione di esodo. Fuoriuscendo dalle certezze del pensiero «religioso», essa imbocca la via del deserto, che è quella percorsa da Abramo, il quale non aveva altro riferimento che la parola udita e la «crisi» da essa provocata nella sua esistenza. Nella rinuncia al cattivo maestro che le viene incontro come homo religiosus e nell’apertura all’alterità radicale, la teologia scopre che la propria autoreferenzialità è una condizione tanto inevitabile quanto provvisoria. Nell’assenza di maestri le viene incontro una parola che eccede le distinzioni del pensiero (vero-falso; buono-cattivo; bello-brutto; utile-dannoso; passato-futuro). Eccedendo le categorie fondamentali della ragione umana, questa parola «altra» proietta la teologia in una regione che essa conosceva, ma aveva dimenticato: il luogo della sua origine. In Barth è fortissima l’influenza della visione platonica della conoscenza come «reminiscenza». Per questo la conoscenza teologica ha la struttura della fiducia e dell’attenzione, piuttosto che quella della ricerca e del sospetto. Il senso che le viene incontro come «Totalmente Altro» si comunica come l’originario ritrovato, come il superamento dell’oblio: mai come conquista e scoperta; ma sempre e solo come dono e grazia. Negli scritti della stagione della resistenza al nazismo, D. Bonhoeffer affina questo paradigma, nella consapevolezza che questa condizione di insicurezza religiosa ed epistemologica non segna il fallimento della teologia, ma costituisce la sua grande possibilità di purificazione dal germe della «stupidità», da cui anch’essa è stata contagiata nella società massificata. Esponendosi senza risposte precostituite sulla scena della storia, la teologia – e il teologo in quanto cristiano che vive consapevolmente la propria fede – si rigenera e acquisisce una nuova capacità di discernere i tempi.16 Il fine nascosto della storia le diviene in certo modo accessibile. La teologia si presenta come un sapere nuovo, non per il contenuto ma per il metodo militante: costruisce una condizione di solidarietà esistenziale e culturale tra tutti coloro che percepiscono l’assenza del senso dalla realtà sociale e politica. E lo fa unendo l’evangelizzazione e la lotta per la rinascita del pensiero. La purificazione della teologia dalle convenzioni della stupidità e dagli idoli che «tappano i buchi» della conoscenza esige che essa si rieduchi alla riflessione, alla critica e alla comprensione dei segni. La teologia si fa maggiorenne e si apre a pensare e ad attendere tutto ciò che preannuncia l’avvento del tempo nuovo e dell’uomo nuovo, ricreato da Dio secondo amore e giustizia.17
O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 1981. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 2010. 16 A. Gallas, Ánthropos téleios: l’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana, Brescia 1995. 17 D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Queriniana, Brescia 2002. 14 15
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La problematica culturale e la questione del senso in teologia. Prospettive epistemologiche
3. Questioni
teoriche conclusive
3.1. La distinzione
epistemologica tra teologia e pedagogia religiosa
Fin qui ho ripetuto spesso la formula: struttura pedagogica della teologia. Ho voluto evidenziare questo tema: la teologia del XX secolo ha un suo specifico modo per riflettere sulla relazione tra il destinatario del messaggio cristiano e la questione del senso. La teologia non si chiede: come devo fare per rendere l’uomo capace di assimilare il vangelo? Ma: chi è colui al quale oggi il senso va incontro come altro? La struttura pedagogica della teologia rivela la centralità della questione antropologica. Come abbiamo visto in questo sommario e incompleto excursus, la questione antropologica in teologia non si esaurisce nel problema del metodo, né in quello del linguaggio. La questione antropologica in teologia è piuttosto il problema della comprensione del senso, il quale oggi si presenta con un ineliminabile carattere di alterità. Lo ridico parafrasando Kant: la struttura pedagogica della teologia contemporanea si concretizza nella domanda: «Che cosa posso pensare dell’uomo?», e solo in forma derivata nell’altra questione: «Che cosa devo fare per esso?». Il compito che ancora attende la teologia nel prossimo futuro è pensare l’uomo in relazione al senso che gli viene incontro nella persona dell’altro.18 Probabilmente la teologia si deve ri-educare essa stessa a questa funzione culturale di orientare antropologicamente, funzione che essa ha svolto in molte fasi storiche del suo passato. Davanti all’irrilevanza (solo mediatica o anche culturale?) che affligge i saperi che si pongono la domanda del senso, una certa teologia ha cercato di smarcarsi trasformandosi in scienza pratica e così si è avvicinata al terreno della pedagogia e delle altre scienze dell’uomo. Mi riferisco a quelle teologie che hanno messo tra parentesi la propria autonomia intellettuale e si sono accodate a visioni del rapporto Chiesa-mondo animate da preoccupazioni di conservazione culturale e politica; o ancora a quelle teologie che hanno optato per ecclesiologie di tipo organizzativo; e infine a quelle altre teologie che hanno innalzato a bandiere del cristianesimo questioni etiche legate alla contingenza sociale e culturale. Entro un orizzonte siffatto la teologia si trasformerebbe in qualcos’altro e sceglierebbe per sé il ruolo di scienza del come: come dire la fede oggi ai giovani o agli adulti; come riorganizzare la Chiesa in modo da massimizzarne l’efficienza; come interloquire con la cultura laica su questioni rilevanti per la vita pubblica, soprattutto in campo economico e politico. Una siffatta teologia dà per già acqui-
18 Su questo terreno si muoveva già I. Mancini, Tornino i volti, Il melangolo, Genova 1989. Si veda anche la recentissima rilettura in chiave teologica del pensiero lévinasiano condotta da P.L. Cabri, Sulla difficile arte di amare. Con Lévinas e oltre Lévinas, EDB, Bologna 2011.
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sita la questione del senso nella relazione di alterità e si limita a declinarla didascalicamente negli ambiti in cui di volta in volta è chiamata a pronunciarsi. Non considera che la questione del senso entro la relazione di alterità è mobile, appunto perché è il frutto dell’intrecciarsi e del sovrapporsi di orizzonti che seguono differenti traiettorie. Perciò la questione del senso richiede un’attenzione continua, un discernimento sapienziale della cultura in cui si vive, una solida capacità di riflessione e di proposta teoretica. Tutto ciò esige la teologia come sapere libero e responsabile sulla fede nel Dio di Gesù Cristo. Il compito teologico consiste perciò nel riaprire continuamente la questione antropologica e nell’invitare a riflettere su di essa membri della Chiesa, filosofi e studiosi di scienze umane, esponenti a vario titolo della cultura e della vita pubblica. La questione antropologica – e non il mondo digitale – è e sarà sempre più il nuovo areopago in cui la teologia è chiamata a cimentarsi nel dialogo culturale e scientifico.19 Questa distinzione tra il chi e il come non vuole andare a detrimento della pedagogia religiosa. I suoi compiti sono assolutamente importanti per la fede e per le Chiese cristiane, che intendano comunicare il vangelo nella complessità e nell’instabilità del mondo occidentale moderno. Il chi non può stare senza il come, e viceversa. Così né il compito della teologia, né quello della pedagogia religiosa può bastare a se stesso. Come sigillo di questa partnership s’invoca da molte parti l’elaborazione di una più articolata e rigorosa teologia dell’educazione. Alla luce del percorso storico che qui si è prospettato, è più conseguente parlare piuttosto di teologia nell’educazione. Ovvero: evidenziare la problematica teologica soggiacente ad ogni questione di pedagogia religiosa e, in primis, sottostante i metodi che quest’ultima impiega per comunicare la fede e favorirne l’interiorizzazione. Come in ogni partnership, anche la pedagogia religiosa ha un importante contributo da offrire. Lo definisco così: educazione nella teologia. Ovvero: il processo di comunicazione/interiorizzazione del messaggio cristiano non si può arrestare al «sì» consapevole della fede e dell’appartenenza alla Chiesa e al «lo voglio» dell’etica cristiana. La pedagogia religiosa converge con la visione antropologica della teologia nel ritenere che l’uomo compiuto – ciò che la pedagogia religiosa cattolica del dopo-concilio chiamava «umanesimo plenario»20 – è quello che non ha paura di porsi la questione del senso e quindi desidera acquisire strumenti culturali e concettuali idonei alla comprensione della fede cristiana e all’interpretazione dei segnali di senso che si offrono nella vita quotidiana.
19 Le insistenti richieste rivolte alla teologia dal mondo ecclesiale a dare indicazioni sul piano operativo invitano la teologia a non eludere questi inviti e a rispondervi come scienza del chi: la questione antropologica non può essere elusa, né affrontata come se fosse un capitolo del sapere dell’ovvio. 20 G. Lazzati, Un cristiano nel mondo. Articoli e discorsi, AVE, Roma 2002; «Pensare per agire», in Id., Cristianesimo e cultura, Vita e Pensiero, Milano 1976, 5-15.
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3.2. Quale
dimensione pedagogica della teologia oggi , in ordine alla comprensione della fede ?
Per rispondere a questa domanda si deve prendere atto dell’intonazione prevalentemente emotivo-sentimentale che sta sempre più connotando la fede cristiana nelle società occidentali odierne. Come nei modelli analizzati in precedenza, anche nel nostro caso si considera la teologia come sapere in situazione, ovvero come operazione culturale. Quale struttura pedagogica è chiamata ad assumere la teologia per porre oggi la questione del senso in un contesto culturale in cui le emozioni prevalgono sulla riflessione? Nell’affermazione del carattere propriamente emotivo della fede cristiana il senso avanza nuove istanze nei confronti della teologia. Anzitutto, il primato del vissuto sul pensato, inteso come primato della sfera originaria del senso rispetto a quella convenzionale delle istituzioni e delle loro regole. Non di rado, anche in questo campo il senso viene percepito come antitetico rispetto all’esistente: come c’è una politica che si configura come anti-politica, così oggi il sentimento religioso cristiano si presenta spesso come l’anima di una Chiesa anti-Chiesa. Della comunità ecclesiale non si rifiuta il pensiero – anzi semmai si tende a aderire alle dottrine teologiche più tradizionali – ma si critica l’assenza di vitalità, l’organizzazione routinaria, lo stile manageriale piuttosto che spirituale. Il senso viene colto come vissuto irrazionale: il senso si manifesta nella forma del carisma che dà vita e perciò si contrappone ad ogni formalizzazione sia di tipo istituzionale, sia di tipo concettuale. Ma anche quando è incontrato nelle tonalità della sfera emotiva il senso si routinizza: ciò richiede di reiterare continuamente le esperienze che possono rinnovare lo slancio sentimentale, in cui viene identificato il senso stesso. Si deve perciò parlare di un’instabilità radicale del senso e ciò rende di fatto impossibile il compito della teologia, la quale presuppone invece la stabilità del senso come condizione della sua intelligibilità e della sua comunicabilità. Quindi la teologia dovrà tentare preliminarmente un’operazione di riconversione del senso, cioè essa dovrà assumere ancora una volta un’indole pedagogica, orientata soprattutto verso l’ambito intraecclesiale. La seconda istanza può essere definita come l’individuazione di una nuova via che superi la contrapposizione tra teoria e prassi. Nella prospettiva emozionale-sentimentale testé delineata, il logos viene percepito come indebita razionalizzazione della fede e la teologia è accusata di essere dannosa per la fede. A sua volta, la prassi ecclesiale è sospettata di aver allontanato la fede dalla sua fonte pneumatica e di averla imbarbarita costringendola entro istituzioni «senz’anima e senza cuore», spiritualmente fredde e anonime. Si dice in questa prospettiva: né logos, né prassi, perché – citando l’Idiota di Dostoevskij – solo «la bellezza salverà il mondo». Questo richiamo all’estetica tenta di costruire una relazione
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esplicita al senso, prescindendo per lo più dalla mediazione della razionalità e presupponendo che sia l’intuizione l’atto cognitivo grazie al quale si struttura nella coscienza credente la relazione al senso. Il senso intuito ha però bisogno di formalizzarsi subito in immagini personali e in rappresentazioni collettive: il volto di un grande leader religioso, una grande celebrazione ecclesiale vengono facilmente caricati di una grande portata emotiva e identitaria. Il senso si offre lì integralmente, senza mediazioni e dunque senza la dimensione dell’alterità: non si dà l’intreccio di orizzonti, perché non c’è nessuna percezione della frammentazione storica del senso e della sua pluralità culturale.21 Anche in risposta a questa seconda istanza, la teologia è chiamata a mettere in campo la sua indole pedagogica. Ciò che gli esseri umani che vivono in un determinato contesto sociale e culturale percepiscono come bello non è il frutto di un’intuizione immediata del senso, ma è il risultato di una complessa fusione di orizzonti, mai totalmente scevra dal condizionamento sociale.22 Tuttavia questa funzione critica e demistificatoria non è sufficiente. La teologia è chiamata a esplicitare come proprio l’intuizione del bello dischiuda un orizzonte di conoscenza che interseca altri orizzonti di senso: ens, verum, bonum et pulchrum convertuntur. Si rende perciò disponibile a esplicitare le intersezioni tra queste differenti sfere di conoscenza. In questo modo sostituisce l’intuizione monistica del gusto con la distinzione razionale del senso, liberando i contenuti della fede dalla zona grigia dell’irrazionale, che è quella dove si annida più forte il condizionamento sociale. La terza istanza che questa intonazione emotivo-sentimentale rivolge alla teologia può essere indicata come de-localizzazione e de-temporalizzazione del senso. Per la teologia cristiana il senso si offre sempre entro una determinata configurazione spazio-temporale: la Chiesa come sacramento di salvezza; la piena ecclesialità della comunità cristiana locale; i segni dei tempi; sono soltanto alcune dimensioni di questa strutturale spazio-temporalità della fede e della teologia cristiane. L’intuizione emotiva del senso invece tende a prescindere dalle determinazioni spazio-temporali della fede. Semmai, un certo luogo viene percepito come «ierofanico»,23 mentre gli spazi della vita quotidiana perdono di significato, perché non vengono vissuti e agiti come i luoghi della relazione con il senso. Qualcosa di analogo avviene nella percezione del tempo. Nei
Si potrebbe sintetizzare così questa tesi: «Tutto l’infinitamente grande in tutto l’infinitamente piccolo». L’intuizione consente di cogliere in una realtà finita l’intero infinito. Diversa è la tesi del nostro precedente convegno (2008) Il tutto nei frammenti, in cui il rapporto parti-tutto risponde alla struttura ermeneutica del conoscere umano. 22 Per condizionamento sociale intendo quel principio cognitivo che Bourdieu definiva principio di «distinzione» (cf. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 1983). Il gusto estetico è regolato da questo principio che svolge nello stesso tempo una funzione sociale e culturale: distingue il proprio gruppo rispetto ad altri gruppi giudicati. 23 M. Eliade, Sacro e profano, Boringhieri, Torino 1981. 21
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luoghi ierofanici il tempo ha una qualità totalmente diversa da quella che esso ha negli spazi religiosi dell’esistenza quotidiana.24 Qui la teologia può fare valere un altro aspetto della sua indole pedagogica, conducendo l’emozione immediata di fronte alla ierofania a rielaborarsi come esperienza. La differenza tra emozione ed esperienza consiste nella dimensione linguistica. L’emozione identifica il senso intuito immediatamente con un solo simbolo e dunque con un unico codice linguistico. L’esperienza si configura invece come la produzione di molteplici metafore, che riescono a esprimere in modo plurale la relazione con il senso. Questo processo di pluralizzazione della relazione con il senso reintroduce il principio di alterità: il senso non può essere colto e comunicato con il linguaggio dell’identità, perché esso eccede infinitamente le capacità cognitive – intuitive, discorsive, pratiche – dell’essere umano. Mentre fa percepire l’inadeguatezza della comprensione monista del senso e denuncia la spirale di autoreferenzialità in cui il senso viene rinchiuso, la teologia apre la porta al dialogo culturale con l’altro, alla comprensione progettuale nei confronti dei problemi che proliferano nella Chiesa e nella società odierne. La teologia non offre risposte concettuali, né soluzioni operative, ma avanza la necessità di ricercarle implementando procedure e metodi relazionali, che poco alla volta – si spera – diventeranno anche più razionali e più attenti alla complessità multifattoriale delle questioni sul tappeto. Da un punto di vista operativo, la capacità pedagogica della teologia si articola in tre passi. Primo: dialogare con il sentimentalismo religioso odierno, senza demonizzarlo, ma anche evidenziandone l’insufficienza. Il secondo passo consiste nel confronto culturale. La teologia, che è un sapere che da sempre si esercita nella dualità Dio-Uomo, può educare il sentimento religioso a riconoscere le ragioni dell’altro. Obbligando così il sentimento a uscire dall’immediatezza e ad articolarsi nel pensiero. Il terzo e ultimo passo di questo esodo dal sentimentalismo intuitivo verso l’articolazione del senso in termini di esperienza consiste nella riacquisizione della dimensione spazio-temporale. La teologia può preparare il terreno indicando nuovi luoghi in cui l’esperienza religiosa, nata sul terreno dell’emozione, può comunicare i valori di cui è portatrice. Anzitutto, nuovi luoghi dentro la Chiesa, dove sia possibile articolare il senso in un contesto di reale pluralismo e di effettivo rispetto per le differenze nella comprensione e nell’attuazione della medesima fede come «convivialità delle differenze.25
24 In questa prospettiva, neppure lo scorrere del tempo, l’avvicendarsi delle epoche storiche e delle stagioni culturali pare avere alcuna influenza sulla percezione del senso. L’intuizione emotiva non viene mediata con la situazione, perché si cerca di viverla senza tempo e senza spazio, come se le emozioni provate nel tempo e nel luogo ierofanico fossero del tutto libere da ogni condizionamento del contesto. 25 I. Illich, La convivialità, Mondadori, Milano 1974.
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3.3. Esemplificazione conclusiva: due luoghi educativi , dove la teologia può svolgere la propria funzione propedeutica
A mo’ di esempio e di conclusione indico due «luoghi educativi» ecclesiali italiani, in cui la teologia può svolgere questo servizio propedeutico alla comprensione del senso come relazione di alterità. Il primo di questi «luoghi educativi» è costituito dai cammini di formazione degli adulti. Il secondo è l’accompagnamento spirituale personale. Nei cammini formativi degli adulti, che si svolgono nell’ambito delle parrocchie e delle associazioni laicali,26 la teologia può svolgere la sua funzione propedeutica declinando l’immediatezza emotiva del senso nel linguaggio esperienziale della compassione. Questo linguaggio consente di affrontare quel percorso di dialogo e di riconoscimento con le ragioni altrui, di discernimento del contesto sociale e culturale, di progettualità etica, che consentono di declinare il senso colto nell’esperienza credente nei termini della relazione con l’alterità. Il paradigma formativo che la teologia può proporre è quello di un’operatività progettuale intelligente, basata su relazioni empatiche di ascolto e di ospitalità, che altrove ho definito «metodo della mediazione».27 Il secondo «luogo educativo» è l’accompagnamento spirituale personale. Il carattere propedeutico della teologia in ordine alla questione del senso orienta il metodo fondamentale con cui procedere a questo accompagnamento, che è anzitutto discernimento delle istanze della fede entro le scelte fondamentali dell’esistenza personale. All’interno di questo percorso, il senso viene cercato attraverso la comprensione di segni, che il più delle volte coincidono con situazioni soggettive (atteggiamenti, convinzioni, speranze e crisi, decisioni). Il futuro è la temporalità entro cui si orienta l’accompagnamento spirituale: l’interpretazione del passato e del presente è in funzione del progetto di vita, la cui piena attuazione è sempre ancora da compiere. L’indole pedagogica della teologia indica il significato dell’atteggiamento empatico, che è richiesto in questo
26 Oggi questi cammini segnano quasi ovunque il passo e soffrono frequenti migrazioni verso i tanti movimenti – più o meno organizzati – che compongono la galassia cattolica italiana. Come nella gran parte della nostra prassi pastorale, i modelli in vigore sono ancora sostanzialmente quelli degli anni Ottanta, secondo cui la formazione degli adulti è un processo di coscientizzazione che si attua attraverso la trasmissione di informazioni prevalentemente di tipo biblico-teologico, le quali dovrebbero aprire gli orizzonti del pensiero e avviare a una fede consapevole. Oggi questo metodo è avvertito come «interessante, ma freddo»; «troppo critico e poco rassicurante»; «arido da un punto di vista spirituale» (dichiarazioni raccolte tra i partecipanti alla Scuola della Parola – percorso biblico per adulti, nella parrocchia Beata Vergine Addolorata di Modena). 27 P. Boschini, «Vie d’uscita. Chiesa e impoveriti oggi in Italia alla luce del metodo della mediazione», in In dialogo 91(2011), 85-90. I campi operativi sono molteplici, ma fondamentalmente ruotano intorno ad antichi e nuovi poveri.
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percorso: accompagnare spiritualmente è educare, a condizione che ci si volga insieme al futuro; ovvero, quando la relazione di alterità viene vissuta guardando entrambi in avanti, nella stessa direzione. L’orizzonte di riferimento è il mondo ideale condiviso tra chi cammina nella fede e chi accompagna. Il discernimento si esercita laddove i due differenti orizzonti si intersecano e si fondano. Non è richiesto che gli interlocutori abbiano compiuto nel passato esperienze analoghe, né che la loro situazione emotiva o intellettuale presente sia similare, e neppure che essi abbiano un progetto di vita in qualche modo convergente. Grazie al dialogo spirituale, colui che viene accompagnato è reso capace di individuare i codici per l’interpretazione dei segni, gli obiettivi intermedi e l’inevitabile correzione del proprio progetto di vita credente. Questa capacità di autointerpretazione è resa possibile dall’atteggiamento maieutico dell’accompagnatore, il quale – come la teologia – non conosce le risposte, ma sa quali sono le domande giuste da fare. In questi esempi concreti, così come nel breve percorso storico che vi ho proposto, l’indole pedagogica della teologia si riassume in questa attenzione alla relazione antropologica con l’alterità: laddove la teologia si preoccupa più del domandare che del rispondere. La verità del senso si dischiude proprio quando la domanda teologica coglie il senso che gli interlocutori hanno intuito, ma non hanno ancora articolato in pensiero discorsivo.
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Henri-Irénée Marrou e la cristianizzazione della cultura tardoantica
Michel-Yves Perrin*
Sulla mappa dei legami intellettuali che Henri-Irénée Marrou ha tessuto lungo tutta la sua vita, l’Italia occupa un posto privilegiato sin dagli anni passati, negli anni Trenta del secolo scorso, a Roma a Palazzo Farnese, poi a Napoli all’Istituto di via Crispi, fino alla nomina all’Accademia dei Lincei nel 1970 e all’ultimo viaggio nella penisola pochi mesi prima della morte.1 Se la preziosa banca dati degli Archivi del Nove-
* Ho conservato il tono dell’esposizione orale, aggiungendo le note e la bibliografia di riferimento. Mi è gradito ringraziare il collega e amico don Francesco Pieri per aver accettato di farsi mio portavoce al convegno bolognese, quando purtroppo non ero in grado di partecipare di persona all’incontro. Ero sul punto di consegnare la stesura finale di questo contributo quando mi è stata offerta la possibilità di investigare il ricchissimo fondo dell’archivio Marrou conservato alla Bibliothèque des Lettres dell’École Normale Supérieure; ne ho già tratto alcuni dati confluiti nelle note. Ringrazio sentitamente la professoressa Françoise Flamant-Marrou per avermi concesso con molta liberalità l’accesso a questa insuperabile fonte documentaria. La dottoressa Sandrine Iraci mi ha molto gentilmente facilitato il lavoro. Un ringraziamento particolare va all’amico Stéphane Toussaint per la consulenza linguistica. 1 Cf. P. Riché, Henri-Irénée Marrou historien engagé, Cerf, Paris 2003, 38-57 e 114-115. Cf. S. Rey, Écrire l’histoire ancienne à l’École française de Rome (1873-1940), École française de Rome, Rome 2012, ad indicem. Lo spoglio della corrispondenza indirizzata da Marrou all’amico Jean Laloy (1912-1994) permette di seguire l’evoluzione dei sentimenti del giovane storico nei confronti della città di Roma. Il 23 gennaio 1931, pochi mesi dopo l’arrivo nell’Urbe, egli scrive: «Pour parler sérieusement Rome est une ville très laide. Elle est tout entière remodelée par le Bernin et Co[mpagnie] dans ce style baroque qui est paraît-il à la mode mais que je ne puis avaler. Là dedans évidemment, un tas de choses parfois très belles (les mosaïques des Ve-IXe siècle, extraordinaires) mais si mal présentées. Il vaut mieux être ici en archéologue, travailler sur les choses, plutôt qu’en touriste». Il 19 dicembre dello stesso anno i toni sono cambiati: «Il reste Rome, et le charme inexprimable de ce décor. Je croyais ne pas aimer Rome, mais maintenant que je sais qu’il faudra la quitter… Il
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cento non comporta granché – almeno fino a oggi – per illustrare questo tema,2 basta scorrere i cataloghi delle biblioteche italiane per misurare il forte grado di diffusione dell’opera e del pensiero del Marrou tramite numerose traduzioni: già nel lontano 1948, 14 anni dopo la pubblicazione parigina, venivano tradotti i Fondements d’une culture chrétienne presso l’editrice Studium di Roma,3 cioè l’editrice della FUCI (Federazione degli universitari cattolici),4 che, come scriveva lo stesso anno Giovanni Battista Montini a proposito di Igino Righetti, nella prefazione a un volume di Agostino Baroni, mirava «a dare al pensiero cristiano in Italia un enunciato moderno, un apparato culturale nuovo, una diffusione più larga, un’applicazione coerente e rinnovatrice».5 Due anni dopo sarebbe stata la Histoire de l’éducation dans l’antiquité a essere tradotta presso la stessa casa editrice.6 La prima ricezione in Italia dell’opera del Marrou si è dunque effettuata sotto il segno delle problematiche culturali – teoria e storia – in stretta conformità con l’identità stessa che Marrou aveva rivendicato in un articolo pubblicato sulla Revue de Synthèse nel 1938 e intitolato «Culture, civilisation, décadence», che si presentava come «un manifesto in difesa della storia della cultura».7 La felice iniziativa della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna può a buon diritto vantarsi di prendere posto in questa lunga tradizione.
y a là-bas sur le Coelius la terrasse de la villa Mattei, ouverte sur la Campagne et ses défilés d’aqueducs, la terrasse, ses chênes-verts et ses vieilles statues. Il y a le Capitole, le soir on y monte en cachette du côté du Forum et on prend un petit chemin qui contourne le jardin du palais Caffarelli (songez que c’est un des deux seuls endroits de la Rome fasciste où les policiers ne pourchassent pas les couples d’amoureux, faut-il que le charme en soit grand pour désarmer même la rigueur fasciste)». 2 http://www.archividelnovecento.it/. Ringrazio di cuore Barbara Faes de Mottoni (CNR) per avermi suggerito di consultare questo impareggiabile strumento di lavoro per la storia intellettuale italiana del Novecento. 3 H. Davenson (= H.-I. Marrou), Fondements d’une culture chrétienne [1934], trad. it.: Fondamenti di una cultura cristiana, Studium, Roma 1948. 4 Cf. G. Vigini – M. Roncalli, L’editoria religiosa in Italia. Contributi e materiali per una storia, a cura di A. Gianni, Associazione Sant’Anselmo per la Promozione della Cultura teologica e religiosa, Milano 2009, 107-116. 5 G.B. Montini, «Prefazione», in A. Baroni, Igino Righetti, Studium, Roma 1948, VIII (citato in Vigini – Roncalli, L’editoria religiosa in Italia, 110). Cf. Giuseppe De Luca in una lettera a G.B. Montini del 9 gennaio 1952: «Tu hai visto che il mio tentativo era di riscattare il clero italiano da una cultura di echeggiamento e traduzione, e ricondurlo ad una dottrina d’iniziativa e di coordinazione» (G. De Luca – G.B. Montini, Carteggio: 1930-1962, a cura di P. Vian, Studium, Roma 1992, 162, citato in P. Vian, «Prefazione», in Id. [a cura di], Don Giuseppe De Luca a cento anni dalla nascita. Nuove testimonianze e riflessioni con un’appendice di testi inediti e poco noti, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1998, XVI, nota 33). 6 H.-I. Marrou, Histoire de l’éducation dans l’antiquité [1948], trad. it.: Storia dell’educazione nell’antichità, Studium, Roma 1950. Sarebbero poi seguite una seconda (1966) e una terza edizione (1971). Una nuova edizione italiana è appena uscita (aprile 2016) presso la stessa casa editrice. 7 H.-I. Marrou, «Culture, civilisation, décadence », in Id., Christiana Tempora. Mélanges d’histoire, d’archéologie, d’épigraphie et de patristique, École française de Rome, Rome 1978, 3-30, qui 3.
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Henri-Irénée Marrou e la cristianizzazione della cultura tardoantica
Se l’Italia è senza dubbio, prima dei mondi anglosassone e spagnolo, il Paese fuori dalla Francia dove Marrou fu, e rimane ancora oggi, più letto e tradotto, è anche il Paese dove l’interesse storiografico per l’opera dello studioso francese fu sin dall’origine il più sviluppato, forse ancor più che in Francia. Vorrei, senza nessuna esclusiva,8 sottolineare il ruolo del Dipartimento di filosofia dell’Università di Padova negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso intorno alla figura del professore Andrea Mario Moschetti (1908-2004), tra l’altro traduttore e commentatore di sant’Agostino:9 due mesi dopo la morte del Marrou, nel giugno 1977, usciva da Antenore la tesi di Valdino Tombolato dedicata all’analisi dei corsi e ricorsi dell’intreccio tra metodologia, filosofia e teologia della storia nell’opera del Marrou.10 Due anni dopo il salesiano Ottorino Pasquato (1931-2008) sosteneva la sua poderosa tesi di dottorato sulla storiografia ecclesiastica nell’opera di Marrou e iniziava così una nutrita serie di contributi destinati a chiarire e diffondere le idee dello studioso francese in tema di storia e teoria della cultura.11 Il baricentro degli studi marrouiani si spostava dall’asse della metodologia storica – De la connaissance historique rimane forse il libro più commentato e citato del Marrou12 – verso quello dell’analisi delle problematiche culturali. Nelle sue indagini Ottorino Pasquato ha ben messo in risalto il nesso fondamentale tra storia/teologia del cristianesimo e storia/teoria della cultura che struttura buona parte dell’opera del Marrou.13 In questa sede non intendo proporre una disamina critica di un percorso analitico già scandito dagli studi del Pasquato, ma, conformandomi alla proposta degli organizzatori, concentrare l’analisi su un tema che appare, già nelle prime pubblicazioni del giovane Marrou, come ricorrente, in modo più o meno accentuato, nella sua opera di storico come di saggista, voglio dire la cristianizzazione della cultura.
8 Bisognerebbe fare almeno il nome di Franco Bolgiani (1922-2012), che di Marrou fu lo scolaro durante la sua stagione parigina (1949-1953) e poi l’amico: cf. il finissimo saggio di F. Bolgiani, «“Decadenza di Roma o tardo antico”. Alcune riflessioni sull’ultimo libro di Henri-Irénée Marrou», in La storiografia ecclesiastica nella tarda antichità, Pubblicazioni del Centro di studi umanistici, Messina 1980, 535-587 (ristampato in F. Bolgiani, Cristianesimo e culture, a cura di F. Traniello, il Mulino, Bologna 2014, 355-403). 9 Agostino, Confessioni, pagine scelte, tradotte e commentate da A.M. Moschetti, CEDAM, Padova 1937, 21942; Id., Dell’ordine, introduzione, traduzione e note di A.M. Moschetti, LEF, Firenze 1941; A.M. Moschetti, … E Agostino mi risponde, Gregoriana, Padova 1989. 10 V. Tombolato, Storia, ragione, fede. Saggio sul pensiero di Henri Irénée Marrou, prefazione di A.M. Moschetti, Antenore, Padova 1977. 11 O. Pasquato, La storiografia ecclesiastica nell’opera di H.I. Marrou, Università degli Studi di Padova, Facoltà di filosofia, 1979. La tesi fu preparata sotto la direzione del prof. Alberto Vecchi (1922-2004). 12 H.-I. Marrou, De la connaissance historique [1954], trad. it. della terza edizione rivista e corretta: La conoscenza storica, prefazione di C. Violante, il Mulino, Bologna 1962. Sulla ricezione francese delll’opera, cf. B. Pellistrandi, «De la connaissance historique. Réception et influence en France», in Cahiers Marrou 6(2013), 48-76. 13 Cf. la bibliografia dello studioso inserita nella miscellanea Historiam Perscrutari. Miscellanea di studi offerti al prof. Ottorino Pasquato, a cura di M. Maritano, LAS, Roma 2002, 31-39.
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Nel 1932, all’età di 28 anni, Henri-Irénée Marrou portava a termine due opere dedicate a problematiche culturali, scritte tutte e due in Italia: da una parte un saggio di scottante attualità intellettuale in questo inizio degli anni Trenta, sui Fondements d’une culture chrétienne, «il libro di Roma», come Marrou lo chiama ripetutamente lungo gli anni nei suoi Carnets pubblicati nel 2006.14 Si trattava di un manifesto scritto da un membro della Jeunesse étudiante chrétienne che orchestrava in maniera tanto efficace quanto personale temi e idee ricorrenti in questi gruppi di giovani studenti membri di Santa Romana Chiesa. Jacques Prévotat ne ha felicemente delineato il contesto ideologico,15 che si può sintetizzare nel motto tratto da una premessa al primo fascicolo di Chantiers, una delle riviste del movimento: «Passo a passo rifaremo un’atmosfera cristiana, da dove possono sorgere istituzioni cristiane».16 Una simile prospettiva, tipica di un integralismo cattolico anni Venti e Trenta, con la sua retorica fatta di richiami alla «civiltà sana» e al «cristianesimo autentico»,17 pervade tutto il saggio del Marrou e sbocca nell’invito rivolto ai compagni a «lavorare con la stessa anima a cristianizzare la civiltà che ci fa vivere».18 Lo sviluppo delle idee, non soltanto com’è di dovere per un giovane storico dedicato alla preparazione di una tesi sulla «nozione di cultura intellettuale in sant’Agostino» – tale è il titolo dato al progetto di tesi nel dicembre 193119 –, ma più fondamentalmente secondo una prospettiva storico-ideologica tutta improntata, evidentemente con sfumature proprie, al medioevalismo cattolico di questi decenni – basta ricordare l’articolo programmatico di Agostino Gemelli per il primo fascicolo di Vita e Pensiero nel 1914: «Noi siamo medioevalisti; e lo siamo perché riconosciamo che la cosiddetta cultura moderna è il nemico più fiero del
14 H.-I. Marrou, Carnets posthumes, a cura di F. Marrou-Flamant, Cerf, Paris 2006, 145, 161, 164, 177, 187, 257, 273, 277. 15 J. Prévotat, «Fondements d’une culture chrétienne», in Y.-M. Hilaire (a cura di), De Renan à Marrou. L’histoire du christianisme et les progrès de la méthode historique (18631968), Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 1999, 117-134. Si potrà confrontare il libro con un articolo del 1943 intitolato «Les caractères généraux d’une civilisation humaine», ristampato in J. Lecuir, «Paul Vignaux et Henri Irénée Marrou, 19401941», in Cahiers Marrou. Hors-série 1(2012), 9-26, in particolare 21-29. 16 Prévotat, «Fondements d’une culture chrétienne», 121. 17 Cf. anche H.-I. Marrou, «Défense de la culture et liberté de l’esprit», in Esprit (nov. 1936), 233-250, ristampato in Id., Crise de notre temps et réflexion chrétienne de 1930 à 1975, introduction de J.M. Mayeur, Beauchesne, Paris 1978, 54-70, qui 63, e Id., recensione di «J. Le Goff, La Civilisation de l’Occident médiéval», Arthaud, Paris 1964, in Esprit (dic. 1965), 1200-1206, ristampata in Id., Crise de notre temps, 258-265, 259: «Une civilisation “saine”, c’est-à-dire organisée autour d’un même système idéologique, par opposition à l’anarchie des valeurs du monde contemporain». Sulla retorica malattia/sanità nel periodo 1919-1939, cf. per esempio M. Ciliberto, «Malattia/sanità. Momenti della filosofia di Croce fra le due guerre», ristampato in Id., Figure in chiaroscuro. Filosofia e storiografia nel Novecento, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2001, 243-283. Su una possibile eco platonica, cf. Bolgiani, «“Decadenza di Roma o tardo antico”», 370 della ristampa. 18 Davenson, Fondements d’une culture chrétienne, 115. 19 Riché, Henri-Irénée Marrou historien engagé, 40.
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Cristianesimo e perché riconosciamo che è vano parlare di adattamenti, di penetrazione»20 –, fa un abbondante ricorso alla materia storica, e singolarmente alla figura di sant’Agostino, un uomo dell’antichità, vivente dell’antica vita, pensante con le tecniche intellettuali che aveva ricevuto dai maestri pagani. Ma quella cultura che era in lui come eco di una civiltà non cristiana, egli ha lavorato a cristianizzarla; non l’ha respinta; ha cercato di trasformarla in lui per quanto era possibile. Naturalmente non ha raggiunto l’intento che il suo genio aveva saputo intravedere; non è lui, ma il lontano medioevo che ha portato a compimento l’ideale della cultura cristiana, doctrina christiana, nella misura imperfetta in cui era umanamente possibile […]. Grande esempio: la nostra situazione è analoga. Anche noi viviamo in un mondo pagano e sognavamo di cristianizzarlo.21
Nello stesso anno 1932, Marrou portava a termine un lavoro scientifico, «tecnico» come lui stesso lo chiama,22 il suo mémoire di membro dell’École française de Rome, che sboccherà nel libro intitolato Mousikos anêr. Étude sur les scènes de la vie intellectuelle figurant sur les monuments funéraires romains. In questo studio Marrou evocava «il problema così difficile dell’elaborazione di una cultura cristiana al quale tutto un aspetto della patristica si è dedicato».23 Tale gioco di echi e scambi continui tra opere scientifiche e saggi politici, culturali o musicali, pubblicati spesso sotto lo pseudonimo di Davenson, è percepibile lungo tutta la vita del Marrou. Questa osservazione, che ci autorizza senz’altro a ricorrere alla saggistica per illuminare l’interpretazione dell’opera storica, trova anche una legittimazione nel proprio «riconoscimento di paternità» che apre la seconda edizione, nel 1971, del volume sui trovatori:
20 A. Gemelli, «Medioevalismo», in Vita e pensiero. Rassegna italiana di cultura 1(1914), 1-24, qui 5 (citato in T. Di Carpegna Falconieri, Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati, Einaudi, Torino 2011, 226, nota 18; salvo errore, non c’è nemmeno un accenno a Marrou in questo libro). Sull’articolo di Gemelli ristampato in Vita e pensiero: 1914-1964, Vita e Pensiero, Milano 1966, 11-37, cf. E. Poulat, in Archives des sciences sociales des religions 25(1968), 233. 21 Davenson, Fondements d’une culture chrétienne, 152. 22 Marrou, Carnets posthumes, 154. Il 29 aprile 1932, Marrou scrive a Laloy: «Hélas, il y aussi le principal, c’est que je suis noyé, mais là tout à fait, dans l’archéologie et mon fameux mémoire “sur la valeur mystique des monuments funéraires représentant un docteur ou un philosophe”: c’est fini de moi, maintenant du moi que vous connaissez, qui a des idées sur un certain nombre d’idées, et un faible pour le mot “métaphysique”. Je ne suis plus qu’un Monsieur qui se réveille en se demandant la date d’une inscription et qui se couche la tête lourde des sarcophages du type de Sidamara. Alors, vous comprenez je suis devenu tellement idiot à ce régime là que je n’ai pas le courage de vous écrire – Que vous avez raison de n’être pas un bon élève! Je l’ai été, hélas, et il m’en reste quelque chose: je fais très sérieusement la tâche la plus bête». 23 H.-I. Marrou, Mousikos anêr. Étude sur les scènes de la vie intellectuelle figurant sur les monuments funéraires romains, Didier et Richard, Grenoble 1938, 256.
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Michel-Yves Perrin M’era sembrato pratico conservare questo pseudonimo per rendere più omogenea la mia bibliografia, firmando Marrou quel che pubblicavo come storico, Davenson ciò che rientrava nel campo della critica musicale e, se oso dirlo, della musicologia […]. Mi sembrava corretto non invocare l’autorità che mi poteva venire dal lavoro strettamente scientifico per raccomandare al lettore ignaro ciò che era in effetti un libero saggio di estetica musicale. Non vorrei, tuttavia, che questo volume sui trovatori apparisse in qualche modo sminuito dal nome con cui l’ho firmato.24
Come si vedrà tra poco, c’è una sostanziale unità nell’opera scritta del Marrou. Bisogna aggiungere un altro caveat: a più di trenta anni dalla morte dello studioso, l’opera di Marrou appartiene naturalmente alla storia della storiografia, lontana tanto dalle commemorazioni agiografiche quanto dalle strumentalizzazioni accademiche. Nell’analisi qui presentata si proverà a rispettare la «neutralità assiologica» che Max Weber, in un testo del 1917 che colpisce ancora oggi per la sua stupenda lungimiranza e acutezza intellettuale, difendeva con forza e illustrava con l’esempio di una storia del cristianesimo scevra da qualsiasi tentazione confessionale o ideologica: Se qualcuno è un docente capace, il suo primo compito è quello di insegnare ai propri allievi i fatti scomodi (unbequeme Tatsachen). Credo che se l’insegnante universitario costringe i suoi ascoltatori ad abituarsi a questo atteggiamento, egli compirà una funzione non soltanto intellettuale, ma anche qualcosa di più – e vorrei essere immodesto parlando di una «funzione etica», per quanto ciò possa suonare alquanto patetico in riferimento a un’ovvietà così semplice.25
Alcuni contributi a un convegno riunito a Tolosa nel 2004 attorno all’Histoire de l’éducation dans l’antiquité hanno dato una buona illustrazione di tale prospettiva critica.26 Mi preme sottolineare sin dall’inizio che non intendo proporre in questa sede una disamina completa dell’opera del Marrou sotto l’angolo storiografico appena delineato, cioè il problema della «cultura cristiana» e della cristianizzazione della cultura, soprattutto nel tardoantico, un periodo allo studio del quale Marrou ha dato un impulso assolutamente decisivo con la sua Retractatio alla tesi su Saint Augustin et la fin de
Id., Les troubadours, Seuil, Paris 21971, 5, trad. it.: I trovatori, Jaca Book, Milano 1983. M. Weber, Wissenschaft als Beruf [1919], trad. it.: La scienza come professione. La politica come professione, Einaudi, Torino 2004, 32. 26 J.M. Pailler – P. Payen (a cura di), Que reste-t-il de l’éducation classique? Relire «le Marrou», Histoire de l’éducation dans l’Antiquité, Presses Universitaires du Mirail, Toulouse 2004 (cf. per esempio i contributi di D. Julia o di P. Demont). Sullo stesso argomento cf. F.R. Nocchi, L’idea di formazione nelle prospettive storiografiche di Jaeger e Marrou: l’educazione aristocratica, Aracne, Roma 2005. 24
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la culture antique pubblicata nel 1949.27 Si potrebbero citare le testimonianze di tanti scholars nel mondo che sono stati profondamente influenzati da questa essenziale appendice nella loro scelta del tardoantico come campo di indagine scientifica.28 È forse l’eredità più incontrovertibile dello studioso francese.29 La sbalorditiva poliedricità del Marrou, storico, saggista, musicologo, sindacalista, teologo, come la sua facondia, non permettono nello spazio concesso a questa relazione di dare una panoramica esaustiva delle posizioni del Marrou sul tema della cristianizzazione della cultura; occorrerebbe un libro o una tesi. Vorrei soltanto soffermarmi su alcuni punti salienti dell’analisi marrouiana nei suoi fondamenti, nelle sue evoluzioni e nei suoi concetti attraverso un percorso che non si limiti alle opere più note, ma che prenda in considerazione diversi articoli, contributi, prefazioni o recensioni declinati lungo tutto l’iter scientifico del Marrou. Lo spoglio della documentazione conservata nell’archivio Marrou porterà senza dubbio nel futuro a precisazioni, sfumature, e forse correttivi, ma è tutt’altro lavoro. Qui si tenterà per finire di proporre alcuni elementi di riflessione tesi a una valutazione critica del contributo dello studioso alla ricerca contemporanea sulla cristianizzazione della cultura nel tardoantico. A leggere in contemporanea la tesi su Agostino e il saggio sui Fondamenti di una cultura cristiana, che Marrou non ha mai rinnegato – anzi evoca di continuo nei suoi Carnets30 come nella sua Théologie de l’histoire31 del 1968 – viene spontanea l’idea della possibilità di costruire una sinossi tematica tra la parte centrale dei Fondements, intitolata
27 H.-I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, De Boccard, Paris 1958, 621-713. 28 Un esempio per tutti: P. Brown, «Arnaldo Dante Momigliano 1908-1987», in Proceedings of the British Academy 74(1988), 405-442, in particolare 426. Cf. L. Cracco Ruggini, «Arnaldo Momigliano e il tardoantico», in Id. (a cura di), Omaggio ad Arnaldo Momigliano. Storia e storiografia sul mondo antico, New Press, Como 1989, 159-184, in particolare 162, nota 5 (a proposito del giudizio di Momigliano su Marrou). 29 Cf. per esempio la voce «Marrou, Henri-Irénée» redatta da G. Traina, l’attuale titolare della cattedra sorboniana che anni fa fu del Marrou, in The Encyclopedia of Ancient History, Wiley Encyclopedia Online, Blackwell Publishing, Oxford 2012 (http://onlinelibrary.wiley. com/book/10.1002/9781444338386). Cf. S. Heid, s.v. «Marrou, Henri-Irénée», in S. Heid, M. Dennert (edd.), Personenlexikon zur christlichen Archäologie. Forscher und Persöhnlichkeiten vom 16. bis 21. Jahrhundert, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana-Schnell & Steiner, Roma-Regensburg 2012, t. II, 874-876. 30 Cf. sopra, nota 14. 31 H.-I. Marrou, Théologie de l’histoire, Seuil, Paris 1968, 156. Anche se Marrou scrive a Laloy in data 29 gennaio 1933: «Je suis attelé à mon livre sur la Culture et je ne sors plus de là; c’est un peu fatigant, mais si on veut en finir, il faut bien y passer quelques mois. Je languis d’en être débarrassé: ce n’est plus qu’un long détour d’écriture, un peu assommant et j’ai l’impression de cataloguer de vieilles idées mortes»; il 1° febbraio 1933: «Chapitre après chapitre, mon livre avance. Plus je vais plus il me paraît idiot; c’est le signe de notre séparation mutuelle. Il faut en finir. Jusque là je ne pourrai pas me retrouver libre…», e il 19 novembre 1934: «Je reste encore trop enlisé dans l’ornière Livre de Rome, Ie partie, et je date, terriblement, des années 1920!».
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«Trattato della civiltà sana», e alcuni capitoli della seconda e terza parte del volume agostiniano dedicati alla cultura cristiana. È come se il saggio pubblicato nel 1934 presentasse in gran parte l’apparecchiatura teorica dell’inchiesta storica. Si vede già chiaramente in atto l’ossessione metodologica del Marrou che si farà sempre più forte con gli anni e troverà uno sbocco non soltanto nel volume del 1954 De la connaissance historique ma anche in tante prefazioni o recensioni: del volume di Joseph Rovan sul cattolicesimo politico in Germania nel 1956, egli loderà la Gründlichkeit dell’autore, cioè «questo spirito veramente filosofico senza il quale, per parlare come Croce, lo storico non è più che un cronista».32 Del resto Marrou stesso, all’occasione delle Settimane di Spoleto del 1961, rispondendo a una domanda di Raul Manselli, parlerà con umorismo del carattere forse «patologico» della sua passione per la metodologia storica.33 Nel post scriptum di una lettera indirizzata a Roland Bainton, il biografo americano di Lutero, nel marzo 1947, un periodo che vedeva la chiusura delle biblioteche e degli archivi pisani, Delio Cantimori scriveva: «Si parla molto di metodo quando non si può fare vera ricerca».34 Nel caso del Marrou non si può non sottolineare, al contrario, quanto riflessione metodologica e lavoro tecnico dello storico dell’antichità cristiana siano sempre andati di pari passo, anche se Marrou, già nel 1937, nelle proprie Regulae ad directionem ingenii annotava: «Non dedicare più di 15 giorni all’anno per fare erudizione».35 Pare utile sintetizzare la cornice e le categorie intellettuali usate dal Marrou per trattare della cristianizzazione della cultura negli anni Trenta, partendo proprio dall’analisi polemica sviluppata nei Fondements. Si presenta per primo il concetto di «civiltà» inteso come la traduzione del tedesco «Kultur» e che delinea «l’insieme dei caratteri che definiscono la vita collettiva di una data società a un dato periodo della sua storia»,36 un concetto «etnologico» secondo la qualifica del Marrou, che si serve
32 H.-I. Marrou, «Préface», in J. Rovan, Le Catholicisme politique en Allemagne, Seuil, Paris 1956, 7-9, qui 8. 33 H.-I. Marrou, in Il passaggio dall’antichità al medioevo in Occidente. Spoleto, 6-12 aprile 1961, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1962, 650. 34 J. Tedeschi (a cura di), The Correspondence of Roland H. Bainton and Delio Cantimori, 1932-1966. An Enduring Transatlantic Friendship Between Two Historians of Religious Toleration, with an Appendix of Documents, Olschki, Firenze 2002, 149-150. 35 Marrou, Carnets posthumes, 216. Cf. ivi, 454 (1952): «Je renonce à l’érudition». Cf. Id., «La responsabilité de l’intellectuel», in Bulletin du Cercle Saint-Jean Baptiste (1962), 27-37, ristampato in Id., Crise de notre temps, 207-220, 208: «Le devoir qui s’impose à vous d’être véritablement des intellectuels au sens plénier du mot, c’est-à-dire de ne pas vous laisser réduire, engloutir par la technique». La corrispondenza di Marrou con Laloy riecheggia discorsi di questo tipo; per esempio, il 22 ottobre 1933: «On a recommencé à travailler à la thèse, la philologie est aussi bête que l’archéologie; le problème est de faire tout cela sans y sombrer, sans perdre le contact avec l’Être. C’est une étrange chose que cette dégradation que l’on subit à être faisant quelque chose», o il 31 ottobre 1934: «Ma thèse est pleine d’idioties philologiques, pour moi elles auront été des exercices de contrepoint. L’important est que j’existe encore après en être sorti». 36 Davenson, Fondements d’une culture chrétienne, 69.
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sempre di questo aggettivo in maniera spiccatamente dispregiativa. Aggiunge il giovane studioso: Si parla volentieri della forma di una civiltà, della sua omogeneità; ci si riferisce intuitivamente, come a una specie di ideale, a una concezione tutt’altra della civiltà, dove tutti i fatti, mutualmente interdipendenti, costituirebbero un tutto organico, verrebbero da se stessi a raggrupparsi intorno a un centro, si ridurrebbero ad alcuni principi elementari.37
Se Marrou critica il carattere sistematico che Oswald Spengler (18801936) aveva dato alla nozione di organicità delle civiltà nella sua fortunatissima opera Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte (1918-1922)38 – si ritornerà tra poco sulla lettura marrouiana dello Spengler –, egli considera ciononostante che esistono delle «civilisations métaphysiques» (civiltà metafisiche) che corrispondono al concetto di organicità sognato dal filosofo tedesco, per esempio «la civiltà buddistica», «la civiltà islamica» o «la civiltà cattolica», caratterizzate da un’unità organica attorno a una Weltanschauung – così glossa Marrou; si potrebbe parlare anche di «ideologia», una voce della quale lo
Ib. Cf. Marrou, Carnets posthumes, 101-102 (1929). Salvo errore, manca a tutt’oggi uno studio esauriente sulla ricezione dei due volumi dello Spengler: cf. per esempio F.M. Cacciatore, Indagini su Oswald Spengler, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, 13-19. Cf. anche infra, nota 84. Queste righe erano già scritte quando abbiamo potuto consultare Z. Gasimov – C.A. Lemke Duque (a cura di), Oswald Spengler als europäisches Phänomen: der Transfer der Kultur- und Geschichtsmorphologie in Europa der Zwischenkriegszeit 1919-1939 (Veröffentlichungen des Instituts für Europäische Geschichte Mainz 59), Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2013; salvo errore, Marrou non è citato in questo volume. Nei suoi Carnets posthumes, Marrou evoca Spengler a partire dall’anno 1929 (cf. pp. 102, 108, 127). Non abbiamo potuto determinare se e quando Marrou abbia preso in prestito Der Untergang des Abendlandes alla Biblioteca della Rue d’Ulm dove fu allievo dal 1925 al 1929. Dai registri dei prestiti degli allievi, che sono stati in uso fino al 1928 e che abbiamo potuto consultare, non risulta che Marrou abbia preso in prestito l’esemplare della Normale negli anni universitari 1925-1928. I due volumi sono stati messi sullo scaffale della Biblioteca a disposizione dei lettori molto probabilmente nell’anno 1922 (volumi con la segnatura S Phi g 627 8°): dai registri si apprende che i germanisti Aurélien Sauvageot (1897-1988) e Robert Minder (1902-1980) avevano letto Spengler già nel 1922-1923 come i loro «camarades», i classicisti Pierre Boyancé (1900-1976) e Jean Gagé (1902-1986). Ringrazio sentitamente la dottoressa Françoise Dauphragne e la dottoressa Sandrine Iraci della Biblioteca della Normale per avermi concesso con molta generosità la consultazione dei registri. Secondo Bolgiani, «“Decadenza di Roma o tardo antico”», 365, nota 18 della ristampa, «Marrou lesse Spengler nella traduzione francese di M. Tazerout (Gallimard, Paris 19311933, in 6 [sic !] voll.)». Ma Marrou cita Spengler due anni prima della pubblicazione della versione di Tazerout (1893-1973). Su questa traduzione, che sarebbe stata diffusa soprattutto tramite la ristampa del 1948, cf. adesso D. Engels, «“Das Gescheiteste was überhaupt über mich geschrieben ist”. André Fauconnet und Oswald Spengler (mitsamt der bislang unveröffentlichten Korrespondenz Fauconnets mit August Albers, Hildegard und Hilde Kornhardt und Richard Korherr)», in Gasimov – Lemke Duque (a cura di), Oswald Spengler als europäisches Phänomen, 105-155, in particolare 142. 37 38
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studioso si serve nel Mousikos anêr39 –, civiltà metafisiche diverse dalle civiltà sprovviste di un principio unificante che «danno un’impressione di molteplicità e di incoerenza» in preda all’eterogeneità delle «tecniche»; Marrou intende sotto questa voce i diversi campi del sapere e dell’esperienza umani.40 Il comparire di una civiltà metafisica risulta generalmente all’inizio «dalla nascita di un elemento nuovo in una data tecnica»,41 per esempio una filosofia o una teologia. «Appena una civiltà si trova un po’ ricca di elementi intellettuali – continua Marrou – possiede una molteplicità di metafisiche: filosofie, religioni, morali coesistono nel pensiero umano». Sorge allora la domanda: Sotto quali condizioni e tramite quali meccanismi una di queste dottrine metafisiche può essere in grado di prendere un posto preponderante e incaricarsi di animare l’insieme di una civiltà? Bisogna partire dall’individuo. […] Appena un uomo si prende di passione per una dottrina metafisica, ne scopre la ricchezza profonda, l’accetta come la Verità, subito qualcosa è cambiata in lui […]. La sua cultura – intesa nel senso di vita intellettuale – si trova orientata; qualcosa gli dà unità e senso.42
«Ognuno dei fedeli di questa metafisica si sforzerà di conformare tutte le manifestazioni della sua vita a questa regola e a questo ideale», e alla fine, se tutti i membri di una determinata società aderiscono a questa metafisica, si potrà verificare l’emergere di una civiltà metafisica, cioè veramente informata da una data metafisica. In questa dinamica culturale ricostruita dal Marrou il modello cristiano è ovvio, e infatti lo sbocco naturale dell’analisi del giovane saggista è «l’ideale della civiltà cristiana, una civiltà che sarebbe tutt’intera centrata sulla verità della metafisica cristiana».43 La cristianizzazione della cultura è il processo stesso di formazione di una tale civiltà cristiana. Quattro notazioni importanti accompagnano l’analisi marrouiana. 1. «Una metafisica reagisce sulla civiltà, la riprende dal dentro, la trasforma, la informa. Principio di giudizio, principio di scelta, la metafisica è ancora un principio di gerarchia […]. La cultura metafisica suppone una reductio artium ad philosophiam».44 Con quest’espressione, che Marrou prende in prestito dal titolo di un’opera di san Bonaventura conosciuta tramite un libro di Étienne Gilson, intitolato La Philosophie de saint
Marrou, Mousikos anêr, 9. Sarebbe davvero utile analizzare nei particolari il posizionamento del Marrou rispetto alle tesi spengleriane alla fine degli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta. Marrou evoca il 3 febbraio 1933 il suo «manuel d’apocalyptisme», e il 16 aprile 1934 «le catastrophisme ascétique du livre de Rome». 41 Davenson, Fondements d’une culture chrétienne, 80. 42 Ivi, 82. 43 Ivi, 113. 44 Ivi, 86. 39 40
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Bonaventure e pubblicato nel 1924,45 egli definisce le condizioni dell’emergere di una cultura metafisica. 2. «Una metafisica porta con sé una tavola dei valori; la sua competenza si estende a tutti i campi; ella non giudica soltanto l’insieme della civiltà presa in blocco, ma all’interno di essa, ogni tecnica in particolare».46 L’insistenza sul carattere giudicatorio della metafisica è chiaramente un’eco del motto dell’Azione cattolica nelle sue diverse branche, e singolarmente della Jeunesse étudiante chrétienne: «Vedere, giudicare, agire».47 Risulta forse anche dall’attività di critica musicale che troverà sulle pagine di Esprit una tribuna idonea. Il giudicare rimarrà sempre una caratteristica del Marrou saggista così come del Marrou storico. 3. «I fatti di civiltà si impongono all’uomo; la vita di ogni individuo è nutrita da prestiti inconsapevoli all’ambiente che lo circonda. C’è qui un meccanismo spontaneo che chiamerò: osmosi culturale».48 «Non si può considerare l’intelligenza fuori dalle forme nelle quali l’educazione
45 É. Gilson, La Philosophie de saint Bonaventure, Vrin, Paris 1924. Marrou lo cita anche in Saint Augustin et la fin de la culture antique, 277 e 280, nota 3. Sull’importanza di questo libro per Marrou, cf. P. Vignaux, «Témoignage sur une jeunesse étudiante (1925-1932)», in Marrou, Crise de notre temps, 107-108. Studi recentissimi hanno portato a mettere in risalto il francescanesimo di Marrou: cf. il dossier pubblicato in Études franciscaines n.s. 6(2013)2, e il volume O. Boulnois (a cura di), Paul Vignaux citoyen et philosophe (1904-1987) suivi de Paul Vignaux, La philosophie franciscaine et autres documents inédits (Bibliothèque de l’École des Hautes Études. Sciences Religieuses 161), Brepols, Turnhout 2013. Polemizzando con Jacques Maritain (1882-1973), che chiama con ironia «Jacques de Jean de St Thomas», Marrou scriveva a Laloy il 17 settembre 1933: «Avec Jacques de Jean de St Thomas l’éternité de l’Église, ça consiste à être extrêmement vieux. Je pensais à cela ce matin, 17 septembre, fête des stigmates, évangile: Si quelqu’un veut venir après moi. Tout le franciscanisme est sorti de là, avoir un jour relu tous les versets sur la pauvreté, les avoir pris au sérieux, jusqu’au bout. Ce n’était pas bien malin, et déjà les théologiens si St Thomas n’était pas né, avaient compilé des sommes […]. Perpétuellement le christianisme renaît parce qu’on secoue les vieilles choses qu’on redécouvre la simplicité des origines». Il 3 gennaio 1935: «Je lis, en vieil italien, un franciscain du XIVe s. qui s’appelle Jacopone de Todi, vous en ai-je jamais parlé, je l’ai découvert il y a longtemps, à l’École Normale, mais je ne savais pas assez d’italien pour le comprendre alors. Naturellement on y retrouve tout – la simplicité et la pauvreté qui possède toutes choses en esprit de liberté. C’est très simple, écrit dans le style ballades populaires, et puissant». E il 10 gennaio dello stesso anno: «En dehors de St Augustin je lis toujours (lentement, c’est de l’ombrien du XIVe s., vous comprenez) les Laudi de fra Jacopone: c’est très simple, direct, de ton populaire et il y a tout. Ce n’est pas par hasard que les docteurs franciscains ont été augustiniens. Le cléricalisme intégral de l’augustinisme est la condition de la divine aisance et liberté franciscaine et il fonde toute sa réalité, autrement ce n’est que fadeur tolstoïenne». 46 Davenson, Fondements d’une culture chrétienne, 86. 47 Cf. per esempio J. Cardijn, Laïcs en première ligne, Éditions universitaires. Vie ouvrière, Paris-Bruxelles 1963, 166, «révision de vie», o J. Bréheret, s.v. «Révision de vie», in Dictionnaire de Spiritualité, Beauchesne, Paris 1988, XIII, coll. 493-500. 48 Davenson, Fondements d’une culture chrétienne, 83. Sull’uso marrouiano del concetto, cf. O. Pasquato, «“Osmosi culturale” tra ellenismo e cristianesimo nella storiografia di H.I. Marrou», in Salesianum 1(1987), 105-128. Si noterà en passant che già E. Buonaiuti usava la parola «osmosi» nel suo volume Il cristianesimo nell’Africa romana, Gius. Laterza & Figli, Bari 1928, 340: «La propagazione delle innovazioni religiose preferisce effettuarsi per osmosi, anziché per semplice diffusione : attraverso cioè una parete separatoria».
