Evangelizzare nelle criticità dell'umano. Atti del Convegno del Dipartimento di Teologia dell'evangelizzazione della Facoltà teologica (Emilia Romagna, 1-2 marzo 2016) 9788810450116

Questo volume, che raccoglie gli interventi del convegno «Evangelizzare nelle criticità dell'umano», si inserisce n

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Evangelizzare nelle criticità dell'umano. Atti del Convegno del Dipartimento di Teologia dell'evangelizzazione della Facoltà teologica (Emilia Romagna, 1-2 marzo 2016)
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a cura di Maurizio Marcheselli Evangelizzare nelle criticità dell’umano

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collana BIBLIOTECA DI TEOLOGIA DELL’EVANGELIZZAZIONE diretta da Maurizio Marcheselli La collana pubblica studi e ricerche maturate nell’ambito della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna. Essa ospita indagini di taglio teologico e culturale, biblico e storico, filosofico e sistematico in riferimento alla teologia dell’evangelizzazione. Tale orientamento è caratteristico della Facoltà Teologica emiliano-romagnola, in cui a percorsi di teologia dell’evangelizzazione se ne affiancano altri interessati al momento speculativo e sistematico e altri ancora alla storia della teologia. BTE s’interessa agli aspetti «fondativi» dell’annuncio del vangelo: il concetto di evangelizzazione, i destinatari-interlocutori, il contenuto e i metodi. Al tempo stesso, e proprio per la fedeltà al binomio vangelo e cultura che determina l’ambito di una teologia dell’evangelizzazione, la collana mantiene aperto l’orizzonte sui diversi fronti in cui il fare teologia è oggi impegnato. Dire il vangelo nell’attuale contesto culturale implica un’attenzione rigorosa a cerchi concentrici, sui versanti ecclesiale, culturale, missionario, ecumenico e interreligioso. 1. E. Manicardi, Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici 2. M. Marcheselli, «Avete qualcosa da mangiare?». Un pasto, il Risorto, la comunità 3. G. Benzi, Ci è stato dato un figlio. Il libro dell’Emmanuele (Is 6,1-9,6): struttura retorica e interpretazione teologica 4. M. Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione 5. E. Castellucci, Annunciare Cristo alle genti. La missione dei cristiani nell’orizzonte del dialogo tra le religioni 6. D. Gianotti, I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II. La teologia patristica nella Lumen gentium 7. G. Ziviani, Una Chiesa di popolo. La parrocchia nel Vaticano II. Prefazione di mons. Franco Giulio Brambilla 8. G. Sgubbi, Pensare sul confine. Saggi di teologia fondamentale. Prefazione di Pierangelo Sequeri 9. M. Tagliaferri (a cura di), Teologia dell’evangelizzazione. Fondamenti e modelli a confronto 10. D. Righi (a cura di), Educazione, paideia cristiana e immagini di Chiesa. Atti del convegno della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna 29-30 novembre 2011 11. M. Marcheselli (a cura di), Evangelizzare nelle criticità dell’umano. Atti del Convegno annuale della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna a cura del Dipartimento di Teo­logia dell’Evangelizzazione, 1-2 marzo 2016

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a cura di Maurizio Marcheselli

Evangelizzare nelle criticità dell’umano Atti del Convegno annuale della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna a cura del Dipartimento di Teologia dell’Evangelizzazione, 1-2 marzo 2016

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA

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Il presente volume, che raccoglie gli Atti del 10° Convegno annuale della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, è stato pubblicato con il contributo del Servizio Nazionale per gli Studi Superiori di Teologia e di Scienze Religiose.

Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze

2017 Centro editoriale dehoniano via Scipione dal Ferro, 4 – 40138 Bologna www.dehoniane.it EDB®

©

ISBN 978-88-10-45011-6 Stampa: Graphicolor, Città di Castello (PG) 2017

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Presentazione

Nel presente volume sono offerti al pubblico gli atti del Convegno di Facoltà dell’anno accademico 2015-16, organizzato dal Dipartimento di Teologia dell’Evangelizzazione della Facoltà Teologica dell’EmiliaRomagna. Il Convegno (1-2 marzo 2016) è stato il momento conclusivo e pubblico di un percorso di ricerca e riflessione che si è protratto nell’arco di due anni accademici. I contenuti degli interventi sono stati previamente dibattuti nelle riunioni del Dipartimento e ciascun relatore ha potuto integrare nel prodotto finale le osservazioni ricevute dai colleghi. Offriamo con umiltà il frutto di questo lavoro collegiale. Ringraziamo il prof. Ambrosini del Dipartimento di Studi sociali e politici dell’Università degli studi di Milano per aver accettato di contribuire alla nostra riflessione in qualità di professore invitato. A. L’origine del tema: «Evangelizzare nelle criticità dell’umano». Il per­ corso della Teologia dell’Evangelizzazione a Bologna e in Emilia-Romagna è cominciato nel 1977 e ha quindi ormai quasi quarant’anni di vita. Dalla nascita dello Studio teologico (1977) e poi della Facoltà Teologica (2004) a oggi è possibile riconoscere le linee di uno sviluppo sostanzialmente organico (cf. il contributo di Castellucci): i tre grandi ambiti a cui essa rivolge primariamente il proprio interesse sono la cristologia (come fondamento), l’antropologia (come orizzonte) e l’ecclesiologia (come soggetto). Nello specifico, l’origine del tema del Convegno 2015-16 «Evangelizzare nelle criticità dell’umano» si trova in Evangelii gaudium e nel quinto Convegno ecclesiale nazionale celebratosi a Firenze nel novembre 2015 sull’umanesimo cristiano. La Chiesa italiana si è riunita attorno al tema «In Gesù Cristo il nuovo umanesimo»: la proposta dell’umanesi-

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Maurizio Marcheselli

mo cristiano non può evidentemente ignorare le caratteristiche concrete di quell’uomo a cui desidera testimoniare Gesù Cristo, anche perché tali caratteristiche non segnano semplicemente il destinatario dell’annuncio, ma anche colui che lo reca. Papa Francesco nella sua esortazione apostolica sulla gioia di evangelizzare ricorda che «l’impegno evangelizzatore si muove tra i limiti del linguaggio e delle circostanze» (Evangelii gaudium, n. 45). Tutto il § 4 (nn. 40-45) del capitolo primo di Evangelii gaudium riflette precisamente sul fatto che la missione s’incarna nei limiti umani: proprio per questo c’è bisogno di esegeti e teologi, ma anche dell’apporto delle scienze umane e specialmente delle scienze sociali (n. 40). B. La polarità del titolo: vangelo e uomo. «Vangelo» è un termine dinamico: indica l’annuncio, l’azione evangelizzatrice, che non è esclusivamente atto linguistico, ma coinvolge la totalità della persona e si fa pertanto testimonianza in senso globale. L’«uomo» è colto nella sua condizione ferita; è l’uomo in quanto segnato da una serie di criticità. Si deve probabilmente riconoscere che la condizione umana ha costantemente un carattere critico. Il temine «criticità», tuttavia, è qui usato al plurale, secondo l’uso linguistico più recente, per cui esso indica una serie di singoli problemi, di singole situazioni critiche (cf. http://www.treccani. it/vocabolario/criticita/). Abbiamo cercato di individuare alcuni elementi critici puntuali, in parte connessi alla condizione umana in quanto tale, ma soprattutto legati alle precise circostanze storico-culturali che caratterizzano la società italiana in questo primo scorcio del XXI secolo. L’uomo Gesù ha una terapia da proporre affinché queste criticità non costituiscano un ostacolo al raggiungimento di una pienezza di vita. Le due grandezze del vangelo e della persona umana sono poste in relazione mediante la preposizione «in»: si tratta di evangelizzare «nelle» criticità dell’umano. La scelta di questa preposizione per indicare il nesso tra l’evangelizzazione e l’essere umano vuole sottolineare che dentro quelle criticità ci sta anche chi evangelizza. Non ci è parso, dunque, appropriato l’uso di «davanti» o «di fronte». Le criticità non sono contemplate dall’esterno, ma sono anzitutto sperimentate nella propria esistenza da colui che annuncia la buona notizia. C. L’icona del Convegno: la samaritana al pozzo di Giacobbe. La donna di Samaria è una figura estremamente interessante per chi vuole riflettere sul dinamismo dell’annuncio: evangelizzata, diventerà a sua volta evangelizzatrice. L’incontro tra Gesù e la donna di Samaria non è soltanto oggetto d’attenzione da parte di due delle relazioni ospitate in questo volume (Casadei Garofani, Cabri); esso è stato scelto come icona del Convegno nella modalità con cui tale incontro è rappresentato da Sieger Köder (Die Frau am Jakobsbrunnen, Ellwangen Museum Bild und Bibel, olio su tela, 2001). La donna di Samaria può vedersi solo nel pozzo. Ma nel momento in cui vede se stessa, vede al tempo stesso l’altro «come di fronte a lei» (Gen 2,18). Nell’acqua del pozzo vede che l’altro la sta guardando; lei non lo

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guarda direttamente, ma nel «momento della verità» (Gv 17,17 e 14,6), in perfetta contemporaneità, ella vede «se stessa e l’altro» cogliendo anche la propria difficoltà a volgere lo sguardo all’altro. L’acqua del pozzo è la perfetta trascrizione dell’altro: la donna si vede nel pozzo, cioè vede se stessa soltanto nell’altro e vede se stessa nel momento in cui percepisce di essere guardata/veduta da un altro. La verità si riceve nella relazione ed è contemporaneamente verità sull’altro/Altro e verità su di sé. L’acqua viva che è spiegata dagli esegeti come simbolo della rivelazione e dello Spirito è in definitiva anche immagine dell’altro, che unicamente rende possibile cogliere la verità. D. L’impianto tripartito del volume. Il volume raccoglie contributi (in ordine alfabetico) di Maurizio Ambrosini, Federico Badiali, Paolo Boschini, Pier Luigi Cabri, Enrico Casadei Garofani, Massimo Cassani, Erio Castellucci, Mario Fini, Luciano Luppi, Maurizio Marcheselli, Matteo Prodi, Matteo Zuppi. I dodici interventi si articolano in tre parti, precedute da una breve sezione introduttiva. Nella parte introduttiva il vescovo di Bologna, Matteo Zuppi, e quello di Modena-Nonantola, Erio Castellucci, riflettono rispettivamente sul nesso fra teologia e Chiesa e sullo statuto della teologia dell’evangelizzazione. Castellucci è stato a lungo docente di Teologia sistematica in FTER. I tre contributi della prima parte («Il contesto») offrono una lettura del contesto socio-culturale italiano (e, almeno in parte, europeo), individuando alcuni punti critici: il lavoro (Prodi); il digitale (Boschini); l’immigrazione (Ambrosini). Non abbiamo certo la pretesa di esaurire con ciò le criticità del momento presente. L’individuazione dei tre ambiti nasce dall’intersezione tra le competenze che siamo in grado di mettere in campo come docenti del Dipartimento di Teologia dell’Evangelizzazione (Prodi e Boschini) e alcune ulteriori emergenze che ci sembrano caratterizzare il presente, rispetto alle quali abbiamo chiesto a una voce esterna di darci un contributo (Ambrosini). Queste tre aree critiche dell’umano nell’attuale contesto socio-culturale sono tre luoghi che mettono alla prova, ma anche disvelano il vangelo e la Chiesa. Messaggio e stile, di fatto, s’intrecciano nelle relazioni delle parti seconda e terza. I quattro contributi della seconda parte mettono a fuoco tre aspetti in cui il vangelo, provocato dalle concrete circostanze socio-culturali, può illuminare il vivere dell’uomo contemporaneo. La connotazione relazionale della verità (Casadei Garofani in chiave biblica, Cabri in prospettiva filosofica), la dimensione comunitaria dell’evangelizzazione (Fini) e il vangelo come terapia per un uomo ferito (Marcheselli) focalizzano alcuni contenuti fondamentali dell’annuncio, che sono al tempo stesso delle modalità intrinseche del suo darsi. Casadei Garofani assume l’incontro tra Gesù e la donna di Samaria come icona biblica della dimensione relazionale della verità, mentre Cabri affronta il medesimo tema in prospettiva filosofica; Fini riflette sulla Chiesa come via di umanizzazione e segno di un mondo riconciliato; Marcheselli analizza Gv 9 quale testo

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chiave per cogliere la condizione umana nelle sue ferite più strutturali e vedere la terapia che il vangelo istituisce. L’annuncio del vangelo oggi non si dà se non nell’empatico riconoscimento della dimensione razionale della verità, nella percezione che si tratta sempre e soltanto della testimonianza di un popolo, nella fiducia nelle capacità terapeutiche del vangelo che ci mostra il volto di un Dio non geloso dell’uomo. Nella terza e ultima parte vengono esplorati anzitutto due luoghi critici dell’umano in cui leggere – o immettere – segni di speranza: quello della famiglia (Cassani) e quello dell’educazione (Luppi). Si tratta di ambiti decisivi dell’esistenza umana in cui assumere – come credenti – atteggiamenti e stili di vita attraenti e rispetto ai quali adottare pratiche ecclesiali che possono contribuire a costruire un nuovo umanesimo. Cassani sottolinea come i due sinodi sulla famiglia trasformino (almeno nell’intenzione del vescovo di Roma che li ha indetti) una situazione critica in luogo di speranza. Luppi riflette su una criticità palese come è quella dell’educazione, per promuovere, alla luce di una riscoperta connessione tra evangelizzazione e educazione, una vera conversione pastorale e uno stile educativo rinnovato, per una Chiesa che evangelizzando educhi e educando evangelizzi. Badiali, infine, presenta il tema dell’ecologia umana (un sintagma che ha appassionato i pontefici da Paolo VI a Francesco) come una risorsa per l’evangelizzazione: essa può essere declinata di volta in volta secondo una maggiore insistenza sull’igiene del cuore, sulla qualità della vita sociale, sulla custodia della natura umana, sulla lotta alla cultura dello scarto e all’individualismo. E. Sviluppi futuri: vangelo e città. Come Dipartimento di Teologia dell’Evangelizzazione progettiamo di prolungare la nostra indagine sulle criticità dell’umano come luogo dell’annuncio del vangelo, orientando il nostro interesse verso le culture urbane (Evangelii gaudium, nn. 71-75): «È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città» (n. 74). «Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. […] le trasformazioni di queste grandi aree e la cultura che esprimono sono un luogo privilegiato della nuova evangelizzazione» (n. 73). La città è segnata da «una sorta di permanente ambivalenza», da una contraddizione che provoca sofferenze laceranti (n. 74), «ma vivere fino in fondo ciò che è umano e introdursi nel cuore delle sfide come fermento di testimonianza, in qualsiasi cultura, in qualsiasi città, migliora il cristiano e feconda la città» (n. 75). In questo modo la nostra riflessione sull’umano si precisa come attenzione ai contesti urbani, in cui l’uomo vive un senso del tempo, del territorio e delle relazioni del tutto peculiare; il vangelo è chiamato a illuminare questi modi specifici di relazionarsi con Dio, con gli altri e con l’ambiente. Maurizio Marcheselli

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Sezione introduttiva

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Evangelizzare nelle criticità dell’umano: teologia e prassi di misericordia. Introduzione al tema del Convegno

Matteo Zuppi

1. Il tema scelto per il decimo Convegno annuale della nostra Facoltà Teologica, «Evangelizzare nelle criticità dell’umano», vuole coniugare la serietà della ricerca accademica con la concretezza della realtà storica in cui viviamo. D’altra parte, sono fortemente persuaso del fatto che una Facoltà di Teologia che voglia svolgere con profitto la propria missione non possa disertare questa sfida. Infatti, nella misura in cui essa si astrae dalla realtà e si chiude all’interno delle proprie aule, finisce per condannarsi alla sterilità e all’insignificanza. Al contrario, se accetta di instaurare un dialogo vero con gli uomini e le donne del proprio tempo, riceve una vitalità sempre nuova. Questo invito al dialogo, poi, non è essenziale solo per una Facoltà di Teologia, ma per tutta la Chiesa. Lo ha ricordato papa Francesco, intervenendo al Convegno di Firenze, nel novembre 2015. In quell’occasione, il papa, tra le altre cose, ha raccomandato a tutta la Chiesa italiana proprio questa disponibilità al dialogo e all’incontro: La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia.1

1  Francesco, Discorso ai rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, 10.11.2015.

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Matteo Zuppi

Nel fare suo questo invito, la nostra Facoltà è facilitata dalla tradizione che la contraddistingue. Essa, infatti, è caratterizzata da una particolare attenzione al tema dell’evangelizzazione, oggetto della ricerca del Dipartimento che ha curato il presente Convegno. Questo tema acquista oggi un’importanza e una decisività tutta particolare, a motivo della preoccupazione di papa Francesco per una Chiesa che sia missionaria, in uscita, e che, in questo modo, sappia comunicare il vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Ma questo obiettivo non può essere perseguito senza un’adeguata riflessione teologica. Sono convinto, infatti, che esista un rapporto strettissimo tra la teologia e la missione della Chiesa. È vero, bisogna riconoscere che, in molti casi, la teologia e la pastorale hanno percorso strade diverse, non sempre convergenti. Ma questo non toglie che l’azione evangelizzatrice della Chiesa abbia bisogno della teologia, nel senso che la comunicazione del vangelo non può fare a meno di riflettere sui contenuti e sugli strumenti dell’annuncio. Senza una tale riflessione, essa rischia di scadere nella «praticoneria», oppure in un’azione che finisce per essere ripetitiva e superficiale. Allo stesso tempo, anche la teologia ha bisogno della pastorale. Sappiamo, infatti, quanto una teologia lontana dalle domande vere delle persone e dal confronto con l’evangelizzazione rischi di diventare un vuoto esercizio accademico. La particolare attenzione della nostra Facoltà al tema dell’evangelizzazione contribuisce a preservarla da questa deriva e a tenerla aperta al dialogo. Ma la nostra Facoltà può giovarsi anche della grande tradizione legata alla figura e all’insegnamento di san Tommaso, costante punto di riferimento della ricerca del Dipartimento di Teologia sistematica. Ritengo che la grandezza e l’attualità di san Tommaso risiedano soprattutto nel metodo che egli ha seguito nella propria ricerca teologica. Tutta la sua produzione mostra che egli era persuaso del fatto che non esiste alcuna sfida posta dall’umano che non possa essere raccolta dalla fede e dalla ragione. Oggi san Tommaso ci invita, quindi, a non aver paura di ciò che è umano e ci incoraggia a confrontarci con esso, nella certezza di poterlo comprendere. Certo, non senza la fatica del discernimento, ma nella consapevolezza che non vi è nulla di umano che non interessa al credente e che la proposta evangelica ha qualcosa da dire a tutto ciò che fa parte della nostra esperienza. San Tommaso, quindi, ci invita a non essere cultori di un metodo che, senza il dialogo, diventa ripetitivo, manierista, lontano dalla realtà, che si chiude in una ricerca accademica lontana dalla vita e dalla pastorale, che esclude il confronto, che fa credere di capire tutto, ma, di fatto, elude le domande più urgenti. Al contrario, san Tommaso ci fa accettare la sfida di una comprensione immune da pregiudizi e sempre inquieta. In altre parole, san Tommaso ci aiuta a non parlarci addosso, col rischio, poi, di pensare che nessuno ci voglia stare ad ascoltare. Ci insegna, invece, ad aver cura di non rispondere alle domande che nessuno ci pone, ma a dialogare con l’altro così com’è. E, nel nostro tempo, le questioni attorno a cui avviare un dialogo certamente non mancano. Le possiamo individuare soprattutto in ciò che il presente Convegno definisce le «criticità dell’umano». Esse balzano im-

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mediatamente ai nostri occhi. Mi limito qui a indicarne solo alcune, a titolo di esempio. Penso alle grandi domande sollevate oggi dall’immigrazione. Penso alle problematiche connesse a città che assumono un volto sempre più «al plurale». Penso, infine, a tutto il discorso relativo alla «casa comune», su cui è recentemente intervenuto anche papa Francesco, nell’enciclica Laudato si’. La teologia è chiamata a raccogliere tutte queste domande e a fornire il proprio contributo in vista di altrettante soluzioni. Nel fare questo, la teologia è chiamata, innanzitutto, a confrontarsi con le scienze umane – penso soprattutto alla riflessione sociologica e antropologica di questi ultimi decenni –, perché la sua riflessione non sia decontestualizzata, ma sappia interpretare i cambiamenti che caratterizzano il nostro tempo. D’altra parte, la teologia dispone di una categoria che può esserle d’aiuto nel dialogo. Si tratta dell’idea di umanesimo. Essa, da una parte, le consente di mettersi in ascolto delle preoccupazioni degli uomini e delle donne del nostro tempo e, dall’altra, le permette di offrire il contributo che le è più specifico, la consapevolezza che «in real­tà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (GS 22). Che tipo di umanesimo siamo chiamati a costruire in una società in continua evoluzione? Come tenere insieme, all’interno della nostra società, elementi diversi, senza, però, annacquare i tratti che la contraddistinguono? Come pensare in modo nuovo la convivenza umana, senza continuare a deturpare quel patrimonio che costituisce la nostra «casa comune»? Come dicevamo, contribuire a trovare delle risposte a questi interrogativi appartiene alla missione della teologia, fornendo a chi vive a contatto con queste problematiche quegli strumenti che gli possono essere utili anche per guarire da quella malattia di cui si può essere affetti quando ci si identifica completamente con la propria situazione e non si ha più la capacità di comprenderla in profondità. 2. Ma evangelizzare le criticità dell’umano significa innanzitutto lasciarsi guidare dalla misericordia, perché solo attraverso la misericordia possiamo riuscire a comprendere le ferite che segnano il cuore dell’uomo. Senza la misericordia, rimaniamo soltanto degli osservatori. Potremmo diventare anche degli osservatori raffinati. Ma rimarremmo sempre e comunque distaccati rispetto ai problemi degli uomini e delle donne del nostro tempo. Soprattutto non porteremmo loro il vangelo, perché a noi per primi esso risulterebbe incomprensibile. Anzi, il nostro unico risultato sarebbe quello di svuotare il vangelo, perché il vangelo nasce dalla misericordia, nasce dalla compassione verso le criticità dell’umano, verso chi è stanco e sfinito, come pecore senza pastore (cf. Mt 9,36). Vivere la misericordia significa entrare nel cuore dell’altro… con il cuore. Solo così potremo comprendere tutta la sofferenza che ci circonda. Spesso essa ci rimane nascosta. Quante volte, di fronte a tante ferite dei nostri fratelli, diciamo: «Non me ne ero accorto!». E, se questo accade, è perché non abbiamo saputo guardare col cuore. Solo il cuore, infatti, riesce ad andare oltre l’apparenza. Solo il cuore, infatti, non può accettare la regola dell’indifferenza.

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La misericordia ci deve aiutare a scegliere di stare vicino a tutto ciò che è umano. Questa, almeno, è la via intrapresa da papa Francesco. Il papa insiste tantissimo sul tema della misericordia, tanto che potremmo dire che, dall’inizio del suo pontificato fino a oggi, non ha perso occasione per annunciare il vangelo della misericordia. Indicendo il Giubileo straordinario della misericordia, egli ha posto questa sua iniziativa in relazione al cinquantesimo anniversario del concilio Vaticano II. Il concilio, infatti, ha segnato l’inizio di uno stile nuovo, da parte della Chiesa, di relazionarsi al mondo, uno stile caratterizzato dall’apertura, dalla simpatia, dal dialogo. Oggi papa Francesco ci invita a recuperare quell’atteggiamento: guardare con il cuore alla debolezza, alla miseria degli uomini e delle donne del nostro tempo. Viviamo, dunque, in un vero e proprio kairos della misericordia. Ma di misericordia, oggi, attorno a noi, ce n’è pochissima. C’è molta paura, per cui ci sentiamo deboli, fragili, incapaci di prendere l’iniziativa, di rischiare. E questo ci porta a chiuderci, a difenderci, a vivere una certa aggressività, a indurirci, a diventare spettatori. La paura, infatti, genera l’indifferenza o, ancor peggio, una giustizia ipocrita. Per cui non riusciamo sempre a fare nostra la scelta compiuta da Giovanni XXIII all’apertura del concilio; quella, cioè, di «usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità».2 La medicina della misericordia, infatti, non ci sembra sempre la più promettente. In alcune circostanze, soprattutto nei momenti di maggior criticità, saremmo infatti portati a pensare che il rigore rappresenti uno strumento più efficace della misericordia, in quanto esso non lascia adito ad ambiguità. La misericordia, invece, si consegna a un’infinità di interpretazioni, che, alla lunga, finiscono per tradursi in relativismo. E così a molti la misericordia appare come un’ingenua arrendevolezza, una pericolosa utopia. Penso che, di fronte a tentazioni come queste, debba venirci in aiuto proprio la riflessione teologica, per liberarci dalla predilezione ipocrita per un rigore fine a se stesso, sterile, che allontana, e per farci comprendere, invece, come la misericordia, dal punto di vista dell’impegno personale, rappresenti un obiettivo molto più coinvolgente e molto più esigente di ogni presunto rigorismo. Avere misericordia non significa dire all’altro: «Fa’ come ti pare». Significa, piuttosto, prendersi cura di lui, regalargli un po’ della propria vita, perché anche l’altro impari a sua volta ad amare. Da questo punto di vista, la misericordia sa essere, a un tempo, dolce e ferma. Certo, da un certo punto di vista, la misericordia può risultare ingiusta. Nella parabola del padre misericordioso (cf. Lc 15,11-32), secondo un certo criterio di giustizia fondato sul dovere, come possiamo dare torto al fratello maggiore? Ma al padre non viene neppure in mente di ragionare sulla base di una gretta giustizia. Suo figlio è tornato. Lo aspettava

2   Giovanni XXIII, discorso Gaudet mater Ecclesia nella solenne apertura del concilio, Sessione I (11.10.1962): EV 1/57*.

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Evangelizzare nelle criticità dell’umano

dal giorno della sua partenza. Gli vuole bene. Non può fare a meno di far festa per lui. Come non ricordare, a questo proposito, l’insegnamento di don Lorenzo Milani? «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali».3 E aveva ragione! Da un punto di vista teorico, infatti, tutti sono uguali, ma, nei fatti, non si può non tener conto delle differenze che effettivamente sussistono. La misericordia, infatti, è vedere qualcuno in un certo modo, non perché se ne hanno le prove, ma perché semplicemente gli si vuole bene. Proprio per questo padre Olinto Marella riusciva a vedere degli esseri umani in quei suoi bambini che non avevano assolutamente nulla. Questa è misericordia! La misericordia è un problema di cuore, non un problema di dovere. Se dobbiamo agire per dovere, tanto vale non fare nulla. Se, invece, vogliamo agire, facciamolo perché davanti a noi vediamo un uomo; perché in quella donna di strada vediamo una donna che può essere libera; perché in quel vecchio che non capisce assolutamente nulla vediamo qualcuno con cui poter comunicare; perché in quello straniero vediamo un nostro futuro vicino di casa. La misericordia è dare fiducia. Noi, invece, per paura, in nome di una giustizia ipocrita, esigiamo prima delle prove, poi, eventualmente… La misericordia non è semplicemente un buon sentimento. È prendersi cura dell’altro, è amarlo, per cambiarlo. Perché effettivamente la misericordia restituisce alla vita chi era morto, per usare ancora un’immagine della parabola del figliol prodigo. La misericordia dà speranza, ci fa essere migliori, impedisce che ci accontentiamo di quello che siamo o, ancor peggio, che ci buttiamo via. Pensiamo alla vicenda di san Francesco: quando, guardando il Crocifisso di San Damiano, ha avvertito la misericordia di Dio nei suoi confronti e quando ha sperimentato la misericordia nei confronti di quel lebbroso che, per lui, non era più semplicemente un lebbroso, ma era diventato un uomo, un fratello: Francesco è cambiato, è guarito. La misericordia è una bomba che può cambiare il mondo! La Chiesa è una madre e, come tale, deve avere tanta tenerezza per i suoi figli. Ma essa usa misericordia nei confronti dei suoi figli soprattutto perché a lei per prima è stata usata misericordia. La comunità cristiana non lo deve dimenticare mai! La misericordia è prima di tutto il cuore di Dio che ama la miseria dell’uomo e, nel fare questo, gli insegna ad amare la miseria dei suoi fratelli. Dio non si è scandalizzato della miseria dell’uomo. L’ha amata proprio come fa un padre nei confronti delle miserie dei propri figli, con la certezza, cioè, che, grazie al suo amore, l’uomo avrebbe potuto cambiare. Solo l’amore di Dio, infatti, ci può cambiare. Non la sua legge! Se Dio si fosse limitato a darci una regola, forse l’avremmo ascoltato con più attenzione, ma questo non ci avrebbe cambiati. Dio, invece, ha assunto la nostra carne per dirci: «Ti voglio bene. Voglio dare la mia vita per te». E questo ci ha cambiato, ci ha reso finalmente noi stessi. Solo nell’amore, infatti, possiamo trovare davvero noi stessi, possiamo ca-

  Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, LEF, Firenze 1967, 55.

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Matteo Zuppi

pire chi siamo, perché è solo nell’amore che ci realizziamo. Non possiamo, infatti, realizzarci da soli. Quando ci proviamo, facciamo esperienza di cosa sia il peccato e di cosa significhi stare male. Ricordarci di quanta misericordia abbiamo avuto bisogno per diventare quello che siamo può aiutarci a essere meno avari di misericordia verso gli altri e ad avere una maggior fiducia nei loro confronti. Quanta pazienza hanno avuto con noi i nostri genitori! Di quanta perseveranza hanno avuto bisogno i nostri maestri e i nostri educatori! E quanto amore ha avuto Dio per ciascuno di noi! In quanti casi la sua speranza nei nostri confronti è stata assolutamente immeritata! Quanto abbiamo impiegato a cambiare e quanta strada ci resta ancora da fare! Se facessimo un bilancio tra la misericordia ricevuta e quello che siamo, il conto risulterebbe abbondantemente in passivo. Gli altri, a partire da Dio, hanno avuto tanta misericordia con noi, ma noi facciamo così fatica a concedere gratuitamente un po’ d’amore ai nostri fratelli… Forse, se pensiamo troppo poco alla misericordia che abbiamo ricevuto nel corso della nostra vita, è perché siamo orgogliosi, perché pensiamo di essere unicamente il frutto del nostro impegno… Le soluzioni alle criticità dell’umano non si trovano scritte in un programma già stilato, pronto per essere attuato. Possiamo trovarle solo nella misura in cui ci lasciamo coinvolgere nelle situazioni concrete di chi ci sta di fronte, essendo disposti a investire tutto il nostro cuore e tutta la nostra intelligenza. Non dobbiamo aver paura di metterci in azione prima che tutto sia assolutamente chiaro, perché, altrimenti, non ci muoveremo mai di un passo. L’unica cosa che deve essere chiara è che vogliamo bene all’uomo e alla donna che abbiamo davanti, che vogliamo fare qualcosa per loro, che non possiamo rassegnarci di fronte alla miseria e alla solitudine che segnano la loro vita. Quella della misericordia deve diventare, pertanto, la scelta che impegna e impegnerà per il presente e per il futuro le nostre Chiese locali, nella loro missione di annunciare il vangelo. E la nostra Facoltà, che tra i suoi tratti caratteristici ha proprio l’attenzione al tema dell’evangelizzazione, ha, da questo punto di vista, una missione quanto mai importante da svolgere. Personalmente la considero una compagna di viaggio importante in questo cammino, contrassegnato dalla passione per la misericordia, che papa Francesco ci invita a percorrere a cinquant’anni dal concilio Vaticano II.

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La teologia dell’evangelizzazione: traiettorie dalla nascita dello STAB all’oggi della FTER

Erio Castellucci

Si potrebbe porre come sottotitolo a questo contributo un ulteriore doppio riferimento: «Dalla Evangelii nuntiandi di Paolo VI alla Evangelii gaudium di Francesco»: due documenti che si rispecchiano per molti aspetti e che costituiscono, possiamo dire, la conferma della scelta di dedicare alla teologia dell’evangelizzazione buona parte delle energie spese in questa sede negli ultimi quattro decenni di ricerca e insegnamento teologico. Energie spese soprattutto – ma non esclusivamente – nella Licenza in Teologia dell’Evangelizzazione (LTE), i cui primi corsi presero avvio nell’autunno del 1977 insieme allo Studio Teologico Accademico Bolognese (STAB), che dal 29 marzo 2004 ha lasciato il posto alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER).

1. La Licenza in Teologia dell ’E vangelizzazione a B ologna Il secondo ciclo dello STAB era composto da due specializzazioni: alla LTE, la cui sede unica era presso il Seminario Regionale di Bologna, si affiancava la Licenza in Teologia Sistematica (LTS) a indirizzo tomista, presso il convento dei padri domenicani. Le due Licenze vennero poi assunte dalla FTER, che le ha integrate con una terza in Storia della Teologia (LST) e le ha rilanciate come espressione dei tre relativi Dipartimenti. Un rapido sguardo agli oltre 600 corsi e seminari svolti in questi quattro decenni all’interno della LTE, agli oltre 120 docenti, alle circa 200 dissertazioni scritte, alla decina di convegni – tra i quali quello in atto –, alle collane e alla rivista omonima che sta arrivando al ventesimo anno di vita

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evidenzia un’attenzione costante agli interlocutori, ai contenuti, allo stile e al soggetto dell’evangelizzazione. L’orizzonte degli interlocutori, all’inizio definiti «destinatari», viene considerato, di anno in anno, in stretta aderenza ai mutamenti culturali in atto, specialmente nella nostra regione. È rilevante in proposito la chiara percezione del mutamento di scenario dagli ultimi anni Settanta (primi corsi sull’ateismo: uno nel 1977 e uno nel 1980) agli anni Novanta (attenzione ripetuta verso la post-modernità, con cinque corsi esplicitamente dedicati ad essa e parecchi articoli in RTE sulla post-modernità e sul pluralismo). In effetti la LTE prese avvio nel contesto del confronto, in Emilia-Romagna, con un’ideologia «forte» qual era allora il marxismo; ma nel corso degli anni lo scenario è cambiato e, come nel resto dell’Occidente e dell’Italia, anche nella nostra regione ha fatto breccia piuttosto un pensiero «debole», meno interessato al confronto sulle grandi questioni e più preoccupato di gestire la quotidianità. È proprio questo nuovo scenario a porre le domande più attuali alla teo­­logia dell’evangelizzazione. La caratteristica più evidente del postmoderno è la frammentarietà, frutto e specchio della complessità. In questo contesto è ancora possibile coniugare dialogo e annuncio? Se negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta i docenti dovevano per lo più fronteggiare atteggiamenti di tipo compatto all’esterno e tentazioni di tipo relativistico all’interno, oggi sembra piuttosto l’inverso: tra i docenti è diffusa l’impressione che cresca negli studenti di teologia la tendenza a contrapporsi alle sfide di un relativismo effettivamente molto marcato, con una certa fatica ad accettare nel campo degli studi teologici la problematizzazione, scambiata per scetticismo o accademismo. In questi decenni, prima lo STAB e poi la FTER, collocandosi nel solco remoto delle quattro costituzioni conciliari e in quello prossimo di Evangelii nuntiandi (EV 5/1588-1716), ha accettato un confronto problematizzante con la cultura che non fosse né semplice «ricompattamento» né tantomeno «diaspora» dei cattolici, ma partisse da un vero e proprio dialogo per trovare i ponti dell’annuncio. L’idea espressa almeno tre volte in Gaudium et spes (EV 1/1319-1644) – nn. 40, 44 e 58 – di una bi-direzionalità tra Chiesa e mondo (nel momento in cui la Chiesa dà al mondo, riceve anche qualcosa) ispira anche la LTE. Facendo tesoro dell’esperienza accumulata, l’Ordinamento della FTER, approvato ad quinquennium dalla Congregazione per l’educazione cattolica il 29 marzo 2004, affermava: La Licenza in Teologia dell’Evangelizzazione affronta la teologia nella prospettiva dell’annuncio e dell’inculturazione. Essa studia, dal punto di vista teologico, il fatto dell’evangelizzazione, il messaggio, gli interlocutori e la situazione in cui è loro rivolto l’annuncio. In quest’itinerario sono decisive le discipline fondamentali della teologia, con una specifica attenzione alle connessioni con le scienze antropologiche (2.6.A).

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Lo stesso documento indicava poi le dodici «discipline caratterizzanti» (2.6.B), entro le quali vanno formulati i corsi nei quattro semestri di lezione previsti: Nuclei fondamentali: – Missione ed evangelizzazione nel Nuovo Testamento. – Kerygma, dogma e cultura nei primi secoli. – Liturgia: dossologia, confessione di fede e cultura. – Ecclesiologia: carismi, ministeri, comunione e annuncio. Dimensioni dell’annuncio: – Annuncio del vangelo e problematiche morali. – Dimensione intellettuale e filosofica dell’annuncio. – Vangelo e progresso delle scienze. – Missione e dialogo interreligioso. Contemporaneità e sintesi: – Antropologie post-moderne. – Questioni della comunicazione nella globalizzazione. – Vangelo, cultura e storia in Emilia-Romagna. – Elementi di sintesi per una teologia dell’evangelizzazione. Come si può illustrare, con l’aiuto dell’esperienza di questi decenni, convogliata nelle precise indicazioni dell’Ordinamento della Facoltà, la natura della teologia dell’evangelizzazione? Di per sé la parola evangelizzazione non è di grande aiuto in questa determinazione, poiché è stata applicata nella riflessione teologica e pastorale degli ultimi decenni ad ambiti differenti: dal senso più ampio possibile, che in pratica la identificava con la «missione» ecclesiale a tutti i livelli (predicazione, liturgia, carità) al senso stretto di «primo annuncio» del vangelo, il termine evangelizzazione è una specie di elastico che viene teso o contratto a seconda dei contesti. Tenendo conto dell’esperienza maturata in questi quattro decenni di vita della LTE, si potrebbe intendere la teologia dell’evangelizzazione come quell’aspetto della teologia sistematica che persegue, specialmente per la nostra regione, il grande programma consegnato da Giovanni XXIII al concilio nel documento di indizione Humanae salutis: «Mettere a contatto con le energie vivificatrici e perenni del vangelo il mondo moderno»; programma rilanciato da Paolo VI prima nella Ecclesiam suam, dove presenta una versione cristiana della sentenza terenziana: «Tutto ciò che è umano ci riguarda» (EV 2/201) e poi nella Evangelii nuntiandi: «Indipendenti di fronte alle culture, il vangelo e l’evangelizzazione […] sono […] capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna» (n. 20); programma rilanciato da Giovanni Paolo II con la categoria di «nuova evangelizzazione» e con i criteri che orientano l’inculturazione: innesto del vangelo in una cultura (nel reciproco scambio), purificazione della cultura da parte del vangelo, elevazione o compimento dei germi di verità da parte dello stesso vangelo (cf. Catechesi tradendae, n. 53: EV 6/17641939; cf. anche Lumen gentium, n. 13: EV 1/284-456), e ripreso continuamente da papa Francesco con il rilancio del primato dell’annuncio.

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Emerge in tal modo l’intreccio imprescindibile tra teologia ed evangelizzazione, al punto da costituirli non due grandezze parallele ma un’endiadi. Una teologia che dall’inizio alla fine non fosse impregnata dalle istanze dell’evangelizzazione si risolverebbe in un chiuso accademismo, si perderebbe nei meandri di un linguaggio ermetico e autoreferenziale, diventerebbe un’operazione costruita «in provetta». Un’evangelizzazione che non fosse fondata sulla teologia scadrebbe a pura elaborazione di metodi o ripetizione di slogan, finendo per accomodarsi alla cultura vincente o, al contrario, per adottare il rifiuto della modernità come atteggiamento pregiudiziale. Per mantenere la fedeltà sia al sostantivo «teologia» sia al suo genitivo «evangelizzazione», nella consapevolezza di questo fecondo intreccio, è stato spontaneo, in corsi, seminari, tesi e studi di questi decenni, tornare continuamente a cristologia, antropologia ed ecclesiologia. La cristologia costituisce il perno non solo della teologia ma anche dell’evangelizzazione; entrambe sono fondate, nel metodo e nel contenuto, sulla persona e sull’azione di Cristo, luogo di ogni discorso-su-Dio e modello e propulsore, nello Spirito, dell’azione evangelizzatrice. La soteriologia, in quanto cristologia dinamica, è il paradigma fondamentale della teologia dell’evangelizzazione. L’antropologia mette a fuoco l’interlocutore della teologia e dell’evangelizzazione; se infatti la teologia è «discorso su Dio», è però discorso per l’uomo (e non per Dio) e rivela non solo Dio all’uomo, ma anche l’uomo all’uomo; e l’evangelizzazione, a sua volta, è dimensionata sull’uomo «contemporaneo», per cui non può prescindere da una lettura approfondita dell’umano senza danneggiare l’efficacia stessa della trasmissione del vangelo. L’ecclesiologia, infine, punta la lente sul soggetto della teologia e dell’evangelizzazione. Se il soggetto divino è la Trinità, sulla terra è però la Chiesa, immagine e riflesso della Trinità, a innestare il vangelo nelle diverse culture umane; la Chiesa nella diversità dei suoi membri – laici, ministri, religiosi – e nella complementarità delle sue dimensioni, universale e locale. In questo contesto, le Chiese del­ l’Emilia-Romagna sono coinvolte in prima persona nel progetto di teologia del­l’evangelizzazione. Vale la pena di riflettere più dettagliatamente su queste tre discipline che formano l’ossatura della teologia dell’evangelizzazione.

2. Il

fondamento cristologico della teologia dell ’ evangelizzazione

La teologia dell’evangelizzazione si fonda nel metodo e nel contenuto su Gesù Cristo, considerato però non in maniera statica bensì dinamica, come evento che coinvolge Dio e l’uomo insieme. Il triplice mistero che caratterizza l’evento di Cristo le offre quindi metodologia e contenuti: l’incarnazione richiama la consistenza dell’umano e della storia, il desi-

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derio di comunione da parte di Dio realizzatasi in Cristo, la presenza dei «germi del Verbo» dovunque esistano cercatori della verità, la necessità per la Chiesa di mettersi in ascolto delle istanze dei contemporanei, la legittima autonomia delle realtà temporali; la crocifissione evidenzia la misura estrema dell’amore divino per l’uomo, la presenza e la forza del male nella storia, il bisogno di discernimento, capacità critica e azione purificatrice che il vangelo deve svolgere verso l’umano; la risurrezione, infine, mette in luce la superiorità della vita sulla morte e del bene sul male, il destino ultimo degli esseri umani, il valore della storia, del mondo e del corpo, il compito di mostrare agli uomini come in Cristo ciò che è autentico non va perduto ma viene potenziato e portato a pienezza. L’annuncio cristiano si plasma su questa triplice logica, che è quella scelta e praticata da Dio nell’incontrare e salvare l’uomo, e anche la teologia dell’evangelizzazione si basa su questa triplice logica. Se annebbiasse il mistero dell’incarnazione, tale teologia cadrebbe nell’astrazione, si precluderebbe il dialogo e l’ascolto, spargerebbe i preziosi semi della verità al vento e non sul terreno, rischierebbe l’anacronismo e quindi l’inefficacia. Se oscurasse il mistero della croce, la teologia dell’evangelizzazione si adagerebbe semplicemente sul mondo e avallerebbe le mode prevalenti, diventerebbe sale insipido e forse anche instrumentum regni perché, perdendo la sua funzione critica, farebbe il gioco dei poteri di turno (culturali, politici, economico-finanziari e mediatici: spesso intrecciati tra loro). Se trascurasse il mistero della risurrezione, la teologia dell’evangelizzazione si porrebbe come proposta culturale accanto alle altre, semplice commensale in più al tavolo delle visioni dell’uomo e del mondo che convivono nel cosmo pluralista; ma con ciò rinuncerebbe alla pretesa evangelica fondamentale: la capacità di Cristo di dare senso pieno al­ l’umano; e non solo quando l’umano è in crisi e sperimenta il proprio fallimento, ma anche e soprattutto quando ricerca il proprio senso compiuto. Una delle più grandi sfide alla teologia è oggi proprio quella relativa all’umano, come ha evidenziato il recente Convegno di Firenze, coniugando proprio cristologia e antropologia. Per troppo tempo, come notò D. Bonhöffer, l’annuncio del vangelo ha cercato di innestarsi nell’insufficienza umana, nella sofferenza e nella morte; pur non volendo negare che spesso siano proprio le situazioni negative a creare le premesse per un’apertura verso l’alto, è però tempo per la teologia di pensare a fondo l’annuncio del vangelo come pienezza dell’umano. Non una teologia che si limiti a giocare «di rimessa», presentandosi come risposta alle domande tragiche sul dolore e sulla morte, ma una teologia che scenda nel­ l’arena del confronto culturale con l’umile persuasione che Cristo non interviene solo a colmare le deficienze dell’umano, ma anche e soprattutto a compierne le aspirazioni, le gioie, i desideri. Del resto, se consideriamo almeno sommariamente alcuni modelli di evangelizzazione nella storia, riusciamo a cogliere un fil rouge che li accomuna, ossia l’annuncio di Cristo, attraverso però forme e contenuti differenti. Forme e contenuti che costituiscono la trama di fondo dell’attività della FTER e fanno incontrare continuamente la teologia dell’evangeliz-

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zazione con la storia della teologia e la sistematica, connettendo tra loro i tre indirizzi di Licenza. Richiamiamo brevemente questi modelli. La metodologia tipica del Nuovo Testamento, quando l’ansia di diffondere l’evento e la parola di Cristo prevaleva su ogni altra considerazione – anche a motivo dell’attesa di un ritorno imminente del Signore – era quella che potremmo indicare come annuncio dialogico: dove il sostantivo è molto più importante dell’aggettivo. La preoccupazione della Chiesa apostolica è quella di comunicare a tutti che Cristo è Risorto, è giunta l’era messianica, è iniziata la salvezza del mondo. Tuttavia, anche se non c’era il tempo di elaborare un vero e proprio «dialogo» strutturato – l’urgenza dell’annuncio pasquale aveva il sopravvento e assorbe tutte le energie – non appena il vangelo superò i confini del mondo giudaico, già negli anni 50, il cristianesimo cominciò a tradurre l’unico messaggio in diversi linguaggi: Paolo, Marco, Matteo, Luca, Giovanni… pensavano in categorie ebraiche ma scrivevano in greco, e utilizzavano linguaggi culturali che intendevano parlare sia ai giudei che ai gentili. I padri, specialmente quelli del II secolo comunemente noti come apostolici e apologisti, nell’annuncio del vangelo erano attenti anch’essi ai contenuti e ai concetti dei vari mondi ai quali si rivolgevano: giudaico, ellenistico e romano; così attenti che cercarono di individuare in essi dei «germi del Verbo», cioè tracce della verità e della grazia di Cristo, elementi che conducono a lui. Le persecuzioni anti-cristiane che costellarono questi primi secoli operarono da una parte come setaccio quantitativo e qualitativo dei cristiani e dall’altra come pungolo che – essendosi ben presto attenuata l’attesa del ritorno imminente del Signore – stimolava la missione, rendendone ancora più evidente l’urgenza. Il periodo medievale si mosse nella sostanziale convinzione di un’evan­ gelizzazione ormai compiuta: quelle che si reputavano le ultime sacche di paganesimo vennero assorbite con l’evangelizzazione degli angli, dei germani e degli slavi, portata avanti con successo nell’alto medioevo. La permanenza di comunità ebraiche della diaspora e l’avanzare aggressivo dell’islam in molte zone del mondo non cambiarono nella coscienza cristiana la convinzione che il vangelo fosse giunto ovunque: semplicemente, si sapeva che alcuni, pur avendolo conosciuto, non lo accettavano e lo combattevano. La tensione evangelizzatrice, dunque, si attenuò: è il periodo dell’annuncio e dialogo intraecclesiale, dove l’annuncio tende a esaurirsi in catechesi (attraverso le parole ma anche le immagini) e il dialogo nella pluralità delle scuole cristiane (famose quelle tomista e scotista, di derivazione domenicana la prima e francescana la seconda). A questo livello appartengono le maggiori realizzazioni medievali frutto e strumento dell’evangelizzazione: le cattedrali, le Summae teologiche, le opere di carità, le università. In campo extraecclesiale, invece, né l’annuncio né il dialogo vennero portati avanti, almeno nel senso che diamo noi oggi a queste due parole: il primo era ritenuto sostanzialmente inutile, data l’universale diffusione del battesimo e della fede, e il secondo dannoso per l’affermazione della verità. In questo contesto – e concedendo tutte le attenuanti storiche del caso ma senza impartire un’assoluzione

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generale – si collocano nel secondo millennio le crociate, l’inquisizione e la caccia alle streghe. In fondo sono note di una stessa sinfonia: quella della custodia della verità contro coloro che, fuori della Chiesa, la insidiano: siano essi musulmani, ebrei, cristiani eretici o persone sospette di stregoneria. La scoperta del Nuovo Mondo, dalla fine del XV secolo a tutto il XVI, costrinse a elaborare nuovi modelli di evangelizzazione. Essendo caduta la persuasione di vivere in un mondo già cristianizzato e di dovere dunque far rifluire l’annuncio e il dialogo solo all’interno della Chiesa – riservando per l’esterno la polemica non solo verbale ma anche militare – l’ope­ra evangelizzatrice ripartì con un’urgenza simile a quella del periodo apostolico, ma con una metodologia che, per lo più, se ne distaccò e che si potrebbe indicare come annuncio senza dialogo. I missionari che salpavano sulle navi spagnole, portoghesi e inglesi alla conquista del Nuovo Mondo, anche se – come la storia testimonia – svolsero per lo più un’opera di contenimento della furia conquistatrice, non riuscirono però in gran parte a innestare il vangelo in quelle culture, ma vi portarono una dottrina confezionata alla maniera occidentale. Tentativi come quelli operati a cavallo tra XVII e XVIII secolo dai gesuiti nel Paraguay (molto più grande del territorio attuale), attraverso le reducciones, vere e proprie comunità di vita, lavoro, preghiera, vennero fermati per motivi in buona parte politici. Purtroppo non tutti i missionari ebbero il coraggio e la lungimiranza di Bartolomeo de Las Casas, che denunciò lo sradicamento della cultura locale per il trapianto violento di quella occidentale come un vero e proprio tradimento del vangelo. Facendo tesoro di questi grandi e drammatici insegnamenti della storia, oggi nessun cristiano prospetta l’evangelizzazione in termini di sradicamento di una cultura da parte del vangelo. Alcuni teologi odierni anzi, mossi anche dal senso di colpa per certe efferatezze commesse da chi si diceva cristiano, propongono di intendere la missione come una sorta di dialogo senza annuncio, dove si confrontino semplicemente le differenti posizioni religiose e sociali, senza tendere a convertire l’altro, ma accontentandosi di accordi e convergenze. Davanti a questa proposta, che oggi nella teologia del dialogo interreligioso prende il nome di pluralismo o teo­centrismo, occorre dire francamente che il cristianesimo è geneticamente annuncio. Il Risorto ha inviato i discepoli con parole che non lasciano dubbi: «Andate, predicate, annunciate a tutte le genti» (cf. Mt 28,18-20 par.). Una Chiesa che rinunciasse all’annuncio e non si offrisse come luogo in cui tale annuncio può essere sperimentato creando vita nuova sarebbe una Chiesa dimissionaria più che missionaria. Vi è però un elemento positivo che si può raccogliere dalla proposta precedente: elemento che del resto il Nuovo Testamento stesso già contiene chiaramente: il metodo di evangelizzazione non può mai essere costrittivo: sarebbe una contraddizione tragica rispetto al suo contenuto, che è la Pasqua come offerta totale di Cristo al Padre e ai fratelli, cioè l’amore e la libertà che Cristo rivela e realizza. Sarebbe in contrasto con il comportamento stesso di Gesù, che ha sempre proposto e mai imposto.