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e l’abitudine l’hanno colata. Non c’è conversione così approfondita che possa abolire l’effetto della cultura ricevuta. San Girolamo nel deserto di Chalcis, sant’Agostino a Ippona sono rimasti quello che la cultura del loro tempo aveva fatto di loro, dei grammatici e dei retori».49 Controbilancia l’osmosi culturale «la revisione della cultura»,50 che mette in questione i prestiti ambientali e li passa al vaglio delle dottrine metafisiche. La revisione della cultura non può essere che l’opera di un’«élite». Questa notazione giustifica l’interesse manifestato per una personalità eccezionale come Agostino. 4. «La nozione di civiltà metafisica descrive uno stato limite, cioè non è mai realizzata con ogni rigore».51 «Una civiltà metafisica corre sempre il rischio di essere buttata nel nulla».52 La nostalgia del medioevo, voglio dire del XII e XIII secolo, che Marrou condivide con tanti cattolici suoi contemporanei, e che rimarrà forte lungo tutto l’iter scientifico dello studioso – basta leggere il volume del 1961 sui trovatori53 – non gli impedisce di notare sempre di più – è un’evoluzione chiara della riflessione marrouiana – il carattere «imperfetto», «incompleto» della cristianità medioevale. Anche «in un ambiente così profondamente intriso di cristianesimo» rimane una disarmonia, un’eterogeneità – Marrou non è Gemelli –, per esempio «il contrasto assoluto» che esiste, secondo Marrou, tra morale cristiana e morale cortese.54
Davenson, Fondements d’une culture chrétienne, 54. Ivi, 90. 51 Ivi, 94. 52 Ivi, 114. 53 Marrou, Les troubadours. Cf. queste righe in una lettera indirizzata a Jean Daniélou il 7 agosto 1965 a proposito del libro di quest’ultimo L’Oraison, problème politique, A. Fayard, Paris 1965: «Croyez bien que je ne méprise pas le “christianisme sociologique”, ni l’apport de la chrétienté médiévale (je suis scandalisé par le livre si négatif que le jeune Le Goff lui a consacré): si loin que celle-ci soit restée de l’idéal qu’elle avait conçu, elle nous a légué ce fonds chrétien qui rend la (re)conversion si facile, lorsqu’on pense aux problèmes que nos missionnaires rencontrent dans les pays issus de civilisations non “chrétiennes”» (Archivio della Provincia di Francia della Compagnia di Gesù – Vanves –, Fondo Jean Daniélou, H. Dan). Ringrazio sentitamente il reverendo padre Robert Bonfils s.j. per avermi concesso la possibilità di consultare il fondo Daniélou. Marrou fa riferimento al libro di J. Le Goff, La Civilisation de l’Occident médiéval, Arthaud, Paris 1964, che recensirà – ferocemente – in Esprit (dic. 1965), 1200-1206 (la recensione è stata ristampata in Id., Crise de notre temps, 258-265). 54 Marrou, Les troubadours, 167. Già il 26 novembre 1934 Marrou scriveva a Laloy: «Je pensais aujourd’hui que peut-être pour la commodité de la critique nous avions usé d’une image trop belle du Moyen Âge et qu’il faudrait peut-être penser qu’il était beaucoup plus un idéal qu’une réalisation. Vous voyez tout de suite ce qui en résulte: il y a moins un échec du moyen âge, et pour nous beaucoup moins un recommencement, qu’un début seulement, et pour nous un approfondissement. Le christianisme est peut-être beaucoup plus jeune qu’il nous a parfois semblé. Il faudrait reprendre les théories esquissées dans le Livre de Rome: que c’est une chose infiniment compliquée que la prise de conscience d’une civilisation et des conséquences d’une métaphysique. Il faudrait moins parler d’un échec du christianisme (devant les problèmes de la civilisation) que de la nécessaire lenteur de la pensée chrétienne». 49 50
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Il richiamo delle tesi sviluppate nei Fondements permette di cogliere nel pieno l’organizzazione della tesi su Agostino. Tutta l’opera deve sboccare nell’analisi dei quattro libri del De doctrina christiana che Marrou presenta come un trattato sulla cultura cristiana, e, meglio, «la carta fondamentale della cultura cristiana»:55 si tratta «di mettere tutte le manifestazioni dell’intelligenza sotto la dipendenza della fede»,56 in altri termini un esempio di cristianizzazione della cultura, spinta al massimo possibile, ma ancora incompleta, che procede «dalla revisione critica di tutto l’apporto della tradizione antica».57 La critica moderna, per esempio Manlio Simonetti, non condivide in pieno la posizione del Marrou sulla finalità del trattato agostiniano; la giudica «eccessiva».58 Ma nella dinamica dell’opera dello studioso francese questo giudizio di valore gioca un ruolo essenziale. Il lettore è condotto piano piano dall’analisi della cultura ricevuta da Agostino in veste di «letterato della decadenza» alla conversione che porta a un «rinnovamento totale della sua vita intellettuale: non sono soltanto i suoi convincimenti filosofici che cambiano; è l’organizzazione stessa della sua cultura che cambia».59 Ciò detto, Agostino «non era in grado di fare in sé la tabula rasa, di spogliarsi di tutte le conoscenze, di tutte le abitudini mentali che la sua prima formazione gli aveva imposto».60 «Anche un revisore come l’autore del De doctrina christiana è, malgrado tutto, un osmotico», annotava Marrou nei suoi Carnets all’inizio degli anni Trenta;61 rimane sottomesso a fenomeni di «osmosi culturale», un concetto che Marrou riprenderà ancora nel libro sui trovatori,62 ma il vescovo di Ippona ha intrapreso «la revisione della cultura»: «Almeno ha fatto tutto quello che poteva per modificare, correggere, complementare, arricchire la sua prima formazione per avvicinarsi all’ideale nuovo che aveva appena concepito».63 In questa prospettiva Agostino rappresenta l’esempio kat’exochên dell’élite impegnata nel processo di realizzazione di una civiltà metafisica, cioè della cristianizzazione della cultura. Per Marrou, Agostino, «il mio maestro» come lo chiamerà sempre, ha superato tutti i suoi predecessori in quanto «ha posto il problema della cultura cristiana in tutta la sua generalità, in tutta la sua profondità».64 «Loro potevano maledire la cultura pagana […]; non erano veramente liberati».
Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, 413. Ivi, 541. 57 Ivi, XI. 58 Agostino, L’istruzione cristiana, a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 1994, XIII. 59 Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, 165. 60 Ivi, 333. 61 Marrou, Carnets posthumes, 135. 62 Id., Les troubadours, 167. 63 Id., Saint Augustin et la fin de la culture antique, 332. 64 Ivi, 354. 55 56
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In un articolo uscito sulla Revue de synthèse nel 1938 e che costituisce una specie di postfazione al libro su Agostino, lo studioso insiste: Tra Agostino e, non direi Clemente Alessandrino o Origene, ma sicuramente san Basilio, sant’Ambrogio, anche san Girolamo, percepisco come un divario: molto meglio di tutti i suoi predecessori, Agostino ha capito che la cristianizzazione della cultura richiede un rimaneggiamento totale, una ricreazione.65
Quello che ha fatto Agostino sul piano personale ha un valore fondante – Marrou non esita a parlare di «agostinismo eterno»66 –, ma non sarà mai portato a realizzazione sul piano della società nel tardoantico. In numerosi intellettuali cristiani del tardoantico – la figura di Sinesio di Cirene acquisirà in questo contesto un valore paradigmatico67 – si produceva un vero «scisma dell’anima» secondo una formula usata dal Marrou dall’inizio degli anni Sessanta: lo studioso prendeva a prestito il concetto da una sezione dei volumi V e VI, pubblicati nel 1939, e tradotti in francese in forma abbreviata nel 1951, dell’opera di Arnold Toynbee (1889-1975) intitolata A Study of History, capitoli nei quali il teorico evoca la disintegrazione delle civiltà.68 Facendo ricorso, nel 1961, alla nozione toynbeeiana nei suoi Trovatori, Marrou annotava: L’unità interiore è un ideale attinto di raro. Come all’interno di una stessa civiltà si giustappongono, si uniscono, si combattono tante ideologie diverse, così l’anima di ogni uomo è divisa tra aspirazioni spesso contraddittorie.69
65 Marrou, «Culture, civilisation, décadence», ristampato in Id., Christiana Tempora, 3-30, qui 22-23. 66 Id., Saint Augustin et la fin de la culture antique, 352. 67 H.-I. Marrou, «Synesius of Cyrene and Alexandrian Neoplatonism», ristampato in Id., Patristique et humanisme. Mélanges, Seuil, Paris 1976, 395-319. 68 A.J. Toynbee, A Study of History, Oxford University Press, London 1934-1959, V, 376-568; VI, 1-168 («schism in the soul»). Cf. Id., L’Histoire: un essai d’interprétation, compendio di D.C. Somervell dei volumi I-VI di A Study of History, trad. dall’inglese di E. Julia, Gallimard, Paris 1951, 471-581. L’opera del Toynbee ha affascinato non soltanto storici ma anche teologi, come il neotomista svizzero Charles Journet (1891-1975), peraltro sempre molto attento alle pubblicazioni del Marrou, che recensiva sulla sua rivista Nova et Vetera; del libro del Toynbee Le Monde et l’Occident – traduzione dall’inglese da P. Du Bos, preceduta da La pensée historique de Toynbee a cura di J. Madaule, Desclée de Brouwer, Paris 1953 – Journet scriveva in Nova et Vetera XXIX(1954)4: «Il est impossible que M. Toynbee qui, faisant profession d’être historien, se tient au plan le plus passionnant de l’histoire, celui où elle rencontre la philosophie de la culture et au-dessus la théologie, laisse indifférent les historiens, les philosophes, les théologiens […]. Nous pouvons exprimer au nom de la théologie ce qu’il ne pouvait que suggérer au nom de l’histoire» (ripubblicato in C. Journet, Oeuvres complètes, XIII: 1952-1954, Desclée de Brouwer, Paris 2012, 721-731, qui 731). 69 Marrou, Les troubadours, 167. Cf. Id., L’Église de l’Antiquité tardive 303-604 [1963], Seuil, Paris 1985, 30-31: «La structure bi-polaire de l’Empire chrétien tel que nous venons de l’analyser a été quelque chose de plus qu’une répartition des compétences entre hommes d’Église et hommes d’État; c’était bien plus complexe et bien plus grave: un véritable “schisme dans l’âme” pour parler comme Arnold J. Toynbee, qui, au-delà du niveau des
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Anche i secoli centrali del medioevo, che si sono avvicinati alla realizzazione del sogno agostiniano, ne danno prova. Nel 1954, in un passo del De la connaissance historique, scrive Marrou: Non si può contestare che un numero molto grande di aspetti della civiltà del medioevo occidentale si spiegano in relazione alla loro stretta subordinazione all’ideale religioso cristiano […]. Ma, nello stesso tempo, non è non meno evidente che un certo numero di settori della vita medioevale sono rimasti fuori da questa sintesi: venuti d’altrove, hanno ricevuto una cristianizzazione soltanto superficiale, una vernice esteriore che ha solo celato il loro essere reale senza riuscire a integrarli veramente nell’edificio della cristianità.70
Da questi capisaldi dell’analisi marrouiana deriva la sua impostazione generale e durevole di fronte al problema della cristianizzazione della cultura nel tardoantico. Sarebbe interessante confrontare la posizione del Marrou con quelle di altri studiosi coetanei, per esempio il Festugière (1898-1982) o il Daniélou (1905-1974), ai quali Marrou era legato, o anche il Dölger (1879-1940). Una tale indagine richiederebbe lunghi sviluppi per delineare con precisione e giustezza i limiti mobili di una ricca costellazione intellettuale. Vorrei soltanto notare la quasi assenza nell’opera del Marrou di richiami al lavoro tanto erudito del Dölger su Antike und Christentum, salvo un contributo sulle sopravvivenze pagane nei riti funerari dei donatisti, uscito nel 1949 in una miscellanea di studi in onore di Joseph Bidez e Franz Cumont.71 Visibilmente questo tipo di indagini non interessava molto al Marrou72 e rasentava troppo la visione «etnologica» fustigata nei Fondements.73 Grande è il contrasto con il Festugière
institutions, atteignait celui des consciences que nous saisissons souvent comme déchirées entre deux fidélités également exigeantes mais contradictoires». 70 Marrou, De la connaissance historique, 165. 71 H.-I. Marrou, «Survivances païennes dans les rites funéraires des Donatistes», ristampato in Id., Christiana Tempora, 225-237. Nella prefazione a Saint Augustin et la fin de la culture antique, VI, Marrou menziona Dölger – «les belles études de Dölger mettent en lumière tout ce que le Christentum doit à l’Antike, au Spätantike en fait le plus souvent» –, ma non lo cita nella bibliografia del volume. Si dovrebbe forse mettere in relazione questo dato di fatto con il posizionamento del Marrou rispetto alla «religionsgeschichtliche Schule»: cf. la sua recensione del volume di «M. Simon, Hercule et le christianisme, Les Belles-Lettres, Paris 1955», in Revue des Études Anciennes 58(1956), 418-421. 72 Raffaele Pettazzoni (1883-1959) aveva invitato Marrou all’VIII Congresso internazionale di storia delle religioni che si svolse a Roma dal 17 al 23 aprile 1955 e ci teneva moltissimo alla sua presenza. Marrou non poté essere presente e affidò agli Atti un breve testo intitolato «L’idée de Dieu et la divinité du Roi», pubblicato in The Sacral Kingship/La regalità sacra. Studies in the History of Religions, Brill, Leiden 1959, IV, 478-480, dove si fa cenno quasi soltanto a Erik Peterson (1890-1960). L’occasione di un dibattito tra lo storico del cristianesimo e gli storici delle religioni fu persa. Cf. M. Gandini, «Raffaele Pettazzoni negli anni 1952-1953. Materiali per una biografia», in Strada Maestra 62(2007)1, 1-191, in particolare 123-127; Id., «Raffaele Pettazzoni negli anni 1956-1957. Materiali per una biografia», ivi 64(2008)1, 1-247, in particolare 12. Si possono agevolmente leggere questi studi sul sito http://www.raffaelepettazzoni.it/MGANDINISM.htm. 73 La synkrisis tra le prospettive di Marrou e quelle di Peter Brown messa in atto da Bolgiani, «“Decadenza di Roma o tardo antico”», 392-402 della ristampa, mi sembra portare alla stessa conclusione.
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che dedica nel 1942 una lunga recensione all’opera del Dölger, anche se lo studioso domenicano non sembra troppo lontano dalle posizioni del Marrou quando scrive: Era impossibile che il pagano convertito al cristianesimo non portasse con lui tutto un insieme di pensieri e di gesti ereditati dai suoi antenati […]. Per quanto sincera fosse la conversione, non potevano nondimeno non sussistere alcuni modi di concepire il divino, e ancora di più, alcune maniere di adorare, di pregare, di sacrificare, tanto esse erano radicate nell’anima e quasi nella carne del neofito.
Ma Festugière aggiunge: «Del resto questi usi persistenti non erano tutti dannabili. Permanevano qui dei tratti inerenti alla religione in quanto tale e che il cristianesimo era in grado di assimilarsi».74 La prospettiva tomistica si scontra qui con l’agostiniana, anche se Marrou evoca spesso il motto: «Gratia non tollit naturam sed perficit». Lo studio del Pedagogo di Clemente Alessandrino, un autore al quale il Marrou riconosceva il merito di aver preceduto Agostino sul cammino della riflessione intorno alla cultura cristiana, e che sfocia in un’introduzione e in un commento nella collana Sources chrétiennes negli anni Sessanta,75 è forse segnato da una leggera inflessione della prospettiva strettamente agostiniana, almeno come la delineava il Marrou: «Non bisogna, insisto, contrapporre senz’altro ellenismo e cristianesimo, come se fossero due “quantità” dottrinali irriducibili».76 È un chiaro rifiuto dell’antica prospettiva luterana alla quale Harnack aveva dato una nuova illustrazione e che era da secoli, salvo eccezioni, profondamente estranea alle tradizioni storiografiche cattoliche.77 Marrou continua:
74 A.J. Festugière, «Monde antique et Christianisme, d’après J.F. [sic] Dölger », in Vivre et Penser (= Revue Biblique) 2(1942), 174-181, qui 175-176. Sul rapporto di Festugière con il cristianesimo, cf. il singolare testo intitolato «Du christianisme», in E. Lucchesi – H.D. Saffrey (a cura di), Mémorial André-Jean Festugière. Antiquité païenne et chrétienne, Patrick Cramer, Genève 1984, 275-281. Cf. anche Marrou, «Défense de la culture et liberté de l’esprit»: «Le normalien cultivé pour moi, ce n’est pas Nizan […], c’est Festugière, qui s’est fait curé et même dominicain, mais qui n’a pas oublié la splendeur de la pensée antique et dont la voix tremble d’émotion et de respect en évoquant les souffrances et la mort d’Épicure, et la sérénité de cet humanisme athée» (in Id., Crise de notre temps, p. 61). 75 Clément d’Alexandrie, Le Pédagogue, I, a cura di H.-I. Marrou, trad. di M. Harl, Éditions du Cerf, Paris 1960: SC 70; II, trad. di C. Mondésert, Paris 1965: SC 108; III, trad. di C. Mondésert − C. Matray, Paris 1970: SC 158. 76 H.-I. Marrou, «Humanisme et christianisme chez Clément d’Alexandrie d’après le Pédagogue», in K.C. Guthrie et al., Recherches sur la tradition platonicienne, Fondation Hardt, Vandoeuvres-Genève 1957, 181-200, ristampato in Marrou, Christiana Tempora, 337-354, qui 350. 77 Mi permetto di rinviare a M.-Y. Perrin, «De Harnack à Érasme: aller et retour. En vue d’une relecture critique de Walter Glawe, Die Hellenisierung des Christentums in der Geschichte der Theologie von Luther bis auf die Gegenwart (Berlin 1912)», in A. Perrot (a cura di), Les Chrétiens et l’hellénisme. Identités religieuses et culture grecque dans l’Antiquité tardive, Rue d’Ulm, Paris 2012, 219-240.
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Henri-Irénée Marrou e la cristianizzazione della cultura tardoantica Non si può dimenticare questo dato macroscopico: l’ellenismo è stato la tradizione che fu capace di accogliere l’annuncio della buona novella, il vangelo, di assorbire con la fede cristiana una buona dose di influssi stranieri, e di diventare l’ellenismo cristiano.
Le riflessioni del Marrou sulla questione del «platonismo cristiano», che spuntano con forza nel Traité de la musique selon l’esprit de saint Augustin del 1942, partecipavano già della stessa prospettiva: Il platonismo di sant’Agostino è un platonismo cristiano e il problema della musica si trova precisamente legato a uno dei punti sui quali il platonismo tradizionale, di origine pagana, riceve dal cristianesimo una correzione, un raddrizzamento di importanza capitale.78
Per il Marrou i neoplatonici da Plotino in poi non hanno capito «tutto quello che la verità cristiana rappresenta di liberazione feconda per il platonismo».79 Rimasta incompiuta nelle teoresi dei suoi fautori antichi più accaniti, la cristianizzazione della cultura si manifesta sul piano dei fenomeni sociali come un fenomeno di pseudomorfosi, cioè «tutto quello che in tema di originalità creatrice si cela sotto la vernice delle sopravvivenze e dei prestiti al classicismo», come sintetizza in una recensione uscita nel 1957.80 Salvo errore, questo concetto fa la sua prima apparizione nell’opera del Marrou nella Retractatio del 1949.81 Lo studioso lo prende a prestito dall’opera spengleriana che lo accompagnerà per tutta la vita. Nel suo Tramonto dell’Occidente, Spengler dedica tutta una parte alle «pseudomorfosi storiche» per spiegare gli sviluppi della civiltà araba all’interno del mondo tardoantico. Vale la pena di citare il passo introduttivo: Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure: l’acqua s’infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupati. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo ad altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli, la cui struttura interna contraddice la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto le specie esteriori di un altro. È ciò che i mineralogi chiamano pseudomorfosi.82
78 H. Davenson (= H.-I. Marrou), Traité de la musique selon l’esprit de saint Augustin, Éditions de la Baconnière, Neuchâtel 1942, 72. 79 Ivi, 85. 80 H.I. Marrou, recensione di «M. Frickel, “Deus totus ubique simul”. Untersuchungen zur allgemeinen Gottgegenwart im Rahmen der Gotteslehre Gregors des Grossen, Herder, Freiburg i.B. 1956», in Revue de l’histoire des religions 152(1957), 224-226, qui 226. 81 Id., Saint Augustin et la fin de la culture antique, 690-695. 82 O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte [1918], trad. it.: Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Guanda, Parma 1991, 926. Si leggeranno con grande profitto le perspicue e
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In analogia con tale fenomeno, Spengler definisce «pseudomorfosi storiche» i processi in cui una vecchia civiltà straniera grava talmente su di un paese, che una civiltà nuova, indigena, ne resta soffocata e non solo non giunge a forme sue proprie e pure di espressione ma, nemmeno, alla perfetta coscienza di se stessa. Tutto ciò che emerge dalle profondità di una giovane animità va a fluire nelle forme vuote di una vita straniera; una giovane sensibilità si fissa in opere annose e invece dell’ergersi in una libera forza creatrice nasce soltanto un odio sempre più vivo per la costrizione che ancora subisce da parte di una realtà lontana nel tempo.83
L’opera dello Spengler ha avuto una straordinaria diffusione: per prendere il caso francese, già nel 1925 un professore di lingua e letteratura germaniche all’Università di Poitiers, filosofo di formazione, André Fauconnet (1881-1965), presentava «il profeta del declino dell’Occidente» al pubblico francese.84 Marrou potrebbe aver letto questa introduzione su un esemplare della Biblioteca dell’École Normale Supérieure a Parigi. Il fascino per la concettualità spengleriana si è esercitato in molte direzioni e la nozione di «pseudomorfosi storiche» fu usata da numerosi intellettuali,85 da Hans Jonas, nel 1934, nel primo volume del suo libro Gnosis und spätantiker Geist86 – l’uso di concetti spengleriani e heideggeriani si meritò una severa stroncatura da parte del giovane Arthur Darby Nock87 – al teologo ortodosso russo Georgij Florovsky, nella seconda metà degli stessi anni Trenta, per contrastare gli influssi occidentali sulla teologia ortodossa,88 a Karl Jaspers nel 1938, per descrivere i giudizi nietzschiani
interessantissime analisi di A. Orsucci, Da Nietzsche a Heidegger. Mondo classico e civiltà europea, Edizioni della Normale, Pisa 2012, 215-314, sulle fonti dello Spengler. Cf. anche Cacciatore, Indagini su Oswald Spengler, 41-64. 83 Spengler, Il tramonto dell’Occidente, 926-927. 84 A. Fauconnet, Un philosophe allemand contemporain: Oswald Spengler, le prophète du «Déclin de l’Occident», F. Alcan, Paris 1925. Cf. adesso D. Engels, «“Das Gescheiteste was überhaupt über mich geschrieben ist”. André Fauconnet und Oswald Spengler (mitsamt der bislang unveröffentlichten Korrespondenz Fauconnets mit August Albers, Hildegard und Hilde Kornhardt und Richard Korherr)», in Gasimov – Lemke Duque (a cura di), Oswald Spengler als europäisches Phänomen, 105-155. 85 Cf. P. Probst, s.v. «Pseudomorphose», in J. Ritter – K. Gründer (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, Schwabe & Co., Basel 1989, coll. 1565-1567. 86 H. Jonas, Gnosis und spätantiker Geist. Teil 1: Die mythologische Gnosis. Mit einer Einleitung: Zur Geschichte und Methodologie der Forschung, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1934, 73-74. 87 A.D. Nock, recensione di «H. Jonas, Gnosis und spätantiker Geist. Teil 1, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1934», in Gnomon 12(1936), 605-612. 88 D. Wendebourg, «“Pseudomorphosis” – ein theologisches Urteil als Axiom der kirchen – und theologiegeschichtlichen Forschung», in R.F. Taft (a cura di), The Christian East, Its Institutions and Its Thought. A Critical Reflection. Papers of the International Scholary Congress for the 75th Anniversary of the Pontifical Oriental Institute Rome, 30 May-5 June 1993, Pontificio Istituto Orientale, Roma 1996, 565-589; J. Oeldemann, «Pseudomorphose oder Komplementarität? Historische Entwicklung und heutige Bewertung gegenseitiger Einflüsse der Theologie in Ost und West», in T. Nikolaou (a cura di), Ost- und Westerwei-
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sullo sviluppo del cristianesimo.89 L’uso marrouiano è dunque tardivo e sarebbe interessante poter ricostruire l’iter intellettuale che l’ha portato a farsi un vettore tra i più efficaci della concettualità spengleriana sino al piccolo volume Décadence romaine ou antiquité tardive?, uscito postumo nel 197790 – salvo eccezioni, gli storici contemporanei non leggono più Spengler, ma succede che leggano Marrou –, mentre ha sempre maggiormente criticato «questo maestro di tenebrosi errori, questo precursore del nazismo»,91 per citare un’annotazione della Théologie de l’histoire indirizzata contro Les mots et les choses di Michel Foucault (1966). Ci si deve ricordare che la realtà storica obbedisce raramente alla logica delle idee, e chi vi parla non nasconde, in conseguenza, il timore delle possibili semplificazioni che possono aver pesato sull’analisi delle posizioni del Marrou. Al termine di questo rapido percorso colpisce la sostanziale stabilità dell’attrezzatura intellettuale del Marrou di fronte al problema della cristianizzazione della cultura. Certo la Retractatio del 1949, segnata dall’emergere dell’analogia della «pseudomorfosi», abbandona il concetto di «decadenza» e presenta il tardoantico come un periodo di grande fermentazione culturale tra le altre cose. A questo titolo essa costituisce una scansione forte nell’opera dello storico della cultura, e acuisce forse in lui il convincimento dell’irrealizzabilità di una «civiltà cristiana» secondo i canoni e il metro da lui stesso definiti. Ma il ricco patrimonio metodologico, filosofico e teologico accumulato e rielaborato negli anni Venti e Trenta continua a essere operativo fino alla fine della vita. In una lettera indirizzata a padre Marie-Dominique Chenu nel 1944, Marrou si presentava come un «théologien amateur», un teologo di occasione.92 Se inveisce spesso contro le distorsioni apologetiche del metodo
terung in Theologie: 20 Jahre Orthodoxe Theologie in München, Eos, Erzabtei St. Ottilien 2006, 51-60. Cf. N. Kazarian, «La notion de pseudomorphose chez O. Spengler et G. Florovsky», relazione al Convegno internazionale dell’Institut Saint-Serge (Paris, 27-28 nov. 2009) dedicato a Le Père Georges Florovsky et le renouveau de la théologie orthodoxe au XXe s., in http://www.dailymotion.com/video/xbgqsr_colloque-international-sur-le-pere_ news#.UZkBAeDdP4c. 89 K. Jaspers, Nietzsche und das Christentum, Piper, München 1952, 33-37 (il volume fu tradotto in francese nel 1948 presso le Éditions de Minuit). Manca a tutt’oggi uno studio complessivo sulla diffusione e la ricezione del concetto di «pseudomorfosi»: cf. per esempio l’uso che ne fa E. Panofsky, senza nessun esplicito riferimento all’opera dello Spengler, nei suoi Studies in Iconology. Humanistic Themes in the Art of the Renaissance, Oxford University Press, Oxford 1939, 70-71 e 114. 90 H.-I. Marrou, Décadence romaine ou antiquité tardive? IIIe-VIe siècle, Seuil, Paris 1977. 91 Marrou, Théologie de l’histoire, 66. 92 P. Riché, «Lettre inédite de H.-I. Marrou à M.D. Chenu», in Revue des sciences philosophiques et théologiques (2002), 27-32, qui 28. Cf. H.-I. Marrou, «Philosophie critique de l’histoire et “sens de l’histoire”», in L’homme et l’histoire. Actes du VIe Congrès des Sociétés de philosophie de langue française (Strasbourg, 10-14 septembre 1952), PUF, Paris 1952, 3-10 («Je suis plus théologien que philosophe et l’on me permettra de parler dans la langue qui m’est familière»; p. 9). Cf. anche una lettera indirizzata a Jérôme Carcopino il 18 marzo
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storico nel campo dell’erudizione – si potrebbero citare diversi resoconti93 –, considera invece assolutamente legittimo il ricorso alle categorie teologiche nell’ambito della sintesi storiografica nel senso pieno che essa possiede per lui. Già, nel 1946, in una recensione del Religionsgeschichtliche Handbuch für den Raum der altchristlichen Umwelt del gesuita Karl Prümm, scriveva: «Infatti ogni europeo che studia le origini cristiane usa, per pensarle, categorie di una teologia personale, implicita o esplicita. Si guadagnerebbe a esplicitarle».94 Colpisce il lettore odierno l’invocazione, non rara, della figura del teologo nel cuore stesso del discorso storico marrouiano. Per esempio, nel 1949, in una recensione della seconda edizione dell’opera di Gershom Scholem, Major Trends in Jewish Mysticism, Marrou critica un uso indiscriminato «della categoria del misticismo per designare tutte le forme del pensiero e della vita religiosi giudaici che si oppongono al ritualismo talmudico» e invoca distinzioni care al teologo cristiano.95 Nel libro sui trovatori afferma, a proposito dell’amore cortese: «Non credo che il giudizio del teologo possa essere unicamente negativo».96 Christine Mohrmann, in un necrologio del Marrou, descriveva De la connaissance historique come una «confessio fidei».97 In questo senso Marrou non è per nulla un weberiano. Certo,
1966, pubblicata da L.N. Panel in Cahiers Marrou 6(2013), 43-44: «J’ai été particulièrement touché en vous écoutant […], surtout au moment où vous avez dit que vous teniez à avoir formé des élèves qui ne cherchaient pas à vous ressembler, eh! bien sûr c’eût été vous singer. […] J’espère par conséquent que vous me pardonnerez d’avoir chassé à ma guise et suivant mon tempérament; mais mes élèves pourraient vous dire qu’au moment où je suis le plus “théologien” le souvenir de mon maître Carcopino ne m’a jamais quitté et j’en ai toujours témoigné devant eux». 93 Cf. per esempio H.I. Marrou, recensione di «M. Simonetti, Pseudoathanasii De Trinitate LL. X-XII, Cappelli, Bologna 1956», in L’Antiquité Classique 26(1957), 477-479, o H.-I. Marrou, «Préface», in V. Saxer, Le Culte de Marie Madeleine en Occident des origines à la fin du moyen âge, Librairie Clavreuil, Paris 1959, V-XI, in particolare VI. 94 H.-I. Marrou, recensione di «K. Prümm, Religionsgeschichtliches Handbuch für den Raum der altchrislichen Umwelt, hellenistisch-römische Geistesströmungen und Kulte mit Beachtung des Eigenlebens der Provinzen, Herder, Freiburg i.B. 1943», in Revue des Études Latines 24(1946), 356-359, qui 358. Si potrà confrontare con la recensione dello stesso volume scritta da A.J. Festugière, in Revue des Études Grecques 57(1944), 249-262. 95 H.-I. Marrou, recensione di «G.G. Scholem, Major Trends in Jewish Mysticism, Schocken Books, New York 21946», in Revue du Moyen-Âge Latin 5(1949), 166-172, in particolare 167-168. 96 Marrou, Les troubadours, 171. Cf. H.-I. Marrou, «Un ange déchu, un ange pourtant» [1948], in Id., Patristique et humanisme, 393-408: «C’est aujourd’hui une tâche délicate pour la théologie de distinguer, dans l’enseignement des Pères au sujet des démons, ce qui doit être considéré chez eux comme un témoignage valable de l’enseignement de l’Église, fondé sur la Révélation, et ce qui, au contraire, n’est qu’un écho du milieu culturel dans lequel leur pensée et leurs écrits ont pris forme» (p. 400). 97 C. Mohrmann, «Henri-Irénée Marrou», in Jaarboek van de Koninklijke Academie voor Nederlandse Taal- en letterkunde (1977), 1-7, qui 6. In un resoconto della Théologie de l’histoire, Seuil, Paris 1968; trad. it. di R. Mazzarol, Jaca Book, Milano 1969, ristampato nel volume Il cristianesimo nella storia. Saggi di metodologia storiografica, Bonacci, Roma 1993, 48-57, lo storico Paolo Brezzi (1910-1998) annotava: «Occorre dare un tono più storico alla teologia della storia» (p. 54).
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sotto l’influsso del libro di Raymond Aron del 1935 sulla Sociologie allemande contemporaine,98 ha letto il Weber degli Idealtypen,99 ma, salvo errore, non fa mai cenno agli sviluppi del sociologo tedesco sulla neutralità assiologica. Di conseguenza, il suo trattamento del problema della cristianizzazione della cultura nel tardoantico si effettua sub specie christianismi aeterni. Certo nel 1951, in parte contro Harnack, Marrou può notare che nei padri «l’essenza del cristianesimo non è un dato immediato dell’esperienza storica. Quello che è dato è un cristianesimo incarnato in uomini concreti, appartenenti a un’epoca e a un ambiente culturale determinati».100 Ma la sua analisi della cristianizzazione deriva chiaramente dalla considerazione di un metro teologico predefinito. Una tale impostazione è forse il divario più netto che separa l’analisi marrouiana dalle analisi di gran parte degli storici contemporanei dei processi di cristianizzazione. Come osservava di recente Carlo Carletti, «cristianizzazione», in definitiva, è termine tecnico puramente convenzionale, talvolta senza coerente riscontro con la realtà effettuale del passato; e anzi, ove mai con cristianizzazione dovessimo riferirci al periodo delle origini, i primi tre secoli, rischieremmo di scivolare nell’incongruità se non nell’anacronismo, come anche indicano gli esiti delle più avanzate indagini sulle «origini cristiane», che, non a torto, hanno richiamato l’attenzione sull’ambiguità dell’uso generalizzato dello stesso qualificativo «cristiano» per definire gruppi, situazioni, assetti, ancora in via di formazione e consolidamento.101
L’attuale moltiplicazione delle ricerche sulle identità religiose nel mondo antico, frutto di un confronto spesso fecondo tra prospettive storiche e prospettive etnologiche o sociologiche, porta a uno sguardo sulla «cristianizzazione» diverso rispetto all’uso di alcuni decenni fa. La rivendicata specificità cristiana è anch’essa storicizzata, tant’è che il concetto di cristianizzazione ha potuto suscitare legittime riserve se viene intesa come il fatto di rendere cristiano uno spazio, un tempo, la società o la cultura, come se esistesse una norma predefinita che permetterebbe di misurare il compimento di questo processo, e di qualificare uno spazio, un tempo, una società o una cultura, come cristiano. Invece, se questa nozione è usata come un mezzo per studiare la crescente presenza di riferimenti cristiani di ogni ordine nei diversi campi dell’agire umano, di esaminare le trasformazioni ad intra e ad extra che ne derivano, e di
R. Aron, La sociologie allemande contemporaine, F. Alcan, Paris 1935. Marrou, Carnets posthumes, 240 e 246-247 (1941). 100 H.-I. Marrou, «Patristique et humanisme» [1951], in Id., Patristique et humanisme, 25-34, qui 26. 101 C. Carletti, «Il problema della “cristianizzazione” della prassi epigrafica in Italia in età precostantiniana», in R.M. Bonacasa Carra – E. Vitale (a cura di), La cristianizzazione in Italia tra Tardoantico ed Altomedioevo. Atti del IX Congresso nazionale di archeologia cristiana (Agrigento, 20-25 novembre 2004), C. Saladino, Palermo 2007, 55-72, qui 56. 98 99
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valutare le interazioni che accadono in queste occasioni, può essere un idoneo strumento di analisi.102 In questa prospettiva le storiche indagini del Marrou possono essere ridimensionate e trovare una nuova e feconda collocazione. Lo studioso francese amava richiamare il motto agostiniano: «Architectus aedificat per machinas transituras domum mansuram».103 L’analisi storiografica è sempre, per lo storico, un invito all’umiltà del sapere nella coscienza della possibile proficua caducità del suo piccolo contributo alla comune ricerca nella République des Lettres.
102 Cf. M.-Y. Perrin, «Avertissement au lecteur», in Histoire générale du christianisme, PUF, Paris 2010, 13-16, in particolare 15. 103 Agostino d’Ippona, Sermo 362: PL 39,1615, l. 12.
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Maria Teresa Moscato
1. Premessa Il titolo di questo studio esige, in premessa, alcune precisazioni: non si tratta di attribuire ad Agostino una teoria pedagogica nel senso moderno del termine, in quanto mancavano nel suo tempo le condizioni per costituirla, sia come teoria descrittivo-interpretativa del processo educativo e didattico, sia come teoria normativa dell’agire didattico. La «scienza» di cui parla Agostino è ancora una conoscenza complessiva di tipo filosofico, all’interno della quale vengono affrontati parallelamente problemi di ordine antropologico, gnoseologico, e quindi anche psicologico e pedagogico.1 In Agostino tuttavia si rilevano una sensibilità e un orientamento pedagogico, e in particolare una «curvatura» del tema della conoscenza nella direzione della formazione umana lungo il corso della vita. Potremmo affermare che, nella sua intera prospettiva filosofica, Agostino sia interessato in maniera peculiare all’educazione del genere umano e alla sua evoluzione.
1 «Per lunghi secoli, il problema dell’educazione dell’uomo non si pone come problema distinto da quello della concezione dell’uomo. “Conoscere se stesso” è risolvere insieme il problema filosofico, morale ed educativo dell’uomo. Ma anche fuori dal concetto della virtù come pura conoscenza, quando pure si riconosce la necessità di una mediazione tra la conoscenza dei fini e il loro incorporamento pratico e vitale nella condotta, il residuo intellettualistico sarà ancora per molto tempo cagione che l’educazione venga concepita essenzialmente come trasmissione di sapere e la pedagogia come didattica […]. Più che di un incorporamento [della pedagogia nella filosofia] si deve parlare di un mancato rilievo epistemologico del problema [pedagogico]» (G. Corallo, Educare la libertà. Scelta antologica a cura di M.T. Moscato, Clueb, Bologna 2009, 67).
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Maria Teresa Moscato
Per un altro aspetto, si deve rilevare che gli scritti di Agostino – e alcuni di essi più di altri – presentano un continuo riferimento alla sua esperienza umana e, nello specifico che ci interessa, all’esperienza infantile di allievo, e poi a quella di docente, catechista e predicatore. In Agostino l’esperienza diventa pertanto, con maggiore o minore consapevolezza, essa stessa l’oggetto di indagine, essa il dato di realtà da interpretare e tentare di spiegare, per mezzo di analisi ricostruttive, e di continua riflessione e autoanalisi. Sul piano della teorizzazione pedagogica, quindi, si può affermare che Agostino ci abbia lasciato una preziosa eredità nella misura in cui, riflettendo sulla sua esperienza di studente e di docente, delinea una fenomenologia degli eventi descritti che – per alcuni versi – può anche prescindere dalla visione filosofica che egli stesso ne aveva già elaborato. Molti dei suoi testi si configurano pertanto, per noi, come dei grandi «giacimenti» di dati esperienziali suscettibili di rinnovate esplorazioni. In particolare, l’Agostino pedagogista, che ho cercato di indagare e descrivere in queste pagine, non desume principi metodologici da una teoria filosofica già formulata, ma piuttosto interpreta l’esperienza e la spiega, traducendola in parole che la evocano per noi. Senza attribuire dunque ad Agostino una consapevole e specifica teorizzazione nell’area delle scienze umane, ma nella misura in cui i suoi testi evidenziano rappresentazioni precise dell’insegnamento e dell’educazione come dei processi psichici e spirituali che si compiono nella nostra interiorità, noi possiamo legittimamente interrogare i testi alla luce delle categorie scientifiche nel frattempo acquisite, operando una lettura di secondo livello sulle sue immagini, rappresentazioni e riflessioni. Operando questa lettura può accadere di chiedersi anche se ciò che egli ricava dalla sua esperienza sia, o possa essere, almeno in parte, in contrasto con la sua filosofia. Per il nostro argomento, come si vedrà, il problema si pone fra la teoria dell’illuminazione del Maestro interiore e la nozione di insegnamento umano che si può ricavare dai testi esaminati in questo studio. La letteratura critica specialistica per Agostino è semplicemente immensa, e tuttavia è relativamente modesta quella specificamente pedagogica. Il problema pedagogico permane, infatti, nella percezione degli studiosi, un problema filosoficamente minore sotto diversi aspetti. Anche in studi di ottica dichiaratamente pedagogica, in relazione alle concezioni teoriche, ma anche agli obiettivi specifici di studiosi e commentatori, l’attenzione a una teoria pedagogica in senso proprio sembra tendenzialmente assente. Nel caso di uno dei testi agostiniani da noi analizzati, vale a dire il De catechizandis rudibus, l’attenzione dei lettori e degli studiosi di questo trattatello molto noto permane fissa sul problema della catechesi e sull’impianto concettuale con cui Agostino la propone, tutt’al più sugli stati d’animo e sulle difficoltà specifiche del catechista. Non è ovvio, né immediato, leggervi anche una teoria dell’insegnamento e una visione antropologica precisa. In altri termini, il problema di una possibile rilettura pedagogica di Agostino oggi, l’interesse e la sensibilità rispetto a
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Agostino pedagogista: una teoria dell'insegnamento
specifici problemi di natura pedagogica, dipendono dalla visione teorica del singolo studioso circa la natura scientifica e/o filosofica della pedagogia e del suo oggetto, oltre che dalle finalità e dagli obiettivi particolari del suo lavoro. Si può affermare che il testo privilegiato per studiare le idee pedagogiche di Agostino sia rimasto, per pedagogisti e filosofi, soprattutto e quasi esclusivamente il De magistro. L’ingresso di temi agostiniani nella manualistica pedagogica italiana del Novecento continua a limitarsi alla contrapposizione fra Agostino e Tommaso sulla questione della magistralità come causa – reale oppure solo occasionale – della conoscenza dell’allievo.2 Affrontata solo all’interno del dialogo ideale fra Agostino e Tommaso, sulla distanza degli otto secoli che li separano, l’eventuale teoria pedagogica desumibile o desunta da Agostino, se elaborata, rimarrebbe confinata nel quadro di una storiografia dotta, per nulla riproponibile all’attenzione del presente, o meglio, più verosimilmente, a un tema scolastico-accademico, la cui nuova esplorazione in termini storico-teoretici rigorosi non presenterebbe motivi di interesse. Anche perché la teoria della magistralità attribuita ad Agostino si rivelerebbe un vicolo cieco per la fondazione di una teoria scientifica dell’insegnare umano, verso cui invece aprirebbe in maniera vincente la posizione tomista circa la causalità effettiva dell’azione didattica.3 In realtà, dando credito all’indicazione di Casotti rispetto all’individuazione novecentesca di questo nucleo tematico e al suo passaggio nella letteratura di formazione magistrale, il tema si colloca nell’ottica della costruzione di una letteratura specificamente pedagogica, finalizzata alla definizione di un ambito disciplinare di livello accademico,
2 M. Casotti afferma la centralità del tema del Maestro nella riflessione pedagogica del medioevo cristiano, e attribuisce il merito di avere «immesso i due testi nel circolo della cultura laica e magistrale italiana moderna» ad Augusto Guzzo, che nel 1927 curò e pubblicò le traduzioni dell’uno e dell’altro De magistro. In effetti, queste traduzioni del Guzzo appaiono ancora utilizzate e citate, per esempio, da R. Fornaca, che in un manuale degli anni Novanta (Storia della pedagogia, La Nuova Italia, Firenze 1991, 47-51) ripropone l’impianto concettuale di confronto fra i due De magistro, ricorrente nella precedente manualistica pedagogica italiana. In realtà, il titolo De magistro della Quaestio XI de veritate di Tommaso non rivela, di per sé, un confronto esplicito e deliberato di Tommaso con il De magistro di Agostino, che egli certamente conosceva. È naturalmente possibile che una specifica attenzione al nucleo tematico del Maestro si sia sviluppata fin dal medioevo, ma servirebbe uno studio specialistico per affermarlo, e in ogni caso la problematica sembra caratteristica di una tradizione cattolica. Il vecchio manuale inglese di W. Boyd (1921; trad. it.: Storia dell’educazione occidentale, Armando, Roma 1970, 109-111), ad esempio, nelle pochissime pagine dedicate ad Agostino, si riferisce piuttosto al De ordine e al De doctrina christiana e non cita neppure il De magistro. Cf. M. Casotti, «Il “De Magistro” di S. Agostino e di S. Tommaso», in Questioni di storia della pedagogia, La Scuola, Brescia 1963, 121-142; ripubblicato con revisione bibliografica in Nuove questioni di storia della pedagogia, La Scuola, Brescia 1977, 365-386. 3 Ad esempio leggeva così il confronto fra i due De magistro anche il mio maestro (cf. G. Corallo, L’educazione. Problemi di pedagogia generale, SEI, Torino 1961), per altri aspetti sicuro lettore ed estimatore di Agostino.
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Maria Teresa Moscato
la pedagogia, già costruita in funzione della formazione dei maestri elementari. Questa operazione culturale, che non può essere retrodatata oltre la fine dell’Ottocento, consente ai pedagogisti – ma spesso si tratta ancora di filosofi con interessi pedagogici – di selezionare come «classici» della pedagogia testi preesistenti, in larga parte filosofici, cui viene riconosciuta una valenza e una significatività pedagogica. Si può ipotizzare che tale operazione abbia fatto, insieme ad Agostino, anche altre «vittime» illustri. Nel corso del Novecento, la letteratura pedagogica accademica tende a ricostruire in Agostino una filosofia dell’educazione, avviando il percorso dalla sua teoria della conoscenza, in cui prevale ancora la teoria dell’illuminazione contenuta nel De magistro, e, al massimo, utilizzando alcuni brani di altre opere come «spunti» occasionali rispetto a temi di pedagogia e didattica.4
2. La
nostra rilettura : i testi utilizzati
Questo nostro lavoro si concentra sulla rilettura di due testi in particolare, e cioè il trattatello De catechizandis rudibus (399-400) e il IV libro del trattato De doctrina christiana (426), anche se non ci è possibile ignorare, ovviamente, né il notissimo dialogo De magistro (388), né il
Fa così, per esempio, L.R. Patanè (1927-2000), in un documentato saggio degli anni Sessanta (Il pensiero pedagogico di S. Agostino, Patron, Bologna 1967, 264), in cui parti rilevanti del De catechizandis, insieme a brani delle Confessioni, sono confinati in un’Appendice finale, intitolata «Spunti di psicologia infantile e di metodo nell’opera agostiniana». Vale a dire che questo studioso laico, successivamente autore di volumi sulla teoria didattica, «non ha visto» la rilevanza di una teoria dell’insegnamento presente nelle stesse pagine di Agostino da cui ha ricavato degli spunti di metodo. Analoghi discorsi potrebbero esser fatti per un saggio di Mario Casotti, che ha influenzato la pedagogia cattolica italiana del secondo Novecento; cf. M. Casotti, Il «De Magistro» di S. Agostino e il suo metodo intuitivo. Edizione commemorativa del XV centenario della morte di Agostino, Vita e Pensiero, Milano 1931; A. Agazzi, «Attualità della dottrina pedagogica di S. Agostino», in Agostino educatore. Atti della settimana pavese, 2 (Pavia, 16-24 aprile 1970), Industrie lito-tipografiche M. Ponzio, Pavia 1971; C. Xodo, «Metodica e finalità educative nel De Magistro di S. Agostino», in Pedagogia e Vita 38(1977)4, 387-401. Per quanto riguarda le letture complessive di Agostino operate da filosofi di rilevante statura (ad es. E. Gilson, Introduction à l’étude de saint Augustin, Vrin, Paris 21943, trad. it.: Introduzione allo studio di sant’Agostino, Marietti, Casale Monferrato 1983; M.F. Sciacca, S. Agostino, Morcelliana, Brescia 1949), per essi, come già detto, il problema pedagogico permane minore sotto ogni aspetto, mentre appare essenziale la teoria della conoscenza, in cui pure vengono rilevate contraddizioni e incongruenze, che esigono revisioni; cf. T. Gregory, «Il maestro interiore nel pensiero di sant’Agostino», in B. Nardi (a cura di), Il pensiero pedagogico del Medioevo, Giuntine-Sansoni, Firenze 1956; P.A. Lombardi, «Funzione del maestro umano e del maestro interiore nel De Magistro di sant’Agostino», in Agostino educatore, 59-74; M. Perrini, «Agostino», in M. Laeng (a cura di), Enciclopedia pedagogica, La Scuola, Brescia 1989, I; G. Piccolo, I processi di apprendimento in Agostino di Ippona, Aracne, Roma 2009. 4
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Agostino pedagogista: una teoria dell'insegnamento
testo delle Confessioni (397-401).5 Il IV e ultimo libro del De doctrina christiana venne aggiunto, e il Prologo dell’intero trattato revisionato, a trent’anni di distanza dai primi tre libri, pubblicati nel 395. Ciò fa dei contenuti del IV libro, pubblicato nel 426, una delle ultime preoccupazioni documentate di Agostino, a pochi anni dalla sua morte, intervenuta com’è noto nel 430. I due testi analizzati appartengono quindi a due stagioni diverse della maturità6 di Agostino, separate da una distanza di circa 25 anni. Nel primo caso, il breve trattato, generato dall’occasionale richiesta di un confratello catechista, ha dato vita a uno scritto apparentemente dedicato alla catechesi/iniziazione cristiana dei convertiti adulti: il tono discorsivo, colloquiale, il continuo «mettersi nei panni» del confratello, con concreti riferimenti alla propria esperienza di catechista e predicatore, spiegano la fortuna che ha accompagnato nei secoli questo scritto. La sua grande importanza, dal nostro punto di vista, è che tutto quanto vi si dice della catechesi e dei catechisti si può applicare totalmente alle azioni di insegnamento e agli insegnanti, e tutto ciò che viene osservato sulla centralità e sulle reazioni dell’iniziando è riferibile a colui che, in qualsiasi situazione didattica, si troverà nei panni dell’allievo/ascoltatore. Non si tratta però di un allievo bambino,7 perché Agostino parla espressamente di persone adulte che si avvicinano al cristianesimo. I rudes sono adulti di ogni condizione sociale e culturale, religiosamente «ignoranti» rispetto al cristianesimo cui intendono accostarsi, e che perciò sono, sul piano della fede cristiana, «principianti» (non ancora catecumeni). Questa condizione era ovviamente frequente nei primi secoli cristiani. Complessivamente però il De catechizandis ci dice molto dell’esperienza dell’insegnamento intenzionale, del vissuto di colui che insegna, e ci dice meno dell’apprendimento dell’iniziando/ascoltatore, sebbene questi vi sia descritto in termini concreti e letterariamente efficaci, dalla timidezza riservata, alla resistenza ostile, allo sbadiglio irrefrenabile.
5 Questo lavoro si propone comunque come un primo tentativo, parziale, per le pagine esaminate e per i temi affrontati. Ci sono infatti altre opere e temi agostiniani da rileggere in chiave pedagogica, per esempio quelli della volontà e del libero arbitrio, delle influenze umane e divine sulla volontà personale. In ultima analisi, tutto il corpus delle opere di Agostino può essere considerato un potenziale «giacimento» di rappresentazioni pedagogiche: qui ci limitiamo al tema dell’insegnamento intenzionale, concepito come forma specifica di comunicazione umana. 6 Il De catechizandis rudibus (399-400) si colloca vicino e parallelo alle Confessioni (397401). Per i testi, italiano e latino, del De catechizandis rudibus (indicato nel testo con la sigla CR) e De doctrina christiana (indicato nel testo con la sigla dDC), e per qualsiasi altro testo di Agostino citato, dipendiamo dal sito www.augustinus.it. In qualche caso, ritornando direttamente al testo latino, abbiamo rivisto la traduzione citata. In aggiunta, abbiamo usato: Agostino, Le confessioni, trad. it. con testo latino a fronte di C. Vitali, Rizzoli, Milano 1974; Id., Il maestro, trad. it. con testo latino a fronte di M. Parodi, Rizzoli, Milano 1996. 7 La critica tende ad assimilare, più o meno inavvertitamente, le riflessioni del De catechizandis alle pagine sull’infanzia contenute nelle Confessioni.
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Analogamente, il IV libro del De doctrina christiana, spesso classificato sommariamente come un trattato di omiletica, contiene anch’esso – a nostro parere – alcuni elementi essenziali per una teoria dell’insegnamento umano, e alcuni riferimenti all’esperienza e agli scopi dell’insegnare, che ci appaiono particolarmente fecondi e assolutamente moderni e che confermano e integrano, sulla distanza del tempo che separa le due opere, i contenuti del De catechizandis. E sebbene, in entrambe le opere, sia ben evidente l’identità del vescovo cattolico, dell’intellettuale convertito, del dottore della Chiesa, la riflessione di Agostino sull’esperienza di catechista e insegnante si offre tuttora ad ogni lettore, indipendentemente dalle concezioni scientifiche e religiose di questi, nei termini di una densa vitalità intellettuale ed emotiva.
3. L’uomo impara dall’uomo: l ’ insegnamento come oggetto di analisi riflessiva
La prima affermazione fondamentale, presente in entrambi i testi analizzati, è che l’uomo impara dall’uomo, nel senso di «per mezzo» e «a causa» di un altro uomo (per hominem). Questo concetto rimane implicito anche in altri testi agostiniani, ma nei due che stiamo utilizzando vi sono motivi, apparentemente occasionali, per una sua precisazione e ri-puntualizzazione, e Agostino introduce anche distinzioni e sfumature su questo dato evidente, e dimostrazioni argomentate che appaiono quasi sovrabbondanti. Nel Prologo del De doctrina christiana, infatti, Agostino polemizza idealmente contro i potenziali critici della sua opera,8 secondo i quali non servirebbe un trattato per insegnare come comprendere le sacre Scritture, in quanto esse si comprenderebbero spontaneamente per grazia divina. Giacché il Prologo è stato revisionato al momento della stesura del IV libro, e per la natura stessa delle argomentazioni che vi si sviluppano, sembra chiaro che in realtà l’autore risponda a critiche negative che gli sono state già mosse, le cui incongruenze intende evidenziare, rivendicando invece la necessità/opportunità del suo lavoro. È in questo contesto che Agostino richiama come primo dato incontestabile, sottolineandolo, la specifica capacità umana di insegnare.
8 I potenziali critici vengono distinti in tre categorie, ma ci si occuperà solo della terza. La prima, infatti, è costituita da quelli che non capiranno il testo, la seconda da quelli che, credendo di averlo capito, non riusciranno a utilizzarlo, e a queste due prime categorie Agostino raccomanda di chiedere a Dio la vista intellettuale necessaria, giacché se, mostrando ad essi la luna, essi non scorgono neppure il dito che la indica, oppure vedono soltanto il dito, questo non può essere ascritto a colpa di colui che indica la luna, ma esige la concessione divina di un supplemento di intelletto.
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Il fatto che si apprenda per mezzo di altri uomini è un dato universalmente osservabile: Ciascuno di noi ha imparato la propria lingua nella sua prima infanzia, a forza di ascoltarla, e qualsiasi altra lingua – supponiamo quella greca, l’ebraica o un’altra – le abbiamo apprese ascoltando allo stesso modo [della lingua materna], oppure attraverso l’insegnamento di un’altra persona (per hominem praeceptorem) (dDC, Prologo, 5).
Una prima distinzione viene quindi introdotta fra gli apprendimenti spontanei e parzialmente involontari che si compiono soprattutto nell’infanzia, e gli apprendimenti intenzionali che vengono guidati e imposti da un maestro. Entrambe queste dimensioni appartengono comunque alla responsabilità degli esseri umani nei confronti di altri esseri umani. Così, a proposito dell’apprendimento infantile della lingua, si sottolinea come essa venga appresa con maggiore efficacia quando ciò avviene in termini spontanei, «fra le carezze delle nutrici, gli scherzi del sorriso, l’allegria dei compagni di gioco» stimolati nell’intimo a esprimersi, partorendo alle orecchie degli altri il proprio sentimento (Confessioni XIV).9 La curiosità spontanea e il bisogno di socialità, in altre parole, costituiscono la motivazione più potente ad apprendere la lingua (ma ciò non toglie che si possa imparare, e che si impari, anche «con gravi minacce e castighi», una lingua di cui non si intende inizialmente nessuna parola). Il fatto che, nel testo delle Confessioni, non si precisi la differenza fra la lingua materna – appresa fra «gli scherzi delle nutrici» – e le altre, non significa che Agostino non le distingua, e neppure che intenda proporre necessariamente la full immersion come principio di metodo per l’apprendimento di ogni lingua straniera. Significa solo che le sue osservazioni colgono con acutezza elementi motivazionali nella dinamica dello sviluppo della competenza linguistica, che la ricerca positiva teorizzerà a molti secoli di distanza. Sembra inoltre che, nelle osservazioni di Agostino, la lingua appartenga a quelle conoscenze implicite10 che generano competenza anche in assenza di consapevolezza. In un altro passo del De doctrina christiana infatti scrive: Come i bambini imparano a parlare ascoltando, si diventa eloquenti leggendo e ascoltando [e imitando] gli eloquenti. I bambini non avrebbero
9 Nelle Confessioni Agostino ritorna in diversi passaggi sull’apprendimento della lingua anche nella prima infanzia (libro I, cc. VI, VII, particolarmente VIII, in cui ipotizza come il bambino impari ad associare il suono delle parole agli oggetti, e infine i cc. IX-XIV in cui ricorda l’insegnamento della lettura e scrittura, l’introduzione della lingua greca, e le costrizioni subite, a suon di castighi fisici, comuni nelle scuole e nella prassi educativa del suo tempo). Nel saggio dedicato all’«Attualità della pedagogia di S. Agostino», Aldo Agazzi si concentra sulla tragicità dell’infanzia segnata dalle busse, in una scuola in cui si soffre per imparare cose di cui non si comprende il senso. Il testo di Agazzi, a mio parere, non esprime a sufficienza Agostino pedagogista, e meno che mai come pedagogista attuale. 10 Per conoscenza implicita o inespressa intendiamo quella forma di conoscenza relativamente inconsapevole teorizzata da M. Polanyi (cf. La conoscenza inespressa, trad. it., Armando, Roma 1979) e non il curriculum implicito o latente di determinati percorsi scolastici.
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Maria Teresa Moscato bisogno di imparare la grammatica se potessero crescere ascoltando solo persone che parlano correttamente (dDC 3,5). Le regole dell’eloquenza si imparano [in maniera implicita] leggendo e scrivendo, se si ha sufficiente intelligenza. Imparare le regole non garantisce questa competenza: non si possono usare le regole per essere eloquenti, ma gli eloquenti le usano (dDC 3,4).
Troviamo lo stesso concetto, in parallelo, nel De catechizandis, quando Agostino dichiara al confratello catechista che questi «imparerebbe di più ascoltando Agostino che insegna piuttosto che leggendo questo scritto indirizzato a lui» (CR 15,23). L’idea di una conoscenza implicita sembra direttamente legata all’età infantile, anche se non esclusivamente. Ancora nel De doctrina si sottolinea che c’è un tempo privilegiato per imparare l’eloquenza, e gli antichi sapevano già che si deve imparare da fanciulli, e che occorre dedicarvi un tempo lungo, se si vuole ottenerne la perfezione (dDC 3,4).11 Ribadiamo però che anche la modalità spontanea e implicita dell’apprendere, quando non vi è stato un espresso insegnamento intenzionale, nel pensiero di Agostino rimane una modalità di conoscere «per hominem». E questo è il principio centrale espresso in entrambi i testi che stiamo analizzando. Nel De doctrina christiana, Agostino riafferma la necessità e l’inevitabilità dell’insegnamento, sempre nell’ottica polemica con cui si difende da critiche ritenute ingiuste. I critici gli contestano che la comprensione delle Scritture accade per grazia diretta di Dio, e dunque l’insegnamento dei criteri di interpretazione è di fatto inutile e superfluo. A questo, Agostino oppone che l’uomo impara sempre dall’uomo. L’argomentazione per assurdo è che – se così non fosse – dovremmo prescrivere ai confratelli di non insegnare la lingua ai loro bambini, attendendo che lo Spirito Santo, discendendo su di essi come sugli apostoli, li facesse capaci di parlare tutte le lingue (e dal momento che ciò non è accaduto, dovrebbero essi dubitare di aver ricevuto lo Spirito e di essere cristiani?). Nella tesi dei suoi critici di negazione dell’insegnamento umano, Agostino ravvisa un vero e proprio peccato, un voler tentare Dio, un inganno diabolico, come se non volessimo andare in chiesa ad ascoltare e apprendere il Vangelo, o non volessimo leggerne il testo o ascoltare chi ce lo legge e lo espone predicando, attendendo di essere rapiti al terzo cielo (dDC, Prologo, 5). Guardiamoci da tali tentazioni, frutto di grande superbia e assai pericolose (dDC, Prologo, 6).
Un secondo argomento che individua l’assurdità della tesi dei critici, è che coloro che si gloriano di aver capito tutte le parti oscure della Bibbia
11 In effetti ci sono molte osservazioni in questo senso in Quintiliano, presumibilmente noto ad Agostino, rispetto ai vantaggi formativi dell’insegnamento precoce e alle possibilità di apprendimento dell’età infantile (ad esempio, Institutio oratoria I,19).
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per dono divino non solo dovrebbero almeno «ricordare che è stato per opera di uomini che hanno imparato a leggere e a scrivere» (dDC, Prologo, 4), ma dovrebbero riconoscere che si contraddicono, per il fatto che essi stessi si sforzano di spiegare agli altri, e non li lasciano all’azione di Dio, aspettandosi che anch’essi apprendano non tramite l’uomo, ma da Dio che li illumina interiormente. Senza dubbio costoro temono di sentirsi dire dal Signore «Servo cattivo, avresti dovuto dare il mio denaro ai banchieri». Come dunque costoro, o scrivendo o parlando, comunicano agli altri le cose comprese, così (la cosa è ovvia) neanche io debbo essere messo sotto accusa se spiegherò, non solo le cose che ho compreso, ma anche [le norme] che si debbono osservare nel comprendere […]. Che cosa abbiamo infatti che non abbiamo ricevuto? E se l’abbiamo ricevuta, perché gloriarci come se non l’avessimo ricevuta? (dDC, Prologo, 8).
Si individua nelle righe soprastanti, perciò, il vero nodo della questione, perché – probabilmente – i critici di Agostino non intendevano realmente negare l’insegnamento umano e la sua necessità o inevitabilità, ma «mettevano sotto accusa» il vescovo a proposito delle «norme che si devono osservare nel comprendere». Non solo la questione è delicata, dal momento che si sta parlando delle sacre Scritture, ma vi è un’oggettiva rilevanza teoretico-pedagogica in questo passo, perché Agostino ci sta spiegando che non solo gli uomini sono capaci di insegnare verità – e anche falsità, beninteso – ma che essi sono capaci di insegnare i criteri di verità, le «norme per comprendere». È un tema che va ben oltre l’oggetto, di per sé già straordinariamente importante, costituito dai testi sacri,12 ma riguarda la natura profonda dell’insegnamento umano, che dunque non è mai puramente trasmissivo o informativo, ma è strutturalmente e profondamente «formativo». Il maestro che può insegnare criteri di giudizio e categorie interpretative, e non solo le parole che le esprimono, può «formare», e non solo orientare, la mente dell’allievo verso la verità; la mente può formarsi anche attraverso la lettura autonoma di un testo – e si tratterebbe di un apprendimento ancora «per hominem».13 In altri passi di entrambe le opere che stiamo analizzando vedremo Agostino insistere sull’obiettivo del «farsi comprendere», che identifica l’azione di insegnare; lo vedremo precisare che la possibilità di farsi comprendere, ripetendo la cosa in modo diverso, è legata al «come» l’insegnante stesso abbia studiato e indagato, e dunque compreso egli stesso, ciò che sta
12 Per un altro verso si può riconoscere nel De doctrina di Agostino la più antica consapevole posizione del problema dell’ermeneutica del testo come problema filosofico. Ricoeur osserva infatti che l’esegesi di Agostino implica una teoria del segno e del significato (cf. P. Ricoeur, La sfida semiologica, ed. it. a cura di M. Cristaldi, Armando, Roma 1974, 128). 13 Non è casuale quindi che Agostino richiami il confratello Deogratias alla necessità di chiedere al rudis che desidera diventare cristiano, se si tratti di persona istruita, che cosa questi abbia letto nel merito.
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insegnando. Non si possono insegnare cose acquisite meccanicamente e ripetendole «a paroletta». In questa concezione dell’insegnamento umano si riconosce dunque una potenza rigeneratrice ed emancipatoria della conoscenza, che giustifica l’associazione che Agostino opererà, in passi successivi, fra la possibilità di insegnare e la grandissima dignità della creatura, e fra l’insegnamento e il «vincolo di carità» che associa gli uomini nella loro condizione esistenziale.14 Vediamo tutto questo analiticamente nelle parole di Agostino. Sempre nel Prologo, egli spiega la natura del compito che si è assegnato. Sia chi legge, sia chi insegna a leggere insegnano, ma in chi insegna a leggere c’è una finalità (promozionale) nei confronti del proprio allievo (che viene spinto a leggere da solo). Così, scrive Agostino, insegna chi espone le Scritture, ma colui che dà delle norme sul modo di comprendere le Scritture è «come chi insegna la grammatica, cioè chi dà le norme per saper leggere». Così, colui che avrà appreso le norme che Agostino si sforzerà di esporre, quando si troverà di fronte a delle oscurità nei libri sacri, non avrà bisogno di un altro già istruito che gli sveli quello che vi è nascosto. Trovati certi sentieri, egli stesso saprà giungere senza deviazioni a scoprire il senso occulto o, certamente, non cadrà nell’assurdo di qualche interpretazione errata (dDC, Prologo, 9).
Quest’ultima è, presumibilmente, la preoccupazione più forte del vescovo: che le sacre Scritture vengano malamente interpretate, dando luogo a eresie, o allontanando dalla fede i sinceri cercatori di Dio. Il problema dell’interpretazione delle Scritture lo aveva travagliato a lungo, prima e dopo la sua conversione, e su di esse egli ha scritto pagine fondamentali nella costruzione della cultura cristiana dei primi secoli, e nello sviluppo della coscienza religiosa, pagine presumibilmente tuttora insuperate. Ma è possibile che i suoi contemporanei – e forse anche molti suoi posteri – non condividessero proprio le sue tesi interpretative, e l’approccio emancipatorio con cui egli intendeva introdurre il credente alla lettura diretta dei testi biblici, assicurandogli un metodo di lettura (e di comprensione). Sembra infatti difficile credere che una polemica tanto aspra avesse come oggetto l’affermazione generale che l’uomo impara dagli altri uomini. Piuttosto, se il nodo della questione è la conservazione corretta della sacra rivelazione, si può notare che Agostino affiderebbe così la rivelazione a ciascun credente, più che alla definizione e alla custodia di un’ortodossia dentro un’istituzione ecclesiale. Certamente, se interpellato oggi in un’intervista impossibile, Agostino, che ha lottato tutta la sua vita contro le eresie, ci risponderebbe che non c’è reale contraddizione
14 Nella sottolineatura della dignità umana e del vincolo associativo determinato dall’insegnamento è chiaramente implicita anche una concezione antropologica.
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fra la definizione di un’ortodossia dentro la comunione ecclesiale e la battaglia educativa per lo sviluppo di personali coscienze religiose nei fedeli. E avrebbe sostanzialmente ragione, ma ciò non toglie che anche dietro questo problema vi sia un’antropologia – fiducia nella ragione umana illuminata dalla fede, fiducia nella comunicazione solidale fra le intelligenze umane che cercano Dio, fiducia nella crescente consapevolezza religiosa del genere umano, insomma un’antropologia, e dunque una pedagogia, più caratterizzata dall’impronta del rischio e della libertà che non dal controllo aprioristico e autorevole del contenuto da trasmettere. Intendo solo sottolineare una possibile apertura «post-conciliare» di questi testi, senza affermare che tale antropologia vi sia esplicitata.15 Il problema teorico-pedagogico specifico sembra essere piuttosto quello del «che cosa» si possa realmente insegnare e imparare entro la comunicazione umana, anche nell’ottica della verità religiosa rivelata. Perciò Agostino è tornato sul trattato licenziato nel 395, e vi ha aggiunto un quarto libro e revisionato il Prologo: perché egli dava grande importanza alla polemica che diventa per lui occasione per definire – o per riaffermare – l’insegnamento umano e la sua dignità. In realtà, polemizzando contro critici che sembrano affermare l’illuminazione divina diretta nella comprensione delle sacre Scritture, è come se l’Agostino del De doctrina contestasse lo stesso Agostino del De magistro, nel quale aveva indiscutibilmente sostenuto che il criterio che permette di riconoscere come vero il contenuto dell’insegnamento dell’altro uomo risieda all’interno della mente dell’allievo, e che questi sia posto in grado di riconoscere la verità come tale ad opera dell’illuminazione di un maestro interiore, che altri non è che Dio stesso, spiegando così il senso dell’espressione evangelica «uno solo è il vostro maestro».16 Nel De magistro, in altri termini – ma intercorrono oltre 35 anni fra i due testi –, Agostino sottolineava la partecipazione attiva della mente del discepolo, il fatto che comprendere e consentire all’esposizione del maestro implicasse un riconoscimento di verità, potremmo dire un assenso legittimato, dalla stessa mente che accoglie l’insegnamento, e non tanto un riconoscimento dell’autorità del maestro umano, che al massimo può essere, dai suoi allievi, riconosciuto come dotto. La teoria dell’illuminazione, metaforicamente descritta nella figura della luce che illumina gli oggetti, ma rispetto alla quale l’occhio può restare difettoso e cieco (11,38; 12,39; 12,40), interveniva nel De magistro a spiegare, in termini di legittimazione fondativa, il potere della singola mente di riconoscere la verità e di consentirvi. I riferimenti all’esperienza conoscitiva si intrecciano con un impianto filosofico che è già religioso e specificamente cristiano.
15 Uno studio accurato potrebbe dimostrare non solo la ripresa degli studi agostiniani in coincidenza del celebrato anniversario dei 1500 anni dalla morte (negli anni Trenta), ma soprattutto una relativa espansione internazionale di studi sull’antropologia e pedagogia di Agostino dalla metà degli anni Sessanta. Si tratta di un’ipotesi da verificare. 16 De magistro 11,38; 12,39; 12,40; 14.
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Non è detto però che le due posizioni agostiniane siano realmente incompatibili, e si deve anche riconoscere che il testo del De magistro permanga oscuro e insufficiente per esplorare totalmente i problemi che affronta.17 Ma certamente Agostino non avverte una tale incompatibilità, e non si riferisce al suo precedente dialogo in nessun punto dei due testi che abbiamo analizzato. Torniamo allora a rileggere, con diversa sensibilità alla posta in gioco, l’affermazione che abbiamo già riportata sopra: Neanche io debbo essere messo sotto accusa se spiegherò, non solo le cose che ho compreso, ma anche [le norme] che si debbono osservare nel comprendere […]. Che cosa abbiamo infatti che non abbiamo ricevuto? E se l’abbiamo ricevuta, perché gloriarci come se non l’avessimo ricevuta? (dDC, Prologo, 8). Ciascuno apprenda con umiltà quanto deve essere imparato dall’uomo, e colui, ad opera del quale viene impartito l’insegnamento, senza insuperbirsi e senza provarne invidia, comunichi ciò che egli stesso ha ricevuto (dDC, Prologo, 5).
Dunque, dall’uomo si imparano anche i criteri e le norme di interpretazione, e non solo l’interpretazione. E si deve accettare con umiltà di imparare, e si deve insegnare senza superbia e senza possessività. Si deve mettere, cioè, in comune con gli altri uomini, e non riservare gelosamente per sé, ciò che si è acquisito. Perché tutti abbiamo ricevuto da altri, e non solo, ovviamente, da Dio.18 Il concetto è ribadito, nel IV libro della Doctrina christiana, a proposito del dovere della predicazione. Citando a più riprese le lettere di san Paolo, Agostino evidenzia come, per quanto Dio possa istruire autonomamente il suo popolo e i suoi ministri, di fatto Paolo istruisca nei dettagli Timoteo e Tito, nelle lettere a essi rispettivamente indirizzate. Forse che l’Apostolo sia in contrasto con se stesso quando, dopo aver detto che i maestri della Chiesa sono mossi dallo Spirito Santo, comanda loro cosa e in che modo debbano insegnare? O non sarà piuttosto da intendersi che il compito di certi uomini, favoriti dal dono dello Spirito Santo, non può non estendersi all’istruzione degli stessi maestri, sebbene resti vero che «né chi pianta né chi irriga è qualche cosa, ma è Dio che fa crescere»? […] Succede qui come nei medicamenti: applicati dagli altri uomini, non fanno effetto se non in coloro cui Dio concede la salute. Dio può certo guarire anche senza
17 Si può notare che, nelle sue Retractationes, Agostino sintetizza il problema affrontato nel De magistro, con riferimento al testo evangelico, in pochissime righe, come se egli non attribuisse a quel dialogo la rilevanza che secoli di successiva analisi gli avrebbero attri buito. 18 Mettere in comune ciò che abbiamo ricevuto e riconoscere con gratitudine di averlo ricevuto si rintraccia anche nel senso profondo dell’indicazione di «pregare prima di predicare», richiamato da Agostino: pregare per noi, pregare per quelli cui parleremo, pregare per quelli da cui abbiamo appreso ciò di cui parleremo, e ringraziare per l’esito della predicazione; una figura che lega in un’unica comunione solidale, anche trasversale a più generazioni, l’universale popolo di Dio in movimento nella storia e nello spazio (dDC 15,32; 30,36).
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Agostino pedagogista: una teoria dell'insegnamento medicine, mentre le medicine senza di lui non valgono nulla, anche se occorre usarle, e, se si esercita la medicina per compiere un dovere, ciò è considerato come un’opera di misericordia o di carità. Lo stesso è degli aiuti prestati con l’insegnamento. Somministrati tramite l’uomo, essi giovano all’anima se Dio interviene per farli giovare (dDC IV, 16,33).
Dunque, gli «aiuti prestati con l’insegnamento», per quanto permanga vero che «è Dio che fa crescere», valgono anche per i maestri che dovranno insegnare a loro volta: si può dunque insegnare una verità, si possono insegnare i criteri per indagarla e comprenderla, e si può insegnare a insegnarla. E per quanto alcuni uomini siano «favoriti dal dono dello Spirito Santo», Agostino sottolinea che la facoltà di insegnare è propria della natura umana, ed essa è nell’ordine della creazione. Non a caso, anche in situazioni in cui Dio si fa presente direttamente alla sua creatura, non viene meno la necessità dell’insegnamento umano: nella prodigiosa conversione di san Paolo, questi fu mandato a istruirsi da Anania. E così il centurione Cornelio fu catechizzato da Pietro, che gli spiegò «che cosa avrebbe dovuto credere, sperare e amare».19 Se in queste vicende «Dio avesse fatto capire di non voler dispensare la sua parola agli uomini per mezzo di altri uomini, la dignità dell’uomo ne sarebbe stata sminuita». A ciò si aggiunge infine un rilevo sulla carità: «Se gli uomini non avessero da imparare nulla per mezzo di altri uomini, alla carità verrebbe tolta una via importante per conseguire l’interscambio degli animi» (dDC, Prologo, 6). L’insegnamento umano è dunque una caratteristica dell’umana natura e del vincolo solidale fra gli uomini, ed è – in ultima analisi – espressione della carità stessa. Quest’ultimo punto Agostino lo ha evidenziato nei suoi scritti molte altre volte, e qui citiamo solo un precedente passaggio del De ordine: Il potere razionale che è in noi […] per un certo vincolo naturale tende a far comunicare fra di loro gli individui che hanno in comune la ragione. L’uomo non avrebbe potuto attuare rapporti validi con il proprio simile se non mediante il colloquio e, per così dire, lo scambio di concetti e di pensieri (De ordine II, 12,35).
Anche la funzione della parola nella comunicazione umana e il suo potere specifico riguardo all’insegnamento appare ripetutamente negli scritti di Agostino, e non solo nel testo ben noto e infinitamente studiato del De magistro. Agostino ha descritto in diverse riprese l’insegnamento
19 Esiste un altro ben noto testo biblico in cui l’intervento diretto di Dio nella vocazione di Samuele non rende superflua la mediazione didattica del vecchio sacerdote Eli, che insegna al bambino le «parole giuste», e anticipa il chiamato nel conferimento di senso all’esperienza che questi ha appena vissuto (1Sam 3,2-5). Agostino ha ragione: non c’è dubbio che i testi biblici non abbiano mai negato la necessità dell’insegnamento dell’uomo all’altro uomo, e neppure quella dell’educazione. Cf. M.T. Moscato, Il viaggio come metafora pedagogica, La Scuola, Brescia 1994; Ead., Il sentiero nel labirinto. Miti e metafore nel processo educativo, La Scuola, Brescia 1998.
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come una forma di comunicazione, una possibilità propria della grande dignità della creatura, in quanto dotata di ragione – la razionalità che ci caratterizza ci spinge a insegnare con metodo – e come mezzo di costruzione della socialità stessa. Si osservi, ancora nel De ordine, questo passo, che lega la ragione all’istruzione per mezzo di specifiche discipline che essa stessa ha prodotto: vi si dice che la ragione umana, che aveva prodotto e ordinato la grammatica, non avrebbe potuto passare ad altre produzioni senza aver prima discriminato, configurato, espresso e manifestato i propri procedimenti e la propria tecnica in quella «disciplina delle discipline», che denominiamo dialettica. Essa insegna a insegnare, essa insegna ad apprendere. In essa la ragione stessa mostra con evidenza la propria natura, i propri intenti, i propri poteri. Essa ha scienza di avere scienza. Ed essa soltanto non ha solo la funzione, ma anche la validità, di creare scienza (De ordine II, 13,38).
Il testo del De ordine precede il De magistro di pochi anni (forse il 385), e dimostra una costanza, nella riflessione di Agostino, sui temi dell’insegnamento umano e della sua potenza ed efficacia; rispetto al tema è il De magistro che sembra presentare una tesi discorde, o almeno non sufficientemente chiarita e argomentata. In realtà anche il tema dell’illuminazione è spesso presente in altri testi: si può rilevare la stessa oscillazione in due passi del De vera religione (389-391): Coloro che […] meritarono di giungere fino all’illuminazione dell’uomo interiore, furono momentaneamente di aiuto per il genere umano, mostrandogli ciò che l’età richiedeva e facendogli intravedere, mediante le profezie, ciò che non era ancora opportuno mostrargli (De vera religione 28,51). La ragione conduce alla comprensione e alla conoscenza. E anche se l’autorità non rinunzia mai del tutto alla ragione, quando si consideri a chi si deve credere, di certo è somma l’autorità di una verità riconosciuta in modo evidente (De vera religione 24,45).
Qui sembra di potere dedurre che l’illuminazione del Maestro interiore operi per i profeti del tempo antico, ma la ragione continui a guidare alla comprensione e alla conoscenza, pur dentro la guida dell’autorità, che non può totalmente rinunziare alla ragione. Inoltre, la materia da conoscere, in questo caso, è la vera fede, che è comunque oggetto di rivelazione divina; solo in seguito a ciò, oggetto di trasmissione autorevole. Ma è chiaro che il periodico richiamo alla ragione umana come forza concorrente anche nella storia della salvezza induce a ripensare sempre il senso dell’illuminazione interiore agostiniana. Vi ritorneremo in conclusione.
4. Dentro
la mente che insegna : pensare parole , trovare parole
Abbiamo già richiamato il tema della socialità e della carità, che gli uomini esprimono – secondo Agostino – attraverso le azioni di insegna-
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Agostino pedagogista: una teoria dell'insegnamento
mento. Vedremo che, nello spiegare la dinamica dell’insegnamento come un «trovare parole per dire» e un continuo «adattare le parole alla mente dell’altro», Agostino non separi mai la dinamica e la facoltà della mente di «adattare le parole» dalla socialità/carità che la motiva in questa fatica. Due passi significativi su questo punto sono contenuti nel De catechizandis rudibus; l’occasione è una riflessione sulla fatica e sulla frustrazione del catechista: Siamo contrariati perché chi ci ascolta non comprende il nostro pensiero, scendendo dalla cui sommità, in una maniera o nell’altra, siamo costretti a indugiare lungo un cammino lento fatto di sillabe scandite, e ci preoccupiamo di come fare uscire dalla bocca, attraverso lunghi e intricati giri di parole, quello che la mente vede nel tempo di un respiro (CR 10,15).
Sul divario fra il pensiero e la parola era già strutturata la prima argomentazione del De catechizandis. Come abbiamo già visto, l’occasione del testo era stata la richiesta di un diacono, che aveva chiesto qualche istruzione sul modo di iniziare alla fede cristiana i nuovi convertiti. Il diacono Deogratias gli aveva confidato, a quanto pare, di essere spesso infastidito dai suoi stessi discorsi, che giudicava «lunghi e privi di calore». Agostino interpreta questa lamentela, riconducendola a un livello più alto e profondo, e in qualche modo traducendola in termini universali. Noi non sapremo mai quanto Deogratias potesse essere davvero «lungo e noioso» come egli appariva a se stesso. Vediamo invece come Agostino sviluppi il tema del divario fra pensiero e parola: Anche a me quasi sempre non piacciono i miei discorsi […]. Infatti sono desideroso del meglio, che spesso godo interiormente, prima di avere cominciato a svilupparli con il suono delle parole […] e mi rattristo perché la mia lingua non è in grado di corrispondere (sufficere) al mio cuore. Vorrei infatti che chi mi ascolta comprendesse tutto ciò che io comprendo; invece mi accorgo di non esprimermi in modo tale da ottenere questo; soprattutto perché il concetto pervade l’animo, per così dire, con la velocità di un lampo, mentre l’espressione in parole è tarda, lunga e molto diversa; e mentre quest’ultima si sviluppa, già l’altro si è ritirato nei suoi recessi (CR 2,3).
Dunque, la coscienza del divario fra la visione intellettuale e la sua traduzione in parole «disgusta» e snerva chi insegna, e perciò «il discorso diventa ancora più smorto e inespressivo» (CR 2,3). In tal modo, sembra che Agostino abbia ricollocato la percezione di inadeguatezza del diacono Deogratias su un piano universale e necessario: diremmo che egli cominci questa lunga lettera con il tranquillizzare e rassicurare il catechista che si giudica «lungo e noioso», confrontando le rispettive esperienze, e come «affiancandosi» al confratello in una comune difficoltà. Da ciò lo stile colloquiale e amichevole che pervade tutto il testo. Ma per quanto Agostino voglia collocarsi «al fianco» del suo destinatario, in realtà egli non può prescindere dalla propria esperienza: è di se stesso, come docente, catechista e predicatore, che Agostino in effetti sta parlando.
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Il dato significativo per noi è proprio nell’esperienza del divario fra l’intuizione, la visione intellettuale, che è «veloce come un lampo», e l’espressione, la traduzione in parole, che è inevitabilmente lenta, complicata, e mai perfettamente corrispondente a un’intuizione che «si è già ritirata nei suoi recessi», mentre la sua traduzione in parole sta ancora sviluppandosi. Nello stesso passo, a dimostrazione dell’importanza del tema che egli sta effettivamente trattando, Agostino parla anche di «tracce» che la visione intellettuale lascerebbe nella memoria, ed evidenzia come queste prescindano dalla lingua («non sono né latine, né greche, né ebraiche»), così come l’espressione del viso di un uomo adirato non è né greca né latina. E sottolinea come l’espressione del viso sia più chiara e immediata all’ascoltatore di qualsiasi parola (CR 2,3). Vedremo che tornerà a richiamare l’attenzione del catechista Deogratias su quelli che oggi chiameremmo «elementi di comunicazione non verbale», scoperta scientifica relativamente recente, e che invece sembra del tutto presente ad Agostino.20 Tornando al tema del divario pensiero/parola, in altri termini, Agostino ci sta spiegando come il passaggio dal concetto alla parola (necessaria per insegnare) sia un percorso inevitabilmente lento, determini un travaglio che viene perfettamente percepito dalla mente di chi insegna. Aggiungiamo noi che tale percezione dimostra il compiersi di un’esperienza intellettuale specifica, nel docente, prima e durante l’azione di insegnamento. Come abbiamo spiegato estesamente altrove, un atto di insegnamento comincia sempre col «trovare le parole per dirlo».21
5. La
motivazione a insegnare e la natura di cura educativa dell ’ insegnamento
Seguono, sempre nel testo del De catechizandis citato sopra, una serie di figure della cura amorevole del genitore verso i suoi piccoli, figure che anticipano intuitivamente per il lettore come l’insegnare in sé, il curvarsi verso il più piccolo da sé, sia azione di cura amorevole. È forse piacevole sussurrare parole tronche e deformate se non fosse l’amore a suggerirle? E tuttavia gli uomini desiderano avere bambini ai quali
20 Ovviamente Agostino conosce una letteratura pregressa (come la Institutio oratoria di Quintiliano) in cui sono presenti, insieme a elementi di consapevolezza educativa e didattica, dei repertori di strategie oratorie che prevedono l’uso di tecniche non verbali (tono della voce, prossemica) anche sofisticate, per persuadere il pubblico. La retorica antica conosceva e utilizzava molti elementi funzionali della comunicazione umana, indipendentemente dalla loro teorizzazione scientifica. 21 Cf. M.T. Moscato, Diventare insegnanti. Verso una teoria pedagogica dell’insegnamento, La Scuola, Brescia 2008.
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Agostino pedagogista: una teoria dell'insegnamento esibire questo; e per una madre è persino più dolce dare al figlioletto piccoli bocconi da lei sminuzzati, piuttosto che mangiare avidamente bocconi più grandi. Neppure si dimentichi l’esempio della chioccia che copre con le piume i teneri nati e chiama a sé con debole richiamo i pulcini pigolanti; quelli che alteri si sottraggono alle carezzevoli ali diventano preda di uccelli di rapina.
La conclusione del passo è che la ragione, quella facoltà umana di comprensione e conoscenza che «si diletta nel penetrare recessi del tutto inviolati», dovrà comprendere anche che la carità, quanto più premurosamente discende nelle umili realtà, tanto più fortemente penetra nell’intimità dell’anima, con la retta coscienza di nulla chiedere a coloro cui si rivolge, se non la loro salvezza eterna (CR 10,15).
Qui ci si riferisce specificamente alla catechesi, ma il concetto espresso illumina la natura dell’insegnamento, e dell’educazione in genere, riconosciute come azioni di cura tipicamente umane. Appena sopra Agostino ha scritto che «Cristo si è fatto piccolo fra noi come una nutrice che nutre i suoi figli», introducendo il tema della nutrice, potente metafora archetipica dell’intimità corporea che penetra nei recessi dell’anima e avvia il processo educativo.22 Per Agostino, quindi, più il servizio è umile, più la carità di colui che insegna «penetra nei recessi dello spirito». Vorrei sottolineare il collegamento, non ovvio, fra il passo del De ordine citato prima, in cui si evidenzia la straordinaria dignità della ragione umana che genera scienza, che «insegna ad insegnare e ad imparare», e che «penetra nei recessi inviolati» della realtà, e che ora è richiamata al compito, apparentemente assai più umile, di «penetrare nell’intimità» di un altro animo che «non comprende». Vale a dire che la stessa potente energia spirituale che è chiamata e spinta dalla sua natura a penetrare l’infinitamente Altro, in forza della stessa natura si curva e si ripiega sul più piccolo, e quasi sull’infinitamente piccolo. Si guardi questa «chiusura della mente» come figura della segreta povertà della condizione umana, della sua creaturale debolezza, che è reale quanto la sua potenza. L’allievo «non comprende», o perché è infantile e inesperto di umanità, o perché è «chiuso» da errori abituali e inveterati, o perché «è troppo lento a capire, refrattario e sordo» per un limite naturale specifico.
22 La nutrice è figura archetipica della cura educativa. In Omero la nutrice di Odisseo è «colei che può riconoscere l’Eroe perché sa chi questi era un tempo e come sia divenuto se stesso». È presente in molte figure letterarie e anche in Tacito, e con gli stessi significati; cf. M. Caputo – M.T. Moscato, Le radici familiari del processo educativo, Unicopli, Milano 2006, 50-58. Agostino può avere tuttavia subito la suggestione di alcuni passi dei profeti, in cui Dio stesso si presenta nella figura della nutrice, «che ha insegnato a Efraim a camminare» sollevandolo fino alla sua guancia per dargli da mangiare (Os 11,318), un Dio le cui «viscere materne» si muovono a compassione e tenerezza (Ger 31,20). Il «maternage» divino è evocato anche da alcuni salmi (Sal 104,27-30; Sal 131,2), ma è nell’incarnazione di colui che «è venuto per servire» che queste figure assumono nuova valenza significante.
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In quest’ultimo caso, osserva Agostino, lo si deve «sopportare con benevolenza», insistendo su quei punti che sono necessari, «e si devono dire molte più cose a Dio per lui, che a lui di Dio» (CR 13,18). E quest’ultima mi sembra una frase che merita da sola molte meditazioni, per ogni insegnante e educatore, e non solo per ogni catechista.23
6. Insegnare modifica l ’ esperienza di chi insegna Riportiamo un altro passo, sempre dal De catechizandis rudibus, che precisa ancora la dimensione della cura di cui abbiamo parlato, ma che introduce, a mio parere, un’osservazione ulteriore sulla natura dell’insegnamento umano, dal punto di vista dell’insegnante, che mi sembra di straordinaria finezza e modernità. L’occasione della riflessione è sempre l’analisi dei motivi di insoddisfazione del catechista, ma in realtà si tratta di due motivi di insoddisfazione ricorrenti negli insegnanti (e spesso verbalizzati in attività di formazione): Proviamo fastidio nel tornare più e più volte su argomenti a noi ben noti, e ormai non necessari [a noi] per progredire nel cammino […] il nostro animo un po’ più cresciuto non ripercorre con piacere argomentazioni tanto usuali e per così dire infantili (CR 10,14).
Gli argomenti ci sono noti, e dunque ci annoia ripeterli, ma, soprattutto, essi non rispondono più al bisogno di crescita intellettuale – o religiosa – per cui li avevamo affrontati, con curiosità o passione, in un diverso momento della vita. Si tratta di verità, religiose o scientifiche, e di conoscenze comunque acquisite e padroneggiate: adesso non possono più rispondere a un autentico e personale interesse del catechista/insegnante. Si osservi che in tal modo la condizione iniziale necessaria per insegnare – la padronanza dell’argomento – diventerebbe causa di demotivazione a farlo (non ci stimola «ripetere sempre le stesse cose»). Come ho già detto, si tratta di espressioni che ricorrono spesso nel vissuto degli insegnanti, e in genere gli insegnanti efficaci trovano come soluzione a questo fastidio «il riscoprire le cose insieme all’allievo», e/o il provare un sincero interesse per l’allievo e la sua crescita, ma anche il «ri-comprendere più profondamente» ciò che si riteneva di conoscere bene. Non si tratta di un effettivo «imparare dagli allievi», ma piuttosto di un dinamismo intellettuale che spinge gli insegnanti a ripensare ancora e a «studiare» incessantemente. Nelle parole di insegnanti concreti, la dina-
23 Senza voler forzare il testo, si potrebbe evidenziare che esso suggerisce implicitamente un principio fondamentale di dedizione all’allievo handicappato e all’allievo dalle condotte difficili, nella scuola come nella catechesi. «Parlare a Dio per lui» proprio perché il Maestro interiore supplisca a un difetto di autonomia della creatura, che permane sua, e in quanto tale, degna che se ne abbia cura.
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mica è espressa da termini come «non si finisce mai di imparare» o «non si finisce mai di capire». Osserviamo le parole di Agostino, più avanti nel testo: Se ci infastidisce ripetere molte volte argomenti usuali e da bambini, adattiamoci [a chi ci ascolta] con amore fraterno, materno e paterno, e così, uniti al loro cuore, anche a noi quegli argomenti sembreranno nuovi. Infatti, il sentimento di un animo capace di condividere (compatientis) tanto può che, quando [coloro che ci ascoltano] sono influenzati da noi che parliamo e noi da loro che apprendono, ci compenetriamo reciprocamente: e così, essi espongono ciò che ascoltano come se parlassero in noi, mentre noi in qualche modo apprendiamo in essi ciò che insegniamo. Forse non accade di solito che, quando mostriamo a persone che mai prima li avevano visti luoghi di splendida bellezza […], davanti ai quali solevamo passare senza sentire alcun piacere per averli già visti molte volte, il nostro piacere si rinnovi partecipando alla gioia suscitata negli altri dalla novità? […] In virtù del vincolo dell’amore, in quanto siamo in loro, intanto anche per noi divengono nuove anche le cose vecchie (CR 12,17 [corsivo nostro]).24 Indubbiamente, siamo ascoltati più volentieri allorché anche noi traiamo diletto dal parlare, giacché il filo del nostro eloquio vibra della stessa gioia che proviamo, e riesce più facile e gradito (CR 2,4).
In questo passo, a mio parere, sono impliciti due concetti di estrema importanza, che la ricerca pedagogica contemporanea ha parzialmente acquisito. Il primo elemento significativo consiste nella scoperta che la comunicazione modifica, insieme, sia chi la riceve sia chi la formula; il secondo elemento – lo vedremo nel paragrafo successivo – è la scoperta della dinamica dell’identificazione reciproca come condizione dell’efficacia dell’insegnamento. Detto in altri termini, l’insegnare comporta un’azione sull’esperienza del discente, che viene orientata e canalizzata, e contemporaneamente determina una nuova esperienza nel docente. Di fatto, nessun contenuto può essere insegnato se non attraverso il suo ripensamento nella mente dell’insegnante: questi deve tradurre il pensiero in primo luogo in «parole interne» e successivamente in parole, gesti, metafore, disegni, in forme, cioè, di comunicazione rivolte al discente. L’atto d’insegnamento comincia nella mente del docente, nel travaglio stesso con cui il catechista/ insegnante avverte un dislivello fra le proprie intuizioni e le parole che cercano di tradurre il pensiero. Vediamo a questo proposito ancora un passo di Agostino. Tornando sul tema dell’insoddisfazione del catechista, che dipenderebbe, come già detto, dal divario fra la lucidità e bellezza dell’intuizione intellettuale e la faticosa e lenta traduzione, sempre inadeguata, in parole, Agostino scrive: in secondo luogo,
24 «Iam vero si usitata et parvulis congruentia saepe repetere fastidimus: congruamus eis per fraternum, paternum maternumque amorem, et copulatis cordi eorum etiam nobis nova videbuntur. Tantum enim valet animi compatientis affectus, ut cum illi afficiuntur nobis loquentibus, et nos illis discentibus, habitemus in invicem; atque ita et illi quae audiunt quasi loquantur in nobis, et nos in illis discamus quodam modo quae docemus».
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Maria Teresa Moscato preferiamo ascoltare o leggere ciò che è stato espresso in uno stile tornito, e prodotto senza nostro sforzo e preoccupazione, piuttosto che, improvvisando, dover adattare le parole alla capacità di chi ascolta, non sapendo se esse vengano in ausilio al pensiero [di lui] e se siano recepite con una qualche utilità (CR 10,14).
Il corsivo nel testo è nostro, perché ci sembra che qui Agostino abbia espresso il cuore del problema dell’insegnamento, a partire dalla sua stessa esperienza su cui sta riflettendo: «improvvisando, [dover] adattare le parole alla capacità di chi ascolta», significa di fatto «trovare le parole per dirlo, e per dirlo a questo allievo». Vorrei anche sottolineare l’uso del termine «improvvisando» (repentina verba), che esprime la velocità di adeguamento della mente del docente di fronte alla specificità dell’allievo, e insieme l’impossibilità di penetrare la mente di questi, e quindi di dover sempre ignorare in che misura le nostre parole risuonino in lui.25 Insegnare dunque è pensare qualcosa che è presente alla mente del maestro – un «oggetto definito» secondo un linguaggio contemporaneo, ma con riferimento alla mente di un altro: il «destinatario designato» di altre definizioni più recenti.26 Vedremo però, procedendo, come tale «destinatario designato» assuma nelle pagine di Agostino una grande concretezza, e come egli abbia assolutamente presenti sia le differenze personali – che generano quelle che nel linguaggio contemporaneo costituiscono «pre-condizioni», positive o negative –, sia le differenze di quello che oggi definiremmo «contesto», o setting, in cui influiscono aspetti materiali specifici, sia il ruolo degli obiettivi e delle motivazioni di colui che insegna.
7. L’identificazione reciproca docente / discente Il secondo elemento importante che, a mio parere, emerge dal passo di Agostino sopra citato, è la scoperta dell’«identificazione» come dinamismo che governa i processi educativi, e quindi anche le azioni di insegnamento e di apprendimento intenzionale. Questo dinamismo è stato definito dalla ricerca psicoanalitica, in pratica solo nell’ultimo secolo, e non viene neppure sempre applicato ai processi educativi. Ma non è questo il
25 La famosissima pagina del De magistro si può rileggere alla luce di questa reciproca impenetrabilità delle due menti: «Colui che ci ascolta, se con il puro occhio interiore vede anch’egli le cose di cui parliamo, conosce quanto dico grazie alla sua visione interiore e non grazie alle mie parole. Pur dicendo cose vere, non insegno a costui che pure vede cose vere: impara infatti non dalle mie parole, ma dalle cose stesse rese visibili dalla interiore illuminazione divina» (12,40). Io giudico che su questo punto la posizione di Agostino si sia almeno parzialmente modificata. 26 Sui temi e le teorie dell’insegnamento cf. Moscato, Diventare insegnanti.
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solo caso in cui Agostino anticipi le scoperte della psicoanalisi, tema che esigerebbe un’altra ricerca. Nel brano sopra citato, di cui abbiamo riportato in nota il testo latino, Agostino parla dell’affectus di un animo compatiens, e di un habitare in invicem, fra maestro e allievo, i quali reciprocamente si influenzano, o si attivano (afficiuntur), fino al punto che l’allievo «parli nel maestro e il maestro impari nell’allievo». L’oggettiva difficoltà di traduzione del passo dipende dalla difficoltà intrinseca di concettualizzare l’esperienza di intimità psichica, generata da un’azione di insegnamento, di cui Agostino sta evidentemente parlando. In realtà quell’adattamento del maestro all’allievo, che Agostino teorizza come espressione di autentica carità, è reso di fatto possibile dalla capacità di identificazione transitoria del maestro nel discepolo. Si tratta di una capacità dell’adulto maturo, che permette un’intuizione e una conseguente comunicazione di tipo empatico. Non è appena un atto intellettuale: Agostino ha ragione di parlare di affectus, perché l’intuizione empatica è densa di emozione e di sentimento. Ma ciò accade anche nell’allievo, che, da una simile identificazione, sebbene diversamente orientata – l’allievo si identifica con il maestro sempre per trovare un supporto, una sorta di io vicario, alla propria crescita –, trova la motivazione per sforzarsi di comprendere, per affidarsi provvisoriamente, per seguire un percorso cognitivo personale. Ed è proprio questa dinamica di identificazione che permette perciò di superare la reciproca impenetrabilità fra le menti di maestri e allievi, come di «uscire» da sé per aprirsi all’altro, sia pure per momenti brevi. Ed è l’identificazione che permette al maestro di «farsi piccolo», come la nutrice, come la madre che sminuzza il cibo in bocconi piccolissimi, come il padre che balbetta per comunicare con il suo bambino. In questo senso, la venuta del Dio che si è fatto uomo per farsi incontrare e riconoscere dall’uomo può essere da Agostino espressa nell’immagine del Cristo che «si è fatto nostra nutrice».
8. L’inerzia, almeno dell ’ ascoltatore
apparente ,
Un terzo motivo di insoddisfazione per chi insegna è l’inerzia, reale o apparente, dell’ascoltatore: Quanto più amiamo coloro cui ci rivolgiamo, tanto più desideriamo che sia accetto ciò che offriamo per la loro salvezza. E se la cosa non si verifica, ci rattristiamo e nel corso stesso dell’esposizione ci sentiamo scoraggiati e abbattuti, come se ci spendessimo in un’opera vana (CR 10,14).
Non c’è dubbio che questa annotazione si possa applicare non solo al catechista, ma ad ogni insegnante e educatore, nel momento in cui egli ritenga di percepire l’inerzia o il rifiuto dell’allievo, o abbia motivo di sospettarlo. Di fatto, per la reciproca impenetrabilità delle menti, chi inse-
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gna non può comprendere con certezza la ragione di tale inerzia/assenza: deve dunque interpretare, ipotizzare le ragioni del silenzio dell’altro. Agostino torna sul problema in diverse riprese: Talvolta, benché abbiamo parlato bene e secondo verità, un qualche argomento o non viene compreso, o per la sua stessa novità, contraria all’opinione familiare di un inveterato errore, scandalizza e sconcerta l’uditore mal disposto. Se il suo dissentire si sia manifestato con chiarezza e si dimostri sanabile, occorre senza alcun indugio ripararlo con abbondanza di testimonianze e di argomentazioni probanti (CR 11,16).
Ma non sempre l’uditore esprime un dissenso o una perplessità: talvolta si limita al silenzio, in un’apparente impassibilità. Perché tace, e non dà cenno di assenso, l’allievo/catechizzando? Forse perché, frenato da religioso timore, non osa manifestare verbalmente, o con un gesto la sua approvazione, o perché è trattenuto dall’umana timidezza, o perché non comprende ciò che gli viene detto, o perché lo ritiene di poco conto. Quando, non potendo discernere noi lo stato d’animo di chi ascolta, siamo nell’incertezza, bisogna allora tentare di mettere in atto con il discorso tutti i mezzi che possono servire a spronarlo e, per così dire, a farlo uscire dal suo nascondiglio. Bisogna bandire con un incoraggiamento persuasivo l’eccessivo timore che gli impedisce di esprimere la sua opinione; mitigarne la timidezza introducendo un rapporto fraterno; cercare di rendersi conto con qualche domanda della sua capacità di capire; dargli fiducia, in modo che, qualora gli sembri di dover ribattere su qualche argomento, parli liberamente. È necessario anche chiedergli se ha già udito qualche volta ciò che gli viene insegnato; e se per caso non lo interessi per il fatto che si tratta di argomenti a lui ben conosciuti e familiari. In relazione alla sua risposta, ci si deve impegnare o a parlare in modo più semplice e più chiaro; o a ribattere un’obiezione; oppure a non dilungarsi in dettagliate spiegazioni sugli argomenti che gli sono già noti, ma a riassumerli brevemente […] (CR 13,18).
In questi passaggi, che dal nostro punto di vista meriterebbero un’analisi riga per riga, per quanto riguarda le strategie metodologiche che suggeriscono, Agostino sta mettendo in scena un catechista/insegnante che sia, a un tempo, totalmente concentrato sulla verità da comunicare e, insieme e nello stesso momento, anche sulla mente del suo destinatario designato, perciò attento a tutti i segnali non verbali, orientato a interpretare i silenzi, i movimenti, gli sbadigli, e sempre alla ricerca di una costante interazione con l’interlocutore silenzioso. Non c’è dubbio che, per intuire che cosa trattenga o ostacoli la partecipazione dell’ascoltatore, il catechista ha bisogno continuamente di «mettersi nei suoi panni», e che l’insegnamento è un adeguamento continuo: «in relazione alla risposta ottenuta», scrive Agostino, il catechista dovrà modificare la sua esposizione. In un altro punto del testo, l’attenzione è richiamata sulla stanchezza, evidenziata da irrefrenabili sbadigli, o da movimenti involontari del corpo e cambiamenti della postura, che possono far sospettare che l’ascoltatore voglia andarsene. In più riprese Agostino esorta ai «discorsi brevi»,
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soprattutto se gli ascoltatori non possono sedersi, e la sua chiara istruzione è che, comunque, persone venute per l’iniziazione cristiana dovranno esser fatte sedere – «stette seduta una donna davanti a nostro Signore». Davanti ai segni di stanchezza e di noia, appena ci si accorge di ciò, è bene ravvivare la sua attenzione con il dire qualcosa di condito da una composta allegria e confacente al tema trattato; o qualcosa che susciti meraviglia e stupore, o commozione e pianto; e più, qualcosa che lo riguardi, in modo che, punto sul vivo, egli ridesti il suo interesse. Tuttavia la cosa non deve urtare, con qualche espressione aspra, la riservatezza di chi ascolta, ma piuttosto conquistarne il favore con il tono familiare (CR 13,19).
E si osservi quest’altro passaggio, questa volta dal De doctrina, nel quale Agostino suggerisce espedienti comunicativi che permettano di richiamare e rinnovare l’attenzione dell’ascoltatore che appare assorbito in altri pensieri: Quando invece non siano individuabili con chiarezza le ragioni per cui, già chiuso nel suo silenzio, il candidato rifiuti di ascoltare, gli si dica, quando si sia seduto, qualche parola contro gli insorgenti pensieri derivati dalle occupazioni di questo mondo, e lo si faccia in tono gioioso, come ho già detto, oppure in tono addolorato; perché, se sono proprio le preoccupazioni legate agli affari del mondo a occupargli la mente, queste spariscono essendo state chiamate in causa a una a una. Se invece non sono tali preoccupazioni a distrarlo, ma si tratta del fatto che il candidato si è stancato di ascoltare, per riscattare la sua attenzione dalla noia si può dire, nel modo cui ho fatto cenno, qualcosa di imprevisto e di fuori del comune riguardo a queste preoccupazioni, come fossero responsabili della situazione stessa (dal momento che ne ignoriamo la causa). Ma che a proposito il nostro discorso sia breve – soprattutto perché viene a inserirsi come digressione – per evitare che la medicina non aggravi la malattia della noia, a cui vogliamo porre rimedio. Ci si deve quindi affrettare nel dire le restanti cose, e promettere e giungere a una più rapida conclusione del discorso (dDC 10,25).
9. Contesto
comunicativo e setting
Agostino distingue con chiarezza le diverse situazioni, nel loro intreccio con gli obiettivi della comunicazione, e ha presente il fatto che la composizione del gruppo degli astanti e il loro numero determini, di per sé, un contesto comunicativo specifico. I discorsi dovranno variare in relazione alle circostanze: consideri il catechista che «altra è l’intenzione di chi detta pensando al futuro lettore, altra quella di colui che parla badando all’ascoltatore che ha davanti a sé» (CR 15,23). Occorre poi tenere conto dei diversi contesti in cui il discorso si colloca: parlare a una sola persona da soli, «senza la presenza di qualcuno che ci possa giudicare», e parlare in pubblico a un uditorio che ha diverse opinioni, sono contesti comunicativi diversi. Altro è parlare a uno in un gruppo che già condivide e approva, quasi rinforzando; altro è parlare quando tutti attendono di ascoltarti. E ancora diverso è il contesto di un parlare fami-
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liare, sia pure a un gruppo, e altra cosa l’attesa di un uditorio quando ci si accinge a parlare da una posizione preminente come il pulpito. Il numero e la composizione del gruppo dei presenti modifica il contesto. E il contesto influenza gli ascoltatori, ma anche il catechista/predicatore. Infatti è inevitabile che i presenti influenzino in tanti modi diversi chi si appresta a parlare e a insegnare, come è pure inevitabile che il discorso pronunciato porti, in certo qual modo, impressa l’immagine dello stato d’animo di chi lo pronuncia; impressioni in modo differente gli ascoltatori per la loro stessa varietà, dal momento che essi, con la loro presenza, si influenzano vicendevolmente in maniera diversa (CR 15,23).
Nei dialoghi con una o più persone, gli interlocutori possono dichiarare di non aver compreso e chiedere chiarimenti. Quando si tengono discorsi al popolo nessuno può intervenire, ma il pubblico esprime anche con gesti non verbali la sua mancata comprensione: «Per questo motivo la premura di chi parla deve con ogni sforzo venire incontro a chi è costretto a tacere». Bisogna dunque trattare in molti modi l’argomento che si spiega, e sempre con molta varietà di esposizione, cosa impossibile a coloro che espongono cose imparate antecedentemente e mandate a memoria a paroletta. Quando poi ci si rende conto che l’argomento è stato compreso, si deve o por fine al discorso o passare ad altro tema. Difatti, come è gradito colui che rende chiare le cose da conoscersi, così diviene pesante chi insiste su cose ormai note ripetendole all’ascoltatore le cui attese miravano esclusivamente a che venisse delucidata la difficoltà di ciò che si stava esponendo (dDC 9,23).
In quest’ultima citazione abbiamo sottolineato in corsivo un concetto essenziale, che qui Agostino inserisce quasi incidentalmente, come se fosse ovvio. Non può insegnare «con varietà di esposizione», cioè riorganizzando continuamente l’esposizione, cambiando le parole e gli esempi, una persona che ha imparato precedentemente i contenuti da insegnare mandandoli meccanicamente a memoria. Abbiamo osservato ripetutamente, nella pratica didattica, come un insegnante efficace sia sempre uno che «ripensa» ciò che sta dicendo – e che perciò lo dice in più modi e con diverse strategie –, mentre ci sono molti insegnanti che piuttosto «ricordano» ciò che «ripetono», più o meno meccanicamente. Agostino ci ha appena dichiarato che per farsi comprendere occorre una padronanza conoscitiva che permetta all’insegnante/catechista di «ripensare», e non appena di «ricordare», ciò che intende insegnare. È chiara quindi in Agostino la distinzione fra il conoscere meccanicamente e l’aver «compreso per avere indagato»: L’uomo parla con sapienza a seconda del progresso che ha fatto nella conoscenza delle sacre Scritture. Non dico del fatto di averle molto lette o imparate a memoria, ma dall’averle ben comprese e averne scrutato diligentemente il senso (dDC 5,7 [corsivo nostro]).
Nell’eloquenza degli autori ispirati
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Agostino pedagogista: una teoria dell'insegnamento si doveva mescolare anche una certa dose di oscurità, in detti divini e salutari come quelli, per cui il nostro intelletto avrebbe dovuto trarre profitto non solo mediante la [semplice] scoperta, ma anche mediante la ricerca (dDC 6,9).
In altri termini, insegnerà in modo da farsi comprendere chi, a sua volta, ha indagato e ha compreso, ricercando personalmente. C’è un rapporto fra il percorso compiuto dalla mente di colui che opera da catechista/insegnante e la sua possibilità di perseguire, come obiettivo prioritario, il farsi comprendere. Sulla priorità del farsi comprendere Agostino insiste ripetutamente nel De doctrina christiana: Non si deve tralasciare il dovere di portare alla comprensione degli altri le verità che, sebbene difficilissime, noi abbiamo penetrato, qualunque sia lo sforzo richiesto dalla esposizione. Se un uditore o un interlocutore è preso dal desiderio di imparare e non è privo di intelletto che gli consenta di recepire le cose che gli sono proposte, colui che insegna non deve preoccuparsi dell’eloquenza con cui insegna, ma dell’evidenza che vuole conseguire (dDC 9,23). Chi dunque parla allo scopo di istruire, finché non è stato compreso, non ritenga di avere comunicato il suo sapere a colui che si proponeva di istruire. In effetti, sebbene abbia detto le cose che egli personalmente comprende, non deve ritenere di averle dette a colui dal quale non è stato compreso. Se al contrario è stato compreso, in qualunque modo le abbia dette, le ha dette bene (dDC 12,27).
Per conseguenza, c’è un’eloquenza che costituisce una sorta di «negligenza diligente». Non ci si preoccupa della precisione delle parole e neppure della correttezza linguistica; in questo passo Agostino introduce alcuni esempi di latino popolare. Bisogna parlare come gli incolti, se questo è necessario per essere capiti, perché l’unica ragione del parlare è il farsi capire. Chi insegna, potremmo dire, non ha mai l’obiettivo di esibire la sua competenza linguistica e la sua abilità espositiva. Eppure ci sono molti docenti e conferenzieri, e forse perfino predicatori e catechisti, che non sono esenti da questo difetto. Secondo Agostino, «la caratteristica dei buoni ingegni sta in questo: nelle parole, amare la verità, non le parole». Chi insegna eviterà dunque tutte le parole che non insegnano nulla, e se, in loro vece, potrà dirne delle altre corrette e intellegibili, sceglierà queste; se invece non potrà farlo, o perché non ci sono o perché sul momento non gli vengono in mente, si servirà di parole anche meno corrette, purché la cosa in sé sia insegnata e appresa con la necessaria esattezza (dDC 10,24).
In effetti, la soglia dell’apprendimento significativo è data dalla comprensione, che rimane la condizione necessaria – anche se non sufficiente – perché la conoscenza si rigeneri nella mente dell’allievo. Dopo servirà studio, in alcuni casi esercizio, ma, senza la comprensione, si possono avere solo situazioni di meccanica ritenzione di informazioni, destinate comunque, entro un tempo limitato, alla rapida obsolescenza.
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Si può osservare però che, in questo libro IV del De doctrina, la parola ha cambiato profondamente la sua funzione nell’atto di insegnamento, non solo rispetto al testo del De magistro, ma anche rispetto alle preoccupazioni di inadeguatezza, fra pensiero e parola, che abbiamo incontrato nel De catechizandis. Qui si afferma che vi sono «parole che non insegnano» e che vanno quindi scartate, ma non c’è alcun dubbio che chi vuole insegnare troverà nella parola un’alleata potente e irrinunciabile. Le regole funzionali dell’eloquenza antica, che sono da Agostino ben conosciute e padroneggiate, vengono riprese e illustrate solo per essere piegate alle finalità esplicative e dimostrative di una comunicazione intenzionalmente didattica. In questo senso, l’oratore cristiano dovrà essere «sapiente» prima che «eloquente»: Se la sapienza senza l’eloquenza giova poco alle comunità cittadine, l’eloquenza senza la sapienza il più delle volte nuoce moltissimo, certo non giova mai (dDC 5,7).
10. La
centralità dell ’ allievo e la personalizzazione
La sostanziale soggettività della conoscenza umana, insieme alla sottintesa dignità creaturale di ogni uomo, determina in Agostino un’attenzione privilegiata alle condizioni soggettive del conoscere e dell’apprendere, che si trasforma in un principio di metodo che oggi chiameremmo «personalizzazione», e non soltanto «attivazione cognitiva», che abbiamo già visto sollecitata nelle strategie per ottenere attenzione dall’ascoltatore. Riferendosi agli aspiranti catecumeni, i rudes di cui il catechista Deogratias è chiamato a occuparsi, Agostino osserva che sarebbe utile conoscere in anticipo le motivazioni e le disposizioni interiori del candidato, da persone che lo conoscono, ma soprattutto occorre interrogare lui stesso per condurre l’inizio del nostro discorso secondo il tenore delle sue risposte. Se si è accostato con falsa intenzione, spinto dal desiderio di ottenere vantaggi umani o di evitare eventuali danni, in ogni caso ha l’intenzione di mentire; tuttavia, proprio dal fatto che mente si deve trarre lo spunto iniziale del discorso: non già per contraddire la sua menzogna, quasi tu ne fossi certo, ma se egli dice di essere venuto con una certa intenzione che si deve apprezzare, sia vero o falso ciò che dice, occorre approvare e lodare tuttavia quell’intenzione manifestata nella sua risposta. E ciò perché egli si rallegri di esser tale quale desidera apparire. Se poi manifesta motivi diversi da quelli [necessari] […] occorre riprenderlo «con dolcezza e moderazione», mettendo in evidenza con brevità e convinzione il fine della dottrina cristiana in tutta la sua verità […]: bisogna che tu ti adoperi perché egli voglia quello che, o per errore o per dissimulazione, non voleva ancora (CR 5,9).
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Si osservi che «far parlare l’allievo a partire sempre dalle sue motivazioni ed esperienze» rimane un principio metodologico didattico tuttora essenziale, non solo nella catechesi, ma nella formazione degli adulti in genere.27 Riferendosi alla catechesi in particolare, l’attenzione e il riguardo di Agostino per le eventuali bugie e ambiguità del convertito presenta una giustificazione profonda, che è insieme teologica e psicologica: «In vero non accade mai che qualcuno venga con l’intenzione di farsi cristiano senza essere stato toccato nel profondo da un certo timore di Dio». Perciò, di fronte a un’intenzione non corretta – farsi cristiani per evitare danni o per acquistare benefici – è possibile che attraverso la carità del catechista agisca la grazia di Dio, e il candidato, «colpito dal discorso, voglia diventare quel che aveva stabilito di fingersi», e per quanto a noi rimanga nascosto il momento in cui «aderisce con il cuore quegli che vediamo presente con il corpo», «nondimeno dobbiamo agire con lui in modo che nel suo animo si sviluppi questo desiderio, seppure non c’è» (CR 5,9). In generale, nel testo del De catechizandis, emerge la piena consapevolezza che occorra trattare diversamente persone con storie diverse e condizioni esistenziali diverse: se il catecumeno è persona coltivata negli studi liberali, è necessario che i contenuti gli siano richiamati velocemente, e non ripetuti. Si deve chiedergli quali siano le ragioni per cui si accosta al cristianesimo, che cosa lo abbia indotto a presentarsi, quali letture abbia compiuto. E anche se qualcuno avesse letto autori considerati eretici, Agostino ribadisce che è sempre necessario valorizzare il percorso personale dell’aspirante catecumeno (CR 8,12). E un’attenzione particolare va riservata agli oratori e ai retori (CR 9,13) e al loro possibile disprezzo per il linguaggio delle sacre Scritture. Essi dovranno sperimentare direttamente la comprensione che nasce da un’interpretazione non letterale dei sacri testi. Agostino dichiara quindi di avere egli stesso un atteggiamento diverso, a seconda di colui che si trova davanti: cultura, sesso, età, posizione sociale ed economica, responsabilità di governo, e anche l’appartenenza a sette, o a false religioni popolari, dell’aspirante catecumeno, devono determinare l’atteggiamento del catechista, perché, conclude Agostino: Il fatto che con tutti si debba usare la medesima carità, non vuol dire che sia necessario usare con tutti il medesimo rimedio.
27 Non che non sia utile personalizzare con allievi più giovani: tutti vanno comunque interpellati e ascoltati. Resta però una grande differenza, legata all’età, che determina esperienze di vita, conoscenze acquisite anche nel corso degli studi, e dunque aspettative, organizzazioni cognitive, modi di pensiero e sistemi motivazionali, che assumono una funzione decisiva rispetto alla possibilità di nuove conoscenze e competenze, e ciò non vale solo per la conversione religiosa.
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11. La
serenità dell ’ animo necessaria
Concludiamo l’analisi del De catechizandis con un’osservazione di Agostino circa il sentimento più profondo con cui il catechista può trovarsi ad avviare il suo incontro: Qualche volta, mentre il dispiacere, derivante da qualche scandalo, angustia il nostro cuore, ci sentiamo dire: vieni e parla a questa persona che ha intenzione di farsi cristiana. Certamente ce lo sentiamo dire da persone che ignorano quale dolore segreto bruci dentro di noi: e se non è opportuno rivelare il nostro stato d’animo, intraprendiamo malvolentieri quel che ci viene richiesto. Allora sì, il discorso, passato al vaglio da un cuore bruciante e torbido, riuscirà smorto e poco gradevole (CR 10,14).
Infatti il dispiacere rende il cuore arido e non sereno. All’insieme di cause che offusca la serenità dell’animo il catechista deve porre rimedio con la grazia di Dio, perché occorre donare con gioia. Certo, se l’animo del catechista è turbato, egli non può tenere un discorso sereno e gioioso. Agostino si sofferma sul dolore che ci danno gli scandali, la perdita dei confratelli, il timore che anche l’aspirante catecumeno possa deviare e perdersi, eppure, più avanti nel testo, osserva: Io non so in che modo […] il discorso, che riceve alimento da un dolore presente, risulta più ardente: non solo non siamo più svogliati, ma per ciò stesso esprimiamo in modo più partecipato e vibrante ciò che, senza quel pungolo, avremmo detto con maggior freddezza e distacco. E rallegriamoci che ci sia data l’opportunità che un sentimento del nostro animo non passi senza portar frutto (CR 14,21).
Io ritengo che queste ultime osservazioni ci richiamino a un altro aspetto del problema che, per il catechista, come per qualsiasi insegnante, tocca non solo quelle che chiamiamo tecnicamente «motivazioni» all’insegnamento, ma piuttosto una dimensione soggiacente al sentimento che è autenticamente spirituale. Non si tratta solo del dolore, perché esso può addirittura esprimersi nel dare maggior energia vitale ai nostri discorsi: non il dolore, ma la mancata serenità dell’animo ostacola oggettivamente la capacità umana di insegnare. E la mancata serenità può certo nascere da alcuni dolori, fra cui la delusione e l’amarezza per gli scandali che ci danno i nostri fratelli – e talvolta quelli che amiamo particolarmente –, oppure dalle preoccupazioni materiali che gravano la nostra esistenza, ma essa nasce più di frequente da un nostro errore o peccato. Allora, osserva Agostino, un’opera di carità, quale la catechesi, spegne il peccato come l’acqua il fuoco. Sarebbe un peccato ben maggiore infatti non occuparsi degli affari del Signore, come quel servo infingardo che seppellì il talento che gli era stato affidato (CR 14,22). Personalmente, credo che questo punto suggerisca una riflessione profonda per tutti gli insegnanti, i catechisti e i predicatori: a questi ultimi in particolare Agostino raccomanda in un altro passo di pregare sempre, prima di predicare, e di pregare per sé, per quelli che ascolteranno, e 102
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per quelli da cui abbiamo tratto i nostri contenuti (dDC 15,32). Al di là del fatto che questo permane, in termini religiosi, sempre un ottimo suggerimento, vorrei rilevare come disporsi alla preghiera comporti già il prendere coscienza della nostra non serenità davanti a Dio, e, allo stesso tempo, il pregare comporti un «diventare sereni». In termini strettamente psicologici, la preghiera opera un distanziamento da noi stessi, dai motivi occasionali e dalle interferenze emozionali, e genera una concentrazione intellettuale e affettiva, nella mente dell’insegnante, che diventa la più efficace precondizione per l’insegnamento, in quanto ci riporta alla sua essenza: un atto di condivisione e socialità umana, finalizzato alla difesa e allo sviluppo della vita dell’altro. E quindi anche alla sua salvezza eterna, per quanto si possa insegnare lingua italiana o trigonometria. Si torni a osservare la solidarietà spirituale che lega il nostro pregare per noi e per gli ascoltatori al pregare per coloro da cui abbiamo imparato.
12. Una
conclusione provvisoria
Dobbiamo concludere questa esplorazione, relativa solo a due testi di Agostino, e neppure compiutamente esaustiva.28 Abbiamo trovato in Agostino gli elementi di una teoria dell’insegnamento, che consisterebbe in una categoria di azioni comunicative implicanti il ripensamento e la formulazione di contenuti conoscitivi, per mezzo di parole, pensate ed espresse; parole forse non mai sufficienti, ma certamente sempre necessarie. Le azioni di insegnamento appaiono finalizzate, in primo luogo, alla comprensione del destinatario. Un soggetto destinatario – singolo o plurimo – è dunque sempre presente alla mente di colui che insegna, insieme e in parallelo all’oggetto della comunicazione didattica, e l’insegnare comporta un costante sforzo di adeguamento della mente di chi insegna alla mente del suo interlocutore. Come abbiamo visto, Agostino mette in rapporto la capacità di insegnare con la dignità della natura umana e con la sua intrinseca socialità solidale. La teoria dell’insegnamento sarebbe così in rapporto a un’antropologia, almeno parzialmente, resa esplicita. Meno sviluppata appare, in questi testi, una vera e propria teoria dell’apprendimento intenzionale, sebbene alcune vivide e realistiche pennellate provino a individuarne almeno gli impedimenti: la stanchezza, precedenti opinioni radicate ecc. Utilizzando altre parole per fissare questa prima sintesi, potremmo affermare che in Agostino l’azione di insegnamento costituisca una grande mediazione fra due piani e livelli di realtà: per un verso, esiste una realtà oggettiva, che è conoscibile dalla mente umana, e che può dunque essere oggetto di scienza e infine di sapienza. La verità religiosa, la verità
28 Varrebbe la pena di analizzare anche quanto Agostino scrive, in dDC, sulle modalità e gli stili espositivi dell’oratore, in rapporto agli effetti che essi hanno sull’uditorio, mostrando, evidentemente, conoscenza di una tradizione di studi retorici più antica e a lui ben nota.
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rivelata, costituisce l’acme di tale realtà e insieme l’orientamento ultimo che spinge la mente alla conoscenza. L’agostiniano «credo ut intelligam» esprimerebbe – anche e soprattutto – un orientamento del pensiero umano, ciò che lo muove e lo motiva: l’uomo cerca la verità, in tutti i suoi livelli, nella presunzione che essa esista e sia conoscibile. Cercare e trovare la verità non coincidono, tuttavia, con il possederla: l’autorità di chi insegna deriva dalla verità stessa che egli si trova a mediare in quanto, con la sua comprensione intellettuale, essa gli è stata in qualche modo «consegnata» (la verità è sempre data «in affido», non «in possesso»). La comunicabilità, il «disvelamento» della verità, non è una «creazione» della mente umana, ma è certo una «chiamata in esistenza», non in essere, di essa. Va ben meditata questa osservazione quasi incidentale di Agostino: Chi si accinge a spiegare i libri sacri non deve parlare come se avesse la stessa autorità dei libri che espone, ma in tutti i suoi discorsi si sforzi prima di tutto e soprattutto di far capire i libri stessi (dDC 8,22).
L’altro polo di questa grande mediazione è dato dalla mente dell’allievo/ascoltatore, cui l’insegnamento si rivolge come una forma di cura, nel riconoscimento di una comune dignità umana che rende l’allievo sempre «degno che gli si insegni», e insegnare è soprattutto far capire, dis-velare, render chiaro: Non voglio trattare del modo di rendersi piacevoli; parlo solo del modo di insegnare le cose a coloro che desiderano impararle. E il modo migliore è questo: far sì che chi ascolta ascolti la verità e comprenda ciò che ha ascoltato. Quando un tale scopo sia stato raggiunto, non ci si deve affannare più oltre intorno alla stessa cosa, quasi per insegnarla più diffusamente, ma si deve solo, se del caso, raccomandarla perché si fissi nel cuore (dDC 10,25).
E ancora: In fatto di insegnamento l’eloquenza consiste precisamente in questo: parlare non perché piaccia ciò che incuteva orrore, né perché si faccia ciò che creava difficoltà, ma perché appaia manifesto ciò che era oscuro (dDC 11,26).