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Il concilio Vaticano II ha infatti elaborato un modello che, ispirandosi a quelli neotestamentari e aggiornandoli sulla base della storia, si potrebbe indicare con dialogo e annuncio. Qui entrambi i termini sono sostantivi e nessuno dei due è subordinato all’altro: è troppo grande il pericolo di dimenticare il dialogo se lo si riduce ad aggettivo; ma è grande anche il pericolo di dimenticare l’annuncio, se tutta la missione si fa consistere nel dialogo. Il Vaticano II, in alcuni testi famosi – si pensi almeno a Lumen gentium, n. 17 (EV 1/327) e Ad gentes, nn. 2-4 (EV 1/1090ss) – ha tracciato quella triplice metodologia per l’evangelizzazione, già ricordata – innesto, purificazione e compimento –, che deriva dal mistero di Cristo. Entrando così a fondo nella triplice dinamica del mistero di Cristo, la teologia dell’evangelizzazione si pone come branca non della teologia pastorale o pratica, bensì della teologia sistematica: e in questo senso è prima di tutto un aspetto della cristologia e della soteriologia; quell’aspetto che viene illuminato a partire dalle istanze dell’uomo contemporaneo, come mette in evidenza l’orizzonte antropologico nel quale si colloca.

3. L’orizzonte

antropologico della teologia dell ’ evangelizzazione

Al Congresso eucaristico nazionale di Bologna, il 27 settembre 1997, Giovanni Paolo II, insieme a centinaia di migliaia di giovani, ascoltò la canzone Blowing in the wind eseguita personalmente da Bob Dylan e, nel suo discorso successivo, ne riprese il testo originale con queste parole: Poco fa un vostro rappresentante ha detto, a vostro nome, che la risposta alle domande della vostra vita «sta soffiando nel vento». È vero! Però non nel vento che tutto disperde nei vortici del nulla, ma nel vento che è soffio e voce dello Spirito, voce che chiama e dice: «Vieni!» (cf. Gv 3,8; Ap 22,17). Mi avete chiesto: quante strade deve percorrere un uomo per potersi riconoscere uomo? Vi rispondo: una! Una sola è la strada dell’uomo, e questa è Cristo, che ha detto: «Io sono la via» (Gv 14,6).

Questo approccio, appena accennato, traccia una pista magistrale per la catechesi e l’annuncio della fede e rappresenta anche la grande preoccupazione della teologia dell’evangelizzazione: intercettare la domanda, portarla a un livello di profondità maggiore e indicare la risposta piena, quella della fede. Prima però di considerare approfonditamente questa pista percorrendo il metodo di Gesù, è bene ricordare che non sempre le domande profonde del cuore umano vengono espresse: a volte, anzi, sono sepolte sotto una coltre di questioni più superficiali e non riescono a emergere da sole. Due impostazioni sono a questo proposito inadeguate e incapaci di cogliere le domande: il sentiero «dall’alto» non riesce a perforare la coltre e risulta ininfluente per chi dovrebbe ricevere risposta, perché la giudica poco interessante; le risposte esatte ma pre-confezionate vengono subito

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annullate dall’indifferenza e dal disinteresse dei destinatari. Ma neanche il sentiero «dal basso» giunge fino al senso profondo della domanda, perché si limita a dare spazio alle questioni immediate e superficiali, senza rispondere, senza rilanciare e quindi senza creare quel circolo virtuoso che è il rapporto educativo, che stimola a un approfondimento. In alcuni manuali di psicologia dell’età evolutiva si trovano esempi come questo: se un bambino chiede da bere, non è detto che abbia sete davvero, ma può darsi che abbia solo bisogno di attenzione. È una sete più profonda, una sete non di acqua ma di relazione. Se la mamma risponde solo con l’acqua, distrattamente e senza entrare in relazione, il bambino continua a sentire disagio e a manifestare la sete. Spesso, sotto alle domande emergenti, se ne nascondono altre inespresse, che hanno sempre a che vedere con il bisogno di senso, di relazione, e infine di amore. Le nostre domande espresse sono come la punta dell’iceberg, che emerge per circa un decimo della sua massa totale; al di sotto delle nostre domande vi è un enorme bisogno di significato. Perché la gran parte della nostra vita – i nove decimi nascosti – non si appaga delle risposte immediate, del semplice soddisfacimento di bisogni espressi, ma necessita di risposte più profonde. Se scaviamo nel cuore umano, incontriamo da sempre alcune domande, alcuni desideri, che rispondono sostanzialmente a un bisogno di pienezza, di gioia, di felicità. È notissima la sentenza di Aristotele, all’inizio della sua Etica Nicomachea: «Ogni uomo cerca la felicità» (1095a,17-19). Ma quanti volti ha la felicità? Certo le gioie materiali sono insufficienti, ma fanno parte tuttavia della felicità. La speranza fondamentale che l’uomo ha da sempre è di vivere, e di vivere bene; è speranza dunque di sussistenza e benessere, che comporta una quantità sufficiente di cibo, acqua, vestiti, medicine, denaro e beni utili alla vita; l’uomo in altre parole spera prima di tutto di non soccombere per la fame, la sete, la miseria, le malattie, gli incidenti. Di questa felicità, a un livello più profondo, fa parte anche la ricerca di relazioni ricche e soddisfacenti: nella coppia e nella famiglia, tra genitori e figli, tra amici, e – per il credente – con Dio; l’uomo quindi spera anche di non venire sopraffatto dalla solitudine e dall’umiliazione di sentirsi inutile, e il credente inoltre spera di non cedere al peccato. Infine, al livello più profondo ancora, la domanda ultima dell’uomo è di non essere annullato dalla morte, di vivere per sempre; solo la nostra specie, a partire almeno da qualche decina di migliaia di anni, dedica una certa cura ai defunti, sviluppa per essi dei riti, manifesta la speranza che la vita umana perfori il muro della morte. Queste sono allora le grandi domande di sempre: vivere un’esistenza materialmente bella, ricca e colma di soddisfazioni; costruire relazioni significative con i propri simili; superare la morte in una vita piena ed eterna nella quale raccogliere il meglio della vita terrena. A intercettare e valorizzare queste domande di fondo si dedica la teologia dell’evangelizzazione. Che queste siano le domande fondamentali lo dimostra anche – è il rovescio della medaglia – il fenomeno della ricerca di risposte immediate

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e a poco prezzo, che lasciano poi delusi e spesso anche feriti. Il bisogno di sicurezza materiale viene soddisfatto non sempre con mezzi onesti, ma qualche volta anche con furti o pratiche disoneste. Il bisogno di relazioni significative cerca soddisfazione a volte attraverso un esercizio sregolato della sessualità, che arriva persino a sfruttare altre persone; oppure attraverso un esercizio arbitrario del potere, o attraverso l’alterazione degli stati di coscienza (droghe, alcol), segno di un disagio che cerca vie di fuga dalla realtà. E si potrebbe forse interpretare la diffusa curiosità, che arriva a essere morbosa, di ragazzi e giovani verso le esperienze-limite tra vita e morte, il satanismo e l’occultismo – prodotti in piena espansione grazie anche a internet – come la ricerca di facili risposte alla domanda delle domande, quella sul significato della morte e della sua incidenza sulla vita. Sono sintomi che possono spaventare, ma devono comunque essere decodificati e interpretati. Queste risposte sono illusorie e qualche volta anche distruttive, ma dal punto di vista teologico le domande che vi stanno sotto esprimono una ricerca mascherata di Dio, perché incanalano una domanda di pienezza. È sant’Agostino a percorrere questa audace pista, soprattutto in una pagina del II libro delle Confessioni che vale la pena di leggere, poiché rappresenta uno dei tentativi meglio riusciti di interpretazione delle domande espresse e inespresse del cuore umano. L’orgoglio simula l’eccellenza, mentre il solo Dio eccelso al di sopra di tutte le cose sei tu. L’ambizione a che altro aspira se non a onori e gloria, mentre tu solo sopra tutto meriti onore e gloria eterna? La crudeltà dei potenti mira a incutere timore; ma chi è davvero temibile se non Dio solo, al cui potere cosa si può strappare o sottrarre, e quando, dove, come, da chi? Le seduzioni delle persone lascive, poi, mirano a suscitare amore, ma nulla è più seducente della tua carità, né vi è amore più salutare di quello della tua verità, tanto è bella e splendente oltre ogni cosa. La curiosità si atteggia a desiderio di conoscenza, mentre chi conosce tutto e in sommo grado sei tu; persino l’ignoranza e la scempiaggine si coprono col nome di semplicità e innocenza, poiché si trova nulla più semplice di te e c’è cosa più innocente di te, se ai malvagi stessi nuocciono le opere loro? La pigrizia dal canto suo sembra cercare quiete, ma esiste quiete sicura senza il Signore? Il lusso vuol esser chiamato soddisfazione e copiosità di mezzi; sei tu però la pienezza e l’abbondanza inesauribile d’incorruttibili bellezze. La prodigalità si copre con l’ombra della liberalità, ma il più copioso dispensatore di ogni bene sei tu. L’avarizia aspira a possedere molto, mentre tu possiedi tutto. L’invidia disputa per eccellere, ma cosa eccelle più di te? L’ira vuole vendetta, ma quale vendetta è più giusta della tua? La pavidità trema, nella sua ricerca di sicurezza, dei pericoli insoliti e repentini che incombono sugli oggetti d’amore; a te infatti riesce qualcosa insolito, repentino? O qualcuno ti può privare degli oggetti del tuo amore? E dove si è saldamente sicuri se non al tuo fianco? La tristezza si rode per la perdita dei beni, di cui si dilettava la cupidigia, poiché vorrebbe che, come a te, così a sé nulla si potesse togliere. In queste forme l’anima pecca allorché si distoglie da te e cerca fuori di te la purezza e il candore, che non trova se non tornando a te. Tutti insomma ti imitano, alla rovescia, quanti si separano da te e si levano contro di te (Confessioni II, 6,13-14).

Chi guarda a Cristo lo fa sempre attraverso un interesse, un’istanza, una pre-comprensione. Che sia il desiderio di ricostruire il cosiddetto 26

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«Gesù storico», liberandolo dall’abbraccio della dogmatica ecclesiastica, come dicevano gli studiosi della scuola liberale tra l’Ottocento e il Novecento; oppure la volontà di cogliere nel Cristo quei tratti che ne fanno il paradigma dell’azione continua di Dio verso l’uomo, come intese fare la scuola esistenziale di Bultmann; o magari di ritrovare una potenzialità eversiva in Gesù e nel suo messaggio verso i poveri (teologia della liberazione) o le donne (teologia femminista); o magari l’intento di fondare su Gesù un dialogo più profondo dei cristiani con gli ebrei (uno dei tratti della Third Quest) o con le altre grandi tradizioni religiose dell’umanità (teologia delle religioni). La teologia dell’evangelizzazione dichiara la propria pre-comprensione – all’interno della grande pre-comprensione costituita dalla tradizione cattolica – nell’istanza antropologica: si rivolge cioè al mistero cristiano con la domanda sulle modalità e i contenuti dell’annuncio del vangelo all’uomo contemporaneo; concretamente, la teologia dell’evangelizzazione qui elaborata si interessa soprattutto all’uomo emiliano-romagnolo: alle sue idee, condizioni, problematiche, speranze, contraddizioni, potenzialità. Certo l’uomo della nostra regione ha molto in comune con i suoi contemporanei, in particolare gli europei e in modo speciale gli italiani; e tuttavia sembrano spuntare alcune caratteristiche specifiche, influenzate dalla storia, che attirano l’attenzione anche della teologia. La storia della nostra regione è segnata da molte appartenenze; per menzionare solo le più recenti, si possono ricordare: l’annessione di una parte dell’attuale regione allo Stato pontificio, con tutti i problemi relativi ai difficili e controversi rapporti Stato-Chiesa e un certo anticlericalismo permanente; la fortuna del movimento repubblicano, non a caso connotato a suo tempo da una viscerale opposizione alla vita e attività ecclesiale; l’adesione non sporadica (anzi, in Romagna decisamente significativa) al fascismo, con strascichi civilmente molto pesanti nella Resistenza e nell’immediato dopoguerra; l’adesione intensa e massiccia al comunismo, che per decenni ha caratterizzato la regione; la penetrazione sottile ma decisa del pensiero debole, con la sua carica individualistica, edonista ed emozionale. Il cristianesimo, vissuto a livello personale ma anche organizzato, ha continuato il suo cammino in tutte queste fasi, dando vita nelle diverse Chiese a figure di altissimo profilo umano, civile e cristiano; è un cristianesimo consapevole più che altrove della sua condizione di minoranza, ma non per questo affetto da complessi di inferiorità. Tutte queste appartenenze fanno della nostra regione un «concentrato» probabilmente unico nel panorama italiano e la rendono una sorta di laboratorio sperimentale per l’annuncio del vangelo. Il quadro degli interlocutori poi, necessariamente frammentario, non può oggi ignorare le fatiche e le opportunità costituite dal crescente fenomeno dell’immigrazione, che ha reso domestiche e quotidiane le relazioni interculturali e interreligiose, creando qualche inevitabile disagio nella comunicazione e nella convivenza, ma presentando anche stimoli e istanze in campo civile ed ecclesiale. Si può ricordare infine – senza alcuna pretesa di completezza – un diffuso positivismo che, se a livello

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accademico sembra ormai tramontato, persiste intatto a livello di cultura media, nutrendosi spesso di slogan sulla presunta incompatibilità tra fede e scienza. Non mancano ovviamente, dentro a questi stessi fenomeni, molte opportunità e tanti agganci per l’evangelizzazione oggi: un fondamentale senso di onestà e laboriosità, la capacità di incanalare passioni sociali e politiche dentro a un elevato senso della cosa pubblica, un innato senso della giustizia e un’attenzione spiccata per l’ecologia, la ricerca di un equilibrio tra opinioni personali e tessuto della convivenza civile, una buona armonia tra impegno e distensione, favorita anche da un carattere in genere accogliente e capace di relazioni. È forse proprio il desiderio di relazioni interpersonali significative e di prossimità a rappresentare la più promettente pista per l’evangelizzazione nella nostra regione: pista che indica come metodo privilegiato l’incontro personale. La teologia dell’evangelizzazione, attenta a questo ricco e difficile scenario, cerca di coniugare l’annuncio del vangelo con la complessità della situazione umana, sociale, culturale, morale, religiosa e politica: è su questi terreni che si spende la triplice metodologia fondata sulla cristologia – innesto, purificazione, compimento – nello sforzo di presentare efficacemente la persona e l’evento di Gesù agli uomini del nostro tempo.

4. Il

soggetto ecclesiale della teologia dell ’ evangelizzazione

La teologia dell’evangelizzazione è da sempre attenta al soggetto umano dell’annuncio, la Chiesa. Si tratta però della Chiesa considerata, appunto, in quanto soggetto dell’evangelizzazione: guardata cioè non semplicemente nella sua composizione «interna», ma nella sua natura «estroversa», originata dalla Trinità e donata agli uomini del suo tempo. La teologia dell’evangelizzazione non offre quindi un ritratto statico della Chiesa, una serie di fotografie, ma tenta di costruirne un filmato: e nel far questo ritiene di essere profondamente in linea con la Lumen gentium e con la Gaudium et spes, nelle quali la Chiesa, nel momento stesso in cui scandagliava la sua struttura, si scopriva rispettivamente relativa a Dio da una parte e agli uomini dall’altra. L’Evangelii nuntiandi a sua volta, che com’è sopra emerso ha ispirato da vicino la teologia dell’evangelizzazione, ha evidenziato chiaramente come la Chiesa esista non per sé ma per evangelizzare; e il documento firmato da Giovanni Paolo II a conclusione del Giubileo del 2000, Novo millennio ineunte, sceglie significativamente come icona per la Chiesa di oggi il «Duc in altum» detto da Gesù a Pietro. Lanciando questa icona, Giovanni Paolo II fece una scelta coraggiosa. Si sarebbe potuto obiettare: come fa il papa a dire alla barca della Chiesa di prendere il largo, in questa situazione? Lui dovrebbe sapere che questa barca è traballante, necessita di riparazioni, ha bisogno di essere verniciata per fare una buona impressione e soprattutto richiede un equipag-

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gio meglio addestrato. A volte l’equipaggio sembra un’armata brancaleone e questa barca fa acqua da tutte le parti. Come può navigare nel mare del mondo, portare aiuto agli uomini, testimonianza ed essere missionaria, se prima non si compatta e non si attrezza bene? In altre parole: prima la comunione tra di noi e poi, quando saremo pronti, la missione verso gli altri. Invece Giovanni Paolo II ha rovesciato l’approccio: muovetevi, abbiate il coraggio di andare al largo, guardate alle esigenze del mondo, e in questa navigazione rinsalderete anche la comunione. È la stessa prospettiva che, con un’insistenza ancora maggiore e addirittura programmatica dell’intero suo pontificato, rilancia continuamente papa Francesco. La Evangelii gaudium è un grande e rigoglioso inno alla Chiesa missionaria, alla «Chiesa in uscita». In uno dei passaggi più audaci il papa afferma: Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più che la paura di sbagliare, spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37) (n. 49: EV 29/2155).

Queste prospettive traducono l’asse fondamentale del Vaticano II. Se si dovesse indicare, dentro all’ermeneutica della continuità e della riforma indicata da papa Benedetto XVI, quale sia la «novità» dell’ecclesiologia conciliare, sarebbe appropriato indicare l’idea della missione come costitutiva della Chiesa. Molti – tra i quali i vescovi riuniti nel sinodo straordinario del 1985 – hanno definito l’ecclesiologia conciliare «di comunione», ed è vero, purché venga intesa come «comunione missionaria». L’idea di comunione, infatti, strutturava anche l’ecclesiologia della Mystici corporis – quando i padri del Vaticano II si riunirono avevano già in mano un libro di Hamer intitolato La Chiesa è comunione – e si poteva perfino riscontrare anche in quelle «corporativa» e societaria; ciò che invece rimaneva in sordina in quelle ecclesiologie era proprio la coscienza di una Chiesa essenzialmente e interamente missionaria, esistente per gli uomini e non per se stessa. Non che le due dimensioni contrastino: l’una senza l’altra non avrebbe alcun senso, poiché la comunione senza la missione si ripiegherebbe nell’intimismo e la missione senza la comunione sfumerebbe nell’attivismo. Se il mistero della convocazione trinitaria sta all’origine della Chiesa, la comunione e la missione trinitaria sono le due modalità storiche, inscindibili, attraverso le quali il mistero si dispiega nella storia. Ma quando si dimentica che la comunione è per la missione, ci si ripiega su se stessi. Forse è successo anche nella nostra Chiesa italiana specialmente durante gli anni ’80, quando la CEI 29

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aveva indicato come piano pastorale decennale Comunione e comunità: c’era il rischio – e ne fu un segnale il Convegno di Loreto del 1985 – che i problemi della comunione si dovessero risolvere guardandosi semplicemente allo specchio: qual è il rapporto tra parrocchie e movimenti e tra diocesi e movimenti; quali sono le competenze dei presbiteri e quelle dei laici; che spazi hanno nella Chiesa i carismi e qual è il ruolo dell’istituzione; e così via. I problemi ad intra sono certo da affrontare nella Chiesa – non si può andare al largo su un tronco, occorre almeno una zattera che galleggi – ma sono da affrontare nell’orizzonte dei problemi ad extra. È l’agenda della missione che orienta l’agenda della comunione. Una delle tentazioni più ricorrenti delle nostre comunità è forse ancora quella di impiegare la maggior parte delle energie nel cercare di studiare e rivitalizzare i loro ingranaggi interni. A tutti i livelli – universale e locale – è un rischio effettivo: come se, per riprendere l’immagine appena menzionata, si volesse salpare solo con una barca perfettamente in ordine; come se, in altre parole, la missione verso il mondo dovesse attendere una comunione perfetta nella Chiesa. In questo senso, la teologia dell’evangelizzazione accoglie pienamente le istanze del concilio e del magistero successivo, guardando alla Chiesa-comunione, anche nei suoi assetti strutturali (Chiesa universale-locale, vocazioni-ministeri-carismi, diocesi-parrocchie-aggregazioni), a partire dalle esigenze della missione. Quando e dove sono le istanze della missione a interrogare il soggetto che annuncia, la tensione verso la comunione diventa quasi un’esigenza, pena il depotenziamento dell’annuncio stesso. La chiave di lettura ecclesiologica della comunione missionaria trova, nella teologia dell’evangelizzazione, diverse applicazioni. Nel parlare della comunione fra Chiesa universale e Chiesa particolare o locale, ad esempio, non si tratta tanto di misurare la priorità dell’una o dell’altra, quanto di metterne in evidenza la necessaria complementarità nell’attività missionaria: il respiro universale è essenziale a ogni Chiesa locale per mantenerla nella catholica, dove trova quella linfa che le impedisce di ripiegarsi su se stessa e il radicamento locale è essenziale alla Chiesa universale per renderla incisiva nella storia e nella cultura degli uomini di ogni parte del mondo. Anche la comunione tra vocazioni, carismi e ministeri risulta illuminata dall’ottica missionaria: ogni dono spirituale, infatti, è dato non per una dignità personale ma per un servizio ai fratelli; è dunque a partire da categorie «diaconali», minimo comune denominatore di tutti i cristiani, che ogni dono trova la sua collocazione specifica: i laici come servitori della dimensione realizzata, immanente e storica del regno di Dio, i religiosi come servitori della dimensione trascendente, futura ed escatologica del medesimo Regno, i ministri ordinati come servitori della costruzione della Chiesa – germe e inizio del Regno nella storia – ad opera di Cristo attraverso la parola, i sacramenti e la carità. La comunione fra le diverse aggregazioni ecclesiali (associazioni, movimenti, cammini, gruppi), infine, trova modo di rinsaldarsi quando la logica del paragone e del confronto, tesa inevitabilmente a individuare i migliori, viene sostitui-

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ta dalla logica della testimonianza e della missione, tesa invece a mettere i propri carismi a servizio dell’innesto del vangelo nel mondo. La teologia dell’evangelizzazione, insomma, vive nella convinzione che la solidità dell’edificio ecclesiale sia assicurata non tanto dallo spessore dei muri, quanto dalla trasparenza delle finestre: che da una parte devono lasciare entrare dal di fuori la luce di Cristo senza farvi da schermo con tendaggi pesanti e polverosi, e dall’altra devono favorire dal di dentro la comunicazione con uomini, senza trasformarsi in specchi che servirebbero solo a rimirare se stessi e impedirebbero l’evangelizzazione. Nell’ottica della missione, la comunione ecclesiale – lungi dal ridursi ad armonia psico-affettiva (che ne è piuttosto una delle espressioni possibili) – è il radicamento dei battezzati nell’opera trinitaria di raduno della Chiesa: popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito. È prima di tutto l’adesione all’unica fede nella proclamazione della parola di Dio – la Scrittura resa viva nella tradizione – a rappresentare la radice della comunione ecclesiale. Sono i sacramenti, poi, e in special modo l’eucaristia, a rinnovare, nutrire e ricostituire la comunione nella Chiesa (cf. Sacro­ sanctum concilium e Lumen gentium, n. 11). Sono, infine, i doni dello Spirito ad abilitare i cristiani alla costruzione di una Chiesa che non sia né anarchia né blocco monolitico, ma unità nella diversità; per questo la comunione ecclesiale è hierarchica communio. L’assorbimento della categoria di «comunione» nel semplice «andare d’accordo» e «volersi bene» – molto utili, certo – ha ridotto la ricchezza teologica dell’ecclesiologia comunionale così come era stata elaborata dall’ultimo concilio e ha favorito una prassi cristiana a volte troppo «intimista», rischiando di mettere in sordina l’altra grande dimensione della Chiesa conciliare, la missione appunto. La comunione, quindi, più che il «centro» dell’ecclesiologia è uno dei due fuochi dell’ellisse, poiché condivide con la missione la qualifica di asse portante della Chiesa. Non a caso entrambi i fuochi attorno ai quali ben presto si polarizza l’attenzione del concilio – Ecclesia ad intra ed Ecclesia ad extra – rispondono all’unico grande desiderio di portare Cristo agli uomini del nostro tempo, a partire dall’esperienza del mistero trinitario. Giovanni Paolo II precisò il rapporto tra i due aspetti con felicissima sintesi: La comunione con Gesù, dalla quale deriva la comunione dei cristiani tra loro, è condizione assolutamente indispensabile per portare frutto: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). E la comunione con gli altri è il frutto più bello che i tralci possono dare: essa, infatti, è dono di Cristo e del suo Spirito. Ora la comunione genera comunione, e si configura essenzialmente come comunione missionaria. Gesù, infatti, dice ai suoi discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16). La comunione e la missione sono profondamente congiunte tra loro, si compenetrano e si implicano mutuamente, al punto che la comunione rappresenta la sorgente e insieme

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Erio Castellucci il frutto della missione: la comunione è missionaria e la missione è per la comunione (Christifideles laici, n. 32: EV 11/1741s).

La Chiesa conciliare, in definitiva, è mistero di comunione missionaria: ed è compito dell’ecclesiologia ricercare un buon dosaggio fra queste dimensioni. Probabilmente da imputare a un’enfasi eccessiva sulla comunione non sufficientemente integrata con la missione è quella centratura comunitaria, talvolta presente nella prassi cristiana, che rischia di esaurire nell’esperienza del «gruppo» le potenzialità della fede, rasentando l’autoreferenzialità. Un pericolo che la teologia dell’evangelizzazione intende scongiurare, fondando teologicamente lo statuto missionario della comunione ecclesiale, con l’attenzione ai diversi soggetti che costituiscono il popolo di Dio – laici, ministri ordinati, consacrati – nell’ottica di quella sinodalità che papa Francesco ha indicato come «il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio» (Discorso nel 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, 17.10.2015).

Bibliografia Associazione Teologica Italiana, Dossier. Chiesa e sinodalità, Velar, Bergamo 2005. Canobbio G., Chiesa perché? Salvezza dell’umanità e mediazione ecclesiale, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994. Colzani G., La missionarietà della Chiesa. Saggio storico sull’epoca moderna fino al Vaticano II, EDB, Bologna 1975. Dianich S., Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, Paoline, Roma 1985. Dianich S. – Noceti S., Trattato sulla Chiesa (Nuovo corso di teologia sistematica 5), Queriniana, Brescia 2002. Dupuis J., Gesù Cristo incontro alle religioni, Cittadella, Assisi 1989. Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Paoline, Alba 1995. Ladaria L.F., Antropologia teologica, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986. Ratzinger J., Il nuovo popolo di Dio (BTC 7), Queriniana, Brescia 1971. Scola A., Chi è la Chiesa? Una chiave antropologica e sacramentale per l’ecclesiologia (BTC 130), Queriniana, Brescia 2005. Werbick J., La Chiesa. Un progetto ecclesiologico per lo studio e per la prassi (BTC 103), Queriniana, Brescia 1998.

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Parte prima Il contesto

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Una vita degna mediante il lavoro (Laudato si’ 128)

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1. Il

contesto di oggi : precarietà , disoccupazione , diseguaglianza

Per arrivare a definire quale possa essere la proposta per un lavoro degno dell’uomo è bene avere le idee chiare su alcuni punti che caratterizzano il nostro oggi.

1.1. Precarietà Il problema della precarietà è non solo quantitativo (in alcuni Paesi un quarto della popolazione si trova nel precariato) ma anche qualitativo: la vita e il futuro dei precari sono bloccati e sono nelle mani dei poteri di oggi. Al precario viene detto che deve accogliere in tutto e per tutto le forze del mercato come propria guida ed essere infinitamente adattabile alle loro esigenze. L’esito è la necessità, per una massa crescente di persone – potenzialmente tutti coloro che non appartengono a quell’élite che, ancorata alla propria ricchezza, vive come al di sopra della società – di condurre la propria esistenza in una condizione che può essere soltanto di alienazione, anomia, ansia e rabbia. Il segnale di maggiore pericolo è il disimpegno politico.1

 G. Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, il Mulino, Bologna 2012, 46-47.

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Il rischio è che si creino nuovi esclusi dalla convivenza sociale, anche perché i precari, spinti a essere pure in lotta tra loro, tendono a non riconoscere nella struttura economica la causa delle loro sofferenze e rischiano di essere sotto l’influenza dei populisti e dei neofascisti. «Sono queste le ragioni per cui il precariato è “la classe esplosiva” ed è per questo che occorre “una politica per il paradiso” capace di rispondere alle sue paure, insicurezze e aspirazioni».2 Per il nostro percorso è utile fermarsi sulle caratteristiche antropologiche: acredine, anomia, ansia e alienazione. Acredine: «L’acredine o rabbia nasce dalla frustrazione che si prova quando sembra di ritrovarsi sempre davanti a porte chiuse nel tentativo di costruire una vita degna di questo nome e a una sensazione di deprivazione relativa».3 Manca la possibilità di investire sul futuro, su relazioni stabili, sulla fiducia. Anomia: «A partire dagli studi di Émile Durkheim, si è compreso che l’anomia è un sentimento di passività nato dalla disperazione».4 Ciò cresce anche perché spesso si è bollati come fannulloni. Ansia: «I precari vivono nell’ansia, uno stato di insicurezza cronica dovuta non solo al sentirsi come sospesi a un filo, consapevoli che il più piccolo errore o un malaugurato accidente può fare la differenza tra un tenore di vita accettabile e una vita sul marciapiedi».5 Si ha paura di perdere anche quel poco che si ha. Alienazione: «L’alienazione deriva dalla consapevolezza che il criterio delle proprie azioni non risiede nel vantaggio personale o in un valore in cui si crede o che si ritiene importante, ma semplicemente nell’utilità altrui».6 Si vive sempre in funzione della vita degli altri. Alcune conseguenze.7 I precari mancano di apprezzamento e rispetto per se stessi. Stimano inutile il loro lavoro. Sperimentano poche relazioni basate sulla fiducia. Perdono ogni senso comune di cooperazione o di moralità, distruggendo predisposizioni umane che la psicologia sociale considera fondamentali. Non si crea solidarietà, perché mancano stabilità e prevedibilità. Non vedono fiorire la sicurezza sociale. Finiscono per non saldarsi in una classe-per-sé. Perdono ogni tipo di memoria sociale.

1.2. Disoccupazione Per parlare di disoccupazione occorre valutare la disoccupazione in termini di bene comune. Innanzitutto, «la disoccupazione va conside-

  Ivi, 47-48.   Ivi, 40. 4   Ivi, 41. 5   Ib. 6   Ib. 7  Cf. ivi, 41-45. 2 3

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rata un male grave, peggiore del debito pubblico […]. Avere un lavoro va considerato un diritto primario della persona».8 I costi derivanti dalla disoccupazione nascono dai sostegni al reddito che si garantiscono ai disoccupati e dal PIL non prodotto a causa della disoccupazione stessa. Questa seconda parte è maggiore della prima; nella UE si perdono circa 800 miliardi di euro.9 Inoltre, vanno aggiunti i costi derivanti dal crollo di capacità professionali a causa della disoccupazione soprattutto di lungo periodo: si perde produttività e si deve far fronte ai costi per i corsi di formazione per recuperarla. Vi sono poi i costi sociali derivanti da povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, legami familiari più a rischio, tensioni sociali potenzialmente esplosive, minori possibilità di cura della salute. La disoccupazione moltiplica gli effetti perversi della distribuzione del reddito. Sui costi sulla persona della propria disoccupazione un costituzionalista americano ha scritto: Se un lavoro stabile, adeguatamente pagato, è una fonte d’indipendenza, la sua assenza significa dipendere da altri; se è un percorso verso la realizzazione personale, la sua assenza significa fallimento; se offre possibilità di salire per la scala socioeconomica, la sua assenza vuol dire che la propria posizione sociale è bloccata o in declino; se provvede alla sicurezza della famiglia, la sua assenza comporta insicurezza; se sollecita la stima di altri, la sua assenza significa vergogna.10

Le politiche economiche possono essere giudicate intelligenti e giuste solo se promuovono il diritto al lavoro che è sancito dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (ONU, 1948).11 Un problema enorme, quando si parla di disoccupazione, è guardare come viene trattato l’obiettivo di piena occupazione. William Beveridge, l’inventore dello Stato sociale britannico, proponeva questa definizione: Piena occupazione […] significa che ci sono sempre più posti di lavoro vacanti che individui disoccupati […]. Significa che i posti di lavoro offrono salari decenti, sono di un genere tale e situati in luoghi tali per cui ci si può ragionevolmente attendere che individui disoccupati li accettino; significa, di conseguenza, che lo scarto di tempo normale tra perdere un posto e trovarne un altro sarà molto breve.12

8  L. Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013, 277. 9  Cf. ib. 10  K.L. Karst, «The Coming Crisis of Work in Constitutional Perspective», in Cornell Law Review (1997)82, 523-571. 11   In tale Dichiarazione si legge (articolo 23, comma 1): «Ciascuno ha diritto al lavoro, alla libera scelta di un’occupazione, a giuste e favorevoli condizioni di lavoro e alla protezione dalla disoccupazione». Nel comma 2 si parla di paga uguale per uguale lavoro e nel comma 3 del diritto a una giusta e favorevole paga tale da assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza consona alla dignità umana. 12  W. Beveridge, Full Employment in a Free Society, Allen & Unwin, London 1944, 18.

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Ma i neoliberisti sostengono che esiste un tasso naturale di disoccupazione, tale da non accelerare l’inflazione, da cui l’acronimo NAIRU (Not accelerating inflation rate of unemployment). Il NAIRU varia di qualche punto da un periodo all’altro, a causa di diversi fattori; nel corso degli anni Novanta è stato stimato in circa il 6 per cento nei Paesi avanzati. Per la UE esso equivarrebbe oggi a 15 milioni di disoccupati in luogo dei 25 effettivamente registrati. In altre parole, se la UE puntasse a conseguire il NAIRU, seguirebbe paradossalmente una politica progressista. In realtà «l’ipotesi del tasso naturale di disoccupazione è sempre servita a sostenere la causa dei conservatori»: così si esprimeva J.K. Galbraith.13

Per non danneggiare l’economia, quindi, occorre tenere la disoccupazione sopra un certo livello: così si finisce per dare ragione alla lettura del capitalismo come meccanismo per produrre un esercito industriale di riserva, la cui funzione principale consiste nel comprimere i salari dei lavoratori in attività. Il pieno impiego è escluso praticamente dalle teorie dominanti in politica ed economia. Si deve rivoluzionare il modello politico. Sebbene il raggiungimento della piena occupazione sia essenzialmente una questione economica, il suo mantenimento diventa una questione politica. La piena occupazione è in conflitto con gli interessi dei capitalisti come classe. Ne risulta che essi eserciteranno una forte pressione sui governi, in modo da rendere il mantenimento della piena occupazione estremamente problematico. La preoccupazione principale dei capitalisti è che la piena occupazione diminuisca il loro potere, nella lotta di classe con i lavoratori. Senza mutamenti nelle istituzioni fondamentali del capitalismo, il mantenimento della piena occupazione rimane uno scopo irraggiungibile nelle società capitalistiche.14

1.3. Diseguaglianza La domanda di fondo non è se esista e di quali dimensioni sia la diseguaglianza, ma se essa sia desiderabile per il futuro dell’umanità. L’opzione disegualitaria (o, più apertamente, anti-egualitaria) è stata – e in buona parte continua ad essere, anche se più mascherata – parte integrante della dogmatica neoclassica che ha offerto il proprio hardware teorico all’ideologia neoliberista fin dall’origine della sua lotta per l’egemonia, alla fine degli anni Settanta e per tutto il corso degli anni Ottanta del secolo scorso.15

L’eguaglianza, quindi, non è più una virtù e così si è infranto il patto sociale che aveva caratterizzato gli Stati occidentali dopo la seconda guerra mondiale. Due i punti di partenza:

  Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, 285.   P. Kriesler – J. Halevi, Political Aspects of Buffer Stock Employment (Working Paper 2), Centre for Applied Economic Research, University of New South Wales, Sydney 2001, 12. 15  M. Revelli, La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi. Vero!, Laterza, Roma-Bari 2014, 3. Non riporterò cifre e dati sulla diseguaglianza, per altro ampiamente reperibili. 13 14

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Una vita degna mediante il lavoro (Laudato si’ 128) Da un lato la stagflazione – l’intreccio paralizzante di un elevato processo di inflazione e di un’altrettanto grave stagnazione – si presentava come un male economico refrattario alle tradizionali politiche anticicliche e offriva l’immagine di un punto di arresto o comunque di un tetto raggiunto dallo sviluppo difficilmente superabile con i mezzi tradizionali. Dall’altro la cosiddetta «crisi fiscale dello Stato» – caratterizzata da un emergente debito pubblico pur in presenza di una pressione fiscale ai propri massimi – limitava i margini di intervento.16

La globalizzazione faceva pensare che nuovi mercati sarebbero stati sufficienti per espandere la produzione. Così è emerso un nuovo paradigma socio-economico orientato alla rottura di tutti i compromessi sociali […] e basato su una rinnovata centralità del mercato e sulla prospettiva di uno sviluppo trainato prioritariamente dall’offerta (supply-side) – in contrapposizione alle teorie keynesiane che si focalizzano sulla domanda aggregata (demand-side) – nonché sull’effetto-incentivo di una minore tassazione per la formazione di capitali disponibili all’investimento.17

In questo paradigma alcune questioni relative all’eguaglianza, come la piena occupazione e la lotta alla povertà, sono messe totalmente in secondo piano: «Un paradigma, appunto, nel quale l’ineguaglianza cessava di essere considerata un vizio per trasformarsi, entro certi limiti, in risorsa».18

2. Cosa

ci ha portato a tutto questo

2.1. Il

neoliberismo : la nuova ragione del mondo costruita sulla concorrenza

Il punto cruciale è capire quale forza (non solo economica, ma soprattutto politica) tenda a dare una completa forma al mondo. Dardot e Laval la individuano nel neoliberismo: Con il neoliberismo ciò che è in gioco non è né più né meno che la nostra esistenza, cioè il modo in cui saremo portati a comportarci. A relazionarci con gli altri e con noi stessi. Il neoliberismo definisce una precisa forma di vita nelle società occidentali e in tutte quelle che hanno intrapreso il cammino della presunta modernità. Una ragione che, lungi dal limitarsi alla sfera economica, tende a totalizzare, cioè a fare mondo, con un proprio specifico potere di inte-

  Ivi, 5-6.   Ivi, 7. 18   Ib. 16 17

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Matteo Prodi grazione di tutte le dimensioni dell’esistenza umana. La ragione del mondo è anche contemporaneamente la ragione-mondo.19

Il neoliberismo è non solo ideologia ma razionalità che struttura tanto governanti che governati. «La razionalità neoliberista ha per principale caratteristica quella della generalizzazione della concorrenza come norma di comportamento e dell’impresa come modello di soggettivazione».20 E a partire dalla concorrenza ogni cosa viene plasmata e regolamentata. L’originalità del neoliberismo è creare un insieme nuovo di regole che, oltre a definire un altro «regime di accumulazione», definisce in modo più generale un’altra società. Nella concezione marxista, il capitalismo è anzitutto un modo di produzione economico, in quanto tale indipendente dal diritto e che produce l’ordine giuridico-politico di cui necessita in ogni momento del suo autosviluppo. Ora, lungi dal derivare da una «sovrastruttura» condannata a esprimere o a ostacolare l’economico, il giuridico è fin da subito parte dei rapporti di produzione nel dare forma all’economico dall’interno. […] La forma del capitalismo e i meccanismi della crisi sono l’effetto contingente di alcune regole giuridiche e non la conseguenza necessaria delle leggi dell’accumulazione capitalistica.21

L’esito è che non possiamo solo parlare di economia, di politica neoliberista: emerge, invece, una società strutturalmente basata sulla ragione-mondo del neoliberismo. E solo una svolta nella complessiva governamentalità può far uscire il mondo, soprattutto occidentale, da tali sabbie mobili. Neoliberismo come nuova forma del mondo, il libero mercato come ideologia, l’homo oeconomicus come antropologia di base: ecco il nostro oggi.

2.2. La dinamica perversa tra economia e politica

Nel suo ultimo libro Luciano Gallino presenta un paragrafo dal titolo: «Se la politica la fa il capitale, come si può fare politica per opporsi al capitale?». Viene mostrato come il capitale sia giunto a sovvertire quasi totalmente il processo democratico. «Nella UE, in sostanza, la politica la fa il capitale, cioè i suoi delegati, che includono la maggioranza dei politici (se ne rendano conto o no)».22 Il libro prosegue mettendo in evidenza dei fatti concreti.

19   P. Dardot – C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013, 9. 20   Ivi, 10. 21   Ivi, 16-17. 22  L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nipoti, Einaudi, Torino 2015, 185.

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1. Lo strapotere delle banche e dei gruppi finanziari che possono contare su attivi pari a uno o due trilioni di euro ciascuno. Vi sono poi gruppi non finanziari che, pur non avendo a disposizione tali ricchezze, detengono quote di profitto, fatturati e liquidità per centinaia di miliardi. Tutto questo mostra il potere delle corporations, accanto al fatto che la quota del Pil che va nelle loro tasche è sempre maggiore, mentre cala quella dei salariati. 2. Il sempre maggior protagonismo politico di BCE e FMI è sotto gli occhi di tutti. Ricordiamo che la BCE è governata da un consiglio formato dai presidenti o amministratori delegati delle maggiori banche europee. 3. Esercitano legalmente la pressione sulla Commissione europea circa 20.000 lobbisti. Tre quarti circa rappresentano interessi delle banche. 4. Molti documenti di riforma delle varie componenti dell’economia hanno avuto il contributo di alti dirigenti della finanza e dell’industria. 5. Chi controlla i mass media? Chi ha i soldi per possederli e chi li ha per pagare le pubblicità. Peccato che l’opinione pubblica si formi al 90% in base alla TV e alla stampa. 6. Chi paga le campagne elettorali? Molti chiedono trasparenza; di fatto, chi viene eletto risponde a chi lo ha sponsorizzato. 7. Vi è anche un modo molto sottile per gestire l’informazione scientifica. Molte fondazioni che producono report su questioni delicatissime (vedi i cambiamenti climatici) sono sostenute dalle corporations. Si può fare qualcosa per invertire tale situazione? Data la sproporzione delle forze in campo si direbbe di no. E va ricordato che «in realtà sono stati i politici a battersi affinché la finanza si sviluppasse oltre ogni limite. Sono stati loro a fare dello Stato un deferente servitore del capitale finanziario, svuotando in tal modo di sostanza il processo democratico».23 La guerra per risultare vincenti nella globalizzazione sembrava da combattere soprattutto nel settore finanziario e si è cercato di consentire ai suoi operatori di compiere ogni azione potesse aumentare il loro potere. Secondo i politici, tutto ciò avrebbe giovato al bene comune. Ma è assolutamente certo, invece, che tutto questo ci ha portato alla crisi del 2008. E non è stata una liberalizzazione o deregolamentazione; anzi. Si è trattato, invece, di un gigantesco sistema di nuove regole, oltre a capillari modifiche delle leggi esistenti, elaborato dai governi non soltanto per permettere alle banche di fare legalmente quello che volevano, ma anche per impedire alle autorità di sorveglianza di eccepire alcunché nel colossale volume di denaro fittizio messo in circolazione dalle grandi banche mediante la cartolarizzazione e le relative «vere vendite» a società create e operanti al loro stesso interno. In tal modo la politica ha dato consapevolmente un formidabile contributo a rendere il sistema finanziario troppo grande, complesso e opaco per poterlo efficacemente regolare, sottraendolo così a ogni possibile forma di controllo democratico.24

  Ivi, 188.   Ivi, 190.

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Matteo Prodi

Si è creata così la finanziarizzazione dell’economia.25 La politica, con il contributo determinante anche dei partiti cosiddetti di sinistra, ha generato questa crisi, crisi certamente del capitalismo ma che avrebbe potuto essere radicalmente diversa e meno rovinosa per le persone meno ricche. I pochi oppositori sono senza una vera e propria organizzazione. «Un’efficace forma di organizzazione dei movimenti di opposizione in campo politico potrebbe svolgerla solamente il fatidico “nuovo soggetto” di cui a sinistra si attende l’arrivo da generazioni».26

2.3. L’attuale economia produce solo ulteriori diseguaglianze

La figlia dell’unione tra uomo economico e il dogma del mercato regolatore si chiama diseguaglianza: infatti i mercati, essendo efficienti e capaci di autoregolarsi ed evolvere verso il benessere di tutti, vanno lasciati lavorare, senza interferenze. Nei mercati, le decisioni si prendono per massimizzare l’utilità dell’individuo. Ma, in realtà, solo chi detiene il potere decide.27 Quindi le traiettorie economiche sono, con la benedizione di tutti, scelte dai soliti pochi; solo i loro interessi vengono tutelati. Il libro di Piketty28 ha dato una conferma scientifica a queste eviden29 ze: il principale fattore destabilizzante è il tasso di rendimento del capitale ormai strutturalmente più alto del tasso di crescita del reddito e del prodotto. Ne consegue che l’imprenditore tende inevitabilmente a trasformarsi in rentier (cioè uno che vive di rendita), e a prevaricare sempre di più chi non possiede nient’altro che il proprio lavoro. Una volta costituito, il capitale si riproduce da solo e cresce molto più in fretta di quanto cresca il prodotto. Il passato divora il futuro.30

Chi ha oggi avrà sempre più in futuro; chi ha meno avrà sempre meno via via che scorrono gli anni. Anzi; visto che il rendimento del capitale cresce in funzione del crescere dello stock investito, tale meccanismo si rafforzerà sempre di più. Esiste una via di uscita: la ricchezza deve essere usata per creare lavoro, felicità pubblica, bene comune e processi di eguaglianza, altrimenti rischia di essere iniqua. La soluzione è una tassa progressiva sul capitale privato. E occorre ricordarsi che «sarebbe illu-

 Cf. ivi, 35.   Ivi, 192. 27   Bisogna essere più radicali: non solo decide ma impone agli altri come decidere. Un certo superamento dell’economia comportamentale ci mostra come i consumatori siano costretti in molti modi a seguire comportamenti scelti da altri. Cf. G.A. Akerlof – R.J. Shiller, Ci prendono per fessi. L’economia della manipolazione e dell’inganno, Mondadori, Milano 2016; gli autori sono premi Nobel per l’economia. 28  T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014. 29  Cf. M. Prodi, «Che fare della ricchezza?», in Il Margine 34(2014)9, 20-23. 30   Piketty, Il capitale nel XXI secolo, 920. 25 26

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sorio pensare che esistano, nella struttura della crescita moderna o nelle leggi dell’economia di mercato, forze di convergenza capaci di portare naturalmente a una riduzione delle disuguaglianze patrimoniali o a una stabilizzazione in qualche misura armonica».31 Vi è, quindi, il solito problema di un’economia che tende a perseguire i suoi interessi (cioè dei più ricchi) lasciandosi completamente alle spalle la politica così come, ad esempio, la disegna la nostra Costituzione.32 Il neoliberismo è davvero l’unica forza al potere da molti decenni.

2.4. Il potere e i poteri. La democrazia. A chi appartiene il potere In Occidente abbiamo scelto la democrazia come il mezzo per il bene comune, l’unico fine possibile di ogni forma di convivenza. Lo storico Mark Mazower ammonisce: «Oggi la democrazia sta bene agli europei in parte perché è associata al trionfo del capitalismo e in parte perché comporta meno intrusione nelle loro vite di ogni altra alternativa. Gli europei accettano la democrazia perché non credono più nella politica».33 Il popolo e il suo ruolo sono il centro della democrazia. Nelle rivoluzioni francese e americana il popolo ha messo in campo una vera forza dirompente per modificare (in meglio?) gli equilibri di potere consolidati. Oggi è il voto che dovrebbe essere rivoluzionario. «Grazie al voto periodico, il potere di oggi non sarà il potere di domani, perché il popolo di oggi non è necessariamente il popolo di domani […]. La democrazia è quella società in cui il potere non è incorporato nel sociale».34 Significa che l’espressione della nostra Costituzione «la sovranità appartiene al popolo» determina il fatto che il potere non appartiene a nessuno. «Il potere è un luogo vuoto […]. Quel che esiste è invece l’esercizio del potere».35 La democrazia è appunto lo strumento che consente di passare dalla massa informe, multipla, conflittuale al popolo uno e infine all’esercizio del potere che non può mai essere il potere di cui qualcuno si appropria. Il popolo in Italia può davvero prendere in mano la propria vita e determinare il suo cammino verso la felicità pubblica? Non del tutto; la nostra adesione al cammino della UE ci ha chiesto di cedere parte della nostra sovranità all’Europa.

  Ivi, 580.  Cf. M. Prodi, Una bussola per l’uomo di oggi. La Costituzione italiana alla luce della crisi, Cittadella, Assisi 2015. 33   M. Mazower, Dark Continent, Europe’s Twentieth Century, The Penguin Press, London 1997, 397. 34   P. Rosanvallon – C. Lefort, «Sulla Democrazia», in MicroMega (2012)3, 177-195, qui 186-187. 35   Ivi, 187. 31 32

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Matteo Prodi Nel vecchio continente la crisi finanziaria di matrice Usa incrocia le promesse mancate e le ambiguità dell’europeismo, secerne un clima avverso al progresso della liberaldemocrazia, accentua le fratture geopolitiche nello spazio comunitario. Facciamo i conti con la radice a-democratica della costruzione europea. […] La delegittimazione europeista dello Stato nazionale non ha finora prodotto un nuovo modello di democrazia – fosse pure a-statuale – mentre ne ha minato quello vigente. La crisi dei debiti sovrani è crisi della sovranità, solo poi del debito […]. In teoria quasi tutti cittadini di Stati democratici, di fatto noi europei lo siamo assai meno.36

L’ingerenza nella vita interna di varie democrazie è enorme: basti pensare ai governi tecnici più o meno imposti dalla troika; le agende di molti governi, soprattutto su temi economici, è dettata dall’esterno; gli egoismi delle nazioni più sviluppate determinano sofferenze in tanti altri Paesi. È chiaro che non possiamo non tenere conto della dimensione globale che tanti problemi oggi stanno evidenziando: oltre alla crisi economica, c’è la crisi ambientale, il tema dell’immigrazione e dei profughi… Per tutte tali questioni rinchiudersi all’interno dei propri confini nazionali è senza senso, oltre a essere improduttivo. Ma il popolo deve essere al centro, sempre, anche con i necessari conflitti; non è un desiderio di un ritorno a lotte di classe: è una necessità della democrazia che va considerata un ambiente conflittuale, che dobbiamo anche saper contestare. I movimenti, le associazioni che si battono contro la diseguaglianza sono assolutamente essenziali. Ma per quanto possiamo criticarlo, non possiamo distaccarci da questo regime, considerarlo come un regime tra i tanti possibili. Se non continueremo a cercare di trasformarla dall’interno, mediante il potere della mobilitazione spontanea, la democrazia è condannata a deperire.37

2.5. In

economia un ’ antropologia dominante : l ’ homo oeconomicus

Uno dei pilastri della costruzione antidemocratica del potere è l’antropologia dell’uomo economico. Tale concetto ha sviluppato, autonomamente, smisurate ambizioni e ha finito per essere una dottrina certa e meritevole d’insegnamento, «pur non essendo stata mai svolta in maniera esplicita e soddisfacente come filosofia, né mai comprovata come teoria».38 In ogni caso, sia per mezzo di studiosi di professione (economisti, matematici, politologi, sociologi…) sia per mezzo di chi da loro è stato influenzato (giornalisti, politici…) «l’homo oeconomicus è divenuto negli anni una specie di religione con sommi pontefici (ai vertici delle istitu-

  «La democrazia dopo la democrazia», editoriale di Limes (2012)2, 13-14.   Rosanvallon – Lefort, «Sulla Democrazia», 177-195, qui 193. 38  S. Caruso, Homo oeconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, Firenze University Press, Firenze 2012, 10. 36

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zioni), grandi sacerdoti (nelle università) e miriadi di devotissimi zelatori (dai top manager all’ultimo dei City wolves: i lupi della City, si noti l’espressione vagamente hobbessiana)»;39 al centro di questo dogma c’è l’assoluta centralità dell’individuo razionale, egoistico e perfettamente informato.40 Quali sono i punti deboli di questa rappresentazione antropologica? L’uomo non è abbastanza egoista e neppure abbastanza razionale per essere definito sic et simpliciter come un «egoista razionale». Intesa alla lettera e senza precisazioni, questa formula risulta inapplicabile sotto qualunque latitudine e qualunque sia la sfera di attività, economia compresa. Psicoanalisi, psicologia cognitiva, neuroscienze, economia sperimentale e finanza comportamentale sono in ciò, per una volta, del tutto d’accordo.41

Basta organizzare alcuni giochi di economia comportamentale per capire che l’homo oeconomicus può essere utile, come semplificazione nei modelli, per illustrare qualche teoria, ma non è assolutamente in grado di descrivere l’uomo reale e le sue possibilità e capacità di scelta. Eppure si continua a insegnare, soprattutto oltre oceano, la mainstream economy, quella appunto che si basa su questa antropologia. E lo si fa nonostante tanti studi, compresi quelli del Nobel Amartya Sen, secondo cui «la razionalità puramente egoistica dell’homo oeconomicus è in realtà la razionalità del folle: ben poco valida sul piano descrittivo, addirittura deleteria sul piano normativo».42 Anche la crisi ambientale ha le sue radici in questa perversa antropologia: l’ambiente è trattato come fonte di profitto per pochi. Non abbiamo saputo rispondere alla sfida ambientale perché «siamo prigionieri, in senso politico, fisico e culturale; solo dopo aver individuato queste catene potremo avere una possibilità di liberarci».43

3. Abbiamo delle alternative? Occorre una rivoluzione Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al

  Ivi, 4.  Cf. M. Prodi, «Il superamento dell’homo oeconomicus», in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 19(2015)38, 509-535. 41   Caruso, Homo oeconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, 1. 42   Ivi, 2. Per il pensiero di Sen, cf. A.K. Sen, «Rational Fools. A Critique of the Behavioural Foundations of Economic Theory», in Philosophy and Public Affairs 6(1977), 317-332. 43  N. Klein, Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, Milano 2015, 93-94. 39 40

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Matteo Prodi tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane.44

È singolare che anche il papa usi la parola «rivoluzione», seppur accostata all’aggettivo «culturale». L’Occidente ha creato le sue fortune proprio sulla possibilità di pensare prima e realizzare poi nuove visioni del mondo. E, forse, le crisi dentro le quali ci stiamo dibattendo sono anche il frutto dell’incapacità di concepire un’idea radicalmente nuova e, appunto, rivoluzionaria, dell’umanità. Non una timida riforma è necessaria oggi, ma una vera e propria rivoluzione.45 Ciò deve partire dalla speranza di poter cambiare il mondo di oggi.46

3.1. Un ritorno a Marx L’opera di Karl Marx aiuta a valutare le attuali forme di distorsione economica che il capitalismo produce oggi. La vita di fabbrica viene interpretata come il male che si presenta sulla terra. Nella ricostruzione marxiana, il sistema fabbrica costituisce il punto in cui affiora più nitidamente la contraddittorietà dell’epoca moderna, essendo la fabbrica il luogo in cui viene prodotta – con l’asservimento del lavoratore – la merce, ossia la cellula originaria di tutte le altre contraddizioni.47

Su questa frattura sociale, Marx fa emergere le due componenti essenziali del suo pensiero: l’istanza critica e la filosofia della storia. Il lavoratore perde la sua libertà attraverso la stipula del contratto. L’esito del­ l’economia del capitale è che l’estorsione di pluslavoro implica che il lavoratore perda i tratti dell’uomo per assumere quelli anonimi della merce, il cui acquisto viene continuamente rinnovato ma la cui reale proprietà non cessa mai di essere nelle mani dei capitalisti. Nella prospettiva marxiana, il grande paradosso sotteso al modo di produzione capitalistico è che, in esso, gli uomini vengono intesi come merci.48

È il denaro a costituire il potere nella visione marxiana e con il denaro il potere sociale è trasferito direttamente nelle tasche degli individui che lo posseggono, certamente non gli operai; questi ultimi, proprio perché non posseggono denaro, vendono se stessi. Non possiamo non vedere come la situazione oggi sia la stessa; in più, alcune forme di tutela costrin-

  Francesco, lettera enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune (24.5.2015), n. 114, in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_ 20150524_enciclica-laudato-si.html 45   Cf. P. Prodi, Il tramonto della rivoluzione, il Mulino, Bologna 2015. 46   Cf. a questo proposito D. Fusaro, Il futuro è nostro. Filosofia dell’azione, Bompiani, Milano 2014. 47   Id., Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario, Bompiani, Milano 2009, 196. 48   Ivi, 199. 44

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gono ad accettare mansioni umilianti, non esiste un’adeguata rappresentanza per chi è solo merce e il capitalista non è più una persona concreta, ma un anonimo mercato finanziario globalizzato.

3.2. Gramsci e il

capitalismo americano

La riflessione di Gramsci critica il capitalismo americano o americanismo, considerato una rivoluzione passiva. Il capitalismo americano si contraddistingue non soltanto per il produttivismo febbrile e per la saturazione del reale e del simbolico con la forma merce. Accanto a questi fenomeni (e sinergica rispetto ad essi) vi è anche la fordistica e tayloristica «razionalizzazione coercitiva dell’esistenza» (Q, XIX, 13, 2133) e del lavoro degli operai, resa possibile grazie alla sempre maggiore deprofessionalizzazione del lavoro operaio e al suo adeguamento al funzionamento meccanico e automatico della macchina; adeguamento che ha favorito l’affermarsi di una nuova figura – l’operaio-massa – e l’eclisse dell’operaio-artigiano, creativo e specializzato, dotato di una solida coscienza delle proprie prestazioni.49

Gli operai, tramite questa rivoluzione passiva, sono sottomessi, tramite il sistema economico, sia politicamente che culturalmente. L’esito antropologico è la sempre più crescente sottomissione delle masse. «In America c’è l’elaborazione forzata di un nuovo tipo umano» (Q, I, 61, 72), passivo, incapace di autocoscienza, portato ad agire in modo irriflesso secondo gli ordini e a subire passivamente l’altrui dominio. Viene, così, a determinarsi, anche sotto questo profilo, il dominio del fatalismo e del meccanicismo, grazie alla creazione – artatamente gestita dalle politiche egemoniche – di un nuovo tipo di umano, il «gorilla ammaestrato».50

Gramsci presenta lo Stato come lo strumento per adeguare la società civile alla struttura economica, ma occorre che a guidare lo Stato siano i rappresentanti del mutamento avvenuto nella struttura economica. La rivoluzione diventa possibile se davvero le persone sono educate al futuro. Occorre un lento e paziente lavoro di riforma intellettuale e morale orientato a produrre «un nuovo tipo di uomo e di cittadino» (Q, VIII, 130, 1020), un nuovo soggetto attivo e non indifferente, animato dalla passione creatrice e libero dalla malìa del fatalismo: un soggetto sociale – un «uomo collettivo» (Q, X, II, 44, 1331) – che non può essere presupposto, ma che deve essere istituito dall’azione politica e dall’organizzazione culturale.51

49  D. Fusaro, Antonio Gramsci. La passione di esserci nel mondo, Feltrinelli, Milano 2015, 107. 50   Ib. 51   Ivi, 132.

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L’uomo che attendiamo è, quindi, un uomo rivoluzionario, antiadattivo, intollerante alla conservazione dell’esistente, appassionatamente crea­tivo, educato dal e al lavoro intellettuale e morale.

3.3. Lonergan, non solo teologo Il grande pensatore Lonergan ha lasciato scritti assolutamente innovativi nel panorama dell’economia. Nell’analisi dinamica macroeconomica di Lonergan, allora, il cuore del­la struttura teoretica normativa che può effettivamente spiegare i cicli commerciali o degli affari è quello che egli chiama «ciclo puro». Questo ciclo generalizza, in relazioni chiaramente articolate, le fasi ideali caratteristiche delle grandi trasformazioni economiche, che iniziano da una fase stazionaria e procedono attraverso una fase di espansione di surplus, seguita da una fase di espansione di base, per tornare poi a una nuova fase stazionaria. Questo ciclo puro sta alla nostra comprensione ordinaria delle espansioni economiche e delle recessioni, come la concezione esplicativa dell’accelerazione sta alla nostra comprensione ordinaria di andare più forte o di andare più piano. Esso proietta la «nuova luce sull’equilibrio» che Schumpeter stava cercando.52

Alcune conseguenze della sua teoria. 1. Il profitto deve diventare un dividendo sociale. 2. Perché ciò avvenga occorre una comprensione corretta e una scelta morale. 3. Il problema più grande non è l’avidità ma l’ignoranza. 4. «Un’economia sana e vitale richiede che una quantità adeguata di persone sia impegnata nell’autenticità umana di esseri attenti, intelligenti, ragionevoli e responsabili».53 5. «Per superare democraticamente i problemi politici ed economici è necessaria una guarigione soprannaturale degli esseri umani. In definitiva ciò che è in gioco è la gratuita liberazione dell’umana libertà da parte di Dio».54 6. Occorre prevedere uno sforzo educativo ampio e di lungo periodo. «Il controllo razionale dell’economia può essere democratico solo nella misura in cui la scienza economica riesce a esprimere non consigli per i governanti ma precetti per l’umanità, non rimedi specifici e piani per accrescere il potere delle burocrazie, ma leggi universali che gli uomini stessi gestiscono nella condotta personale della loro vita».55

52   F.G. Lawrence – N.A. Spaccapelo – M. Tomasi, Il teologo e l’economia. L’orizzonte economico di B. Lonergan, Armando, Roma 2009, 126-127. 53   Ivi, 133. 54   Ivi, 134. 55  B. Lonergan, «Cognitional Structure», in F.E. Crowe – R.M. Doran (a cura di), Collected Works of Bernard Lonergan, 4: Collection, University of Toronto, Toronto 1988, 220-221.

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7. La storia si trasforma solo «con la nostra libera cooperazione nella forma della creatività umana».56 8. «Si deve radicalmente trasformare l’auto-interesse illuminato, da egoismo calcolatore presente anche nell’interesse personale rettamente inteso di Tocqueville, in amore di sé rettamente ordinato e aperto al dono dell’amore di Dio».57 9. «Non esiste una democrazia veramente funzionante […] senza che di pari passo si realizzino cammini educativi che portino all’autenticità e alla responsabilità».58 10. «La persona umana in società è fine di tutta l’attività economica, del sistema produttivo».59 La domanda che ci possiamo porre, al termine di questo decalogo, è se non si dovesse partire direttamente da questo decimo punto per costruire una nuova proposta per l’economia.

3.4. La Costituzione

italiana

Prima di parlare della nostra Costituzione, è bene ricordare alcuni momenti storici che hanno fatto entrare il tema del lavoro nel processo costituente.60 Il 9 novembre 1918 i Consigli operai e dei soldati instaurano la prima Repubblica tedesca: in essa rileviamo l’importanza del concreto sviluppo della contrattazione collettiva, dell’autodeterminazione sociale e dell’ordinamento repubblicano garantista e sociale al contempo. Tale esperienza sarà spazzata via dall’avvento del nazismo; ma rimane un interessante tentativo di sintesi tra la tradizione giuridica occidentale e lo sconvolgimento rivoluzionario dei bolscevichi, dove la concezione sostanziale del principio di eguaglianza si affiancava alla centralità del lavoro produttivo, e al parziale riconoscimento istituzionale di una democrazia consiliare […], non dimenticando che l’articolo 151 di questa Costituzione stabiliva che «l’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo. In questi limiti è da tutelare la libertà economica dei singoli».61

L’8 settembre 1920 viene promulgato da Gabriele D’Annunzio il «Disegno di un Nuovo Ordinamento dello Stato Libero di Fiume», la Carta del Carnaro, testo, in realtà, largamente scritto dal sindacalista rivoluzio-

  Lawrence – Spaccapelo – Tomasi, Il teologo e l’economia, 135.   Ivi, 135-136. 58   Ivi, 156. 59   Ivi, 169. 60   Due altre tappe sarebbero da sottolineare: la Seconda repubblica francese (1848) e la Comune di Parigi (1871). 61   G. Allegri – G. Bronzini, Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo sociale oltre la subordinazione, DeriveApprodi, Roma 2015, 28-29. 56 57

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nario e successivamente antifascista esiliato in Francia, Alceste De Ambris. A Fiume si tentò di superare i fallimenti dello Stato liberale e della rivoluzione sovietica, «proprio a partire da una nuova concezione dell’essere umano, con al centro il potenziamento delle sue relazioni sociali e del libero svolgimento delle proprie attività operose, rifiutando tanto l’economicismo capitalista, quanto il nascente statalismo socialista».62 Molto interessanti sono alcuni aspetti che troveranno posto, a volte solo parzialmente, anche nella Carta del 1948, «a partire dalla funzione sociale della proprietà privata, prevista all’articolo IX, che al suo terzo comma definisce il lavoro come “unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio”».63 Viene abbandonato l’individualismo possessivo per mettere in risalto la libera attività umana. Nel concreto è il primo, inedito, tentativo di «costituzionalizzare» una tutela universalistica di tutte le attività operose, manuali e intellettuali, che trovano cittadinanza nelle istituzioni pubbliche e nelle corporazioni, «qualunque sia la specie del lavoro fornito, di mano o d’ingegno, d’industria o d’arte, di ordinamento o di eseguimento» (art. 17).64

Emergono tutele che neppure nell’attuale Costituzione italiana sono così ampie: il salario minimo, il reddito di esistenza, anche per la condizione di disoccupazione. «È l’affermazione di una tutela universalistica della cittadinanza e di tutte le forme dei lavori, che rimane assai minoritaria, non solo nella storia delle nostre istituzioni politiche e sociali, ma anche nella filosofia politica e del diritto».65 Un tentativo davvero mirabile di superare la maledizione biblica e lo sfruttamento capitalistico che ha il suo apice nel prevedere una decima corporazione della fatica senza fatica, dove il lavoro è sempre al centro ma reso pura forza creatrice e liberato dai condizionamenti economici e religiosi. Un nuovo umanesimo, insomma, fatto di libertà, solidarietà, vita in comune e garanzie per tutti. Cosa dice sul lavoro la nostra Costituzione? «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (art. 1). Il lavoro oggi è condizionato dalla politica. Ma non così vuole la Costituzione. «Essa, se aderisce al suo algoritmo – dal lavoro, alla politica, all’economia –, dice, in verità, non che il lavoro è condizionato alla politica, ma che la politica è (deve essere) condizionata al lavoro. Se c’è qualcosa di “condizionato”, questo non è il lavoro, ma la politica».66 La Costituzione pone, quindi, alla base della nostra convivenza il lavoro, cardine di tutte le relazioni politiche, economiche e sociali.

  Ivi, 30.   Ivi, 31. 64   Ib. 65   Ivi, 31-32. 66  G. Zagrebelsky, Fondata sul lavoro. La solitudine dell’articolo 1, Einaudi, Torino 2013, 62 63

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Una vita degna mediante il lavoro (Laudato si’ 128) Si comprende che tutto sarebbe vano se il lavoro, il bene-lavoro, non fosse un diritto e fosse invece una semplice eventualità, oppure una concessione, un favore da parte di chi può disporne. Come si potrebbe fondare la Repubblica su un’eventualità, un favore e non su un diritto? Infatti, unico tra i diritti, il diritto al lavoro è esplicitamente enunciato tra i «principi fondamentali» della Costituzione.67

Esistono i cosiddetti «diritti perfetti», per i quali esiste la possibilità di ricorrere in tribunale per vederli riconosciuti; ad esempio il diritto di proprietà. Il diritto al lavoro è di un altro tipo; appartiene a quelli che potrebbero essere definiti diritti di giustizia, per i quali non si può ricorrere in tribunale, ma sono diritti che il cittadino deve esigere dalla politica. I partiti e tutta la politica devono tornare al cuore della nostra Costituzione.

4. Ripartire

dall ’ uomo

Per superare la crisi del lavoro esistono modelli antropologici molto interessanti: Rifkin oppone all’homo lupus della modernità l’homo empathicus che, solo, può vincere le sfide ecologiche ed economiche della globalizzazione. «La storia dell’uomo ci mostra che alla felicità non ci si approssima con il materialismo, ma con il coinvolgimento empatico».68 È un modo di rapportarsi agli altri diversissimo rispetto al massimizzare solo la propria utilità, accogliendo radicalmente la cura dell’altro nella propria vita. Troviamo anche l’homo reciprocus e l’homo reciprocans: infatti, l’egoi­ smo strutturale supposto dal mainstream economico è costantemente smentito da ricerche sociali, psicologiche e della teoria dei giochi. Questi studi fanno emergere tendenze prosociali come la cooperazione, l’altrui­ smo, l’equità e la reciprocità.69 Si discute se tutto questo provenga dalla nostra natura, dall’evoluzione o dalla cultura. Ma rimane un fatto evidente che l’uomo ha altre spinte nella sua vita che sono assolutamente altro rispetto all’egoismo. Una testimonianza: Gli esseri umani sono «reciprocatori forti», vale a dire, sono disposti a sacrificare risorse al fine di premiare condotte eque e punire quelle inique anche se non vi è alcuna ricompensa diretta o futura. Questa reciprocità forte è una forza altruistica primaria, ovvero non è spiegabile in termini di altre motivazioni; si contrappone perciò a forme più deboli di reciprocità, come il cooperare perché si è consanguinei o perché si adotta la strategia tit-for-tat nel dilemma del prigioniero («reciprocità diretta») o perché si ambisce a farsi una

  Ivi, 39.  J. Rifkin, La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del commons collaborativo e l’eclissi del capitalismo, Mondadori, Milano 2014, 427. 69  Cf. Caruso, Homo oeconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, 104-109. 67 68

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Matteo Prodi buona reputazione («reciprocità indiretta») o perché si vogliono esibire segni di potere o di ricchezza.70

Un’ulteriore proposta è l’homo civicus71 che si contrappone soprattutto all’homo emptor (cioè una possibile degenerazione dell’homo oeconomicus); il compratore compulsivo cerca sollievo dalle sue frustrazioni esistenziali comprando, consumando, eliminando da se stesso ogni elemento di pubblico nella propria vita. L’homo civicus è l’auspicio che l’uomo possa recuperare la bellezza di appartenere a varie comunità con la sua responsabilità e con il suo coinvolgimento per costruire nuovamente la società civile. Una ulteriore figura, l’homo curans, è di Max Scheler; ma più che a lui mi rifaccio a Martin Heidegger, che vede nella «cura» (Sorge) una caratteristica di fondo dell’umano essere-nel-mondo, tanto da definire la coscienza stessa come la chiamata alla cura. Questa, la cura, nasce col riconoscere un certo stato di cose come interno all’orizzonte del soggetto. Ciò coinvolge: una «situazione» che ineludibilmente mi riguarda, però anche il fatto di «comprendere» la situazione per quello che è, perché solo le due cose insieme sospingono il soggetto a farsi carico della situazione assumendone la responsabilità.72

Avere a cuore, prendersi cura può significare un peso, un ostacolo alla propria realizzazione. Ma una possibile riconciliazione con l’homo ludens ci può aiutare a capire il senso, la felicità e la pienezza (anche economica) di una vita che fa entrare l’altro e gli altri nella nostra vita per portarla alla sua fioritura. La nostra proposta è l’homo responsus: in Gen 2,20 l’uomo cerca un aiuto che gli corrisponda. Intendiamo, quindi, un uomo che parte dal suo limite (è solo maschio e gli manca metà dell’umano), dalla sua povertà e, cercando l’aiuto che lo porti alla pienezza, contemporaneamente reca in dono la propria pienezza anche all’altro. Nel mondo l’homo responsus cerca e trova il senso del suo esistere, proprio accogliendo l’altro come dono e come svelamento del proprio essere e, offrendosi parallelamente all’altro, gli presenta un simmetrico aiuto. È un’antropologia che valorizza il limite come apertura e pienezza; il limite non spinge all’egoismo come nell’homo oeconomicus, come se l’altro fosse sempre e solo un concorrente di beni scarsi, ma svela un percorso di liberazione dal limite stesso: il mondo offre la risposta alle angosce e alla finitudine dell’uomo; con lo spendere la sua responsabilità, l’uomo trova le risposte al senso della sua vita, delle sue crisi, della sua crescita. È responsus e non respondens

70  M. Marraffa, «Jervis sul naturalismo darwiniano, la psicologia dinamica e i giochi di ultimatum», in Psicoterapia e scienze umane 49(2010)3, 335-344, qui 340-341, citato da Caruso, Homo oeconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, 107. 71  F. Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari 2004. 72   Caruso, Homo oeconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, 129.

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perché innanzitutto l’uomo riceve la vita e solo dopo offre all’altro le sue risposte. L’altro diventa il fratello, se non addirittura lo sposo: questa è la vera rivoluzione; il dinamismo che si crea è, in qualche modo, l’anticipazione delle immagini finali dell’Apocalisse, dove la nuova e definitiva umanità è la città e la sposa. È l’accoglienza dell’altro come pienezza e come vita insieme; è il vero percorso che toglie le catene, che porta, quindi, al vero sviluppo, a rimuovere i lacci che impediscono la nostra libertà e il nostro fiorire. L’uomo può essere capace di corrispondenza e reciprocità anche nel mondo del lavoro. Esistono nelle persone dei valori morali e delle preferenze «pro-sociali», ovvero il piacere di rendere altre persone felici. Aggiungeremmo noi che tali preferenze sono del tutto ovvie se ci riconduciamo agli ultimi risultati in materia di antropologia, sull’essenza relazionale dell’essere umano.73

Da ciò è pure del tutto evidente che chi studia le aziende deve aprirsi al contributo anche delle scienze umane, considerando, ad esempio, come sottolineano i sociologi attenti all’influenza sull’individuo del gruppo sociale di riferimento, che la felicità del lavoratore dipende dalla qualità delle relazioni che vive sul posto di lavoro, e, come invece insegnano gli psicologi, che ciò che alimenta in modo decisivo la produttività del lavoro è la motivazione intrinseca del lavoratore, la quale è positivamente influenzata da due componenti fondamentali come la purposedness (coscienza che la propria attività ha un fine utile) e sense of achievement (percezione di un progressivo avvicinamento della meta che si vuole perseguire attraverso il proprio sforzo lavorativo).74

Se, quindi, l’uomo non solo è in relazione, ma è essenzialmente relazione e a partire dal proprio limite scopre la bellezza di donarsi all’altro, allora «attraverso la relazione e la cura dell’altro, scopre se stesso perché donandosi si “ri-ha” essendo la sua fioritura determinata fondamentalmente dall’arricchimento e dalla conoscenza di sé derivata dalla relazione con gli altri».75 Per una vera reciprocità occorre anche superare il tabù dell’assolutismo attribuito alla proprietà privata che genera fratture nelle relazioni tra le persone, impedendole di condividere. «Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una regola d’oro del comportamento sociale e il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale».76

73  L. Becchetti, Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni, Città Nuova, Roma 2009, 119. 74   Ivi, 128. 75   Ivi, 153. 76   Francesco, Laudato si’, n. 93, dove si cita Giovanni Paolo II, Laborem exercens, n. 19.

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L’ambiente può essere una carta vincente per ripensare il comune. Sono convinta che il cambiamento climatico rappresenti un’opportunità storica su scala ancora più ampia. […] Il cambiamento climatico può essere uno shock del popolo, un colpo assestato dal basso. Può diffondere il potere nelle mani di molti anziché consolidarlo in quelle di pochi, ed espandere radicalmente la sfera dei beni comuni anziché metterla all’asta pezzo dopo pezzo.77

Il punto di partenza, allora, è proprio considerare l’ambiente come il bene comune per eccellenza, il bene che deve essere per tutti e di tutti: possiamo vivere e svilupparci solo se custodiamo con infinita cura il pianeta terra che ci ospita. Ogni nostra azione, ogni nostra decisione di consumo, di produzione, deve partire dalla consapevolezza che le ricadute investiranno ogni uomo, noi compresi. Così devono diventare tutte le decisioni della politica: secondo Martha Nussbaum, studiosa di Aristotele, essa deve mettere a disposizione di tutti i cittadini le condizioni materiali istituzionali educative che permettano loro di realizzarsi compiutamente in quanto esseri umani e garantire loro una serie di capacità tali da metterli in grado di scegliere il loro ideale di vita buona e di realizzarsi pienamente. Chi adotta tale approccio utilizza le risorse disponibili per garantire a tutti i consociati il raggiungimento di una situazione nella quale è possibile scegliere la compiuta realizzazione dell’essere umano.78

5. Traiettorie

bibliche

5.1. Matteo 20 In questo testo gli operai mormorano col padrone per una sua presunta ingiustizia e il padrone è costretto ad affrontarli a muso duro. Eppure l’impresa ha raggiunto il suo scopo «esterno», cioè occuparsi della vigna, ma i dipendenti non sono felici. Va notata l’attenzione che il padrone rivolge agli operai, in particolare quelli chiamati alle cinque del pomeriggio: «Perché ve ne state tutto il giorno oziosi?». È possibile che si viva senza che nulla dia la prospettiva di senso e sicurezza. Rimanere disoccupati allora, non diversamente da oggi, significava non poter dare futuro alla propria vita. Ma anche l’aver ricevuto il salario non basta; chi ha lavorato fin dall’alba non gusta quanto ha ricevuto. Dal testo emerge anche un’altra parola, rivolta agli operai delle nove del mattino: «Quello che è giusto ve lo darò». Che cosa è giusto in economia? Il profitto, i salari, i prodotti, i processi produttivi, l’impatto sull’am-

  Klein, Una rivoluzione ci salverà, 21-22.   Cf. M.C. Nussbaum, Capacità personale e democrazia sociale, Diabasis, Reggio Emilia 2003. 77 78

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biente, i rapporti con lo Stato e la politica… Ma l’unica vera preoccupazione del padrone sono gli operai. Questa è la sua giustizia: fare in modo che ogni persona abbia ciò che è decisivo per la sua giornata. Ci lasciamo provocare da un ultimo tratto: il dialogo tra il proprietario e uno solo degli operai chiamati a lavorare; quest’ultimo si rivolge al datore di lavoro, parlando con astio dei suoi colleghi; pensa di costruire la propria felicità prescindendo da chi gli sta accanto. Non potrebbe, infatti, protestare se il padrone avesse dato a lui un denaro e gradualmente meno agli altri. Anche solo in questa pagina del vangelo troviamo due elementi decisivi: l’attenzione alla persona e la reciprocità nelle relazioni.

5.2. Atti:

i primi due sommari

Il capitolo 2 degli Atti degli apostoli si chiude con il primo sommario sulla vita della nascente comunità cristiana. È un testo che si ricollega direttamente al racconto di Pentecoste (2,1-41) e va compreso come conclusione del racconto della discesa dello Spirito e della predicazione di Pietro, che segue immediatamente.79 Luca propone, come modello vincolante per la comunità del suo tempo, questi versetti che narrano di una vita che discende dalla presenza e dall’opera dello Spirito inviato dal cielo. I discepoli vivono insieme e hanno tutto in comune. La nuova comunità, che esprime il suo legame col Signore nella preghiera e manifesta il suo vivere insieme con la vita comune e lo spezzare il pane, rivela il suo amore nel prendersi cura dei bisogni anche materiali dei suoi membri. La vita in comune si basa sulla certezza di ricevere insieme da Dio la salvezza. È un’idealità di vita che Luca desidera presentare al lettore: non è un modello da imitare, ma uno specchio con cui confrontarsi e con cui verificare lo stile della missione.80 Anche il capitolo 4 si conclude con un sommario sulla vita della comunità nascente. Questa pericope, rispetto alla precedente, mette in evidenza anzitutto le basi interiori costruite dallo Spirito per condurre quella particolare forma di vita comune e l’effetto immediato della sua unanimità nella sua concreta struttura sociale. Inoltre è più esplicito il collegamento a una promessa dell’AT inserita nelle prescrizioni per l’anno sabbatico: «Del resto, non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nel paese che il Signore tuo Dio ti darà in possesso ereditario (Dt 15,4)».81 Ecco il compimento che si attua nella Chiesa degli inizi.

 Cf. R. Pesch, Atti degli apostoli, Cittadella, Assisi 1992, 159.   Cf. D. Marguerat, Les actes des Apôtres (1-12), Labor et Fides, Genève 2007, 109-110; ed. it. Gli Atti degli Apostoli (1-12), EDB, Bologna 2011. 81   «Su questa affermazione s’è retta la descrizione a partire dal v. 32» (Pesch, Atti degli apostoli, 233). 79

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5.3. Seconda lettera

ai

Tessalonicesi 3,10

Un paragrafo della voce «Lavoro» nel Nuovo dizionario di teologia biblica è dedicato proprio a questo versetto della Seconda lettera ai Tessalonicesi e si conclude con questa affermazione, in qualche modo sorprendente: «Il lavoro è un modo di vivere il comandamento dell’amore del prossimo».82 Certamente per Paolo il lavoro non va visto in funzione di un progresso, di uno sviluppo da portare nell’umanità. In breve, non riguarda il futuro ma l’oggi del vivere del credente. Risonanze di questo tipo si riscontrano nel NT, ad esempio nella parabola di Lc 12 dove si racconta dell’uomo ricco che aveva avuto un raccolto abbondante. Il lavoro fa parte della vita dell’uomo e, siccome è con la vita che testimoniamo la nostra fede, il lavoro deve essere capace di raccontare qualcosa del tesoro che il Signore ci ha dato. In questa linea si possono leggere anche alcuni versetti della Prima lettera ai Tessalonicesi: 4,10-12 e 2,9. Non viene presentata una nuova etica del lavoro, ma la necessità che il cristiano viva come discepolo del Cristo anche nella sua condizione di lavoratore. La comunità cristiana deve «comportarsi con onore» di fronte ai non cristiani, non lasciando spazio a critiche di fannullaggine o di pigrizia. Il singolo cristiano, inoltre, non dovrebbe aver bisogno dell’aiuto dei non credenti, ma trovare sostegno all’interno della sua comunità. E, per quanto è possibile, deve vivere in una certa autonomia, frutto del suo lavoro e di una saggia sobrietà.83

In questa direzione è molto importante l’esempio di Paolo stesso: egli, pur avendo il diritto di farsi mantenere dalla comunità, vi ha rinunciato per non mettere ostacoli all’annuncio del vangelo; così dice anche in 1Cor 9,112. Paolo qui giustifica la sua decisione proprio a partire dal desiderio di non essere di peso agli altri fratelli, cosa che metterebbe anche in pericolo la predicazione libera del vangelo. Ogni credente, quindi, proprio per essere parte di una comunità deve sentire la spinta a offrire, anche nel lavoro, il proprio contributo, anche per soccorrere chi è in necessità (cf. Ef 4,28). Per Paolo, la comunità cristiana non ha il compito di edificarsi con il lavoro come società contrapposta a quella civile. Inoltre, per quanto ampio e importante possa essere il lavoro dei cristiani per l’ordine, la giustizia e il progresso della società civile, non è questa la missione specificamente cristiana della comunità dei discepoli di Gesù.84

Siamo, ci sembra, in linea con la necessità di obbedire alle autorità costituite. Inoltre, il lavoro, essendo un’attività prettamente umana, non può costituire il fondamento della sua vita: sarebbe costruirsi la salvezza con le proprie mani.

82   P. Rossano – G. Ravasi – A. Girlanda (a cura di), Nuovo dizionario di teologia biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, 786. 83   Ivi, 785. 84   Ivi, 785-786.

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Una vita degna mediante il lavoro (Laudato si’ 128) L’apostolo, invece, esorta a mettere a frutto il tempo presente, a non disprezzare il passato per vivere solo del futuro sognato. Il cristiano vive il presente come tempo di salvezza (2Cor 6,2). Gesù stesso ha detto: «Non angustiatevi per il domani, poiché il domani avrà già le sue inquietudini. Basta a ciascun giorno la sua pena» (Mt 6,34). […] Per l’apostolo mettere a profitto il tempo presente non significa costruire la «civiltà del lavoro», ma la «civiltà dell’amore».85

6. Il

magistero di papa

Francesco

L’esortazione apostolica Evangelii gaudium, per quanto ci riguarda, ha due punti focali: la centralità della persona e il bene comune, declinato con il prendersi cura dell’altro, da una parte; la condanna di questa economia, dall’altra. «La dignità di ogni persona umana e il bene comune sono questioni che dovrebbero strutturare tutta la politica economica, ma a volte sembrano appendici aggiunte dall’esterno per completare il discorso politico senza prospettive né programmi di vero sviluppo integrale».86 Sempre secondo quel passaggio del papa argentino, le frontiere da presidiare sono l’etica, la solidarietà mondiale, la distribuzione dei beni, la difesa dei posti di lavoro, la dignità dei deboli e la giustizia, come la esige il nostro Dio che ha donato per amore il Figlio. Ciò è una conseguenza diretta della predicazione della buona notizia sul rapporto con gli altri: Dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana, che deve necessariamente esprimersi e svilupparsi in tutta l’azione evangelizzatrice. L’accettazione del primo annuncio, che invita a lasciarsi amare da Dio e ad amarlo con l’amore che egli stesso ci comunica, provoca nella vita della persona e nelle sue azioni una prima e fondamentale reazione: desiderare, cercare e avere a cuore il bene degli altri.87

L’indifferenza verso i poveri, i sofferenti è la vera malattia della nostra epoca. L’altro punto focale è la condanna dell’economia vigente: Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga; richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazio­­ne di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo.88

  Ivi, 786.   Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale (24.11.2013), n. 203: EV 29/2309. 87   Ivi, n. 178: EV 29/2284. 88   Ivi, n. 204: EV 29/2310. 85 86

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Sono parole che riprendono la condanna analoga che troviamo anche al n. 54: Alcuni ancora difendono le teorie della ricaduta favorevole, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesca a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sul sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare.89

La riflessione prosegue nella Laudato si’. Una profonda rivoluzione è auspicata anche per l’economia nel suo complesso: abbiamo bisogno di cambiare modello di sviluppo globale, la qual cosa implica riflettere responsabilmente sul senso dell’economia e sulla sua finalità […]. Il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di immagine.90

Due sono le sfide che si possono evidenziare: la prima è ripensare il profitto. «Il principio della massimizzazione del profitto, che tende a isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente».91 Occorre, inoltre, riflettere sul lavoro e sulla centralità della persona in ogni decisione economica: Affermiamo che l’uomo è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale (Gaudium et spes, n. 63) […]. La realtà sociale di oggi esige, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […]. Il vero obiettivo dovrebbe essere sempre consentire ai poveri una vita degna mediante il lavoro. Tuttavia l’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro sostituiti dalle macchine. È un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro se stesso. La riduzione dei posti di lavoro «ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del “capitale sociale”, ossia quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili per ogni convivenza civile». In definitiva i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani. Rinunciare a investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società.92

  Ivi, n. 54: EV 29/2160.   Laudato si’ 194. 91   Ivi, n. 195. 92   Ivi, nn. 127-128. 89 90

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Tutti i decisori dell’economia, ma in particolare le aziende, devono, per ricoprire nuovamente il loro vero ruolo nel mondo di oggi, recuperare il senso profondo dell’economia che è solo un mezzo, certo uno dei più importanti, per costruire il bene comune. L’uomo deve essere sempre considerato il fine dell’attività economica. Quindi, sempre si deve tendere alla possibilità di offrire a tutti un lavoro dignitoso e sicuro. In una economia governata dall’accumulo di capitale, deve essere chiaro che il paradigma deve essere ribaltato: il capitale è un mezzo, il lavoro per tutti un fine. Occorre, quindi, ripensare radicalmente il mercato, affinché sia un mezzo per creare il bene comune. Troppi sono i suoi fallimenti e sappiamo bene che non è adeguato ad affrontare i temi della giustizia sociale e dell’ambiente.93

7. Proposte

concrete

Il lavoro come fine della politica e dell’economia, non solo una ricaduta secondaria. Occorre chiedersi se di fronte alla vera e propria emergenza nazionale rappresentata dalla disoccupazione e dal precariato non sia possibile raccogliere le forze sociali, politiche e culturali necessarie per abbattere il muro rappresentato dall’ideologia neoliberale, dal trattato UE e dai governi europei che l’hanno finora applicata sotto forma di politiche economiche e sociali regressive, affinché la piena occupazione venga finalmente assunta come obiettivo della politica dell’Unione e sia riconosciuto il principio che essa può venire perseguita efficacemente soltanto con politiche pubbliche.94

Come, concretamente? Luciano Gallino propone tre piste: 1) la piena occupazione deve entrare nel trattato UE e negli statuti della BCE e delle banche centrali; 2) obbligo per la BCE di prestare soldi alle banche europee solo se quel credito porta, con ragionevole certezza, a far crescere l’occupazione; 3) consentire agli Stati membri di emettere un prestito obbligazionario (circa 20-25 miliardi per i Paesi maggiori) finalizzato alla creazione di posti di lavoro; la BCE si impegna a sostenere tale emissione comprandone un’adeguata quota sul mercato secondario.95 «Il governo deve adottare un obiettivo esplicito per prevenire e ridurre la disoccupazione e deve sostenere tale obiettivo offrendo un impiego

93   Due importantissimi discorsi hanno annunciato queste traiettorie: quello a Lampedusa (8.7.2013) e quello in Sardegna (settembre 2013). Solo un passaggio del primo: «Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto nel nostro cuore, di piangere sulla nostra indifferenza sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che prendono decisioni socioeconomiche che aprono la strada a drammi come questo». 94   Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, 292-293. 95  Cf. ivi, 293.