È dunque la spiegazione, l’offerta esplicativa di un contenuto veritativo, la prima radice dell’insegnamento: il persuadere e il convincere all’azione sono elementi secondari rispetto al far comprendere. Ha un grande potere perciò l’insegnamento, e può ben rivelare la grandezza e la dignità della ragione umana, pur collocandosi tuttavia fra i due limiti invalicabili posti dall’Oggetto di insegnamento e dal Soggetto che ne è destinatario. Qui i testi sacri di cui si parla costituiscono un oggetto reale, cui si rivolge un rinnovato conferimento di senso, ma possono essere assunti anche come metafora ed emblema di un intero mondo di oggetti, cui la ricerca veritativa della ragione umana continua a conferire senso. Non solo la Verità, ma anche le molte verità, anche parziali e provvisorie, costruite dalla scienza, esigono che chi insegna non si appropri mai
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dell’autorità della verità/Verità stessa, ma si ponga come mediatore di essa, pur avendola chiamata in esistenza con il proprio atto di pensiero. Dal lato opposto, la mente dell’allievo costituisce il limite oggettivo dell’atto di insegnamento, non tanto perché essa sia impenetrabile e potenzialmente «chiusa», ma perché è solo nel suo interno, nei suoi «recessi», che avviene il riconoscimento veritativo. L’efficacia dell’insegnamento umano è una condizione necessaria, ma non è mai una condizione sufficiente. La conoscenza avviene in interiore homine, per quanto si debba riconoscere che essa sia generata – o meglio, continuamente ri-generata – per hominem. Vi è dunque in Agostino un’indiscutibile consapevolezza della soggettività umana nel costruirsi della conoscenza personale, attraverso percorsi che dipendono dal naturale intelletto, ma anche dalla storia e dalla cultura, dalle esperienze e dagli insegnamenti ricevuti. Si tratta di elementi che, per quanto rimangano impliciti o appena accennati, costituiscono anche materia di una teoria pedagogica in senso moderno, che l’analisi di altri testi agostiniani qui non operata – in primo luogo le Confessioni – permetterebbe di integrare e chiarire. La teoria dell’insegnamento che abbiamo sintetizzato sembra dunque in apparente contrasto con la tesi dell’illuminazione del Maestro interiore espressa nel De magistro, su cui vale perciò la pena di tornare brevemente. In primo luogo, la tesi del Maestro interiore e dell’illuminazione, che permane una figura metaforica per illustrare un concetto, costituisce una teoria filosofica della conoscenza umana, e non è una teoria pedagogica delle possibilità dell’insegnamento, e neppure una vera e propria teoria dell’apprendimento. «Conoscenza» umana come problema filosofico e «apprendimento» come dato psicologico – possibilità per altro comune a tutte le specie viventi e non solo all’uomo – non sono lo stesso oggetto di indagine, e, se non c’è dubbio che Agostino si sia impegnato in tutta la sua opera sul tema filosofico della conoscenza, è da verificare e dimostrare che egli si sia confrontato concretamente con i temi dell’apprendimento e dell’insegnamento: il presente saggio costituisce appunto un tentativo rispetto all’oggetto insegnamento. Con ciò non si può, o non si vuole, negare che la formulazione di una teoria filosofica della conoscenza umana abbia decisive implicazioni e conseguenze di tipo pedagogico-didattico. Ma che cosa ci ha detto, in ultima analisi, Agostino della conoscenza umana? In quali termini possiamo parlare di un suo «soggettivismo» gnoseologico e non di una forma di innatismo? Secondo Perrini, rispetto al problema pedagogico e didattico, Agostino ci ha soprattutto spiegato che senza l’attività concettualizzatrice di chi apprende, senza l’esercizio rigoroso della sua capacità giudicante – per la quale i concetti stessi gli appaiono veri o falsi – non c’è mai vera conoscenza, ma la mera assunzione di notizie o schemi mentali. Si può incamerare il «pensato» – quali che siano gli ambiti cui esso si riferisce, i suoi contenuti e i gradi di elaborazione con cui esso si presenta – senza che ci sia un vero e proprio «pensare» come atto personale.
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Maria Teresa Moscato Si ha allora un sapere e un insegnamento che opprimono l’intelligenza invece di liberarne il dinamismo, mentre l’insegnamento dovrebbe mirare in primo luogo ad avviare il processo di autoformazione del discente.29
Letta in questa chiave, la teoria dell’illuminazione implicherebbe soltanto che «la mente intuisce e usa, nella ricerca e nella dimostrazione del vero, i principi regolativi della sua stessa attività, le interiores regulae veritatis (De lib. arb. II, 12,34). Esse sono presenti in noi, ma non sono da noi». Citando Masnovo, Perrini scrive che «tali regole “sono in noi non come una pagina già scritta, ma come una forza che abilita alla lettura”. Per esse la nostra mente è partecipe di una legislazione, la cui sorgente è il logos divino».30 Anche secondo Gilson, l’illuminazione può essere riconosciuta come un elemento dell’ordine naturale senza forzare il pensiero di Agostino: il processo conoscitivo si svolge nei limiti della natura. Dio non si sostituisce al nostro intelletto quando pensiamo il vero: la sua illuminazione non è richiesta che per rendere il nostro intelletto capace di pensare il vero in virtù di un ordine naturale espressamente da lui stabilito […]. L’uomo, in quanto dotato di intelletto, è per natura un essere illuminato da Dio.31
Resta tuttavia problematico comprendere «come» questa illuminazione si eserciti sul pensiero, e, a questo proposito, Gilson ritiene che si debba necessariamente operare una distinzione preliminare fra il processo naturale del conoscere, in cui l’illuminazione divina non può essere avvertita, perché essa coinciderebbe con gli stessi criteri regolatori della ragione umana, da una conoscenza di tipo mistico, o comunque da una conoscenza che attiene alla divina rivelazione, e all’esperienza di Dio. Secondo Gilson, le metafore agostiniane debbono essere riconosciute e comprese come metafore, senza chiedere alle metafore più di quanto esse non possano dare. Egli sottolinea il fatto che avrebbe offuscato grandemente l’interpretazione dei testi di Agostino la costante confusione fra testi che vertono sulla conoscenza naturale e quelli che vertono sulla conoscenza mistica. Il fatto che spesso Agostino passi senza transizione dall’una all’altra non prova però che non le abbia chiaramente distinte nel suo spirito.32
Perrini, «Agostino», 276. Ib. 31 Gilson, Introduction à l’étude de saint Augustin, II, 103. 32 Secondo Gilson (ivi, 99-120) si può dimostrare tale distinzione utilizzando un brano del De genesi ad litteram (ivi, 104-117). Egli sintetizza e argomenta, sull’illuminazione agostiniana, il travaglio di una sterminata critica filosofica antica e moderna, che noi non possiamo qui neppure elencare. Rimandiamo anche a un volume recente sulla teoria agostiniana della conoscenza: Piccolo, I processi di apprendimento in Agostino di Ippona, osservando solo che, concordemente, diversi studiosi segnalano un’evoluzione nei testi e nel 29 30
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Agostino pedagogista: una teoria dell'insegnamento
Riteniamo anche noi che sia necessario distinguere livelli diversi di conoscenza – e non solo forme e modi diversi – nell’esperienza umana: l’apparente confusione, in certe pagine agostiniane, dipende probabilmente dal maggiore interesse che assume per Agostino la conoscenza della verità ultraterrena, che ha bisogno di «illuminazione» e di grazia in termini diretti, rispetto alla scienza delle cose naturali, cui non c’è dubbio che la ragione umana possa accedere naturalmente. Un’altra ragione di sovrapposizione concettuale può essere costituita dal fatto che Agostino non è un pensatore e uno scrittore sistematico, e che la componente mistica permane caratterizzante la sua intera concezione filosofica così come le sue pagine. L’enorme «giacimento» di esperienza e riflessione, costituito dai suoi scritti, accompagna e documenta un percorso personale di ricerca, scoperta e faticosa rielaborazione della conoscenza, che non è separabile dalla sua conversione religiosa e dal suo percorso esistenziale personale. E d’altro canto è l’Agostino introspettivo e mistico quegli che maggiormente ha parlato agli uomini delle generazioni successive e che ci parla e ci affascina tuttora. È evidente che alcuni livelli di conoscenza da lui sondati non hanno alcun rapporto con la comprensione dei fenomeni naturali; essi vanno oltre la mente, e toccano la dimensione spirituale, e non appena cognitiva, della nostra esperienza. In questo senso, la via della trascendenza da se stessi si apre, per ciascuno, nella sua interiorità, secondo l’itinerario ricostruito da Agostino nelle Confessioni, ma sempre per andare oltre se stessi, e, soprattutto, oltre la nostra stessa dimensione razionale. Dio non «abita» la ragione che in un senso molto particolare, che esige interpretazione, e la ragione è, anche per Agostino, in ultima analisi, «una scala da abbandonare dopo averne percorso tutti i gradini». La corretta interpretazione del senso del suo interiore homine dovrebbe cominciare con il citare per intero quel passo famoso: Noli foras ire, in teipsum redi; in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et teipsum. Sed memento cum te trascendis, ratiocinantem animam te trascendere. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur. Quo enim pervenit omnis bonus ratiocinator, nisi ad veritatem? Non uscire fuori da te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’intimo dell’uomo e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che trascendi l’anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione. A che cosa perviene infatti chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? (De vera religione 39,72).
Comunque lo si traduca, il testo parla di un percorso interiore, di una contemplazione introspettiva, che si apre alla trascendenza, e va oltre
linguaggio di Agostino (fra il De magistro e il De trinitate), in termini che porterebbero a reinterpretare la teoria agostiniana dell’illuminazione.
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Maria Teresa Moscato
la ragione e la sua corretta utilizzazione, giacché il «luogo» dove «si accende il lume della ragione» non può essere che la divinità e «luce» o «fuoco» sono ancora termini metaforici, figure per esprimere l’inesprimibile. Piuttosto, l’interiore homine, l’animus, di Agostino non è necessariamente solo «anima raziocinante», intelletto, mente, come si può evincere più chiaramente nel testo delle Confessioni. Vorrei dedicare ancora qualche parola a una figura tematica, perché essa evidenzia il vero metodo di lavoro di Agostino, quando egli parla di realtà inesprimibili.
13. «Un
abisso chiama l ’A bisso »
Molto prima di Freud, Agostino aveva già descritto quell’infinita, intima tristezza, quel «desiderio di morte», che Freud avrebbe chiamato Thanathos, percependone anche la spinta autodistruttiva. Nelle Confessioni Agostino parla alla presenza di un definitivamente Altro, che prende la figura del grande «abisso divino», da cui finalmente egli si riconosceva placato, come «contenuto»: La mia anima è ancora triste perché ricade e ridiventa abisso; peggio, sente ancora di essere abisso (Confessioni XIII, 13).
La grande figura dell’abisso esprime l’inaccessibilità di un «fondo» che non si vede, di una forma che ci sfugge. Siamo noi, è questo l’interiore homine? Non solo abbiamo grandi limiti conoscitivi nei confronti della realtà esterna, ma il nostro stesso essere personale costituisce in ogni momento sempre «qualcosa di più» della coscienza di noi che riusciamo a conquistare. Analizzando la memoria, Agostino scrive: È una forza del mio spirito, fa parte della mia natura, ma neppure io riesco a contenere tutto quello che sono. O che l’animo è troppo ristretto per contenere se stesso? (Confessioni X, 8).
E prima ha scritto: Confesserò dunque quel che so di me, confesserò anche quello che non so […], quello di me che non conosco debbo ignorarlo fino a che le mie tenebre, nella luce del Tuo volto, diverranno luce (Confessioni X, 5).
Il cuore umano sarà sempre mistero e meraviglia a se stesso, e il personale abisso di ciascuno di noi sarà sempre «inquieto», e in parte minaccioso. Ma in questa figura dell’abisso Agostino deposita la certezza dell’esistenza di uno spirito, dotato di permanenza perché ontologicamente consistente, sebbene creato, ma «a immagine e somiglianza» divina. Perciò di se stesso può dire che, in forza della speranza, «ancora l’abisso chiama l’abisso», ma ormai «con la voce delle tue cateratte» (Confessioni XIII, 13).
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Agostino pedagogista: una teoria dell'insegnamento
L’abisso, divino e umano, è certamente figura archetipica, profondamente sedimentata nel cristianesimo.33 Nel passo citato di Agostino, la metafora si riferisce direttamente al Salmo 42 (41): «Un abisso chiama l’abisso / al fragore delle tue cascate / tutti i tuoi flutti e le tue onde / sopra di me sono passati»,34 salmo che egli aveva analizzato e commentato. Si osservi che la traduzione del salmo è forzata, e sostanzialmente errata, ma questo è irrilevante, rispetto al fatto che il commento di Agostino, e il senso che egli attribuisce alla figura contenuta nel salmo, sono probabilmente la via diretta per cui la figura dell’abisso passa nella tradizione letteraria cristiana e occidentale. Non è appena una metafora: si tratta di una lettura che costruisce una nuova immagine generativa di comprensione. Alla rappresentazione divina nella forma dell’abisso di acque travolgenti, certamente presente nel salmo, Agostino oppone un parallelismo, per cui la disperazione del salmista si fa essa stessa «abisso», si riconosce «abisso», cioè materia insondabile, sorprendente, inquieta e inquietante, sempre ambivalente, fonte perenne di tristezza, di paura, di colpa, ma anche di energia infinita e sempre rigenerata, che «emerge» continuamente da se stessa. Dentro questa figura dell’abisso del cuore è già metaforicamente compresa ogni analisi introspettiva, come quelle di molti moderni psicoanalisti. Ma la metafora agostiniana va ancora oltre: nel riconoscersi «abissale» e «triste», l’abisso del cuore si riconosce tuttavia in qualche modo «parallelo», «affine», a un altro «Abisso», di cui riconosce la presenza, e verso cui può «gridare». In questo senso complesso, l’intuizione di Agostino che l’uomo dovesse «cercare Dio rientrando in se stesso» non si riferiva soltanto alla «coscienza/ragione» umana in senso stretto, come ha inteso una tradizione filosofico-scientifica consolidata: Agostino parla di un «abisso del cuore», smisurato perfino nel suo desiderio di verità, come «un guscio di noce che volesse contenere il mare». Il pensiero da cui l’uomo «non può uscire» non è solo intelletto, procedura, «congegno» conoscitivo in qualche modo smontabile: il pensiero stesso è un groviglio di figure, desideri, emozioni, perfino quel «groviglio di vipere» definito da Mauriac, la cui materialità corporea, il limite, è anche apertura costante, smisurato desiderio, «tensione verso». Ed è in tale «abisso del cuore» che Agostino individua la permanenza ontologica, in un’inscindibile con-presenza – in un’apparente co-estensione –, oltre la psiche stessa, dell’anima immortale creata «a immagine e somiglianza» di Dio.
Cf. Moscato, Il sentiero nel labirinto. Cf. In Psalmum 41 Enarratio 13, 8. Nella traduzione interconfessionale in lingua corrente, curata dall’Alleanza biblica universale, il testo diventa: «Precipitano acque impetuose / di cascata in cascata / su di me sono passate / tutte le tue onde» (La Bibbia in lingua corrente, ElleDiCi, Leumann 1985). Cf. M.T. Moscato, «Psiche e anima fra psicanalisi e pedagogia», in Orientamenti pedagogici 55(2008)1, 23-38. È difficile ricostruire le vie di accesso di Agostino al testo del salmo, e l’influenza che potrebbe aver avuto sulla sua traduzione/lettura la tradizione gnostica, e in genere la sua formazione filosofica, precedenti la conversione. 33 34
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Maria Teresa Moscato
Come si può vedere, questa figura di un «abisso» umano che chiama l’Abisso divino è una metafora parallela al trascende teipsum che abbiamo incontrato prima, al «lume» della ragione che approda «dove il lume si accende». Nell’uno e nell’altro caso dobbiamo usare queste immagini generative senza tentare di trasformarle in concetti filosofici e in definizioni scientifiche rigorose, alle quali si può arrivare per altri passaggi, e anche guidati, o sollecitati, dallo stesso Agostino, ma senza mai identificare le due cose. L’esempio ci aiuta quindi a ridimensionare anche l’immagine del Maestro interiore e dell’illuminazione nei confini di una metafora potente, e non di un concetto filosofico, interpretando, a mio parere correttamente, la piena compatibilità che esiste in Agostino fra la sua teoria filosofica della conoscenza e la teoria interpretativa dell’insegnamento che abbiamo analizzato in queste pagine.
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Agostino pedagogista: una teoria dell'insegnamento
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La Bibbia di Israele, la sapienza delle genti e l’istruzione del Signore
Marco Settembrini
Tutto ciò che è stato scritto prima di noi è stato scritto per la nostra istruzione (Rm 15,4).
Nel desiderio di offrire alcune osservazioni utili al tema del nostro convegno, intento a indagare le modalità con cui la comunità cristiana ha curato l’educazione dei suoi giovani e ha plasmato una cultura credente in un confronto serrato con le tradizioni delle società in cui è vissuta, vorrei portare l’attenzione su alcune caratteristiche della Bibbia ebraica. In un primo momento intendo richiamare alcuni dati concernenti la composizione del corpus veterotestamentario, in modo da mostrare come esso sia cresciuto all’interno di scuole scribali ben istruite nella sapienza dei popoli circonvicini e determinate a educare i propri giovani alla conoscenza del Dio dei padri. In un secondo momento vorrò documentare questo orientamento degli scribi antichi attraverso la considerazione di alcuni passi del libro dei Proverbi. In una terza parte di questo mio contributo procederò a rintracciare che cosa, secondo la testimonianza della Bibbia ebraica, è ultimamente capace di infondere sapienza all’uomo. Nelle conclusioni che seguiranno auspico infine di poter addurre alcuni spunti di interesse prettamente teologico.
1. Le Scritture di un popolo
per l ’ educazione
Nell’ultimo decennio, molteplici studi condotti nell’ambito della scienza veterotestamentaria, approfondendo le circostanze, i luoghi e l’epoca della redazione della Bibbia ebraica, hanno rinnovato l’atten-
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zione per i circoli scribali dell’antico Israele.1 Ci si è interessati delle loro tecniche scrittorie, del loro percorso di formazione, degli scribi in quanto maestri. Tali studi si sono sostanzialmente sviluppati sulla scia e in parallelo ai progetti di ricerca che, in seno all’assiriologia, hanno portato alla decifrazione e alla pubblicazione di tavolette cuneiformi che offrono importanti testimonianze della vita delle scuole, delle biblioteche e degli archivi dell’antica Mesopotamia. Le sacre Scritture dell’antico Israele sono così indagate come un corpus andato costituendosi tra le fila degli scribi, nelle loro scuole, nelle loro biblioteche. Occuparsi di esse significa pertanto considerare testi che, al pari di altri testi letterari delle culture antiche, hanno giocato un ruolo fondamentale all’interno di un sistema di educazione, di acculturazione e persino di indottrinamento. Le opere che venivano copiate all’interno dei circoli scribali dovevano infatti incidersi nel cuore del giovane: Figlio mio, custodisci le mie parole e fa’ tesoro dei miei precetti. Osserva i miei precetti e vivrai, il mio insegnamento sia come la pupilla dei tuoi occhi. Légali alle tue dita, scrivili sulla tavola del tuo cuore (Pr 7,1-3).2
Questi doveva infatti acquisire i valori della propria cultura, imparare il senso di lealtà nei confronti del re, crescere nel timore di Dio, sapere trarre lezione dalla storia del proprio popolo, divenire scaltro, apprendere l’arte della parola. Grazie a testi scelti il giovane doveva imparare a scrivere, a leggere, a pensare. Le composizioni con cui doveva confrontarsi si prefiggevano di trasmettere una visione del mondo, di sostenere le istituzioni portanti della società, di indirizzare la vita della comunità. La scrittura stessa in quanto tale era dotata di un’autorevolezza speciale.3 Certo utile in virtù della sua funzionalità nell’amministrazione, per
1 Cf. in particolare i contributi di W.M. Schniedewind, How the Bible Became a Book. The Textualization of Ancient Israel, Cambridge University Press, Cambridge 2004; D. Carr, Writing on the Tablet of the Heart. Origins of Scripture and Literature, Oxford University Press, New York 2005; K. van der Toorn, Scribal Culture and the Making of the Hebrew Bible, Harvard University, Cambridge (MA) 2007; K. Schmid, Literaturgeschichte des Alten Testaments. Eine Einführung, WBG, Darmstadt 2008; D. Carr, The Formation of the Hebrew Bible. A New Reconstruction, Oxford University Press, Oxford 2011; E. Ulrich, «The Evolutionary Production and Transmission of the Scriptural Books», in H. von Weissenberg – J. Pakkala – M. Marttila (a cura di), Changes in Scripture. Rewriting and Interpreting Authoritative Traditions in the Second Temple Period (BZAW 419), De Gruyter, Berlin 2011, 47-64. 2 Lo stesso insegnamento dei profeti deve essere custodito nell’animo dei fedeli, come si constata nella raccomandazione di Is 8,16: «Rinchiudi questa testimonianza, e sigilla questo insegnamento nel cuore dei miei discepoli». Carr, in Writing, 8, richiama in proposito un testo egiziano analogo, presente nella diatriba satirica del Papiro Anastasi I: «Tu sei certo uno scriba esperto a capo dei suoi compagni e l’insegnamento di ogni libro è inciso sul tuo cuore» (H.W. Fischer-Eifert, «Die satirische Streitschrift des Papyrus Anastasi I», in Ägyptische Abhandlungen [1986]44, 94). 3 Cf. W.M. Schniedewind, «The Numinous Power of Writing», in Id., How the Bible, 24-34; H. Najman, «The Symbolic Significance of Writing in Ancient Judaism», in H. Najman – J.H. Newman (a cura di), The Idea of Biblical Interpretation. Fs. J.L. Kugel (Supplements to the
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la registrazione di transazioni e la gestione degli archivi, essa mostrava appieno la sua valenza nelle iscrizioni con le quali i sovrani esibivano il loro potere, affascinavano, intimidivano, trasmettevano ingiunzioni, incidevano su pietra la propria autorità perché questa potesse travalicare il tempo e raggiungere terre lontane. Lo scritto, grazie a un’efficacia quasi magica, consentiva a una tomba di parlare; depositato presso il tempio, prolungava la preghiera dell’orante. Quando gli scribi vi ricorrono, al di là di contesti meramente contabili, essi non intendono anzitutto affidare alla materia ciò che la loro memoria potrebbe obliare – la memoria e l’oralità rimangono il veicolo primario della tradizione – bensì impregnare le parole antiche della forza divina che solo lo scritto può conferire. Allorché, del resto, il loro racconto è fissato per iscritto, è di necessità formalizzato, chiuso, e, al tempo stesso, in virtù del suo carattere imperituro, è destinato a valere per le generazioni future, che vi troveranno significati nuovi e riscontri ulteriori a quelli che lo hanno ispirato. Con i loro testi gli scribi superano il tempo, la loro sapienza si apre all’immortalità (trasmessa dallo scritto), indirizzano l’avvenire, identificano un gruppo di cui vogliono caratterizzare la memoria, indirizzare le scelte, consolidandone i ragionamenti e la volontà. Attorno alla profezia di Isaia si costituisce così, ad esempio, la cerchia dei «servi del Signore» (cf. Is 54,17), attorno alla Bibbia ebraica si identifica un popolo, proprio attorno al vangelo di Gesù cresce la comunità degli apostoli.
1.1. Il
modello babilonese
Per meglio apprezzare il modello educativo di Israele, in cui crescono le Scritture sacre, è necessario prestare attenzione al più ampio contesto dell’antico Vicino Oriente. La «scuola», in cui si ambientano alcuni dialoghi satirici e da cui provengono numerosi esempi di esercizi scribali, è a casa. Né in Egitto né in Mesopotamia ci sono di fatto edifici separati deputati all’educazione. L’insegnante è di regola uno scriba che impartisce le proprie lezioni al figlio e ad altri ragazzi suoi coetanei. In Mesopotamia, in epoca paleo-babilonese i maestri/scribi (ummânū) raccolgono un corpus di testi che copiano, preservano e incidono nelle menti degli alunni. Nella cosiddetta «casa della tavoletta» (eduba con l’antica espressione sumerica, ossia bit tuppi in accadico), sotto la guida dello scriba maestro, si prevede un curriculum in più stadi: uno introduttivo di avviamento alla scrittura e due di formazione più specifica. Secondo un modello che si delinea in epoca paleo-babilonese (1950-1530 a.C.) e si definisce in periodo cassita (1530-1155 a.C.), imponendosi soprattutto nel sud della Babilonia, si forniscono dapprima le competenze necessarie a redigere lettere, inni, trattati e alcuni tipi di documento. A tale scopo si utilizzano alcuni inni
Journal for the Study of Judaism 83), Brill, Leiden 2004, 139-173, in particolare 146; Carr, Writing, 10-11.
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sumerici – fra cui l’Inno di Lipit-Ishtar B –, che consentono un’introduzione, esercizi con brevi proverbi, passi di preghiere, liste lessicali. In tal modo il ragazzo è introdotto alla grammatica sumerica, alla progressiva assunzione dei valori di diversi segni cuneiformi e, al contempo, al significato delle grandi istituzioni della propria cultura, prima tra tutte quella monarchica. Successivamente si prevede l’utilizzo di liste lessicali più complesse, l’apprendimento della matematica, della musica. Gli studenti sono aiutati a produrre modelli amministrativi e documenti legali, copiano iscrizioni regali classiche, testi mitici e sapienziali più ampi. Si cimentano con inni e testi epici sumerici – quali l’Inno di Lipit-Ishtar A, il Poema della zappa, il Soggiorno a Nippur di Enki, Ghilgamesh e Huwawa – e pure con le versioni accadiche di opere sumeriche, come Ghilgamesh e Atrahasis. Apprendono preghiere regali, inni al re, le lamentazioni per la distruzione delle città sumeriche distrutte, poesia amorosa – in speciale connessione con il culto di Inanna e Dumuzi –, fiabe, proverbi e riflessioni sapienziali.4 È proprio nella «casa della tavoletta» che, in epoca cassita, i testi copiati, commentati e dettati agli studenti trovano una loro versione definitiva, standard, «canonica».5 Le parole incise su argilla vengono considerate di origine divina, ovvero, come si deduce dai colofoni introdotti in alcuni testi di carattere mitologico-religioso, parole degli apkallū, i saggi semidivini vissuti prima del diluvio universale di cui gli ummânū sarebbero i discendenti. Le composizioni tradizionali, ricondotte ai tempi più remoti, sono in tal modo riportate alla stessa rivelazione di un dio comunicata ai primi sapienti. La sapienza del popolo si comprende così custode di un’autentica rivelazione divina. All’interno di una tale concezione, lo scriba responsabile del testo paleo-babilonese di Atrahasis confessa di avere scritto tutto per comando del dio Enlil (tavv. III, VIII,14). L’Inno a Ishtar rivendica di essere stato composto con le parole del dio Ea (XIV,3), così come una preghiera offerta a Marduk è «testo di Ea» (l. 146). L’autore di un’opera può dichiarare il proprio nome, e nondimeno assicura di riprodurre ciò che di notte gli è stato divinamente rivelato (Erra e Ishum V,42-46).6
4 Per approfondimenti, cf. Carr, Writing, 18-30, 82; D. Charpin, «L’apprentissage: cadres et méthodes», in Id., Lire et écrire à Babylone, PUF, Paris 2008, 61-95; N. Veldhuis, «Levels of Literacy», in K. Radner – E. Robson, The Oxford Handbook of Cuneiform Culture, Oxford University Press, Oxford 2011, 69-89. I testi sumerici citati possono essere utilmente rinvenuti sul sito online dell’Electronic Text Corpus of Sumerian Literature, curato dall’Università di Oxford. 5 A riguardo di questa «canonizzazione» dei testi, rimane estremamente efficace l’impostazione di W.E. Hallo, «The Concept of Canonicity in Cuneiform and Biblical Literature: A Comparative Appraisal», in K. Lawson Younger – W.E. Hallo – B.F. Batto (a cura di), The Biblical Canon in Comparative Perspective. Scripture in Context (Ancient Near Eastern Text and Studies 11), Mellen, Lewiston (NY) 1991, 1-19. 6 Cf. B.R. Foster, Before the Muses, CDL Press, Bethesda (MD) 1996, 19; Id., Akkadian Literature of the Late Period, Ugarit-Verlag, Münster 2007, 6. Cf. i testi citati nella traduzione di Foster, Before the Muses, rispettivamente alle pp. 253, 87, 614.
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1.2. Gli
influssi della cultura mesopotamica
Dato l’impiego corrente dell’accadico negli scambi tra le città e gli stati del Vicino Oriente antico, non sorprendono i molti rinvenimenti, al di fuori della regione mesopotamica, di testi impiegati per la formazione di scribi competenti nella lingua di Babilonia.7 A est della grande pianura alluvionale di Babilonia, in Elam, sono stati scoperti testi di scuola risalenti all’inizio del periodo paleo-babilonese, i quali suggeriscono che gli scribi-maestri si siano formati a Ur o a Sippar. A occidente, in Siria, a Ebla (Tell Mardikh), sin dalla seconda metà del III millennio a.C. si adatta il sistema cuneiforme sumerico alle proprie necessità e si producono decine di liste lessicali a partire da prototipi mesopotamici, così come trattati, inni, preghiere, incantesimi ben noti nella tradizione educativa della stessa Mesopotamia. Sempre in Siria, a Mari (Tell Hariri), si è conservato l’archivio di Zimri-Lim (XVIII secolo a.C.) in sumerico e accadico, con testi scolastici della tradizione mesopotamica. A settentrione, testi del curriculum mesopotamico sono stati ritrovati anche a Nuzi e Alalakh, città urrite dell’impero di Mitanni (XV-XIV secolo a.C.). Tra questi è ritenuta di speciale interesse la celebre lista ur5-ra=ḫubullu (lett. «prestito a interesse», così chiamata dalla prima equivalenza sumerico-accadica che vi si legge), un glossario tipico per l’apprendimento degli studenti agli inizi della loro formazione. Ulteriori testimonianze di documenti di matrice mesopotamica emergono ancor più a nord, nella capitale ittita di Hattusha (Bogazköy). Testi sumero-accadici curricolari si presentano ora per derivazione diretta dalla Mesopotamia, ora per la mediazione urrita. Alcune opere, quali tradizioni sul mitico re Sargon di Akkad o il poema di Ghilgamesh, sono presenti sia in accadico sia in traduzione ittita. Accanto a queste, se ne trovano altre autoctone, se pure talvolta con evidenti influssi sumerico-accadici, specialmente di carattere storico, utili per la formazione delle classi dirigenti. La mediazione urrita, nella diffusione di opere mesopotamiche, è riscontrata pure a Emar (Tell Meskene), città amorrita sull’Eufrate, in Siria. Qui è stato identificato un archivio (XIII-XII secolo a.C.), apparentemente attiguo a un tempio, in cui si conservano numerosi testi ittiti e urriti, testi curricolari sumerico-accadici con le liste lessicali più tradizionali e l’epopea di Ghilgamesh. Gli scribi che lì hanno lavorato mostrano di aver copiato sia testi legali locali, sia testi mesopotamici, che non hanno esitato a riprodurre con taluni tratti di colore locale.
7 Cf. gli studi di riferimento riportati in M.W. Chavalas – K. Lawson Jr. (a cura di), Mesopotamia and the Bible. Comparative Explorations (JSOTS 341), Sheffield Academic Press, New York 2002; Carr, Writing, 48-53; Y. Cohen, «The Scribes and Scholars of the City of Emar in the Late Bronze Age», in Harvard Semitic Studies 59(2009).
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A Ugarit (Ras Shamra), sempre in Siria, sulla costa del Mediterraneo, fra le molte tavolette rinvenute sono presenti anche testi per l’educazione dei ragazzi, scoperti in case di privati, per lo più sacerdoti e addetti del tempio. Da una stima complessiva si calcola che un quinto dei testi sumerico-accadici sia presente in situ. Anche qui si constata che, oltre ai testi mesopotamici – Ghilgamesh, Atrahasis, l’Istruzione di Shuruppak ecc. –, noti spesso per la mediazione urrita, si utilizzano composizioni tradotte in lingua locale (per la quale, com’è noto, si sviluppa il cuneiforme alfabetico), caratterizzate da significativi adattamenti, e testi genuinamente autoctoni (si ricordino, tra i tanti, il ciclo di Baal, i poemi di Kirta e di Aqhat).
1.3. La
sapienza di I sraele tra E gitto e B abilonia
Come facilmente si constata, la volontà di apprendere un certo sistema linguistico da impiegare per la comunicazione con gli stati vicini comporta l’accoglienza di tradizioni letterario-religiose che contribuiscono a definire il proprio orizzonte culturale. Anche in Palestina il patrimonio culturale religioso di Israele va arricchendosi grazie a significativi elementi che giungono dalla Mesopotamia. A Gerusalemme si scrive in accadico già nel XIV secolo a.C., come si deduce dalle lettere inviate al faraone Amenophi IV e da lui preservate nell’archivio di Tell El Amarna, e la cultura che va elaborandosi è verosimilmente analoga al tipo di lingua ivi impiegata, una lingua straniera con caratteristiche tipiche del cananaico. Si scrive dunque accadico e si va consolidando un patrimonio in cui elementi delle tradizioni siro-cananaiche sono combinati ad apporti mesopotamici importati con la mediazione urrita.8 All’età del Bronzo tardo – XIV-XIII secolo a.C. – sono datate tavolette legate alla formazione dei giovani in accadico rinvenute nei siti di Hazor, Keisan, Meghiddo, Taanach, Gerico, Hesi. Tavolette con testi lessicali cuneiformi compaiono ad Afek, in Fenicia, come a Hazor (ove c’è un esemplare della già citata lista ur5-ra=ḫubullu), mentre a Meghiddo è stato identificato un frammento di Ghilgamesh. L’esiguità di analoghi documenti risalenti al I millennio a.C., poche decine, è verosimilmente motivata dall’utilizzo di materiale scrittorio facilmente deperibile e, soprattutto, dalla presenza di insediamenti abitativi di epoca successiva che possono aver compromesso la loro conservazione. Di fatto, il modello culturale che si può supporre vigente in Palestina, improntato di un’assi-
8 Per approfondimenti, cf. R. Byrne, «The Refuge of Scribalism in Iron I Palestine», in Bulletin of the American Schools of Oriental Research (di seguito BASOR) (2007)345, 1-31, in particolare 6-12; W. Horowitz, Cuneiform in Canaan. Cuneiform Sources from the Land of Israel in Ancient Times, Israel Exploration Society – Hebrew University of Jerusalem, Jerusalem 2006, assieme alla recensione di Y. Cohen in BASOR (2008)349, 83-86.
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dua frequentazione di ciò che è elaborato a oriente, è probabilmente ben rappresentato dalle raffigurazioni che collocano, a fianco di uno scriba sumero-accadico che incide su tavoletta, uno scriba arameo che scrive su pergamena.9 Gli scribi di Samaria e di Gerusalemme, come Daniele, loro lontano discendente, sono impegnati nello studio della lingua di Babilonia e si trovano idealmente a fianco dei loro colleghi mesopotamici (cf. Dn 1,5.19). La menzione degli scambi diplomatici con Amenophi IV non può d’altronde che rinviare all’ampiezza del debito culturale dell’antico Israele nei confronti dell’Egitto. Scambi mercantili, manufatti, tratti artistici di chiara ispirazione egiziana, motivi letterari condivisi che ben si comprendono in una regione che per secoli costituisce un satellite del grande regno dei faraoni. In Palestina si impara lo ieratico (come risulta da esercizi del VII secolo a.C. identificati a Kadesh-Barnea), si scrive da destra a sinistra, secondo una modalità ordinaria della scrittura geroglifica, si utilizzano fogli di papiro, inchiostro (in ebraico chiamato deyô, proprio con una parola egiziana), stilo (qeset, dall’egiziano gśty).10 La Bibbia di Israele cresce, pertanto, tra le fila di scribi impegnati nella custodia della tradizione del proprio popolo, nella formazione di un ethos civile, in un’elaborazione adeguata della comprensione di Dio e delle sue vie nella storia dei padri e, quindi, nella propria vita. La loro riflessione matura nella familiarità con tradizioni di diversa matrice e il loro messaggio, decisamente originale, emerge in un continuo confronto con il mondo politico religioso del tempo. I figli di Israele dovranno crescere con la loro opera tra le mani, incisa sul cuore, capaci di interpretare il senso della storia della propria gente e il significato della vita nel timore del Signore e pure in dialogo con gli apporti delle culture straniere. La sapienza di Israele, così, si addentra nel mistero di Dio. Coglie come tutto ciò che esiste derivi dalla volontà del Signore, da una sua azione creatrice, da una sua parola, sulla scorta delle riflessioni di Babilonia (si pensi all’Enuma elish) e forse della teologia di Menfi. La ricerca della vita e della sapienza di Adamo assomiglia a quella di Ghilgamesh e di Adapa; la nascita della maggiore guida del popolo, Mosè, richiama le circostanze narrate nella leggenda di Sargon, fondatore della dinastia di Akkad; l’alleanza del Sinai riprende concezioni tipiche dei trattati neoassiri; l’invito a non temere, caratteristico dei profeti di YHWH, trova paralleli in usi assiri, così come salmi e massime sapienziali hanno numerosi riscontri nell’ampia letteratura della Mesopotamia e dell’Egitto antico.
9 Cf. ad esempio il rilievo degli scribi rinvenuto a Huzirina (Sultantepe), sui confini settentrionali dell’impero neoassiro, nell’attuale Turchia. 10 Cf. Carr, Writing, 84-86.
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2. Proverbi
per la formazione del giovane israelita
Ciò che quanto appena detto significa per la concreta formazione di un giovane di Israele può essere constatato nella lettura del libro dei Proverbi. Il testo si apre indirizzandosi ai suoi potenziali destinatari:11 Proverbi di Salomone, figlio di Davide, re di Israele: conoscenza della sapienza e della disciplina, afferrare parole intelligenti, 3 acquisire la disciplina del successo, rettitudine, giustizia ed equità, 4 dare sagacia agli inesperti, al giovane conoscenza e riflessività. 5 – Il sapiente ascolti e certo accrescerà nell’istruzione, l’esperto acquisirà abilità. – 6 Comprendere un proverbio e un enigma, le parole dei saggi con i loro indovinelli (Pr 1,1-6). 1 2
Inesperti – facili a essere ingannati (come suggerisce il termine ebraico petî) – e giovani (v. 4) devono prepararsi ad accogliere la sapienza loro offerta, consolidatasi attraverso l’osservazione, l’esperienza e la riflessione. Procurando intelligenza e motivazioni, essa insegnerà loro a vivere, li solleciterà infatti a compiere ciò che di volta in volta è più opportuno, a fare il bene e a evitare il male. Attraverso sentenze, massime e aneddoti pure oscuri, concepiti in maniera tale da costringerli a soffermarsi sulle parole che intendono e a impegnarsi per coglierne la verità nascosta, i ragazzi si eserciteranno nel raffronto delle situazioni più disparate e in tal modo giungeranno al discernimento. Ascolteranno detti sulla vita della formica per imparare a non essere pigri (Pr 6,6), udranno della fine miserabile del lussurioso e dell’uomo dalla parola facile per essere aiutati a comprendere i rischi e, viceversa, a cogliere le potenzialità delle varie situazioni in cui si troveranno (es. Pr 7,6-23). I distinti ammonimenti saranno ricevuti per giungere anzitutto al timore del Signore, «principio della scienza» (Pr 1,7). Nella concezione del sapiente nulla di ciò che si può osservare nel mondo prescinde da Dio, dall’ordine da lui posto nel mondo creato, sorgente di ogni sapienza. Il creatore è il medesimo YHWH al quale Israele è legato in alleanza, in virtù della quale deve temere, ossia amare, ascoltare, servire, aderire al Signore e alle sue parole (Dt 6,4-5.13; 10,12.20; 13,5).
11 Le traduzioni divergono nella resa dell’ebraico che qui in Pr 1,2-4.6 utilizza per cinque volte la costruzione l- + infinito costrutto. Sebbene più frequentemente impiegata con senso finale (per afferrare ecc.), all’inizio di un discorso si presta per introdurre, all’interno di un elenco, i temi che verranno trattati, come si può vedere anche nella Regola della Comunità di Qumran (1QS I 1-10). Sulla valenza evidenziale-deduttiva di tale costruzione, cf. A. Gianto, «Some Notes on Evidentiality in Biblical Hebrew», in Id. (a cura di), Biblical and Oriental Essays in Memory of William L. Moran (BibOr 48), Pontificio istituto biblico, Roma 2005, 149-153.
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Così comincia un libro attribuito al grande Salomone, la cui sapienza proviene immediatamente dal Signore, come asseverato dalla tradizione (1Re 5,9). A ben guardare, d’altra parte, tale componimento riunisce, tra un lungo prologo (Pr 1–9) e un breve epilogo (Pr 31,10-31), sette raccolte (10,1–22,16; 22,17–24,22; 24,23-34; 25–29; 30,1-14; 30,15-33; 31,1-9) delle quali solamente la prima e la quarta sono ricondotte a lui (i «proverbi di Salomone» di Pr 10,1–22,16 e dei cc. 25–29). Le restanti cinque sono «parole di saggi» (Pr 22,17; 24,23), talvolta esplicitamente attribuite a stranieri come «Agur, figlio di Yaké, di Massa» (Pr 30,1) o «Lemuel, re di Massa» (Pr 31,1), talaltra di origine non precisata.12 L’istruzione del giovane israelita che deve giungere al timore del Signore non esita così a integrare formule tradizionali ad altre comuni ad altri popoli. Si osservi come prosegue il prologo di Proverbi: Il timore del Signore è principio della scienza; gli stolti disprezzano la sapienza e l’istruzione. 8 Ascolta, figlio mio, l’istruzione di tuo padre e non disprezzare l’insegnamento di tua madre, 9 perché saranno corona graziosa sul tuo capo e monili per il tuo collo (Pr 1,7-9). 7
Dopo l’invito al timore del Signore, i vv. 8-9 riecheggiano le parole indirizzate a Ziusudra (eroe del diluvio universale nella tradizione sumerica) da Shuruppak, mitico re cui è ascritta una collezione sapienziale della metà del III millennio a.C., ricopiata e tradotta in accadico per secoli, rinvenuta come detto anche a Ugarit. Nel prologo dell’Istruzione di Shuruppak si legge infatti: Shuruppak consigliò suo figlio, Shuruppak, il figlio di Uburtutu, consigliò Ziusudra suo figlio: «Figlio mio, ti darò consigli, possa il mio consiglio essere accolto, Ziusudra, una parola ti dirò, possa essere intesa! Non trascurare il mio consiglio, non cambiare la parola che ho detto, il consiglio di tuo padre è prezioso, il tuo collo si curvi dinanzi ad esso».13
Proprio come un giovane israelita, Ziusudra deve prestare attenzione al padre che è pure suo maestro (cf. Pr 1,8) e accogliere i suoi consigli perché preziosi, accettando di metterli al collo, ossia come una collana preziosa (cf. Pr 1,9).14
12 Cf. il quadro dei rapporti tra il libro dei Proverbi e la sapienza straniera delineato in R.J. Clifford, Proverbs. A Commentary (OTL), Westminster John Knox, Louisville (KY) 1999, 8-19. 13 Il testo, in traduzione inglese, è disponibile in W.G. Lambert, Babylonian Wisdom Literature, Eisenbrauns, Winona Lake (IN) 1996. 14 Ulteriori richiami ai detti di Shuruppak compariranno a proposito delle garanzie (da evitare!) e delle risse. Cf. Pr 17,18-19 (e testi affini quali Pr 6,1-2 e 11,15) con Shuruppak, l.
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2.1. Proverbi e l’Istruzione
di
Amenemope
Come è probabilmente più noto, speciali contatti con altre opere di matrice sapienziale emergono in Pr 22,17–23,11, una sezione che, per i frequenti contatti con le istruzioni egiziane di un ufficiale del faraone di nome Amenemope, è comunemente citata come la «Collezione di Amenemope». Nell’introduzione di detta sezione (Pr 22,17-21) si può cogliere il modo in cui gli antichi insegnamenti dell’Egitto sono reimpiegati: Porgi l’orecchio e ascolta le parole dei sapienti, applica il tuo cuore alla mia conoscenza: 18 sarà delizioso custodirle nel tuo petto, saranno pronte sulle tue labbra. 19 Perché sia riposta nel Signore la tua fiducia, oggi te le faccio conoscere, proprio a te. 20 Ecco, ho scritto per te trenta massime, in materia di consigli e di saggezza, 21 per farti conoscere con verità parole fidate così da riportare parole fidate a quelli che ti mandano. 17
Il v. 17, insolitamente lungo, contiene il titolo della raccolta: «Le parole dei sapienti». La provenienza di questi sapienti non è precisata, eppure alcune espressioni del testo suggeriscono subito di rintracciarla all’estero. Al v. 17 si chiede, come di frequente nella letteratura egiziana, di applicare «il cuore», ossia la mente; al v. 18 si utilizza in un modo un po’ insolito un aggettivo (nā‘îm, delizioso); al v. 21 si ricorre a un aramaismo (qōšet, verità).15 In maniera ancor più caratteristica, si fa riferimento alla concezione secondo la quale lo stomaco dell’uomo è come un magazzino dalle molte stanze da cui occorre prendere le nozioni depositate nel tempo dell’apprendimento. Le parole che si custodiscono nel «petto» (beṭen, lett. stomaco/pancia) devono lì rimanere, pronte per salire sulle labbra al tempo opportuno (v. 18). Come nel libro è già stato detto, lo stomaco contiene infatti «atri», «stanze» (gli ḥadrê bāṭen citati in Pr 18,8; 20,27.30), dove ciò che è stato accolto viene conservato. Nella prima strofa dell’Istruzione di Amenemope (= A.) si legge d’altronde: Porgi il tuo cuore e ascolta ciò che è detto, poni il tuo cuore a intenderlo: è utile metterlo nel cuore, ma guai a chi lo trascura. Fa’ che riposi nello scrigno del tuo petto, sicché faccia da soglia del tuo cuore,
19: «Non fare da garante, la persona avrà altrimenti una presa su di te. Non andare in un luogo di rissa, il conflitto ti renderà testimone» (versione paleo-babilonese). 15 Ulteriori aramaismi punteggiano la sezione: ba‘al ’āp (iroso) in Pr 22,24, te’elap (impari) in 22,25, śakkîn (coltello) e ba‘al nepeš (ingordo) in 23,2, milleykā (le tue parole) in 23,9, ba‘al mezimmôt (riflessivo) in 24,8. Cf. M.V. Fox, Proverbs 10–31 (AncB 18B), Yale University Press, New Haven (CT) 2009, 706.
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La Bibbia di Israele, la sapienza delle genti e l'istruzione del Signore e, quando ci sarà una bufera di parole, faccia da àncora alla tua lingua. Se passerai il tuo tempo con questo nel cuore, lo troverai come una fortuna, ritroverai le mie parole come un magazzino di vita e sarà prospero il tuo corpo sulla terra (A. 3,9–4,1).16
Un esplicito collegamento alla medesima opera egiziana è da individuare anche al v. 20, ove si parla di una composizione di «trenta massime». Il testo ebraico presenta un caso di qerê/ketîb: il testo consonantico riporta šlšwm (šilšôm), «precedentemente», mentre la vocalizzazione masoretica invita a leggere salîšîm (con le consonanti šlyšym), «cose nobili». La parentela della presente collezione con la sapienza di Amenemope suggerisce di vedervi il comune numerale «trenta», šelōšîm (šl[w]šym). Il componimento egiziano si articola infatti in 30 capitoli, che così si chiudono: Osservati queste trenta stanze: esse svagano e istruiscono, esse sono alla testa di tutti i libri, esse fanno che l’ignorante conosca. Se sono lette davanti all’ignorante, diventa puro grazie ad esse.17 Riempiti di loro, e mettile nel tuo cuore: sii un uomo capace di interpretarle, che le interpreta nell’insegnamento. Uno scriba esperto nel suo mestiere è trovato degno di essere un uomo di corte (A. 27,7-17).
Il «trenta» è di fatto un numero importante nella cultura egizia: c’è il consiglio dei trenta per l’ultima istanza di giudizio (cf. A. 20,18) e i morti sono giudicati da trenta divinità. Verosimilmente, quando in Israele non si comprende più il riferimento a questo numero, e non si riesce a dividere la sezione in 30 brani, il testo di Pr 22,20 viene corrotto.18 In Pr 22,21 si precisa poi quale sarà il banco di prova per il giovane che ora deve essere istruito: impiegato a corte come consigliere e messaggero, sarà apprezzato nella misura in cui saprà dire la verità. Tale finalità dell’istruzione corrisponde esattamente a quella indicata nel prologo di A.:
16 La traduzione segue il testo a cura di E. Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto. Cultura e società attraverso i testi, Einaudi, Torino 2007, 579-596. 17 Il carattere corsivo indica qui che la traduzione della Bresciani è corretta sulla base delle osservazioni di V.P.-M. Laisney, L’enseignement d’Aménémopé (Studia Pohl 16), Pontificio istituto biblico, Roma 2007. Laisney, nel caso in questione, richiama come la purità sia un requisito per il culto (p. 228). 18 Fox ritiene sia ancora possibile dividere la sezione in trenta brani (Proverbs 10-31, 711).
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Marco Settembrini Inizio dell’insegnamento di vita, dell’ammaestramento di salute, di tutte le regole di frequentare i grandi, delle norme dei cortigiani, per saper dare risposta a chi la chiede, per riferire una comunicazione a chi l’ha inviata, per indirizzarlo alla via della vita e farlo essere prospero sulla terra, per fare entrare il suo cuore nella sua cappella, per indirizzarlo con il timone lontano dal male, per salvarlo dalla bocca della gente, mentre è celebrato nella bocca degli uomini (A. 1,1-6).
In Pr 22,19 si pone d’altro canto al centro del brano qualche cosa di distintivo della formazione dell’israelita e del lettore: «Sia riposta nel Signore la tua fiducia, oggi lo faccio sapere proprio a te». L’apprendimento delle diverse massime, di origine locale o di origine straniera, trasmettendo vera sapienza, conduce alla conoscenza di Dio. Riconoscendo il suo agire giusto, l’ascoltatore vorrà accogliere l’invito a essere giusto, confidando pienamente nella ricompensa assicurata. Nel seguito della sezione di Proverbi, altri passi di A. sono variamente echeggiati. L’ammonimento al rispetto dei diritti del povero, formulato con termini della tradizione (cf. Sal 72,4; Is 3,15a; 10,1-2), richiama ad esempio un testo della seconda strofa: Non depredare il povero perché Guardati da derubare il povero e da far egli è povero, e non affliggere il violenza al debole […]. O Luna, metti misero in tribunale, perché il Signore sotto accusa il suo crimine! (A. 4,4.19) difenderà la loro causa e spoglierà della vita coloro che li hanno spogliati (Pr 22,22-23).
Evocata l’ira di Dio, ovvero lo zelo con cui è fatta giustizia al misero, si considera l’ira degli uomini, da evitare in ogni modo: Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non abituarti alle sue maniere e procurarti una trappola per la tua vita (Pr 22,24-25).
Non associarti all’uomo focoso, non farti vicino a lui per parlare. Preserva la tua lingua dal rispondere al tuo superiore, e guardati dall’oltraggiarlo. Fa’ che non scagli la sua parola contro di te per prenderti al laccio, e non dar briglia sciolta alla tua risposta (A. IX, 11,13-18).
In conformità ai dettami mosaici (cf. Dt 19,14), bisogna poi guardarsi dal travalicare i confini altrui: «Non spostare il confine antico, che è stato posto dai tuoi padri» (Pr 22,28). Come pure A. insegna:
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La Bibbia di Israele, la sapienza delle genti e l'istruzione del Signore Non rimuovere la pietra di confine sui limiti dei campi, non disturbare la posizione della corda (per misurare). Non adirarti per un cubito di terra, non buttar giù i confini della vedova: è un solco d’aratro che ha diminuito il tempo di vita; colui che ha truffato sui campi, anche se tramerà con falsi giuramenti, sarà imprigionato dalla potenza della Luna (il dio Thot). Guardati da chi fa questo sulla terra: è un oppressore del debole, un nemico che distrugge il tuo corpo, e gli porta via la vita col suo occhio. La sua casa è il nemico della città, i suoi granai saranno distrutti, le sue cose saranno portate via di mano ai suoi figli, la sua proprietà sarà data a un altro. Guardati da calpestare i confini dei campi, che un terrore non ti porti via. Si fa contento dio con la potenza della Luna, quando determina i confini dei campi. Se vuoi che sia prospero il tuo corpo, stai attento al Signore Universale [Ra] (A. VI, 7,12–8,15).
Complessivamente, da uno studio particolareggiato dei contatti che legano Proverbi all’Istruzione di Amenemope, è stato ipotizzato che il componimento egiziano sia stato rielaborato in una silloge ebraica in cui alcuni suoi estratti sono stati rielaborati e tradotti. Questa antica silloge sarebbe poi confluita in Pr 22,17–23,11 e infine sarebbe stata incorporata nelle «parole dei saggi» di Pr 22,17–24,22.19 Il testo di Amenemope, risalente al XIII-XI secolo a.C., venne probabilmente recepito in Israele in epoca saita (VII-VI secolo a.C.), periodo al quale si datano numerose copie del componimento, ben diffuso negli ambienti scribali, ed epoca in cui importanti scambi tra Israele e l’Egitto sono ben documentati.20 Gli scribi di Israele non ritennero improprio incorporare nei loro Proverbi lezioni dei saggi egiziani. Il loro patrono, Salomone, aveva d’altronde sposato una delle figlie del faraone (1Re 7,8) e aveva tratto proprio dagli scambi culturali con i re del suo tempo motivo di vanto (1Re 5,21; 10,1-13).
Questa la ricostruzione di Laisney, L’enseignement d’Aménémopé, 246. Di fronte all’avanzata dell’Assiria e di Babilonia, i rapporti diplomatici si rinsaldano, come si legge ad esempio in 2Re 17,4; 18,21; Is 30,2; 31,1. 19 20
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Marco Settembrini
2.2. Salomone
e
Ahiqar
Nei Proverbi di Salomone, accanto a parole egiziane, sono stati da tempo pure rinvenuti detti di matrice orientale: i detti di Ahiqar. Saggio notabile assiro citato anche nel libro di Tobia (Tb 1,21-22; 14,10), sarebbe stato il guardasigilli di Sennacherib e di Esarhaddon. Ingiustamente accusato e caduto in disgrazia a motivo delle perfidie del nipote Nadab, sarebbe stato poi riabilitato dopo numerose traversie. A questo ufficiale leggendario sono attribuite massime di origine assiro-aramaica. Più precisamente i suoi detti raccolgono gemme delle tradizioni del nord-nordovest della Mesopotamia che, a partire dal XII secolo a.C., sono assunte dalla cultura dei regni aramaici occidentali e cananaici.21 Le circostanze in cui questi testi furono conosciuti sono individuabili nel contesto di una crescente simbiosi, in ambito siro-palestinese, della cultura ebraica, aramaica e assira. La stessa politica di Tiglat-Pileser III, con le sue deportazioni e i ripopolamenti con genti delle differenti regioni del suo impero, produsse un’elevata commistione di etnie e culture (cf. 2Re 15,29; 17,6; 18,11). Sebbene la copia più antica dell’opera ascritta ad Ahiqar ci sia pervenuta da un papiro del V secolo a.C. rinvenuto a Elefantina, un importante insediamento ebraico in terra d’Egitto, si suppone che una prima raccolta di detti sia da collocare tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. Tra le massime di Ahiqar, alcune sono assai simili a quelle di Proverbi. Nei detti di Ahiqar si legge infatti:22 Più di ogni altra cosa, custodisci la tua bocca, e su quel che hai udito sii discreto! Poiché la parola è un uccello e chi la emette (incautamente) è un uomo senza discernimento (VI, 4)
Più di ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita (Pr 4,23).
Scegli i detti della tua bocca. Poi fa’ uscire [le tue parole] a tempo [debito] poiché l’insidia di bocca è più pericolosa dell’insidia di spada (VI, 5).
Chi sorveglia la bocca preserva la sua vita, chi spalanca le sue labbra va incontro alla rovina (Pr 13,3). C’è chi chiacchierando è come una spada tagliente, ma la lingua dei saggi risana (Pr 12,18).
Come passero che svolazza, come rondine che volteggia, così una maledizione immotivata non ha effetto (Pr 26,2).
21 Per un approfondimento, cf. M. Weigl, Die aramäischen Achikar-Sprüche aus Elephantine und die alttestamentliche Weisheitsliteratur (BZAW 399), De Gruyter, Berlin-New York 2010, 723-763. 22 La traduzione italiana segue l’edizione di R. Contini, in R. Contini – C. Grottanelli (a cura di), Il saggio Ahiqar (Studi biblici 148), Paideia, Brescia 2005, 134-135. Il testo aramaico può essere consultato in B. Porten – A. Yardeni, Textbook of Aramaic Documents from Ancient Egypt, The Hebrew University, Jerusalem 1986, III.
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La Bibbia di Israele, la sapienza delle genti e l'istruzione del Signore Un uomo di bella persona e di cuore buono è come una città forte al cui interno c’è l’acqua (VII, 18).
Una città smantellata, senza mura, tale è chi non sa dominare se stesso (Pr 25,28).
[Una città] di malvagi sarà devastata in un giorno di vento, e le sue porte s’inclineranno nella desolazione (VII, 25).
Della prosperità dei giusti la città si rallegra, per la rovina dei malvagi si fa festa. La benedizione degli uomini retti fa prosperare una città, le parole dei malvagi la distruggono (Pr 11,10-11).
Il figlio che viene istruito e legato e ai [cui] piedi si pongono ceppi […]. Non risparmiare la verga a tuo figlio, altrimenti non potrai salvar[lo…]. Se ti colpisco, figlio mio, non morirai, ma se [ti] lascio al tuo cuore [tu non vivrai] (XII, 82-84).
Non risparmiare al fanciullo la correzione, perché se lo percuoti con il bastone non morirà; anzi, se lo percuoti con il bastone, lo salverai dal regno dei morti (Pr 23,13-14).
2.3. La sapienza
fonte di rivelazione
(Pr 8)
Gli scribi di Israele e di Giuda crescono in un ambiente in cui i rapporti culturali con altri paesi sono frequenti, sono educati a memorizzare testi di varia natura e provenienza e questo si riflette nella loro attività. Brani di diversa provenienza sono agilmente ripresi, riadattati e risignificati, così come nuovi componimenti sono elaborati sulla base di prototipi noti. Anche il celebre testo di Proverbi 8, certamente distintivo della riflessione di Israele, probabilmente attinge a convenzioni letterarie e modelli teologici stranieri allorché presenta la personificazione della sapienza. Questa è forse ripresa da Ahiqar, forse eredita tratti della dea Ishtar, figlia di El, o di Ashera, forse è ispirata alla dea egiziana dell’ordine del cosmo e della società, Maat, o forse condivide elementi del culto riservato a Isis che nel mondo ellenistico è associata a Phronesis e Sophia.23 Al di là del milieu religioso-culturale in cui Proverbi 8 è nato, il testo in esame trasmette una profonda convinzione dei saggi di Israele: l’accoglienza della sapienza, da qualunque parte giunga, conduce a Dio. Detto in altro modo: la sapienza viene da Dio che attraverso di lei si rivela. Questa è di sua natura legata all’esperienza, alla storia degli uomini e alle loro tradizioni, eppure è divina perché Dio di fatto si rivela nella storia e nei suoi accadimenti. La tradizione di Israele, del resto, questo testimonia con i suoi racconti su Abramo, su Mosè e sui propri padri, afflitti e salvati nella concretezza dei loro giorni. Nel lungo poema di Pr 8,1-36 la sapienza non si trova nel tempio, né nel palazzo di corte, né a scuola, bensì in luoghi pubblici, nelle vicinanze di ogni casa (vv. 1-5). La sua offerta, paradossale come quella di Is 55,1-2
23 Per approfondimenti, cf. Clifford, Proverbs, 23-28, e M.V. Fox, Proverbs 1–9 (AncB 18A), Doubleday, New York 2000, 331-338.
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Marco Settembrini
(«O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte…»), è aperta a tutti, al di là di ogni distinzione di razza, cultura e religione, è per i colti e gli indotti. Il suo comportamento, franco e a proprio agio in pieno giorno, contrasta con quello di chi preferisce circoli ristretti ed elitari.24 Cercando di persuadere i suoi ascoltatori a sceglierla sopra ogni cosa, la sapienza racconta di colui che, prima di ogni altro, l’ha voluta: il creatore. Questi, come racconta lo stesso testo di Gen 1,1–2,3, ha formato il mondo alla maniera in cui un artigiano forgia la propria opera (Gen 2,3). Come ogni artigiano perito nel suo mestiere, anche Dio si immagina che abbia dovuto «acquisire sapienza». Numerosi passi biblici parlano del resto della sapienza con cui Dio ha fatto ogni cosa (cf. Sal 104,24; 136,5; Ger 10,12). La sapienza, in tal modo, dice: «Il Signore mi ha acquistato all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine» (Pr 8,22). Abbandonando l’immagine dell’artigiano, il seguito di Proverbi 8 prosegue con una metafora paterna, in virtù della quale la sapienza non è più qualche cosa di esterno a Dio bensì qualcosa che nasce grazie a lui: «Dall’eternità sono stata formata […], quando non esistevano gli abissi, io fui partorita […], prima delle colline, io fui partorita» (vv. 23-25). Il passaggio dall’immagine dell’artigiano a quella del padre che genera è facilitato, in ebraico, dall’uso del verbo qānāh, che significa tanto «acquistare», quanto «generare» – d’altra parte si «acquista» un figlio quando questi nasce, come ricordano le parole di Eva dopo il parto in Gen 4,1 – o «creare».25 La sapienza, da sempre presso Dio, sa dunque condurre a Dio. Chiunque indaghi la natura e consideri le vicende del mondo ne può rintracciare le impronte e trovare, con lei, Dio. Chi abbia cercato la sapienza e l’abbia accolta, in qualunque regione del mondo, ha trovato colei che sta presso il Signore di Israele, creatore del cielo e della terra. Nella sapienza si rivela di fatto Dio. Le sue parole sono come le parole di Dio: sono per tutti, persino i più inesperti esprimono ciò che è retto con fedeltà e giustizia, valgono più dell’oro (Sal 19,8-11; Pr 8,5-10),26 rifuggono da espressioni «tortuose o perverse» (Dt 32,4-5; Pr 8,8).27 Come la Legge è la «delizia» (ša‘ăšūîm) del fedele (Sal 119,24.77.92.143.174), così
24 In Proverbi è la donna che si vende per denaro, simbolo della follia, ossia della falsa sapienza, che si presenta solo all’imbrunire (Pr 7,4-13). 25 La differenza tra «creare» e «generare» può essere colta solo a seconda dei diversi contesti. Dio è «creatore (qōnēh) del cielo e della terra» (Gen 14,19) e al tempo stesso «il padre che ti ha generato» (qāneka) (Dt 32,6). Anche in italiano, del resto, una madre può parlare del suo bimbo come della «sua creatura». 26 I due passi sono accomunati dall’uso delle radici pty, yšr, ’mt, sdq, mzhb/mḥrwṣ (due espressioni che significano «più dell’oro»). 27 Il passo di Deuteronomio citato impiega il medesimo rarissimo binomio delle radici di niptāl we‘iqqēš per descrivere la perversione di Israele e, di contro, il candore delle parole del Signore.
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La Bibbia di Israele, la sapienza delle genti e l'istruzione del Signore
la sapienza è per la «delizia» di tutti gli uomini (Pr 8,30). Lei stessa, come il Signore, ama coloro che la amano (Es 32,6; Pr 8,17) e, com’è rivelato a Mosè presso il roveto ardente, «è» (’ehyeh, Es 3,14; Pr 8,30). Il discorso di Proverbi 8 prospetta così un percorso vertiginoso: chi comincia a prestare attenzione alle parole dei saggi impara la rettitudine, apprende la giustizia (vv. 6-11), è rivestito degli attributi di un re (scienza, intelletto, ricchezza; vv. 12-21), intuisce l’armonia del cosmo (vv. 22-30), giunge a godere di Dio, delizia della sua vita (v. 31). La sapienza, capace di condurre a Dio, è, come la Legge, una rivelazione di Dio. In altri luoghi dell’Antico Testamento, d’altronde, si riscontra che l’insegnamento del saggio è sorgente di vita, proprio come il Signore: Fonte di vita è la bocca del giusto (Pr 10,11). L’insegnamento del saggio è fonte di vita (Pr 13,14). Il timore del Signore è fonte di vita (Pr 14,27). Fonte di vita è il senno per chi lo possiede (Pr 16,22). La scienza del saggio cresce come un diluvio e il suo consiglio è come sorgente di vita (Sir 21,13).