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pubblico garantito a salario minimo a quanti lo cercano».96 Le difficoltà sulla piena occupazione aumenteranno anche a causa della tecnologia sempre più pervasiva nelle nostre vite:97 anche per questo occorrono politiche che si facciano carico della vita delle persone.

7.1. Una

vera riforma del lavoro

Il più grande economista del XX secolo, John Maynard Keynes, aveva pre­visto che nella nostra epoca l’impegno lavorativo settimanale non avrebbe superato le 15 ore. Prima di lui, Karl Marx aveva prefigurato che, una volta raggiunto un livello di produttività tale per cui la società potesse provvedere a tutti i bisogni materiali, avremmo trascorso le nostre giornate a sviluppare le nostre capacità di esseri umani. Alla fine del XIX secolo, William Morris, nel suo visionario News from Nowhere, previde un futuro in cui le persone avrebbero vissuto senza stress, lavorando per passione, ispirate unicamente dall’intento di imitare la natura, prosperando in armonia con i propri vicini. Nessuno di questi autori aveva previsto l’inestinguibile impulso al consumo e la crescita illimitata su cui si basa il sistema di mercato della mercificazione totale. È giunto il momento di affermare che il posto di lavoro per tutti, a qualunque condizione, non è la soluzione giusta, semplicemente perché non è questo il problema da risolvere. Occorre invece trovare diversi modi per mettere tutti in grado di disporre di più tempo, che non sia da dedicarsi al lavoro produttivo, e di più tempo libero che non sia destinato all’intrattenimento e al gioco. A meno che non insistiamo su una nozione più ampia di lavoro, continueremo a essere guidati dall’insensata abitudine di valutare una persona in base al tipo di lavoro che fa e dall’ottuso pregiudizio che l’unica attestazione di successo per un sistema economico sia la sua capacità di moltiplicare i posti di lavoro.98

Siamo davanti a una svolta importantissima: qual è il fine di una persona? Lavorare o svilupparsi? Se è vera la seconda ipotesi, che si potrebbe tradurre più concretamente con l’espressione «diventare cittadini», è necessario che le persone abbiano maggiore libertà nello scegliere come e quanto lavorare, consentendo di poter dare il proprio contributo alla società anche con le attività di cura e col volontariato. Questo implica che il lavoro deve essere «considerato come strumentale, ovvero come una regolare transazione economica secondo le regole».99 Non per tutti il lavoro è la fonte primaria di felicità. Occorre restituire alle persone la libertà di scegliere il modo di essere felici. Un punto di partenza per ricomprende-

96  A.B. Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Raffaello Cortina, Milano 2015, 144. Un altro libro può aiutare a comprendere come si possa riformare da capo l’economia: J.E. Stiglitz, Le nuove regole dell’economia. Sconfiggere la disuguaglianza per tornare a crescere, Il Saggiatore, Milano 2016. Il suo punto di forza sono le proposte concrete per rinnovare il mondo dell’economia. 97   Cf. R. Staglianò, Al posto tuo. Come web e robot stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino 2016, e E. Brynjofsson – A. McFee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, Feltrinelli, Milano 2015. 98   Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, 254. 99   Ivi, 256.

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re il lavoro e la persona sono i beni comuni. Un libro in particolare può essere utile: Il benicomunismo e i suoi nemici di Ugo Mattei. Il punto di partenza è comprendere come né il privato né il pubblico offrano una soluzione integrale ai problemi del nostro mondo: «Per i benicomunisti proprietà privata e sovranità statale sono l’esito istituzionale dello stesso progetto di concentrazione del potere ed esclusione».100 Ripensare ai beni nell’ottica del comune consente di operare una vera rivoluzione, creando le prospettive per una società più equa e meno diseguale. La struttura giuridica del comune rompe con la natura estrattiva e individualizzante della giuridicità borghese fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura, e costruisce una visione generativa e relazionale del diritto, lontana dal mondo dell’avere, del dominare e dell’escludere (che accomuna tanto il pubblico statalista quanto il privato dominicale) e vicina a quella dell’essere, del condividere e dell’includere.101

È assumere come punto di partenza non la proprietà ma l’uso dei beni.102 Un esempio può venire dagli orti comuni assunti come metafora. Cosa possono significare? Gli orti significano lavoro per la riproduzione, libero. Favoriscono il rispetto per il suolo, per la natura, per una vita equilibrata. Ma nel paradigma neoliberista odierno, se si lavora nel proprio orto invece che nel mercato delle braccia, si rischia di essere chiamati scansafatiche o scrocconi perché non si ha un posto o non lo si cerca. Gli orti sono un posto tranquillo in cui scaricare lo stress. Regalano una sensazione di sicurezza e un legame con le altre generazioni. Veicolano un senso di cittadinanza, una benvenuta combinazione di diritti culturali, sociali ed economici per via del contatto con la terra e del diritto economico di produrre per la famiglia, gli amici e la comunità.103

7.2. Una

fiscalità maggiormente progressiva

Le risorse per consentire lo sviluppo delle persone vanno cercate lì dove ci sono: due citazioni possono rappresentare un’apertura al dibattito. «Dobbiamo tornare a una struttura di aliquote più progressiva per l’imposta sui redditi delle persone fisiche, con aliquote marginali crescenti per scaglioni di reddito imponibile, fino a un’aliquota massima del 65%, il tutto accompagnato da un allargamento della base imponibile».104

 U. Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino 2015, 4.   Ivi, 88. 102  Cf. P. Dardot – C. Laval, Del Comune o della Rivoluzione del XXI secolo, DeriveApprodi, Roma 2015. 103  G. Standing, Diventare cittadini. Un manifesto del precariato, Feltrinelli, Milano 2015, 273. 104   Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, 192. 100

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«Il governo deve introdurre nell’imposta sui redditi delle persone fisiche uno “sconto sui redditi da lavoro”, limitato alla prima fascia di retribuzione».105

7.3. Una

vera scuola , una vera università

Per il pieno funzionamento della democrazia, però, occorre anche interrogarsi sulla qualità e sulla tipologia della cultura che un sistema scolastico propone. Le democrazie hanno grandi risorse di intelligenza e di immaginazione. Ma sono anche esposte ad alcuni seri rischi: scarsa capacità di ragionamento, provincialismo, fretta, inerzia, egoismo e povertà di spirito. L’istruzione volta esclusivamente al tornaconto sul mercato globale esalta queste carenze, producendo un’ottusa grettezza e una docilità – in tecnici obbedienti e ammae­strati – che minacciano la vita stessa della democrazia, e che di sicuro impediscono la creazione di una degna cultura mondiale.106

L’istruzione è, quindi, un fattore strategico per un vero sviluppo e per una politica attenta alla persona che comprenda anche l’accesso al lavoro. La mercificazione dell’istruzione deve essere combattuta da coloro che in essa hanno subito un trattamento che li ha preparati al precariato […]. La scelta dei contenuti dovrebbe essere data di nuovo agli unici professionisti in questo campo – docenti e accademici – mentre i «clienti», ovvero gli studenti, dovrebbero poter dire la loro riguardo alla struttura e alle finalità dell’istruzione. Il precariato, inoltre, dovrebbe essere messo in grado di ottenere un’istruzione adeguata in termini emancipativi a lungo termine, non semplicemente per offrirsi come capitale umano nell’immediato […]. Al momento il controllo ce l’hanno quasi tutto i «mercificatori». Il che non è per nulla tranquillizzante.107

Vi è la necessità di lottare contro l’istupidimento connesso con la cosiddetta formazione del capitale umano. L’università non può essere prostituita al mercato. John Stuart Mill affermò: L’università non è stata concepita per offrire le conoscenze che consentano di accedere a un particolare modo di guadagnarsi da vivere. Il suo scopo non è quello di preparare e dotare di competenze degli avvocati o dei medici oppure degli ingegneri, ma è quello di formare degli esseri umani colti e capaci.108

  Ivi, 197.  M.C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino, Bologna 2013, 154. 107   Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, 252. 108   Citato da Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, 252-253. 105 106

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Allargando lo sguardo, per quanto riguarda lo Stato sociale il punto chiave è il seguente: prima di tutto occorre mettere ogni persona in grado di vivere una vita degna di questo nome. Questa è la responsabilità primaria della politica.

7.4. Reddito

minimo adeguato a una vita degna . Reddito di cittadinanza

«Deve essere introdotto a livello nazionale un reddito di partecipazione, a complemento della protezione sociale esistente, con la prospettiva di un reddito di base per i figli a livello di tutta l’Unione Europea».109 Questa proposta si è fatta conoscere sotto molti nomi: il più utilizzato è reddito minimo ma ci sono anche salario di cittadinanza, dividendo sociale, salario di solidarietà e demo-salario […]. Ogni persona legalmente residente in un Paese o in una comunità, adulto o bambino che sia, dovrebbe ricevere un modico introito mensile […]. L’erogazione, poi, avverrebbe a beneficio di ogni individuo, non di una categoria dai confini non sempre ben definiti, come la famiglia o nucleo familiare […]. In linea di principio, il reddito minimo si può considerare come un «dividendo sociale», ovvero come il frutto di un investimento precedente.

8. Conclusione:

cosa possiamo sperare

Il senso di un Manifesto del precariato è la consapevolezza che tanti ele­­ menti devono unirsi, che nessuna singola misura è una panacea o una bacchetta magica. È lo spirito che bisogna ricostruire, fondato sui grandi valori della compassione e dell’empatia. Non vorremo mica rischiare di svegliarci tra qualche anno pensando di non avere il diritto morale di lamentarci perché non abbiamo mosso un dito quando avevamo le energie e non amavamo le realtà senza futuro attorno a noi? Il cambiamento avverrà soltanto se agiamo, non se ci limitiamo a lamentarci.110

In questo il papa ci ha lasciato parole assolutamente decisive: «L’obiet­ tivo non è di raccogliere informazioni o saziare la nostra curiosità, ma di prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare».111

  Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, 227.   Standing, Diventare cittadini, 296. 111   Laudato si’ 19. 109

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8.1. Progresso,

sviluppo

L’intento di questo intervento era dimostrare, non solo con astratti ragionamenti, ma in base a proposte concrete di vita (ad esempio come la Costituzione e il vangelo), che è possibile ragionare sul lavoro per costrui­ re un mondo diverso. Questo può avvenire solo se, come appunto nella Costituzione e nel vangelo, si mette al centro di ogni ragionamento la persona umana, i suoi diritti, i suoi doveri, la sua aspirazione alla felicità e alla fioritura. Nel momento in cui si perde questa bussola, emergono le strutture di potere che determinano l’esplodere degli egoismi. Se è vero, come dice il papa, che questa economia uccide, anche perché non consente alle persone di vivere una vita degna, bisogna a ogni costo fondarne un’altra, che parta dalle persone che questa economia ha messo più in crisi, cioè i poveri. Occorre un profondo cambiamento di mentalità, occorre una radicale conversione. Proprio la vita condivisa con i più poveri può darci la prospettiva giusta. Attendiamo, come credenti, un nuovo mondo, profetizzato essere la nuova Gerusalemme, una città, quindi; un luogo dove l’uomo ha posto il suo lavoro e la sua creatività, dove le persone possano vivere felicemente insieme. «L’attesa di una nuova terra non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo».112

Bibliografia Akerlof G.A. – Shiller R.J., Ci prendono per fessi. L’economia della manipolazione e dell’inganno, Mondadori, Milano 2016. Allegri G. – Bronzini G., Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo sociale oltre la subordinazione, DeriveApprodi, Roma 2015. Atkinson A.B., Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Raffaello Cortina, Milano 2015. Becchetti L., Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni, Città Nuova, Roma 2009. Beveridge W., Full Employment in a Free Society, Allen & Unwin, London 1944. Brynjofsson E. – McFee A., La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, Feltrinelli, Milano 2015. Caruso S., Homo oeconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, Firenze University Press, Firenze 2012. Cassano F., Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari 2004.

112   Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (7.12.1965), n. 39: EV 1/1440.

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Matteo Prodi

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Intervista virtuale a un uomo digitale

Paolo Boschini con Luca Tentori

Tentori «Il concilio va al cinema». Così titolavano le cronache ironiche dei primi mesi del Vaticano II, quando i padri affrontarono la discussione che portò all’approvazione del documento Inter mirifica.1 Da quel cinema però la Chiesa e il mondo non sono più usciti. O meglio, è stato il cinema a uscire dalle sale e a pervadere, insieme ai media, tutta la realtà. Il periodo del concilio coincise con anni di un cambio epocale nelle comunicazioni, così come oggi accade con l’avvento del digitale. La rivoluzione è nel modo stesso di pensare. I media non sono più solo strumenti ma il contesto in cui viviamo e ragioniamo. La rete internet in particolare opera una ri-forma mentis, incidendo anche sulla capacità dei credenti e della Chiesa di comprendere la realtà e vivere la fede.2 Questo ci obbliga alla riflessione, per capire meglio chi sia «l’uomo digitale» che sta prendendo forma tra noi e in noi. Due trailer di recenti cartoni animati possono farci capire i rischi che la Chiesa e il credente possono incontrare nell’affacciarsi al digitale. Il primo riguarda Zootropolis3 (lentezza). Spesso rischiamo di essere come il bradipo. Abbiamo i contenuti, ma sbagliamo i tempi e i linguaggi. Sbagliamo la forma, che è già parte del messaggio. Il secondo trailer riguarda Inside out4 (Compulsività). Pastori, comunità e singoli rispondono in maniera compulsiva ai social e ai media, facendo prevalere solo i sentimenti. Il più forte vince. Non c’è ragione, spiritua-

 D.E. Viganò, Il Vaticano II e la comunicazione, Paoline, Milano 2013, 117-162. A. Spadaro, Cyberteo­logia, Vita e Pensiero, Milano 2012, 19-22. 3  https://www.youtube.com/watch?v=0HtQbNpgq7Y 4  https://www.youtube.com/watch?v=YAsUloQJqL4 1 2

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Paolo Boschini con Luca Tentori

lità o educazione che coordina i sentimenti e gli impulsi. Capita qualche volta che l’unità e la comunione vengano meno sulle piattaforme digitali, prima ancora che la comunità si raduni in parrocchia. L’intervista di oggi può aiutarci a capire qualche aspetto del mondo digitale e a trovare eventuali convergenze con la vita e la missione della Chiesa.

1. L’uomo

digitale

Tentori Abbiamo qui un esemplare di uomo digitale. Cerchiamo di ricostruire un suo identikit così come emerge dalla recente letteratura scientifica e dalla realtà dei processi comunicativi che nell’ultimo decennio stanno rivoluzionando la vita quotidiana, almeno nella parte nord-occidentale del mondo. Chi è lei? Provi a descriversi. Boschini Come potete facilmente constatare, non sono un essere umano diverso da voi. Non mi ritengo l’ultimo stadio dell’evoluzione dell’homo sapiens sapiens e non sono neppure l’anello mancante tra l’uomo e la scimmia. Sono un umano che ha preso sul serio la nostra comune vulnerabilità e sta provando a porvi rimedio. Scriveva Arnold Gehlen: noi umani non abbiamo nulla che ci renda migliori degli altri abitanti del mondo animale, né a livello di facoltà sensoriali, né tantomeno come abilità di movimento. Insieme a una grande capacità di adattamento, abbiamo maturato con il tempo la sapienza, ovvero la capacità di produrre simboli. Vediamo il mondo intorno a noi e, mettendolo in rapporto con noi stessi, gli attribuiamo un significato. Così costruiamo una nuova realtà, che esiste solo nella nostra mente, nei nostri linguaggi, nelle nostre immagini. Ma è anche l’unica realtà che effettivamente conosciamo, quella che intreccia i fatti, che accadono nel nostro ambiente di vita, e i significati, cioè quello che riusciamo a capire di ciò che ci sta accadendo e che possiamo condividere con gli altri umani.5 Dico due cose di me. Per i primi quarant’anni della mia vita ho scritto sulla carta e ho imparato leggendo pensieri stampati sulla carta; ho guardato le immagini della tv e ascoltato la musica riprodotta da dischi in vinile e da nastri magnetici. Quello che esprimevo con le parole e con i gesti era l’immagine di ciò che sentivo e pensavo dentro di me. Poi, nel 1987, come regalo di laurea ricevetti il mio primo pc – un Olivetti 286 – e, usandolo (allora solo per scrivere e archiviare), ho scoperto che la mia mente

5  A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983, 35-77.

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Intervista virtuale a un uomo digitale

entrava e usciva da me. Leggevo le mie idee sullo schermo, prima ancora di averle congegnate dentro di me. Ho scoperto che si stava creando un «me» dentro di me e un altro «me» fuori di me. Così ho sperimentato per la prima volta la realtà virtuale e ci sono entrato. Non ero certo consapevole di ciò che mi stava accadendo. La curiosità per il nuovo e la praticità di queste nuove procedure mi avevano semplicemente conquistato. Gli occhi fissi sul monitor, le dita che battono sulla tastiera, il pc con il suo piccolo mistero elettronico, queste semplici operazioni sono diventate il modo per dialogare con me stesso. Dopo circa otto anni ho scoperto internet. Grazie a un modem e a una normale linea telefonica, ho cominciato a dialogare anche con altri umani, che come me vivono in questa costante divisione e riunificazione con il proprio sé. Tentori Cosa è per lei la realtà? Tutto si sta smaterializzando: dalla posta al denaro. Come vive la realtà? Boschini Ripeto: non sono diverso da voi. Perciò la realtà è per me quello che essa è anche per voi. È una costruzione mai compiuta, fatta di immagini, suoni, parole, gesti, segni. La realtà è un mondo costruito da noi umani intorno a noi stessi e dentro di noi, mossi dall’esigenza di orientarci nel caos, di mettere ordine negli avvenimenti casuali dell’esistenza, di prevedere e prevenire il male che ci può capitare all’improvviso. La realtà è dentro e fuori di noi, grazie a ponti di collegamento che si chiamano significati. La realtà è la nostra visione del mondo, dentro al quale abitiamo e ci muoviamo, una visione pratica e teorica al tempo stesso; una visione condivisa con altri e perciò in continua espansione. Che cos’è per me la realtà? È un ordito costituito dai legami tra infiniti sé umani, impegnati insieme a dare senso al mondo. È la realizzazione di una serie inesauribile di virtutes. È un intreccio di possibilità che trovano espressione nel fare e nel comunicare. La realtà è il costrutto di una serie concatenata e indefinita di azioni. È un multi-verso, a cui cerchiamo di trovare un senso, una direzione di marcia. Sì, come dice lei, oggi tutto si sta smaterializzando. Anche il linguaggio della pubblicità – che insieme a quello della politica e dell’economia è stato tra i linguaggi più materialisti e cinici del XX secolo – sta diventando sempre più evocativo, etereo, quasi spirituale. Siamo cambiati noi umani e quindi è cambiato il mondo, che – diceva Kant – sarebbe un deserto, se non fosse abitato dall’uomo.6 Oggi viviamo in un mondo di informazioni e di possibilità. Ma anche in un mondo di grandi rischi sociali e di gran-

  I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari 1984, 320-321.

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Paolo Boschini con Luca Tentori

di fragilità esistenziali, perché la crescente velocità degli avvenimenti ci impedisce una valutazione oculata delle conseguenze delle nostre azioni. Tentori Per i greci il conosciuto non era considerato un oggetto a sé stante, ma una presenza con cui si è da sempre in relazione. Con Cartesio l’evidenza della realtà è diventata l’autodisvelarsi del mondo nel pensiero. Dall’illuminismo in poi si è passati al dominio della realtà da parte dell’uomo tramite le capacità analitiche della sua ragione scientifica. In uno degli ultimi suoi interventi pubblici dove affrontò il problema della cibernetica, nell’ottobre 1965, il filosofo tedesco Heidegger sostenne che l’avvento delle tecnologie dell’informazione aveva prodotto l’effetto epocale di annientare definitivamente la filosofia, sostituendo il pensiero dell’essere con procedure unificate di organizzazione e di gestione del reale, che vanno sotto il nome di cibernetica.7 La «colonizzazione del mondo» procede a grandi falcate grazie alla cibernetica, la quale non fa altro che radicalizzare l’asservimento dell’uomo occidentale alla potenza assoluta della tecnica. È d’accordo con questa analisi? Stiamo assistendo alla fine del pensiero? Nel mondo digitale la conoscenza si genera ormai solo come una somma di informazioni? Boschini A dire il vero, già in un importante saggio del 1953 dedicato a La questione della tecnica, Heidegger aveva cominciato a manifestare il suo pessimismo sul mondo della comunicazione, perché ne vedeva solo gli aspetti tecnici e perciò lo stigmatizzava accomunandolo alla sua durissima e ripetuta requisitoria contro la tecnica. Accusava la tecnica di essere l’espressione di un anti-pensiero che divide il mondo in due: il soggetto e gli oggetti.8 Egli difendeva «il» pensiero occidentale più arcaico, quello dei filosofi presocratici e in particolare di Eraclito, il quale sosteneva che non c’è differenza tra l’azione del vedere (eidein) e quella del dire (leghein). Il vedere produce immagini immateriali (eidos), le quali vengono collegate nel linguaggio e formano il pensiero (logos). Le immagini sono i fili di cui è intrecciato il pensiero. Dire – continua Heidegger – non significa solo parlare, dare nomi alle cose. Dire significa creare legami. Il pensiero – come lo intende Heidegger – è proprio questo: un discorso che crea legami.9 L’uomo digitale non è molto diverso dal suo lontano antecedente greco. Anch’io parlo e penso per immagini. Le mie rappresentazioni visuali sono icone, riproduzioni artigianali del mondo filtrato attraverso l’esperienza interiore. Esse raccontano il mondo sperimentato da me insieme

 M. Heidegger, Filosofia e cibernetica, ETS, Pisa 1988, 31-33.   Id., «La questione della tecnica», in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1993, 5-27. 9   Id., I concetti fondamentali della filosofia antica, Adelphi, Milano 2007, 135. 7

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con altri. Tuttavia, contrariamente a quanto pensava Heidegger, la digitalizzazione della comunicazione non produce la fine del pensiero tout court. Essa segna solo la fine di quel pensiero che ha la presunzione di elaborare delle riproduzioni ad alta definizione (i concetti) del mondo extra-mentale: la metafisica. A entrambe – metafisica e tecnica –, sin dalle prime famosissime pagine di Essere e tempo, Heidegger rivolgeva l’accusa di avere ucciso il pensiero perché hanno dimenticato l’essere, cioè perché hanno accantonato la visione della realtà come intreccio di eidos e logos.10 Quindi, all’obiezione di Heidegger secondo cui le tecnologie comunicative uccidono il pensiero, rispondo che noi uomini digitali non abbiamo smesso di pensare: lo facciamo in modo diverso. Viviamo e ci muoviamo sempre entro un frame, una cornice di informazioni e di possibili connessioni con altri. Questo frame ci determina e, reagendo ad esso, contribuia­ mo a modificarlo continuamente, scambiando informazioni su noi stessi e sul mondo. Noi interagiamo; viviamo di reciprocità. Non ci limitiamo a reagire agli impulsi nervosi del mezzo, come avviene al cinema o davanti alla tv. Iniziamo invece da un’immagine mentale, che diventa a poco a poco lo sfondo, il frame entro cui collochiamo le nostre informazioni, da cui poi ricaviamo le traiettorie del nostro muoverci nel mondo. Siamo i primi a produrre impulsi, a scegliere come canalizzarli, a orientarli verso questa o quell’altra parte del frame. E anche quando lavoriamo con le informazioni che abbiamo ricevuto da altri, le rielaboriamo secondo un criterio interiore. Per organizzare le informazioni ci vuole sempre un’idea: magari non è quella migliore, più comprensiva o più efficace; ma un’idea ce l’abbiamo sempre! Noi digitali non siamo mai passivi. A differenza dell’uomo analogico, che può permettersi il lusso di essere eterodiretto, cioè di fare senza pensare, di agire in modo meccanico. Voi analogici siete dei muratori, costruttori di mondi che altri hanno progettato. Noi digitali siamo degli arredatori di scenografie ideate da noi stessi. Accolgo invece la critica, che ci viene rivolta oggi soprattutto dal pensiero cattolico e dall’antropologia culturale, di appiattire la conoscenza sull’informazione, di scambiare l’acquisizione di dati con il sapere. Questa critica coglie nel segno, ma si riferisce a un difetto procedurale degli individui: non dipende dal sistema della comunicazione in quanto tale. Faccio un esempio per chiarire. Tutti sospettiamo di Wikipedia, perché le informazioni che essa offre non sono sempre attendibili. Eppure, tutti continuiamo a servirci di Wikipedia senza controllare i dati che lì attingiamo, con la stessa nonchalance con cui prendiamo per buone informazioni che leggiamo sui giornali o riceviamo dalla tv. Spero che l’esempio sia chiaro. Il problema non sta nella digitalizzazione della conoscenza, ma nella mancanza di spirito critico, il «sonno dogmatico» (per dirla con Kant):11 un male da cui noi occidentali mediatizzati non siamo certamen-

  Id., Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, 17-60.   I. Kant, Prolegomeni a ogni futura metafisica, Laterza, Roma-Bari 1982, 8.

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te immuni. L’immensa quantità di banche dati disponibili sul web hanno aumentato esponenzialmente la possibilità di conoscenza critica, ma non possono offrire l’antidoto alla pigrizia intellettuale, che può essere prevenuta solo con un’adeguata educazione in ambito scolastico e comunitario. Il prezzo di questa differente procedura del sapere si paga sul piano pratico e politico. Ed è indubbiamente un prezzo molto salato! Noi digitali – più ancora di voi analogici – siamo eccitati dalla fretta. Abbiamo l’ossessione del multitasking, dell’essere compresenti in tante piazze virtuali, di interagire con quanti più nickname si può. E, così facendo, pensiamo poco. Certo siamo informati. Ma non basta. Noi digitali non attribuiamo alla responsabilità etica, al rispetto dell’altro e in generale alle virtù pubbliche quella sacralità che ci hanno insegnato la tradizione cristiana e il pensiero moderno. Infatti, più che a costruire organizzazioni che funzionino come macchine, noi siamo impegnati ogni giorno a riorganizzare la nostra immaginazione e a fare il restyling della nostra immagine. Tentori Personalmente, non sono molto d’accordo con questa ricostruzione. Io mi rappresento così l’immagine che l’uomo occidentale si è fatto della real­tà, nelle fasi principali del suo pensiero. Glielo mostro con una semplice tabella. Periodo

La realtà...

Greci

è una presenza con cui si è in relazione

Cartesio

si autosvela nel pensiero

Illuminismo

è dominata dall’uomo con la scienza

Era digitale

è asservita alla potenza tecnologica

Il mio schema è molto chiaro. Dice che il mondo ci è sfuggito di mano, proprio nell’epoca in cui pensavamo di dominarlo: quest’epoca è appunto il nostro tempo, l’era digitale. Ci spieghi perché secondo lei siamo ancora noi umani i responsabili del mondo. Ci dica come ritiene possibile produrre la realtà attraverso l’immaginazione. Boschini Lei pone una questione cruciale. Ma prima di rispondere mi lasci aggiungere alla sua tabella una riga mancante, quella dell’umanesimo cristiano medievale. La realtà si presenta anzitutto come un’interminabile catena di immagini in cui si rende presente l’invisibile: nel simbolo.12

12   Giovanni Scoto Eriugena, De divisione naturae V, 3: «Nihil enim visibilium rerum corporaliumque est, ut arbitror, quod non incorporale quid et intelligibile significet».

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A produrre la realtà attraverso l’immaginazione ce lo hanno insegnato i medievali con la loro simbolica. Che cosa sono le cattedrali romaniche e gotiche? Un trattato di simbolica: la costruzione del microcosmo, a cui il macrocosmo deve assomigliare. Nessuno conosce il macrocosmo. Nessun essere umano era presente all’atto della sua creazione. Il mondo dei medievali è avvolto dal grande, impenetrabile mistero della sua origine. Eppure, erano affascinati da ciò che li respingeva, tanto che sentivano il bisogno di rappresentarlo per immagini, simbolicamente. Ecco come l’immaginazione crea la realtà. Noi vediamo le cose del mondo quotidiano e non riusciamo a connetterle alla loro origine. Così produciamo immagini a cui affidiamo un compito performativo: devono costruire un ponte di significato tra ciò che è ovvio, ripetitivo, derivato e ciò che è sorprendente, unico, originario. È così che nasce anche la dialettica di sacro e profano: con un atto comunicativo, di costruzione simbolica del mondo. L’immagine ci dice due cose: 1) che c’è un «mondo-oltre» il nostro mondo; 2) che questo «mondo-oltre» non è mai così «al di là» da essere irraggiungibile. Produrre la realtà non significa crearla ex nihilo, compiendo l’opera di Dio al posto suo. Produrre la realtà significa gettare un ponte verso l’invisibile. È un ponte curioso, perché è costruito di simboli (rimandi a immagini e sintesi di immagini) con cui pretende di varcare la soglia dell’invisibile. Riflettiamo un attimo. Il mondo digitale è costrui­ to sulla soglia tra visibile e invisibile. Da quando tutti abbiamo sempre a portata di mano un dispositivo mobile sempre connesso alla rete, ogni situazione quotidiana diventa l’occasione per produrre una nuova immagine del mondo, cioè per modificare il significato di ciò che stiamo vivendo in quel momento. Un esempio banale. Passeggio sotto le Due Torri e Google mi racconta, sul mio smartphone o sui miei occhiali o sul mio orologio, vita morte e miracoli di quelle due caratteristiche costruzioni. Davanti ai miei occhi si apre una finestra che mi fa guardare fuori dalla quotidianità: quella brevissima informazione rende parlanti le pietre delle nostre antiche torri. È più che un diversivo. Mi obbliga a fare i conti con una realtà che non è rigidamente predeterminata, ma che è possibilità: la possibilità di immergermi nella Bologna medievale e di farlo con gli strumenti e i linguaggi dell’uomo ultra-moderno. Grazie al nostro praticissimo device, noi digitali siamo sempre un passo oltre la situazione, proiettati verso un altrove che è l’utopia di un tempo e uno spazio trasparente e interconnesso: è il sogno di un mondo dove nessuno resta anonimo e dove la fiducia è figlia dell’immaginazione. Di fronte al fallimento di tante rivoluzioni politiche ed economiche moderne, mi concederà che è meglio rivoluzionare l’immaginario, perché è da esso che scaturirà il mondo nuovo.

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Tentori Qual è la sua idea di comunità e vivere insieme? Alcuni studiosi oggi parlano di «neo-comunitarismo informatico»,13 ma noi (in una visione ancora frammentata e incompleta forse) osserviamo l’uomo dell’era digitale diventare sempre più individualista. Boschini Chi ha un’immagine negativa dell’umanesimo digitale ci accusa di essere narcisisti e perciò tristi nelle passioni e fragili nell’identità personale. Tanto fragili da essere sempre assetati del consenso altrui. Il nostro vivere insieme consisterebbe nel collezionare tanti I like ai nostri post e alle nostre foto pubblicati sui social network che vanno per la maggiore. Ora la questione è: la socialità dell’uomo digitale è davvero così autoreferenziale? Il bisogno di consenso sociale non lo abbiamo inventato noi digitali. Appartiene all’homo sapiens, fin dalla sua comparsa sulla terra. La digitalizzazione del mondo lo ha trasformato, rendendolo facilmente misurabile. La nostra idea di comunità non è fondata sul concetto di ordine/organizzazione, come le comunità analogiche, che sono quelle in cui ha grande importanza la scrittura. Sono comunità fondate sulla legge: il fatto di essere scritta la rende stabile, certa, non manipolabile, universalmente valida. Per noi, invece, la comunità è fondata anzitutto sull’informazione e sull’immaginazione. I nostri legami sociali si reggono sul fatto che i membri delle società digitali si scambiano continuamente informazioni: se questo flusso s’interrompe, la comunità si dissolve. Non siamo degli anarchici. Riconosciamo il valore delle leggi, ma solo se esse servono ad assicurare il movimento continuo delle informazioni e a garantire la libertà di chi le produce e di chi le riceve. Ci viene anche rimproverato che la nostra socialità ha smarrito il sentimento di appartenenza. In certo qual modo è vero. Ma non è una perdita poi così grave. Nel XX secolo il sentimento di appartenenza ha ispirato le ideologie nazionaliste, le quali hanno prodotto le più grandi tragedie della storia occidentale. E oggi sta seriamente ostacolando processi migratori epocali, impedendo l’accoglienza di migranti e profughi. È il frutto di una società dove regna la tendenza al controllo e alla disciplina. Appartenere significa, di fatto, rigare diritto. L’alternativa che noi pratichiamo è costituita dal creare legami tra gli individui, che dipendono da una visione cooperativa del sapere e che privilegiano il valore della reciprocità e del dono. Ne è un ottimo esempio la comunità dei programmatori generata dalla filosofia open source di Linus Torvalds.14

13   T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997, 11-25; D. Massaro – A. Grotti, Il filo di Sofia. Etica, comunicazione e strategie conoscitive nell’epoca di Internet, Bollati Boringhieri, Torino 2000, 75. 14   L. Torvalds – D. Diamond, Rivoluzionario per caso. Come ho creato Linux (solo per divertirmi), Garzanti, Milano 2005.

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La nostra idea di comunità è fatta di molta interdipendenza e di poca appartenenza, che è poi la nostra idea della libertà come partecipazione gli uni alla vita degli altri. Perciò noi possiamo appartenere a più comunità, senza creare gelosie e saltando a piè pari ogni tipo di frontiera. È inutile nascondere che invidiamo moltissimo il vostro senso di dedizione alle comunità di vita primaria, come la famiglia, la Chiesa, la scuola, il lavoro. Perché nel nostro mondo questi legami atavici, che per voi umani analogici sono un valore a priori, si vanno perdendo. Credo che il movimento della società sarà orientato sempre più verso le logiche e i valori dell’umanesimo digitale. Ciò impone un ripensamento serio e non ideologico di questi istituti secolari su cui è basata la nostra vita pubblica, perché il rischio che essi diventino castelli di sabbia oggi è molto forte. Ci viene rimproverato l’individualismo dei nostri comportamenti social. In tutta onestà, la digitalizzazione della vita lo può avere esasperato, ma questo individualismo non è un frutto della nuova tecnologia dell’informazione. È il male radicale del mondo occidentale moderno. Ne parlava già Tocqueville a metà dell’Ottocento, descrivendo la giovane società nordamericana.15 Non per giocare a scaricabarile, ma nella società della comunicazione l’individualismo è cresciuto esponenzialmente grazie alla tv, che ha reso gli uomini passivi, apatici e isolati. Noi digitali stiamo provando a risalire la china. Non garantisco che ci riusciremo. Tentori Riformulo un aspetto della domanda precedente. L’esperienza dei social network è molto deludente: riduce gli esseri umani a una superficialità desolante. Boschini Premesso che non si può fare di ogni erba un fascio, sì, sono d’accordo. Anch’io sono molto sconsolato davanti al contenuto delirante di certe pagine Facebook, o di alcuni commenti postati in calce agli articoli dei quotidiani on-line. Bisogna essere onesti. Il mondo digitale è anche questo. L’equivoco è considerare i social network come uno spazio di libera espressione e di visibilità selvaggia. Come se l’interazione non obbligasse anche a compiti di cooperazione e di responsabilità pubblica. La socialità digitale è costruzione partecipativa della conoscenza; non è l’esibizione narcisistica di un sé fittizio. Inoltre, non dobbiamo confondere una piattaforma di interconnessione (Facebook, Instagram, Twitter, Snapchat, WhatsApp, ecc.) con il valore della socialità digitale. Lo stru-

15   A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Id., Scritti politici, 2 voll., UTET, Torino 1968, II, 812; ogni individuo è un anello nella catena della società, ma «la democrazia rompe la catena e lascia ogni anello per conto suo» (ivi, 590).

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mento tecnico che potenzia le possibilità conoscitive e interattive potenzia anche la responsabilità. Il digitale non supera l’umano, ma lo rende ancor più essenziale, radicalizzando l’esperienza del vero e del bene, ma anche quella del falso e del male. Questo processo di radicalizzazione ci spalanca davanti un compito educativo imponente: riaccendere l’amore per il sapere, senza il quale molti luoghi in cui si esprime l’intelligenza digitale (blog tematici, wiki, piattaforme didattiche, archivi telematici, ecc.) rischiano di restare disabitati. È un aspetto di quella crisi, già conclamata, delle istituzioni di socializzazione primaria che l’avvento del digitale ha acutizzato. Internet funziona in molti casi come fattore di accelerazione di processi culturali e sociali che erano già in atto nell’ultima fase dell’era analogica. Tentori Oggi si parla correntemente di internet 2.0, alludendo alle possibilità di mettere in connessione molteplici canali comunicativi. I dispositivi di cui disponiamo sono progettati proprio per favorire la presenza degli internauti su più canali contemporaneamente. Questo sviluppo che conseguenze produce nella nostra visione di internet e nell’uso che quotidianamente facciamo della rete? Boschini Fino a pochissimi anni fa, quando si parlava di internet lo si accostava a due parole che appartengono al linguaggio novecentesco delle scienze della comunicazione: strumento e vetrina. Vedere in internet uno strumento significa considerarlo come un fattore in grado di potenziare sia la comunicazione interna sia quella esterna di una determinata comunità di persone. In questo caso, la comunicazione consiste soprattutto nello scambio di informazioni ed è caratterizzata ancora da una predominanza della scrittura sulle altre forme di comunicazione linguistica. Se invece si considera internet come una vetrina, i contenuti che esso propone sono finalizzati a migliorare l’immagine sociale degli individui e dei gruppi. Questo processo di «vetrinizzazione» della società non è più finalizzato all’acquisto e al consumo di merci, ma alla produzione di processi di senso, attraverso i quali gli individui e i gruppi assumono un determinato stile che li caratterizza sulla scena pubblica. Non si tratta semplicemente di riconquistare «un posto al sole» nella grigia e spersonalizzante società di massa. Questa accresciuta visibilità consente di reincantare il mondo, già disincantato dai freddi ritmi della vita metropolitana e dagli spazi anonimi della produzione industriale. Ciascuno ha la propria vetrina digitale, dove espone il meglio di sé e degli altri. Le esperienze quotidiane si trasformano in eventi che meritano di essere raccontati e replicati all’infinito. Così tutti diventiamo «consumatori onnivori» di immagini e di messaggi, che a loro volta fanno parte di un grande gioco collettivo basato sulla condivisione delle emozioni e dei ricordi. Informare e informarsi non basta più e, tutto sommato, è anche ab-

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bastanza noioso. È scoppiata una nuova, antichissima passione: sedurre ed essere sedotti.16 In entrambi i casi – strumento e vetrina – siamo davanti a un uso di internet e dei linguaggi digitali, che sono «a servizio di». Oggi in ballo c’è molto di più e di meglio. Internet e i linguaggi digitali sono il nostro mondo, l’ambiente di vita quotidiana. Non l’unico, ma sicuramente quello dove trascorriamo la maggior parte del tempo e a cui dedichiamo le nostre migliori energie. Sembrerà strano, ma dobbiamo soprattutto al pensiero cattolico questa idea, che è figlia della visione cristiana della comunicazione come relazione pienamente personale e gratuita, inserita in un mondo abitato e reso familiare da un’infinità di altre relazioni interpersonali. Nell’enciclica Redemptoris missio pubblicata nel 1990 e dunque in tempi non sospetti, Giovanni Paolo II parlava del sistema moderno della comunicazione come di una «nuova cultura», di un’«esperienza»: ovvero del mondo entro cui si svolge la vita quotidiana di miliardi di esseri umani.17 Occorre riconoscere e favorire la spinta spirituale che innerva la comunicazione digitale, che segna il passaggio dal pensiero unico di Babele al pluralismo sinfonico di Pentecoste e che facilita le relazioni e la comprensione tra gli esseri umani e tra i popoli.18 Tentori Può spiegare meglio questa immagine di internet come ambiente di vita quotidiana? Se la rete telematica mondiale è simile ad altri ambienti in cui viviamo ogni giorno, allora essa sarà anche incompleta e limitata; non potrà offrire una risposta a tutte le nostre domande di senso. Ma è solo uno dei tanti ambienti di vita, oppure ha qualcosa che lo caratterizza in modo specifico? Boschini L’uomo digitale è un essere anfibio, che può respirare e vivere nell’acqua così come all’aria aperta. Internet è un ambiente di vita che, proprio in forza della sua apertura e incompletezza, ci consente di intrecciarci con altre dimensioni del vivere sociale. Creando così un flusso comunicativo bi- e poli-direzionale. Per spiegare questa affermazione, mi servo di due immagini impiegate da Benedetto XVI. L’intero sistema comunicativo mondiale, che ha in internet la propria infrastruttura principale, è come «una grande tavola rotonda per il dialogo dell’umanità».19 Il cyber-spazio è «la nuova arena digitale», il luogo effettivo grazie al quale gli uomini e

  V. Codeluppi, Manuale di sociologia dei consumi, Carocci, Roma 2006, 83-115.   Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptoris missio circa la permanente validità del mandato missionario (7.12.1990), n. 37: EV 12/625. 18   Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali, La Chiesa e internet (22.2.2002), nn. 2-3: EV 21/67ss. 19   Benedetto XVI, I media: rete di comunicazione, comunione e cooperazione. Messaggio per la XL Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (24.1.2006), n. 3: EV 23/1636ss. 16

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i popoli s’incontrano, si conoscono e imparano a riconoscersi e a valorizzarsi vicendevolmente.20 Come ogni ambiente di vita quotidiana, anche internet è retto da regole etiche e da codici comunicativi specifici, che si riassumono in un imperativo, che è poi sempre di più anche un dato di fatto: superare la distinzione tra emittente e ricevente. Ovvero, non c’è azione dell’uomo digitale che non sia inter-azione entro i confini e le possibilità della rete telematica mondiale. Ma internet è un ambiente pervasivo. Si dilata. Avvolge. Dà forma a tutte le relazioni e a ogni forma di comunicazione. Indebolisce il principio di autorità, perché vanifica il flusso della comunicazione dall’alto verso il basso. Viceversa, irrobustisce il principio di partecipazione e corresponsabilità. Credo che nel futuro – ma forse già nel presente – questa istanza di condivisione egualitaria e pluralista finirà per creare molti problemi a tutte quelle istituzioni – compresa la Chiesa cattolica – che ancora faticano a orientare i loro valori tradizionali e le loro pratiche abituali nella direzione di una costruzione del sapere in forma consensuale e partecipata. La verità che abita nell’ambiente-internet è relazionale, prospettica, multi-versale. Tentori A proposito di trasformazioni, se e in che cosa il web 2.0 ha modificato la nostra vita sociale e culturale? Quale nuova antropologia si sta proponendo? Boschini L’uomo digitale è reperibile ventiquattr’ore su ventiquattro, in ogni angolo del pianeta. Magari non ha voglia di rispondere alle informazioni che riceve. Ma stiamo certi che le riceve sempre, pochissimi attimi dopo la loro emissione. L’effetto sulla vita quotidiana è molteplice. Incontrarci diventa più semplice, ma così la vita di relazione diventa anche molto più veloce ed esigente, perché i tempi di attesa tra la chiamata e la risposta sono sempre più brevi, quasi istantanei. Questo ci obbliga a una ferrea autodisciplina nell’organizzazione personale del tempo, altrimenti le giornate diventano un caos, in cui non si combina nulla di ciò che si deve fare perché si passano ore a rispondere ai messaggi degli altri. Oppure ci sia abitua a fare molte cose contemporaneamente. Ma anche questo è possibile solo se si dispone di un ottimo ordine mentale, se si vive in un ambiente che favorisce la concentrazione e se ci si dota di pratiche efficaci, che aiutino ogni giorno a resettare la mente.

20  Cf. Benedetto XVI, Nuove tecnologie, nuove relazioni. Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia. Messaggio per la XLIII Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (24.1.2009): EV 26/111ss.

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Sul piano sociale ci sono anche altre importanti conseguenze, che riguardano soprattutto il nostro modo di lavorare. La prima è la delocalizzazione. Ogni processo produttivo oggi è anzitutto un processo comunicativo. Faccio un esempio che ci riguarda. Tra un anno (più o meno) gli studenti iscritti all’ISSR potranno scegliere se seguire le lezioni in video­ conferenza dalla sede più vicina alla propria abitazione, oppure recarsi di persona nell’aula in cui si trova materialmente il docente. Il quale con un’unica azione didattica dovrà erogare il suo sapere in due modalità: con stile empatico, per coinvolgere gli studenti con cui ha una compresenza corporea; con stile televisivo, per avvincere gli studenti con cui ha un contatto solo tramite lo schermo. È chiaro che la lezione smette di essere un prodotto artigianale e diventa un format, sul modello dei programmi tv, o un blog interattivo. Delocalizzare il lavoro richiede di saper comunicare contemporaneamente con due registri tra loro molto differenti. L’unico modo per riuscirci consiste nell’abbandonare l’idea cattedratica, manageriale, unidirezionale della conoscenza e nell’abbracciare una visione cooperativa del sapere e una procedura multi-canale per la sua trasmissione. Tutto questo comporta un effettivo potenziamento delle capacità umane. Ma le principali procedure della comunicazione digitale – per continuare il nostro esempio: fare lezione in videoconferenza – sono possibili solo sulla base di una radicale automazione della vita sociale. La macchina prende il posto dell’uomo e diventa sempre più difficile distinguere se la macchina sia una protesi dell’uomo, o se viceversa l’uomo sia una propaggine della macchina. Il senso di estraneamento che ciò comporta viene compensato negli uomini digitali da un aumento della libertà di accesso all’informazione. Riprendiamo il nostro esempio: lo studente sceglie attraverso quali canali seguire la lezione, come tenere i contatti con il docente e con il resto della classe, come studiare e personalizzare i contenuti della disciplina. Avrà anche maggiore libertà nel segnalare al docente contenuti che quest’ultimo non ha tenuto in conto e materiali didattici già disponibili on-line. Si costruisce insieme il sapere, come ogni altra attività umana. A livello culturale, il processo di digitalizzazione della vita quotidiana sta portando a compimento la valorizzazione del pluralismo – inteso come il modo della verità e non come un suo indebolimento – che era già stata avviata dalle filosofie post-moderne, trent’anni fa. Mai come oggi è vero il famoso detto di M. McLuhan: «Il medium è anche il messaggio».21 I tanti canali che percorriamo per comunicare ci fanno cogliere la verità del messaggio sotto molteplici prospettive, che ci permettono di gustarne la ricchezza, ma ci impediscono di coglierne la totalità e il senso. La verità tutta intera, nella sua evidenza inoppugnabile, è forse l’orizzonte entro il quale ci muoviamo. Nell’ambiente della vita quotidiana dobbiamo invece faticare per incollare frammenti, costruire mosaici, accettare che non

  M. McLuhan – Q. Fiore, Il medium è il massaggio [sic!], Corraini, Mantova 2011.

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è possibile entrare in modo approfondito entro molti campi di sapere che pure ci incuriosiscono e ci interpellano. Mentre continuiamo a percorrere la strada dell’iperspecialismo scientifico, si offrono anche nuove opportunità di intrecciare tra loro saperi tradizionalmente lontani e di costruire una sapienza che si sforzi di occuparsi dell’umano a 360 gradi. Lei mi chiede che antropologia sta nascendo. Le rispondo: un’antropologia ibrida, meticcia, che integra e mette in dialogo visioni dell’uomo molto diverse per provenienza, per capacità analitica e per funzione operativa. Grazie ai linguaggi digitali, oggi gli esseri umani hanno una comprensione di sé più ampia, anche se più indefinita rispetto a quella dell’uomo scientifico del Novecento.

2. Il

vangelo nell ’ era digitale

Tentori Nell’era digitale tutto cambia continuamente: un documento digitale è sempre work in progress. I siti web e i social sono continui rimandi a link, risposte, blog e aggiornamenti. L’era digitale favorisce il «culto» della provvisorietà, col risultato di far passare il messaggio evangelico, le certezze della fede e della morale cristiana al rango di un’opinione tra le tante. Anche il vangelo si riduce a opinione? Boschini Chi di noi viene da una formazione tradizionale ha probabilmente una concezione negativa dell’opinione: la ritiene una quasi-verità; è soggettiva, non fondata su fatti e su solidi ragionamenti. Tuttavia già in Platone l’opinione non viene accostata solo alla doxa, alla parvenza ingannevole; ma anche alla pistis, cioè alla fiducia.22 Nel medioevo cristiano questo secondo significato di opinione come fiducia viene ripreso con forza nel XIII secolo soprattutto dalla scuola di Oxford, che sulla scia della logica aristotelica considera l’opinione come il primo fondamentale gradino della conoscenza della verità: l’opinione è la comunicazione dell’esperienza diretta della realtà, che può produrre assenso in chi la ascolta. Questo tema riecheggia in piena modernità nel Saggio sull’intelletto umano di J. Locke.23 Nel mondo digitale, ogni cosa è saputa in questo modo: è attraverso le opinioni altrui che si forma la convinzione che essa sia vera, fino a prova contraria. Le opinioni non sono altro che verità, le quali aspettano di essere sottoposte al vaglio della discussione, perché solo così possono dare buona (o cattiva) prova di sé. Basterebbe pensare al fatto che oggi, prima di procedere a qualunque acquisto importante, consultiamo

  Platone, Gorgia 466a-467c.   Cf. «Introduzione», in J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, La Scuola, Brescia 2005, 61-63. 22 23

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sul web le recensioni di quel prodotto. L’opinione altrui è decisiva nei nostri comportamenti quotidiani. Lo stesso vale anche per la formazione delle nostre idee su argomenti etici e politici rilevanti. Oggi il vangelo cristiano entra nel mondo digitale con lo stesso stile con cui Paolo e i primi apostoli lo fecero entrare nel mondo pagano di allora. Nell’enciclica Redemptoris missio (1990) Giovanni Paolo II utilizza l’immagine lucana dell’Areopago. In quella ex corte d’assise declassata a commissione di vigilanza, Paolo fu invitato a presentare la sua opinione sul divino e affrontò con vigore e competenza un dibattito tutt’altro che facile. Non importa come, lì per lì, andò a finire la vicenda. Importa che l’opinione dell’apostolo riuscì anche solo per pochi momenti a incantare i suoi interlocutori e che Paolo poté annunciare il paradosso cristiano, che coniuga insieme la familiarità del divino con l’umano e la differenza assoluta della risurrezione di Cristo. Navigando nel web s’incontrano molti siti e blog cristiani, che proprio in internet – l’ambiente pluralistico per antonomasia – usano il linguaggio della contrapposizione frontale e lo stile del duello. Secondo questi fondamentalisti cristiani travestiti da internauti, non c’è altro modo per evitare che il vangelo sia svilito e ridotto a una delle tante opinioni presenti nell’odierna società pluralista. Tuttavia, leggendo At 17 si vede che Paolo non andò in rotta di collisione con i magistrati e i filosofi dell’Areopago, ma si sforzò di fare proprie le loro convinzioni, facendo cominciare sempre le sue argomentazioni dai poeti e scrittori dell’antica Grecia. La società digitale mette seriamente alla prova (e talvolta anche alla berlina) la capacità di dialogo dei cristiani, mancando la quale è inevitabile fare a sportellate con chi non la pensa allo stesso modo. Così la comunicazione digitale offre ai cristiani una grande opportunità, che invece è preclusa nella società dei linguaggi analogici: quella di superare i recinti di cui oggi si sono circondate le comunità religiose. Infatti, in una società fortemente individualista e anonima come la nostra si finisce per parlare quasi sempre e solo ai «nostri» e le occasioni di un confronto aperto e sincero con chi non è della nostra cerchia sono quanto mai rare. In internet invece queste occasioni sono molto frequenti e spesso sono anche appassionanti. Tentori Lo stile dei media sembra essere rivoluzionario. Ci costringe con immagini, tempi e modi ad andare al centro del messaggio, a essere coerenti con il vangelo e con noi stessi. Parlando di don Lorenzo Milani, padre Turoldo diceva che non c’è nulla di più rivoluzionario che fidarsi totalmente di Dio fino al punto di farsi obbedienti alla tradizione e lasciarsi guidare da essa fino alle origini cristiane.24 Forse questo ci spaventa. Anche i linguaggi dei media digitali ci costringono a operare una simile purificazione del messaggio cristiano? Con la loro essenzializzazione dei

 D.M. Turoldo, Il mio amico don Milani, Servitium, Sotto il Monte 1997, 39-42.

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processi comunicativi ci obbligano a un’attualizzazione del vangelo che ci fa tornare alle sue origini? Boschini In tutte le epoche della sua lunga storia il cristianesimo è stato attraversato da correnti di spiritualità e di pensiero che lottavano – tra grandi successi e dure repressioni – per un’essenzializzazione del vangelo e per un ripristino della semplicità delle origini. La lista è molto lunga, ma data la location di questa intervista ora dobbiamo ricordare almeno il monachesimo (per rispetto a Dossetti), gli ordini mendicanti (in segno di amicizia per i nostri colleghi francescani e domenicani) e più vicino a noi il rinnovamento del metodo biblico e il ressourcement teo­logico e liturgico, che ha preparato e illuminato il Vaticano II. Prendo in prestito le parole di von Harnack, dicendo che le grandi rivoluzioni del cristianesimo sono consistite in un movimento di riduzione del vangelo al suo nocciolo costitutivo.25 In tutti questi casi, penso si possa dire, in modo sintetico, che si è sempre trattato di una riformulazione dei rapporti tra teoria e pratica, tra messaggio ed etica, tra vangelo e Chiesa, per usare il famoso binomio di Loisy.26 Dire il vangelo in post da 140 caratteri è una bella sfida, ma oggi è una partita che i cristiani rischiano seriamente di perdere. C’è una differenza sostanziale tra l’annuncio kerygmatico dei primi missionari cristiani e un tweet che abbia per oggetto una parola del vangelo o un insegnamento del catechismo cattolico. Non è solo la differenza tra dire qualcosa offline e on-line. La comunicazione del vangelo crea empatia. Quella digitale non la esige, né la presuppone: semplicemente, si comporta etsi daretur, come se l’empatia ci fosse davvero. Un tweet non è il segno dell’efficacia digitale del vangelo, né della capacità del cristianesimo di inculturarsi nei linguaggi degli internauti. Può essere un possibile inizio, o l’accessorio tecnologico del processo di comunicazione del vangelo. Un processo da sempre molto complesso. E oggi è reso ancor più complicato dal fatto che l’essenzializzazione prodotta dalla perenne autoriforma dei cristianesimi e delle Chiese concepisce l’accadere storico come un ritorno ciclico alle origini, mosso dal perenne bisogno della fede cristiana di ritrovare la propria identità, sbiaditasi nella finitudine delle cose umane. Invece l’essenzializzazione del linguaggio nella comunicazione digitale risponde a un bisogno di futuro che non ha interlocutori definiti, ma che è come una rete a strascico gettata nel mare. Aspetta con fiducia una risposta e per questo non deve passare inosservato, ma incuriosire. Il vangelo crea un legame affettivo, una coappartenenza esistenziale. Il tweet propone un link informativo, una condivisione sensoriale e intellettiva.

 A. von Harnack, L’essenza del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1980, 259-260.  A. Loisy, Il vangelo e la Chiesa, Ubaldini, Roma 1975.

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È evidente che non si tratta di dimensioni inconciliabili. Ma è altrettanto indubbio che comunicazione del vangelo e linguaggio digitale possono incontrarsi, ma solo a condizione che il cristianesimo e le sue teo­ logie si pongano la domanda sul senso dell’umanesimo digitale: interpretando i processi tecnologici in chiave relazionale e personalista. Questa è l’essenzializzazione nel senso più originario della parola. Tentori D’accordo: il processo comunicativo non è semplicemente un passaggio di informazioni, ma è un gioco relazionale tra architetture di senso che definiscono i soggetti stessi coinvolti. Potremmo dire che lo stile comunicativo della Chiesa cattolica offre indicatori precisi, pur certo non esaustivi, dell’identità della stessa Chiesa oggi. A seconda dello stile che usiamo per comunicare, disegniamo quale idea di Chiesa vogliamo comunicare e siamo… Boschini È un’antica discussione: lo stile in cui la Chiesa comunica il vangelo dipende dall’identità della Chiesa, oppure l’identità della Chiesa si modifica a seconda del suo stile evangelizzatore? La risposta non spetta a me, ma ai teo­logi e ai loro interessantissimi e sottili dibattiti. Mi limito a dire un’ovvietà: oggi anche la Chiesa vive dentro al mondo digitale e ne assimila la logica profonda. Il mondo digitale è fatto di interazioni, di connessioni e di soglie. La Chiesa viene definita da questo contesto come una comunità che attraversa e che viene attraversata da un flusso inesauribile di messaggi, immagini e altre informazioni: come una casa con le porte sempre aperte, accogliente e disposta all’incontro con chiunque. Carlo M. Martini – ben prima dell’avvento della comunicazione digitale – aveva sostenuto questa tesi: una Chiesa che comunica il vangelo è una Chiesa delle relazioni e del libero scambio delle opinioni. Al suo interno il vangelo produce tra i fedeli un dialogo teso al discernimento dei segni dei tempi. E da ciò si sviluppa tra i cristiani un consenso sulle attualizzazioni del vangelo e sulle evidenze etiche di cui si sostanzia l’umano. Questo consenso si trasfonde alla società di cui la Chiesa è parte: sia attraverso i canali della quotidiana comunicazione interpersonale, sia attraverso i mass-media, all’interno dei quali la comunicazione dei cristiani sarà sempre tesa a produrre ulteriore consenso.27 Tentori 11 settembre 2001 è un film del 2002, una coproduzione internazionale composta da undici episodi. Ogni cortometraggio – della durata simboli-

27   C.M. Martini, Il lembo del mantello. Per un incontro tra Chiesa e mass media, Centro ambrosiano di documentazione e studi religiosi, Milano 1991.

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ca di 11 minuti, 9 secondi e un fotogramma – è stato affidato ad altrettanti registi di fama internazionale provenienti da undici Paesi (e culture) differenti. Ogni regista ha girato un cortometraggio che ricordasse gli eventi dell’11 settembre 2001, operando all’insaputa degli altri cineasti coinvolti nel progetto. Il cortometraggio di Sean Penn intitolato La luce presenta un anziano che vive solo in un appartamento attiguo alle Torri Gemelle. Uno dei due grattacieli con la sua ombra non permette alla luce del sole di entrare nella casa. L’uomo, rimasto vedovo, sfoga la sua solitudine parlando con la defunta moglie come se fosse ancora in vita e coltivando testardamente i suoi fiori, appassiti per la mancanza di luce. Il regista segue l’anziano signore, dal risveglio, alla spesa, alle pulizie, fino al riposo di nuovo sul letto accanto ai vestiti della moglie da lui ben preparati come se fosse ancora viva. Ma è una mattina particolare. Il crollo della prima Torre permette alla luce di inondare l’appartamento e rivitalizza all’improvviso i fiori. L’anziano, felice per l’accaduto, mostra il vaso alla moglie, ma la luce «svela» l’illusione in cui aveva vissuto fino ad allora. Fra le lacrime, si accorge che la moglie è morta e che non può vedere il vaso rifiorito.28 Domanda: la fisicità del vangelo, incarnata nella materialità dei sacramenti, della Chiesa e dell’incontro con l’altro, insomma la vita cristiana reale può ancora svegliare l’uomo digitale e farlo uscire dalla sua realtà virtuale, puramente immaginata? Oppure – come si vede negli ultimi fotogrammi di questo cortometraggio – il mondo virtuale è una finestra con le tapparelle abbassate che neppure la luce del sole, che inonda quella casa dopo la caduta della seconda Torre, riuscirà a scalfire? La luce del vangelo può aprire il mondo autoreferenziale della realtà on-line? Boschini Questo racconto visuale ci offre indubbiamente una metafora suggestiva dei rapporti complessi tra la vita on-line e quella off-line. Noi cristiani non possiamo chiamarci fuori da questa tensione, come se la nostra fede ci avesse una volta per tutte riconciliati con la radicale duplicità del mondo. Questa tensione tra le differenti dimensioni della realtà è una luce che illumina, svela l’essere delle cose e il senso degli eventi della vita e spesso demistifica il mondo, facendocelo vedere in tutta la sua cruda concretezza. Il digitale fa parte a pieno titolo di questa realtà contraddittoria. Lo studio scientifico delle religioni ci dice: un fascio di luce che illumina e riscalda all’improvviso, proprio mentre le forze del caos dominano e distruggono incontrastate, richiama alla mente i miti della creazione. Stiamo parlando di linguaggi digitali e comunicazione del vangelo. È giusto allora esplicitare il riferimento al racconto di crea­zione con cui si apre la Bibbia (Gen 1,1–2,4a). Il primo atto di Dio è un atto di comunicazione: «Dio disse» (Gen 1,3a). La luce è il grande simbolo cosmico di questa identità originaria tra creare e comunicare. Anche l’uomo greco

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 https://www.youtube.com/watch?v=dmSSKrSMXPg

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antico, dal quale pure discendiamo, conosce un unico verbo per indicare le azioni del comunicare, del fondare e del legare insieme: sono azioni distinte sul piano ontico, ma identiche su quello ontologico. Nel cortometraggio di Penn l’avvento della luce sposta la linea d’ombra: comunicare cambia il punto di separazione tra la luce e la tenebra, unendo ciò che prima era diviso. Anche nel mondo digitale i confini non sono più fissi e immutabili; e le polarizzazioni non sono così nette: sono una linea d’ombra, che spesso si sposta all’improvviso; a differenza del mondo analogico e gutenberghiano, in cui i cambiamenti sono molto più lenti e faticosi, ma anche più definiti e chiari: scripta manent. Aggiungo un’altra considerazione sulla questione «digitale e vangelo», suggeritami dal cortometraggio di Penn. La luce è anche ombra. Il sole rischiara un’assenza: la moglie che non c’è più. Per quasi tre millenni l’uomo occidentale si è rappresentato la realtà come un trionfo del dualismo, di cui quello tra materia e spirito è sicuramente la versione più radicale e consueta. Il cristianesimo non è stato esente dal condizionamento di questo dualismo. Ma ci sono aspetti fondamentali del suo messaggio – la fisicità trasfigurata del corpo risorto di Cristo – che propongono un superamento del dualismo antropologico tra corpo e anima. Questo mi sembra un punto di convergenza importante tra l’umanesimo digitale e l’umanesimo cristiano. Senza rubare il mestiere a biblisti e teo­ logi, l’incontro tra la corporeità degli uomini storici e il Cristo risorto è reso possibile da un evento comunicativo: il vangelo delle donne, quello dei discepoli di Emmaus; anche le apparizioni del Risorto sono raccontate come eventi comunicativi. Nella comunicazione si dischiude la corporeità dell’altro, perché la sua immagine e la sua persona non sono separabili. Anche nella genesi dell’esperienza cristiana non si può separare l’apparire dal comunicare. La presenza è il messaggio. Ho fatto solo un esempio, perché mi muovo in un campo apertissimo, in cui le sinergie con le scienze teo­logiche sono solo agli inizi. Colgo l’occasione per fare un appello ai biblisti e ai teo­logi presenti per creare situazioni in cui studiare insieme confrontando i processi comunicativi digitali con le dinamiche dell’evangelizzazione. Tentori Ora invertiamo le parti. La realtà digitale irrompe a smascherare le illusioni ecclesiali e a distruggere i sogni a occhi aperti che spesso ci costruiamo. Penso alle tante notizie che, senza chiederci il permesso, entrano nelle nostre case e nelle nostre comunità religiose. La comunicazione digitale è davvero così potente da spezzare il cerchio dell’autoreferenzialità, che oggi sempre più spesso affligge anche la Chiesa e i cristiani? Boschini Sicuramente sì, lo può. Ma non nel modo che dice lei. Infatti, la vita del mondo irrompe nelle nostre case e invade di immagini i nostri sentimenti e i nostri pensieri. Ma questo non diminuisce l’autoreferenzialità, anzi ri-

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schia di aumentarla. Prima di tutto, perché si diventa presto immuni dallo choc provocato dal vedere le disgrazie altrui. Poi, perché questa cascata di immagini non viene rielaborata a livello collettivo e finisce solo per alimentare il lago sotterraneo del nostro inconscio, dove prosperano la paura dell’altro, la vergogna della propria fragilità, le pulsioni della violenza e dell’eros. Anche nel mondo digitale per spezzare l’autoreferenzialità c’è bisogno di luoghi di ospitalità, in cui accogliere le emozioni e le storie degli altri e comprenderne le ragioni. Solo così la cascata delle immagini (e delle emozioni che esse suscitano) può alimentare il rigagnolo dell’agire condiviso: questo è l’unico modo che io conosca per cambiare il mondo in cui co-abitiamo con il resto dell’umanità. I linguaggi digitali ci possono essere di grande aiuto. Facciamo un esempio: tutti siamo stati emozionati dalla visita di papa Francesco a Lampedusa e siamo continuamente richiamati dai suoi appelli all’accoglienza di migranti e profughi. Invece di lamentarci del fatto che finora ben poche Chiese locali si sono «date una mossa», la prospettiva digitale non si accontenta di invitarci a riflettere sul perché ciò non è avvenuto, ma soprattutto mette in rete le esperienze già in corso e così ne fa scaturire delle nuove. Tentori Una domanda secca, per concludere. Il mondo digitale ci interroga. Perché vale la pena di spendersi in esso e cercare di capirlo? Boschini Perché nessuno può ragionevolmente rifiutarsi di abitare il mondo in cui vive. Ciò fa parte della nostra datità di esseri umani. Il mondo ci precede; anche le sue trasformazioni ci precedono. I processi della comunicazione digitale sono i nostri co-inquilini, che ci piaccia o no. Anche se noi abitiamo questo mondo da più tempo, essi ci vengono incontro come se essi fossero talmente indispensabili da sembrare così nuovi e insieme così originari. Tanto vale conoscerli e farseli amici: fino a che punto farci coinvolgere, o subirli? È una questione di consapevolezza e di responsabilità, come in tutte le azioni umane che si svolgono sulla scena sociale. Il paradosso di oggi è che nella società dell’informazione e della comunicazione globale si è rovesciato l’adagio baconiano: non più «sapere è potere», ma potere è sapere, perché i linguaggi digitali dilatano la forza della nostra comunicazione. Ma aumentando a dismisura le informazioni che ci scambiamo e gli interlocutori con cui abbiamo a che fare, non necessariamente cresce di pari passo l’efficacia dei processi comunicativi. L’informazione è una risorsa che più viene donata, più aumenta. E più cresce e si dilata, più diventa difficile da assimilare e da gestire. Questo è semplicemente il paradosso della gratuità: ci si abitua facilmente a essa, quando la reciprocità del dono passa in secondo piano. E ciò accade perché i messaggi che si ricevono e quelli che si producono sono mediocri, superficiali, a basso contenuto di passione e di riflessione. Se non attinge

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alla saggezza millenaria e multi-versale dell’umanità, anche l’uomo digitale istupidisce in fretta: si lascia «derubare della sua indipendenza interiore» e «trasformare in uno strumento senza volontà».29

3. Conclusione Tentori Valencia. Presso la riva dello stagno un uomo anziano con un cane forse ancora più anziano passeggiava. Lo vidi avvicinarsi al bordo dell’acqua e cavare dalla sacca delle pagnotte vecchie. Pezzo a pezzo le gettò ai pesci. Restai a guardarlo, affascinato dalla monotonia dei suoi gesti. Non durò poco. Solo alla fine della provvista capii che stavo guardando il verso del capitolo 11 di Qoelet: «Manda il tuo pane sul volto delle acque». Un uomo anziano nell’autunno del ’93, in una città spagnola eseguiva alla lettera l’invito, dando al verso il suo unico verso.30

Qoelet ci suggerisce di gettare il pane sul volto dell’acqua, se vogliamo rivederlo tornare in molti modi, molte volte, in molti giorni. La sua è una sapienza dell’eccedenza, del superamento dei confini del ragionevole e della convenienza, sociale e religiosa. Scrive in proposito l’economista Luigino Bruni in un recente commento su Avvenire: Chi ha provato a vivere la vita fino a fondo e veramente, formando una famiglia, mettendo al mondo dei figli, chi ha creato un’impresa o una comunità, o chi le ha ricevute in eredità e non le ha volute far morire, chi ha seguito sinceramente una vocazione […], sa che le cose più belle gli sono tornate quando è stato capace di andare oltre il registro del calcolo utilitaristico, quando ha abbandonato la logica dei costi-benefici e, sconvenientemente, ha fatto ciò che non doveva fare sulla base della sola prudenza e del buon senso. Abbiamo seminato nella stagione sbagliata, abbiamo iniziato navigazioni senza vento buono. Abbiamo gettato i semi anche tra le spine e i sassi, perché il raccolto del terreno buono spesso non basta.31

Non tutto ciò che abbiamo donato ci torna indietro; ma ciò che ci appare spreco e dolore può entrare in un’altra economia più grande, quella che include almeno il mare (digitale) e i suoi pesci. Boschini Qualcuno si chiederà se abbiamo scherzato. Certo che no! Siamo stati serissimi, anche nella modalità comunicativa che abbiamo usato. Abbia-

29   D. Bonhöffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, 65. 30  E. De Luca, In molti giorni lo ritroverai, Edizioni Romena, Assago (MI) 2008. 31   L. Bruni, «Editoriale», in Avvenire, 14 febbraio 2016, 3.

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mo scelto il dialogo e non il monologo. Abbiamo volutamente mescolato il linguaggio dell’immagine, regalandoci un’intervista virtuale, con il discorso razionale, riflettendo sull’umanesimo digitale. Abbiamo provato a metterci tutti in una condizione simile a quella dell’uomo digitale, che non conosce più la realtà dei fatti bruti – ammesso che sia mai esistita – ma ha familiarità con un mondo in cui i fatti e i significati sono intrecciati. Proprio come i destini degli esseri umani che grazie al web ogni giorno intrecciano i saperi e le utopie, a cui hanno legato le proprie esistenze.

Bibliografia 1. Potere

è sapere

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Immigrazione e asilo oltre gli stereotipi: i dati contro i luoghi comuni

Maurizio Ambrosini

Le migrazioni sono antiche quanto l’umanità, se è vero che tutti abbiamo origini africane. Dalla ricerca archeologica, ai poemi omerici, alle testimonianze bibliche, sappiamo che movimenti di singoli e gruppi, scambi commerciali, colonizzazioni pacifiche e invasioni cruente hanno costruito la storia delle civiltà umane. La sedentarietà faticosamente conquistata nel neolitico, con l’invenzione dell’agricoltura e la nascita delle prime forme urbane, non è mai stata assoluta. Il movimento di popolazioni, nelle sue varie forme e con diversi esiti, ha sempre accompagnato la formazione di società stabili. Oggi nuovamente le migrazioni si presentano come uno dei fattori più visibili e controversi di cambiamento delle nostre società. Negli spazi urbani, nel mercato del lavoro, nelle aule scolastiche, nelle messe domenicali, nei circuiti delle attività illegali, avvengono sostituzioni e mescolanze di vecchi e nuovi protagonisti. E i nuovi arrivati sono quasi sempre più poveri di quanti si erano già insediati in precedenza, oltre che diversi per lingua, aspetto fisico, usanze, credenze e pratiche religiose. La percezione diffusa è quella di uno sconvolgimento dell’ordine sociale. Per alcuni, è l’alba di un mondo nuovo, all’insegna del meticciato e della fratellanza universale; per i più, è l’inizio di un’invasione.1

1   Le considerazioni qui sviluppate rimandano ad altre pubblicazioni, dove sono sviluppate in modo più compiuto e a cui si rinvia per maggiori approfondimenti: M. Ambrosini, Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani, Cittadella, Assisi 2014; Id., Immigrazione irregolare e welfare invisibile, il Mulino, Bologna 2013; Id., Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna 2011; M. Ambrosini – E. Abbatecola (a

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Maurizio Ambrosini

Nel complesso però i migranti internazionali sono una piccola frazione dell’umanità: rappresentano all’incirca il 3% della popolazione mondiale: in cifre, intorno ai 235 milioni su oltre 7 miliardi di esseri umani:2 una persona ogni 33. Il 31,4% di essi risiede in Europa, che è anche però terra di origine di 59 milioni di emigranti. Ci sono peraltro Paesi al di fuori dell’area occidentale in cui i migranti rappresentano quote molto elevate dei residenti: in Qatar sono addirittura il 92,6%; in Kuwait il 75%, in Giordania circa il 50%, a Singapore quasi il 40%. In Italia i dati parlano di 5-5,5 milioni di persone straniere regolarmente presenti a fine 2015, pari all’8% circa della popolazione, oltre a una stima di 300-400.000 persone in condizione irregolare. Si tratta dunque di una quota relativamente ridotta della popolazione, ma aspetti come la concentrazione in determinate aree di destinazione, la rapidità della formazione di nuovi flussi, le modalità drammatiche di una parte degli arrivi accrescono il senso di smarrimento e di minaccia. L’innalzamento delle barriere all’entrata non ferma del tutto gli ingressi, semmai provoca la ricerca di porte alternative. Nello sforzo di sigillare i confini, alcuni anni fa nel nostro Paese è stato reso illegale non solo l’ingresso non autorizzato (già punito dalle leggi), ma anche la permanenza di chi riesce in vario modo a superare la frontiera, spesso con documenti regolari (soprattutto il visto turistico), e prolunga la sua permanenza sul territorio. Gli immigrati si trasformano così negli ancora più temuti irregolari, o peggio, clandestini, condannati a vivere per anni nella penombra dell’incertezza e della precarietà, malgrado si accollino, nella maggioranza dei casi, mansioni che contribuiscono al benessere delle società riceventi, come la cura di anziani e bambini.3 Poi, giacché è impossibile espellere centinaia di migliaia di persone, è controproducente privare del loro lavoro le società riceventi e i sistemi economici, è politicamente dannoso criminalizzare le famiglie che ne accolgono molti, si impone la necessità delle sanatorie. Così in ogni caso è avvenuto in Italia: periodicamente, dopo chiassose campagne contro i cosiddetti clandestini, la politica ha preso atto che molti di essi sono in real­ tà lavoratori dei servizi di assistenza e accudimento in ambito familiare. Detto in altri termini: i clandestini che gran parte dell’opinione pubblica vorrebbe scacciare, sono per la maggior parte lavoratori e lavoratrici che gli stessi italiani hanno accolto, assunto, protetto e a volte sfruttato. A un certo momento, si afferma l’esigenza di sanarne la situazione. In Italia sono state varate sette grandi sanatorie in 25 anni (promosse da governi di ogni colore, quelle del 2002 e del 2009 da governi di centrodestra, l’ultima del 2012 dal governo tecnico a presidenza Monti), oltre alle sanato-

cura di), Migrazioni e società, Franco Angeli, Milano 2009; rivista Mondi migranti (Franco Angeli). 2  IDOS-UNAR, Dossier statistico immigrazione 2015, IDOS, Roma 2015. 3   Ambrosini, Immigrazione irregolare e welfare invisibile.

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Immigrazione e asilo oltre gli stereotipi: i dati contro i luoghi comuni

rie implicite attuate con i decreti flussi. I lavoratori immigrati sono passati quasi sempre attraverso una fase di soggiorno irregolare, e si sono ormai abituati a metterla in conto. Il caso italiano va inquadrato nel contesto più generale dei movimenti di popolazione. Negli ultimi decenni gli spostamenti attraverso le frontiere si sono accentuati e diversificati. Nuovi Paesi sono entrati nella geografia dei luoghi di partenza e di arrivo, altri si sono contraddistinti piuttosto come spazi di transito. Diverse regioni di confine con le aree più sviluppate, come il Messico, la Russia, il Nord Africa, sono diventate ormai, nello stesso tempo, luoghi di partenza, di arrivo e di passaggio (magari dopo anni di attesa) di flussi migratori. Altre, come l’Italia e più in generale l’Europa meridionale, hanno cambiato status nella geografia mondiale della mobilità umana, passando dal rango di luoghi di origine dei flussi a quello di contesti prevalentemente di destinazione, malgrado una certa ripresa delle partenze negli ultimi anni. Presi alla sprovvista, avendo cercato per un certo periodo di non vedere quanto stava avvenendo, molti Paesi hanno faticato e ancora stentano ad assumere una consapevolezza adeguata del fenomeno. Nel caso italiano, più che in Spagna, Grecia o Portogallo, si è assistito alla formazione di un circuito di mutuo rafforzamento tra inquietudini popolari diffuse nei confronti dell’immigrazione e politicizzazione della questione, assurta al rango di tema primario nelle campagne elettorali. Soltanto nel nostro Paese, di fatto, forze politiche che inalberano l’ostilità verso gli immigrati come un vessillo hanno avuto un peso elettorale decisivo e occupato per anni posizioni di rilievo nella compagine governativa.

1. Chi

sono gli immigrati ?

Nell’approfondire la questione, un primo nodo problematico scaturisce dal fatto che non è semplice definire chi siano gli immigrati, o meglio quali fra gli stranieri residenti debbano essere classificati come tali. L’immigrazione è sempre una questione di definizione dei confini tra «noi», la comunità nazionale insediata su un territorio ben demarcato, i «nostri amici», ossia gli stranieri che accogliamo con favore come residenti ed eventualmente come futuri concittadini, e «gli altri», gli estranei propriamente detti, che siamo disposti ad ammettere provvisoriamente, per esempio come turisti, ma che in linea di principio non vorremmo vedere insediati stabilmente nelle nostre città, e tanto meno annoverati tra i cittadini a pieno titolo. Il potere di definire e classificare, detenuto da chi è in una posizione di maggiore forza (ossia, nel nostro caso, la società ricevente), svolge dunque una funzione rilevante nel costruire la categoria sociale degli immigrati, ossia gli stranieri provenienti da Paesi più poveri, autorizzati a soggiornare in maniera provvisoria e condizionata. Questo avviene specialmente quando siamo costretti, tra molte reticenze, ad ammettere che ne abbiamo bisogno per ragioni di copertura dei fabbisogni di manodopera,

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oppure quando riconosciamo, anche in questo caso con molta riluttanza, che hanno titolo per chiedere protezione sotto la bandiera dei diritti umani di cui ci proclamiamo difensori. Tanto le norme istituzionali quanto il senso comune e il linguaggio quotidiano che adoperiamo cooperano nell’azione di delimitazione dei confini sociali che ha come oggetto gli immigrati. Cominciamo dal linguaggio. Noi definiamo come «immigrati» solo una parte degli stranieri che risiedono stabilmente e lavorano nel nostro Paese. Ne sono esentati non solo i cittadini francesi o tedeschi, ma anche giapponesi e coreani, anche allorquando ricadono nella definizione convenzionale di immigrato adottata dall’ONU: «Una persona che si è spostata in un Paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel Paese da più di un anno». Lo stesso vale per il termine extracomunitari, un concetto giuridico (non appartenenti all’Unione Europea), diventato invece sinonimo di «immigrati», con conseguenze paradossali: non si applica agli americani, ma molti continuano a usarlo per i romeni. Immigrati (ed extracomunitari) sono dunque ai nostri occhi soltanto gli stranieri provenienti da Paesi che classifichiamo come poveri, mai quelli originari di Paesi sviluppati. È interessante notare che alcuni di essi hanno cambiato status nel volgere degli ultimi decenni (è appunto il caso di Giappone, Corea, Taiwan), così come del resto sta avvenendo, per fortuna, per gli emigranti italiani all’estero. Hanno perso l’ingombrante etichetta di immigrati, entrando in quella dei «nostri amici» sempre ben accetti. Di conseguenza, il confine mentale che separa immigrati e stranieri graditi è in realtà mobile ed entro certi limiti poroso. Si può prevedere che tra venti o trent’anni cinesi, indiani e brasiliani non saranno più considerati immigrati. Un potente fattore di ridefinizione dello status dei cittadini esterni è rappresentato dai progressivi allargamenti dell’Unione Europea. Non tanto perché ipso facto la nuova condizione giuridica cambi la percezione sociale dei cittadini dei Paesi neo-comunitari (basti pensare ai romeni), ma piuttosto perché lo sviluppo economico favorito dall’ingresso nel­ l’Unione e dalle politiche comunitarie sta avvicinando progressivamente le condizioni di vita di questi Paesi a quelle dei partner europei. Così è avvenuto del resto, in tempi abbastanza rapidi, per Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda. Un altro aspetto su cui vale la pena di soffermare l’attenzione riguarda la condizione singolare dei cittadini di Paesi di per sé classificabili come luoghi di emigrazione, ma individualmente riscattati dall’eccellenza nello sport, nella musica, nell’arte, o quanto meno negli affari. Neanche ad essi si applica l’etichetta di «immigrati». Come ha detto qualcuno, «la ricchezza sbianca». A queste percezioni sociali diffuse si può collegare la differente accettabilità degli stranieri residenti, anche da diversi anni, sotto il profilo della con-cittadinanza. Ci trasferiamo così sul piano delle norme giuridiche, che riflettono molto chiaramente le preferenze sociali. La legge italiana del ’92 che regola la materia, votata dal Parlamento in modo quasi unani-

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me, prevede che per poter chiedere di diventare italiani siano sufficienti quattro anni di residenza per gli stranieri provenienti da alcuni Paesi, quelli dell’UE, mentre ne occorrano dieci per gli altri, contro i cinque per tutti della normativa precedente. La stessa legge, prevedendo una corsia molto facilitata di recupero della cittadinanza per i discendenti degli emigranti italiani all’estero, definisce i confini della nostra «nazione» in termini sostanzialmente etnici. Giovanna Zincone ha parlato al riguardo di «familismo legale»:4 l’italianità sembra essere prima di tutto una questione di sangue, tramandato per discendenza, o una qualità che tutt’al più può essere acquisita per matrimonio, grazie al legame con un partner appartenente alla stirpe (si sarebbe tentati di dire: alla tribù) degli italiani; soltanto negli ultimi anni le naturalizzazioni per residenza hanno cominciato a superare quelle per matrimonio, per un totale di nuovi italiani che nel 2015 ha raggiunto le 136.000 unità (ISTAT), con una vistosa crescita negli anni (erano meno di 11.000 nel 2002) Per contro, tra il 1998 e il 2004 l’opportunità di recupero della cittadinanza da parte di discendenti di antichi emigrati ha prodotto silenziosamente oltre mezzo milione di nuovi cittadini, tra cui spiccano gli italiani di ritorno provenienti dall’Argentina con circa 236.000 acquisizioni e dal Brasile con 119.142. Va notato che neppure questi, qualora scelgano di venire effettivamente a vivere in Italia anziché utilizzare il passaporto italiano per cercare fortuna in Spagna, Gran Bretagna o Stati Uniti, vengono definiti come «immigrati», benché possano incontrare sul piano sociale difficoltà non molto diverse dagli stranieri classificati come tali. Per esempio, il mancato riconoscimento dei titoli di studio (a differenza di quanto avviene in Spagna) li sospinge verso le posizioni inferiori nel mercato del lavoro.

2. Lo Stato-nazione e i suoi confini

Dobbiamo ricordare a questo punto che le visioni consolidate della cittadinanza la collegano all’appartenenza nazionale, tanto che nella nostra lingua come in altre i concetti di «cittadinanza» e «nazionalità» tendono a coincidere. L’idea di «nazione» come comunità spontanea, omogenea, solidale all’interno e separata verso l’esterno è normalmente percepita come un dato naturale e indiscusso: noi ci commuoviamo se un nostro connazionale sconosciuto viene rapito all’estero, o rimane coinvolto in una calamità naturale, molto meno se la stessa sorte tocca a degli stranieri; e tanto meno ce ne interessiamo, quanto più sono considerati lon-

4  G. Zincone (a cura di), Familismo legale. Come (non) diventare italiani, Laterza, RomaBari 2006.

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tani e diversi da noi.5 Questa solidarietà «nazionale» affonda le sue radici nell’età romantica, quando è nato il concetto stesso di «nazione», vista come unità di sangue (gli antenati comuni), di territorio (definito da confini supposti come «naturali»), di lingua (nazionale, contrapposta ai «dialetti» regionali e locali) e (per molti) di religione. Ma più che un dato spontaneo, come i vari nazionalismi hanno sempre cercato di sostenere, si tratta di una costruzione socio-politica, attivamente perseguita dagli Stati-nazione moderni, che non hanno lesinato gli sforzi per realizzare una coincidenza tra popolazione residente, territorio compreso entro i confini e comunità nazionale, o più semplicemente per far coincidere le frontiere politiche con quelle culturali.6 Vari mezzi sono stati nel tempo dispiegati a questo scopo: l’educazione pubblica, la coscrizione obbligatoria, i rituali civili (bandiera, inno nazionale, altare della patria…), il culto degli eroi e delle ricorrenze solenni della storia nazionale, le squadre nazionali nelle competizioni sportive, senza dimenticare il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa e le istituzioni del welfare, che dispensano provvidenze sociali sulla base appunto dell’appartenenza alla comunità nazionale. L’adozione, eventualmente l’invenzione, e la standardizzazione di una lingua nazionale, possibilmente diversa da quella delle altre nazioni, insegnata nelle scuole pubbliche controllate dallo Stato, sono state uno degli strumenti più influenti per la costruzione di comunità nazionali dotate di un certo grado di omogeneità interna e separate dalle altre. Una vecchia battuta che circola tra i linguisti, quando si vuole spiegare la differenza tra lingue e dialetti, afferma che una lingua è «un dialetto con un esercito», ossia una costruzione politica, attuata dagli Stati grazie al potere coercitivo di cui dispongono, rispetto alla fluidità delle parlate dialettali. In epoca recente, radio e televisione hanno fornito un contributo decisivo all’unificazione linguistica di nazioni come la nostra, in cui i dialetti (o lingue regionali?) hanno conservato a lungo, e talora conservano, una grande vitalità. Si può aggiungere che, fino alla fine del XIX secolo, era più facile entrare in un altro Paese che uscire dal proprio, e concetti come quelli di passaporto, visto d’ingresso, polizia di frontiera sono tipici prodotti della modernità. Si sono imposti di fatto soltanto con la prima guerra mondiale. Lo stesso concetto di Stato-nazione combina la concezione razionale e fredda dello Stato moderno con l’idea romantica di nazione, calda, suggestiva, carica di componenti emotive. A loro volta le nazioni si sono formate trascendendo i confini di unità sociali più ristrette, locali, regionali, linguistiche: «La nazione è quindi sia postetnica, in quanto nega la salienza delle vecchie distinzioni etniche e le considera come appartenenti a un oscuro e remoto passato prestatuale, sia superetnica, in quan-

5   Basti pensare ai titoli di giornali e telegiornali: quando accade una disgrazia in Paesi lontani, subito ci informano se vi sono italiani coinvolti. 6   Ambrosini, Non passa lo straniero?

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to delinea la nazione come una specie di etnia nuova e più grande».7 Per questa ragione, gli Stati-nazione moderni non sono affatto religiosamente neutrali come pretendono di essere, ma cercano di suscitare sentimenti comunitari di tipo para-religioso, forgiando una sorta di mistica patriottica, attraverso i rituali e le celebrazioni che abbiamo ricordato. L’idea ottocentesca di «religione civile», tornata in auge negli ultimi anni, allude a questa pretesa delle ideologie nazionali di spingere i cittadini al culto di un complesso di valori che hanno al centro il destino della patria. L’invenzione della nazione, con i suoi corollari di eguaglianza e fratellanza fra i membri (notiamo di nuovo l’impiego di termini tipici delle comunità religiose), riporta a un livello più ampio l’idea di una demarcazione tra «noi», internamente omogenei perché unificati dal sentimento nazionale e dalle istituzioni statuali, e gli «altri», i diversi, perché non membri della nostra compagine nazionale. In questo senso, le nazioni possono beneficiare del senso ancestrale, profondo quanto irriflesso, di solidarietà tra i membri del gruppo, che ha come contrappeso la diffidenza verso gli estranei. Non si comprenderebbe la fortuna dell’idea di nazione, giunta a essere considerata un dato naturale e indiscusso, senza questo retroterra antropologico, rielaborato, ampliato e codificato nella forma dei confini nazionali. La modernità, attraverso l’istituzione di frontiere, cittadinanze e complessi apparati statali, è intimamente legata a questi processi: è stata costruita sull’espulsione o sull’assimilazione, sia fisica sia simbolica, dell’altro, nel nome della purezza religiosa, etnica, culturale e scientifica. Un numero della rivista Mondi migranti su «le migrazioni nel Mediterraneo» restituisce il senso di uno spazio marittimo che nel passato ha unito popoli diversi e prodotto processi di scambio e sincretismo tra mondi culturali ricchi di peculiarità, e anche oggi, malgrado la modernizzazione, contribuisce a generare e rivitalizzare le dinamiche socio-culturali legate alle migrazioni.8 Nello stesso tempo però l’irrigidimento delle frontiere e dei controlli tende a separare e contrapporre territori che un tempo, tra conflitti e commerci, trovavano motivi per percepirsi come facenti parte di uno spazio condiviso. Da tutto ciò discende la conseguenza che più ci interessa: se gli estranei che attraversano i confini sono percepiti come poveri che pretendono di stabilirsi sul nostro territorio, sulla terra di quella grande tribù che è la nazione, scatta la paura antica dell’invasione e del saccheggio.9 Questa

 G. Baumann, L’enigma multiculturale. Stati, etnie, religioni, il Mulino, Bologna 2003,

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39.   Mondi migranti (2008)2.   Per questa ragione, a mio avviso, i reati degli stranieri hanno un’eco molto più ampia e suscitano reazioni più dure di quelli analoghi perpetrati da italiani. Attribuire la responsabilità di questa risonanza ai mass media mi pare semplicistico. In realtà, si mette in moto un circuito, per cui i produttori di informazione sanno in anticipo che il delitto di un immigrato è altamente notiziabile, come si dice in gergo, e farà vendere di più se verrà sbattuto in prima pagina con adeguata enfasi. Le attese e le emozioni dell’opinione pubblica dunque 8 9

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paura trova un’espressione paradigmatica nella diffidenza, peraltro reciproca, tra popolazioni sedentarie e popolazioni nomadi o presunte tali, con il suo contorno di radicati pregiudizi, leggende nere ed espulsioni violente. Si può dunque intuire perché il presidio delle frontiere e dell’accesso al territorio sia investito di tanta risonanza, al punto da essere spesso considerato un banco di prova dell’efficienza e della serietà delle istituzioni dello Stato: uno dei principali simboli della sovranità degli Stati nazionali è il controllo dei confini, ben delimitati dai trattati internazionali e sorvegliati dalle forze preposte alla salvaguardia della sicurezza del territorio e dei suoi abitanti. La regolazione dell’ammissione degli stranieri entro i confini è pertanto uno dei compiti che gli Stati perseguono con maggiore impegno e con l’ausilio di tecniche sempre più sofisticate. La stessa perdita di capacità di governare processi economici e produttivi che trascendono le frontiere conduce a investire risorse simboliche e materiali sul controllo della mobilità umana (dai Paesi classificati come poveri), al fine di recuperare legittimità agli occhi dei cittadini-elettori. Potremmo dire: mentre l’economia si globalizza, la politica tende a rinazionalizzarsi. Non per nulla, ritornano i muri, anche in Europa: una tecnica antichissima per separare noi e gli altri, i civilizzati dai barbari che premono ai confini. Si stima che nel mondo ne siano stati eretti o ne siano in costruzione circa 200. L’immigrazione, dunque, non è solo una questione di movimenti di popolazione. È una vicenda ben più complessa, in cui intervengono gli Stati riceventi, con le loro politiche di categorizzazione degli stranieri più o meno graditi e di controllo dei confini, le reazioni delle società nei confronti dei nuovi arrivati, i Paesi d’origine con la loro reputazione più o meno positiva, e naturalmente i migranti stessi, impegnati nella ricerca di smagliature e interstizi che consentano l’accesso ai territori in cui sperano di trovare miglior fortuna che in patria. Va ribadito che non esistono Stati nazionali, per quanto democratici, che non presidino le frontiere e non controllino gli ingressi sul territorio nazionale, con le conseguenze relative: richiesta di passaporti e permessi di soggiorno, complessi regimi di regolamentazione dell’immigrazione, procedure di trattenimento ed espulsione degli stranieri indesiderati, anche se di fatto applicate solo a una parte dei casi potenzialmente pertinenti. Il problema consiste nel trovare un equilibrio tra la sorveglianza dell’accesso al territorio nazionale, gli interessi che dall’interno dei confini premono per l’apertura, il pacchetto di diritti umani che dei Paesi democratici, firmatari di solenni convenzioni internazionali, devono comunque garantire a richiedenti asilo, rifugiati, stranieri residenti anche temporaneamente, compresi coloro che si trovano sprovvisti di regolari autorizzazioni al soggiorno.

precondizionano l’operato dei media, che a loro volta confermano e amplificano paure e pregiudizi socialmente diffusi.