Dopo che il Signore, per mezzo di Geremia, ha lamentato di essere stato dimenticato da Israele, dicendo «ha abbandonato me, sorgente di acqua viva» (Ger 2,13), Baruc, il discepolo del medesimo profeta, fa eco a tale rimprovero, ribadendo: «Tu hai abbandonato la fonte della sapienza!» (Bar 3,12). La vita che promana dal Signore, così si riconosce, è attinta dalle labbra del maestro poiché la parola divina è concretamente ricevuta da parole umane. I precetti di YHWH, proprio come le parole più opportune pronunciate dal saggio, rinvigoriscono, essendo dolci come il miele: I giudizi del Signore sono fedeli, sono tutti giusti, più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante (Sal 19,10b-11). Favo di miele sono le parole gentili, dolce per il palato e medicina per le ossa (Pr 16,24).28
Questi come quelli sono da portare addosso come amuleti in protezione contro ogni male e come gioielli, oggetti che conferiscono onore a chi li indossa. Si confrontino in merito le celebri formule dello Shemà con alcune raccomandazioni di Proverbi: Ascolta, Israele […]! I precetti che oggi ti ordino siano nel tuo cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi (Dt 6,4.6-8).
28 La parola del Signore è paragonata al miele pure in Sal 81,11.14a.17 e 119,102-104, proprio come la sapienza nell’insegnamento di Pr 24,13-14.
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Marco Settembrini Osserva, figlio mio, l’ordine di tuo padre, non rifiutare l’insegnamento di tua madre. Legali sul tuo cuore per sempre, fissali intorno al tuo collo. Quando tu cammini, esso ti guida, quando riposi, esso ti custodisce e quando ti svegli, esso ti saluta (Pr 6,20-22). Figlio mio, custodisci le mie parole e fa’ tesoro dei miei precetti. Osserva i miei precetti e vivrai, il mio insegnamento sia come la pupilla dei tuoi occhi. Légali alle tue dita, scrivili sulla tavola del tuo cuore (Pr 7,1-3).
La parola di Dio, ossia la rivelazione, si riceve da un maestro. Questa constatazione, elaborata dalla riflessione sapienziale di Israele, riemerge nella teologia della Chiesa apostolica che individua in Gesù di Nazaret il maestro (Mt 23,8), la «sapienza di Dio» (1Cor 1,24.30)29 e, proprio sulla scia di Proverbi 8, colui che è fin dal principio (Gv 1,1-3; 1Cor 8,6; Col 1,15-20; Eb 1,1-3). Così come la sapienza garantisce a tutti l’accesso a Dio, al di là delle culture e delle stesse religioni, Gesù si rivolge ai figli di Israele ma si apre agli uomini di tutte le nazioni (Mt 10,6; 28,19),30 propone infatti il mistero di un’economia di grazia universale, stabilita da sempre, fin dalla fondazione del mondo.
3. L’«apertura degli occhi» e l ’ opera di YHWH Gli antichi, constatando come il bambino appena nato pur aprendo gli occhi non vede e verificando come anche con il passare degli anni si possa vedere senza capire adeguatamente ciò che accade, parlano dell’educazione, dell’esperienza e dell’apprendimento come di ciò che libera l’individuo da una sorta di cecità interiore. La vera istruzione, nelle loro parole, è pertanto capace di aprire gli occhi della mente. Il maestro, consentendo al discepolo di «aprire gli occhi», è di conseguenza pure «padre». Così come colui che genera vede il figlio aprire gli occhi nel giorno della sua nascita, il maestro, che porta il ragazzo a capire, assiste alla sua rinascita. Uno studente sumerico così infatti scrive per il suo tutore: Maestro e dio che plasmi l’umanità, tu sei il mio dio! Hai aperto i miei occhi come fossi un lattante; hai formato in me l’umanità.31
Le scuole della Mesopotamia vantano in tal modo di riuscire ad «aprire gli occhi» ai loro studenti. Già in un indovinello sumerico si legge: Una casa costruita su fondamenta come il cielo, una casa coperta con un velo al modo di una scatola di tavolette,
Cf. Mt 11,19; 12,42; 13,54; Mc 6,2. Nel rapporto privilegiato di Gesù con il proprio popolo (Israele) si può ritrovare la fede che in Sir 24 e Bar 3,9–4,4 ha portato a identificare la sapienza con la Torah. 31 Testo citato in Carr, Writing, 17. 29 30
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La Bibbia di Israele, la sapienza delle genti e l'istruzione del Signore una casa posta su una base al modo di un’oca. Vi si entra con occhi chiusi, da lì si esce con occhi aperti. Risposta: l’eduba.32
Il nesso vedere-conoscere è ben noto. In italiano come in ebraico «Vedo!» può significare «Capisco!» e termini derivati da «vedere» sono utilizzati per indicare una certa concezione, come si può constatare ad esempio in un’espressione come «la visione del lavoro in Karl Marx». In inglese la parola insight, pur derivando da to see (vedere), rimanda a un’intuizione profonda, come del resto dalla medesima radice indo-europea *ueid- (vedere, guardare, conoscere) – da cui provengono tanto il sostantivo sanscrito veda- (conoscenza) quanto il verbo latino video (vedo) – derivano in greco sia οἶδα (conosco) sia εἴδω (vedo, osservo).33 Detto questo, si tratta ora di apprezzare come gli scribi responsabili della Bibbia ebraica offrano un insegnamento capace di «aprire gli occhi», di impartire vera conoscenza. La metafora sembra tanto più importante quanto maggiormente si apprezza come Israele, almeno a partire dal II secolo a.C., si interpreti, a partire da un’etimologia popolare del proprio nome, come la nazione «che vede Dio».34 Tale comprensione del nome «Israele», ampiamente attestata in Filone Alessandrino e ripresa da Origene, è infatti già presupposta dall’Apocalisse degli animali di 1Enoc 85–90.35
3.1. Gli occhi di Adamo ed Eva (Gen 3,1-7) La vicenda dell’uomo comincia in Eden con l’amara constatazione che gli occhi si possono aprire senza tuttavia procurare alcun bene. Nel testo di Gen 2,4–3,24 si racconta infatti dell’intricato mistero della vita e della conoscenza. L’una sembra assicurare l’altra: vivendo si può accumulare sapienza, divenendo scaltri si può provvedere al futuro e quindi acquisire nuove conoscenze utili per l’avvenire ecc. L’albero della vita è, così, contiguo all’albero della conoscenza (Gen 2,9) e alla conoscenza si ritiene di giungere «mangiando», presupposto di ogni sussistenza. Contrariamente alle attese, però, dopo avere mangiato, Adamo ed Eva si trovano
32 33
TUAT III/1, 44. Cf. R. Beekes, Etymological Dictionary of Greek, 2 voll., Brill, Leiden 2009, I, 577; II,
1053.
34 In Congr. 51 scrive ad esempio: Ἰσραὴλ γὰρ ὁρῶν θεὸν ἑρμηνεύεται («Israele significa Colui che vede Dio»). Cf. Leg. 3,186.212; Post. 63.92; Mig. 38; Her. 78; Fug. 208; Mut. 81; Somn. 1,171; 2,173; Praem. 44; Legat. 4. 35 Cf. J.C. VanderKam, «Open and Closed Eyes in the Animal Apocalypse (1 Enoch 85–90)», in H. Najman – J.H. Newman (a cura di), The Idea of Biblical Interpretation. Fs. J.L. Kugel (Supplements to the Journal for the study of Judaism 83), Brill, Leiden 2004, 279-292. Nella letteratura rabbinica il primo riferimento all’etimologia di Israele come «uno che vede Dio» è solitamente indicato nel Seder Eliahu Rabba 25 (in un midrash a Os 9,10).
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esposti alla morte: nudi, indifesi, si avviano a una vita dolorosa che li porterà alla morte (Gen 3,5-7). Ingannati dal serpente, i protoplasti si trovano dinanzi alla medesima situazione di Ghilgamesh e Adapa, eroi mesopotamici. Il mitico re di Uruk comprende infatti il comune destino degli uomini quando, avendo acquisito sapienza nel corso delle sue molte vicissitudini, viene derubato da un serpente del frutto della vita che finalmente aveva trovato. L’antico sacerdote del dio Ea, cui è stato fatto dono della sapienza, dopo aver incautamente maledetto il vento del sud si trova invece a rifiutare, ingannato dal consiglio del medesimo Ea, il dono dell’immortalità offertogli dal sommo Anu.36 L’ancestrale sapienza del serpente, esperto del mondo sotterraneo e al contempo di quello degli uomini, immortale in ragione del suo periodico mutamento di pelle, per gli uomini è dunque ingannevole.37 Esso è ‘ārûm, «scaltro» (Gen 3,1), mentre Adamo non è che ‘ārôm, «nudo» (Gen 3,7). La sua menzogna dischiude d’altronde alla prima coppia una verità ineludibile: plasmati dalla polvere (Gen 2,7), essi sono fragili: Allora si aprirono (pqḥ) gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture (Gen 3,7).
Forse, apprezzando l’uso delle tradizioni dell’Eden in seno a Israele, si può precisare che la sapienza illusoria che tradisce Adamo è quella che insegna ad accumulare ricchezze e che invita a sfruttare la forza per stabilire il dominio sui popoli. La vicenda di Adamo è infatti rievocata nella profezia di Ezechiele per arringare il principe di Tiro. «Modello di perfezione, pieno di sapienza, perfetto in bellezza», si trovava «in Eden, giardino di Dio» tra le pietre più preziose; creato proprio a immagine di Dio e dei suoi angeli, era «come un cherubino» (Ez 28,12-14; cf. Gen 1,26; 2,8.12). Originariamente integro, divenne colpevole a motivo della sua avidità: Accrescendo i tuoi commerci ti sei riempito di violenza e di peccati; io ti ho scacciato dal monte di Dio e ti ho fatto perire […]. Il tuo cuore si era inorgoglito per la tua bellezza, la tua saggezza si era corrotta a causa del tuo splendore: ti ho gettato a terra […]. Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari; perciò in mezzo a te ho fatto sprigionare un fuoco per divorarti (Ez 28,16-18).
La sapienza che insidia Adamo, primo re del creato, è verosimilmente la sapienza di cui i grandi sovrani si fanno supremi custodi e maestri.
36 Riguardo ai rapporti tra Adamo e Adapa, cf. R. Jiménez Zamudio, «Adapa o la inmortalidad frustrada: reflexiones sobre el Poema de Adapa», in Isimu 8(2005), 173-200. 37 Il serpente è del resto identificato come «drago» in Ap 20,2, creatura il cui nome (δράκων) deriva appunto dal suo sguardo fascinoso e paralizzante (dalla radice indo-europea *drk-, guardare). Cf. B. Renz, «Die kluge Schlange», in BZ 24(1939), 240, e Beekes, Etymological Dictionary, I, 351.
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Costoro, forti delle acquisizioni nell’organizzazione delle loro terre e dei successi politico-militari, non esitano invero a proporsi come prototipo di ogni ingegno. Tuttavia è proprio a costoro che il Signore si indirizza per bocca dei profeti. Il re d’Assiria, straordinario per la pianificazione di un eccellente sistema irriguo e la coltivazione dei primi giardini pensili (ispiratori del «paradiso» dei re persiani),38 è invero così ammonito: Quando il Signore avrà terminato tutta la sua opera sul monte Sion e a Gerusalemme, punirà il frutto orgoglioso del cuore del re d’Assiria e ciò di cui si gloria l’alterigia dei suoi occhi. Poiché ha detto: «Con la forza della mia mano ho agito e con la mia sapienza, perché sono intelligente; ho rimosso i confini dei popoli e ho saccheggiato i loro tesori, ho abbattuto come un eroe coloro che sedevano sul trono» (Is 10,12-13).
Lo stesso serpente, in ebraico, reca d’altronde il nome del primo re, spietato, in cui si imbatte Saul, primo re di Israele: Nacas (nāḥāš), pronto ad accogliere la sottomissione di una città a patto che i suoi cittadini si facciano cavare l’occhio destro (1Sam 11,1-2). Il re di Israele, così come Adamo da cui è prefigurato, sarà tentato da un esercizio dispotico del potere ispirato a «scaltrezza».39 A un tal genere di sapienza, che conduce inesorabilmente alla disfatta – questo è ciò che ultimamente attende il principe di Tiro, al re d’Assiria e a Nacas l’Ammonita –, gli scribi di Israele ne oppongono un altro.
3.2. Il Signore rischiara
gli occhi
Alle parole del serpente gli scribi invitano a preferire le parole del Signore Dio. Nel racconto di Genesi 1–3, questi benedice, prescrive, vieta, assegnando all’uomo un posto d’onore e di responsabilità all’interno del creato. Nell’insegnamento della Bibbia ebraica si tratta di continuare ad ascoltare la voce divina che, sola, apre gli occhi, così come, sola, infonde vita. La voce del Signore infonde vita. Dalla bocca di Dio provengono infatti sia le parole che suscitano la vita del mondo (Gen 1,1–2,3) sia l’alito che dona il respiro a Adamo (Gen 2,7). Le sue parole, portate dal suo alito, comunicano il suo respiro, il suo spirito, il quale trasmette vita. Il Signore parla e dona vita, anche se si è morti. Come si narra nei libri dei Re, per il contatto con il corpo del profeta, mediatore della parola divina, un ragazzo recupera la vita (1Re 17,21-22) e un altro riapre gli occhi (2Re 4,34-35).
38 S. Dalley, «Water Management in Assyria from the Ninth to the Seventh Centuries BC», in ARAM Periodical 13(2005), 443-460. In Gen 2,5.15 Adamo è di fatto incaricato di provvedere all’irrigazione del giardino. 39 Per approfondimenti al riguardo cf. A. Wénin, «La mythique et l’histoire dans le premier Testament», in M. Hermans – P. Sauvage (a cura di), Bible et histoire. Écriture, interprétation et action dans le temps, Lessius, Bruxelles 2000, 50-55, e il mio Nel Pentateuco, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012, 40-43.
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La parola del Signore apre gli occhi anche quando consente all’uomo di rendersi conto della verità più profonda di quanto sta accadendo. Per intercessione di Eliseo il Signore permette a un servo, terrorizzato dalla presenza dei nemici, di vedere la protezione celeste che gli è garantita (2Re 6,16-17). L’episodio, ambientato all’epoca delle guerre con gli aramei, bene esemplifica il contesto in cui gli israeliti ricevono la parola di Dio. Come il servo di Eliseo, essi si trovano impegnati nella lotta, si misurano con nemici più forti e numerosi di loro, sono spaventati, finché non viene loro offerto un cibo capace di dare coraggio.40 Le loro menti si aprono e, riconoscendo che Dio è con loro, conseguono la salvezza.41 Ciò che accade al servo di Eliseo richiama le analoghe circostanze in cui Gionata, figlio di Saul, esausto dall’inseguimento dei filistei, si imbatte finalmente in un favo di miele. Egli allunga la punta del bastone che tiene in mano, mangia del miele che ha attinto ed ecco «i suoi occhi si rischiararono» (1Sam 14,27).42 Così procura la vittoria per il suo popolo (1Sam 14,45). La parola del Signore si fa incontro al fedele proprio come il miele: disponibile e alla portata di tutti – Gionata lo raccoglie in un bosco in cui ci sono favi ovunque e per il quale passa tutto l’esercito (1Sam 14,25-26) – reca immediato ristoro, infonde forza, rischiara la vista. Avendo già menzionato, a proposito di Proverbi 8, i diversi passi veterotestamentari in cui la parola di Dio è equiparata al miele, penso sia qui utile approfondire il contesto in cui essa è elargita e l’effetto che essa procura considerando la manna, alimento dal sapore del miele (Es 16,31), custodito da Israele accanto al documento dell’alleanza, di cui è simbolo efficace (Es 16,33-34), offerto perché l’uomo capisca che non vive di solo pane bensì «di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).43
40 Si pensi all’importanza della formula «Non temere!» negli oracoli profetici e alla rassicurazione, ad essa collegata, dell’assistenza di Dio che dice: «Io sono con te!». Cf. M. Nissinen, «Fear Not: A Study of an Ancient Near Eastern Phrase», in A. Sweeney – E. Ben Zvi (a cura di), The Changing Face of Form Criticism for the Twenty-First Century, Eerdmans, Grand Rapids (MI) 2003, 122-161, in particolare 122-129, e il mio «“Non temere!”, cifra della profezia», in Parole spirito e vita 63(2011), 75-85. 41 In altri luoghi si insegna che Dio apre gli occhi, allorché si parla di Agar, che così intravede una sorgente (Gen 21,19), o di Balaam, profeta perché i suoi occhi sono stati aperti dal Signore (Nm 22,31; 24,4.16). Cf., per approfondimenti, i contributi di J. de Fraine, «Jeux de mots dans le récit de la chute», in Mélanges bibliques. Fs. A. Robert, Bloud & Gay, Paris 1957, 47-59, e J. Hausmann, « חַקָּפpāqaḥ, in GLAT 7, 302-305. 42 Il testo ebraico presenta un caso di qerê/ketîb: il verbo in questione è wattārō’nāh (e videro) oppure, leggendo la sequenza -’r- anziché -r’-, wattā’ōrenāh (divennero luminosi). Il qerê (wattā’ōrenāh), senza cambiare sostanzialmente il significato del passo, lo armonizza con il v. 29 in cui, nelle parole di Gionata, occorre la radice ’wr. Tale verbo crea poi un gioco di parole con il v. 24, in cui Saul ha dichiarato «maledetto» (’ārûr) colui che mangia prima di aver sconfitto i nemici. Un simile double entendre è del resto confacente a questo brano, come si constata nel medesimo v. 24 in cui Saul «fece giurare» (dalla radice ’lh hiphil), ossia «si comportò da folle» (dalla radice y’l). Cf. D. Jobling, «Saul’s Fall and Jonathan’s Rise: Tradition and Redaction in 1 Sam 14:1-46», in JBL 95(1976), 367-376, in particolare 374. 43 C. Houtman, Exodus (Historical Commentary on the Old Testament), Kok, Kampen 1996, II, 326-328.
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La manna, ossia la parola del Signore che istruisce, sostiene gli israeliti nel deserto allorché sono umiliati, non li trasferisce magicamente oltre il Giordano, dove devono arrivare solo dopo un lungo e faticoso percorso di quarant’anni, non preserva dal peccato e dalla ribellione, ma rinnova il dono della vita. Il Signore, che ha salvato Israele attraverso il mare dei Giunchi, continua a salvarli per mezzo di essa. Da raccogliere secondo disposizioni precise, appena quanto basta per una giornata, invita a un affidamento quotidiano all’intervento del Signore, educa a vedere in quanto si raccoglie da terra, solitamente frutto del lavoro dell’uomo, un dono della provvidenza, mostra la vera natura di Dio, padre che nutre e corregge il popolo suo figlio (cf. Es 16; Dt 8). Con ciò le Scritture lamentano che Israele, pur custodito e salvato, non giunge a capire. Come Mosè dichiara prima di morire: «Fino a oggi il Signore non vi ha dato una mente per comprendere né occhi per vedere né orecchi per udire» (Dt 29). I suoi successori, e Isaia in modo particolare, continuano a trattare con una nazione che, pur eletta fra tutte, è come un figlio ostinato, ottuso di fronte ad ogni insegnamento (Is 1,2-3), insensibile, sordo, cieco (cf. Is 6,10). Il ministero di Mosè, «servo di YHWH» così com’è detto in Dt 34,5, è pertanto ripreso lì dove questo si è compiuto. Il capo di Israele, per disposizione divina, è morto sul monte Nebo in espiazione della colpa dei fratelli e, dopo di lui, il Signore suscita un altro «servo» che patisce prendendo su di sé i castighi del suo popolo (Is 53,5-12).44 Quando le parole ormai non persuadono più i cuori ostinati, sopravviene la devastazione, conseguenza ultima dell’allontanamento dal Signore. Il popolo, abbandonato colui che è il vivente, sperimenta così la morte. Dapprima l’invasione assira poi l’incursione di Nabucodonosor giungono a sferzare Israele, come un flagello in mano a Dio. Samaria è annientata, Giuda è umiliata, il paese è lasciato nella condizione di un corpo percosso, carico di piaghe e lividure, e cionondimeno ipocrisia e iniquità non lasciano il cuore degli abitanti di Gerusalemme (Is 1). La capitale è infine presa dai babilonesi, svuotata dei suoi capi e miracolosamente riabitata e purtuttavia, dopo un primo tempo di entusiasmo, i figli di Israele tornano alla connaturata durezza (Is 42,18-20). Tra quanti sperimentano tali rivolgimenti epocali qualcuno porge l’orecchio al Signore, ne ricerca la voce, si lascia istruire da quanto va accadendo. Si assume la responsabilità di una nuova missione, non più di carattere militare, diversamente da quella precedente di Ciro, per la
44 Mosè è di fatto sepolto in un luogo che, di fronte a Bet-Peor (Dt 34,7), richiama fatalmente Baal-Peor, località in cui gli israeliti si sono pervertiti (Nm 25,1-9; Dt 4,3), e il suo corpo giace in espiazione della colpa dei fratelli affinché costoro possano entrare nella terra. Tale concezione del deuteronomista, affatto diversa da quella di Nm 20, è introdotta già in Dt 1,37 ove Mosè, pur innocente, è condannato, condividendo la pena degli uomini della sua generazione. La morte di Mosè rappresenta così l’estremo atto di intercessione in favore di Israele, a coronamento di quelli già compiuti nel tempo del cammino nel deserto (cf. Dt 9,16-29).
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ricostituzione del popolo disperso. Dovrà istruire i fratelli, aprire loro gli occhi perché siano in grado di corrispondere al Signore secondo le esigenze dell’alleanza con lui (Is 42,6-7; 50,4-5). Di fatto, la missione di questo «Servo di YHWH» avrà successo solo a seguito di una sofferenza ingiustamente patita e dopo la sua stessa morte. Il celebre quarto canto del Servo, così com’è comunemente detto, dapprima presenta il trionfo che attende il Servo nonostante le sue sofferenze (Is 52,13-15), poi racconta la realtà della sua passione e del suo significato (Is 53,1-10) per mostrare infine come il suo trionfo giunga appunto a motivo delle sue sofferenze (Is 53,11-12). L’esperienza del Servo è simile a quella del giusto Giobbe, non colpito a motivo dei propri peccati (Gb 2,10), causa di sconcerto (Gb 2,12), eppure perfetto intercessore (Gb 42,8). Come d’altronde il suo appellativo di «Servo del Signore» suggerisce – un titolo distintivo di Davide (cf. 2Sam 3,18) – il protagonista possiede un profilo spiccatamente regale.45 Assistito dal Signore, afflitto e quindi ristabilito, riproduce la parabola del giusto Ezechia, re che si ammala ed è miracolosamente guarito (Is 38), a prefigurazione della prodigiosa restaurazione della sua capitale a seguito della presa di Nabucodonosor. Il Servo, come Ioiachìn, ultimo re di Gerusalemme deportato ma infine ammesso alla tavola del re (2Re 24,12; 25,27-30), realizza in toto la missione del sovrano: recare salvezza al suo popolo, donargli la vera sapienza, istruirlo nel timore del Signore. Il Servo perisce a causa del peccato del suo popolo, subendo un colpo non destinato a lui (Is 53,8),46 riceve la sepoltura più semplice e ignobile, ossia quella riservata agli empi (Is 53,9).47 A lui è tuttavia consentito di volgere l’accettazione della propria afflizione in un’offerta capace di rimediare ai torti che Israele ha fatto a Dio (Is 53,10; cf. Lv 5). Pertanto: Vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. A seguito del travaglio della sua anima vedrà, sarà sazio. Con la sua conoscenza il giusto mio servo si mostrerà giusto davanti ai molti, lui che si addossava le loro iniquità (Is 53,10b-11).48
45 Nel passo diversi sono i termini che fanno riferimento alla sua dignità regale: a lui è promesso il successo (Is 52,13) come già a Davide e a Ezechia (1Sam 18,14; 2Re 18,7) e così com’è garantito al re che osserva la legge del Signore (cf. 1Re 2,3); davanti a lui ci si stupisce (Is 52,14a), come si prevede nel linguaggio di corte (cf. Ez 26,16; 27,35); ci si meraviglia che non abbia l’aspetto bello e maestoso dei sovrani (Is 52,14b; cf. 1Sam 9,2; 17,42). 46 L’ultimo stico di Is 53,8 così recita alla lettera: «A causa del peccato del mio popolo, un colpo per loro». 47 L’associazione dei ricchi con gli empi («gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo») è comune ad altri passi, quali Sal 49,6-7 e Mi 6,10-12. 48 La traduzione della CEI in Is 53,10b segue i Settanta e Qumran («vedrà la luce»), mentre in Is 53,11b («il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità») segue la Vulgata. Di fatto in Is 53,11b il verbo ṣdq all’hiphil seguito dalla preposizione l-, tradotto come sopra, è più facilmente compreso in riferimento in Is 50,9, ove si legge: «Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?». Cf. J. Goldingay – D.
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La Bibbia di Israele, la sapienza delle genti e l'istruzione del Signore
Il dolore del Servo, davanti alla contemplazione di una discendenza che nasce, risulta essere il «travaglio» di un parto (Is 53,11).49 Il dolore, anziché provocare ulteriore ostinazione, apre gli occhi e fa generare. Figlio di un popolo cieco, il Servo giunge finalmente a vedere e, contestualmente, è testimone della nascita di una nuova stirpe. Israele, rimproverato come «razza scellerata» (Is 1,4), conosce finalmente l’avvento della «stirpe santa» preannunciata agli inizi della predicazione di Isaia e attesa dopo il tempo dell’incendio e della distruzione (Is 6,13). Israele, nella figura del Servo, è giunto a comprendere, si è lasciato istruire, apre gli occhi, «nasce» o, fuor di metafora, rinasce. Il cammino del Servo deve essere esemplare per altri, rappresentati dai «servi», speciali custodi dell’insegnamento del Servo, cui nel seguito del libro di Isaia si fa riferimento (Is 54,17; 56,6; 63,17; 65,8.13-15). Per costoro, detti anche «eletti» (Is 65,9), è riservato il futuro di grazia nella nuova Gerusalemme. L’educazione del Signore si compie in tal modo attraverso la sua Parola e, specie quando ormai non si intendono più ragionamenti, attraverso i colpi della storia, i suoi accadimenti più umilianti. Così Israele impara la disciplina, consapevole che il padre non risparmia il bastone per salvare suo figlio (Pr 23,13-14).50 Dinanzi al Servo, uomo dagli occhi aperti, riconosce l’efficacia dell’ascolto della Parola e pure la misteriosa potenza della sofferenza, accolta anche quando ingiusta.
4. Conclusioni Al termine del percorso proposto mi sembra utile porre in evidenza alcuni elementi emersi in queste considerazioni. La parola divina contenuta nella Bibbia ebraica, accolta nel canone cristiano, si offre come una parola capace di educare. Maturata in un serrato confronto con le culture con cui Israele viene a contatto, è misteriosamente sapiente, capace di dischiudere una verità confermata dall’esperienza, dalle indagini e dai percorsi più diversi. Allorché si comunica, d’altra parte, questa parola non si limita a dare ragguagli su come meglio comportarsi bensì sollecita una crescita verso il riconoscimento del Dio di Abramo, signore di Mosè, padre di Israele, creatore e padre di ogni uomo. Dio educa l’uomo raggiungendolo, nelle sue più molteplici mediazioni, attraverso una sua Parola, foriera della sua volontà, del suo appello alla giustizia e alla pratica dell’amore, e attraverso la storia, con i suoi rivolgi-
Payne, A Critical and Exegetical Commentary on Isaiah 40–55 (ICC), 2 voll., T&T Clark, London 2006, I, 325-328. 49 Tale è il significato della radice di ‘amal anche in Is 59,4. 50 Si ricordi pure il meno noto detto di Gb 35,15: «Dio libera il povero mediante l’afflizione, e con la sofferenza gli apre l’orecchio». L’apertura dell’orecchio – essendo l’orecchio l’organo dell’intelligenza – equivale di fatto nel linguaggio della Bibbia ebraica all’apertura degli occhi. Nella predicazione di Isaia la cecità del popolo dipende dalla sua sordità e il Servo, prima di vedere, riceve «l’apertura dell’orecchio», come si legge in Is 50,5.
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menti e le sue sofferenze. Utilizzando una celebre formula di Dei verbum, si deve constatare come il Signore educhi «con parole e con eventi intrinsecamente connessi». Riconoscendo nel Servo, di cui Isaia racconta, il prototipo del figlio di Israele che si lascia educare, si può precisare l’obiettivo dell’istruzione del Signore. L’uomo, suo figlio, non deve soggiogare il mondo assecondando la logica del serpente primordiale. La sua piena realizzazione non è conseguita accumulando anni di vita, come il serpente che sempre ringiovanisce cambiando muta. Essa non giunge con «l’immortalità», ambita dagli antichi eroi delle origini, o l’accumulo di ricchezze e potere. All’opposto, il figlio di Adamo deve imparare a dare la vita, accettando di morire perché altri vivano dopo di lui e grazie a lui. Come l’evangelista Luca efficacemente attesta a proposito dell’incontro dei discepoli di Emmaus con il Risorto, occorre ascoltare Mosè e i profeti e riconoscere, nel gesto della frazione del pane, il segno del Servo che si è offerto sulla croce. «Allora si aprirono loro gli occhi» (Lc 24,31).
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Basilio e la Lettera ai giovani
Giancarlo Giuseppe Scimè
Nella presente comunicazione intendo illustrare in concreto i contenuti dell’opera di Basilio,1 che mi sono sembrati più importanti per lo svolgimento del nostro convegno.
1. La di
prospettiva fondamentale la paideia origeniana
Basilio:
Già una trentina d’anni fa alcuni studiosi, tra cui soprattutto Agostino Pastorino e Mario Naldini, hanno chiarito definitivamente l’argomento centrale della relazione della proposta educativa contenuta nell’Ad adolescentes de legendis libris gentilium di Basilio con gli autori pagani e cristiani. Pastorino ha mostrato che il Discorso di Basilio non dipende dal De audiendis poetis di Plutarco2 e Naldini ne ha dimostrata la stretta dipendenza dall’Oratio panegyrica di Gregorio Taumaturgo.3 È stata la nonna di Basilio, di nome Macrina, a trasmettere al giovanissimo nipote
1 Le citazioni di Basilio sono tratte dalla seguente edizione: Basilio di Cesarea, Discorso ai giovani. Oratio ad adolescentes, con la versione latina di L. Bruni, a cura di M. Naldini (Biblioteca patristica 3), EDB, Bologna 1998 (rist. 2005). D’ora in poi: B, Nald. 2 Cf. A. Pastorino, «Il Discorso ai giovani di Basilio e il De audiendis poetis di Plutarco», in Basilio di Cesarea, la sua età, la sua opera e il basilianesimo in Sicilia. Atti del Congresso internazionale (Messina, 3-6 dicembre 1979), 2 voll., Centro di Studi umanistici, Messina 1983, I, 217-257. 3 Cf. M. Naldini, «Paideia origeniana nella “Oratio ad adolescentes” di Basilio Magno», in Vetera Christianorum 13(1976), 297-318, ripreso e sviluppato nelle pp. 37-58 dell’ed. curata da Naldini, ora EDB 1998.
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l’affetto e le dottrine di Gregorio che, insieme ad Atenodoro, fu tra i primi allievi di Origene a Cesarea di Palestina nel 232.4 Per questa via Basilio attinge a piene mani alla paideia origeniana.
2. I
criteri metodologici per la lettura cristiana dei testi pagani
Dal punto di vista del nostro convegno, il Discorso ai giovani di Basilio offre delle indicazioni essenziali circa i criteri metodologici che i ragazzi cristiani, ai quali Basilio si rivolge con tono familiare e bonario, debbono applicare concretamente nelle loro letture quotidiane e scolastiche dei testi profani. In via esemplificativa, provo a enunciare tali criteri e quindi a spiegarli. Gli enunciati e la loro spiegazione sono ordinati nel senso cronologico delle azioni da compiere quando il lettore cristiano si appresta all’atto della lettura dei testi pagani. Gli enunciati sono: 1) leggere quasi tutto: scartare a priori ciò che è nocivo; 2) disapprovare subito a posteriori i contenuti evidentemente immorali; 3) da quello che si legge procurarsi piacere, diletto e soprattutto utilità; 4) non fermarsi a etichettare troppo gli autori pagani: possono andare bene poeti, prosatori, retori, filosofi; 5) controllare se il contenuto del messaggio pagano corrisponde al contenuto del messaggio cristiano e quindi se si adatta: è il criterio di gran lunga più importante e ribadito nel corso del Discorso, riguardo al rapporto tra il lettore cristiano e i testi pagani; 6) imprimere nell’anima i logoi virtuosi; 7) imitare nella vita gli exempla virtuosi. Uno dei passi più significativi del Discorso riprende un esempio già antico e originariamente pagano, quello delle api. Da questo passo possiamo provare a ricavare la spiegazione dei principali criteri metodologici appena enunciati: Come le api, a differenza degli altri animali che si limitano al godimento del profumo e del colore dei fiori, sanno trarre da essi anche il miele, allo stesso modo coloro che in tali scritti non cercano soltanto diletto e piacere, possono anche ricavarne una qualche utilità per l’anima. Dobbiamo dunque utilizzare quei libri seguendo in tutto l’esempio delle api. Esse non vanno indistintamente su tutti i fiori, e neppure cercano di portar via tutto da quelli sui quali si posano, ma ne traggono solo quanto serve alla lavorazione e tralasciano il resto. E noi, se siamo saggi, prenderemo da quegli scritti quanto si adatta a noi ed è conforme alla verità, e lasceremo andare il resto. E come mettendoci a cogliere dei fiori dal roseto evitiamo le spine, ugualmente, raccogliendo dai libri dei pagani quanto è utile, dobbiamo guardarci da quel che vi è di nocivo. La prima cosa da fare dunque è di esaminare attentamente ogni dottrina e di
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Cf. B, Nald., 38.
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Basilio e la Lettera ai giovani adattarla allo scopo, mettendo, come dice il proverbio dorico, la pietra a fil di piombo.5
L’esempio delle api, di origine pagana – Pindaro, Isocrate, Seneca, Plutarco – si trova in ambito cristiano – Gregorio Nazianzeno, Anfilochio di Iconio, Teodoreto di Ciro6 – insieme a termini tecnici – chresis, usus iustus, utilitas, spolia – e riferimenti biblici – spogliazione degli egiziani da parte degli ebrei, matrimonio con una prigioniera di guerra, matrimonio con una pagana – che indicano forme di eclettismo pratico e teorico da parte dei padri.7
3. Esposizione 3.1. Lettura
dei criteri
selettiva
Il primo criterio basiliano per l’approccio cristiano alla letteratura pagana, già rilevabile dall’esempio delle api sopra riportato, consiste nella selezione intelligente di autori e testi. Nella ripresa cristiana del topos letterario «è peculiare di Basilio l’osservazione che le api non si posano su tutti i fiori indistintamente».8 Scrive Basilio: Quando però [i poeti] passano a rappresentazioni di uomini perversi, queste allora bisogna evitarle, tappandoci le orecchie non meno di quanto fece Ulisse, come dicono gli stessi poeti, al canto delle Sirene. Perché l’abitudine ai cattivi discorsi è una via che porta alle azioni malvagie. Si deve perciò vigilare sull’anima con ogni cura, per evitare di accogliere qualche idea perversa attraverso la seduzione dei discorsi, alla maniera di coloro che insieme al miele prendono il veleno.9
In una linea indiscutibilmente e fortemente ascetica, troviamo il rifiuto netto di partecipare agli spettacoli dei giocolieri e di ascoltare la musica,10 e anzi il duro assoggettamento del corpo: «Bisogna castigare il corpo e reprimerne gli assalti come quelli di una belva».11 L’esempio della raccolta delle rose è nella stessa direzione: «E come mettendoci a cogliere dei fiori dal roseto evitiamo le spine, ugualmente, raccogliendo dai libri dei pagani quanto è utile, dobbiamo guardarci da quel che vi è di nocivo».12
B, Nald., IV, 8-11, 92-95. B, Nald., 166-167. 7 Cf. B. Studer, «Eruditio veterum», in Istituto patristico Augustinianum, Storia della teologia, 1: Epoca patristica, a cura di A. Di Berardino – B. Studer, Piemme, Casale Monferrato 1993, 342-344. 8 B, Nald., 167. 9 B, Nald., IV, 2-3, 90-91. 10 B, Nald., IX, 6-11, 120-123. 11 B, Nald., IX, 14, 122-123. 12 B, Nald., IV, 10, 94-95. 5
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3.2. Lettura
esclusiva
Alla prima lettura dei testi, il lettore cristiano dovrebbe avvertire immediatamente di trovarsi davanti a idee incompatibili con la propria identità cristiana. Per Basilio questo primo giudizio dovrebbe scattare subito, nascere spontaneo, essere immediato e non troppo difficile o innaturale, e perciò non dovrebbe richiedere un grosso sforzo di discernimento. Non daremo dunque la nostra approvazione ai poeti quando fanno parlare i loro personaggi con linguaggio blasfemo o scurrile, o quando ne rappresentano gli amori o le ubriacature, e neppure quando riducono la felicità a una mensa bene imbandita e a canti licenziosi. E meno di tutto presteremo loro fede quando si mettono a discorrere in qualche maniera degli dei, e principalmente quando li descrivono dando a intendere che siano molti e anche in disaccordo fra loro.13
3.3. Delectare et prodesse Il terzo criterio basiliano di lettura cristiana degli autori pagani consiste nel non rinunciare a una dimensione affatto umana che fa naturalmente parte dell’atto della lettura: si tratta di non temere di procurarsi, da quello che si legge, piacere, diletto e soprattutto utilità. Il valore della lettura avvicina sullo stesso terreno cristiani e pagani. Ognuno di loro ha naturalmente i propri testi di riferimento e vi si accosta con una certa fede e devozione. I cristiani antichi hanno la Bibbia. I pagani hanno un patrimonio assai variegato di scrittori. I cristiani non debbono né ignorare né disprezzare i testi pagani. Si può imparare da tutti (cf. criterio 4). Basilio porta in generale l’esempio della pianta e in particolare gli esempi di Mosè e di Daniele. L’esempio della pianta. Ma a che cosa possiamo paragonare i due insegnamenti per averne un’immagine? Ecco: come è virtù propria di una pianta ricoprirsi di frutti della stagione, e ne formano un certo ornamento anche le foglie che sui rami stormiscono, così anche per l’anima il frutto precipuo è la verità, e tuttavia non è affatto sgradevole che si rivesta di sapienza profana come di foglie che offrono riparo al frutto e una vista gradita.14 L’esempio di Mosè. Si dice appunto che il grande Mosè, la cui fama di sapiente è grandissima presso tutti gli uomini, prima esercitò la mente nelle scienze egizie, quindi si dedicò alla contemplazione dell’Essere (τῇ θεωρίᾳ τοῦ ὂντος).15 L’esempio di Daniele. E come lui [Mosè], se pure in tempi più recenti, si narra che il saggio Daniele sia stato istruito a Babilonia nella scienza dei Caldei, e poi si sia applicato allo studio delle dottrine divine.16
B, Nald., IV, 4-5, 90-93. B, Nald., III, 2, 88-89. 15 B, Nald., III, 3, 88-89. 16 B, Nald., III, 4, 88-89. 13 14
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3.4. Lettura
profonda
La grande varietà di generi letterari e di tipologia di autori presenti nella tradizione culturale classica greca non deve trattenere né intimidire il lettore cristiano. Si tratta in questo ambito di non fermarsi a impressioni superficiali o di etichetta e di non fare troppo caso a chi dice qualcosa o a come lo scrive, ma di considerare con più attenzione e meno superficialità il contenuto oggettivo del messaggio. È infatti sui contenuti, sulle proposte di pensiero e sugli stili di vita, e non su chi scrive o su come egli scrive, che va esercitata da parte dei lettori cristiani dei testi pagani la facoltà dell’analisi e del giudizio, che illustreremo con il passo successivo (cf. criterio 5).
3.5. Lettura
critica
Come si diceva, sembra il criterio più importante, veramente caratteristico della proposta educativa di Basilio. Consiste in tre fasi: comprendere esattamente il contenuto del testo pagano, confrontare tale contenuto con il testo cristiano per eccellenza, la sacra Scrittura, e arrivare così a un giudizio conclusivo, con il quale stabilire se, in definitiva, il contenuto pagano corrisponde al messaggio cristiano e si può adattare ovvero integrare nel sistema proprio del cristianesimo. Su tale attività laboriosa e impegnativa di severo discernimento il Discorso ritorna ripetutamente. Abbiamo già visto l’esempio delle api, le quali non solo scelgono prima su quali fiori fermarsi e su quali non fermarsi (cf. criterio 1), ma anche, una volta fermatesi sui fiori, «neppure cercano di portar via tutto da quelli sui quali si posano, ma ne traggono solo quanto serve alla lavorazione e tralasciano il resto».17 Al primo contatto col fiore l’ape avverte subito se il suo nettare è utilizzabile oppure no (cf. criterio 2). Se vale la pena di provare a prelevare qualcosa, l’ape prende «solo quanto serve alla lavorazione e tralascia il resto».18 La peculiarità della proposta di Basilio è tutta qui: E noi, se siamo saggi, prenderemo da quegli scritti quanto si adatta a noi ed è conforme alla verità, e lasceremo andare il resto.19
«Quanto si adatta a noi» traduce ὅσον οἰκεῖον ἡμῖν. Esso significa: quanto è familiare, domestico, di casa. «Conforme alla verità» traduce invece συγγενές τῇ ἀληθείᾳ. Anche in questo secondo caso siamo di fronte a una conformità particolare, vicina al significato di οἰκεῖον. Συγγενές significa infatti congiunto, parente, anche correligionario. Se siamo saggi, dice Basilio ai suoi giovanissimi discepoli, se cioè, più propriamente, siamo capaci in quel preciso momento della lettura di eser-
B, Nald., IV, 9, 94-95. Ib. 19 Ib. 17
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citare la sapienza (σωφρονῶμεν), riconosceremo a un esame molto attento se il contenuto pagano è per noi riconoscibile, ha qualche cosa che ci ispira familiarità e quindi una certa confidenza, direi quasi una specie di intimità, e allora lo raccoglieremo per elaborarlo. Tuttavia, l’elaborazione richiede, a questo punto, un altro paio di operazioni intellettuali: La prima cosa da fare dunque è di esaminare attentamente ogni dottrina e di adattarla allo scopo, mettendo, come dice il proverbio dorico, la pietra a fil di piombo.20
«Esaminare attentamente ogni dottrina» traduce ἐπισκοπεῖν τῶν μαθημάτων, ovvero sorvegliare, passare al vaglio quanto è stato prelevato e appreso: il nettare va dapprima (ἐξ ἀρχῆς) saggiato. Inoltre occorre, secondo e ultimo atto della mente, «adattare» il nettare «allo scopo», συναρμώζειν τῷ τέλει, cioè concretamente connettere, mettere insieme, disporre ordinatamente i due elementi, il profano e il cristiano, collegandoli e congiungendoli. In altri termini, si tratta di mettere, «come dice il proverbio dorico, la pietra a fil di piombo»,21 ovvero si debbono allineare i due elementi congiunti come i mattoni di un edificio. Naturalmente affiora qui esplicitamente il termine più importante di tutto il Discorso: lo scopo, il τέλος. Il τέλος non può mai essere perso di vista dal lettore cristiano. Il nostro τέλος è la vita eterna, quella che Basilio chiama nel Discorso l’altra vita, ἕτερος βίος.22 Si potrebbero portare altri testi del Discorso, ma suppongo che sia sufficiente quanto adesso esposto per avere una percezione abbastanza chiara del grado di serietà e di profondità, oltre che di prudenza e di onestà, richiesto da Basilio al lettore cristiano nel momento più delicato della ricezione ed eventuale apprendimento di una dottrina non proveniente dal testo biblico ma assimilabile in quanto riconosciuta familiare, cioè dello stesso genere (συγγενές), concretamente compatibile con il tutto nel quale deve integrarsi fin quasi, così sembrerebbe, a essere irriconoscibile per la sua origine non cristiana. Come infatti si potrebbe dimostrare, per Basilio l’elemento culturale originariamente pagano in se stesso è carente e perciò deve essere, nel momento dell’assimilazione al sistema cristiano, in qualche modo completato o, per così dire, perfezionato: «Ma noi queste cose le impareremo, come credo, nei nostri libri in maniera più completa (τελειότερον)».23 Si può vedere in questo senso anche un passo precedente di Basilio: Se vi è dunque una qualche affinità (τις οικειότης) reciproca fra le due dottrine, la conoscenza di ambedue non potrà che esserci utile; se poi non
B, Nald., IV, 11, 94-95. Ib. 22 B, Nald., 145. 23 B, Nald., X, 1, 130-131. 20
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Basilio e la Lettera ai giovani c’è affinità, il fatto però di metterle a confronto (παράλληλα) e riconoscerne la differenza (τὸ διάφορον) aiuterà non poco a confermarci nella migliore.24
3.5.1. Un esempio
significativo di lettura critica :
Socrate
Senza passare ora a spiegare gli ultimi criteri sopra enunciati, che sono applicativi, cioè mirano al passaggio fondamentale, per la paideia origeniana, cui Basilio è debitore, dalla teoria alla prassi, vorrei portare almeno un esempio concreto di un elemento pagano riconosciuto assimilabile perché dello stesso genere e integrato nel sistema cristiano. Ma riprendiamo il discorso degli esempi (τὰ παραδείγματα) di azioni (πράξεων) virtuose. Un tale prese a picchiare Socrate, il figlio di Sofronisco, colpendolo senza pietà proprio sulla faccia; questi però non reagì, ma lasciò che il forsennato sfogasse tutta la sua collera, finché la faccia gli diventò tutta gonfia e piena di lividi per le percosse. E quando quel tizio cessò di picchiare, Socrate altro non fece, a quanto si racconta, che apporre sul proprio volto la seguente scritta, come la pone un artefice sotto la sua statua: «opera del tale»; e questa fu la sua vendetta. Tali esempi, che quasi coincidono con i nostri precetti, a mio giudizio meritano grandemente di essere imitati (μιμήσασθαι) da giovani come voi. Perché questo preciso atteggiamento di Socrate risponde a quel precetto che propone di porgere anche l’altra guancia a chi ci percuote, ben lungi dall’opporre resistenza; e l’esempio di Pericle o quello di Euclide è conforme al precetto di sopportare i persecutori e di tollerare pazientemente la loro collera, e all’altro che prescrive di pregare per il bene dei nemici, non d’imprecare contro di loro. E così chi si sarà prima formato (προπαιδευθεὶς) a questi esempi, non potrà più ritenere impossibile, per scarsa fiducia, l’attuazione dei precetti evangelici.25
Con il caso di Socrate, e di Pericle ed Euclide ricordati nel presente passo e descritti da Basilio all’inizio del VII capitolo, siamo in presenza di esempi di azioni virtuose (τὰ τῶν σπουδαίων πράξεων παραδείγματα). Tali πράξεις «portano quasi nella stessa direzione»26 in cui i giovani lettori cristiani, ai quali Basilio si rivolge, già si trovano, nonostante il fatto che, proprio per la loro giovane età, non abbiano ancora potuto approfondire i misteri della sacra Scrittura.27 In concreto, Socrate ha dato, secondo Basilio, un buon esempio, diremmo noi oggi di non violenza e di resistenza passiva, e si è vendicato così, con la denuncia pubblica dell’autore dell’aggressione gratuitamente ricevuta, ma il precetto del Nuovo Testamento (cf. Mt 5,39; Lc 6,29) va molto più avanti, è estremamente più esigente, richiede un atteggiamento migliore e più completo, domandando di rinunciare a qualunque forma di vendetta e anzi, ancora di più, addirittura di offrire l’altra guancia al persecutore.
B, Nald., III, 1, 88-89. B, Nald., VII, 6-9, 106-109. 26 B, Nald., VII, 6, 106-107. 27 Cf. B, Nald., II, 7, 86-87. 24 25
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Che fare dunque? Per Basilio, giunti a questo punto, cioè compiuti tutti i laboriosi e severi passaggi del discernimento sopra descritti, è molto chiaro: Chi si sarà prima formato (προπαιδευθεὶς) a questi esempi, non potrà più ritenere impossibile per scarsa fiducia l’attuazione dei precetti evangelici.28
In definitiva, se i giovani cristiani incominciassero intanto a imitare i buoni esempi offerti dalla vita virtuosa dei pagani avrebbero già colto il valore propedeutico della letteratura «di fuori» e non si scoraggerebbero davanti alla «giustizia superiore» richiesta da Gesù ai propri discepoli, cioè davanti alle esigenze molto più impegnative della letteratura «di dentro». In altre parole, se anche tra i pagani si trovano dei non violenti, imitarli è il primo passo per avviarsi sulla via del vangelo. Vedere che è possibile essere non violenti, anche se non si rinuncia totalmente alla più che naturale sete di vendetta, rende il cristiano più fiducioso davanti al precetto evangelico, un precetto che, francamente, anche a un asceta rigoroso e per nulla incline ai compromessi – come Basilio – poteva sembrare impraticabile, impossibile da attuare. Mediante l’esempio di Socrate citato da Basilio, abbiamo già constatato come nella proposta di paideia origeniana, ripresentata dal Discorso ai giovani di Basilio, l’elaborazione culturale di assimilazione da parte cristiana di elementi non cristiani debba, di fatto, portare dalla teoria alla prassi. Si tratta del necessario e naturale passaggio dall’ideale al concreto, dall’apprendimento alla vita. Tale necessaria dimensione, con i suoi risvolti etici, si acquisisce mediante l’impressione nell’anima dei logoi virtuosi (criterio 6) e l’imitazione nella vita degli exempla virtuosi (criterio 7).
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B, Nald., VII, 9, 108-109.
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Proposte e modelli educativi nella Chiesa siriaca tra VI e IX secolo
Davide Righi
1. La
distinzione tra fede e ragione nella C hiesa siro - orientale dell ’XI secolo
Ibn Abī Uṣaybiʿah (1203-1269), lo storico musulmano e damasceno della medicina, che ha studiato all’ospedale Nāṣirī al Cairo, racconta di due persiani che arrivano a Bagdad per studiare medicina. Chiedono di Abū al-Faraǧ ʿAbdallāh Ibn al-Tayyib e, seguendo le indicazioni che dà loro la gente del luogo, arrivano fino alla chiesa. Entrano e rimangono sorpresi, perché vedono il grande scienziato Ibn al-Tayyib vestito con i paramenti sacri mentre celebra la liturgia e incensa […]. Alla fine della liturgia, quando escono dalla chiesa, Abū al-Faraǧ ʿAbdallāh Ibn al-Tayyib li vede e dai vestiti capisce da dove vengono. Gli dicono che vorrebbero diventare suoi discepoli. Siamo nel mese del pellegrinaggio. Ibn al-Tayyib risponde: «Volete essere studenti con me? Allora cominciate a fare il pellegrinaggio!». Gli dicono: «No. Abbiamo cose più importanti da fare. Vogliamo studiare». Lui replica in modo deciso: «Prima di cominciare a studiare fate il pellegrinaggio». Insomma, non li accetta se non dopo che sono tornati dal pellegrinaggio. Allora chiede loro: «Come è andata?». Gli dicono: «Bene. Ma – continuano – quando cominciamo gli studi?». Lui però sembra non dar loro retta e insiste «Ditemi: avete fatto sette volte il giro della Kaʿbah?». Gli rispondono di sì, e aggiungono: «Ma quand’è che cominciamo gli studi?». E invece lui: «Avete fatto per sette volte la corsa tra le due colline?» – «Sì!» – «Avete buttato le pietre su Satana?» – «Sì, abbiamo fatto tutte queste cose», gli dicono. «Ma vogliamo studiare la medicina». Allora, secondo il racconto di Ibn Abī Uṣaybiʿah, Abū al-Faraǧ ʿAbdallāh Ibn al-Tayyib avrebbe esclamato: «Le cose della fede non seguono la ragione!». Voleva dire: «Vi siete meravigliati quando mi avete visto incensare, come si
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Davide Righi fa durante la nostra liturgia. Ma pure voi che amate gli studi, quando fate le pratiche della vostra religione non vi chiedete se sono ragionevoli».1
L’episodio riportato, anche se datato probabilmente agli inizi dell’XI secolo – Abū al-Faraǧ ʿAbdallāh Ibn al-Tayyib muore nel 1043 –, mostra da un lato uno spaccato di vita e, dall’altro, la consapevolezza raggiunta in ambito siriaco nei riguardi dell’educazione nella fede e dell’educazione nella scienza intesa in senso lato, e ai due ambiti loro propri, non certo estranei l’uno all’altro – se Abū al-Faraǧ era uomo di fede e di scienza –, ma certamente distinti.
2. La
coltivazione delle scienze nel mondo siriaco
Il mondo siriaco era diventato nei secoli precedenti la culla della cultura se nel dialogo di Abramo di Tiberiade, stilato circa a metà del IX secolo, si parla dei cristiani come di coloro che sono numerosi e versati nella scienza, nella filosofia, nella medicina e nella letteratura,2 indicando perciò che, agli inizi del IX secolo, il mondo arabo-islamico era ancora in ritardo in questi campi e ancora nella faticosa ricerca di un accesso al patrimonio culturale e scientifico dell’epoca. D’altronde alla costituzione di un patrimonio culturale arabo-islamico fu il mondo siriaco che diede uno straordinario apporto con il fenomeno delle traduzioni dal siriaco all’arabo e dal greco all’arabo, nel quale la componente cristiana giocò un ruolo di primo piano.3 La caratteristica di questo mondo era la coltivazione della scienza intesa in senso lato, sia la scienza religiosa, sia le scienze empiriche, che andavano allora facendosi strada. Questa attitudine a distinguere soprattutto la razionalità quale unico ambito sulla base del quale era possibile un dialogo interreligioso e quindi anche un discepolato e un’educazione interreligiosa – Yaḥyā Ibn ʿAdī nel X secolo avrà dei discepoli musulmani – nasceva dall’esperienza delle diverse Chiese che popolavano il mondo siriaco, in particolare la
1 S. Khalil Samir, «La rivoluzione culturale introdotta a Baġdād dai cristiani», in D. Righi (a cura di), La letteratura arabo-cristiana e le scienze nel periodo abbaside (750-1250 d.C.). Atti del 2° Convegno di studi arabo-cristiani (Roma, 9-10 marzo 2007), Zamorani, Torino 2008, 52-53. 2 G. Būlus Marcuzzo, Le dialogue d’Abraham de Tibériade avecʿAbd al-Raḥmān al-Hāšimī à Jérusalem vers 820. Étude, édition critique et traduction annotée d’un texte théologique chrétien de la littérature arabe (Textes et etudes sur l’Orient chrétien 3), Pontificio istituto orientale, Rome 1986. 3 Per tutto il fenomeno dall’acculturazione del mondo siriaco e il fenomeno delle traduzioni, le sue cause, la vastità e la portata cf. D. Gutas, Greek Thought, Arabic Culture, The Graeco-Arabic Movement in Baghdad and Early ʿAbbāsid Society (2nd-4th/8th-10th Centuries), Routledge, London-New York 1998, trad. it.: Pensiero greco e cultura araba, a cura di C. D’Ancona Costa, Einaudi, Torino 2002.
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Chiesa siro-orientale o nestoriana, la Chiesa melchita e la Chiesa siro occidentale o giacobita.
3. Le
origini delle acquisizioni siriache in merito alle scienze e al modello educativo
Il decreto contro la scuola emanato da Giuliano, soprannominato l’Apostata, durante il suo breve impero negli anni Sessanta del IV secolo, rivela chiaramente una situazione del sistema scolastico, allora vigente, che vedeva ancora prevalente nei suoi contenuti la mitologia pagana. Wilken ha approfondito con il suo volume che l’immaginario collettivo del mondo romano e greco di quei secoli era desunto dalla letteratura ancora prevalentemente pagana e che solo con la diffusione della «bibbia» cristiana questo immaginario collettivo cambiò.4 Indizio di tale cambiamento sono le immagini affrescate nelle catacombe che vedono le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento raffigurate in quelle immagini, grazie alle quali, mediante le catechesi prebattesimali e mistagogiche di quei secoli che ci sono pervenute, possiamo ricostruire – o per lo meno immaginarci – l’ambiente ecclesiale nel quale l’educazione cristiana maturava. Agostino vagheggiò nel suo De doctrina christiana un’educazione che avesse la sacra Scrittura come suo punto fermo. Per il mondo latino e il mondo greco durante il V-VI secolo questo auspicio divenne realtà. Ciò accadde anche nella Chiesa siriaca ma con delle peculiarità. Come scrive B. Amata, riprendendo uno studio di Pricoco, il monachesimo orientale e occidentale, a partire dalla metà del IV secolo, si mostrò in gran parte ostile alla cultura profana, e i fanciulli in genere orfani o destinati per volere altrui alla vita monastica ricevevano un’istruzione puramente religiosa, fondata sui libri sacri. Ma biblioteche e scriptoria, «almeno sino a tutto il VI secolo, non autorizzano a parlare di scuole monastiche sostitutive o alternative di quelle profane, nelle quali si svolgesse un cursus scolastico organicamente predisposto e che fossero aperte anche ai ragazzi non destinati alla monacazione».5
Sempre B. Amata ricorda scuole di stato e scuole «ecclesiastiche» nell’Oriente greco: Giustiniano con la Prammatica Sanzione del 554 si preoccupò dei maestri di grammatica, retorica, medicina e diritto. Come nel IV secolo, nelle scuole si leggevano particolarmente Virgilio, Terenzio, Orazio, Ovidio, Tibullo, Lucano,
Cf. R. Wilken, The Spirit of Early Christian Thought, Yale University Press, London 2005. B. Amata, «Scuola», in A. Di Berardino (a cura di), Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Genova-Milano 22008, 4817-4818. 4 5
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Davide Righi Cicerone, Sallustio; trascurabile appare invece l’interesse per lo studio del greco e della filosofia. Nell’Oriente greco non si estinse l’università imperiale di Costantinopoli, preludio alle scuole bizantine. Vero è che accanto alle scuole di Stato nel VI secolo appaiono scuole «interne» alla chiesa, per la formazione del clero, con una ratio che teneva in massimo conto la sacra Scrittura, al punto da spiegare le regole grammaticali e persino metriche solo con esempi tratti dalla Scrittura.6
Come detto da Amata, l’Oriente cristiano si era andato concentrando in modelli educativi che volevano essere specificamente religiosi e, quindi, specificamente biblici e liturgici.
4. La
scuola dei persiani di
Edessa
Si deve citare, nel mondo siriaco del IV secolo, l’opera di Efrem siro che, profondamente ispirata dai temi biblici e profondamente fissata sulla dottrina della fede professata dalla Chiesa, aveva individuato nel canto liturgico l’ambito privilegiato di una spiritualità autenticamente cristiana. Tale scuola, come esplicitato da Becker nella sua introduzione alla pubblicazione delle fonti della scuola di Nisibi, si fa rimontare erronea mente allo stesso Efrem siro, ma ciò appare chiaramente una retroproiezione sviluppatasi in un periodo successivo. Sembra, alla pari, erroneo farla rimontare allo stesso Bardesane così come caricarla di importanza facendo rimontare a qualcuno dei suoi studiosi i commentari alla Logica di Aristotele. La scuola di Edessa, detta anche scuola dei persiani, che chiuse la propria attività nel 489 su ordine dell’imperatore Zeno, sembra essere stata non l’unico, ma uno dei circoli intellettuali di Edessa nel V secolo. Nonostante i dettagli siano ancora oggetto di studio e di discussione, come vedremo tra breve, appare però chiaro agli studiosi che abbia giocato un ruolo preparatorio allo sviluppo della scuola di Nisibi.7 Scrive Becker: Le origini della scuola dei persiani non sono chiare e risiedono in qualche luogo nel tardo quarto secolo e forse sono collegate all’immigrazione dei cristiani dall’Oriente dopo la concessione di Gioviano di alcune province ai sassanidi nel 363, a seguito del fallimento dell’invasione della Mesopotamia sassanide da parte dell’imperatore Giuliano.8
Becker perciò propende per riconoscere la presenza di un dibattito teologico e spirituale non sopito tra siri orientali, che coltivavano il
Ib. Cf. A.H. Becker, Sources for the Study of the School of Nisibis, Liverpool University Press, Liverpool 2008, 5. 8 Cf. ivi, 6. 6 7
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pensiero e gli scritti di Diodoro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia, e siri occidentali, per i quali la scuola non era altro che una fonte di eresia. Nello scritto Sulla fondazione delle scuole si parla riferendosi alla scuola di Edessa con l’appellativo «assemblea di Edessa». Circa l’avvicendamento di Qiiore e Narsai alla guida della scuola, specificando un cambiamento che sarebbe attribuibile a Narsai, si dice: Quando quell’uomo [Qiiore], l’interprete della scuola, si addormentò, allora tutta la fraternità chiese a Mar Narsai di stare a capo dell’assemblea e provvedere al suo bisogno […]. E [Narsai]) disse loro: «Io non posso sostenere tutto il lavoro della scuola, come Rabban. Lui infatti era ricco in entrambe [le cose], nella salute del corpo e nella grazia dello spirito, in una con l’anzianità dei giorni. Ma se costituirete un lettore e uno che insegni i primi rudimenti della lettura forse io potrò interpretare [le Scritture]». Dopo che ebbero fatto quanto aveva chiesto, questo beato diresse l’assemblea per vent’anni, provvedendo ogni giorno all’interpretazione e al canto corale.9
Appare chiaro dalla fonte sopra citata che sussistevano diverse funzioni nella scuola e che grazie a Narsai avrebbero cominciato a essere gestite da diverse persone: quella del lettore, del mehageiono, dell’interprete. Circa la discussione degli studiosi a proposito delle diverse funzioni e ruoli di queste figure, cito Bettiolo. Secondo Chabot, il «lettore» era «il professore incaricato dei corsi di canto liturgico», ma anche chi «insegnava il modo di recitare l’officio e, più generalmente, tutto quanto aveva rapporto con le funzioni corali». Scher aggiunge il rinvio a un più generico, preliminare insegnamento della lettura corretta delle Scritture: «Il lettore insegna ai suoi allievi a distinguere le proposizioni delle diverse frasi, ad alzare o abbassare la voce, prendendo le intonazioni richieste dal senso […]. Il lettore insegnava anche il canto ecclesiastico […] [e] l’arte della grammatica», dato che uno di loro è l’autore della più antica grammatica scritta in lingua siriaca, composta nella prima metà del VI secolo.10 Più problematico risulta il ruolo da attribuire nel processo formativo al mehageiono, che più sopra si è tradotto con «chi insegna i primi rudimenti della lettura». Vööbus, in modo ricapitolativo, indica una doppia funzione per questa figura: dato che la parola significa «colui che medita» e di qui, per influsso greco, «colui che insegna retorica», potrebbe designare un maestro di retorica, e dunque un insegnante che introduca, attraverso accurati esercizi (μελεταὶ), a quell’eloquenza ecclesiastica, a quell’arte di una ben costrutta omelia, di cui il testo Sulla fondazione delle scuole parla subito dopo, e di cui, come saggi scolastici, abbiamo numerosi esempi. Vi è tuttavia una seconda accezione del termine, più tecnica, secondo cui esso indicherebbe colui che insegna a leggere sillabando. In questo caso saremmo in presenza di una figura minore, incaricata di un insegnamento elementare, attestato con chiarezza in talune fonti e propedeutico al più complesso lavoro del «lettore» che
9 P. Bettiolo, «Scuola e ambienti intellettuali nelle chiese di Siria», in C. D’Ancona Costa (a cura di), Storia della filosofia nell’Islam medievale, Einaudi, Torino 2005, I, 66-67. 10 Ivi, 68.