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Proprio in funzione del contrasto tra crescente domanda di mobilità e crescente restrizione degli ingressi, si è formata un’economia della frontiera e degli attraversamenti non autorizzati, che offre vari tipi di servizi a quanti desiderano passare dalla sponda «povera» alla sponda «ricca» della geografia di un mondo drammaticamente sperequato. Fabbricazione di documenti falsi, rischiosi passaggi marittimi e terrestri, matrimoni combinati, ma anche consulenza giuridica per il recupero della cittadinanza, per l’ottenimento di un qualche tipo di visto (in primo luogo, turistico), o per l’individuazione di qualche spiraglio semi-legale per l’ingresso, sono alcune delle attività offerte ai richiedenti. La frontiera per alcuni è diventata una risorsa, non più per il vecchio contrabbando di merci ma per il più moderno transito di esseri umani. Il viaggio, a sua volta, sta ridiventando per un numero crescente di migranti un’esperienza rischiosa, travagliata, che può durare mesi o addirittura anni, ricorrendo a mezzi di fortuna,10 a espedienti di ogni sorta, ai servizi di passatori più o meno professionali, a soste prolungate in zone di transito per procurarsi le risorse necessarie per la tappa successiva. L’innalzamento della rigidità dei controlli ha poi un effetto facilmente prevedibile: provoca un accrescimento della sofisticazione e del livello di organizzazione criminale dell’industria dell’attraversamento delle frontiere. Il fatto più grave, in questa spirale, è l’asservimento in varie forme di prestazioni forzate di coloro che non possono pagare il servizio. Favoreggiamento dell’immigrazione non autorizzata e traffico di esseri umani sono fenomeni diversi, ma di fatto possono intrecciarsi. La costruzione sociale e politica della figura dell’immigrato ha poi conseguenze importanti sotto il profilo delle rilevazioni statistiche, che sono tutt’altro che operazioni obiettive e neutrali. Abbiamo già ricordato il caso dei discendenti di antichi emigranti, che in Italia come in Germania e in vari altri Paesi non sono annoverati tra gli immigrati; oppure quello dei coniugi che acquistano la cittadinanza per matrimonio. Un altro caso che influisce molto sulla raccolta dei dati è quello delle seconde generazioni, compresi i nati sul territorio nazionale da genitori immigrati (le seconde generazioni in senso stretto): stranieri in Italia, cittadini per diritto di suolo negli Stati Uniti o in Canada, quasi altrettanto automaticamente in Francia, in una situazione intermedia in Germania, e si potrebbe continuare. Un luogo comune molto popolare, e sovente ripreso nel discorso politico, tende a individuare delle soglie quantitative, oltre le quali l’immigrazione diventerebbe, come si dice, «ingestibile». Sarebbe quindi «ragionevole» porre dei limiti all’accoglienza, per il bene degli immigrati stessi. Le evidenze statistiche, pur con i limiti già rilevati, non confermano questi assunti: oltre ai casi dei Paesi extraoccidentali segnalati in precedenza, si osservano grandi differenze tra le regioni del mondo: gli immigrati

10   Compresi gli attraversamenti a piedi di zone desertiche, come al confine tra Messico e Stati Uniti, o in alcune zone del Sahara.

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rappresentano il 10,0% della popolazione nell’Unione Europea, il 15,1% nell’America settentrionale, il 20,9% in Oceania. Ai primi posti in classifica compaiono Paesi vasti, ma anche Paesi piccoli, Paesi con bassa densità di popolazione, ma anche Paesi con densità elevata. I limiti all’accoglienza non sono mai meramente demografici, ma vanno ricercati nelle visioni, nei fabbisogni, nelle politiche adottate dagli Stati riceventi. Vanno poi ricordati i processi di naturalizzazione,11 che trasformano gli stranieri lungoresidenti in cittadini. In questo caso, gli Stati nazionali, prendendo atto dell’irreversibilità dell’insediamento di un certo numero di stranieri, preferiscono includerli a pieno titolo nella comunità dei cittadini, anziché lasciarli indefinitamente ai margini del corpo sociale. Si rischia altrimenti di cristallizzare uno squilibrio che ricorda quello dell’antica Atene: una democrazia in cui solo gli autoctoni godono della piena cittadinanza e dei diritti politici, mentre i meteci, ossia i lavoratori stranieri residenti, non possono partecipare alle decisioni, che pure li riguardano.12 In Italia ho già ricordato le rigidità normative, che fanno del nostro Paese uno dei più chiusi del mondo occidentale all’acquisto della cittadinanza per scelta (e non per discendenza o per matrimonio). Altrove invece le cose vanno diversamente: in Australia possono bastare due anni, in Canada tre, negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna cinque. Di fatto ogni anno nel mondo centinaia di migliaia di immigrati scompaiono dalle statistiche perché sono riusciti a trasferirsi nella più confortevole categoria dei cittadini: 700.000 all’anno negli Stati Uniti, oltre 200.000 nel Regno Unito. Se per esempio la Francia o la Gran Bretagna ufficialmente ospitano meno immigrati della Germania, questo dipende in realtà dalle maggiori opportunità di naturalizzazione. Se l’Italia a sua volta ha una popolazione immigrata di poco inferiore a questi Paesi, è sempre per effetto delle minori opportunità di naturalizzazione.

3. Migranti

diversi : una crescente eterogeneità

Da quanto ho cercato di illustrare, si può già intuire che il panorama delle migrazioni contemporanee è alquanto eterogeneo e differenziato. Senza addentrarmi in una classificazione analitica, mi limito a ricordare che i migranti non sono soltanto persone alla ricerca di modesti lavori manuali per sopravvivere. Nel mondo sviluppato una categoria di crescente importanza è quella dei migranti qualificati, ossia in possesso di competenze intellettuali, professionali, imprenditoriali, che sono oggi

11   Si noti ancora una volta come il linguaggio riveli le concezioni sottostanti: si parla di «naturalizzazione» per indicare l’acquisizione della cittadinanza di un determinato Stato, come se l’appartenenza nazionale fosse un dato di natura. 12  M. Walzer, Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 1987.

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oggetto di specifiche politiche di reclutamento all’estero, ovvero di una sorta di «caccia ai cervelli». Le professioni scientifico-tecnologiche e quelle sanitarie sono le aree di maggior rilievo in questa ricerca dei talenti su scala globale. Non va dimenticato tuttavia che quelli che per i Paesi riceventi sono una risorsa preziosa, per i Paesi d’origine rappresentano un’emorragia di intelligenze, un «drenaggio di cervelli» (brain drain). I sistemi sanitari di diverse aree geografiche, in Africa e nel Centro America, risentono dell’esodo di medici, infermieri e tecnici verso lidi più promettenti. In alcuni casi, come quello dell’India, si assiste invece in una certa misura a un ritorno di cervelli che danno vita a nuove attività economiche (il caso tipico è quello dell’informatica), grazie ai contatti e alle reti fiduciarie costruite all’estero. Ho già ricordato il caso delle seconde generazioni. Aggiungo soltanto che i ricongiungimenti familiari sono oggi nell’area OCSE la fonte principale dell’immigrazione regolare, con punte particolarmente elevate negli Stati Uniti (70% degli ingressi) e in Francia (60%) (dati OCSE). I Paesi che importano manodopera si trovano presto o tardi di fronte a un dilemma: o negano il diritto dei migranti a formare una famiglia, o a riunificarla e a vivere con i propri cari, oppure devono accettare che l’immigrazione per lavoro, di adulti soli, si trasformi in immigrazione familiare, sganciandosi da uno stretto legame con i fabbisogni del mercato. Sebbene non manchino casi che si attestano sul primo corno del dilemma (come i Paesi del Golfo Persico), gli Stati occidentali a ordinamento liberale si collocano in varie posizioni intermedie tra i due estremi, riluttanti a una piena liberalizzazione ma vincolati al riconoscimento di diritti fondamentali, come quello alla coesione familiare, anche per effetto dell’azione delle Corti di giustizia e delle organizzazioni che difendono i diritti umani, Chiese comprese. Un altro elemento di differenziazione si riferisce al genere. Vari studi hanno colto nella femminilizzazione dei flussi migratori uno dei tratti innovativi delle migrazioni contemporanee, ma questa posizione è stata vivacemente contestata da varie studiose di orientamento femminista, che hanno ricordato come anche nel passato le donne emigrassero, spesso da sole e per ragioni di lavoro. La grande migrazione irlandese verso l’America è stata nelle prime fasi soprattutto femminile, e le donne hanno aperto la strada ai parenti giunti al loro seguito. Si può forse osservare che l’idea di processi migratori a guida maschile, in cui le donne arrivano in un secondo momento come mogli al seguito, è stata tipica soprattutto di una fase della storia delle migrazioni: quella delle migrazioni intraeuropee del dopoguerra. Oggi, in ogni caso, all’incirca la metà dei migranti sono donne (nell’area OCSE, in realtà un po’ più del 50%), spesso primomigranti e lavoratrici. Tolta l’Africa, le donne sarebbero in netta maggioranza. In parecchi Paesi d’origine le donne rappresentano la maggioranza dei partenti, a volte una maggioranza molto netta. La femminilizzazione delle migrazioni ha a che fare con la domanda di lavoro di cura da parte delle società più sviluppate, e in primo luogo delle famiglie. Giacché molte donne migranti sono a loro volta madri, si assiste

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allo sviluppo di un altro fenomeno: quello delle «famiglie transnazionali», separate da confini e distanze, ma tenacemente impegnate nel mantenere vivi vincoli affettivi e responsabilità genitoriali. Telefonate, rimesse e doni sono i principali mezzi per esprimere sollecitudine e affetto nei confronti dei figli rimasti in patria, ma ora anche le nuove tecnologie della comunicazione si stanno affacciando nel mondo delle famiglie migranti: da Skype ai social networks, anche i migranti stanno sviluppando la capacità di connettersi con luoghi lontani. Nascono persino attività economiche dedicate, dai phone centers ai servizi di money transfer, ai corrieri che collegano ormai regolarmente le nostre città con remote destinazioni nei territori dell’Europa orientale. Le migrazioni femminili sono per molte protagoniste un veicolo di emancipazione, ma al tempo stesso una fonte di sofferenza emotiva, derivante dall’impossibilità di prendersi cura direttamente dei propri figli: il «dolore della genitorialità transnazionale». Così, accanto al fenomeno del brain drain, va annoverato anche quello del care drain, ossia il drenaggio di risorse di accudimento, che priva le famiglie di queste donne del perno dell’organizzazione delle cure domestiche. Neppure le famiglie transnazionali sono però tutte uguali, per situazioni di partenza (molte donne devono farsi carico da sole del sostentamento dei figli), lontananza, frequenza delle visite, età dei figli; così come la maternità a distanza non è un destino irrevocabile, giacché può essere seguita, sia pure con fatica e complessi problemi di riaggiustamento, dai ricongiungimenti familiari di cui abbiamo parlato in precedenza. Non vanno trascurati, per contro, i fenomeni del traffico di donne per il grande mercato della prostituzione, che hanno registrato una netta crescita, con lo sviluppo di reti transnazionali gestite dal crimine organizzato. All’emancipazione quotidiana di molte donne migranti si contrappone dunque la costrizione di altre, imposta con vari mezzi coercitivi, che possono spaziare dal debito loro imposto per l’ingresso nel mondo ricco, alle minacce nei confronti dei familiari, alla manipolazione affettiva, all’uso della violenza fisica. C’è poi un altro fattore, che differenzia le condizioni delle madri a distanza, così come degli altri migranti: lo status giuridico. Si può individuare infatti una «stratificazione civica», con la formazione di una gerarchia che vede al livello più basso gli immigrati irregolari, impossibilitati fra l’altro a uscire dall’Italia, talvolta per anni, per rivedere i familiari; poi quanti dispongono di un permesso di soggiorno limitato nel tempo e strettamente legato al lavoro, di solito in seguito a una sanatoria esplicita o mascherata; quindi i lungoresidenti con uno statuto stabile, che hanno maggiori possibilità di realizzare il ricongiungimento familiare. Decisamente più avvantaggiati risultano i migranti interni all’Unione Europea, che possono circolare liberamente e far entrare i familiari anche per brevi periodi di vacanza, oltre a poter votare a livello locale ed essere protetti dalle minacce di espulsione (applicabili soltanto in casi eccezionali). Infine, sul gradino più alto, si trovano ovviamente i cittadini a pieno titolo e quanti ottengono la naturalizzazione.

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Immigrazione e asilo oltre gli stereotipi: i dati contro i luoghi comuni

Una stratificazione parallela riguarda i richiedenti asilo, a seguito dell’accresciuta articolazione (e selettività) dei dispositivi di protezione, dai rifugiati pleno iure ai sensi della Convenzione di Ginevra, a quanti godono di una semplice protezione temporanea, revocabile in ogni momento. Se le migrazioni possono essere associate alla metafora del viaggio, va dunque precisato che si può viaggiare con vari biglietti e in condizioni molto diverse.

4. Legami

durevoli , appartenenze multiple

Sempre a partire dal caso delle madri transnazionali possiamo individuare un altro aspetto dei fenomeni migratori, che ha acquisito grande risalto nelle esperienze contemporanee: il mantenimento dei legami con chi resta e la formazione di relazioni sociali che scavalcano i confini, esercitando effetti di vario genere su entrambi i versanti del movimento migratorio. La manifestazione più tangibile della forza dei legami è rappresentata dal fenomeno delle rimesse in denaro verso i luoghi d’origine. Nel 2013, il flusso complessivo (ufficiale) delle rimesse degli emigranti verso i Paesi in via di sviluppo è stato stimato in 542 miliardi di dollari, una cifra ormai nettamente superiore a quella degli investimenti diretti esteri, senza contare le somme trasferite tramite canali informali. Per il 2015 le previsioni parlano di 628 miliardi di dollari.13 Dopo la battuta d’arresto del 2009, in corrispondenza del primo forte contraccolpo della recessione (–5,4%), le rimesse hanno ripreso a crescere, confermando la tendenziale stabilità e anticiclicità del fenomeno: anche nella crisi, le rimesse continuano a raggiungere i Paesi di origine, e quando sono calate hanno accusato perdite molto inferiori agli investimenti diretti esteri e agli investimenti finanziari. In parecchi Paesi, come Eritrea, El Salvador, Haiti, si tratta della prima o di una delle prime voci attive nella bilancia dei pagamenti, tanto da rientrare nella contabilità nazionale ed essere impiegata dai governi per negoziare con istituzioni come il Fondo monetario internazionale. Gli effetti sociali delle rimesse sono controversi. I critici osservano l’aumento dei prezzi dei beni di consumo, l’approfondimento delle disuguaglianze (tra chi può contare sui trasferimenti dall’estero e chi ne è privo), l’incentivo a nuove migrazioni, l’affermazione di modelli di sviluppo distorti, in quanto dipendenti dall’esterno e basati sui consumi. Sull’altro piatto della bilancia pesa tuttavia il miglioramento delle condizioni di vita, l’accesso ad abitazioni più confortevoli, a cure mediche, a un’educazione più qualificata per i figli. Difficilmente le famiglie dei migranti

  IDOS-UNAR, Dossier statistico immigrazione 2014, IDOS, Roma 2014.

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potrebbero farne a meno, e le rimesse diventano così un fattore saliente della sollecitudine di chi parte verso chi rimane. Da alcuni anni, poi, gli investimenti dei migranti nei luoghi d’origine vengono visti come una risorsa per lo sviluppo, anche da parte delle grandi istituzioni che finanziano la cooperazione internazionale, come la Banca mondiale e l’Unione Europea, saldandosi con la prospettiva da tempo emergente di interventi decentrati, partecipati e capaci di coinvolgere le comunità locali. Associazioni e iniziative economiche degli emigrati, attivazione della società civile locale, risorse tecniche e finanziarie internazionali, sono i capisaldi dell’approccio del co-sviluppo.14 Ne consegue fra l’altro che l’idea di contrastare l’immigrazione mediante aiuti economici da parte degli Stati più sviluppati dovrebbe impegnare cifre rilevantissime per sostituire l’importanza delle rimesse nella vita delle famiglie e delle comunità di provenienza. Sul piano politico, il fenomeno di maggior rilievo consiste nelle accresciute possibilità di partecipazione politica riconosciute ai migranti da parte degli Stati di provenienza. In un centinaio di Paesi questi possono oggi votare dall’estero per le elezioni della madrepatria, anche se molto più raramente eleggono propri rappresentanti in appositi collegi, come avviene nel caso italiano. La volontà di mantenere i legami con i connazionali espatriati spinge i governi a queste aperture, a cui non è certo estranea l’aspettativa di continuare a beneficiare dei flussi di rimesse e dei proventi fiscali che ne discendono. Più contrastato, specialmente nello scenario europeo, appare un altro sviluppo che sembrava destinato a imporsi a livello internazionale, quello della diffusione di cittadinanze multiple e di diritti individuali svincolati dall’appartenenza nazionale. Siamo qui nuovamente di fronte a un contrasto fra i tradizionali istituti degli Stati-nazione, di cui la cittadinanza appunto nazionale è un emblema, e la pietra d’inciampo rappresentata dalle migrazioni internazionali, fatte di insediamenti stabili sul territorio di uno Stato ma anche di legami duraturi con luoghi situati oltre i confini. Se un numero crescente di Paesi, di nuovo un centinaio circa, incluso il nostro, oggi tollera la doppia cittadinanza, non mancano i casi di ripensamento: un Paese tradizionalmente liberale come l’Olanda già nel 1997 ha abolito questa possibilità. La possibilità di mantenere la cittadinanza del Paese di provenienza accanto a quella del nuovo Paese, oltre a corrispondere ai sentimenti di molti migranti, consente ad essi di poter rientrare agevolmente nei luoghi di origine, di effettuare degli investimenti e magari di tornare definitivamente. È un tipico caso in cui il mondo diviso in Stati delimitati da confini precisi e da appartenenze univoche fatica ad adattarsi alla nuova realtà della mobilità umana.

14   Sono di questo tipo i programmi noti come 3×1, sviluppati per esempio in Messico: per la realizzazione di progetti di welfare locale, a un dollaro donato dalle associazioni degli emigrati se ne aggiunge uno investito dal governo centrale e uno del governo locale.

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Un altro complesso capitolo dei legami e delle identificazioni dei migranti concerne la sfera culturale e in special modo religiosa. Una dimensione della globalizzazione culturale, a cui le migrazioni contribuiscono, consiste nella formazione di comunità religiose che oltrepassano le frontiere, mantengono vivo il legame con i luoghi ancestrali, rielaborano pratiche organizzative e cultuali, e per certi aspetti anche assunti dottrinali, per adattarli al nuovo contesto. Le appartenenze religiose non solo collegano i correligionari nei Paesi di origine e di insediamento, ma uniscono gli aderenti a movimenti religiosi globali in tutto il mondo, indipendentemente dai luoghi in cui risiedono. I leader spirituali operano attivamente in questi processi, sia viaggiando per incontrarsi direttamente con i fedeli, sia in forme virtuali, per incitare a trasferire dottrine e valori universali nei contesti locali. Così, nuove architetture religiose creano e sono create da queste comunità spirituali transnazionali. Pellegrinaggi, visite di leader, scambi di incontri e di aiuti fra congregazioni locali contribuiscono ad alimentare i legami transnazionali, e nello stesso tempo favoriscono processi di integrazione diversi da quelli auspicati dalle classiche visioni dell’assimilazione degli immigrati, intesa come abbandono dei vecchi riferimenti culturali per abbracciare incondizionatamente quelli del Paese ricevente: pur auspicando l’inserimento nel nuovo contesto di vita, sollecitano il mantenimento di riferimenti identitari e rinsaldano i legami sociali con i connazionali e correligionari. Le funzioni della religione nell’accompagnare i percorsi dei migranti possono essere espresse con la formula delle tre R: rifugio, rispetto, risorse.15 Anzitutto, la dimensione del rifugio: le Chiese e altre organizzazioni religiose svolgono un importante ruolo nella creazione di comunità e come fonti di assistenza sociale ed economica per chi si trova nella necessità. L’idea di comunità – di valori condivisi e di un legame durevole – è spesso sufficiente a motivare le persone a fidarsi e ad aiutarsi reciprocamente, anche in assenza di prolungate relazioni personali. In secondo luogo, il rispetto: la partecipazione religiosa ha a che fare con la ricerca di riconoscimento e di un’immagine sociale positiva. Le organizzazioni comunitarie collegate alle Chiese offrono la possibilità di assumere ruoli di responsabilità e forme di riconoscimento sociale, difficilmente accessibili nella società esterna. Certamente nel caso americano, ma probabilmente anche in Europa, la partecipazione religiosa ha poi una relazione positiva con la mobilità sociale. Una volta che i migranti si sono insediati, hanno ricongiunto o formato una famiglia, hanno cominciato a consolidare le loro condizioni economiche e sociali, la frequentazione di un’istituzione religiosa diventa un simbolo di rispettabilità e un’opportunità per allacciare contatti utili ai fini di nuovi avanzamenti nella scala sociale. La partecipazione religiosa rafforza la coesione familiare, i legami interge-

15  C. Hirschman, «The Role of Religion in the Origin and Adaptation of Immigrant Groups in the United States», in International Migration Review 38(2004)3, 1206-1233.

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nerazionali, la conformità alle norme sociali: si collega, esplicitamente o implicitamente, ai tradizionali stili di vita della classe media. Al di là dei comportamenti effettivi che vedono le religioni come veicoli di legami transnazionali (pellegrinaggi, incontri con leader spirituali, invio di contributi in denaro, ecc.), l’aspetto problematico, agli occhi di molti osservatori, consiste nell’identificazione soggettiva con una comunità di fedeli che deborda dai confini e si sente legata con altri credenti dispersi nel mondo, ma soprattutto, di solito, con le istituzioni religiose dei Paesi d’origine. Molti pensano che tali processi siano di ostacolo alla piena assimilazione nelle società di accoglienza: in Europa, è questa la chiave di lettura con cui viene prevalentemente affrontato il fenomeno islamico. Anche da questo punto di vista, le migrazioni entrano in conflitto con le concezioni «nazionali» a cui siamo abituati, sia perché contraddicono l’impostazione secolarizzata (ma para-religiosa, come abbiamo visto) degli Stati moderni, sia perché introducono religioni diverse da quella incorporata come dato storico nella coscienza nazionale. Gli attacchi terroristici hanno senza dubbio alimentato queste diffidenze. Ma i sentimenti anti-islamici non sono sorti con il 2001 o dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles. L’omogeneità religiosa, insieme all’unità linguistica e alla comune discendenza, fa parte del retaggio di quasi tutte le nazioni europee, codificata da Chiese di Stato e regimi concordatari. Anche in tempi di secolarizzazione, e forse proprio perché i tradizionali punti di riferimento normativi si indeboliscono, in buona parte del­l’opinione pubblica l’insediamento di religioni «straniere» viene percepito come una minaccia per l’identità culturale nazionale. Come mostra invece l’esperienza americana, l’adesione religiosa può dar luogo a forme di integrazione selettiva, che puntano a salvare alcuni aspetti dei riferimenti cognitivi e morali tradizionali, pur favorendo l’inserimento nel nuovo contesto e la conformità alle leggi: come una lunga tradizione di ricerche conferma, la devianza è negativamente correlata con la pratica religiosa, mentre la conformità alle leggi ha un rapporto positivo con la partecipazione a comunità religiose.

5. Il

caso dei rifugiati

Il caso dei richiedenti asilo rappresenta oggi la maggiore sfida alla sovranità dei governi nazionali in materia di immigrazione: non tanto per i numeri, come vedremo, quanto piuttosto per la visibilità della popolazione in questione, per le modalità drammatiche d’ingresso, per la portata simbolica della questione. Qualche tempo fa, avevano suscitato scalpore i dati diffusi dall’Eurostat: 626.000 i richiedenti asilo nell’Unione Europea nel 2014, oltre un milione nel 2015: un record storico, sottolineavano le agenzie. L’Eurostat indicava anche una crescita molto consistente dei siriani, principali protagonisti della fuga verso l’Europa. Questi dati, estrapolati dal contesto più

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ampio e drammatico in cui si collocano, sembrano giustificare sentimenti di allarme e domande di contenimento. Altri dati, relativi a uno scenario più ampio, potrebbero ridimensionare le ansie europee. L’ultimo rapporto dell’ACNUR, pubblicato nel giugno scorso in occasione della Giornata del rifugiato, fornisce uno sguardo globale sul dramma delle popolazioni in cerca di asilo.16 Un primo aspetto riguarda il fatto che la cruenta geopolitica contemporanea sta producendo milioni di rifugiati, con un epicentro che oggi si trova in Siria (circa 4 milioni di persone coinvolte), ma arriva all’Afghanistan passando per l’Iraq e allargandosi ai conflitti africani dimenticati: i rifugiati nel 2015 hanno raggiunto i 65,3 milioni, più della popolazione italiana, e hanno raggiunto quest’anno la cifra più alta da quando l’ONU raccoglie i dati. Erano 51,2 milioni nel 2013 e 37,5 milioni dieci anni fa. L’incremento osservato in un anno è stato il maggiore da quando sono disponibili i dati sul fenomeno, e si collega con un altro dato: negli ultimi cinque anni nel mondo sono scoppiati o sono riesplosi 15 conflitti, di cui otto in Africa. Un secondo rilevante dato mostra invece che i Paesi sviluppati, e l’Unione Europea in modo particolare, tentano di svincolarsi dagli obblighi umanitari che pure dichiarano solennemente di onorare. Il numero globale dei profughi continua ad aumentare. In totale, 65,3 milioni, 34.000 al giorno, 24 al minuto. Da anni continuano a crescere: lo scorso anno erano 59,5 milioni. Oltre la metà sono minorenni, e la loro esclusione dalla scuola e da una vita sociale normale getta una luce inquietante sulle loro prospettive future. L’idea che molti rifugiati siano migranti economici travestiti trova invece una smentita. Tre Paesi da soli producono più del 50% delle persone in cerca di protezione: Siria (4,9 milioni), Afghanistan (2,7 milioni), Somalia (1,1 milioni). Tre Paesi sconvolti da guerre che si trascinano da anni. Ma anche quelli che seguono non sono Paesi tranquilli: Sud Sudan, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Birmania, Eritrea… La connessione tra migrazioni forzate e guerre è molto stretta. Sempre in direzione diversa da quella dell’asilo come canale di emigrazione alternativo va un altro dato: la maggioranza dei migranti forzati, 40,8 milioni, sono sfollati interni. Cercano scampo in altre regioni del proprio Paese, meno stravolte da guerre e persecuzioni. Il dato che più fa riflettere però è un altro: l’86% delle persone costrette a lasciare le loro case continuano a essere accolte in Paesi del cosiddetto Terzo mondo. Nell’ordine: Turchia (2,5 milioni), Pakistan (1,6 milioni), Libano (1,1 milioni), Iran (980.000), Etiopia (736.000), Giordania (664.000). Tutti Paesi confinanti con zone di guerra, Siria in testa. Altra conferma che la maggior parte dei profughi fa poca strada, e non riuscirebbe a farne di più. Quelli che riescono ad arrivare in Europa sono in real­tà socialmente selezionati, oltre che fortunati, e sono relativamente

 UNHCR, Global Trends. Forced Displacements in 2015, UNHCR, Geneva 2016.

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pochi rispetto al carico a cui devono far fronte i Paesi in prima linea. È vero che oltre un milione di profughi sono arrivati in Europa nel 2015, ma si tratta appunto di 1/60 dei migranti forzati del mondo, di 1/50 degli immigrati stranieri residenti in Europa, di 1/500 della popolazione dell’UE, e soprattutto di un afflusso molto più basso di quello che sopportano i Paesi confinanti con il teatro di guerra siriano. Questo aspetto diventa ancora più chiaro se guardiamo all’incidenza dei profughi sul numero degli abitanti. Qui risalta il caso del Libano, con 183 rifugiati ogni 1.000 abitanti (ma secondo le fonti locali, sarebbero ancora di più: molti non sono registrati, né accolti in strutture riconosciute); Giordania (87); isola di Nauru (50), che accoglie per conto dell’Australia. La Turchia è a quota 32, la Svezia a quota 17, l’Italia a quota 3, con circa 180.000 tra rifugiati e richiedenti asilo attualmente accolti. Funzionano invece poco le politiche di reinsediamento in Paesi sicuri e disposti all’accoglienza, dopo un primo asilo e una selezione nei Paesi limitrofi a quelli di origine: appena 107.000, di cui oltre 65.000 accolti in un solo Paese, gli Stati Uniti, tradizionalmente impegnati su questo fronte. Come ha osservato The Guardian, i governi si sentono pressati da opinioni pubbliche ostili e da partiti populisti che costruiscono oggi buona parte delle loro fortune sulla chiusura nei confronti di immigrati, minoranze islamiche e richiedenti asilo. La democrazia interna non sempre produce valori liberali, soprattutto nei confronti del mondo esterno. La terza faccia del problema riguarda i rapporti interni all’UE e lo scaricabarile tra i governi. Per riassumere la questione in modo schematico, l’Italia salva in mare i profughi, ma poi li lascia transitare sul suo territorio, consentendo che vadano a chiedere asilo al di là delle Alpi. Gran parte degli interessati per la verità non chiede di meglio. Paesi non affacciati sul Mediterraneo, come la Germania, hanno accolto il maggior numero dei richiedenti asilo giunti in Europa. Questa è la motivazione che invocano i governi transalpini per rifiutare di collaborare con l’Italia nei salvataggi in mare, per imporre gli hotspot e per alzare muri come quello del Brennero. Le regole di Dublino e la gelosa gestione nazionale dei temi dell’immigrazione e dell’asilo generano politiche letteralmente disumane. Oltre a incolparsi reciprocamente, i governi (spalleggiati dai media) riescono con un certo successo a ricorrere a un’altra manovra diversiva: incolpare i cosiddetti trafficanti, chiedere al fragile governo libico di bloccare le partenze, agitare la minaccia di bombardamenti, evocare lo spettro dell’ISIS come organizzatore dei viaggi della speranza e paventare persino l’impiego dei barconi per l’infiltrazione di terroristi. Per evitare rischiosi viaggi per mare e tagliare i profitti dei trasportatori, basterebbe istituire altri canali per la protezione umanitaria di chi fugge da guerre e persecuzioni: domande di asilo presso ambasciate e consolati, misure di reinsediamento dopo una prima accoglienza il più vicino possibile alle aree di crisi. Il progetto sperimentale dei corridoi umanitari, promosso dalla Federazione delle Chiese evangeliche, dalla Tavola valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio sta dimostrando che queste soluzioni alternative

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sono possibili. Se i profughi rischiano la vita in mare, è anche colpa della nostra indifferenza e della nostra paura di accoglierne troppi.

6. Oltre

le apparenze : le ragioni delle migrazioni

Dobbiamo porci, concludendo, un’ultima grande domanda: perché si emigra? Anche in questo caso, le spiegazioni di senso comune svelano soltanto una parte di questioni in realtà assai complesse. Di solito, anche da parte di chi non nutre sentimenti ostili verso gli immigrati, si riconducono le cause delle migrazioni alla povertà dei Paesi d’origine e ai grandi differenziali di reddito rispetto ai Paesi di destinazione. I demografi parlano al riguardo di fattori di spinta. Le differenze di reddito, e più precisamente le disuguaglianze sociali, hanno ovviamente un nesso con le migrazioni: le persone si spostano da Paesi relativamente poveri (o impoveriti) verso Paesi più ricchi, e raramente in senso contrario; e quando questo accade, come abbiamo notato, non le chiamiamo immigrate. Inoltre, quando un Paese perviene a un livello dignitoso di benessere, smette abbastanza rapidamente di alimentare i circuiti delle migrazioni internazionali, e comincia semmai a diventare a sua volta una meta per nuove migrazioni. Abbiamo visto però che le migrazioni interessano poco più del 3% della popolazione mondiale, mentre povertà e sottosviluppo, purtroppo, colpiscono una porzione ben più ampia dell’umanità. Tra coloro che versano nelle medesime condizioni di deprivazione, soltanto una minoranza si avventura nell’arduo cammino dell’emigrante. Non solo: se confrontiamo l’elenco dei Paesi che forniscono il maggior numero di immigrati, verso l’Italia ma anche su scala più ampia, con le graduatorie mondiali basate sull’indice dello sviluppo umano, scopriamo che i Paesi più sfortunati, come quelli dell’Africa sub-sahariana, partecipano ben poco alle migrazioni internazionali, e soprattutto inviano pochi emigranti verso l’Occidente sviluppato. Possiamo prendere il caso del più popoloso Paese africano, la Nigeria. Su 150 milioni di abitanti, gli emigranti sono relativamente pochi: i regolari ammontano allo 0,7% della popolazione (poco più di un milione), e si dirigono principalmente verso altri Paesi africani, col Sudan al primo posto (24%); gli irregolari sono stimati in circa 100.000, e si concentrano nel Nord Africa. Se anche fossero il doppio o il triplo, le proporzioni non cambierebbero. Eppure il 54% della popolazione vive in condizioni di povertà, molti addirittura di miseria, e il 47% degli abitanti è analfabeta. Nell’area OCSE, su 75 milioni di immigrati, il 40% provengono dall’America Latina, il 28% dall’Asia, il 16% dall’Europa a 15. Le migrazioni sono processi socialmente selettivi: richiedono risorse economiche per poter viaggiare, cognitive per concepire progetti di una vita migliore altrove, sociali per trovare contatti e appoggio nei luoghi di destinazione. I poverissimi dell’Africa, come è stato notato, spesso non riescono ad arri109

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vare neppure al capoluogo del loro distretto: sono vincolati ai luoghi, senza possibilità di scelta. I maggiori fornitori di migranti, per così dire, sono invece Paesi in posizione intermedia nelle graduatorie dello sviluppo: non abbastanza sviluppati da consentire a tutti di coltivare aspettative di una vita migliore in patria, non troppo poveri da rendere inaccessibili o disumani i viaggi della speranza. Per l’Italia la graduatoria vede nell’ordine Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine. Non sono Paesi ricchi, ma neppure poverissimi. Gli squilibri economici e sociali del mondo hanno quindi dei nessi con le migrazioni internazionali, ma meno diretti di quanto si creda. Gli immigrati, inoltre, non provengono generalmente dagli strati più poveri del Paese d’origine, ma semmai dalle classi medie, anche se impoverite o a rischio di impoverimento. Nel caso nigeriano, il 65% di coloro che emigrano verso Paesi occidentali dispone di una laurea, in modo particolare nel settore medico. In generale, gli emigranti sono mediamente più qualificati di coloro che non partono. Persino nelle migrazioni più rischiose, come quelle (molto minoritarie: 10-12%) che arrivano dall’Africa mediante viaggi per terra e per mare irti di pericoli, i soggetti coinvolti sono più dotati di risorse di quanti rimangono stanziali.17 Anche in questi casi, devono disporre di buona salute, efficienza fisica, capacità di lavoro. Se si trovano nella necessità di investire risparmi familiari o chiedere prestiti per poter partire, devono poter fare affidamento su una buona reputazione personale. Si possono semmai distinguere i migranti che arrivano da più lontano, i quali devono disporre di più risorse, punti di appoggio, reti di accoglienza, capacità progettuali, e migranti provenienti da Paesi più vicini, dai quali si può arrivare anche disponendo di meno risorse, reti di sostegno, capacità personali. I migranti più in difficoltà infatti appartengono soprattutto al secondo gruppo. Un secondo aspetto non trascurabile consiste nella domanda di manodopera delle economie più sviluppate. Benché oggi generalmente più opaca e meno esplicita che nel passato, spesso riferita a posizioni svantaggiate e magari irregolari (a meno che non si tratti dell’immigrazione altamente qualificata prima ricordata), questa domanda, trasmessa in molti modi fino ai luoghi di origine dei migranti, suscita aspettative e sollecita partenze. Se anche i Paesi che attualmente forniscono braccia per la nostra economia e le nostre famiglie dovessero conoscere un rapido sviluppo, tanto da uscire dal novero degli esportatori di manodopera, le migrazioni non si fermerebbero, come alcuni ingenuamente fanno mostra di credere: andremmo a cercare muratori, lavapiatti, operai, colf e assistenti domiciliari in altri territori, non ancora inseriti nelle rotte migratorie. Il punto debole delle spiegazioni basate sulla domanda è un altro: presuppone che i migranti siano docili pedine, mobilitabili in funzione degli

17  H. De Haas, The Myth of Invasion. Irregular Migration from West Africa to the Maghreb and the Union, IMI, Oxford 2007.

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interessi delle economie dominanti. I migranti non si spostano semplicemente verso i territori in cui si percepisce una domanda di lavoro, peraltro difficilmente evidente, ma seguendo logiche sociali. Anche qui, in base al solo dato della domanda non si riesce a comprendere perché alcuni partano, ma molti altri rimangano. Dobbiamo ora accennare a un altro fattore, spesso evocato nel discorso corrente: l’influenza della televisione e più in generale dei modelli di consumo diffusi dalla comunicazione mediatica su scala globale. È vero che i media propagano anche in luoghi remoti una serie di stimoli un tempo sconosciuti, che suscitano aspettative di benessere, contribuendo a preparare il terreno alla scelta di emigrare. Di fatto però, di nuovo, tra quanti sono esposti ai medesimi stimoli mediatici, soltanto una minoranza si pone effettivamente in movimento.18 Devono evidentemente intervenire altri fattori per tradurre il fascino del mondo sviluppato nella decisione di partire. Un altro elemento spesso chiamato in causa rimanda alla regolazione politica delle migrazioni, e quindi alla maggiore facilità di ingresso e di permanenza da alcuni Paesi verso altri, per via di legami storici, interessi strategici, politiche di reclutamento di manodopera, azioni di lobby e così via. Anche questa spiegazione, vagliata con attenzione, si rivela però inadeguata o almeno insufficiente: basti pensare all’ingente fenomeno dell’immigrazione irregolare. Le persone partono, cercano un varco e si insediano anche se non potrebbero, sotto il profilo normativo. A quanto sembra, la regolazione non è una causa esplicativa delle migrazioni. Attraverso le ripetute sanatorie, specialmente (ma non solo) nell’Europa meridionale, avvengono processi di segno opposto: sono i flussi migratori a piegare i dispositivi regolativi, obbligandoli a riconoscere i processi ormai avvenuti. La regolazione spiega semmai, in parte, le modalità con cui avvengono le migrazioni, l’orientamento verso destinazioni apparentemente più accessibili, la ricerca di nuovi canali (come il ricongiungimento o l’asilo) quando le migrazioni per lavoro sono bloccate. Non la scelta di partire. Se ci spostiamo dalla regolazione normativa al piano più ampio delle relazioni storiche, linguistiche e politiche tra Paesi diversi, possiamo indubbiamente scoprire relazioni significative: in Francia, Gran Bretagna, Olanda, Spagna, Portogallo, percentuali elevate di immigrati provengono dalle ex colonie d’oltremare. In parte arrivati nel passato per esplicite politiche di reclutamento, in parte per conseguenza della dismissione degli

18   Sorge poi un’altra questione, inerente al rapporto tra media (specialmente la televisione) e spettatori. Noi spesso ci lamentiamo del fatto che le televisioni, pubbliche e private, ci inondano di fatti di sangue e cattive notizie. I candidati all’emigrazione, a quanto pare, vedrebbero invece un mondo scintillante, affluente, ricco di promesse. Forse ognuno filtra i messaggi che riceve attraverso i suoi schemi cognitivi e le sue aspettative. Semplificando, vede ciò che desidera vedere. Ma questo significherebbe che le aspettative di benessere precedono l’esposizione agli influssi mediatici.

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imperi coloniali, in parte per scelte politiche che hanno inteso mantenere rapporti privilegiati con gli antichi possedimenti, gli arrivi dalle ex colonie oggi sono però generalmente scoraggiati e le norme applicate sono sempre più simili a quelle in vigore per gli altri Paesi. Restano aspetti come la comunanza linguistica, la somiglianza dei sistemi di istruzione, la presenza di imprese e istituzioni che favoriscono contatti e collaborazioni. Soprattutto, resta il portato storico delle comunità insediate a seguito delle migrazioni del passato. Il fattore che esercita la maggiore influenza è rappresentato infatti dal precedente insediamento di parenti e compaesani. Le migrazioni attraversano i confini soprattutto grazie ai ponti sociali formati dalle reti di relazioni che legano gli immigrati già stabiliti in un determinato luogo con i non migranti e i candidati all’immigrazione che si trovano ancora in patria. Attraverso questi contatti arrivano nei luoghi d’origine anzitutto informazioni e stimoli imitativi, talvolta inviti e incoraggiamenti; poi l’aiuto per una prima sistemazione, a volte i soldi per il viaggio, quasi sempre un qualche orientamento e magari un convinto appoggio per la ricerca del primo lavoro; un riferimento per muoversi nella società ricevente ed eventualmente per regolarizzare la propria posizione. Poiché i migranti non sono angeli, va aggiunto che l’aiuto non è sempre gratuito e disinteressato, ma può prevedere delle contropartite, dall’affitto di posti letto a caro prezzo, alla corresponsione di tangenti per il reperimento del lavoro, allo sfruttamento nelle attività economiche dei connazionali; ancor peggio, può anche produrre un inserimento in circuiti devianti, seguendo percorsi abbastanza simili a quelli che conducono a lavori leciti. Le reti tuttavia spiegano bene la continuazione delle migrazioni, una volta innescate, non la loro origine. Anche per questa ragione, oltre che delle reti bisogna tenere conto di varie istituzioni, formali e informali, a volte illegali (come la fabbricazione di documenti falsi, o il favoreggiamento dei passaggi di frontiera), che nei luoghi di partenza, di transito e di destinazione promuovono, accompagnano e agevolano i movimenti migratori. Non va infine trascurato il livello delle scelte individuali e familiari. Chi parte, confida di poter migliorare le proprie condizioni economiche, e forse ancor più quelle della propria famiglia. Di certo queste scelte non avvengono in contesti di completezza e trasparenza dell’informazione, che sarebbero necessarie per poter parlare di decisioni razionali. Raramente e magari solo per caso i migranti si dirigono verso i luoghi che offrono le condizioni teoricamente migliori. Conta di più poter contare su un parente affidabile in un certo Paese che sapere di poter trovare un livello più elevato di salari e di protezione sociale in un altro: le reti sociali, come abbiamo osservato, contano molto. Le scelte sono poi mediate, in molti casi, dagli interessi e dalle strategie del gruppo familiare: i genitori aiutano a partire i figli, e soprattutto le figlie, per garantirsi un aiuto nella vecchiaia. Le donne dell’Est vengono a lavorare qui per aiutare i figli a mettere su casa o a studiare all’università. A volte devono farsi carico di quattro generazioni: genitori, coniuge (quando c’è), figli e nipoti.

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Va comunque riconosciuto che mettersi in marcia richiede coraggio, a fronte delle barriere alla mobilità, dei rischi di sfruttamento, dei lunghi e tortuosi percorsi per arrivare a uno status regolare, talvolta dei pericoli per l’incolumità sulle rotte dell’ingresso non autorizzato. Nelle migrazioni, per dirla in una parola, incide più la speranza della disperazione. Riepilogando, la spiegazione delle migrazioni necessita di un approccio multicausale, con l’intreccio di una serie di fattori che possono assumere in vari periodi storici e contesti geografici un peso diverso. Pesano gli squilibri economici, come pure la circolazione di informazioni che fanno intravedere la possibilità di una vita migliore all’estero. Incide senz’altro la domanda di manodopera delle economie più prospere. Influiscono i rapporti tra i Paesi, l’eredità della storia passata, la comunanza linguistica. Svolgono un ruolo decisivo le reti e le altre istituzioni migratorie, mediando tra il generico interesse a partire e la possibilità di arrivare a una determinata destinazione. I dispositivi normativi indicano i possibili sentieri per entrare o per regolarizzare la propria posizione. Alla fine, entrano in gioco le scelte delle persone e dei gruppi familiari, che non si esercitano in un vuoto sociale, ma nell’ambito di opportunità delineate dai fattori che abbiamo descritto. I migranti sono attori sociali che, pur tra serie difficoltà e molteplici condizionamenti, assumono decisioni ed elaborano progetti. Concludendo, sappiamo ormai che governare società plurali e promuovere un grado accettabile di coesione sociale è un’impresa ardua e complessa. Rifiutare di riconoscerne la realtà, o affrontarla con gli schemi del passato, come le vecchie ideologie nazionaliste variamente riproposte, rischia però di preparare un futuro più conflittuale e denso di incognite. Non credo quindi che sia il caso di scomodare visioni umanitarie o solidariste per sollecitare una presa di coscienza compiuta della trasformazione dell’Italia in un Paese di immigrazione. Basterebbe, rifiutando di impostare la questione in termini di «bontà» facilmente derubricata come «buonismo», una considerazione minimamente avveduta e lungimirante dei nostri interessi.

Bibliografia Ambrosini M., Immigrazione irregolare e welfare invisibile, il Mulino, Bologna 2013. —, Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani, Cittadella, Assisi 2014. Baumann G., L’enigma multiculturale. Stati, etnie, religioni, il Mulino, Bologna 2003. De Haas H., The Myth of Invasion. Irregular Migration from West Africa to the Maghreb and the Union, IMI, Oxford 2007. Hirschman C., «The Role of Religion in the Origin and Adaptation of Immigrant Groups in the United States», in International Migration Review 38(2004)3, 1206-1233.

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IDOS-UNAR, Dossier statistico immigrazione 2014, IDOS, Roma 2014. —, Dossier statistico immigrazione 2015, IDOS, Roma 2015. UNHCR, World at War. UNHCR Global Trends: Forced Displacements in 2014, UNHCR, Geneva 2015. —, Global Trends. Forced Displacements in 2015, UNHCR, Geneva 2016. Walzer M., Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 1987. Zincone G. (a cura di), Familismo legale. Come (non) diventare italiani, Laterza, Roma-Bari 2006.

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Parte seconda Il messaggio e lo stile

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La verità si trova al pozzo. Gesù e la donna di Samaria

Enrico Casadei Garofani

Nell’ora più assolata e solitaria del giorno, dialogando con una donna di Samaria, il Logos incarnato fa venire alla luce la verità della vita, della storia di quella donna presumibilmente chiacchierata e certamente reticente: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero» (Gv 4,18-19). Nel fare ciò, Gesù consegna alla donna anche la rivelazione della propria identità: «[Il Messia] sono io, che parlo con te» (4,26). Questo itinerario veritativo si svolge sul filo di un dialogo che è anche un capolavoro narrativo, in cui l’impiego di una scena tipica di incontro al pozzo si apre a un registro simbolico (sete, acqua), si gioca tra ironia e fraintendimenti da un lato e approfondimenti identitari dall’altro, e mette in campo una fitta rete di echi intertestuali con l’AT. Il brano, visto dalla prospettiva di questo convegno, strutturato secondo il trittico contesto-messaggio-stile, è anche un crocevia dove si incontrano tutte e tre queste dimensioni. Potremmo dire, sommariamente, che lo stile di Gesù, incontrando la donna nel suo contesto abituale, feriale, la porta ad accogliere il suo messaggio in quello che è un itinerario di verità, di fede e di testimonianza. La donna, infatti, colta di sorpresa nella propria verità esistenziale, non solo si apre progressivamente a una fede personale in Gesù, ma si fa anche testimone della verità di lui presso i propri compaesani.1

1   I commentatori mettono in risalto la progressione dei titoli dati a Gesù dalla donna prima nel dialogo con lui («giudeo» in 4,9; «più grande del nostro padre Giacobbe?» in 4,12; «profeta» in 4,19) e poi con i compaesani («Che sia lui il Cristo?» in 4,29), i quali a loro volta

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Vorremmo qui mostrare la pertinenza dell’episodio giovanneo come icona biblica di questo convegno, in primo luogo nella misura in cui la narrazione propone al lettore di coinvolgersi nella complessità di un dialogo nel quale – attraverso allusioni, equivoci e fraintendimenti – la verità emerge, finalmente, ma con fatica, frenata dall’atteggiamento iniziale di diffidenza e di reticenza tenuto dalla donna. Le criticità, le incoerenze, le situazioni fallimentari dell’umano tendono infatti sempre a celarsi, a proteggersi, a giustificarsi: occorre dunque una qualche strategia per far emergere una verità esistenziale scomoda senza provocare resistenze e chiusure ulteriori. L’episodio giovanneo ci offre la strategia tenuta dal personaggio di Gesù in quell’incontro. D’altra parte occorre anche chiedersi se e in quale misura la strategia tenuta qui da Gesù sia coerente con il suo stile e abbia, dunque, carattere di esemplarità. In altri termini, e con un gioco di parole, è possibile sottrarre l’episodio alla tentazione di considerarlo episodico? Se la risposta è positiva, abbiamo anche un ulteriore motivo di pertinenza di questo racconto come punto di avvio biblico delle riflessioni di questo convegno.

1. Un

dialogo tra equivoco e reticenza . La verità di due interlocutori

4,5 [Gesù] giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. 7Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». 8I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». 11Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? 12 Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».

Gli esegeti hanno da tempo messo in evidenza che lo scenario del dialogo tra Gesù e la samaritana dovrebbe richiamare alla memoria del lettore altri episodi biblici in cui un viandante straniero e una donna si incontrano a un pozzo: in Gen 24 il servo di Abramo chiede da bere a Rebecca, che poi accetterà di diventare sposa di Isacco; in Gen 29 Giacobbe abbevera il bestiame di Rachele, che poi diventerà sua moglie; in Es 2 Mosè fa abbeverare il bestiame delle figlie di Reuèl, delle quali Sipporà

si aprono alla fede in Gesù e pronunciano il titolo cristologico finale («salvatore del mondo» in 4,42). Cf., ad es., R. Fabris, Giovanni, Borla, Roma 22003, 236.

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gli verrà data in moglie dallo stesso Reuèl. Siamo di fronte, insomma, a uno schema che si ripete con piccole variazioni, una «scena tipica», dove al primo incontro, e al gesto del dare da bere, seguirà un matrimonio. Così lo scenario offre anche al dialogo tra Gesù e la samaritana uno sfondo sponsale. Ma nel far questo fornisce al tempo stesso un’occasione di ambiguità, dove è proprio lo sfondo, il non detto, a pesare – come vedremo – sulle parole pronunciate. Va ricordato inoltre che lo sfondo è significativo non solo per ciò che concerne il luogo, ossia il pozzo, ma anche per quanto attiene al tempo: il meriggio infatti, a motivo della calura, è l’ora meno consona per recarsi ad attingere, tant’è che normalmente le donne vanno la sera.2 La samaritana va al pozzo in un’ora in cui sa (o spera?) di non trovare nessuno. Dobbiamo a Roberto Vignolo un’attenta analisi, condotta con lo scopo di cogliere il punto di vista della donna lungo il dialogo e di evidenziare come il personaggio della samaritana venga costruito nel corso della narrazione. Facciamo riferimento per questo aspetto al suo lavoro.3 «Dammi da bere» è una richiesta comprensibile da parte di un viandante che non ha di che attingere acqua dal pozzo nell’ora più calda del giorno. Eppure la donna si mostra perplessa e restia: non dà da bere e chiede spiegazioni. Il lettore non ha accesso ai pensieri della samaritana, e tuttavia ha elementi sufficienti per intuire i motivi della sua perplessità: quest’uomo desidera semplicemente dissetarsi d’acqua, o cerca altro? Spera forse che l’incontro vada in direzione di un matrimonio? Lo scenario potrebbe suggerire proprio questo secondo fine nella richiesta del forestiero seduto al pozzo. Oppure – dal momento che i due sono soli – la sete è solo metafora di un desiderio sessuale da soddisfare prima di proseguire il viaggio? Di fronte alla resistenza della donna, Gesù inverte i ruoli e provoca la samaritana, presentandosi paradossalmente sia in possesso di acqua viva (quindi addirittura migliore di quella di un pozzo), qualificata come dono di Dio, sia capace di elargirla. Il lettore non si sorprenderà troppo di questa inversione di ruoli: in Gv 2, nell’episodio delle nozze di Cana, la presenza umbratile del festeggiato cede il posto a Gesù, rivelatosi come vero sposo, unico capace di dare il vino della festa, mentre in Gv 3 Nicodemo, maestro in Israele, deve ammettere la propria ignoranza davanti a Gesù che lo istruisce. Il lettore, poi, sempre nel dialogo tra Gesù e Nicodemo, ha già sentito parlare anche di ciò che viene donato da Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (3,16); «colui infatti che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura egli dà lo Spirito» (3,34).

  Cf. Gen 24,11: «Nell’ora della sera, quando le donne escono ad attingere».  R. Vignolo, «La samaritana e i samaritani», in Id., Personaggi del Quarto Vangelo. Figure della fede in san Giovanni (Biblica 2), Glossa, Milano 22003, 137-165. 2 3

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Ma per la samaritana l’affermazione di Gesù resta un enigma, senza peraltro che l’equivoco iniziale venga sciolto. Così la donna continua interrogando e provocando a sua volta, scegliendo di non uscire, nemmeno lei, dall’ambiguità. Il riferimento al pozzo profondo e allo strumento per attingere, infatti, può essere inteso sì in senso proprio, ma anche in senso metaforico, per alludere al rapporto sessuale.4 4,13 Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». 15«Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». 16Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». 17Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. 18Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». 19 Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta!». 14

A questo punto Gesù chiarisce in parte il significato simbolico dell’acqua che egli è in grado di donare. Essa è tale da estinguere la sete, ha una sua collocazione interiore e ha una finalità che va in direzione della vita eterna. Finalmente la donna si lascia allettare dalla proposta di Gesù: si affaccia il desiderio, chiede di ricevere quell’acqua. E, però, nella sua replica ella mostra anche il proprio fraintendimento, poiché colloca l’acqua di Gesù su un piano in buona parte analogo a quella del pozzo al quale è venuta ad attingere: un’acqua che tolga – definitivamente, però! – la sete fisica. Bruscamente Gesù la invita ad andare a chiamare suo marito. La richiesta, benché inattesa, non è del tutto fuori luogo, per una scena al pozzo. La donna è ancora restia, cauta: si limita a rispondere di non avere un marito, ma si guarda bene dal raccontare per esteso la propria vicenda personale. A questo punto, Gesù le mostra di conoscerla più di quanto lei non dica, e le mostra, inoltre, di essere in grado di valutare la strategia reticente che lei sta tenendo in questo dialogo. Ora, la provocazione di Gesù non ha come obiettivo primario la censura morale del comportamento passato della donna, tant’è che l’argomento non viene sviluppato nel seguito della conversazione. Obiettivo primario è invece l’autorivelazione di Gesù, mediata dalla conoscenza profonda che egli manifesta di avere di lei e della sua vita. Detto in altri termini, la donna non è né si sente tanto rimproverata, quanto piuttosto conosciuta, e incuriosita da questa conoscenza che annulla le distanze e vanifica i tentativi di nascondimento. Come nel caso di Natanaele in Gv 1, il lettore può aspettarsi anche questa volta un atto di fede da parte della donna. E in effetti c’è a questo punto un cambiamento interiore nella samaritana in direzione della fede, benché ella non si spinga tanto avanti quanto Natanaele («Figlio di Dio», «re di Israele» in 1,49), ma si limiti a riconoscere in

4

  Cf. Pr 5,15-19, dove cisterna e pozzo sono metafore femminili.

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Gesù semplicemente un profeta. In questo mostra di essere coerente con la sua propensione alla cautela, manifestata fin dall’inizio. Tanto basta, però, perché il dialogo prosegua, senza più ambiguità, a livello religioso. 4,20 «I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». 21Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. 24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». 25Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». 26Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».

L’attenzione si sposta dunque sulla problematica etnico-religiosa, evocata fin dall’inizio nell’opposizione giudeo/samaritana. Dove si deve adorare Dio: in Giudea o in Samaria? A questo punto della conversazione, che c’è nel cuore della donna? Una fede piena? Una fede messianica? La donna mantiene il proprio atteggiamento cauto, riservato: mostra di essere al corrente di un’attesa messianica, ma non pronuncia ancora un atto di fede in Gesù. Poi, però, andrà a chiamare i propri concittadini condividendo con loro l’esperienza sconcertante dell’onniscienza di Gesù sulla sua vita, e provocandoli su una possibile dignità messianica dell’uomo di Dio incontrato al pozzo. La sua verità esistenziale, prima celata e poi finalmente messa in luce da Gesù, diventa luogo nel quale nasce la fede e attraverso il quale viene data testimonianza. Entrambi i personaggi mostrano una propria strategia in questo lungo dialogo. La samaritana, donna di mondo, ha troppa esperienza per non cogliere le possibilità di equivoco nel dialogo con un uomo solo al pozzo, ha molta abilità nel tenere aperte le opposte possibilità interpretative e molta resistenza nello svelarsi allo sconosciuto. Gesù, dal canto suo, prende l’iniziativa di avviare una conversazione, probabilmente poco gradita, almeno all’inizio, a colei che con la sua reticenza mostrava di non aver scelto a caso un’ora deserta per attingere acqua. Gesù, inoltre, percorre la strada di un dialogo prolungato accogliendo il rischio del fraintendimento delle proprie intenzioni, dovuto a tutti i possibili equivoci, così come anche il rischio del fraintendimento del proprio dono. Non solo, ma attraversa, per così dire, l’equivoco e il fraintendimento suscitando curiosità, attivando il desiderio e svelando alla fine due verità: quella scomoda della donna e, nel contempo, la propria verità salvifica. Le ferite esistenziali di una vita disordinata non solo vengono alla luce, ma entrano a contatto, più che con un rimprovero, con una buona notizia, buona in quanto salvifica. Evangelizzare nelle criticità dell’umano necessita di una strategia, e come dicevamo, questa è la strategia messa in campo da Gesù in Gv 4.

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2. Un

prolungato dialogo intertestuale

La lunga conversazione tra Gesù e la samaritana si articola dunque prendendo le mosse e poi discostandosi dalla scena tipica dell’incontro al pozzo.5 La lettura di R. Vignolo parte appunto da questo presupposto per analizzare l’episodio, e si vale inoltre di una serie di passi biblici o della tradizione giudaica che aiutano a cogliere varie sfaccettature del ricco simbolismo impiegato da Gv in questo brano. Ma c’è anche un altro dialogo, fitto e importante per l’interpretazione, questa volta non tra personaggi ma tra testi, e in particolare tra Gv 4 e Os 2. J.-L. Ska ha ben messo in luce i rapporti intertestuali tra queste pagine bibliche e la loro rilevanza ai fini dell’interpretazione dell’episodio giovanneo.6 Richiamiamo brevemente quanto si dice in Os 1–2. Il profeta, per esplicito ordine divino, ha sposato una prostituta. La donna, infedele al patto matrimoniale col marito, incarna l’infedeltà del popolo di Israele, che tradisce il patto di alleanza con Dio. Il suo volgersi irrequieto ad altri amanti è metafora dell’idolatria del popolo, che si volge a Baal anziché a Dio. A Baal, divinità cananea della tempesta e delle stagioni, Israele chiede acqua dal cielo, frutti e messi dalla terra, ossia cibo. Eppure Baal non può dare ciò che promette. E solo nel momento in cui il popolo tornerà a volgersi a Dio, questi tornerà a elargire la pioggia alla terra, rendendola feconda e assicurando grano, vino e olio a Israele. Riconoscere il dialogo intertestuale tra Os 2 e Gv 4 ha diversi vantaggi. Innanzitutto a livello della trama di Gv 4. Qui, infatti, si passa in maniera brusca dall’acqua viva al marito, a problemi di culto, al cibo, alla semina e alle messi. Os 2 permette di capire meglio come e perché questi temi, apparentemente poco connessi, stiano insieme. Inoltre, Os 2 suggerisce anche la ragione del mancato matrimonio dopo l’incontro al pozzo di Sicar: come infatti in Os 2 il problema non è quello di giungere a un nuovo matrimonio, ma di ritrovare il vero marito, così anche in Gv 4 il problema è quello di ripristinare un’alleanza tradita. Nei samaritani che gli vengono incontro, Gesù vede una ritrovata fecondità della Samaria, frutto e segno di una rinnovata alleanza. La quale, da un lato, non sostituisce l’antica, e, dall’altro, mostra la sua novità per il fatto di venire estesa al mondo intero.

  In Gv 4 manca la celebrazione di un matrimonio!  J.-L. Ska, «Jésus et la Samaritaine (Jn 4). Utilité de l’Ancien Testament», in NRT 118(1996), 641-652; trad. it. in Id., La strada e la casa. Itinerari biblici, EDB, Bologna 2001, 195-208. 5 6

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3. Dialogo

come coerente strategia divina

Possiamo a questo punto andare oltre le osservazioni di J.-L. Ska e trarre qualche conclusione ulteriore sul rapporto tra queste due pagine bibliche, sul dialogo tra testi sottostante al dialogo tra i personaggi. Ci chiedevamo: la strategia di Gesù è episodica o programmatica? Si potrebbe rispondere a questo punto che dialogo, equivoco, fraintendimenti e ironia sono assai sfruttati anche nel resto del quarto vangelo, e che il comportamento tenuto da Gesù con la samaritana non è dissimile, per tanti aspetti, da quello tenuto con altri personaggi. Os 2, tuttavia, ci aiuta a rispondere a un altro livello. Lo sposo ferito cerca di reagire all’infedeltà della donna. Prima lancia accuse, poi pensa di passare all’azione. Come? In un primo momento ripudiando la sposa infedele (2,5-6); poi d’improvviso cambia idea: decide di sbarrarle la strada per impedire i suoi movimenti (2,8-9); poi cambia idea di nuovo: le toglierà tutti i doni che le aveva fatto (2,11-15). Da ultimo ci ripensa, e sceglie una strategia completamente diversa: 2,16 Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. 17 Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza. Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto.

Il deserto non è semplicemente un luogo solitario, scelto per favorire una situazione di intimità, ma più ancora è un luogo di memoria: luogo della stipulazione dell’alleanza al Sinai, luogo del primo amore. Qui, nel faccia a faccia tra Dio e il suo popolo, viene finalmente riannodato quel dialogo che si era interrotto e superata la distanza che si era creata tra i due. Dal dialogo personale scaturisce poi tutta una serie di risposte positive: E avverrà, in quel giorno – oracolo del Signore – io risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra; 24 la terra risponderà al grano, al vino nuovo e all’olio e questi risponderanno a Izreèl. 25 Io li seminerò di nuovo per me nel paese e amerò Non-amata, e a Non-popolo-mio dirò: «Popolo mio», ed egli mi dirà: «Dio mio». 23

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La strategia di Dio in Os 2, scelta escludendo le altre, è dunque quella del dialogo personale, che parte dalla memoria del passato. Ora, questa strategia dall’AT arriva fino a Gv 4. Gesù, infatti, sceglie la stessa strategia del Padre nel provocare e nell’intrattenere un dialogo personale: «IO SONO, che parlo con te» (4,26). La verità propria e quella di Dio si trova al pozzo, come anche nel deserto, in un incontro che attiva efficacemente la memoria: positiva di un rapporto autentico, negativa di tanti fallimenti esistenziali. La verità si trova al pozzo/deserto perché è Dio che continua a cercare, a volere, a provocare questo incontro (inatteso e spesso non desiderato dall’uomo). Un incontro che sfida i rischi di fraintendimento, e anzi li sfrutta per ricucire e, anzi, rinnovare una relazione. Un incontro che non è solo dialogo, discussione, ricerca veritativa, ma è contemporaneamente anche dono. Quando Dio, infatti, dice: Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, 22 ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore 21

si riferisce a quelle qualità che la donna ha mostrato di non avere, e che Dio stesso è disposto a donarle perché d’ora in poi possa comportarsi davvero come sposa.7 Doni che con Gesù diventeranno uno solo: l’acqua viva, ossia lo Spirito, in Gv 4. Promessa mantenuta di un Logos che è via, verità e vita. Abbiamo così cercato di evidenziare la strategia di Dio con Israele in Os 2 e di Gesù con la samaritana in Gv 4. A questo punto occorrerà interrogarsi sulle possibili modalità di applicazione di tale strategia per l’evangelizzatore di oggi, a confronto con le ferite e i fallimenti esistenziali degli uomini di questa società. Ma questa domanda conduce già sulla soglia di altri campi di indagine.

Bibliografia Alonso Schökel L. – Sicre Diaz J.L., I profeti, Borla, Roma 31996. Fabris R., Giovanni, Borla, Roma 22003. Ska J.-L., «Jésus et la Samaritaine (Jn 4). Utilité de l’Ancien Testament», in NRT 118(1996), 641-652; trad. it. in Id., La strada e la casa. Itinerari biblici, EDB, Bologna 2001, 195-208. Vignolo R., Personaggi del Quarto Vangelo. Figure della fede in san Giovanni (Biblica 2), Glossa, Milano 22003.

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  Cf. L. Alonso Schökel – J.L. Sicre Diaz, I profeti, Borla, Roma 31996, 994.

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Verità e relazione

Pier Luigi Cabri

L’episodio dell’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo, che troviamo nel c. 4 del Vangelo di Giovanni, mette in rilievo i due termini che costituiscono il contenuto di questo breve saggio: «verità», che per Gesù caratterizza il vero culto («i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità», Gv 4,23), e «relazione». In fondo, l’intero racconto è costruito a partire dal contesto della relazione, dell’incontro e dello scambio/dono che avviene tra Gesù e la donna. In un piccolo libretto dal titolo Il dialogo al pozzo. Gesù e la Samaritana secondo Tolstoj,1 Pier Cesare Bori mostra come il c. 4 di Giovanni ricorra con frequenza nell’esegesi e nella produzione letteraria di Tolstoj. Lo scrittore russo, profondamente influenzato da Pascal e da Rousseau, è convinto che in tutte le tradizioni sia presente un nucleo di sapienza che è ragione di vita per l’intero genere umano e che conferisce verità a credenze che di per sé ne sono prive. Quel nucleo consiste «nella rinuncia a se stessi e nell’amore», un centro da cui prende forma quella particolare idea di culto, profondamente ispirata al dialogo tra Gesù e la samaritana, che penetra con profondità e continuità nell’opera di Tolstoj. Nelle spiegazioni (di Gv 4) il tratto del rifiuto della donna di dare dell’acqua è abitualmente dimenticato – scrive Tolstoj – mentre è la chiave per la sua comprensione. La donna dice che agli ebrei non è lecito associarsi ai samaritani e per questo non gli dà da bere. Ma lui le dice che con questo rifiuto si priva dell’acqua viva, che è l’amoroso stare insieme agli altri uomini, proprio

1   P.C. Bori, Il dialogo al pozzo. Gesù e la Samaritana secondo Tolstoj, EDB, Bologna 2014.

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Pier Luigi Cabri quello che dà la vera vita. […] È giunto il tempo in cui coloro che veramente adorano Dio adoreranno non Dio, ma il Padre in spirito e fattivamente. Dio ha bisogno di persone che lo adorino così. Dio è spirito e occorre adorarlo in spirito e fattivamente. La donna non capendo di chi parlasse dice: Ho udito che verrà l’inviato di Dio, colui che chiamano l’unto. Lui allora racconterà tutto. E Gesù le dice: Sono io che ti parlo. Non aspettare oltre.2

Risulta interessante l’accostamento di Tolstoj tra verità e «fatti», «fattivamente», a indicare non qualcosa di astratto o di teorico contenuto nella parola «verità», ma, al contrario, la presenza in essa di una dimensione esperienziale e reale. Come a dire che la verità si raggiunge attraverso lo «stare insieme agli altri uomini» e «fattivamente», nella disponibilità a compiere un percorso, una ricerca, un impegno concreto e comune. Attraverso le parole, la concretezza degli sguardi e dei gesti, sprigionati e messi in luce nel dialogo tra Gesù e la samaritana, è possibile leggere ed entrare nella verità e nella concretezza di quell’incontro.

1. Il

dialogo al pozzo e l ’ incontro nel giardino

Il tema del culto in spirito e verità lo si trova anche in un altro testo di Tolstoj, Le memorie di un pazzo, un testo autobiografico del 1884 che termina con una scena misteriosa ricordata dal protagonista: Ero andato in chiesa, avevo assistito alla liturgia e avevo pregato e ascoltato bene, e mi sentivo commosso. A un tratto portarono la prosfora (il pane benedetto), poi andammo verso la croce, cominciammo ad affollarci, e poi, all’uscita, c’erano i mendicanti. A un tratto mi fu chiaro che tutto ciò non avrebbe dovuto esserci. E non solo che non avrebbe dovuto esserci, ma che non c’era affatto, e che se non c’era, allora non c’era nemmeno la morte, né la paura, e non c’era più in me lo strazio di prima e io non avevo più paura di nulla. Allora la luce mi illuminò ormai interamente, e io divenni quello che sono. Se non c’è niente di tutto ciò, allora è prima di tutto in me che non c’è. E lì stesso, sul sagrato, detti tutto ciò che avevo con me, 36 rubli, ai poveri, e andai a casa a piedi, conversando con il popolo.3

L’analisi di Bori mette in evidenza come sia probabile che i termini con cui è descritta la trasformazione del protagonista (la Chiesa, il rito, che prima frequentava assiduamente) possano ricevere luce dall’idea di culto «in spirito e verità», cioè fattivamente, in modo analogo all’episodio della samaritana, cui Tolstoj era giunto in quegli anni e che si ritrova in queste sue opere. Servire Dio in spirito e verità significa mescolarsi tra i poveri, operare in loro favore, vivere l’accoglienza e l’ospitalità. Una sola azione buona, una tazza d’acqua offerta senza pensiero di ricompensa, è

2 3

  Testo tradotto e riportato da Bori, ivi, 9.13 (corsivo nostro).   Testo riportato ivi, 15-16.

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Verità e relazione

più preziosa di tutti i benefici portati alla gente, come riconosce lo starets in Padre Sergio, scritto nel 1890-1891.4 Richiamandoci nuovamente a Giovanni, vi è un altro episodio che l’evangelista ricorda alla fine del vangelo, un episodio che parla di un ulteriore incontro, dipinto da tanti artisti (da Giotto a Pontormo, da Rem­ brandt a Dürer, a Tiziano, al Correggio), l’incontro di Gesù risorto con Maria Maddalena. Il filosofo Jean-Luc Nancy vi ha dedicato il noto saggio Noli me tangere, nel quale annota: È essenziale alla pittura non essere toccata. È essenziale all’immagine in generale non essere toccata. […] Senza questo distacco, senza questa distanza o questo arretramento, il tocco non sarebbe più ciò che è e non farebbe più ciò che fa. Comincerebbe a reificarsi in una presa, in un’adesione, un collage, persino un’agglutinazione che lo catturerebbe nella cosa e la cosa in esso, congiungendoli e appropriandoli l’uno all’altro e poi l’uno nell’altro. Ci sarebbe identificazione, fissazione, proprietà, immobilità. «Non trattenermi» finisce persino per dire: «Toccami con un tocco vero, ritirato, che non mi cattura né mi identifica». Gesù non si rifiuta a Maria Maddalena: il vero movimento del donarsi non consiste nel consegnarsi come una cosa che si afferra, ma nel permettere il tocco di una presenza e, di conseguenza, è l’eclissi, l’assenza e la partenza secondo cui la presenza deve sempre darsi per presentarsi. Si potrebbe analizzare a lungo: se mi do come una cosa, se mi offro come un bene appropriabile, resto «me stesso» dietro questa cosa e dietro questo dono, li sorveglio e me ne distinguo. Se mi do distanziando il tocco, invitando così a cercare più lontano o altrove, come in fondo al tocco stesso […], non sono padrone di questo dono e colei/colui che mi tocca e si allontana, o che distanzio prima del suo tocco, ha davvero ricevuto da me un bagliore della (mia) presenza.5

Il pittore che dipinge le mani tese di Maria, rappresentando così le proprie mani tese verso il suo dipinto, lui ci dona la sua immagine, non per farcela trattenere in una percezione, ma al contrario perché arretriamo fino a rimettere in gioco tutta la presenza dell’immagine e nell’immagine. Questo pittore – scrive Nancy – mette in opera la «verità» della risurrezione: «L’avvicinarsi della partenza di ciò che è singolare della verità». È in questo modo che egli dipinge, in primo luogo, è così che «rappresenta», nel senso vero e proprio del significato di questa parola, e cioè «rende intensa la presenza di un’assenza in quanto assenza». Alla luce di questo testo di Nancy e della riflessione di Tolstoj, si può dire che se la verità si dà nell’incontro e nella relazione fattiva, nel dialogo e nel confronto, emerge tuttavia una sorta di limite o di rischio: la verità sfugge alla presa, a divenire proprietà, sfugge alla condizione di

4  Si può leggere in modo analogo, pur nella drammatica conclusione, la storia della donna e della cipolla, raccontata da F. Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, Garzanti, Milano 1992, II, 489. 5   J.-L. Nancy, Non toccarmi. Maria Maddalena e il corpo di Gesù risorto, EDB, Bologna 2015, 73-75.

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immobilità o di fissazione. Si può arrivare a toccare la verità ma il tocco vero non afferra e non cattura né identifica, ma invita e sollecita a cercare altrove e più lontano. È questo ciò che è singolare della verità.

2. Verità

filosofica e verità scientifica

Nel dialogo, la verità si pone come un esito da raggiungere insieme, a poco a poco, e forse mai compiutamente, come qualcosa che trasforma la conversazione dialogica, da rapporto asimmetrico fra docente e discente, in una vera e propria con-ricerca, in cui la cesura, il distacco, fra maestro e discepolo, si attenua e cade e i due ruoli di ricercatore e di ricercato, intervistatore e intervistato, interrogante e interrogato si confondono e convergono nella comune tensione verso la conoscenza della verità, sempre parziale, mai totalmente acquisita e privatizzata dal singolo, e quindi della verità come vissuto e come esperienza esistenziale, come patrimonio collettivo e valore comunitario. La verità filosofica non può essere contenuta in una formula; essa esprime piuttosto una tensione verso una saggezza, una conoscenza di vita, mai compiutamente raggiunta. Platone era convinto che insegnamento e comunicazione fossero possibili solo nel rapporto personale e che occorresse rinunciare alla verità data una volta per tutte, chiusa in una definizione, e perciò incapace di tenere conto del tempo e delle singole anime.6 La dottrina platonica non è come un numero di telefono, che corrisponde in modo preciso al nome di un abbonato, e che posso portare in giro scritto sull’agenda, passare a un amico copiandolo su un foglio nello stesso modo in cui lo imparo a memoria […]. La verità filosofica è cosa del tutto diversa da un liquido che si travasa da un recipiente a un altro […]. Ciò che si può dimenticare (come un numero di telefono) si può anche imparare a memoria. Ma la verità […] non si può imparare a memoria.7

In Platone, per poter cogliere davvero la sapienza filosofica, occorre la disponibilità a essere persuasi e, quindi, a cambiare il proprio modo di pensare all’interno di un continuo processo che abbia come scopo la ricerca del vero. La verità filosofica non è pertanto un dato ma un movimento, è un processo dinamico, un’idea-limite in quanto non può mai integralmente dirsi raggiunta o inverata. Essa consegna un compito da realizzare sempre

6  Cf. E. Pili, «La lettera VII di Platone: comunanza di vita e persuasione come luogo della verità», in Sophia 3(2011)2, 257-278. 7   F. Trabattoni, La verità nascosta. Oralità e scrittura in Platone e nella Grecia classica, Carocci, Roma 2002, 131.

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e che non si conclude mai, perché qualsiasi conclusione porterebbe alla sua negazione, in quanto arresterebbe il movimento e la tensione che la costituiscono. Risulta convincente, a questo riguardo, la riflessione di Franco Ferrarotti, fondatore della sociologia in Italia, sul rapporto tra verità filosofica e verità scientifica, che giunge a denunciare con un vero e proprio grido d’allarme (alla luce di recenti studi americani) la mancanza o la rinuncia oggi da parte della sociologia di un fondamento filosofico. Al contrario, è necessaria la consapevolezza del bisogno che la verità scientifica accetti, come propria guida e insieme come proprio controllo, il dato filosofico. Nel Tentativo di autocritica, che precede La nascita della tragedia, lo stesso Nietzsche, a proposito del suo lavoro giovanile, scrive che in quest’opera aveva posto il problema della scienza: Ciò che allora mi venne fatto di afferrare, qualcosa di terribile e pericoloso, un problema con le corna, non proprio necessariamente un toro, ma in ogni caso un problema nuovo: ecco, oggi direi che si trattava dello stesso problema delle scienze […], collocato sul terreno dell’arte – giacché il problema della scienza non può essere riconosciuto sul terreno della scienza.8

In questa prospettiva si può parlare di verità filosofica come verità interiore e propriamente umana e di verità scientifica come verità esteriore, positivista, legalmente stipulata, strumentale, cioè finalizzata, in quanto non è una verità che vale in sé e per sé, ma solo rispetto allo scopo specifico da raggiungere. In quanto verità che vale in sé e per sé, la verità filosofica non si esaurisce in una serie di operazioni tecniche, né dipende dal nesso causale, come invece avviene nel caso della verità scientifica. La verità filosofica è invece una «verità come svelamento», rivelazione delle radici profonde dell’essere, aumento della consapevolezza e quindi possesso della sapienza intesa non solo come insieme di conoscenze, ma come comportamento di vita, ossia come insieme di valori vissuti.9 Da questo punto di vista si comprende l’importanza della tragedia classica per questo tipo di verità che non è propriamente logico-concettuale e che quindi non si fonda sulla dicotomia, cioè sulla drastica separazione tra ciò che è considerato razionale e ciò che non lo è. La verità della tragedia è una verità esistenziale come la vivevano i presocratici, cioè una verità umana in senso integrale, non puramente concettuale o razionale. La verità della tragedia è una verità come «svelamento», mentre la verità della società razionale, tecnicamente organizzata, è la verità del discorso logico, puramente concettuale, che è la premessa necessaria del discorso scientifico. La verità della tragedia ci ricorda che non è possibile separare in maniera netta razionale e irrazionale senza impoverire il concetto di ra-

8   Testo riportato in G. Colli, «Nota introduttiva», in F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 292011, 5. 9  Cf. F. Ferrarotti, «La conoscenza sociologica come conoscenza partecipata», in Historia, antropología y fuentes orales 41(2009), 107-121.

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zionalità riducendolo al razionalismo puramente intellettualistico, come se l’uomo fosse solo pensiero puro e non anche sentimento e istinto. Come osserva lo scrittore e saggista francese George Steiner, la tragedia ci insegna che il dominio della ragione, dell’ordine e della giustizia è terribilmente circoscritto e che non c’è progresso scientifico o risorsa tecnica che possano allargarlo. All’esterno e dentro l’uomo sta l’autre, l’alterità del mondo. Chiamatelo come volete: un dio nascosto o malefico, il destino cieco, la tentazione diabolica, la furia bruta del nostro sangue animale; ci tende l’agguato al bivio, ci deride e ci distrugge.10

Ma l’autre, o meglio Autrui, da un altro punto di vista e nella prospettiva del filosofo ebreo Emmanuel Lévinas, su cui ritorneremo, non è affatto il destino cieco o colui che ci deride e ci distrugge, quanto piuttosto la condizione stessa dell’apertura del soggetto alla relazione. Non l’altro che è in me ma l’altro da me, un’alterità che rimane differente rispetto a quella che viene articolata dall’oggetto intenzionale all’interno del mondo. L’altro è di fronte, il faccia-a-faccia, che rende possibile la relazione con un volto, che dà e nello stesso tempo si sottrae. Autrui non è ciò che può essere inglobato o dominato, in quanto altro è indipendente da me e questo è ciò che è evidente, al di là di tutte le relazioni che si possono instaurare con esso. La relazione con l’altro si pone al di fuori di tutte le dicotomie che valgono per le cose, al di là dell’a priori e dell’a posteriori, dell’attività e della passività. È proprio la relazione con l’altro che riconduce il sapere, inteso come tematizzazione, alla verità, cioè alla giustizia. Il progetto filosofico di Lévinas intende affermare «non che l’altro sfugge per sempre al sapere, ma che non ha alcun senso parlare qui di conoscenza o di ignoranza, poiché la giustizia, la trascendenza per eccellenza e condizione del sapere non è affatto, come lo si vorrebbe, una noesi correlativa a un noema».11 La questione in fondo non è di obbligare nella direzione verso l’altro ma piuttosto, con una «forza estremamente dolce», invitare alla deposizione a favore di «una curvatura eteronomica che ci rapporta al tutt’altro (cioè alla giustizia, come afferma Lévinas all’interno di una potente e formidabile ellissi: il rapporto all’altro, cioè alla giustizia), secondo la legge che dunque invita ad arrendersi alla precedenza infinita del tutt’altro».12 La forza che conduce alla deposizione del soggetto (e con esso alla deposizione della verità intesa come sapere) a favore dell’altro è data dalla particolare posizione che assume Altri, dalla superiorità che deriva proprio dalla sua trascendenza («Altri resta infinitamente trascendente, infinitamente estraneo»)13 e dal fatto che in esso avviene la fine dei poteri.

  G. Steiner, Morte della tragedia, Garzanti, Milano 1976, 11.   E. Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980, 89. 12   J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998, 64. 13   Lévinas, Totalità e Infinito, 199. 10 11

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L’altro, precisa ancora meglio Lévinas, è ciò che io non sono: è il debole mentre io sono il forte; è il povero, la vedova e l’orfano. È il fare visita di Dio nel mondo, è la traccia sulla quale si incontra l’altro, o più esattamente, la traccia che è l’altro, oltre ogni tematizzazione dell’essere.14

3. Verità

intersoggettiva e verità partecipata

La verità – quel briciolo di verità che ci è dato di raggiungere – è una verità intersoggettiva, è un immergersi nel mondo e nella folla, con la consapevolezza che i problemi umani non sono problemi tecnici e tecnicamente solubili, ma piuttosto vanno visti e affrontati come tensioni permanenti, ricorrenti e riemergenti. Un problema tecnico, per esempio il cattivo funzionamento di un motore, lo si può risolvere con l’intervento di un meccanico, con l’applicazione di una formula, seguendo le istruzioni per l’uso. Il problema umano, al contrario, non è mai esaurientemente solubile attraverso una soluzione tecnica esterna. La verità, in definitiva, non è un’acquisizione, ma un atteggiamento, un modo di essere, un’apertura verso l’esperienza del nuovo non ancora raggiunto; in questo senso verità e libertà coincidono. Nel momento stesso in cui l’uomo si ferma e dice: «Io ho raggiunto la verità, ho conquistato la certezza», in quel momento la verità e la certezza si cristallizzano in dogma, diventano un’abitudine, impediscono all’uomo di andare oltre e di cercare ancora. È questa interna criticità del comportamento umano che può farci sperare di raggiungere non la Verità ma piano piano frammenti di verità, di alimentare in questa incessante conquista la risposta alla domanda di senso dell’uomo, che vive nella storia, in un contesto mutevole, diveniente e a volte drammatico. È proprio la domanda sul senso dell’esistenza che pone l’uomo su un piano diverso rispetto al puro dato naturale: la sua costante domanda e insoddisfazione non va letta come relativismo o disperazione ma esprime una verità in cui io posso credere: l’uomo è qualcosa di non definibile in senso assoluto, una volta per tutte, è un progetto mai raggiunto e anche mai completamente vittorioso, e quindi anche un fallimento. Ma proprio nella consapevolezza del fallimento splende anche l’autentica umanità dell’uomo. Se la verità non è un dato, un investimento, un capitale priva-

  Possiamo qui notare, avendo sullo sfondo il tema della verità, che in Totalità e Infinito riemerge la polemica nei confronti di Heidegger, espressa nei seguenti termini: «Ci opponiamo dunque radicalmente anche a Heidegger che subordina all’ontologia il rapporto con Altri invece di vedere nella giustizia e nell’ingiustizia una via d’accesso originale ad Altri, al di là di qualsiasi ontologia. L’esistenza d’Altri ci concerne nella collettività, non per la sua partecipazione all’essere che è familiare a tutti noi, non per il suo potere e la sua libertà che noi dovremmo soggiogare e utilizzare per i nostri fini; non per la differenza dei suoi attributi che noi dovremmo superare nel processo di conoscenza o in uno slancio di simpatia confondendoci con esso e come se la sua esistenza fosse un impaccio» (ivi, 88). 14

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to, allora evidentemente le società odierne tecnicamente progredite, nel momento in cui fanno valere il loro istinto acquisitivo e predatorio, possono credere di avere conquistato la verità e in quello stesso momento l’hanno invece soffocata e l’hanno perduta, perché la verità non parla ai violenti e, soprattutto, non può farsi sentire, non può far emergere la sua voce laddove ci sia il chiasso della concorrenza, della lotta e della competizione interindividuale. La verità parla nel silenzio. In questo senso, l’antica formula «nell’uomo interiore abita la verità» (in interiore homine habitat veritas) è una frase importante; andrebbe riscoperta e reinterpretata nei termini della condizione sociale odierna.15 Il problema delle società odierne tecnicamente progredite sembra consistere, in primo luogo, nell’avere mercificato tutti i rapporti con la spinta concorrenziale e competitiva e, in secondo luogo, nel ritenere che ogni valore sia acquisibile con un gesto che l’afferra e se ne appropria. In questo modo noi non permettiamo alla verità di parlare attraverso di noi. La nostra ricerca dovrebbe essere discreta, consapevole della nostra fragilità e della nostra incapacità di dire le parole decisive da permettere alla verità di parlare attraverso di noi; in qualche modo, di non pensare la verità ma di essere pensati dalla verità. Sarebbe importante riuscire a comprendere che la verità non può mai essere un dominio esclusivo, che non è possesso ma tensione, che è ricerca e patrimonio comune. Il dialogo, come elemento ispirante e come modo di ricerca, non è qualcosa di idilliaco o di pacifico e semplice, perché è un «passare attraverso» e nello stesso tempo un «trapassarsi». Conoscere significa mettersi in relazione, entrare a far parte, riconoscersi ma anche muovere verso l’altro ed entrare nel mistero. Chi cerca è anche un ricercato, questo richiede un atto di fiducia reciproca fra ricercatore e oggetto della ricerca, senza mai dimenticare che l’oggetto della ricerca è una persona, in un contesto storico e di vissuto reale. Nella lettera apparsa alcuni anni fa su un quotidiano, in risposta a due articoli di Eugenio Scalfari riguardanti le questioni della fede, del peccato e del perdono – e in particolare se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato –, papa Francesco rispose: Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità «assoluta», nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore,

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 Cf. Ferrarotti, «La conoscenza sociologica come conoscenza partecipata».

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Verità e relazione richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione assoluta, reimpostare in profondità la questione.16

Si può sentire qui risuonare quanto la costituzione conciliare Dei Verbum afferma a proposito della rivelazione e del modo in cui Dio decide di rivelarsi all’uomo e nel mondo. La rivelazione non è un insieme di «verità» che Dio manifesta, essa non rientra nel campo dell’istruzione, quanto piuttosto esprime il desiderio di Dio di parlare con l’uomo, di mettersi in relazione e in dialogo con lui, di incontrarlo e di comunicare, così come avviene tra amici. Ma soprattutto Dio intende rivelare semplicemente se stesso, il proprio cuore, l’amore e la misericordia, in piena libertà e gratuità (DV 2). La grandezza del concetto di auto-rivelazione sta certamente nell’aver reso caduca ogni possibile concorrenza tra Dio e l’uomo; in fondo, Dio non rivela nulla di ciò che noi possiamo o potremmo un giorno conoscere da noi stessi: Dio non ha che una «sola» cosa da dirci, un solo «mistero» da rivelare ai credenti, è egli stesso, ed egli stesso come fine ultimo. Che cosa potrebbe ancora dire di più – si chiede il teologo C. Theobald – dopo avere rivelato totalmente se stesso nella sua misteriosa identità? La sua auto-rivelazione significa dunque una fine risolutiva nel cuore della nostra storia – nel linguaggio biblico un «compimento» – a cui non può che far seguito il suo silenzio [...] e una sempre maggiore autonomia umana.17

4. Verità

come relazione e testimonianza : Emmanuel Lévinas

Verità come relazione, in riferimento alla storia e alla cultura, al contesto in cui si vive; verità come amore e testimonianza: questo modo di leggere e di presentare la verità trova sostegno nella riflessione filosofica contemporanea, in autori come Jean-Luc Nancy, Paul Ricoeur, Emmanuel Lévinas. Ci fermiamo in particolare sul pensiero di Lévinas, che abbiamo già introdotto a proposito della questione della relazione etica con l’altro. Egli dedica esplicitamente alcune pagine sul tema della verità nella sua opera maggiore, quella fondativa del suo pensiero, Totalità e Infinito, e in particolare nella sezione dedicata a «Separazione e discorso», ma anche in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, nel c. V, «Soggettività e Infinito».18 Scrive Lévinas:

  La Repubblica, 1.9.2013.   C. Theobald, La rivelazione, EDB, Bologna 2006, 46. 18   Lévinas, Totalità e Infinito, 51-79 e Id., Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983. 16 17

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Pier Luigi Cabri Senza separazione non ci sarebbe stata verità, ci sarebbe stato soltanto l’essere. Verità – contatto meno importante della tangenza – nel rischio del­l’igno­ ranza, dell’illusione e dell’errore non colma la «distanza», non culmina nel­l’unio­ne del conoscente e del conosciuto, non culmina nella totalità. […] Cercare e ottenere la verità significa essere in rapporto.19

La possibilità del rapporto e della relazione è condizionata dalla separazione, che rende possibile il linguaggio e questo a sua volta porta a compimento la ricerca della verità, ossia dell’altro. La verità come bontà e come giustizia sono le modalità della relazione tra il Medesimo e l’Altro. Mentre la bontà rivela il disinteressamento del Desiderio e la giustizia la rettitudine dell’incontro faccia a faccia, la verità presenta il Desiderio come la ricerca e poi come il compimento della verità nel volto dell’altro, che costituisce per Lévinas l’immediato accesso alla relazione etica, che è preoccupazione per l’altro, e perciò rottura rispetto all’essere. Il volto dell’altro nella sua nudità inerme si offre a noi esprimendo l’alterità e, nello stesso tempo, come se fosse una domanda. Il volto disturba molto, ognuno può interrogarsi su che cosa potrà chiedere un volto. Ciò che esso esprime è la domanda per eccellenza ma è anche un ordine, un imperativo, il primo e fondamentale principio etico: «Tu non ucciderai», e anche: «Tu non lascerai l’altro solo di fronte alla morte». Se in Altrimenti che essere il volto assume i connotati della separazione e dell’alterità radicale, in Totalità e Infinito il volto si presenta sempre come colui che ci interpella a partire dall’estraneità dell’altro. Davanti al volto dell’altro, sono necessari discrezione e rispetto; occorre accoglierlo con uno sguardo che rispetti la sua solitudine e la sua separazione, ma in esso non va cercato ciò che non si trova nelle parole. Chi ci parla e ci guarda è uno che si espone a un rischio, quello stesso a cui esponiamo la nostra vita.20 Il volto, nella sua estraneità, chiama al rispetto che scaturisce dalla coscienza del limite, cioè dalla coscienza della separazione e dell’alterità. Per Lévinas perciò la verità è una relazione che non comporta l’adeguazione fra i termini che la instaurano; essa al contrario si ritrova nel disli­vello posto fra la finitezza del Medesimo e l’infinitezza dell’Altro. La verità sorge là dove un essere separato dall’altro non vi si immerge ma gli parla. Il linguaggio che non tocca l’altro, foss’anche di tangenza, raggiunge l’altro interpellandolo o comandandolo, o obbedendogli con tutta la correttezza di queste relazioni. Separazione e interiorità, verità e linguaggio, costituiscono le categorie dell’idea dell’infinito.21

E ancora:

  Lévinas, Totalità e Infinito, 58-59.  Cf. A. Rigobello, L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessioni nella filosofia italiana, Armando, Roma 1977, 119. 21   Lévinas, Totalità e Infinito, 60. 19 20

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Verità e relazione L’infinito non è «oggetto» di una conoscenza – ciò che lo ridurrebbe alle proporzioni dello sguardo che contempla – ma il desiderabile, ciò che fa nascere il Desiderio, cioè ciò che può essere avvicinato da un pensiero che a ogni momento pensa più di quanto non pensi. L’infinito non è quindi un oggetto immenso che oltrepassa gli orizzonti dello sguardo. È il Desiderio che misura l’infinità dell’infinito, infatti esso è misura proprio per impossibilità di misura. La mancanza di misura misurata dal Desiderio è volto.22

Dalla relazione con il volto scaturisce l’idea dell’Infinito, esperienza per eccellenza, l’infinitamente di più contenuto nel meno, il superamento del pensiero finito da parte del suo contenuto e superamento del potere dell’io, che viene messo in questione. L’idea dell’Infinito rompe con la totalità dell’essere e si pone come passaggio dall’interiorità all’esteriorità e dall’immanenza alla trascendenza. In Lévinas, la trascendenza è Desiderio, ossia è «il movimento positivo che va al di là dell’apprezzamento o della presa, della comprensione e della conoscenza dell’altro»,23 per giungere all’imperativo, che è insieme etico e metafisico, del rispetto e del riconoscimento dell’altro nella sua assoluta alterità ed esteriorità. Lévinas traghetta il tema della verità dal piano teorico a quello etico, considerando quest’ultimo il luogo originario della verità. La verità è dunque da riconoscere nell’altro, nel prossimo, cioè in colui che «non ho concepito né partorito» e che tuttavia mi riguarda, ancor prima di ogni assunzione di responsabilità, prima di ogni impegno nei suoi confronti, sia che questo impegno venga da lui accettato o rifiutato. Egli mi riguarda ma non in quanto appartenente al mio stesso genere, mi riguarda semplicemente in quanto altro da me e verso cui sento di avere degli obblighi. L’impossibilità di rifiutare il peso della responsabilità, di sottrarsi alla cura dell’altro, per Lévinas non è servitù ma «elezione», nella quale si trova la verità e la «dignità suprema dell’umano».24 La pubblicazione di Totalità e Infinito, opera alla quale è già stato fatto ampio riferimento proprio in ordine ai temi della verità e della relazione, nell’ambiente filosofico degli anni Sessanta, ebbe indubbiamente un ruolo decisivo come sollecitazione a pensare l’alterità e la differenza, costituendo un punto d’arrivo e nello stesso tempo un rinnovato inizio del pensiero levinasiano. In quest’opera troviamo sostanzialmente due affermazioni di fondo: la totalità (legata all’essere) significa annullamento delle differenze e perciò viene definita come violenza; di conseguenza, occorre pensare il rapporto con l’alterità come relazione etica, ma tale da assumere anche una valenza ontologica, in quanto inscritta nell’essere stesso. Su questo binario, Lévinas continuerà a sviluppare il suo pensiero fino agli ultimi scritti degli anni Novanta. Un filo conduttore ritorna conti-

  Ib.   J. Derrida, «Violenza e metafisica», in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, 117. 24  Cf. A. Ponzio, «Introduzione», in E. Lévinas, Dall’altro all’io, Meltemi, Roma 2012, 18-19. 22 23