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Davide Righi vedrebbe spostato il suo intervento a un momento successivo del corso degli studi.11
Dell’interprete invece si dice: L’interprete, ovvero colui cui veniva assegnato il compito dell’esegesi biblica, era il vero e proprio centro della «comunità», il Rabban, ovvero «il nostro maestro», semplicemente, come veniva chiamato nella scuola. La sua esemplare lettura dei testi ne forniva, in primo luogo, un commento propriamente «scientifico», sedimentato poi in scritti che avrebbero arricchito il successivo insegnamento; opere in cui si evidenzia «un interesse accentuato per il senso storico della Scrittura»: l’esegesi vi mira «a mettere in evidenza, fino al minimo dettaglio, ciò che è narrato nella Bibbia e a situare tutti i dati nel loro contesto» immediato, interno alla storia d’Israele, con un uso assai sobrio dell’allegoria, ovvero di quell’interpretazione che esalta la profezia messianica interna al cosiddetto Antico Testamento estendendola alla quasi totalità delle sue pericopi. Il suo magistero si estendeva, tuttavia, anche a esegesi o sintesi più integrate alla vita della comunità cristiana: credo si possano collocare a questo livello, a partire dal VI secolo, i cicli di esposizioni chiarificatrici delle ragioni delle grandi festività dell’anno liturgico, di cui abbiamo a un tempo numerose notizie e diversi testimoni, che costituiscono di fatto dei modelli per una predicazione, intelligente ma accessibile, capace di introdurre l’assemblea dei fedeli alla comprensione dei grandi temi della teologia siro-orientale.12
Tali dati ci confermano sul fatto che si trattasse sempre di un insegnamento centrato in modo preponderante proprio sulla sacra Scrittura, dove l’acquisizione delle nozioni basilari della scrittura e della lettura sfociava anche, e necessariamente, nella riflessione e nelle interpretazioni di quelle che le comunità religiose consideravano Scritture sacre. Edessa nel V secolo era una città dove, a detta di Segal, un giovane intelligente, tuttavia, poteva accedere a una delle accademie della città […]. Verso la metà del V secolo vi erano tre istituti a Edessa, la Scuola degli armeni, quella dei persiani e quella dei siriani; ciascuna così designata, probabilmente, a partire dall’appartenenza etnica dei membri del suo corpo insegnante.13
5. La
scuola di N isibi : progressi e sviluppi nella costituzione della scuola
Alla chiusura della scuola di Edessa nel 489, operata dal vescovo Ciro su ordine dell’imperatore Zeno, parte della comunità educante si trasferì di circa 200 chilometri a est e si stabilì nella città di Nisibi.
Ib. Ivi, 70-71. 13 J.B. Segal, Edessa. «The Blessed City», Clarendon Press, Oxford 1970, 150, citato in Bettiolo, «Scuole e ambienti», 63. 11 12
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Come sottolineato da Becker, le fonti sulle quali studiare la scuola di Nisibi sono principalmente tre: gli statuti della scuola, pubblicati da Vööbus a metà del secolo scorso,14 la Causa della fondazione delle scuole e la Storia ecclesiastica di Barhadbeshabbā, di cui Becker ha recentemente pubblicato in traduzione i testi.15 C’era però anche un’altra funzione, oltre a quelle citate, per la scuola di Edessa di cui le fonti della scuola di Nisibi parlano e che sarà una funzione sufficientemente chiara in essa: quella del badoqa. Badoqa significa «scrutatore», «ricercatore». Questa funzione sembra aver ricoperto una varietà di campi, diversi da quelli dell’istruzione elementare e dell’esegesi, quali «la storia; la geografia e l’astronomia». Un badoqa di nome Michele, ad esempio, compose scritti filosofici. Dunque, quell’articolazione del corpo docente che Narsai aveva promosso già al tempo dell’assunzione da parte sua del compito di interprete nella Scuola dei persiani a Edessa si accentua ulteriormente lungo il VI secolo, aprendosi a competenze affatto impreviste e per nulla irrilevanti in ordine ai modi in cui viene ridisegnato allora l’insegnamento delle stesse materie più tradizionali.16
La formazione di Narsai (399), che costituisce un tratto di unione tra la scuola di Edessa e la scuola di Nisibi, era incentrata sulla memorizzazione dei salmi e sulla lettura delle sacre Scritture. Questo modello, nel V secolo, doveva essere un modello non solo caratteristico dei centri più consistenti, ma ormai un modello sufficientemente diffuso anche nei piccoli villaggi di provincia.17 Come segnala Bettiolo, a partire dalla vita di Alessandro l’acemeta, del VI secolo, si possono desumere diverse informazioni sulla capillarità di un sistema di istruzione già diffuso e consolidato in Siria nel V secolo, quando, parlando di Rabbula, si dice che «già da tempo il Signore aveva stabilito nella città scuole di lingua siriaca, e governatori ricchi, uomini influenti, capi delle città vicine, vi inviavano i loro figli per esservi educati».18 La scuola di Nisibi è stata oggetto di studi non solo di recente,19 e sono stati pubblicati anche gli statuti della scuola come precedentemente affermato. Bettiolo sottolinea il contesto nisibeno soprattutto evidenziando la contiguità tra cristianesimo e ambiente tannaitico nel IV secolo, testimoniata dalle dispute cristiano-giudaiche di Afraate. Accanto e parallelamente alla scuola di Nisibi e su modelli simili fiorirono nella Siria orientale numerose altre scuole.
14 A. Vööbus (a cura di), The Statutes of the School of Nisibis, Estonian Theological Society in Exile, Stockholm 1962. 15 Becker, Sources. 16 Bettiolo, «Scuole e ambienti», 72-73. 17 Ivi, 55-57. 18 Ivi, 65. 19 Becker, Sources.
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Davide Righi Fiorirono nella Mesopotamia del VI e VII secolo altre istituzioni accademiche, tra le quali spicca la scuola «patriarcale» di Seleucia-Ctesifonte – nota in età araba come scuola di al-Madāʾin – voluta o restaurata dal patriarca Mar Aba I alla fine degli anni ’30 del VI secolo […]. Una vasta rete del sapere, di cui rimangono visibili solo poche maglie, doveva connettere i centri maggiori della cristianità siro-persiana, una rete che deve aver saputo sopravvivere anche all’invasione araba.20
Non possiamo qui fermarci su queste scuole, sia su quelle indipendenti dai centri monastici, sia su quelle monastiche riguardo le quali è apparso uno studio di Becker.21 Si deve notare però quanto egli affermava: Il problema nel volgersi alle scuole indipendenti è quello che in alcune fonti non è chiaro se una città avesse una scuola o fosse semplicemente un centro di istruzione dove docenti e studenti si radunavano dai dintorni. Un problema simile esiste per le scuole monastiche: nonostante esse siano attestate in modo migliore rispetto alle scuole indipendenti, spesso non è chiaro cosa intendano le fonti quando dicono che c’era una «scuola» in un monastero. Per esempio, come dobbiamo considerare una fonte che si riferisce a una scuola e a un uomo della scuola [schoolman] presso il monastero di Salak? Lo scolasticismo nella tarda antichità ha proceduto spesso mano nella mano con una nuova forma di alfabetizzazione e pertanto i monasteri spesso operavano come scuole sia che ci si riferisse ad essi in tale maniera sia che non lo si facesse.22
6. Babai
il musico e la sua riforma : con apertura alle scienze «profane»
Degna di nota e necessaria è la menzione dell’opera di Babai detto «il musico» e dell’opera di uniformazione delle diverse scuole che egli compì. Di Babai il musico ci informa Tommaso di Marga, che lo descrive come dottore versato sia nelle materie teoretiche così come nelle scienze profane, se lo definisce «padre di dottori e maestro di sapienti». L’azione di Babai sembra corrispondere alla necessità di serrare i ranghi della Chiesa nell’Iraq settentrionale, garantendo sotto il profilo liturgico e scolastico quella comunione interna che era condizione di una più netta profilatura identitaria, nella verosimile convinzione che da quei vivai che erano le scuole potessero sorgere quadri dirigenti capaci di accordare un qualche spazio politico alla Chiesa.23
20 V. Berti, «La scuola di Bāšōš nella storia e nella cultura siro-orientale», in Righi (a cura di), La letteratura arabo-cristiana, 123-140, qui 128-129. 21 A.H. Becker, Fear of God and the Beginning of Wisdom. The School of Nisibis and the Development of Scholastic Culture in Late Antique Mesopotamia, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2006. 22 Ivi, 160-161. 23 Berti, «La scuola di Bāšōš», 132.
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Nonostante la sua apertura alle scienze profane, non sembra però che tali scienze profane e la loro distinzione dalle scienze religiose siano entrate nel curriculum delle scuole della Siria orientale ad opera di Babai, perché così scrive Becker: I due sforzi principali della carriera di Babai, (ri)forma delle scuole della Siria orientale e la riforma della musica della Chiesa della Siria orientale, non devono essere comprese come distinte l’una dall’altra. Come abbiamo visto per la scuola di Nisibi […], lo studio presso la Chiesa siro-orientale era orientato liturgicamente.24
7. La
scuola di
BašŌš
Si impone all’attenzione degli studiosi un centro di istruzione di un piccolo villaggio sperduto nella diocesi siro-orientale di Marga, a nordest di Mossul, che però divenne una vera e propria fucina di intellettuali nella Siria dell’VIII secolo: la scuola di Bašōš. Come ricordato da Berti, dalle sue file furono formati Timoteo I, katolikòs della Chiesa di Persia dal 780 all’823, celebre per il suo dialogo con il califfo al-Mahdī avvenuto circa nel 781 in più riprese; Īšōʿ Bar Nūn di Bā Gabarrē, che fu insegnante, monaco e poi vescovo e patriarca dopo Timoteo; Abū Nūḥ al-Anbarī, segretario in gioventù del governatore di Mossul, Mūsa ibn Muṣʿab, poi segretario di Timoteo a Bagdad e che con Timoteo collaborò alla traduzione araba dei Topici di Aristotele; Mar Sergio, principale destinatario delle lettere di Timoteo e secondo successore alla direzione della scuola di Abramo Bar Dāšandād. Eletto da Timoteo I metropolita dell’Elam intorno al 795 d.C., sarà incaricato di dirigere la scuola teologica di Ğūndišapūr. Scrive infatti Berti: Colpisce che attori così importanti della storia «nestoriana» tra VIII e IX secolo provenissero tutti dalla stessa scuola, così come è sorprendente che questa, sita in un piccolo borgo del settentrione della Mesopotamia, sia stata scelta come luogo di formazione per i propri figli da alcune famiglie cristiane di buona estrazione che risiedevano ben lungi da lì. Timoteo era figlio di una nobile casata del Bet Begaš, all’estremo NE dell’Adiabene, mentre la famiglia di Abū Nūḥ proveniva da al-Anbar, a ovest di Baġdād. Siamo davanti a una scuola divenuta, in due generazioni, il centro più rilevante della cultura siro-orientale della regione di Mossul, tanto da venire attratta in quella stessa città, come vedremo, intorno agli anni ’70 dell’VIII secolo.25
Il «segreto» di tale scuola deve essere individuato non solo con la caratteristica, già acquisita nella scuola di Nisibi, di un rapporto stretto con il retaggio culturale greco e con «un’oculata opera di selezione, deco-
24 25
Becker, Fear of God, 165. Berti, «La scuola di Bāšōš», 126.
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Davide Righi
difica e ricollocazione culturale, declinata entro una sempre più chiara cornice teologica, che si stringeva attorno allo studio dell’opera, tradotta in siriaco, di Teodoro di Mopsuestia».26
8. Il
movimento di traduzione e l ’ apertura alle scienze e al loro sviluppo
A dimostrazione di quest’opera di selezione, decodifica e ricollocazione culturale, possiamo citare ciò che scriveva un musulmano all’amico cristiano, medico: «Tu, che ti sobbarchi un volume di Galeno, lo leggi e non ti annoi, lo apprendi bene e lo traduci»,27 riconoscendo all’amico non solo la capacità di approccio al patrimonio greco, ma anche quella di tradurre tale patrimonio culturale in arabo. La risposta dell’amico medico dimostra inoltre che, nella Bagdad del IX secolo, era cominciata la familiarizzazione con le opere filosofiche di area aristotelica, se il musulmano tenta di operare una dimostrazione (burhān) in materia religiosa e se l’amico gli risponde ricordandogli come avrebbe dovuto procedere nella formulazione del sillogismo citandogli le opere di Temistio, divulgatore di Aristotele. L’apertura alle scienze e al sapere profano e la distinzione tra le scienze profane e le scienze religiose deve aver trovato nella scuola di Nisibi e nello sviluppo delle scuole della Siria orientale delle premesse indispensabili, per lo meno nella conoscenza approfondita della lingua e per l’acquisizione del sapere trasmesso dalla grecità. L’apertura però alle scienze «profane», quali sono citate da Gutas, cioè astrologia, alchimia, e altre scienze occulte, le discipline del quadrivio: l’aritmetica, la geometria, l’astronomia, e la teoria musicale; tutti gli ambiti della filosofia aristotelica lungo tutta la sua tradizione storica: la metafisica, l’etica, la fisica, la zoologia, la botanica e in particolare la logica, l’Organon; tutte le scienze mediche: la medicina, la farmacologia, la veterinaria; numerosi generi letterari di minore importanza, ad esempio manuali bizantini di tecnica militare (tactica), raccolte popolari di detti di sapienti e ancora libri sulla falconeria…28
non è giustificabile sulle sole premesse di tali scuole siriache e come sviluppo di tali scuole, ma solo per una concomitanza di circostanze favorevoli che Gutas ha fatto oggetto del suo studio. Infatti egli scrive: L’isolamento politico e geografico dei bizantini fece da scudo, per queste comunità cristiane che vivevano sotto il dominio musulmano e per tutte le
Ivi, 127. Ibn al-MunaǦǦim – QusṬā Ibn Lūqā, Una corrispondenza islamo-cristiana sull’origine divina dell’Islam, introduzione, traduzione e note a cura di I. Zilio-Grandi, testo arabo, divisione e introduzione dell’editore a cura di S. Khalil Samir s.j., Zamorani, Torino 2003, 68. 28 Gutas, Pensiero greco e cultura araba, 4. 26 27
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Proposte e modelli educativi nella Chiesa siriaca tra VI e IX secolo altre popolazioni ellenizzate all’interno della confederazione islamica, rispetto all’oscurantismo e al rifiuto dell’ellenismo in cui era scivolata Bisanzio nel VII e nell’VIII secolo. Mentre i cristiani di Calcedonia discutevano delle icone e facevano a gara gli uni con gli altri nel ripudiare la tradizione pagana, i cristiani di lingua siriaca che, dopo le conquiste arabe, oltre a essere separati dottrinalmente dai cristiani di Calcedonia, se ne ritrovavano anche politicamente separati, si svilupparono secondo differenti modelli culturali. Il sapere greco era a quel tempo già stato completamente assimilato da queste persone di madrelingua siriaca ed era saldamente radicato nei maggiori centri del cristianesimo orientale per tutta la mezzaluna fertile.29
A sostegno di ciò, oltre a diverse informazioni sui centri culturalmente depositari del sapere greco, Gutas cita un passo di Ḥunayn ibn Isḥāq che dà una diretta testimonianza della trasmissione del sapere medico nelle scuole mediche di Bagdad: [I membri della scuola medica di Alessandria] si riunivano ogni giorno per leggere e studiare un testo importante tra quelli [le opere di Galeno] esattamente come i nostri colleghi cristiani di oggi si incontrano ogni giorno in luoghi di insegnamento conosciuti come schole per [lo studio di] un importante testo degli antichi. Quanto agli altri testi essi erano soliti leggerli individualmente – ognuno per conto proprio, dopo aver acquisito familiarità con quelli che ho menzionato – esattamente come i nostri colleghi oggi leggono i commentari dei testi degli antichi.30
9. Conclusioni All’amico musulmano che lo aveva spronato a confutare la propria dimostrazione della profezia di Muhammad, Qusṭā Ibn Lūqā scrive: Sia lode a Dio. Verso di Lui va il nostro desiderio affinché illumini quel che ci è stato richiesto e domandato con insistenza per quella sapienza che abbiamo, insieme al riconoscimento della sua validità. È Lui che ci ha fatto parlare di questo e agire così. Lo supplichiamo di accoglierci tra quelli del Suo Regno, tra i Suoi prescelti e tra coloro che Egli ama, nella Sua grazia, nella Sua misericordia e nella Sua indulgenza. Amen.31
Questa familiarità e questo confronto intellettuale tra amici cristiani e musulmani dediti alla scienza (Ibn al-Munaǧǧim aveva indirizzato la medesima dimostrazione, oltre che a Qusṭa ibn Lūqā, anche a Hunayn ibn Isḥāq), possono essere considerati il frutto di un sistema scolastico di lunga tradizione, ma soprattutto il frutto della consapevolezza raggiunta in ambito siriaco nell’VIII-IX secolo che fosse necessaria la coltivazione dell’uomo per ciò che riguarda la Scienza (con la «S» maiuscola) al di là di ogni appartenenza religiosa. Tale scienza non escludeva né il sapere
Ivi, 18. Ivi, 19-20. 31 Ibn al-MunaǦǦim – QusṬā Ibn Lūqā, Una corrispondenza islamo-cristiana. 29 30
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Davide Righi
profano identificandosi tout court con la scienza e la scrittura rivelata, ma nemmeno escludeva la fede in nome di un sapere umano che volesse prescindere dal riconoscimento di Dio nel disprezzo delle diverse tradizioni religiose che avevano popolato quei territori e che tutte pretendevano per se stesse il crisma della verità e dell’autenticità.
Bibliografia Amata B., «Scuola», in A. Di Berardino (a cura di), Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Genova-Milano 22008, 48174818. Becker A.H., Fear of God and the Beginning of Wisdom. The School of Nisibis and the Development of Scholastic Culture in Late Antique Mesopotamia, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2006. —, Sources for the History of the School of Nisibis, Liverpool University Press, Liverpool 2008. Berti V., «La scuola di Bāšōš nella storia e nella cultura siro-orientale», in D. Righi (a cura di), La letteratura arabo-cristiana e le scienze nel periodo abbaside (750-1250 d.C.). Atti del 2º convegno di studi arabo-cristiani (Roma, 9-10 marzo 2007), Zamorani, Torino 2008, 123-140. Bettiolo P., «Scuole e ambienti intellettuali nelle chiese di Siria», in C. D’Ancona Costa (a cura di), Storia della filosofia nell’Islam medievale, Einaudi, Torino 2005, I, 48-100. Gutas D., Pensiero greco e cultura araba, a cura di C. D’Ancona Costa, Einaudi, Torino 2002. Ibn al-MunaǦǦim – QusṬĀ Ibn Lūqā, Una corrispondenza islamo-cristiana sull’origine divina dell’Islam, introduzione, traduzione e note a cura di I. Zilio-Grandi, testo arabo, divisione e introduzione dell’editore a cura di S. Khalil Samir s.j., Zamorani, Torino 2003. Vööbus A. (a cura di), The Statutes of the School of Nisibis, Estonian Theological Society in Exile, Stockholm 1962.
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La ricerca della sapienza e della vita nel XII secolo: la proposta della scuola di San Vittore
Fabrizio Mandreoli
1. Introduzione Al centro della nostra riflessione è la rilettura di un’opera della prima parte del XII secolo: il Didascalicon di Ugo di San Vittore, maestro dell’omonima scuola. L’opera, forse sconosciuta al grande pubblico, è di grande rilievo nello sviluppo del pensiero medievale e negli ultimi sessant’anni è stata edita, tradotta,1 studiata e commentata con un interesse crescente. Qui non riproponiamo una presentazione dell’opera che, tra l’altro, è stata già compiuta in diversi contesti e in maniera del tutto qualificata;2 cercheremo piuttosto di evidenziare alcune istanze e dinamiche che possono, in qualche maniera, corrispondere al nostro interrogativo su come e perché si evolve, in un determinato periodo, la tradizione educativa nel cristianesimo europeo occidentale. Il nostro intervento si struttura in base ad alcune domande elementari: dove e quando nasce il Didascalicon, perché interrogarlo oggi, cosa è e cosa si propone e come si esercita il legere e la lectio biblica. A queste domande orientative aggiungiamo alcune ipotesi conclusive.
2. Il
contesto : dove e quando nasce il D idascalicon
Siamo negli anni Venti del 1100 a Parigi. La città è in fermento politico, civile e culturale. Il regno di Luigi VI si assesta e si consolida politi-
1 Cf. Hugues de Saint-Victor, L’art de lire. Didascalicon, introduction, traduction et notes par M. Lemoine, Cerf, Paris 1991. 2 Cf. ad esempio J. Châtillon, «Le Didascalicon de Hugues de Saint Victor», in Id., Le mouvement canonial au moyen âge. Réforme de l’Église, spiritualité et culture, a cura di P. Sicard, Brepols, Paris-Turnhout 1992, 403-418.
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camente e Parigi diviene la sua capitale.3 La città è una sorta di immenso cantiere che vede la costruzione di cattedrali imponenti.4 La produzione agricola migliora in quantità e qualità e le reti commerciali si allargano. Nello stesso Didascalicon vi sono segnali eloquenti di tale crescita e valutazione positiva delle attività umane come quando, ad esempio, il Vittorino parla del commercio che «unisce i popoli, placa le guerre, rafforza la pace, rende comune ciò che è privato».5 Innumerevoli sono, poi, le metafore che Ugo prende dal mondo urbano6 delle costruzioni, della progettazione e dell’edilizia.7 Si assiste inoltre alla nascita e crescita delle scuole che daranno origine a una delle più importanti università europee con la presenza di maestri, come Anselmo di Laon e Abelardo, capaci di influire significativamente sul pensiero teologico e filosofico. Lo storico Richard William Southern tratteggia lo sviluppo delle istituzioni formative a Parigi nel XII e XIII secolo descrivendo la città come «the Scholastic metropolis of northern Europe».8 In tale contesto, la scuola di San Vittore si sviluppa a partire dalla seconda decade del 1100 nell’omonima abbazia collocata sulla riva sinistra della Senna, facendo parte del movimento di riforma canonicale. Essa prende vita come un’esperienza di preghiera liturgica, studio e predicazione nel quadro di una vita canonicale che si pensa, al contempo, come una «schola Christi» e come ricerca di una vita «ad instar primitivae Ecclesiae». Nel 1125 viene fatta propria dall’abbazia di San Vittore la regola di sant’Agostino, che serve come riferimento primario per l’impostazione sia di vita – la forma vivendi – sia intellettuale – la forma intelligendi.9 Qui vive e lavora Ugo, un maestro che arriva a Parigi non privo di un proprio bagaglio culturale ed ecclesiale. Egli si trasferisce infatti dalle comunità canonicali della Sassonia, comunità molto coinvolte nel movimento di riforma, istituzionale e morale, della Chiesa.10 Egli viene considerato il fondatore intellettuale e spirituale di San
3 Cf. B.T. Coolman, The Theology of Hugh of St. Victor. An Interpretation, Cambridge University Press, Cambridge 2010, 1-2. 4 Cf. M. Fassler, Gothic Song: Victorine Sequences and Augustinian Reform in Twelfth-Century Paris, Cambridge University Press, Cambridge 1993. 5 «Huius studium gentes conciliat, bella sedat, pacem firmat, et privata bona ad comune usum omnium immutat» (Hugo de Sancto Victore, Didascalicon II, 23, in Hugonis de Sancto Victore Didascalicon de Studio Legendi. A Critical Text, a cura di C.H. Buttimer, The Catholic University press, Washington 1939, 41). 6 Cf. P. Sicard, «L’urbanisme de la Cité de Dieu: constructions et architectures dans la pensée théologique du XIIe siècle», in Id., Théologies victorines. Études d’histoire doctrinale médiévale et contemporaine, Parole et silence, Paris 2008, 31-56. 7 Cf. Hugo de Sancto Victore, Didascalicon VI,4, 201-203. 8 R.W. Southern (a cura di), Scholastic Humanism and the Unification of Europe, 1: Foundations: The Scholastic Metropolis of Northern Europe, 2 voll., Blackwell, Oxford 1995, 198-233. 9 Cf. J. Châtillon, «La spiritualité de l’ordre canonial (VIIIe-XIIIe siècle)», in Id., Le mouvement canonial au moyen âge, 131-149. 10 Cf. R. Berndt, «The Writings of Hugh of St. Victor: An Author and His Contexts», in Centro italiano di studi sull’alto medioevo [CISAM] (a cura di), Ugo di San Vittore. Atti
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Vittore. Attraverso la sua riflessione e il suo insegnamento – che ha una caratteristica programmatica – fa compiere alla scuola e alla vita dell’abbazia un balzo qualitativo. Il suo prestigio è tale che viene descritto dai contemporanei come un nuovo Agostino,11 e il suo pensiero influenza in profondità diversi autori del XII secolo tra cui Pietro Lombardo e con lui tutta la nascente riflessione scolastica. Ugo imposta intellettualmente la scuola di San Vittore e per più di un secolo la scuola ha un irraggiamento largo e profondo. Anche i recenti studi sulla tradizione manoscritta delle opere del magister Ugo mostrano l’autorevolezza da lui acquisita e che perdura anche nei tempi in cui, con lo sviluppo della tradizione teologica scolastica e della riflessione dei nuovi ordini mendicanti, la proposta della scuola di San Vittore perde in capacità di convocazione.12
3. Perché interrogare il D idascalicon ?
oggi
I motivi per cui possiamo rivolgerci al Didascalicon e all’opera di San Vittore in questo contesto che si interroga sullo sviluppo della riflessione formativa del cristianesimo sono molteplici. Ne abbiamo rinvenuti quattro. 1. Il Didascalicon propone una visione su come formare degli studenti alle scienze profane e religiose. Esso fa parte di un progetto di formazione enciclopedico e integrale, in cui l’attenzione ampia al sapere nei suoi vari campi e diramazioni si coniuga con un’attenzione precisa al lector che deve incamminarsi e crescere sulle vie della sapienza. L’opera fondamentale e pioneristica di Roger Baron ha sottolineato, da tempo, che quando si parla di sapere – di scientia –, questo non può mai essere separato da una dimensione sapienziale. Per cui la formazione intellettuale possiede sempre un’attenzione specifica alla formazione dell’interiorità, dell’agire e della virtù. Anche se Ugo dedica un testo specificatamente all’ascesi e alla vita del giovane canonico, il De institutione novitiorum, l’attenzione all’intero dell’umano, alla vita dell’uomo credente non è mai assente nel Didascalicon. Qui è importante sottolineare che la riflessione di Ugo mette a tema in maniera esplicita la problematica «pedagogica»13 del trasmettere il sapere e la vita, e lo fa con una propria originalità e genialità.14
del XLVII Convegno storico internazionale (Todi, 10-12 ottobre 2010), Fondazione CISAM, Spoleto 2011, 3-6. 11 Cf. D. Poirel, «“Alter Augustinus – Der Zweite Augustinus”: Hugo von Sankt Viktor und die Väter der Kirche», in J. Arnold – R. Berndt – R.M.W. Stammberger (a cura di), Väter der Kirche: ekklesiales Denken von den Anfängen bis in die Neuzeit. Festgabe für H.J. Sieben SJ zum 70. Geburtstag, Schöning, Paderborn 2004, 643-648. 12 Cf. Berndt, «The Writings of Hugh of St. Victor», 17-20. 13 Cf. P. Rorem, Hugh of Saint Victor, Oxford University Press, Oxford 2009, 15-37. 14 Cf. D. Poirel, «Formarsi secondo Ugo di San Vittore», in CISAM (a cura di), Ugo di San Vittore, 33-65.
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2. Il Didascalicon non è solo uno dei testi fondatori della scuola di San Vittore, ma si configura come un punto di sintesi della tradizione cristiana sui temi della formazione, della classificazione enciclopedica del sapere, della lettura e dell’insegnamento. Alcuni anni dopo, Bonaventura afferma nelle sue Collationes: «Si vis ad plenum scire studendi modum, lege librum Hugonis Didascalicon».15 Esso fa parte di una sorta di movimento complessivo della prima parte del XII secolo che si caratterizza nello «sforzo di raccogliere, organizzare e armonizzare l’eredità del passato cristiano nel campo del diritto canonico, della dottrina teologica e della sacra Scrittura».16 In tal senso possono essere ricordati il Decretum di Graziano, le Sententiae di Pier Lombardo e la Glossa ordinaria, che rimangono, sino almeno alla Riforma, i principali manuali per la formazione di base dei chierici. Lo stesso Didascalicon resta a lungo un testo di riferimento per la formazione intellettuale e spirituale. È significativo che, in un’altra temperie culturale e spirituale, un autore come Jean Mauburne – che visse alla fine del 1400 e partecipò anche alla celebre scuola dei Fratelli della vita comune di Utrecht – nel suo trattato Rosetum exercitiorum spiritualium del 1494, un libro capitale per la diffusione della spiritualità della devotio moderna, citi con grande abbondanza intere sezioni del Didascalicon del «maestro Ugo di San Vittore».17 Il testo è, quindi, interessante perché mostra, da un lato, uno dei tratti pedagogici di fondo dell’opera della scuola di San Vittore e, dall’altro, segnala, in maniera autorevole e influente, una tappa dello sviluppo della tradizione formativa cristiana nell’Occidente europeo. 3. Un terzo elemento di interesse viene dal contesto in cui avviene la composizione dell’opera. Abbiamo già fatto cenno che il XII secolo viene descritto come un’epoca di rinascimento, di risveglio e renovatio della società europea.18 Ugo nel Didascalicon si pone precisamente in questo snodo. Egli non semplicemente ripropone la tradizione delle scuole monastiche o dell’epoca carolingia, i trattati formativi dell’epoca romana o le opere di Agostino come il De magistro o il De doctrina christiana. Egli conosce con precisione tali opere, le cita esplicitamente o implicitamente in innumerevoli passaggi. Ma non fa solo questo. Ugo rilegge la propria tradizione di riferimento in un contesto nuovo. Laddove l’urbanizzazione, l’espansione economica, il movimento che porterà alla crescita delle università, quella che è stata chiamata la rivoluzione papale non sono solo dei muti scenari, ma il tessuto vivo e l’ambito della sua rifles-
15 Bonaventura, Collationes in Hexaëmeron et Bonaventuriana quaedam selecta ad fidem Codd. Mss., Visio III, Collatio VII, 19, edidit F. Delorme, Ex Typ. Collegii S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas 1934, 219. 16 I. Illich, Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Cortina, Milano 1994, 43-44. 17 J. Mauburne, «Analisi della lettura», in L. Coco (a cura di), La lettura spirituale. Scrittori cristiani tra Medioevo ed età moderna, Sylvestre Bonnard, Milano 2005, 142. 18 Cf. G. Constable et al. (a cura di), Il secolo XII: la «renovatio» dell’Europa cristiana, il Mulino, Bologna 2003, e G. Constable, The Reformation of the Twelfth Century, Cambridge University Press, Cambridge 1996.
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sione.19 Tale nuovo contesto comporta la nascita di nuove sensibilità e nuove problematiche. La vita urbana cambia molti quadri di riferimento. Gli stessi canonici regolari non sono pienamente comprensibili se non in tale quadro di crescente urbanizzazione.20 Il mondo canonicale è così impregnato di questo senso da essere un modo, non ovvio e consueto, di rispondere alle questioni e alle condizioni del proprio tempo. Si ripensa la storia come capace di novità proprio in ragione della novità che si rappresenta come forma di vita canonicale. In Anselmo di Havelberg si mostra la consapevolezza che, almeno in una certa forma, si costituisce, come canonici, una novità nelle modalità di vita religiosa nella Chiesa e questo richiede una spiegazione adeguata. Diventa importante mostrare il principio che la tradizione può portare cose nuove e che la Chiesa le può accogliere con frutto. Per la nostra riflessione Ugo è interessante anche per questo motivo: è capace di tale rilettura della tradizione, soprattutto di quella agostiniana, all’interno di un quadro profondamente differente. Vi è chi ha parlato, con termini significativi, di Ugo come del protagonista di una sorta di «aggiornamento agostiniano».21 4. Un quarto elemento può essere evidenziato se si colloca l’impresa formativa di Ugo di San Vittore all’interno di una trama storica sui tempi lunghi. Il tema è complesso. Ci interroghiamo infatti sui modelli di educazione e formazione di un pensatore centrale della prima metà del XII secolo. Si tratta di studiare la questione dell’educazione nel quadro della storia dell’Europa occidentale, in un periodo – nel passaggio tra l’XI e il XII secolo – in cui inizia, per molti studiosi, una sorta di processo di differenziazione e di osmosi tra la Chiesa nella storia e le istituzioni del potere politico (i regni, i comuni o borghi, l’impero, gli stati nazionali). Si tratta di quel movimento innescato dalla riforma gregoriana che imprime una sorta di dualismo fondamentale – tra istituzioni ecclesiastiche e civili, tra sacro e profano, tra autorità religiosa e politica – alla storia delle istituzioni occidentali. In tale processo, molto articolato, la politica e la Chiesa si influenzano a vicenda in una sorta di osmosi continua. La politica tende ad assumere dal cristianesimo vissuto varie istanze. Tra le quali vanno ricordati i modelli e le pratiche delle Chiese che hanno come finalità il modellamento dell’uomo e che lo Stato moderno assume come propri. Si parla in proposito di «Verkirchligung der Politik».22 Il mondo della politica
19 Cf. M.-D. Chenu, «Civilisation urbaine et théologie. L’École de Saint-Victor au XIIe siècle», in Annales. Economies, societies, civilization 29(1974)5, 1253-1263. 20 «In contrast to the forms of Benedictine monasticism, for example, new forms of religious life sprang up, especially the orders of canons regular, which reflected urban life. Where traditional thinkers like Rupert of Deutz and Bernard of Clairvaux saw in the city the image of the “world” in all its fallenness, for the new form of religious life, like the canons regular, the image of the city became paradigmatic of ideal human community» (Coolman, The Theology of Hugh of St. Victor, 3). 21 Berndt, «The Writings of Hugh of St. Victor», 11. 22 Cf. P. Prodi, «Konkurrierende Mächte: Verstaatlichung kirchlicher Macht und Verkirchlichung der Politik», in P. Blickle – R. Schlögl (a cura di), Die Säkularisation im
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tende ad assomigliare alla Chiesa. Il nascente Stato moderno acquisisce, progressivamente e per una sorta di osmosi, dalla vita ecclesiale l’esigenza non solo di disciplinare i corpi, ma anche il bisogno di formare le convinzioni interiori, di plasmare le coscienze, di educare i cittadini. Nello stesso processo, in maniera speculare, la Chiesa tende, ad esempio, ad assorbire al proprio interno una struttura istituzionale e giuridica modellata sugli assetti del potere temporale. Parlare del tema della formazione in un periodo così germinale e creativo – a livello pedagogico, istituzionale e spirituale – significa fare un’opera «archeologica» su questioni che hanno inciso fortemente sulla storia europea, non solo su quella medievale.
4. Il Didascalicon
come ricerca della sapienza e della vita
Per seguire le domande che organizzano la nostra riflessione ci chiediamo: cos’è il Didascalicon? Cosa significa il suo titolo e quindi qual è la finalità dell’opera? Il titolo del Didascalicon ha fatto discutere. Il tema introdotto dalla parola di origine greca è specificato dall’espressione De studio legendi. Espressione che va ben compresa. Infatti, intendere la parola lectio e il corrispondente verbo legere solo nel senso moderno di lettura è un’interpretazione insufficiente. La lectio qui non riguarda soltanto i libri, ma ogni realtà, ogni oggetto conoscibile. La lectio è la prima tappa – fondamentale – di un processo di crescita intellettuale e spirituale che dovrebbe giungere alla contemplazione. Non solo: la lectio non è un atto di solo apprendimento, ma anche di insegnamento. Ugo lo afferma quando sostiene che sono tre i modi del leggere: per opera del maestro, dello studente o nell’intimità: «Trimodum est lectionis genus: docentis, discentis, vel per inspicientis. Dicimus enim: “lego librum illi” et “lego librum ab illo” et “lego librum”».23 Si tratta, quindi, della lettura data dal maestro, di quella ricevuta dallo studente e si termina con la lettura del singolo. Il Didascalicon è al contempo una trattazione sull’arte di leggere, di apprendere e di insegnare. Ciò che viene detto vale, anche se in posizioni diverse, per lo studente e per colui che insegna. L’altro termine presente nel titolo – studium – ha anch’esso una propria ricchezza di significati. Esso esprime certo l’attività propria della ricerca intellettuale e dell’interpretazione, ma vuole indicare un esercizio che coinvolge la vita intera. Afferma in proposito Ivan Illich: «Lo studium legendi forma il monaco nella sua totalità e la lettura diverrà perfetta man mano che il monaco si applicherà a perseguire, e infine raggiungerà la perfezione». In tal senso lo studium è motivato da una ricerca che è, in definitiva, quella della vita. La prima frase dell’opera è, da questo punto di vista, efficace nel mostrare la prospettiva totalizzante
Prozess der Säkularisierung Europas, Biblioteca Academica, Espendorf 2005, 21-36. 23 Hugo de Sancto Victore, Didascalicon III,7, 57-58.
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di tale studium del legere inteso come ricerca della sapienza e della vita: «Omnium expetendorum prima est sapientia, in qua perfectio boni forma consistit».24 Come traduce molto bene Jerome Taylor: «Of all things to be sought, the first is wisdom». La sapienza è, così, l’oggetto ultimo dello studium legendi. Essa esercita un’azione molteplice. Illumina su se stessi, sulla propria storia di bene e di peccato, sulle finalità della propria vita: La sapienza illumina l’uomo, perché conosca se stesso: l’uomo si credette simile agli altri esseri finché non capì che era stato creato superiore. L’anima immortale, illuminata dalla sapienza, osserva il suo principio e comprende quanto sia indegno cercare all’esterno di sé ciò che potrebbe bastarle. Sul tripode di Apollo si legge conosci te stesso.25
Fa trovare la forma del bene e permette all’uomo di essere riparato dopo il peccato: La dottrina ci ricrea (reparamur autem per doctrinam), per riconoscere la nostra natura, e allora impariamo a non cercare all’esterno ciò che possiamo trovare in noi. Il «sommo sollievo» della vita è lo studio della sapienza (studium sapientiae): felice chi la trova, beato chi la possiede.26
Essa è il principio originario e la ragione di tutto27 ed è bene che guidi e moderi le azioni degli uomini.28 Dalla riflessione complessiva di Ugo sappiamo che tale ricerca della sapienza si risolve in una ricerca della sapienza personale che è Gesù Cristo e della sua azione che dà una forma all’opera della creazione29 e a quella della redenzione.30 Il discorso vittorino sul tema della sapienza in relazione alla cristologia e alla visione complessiva della creazione e della redenzione è vasto e, ormai, ben studiato. Questi pochi accenni sono sufficienti per comprendere come la sapienza sia per lui da cercare in maniera prioritaria31 con amore e amicizia: «Est autem philosophia amor et studium et amicitia quodammodo sapientiae».32
Ivi I,1, 4. Ugo di San Vittore, Didascalicon: de studio legendi = dell’arte di leggere I,1, a cura di M. Sannelli, La Finestra, Lavis 2011, 5. 26 Ivi I,1, 9. 27 «Sola rerum primaeva ratio est» (Hugo de Sancto Victore, Didascalicon I,6, 11). 28 «Quia enim de studio sapientiae loqui suscepimus, idque solis hominibus quodam naturae privilegio competere attestati sumus, consequenter nunc omnium humanorum actuum moderatricem quandam sapientiam potuisse videmur» (ivi I,6, 10-11). 29 Cf. Coolman, The Theology of Hugh of St. Victor, 33-46. 30 Cf. ivi, 83-102. «Hugh finds this sapiential character in both the work of creation and the works of restoration, in both formation and reformation. In creation, in salvation history, and in the human soul, therefore Christ as wisdom is central to Hugh’s theology» (p. 102). 31 «Primum omnium Pytaghoras studium sapientiae philosophiam nuncupavit, maluitque philosophos dici, nam antea sophos, id est sapientes dicebantur. Pulchre quidem inquisitores veritatis non sapientes sed amatores sapientiae vocat, quia nimirum adeo latet omne verum, ut eius amore quantumlibet mens ardeat, quantumlibet ad eius inquisitionem assurgat, difficile tamen ipsam ut est veritatem comprehendere queat» (Hugo de Sancto Victore, Didascalicon I,2, 6). 32 Ib. 24 25
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Colui che si applica, con tutte le forze, alla lectio è guidato in profondità dalla ricerca di questa sapienza che, in definitiva, egli sente come amica.33 Per rispondere alla questione delle finalità del Didascalicon ricordiamo come Ugo nel libro primo dell’opera affermi: «Sotto la guida della sapienza, ogni azione umana ha due obiettivi: ricomporre l’integrità della nostra natura umana e moderare il dramma delle nostre necessità terrene». Dopo il peccato, l’uomo si trova in uno stato vulnerato: «Ecco il nostro impegno: la perfezione dell’origine deve essere ricostituita, il difetto deve essere eliminato»,34 e quindi bisogna lavorare per ristabilire l’integrità della natura umana: «Integritas vero naturae humanae duobus perficitur, scientia et virtute, quae nobis cum supernis set divinis substantiis similitudo sola est».35 La conoscenza e l’esercizio della virtù permettono all’uomo di recuperare, progressivamente, la forma della somiglianza divina. Tale prospettiva è più volte ribadita nel libro primo del Didascalicon, che presenta così il piano per conseguire concretamente la sapienza attraverso le azioni umane. Esse «devono dirigersi a un doppio fine: ripristinare la nostra somiglianza con l’immagine divina e provvedere alle necessità di questa vita», che è infatti «una vita che ha bisogno di grandissime cure».36 Le azioni dell’uomo sono quindi distinte in umane e divine: le prime curano l’uomo, lo nutrono, lo difendono; le seconde, attraverso la meditazione della verità e le virtù, ripristinano la sua vera natura. La sapienza riguarda tutte le azioni dell’uomo e quindi si occupa sia di quelle umane che di quelle divine: le prime si riferiscono alla conoscenza mechanica, le seconde alla intelligenza theorica e practica.37 La filosofia che ricerca la sapienza viene distinta rispettivamente in filosofia theorica, practica, mechanica. A queste tre si aggiunge la logica che, per Ugo di San Vittore, serve per un controllo vero e preciso del discorso, perché insegna il valore delle parole e dei concetti e fa sì che la ragione e il discorso si svolgano con un senso e alla ricerca della verità. Ne emerge un diagramma «ad albero», che qui di seguito rappresentiamo.38 Secondo alcuni autori esso rappresenta la forma specifica e la modalità propria di uno dei contributi epistemologici più
Cf. Illich, Nella vigna del testo, 25-26. Ugo di San Vittore, Didascalicon I,5, 17. 35 Hugo de Sancto Victore, Didascalicon I,5, 12. 36 Ugo di San Vittore, Didascalicon I,7, 23. 37 «Cum igitur ad reparandam naturam nostram intendimus, divina actio est, cum vero illi quod infirmum in nobis est necessaria providemus, humana. omnis igitur actio vel divina est vel humana. possumus autem non incongrue illam, eo quod de superioribus habeatur, intelligentiam appellare, hanc vero, quia de inferioribus habetur, et quasi quodam consilio indiget, scientiam vocare. si igitur sapientia, ut supra dictum est, cunctas quae ratione fiunt moderatur actiones, consequens est iam ut sapientiam has duas partes continere, id est, intelligentiam et scientiam dicamus. rursus intelligentia, quoniam et in investigazione veritatis et in morum consideratione laborat, eam in due species dividimus, in theoricam, id est, speculativam, et practicam, id est, activam, quae etiam etica, id est moralis appellatur. scientia vero, quia opera humana prosequitur, congrue mechanica, id est, adulterina vocatur» (Hugo de Sancto Victore, Didascalicon I,8, 15-16). 38 Cf. Poirel, «Formarsi secondo Ugo di San Vittore», 61. 33 34
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originali di Ugo di San Vittore e l’idea di fondo del suo progetto e prassi formativa.39 In questo caso, con tale schema, applicato alle suddivisioni della filosofia – intesa come ricerca della sapienza – egli riesce a mostrare, nello stesso tempo, l’unità e la ramificazione del conoscere. theologia
aritmetica
mathematica
musica
physica
geometria
theorica
astronomia ethica
practica
oeconomica
politica
lanificium philosophia armatura
navigatio mechanica agricultura
venatio
medicina
theatrica
grammatica
demonstratio
dissertiva
probabilis
logica
dialectica
rhetorica sophistica
39 «Cercando il cuore della formazione ugoniana abbiamo trovato un esercizio, la lectio; un metodo, la divisio; e sotto quest’esercizio e questo metodo, abbiamo trovato una forma molto semplice, ma che si presta alla massima complessità, quella dell’albero che fa crescere rami sempre più numerosi, a partire dal seme originario che, in un certo modo, lo contiene intero in partenza. Questa forma dinamica costituì, credo, il cuore della formazione ugoniana» (ivi, 59).
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Lo schema mostra con chiarezza il prospetto delle ramificazioni del sapere dell’uomo e le sue prospettive unitarie. Egli afferma alla conclusione del primo libro del Didascalicon: Ci sono solo quattro scienze (scientias) che comprendono tutte le altre, come loro parti: la teoretica, che indaga la verità (quae in speculatione veritatis laborat); la morale, che guarda alle norme dell’azione umana (quae morum disciplinam considerat); la meccanica, che regola le attività della vita terrena; infine la logica che insegna il modo di ragionare bene e di discutere sottilmente.40
Prima di passare a trattare «come» il Didascalicon intende proporre alcuni elementi metodologici fondamentali, conviene soffermarsi su un aspetto che lo schema ci mostra in maniera chiara. Nella prima parte dell’opera possiamo rilevare uno degli aspetti che più ha interessato gli interpreti. Si tratta dell’inserimento del sapere profano come parte integrale e non solo strumentale dell’educazione cristiana.41 Le scienze meccaniche e le competenze pratiche sono elevate a un grado di conoscenza del tutto qualificato.42 Le artes mechanicae si trovano collocate a pieno titolo nella lista dei saperi e si attira l’attenzione sullo statuto del labor e dei laboratores.43 Per alcuni, con tale inserimento sarebbe superata, in maniera iniziale, la distinzione tra scienze profane e quelle attinenti al sacro, e vi sarebbe una singolare valorizzazione della tecnologia umana come partecipe all’opera della creazione e della sua riparazione. Per altri lo spostamento della struttura di pensiero, rispetto ai modelli precedenti, non è così marcato. L’obiettivo primario della trattazione di Ugo non è descrivere il rapporto tra scienza profana e la scientia Dei, quanto piuttosto fornire un quadro coerente di tutto il sapere ripartito in ambiti tra loro connessi in modo da poter comprendere tutto ciò di cui si ha notizia ed è oggetto dello studio e dell’impegno umano, sino, quindi, a includere le artes mechanicae. Possiamo affermare che tale inserimento nel quadro globale del sapere, che fa capo alla filosofia, è comunque significativo. Esso attesta una nuova visione dell’attività umana. Pur con diverse sfumature, credo si possa sostenere che in Ugo vi sia una concezione positiva del sapere e dell’agire umano in tutte le sue dimensioni a condizione che il sapere e l’agire non perdano di vista il proprio fine: la riforma dell’uomo, immagine di Dio, e la cura della sua vita. Tale valorizzazione del sapere della tecnica e del lavoro umano va, infatti, inserita all’interno di un quadro e
Ugo di San Vittore, Didascalicon I,11, 15. Cf. G. Cremascoli, «Il Didascalicon di Ugo di San Vittore: organizzare e trasmettere il sapere», in CISAM (a cura di), Ugo di San Vittore, 339-357. 42 Hugo de Sancto Victore, Didascalicon II,20-27, 38-47. 43 Cf. M. Arnoux, «Hugues de Saint-Victor entre mystique et sociologie: réflexions sur le statut du travail dans le Didascalicon», in D. Poirel (a cura di), L’école de Saint-Victor. Influence et rayonnement du Moyen âge à la Renaissance, Brepols, Turnhout 2010, 227-244. 40 41
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di un itinerario che ha dei tratti enciclopedici e soprattutto spirituali: il fine delle arti e dei mestieri non è mai perso di vista da Ugo. Ma questo non significa che la concretezza e la specificità siano svalutate. Il lavoro e la vita hanno una loro densità che va pensata e trattata come tale, il sapere che vi si applica è da conoscere con attenzione. Com’è stato affermato, Ugo rimane un uomo immerso nei quadri mentali propri del mondo monastico,44 ma bisogna constatare che in lui scompaiono le sottolineature sulla vanità dell’impegno nella storia e sulla inutilità di una conoscenza vasta per lasciare il posto alla valorizzazione di un sapere tecnico – che nella storia è a servizio dell’uomo – e all’elogio di una conoscenza, certo, ordinata e finalizzata, ma dilatata perché desiderosa di sapere. Come afferma lo stesso Vittorino in una nota espressione del sesto libro: «Omnia disce, videbis postea nihil esse superfluum. Coartata scientia iucunda non est».45
5. L’esercizio
del legere e della lectio biblica
La nostra domanda – come si esercita il legere – corrisponde al quomodo legendi di cui parla il praefatio dell’opera. Il Vittorino propone, infatti, il proprio programma di lavoro per la formazione di coloro che si applicano nella lectio nei vari rami della filosofia in vista – lo ricordiamo – della cura dell’uomo e della reformatio della sua immagine. La suddivisione in due sezioni del Didascalicon corrisponde al desiderio di formare il lector artium e il divinum lector. La prima parte riguarda la lectio inerente agli scritti che portano a una conoscenza nei vari campi, mentre la seconda parte si concentra sulla lectio della sacra Scrittura. In entrambi i casi egli desidera mostrare cosa leggere, in quale ordine e in quale modo. Sono tre i precetti fondamentali della lectio: «Primum, ut sciat quisque quid legere debeat, secundum quo ordine legere debeat, tertium, quomodo legere debeat».46 Egli presenta la lista dei libri che conviene leggere per arrivare alla conoscenza, l’ordine, i metodi di lettura e d’interpretazione. Tale aspetto metodologico – e, come vedremo, etico – è per l’autore fondamentale e vi ritorna continuamente. Per meglio capire cosa intenda presentiamo, tra le molte, tre esemplificazioni presenti nel testo. Nel libro terzo egli sostiene l’importanza dello studio del trivio e del quadrivio per la formazione dei giovani.47 In tale quadro si chiede come mai molti degli antichi fossero sapienti, mentre nel tempo contempora-
Cf. Cremascoli, «Il Didascalicon di Ugo di San Vittore», 356. Hugo de Sancto Victore, Didascalicon VI,3, 115. 46 Ivi, Praefatio, 2. 47 Ivi III,3, 52-53. 44 45
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neo a Ugo vi siano molti studenti ma ben pochi sapienti: «Scholares vero nostri aut nolunt aut nesciunt modum congruum in discendo servare, et idcirco multos studentes, paucos sapientes invenimus».48 Oltre alla svalutazione dell’importanza fondamentale della memoria, per il Vittorino tale inconcludenza degli studi va ascritta al rifiuto da parte degli studenti della disciplina, ossia dell’osservanza di un metodo serio che permette di non sprecare energie su testi, in quel momento, inutili. Per non faticare invano egli mostra, così, come sia fondamentale capire cosa leggere e in che ordine. L’assenza di un metodo e di un ordine riguarda anche chi insegna ed è per lui un errore non meno grave. Si tratta dei maestri che «parlano di una cosa e le spiegano tutte» e aggiunge: «C’è di peggio, e da ridere: vedono il titolo di un trattato e parlano di tutto il contenuto, e dopo tre lezioni si passa all’incipit: questi eruditi non sono educatori, ma esibizionisti (non alios docent huiusmodi, sed ostentant suam scientiam)».49 Il problema di un modo disordinato di procedere che si disperde in molteplici sentieri coinvolge, dunque, anche chi dona la lectio ad altri. Un’ultima esemplificazione tocca l’aspetto etico della lectio. Ugo introduce tale tematica affermando che lo studio richiede tre requisiti: talento naturale, esercizio e disciplina. Dopo un commento attento alle prime due disposizioni con approfondimenti importanti sul nesso tra la lectio e la meditatio e sul fondamentale ruolo della memoria, egli tratta, per un’ampia sezione, della disciplina. In questa sezione l’intenzione di fondo è rimarcare il rapporto tra la vita di studio e il modo di vita. Se la lectio ha come obiettivo ultimo la riforma dell’uomo, risulta del tutto coerente con tale impostazione che la vita di studio sia in continuità con una vita buona caratterizzata dall’umiltà, dall’impegno e dall’amore per l’esercizio prolungato, dalla tranquillità di vita, dalla povertà, dalla coltivazione della dimensione interiore e, in taluni casi, esteriore del senso dell’esilio. L’aspetto intellettuale e quello etico sono sempre connessi e si influenzano a vicenda. Nella sua trattazione egli mostra, ad esempio, come l’umiltà divenga apertura intellettuale mentre l’orgoglio può portare a sostenere l’inutilità dell’esegesi, perché disprezza la fatica della ricerca umile. Oppure come la povertà e il senso dell’esilio rendano la mente più acuta e onesta nell’analisi delle questioni. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza, che diventa in tal modo la casa sospirata.50 Credo che, in proposito, si possa concordare con Ivan Illich quando afferma che «la lettura, per Ugo, è un’attività non tecnica ma morale».51
Ivi, Praefatio, 53. Ugo di San Vittore, Didascalicon III,5, 96-97. 50 Cf. Illich, Nella vigna del testo, 17. 51 Ivi, 74. 48 49
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In tale prospettiva metodologica credo che vadano inserite anche molte delle considerazioni che Ugo propone nella seconda parte della sua opera, quando tratta della lectio che si applica a quel tipo particolare di scrittura che è la divina Scriptura: Allievo (lector), attento, ti raccomando due cose: l’ordine e il metodo. Se darai importanza all’uno e all’altro, lo studio ti sarà più leggero. […] Ho già fatto notare che l’ordine nello studio ha quattro oggetti: le materie, i libri, la narrazione, il commento. Non ho ancora mostrato come l’ordine si debba osservare anche nella Bibbia.52
La trattazione si estende, dunque, per tre libri di cui il primo contiene un’introduzione alla Bibbia e una discussione sul canone e sul modo di intenderlo; il secondo contiene alcuni elementi di metodo tra cui l’enunciazione dei tre sensi della Scrittura, le sette regole dell’interpretazione biblica e alcune notazioni sul lettore della Bibbia; il terzo libro approfondisce il modo con cui comprendere e cercare i tre sensi fondamentali della Bibbia e ulteriori notazioni metodologiche. Questi tre libri del Didascalicon formano, insieme a diverse opere del Vittorino, come ad esempio il De scripturis et scriptoribus sacris oppure il Chronicon, una sorta di introduzione generale all’interpretazione biblica. Per lui le parole della Bibbia, a differenza di molte parole scritte nei libri dei filosofi, sono come «un favo di miele: asciutte e sobrie all’esterno, ma dolcissime all’interno». Esse vanno dunque «estratte» ossia indagate con attenzione metodologica. Da tale attenzione dipende, infatti, la possibilità che la lettura della Scrittura porti il frutto della reformatio nella vita del credente e della Chiesa. Dopo i fondamentali lavori di De Lubac e della Smalley molti autori si sono impegnati nello studiare le prospettive ermeneutiche di Ugo e del mondo vittorino. Gilbert Dahan, uno dei più importanti studiosi dell’interpretazione biblica medievale, individua almeno quattro dimensioni fondamentali della proposta metodologica di Ugo.53 Si tratta: a) dell’importanza attribuita alla lettera e alla dimensione storica all’interno del quadro del triplice senso;54 b) della prospettiva di matrice agostiniana che nella Bibbia non solo le parole ma anche le cose hanno un significato;55 c) della necessità di conoscere le scienze profane per una corretta interpretazione biblica; d) dell’importanza metodologica di una corretta comprensione del canone biblico.56 In questo nostro intervento credo sia utile soffermarsi su almeno tre aspetti della prospettiva ermeneutica complessiva di Ugo.
Ugo di San Vittore, Didascalicon VI,1, 193. Cf. G. Dahan, «L’influence des victorins dans l’exégèse de la Bible jusqu’à la fin du XIIIe siècle», in Poirel (a cura di), L’école de Saint-Victor de Paris, 155. 54 Ugo di San Vittore, Didascalicon V,2, 160-163. 55 Ivi V,3, 162-165. 56 Ivi IV,2-16, 127-157. 52 53
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5.1. Il
senso letterale e storico
Tra i vari livelli interpretativi della Bibbia che permettono di comprendere la Bibbia come un’unità che al suo interno possiede diverse differenziazioni, la prima prospettiva ermeneutica consiste nella valorizzazione della lettera e della storia. La Bibbia è parola di Dio, ma questo non significa che la sua struttura non sia composita e non richieda da parte del lettore un profondo sforzo interpretativo e una grande attenzione nel comprendere il livello ermeneutico cui porsi.57 In tale quadro, la dimensione letterale e storica è per lui fondamentale e segna in profondità la Bibbia. Per Ugo, Mosè fu il primo che scrisse una storia sacra. Uno dei tratti che distingue le Scritture divine rispetto alle altre scritture, anche quelle teologiche, è la presenza della storia: Quando scorriamo i libri del vecchio e del nuovo testamento, vediamo che parlano quasi sempre della vita terrena e della storia del mondo (de praesentis vitae statu et rebus in tempore gestis); è raro trovarvi idee eloquenti sulla bellezza dei beni eterni e sulla felicità dopo la vita.58
Il lettore della Bibbia deve in primo luogo applicarsi alla storia: Prius historiam discas et rerum gestarum veritatem, a principio repetens usque ad finem qui gestum sit, quando gestum sit, ubi gestum sit, et a quibus gestum sit, diligenter memoriae commendes. Haec enim quattuor praecipue in historia requirenda sunt, persona, negotium, tempus, locus.59
La storia – per Ugo – è in riferimento sia alla fattualità degli eventi che alla dimensione letterale. Senza storia e senza lettera, le altre interpretazioni, quella allegorica e quella morale, non sono sostenibili, nel senso che non hanno una base solida: «Neque ego te perfecte subtilem posse fieri puto in allegoria, nisi prius fundatus fueris in historia».60 Chi non è attento alla dimensione storica e letterale è paragonato a un grammatico che non ha voluto imparare l’alfabeto. Ugo è, in proposito, molto severo con coloro che «vogliono fare subito i filosofi». La loro scienza è scienza d’asino – «quorum scientia formae asini similis est» – in quanto non si
57 «Primum omnium sciendum est, quod divina Scriptura triplicem habet modum intelligendi, id est historiam, allegoriam, tropologiam. sane non omnia quae in divino reperiuntur eloquio ad hanc intorquenda sunt interpretationem, ut singula historiam, allegoriam et tropologiam simul continere credantur. quod etsi in multis congrue assignari possit, ubique tamen observare aut difficile est aut impossibile. […] sic et mel in favo gratius, et quid maiori exercitio quaeritur, maiori etiam desiderio invenitur. oportet ergo sic tractare divinam scripturam, ut nec ubique historiam, nec ubique allegoriam, nec ubique quaeramus tropologiam, sed singula in suis locis, prout ratio postulat, competenter assignare. saepe tamen in una eademque littera omnia simul reperiri possunt, sicut historiae veritas et mysticum aliquid per allegoriam insinuet, et quid agendum sit pariter per tropologiam demonstret» (Hugo de Sancto Victore, Didascalicon V,2, 160). 58 Ugo di San Vittore, Didascalicon IV,1, 124-125. 59 Hugo de Sancto Victore, Didascalicon VI,3, 113-114. 60 Ivi VI,3, 113-114.
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appoggia su niente. L’attenzione alle vicende storiche, alla filologia, alla cronologia e alla geografia produce una riflessione fondata che non tralascia i passaggi necessari nella costruzione dell’edificio dell’interpretazione biblica. Afferma Ugo: Come un edificio senza fondamenta non può essere stabile, e lo vedi, così la dottrina. La lettura è la base della dottrina cristiana: dalla storia si distilla e si estrae il vero significato allegorico, come il miele si estrae dal favo. […] nella tua costruzione dovrai mettere alla base l’esegesi storica, e poi alzerai la struttura grazie all’allegoria, così edificherai nella tua mente il castello della fede (in arcem fidei fabricam mentis erige); alla fine con l’interpretazione morale, potrai ornare la casa, come se la dipingessi all’esterno con i colori più brillanti.61
Tale dimensione è fondamentale nel pensiero di Ugo: dà un’impronta del tutto particolare al modo vittorino di leggere la divina Scrittura e struttura anche la riflessione più propriamente «sistematica». Nel prologo del De Sacramentis christianae fidei Ugo indica che vuole dedicarsi, dopo un’adeguata conoscenza della storia, alla secunda lectio, ossia alla lettura allegorica per dare una base sicura alla conoscenza della fede. Il Vittorino desidera fornire al lettore della Scrittura, ormai esperto della storia, una conoscenza della lettura allegorica in modo tale che egli si orienti nella lettura della Bibbia attraverso una intentio e un ordine. Nel De Sacramentis egli desidera non solo dare elementi per praticare correttamente la lectio allegorica, quanto piuttosto una struttura di fondo che possa servire da mappa orientatrice in tale lettura. Per fare questo lavoro Ugo presenta, in maniera programmatica, la materia della Scrittura e il modo con cui essa viene trattata. Egli afferma che la materia della Scrittura sono le due opere della restaurazione umana: l’opera della creazione nella quale sono state fatte le cose che ancora non erano e l’opera della restaurazione con la quale sono state riparate in meglio le cose che venivano meno. L’opera della creazione riguarda la creazione del mondo e dei suoi elementi, mentre la restaurazione riguarda l’incarnazione del Verbo con i sacramenti a essa collegata, sia quelli precedenti che quelli susseguenti. L’opera della creazione del mondo avviene in sei giorni, l’opera della restaurazione in sei età. In tale descrizione l’autore mostra il piano della Scrittura e, in relazione a questa, il piano del De Sacramentis. Ugo, certo, non compie un’operazione del tutto nuova, ma in lui si assiste al tentativo singolare di una rilettura sintetica delle opere di Dio mediante due categorie che vengono comprese in maniera fortemente storicizzata: opus conditionis e opus restaurationis. Per il Dio cristiano, l’agire nel tempo non va contro la sua onnipotenza e sapienza. Anzi non c’è altro luogo in cui attingere notitia del Dio di Gesù se non nella storia e nella natura. Per Ugo i concetti chiave di opus conditionis e restaurationis sono, nello stesso tempo, concetti storici, collocati nello
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Ugo di San Vittore, Didascalicon IV,3, 196-199.
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spazio e nel tempo, e concetti teologici che illustrano i contenuti e i motivi delle operationes Dei. È per questa ragione che non si può fare esegesi né teologia né un lavoro di edificazione interiore privi di senso della storia. In maniera particolare egli opera una concentrazione specifica sui sacramenti che caratterizzano, dall’inizio alla fine, la storia della salvezza e che sono in relazione all’incarnazione del Verbo. L’incarnazione è infatti la radice fondante tutti i sacramenti. Nelle Sententiae de divinitate descrive eloquentemente il Verbo incarnato: «Ipsum est quasi sacramentum sacramentorum». I sacramenti accompagnano tutta la storia. Dopo il peccato del paradiso, ha avvio immediatamente l’opus restaurationis con il quale Dio propone i propri sacramenti in antitesi a quelli proposti dal diavolo. I sacramenti sono presenti dall’inizio e ognuno dei tre tempi della storia – quello della legge naturale, della legge scritta e della grazia – ha i propri sacramenti, anche se tutti attingono la propria efficacia dalla grazia di Cristo. La storia dell’opus restaurationis è, così, accompagnata dai sacramenti in quanto essi sono intesi come l’attuazione concreta dell’attenzione medicinale da parte di Dio, medico sapiente. I sacramenti nel loro riferimento essenziale all’incarnazione sono, dunque, l’intelaiatura dell’opus restaurationis attuato dopo la caduta dell’uomo per riparare l’opus conditionis. Anche la summa del Vittorino ne risulta determinata e la categoria di sacramento diviene uno strumento importante per pensare in maniera unitaria la Bibbia, i suoi contenuti, la storia salvifica incentrata sull’incarnazione del Verbo e, in definitiva, per pensare la stessa fede cristiana. Va, però, ricordato che la categoria di sacramento è collocata all’interno di una struttura biblica e storica. Da un’attenta lettura del De Sacramentis osserviamo in maniera concreta come la teologia di Ugo, il suo desiderio sistematico e il suo modo di leggere la Bibbia siano tra loro profondamente intessuti o, meglio, la sua lettura della Bibbia, con una spiccata attenzione alla dimensione storica, lo aiuti a organizzare anche il proprio tentativo di proporre un compendium e una summa della fede cristiana.62
5.2. Il
canone biblico
In tale quadro, ci pare interessante soffermarsi su un secondo aspetto della sua ermeneutica biblica, ossia sulla sua comprensione del canone biblico.63 Il tema viene da lui affrontato nel De scripturis e nel quarto libro del Didascalicon. Omnis divina scriptura in duobos testamentis continetur, in veteri vide licet in novo. Utrumque testamentum tribus ordinibus distinguitur. Vetus
62 R. Berndt, «Hugo von St. Victor, Theologie als Schriftauslegung», in U. Köpf (a cura di), Theologen des Mittelalters, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2002, 96-112. 63 Cf. R. Berndt, «Gehören die Kirchenväter zur Heiligen Schrift? Zur Kanontheorie des Hugo von St. Viktor», in Jahrbuch für Biblische Theologie 3(1988), 191-199.
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La ricerca della sapienza e della vita nel XII secolo: la proposta della scuola di San Vittore testamentum continet legem, prophetas, hagiographos; novum autem euangelium, apostolos, patres.64
Tutta la divina Scrittura è contenuta nei due Testamenti. Per quanto riguarda l’Antico Testamento egli presenta un elenco di libri che corrisponde in larga parte al canone ebraico dei libri così com’è stato descritto da Girolamo. Si ha una divisione in tre parti (ordines), la Legge, i profeti e gli agiografi, arrivando a un totale di 22 libri. Egli ricorda altri libri che vengono letti, ma che non fanno parte del canone quali la Sapienza, l’Ecclesiaste, Giuditta, Tobia, i libri dei Maccabei. A questi tre livelli dell’Antico Testamento corrispondono i tre ordines del Nuovo Testamento: i vangeli, gli Atti con le lettere di Paolo e quelle canoniche e, infine, l’Apocalisse. La terza parte è più fluida perché è costituita dalle decretali, dagli scritti dei padri (ricordati in una lista aperta). Ugo informa il lettore che questi ultimi fanno parte del canone, ma in maniera diversa e meno autorevole dei libri biblici. Nondimeno li inserisce nel canone. Per quale motivo Ugo, attraverso la corrispondenza dei tre ordini dell’Antico Testamento e del Nuovo, allarga l’elenco dei libri canonici? Vi sono nel testo del Didascalicon alcune indicazioni. Dopo l’elenco degli autori dei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento – che include anche diversi traduttori – afferma: Questi sono gli autori dei libri sacri: per ispirazione dello Spirito Santo ci insegnarono le norme della vita e i principi della fede. Oltre al canone sacro ci sono degli scritti apocrifi: la parola greca significa occultati, poiché questi libri provocano il dubbio e il sospetto. Hanno un’origine oscura, che nemmeno i Padri conoscono. Padri dai quali proviene l’autorità delle vere scritture, attraverso una certa e conosciuta successione.65
In seguito aggiunge: In greco canone significa regola. La nostra parola indica ciò che conduce sulla retta via e non permette deviazioni. Altri hanno detto che la regola è ciò che regge, o ciò che mostra la norma della vita retta, oppure ciò che corregge le distorsioni e gli errori.
È in tale quadro che mostra come mai nel canone non vi siano solo libri biblici, ma siano introdotti i canoni di alcuni concili: In quel periodo i santi padri di ogni parte del mondo si riunirono a Nicea, e formularono per la seconda volta, dopo gli Apostoli, il simbolo della fede nel solco evangelico e apostolico. Fra tutti i concili quattro sono specialmente venerabili, perché contengono la base dell’intera fede, come i quattro vangeli e i quattro fiumi del paradiso terrestre.66
Hugo de Sancto Victore, Didascalicon IV,2, 126. Cf. Ugo di San Vittore, Didascalicon IV,7, 134-135 (traduzione in parte da me modificata). 66 Ivi IV,7, 135. 64
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Ugo sottolinea la dimensione apostolica del canone e l’importanza del riconoscimento e della trasmissione da parte dei padri, ed è in tale prospettiva che egli parla delle Scritture divine non intendendo solo i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma – fatte le debite distinzioni di grado di autorevolezza – anche gli scritti dei padri e i decreti dei concili. Ai suoi occhi sono tutti testi che veicolano la tradizione autentica della Chiesa e permettono alla comunità dei credenti di avere un fondamento sicuro per la fede e la vita. L’enumerazione che egli propone non è particolarmente originale – ispirandosi in larga parte a Girolamo e Isidoro di Siviglia –, ma l’importanza sta nel significato teologico di queste liste.67 Esse mostrano che lui ritiene di ricevere la Bibbia attraverso una tradizione viva in cui l’apostolicità è intesa dinamicamente come azione presente nella storia e in cui la relazione tra la Chiesa e la Scrittura è fondamentale68 in quanto la Chiesa – che è a principio – precede la divina Scrittura, ma, a sua volta, essa prende la propria forma di vita dalla Scrittura stessa: «Sacra scriptura unde ipsa ecclesia sancta vivendi formam sumit».69 La storia della salvezza non è, dunque, finita. Essa continua nella vita della Chiesa e nella vita del credente. L’idea ugoniana di chi siano gli scrittori sacri mostra un senso dilatato del modo con cui Dio parla nella storia.70 Per Ugo il canone delle Scripturae divinae ingloba, infatti, la Bibbia, gli scritti patristici, i canoni dei concili, le decretali dei papi, le opere dei dottori. In proposito, Patrice Sicard ha affermato: «Toute l’histoire était ainsi promue au rang d’histoire sainte».71 Il concetto di tradizione vivente sarebbe da meglio approfondire nella riflessione del Vittorino, ma, sicuramente, possiamo affermare che la sua sensibilità per la riforma nella vita religiosa della Chiesa nasce proprio dalla consapevolezza che Dio ha parlato e continua a parlare alla sua Chiesa e ai credenti. Ed è questa parola che può spingere la Chiesa e i cristiani a un cambiamento in profondità, a una reformatio.
5.3. La
lectio
Nel Didascalicon, Ugo mostra come la base di ogni progresso spirituale verso la contemplazione si radica nell’atto materiale della lectio.72 Recentemente è stato messo in evidenza – prima dagli studi pioneristici del
Cf. Berndt, «The Writings of Hugh of St. Victor», 15-17. Cf. Coolman, The Theology of Hugh of St. Victor, 124-137. 69 Hugo de Sancto Victore, De Sacramentis christianae fidei, a cura di R. Berndt, Aschendorff, Münster 2008, 271 (Prefatiuncula). 70 Cf. I. Guyot-Bachy, «Les victorins et l’histoire: des maîtres sans disciples?», in Poirel (a cura di), L’école de Saint-Victor de Paris, 179-180. 71 P. Sicard (a cura di), Hugues de Saint-Victor et son école, Brepols, Turnhout 1991, 25. 72 «Dans deux ouvrages, le Didascalicon encore et le De meditatione, le Victorin présente la contemplation comme le point d’aboutissement d’un itinéraire mêlant l’action et la spéculation puisqu’il s’enracine dans la lectio» (D. Poirel, «L’unité de la sagesse chez Hugues de Saint-Victor: un équilibre précaire», in C. Trottman [a cura di], Vers la contemplation. 67 68
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Leclercq, poi da Poirel e da Mews73 – come l’atto di lettura sia fondamentale nel pensiero di Ugo. L’uomo è, infatti, invitato a leggere: la Bibbia, certo, ma nello stesso tempo il libro del proprio cuore e il libro della natura. È noto – e oggetto di riflessione da parte della filosofia contemporanea74 – che per Ugo la creazione stessa è come un libro scritto da Dio: Vniuersus enim mundus iste sensibilis quasi quidam liber est scriptum digito Dei, hoc est uirtute diuina creatus et singulae creaturae quasi figurae quaedam sunt, non humano placito inuentae, sed diuino arbitrio institutae ad manifestandam et quodammodo significandum inuisibilem Dei sapientiam. Quemadmodum autem si illiteratus quis apertum librum uideat, figuras aspicit, litteras non cognoscit, ita stultus et animalis homo qui non percipit ea quae Dei sunt, in uisibilis istis creaturis foris uidet speciem, sed non intelligit rationem; qui autem spiritalis est et omnia diiudicare potest, in eo quidem quod foris considerat pulchritudinem operis, intus concipit quam miranda sit sapientia creatoris.75
La stessa incarnazione è rappresentabile come un libro da interpretare: Liber ergo unus erat semel intus scriptus. & bis foris. Foris primum per uisibilium conditionem. Secundo foris per carnis assumptionem. primum ad iocunditatem. secundo ad sanitatem. primo ad naturam. secundo contra culpam. primo ut natura foueretur. secundo ut uitium sanaretur. & natura beatificaretur.76
Lo stesso Cristo viene descritto come il libro della vita.77 Il libro diviene simbolo di una parola e di una realtà donata da Dio alla libertà dell’uomo che deve leggerla, comprenderla e farla propria nel libro della vita.78 La lettura è, così, un complesso atto di ricerca e di approfondimento che porta a decifrare la realtà nei suoi vari livelli79 e invita a operare attiva-
Étude de la syndérese et les modalités de la contemplation de l’antiquité à la renaissance, H. Champion, Paris 2007, 107-108). 73 Cf. C.J. Mews, «The World as Text: The Bible and the Book of Nature in Twelfth-century Theology», in T.J. Heffernan – T.E. Burman (a cura di), Scripture and Pluralism. Reading the Bible in the Religiously Plural Worlds of the Middle Ages and Renaissance, Brill, Leiden-Boston 2005, 95-122. 74 Cf. H. Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1981, 50-52. 75 Hugo de Sancto Victore, De Tribus diebus, cura et studio D. Poirel, Brepols, Turnhout 2002, 9-10. 76 Hugo de Sancto Victore, De Sacramentis christianae fidei I,VI, 141. 77 Hugo de Sancto Victore, De Archa Noe 2,11, in Hugonis de Sancto Victore De Archa Noe. Libellus de formatione arche, cura et studio P. Sicard, Brepols, Turnhout 2001, 46. 78 Cf. Coolman, The Theology of Hugh of St. Victor, 93-102. 79 «Hugh’s fascination for the material world subsequently influenced the way he interpreted the Bible. After composing certain core treatises for the education of his students about such basic disciplines as grammar, geometry, and the structure of the world, he also applied himself to a series of commentaries on scripture, in which he gave as much attention to its historical (litteralis) as to its moral and allegorical sense. Hugh’s emphasis on the historical sense extends his interest in the sensible world to the historicity of scripture […].
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mente in essa. È pertanto significativo che la lettura, nei vari livelli in cui si articola, divenga un’immagine – anche – dell’esercizio della fede. Per Ugo infatti l’immagine simbolica e sintetica del credente è quella dell’uomo che compie la lectio della Scrittura e che da questa lectio si fa edificare interiormente. In tal senso va aggiunto che tale comprensione dell’atto di leggere e interpretare come atto sintetico – non l’unico – dell’esistenza umana e dell’esperienza credente permette di applicare alla riflessione del Vittorino la tesi di Pierre Hadot.80 Egli, studiando alcuni testi della filosofia antica, ha osservato che essi sono testi pensati per essere un «esercizio spirituale». Tali testi, infatti, non vogliono solo informare, comunicare dei contenuti per quanto veri, ma vogliono formare, invitare il lettore a cambiare rappresentazione della realtà, farsi plasmare dai contenuti, muovere gli affetti e il suo mondo più intimo. Vi è la consapevolezza che una realtà, per quanto vera, non basta conoscerla perché entri nel mondo interiore e diventi vita. Per Ugo questo è chiaro: chi conosce i contenuti della fede perfettamente, ma non li ama, non abita nell’arca della salvezza. La lettura, cui invita Ugo, è una lettura che riguarda in definitiva la vita e vuole riformare l’interiorità dell’uomo e la sua esistenza.
6. Ipotesi
e istanze
Per Ivan Illich, lo studio del XII secolo è una ricostruzione storica, ma è anche un atto ermeneutico sul presente. All’inizio del suo commentario al Didascalicon afferma: «Non ho scritto questo volume per portare un contributo specialistico, ma per offrire una guida verso un punto d’osservazione del passato che mi ha schiuso nuove vedute sul presente».81 Lo studio del medioevo è una sorta di applicazione pratica della xeniteia e dell’esilio di cui scrive lo stesso Ugo: una prospettiva altra di osservazione permette di vedere e riconoscere aspetti ulteriori.82 La lettura – soprattutto dei primi libri – del Didascalicon mostra, in maniera viva, un universo spirituale e intellettuale remoto rispetto al lettore contemporaneo. Nondimeno, secondo l’interpretazione di Illich, il tentativo di decifrare tale universo è un atto che permette di decifrare meglio il presente, facendone emergere
Hugh of St. Victor, committed to seeing the created world as like a book, through which divine attributes are revealed, interprets the Bible as written confirmation of what God has revealed through the natural world. This emphasis on the historicity of scripture reflected a wider scholarly interest in the workings of the natural world» (Mews, «The World as Text», 116-117). 80 Cf. P. Hadot, Philosophy as a Way of Life. Spiritual Exercises from Socrates to Foucault, a cura di A.I. Davidson, Blackwell, Oxford-Cambridge 1990. 81 Illich, Nella vigna del testo, 7. 82 Cf. G.A. Zinn, «Exile, the Abbey of St-Victor at Paris, and Hugh of Saint Victor», in S. Hayes-Healy (a cura di), Medieval Paradigms: Essays in Honor of Jeremy du Quesnay Adams, Palgrave Macmillan, New York 2005, 83-111.
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La ricerca della sapienza e della vita nel XII secolo: la proposta della scuola di San Vittore
alcune strutture profonde. È significativo che uno studioso come Illich, che si era già concentrato sul tema della scuola, dell’educazione e della formazione – con un testo acuto e provocatorio come Deschooling Society –, abbia dedicato gli ultimi anni della sua vita al De studio legendi di Ugo. Per far intendere la nostra prospettiva ricordiamo, come esempio, un testo recente di Giorgio Agamben83 sulle regole di vita monastiche e, in particolare, sulla regola di vita francescana. Egli mostra la novità – tuttora non adeguatamente recepita ma del tutto attuale – della possibilità di una vita che vive usando delle cose, ma rinunciando ad ogni diritto – di proprietas, di possessio o usufructus – sulle cose stesse.84 Secondo tale prospettiva, la rilettura di alcuni autori medievali può, quindi, fornire alcune linee di riflessione utili all’inquadramento delle domande contemporanee. In particolare, alcune linee della riflessione vittorina possono essere sottolineate in rapporto al nesso tra la comunità credente e il suo compito educativo all’interno dello sviluppo della tradizione cristiana. Nella prospettiva vittorina è fondamentale per l’interprete della Bibbia e del mondo e anche per l’uomo spirituale la coltivazione di una sensibilità storica, che significa al contempo attenzione allo sviluppo storico e alle dimensioni concrete della realtà. A questo si connette un senso profondo dell’uomo. Ricordiamo qui un testo di Ugo sulle quattro volontà di Gesù85 in cui si mostra come uno dei tratti fatti propri dall’umanità che il Cristo assume sia la compassione: «Proprium est enim humanitas compati et moveri pietate et miseria aliena».86 In tale testo vi è una sorta di etica della compassione secondo la quale il modello cristologico – Gesù che, con piena umanità, piange e compatisce87 – invita da un lato i singoli credenti a crescere nella compassione e, dall’altro, la Chiesa e le sue guide a riformarsi in tale prospettiva. Una riforma e una formazione che vanno, dunque, nel senso dell’umanità e della compassione.88 Un secondo aspetto che emerge nella trattazione del Didascalicon, e in generale nella riflessione vittorina, è l’attenzione per il mondo interiore dell’uomo. La teologia e l’esegesi di Ugo non perdono mai di vista che
83 Cf. G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011. 84 Cf. E. Coccia, «Regula et vita. Il diritto monastico e la regola francescana», in Medioevo e Rinascimento 20(2006), 97-147. 85 Cf. Hugonis de Sancto Victore, De quatuor voluntatibus in Christo: PL 176,841-846. 86 Cf. ivi: PL 176,842. 87 Cf. ivi: PL 176,844: «Propterea Deus homo, qui utrumque tollere venit utrumque toleravit. Suscepit passionem in carne; suscepit compassionem in mente. In utroque aegrotare voluit propter nos ut in utroque nos aegrotantes sanaret. Infirmatus est passion in poena sua; infirmatus est compassione in miseria aliena. Eousque passionem sustinuit, ut pro morituris moreretur, eousque compassionem suscepit, ut pro perituris lacrymaretur. Propter miseriam carnem suam tradidit ad passionem, propter misericordiam animam suam turbavit ad compassionem. In carne sua doluit pro nobis patiendo, in mente sua condoluit nobis compatiendo». 88 Cf. B.T. Coolman, «Hugh of St. Victor on “Jesus Wept”: Compassion as Ideal Humanitas», in Theological Studies 69(2008)3, 528-556.
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Fabrizio Mandreoli
esse tendono, in ultima analisi, a costruire un’interiorità, a formare l’uomo in vista di un’esperienza spirituale. L’itinerario di Ugo è quello di una manuductio verso l’esperienza e la pregustazione della sapienza. Si tratta della grande attenzione della scuola di San Vittore, e – potremmo dire – di numerose correnti teologiche del XII secolo, all’esperienza interiore, alla sua conoscenza, alla sua possibilità, ai suoi percorsi. Si tratta di quello che Bernardo chiamava il «libro dell’esperienza». In termini analoghi Chenu ha individuato il XII secolo come il secolo del risveglio della coscienza individuale, di una nuova percezione dell’individuo come centro etico e spirituale. Tale questione è molto interessante per la contemporaneità se posta in relazione, ad esempio, con un noto articolo di Karl Ranher89 sull’esperienza interiore e sulla dimensione mistagogica della formazione come chiavi di lettura per la vita e la missione della Chiesa nel futuro dell’Occidente, articolo recentemente ripreso da Christoph Theobald attraverso la prospettiva di origine agostiniana del Cristo maestro interiore.90 Il problema è la possibilità di condurre e accompagnare l’uomo verso un’esperienza interiore che sia possibile e autentica.91 Per Ugo tale problema viene declinato sulla capacità di entrare e far entrare l’uomo in contatto con la Bibbia. L’attenzione alla storia è profondamente radicata nella lettura della Bibbia del Vittorino. Il modo di leggere e accostare la Bibbia fa trasparire ed è in relazione con un modo complessivo di concepire la teologia, la Chiesa e la vita cristiana. In particolare sottolineiamo qui il senso della tradizione che viene intesa come una lettura e rilettura continua della fede apostolica, con un senso profondo delle novità e del dinamismo proprio della tradizione vivente. In Ugo di San Vittore e nel XII secolo non vi è l’idea che la tradizione significa semplicemente ripetizione del passato, ma piuttosto il riferimento al passato è utilizzato in vista di una riforma e un rinnovamento. In tal senso, se ci interroghiamo sull’immagine di Chiesa di Ugo, credo si possa affermare che si tratta di una Chiesa che si edifica e si ri-forma in relazione alla divina Scrittura e alla tradizione. Un’ultima nota che riguarda ancora il tema della riforma inteso in senso spirituale ed etico. Quando Ugo tratta delle condizioni etiche della lettura scrive una pagina molto bella sul tema dell’esilio. Pagina in cui si riflette anche un’esperienza personale. Tale prospettiva, che riprende uno degli elementi caratteristici della tradizione monastica, mostra che non vi è autentica esperienza intellettuale e spirituale senza una provata libertà interiore. Nello stesso tempo l’esilio indica, secondo l’interpreta-
89 Cf. K. Rahner, «Pietà in passato e oggi», in Id., Nuovi saggi, 2 voll., Paoline, Roma 1968, II, 9-35. 90 Cf. C. Theobald, «L’esperienza del “maestro interiore”», in Id., Cristianesimo come stile, 2 voll., EDB, Bologna 2009, II, 733-751. 91 Cf. E. Biser, Der inwendige Lehrer. Der Weg zur Selbstfindung und Heilung, Books on Demand, s.l. 2002.
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zione di Erich Auerbach,92 l’importanza di una dimensione di denazionalizzazione necessaria per l’allargamento degli orizzonti e del cuore di colui che vuole imparare a leggere e interpretare il libro della vita. Afferma Auerbach: Ugo lo intendeva [l’esilio] per colui il cui traguardo è il distacco dall’amore per il mondo. Ma anche per chi vuole raggiungere il vero amore per il mondo, questa è una buona via […] più l’unità del mondo cresce, più l’attività sintetica e prospettica dovrà ampliarsi.93
In altri termini, l’esilio sottolinea l’importanza intellettuale della povertà, della dislocazione e della possibile marginalità. Intese come apertura alla verità e alla sapienza, nella libertà, quando necessario, di mettere in discussione i propri presupposti e ripensare le proprie prospettive. Queste tre sottolineature in conclusione della nostra breve riflessione sono l’esempio di come lo studio delle prospettive di riflessione del XII secolo possa, almeno indirettamente, fecondare e aiutare un rinnovamento della riflessione teologica, teologico-spirituale e antropologica a noi contemporanea.94
«Ad ogni modo la nostra patria filologica è la terra: non può più essere la nazione […]. Dobbiamo ritornare in circostanze diverse a ciò che già possedeva la cultura medievale prima della formazione delle nazioni: al riconoscimento che il pensiero non ha nazionalità» (E. Auerbach, Philologie der Weltliteratur / Filologia della letteratura mondiale, a cura di R. Engelmann, Book, Castel Maggiore 2006, 70-72). 93 Cf. Auerbach, Philologie der Weltliteratur, 73, cit. in Ugo di San Vittore, Didascalicon, 119, nota 2. 94 Cf. M. Fédou, «L’intérêt du théologien pour le Moyen Âge», in Recherches de Science Religieuse 100(2012)2, 167-186. 92
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1. Premessa La modernità non va vista soltanto in contrapposizione al medioevo. Molti aspetti importanti della modernità sono la logica continuazione di premesse nate nel medioevo o comunque presenti in esso. Tra questi aspetti ne sceglieremo due, particolarmente interessanti. Il primo aspetto riguarda l’identificazione delle forme naturali a forme artificiali. In parole povere, tutto ciò che non è spirito (res cogitans) sarebbe un meccanismo, come sosteneva Descartes. Una «natura» delle realtà naturali, intesa come principio di operazione, viene intesa come un’entità immateriale, presente nelle cose materiali per animarle, e giustamente viene rifiutata. Anche una finalità non può esistere nelle realtà naturali, se non come progetto di un artefice estrinseco a esse: sarebbe quindi competenza di un teologo, non di uno scienziato. Una delle conseguenze di questo modo di pensare riguarda il dibattito bioetico: acquisendo la competenza sufficiente, anche l’uomo si sente in diritto di manipolare le realtà «naturali», compresa quella umana. Il secondo aspetto riguarda il problema della conoscenza, divisa tra chi sostiene l’esistenza delle cose indipendentemente dal nostro conoscerle, per cui la verità è adeguazione a esse del nostro giudizio, e chi sostiene che la conoscenza si ferma inesorabilmente a ciò che appare. Noi saremmo chiusi in una stanza senza finestre, con diversi schermi che ci dovrebbero far conoscere le cose esterne alla stanza, ma senza la possibilità di un confronto diretto: gli schermi sono l’unico mezzo di conoscenza. Questo secondo problema nacque prima del medioevo, nel dibattito tra scettici (accademici) e dogmatici, ma nel medioevo esso approfondì le proprie radici fino a sfociare nel problema teologico del modernismo,
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Sergio Parenti o.p.
ancora aperto, e nel problema filosofico del relativismo, come pure nel problema culturale del «così è (se vi pare)» che Pirandello volle magistralmente illustrare. Prendere atto di come sono nati questi problemi potrebbe essere utile per ridimensionarne la portata reale e, forse, per sorridere dei nostri stessi problemi.
2. Alcuni
aspetti della modernità presenti nel medioevo
Proviamo a elencare alcuni aspetti della modernità le cui radici affondano nelle spesso aspre discussioni medioevali (i rientri sotto una voce significano che le voci rientrate dipendono dalla precedente): – laicità della ragione – individualismo – volontarismo – riduzione delle realtà naturali ad artefatti (dell’arte divina: la libertà di Dio) – la causa finale solo come progetto – le scienze della natura non usano causa finale (postulato di oggettività di Monod) – inconcepibilità di una legge morale naturale che non sia una sorta di imposizione divina estrinseca alla natura delle cose (dunque conoscibile solo per Fede) – libertà come fondamento etico – del mercato: libero scambio e libera concorrenza; liceità del prestito a interesse e del gioco dei prezzi di un libero mercato – della democrazia nella convivenza civile (ognuno è libero di fare quello che vuole salvo violare i confini dell’uguale diritto dell’altro): il patto sociale e la concezione che Hobbes descrive nel Leviatano – la filosofia come disciplina umanistica (ridotta a genere letterario?) – l’immanentismo gnoseologico (inconoscibilità della «cosa in sé»): la questione del modernismo. Di tutti questi, sceglieremo solo i due aspetti evidenziati nella premessa, che rappresentano due esempi importanti per la storia della nostra cultura e della teologia cattolica; essi incidono anche nell’insegnamento delle nostre scuole. Partiamo da una pagina di Umberto Eco nel suo romanzo Il nome della rosa. I corsivi sono miei, e riguardano, a mio parere, il secondo e il primo dei due argomenti che vorrei brevemente trattare. «Ma voi sapete che a un certo spessore di un vetro corrisponde una certa potenza di visione, ed è perché lo sapete che potete ora costruire lenti uguali a quelle che avete perduto, altrimenti come potreste?» «Acuta risposta, Adso. In effetti io ho elaborato questa proposizione, che a spessore uguale deve corrispondere uguale potenza di visione. L’ho posta
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Fede e culture: premesse medioevali della modernità perché altre volte ho avuto intuizioni individuali dello stesso tipo. Certo è noto a chi esperimenta la proprietà curativa delle erbe che tutti gli individui erbacei della stessa natura hanno nel paziente, ugualmente disposto, effetti della stessa natura, e perciò lo sperimentatore formula la proposizione che ogni erba di tale tipo giova al febbricitante, o che ogni lente di tale tipo magnifica in uguale misura la visione dell’occhio. La scienza di cui parlava Bacone verte indubbiamente intorno a queste proposizioni. Bada, parlo di proposizioni sulle cose, non di cose. La scienza ha a che fare con le proposizioni e i suoi termini, e i termini indicano cose singolari. Capisci Adso, io devo credere che la mia proposizione funzioni, perché l’ho appreso in base all’esperienza, ma per crederlo dovrei supporre che vi siano leggi universali, eppure non posso parlarne, perché lo stesso concetto che esistano leggi universali, e un ordine dato delle cose, implicherebbe che Dio ne fosse prigioniero, mentre Dio è cosa così assolutamente libera che, se volesse, e di un solo atto della sua volontà, il mondo sarebbe altrimenti».1
3. La riduzione delle
forme naturali a forme artificiali dell’arte divina: il problema della libertà di Dio
Il volontarismo teologico nasce dal rifiuto categorico di accettare la teoria della Fisica di Aristotele, preferendole quella suggerita dal Timeo di Platone, accettando però la logica di Aristotele, in particolare la concezione del sillogismo scientifico esposta negli Analitici secondi. Entrambe le opere aristoteliche vennero tradotte in latino nella seconda metà del XII secolo. Vediamo due brevi passi sul sillogismo scientifico (71b 19ss; 72a 21ss; i corsivi sono miei). Se il sapere è dunque tale, quale abbiamo stabilito, sarà pure necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori ad essa, e che siano cause di essa… Data poi l’impossibilità, per ciò cui si rivolge la scienza in senso assoluto, di comportarsi diversamente da come si comporta, senza dubbio l’oggetto del sapere, cui si riferisce la scienza dimostrativa, risulterà necessario.
Nella Fisica, Aristotele studia le proprietà dell’ens mobile, cioè di ciò che esiste in quanto è soggetto a trasformazione, almeno a moto locale. Egli rifiuta la visione di Platone, che risolveva le difficoltà di Pitagora – le grandezze incommensurabili – sostituendo all’aritmetica la geometria. Non occorre conoscere la geometria per leggere la Fisica di Aristotele. Aristotele rifiuta la visione di uno spazio infinito, contenitore dei corpi. Rifiuta l’idea stessa di infinito come di un tutto: senza fine è ciò che può sempre crescere: dunque è sempre parziale. L’universo è finito, pieno – non esiste lo spazio vuoto – ma è sempre esistito e sempre esisterà –
1
U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980, 210.
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perché la corruzione di una cosa è la generazione di un’altra –, mentre per Platone l’universo aveva un inizio ad opera del Demiurgo, ma non una fine (la critica di Aristotele a Platone è nel De generatione et corruptione: tutto ciò che è generabile è necessariamente corruttibile e viceversa). Non fa meraviglia che ebrei, cristiani e islamici preferissero il Timeo. Ma vi è molto di più. All’inizio del settimo libro della Fisica, Aristotele prova che nessuna cosa può trasformare se stessa: quidquid movetur, ab alio movetur, diranno i latini. E da questo evidenzia che l’universo delle cose generabili e corruttibili esige una causa agente che non appartenga a esso: un Motore immobile. Oggi potremmo dire che, se nessun sistema chiuso può produrre il proprio moto e insieme l’energia che lo muove, allora l’universo esige una fonte di energia esterna a esso. Da qui, ricollegando a quanto detto negli Analitici secondi a proposito del rapporto necessario tra le cause-premesse e le conclusioni, veniva quasi spontaneo dedurre che tra Dio e le cose del nostro mondo vi è un rapporto necessario. Ovviamente veniva introdotto il concetto di creazione, assente in Platone e Aristotele. Da queste premesse venne il timore che, seguendo Aristotele, si dovesse inevitabilmente cadere nell’emanazionismo della gnosi o, a un livello più filosofico, di Plotino. Potremmo spiegare questo timore così: se le creature procedessero da Dio come dal sole procedono luce e calore, la creatura non potrebbe dire: «Dio mi ha voluto, Dio mi ama». Procederebbe infatti per una sorta di necessità fisica. Guglielmo d’Auvergne, che dal 1228 alla morte (1249) sarà vescovo di Parigi, dice nel suo De universo che i seguaci di Aristotele hanno trascurato la volontà liberissima e potentissima del Creatore: Non comprendendo questa libertà molti hanno sbagliato, e hanno imposto al Creatore non solo una necessità, ma persino una sudditanza naturale, pensando che egli operasse come la natura: modo che, come già ti ho spesso anticipato, è modo da suddito e da servo. Infatti hanno ritenuto che l’universo uscisse dal creatore come lo splendore dal sole, o il calore dal fuoco…2
Guglielmo di Auxerre, membro della commissione incaricata nel 1231 da Gregorio IX di purgare Aristotele, ci spiega che, da siffatto modo di intendere il procedere delle creature dal creatore, seguiva l’istanza di postulare delle cause intermediarie: altrimenti ciò che procede immediatamente da Dio, che è invariabile, sarebbe anch’esso invariabile, così come ciò che procede da Dio, che è buono, è anch’esso buono.3
2 3
Cf. R. De Vaux, Notes et textes sur l’avicennisme latin, Vrin, Paris 1934, 31. Ivi, 53.
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L’alternativa pareva essere il sostenere la contingenza di tutto il creato, assimilando tutte le forme naturali a forme artificiali, che non hanno alcun legame di per sé – il loro legame è cioè accidentale e puramente contingente – con il materiale di cui sono fatte. L’immagine del Demiurgo che plasma la materia primordiale andava corretta – Platone e Aristotele non avevano mai pensato alla creazione e a Dio come causa dell’esistere delle creature e delle loro azioni: questo viene dalla Bibbia – in un modo molto semplice. Dio crea la materia primordiale, e poi la plasma come vuole. Occorreva così ammettere anche una materia spirituale per le creature immateriali, ingenerabili e incorruttibili – gli angeli –, in modo da garantire che il principio della creazione fosse il puro libero arbitrio dell’artefice del creato (e cioè la volontà, perché la ragione – per colpa della particolare interpretazione della logica aristotelica – pareva il regno della necessità). Infatti un artigiano dà al materiale che usa la forma che vuole. Con un pezzo di ferro può fare una vite, un chiodo o un coltello: il ferro non ha alcun ordine naturale a tali forme. Questa mentalità perdura fino a oggi (il materialismo ateo è anch’esso figlio di una preoccupazione teologica). Se la materia primordiale non ha alcun ordine alle forme che riscontriamo in natura, allora tutte le forme delle realtà create sono contingenti, – la materia, di suo, è indifferente, – non vi è tendenza per natura a questo o a quello, – non vi è finalità, nel senso di ciò cui per natura un ente – per Aristotele e Tommaso nessun ente può esistere senza avere una propria operazione – tenderebbe agendo, per cui esso resterebbe frustrato se non vi giungesse: l’unica causa finale sarebbe il progetto dell’artefice, e l’unica frustrazione sarebbe quella dell’artefice. Questi problemi erano stati sollevati da tempo nella scolastica ebraica e islamica dei secoli precedenti, quando i latini stentavano a riprendersi dallo sfacelo dell’impero romano. A Parigi, ai tempi di Tommaso, si leggeva il Fons vitae di Shelomoh ben Yehudah Ibn Gabirol (Avicebron o Avencebrol per i latini, le date di nascita e morte sono incerte: 1021/10221054/1058), che è forse l’ispiratore del volontarismo cristiano, ed è soprattutto con questo autore che Tommaso d’Aquino polemizzò. Ma la disputa aveva altri interlocutori illustri in campo islamico. Abû Hâmid Mohammad Ghazâlî (Algazel per i latini, 1059-1111) aveva sostenuto le tesi volontariste nell’Incoerenza dei filosofi. Egli era consapevole che, riferendo tutto all’arbitrio della volontà divina, i teologi prestano il fianco a ipotesi ridicole: un mondo dove accada tutto e il contrario di tutto, dove da qualsiasi cosa possa nascerne un’altra senza ordine alcuno. Si rifugia allora nel fatto che Dio sa che non farà ciò, pur potendo farlo, e ha creato nell’uomo la conoscenza che Dio, almeno in quel momento, appunto non farà tali cose. Ockham, distinguendo tra la potentia absoluta di Dio, per cui potrebbe ordinare gli atti che di fatto ha proibito, e la
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potentia ordinata di Dio, con cui egli ha di fatto stabilito un codice morale, non mi sembra essere tanto lontano. Averroè (1126-1198), scrivendo L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi, ribatté ad Algazel: Se fosse possibile che negli esistenti siano presenti [contemporaneamente] due contrari, sia riguardo al sostrato sia riguardo all’agente, non vi sarebbe affatto scienza di alcunché, neppure per un battito di ciglia. Dovremmo infatti supporre che un agente dotato dell’attributo [di scegliere arbitrariamente] governi gli esistenti come un sovrano tirannico, detentore di un potere assoluto che non parteggia con nessuno nel suo dominio, a cui non si può far risalire nessuna legge o comportamento [prevedibili]. Invero, le azioni di un tale sovrano risulterebbero necessariamente ignote per natura, e se da lui provenisse un atto, continuerebbe comunque per natura a risultare ignoto.4
Possiamo sorridere pensando che l’ateo, oggi, cerca di provare che tutto può essere nato dal caso, che fatica a definire, e non da un progetto di un Artefice, senza accorgersi che il suo punto di vista nasce da una preoccupazione teologica. Possiamo anche capire come sia difficile oggi parlare di legge morale naturale, anche se l’ecologia e la biologia fanno riaffiorare la causalità finale aristotelica. Diceva uno scienziato che per i biologi il fine è come quella bella donna di cui nessuno riesce a fare a meno, e però tutti si vergognano a farsi vedere insieme a lei.
4. Il
problema della conoscenza e la questione del modernismo
Passiamo ora al secondo argomento, direttamente connesso con la lotta che la Chiesa condusse contro il modernismo. Famose sono le encicliche Aeterni patris di Leone XIII, che impose ai seminaristi lo studio della filosofia tomista, e Pascendi di Pio X, che oggi i teologi preferiscono non usare a sostegno del loro lavoro. Dopo un paio di secoli di lotta severa, ma poco efficace, con il Vaticano II la Chiesa ha deciso di passare da una strategia difensiva a una strategia di dialogo. Ma la nouvelle théologie si trova anche oggi alle prese con i documenti del magistero, a partire dalla Veritatis splendor e dalla Fides et ratio. Giovanni Gentile riteneva corretta l’esposizione dell’enciclica Pascendi di Pio X, e scriveva, rivolgendosi al Blondel: Il vostro principio è intellettualista (Dio trascendente); il vostro metodo soggettivista (Dio immanente). Restate cattolico, perché il principio resiste al vostro metodo, ma in realtà, questo metodo, giudicato alla stregua di quel principio, mena all’ateismo.5
4 5
Averroè, L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi, UTET, Torino 1997, 489. G. Gentile, Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia – Saggi, Laterza, Bari 1909, 83.
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Le origini del problema dell’immanentismo risalgono a prima del medioevo, anche se nel medioevo esse hanno trovato sviluppo. Dobbiamo risalire alla polemica tra dogmatici e scettici, soprattutto tra stoici e accademici, al tempo della grande cultura ellenistica e poi della Roma imperiale. Partiamo da un testo classico. Aristotele, Perì hermeneias o Dell’espres sione (16a, 3-8): Sono dunque le cose che sono nella voce denotazioni [in greco: symbola, in latino: notae] delle passioni che sono nell’anima, e ciò che viene scritto lo è delle cose che sono nella voce. E come le lettere scritte non sono identiche per tutti, così neppure le voci; mentre le prime, le passioni dell’anima, di cui queste sono denotazioni, sono le stesse per tutti; e così pure le cose, di cui queste ultime sono similitudini, sono le stesse.
significazione ciò che so della cosa
segno
cosa conosciuta
Il triangolo semantico visto dai logici stoici è molto diverso. Ce lo descrive Sesto Empirico: Presso costoro [i logici] vi era anche un’altra distinzione, secondo la quale gli uni affermavano essere il vero e il falso posti nella realtà significata, gli altri nell’espressione [linguistica], altri ancora nel moto del pensiero. Alla prima opinione aderirono fra i primi gli stoici, i quali dicevano che ci sono tre cose strettamente collegate l’una con l’altra, il significato, il significante, l’oggetto vero e proprio: significante è l’espressione, per esempio il nome «Dione»; significato la realtà che esso indica e di cui noi abbiamo comprensione come di qualcosa che si pone di fronte al nostro pensiero (i barbari non lo afferrano, pur intendendo il suono materiale della voce); l’oggetto è ciò che è esterno al pensiero, in questo caso, per esempio, Dione in carne e ossa. Di queste tre cose, due sono corporee, l’espressione vocale e l’oggetto; una, la realtà significata, è invece incorporea, e prende appunto il nome di «significato». Nel significato risiede il vero e il falso, tuttavia esso non ha sempre lo stesso valore: può trattarsi di un discorso imperfetto o di un discorso compiuto; a quest’ultimo tipo appartiene quello che si chiama il giudizio, cosicché essi nelle loro trattazioni dicono: «è il giudizio che è vero o falso». Ogni significato deve essere detto (léghesthai); è da questo che trae il suo nome (lectòn). […] Ma «dire», come affermano gli stessi stoici, è pronunciare un’espressione semantica relativa all’oggetto pensato…6
6
M. Isnardi Parente, Stoici antichi, 2 voll., UTET, Torino 1989, II, 737-738.
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Sergio Parenti o.p.
Il significato, dunque, non è l’oggetto vero e proprio, esterno al pensiero e corporeo. Dice Simplicio: Le cose che sono dette (tà legòmena) e i significati (tà lectà) sono i pensieri (tà noémata), come ritenevano anche gli stoici.7
Ammonio aveva già fatto obiezione alla posizione stoica, a proposito del triangolo semantico esposto da Aristotele nel Perì hermeneias: Aristotele, per mezzo di ciò, insegna quali siano le cose che in forma primaria e con continuità vengono significate dalle espressioni; queste cose sono i pensieri, e mediante queste si indicano le realtà; né c’è altro che debba concepirsi come intermedio fra il pensiero e la realtà, come vorrebbero supporre gli stoici chiamando ciò «significato».8
significazione ciò che so della cosa significato
segno
?
cosa conosciuta
Tommaso sembra d’accordo con Ammonio, nel commentare Aristotele: Dove bisogna notare che ha chiamato le lettere [scritte] denotazioni, vale a dire segni delle voci, e le voci a loro volta segni delle passioni dell’anima; invece le passioni dell’anima, dice, sono similitudini delle cose: e questo perché una cosa non viene conosciuta dall’anima se non per mezzo di una qualche sua similitudine9 esistente o nel senso o nell’intelletto. Le lettere invece sono segni delle voci, e le voci delle passioni, in modo tale però che qui non si trova alcuna ragione di similitudine, bensì soltanto quella di istituzione, come anche in molti altri segni, come per esempio la tromba è il segno della battaglia. Invece nelle passioni dell’anima bisogna che si trovi la ragione di similitudine con le cose che devono esprimere, perché le designano per natura, non per una istituzione.10
Ivi, 738. Ib. 9 «Simile» implica un’identità qualitativa, «uguale» implica un’identità quantitativa. Parlando di «similitudine» Tommaso si riferisce a questo, non a una sorta di quadro o fotografia. È la tesi famosa che «idem est actus» di ciò che è conosciuto e del conoscente. Cf. In Metaph. V, lect. 11 e 12; lect. 17, n. 22 (ed. Busa – Alarcón: www.corpusthomisticum.org). 10 In Perì herm., I, lect. 2, n. 19. 7 8
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Fede e culture: premesse medioevali della modernità
Boezio, nel suo secondo commento al Perì hermeneias di Aristotele, aveva dato un’interpretazione diversa da quella di Tommaso. Questa interpretazione (PL 64,407) è poi quella di Porfirio (PL 64,410 D). Per Boezio i discepoli di Aristotele avevano ben giustamente (rectissime) sentenziato che vi erano tre discorsi (orationes): uno che si scrive con le lettere, uno che si proferisce con la voce, uno che viene costruito (connectitur) con i contenuti concettuali (intellectibus). Se dunque i contenuti concettuali sono un discorso, sono anch’essi dei «segni». A noi interessa notare che quelle che Aristotele chiama passioni dell’anima, e che dice essere similitudini della cosa significata, sono dichiarate anch’esse segni. La seconda parte della relazione composta di significazione è dunque diventata anch’essa semantica. Parlare di Porfirio significa parlare della filosofia e della dialettica diffuse nelle scuole dell’impero romano. Abbiamo un riscontro importante in sant’Agostino. Sant’Agostino afferma: Giovanni è la voce. Del Signore invece si dice: «In principio era il Verbo» (Gv 1,1). Giovanni è la voce che passa, Cristo è il Verbo eterno che era in principio. Se alla voce togli la parola, che cosa resta? Dove non c’è senso intelligibile, ciò che rimane è semplicemente un vago suono. La voce senza parola colpisce bensì l’udito, ma non edifica il cuore. Vediamo in proposito qual è il procedimento che si verifica nella sfera della comunicazione del pensiero.11 Quando penso ciò che devo dire, nel cuore fiorisce subito la parola. Volendo parlare a te, cerco in qual modo posso fare entrare in te quella parola, che si trova dentro di me. Le do suono e così, mediante la voce, parlo a te. Il suono della voce ti reca il contenuto intellettuale della parola e dopo averti rivelato il suo significato svanisce. Ma la parola recata a te dal suono è ormai nel tuo cuore, senza peraltro essersi allontanata dal mio. Non ti pare, dunque, che il suono stesso che è stato latore della parola ti dica: «Egli deve crescere e io invece diminuire»? (Gv 3,30). Il suono della voce si è fatto sentire a servizio dell’intelligenza, e poi se n’è andato quasi dicendo: «Questa mia gioia si è compiuta» (Gv 3,29). Teniamo ben salda la parola, non perdiamo la parola concepita nel cuore.12
Vorrei citare un’autorità in materia.13 Dice Sten Ebbesen: La maggior parte dei filosofi antichi era dichiaratamente aristotelica in materia di semantica. Ma la Stoà aveva lasciato una traccia indelebile nella tradizione filosofica. La distinzione tra significanti orali e significati intelligi-
11 Il testo originale dice: «Verumtamen in ipso corde nostro aedificando advertamus ordinem rerum». 12 Discorso 293, 3: PL 38,1328ss – Liturgia delle Ore, I, 250-251. 13 S. Ebbesen, «L’odissea della semantica dalla Stoa a Buridano», in R. Fedriga – S. Puggioni (a cura di), Logica e linguaggio nel medioevo, LED, Milano 1993, 169-170.
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Sergio Parenti o.p. bili fu accettata e resa aristotelica mediante una particolare interpretazione dell’inizio del Perì hermeneias, facendo dire ad Aristotele che le parole sono segni dei concetti e i concetti segni delle cose (essendo ciò equivalente a dire «le parole sono segni delle cose tramite i concetti»). Questa interpretazione di Aristotele fu sostenuta con forza da Porfirio nel III secolo d.C., e dopo di lui venne accettata da quasi tutti gli altri, compreso Boezio, l’autore dell’inizio del VI secolo che divenne il legame principale tra l’aristotelismo greco e quello latino medioevale. A causa del ruolo predominante di Porfirio nella formulazione della semantica tardoantica, parlerò di «semantica porfiriana», sebbene per ricostruirla si debba far riferimento a molti altri autori. Nella semantica porfiriana, quindi, le parole – e in particolare quelle che rappresentano soggetto e predicato in un enunciato – significano concetti; e di conseguenza il significatum di un intero enunciato è una combinazione di concetti, una proposizione mentale, che infatti non è altro che un pensiero, come era già stato detto da Platone (Sofista, 263-264). Vale a dire che i significati degli enunciati, le proposizioni mentali, sono entità psicologiche.
Il Bocheński cita il passo, che già conosciamo, di Sesto Empirico sugli stoici e poi commenta il problema dei lectà, dei significati: Alcuni, e soprattutto quelli della Stoà, pensano che la verità si distingua in tre modi da ciò che è vero […] la verità è un corpo, mentre ciò che è vero è incorporeo; e ciò è dimostrato, dicono, dal fatto che ciò che è vero è una proposizione ἀξίωμα, e una proposizione è un lecton, e i lecta sono incorporei. Ci siamo astenuti dal tradurre l’espressione greca λεκτά, che deriva da λέγειν e significa letteralmente «ciò che è detto», cioè ciò che s’intende quando si parla in modo dotato di senso. Particolare attenzione merita il testo citato per ultimo, riguardante la verità e ciò che è vero. La prima è qualche cosa di psichico e per gli stoici tutto ciò che è tale, in particolare ogni pensiero, è un corpo. Il lecton invece non è una qualità della mente, o, secondo la terminologia scolastica, un conceptus subiectivus. Per usare il linguaggio di Frege, esso è il senso (Sinn) di un’espressione, cioè, scolasticamente, il conceptus objectivus, ciò che s’intende oggettivamente. […] Soltanto che nella Stoà il lecton è diventato l’oggetto principale della logica e l’unico oggetto della logica formale.14
La posizione della semantica porfiriana si è sviluppata nella scolastica, e mi pare giungere con Guglielmo di Ockham a una posizione assai influente anche sulla cultura della modernità. Scrive Guglielmo di Ockham: Si deve dunque sapere che secondo Boezio (Commento al primo libro Dell’espressione) il discorso è triplice, cioè scritto, parlato e solamente pensato nell’intelletto, e che allo stesso modo il termine è triplice, cioè scritto, orale e mentale. […] Il termine mentale è un’intenzione o modificazione dell’anima, per sua natura significante o consignificante qualcosa, capace di entrare come parte in una proposizione mentale (e in grado di supporre per qualcosa). Tali termini mentali e le proposizioni da esse composte corrispondono a quelle parole della mente di cui S. Agostino (nel libro quindicesimo del De Trini-
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J.M. Bocheński, La logica formale, Einaudi, Torino 1972, I, 151-152.
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Fede e culture: premesse medioevali della modernità tate) dice che non sono proprie di nessuna lingua, che restano soltanto nella mente e non possono essere proferite esteriormente, benché esteriormente si pronuncino dei termini che sono segni ad esse subordinati. Affermo poi che i termini orali sono segni ai concetti o alle intenzioni dell’anima, non perché, stando all’accezione propria del vocabolo «segno», quei termini orali significhino primariamente e propriamente i concetti stessi, ma perché i termini orali sono imposti a significare le stesse cose che sono significate dai concetti della mente, cosicché il concetto primariamente e naturalmente designa qualcosa e il termine orale significa la stessa cosa secondariamente. Siccome i termini orali sono stati istituiti per significare qualche cosa che viene significato attraverso il concetto mentale, se questi mutasse il suo significato, anche il termine orale modificherebbe il suo significato senza che intervenga una nuova istituzione. Per questo Aristotele dice che i termini orali sono le note delle modificazioni dell’anima. Dello stesso avviso sono Boezio, il quale afferma che i termini orali significano i concetti, e in generale tutti gli autori, i quali, sostenendo che i termini orali significano le modificazioni dell’anima o sono note di esse, non intendono dire altro se non che i termini orali sono segni che significano secondariamente le stesse cose che sono primariamente indicate dalle modificazioni dell’anima.15
Se la conoscenza termina alla cosa, anche il linguaggio che la esprime ne esprimerà l’esistenza (se sto fantasticando su enti possibili o immaginari, la loro esistenza sarà possibile o immaginaria). Per Aristotele non si dà definizione di ciò che non esiste, e nemmeno scienza. Si può dare una definizione nominale (ratio nominis) nel senso di spiegazione del senso di una parola anche di ciò che non esiste, ma non una definizione reale.16 Se invece la scienza termina al significato di un verbum mentis o comunque a un contenuto concettuale, il problema cambia totalmente, e diventa possibile distinguere un contenuto concettuale da ciò che effettivamente esiste: proprio come nelle dispute tra scettici accademici e stoici ai tempi di sant’Agostino. San Tommaso, quando commenta il passo sopraccitato di Aristotele, avendo sotto gli occhi sia Boezio sia Ammonio, evidentemente opera una scelta, anche se evita ogni tono polemico. Come già abbiamo visto, egli dice: Dove bisogna notare che ha chiamato le lettere «denotazioni», vale a dire segni delle voci, e le voci a loro volta «segni delle passioni dell’anima»; invece le passioni dell’anima, dice, sono «similitudini» delle cose: e questo perché una cosa non viene conosciuta dall’anima se non per mezzo di una qualche sua similitudine esistente o nel senso o nell’intelletto. Le lettere invece sono segni delle voci, e le voci delle passioni, in modo tale però che qui non si trova alcuna ragione di similitudine, bensì soltanto quella di istituzione, come anche in molti altri segni, come per esempio la tromba è il segno della battaglia. Invece nelle passioni dell’anima bisogna che si trovi la ragione di similitudine
15 Guglielmo di Ockham, Summa logicae, I, 1; trad. it. in Scritti filosofici, a cura di A. Ghisalberti, Bietti, Milano 1974, 37ss. 16 Cf. Aristotele, Analitici secondi, 92b, 4-7; 92b, 26-34; Tommaso d’Aquino, Expositio libri posteriorum, lib. II, lect. 6, nn. 2, 6-9.
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Sergio Parenti o.p. con le cose che devono esprimere, perché le designano per natura, non per un’istituzione.17
Egli ha ben presente il discorso di Boezio. E ha pure sotto gli occhi la polemica di Ammonio.18 Egli nota come Aristotele non usi più «segni» per le «passioni dell’anima», anche se poi dice (Tommaso, non Aristotele) che queste «esprimono» e «designano» le cose. Tommaso ammetteva che in linea di massima si potesse parlare di «segni» anche a proposito delle forme (le species) che attuano l’intelletto. «In via comune possiamo chiamare segno qualsiasi cosa nota in cui si conosca qualcosa: da questo punto di vista si può chiamare segno la forma intelligibile».19 Ma nello spiegare che cosa si intenda per «similitudini», il riferimento20 alla dottrina del De anima (III, 2),21 dove Aristotele sfrutta la sua dottrina del libro III della Fisica (cc. 2 e 3),22 non lascia dubbi: la similitudine si ha perché idem est actus di chi conosce e del conosciuto. Il vero infatti, come dice il Filosofo nel VI libro dell’Etica,23 è il bene dell’intelletto. Quindi, di qualsiasi cosa si dica che è vera, bisogna che lo sia per rapporto all’intelletto. Ora, le voci sono in relazione con l’intelletto in quanto segni, le cose invece come ciò di cui le intellezioni sono similitudini.24
Tommaso dichiara pure che il concetto è un segno di un linguaggio mentale. Intelligere è un dicere: […] in nobis dicere non solum significat intelligere, sed cum hoc quod est ex se exprimere aliquam conceptionem; nec aliter possumus intelligere, nisi huiusmodi conceptionem exprimendo; et ideo omne intelligere in nobis, proprie loquendo, est dicere.25
Dietro a queste affermazioni c’è la teologia trinitaria del Verbum e anche il problema del parlare degli angeli, del loro comunicare non sensibile, ma puramente intellettuale. La scolastica tomista barocca, che verrà seguita dai tomisti del tempo della lotta al modernismo, non solo mantenne questa apertura alla seman-
In Perì herm., I, lect. 2, n. 9. Guglielmo di Moerbeke aveva fatto la traduzione del commento di Ammonio al Perì hermeneias, di cui Tommaso si serve più volte. 19 Quaestiones disputatae De Veritate, q. 9, a. 4, ad 4. Le chiama, senza dare spiegazioni, «segni», anche in In Peri herm., I, lect. 8, n. 3, proprio ricordando il passo della lettura 2: dice che si era allora detto che «la voce è segno dell’intelletto e l’intelletto è segno della cosa». 20 Aristotele, Perì herm. 16a, 8-9; Tommaso, nel commento (lect. 2, alla fine), precisa che questo riguarda quali siano le passioni dell’anima e in che modo siano similitudini delle cose. 21 Nel commento di Tommaso cf. la lectio 2, n. 9. 22 Nel commento di Tommaso cf. le lectiones 4 e 5. 23 Aristotele, Etica a Nicomaco VI, 2,1139a 28; commento di Tommaso, VI, lect. 2, n. 7. 24 In Perì herm., I, lect. 3, n. 7. 25 De Veritate, q. 4, a. 2, ad 5; cf. De Potentia, q. 2, a. 4, ad 8; q. 9, a. 9, ad 8. 17 18
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tica porfiriana, ma ne sottolineò l’importanza. La filosofia moderna, dal canto suo, nasceva proprio su questa base. Mario Mignucci ha sottolineato molto bene tale connessione nel suo studio sulla logica stoica, laddove tratta della «rappresentazione».26 Un giudizio criticamente certo, consapevole della propria verità, è fatto di una rappresentazione tale da farci capire che procede da un oggetto esistente, è conforme ad esso, costituisce l’esatta trascrizione dell’oggetto rappresentato, si presenta in modo tale da distinguersi per se stessa da tutte le altre possibili rappresentazioni. Tale rappresentazione, che gli stoici chiamavano «comprensiva» (catalettica), produce nell’anima un assenso come a qualcosa che non può essere falso. Conclude allora il Mignucci: Una terza e ultima considerazione merita di essere fatta a proposito delle rappresentazioni. Esse costituiscono non solo l’elemento comune ad ogni conoscenza, ma anche ciò che propriamente il conoscente conosce quando si rivolge agli oggetti. In altri termini, per gli stoici la nostra conoscenza non termina direttamente e immediatamente agli oggetti, ma alle rappresentazioni di essi. Infatti se si pensa che la rappresentazione comprensiva è il criterio di verità in quanto si presenta con un’evidenza determinata dalla nettezza e precisione dell’immagine, e quindi per un carattere interno ad essa, e non perché il soggetto conoscente sia consapevole dell’identità della rappresentazione con l’oggetto, risulta chiaro che il contenuto della conoscenza per gli stoici è la rappresentazione. Ciò è del resto esplicitamente confermato da Sesto Empirico. […] Si tenga infine presente che la sensazione è definita come un assenso ad una rappresentazione sensibile e che lo stesso vale per la conoscenza intellettuale, sì che l’assenso è corrispondente non alla conoscenza delle cose, ma al realizzarsi di un’«impressione» nell’anima. Non è chi non veda l’analogia tra la posizione stoica e quelle che hanno originato il famoso problema del «ponte» tra i nostri concetti e le cose in sé che ha travagliato tanta parte della filosofia moderna. Naturalmente negli stoici non sembra insinuarsi il dubbio che la corrispondenza tra il pensiero e le cose possa non sussistere: questa è una questione tutta moderna.
Ci sarebbero tante altre cose da dire su questo problema. Basti pensare al problema dell’oggetto della scienza dopo la rivoluzione scientifica di Galileo. Oppure alla questione della natura della conoscenza: è atto di un vivente, capace di un’assimilazione rispettosa delle altre cose del suo mondo, oppure è atto di ermeneutica, proprio di chi dà un’interpretazione ai fenomeni, cioè alle rappresentazioni che appaiono sullo schermo della sua conoscenza? Giovanni Gentile criticava i teologi modernisti perché poneva la sua filosofia, cioè l’idealismo hegeliano che identifica reale e ideale, al di sopra di queste questioni, mentre i modernisti volevano mantenere una trascendenza del reale, almeno di Dio, pur accettando l’immanenza dell’oggetto
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M. Mignucci, Il significato della logica stoica, Patron, Bologna 1965, 67-80.
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conosciuto. Il p. Mariano Cordovani (1883-1950), domenicano, che fu dal 1936 maestro del Sacro Palazzo, così commentava la posizione di Gentile: È un antropometrismo nuovo, che non trova ostacolo né di fronte alla cosa, né di fronte a Dio! Non si accorge, o non vuole accorgersi, che quel dinamismo logico dello spirito è rispecchiamento di realtà, produzione di idee, non creazione di cose.27
E proseguiva con tono preoccupato: Si potrebbe accennare ai riflessi pratici e politici di questa filosofia. Intanto, colui che si crede di essere uguale a Dio e di potere affermare la sua personalità senza riconoscimento di ostacoli da parte di nessuno,28 è per lo meno un essere pericoloso. Se tutto si risolve nell’atto del pensiero autonomo e divino essenzialmente, senza distinzione tra l’intelligenza e volere, tra me e Dio, tutto mi è permesso a condizione che io riesca a farlo.29
5. Conclusione Ho suggerito, alla fine della premessa, un sorriso su noi stessi. Questo può aiutarci a riprendere in mano questioni che sono state affrontate – e ancora oggi vengono affrontate – in un clima di ostilità o almeno insofferenza reciproca. Quello che mi fa sorridere, quanto alla prima delle due radici medioevali della modernità, cioè la riduzione delle forme naturali a forme artificiali, con tutte le conseguenze connesse (quanti teologi sono disposti a parlare di «natura» e di «finalità naturale» senza confonderla con la visione del determinismo stoico?), è il pensare che il materialista ateo ignori di essere in qualche modo figlio di una preoccupazione teologica. Quanto a coloro che vedono la filosofia non come un sapere analogo a quello della scienza, ma come una sorta di linguaggio culturale – per cui il linguaggio scolastico andrebbe sostituito con un linguaggio moderno –, mi fa sorridere pensare a quanto siano debitori alla scolastica medioevale e, a monte, a Boezio e Agostino, dunque a ciò che veniva insegnato nelle scuole dell’impero romano. Infine, quanto a coloro che, per opporsi a questa nuova teologia, si appellano alla filosofia aristotelico-tomista dei tempi del sant’Uffizio, li invito a sorridere sul fatto che, quando spiegano la semantica e il trattato dei «segni» accettando una semantica porfiriana, finiscono per concedere le premesse a coloro che vorrebbero confutare.
M. Cordovani, Cattolicismo e idealismo, Vita e Pensiero, Milano 1928, 78. G. Gentile, Sistema di logica, Laterza, Bari 1923, II, 301. 29 Cordovani, Cattolicismo e idealismo, 79. 27 28
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La formazione del clero nel rapporto Chiesa-mondo
Tullio Citrini
Collocato entro un convegno organizzato da un Dipartimento di storia della teologia, questo tema andrebbe anzitutto inquadrato storicamente. Ma, almeno formulato in questo modo, esso non ha storia, perché «tra Chiesa e mondo» è espressione che risale, se non semplicemente alla Gaudium et spes, a quel contesto immediatamente precedente a essa che ha permesso di scriverla in questo modo. Se radici storiche il tema ha, esse vanno cercate per vie un po’ traverse, non per questo meno interessanti. Il tema del rapporto tra la Chiesa e le realtà secolari, in diverse forme, è tema antico, e propriamente è di sempre. Ma la formazione del clero, che anch’essa ha una lunga storia, ha sempre conservato un tipico profilo ecclesiastico. Quando si parlava di sacerdozio e regno, era chiaro che i preti andavano formati al sacerdozio in alternativa al regno. A suo tempo l’illuminismo giuseppino li pensò buoni servitori dello Stato e come tali volle che fossero formati; ma non era progetto ecclesiale. Oggi il tema merita di essere sollevato e preso sul serio, perché nell’ecclesiologia del Vaticano II la relazione di riferimento è di tutta la Chiesa a tutto il «mondo»: in essa i pastori sono inclusi, prima di essere sottratti a specifiche responsabilità secolari per il servizio del Regno. Aggiungo subito, a mo’ di premessa, che non ho preso qui in considerazione il diaconato. È un limite, ma in concreto può essere cosa buona, perché in prima battuta risparmia di trattare in modo spiccio e frettoloso, macinando apparenti ovvietà, un capitolo enorme e delicato degno di attenzione specifica.
1. Una
buona formazione dottrinale
Per formare il clero, tra Chiesa e mondo è necessario, benché non sufficiente, anzitutto offrirgli una buona conoscenza del tema. Questo 197
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Tullio Citrini
andrebbe detto, con tutta semplicità, in qualsiasi contesto; per particolari motivi nel contesto di una Facoltà teologica. Essa è un’istituzione formativa, e in essa, tra gli altri, si forma del clero. Essa non può pertanto trascurare questo aspetto di una formazione globale, assumendolo dal proprio punto di vista. Non sarebbe sufficiente dissertare di pedagogia girando la questione per competenza a terze istanze. È evidente che questo aspetto intellettuale della formazione chiede molto lavoro ed è molto importante. Non si forma solo insegnando cose teoriche, ma una buona intelligenza è decisiva per ogni questione e situazione che gli uomini debbano affrontare. Per formare il clero al e nel rapporto Chiesa-mondo bisogna dunque spiegargli bene che cosa sia Chiesa e che cosa sia mondo: ci vuole una buona ecclesiologia, una buona morale sociale, e oggi una buona conoscenza di Gaudium et spes (I e II parte, che hanno diverso spessore). E poiché nella II parte si parla di famiglia, di società civile, di ordine internazionale e quant’altro, è necessaria una buona riflessione su questi temi: teologica, filosofica, sociologica e così via. Non si tratterà di rendere il clero specialista di tutto questo, ché a nessuno sarebbe possibile, ma offrire un quadro teorico sufficiente a orientarsi e a cercare la strada quando si resti disorientati è necessario. Vi è poi una dimensione virtuosa, civica, etica da coltivare, intanto che si coltiva l’orizzonte del pensiero. Di questa, molto sinteticamente, intendo dire qualcosa. Infine il tema è estremamente vasto. Quali fini, quali attori, quali destinatari, quali metodi, quali iniziative? Immagino qui di percorrere semplicemente tre passaggi: tre tentativi di indicare piste, guardando verso il futuro più che verso il passato.
2. La cosiddetta «formazione umana» nel senso di Pastores dabo vobis 43-44 Come è noto, Pastores dabo vobis prevede quattro aspetti della formazione del prete: umana, spirituale, intellettuale e pastorale, ma ognuno di essi deve essere «umano»; e che cosa altrimenti? La domanda è che cosa voglia dire «umana»: in se stesso il termine è fin troppo generico. I temi che in PDV vengono specificamente messi a fuoco sono temi di estrema attualità, che riguardano l’umanità del prete, senza escludere che siano umani tutti gli altri aspetti. Si parla di formazione all’equilibrio psicologico: ci sono in giro troppi matti, troppa gente un po’ squilibrata. Poi c’è il problema dell’equilibrio affettivo, che ha certamente a che fare con la psicologia, ma viene affrontato con una serie di sfumature specifiche. Si parla di coscienza morale da maturare nella libertà: anche questo significa molte cose. Potremmo riassumerle nella formazione alle virtù cardinali, che la grazia assume ed eleva, comunque poi si pensi la cosa. Da questo punto di vista la formazione del prete tra Chiesa e mondo, proprio perché umana, non è diversa – non deve essere diversa – da
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La formazione del clero nel rapporto Chiesa-mondo
quella di qualsiasi altra persona. I problemi sono uguali per tutti: per i seminaristi in relazione ai loro coetanei, per il clero in età più avanzata in relazione a chi vive età e problematiche simili. I problemi sono di pedagogia generale, e, se hanno particolare taglio ecclesiastico, lo hanno per l’equilibrio dei diversi soggetti educanti. Ma le dimensioni della personalità nelle quali un ragazzo o un seminarista crescono in oratorio o a scuola sono fondamentalmente identiche, e le eventuali crisi della cultura ambiente e dei soggetti educanti, famiglia e scuola in primo luogo, incidono identicamente su tutti. Questo non vuol dire che non incidano sul clero, che non debbano essere tenute presenti nella formazione del clero: vuol dire che non pongono problemi estremamente diversi da quelli che pongono a tutti. In ogni caso la faccenda è seria: la famiglia, la scuola oggi pongono problemi gravi e complessi, benché forse diversi da quelli del passato. Il fatto su cui forse vale la pena di riflettere è, sotto questo profilo, la fine, globalmente parlando, del modello tridentino di formazione seminaristica. Intendo per modello tridentino quello che assume come punto di partenza la adolescentium aetas (così inizia il decreto tridentino sui seminari). Poiché essa può sbandare se non è retta bene, il concilio di Trento dispose che gli adolescenti, che avessero qualche buona speranza di un futuro nel ministero ecclesiastico, venissero raccolti in appositi istituti che fossero come vivai, come «seminari» di queste vocazioni. Il modello pedagogico tridentino ha dunque questa caratteristica: prevede che la formazione alla maturità umana e quella al ministero avvengano contemporaneamente, in un unico progetto, dal quale la adolescentium aetas è guidata verso una figura sacerdotale globale, globalmente costruita. L’ideale di questo tipo di formazione è che in un’età abbastanza bassa, in un momento ancora adolescenziale, uno cominci a crescere contemporaneamente come uomo e nella prospettiva di un possibile, desiderabile ministero ecclesiastico. La sapienza dei seminari sapeva benissimo da tempo che su questo secondo aspetto non si poteva insistere più di tanto, quando i ragazzi avevano bisogno più di giocare al pallone che di studiare la teologia. Però l’immagine è quella di una crescita contemporanea. Essa è saltata per i molti buoni motivi che hanno messo in crisi i seminari minori. Se poi uno arriva in seminario a 40 anni, difficilmente si può pensare che la sua età sia adolescenziale; e se la sua psicologia è adolescenziale, probabilmente non va bene per fare il prete. L’itinerario della crescita umana generale e l’itinerario della formazione al ministero non si sovrappongono più nella stessa maniera immaginata dal modello tridentino. Neppure si può immaginare univoco, benché diverso da quello tridentino, il modo di articolarsi dei due aspetti della formazione. Su questo, credo che si dovrà riflettere in una teologia dello sviluppo delle vocazioni, della crescita in generale delle vocazioni. Si pone il problema di una pedagogia differenziata, senza immaginare che ogni modo di crescere vada bene, che qualsiasi premessa vada bene. Nessuno
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Tullio Citrini
in verità cresce davvero se non si domanda davvero che cosa farà da grande; tanta gente non si pone la domanda su che cosa farà da grande, ma in quella misura non cresce molto, e intanto gli anni passano. Un po’ di storia può essere fatta, ed è istruttiva. Lo schema tridentino ha funzionato in alcune parti della Chiesa cattolica, come in Italia e in Spagna; da altre parti non ha funzionato, non è facile dire perché, ma la constatazione è sufficiente per concludere che non è ovvio che quel modello funzioni sempre. Il caso clamoroso è la Francia: in Francia il modello dei seminari tridentini non ha funzionato. La «scuola francese» (Vincenzo de’ Paoli, Bourdoise, Olier, Condren) è stata una grande scuola di formazione sacerdotale; essa è nata perché non si è riusciti ad assumere il modello tridentino, non perché volessero fare diversamente dagli altri. I vescovi francesi si sono messi d’impegno per aprire i seminari voluti dal concilio; hanno impegnato molti soldi (e allora non ne avevano molti): con questo risultato però, che praticamente nessuno di questi seminaristi diventava prete. Dopo 70-80 anni di tentativi di questo genere, comprensibilmente, hanno desistito. Allora quel genio che era Vincenzo de’ Paoli ha inventato un procedimento inverso. Ha detto: partiamo dal fondo. Offriamo dieci giorni di ritiro prima dell’ordinazione. Poi i dieci giorni sono diventati un mese; poi tre mesi, un anno; poi tutto il seminario maggiore; infine sono arrivati i seminari minori, ma con una diversa logica. Questa storia naturalmente è molto interessante e bisognerà arrivare a capire che cosa voglia dire. Certo scommette sulla prossimità dell’obiettivo per gente tendenzialmente più matura, non sulla globale crescita nell’età adolescenziale. Poi bisognerebbe anche capire come sia nato il mito del Curato d’Ars, che riusciva male a scuola; lui poveretto riusciva male a scuola perché aveva fatto la scuola di base in un’epoca terrificante, subito dopo la rivoluzione francese. Benché si impegnasse a studiare, i libri erano in latino e lui lo sapeva poco perché non glielo avevano insegnato. Poi è nato un mito, che io ho trovato ancora quando ero seminarista tanti anni fa, per cui il Curato d’Ars appariva un ideale perché era ignorante, e di conseguenza si coltivava l’idea che meno il clero è istruito meglio è. Questo mito, secondo me, non va molto al di là di un contesto antimodernista in cui tutte le cose un po’ colte facevano paura. Questi miti andrebbero verificati, perché sono fenomeni di popolo difficilmente afferrabili. Nessuno ha mai teorizzato, credo, queste cose; il clero ha ricevuto una formazione di tutto rispetto, in generale, nei seminari, nei secoli. Ma questo non è «tra Chiesa e mondo»: chi teorizzava l’ignoranza lo faceva a tutto campo, in sacris e in saecularibus. Passiamo oltre. Riusciremo infine a produrre una sintesi migliore di umanesimo – cristiano – e di formazione ministeriale? Non è facile dirlo in astratto. Ci si deve provare. Vale la pena di crederci e di vedere a quali condizioni possa la formazione essere migliore e più adatta all’umanità e alla missione delle Chiese d’Occidente contemporanee. Per le altre Chiese vanno fatti discorsi diversificati.
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La formazione del clero nel rapporto Chiesa-mondo
3. La
formazione a stare al proprio posto , senza clericalismi
Un secondo aspetto della questione riguarda la formazione a evitare il clericalismo nelle sue molteplici forme. Rigorizzare il concetto di clericalismo sarebbe stato un mio desiderio da almeno mezzo secolo; io ho fatto altro, ma se qualcuno ci volesse provare farebbe un lavoro interessante. Mi ha provocato un mio ex compagno di liceo quando gli ho mandato a dire: «Guarda che il giorno tale nella mia parrocchia farò la vestizione clericale». Io intendevo clericale come l’aggettivo che deriva da clericus, e lui si è messo a ridere, e mi ha risposto su quel tono. Lì ho capito una cosa importante, che clericale non è semplicemente l’aggettivo che deriva da clericus. Nel linguaggio del clero può anche essere questo, ma in genere ha altra inflessione. Lo sapevo benissimo, naturalmente, ma non ci avevo fatto mente locale. Da lì mi è nato il desiderio di capire che cosa sia esattamente il clericalismo. Racconto questo per inquadrare il problema. Secondo me clericalismo è mettere a vanvera elementi tipici del clero dove non devono starci. Questo chiede il rispetto delle istanze laiche precisamente tra Chiesa e mondo, e anche il senso di rispetto delle diverse vocazioni all’interno della Chiesa. Il parroco deve fare il parroco e il sindaco deve fare il sindaco; ma anche nella comunità ecclesiale il parroco deve fare il parroco e il sacrista deve fare il sacrista, il catechista deve fare il catechista ecc. Sono due livelli formalmente diversi di clericalismo: nel primo si gioca direttamente la relazione Chiesa-mondo, nell’altro quella intraecclesiale tra clero e laicato. Ma sono legati da un’analoga problematica, e pure nella loro diversa formalità chiedono di essere risolti attraverso una disposizione alla relazione fraterna, cioè a non pensare se stessi isolatamente, e comunque gli altri relativi a noi, ma anche viceversa. Si tratta di coltivare il senso dell’altro come segno di Dio; e per un prete, o per chi si prepara a diventarlo, è facile invece immaginare viceversa e sognarlo. Si tratta di coltivare una disposizione virtuosa, della famiglia dell’umiltà, che vive di capacità di relazione, e quindi di capacità di ascoltare, di imparare ecc. Qui l’ostacolo è la tendenza a sentirsi il centro dell’universo, la facile acquiescenza alla mentalità del privilegio, che sa ammantarsi di mille ragioni apparentemente spirituali. Questo è facile da capire, anche facile da smascherare in teoria; difficilissimo in pratica. Contro di esso vale la cura di uno spirito di servizio nella Chiesa. Ci sono cose ragionevolmente clericali: il clergyman è un vestito clericale, lo dice anche il nome. Una visibilità del ministero in diverse forme può essere utile, come può essere utile la visibilità del commesso del supermercato, che porta un grembiule con lo stemma della ditta, come è utile la divisa dei vigili urbani o dei poliziotti, quando non abbiano motivi per agire «in borghese». Qualche distinzione, da cui risulti visibilmente, sociologicamente, anche psicologicamente l’identità dei ministri
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della Chiesa, del clero cioè, può essere funzionale: un perfetto mimetismo sarebbe contrario al mistero sacramentale della Chiesa. Quanto, con quali criteri, con quale senso e impatto, non è automaticamente deducibile dal principio astratto della visibilità che il ministero deve avere. Non si tratta solo di vestiti, ma di modalità molto varie di comunicazione, spesso sottili. In tempi diversi caratteristiche diverse sono state funzionali al servizio, non necessariamente all’orgoglio, alla vanità, alla prepotenza. È giusto dire che, dove più dove meno, gli aspetti che noi consideriamo buoni o meno buoni, equilibrati o meno equilibrati, sono convissuti e spesso convivono in sintesi difficilmente districabili. La storia è intessuta di mille complicità: vi sono tendenze clericali nel clero che fanno comodo anche agli altri: ai laici cristiani perché deresponsabilizzano, e questo è avvilente ma spesso comodo; ai laici battaglieri, nemici o anche solo scostanti verso la nostra santa religione, perché un avversario grottesco è più facile da combattere. Il criterio generale non può che essere «per servire, non per essere serviti». È difficile che non ci sia almeno un po’ di sforzo verso l’umiltà, verso la buona relazione ecclesiale non clericale. Tuttavia riesce così bene essere clericali! Chi può formare a questo? Il clero non basta. Un rettore di seminario deve formare i seminaristi a questo, ma non basta. Non basta neanche un direttore spirituale. Neanche un vescovo basta. Questo si può imparare solo in un circolo virtuoso in cui laici maturi siano coinvolti e sappiano coinvolgersi anche nella formazione del clero. Il primo campo in cui questi laici maturi sarebbero chiamati ad agire è naturalmente la famiglia. Se uno cresce già in famiglia in una consapevolezza non clericale, è meglio. Poi tutti i cristiani devono contribuire a formare il loro clero in maniera non clericale. Non basta affermare genericamente questo; bisogna che siano anche maturi. Si può crescere tutti insieme. Formulerei le condizioni del progetto in modo simmetrico: un laicato che non si fa stimare non può far crescere un clero che lo stimi; un clero che non si fa stimare non può far crescere un laicato che lo stimi. Che la cosa sia perfettamente simmetrica garantisce che possa essere buona. Il laicato non può stimare il clero e lasciarsi anche formare da esso soltanto a partire da un’affermazione teorica dell’autorità ecclesiale del clero. Non basta dire che io sono il parroco per farsi stimare. Il clero non può stimare il laicato e lasciarsi formare anche da esso soltanto a partire da un’affermazione teorica di questa necessità. Si può affermarlo in teoria, come io stesso qui sto facendo; si può rivendicarlo con forza, con i cartelloni davanti alla casa canonica. Ma in concreto un laicato che non si faccia stimare non può far crescere un clero che lo stimi. Con quali criteri? È un problema piuttosto intrigante. Come fai a sapere se un laico è maturo? Come fai a riconoscere le competenze altrui da rispettare? Come fai a sapere se dialoghi con le persone competenti o con quelle incompetenti e magari sbruffone? Ci può capitare di diventare fanatici per gente che riteniamo competente, e magari i loro colleghi non li stimano. Ci sono laici che si danno molte
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arie dicendo che loro sono competenti. Lo stesso vale per il clero: ci sono quelli che hanno tanta chiacchiera. Il problema è sottile: bisognerebbe avere esattamente le competenze che non si hanno, per potere valutare la competenza altrui e rispettarla; ma siccome per definizione queste competenze non si hanno, probabilmente bisogna cominciare a dialogare con intelligenza e pazienza, e dall’interno del dialogo maturerà questa consapevolezza. Il problema esiste. Nella Chiesa e nel mondo ciascuno deve fare la sua parte, e il Signore si afferma in questo e opera come educatore di tutti. I carismi sono diversi, ma le virtù cristiane che li innervano e li vivificano sono assolutamente identiche. Quando il Signore è sentito come educatore di tutti insieme, si può crescere in diverse vocazioni, insieme, secondo diverse istanze ma con identiche virtù cristiane.
4. La formazione al rapporto Chiesa-mondo vissuta
a livello di carità pastorale
Il concilio ha detto, prendendo spunto da san Paolo, che la carità è il vincolo della perfezione cristiana per tutti. Qualificata in modo pastorale per il clero, è il luogo di sintesi della personalità, della santità, della spiritualità del clero stesso; come la carità missionaria, martiriale, coniugale ecc. per gli altri. La Lumen gentium su questo è ricca anche di esemplificazioni. Se questo è, la formazione del clero nel rapporto Chiesa-mondo dovrebbe implicare che la carità pastorale si configuri come la carità di un pastore capace di esercitare il ministero all’interno di una Chiesa ben collocata nel mondo, e senza essere così clericale da pretendere di dettare lui le norme di tutto questo. Neanche però sottraendosi, dicendo che il rapporto Chiesa-mondo è opera soltanto di altri: perché esso è opera di tutta la Chiesa e c’è comunque un compito di pascere, e la domanda che cosa voglia dire pascere tra Chiesa e mondo non ha una risposta ovvia. Per questo io qui lancio un segnale, e poi non so bene come si possa concretizzare la cosa. Si è usato il concetto di presiedere, a partire dall’esperienza liturgica – e poi questo concetto è uscito dal semplice ambito della liturgia per dire la presidenza dell’intera comunità cristiana. In un primo momento – i più arcaici di noi si ricordano – sembrava un concetto «repubblicano»: le repubbliche hanno un presidente, mentre «re» è un concetto monarchico. Dopo, pian piano, esso è slittato in senso imperialista, per cui «io presiedo» significa lo stesso come «io comando». La parola è rimasta tal quale, ma la sfumatura semantica è decisamente cambiata dagli anni dell’immediato post-concilio a questa parte. Su questo bisognerà stare attenti. Però noi non possiamo permetterci di buttar via ogni 30 o 40 anni tutto un immaginario, come fa la pubblicità, il cui linguaggio è «usa-egetta»: essa deve vendere il prodotto e poi inventerà altro. 203
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Noi dobbiamo elaborare un pensiero che non dico tenda a durare tal quale sino alla consumazione dei secoli, ma serva a gestire un cammino di Chiesa che si può presumere sia ancora abbastanza lungo. Non possiamo permetterci di buttare via facilmente i concetti teologici a motivo dei loro inevitabili limiti; è meglio che cerchiamo di utilizzarli bene. Presiedere può anche qui implicare il dovere di dare il buon esempio, ma non può trattarsi solo di questo. Cominciamo a fare questo e sarà già un buon risultato, ma non può essere tutto. Neppure può implicare una sorta di supercompetenza che soffochi la competenza di ciascun «laico» e sindachi su tutto («Adesso ti insegno io come devi fare il laico». Calma!). Si è parlato a suo tempo di presidenza nel discernimento delle vie dello Spirito. È una cosa molto interessante. Forse ce ne si è dimenticati troppo velocemente. Purché non significhi sequestrare lo spirito di profezia e di intelligenza spirituale. San Paolo ha detto che «l’uomo spirituale giudica tutto». Ma chi ha detto che siamo noi l’uomo spirituale? Questo san Paolo non lo ha detto. Presiedere una Chiesa che viva questo significa anzitutto, a mio avviso, custodirne la dimensione escatologica, custodire nella Chiesa il senso che tutti insieme siamo orientati, proiettati nell’attesa di un di più, che ha il volto del Signore Gesù, ma la cui simbolica nella storia in quel segno che è la Chiesa non è così trasparente da farci dire: praticamente è come se vedessimo il Signore Gesù. Anzi bisogna diffidare molto di quelli che dicono che sembra di vedere Gesù. Reimparare la presidenza dell’eucaristia è sempre una cosa complicata. Leggere le cose che sono sul messale e transustanziare, una volta che uno sia stato validamente ordinato, è cosa facilissima. Se non è analfabeta, sa leggerlo, per lo meno. Al suo tempo, san Vincenzo de’ Paoli trovava preti che non confessavano perché non sapevano la formula dell’assoluzione. Oggi non è così. Presiedere la Chiesa in questo modo significa promuovere la fusione non tanto in un’unica voce, ma in un unico coro, se possibile. Vuol dire leggere insieme i segni dei tempi. È una bella parola: che cosa vuole dire poi? Paolo VI aveva proposto questa strategia in un mirabile capitolo tanto dimenticato di Octogesima adveniens: la Chiesa locale è luogo dove mettere insieme coloro che hanno modi molto diversi di vivere nel secolo a ragionare alla luce della fede di queste cose. Non si è proprio fatto. O forse qualche rara volta lo si è fatto, anche recentemente. Ma non è necessario che si faccia soltanto a livelli molto alti. Paolo VI parlava di una comunità locale. Pensate che si riesca a fare in una parrocchia, in una città, in una diocesi? Bisognerebbe provarci, senza appiattirsi necessariamente; cercando di leggere insieme i segni dei tempi in relazione a questioni generali, a questioni comuni che riguardano il vissuto attuale. Vuol dire infine richiamare instancabilmente alla vocazione di tutta la Chiesa a fare questo, con pazienza e rispetto, con energia e misericordia, con capacità di intuizioni di perdono costruttive e abitate dall’amore. Vuol dire custodire i legami di tutto questo con la radice apostolica, cioè ricordare che nella radice apostolica troviamo il criterio che proietta la
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Chiesa verso il ritorno del Signore Gesù. In concreto nella Bibbia, per esempio; nell’eucaristia, certamente. Come si educa a questo? A mio avviso si fa dicendolo e riflettendoci, ma soprattutto facendolo. E qui poi concluderei: le cose buone che ciascuno desidera dai pastori della Chiesa, le dica. Magari se ne discuterà. Ho scritto quest’ultima cosa, e poi ho detto a me stesso: sei ancora sempre quello che vive con i sogni del primo post-concilio, e non te ne sei ancora accorto. No, mi sono accorto. Mi sono anche troppo stufato di dire per nulla le cose che vanno dette. È molto grave che questo succeda nella Chiesa, dove, quando le cose non funzionano, non si dicono più, perché «tanto è tempo perso». Bisognerà che tutti insieme nella Chiesa ci impegniamo in questo, a una conversione interiore. Perché è vero che il più delle volte è tempo perso; ma non è detto che non ci sia una strada alternativa.
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Formare la coscienza: la proposta educativa di Giuseppe Lazzati per il laicato
Ilaria Vellani
Sono passati ormai 25 anni dalla morte di Giuseppe Lazzati. La bibliografia, ora amplissima, ha messo in luce le molteplici dimensioni della sua personalità, che permettono di tracciare un profilo poliedrico, e allo stesso tempo unitario, nel quale si può scorgere, come filo rosso, la passione educativa che ha caratterizzato in vario modo e in forme diverse l’intera vita di Lazzati. Lo stesso cardinale C.M. Martini, nell’omelia in occasione dei funerali di Lazzati, ha visto «nell’opera ininterrotta di educatore di coscienze giovanili» l’opera a lui più congeniale, nella quale mostrava un carisma straordinario.1 Un carisma non improvvisato, ma sostenuto dalla solida spiritualità, dalla riflessione teologica seria e competente, dalla limpida professionalità, dalla riflessione ininterrotta sul rapporto tra cristiani e società: una riflessione che vede le sue prime e lucide intuizioni già nell’esperienza alla guida della GIAC milanese (1933-1943) e nell’esperienza del lager, condensata nello splendido testo Il fondamento di ogni ricostruzione.2 Per questo, nell’offrire un contributo al tema dell’educazione del laicato in Italia, abbiamo ritenuto più interessante non tanto tracciare un percorso storico delle vicende del laicato, o di interpretare i documenti e le evoluzioni della riflessione della Chiesa italiana sui laici – che peraltro trova un ultimo riferimento nel Convegno ecclesiale di Verona del 2006 e negli orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio Educare alla vita buona del Vangelo – ma osservare questo medesimo
1 C.M. Martini, omelia alle esequie funebri, pubblicata in C.M. Martini, Lazzati testimone e maestro, AVE, Roma 2009, 31. 2 In quelle «baracche fredde, umide e scure dei campi di concentramento germanici»; cf. G. Lazzati, Il fondamento di ogni ricostruzione, Vita e Pensiero, Milano 1947.
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processo attraverso lo sguardo di chi, come Lazzati, di quel processo è stato lucido protagonista, infaticabile maestro, appassionato responsabile del cammino dei laici e in particolare dei giovani.3 Lazzati, come afferma Luciano Caimi, è stato un educatore militante, nella cui «ricca personalità, sapienza cristiana e sagacia pedagogica si armonizzavano, dando risalto a una figura di maestro stimato da giovani e non».4 Non svolgeremo, con questo intervento, la biografia di Lazzati ma, tenendola come sfondo,5 ritroveremo alcuni tratti della proposta che Lazzati ha elaborato con la sua vita, con le sue scelte, dentro le responsabilità e le vicende che lo hanno visto protagonista del cammino della Chiesa negli anni precedenti e immediatamente seguenti il concilio Vaticano II. Nell’interpretazione di questa proposta è possibile cogliere alcune delle sfide avvertite da Lazzati e, in chiaroscuro, anche alcune sfide che sono oggi davanti a noi. Si possono individuare nella vita di Lazzati tre direttrici che esprimono il suo carisma educativo: la preoccupazione per la formazione di una coscienza cristiana, di una coscienza laicale e infine di una coscienza politica.6 Si tratta di tre preoccupazioni che si possono individuare in aspetti puntuali del suo percorso, ma che ritroviamo comunque sempre presenti, magari con sfumature e accenti differenti, nell’intera sua esistenza, perché necessariamente presenti nell’esistenza di ciascuno. La formazione integrale dell’uomo passa attraverso tutte queste dimensioni. Punto focale dell’istanza educativa di Lazzati è, dunque, la coscienza, o meglio l’opera di «cristificazione» della coscienza, che è opera di cristificazione dell’uomo. Così si esprime chiaramente nel già citato Il fondamento di ogni ricostruzione.7 Il testo, scritto all’indomani della liberazione dal lager, vuole tracciare un’analisi della vicenda storica che ha portato l’Italia e l’Europa dentro l’esperienza terribile dei totalitarismi. Lazzati ritiene che sia necessario, innanzitutto, maturare un’interpretazione seria
3 Giovani che Lazzati incontra nell’esperienza dell’Azione cattolica milanese, nell’Università Cattolica, nei corsi tenuti dal professore prima nei Gruppi Servire, poi all’Eremo San Salvatore di Erba, o nelle conferenze e, più semplicemente, nei rapporti personali. 4 L. Caimi, «Giuseppe Lazzati: la testimonianza di un educatore cristiano», in Proposta educativa 2(2009), 61; e ancora sulla militanza educativa Id., «Giuseppe Lazzati, un’ininterrotta passione educativa», in Rivista del clero italiano XCI(2010)7-8, 543-550. 5 Che si può considerare diffusamente conosciuto per chi conosca le vicende della Chiesa italiana e del movimento cattolico del XX secolo, ma di cui si può trovare una felice sintesi in A. Oberti, Giuseppe Lazzati: aspetti e momenti di una biografia, AVE, Roma 1994. Per una bibliografia aggiornata segnalo S. Fieni, Giuseppe Lazzati. Un laico fedele, Franco Angeli, Milano 2011. Segnalo anche «Perché la religione? Giuseppe Lazzati», in Humanitas LXVI(2011)2-3, 391-505, nel quale sono pubblicati gli Atti del convegno svoltosi, nell’ottobre 2009, all’Università Cattolica di Milano, in occasione del centenario della nascita, dal titolo Coscienza cristiana e rinascita democratica. L’impegno educativo di Lazzati. 6 F. Monaco, «Costruire la città dell’uomo a misura d’uomo», in Humanitas LXVI(2011)23, 489. In questo articolo l’autore sottolinea come la tensione educativa di Lazzati sia un fiume carsico che in qualche passaggio affiora più esplicitamente. 7 «Il problema urgente ed essenziale è, dunque, proprio e solamente quello di questa cristificazione dell’uomo» (Lazzati, Il fondamento di ogni ricostruzione, 59).
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di quanto accaduto, per poter cercare le strade possibili per la ricostruzione del tessuto civile, sociale ed ecclesiale del Paese. Ed è con questo spirito che Lazzati arriva a chiedersi se non ci siano responsabilità da parte dei cristiani.8 La risposta è positiva, le responsabilità ci sono: non si sarebbe giunti a questo punto se i cristiani fossero stati veri cristiani. Occorre dunque comprendere le cause e cercare le strade per edificare una civitas humana, una città dell’uomo a misura di ogni uomo. Le strade sono quelle che Lazzati ha tracciato, indicato, seguito nella sua vita, nelle sue scelte, nelle sue parole e che costituiscono una proposta per il laicato: lavorare con pazienza instancabile per la formazione della coscienza dell’uomo, aiutando la Chiesa, l’Azione cattolica, la stessa Università Cattolica – quando ne diventerà rettore – ad assumersi la responsabilità della formazione integrale dell’uomo, che ha le sue radici in una spiritualità solida e serena.9 L’approdo a questa chiarezza nelle priorità educative viene certamente dall’esperienza del lager, ma anche da quella, non meno difficile, della guida della Gioventù di Azione cattolica nella Milano degli anni Trenta-Quaranta. È proprio nella diversità di impostazione rispetto al presidente nazionale, Luigi Gedda, che Lazzati svolge una funzione essenziale per la storia dell’associazione e più in generale per il movimento cattolico. Egli promuove e sostiene iniziative che favoriscono il passaggio dall’organizzazione di massa a un’impostazione maggiormente attenta alla formazione delle coscienze.10 Come afferma Marta Margotti, per Lazzati le possibilità di risposta della Chiesa alle sfide della società di massa erano contenute, più che nella forza dell’organizzazione, nella capacità dei fedeli di agire sulla base di una solida formazione interiore, sia spirituale che culturale.11
Di fronte a un modello che intendeva la Chiesa come assediata dagli attacchi della modernità, cui si poteva rispondere rafforzando gli elementi organizzativi e compattando il laicato, la proposta di Lazzati avanzava invece l’idea – poi accolta dal concilio Vaticano II – che il mondo è il
8 Ivi, 61. «Sembrava una necessità primaria, una volta riconquistata la libertà, lavorare per creare nei cattolici conoscenza e coscienza di che cosa significhi pensare e agire politicamente e della primarietà di tale impegno per il cristiano laico» (G. Lazzati, «Schema lazzatiano delle priorità per l’associazione 1985», in G. Formigoni – L.F. Pizzolato, Giuseppe Lazzati e il progetto di «Città dell’uomo», In dialogo, Milano 2002, 209). 9 G. Formigoni ricostruisce questi aspetti, fornendo anche una sintesi accurata del dibattito su queste questioni, in «La lezione di Maritain e l’esperienza di Lazzati», in Humanitas LXVI(2011)2-3, 429-460. 10 M. Margotti, «Lazzati dopo Lazzati», in Humanitas LXVI(2011)2-3, 499-505. Cf. anche G. Vecchio – L. Caimi, Lazzati educatore, AVE, Roma 1992; M. Malpensa – A. Parola, Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), il Mulino, Bologna 2005. 11 Margotti, «Lazzati dopo Lazzati», 502.
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luogo, lo spazio, entro cui i credenti operano e attraverso cui divengono santi; che esso non è un attentato alla Chiesa ma, proprio in quanto creato da Dio, e dunque buono,12 via privilegiata per i laici per la loro vocazione. La prospettiva lazzatiana impone una conversione dello sguardo: le difficoltà della Chiesa non vengono dalle ostilità esterne, ma piuttosto dalle carenze nella formazione dei credenti. È all’interno di questo quadro che si colloca la riflessione sul ruolo dell’Azione cattolica, sul quale non mi soffermerò, ma che sarebbe importante proprio per comprendere lo sviluppo della proposta al laicato. Una riflessione sul ruolo dell’Azione cattolica sviluppata compiutamente da Lazzati nel secondo dopoguerra, e che trova la sua espressione nella famosa distinzione tra azione cattolica e azione politica: l’Azione cattolica è come un umile scalpellino che prepara le pietre vive, cioè le persone, per il compito architettonico e costruttivo che è l’azione politica. Lazzati, capace di raffinate, e dunque profonde, distinzioni, recupera e introduce così nel dibattito italiano quella distinzione avanzata da Jacques Maritain tra l’azione «da cristiano» e l’azione «in quanto cristiano». Azione «da cristiano» è quella che viene compiuta con la coerenza personale della fede e con autonoma responsabilità da parte del laico; azione «in quanto cristiano» è quella compiuta rappresentando e coinvolgendo la Chiesa tutta. Secondo Lazzati il compito dell’Azione cattolica è limitato a questo secondo tipo di azione, mentre va difesa l’autonomia dell’azione politica dei laici. Le loro azioni da cristiani, sia pur nell’ambito della morale e del firmamento teologico fissato dalla gerarchia, «sono affidate alla loro responsabilità, infatti essi agiscono a loro rischio e pericolo».13 Dunque, la proposta di formazione per i laici è di ripartire dalla coscienza, dalla cura di tutte le sue dimensioni: ecclesiale, laicale, civile. Come ci si prende cura della forma della coscienza? Attraverso la preghiera, lo studio della teologia, coltivando la propria professionalità – perché in qualunque mestiere la grazia non colma le mancanze della nostra preparazione – esercitando intelligenza critica su aspetti precisi della situazione politica, distinguendo tra il riflettere criticamente fondato e il fare politica, osservando tutto con intelligenza, tenendo insieme le maglie della cultura. La proposta educativa di Lazzati si sviluppa anche nella distinzione del significato del termine «coscienza», che, nell’accezione lazzatiana, sembra tenere insieme due sfumature, entrambe importanti. Coscienza è intesa nell’accezione classica del pensiero cristiano, come spazio privilegiato di presenza e trasparenza con Dio, dunque come il luogo prioritario in cui operare quella cristificazione che abbiamo detto; ma coscienza è intesa anche come consapevolezza, come avere coscienza. È questo un punto importante: non è possibile assumere la dimensione di Cristo, se
G. Lazzati, Maturità del laicato, La Scuola, Brescia 1962. Id., Laici cristiani nella città dell’uomo. Scritti ecclesiali e politici 1945-1986, a cura di G. Formigoni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, 69-78. 12 13
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non viene coinvolta la libertà di ciascuno in questo cammino; sarebbe una proposta dis-umana. Se formare l’uomo significa formare a Cristo, questo non può che compiersi nella libertà, intesa come consapevolezza. Per un laico avere coscienza di sé significa avere consapevolezza della propria specifica vocazione. È molto bello scorrere i testi degli anni Quaranta-Cinquanta di Lazzati, e ritrovare in queste pagine lo stesso sguardo che poi si ritrova leggendo le pagine del concilio Vaticano II dedicate ai laici. Vediamo in Lazzati un’insistenza sulla coscienza di essere laici. La laicità non è una vocazione secondaria, o descrivibile in termini negativi – non-religiosa, non-sacerdotale – ma è una vocazione che va descritta in positivo: essa è la vocazione di chi è chiamato a ordinare le cose temporali, create e volute da Dio, secondo Dio, secondo il suo sguardo.14 Dunque, nuovamente, se da laici vogliamo fare questo, occorre conoscere il suo sguardo – e allora tutta l’insistenza sulla forma della coscienza. Scrive in Maturità del laicato: Tutte le attività volte a regolare l’uso e il rapporto dell’uomo con le cose e il rapporto degli uomini tra loro, in ordine a sviluppare il creato perché serva a rendere gli uomini tutti sempre più capaci di camminare verso la casa del Padre, tutte queste attività sono di per sé buone perché comandate da Dio […] queste realtà temporali che per sé sono buone, sono finalizzate insieme alla crescita dell’uomo e della realtà tutta. […] Non importa sviluppare la realtà come che sia, bisogna svilupparla al servizio dell’uomo. E quando dico dell’uomo non dico di un uomo, ma della umanità tutta.15
Ordinare le realtà temporali è necessario al regno di Dio, ed è un compito che solo i laici possono assolvere perché richiede che ci si collochi all’interno dell’opera da compiere. Sono i laici coloro che sono chiamati a vivere dentro le strutture e le attività proprie del mondo. Se non compiono questa operazione, che Lazzati chiama di «consacrazione» del mondo, essa rimane incompiuta. Affermare questa specificità non significa reclamare diritti, ma piuttosto affermare doveri di cui ciascun laico dovrà rendere conto. Significa anche impegnare la Chiesa tutta in questo compito, nell’assumersi la responsabilità di educare i laici alla sapienza dell’ordinare la realtà secondo Dio. Avere chiara coscienza dei compiti del laico si accompagna alla necessità di custodire una spiritualità valida per portarne il peso. D’altro canto una spiritualità autenticamente laicale non può esimersi o sfuggire dal confronto con tutti gli uomini, con la cultura, con la politica. Questo circolo virtuoso conduce Lazzati a ritenere che sia necessario educare e formare a pensare politicamente. L’impegno nelle realtà temporali non è immediatamente apostolato, lo diventa nel momento in cui è fatto da un uomo che si sta sforzando di conformarsi a Cristo. Solo in questo dinami-
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LG 31: EV 1/362s. Lazzati, Maturità del laicato, 84.
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smo le opere degli uomini diventano trasparenti e permettono di rivelare la presenza in esse di figli di Dio.16 L’apostolato tipico del laico si esprime nel fare da cristiano – cioè forte della propria fede e assumendosi tutta la responsabilità delle proprie scelte – le opere proprie della vita quotidiana, familiare, professionale, pubblica. È questa la dimensione della testimonianza, cioè di una fedeltà senza incrinature al cospetto di quel mondo che il laico non può e non deve odiare. Vi è poi una dimensione indiretta di apostolato: è l’azione che mira alle strutture della vita sociale e politica nell’intento di tradurre in esse le esigenze di una vita associata che tragga ispirazione dal cristianesimo. Questa dimensione Lazzati l’ha vissuta prima nell’esperienza diretta dell’Assemblea costituente, poi l’ha vissuta nella sua intera vita di formatore e professore, di rettore della Università Cattolica, nell’elaborazione della proposta di Civitas humana (1946-47), e, negli ultimi anni della sua esistenza, nella fondazione dell’associazione Città dell’uomo (1985). L’invito, rivolto ai cattolici italiani, è stato un invito a esercitarsi di più a pensare politicamente, a ritrascrivere dentro le categorie proprie della politica, dentro i suoi propri strumenti, il ricco patrimonio di ideali, valori, ispirazioni di cui sono depositari. In questo frangente la proposta di Lazzati è una proposta che segue la logica dell’et… et, che si plasma su quella lettera A Diogneto tanto cara al professore per la sua paradossalità. La politica è, per Lazzati, un’attività aristotelicamente architettonica e deve fondarsi su un’antropologia e sulla cultura. Essa richiede preparazione da parte di tutti, in specifico dei cristiani che hanno un supplemento di responsabilità: non basta, infatti, essere buoni cristiani per essere buoni politici. Richiede preparazione perché è una scienza pratica, chiamata a trovare sintesi storiche, in cui si procede per approssimazioni e scegliendo verità probabili. La politica non è né arte meccanica di applicazione di principi generali, né arte strumentale per il perseguimento di interessi particolari, ma è arte inclusiva, tesa al raggiungimento del bene comune, che è bene di tutti e di ciascuno. Proprio perché opera architettonica, è opera di confronto aperto, libero, limpido con posizioni e impostazioni differenti, possiede una dimensione culturale che va coltivata e irrobustita. Dunque senso della laicità, mediazione culturale, competenza professionale, attitudine dialogica sono gli ingredienti indispensabili per divenire cooperatori degli uomini di buona volontà per costruire insieme la città dell’uomo a misura di ciascuno. Questa è la proposta esigente di Lazzati per i laici. Essa è ancorata allo sguardo di Dio sull’uomo e sul mondo, è una proposta esigente perché la vita, le situazioni, la realtà è esigente, perché il mondo ha diritto ad avere laici maturi, seri, lucidi, appassionati al regno di Dio e alla Chiesa. Osservando la risposta che Lazzati ha dato nel contesto italiano del Novecento, si possono intuire alcuni snodi che oggi sono ancora aperti.
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G. Lazzati, Chiesa, laici e impegno storico, Vita e Pensiero, Milano 1987, 165.
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Formare la coscienza: la proposta educativa di Giuseppe Lazzati per il laicato
Un primo aspetto problematico è quello del sostegno della vocazione laicale, intesa come una scelta che ha bisogno di discernimento e di elaborazione, e poi di cura e di sostegno, come qualunque altra vocazione. Un secondo aspetto, non meno importante, è quello che riguarda la formazione teologica, biblica e pastorale dei laici. Questo aspetto, ricordato anche dagli Orientamenti per il decennio della CEI, deve trovare forme concrete di attuazione. È ancora di grande attualità il richiamo di Lazzati a costruire una diffusa sensibilità politica, non solo fra i credenti. Pur nella logica dell’A Diogneto c’è una responsabilità anche dei credenti nella costruzione di un tessuto sociale e politico capace di coltivare la cura per la città dell’uomo. Infine, ma forse si poteva mettere all’inizio, vi è l’urgenza di elaborare, come viene sempre ricordato negli Orientamenti della CEI, forme, strumenti, luoghi per sostenere la formazione permanente degli adulti, e in particolare della prima fase dell’età adulta, quando si assumono responsabilità nuove in ambito lavorativo, familiare, sociale.17 Lazzati ha contribuito a costruire una coscienza laicale di spessore che è un dono per la Chiesa, ha richiamato alla vocazione dei credenti: «Quello che è l’anima nel corpo, questo sono i cristiani nel mondo». Questa citazione dalla lettera A Diogneto, che, come ricorda il cardinale C.M. Martini, esprime pienamente ciò che il Vaticano II ha indicato come compito del cristiano laico, è la sintesi più appropriata per descrivere l’esistenza di quel limpido testimone e impareggiabile maestro di maturità cristiana18 che è stato Giuseppe Lazzati.
17 18
CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, nn. 54-55: ECEI 8/3880ss. Martini, omelia alle esequie funebri.
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Elenco degli autori
Paolo Boschini Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna. Tullio Citrini Pontificio Seminario Lombardo, Roma. Severino Dianich Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, Firenze. Fabrizio Mandreoli Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna. Maria Teresa Moscato Alma Mater Studiorum, Bologna. Sergio Parenti o.p. Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna. Michel-Yves Perrin École Pratique des Hautes Études, Sorbonne, Paris; Laboratoire d’Études sur les Monothéismes; Centre National de la Recherche Scientifique; Unité mixte de recherche 8584 EPHE-CNRS. Davide Righi Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna. Giancarlo Giuseppe Scimè Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna. 215
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Elenco degli autori
Marco Settembrini Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna. Ilaria Vellani Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna.
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Indice dei nomi
Abelardo vedi Pietro Abelardo Abramo Bar Dāšandād 155 Abramo di Tiberiade 148 Abū al-Farağ ‘Abdallāh Ibn al-Tayyib 147 148 Abû Hâmid Mohammad Ghazâlî 187 188 Abū Nūh 155 Abū Nūh al-Anbarī 155 Adapa 119 132 Afraate 153 Agamben G. 179 Agazzi A. 78 81 Agostino di Ippona 5 55-57 59 64-66 68 69 74-110 139 149 160-162 191-193 196 Alessandro l’Acemeta 153 Alfaro J. 10 Algazel vedi Abû Hâmid Mohammad Ghazâlî al-Mahdī 155 Amata B. 149 150 Ambrogio (sant’) 66 Amenemope 122 123 125 Amenophi IV 118 119 Ammonio 190 193 194 Anania 87 Anastasi I 114 Anfilochio di Iconio 141 Anselmo di Havelberg 163
Anselmo di Laon 43 160 163 Aqhat 118 Aristotele 150 155 156 185-187 189-194 Arnold J. 161 Arnoux M. 168 Aron R. 73 Atenodoro 140 Atrahasis 116 118 Auerbach E. 181 Avencenbrol vedi Shelomoh ben Yehudah Ibn Gabirol Averroè 188 Avicebron vedi Shelomoh ben Yehudah Ibn Gabirol Baal 118 Babai il musico 154 155 Bainton R. 60 Bardesane 150 Barhadbeshabbā 153 Barman T.E. 177 Baron R. 161 Baroni A. 54 Barth K. 43 44 Basilio di Cesarea 6 66 139-146 Bašōš 155 Batto B.F. 116 Becker A.H. 150 153-155 Beekes R. 131 132
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Indice dei nomi Bendinelli G. 21 Benedetto XVI 34 Ben Zvi E. 134 Berndt R. 160 161 163 174 176 Berti V. 154 155 Bettiolo P. 151-153 Bidez J. 67 Biemmi E. 10 Biser E. 180 Blickle P. 163 Blondel M. 188 Blumenberg H. 177 Bocheński J.M. 192 Boezio 191-194 196 Bolgiani F. 55 56 61 67 Bonacasa Carra R.M. 73 Bonaventura (san) 62 162 Bonfils R. 64 Bonhoeffer D. 44 Boschini P. 5 8 37 41 50 Boulnois O. 63 Bourdieu P. 48 Bourdoise M. 200 Boyancé P. 61 Boyd W. 77 Bréheret J. 63 Bresciani E. 123 Brezzi P. 72 Brown P. 59 67 Bultmann R. 42 Bülus Marcuzzo G. 148 Buonaiuti E. 63 Buttimer C.H. 160 Byrne R. 118 Cabri P.L. 45 Cacciatore F.M. 61 70 Caimi L. 208 209 Calabrese G. 7 Cantimori D. 60 Caputo M. 91 Carcopino J. 71 Cardijn J. 63 Carletti C. 73 Carr D. 114-117 119 130 Casel O. 15 Casotti M. 77 78 Chabot J.-B. 151 Châtillon J. 159 160 Chavalas M.W. 117 Chenu M.-D. 71 163 180
Cicerone 150 Ciliberto M. 56 Citrini T. 6 197 Clément d’Alexander vedi Clemente Alessandrino Clemente Alessandrino 15 66 68 Clifford R.J. 121 127 Coccia E. 179 Coco L. 162 Cohen Y. 117 118 Coletti V. 10 Condren C. de 200 Constable G. 162 Contini R. 126 Coolman B.T. 160 163 165 176 177 179 Corallo G. 75 77 Cordovani M. 196 Cornelio 87 Cracco Ruggini L. 59 Cremascoli G. 168 169 Cristaldi M. 83 Croce B. 56 60 Cumont F. 67 Curato d’Ars vedi Vianney G.M. Dahan G. 171 Dalley S. 133 D’Ancona Costa C. 148 151 Daniélou J. 64 67 Dauphragne F. 61 Davenson H. (pseudonimo di Marrou H.-I.) 54 56-58 60 62-64 Davidson A.I. 178 De Lubac H.-M. 10 171 De Luca G. 54 Demont P. 58 Dennert M. 59 Deogratias 83 89 90 100 Descartes R. 183 De Vaux R. 186 Devoto G. 10 16 Dianich S. 5 7 23 31 33 Di Berardino A. 141 149 158 Di Carpegna Falconieri T. 57 Diodoro di Tarso 151 Dölger J.F. 67 68 Du Bos P. 66 Dumuzi 116 Ea 116 132
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Indice dei nomi Ebbesen S. 191 Eco U. 184 185 Efrem 150 Eliade M. 48 Engelmann R. 181 Engels D. 61 70 Enlil 116 Euclide 145 Faes de Mottoni B. 54 Fassler M. 160 Fauconnet A. 70 Fédou M. 181 Fedriga R. 191 Festugière A.J. 67 68 72 Fieni S. 208 Filone Alessandrino 131 Filoramo G. 30 Finamore R. 12 Flamant-Marrou F. vedi Marrou-Flamant F. Florovsky G. 70 Formigoni G. 209 210 Fornaca R. 77 Foster B.R. 116 Foucault M. 71 Fox M.V. 122 123 127 Fraine J. de 134 Frege G. 192 Freud S. 108 Frickel M. 69 Gagé J. 61 Galeno 156 157 Galilei G. vedi Galileo Galileo 195 Gallas A. 44 Gallinari A 21 Gallo L.A. 25 Gandini M. 67 Gasimov Z. 61 70 Gedda L. 209 Gemelli A. 56 57 64 Gentile G. 188 195 196 Germino E. 22 Ghilgamesh 116-119 132 Gianni A. 54 Gianotti D. 5 Gianto A. 120 Gilson É. 62 63 78 106 Giovanni XXIII 24 25
Gioviano 150 Girolamo (san) 63 66 175 176 Giugni G. 23 24 Giuliano l’Apostata 21 149 150 Giustiniano 149 Goldingay J. 136 Graziano 162 Gregorio IX 186 Gregorio Magno 35 36 Gregorio Nazianzeno 141 Gregorio Taumaturgo 139 140 Gregory T. 78 Groppo G. 8 Grottanelli C. 126 Gründer K. 70 Guglielmo d’Auvergne 186 Guglielmo di Auxerre 186 Guglielmo di Moerbeke 194 Guglielmo di Ockham 187 192 193 Gutas D. 148 156 157 Guthrie K.C. 68 Guyot-Bachy I. 176 Guzzo A. 77 Hadot P. 178 Hallo W.E. 116 Hamman A. 15 Harl M. 68 Harnack A. von 40 41 68 73 Hausmann J. 134 Hayes-Healy S. 178 Heffernan T.J. 177 Heid S. 59 Heidegger M. 38 42 70 Hermans M. 133 Hilaire Y.-M. 56 Hobbes T. 184 Horowitz W. 118 Houtman C. 134 Hugo de Sancto Victore vedi Ugo di San Vittore Hugonis de Sancto Victore vedi Ugo di San Vittore Hugues de Saint-Victor vedi Ugo di San Vittore Hunayn ibn Ishāq 157 Ibn Abï Uşaybi ‘ah 147 Ibn al-Munağğim 156 157 Illich I. 49 162 164 166 170 178 179 Inanna 116
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Indice dei nomi Iraci S. 53 61 Isidoro di Siviglia 176 Isnardi Parente M. 189 Īšō ‘ Bar Nūn 155 Isocrate 141 Jaspers K. 70 71 Jiménez Zamudio R. 132 Jobling D. 134 Jonas H. 70 Journet C. 66 Julia D. 58 Julia E. 66 Kant I. 13 40 43 45 Kazarian N. 71 Khalil Samir S. 148 156 Kirta 118 Köpf U. 174 La Delfa R. 7 Laeng M. 78 Laisney V.P.-M. 123 125 Laloy J. 53 57 59 60 63 64 Lambert W.G. 121 Lawson Younger K. 116 117 Lazzati G. 6 46 207-213 Leclercq J. 177 Lecuir J. 56 Le Goff J. 56 64 Lemke Duque C.A. 61 70 Lemoine M. 159 Leone III 188 Lévinas É. 38 45 Lombardi P.A. 78 Lonergan B. 12 24 Lucano 149 Lucchesi E. 68 Luigi VI 159 Lutero vedi Martin Lutero Madaule J. 66 Malpensa M. 209 Mancini I. 45 Mandreoli F. 5 159 Manselli R. 60 Mar Aba I 154 Marchetto M. 20 Marduk 116 Margotti M. 209 Maritain J. 63 210
Maritano M. 55 Marrou H.-I. 5 53-74 Marrou-Flamant F. 53 56 Mar Sergio 155 Martelli A. 8 9 Martin Lutero 60 Martini C.M. vedi Paolo VI Marttila M. 114 Marx K. 24 131 Masnovo A. 106 Matray C. 68 Mauburne J. 162 Mauriac F. 109 Mayeur J.M. 56 Mazzarol R. 72 Mews C.J. 177 178 Mialaret G. 20 23 Mignucci M. 195 Minder R. 61 Mohrmann C. 72 Moltmann J. 43 Momigliano A.D. 59 Monaco F. 208 Mondésert C. 68 Monod J. 184 Montini G.B. vedi Paolo VI Moscato M.T. 5 75 87 90 91 94 109 Moschetti A.M. 55 Muratore S. 12 Mūsa ibn Mus’ab 155 Najman H. 114 131 Nald B. 139-146 Naldini M. 139 Nardello M. 10 Nardi B. 78 Narsai 151 153 Newman J.H. 20 24 114 131 Nietzsche F. 44 Nikolaou T. 70 Nissinen M. 134 Nocchi F.R. 58 Nock A.D. 70 Oberti A. 208 Ockham vedi Guglielmo di Ockham Odisseo vedi Ulisse Oeldemann J. 70 Oli G.C. 10 16 Olier J.-J. 200 Omero 91
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Indice dei nomi Orazio 149 Origene 66 131 140 Orsucci A. 70 Ovidio 149 Pailler J.M. 58 Pajer F. 11 Pakkala J. 114 Panel L.N. 72 Panofsky E. 71 Paolo (san) 11 86 87 175 203 204 Paolo VI 25 54 204 207 213 Parenti S. 5 183 Parola A. 209 Pasquato O. 55 63 Pastorino A. 139 Patanè L.R. 78 Payen P. 58 Payne D. 137 Pellistrandi B. 55 Penelope 40 Pericle 145 Perrin M.-Y. 53 68 74 Perrini M. 78 105 106 Perrot A. 68 Peterson E. 67 Pettazzoni R. 67 Piccolo G. 78 106 Pieri F. 53 Pier Lombardo 161 162 Pietro Abelardo 43 160 Pietro Lombardo vedi Pier Lombardo Pindaro 141 Pio IX 21 Pio X 188 Pio XI 22 23 Pio XII 24 Pirandello L. 184 Pizzolato L.F. 209 Platone 39 40 185-187 192 Plotino 69 186 Plutarco 139 141 Poirel D. 161 166 168 171 176 177 Polanyi M. 81 Porfirio 191 192 Porten B. 126 Poulat E. 57 Prévotat J. 56 Pricoco S. 149 Probst P. 70 Prodi P. 163
Prümm K. 72 Puggioni S. 191 Qiiore 151 Quintiliano 82 90 Qustā Ibn Lūqā 156 157 Radner K. 116 Rahner K. 10 39 40 180 Renz B. 132 Rey S. 53 Riché P. 53 56 71 Ricoeur P. 83 Righetti I. 54 Righi D. 5 147 148 154 Ritter J. 70 Robson E. 116 Roncalli M. 54 Rorem P. 161 Rothblatt S. 20 Rovan J. 60 Sabatini F. 10 Saffrey H.D. 68 Salamito J.-M. 5 Sallustio 150 Sannelli M. 165 Sargon 117 119 Sauvage P. 133 Sauvageot A. 61 Saxer V. 72 Scher A. 151 Schlögl R. 163 Schmid K. 114 Schniedewind W.M. 114 Scholem G.G. 72 Sciacca M.F. 78 Scimè G.G. 5 139 Segal J.B. 152 Seneca 141 Settembrini M. 5 113 Shelomoh ben Yehudah Ibn Gabirol 187 Shuruppak 118 121 Sicard P. 159 160 176 177 Simon M. 67 Simonetti M. 65 72 Simplicio 190 Sinesio di Cirene 66 Smalley B. 171 Socrate 39 40 145 146 Sofronisco 145
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Indice dei nomi Somervell D.C. 66 Southern R.W. 160 Spaccapelo N. 12 Spengler O. 44 61 62 69-71 Stammberger R.M.W. 161 Studer B. 141 Sweeney A. 134 Taft R.F. 70 Taylor J. 165 Tazerout M. 61 Tedeschi J. 60 Temistio 156 Teodoreto di Ciro 141 Teodoro di Mopsuestia 151 156 Terenzio 149 Tertulliano 15 Theobald C. 180 Tibullo 149 Timoteo 86 155 Tito 86 Tombolato V. 55 Tommaso d’Aquino 14 77 187 190 191 193 194 Tommaso di Marga 154 Toorn K. van der 114 Torcivia C. 31 Toussaint S. 53 Toynbee A.J. 66 Traina G. 59 Traniello F. 55 Trottman C. 176 Ugo di San Vittore 159 160 162 163-180 181 Ulisse 91 141 Ulrich E. 114
VanderKam J.C. 131 Vecchi A. 55 Vecchio G. 209 Veldhuis N. 116 Vellani I. 6 207 Vial J. 20 23 Vian P. 54 Vianney G.M. 200 Vigini G. 54 Vignaux P. 63 Vincenzo de’ Paoli 200 204 Violante C. 55 Virgilio 149 Vitale E. 73 Vitali C. 79 Vittore (Scuola di san) 6 159-162 180 Vittorino G.M. 160 169-171 173 174 176 178 180 Vööbus 151 153 Weber M. 37 58 72 73 Weigl M. 126 Weissenberg H. von 114 Wendebourg D. 70 Wénin A. 133 Wilken R. 149 Xodo C. 78 Yahyā Ibn ‘Adī 148 Yardeni A. 126 Zeno 150 152 Zilio-Grandi I. 156 Zinn G.A. 178
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Prefazione Davide Righi..................................................................................... p. 5 Evangelizzazione e educazione nella missione della Chiesa Severino Dianich ............................................................................. » 7 1. Premessa ............................................................................... » 7 2. Evangelizzazione e educazione .......................................... » 10 3. L’«iniziazione cristiana» ....................................................... » 15 4. Educazione e missione della Chiesa nella società contemporanea ..................................................................... » 19 5. L’educazione al sensus ecclesiae ........................................ » 28 5.1. Fede e appartenenza ecclesiale ................................... » 29 5.2. Appartenenza e discernimento .................................... » 32 6. Conclusione ........................................................................... » 34 La problematica culturale e la questione del senso in teologia. Prospettive epistemologiche Paolo Boschini ................................................................................. » 37 1. Impostazione del problema .................................................. » 37 2. Paradigmi teologici ............................................................... » 39 2.1. Teologia socratica: dall’implicito all’esplicito .............. » 39 2.2. Teologia kantiana: dal cattivo al buono ....................... » 40 2.3. Teologia demitizzata: dal complesso al semplice ....... » 42 2.4. Teologia dialettica: dal convenzionale all’originario .................................................................. » 43 3. Questioni teoriche conclusive .............................................. » 45 3.1. La distinzione epistemologica tra teologia 3.1. e pedagogia religiosa .................................................... » 45 223
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3.2. Q uale dimensione pedagogica della teologia oggi, 3.1. in ordine alla comprensione della fede? ...................... » 47 3.3. E semplificazione conclusiva: due luoghi educativi, 3.1. dove la teologia può svolgere la propria funzione 3.1. propedeutica .................................................................. » 50 Henri Irénée Marrou e la cristianizzazione della cultura tardoantica
Michel-Yves Perrin ......................................................................... » 53 Agostino pedagogista: una teoria dell’insegnamento Maria Teresa Moscato .................................................................... » 75 1. Premessa ............................................................................... » 75 2. La nostra rilettura: i testi utilizzati ...................................... » 78 3. L’uomo impara dall’uomo: l’insegnamento come oggetto 3. di analisi riflessiva ............................................................... » 80 4. Dentro la mente che insegna: pensare parole, 3. trovare parole ........................................................................ » 88 5. La motivazione a insegnare e la natura di cura educativa dell’insegnamento ................................................................ » 90 6. Insegnare modifica l’esperienza di chi insegna ................. » 92 7. L’identificazione reciproca docente/discente . ................... » 94 8. L’inerzia, almeno apparente, dell’ascoltatore .................... » 95 9. Contesto comunicativo e setting ......................................... » 97 10. La centralità dell’allievo e la personalizzazione ............... » 100 11. La serenità dell’animo necessaria ...................................... » 102 12. Una conclusione provvisoria . ............................................. » 103 13. «Un abisso chiama l’Abisso» .............................................. » 108 La Bibbia di Israele, la sapienza delle genti e l’istruzione del Signore Marco Settembrini .......................................................................... » 113 1. Le Scritture per l’educazione di un popolo ......................... » 113 1.1. Il modello babilonese .................................................... » 115 1.2. Gli influssi della cultura mesopotamica ....................... » 117 1.3. La sapienza di Israele tra Egitto e Babilonia ............... » 118 2. Proverbi per la formazione del giovane israelita ............... » 120 2.1. Proverbi e l’Istruzione di Amenemope ........................ » 122 2.2. Salomone e Ahiqar ........................................................ » 126 2.3. La sapienza fonte di rivelazione (Pr 8) ......................... » 127 3. L’«apertura degli occhi» e l’opera di YHWH ..................... » 130 3.1. Gli occhi di Adamo ed Eva (Gen 3,1-7) ....................... » 131 3.2. Il Signore rischiara gli occhi ......................................... » 133 4. Conclusioni ........................................................................... » 137 Basilio e la Lettera ai giovani Giancarlo Giuseppe Scimè ............................................................ » 139 1. La prospettiva fondamentale di Basilio: 1. la paideia origeniana ............................................................ » 139
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2. I criteri metodologici per la lettura cristiana dei testi pagani...................................................................... 3. Esposizione dei criteri .......................................................... 3.1. Lettura selettiva ............................................................. 3.2. Lettura esclusiva ............................................................ 3.3. Delectare et prodesse .................................................... 3.4. Lettura profonda ............................................................ 3.5. Lettura critica .................................................................
» 140 » 141 » 141 » 142 » 142 » 143 » 143
Proposte e modelli educativi nella Chiesa siriaca tra VI e IX secolo Davide Righi .................................................................................... » 147 1. La distinzione tra fede e ragione nella Chiesa siro-orientale 1. dell’XI secolo ......................................................................... » 147 2. La coltivazione delle scienze nel mondo siriaco ................ » 148 3. Le origini delle acquisizioni siriache in merito alle scienze 1. e al modello educativo ......................................................... » 149 4. La scuola dei persiani di Edessa .......................................... » 150 5. La scuola di Nisibi: progressi e sviluppi nella costituzione 1. della scuola ........................................................................... » 152 6. Babai il musico e la sua riforma: con apertura alle scienze 1. «profane» .............................................................................. » 154 7. La scuola di Bašōš ................................................................. » 155 8. Il movimento di traduzione e l’apertura alle scienze e al loro sviluppo .................................................................. » 156 9. Conclusioni ........................................................................... » 157 La ricerca della sapienza e della vita nel XII secolo: la proposta della scuola di San Vittore Fabrizio Mandreoli ......................................................................... 1. Introduzione . ........................................................................ 2. Il contesto: dove e quando nasce il Didascalicon ............... 3. Perché interrogare oggi il Didascalicon? ............................ 4. Il Didascalicon come ricerca della sapienza e della vita .... 5. L’esercizio del legere e della lectio biblica ......................... 5.1. Il senso letterale e storico .............................................. 5.2. Il canone biblico ............................................................ 5.3. La lectio .......................................................................... 6. Ipotesi e istanze ....................................................................
» 159 » 159 » 159 » 161 » 164 » 169 » 172 » 174 » 176 » 178
Fede e culture: premesse medioevali della modernità
Sergio Parenti o.p............................................................................ 1. Premessa................................................................................ 2. Alcuni aspetti della modernità presenti nel medioevo ...... 3. La riduzione delle forme naturali a forme artificiali 1. dell’arte divina: il problema della libertà di Dio ................ 4. Il problema della conoscenza e la questione 1. del modernismo..................................................................... 5. Conclusione ..........................................................................
» 183 » 183 » 184 » 185 » 188 » 196
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Indice generale
La formazione del clero nel rapporto Chiesa-mondo Tullio Citrini .................................................................................... 1. Una buona formazione dottrinale ........................................ 2. La cosiddetta «formazione umana» nel senso 1. di Pastores dabo vobis 43-44 ............................................... 3. La formazione a stare al proprio posto, senza clericalismi................................................................... 4. La formazione al rapporto Chiesa-mondo vissuta a livello di carità pastorale ...................................................
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Formare la coscienza: la proposta educativa di Giuseppe Lazzati per il laicato
Ilaria Vellani ....................................................................................
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Elenco degli autori .........................................................................
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Indice dei nomi ..................................................................................
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Righi.indb 226
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