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nuamente: l’affermazione dell’etica come «filosofia prima», compresa attraverso una razionalità differente che conduce al riconoscimento dell’altro. Ciò significa intendere l’essere come molteplicità, alterità ed esteriorità. È l’alterità stessa a costituire la vera struttura dell’essere e a rivelarsi come esperienza fondamentale di una modalità diversa di relazione tra i diversi soggetti e tra il soggetto e il mondo. Intraprendere la strada della relazione etica, che si oppone alla filosofia dell’identificazione, non significa rinunciare alla verità; significa piuttosto andare «verso l’essere nella sua esteriorità assoluta e mettere proprio in atto l’intenzione che anima il cammino verso la verità».25 Un cammino che è sempre rivolto «altrove», all’«altrimenti», all’«altro»; è un movimento che parte da un mondo che ci è familiare, da una casa nostra e nella quale abitiamo, e che si dirige verso un’abitazione estranea, verso un laggiù. Tale movimento esprime un «desiderio metafisico» che tende verso l’assolutamente altro, che si indirizza nella ricerca di un’unione diversa, che fonda tutte le altre: si tratta della relazione metafisica o etica, una «relazione con una realtà infinitamente distante dalla mia, senza però che questa distanza distrugga questa relazione e senza che questa relazione distrugga questa distanza».26 Una relazione che individua una via d’accesso originale verso l’altro, individua un «umanesimo altro», in cui il soggetto non è l’io soddisfatto ed egoista, chiuso in se stesso, ma il soggetto ospite, responsabile e prossimo, fragile fino al punto di diventare il soggetto ostaggio, come dirà Lévinas in Altrimenti che essere. Il tema dell’ospitalità costituisce un ulteriore tratto che, nella ricchezza semantica ed etica che esprime, può rappresentare un tassello prezioso nel percorso di indagine sulla verità. L’ospitalità – che in Lévinas è intrecciata alle parole «attenzione», «accoglienza», «volto» – esprime la tensione verso l’altro ma soprattutto il «sì» pronunciato all’altro, la disponibilità cioè a fare propria la verità dell’altro. Ma, molto acutamente, Derrida fa notare che «l’accoglienza dell’altro (genitivo soggettivo) sarà, in qualche modo, già una risposta: il sì all’altro risponderà già all’accoglienza dell’altro (genitivo oggettivo), al sì dell’altro».27 Questo significa che la risposta responsabile del soggetto verso l’altro è certamente un sì, ma è un sì rivolto a qualcuno, che a sua volta ha pronunciato il suo sì, precedendo il «movimento» di accoglienza da parte del soggetto. Movimento che si cancella nell’accoglienza dell’altro, nell’apertura all’infinito dell’altro, di quell’altro che lo precede. Accoglienza esprime il primo gesto verso altri. O forse, ancor più che il gesto, essa costituisce il primo movimento apparentemente passivo ma buono verso altri; l’accoglienza determina il ricevere come relazione etica: «Andare incontro ad altri nel discorso significa accogliere la sua espressione nella quale egli va continuamente al di là dell’idea che un

  Lévinas, Totalità e Infinito, 45.   Ivi, 39. 27   Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, 85. 25 26

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pensiero potrebbe portarne in sé. Significa dunque ricevere da altri al di là della capacità dell’io».28 Questo ricevere, che è un accogliere, avviene in una misura eccezionale, smisurata, appunto «al di là delle capacità dell’io», una sproporzione che riguarda anche l’ospitalità. Si può capire che cosa significa ricevere da altri soltanto a partire dall’accoglienza aperta e offerta all’altro, dall’«accoglienza ospitale». Essa, insieme alla nozione di volto, indica l’apertura dell’io, il rapporto con l’altro, che si attua come servizio, come ospitalità e come testimonianza. L’«eccomi», che esprime donazione e responsabilità, è il luogo attraverso cui l’Infinito entra nel linguaggio, senza essere un disvelamento, senza apparire come tema. La modalità con cui il soggetto trattiene il suo mistero di gloria e insieme lo manifesta è la testimonianza, che è il criterio di manifestazione più completo: la testimonianza è vera non come una verità di svelamento ma come obbedienza nella sincerità. Il soggetto che dice «eccomi» testimonia l’Infinito ed è «attraverso questa testimonianza, la cui verità non è verità di rappresentazione o di percezione, (che) si produce la verità dell’Infinito […], che si glorifica la gloria stessa dell’Infinito».29 Risulta ormai chiaro questo passaggio: il concetto di testimonianza, che in Lévinas emerge quando egli tratta del rapporto tra il soggetto e la trascendenza, non si fonda su una conoscenza o su una tematizzazione. La verità che appare nella testimonianza, o meglio, la verità come testimonianza, si oppone alla verità come svelamento, non coincide con una conoscenza.30 La testimonianza che si manifesta nell’«eccomi» è la distanza che si allarga mano a mano che la prossimità si restringe, è la disuguaglianza tra il Medesimo e l’Altro, segno dell’impossibilità di sottrarsi. L’«eccomi» è «obbedienza alla gloria dell’Infinito che mi ordina ad Altri».31 Qui è interessante notare il riferimento biblico al quale rimanda Lévinas. Si tratta di un passo di Isaia che riporta l’assenso del profeta alla chiamata di Dio: «Eccomi, manda me» (Is 6,8) e che Lévinas subito legge identificando le due espressioni, «eccomi» significa «manda me», non si tratta di due aspetti distinti. Nell’«eccomi» appare l’io spogliato della sua soggettività imperialista, la trasparenza senza opacità, senza zone di evasione. «Eccomi» come testimonianza dell’Infinito, ma come testimonianza che non tematizza ciò che testimonia e la cui verità non è verità di rappresentazione, non è evidenza. Non vi è testimonianza – struttura unica, eccezione alla regola dell’essere, irriducibile alla rappresentazione – che dell’Infinito. L’Infinito non appare a colui che ne fa testimonianza. Al contrario, è la testi-

  Lévinas, Totalità e Infinito, 176.   E. Lévinas, Etica e Infinito. Il volto dell’altro come alterità etica e traccia dell’Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Città Nuova, Roma 1984, 118. 30   Occorre qui specificare che per il nostro autore si testimonia in questo modo soltanto dell’Infinito, di cui nessuna presenza né attualità è capace (cf. ivi, 119). 31   Lévinas, Altrimenti che essere, 183. 28

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Pier Luigi Cabri monianza che appartiene alla gloria dell’Infinito. È attraverso la voce del testimone che la gloria dell’Infinito si glorifica.32

Il testimone testimonia di ciò che egli dice. Dicendo «eccomi» davanti ad altri e per il fatto che davanti ad altri riconosce la responsabilità che gli incombe, egli si trova ad aver manifestato ciò che il volto d’altri ha significato per lui: «La gloria dell’Infinito si rivela attraverso ciò che è capace di fare nel testimone».33 La testimonianza non è uno stratagemma a cui l’Infinito ricorre, coinvolgendo l’uomo che fungerebbe da intermediario, per rivelare se stesso, per mostrarsi, quanto la modalità nella quale l’Infinito, nella sua gloria, supera il finito. La testimonianza è il modo in cui l’Infinito avviene, senza entrare nell’«essere del tema», è il Dire senza Detto, secondo un intrigo diverso rispetto a quello che collega, ad esempio, la causa all’effetto. È, piuttosto, il distacco dell’Infinito verso il pensiero che vorrebbe tematizzarlo o verso il linguaggio che tenterebbe di trattenerlo nel Detto. Il Dire non può essere ridotto a un atto, a uno stato d’animo o a un pensiero fra gli altri; non ha a che fare, come già più volte è stato sottolineato, con lo scambio di informazioni. Il Dire è testimonianza, al di là di quello che potrà avvenire, al di là del destino in cui potrebbe entrare, proprio attraverso il Detto, in un sistema di parole. La testimonianza dell’Infinito avviene nel Dire senza Detto, nell’«eccomi», nell’essere «preso per i capelli» dal fondo dell’oscurità del soggetto. L’«eccomi» significa porsi al servizio degli uomini in nome di Dio, senza avere nulla con cui identificarsi, se non il suono della propria voce o la figura del proprio gesto. Ciò è esattamente il contrario del ritorno a sé o della coscienza di sé, è piuttosto sincerità, uscita da sé per andare verso il prossimo. La testimonianza è umiltà e confessione, viene prima di ogni teo­logia, essa è riconoscenza. Ci pare di essere qui di fronte a una sintesi del pensiero levinasiano in ordine ai grandi temi della sua filosofia e, nello stesso tempo, di individuare la traccia del suo itinerario etico: la prossimità come esposizione incondizionata all’altro costituisce la vera testimonianza dell’Infinito. Il Dire è segno forte, pur nella passività e nella vulnerabilità del soggetto. Soltanto la veridicità e la sincerità possono esporsi fino alla ferita, e dove c’è questa esposizione c’è Dire. Un Dire che precede il suo contenuto e si rivela come qualcosa che precede l’essenza e la coscienza, un Dire che indica il sovrappiù del senso dell’essere e che non si può misurare. La sincerità «non è la brutalità della confessione né la violenza dell’atto, ma il farsi incontro agli altri, il farsi carico del prossimo».34 La testimonianza non si riduce alla relazione diretta che collega l’indice a colui che è indicato, perché in tal modo la testimonianza diver-

  Ivi, 183-184.   Lévinas, Etica e Infinito, 120. 34   E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1985 e 1998, 137. 32 33

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rebbe disvelamento e tematizzazione. Essa è la «passività senza fondo della responsabilità», è sincerità, cioè «il senso del linguaggio prima che il linguaggio si perda in parole, in temi che si uniformano alle parole», nascondendo nel Detto l’apertura del Dire, pur senza cancellare anche nel Detto «la traccia della testimonianza, della sincerità o della gloria».35

5. La

verità del libro

Il riferimento al Detto levinasiano come «traccia della testimonianza» e luogo della verità che scaturisce dalla relazione con l’altro richiama alla memoria il racconto di Antonia Arslan, scrittrice e saggista di origine armena, sul prezioso libro di Mush.36 In una notte di fine giugno del 1915, due donne scappano verso le montagne. L’esercito turco ha lasciato nel loro villaggio solo morti e rovine, una delle tante prove del genocidio armeno avvenuto tra il 1915 e il 1922. Le fuggiasche hanno perso tutto, ma riescono a portare in salvo l’antico e prezioso libro di Mush, un testo liturgico conservato da sette secoli in un monastero. È alto quasi un metro e pesa poco meno di 30 chilogrammi, è il prezioso brandello di memoria di un popolo massacrato e disperso. Il libro racchiude omelie composte in un monastero armeno intorno al 1200, è un testo considerato sacro, venerato per la sua forza spirituale, dotato di poteri taumaturgici, testimone della tradizione di fede di un intero popolo. Le due donne trovano il manoscritto mentre fuggono dal loro villaggio e decidono di salvarlo: rinunciano a portare con sé provviste, vestiti e denaro e si fanno carico del libro. A motivo del peso lo dividono a metà e affrontano la fuga sulle montagne promettendosi che, comunque andranno le cose, faranno giungere le parti del libro alla sede del patriarcato armeno. È suggestiva l’immagine di queste due donne semplici che, fuggendo alla morte in cerca di scampo, portano con sé il libro. Sono disperate: i loro cari sono stati brutalmente trucidati, il loro villaggio distrutto, sono disorientate e non sanno dove andare. Ci sarà per loro un futuro? E quale sarà? Quel libro diventa così un segno del cielo, un segno di speranza. Le salverà o saranno loro a salvare il libro e, simbolicamente, la storia, la verità e la tradizione spirituale del popolo armeno? Probabilmente non sanno leggere ma comprendono che quel pezzo della loro cultura è necessario al loro futuro e a quello del loro popolo. Stringono a sé il libro, sulle strade dell’esodo, perché non cercano solo scampo immediato ma guardano lontano, al domani della loro terra.

  Lévinas, Altrimenti che essere, 189.   Cf. A. Arslan, Il libro di Mush, Skira, Milano 2012; A. Arslan – E. Pace, Rimozione di un genocidio. La memoria lunga del popolo armeno, EDB, Bologna 2015. 35 36

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Il destino che è spesso toccato a comunità disperse e finite sotto il giogo dei più svariati dominatori ha reso indispensabile il possesso di un «libro», di solito un testo sacro, da portare con sé come prezioso pegno salvifico. Una «casa di parole» per continuare a vivere e poter conservare la memoria religiosa e civile dopo le persecuzioni, i massacri e le umilianti rimozioni che la storia talvolta riserva. Quando si perde tutto, il libro diventa una casa. Questa storia fa riflettere sul legame di un popolo a ciò che di più prezioso conserva: il Libro, la Scrittura, la Torah, luoghi di sedimentazione di una storia che mantiene in vita, il condensarsi di una tradizione che, anziché essere qualcosa di immobile e fissata una volta per sempre, progredisce e cresce. E tutto questo grazie al contributo di tutti e di ciascuno, contributo che arricchisce la grande tradizione attraverso la relazione, il dialogo, il confronto, nella ricerca incessante della verità.

Bibliografia Arslan A., Il libro di Mush, Skira, Milano 2012. Arslan A. – Pace E., Rimozione di un genocidio. La memoria lunga del popolo armeno, EDB, Bologna 2015. Bori P.C., Il dialogo al pozzo. Gesù e la Samaritana secondo Tolstoj, EDB, Bologna 2014. Cabri P.L., Sulla difficile arte di amare. Con Lévinas e oltre Lévinas, EDB, Bologna 2011. Derrida J., «Violenza e metafisica», in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971. —, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998. Ferrarotti F., «La conoscenza sociologica come conoscenza partecipata», in Historia, antropología y fuentes orales 41(2009), 107-121. Nancy J.-L., Non toccarmi. Maria Maddalena e il corpo di Gesù risorto, EDB, Bologna 2015. Nietzsche F., La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 292011. Rigobello A., L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessioni nella filosofia italiana, Armando, Roma 1977. Steiner G., Morte della tragedia, Garzanti, Milano 1976. Theobald C., La rivelazione, EDB, Bologna 2006. Trabattoni F., La verità nascosta. Oralità e scrittura in Platone e nella Grecia classica, Carocci, Roma 2002.

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Chiesa, «mondo riconciliato»: la dimensione comunitaria via e segno di umanizzazione

Mario Fini

Questa relazione intende «narrare» il cammino della Chiesa dal concilio a oggi nella sua missione di evangelizzare «umanizzando». Il titolo riprende un’espressione di sant’Agostino che presenta la Chiesa dentro all’umanità, come «mondo riconciliato».1 Ho incontrato questa citazione nell’esortazione apostolica Paterna cum benevolentia (1974) del beato Paolo VI, sulla riconciliazione all’interno della Chiesa, in preparazione alla celebrazione del Giubileo a Roma (1975): La riconciliazione […] trova permanente espressione storica nel corpo di Cristo che è la Chiesa, nella quale il Figlio di Dio convoca «i suoi fratelli da tutte le genti» e, in quanto suo capo, ne è il principio di autorità e di azione che la costituisce sulla terra quale «mondo riconciliato».2

Il titolo viene poi esplicitato mettendo in evidenza come la «dimensione comunitaria» sia essenziale perché la persona umana si realizzi pienamente e perché la Chiesa sia veramente il popolo di Dio, «sacramento della nuova umanità». Inizio questa relazione con alcune annotazioni personali, esplicitando così la «precomprensione» con la quale mi sono accostato a questo tema. Nel mio cammino di maturazione della fede nella Chiesa di Bologna, nel Seminario arcivescovile e regionale, sono emersi due aspetti del cristianesimo che mi hanno poi sempre orientato nella mia vita di presbitero e nella mia riflessione teo­logica. Nel periodo del liceo (1962-1965) mi inter-

1 2

  Agostino, Sermone 96,7,8: NBA XXXI/2, 185.   Paolo VI, esortazione apostolica Paterna cum benevolentia (8.12.1974): EV 5/821.

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rogavo, in dialogo con la cultura del tempo, se il cristianesimo fosse fonte di «umanizzazione». Erano gli anni nei quali ero posto di fronte a una scelta precisa: seguire Cristo e la sua chiamata o lasciare, desideroso di vivere da giovane senza tanti «divieti» e norme. Mi confrontavo con autori che presentavano un umanesimo senza Dio, anzi che negavano che credere in Dio potesse generare umanità. In particolare il mio dialogo fu con l’Albert Camus della Peste e dei Giusti. Maturai la convinzione che il Dio di Gesù Cristo è un Dio di uomini e per gli uomini e che l’amore di Dio non è vero se non si manifesta nell’amore delle persone, in particolare dei più piccoli, degli ultimi. E per questo compresi che la missione della Chiesa e quindi anche la missione del prete consiste nel manifestare la «passione» di Dio per l’uomo. Esprimo con le parole di Benedetto XVI a Verona (2006) la convinzione che mi portò a essere felice di seguire il Signore che mi chiamava a essere prete nella sua Chiesa: «Noi dobbiamo testimoniare con la nostra vita il grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza». L’altro elemento fondamentale fu l’esperienza ecclesiale dentro la mia Chiesa nel post-concilio e negli anni Settanta. Condivisi il cammino di una comunità che cercava di radicarsi dentro la storia degli uomini in un territorio, in un quartiere, e che trovava poi nell’assemblea eucaristica domenicale la sua visibilità. La Chiesa, sia come edificio che come comunità, è la tenda di Dio in mezzo agli uomini.3 Inoltre, nel periodo del vescovo A. Poma, ho fatto esperienza di una Chiesa popolo di Dio nella comunione dei vari carismi, nella corresponsabilità di tutti per l’evangelizzazione. Dentro a questa esperienza personale, di una fede cristiana che «umanizza» e di una Chiesa «comunità di persone» che valorizza i doni di ciascuno, cerco di narrare il cammino della Chiesa dal concilio a oggi.

1. Il

concilio e il beato P aolo

VI

Mi sembra utile introdurre la riflessione sull’antropologia e l’ecclesiologia del concilio in particolare nella Gaudium et spes (GS) citando la conclusione di una grande opera di antropologia teo­logica di W. Pannenberg apparsa nel 1985: La riflessione teo­logica ha messo in luce come la dimensione «sociale» della persona sia essenziale. Massimo il Confessore concepiva l’uomo come l’essere chiamato a congiungersi con la creazione, a conciliare i cinque dissidi

3  Questa era anche l’idea soggiacente alla campagna per le Nuove Chiese del card. Lercaro. Altri tratti che sottolineavano con forza questo aspetto erano la centralità della messa, in particolare dell’assemblea liturgica domenicale e dell’assemblea eucaristica presieduta dal vescovo in cattedrale.

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Chiesa, «mondo riconciliato»: la dimensione comunitaria via e segno di umanizzazione primordiali: la separazione tra l’uomo e la donna, quella tra paradiso e stato effettivo di vita terrena, tra cielo e terra, tra idea e realtà, infine tra creature e Creatore. In questa prospettiva viene interpretata anche la vocazione dell’uomo ad essere immagine di Dio: quando apparirà il Messia anche l’uomo avrà realizzato l’immagine divina. Nel Nuovo Testamento Cristo è qualificato come l’immagine di Dio realizzata (cf. 2Cor 4,4), in quanto Capo del suo Corpo, la Chiesa (cf. Col 1,15-18), dove fin d’ora si presenta in segno l’umanità rinnovata, riunificata per la signoria divina. A partire dunque dalla propria realizzazione in Gesù Cristo, la destinazione dell’uomo ad immagine di Dio presenta una «struttura societaria». La rispondenza dell’essere umano alla vita trinitaria di Dio trova la sua realizzazione nella comunità degli uomini, e più precisamente nella sua comunità del Regno di Dio, il cui Re messianico è Cristo servo (cf. Lc 22,28), comunità nella quale fin d’ora viene ad esprimersi l’unità di un genere umano rinnovato nel Regno di Dio che viene. La presenza del «futuro escatologico» nella vita della Chiesa è opera dello Spirito. La vita del fedele e della comunità eucaristica della Chiesa sono contrassegnate dalla partecipazione a quella vita nuova che già si è manifestata nel Signore risorto e che ci è data come «primizia» nello Spirito Santo (cf. Rm 8,23).4

Queste affermazioni trovano nel lavoro conciliare sulla missione della Chiesa nel mondo contemporaneo, da cui nasce la costituzione pastorale GS, una loro presentazione. Infatti, il centro dell’antropologia della GS è la persona fatta a «immagine di Dio» che trova la sua pienezza in Cristo che rivela l’uomo all’uomo (cf. GS 22: EV 1/1385ss). La dimensione comunitaria a immagine della vita trinitaria di Dio (GS 24) è essenziale perché la persona non può «ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (GS 24). Questa dimensione sociale si realizza in particolare in quella «nuova comunione fraterna», in quel suo corpo che è la Chiesa, nel quale «tutti, membri tra di loro, si prestano servizi reciproci» (GS 32). La Chiesa è «quel corpo dell’umanità nuova che già riesce a prefigurare qui in terra il mondo nuovo» (GS 39), in particolare «in quel sacramento della fede nel quale gli elementi naturali coltivati dall’uomo vengono trasformati nel corpo e nel sangue glorioso di lui, come banchetto di comunione fraterna e pregustazione del convito del cielo» (GS 38). Così si realizza il disegno di Dio che vuol fare dell’umanità una sola famiglia attraverso la Chiesa «universale sacramento della salvezza che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo» (GS 45), per una fraternità universale (GS 92). La Chiesa, quindi, «sacramento di unità del genere umano» (Lumen gentium [LG], n. 1: EV 1/284), popolo messianico (LG 9), sacramento del regno di Dio (LG 5), cioè dell’unità della famiglia di Dio (LG 9), è dentro la storia e vive nelle vicende umane il suo cammino verso la pienezza del Regno. Essa è parte di questo mondo e, come dice il proemio, «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi […] sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e

4  Cf. W. Pannenberg, Antropologia in prospettiva teo­ logica (BTC 51), Queriniana, Brescia 1987, 608-610.

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nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1). Viene poi esplicitato il fondamento teo­logico: la Chiesa è composta da uomini, riuniti in Cristo e guidati dallo Spirito nel cammino verso il regno del Padre, che hanno un messaggio di salvezza e, proprio per questo, si sentono solidali con l’umanità e la sua storia (cf. GS 1 e 40). Compito della Chiesa è lavorare perché la persona possa incontrare il Cristo che rivela l’uomo all’uomo (GS 22) e perché l’umanità diventi la grande famiglia dei figli di Dio (GS 93). In questo modo essa manifesta e realizza il cammino dell’umanità verso l’unità con Dio e verso la fraternità universale. In questo cammino conciliare e nella sua ermeneutica nel post-concilio il magistero di Paolo VI fu guida sicura nel «dibattito» sulla missione della Chiesa. Già in un testo del 1962, il card. Montini, vescovo di Milano, affermava: Per questo [la Chiesa] cercherà di farsi sorella e madre degli uomini; cercherà di essere povera, semplice, umile ed amabile nel suo linguaggio e nel suo costume. Per questo cercherà di farsi comprendere, e di dare agli uomini di oggi facoltà di ascoltarla e di parlarle con facile ed usato linguaggio. Per questo ripeterà al mondo le sue sapienti parole di dignità umana, di lealtà, di libertà, d’amore, di serietà morale, di coraggio e di sacrificio. Per questo, come si diceva, vedrà di «aggiornarsi» spogliandosi, se occorre, di qualche vecchio mantello regale rimasto sulle sue spalle sovrane, per rivestirsi di più semplici forme reclamate dal gusto moderno.5

Nella sua prima enciclica (Ecclesiam suam, 1964) egli presenta la Chiesa di Cristo che sempre deve rinnovarsi per realizzare la sua missione, cioè per essere ministra del «dialogo salvifico» che Dio Padre vuole realizzare con tutti i suoi figli. Una Chiesa quindi «dialogica» con le varie realtà di Chiese, con persone di altre religioni, con le loro culture, e anche con coloro che negano una realtà trascendente. Il concilio ha saputo entrare in dialogo con la modernità con l’atteggiamento della «misericordia», come aveva indicato san Giovanni XXIII: La Chiesa del concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa non soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà. […] La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro sinodo. Dategli merito in questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle

5   G.B. Montini, Pensiamo al Concilio (lettera della Quaresima 1962), citato in F.G. Brambilla, «Il discorso di Firenze. Un’enciclica all’Italia», in La Rivista del Clero italiano 96(2015)12, 811.

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Chiesa, «mondo riconciliato»: la dimensione comunitaria via e segno di umanizzazione cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo.6

Il cristianesimo è un vero «umanesimo» e la Chiesa può quindi dirsi «esperta in umanità» (Discorso all’ONU, 4.10.1965). San Giovanni Paolo II esprimerà la stessa valutazione dell’evento conciliare nella Dives in misericordia (1980): Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull’uomo, quanto più è, per così dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo concilio.7

Nei primi anni post-conciliari, in particolare nei primi anni Settanta, nelle Chiese ci fu un grande dibattito sulla missione della Chiesa, a partire dall’interpretazione della GS. La riflessione teo­logica approfondì in particolare la cristologia-soteriologia per evidenziare la peculiarità della salvezza cristiana e quindi per presentare l’umanesimo cristiano, di cui la Chiesa è sacramento. La sintesi di questi studi in chiave ecclesiologica la presentò Congar nel testo Un popolo messianico (1975). In quegli anni i sinodi affrontarono questi temi. Nel 1971 il sinodo, oltre al tema centrale del sacerdozio ministeriale, si interessò anche della giustizia nel mondo. Nel testo conclusivo vi è un’affermazione fondamentale: L’agire per la giustizia e partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come dimensione costitutiva della predicazione del vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressive.8

Il sinodo del 1974 sull’Evangelizzazione nel mondo contemporaneo e l’esortazione post-sinodale Evangelii nuntiandi (EN; 1975) furono decisivi per chiarire la missione evangelizzatrice della Chiesa. Per la prima volta il sinodo non produsse un documento conclusivo, anche per le difficoltà di far convergere gli apporti delle Chiese del nord con le Chiese del sud del mondo. Il documento post-sinodale, magna carta per tutte le Chiese sull’evangelizzazione, affrontò in particolare il tema della relazione tra evangelizzazione e promozione umana.

  Paolo VI, omelia Hodie concilium nella Sessione IX del concilio (7.12.1965): EV 1/456*.   Giovanni Paolo II, lettera enciclica Dives in misericordia (30.11.1980), n. 1: EV 7/860. 8   Sinodo dei vescovi, I. Documento Ultimis temporibus de sacerdotio ministeriali – II. Documento Convenientes ex universo de iustitia in mundo (30.11.1971): EV 4/1238. 6 7

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Mario Fini Tra evangelizzazione e promozione umana – sviluppo, liberazione – ci sono infatti dei legami profondi. Legami di ordine antropologico, perché l’uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma è condizionato dalle questioni sociali ed economiche. Legami di ordine teo­logico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione che arriva fino alle situazioni molto concrete dell’ingiustizia da combattere e della giustizia da restaurare. Legami dell’ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità: come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, l’autentica crescita dell’uomo?9

Il testo poi, nel presentare la spiritualità degli evangelizzatori, sottolinea come l’azione dello Spirito Santo in loro li conformi a vivere quella «umanità nuova» che ha vissuto Gesù. Essi infatti sono chiamati a essere da una parte «contemplativi», cioè persone che presentano «un Dio che conoscono e che è a loro familiare, come se vedessero l’Invisibile» (EN 76), dall’altra capaci di condividere l’umanità dei più poveri. Queste indicazioni si trovano, sempre in san Giovanni Paolo II, dieci anni dopo. Nel presentare gli «araldi del Vangelo», egli sottolinea come debbano essere «esperti in umanità, che conoscano le profondità del cuore umano, possano condividere le gioie e le speranze, le angosce e le sofferenze delle persone di oggi, ma che siano al tempo stesso dei contemplativi innamorati di Dio».10 Negli stessi anni la Chiesa italiana riprendeva nel primo Convegno ecclesiale (Roma 1976) lo stesso tema con questo titolo: Evangelizzazione e promozione umana. I vescovi italiani sottolinearono il primato dell’evangelizzazione e quindi della dimensione religiosa della missione della Chiesa, presentando la promozione umana come frutto della testimonianza di vita di coloro che hanno ascoltato la Parola e nei sacramenti hanno ricevuto la salvezza e indicando la necessità della «mediazione culturale» perché la fede innervi il tessuto della società. Questo convegno ispirerà il cammino della Chiesa in Italia fino al documento del 1981 La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, dove si ribadisce lo spirito e la via per cui il cristianesimo è presente nella società italiana, cioè lo stile evangelico: «Bisogna decidere di ripartire dagli “ultimi” che sono il segno drammatico della crisi attuale».11 «Con gli “ultimi” […], potremo tutti recuperare un genere diverso di vita. Demoliremo […] gli idoli che ci siamo costruiti […]. Riscopriremo poi i valori del bene comune: della tolleranza, della solidarietà, della giustizia sociale, della corresponsabilità».12

9   Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (8.12.1975), n. 31: EV 5/1623. 10   Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al VI Simposio del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (11.10.1985), n. 13. 11   Consiglio permanente della CEI, documento La Chiesa italiana e le prospettive del Paese (23.10.1981), n. 4: ECEI 3/756. 12   Ivi, n. 6: ECEI 3/758.

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2. La Chiesa nel pontificato di san G iovanni P aolo II Nelle parole e negli atti, nel lungo pontificato di Giovanni Paolo II, il tema dell’evangelizzazione e della «nuova evangelizzazione» è centrale. Egli sviluppa in particolare la «dimensione antropologica». Nella sua prima enciclica Redemptor hominis (RH; 1979) troviamo il suo programma pastorale. In essa vi è una «concentrazione» radicale su Cristo e sull’uomo. Egli afferma che «l’uomo è la via principale della Chiesa» (RH 14), e per questo la missione della Chiesa è rendere possibile l’incontro di Gesù Cristo con ogni uomo. Questo incontro passa attraverso l’uomo stesso e in lui si compie. Certo, è Gesù Cristo la via principale della Chiesa, ma la via che ha percorso Gesù è l’uomo, quindi la Chiesa, se vuole essere fedele a Cristo, deve percorrere la via dell’uomo. Impegnandosi per l’uomo, la Chiesa manifesta la sua fedeltà al Dio di Gesù Cristo. L’enciclica vuole aiutare a costruire una Chiesa degli uomini, non solo per gli uomini, cioè una Chiesa ove ogni persona si senta a casa sua. Trovo in due testi la sua sintesi sulla missione della Chiesa. Nel Discorso all’Unesco (Parigi, 2.6.1980, n. 10) egli dice: «L’insieme delle affermazioni concernenti l’uomo appartiene alla sostanza stessa del messaggio di Cristo e della missione della Chiesa». Un mese dopo, in Brasile (San Paolo, 3.7.1980), afferma che la missione della Chiesa si compie in pari tempo sotto due prospettive: la prospettiva escatologica che considera l’uomo come un essere il cui destino futuro è Dio; e la prospettiva storica che guarda a questo stesso uomo nella sua situazione concreta, incarnato nel mondo di oggi […]. La Chiesa, quando proclama il vangelo, senza peraltro abbandonare il suo compito specifico di evangelizzazione, cerca di ottenere che tutti gli aspetti della vita sociale in cui si manifesta l’ingiustizia, subiscano una trasformazione verso la giustizia.13

Solo nel sinodo straordinario del 1985, a vent’anni dalla conclusione del concilio, ci sarà una piena chiarificazione sulla missione della Chiesa tra evangelizzazione e liberazioni umane. Così declina il testo conclusivo: La missione salvifica della Chiesa in rapporto al mondo dobbiamo intenderla come integrale. La missione della Chiesa, sebbene sia spirituale, implica la promozione anche sotto l’aspetto temporale. Per questo motivo la missione della Chiesa non si riduce a un monismo, in qualsiasi modo esso possa essere inteso. Certamente in questa missione c’è una chiara distinzione, ma non una separazione, tra gli aspetti naturali e quelli soprannaturali. Questa dualità non è dualismo. Bisogna quindi mettere da parte e superare le false e inutili opposizioni per esempio tra la missione spirituale e la diaconia per il mondo.14

  Giovanni Paolo II, Discorso agli operai (3.7.1980), n. 3 (il corsivo è nostro).   Sinodo dei vescovi, relazione finale La Chiesa, nella parola di Dio, celebra i misteri di Cristo per la salvezza del mondo (7.12.1985), D/6: EV 9/1815. 13 14

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3. La Chiesa:

popolo di fratelli e sorelle nell ’ amore vicendevole e nel servizio degli ultimi

La dimensione comunitaria della persona, che trova nella Chiesa l’espressione della fraternità dei discepoli di Gesù a servizio della fraternità universale, si realizza nella carità vicendevole e nella condivisione della vita con gli ultimi, gli «scarti del mondo». Il concilio ha sottolineato tutto questo. Infatti la Chiesa, che vive dentro la storia, che partecipa alle gioie e ai dolori dell’umanità, vive la legge dell’amore ed è sacramento del regno di Dio perché «svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo» (GS 45), consapevole che «è il nuovo comandamento dell’amore […] che è la legge fondamentale dell’umana perfezione e perciò anche della trasformazione del mondo» (GS 38) e quindi anche della «fraternità universale» (cf. GS 93). La Chiesa, popolo messianico che ha per legge il nuovo precetto dell’amore (cf. LG 9), è il luogo visibile comunitario ove questa trasformazione verso una fraternità universale si sta realizzando. Il concilio, nel proe­mio della LG, definisce la Chiesa «sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». Inoltre la presenta popolo messianico che, come piccolo gregge, costitui­ sce «per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza, e di salvezza» (LG 9). La Chiesa nel post-concilio, mentre identificava la sua missione nell’evangelizzare, giungeva ad affermare e a tematizzare che la carità ne è il fondamento e l’espressione visibile. Fu proprio la Chiesa italiana che, sollecitata dalla Caritas, all’interno dei piani pastorali sull’evangelizzazione, chiese ai teo­logi italiani nella metà degli anni Ottanta di riflettere sul tema «Carità e Chiesa». In questo modo furono preparati gli Orientamenti pastorali per gli anni ’90: Evangelizzazione e testimonianza della carità (8.12.1990).15 Il testo pone uno stretto rapporto tra evangelizzazione e carità. Ciò è indicato dalla formula continuamente usata: «il vangelo della carità» (cf. nn. 10.11.25ss). Infatti la carità cristiana ha in sé una grande forza evangelizzatrice (n. 24): per questo bisogna rifare il tessuto cristiano della comunità ecclesiale attraverso la carità (cf. nn. 26-28), perché sempre più diventi Chiesa dei poveri (cf. n. 47). Il primo e fondamentale gesto di carità è l’annuncio del vangelo dell’amore a tutti. Il tema fu poi al centro del terzo Convegno ecclesiale (Palermo 1995) e della nota pastorale della CEI Con il dono della carità dentro la storia (1996). I teo­logi che maggiormente contribuirono a questa riflessione furono S. Dianich e P. Coda. Don Severino tenne la relazione fondamentale al convegno nazionale dell’Associazione teo­logica italiana su «De carita-

15   CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per gli anni ’90 (Documenti Chiese locali 6), EDB, Bologna 1991.

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te Ecclesia» (1985)16 e in un volume curato dalla Caritas, come manuale di teo­logia pastorale, presentò la riflessione su «La Chiesa per la fraternità tra gli uomini».17 In questo testo di sintesi egli presenta la Chiesa nell’orizzonte del regno di Dio sottolineando che sia la proclamazione della fede che il suo cammino verso il Regno prendono forma dall’amore per l’uomo concreto al quale comunicare la fede e con il quale camminare verso il futuro di Dio. Infatti, la «convocazione» ecclesiale è anticipo della convocazione escatologica. Così la carità dà forma alla Chiesa nelle sue dimensioni più vaste e più complete, quelle di una Chiesa che prelude veramente alla convocazione escatologica della famiglia umana, nella quale saranno riuniti presso il Padre «tutti i giusti, a partire da Adamo, dal giusto Abele fino all’ultimo degli eletti» (LG 2).18 Il teologo Piero Coda lavorò in particolare ai testi della CEI per preparare il Convegno di Palermo e per la nota pastorale.19 Egli presenta la carità ecclesiale nella sua sorgente trinitaria e come anticipo della venuta del regno di Dio e la descrive nelle sue caratteristiche: prossimità, reciprocità, kenosi, apertura e circolarità, storicità. Presentando poi il rapporto tra evangelizzazione e carità, Coda sottolinea come la carità sia via privilegiata dell’evangelizzazione e via di «promozione umana», perché, come ricorda il concilio, «la carità è legge di trasformazione del mondo». La carità che la Chiesa è chiamata a vivere è quella che ha vissuto Cristo, che ha fatto la scelta della povertà e che ha portato la buona notizia ai poveri. La centralità dell’amore reciproco come «forma» della Chiesa, collegato con l’azione dello Spirito Santo che è amore che ci fa vivere la realtà futura del regno di Dio, è già presente nei testi del Nuovo Testamento, sia in san Giovanni sia in san Paolo, e si sviluppa nei primi secoli del cristianesimo. È in particolare sant’Agostino che presenta una riflessione approfondita. Egli, in un sermone per la dedicazione di una chiesa, descrive la nascita della comunità cristiana attraverso la predicazione e i sacramenti. Egli poi afferma che senza l’amore reciproco non si dà la realtà della Chiesa (cf. Discorso 336: NBA XXIII, 949-951). Inoltre, il tema della carità/amore come realtà centrale del mistero del Dio di Gesù Cristo, e quindi della Chiesa, è stato al centro della riflessione anche del teologo J. Ratzinger divenuto poi papa Benedetto XVI. Nei suoi primi studi egli si è interessato dell’ecclesiologia, a partire dalla sua tesi su sant’Agostino. La Chiesa è il popolo di Dio nella concretezza del

16   Associazione teo­logica italiana, De caritate Ecclesia. Il principio «amore» e la Chiesa, Messaggero, Padova 1987. 17   Cf. S. Dianich, in Diaconia della carità nella pastorale della Chiesa locale, Libreria Gregoriana, Padova 1986, 245-256. 18   Ib. 19  Cf. P. Coda, in A. Montan (a cura di), Il vangelo della carità per la Chiesa e la società, EDB, Bologna 1994, 81-111; Id., «Carità Chiesa e nuova evangelizzazione», in L. Baronio (a cura di), La Carità (Biblioteca della solidarietà/Caritas italiana 1), Piemme, Casale Monferrato 1996, 82-167.

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corpo del Signore che trova il suo centro nell’eucaristia in un «movimento» che tende a raccogliere l’umanità intera sotto l’unico Signore, Gesù il Cristo.20 In alcuni testi della fine degli anni ’50 e inizio degli anni ’60 egli presenta la Chiesa come «fraternità» dentro la storia a servizio del piano di Dio che vuol fare dell’umanità una sola famiglia. In questi studi, si presenta la realtà della Chiesa nei primi secoli, cogliendo in essa elementi importanti che poi lungo i secoli si sono offuscati e che è necessario riscoprire.21 Ritornano in particolare due temi fondamentali: la Chiesa «la madre cattolica» e la Chiesa come «fraternità». Studiando il tema della «fraternità» nella storia per poi presentare una sintesi teo­logica, il teologo evidenzia che il termine «fratello», che nei primi due secoli indicava il cristiano rinato nel battesimo, dal III secolo in poi prende due direzioni: in Cipriano «fratello» indica un vescovo o un chierico; nel IV secolo indica invece colui che fa una vita ascetica nelle comunità monastiche. J. Ratzinger conclude così l’analisi storica: «“Fratello” ha subito una contrazione in senso gerarchico ed ascetico […]. Un tale stato di cose, come è a tutti noto, si è protratto sino a tutto questo secolo, con tutte queste nocive conseguenze, che non potevano non accompagnarle».22 Nella riflessione teo­logica poi egli evidenzia come la fraternità cristiana trascenda i vincoli del sangue, dell’appartenenza etnica e culturale e, provenendo dall’unico Dio e Signore, sia destinata a ogni uomo senza alcuna distinzione. A differenza della visione greca che fa risiedere una vaga fraternità nella comune natura dell’uomo, il cristianesimo fonda tale fraternità nel dono stesso che Dio fa di se stesso in Gesù Cristo. Quando i cristiani pregano dicendo: «Padre nostro», affermano che accogliere Dio come Padre implica immediatamente accogliere come fratelli tutti i figli di quello stesso Padre. Egli quindi fonda la fraternità di tutti gli uomini nella fede nella creazione dell’uomo riempito del «soffio dello Spirito di Dio», fatto a «immagine» di Dio, e nella fede nel Verbo fatto carne che ha unito a sé ogni uomo.23 Presentando poi la «fraternità» dei cristiani ne coglie il fondamento nella «nuova nascita» attraverso la realtà sacramentale, nella condivisione della stessa Parola che essi ascoltano, nell’unica «speranza» e nell’eucaristia, che è l’espressione di questa fraternità. La «fraternità cristiana» si manifesta nello stile di vita personale, comunitario – nelle relazioni tra le varie comunità sparse nel mondo –, nel riconoscere fratelli tutti coloro che sono battezzati e, infine, aperta a tutti gli uomini nel rispetto

 Cf. J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1977 (orig. ted. 1954). 21  Cf. J. Ratzinger, Fraternità cristiana, Paoline, Roma 1960 (da una conferenza del 1958); Id., «Fraternité», in Dictionnaire de Spiritualité, Beauchesne, Paris 1964, V/3, 11411167; Id., L’unità delle nazioni. Una visione dei padri della Chiesa, a cura di G.M. Vian, Morcelliana, Brescia 1973 (da una conferenza del 1962); Id., «Il concetto della Chiesa nel pensiero patristico», in I grandi temi del Concilio, Paoline, Roma 1965, 139-158. 22   Ratzinger, Fraternità cristiana, 62-63. 23   Ratzinger, «Fraternité», 1155-1158. 20

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davanti all’altro conosciuto e amato da Dio. La Chiesa come «fraternità» è chiamata con la sua missione a manifestare e a rendere presente al mondo il regno di Dio che cresce nella storia verso la «fraternità universale». La missione della Chiesa è la stessa di Cristo: soffrire e dare la vita per gli altri. La Chiesa nasce dentro a quel «per» che è la logica di Cristo: come il servo di YHWH, messia e popolo di Dio, nella diaconia della sofferenza.24 Un altro aspetto che Ratzinger coglie nei padri, e in particolare in sant’Agostino, è la realtà della «cattolicità della Chiesa», cioè, come dice il concilio, di essere «sacramento di unità del genere umano» (LG 1; 9; 48). In questa sintesi il teologo presenta il cammino della storia del mondo verso il regno di Dio attraverso il cammino della Chiesa come comunione di comunità fraterne: La fratellanza dei cristiani, anzi lo spirito fraterno dei cristiani verso tutti gli uomini è la conseguenza necessaria di questa comunione tra gli uomini che è indissolubilmente legata al sacramento della Cena del Signore. Per questo, la «comunione» è nello stesso tempo un appello ad ogni singolo ad uscire dal suo isolamento; un appello a perdersi per veramente ritrovarsi nel tutto. La «transizione» che è la Chiesa si realizza nel singolo uomo quale transizione della superbia del proprio io nell’unità dei membri nel Corpo di Cristo. Il prescritto della Pasqua, della transizione, è, infatti, il precetto fondamentale del cristianesimo che sta anche scritto una volta per sempre sul fondo del sacramento dell’eucaristia di cui vive la Chiesa. La visione dei padri dell’unione del genere umano comincia a questo punto a prendere contorni affatto concreti: nella rete delle comunità di comunione che la missione cristiana ha steso attraverso tutta l’ecumene inizia già quella comunione del genere umano tra l’un l’altro e con Dio che è il fine ultimo dell’evento di Cristo. Giacché ciascuna comunità di comunione è una «fraternità» che s’intreccia in un’unica fraternità con tutte le Mense di Dio in questo mondo e, d’altra parte, queste comunità della Mensa Divina sono per principio aperte, non sono dei circoli chiusi, ma stanno qui come l’invito divino fattosi corpo, rivolto a tutti gli uomini affinché partecipino dell’eterno banchetto nuziale di Dio. La rete di comunione della Chiesa, per continuare il linguaggio dei Padri, è per così dire la forma concreta della rete che Iddio ha affondato nel mare per trarre a sé il genere umano e condurlo alla terra dell’eternità.25

Anche nel suo magistero come papa, Benedetto XVI ribadisce la centralità dell’amore/carità. Infatti la sua prima enciclica Deus caritas est (25.12.2005) presenta la carità come «il cuore» della Chiesa fondata sull’amore trinitario. Come Gesù di Nazaret rivela il cuore di Dio, così la Chiesa è chiamata a rendere visibile questo amore gratuito e rivolto a ogni persona. Ogni gesto della Chiesa deve manifestare che Dio ama l’uomo. Il tema della carità è centrale anche nell’enciclica sociale Caritas in veritate (29.6.2009). In questa enciclica il papa ribadisce un aspetto fondamentale della sua teo­logia, cioè che verità e carità sono una medesima realtà perché in Dio

  Ivi, 1158-1165.   Ratzinger, «Il concetto della Chiesa nel pensiero patristico», 148-149.

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il Logos è amore che si dona. Il papa presenta anche il rapporto tra fraternità, sviluppo economico e società civile attraverso la categoria del «dono», cioè della gratuità: Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini. La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sue sole forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore. Nell’affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall’esterno e, dall’altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità.26

La carità/dono/gratuità che si è manifestata in modo particolare nella vita di Gesù trova il suo fondamento e la sua manifestazione nella celebrazione eucaristica, «primizia» del mondo nuovo di fraternità, di giustizia e di pace (cf. GS 38). Sempre nella Deus caritas est egli presenta la «mistica» del sacramento che ha sempre un carattere «sociale», perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti. L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali egli si dona.27 Infine, nell’ultima parte dell’esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis (2007) egli presenta le implicazioni sociali del mistero eucaristico, affermando che «chi partecipa all’eucaristia […] deve impegnarsi a costruire la pace e la giustizia», anche denunciando ciò che è «in contrasto con la dignità dell’uomo per il quale Cristo ha versato il suo sangue».28

4. Verso

il pontificato di papa F rancesco e il suo stile pastorale

Nel cattolicesimo italiano si erano manifestate «sofferenze» nel periodo del pontificato di papa Benedetto XVI. Espressione di questa sofferenza e del desiderio di un profondo rinnovamento ecclesiale fu una lettera inviata a varie persone dal titolo: «Il Vangelo che abbiamo ricevuto»

26   Benedetto XVI, lettera enciclica Caritas in veritate sul progresso umano integrale nella carità e nella verità (29.6.2009), n. 34: EV 26/726. 27   Benedetto XVI, lettera enciclica Deus caritas est sull’amore cristiano (25.12.2005), n. 14: EV 23/1563. 28   Benedetto XVI, esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis sull’eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa (22.2.2007), n. 89: EV 24/216.

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(marzo 2003).29 In essa si proponeva un incontro aperto a tutti. L’incontro si svolse a Firenze (2003). In questa sede G. Ruggieri svolse una relazione fondamentale dal titolo: «Per una Chiesa della fraternità e sororità».30 Nel leggere il testo sono rimasto profondamente colpito non solo per la ricchezza della riflessione teo­logica ma, in particolare, per una visione di Chiesa che poi si rivelerà molto cara a papa Francesco. Il teologo, dopo aver sottolineato che «annunciare la Chiesa della fraternità e sororità oggi vuol dire al tempo stesso, per essere fedeli alla grazia che ci è stata data, attualizzare la grazia del concilio», indica la strada per la «riappropriazione» della fraternità evangelica nei «gesti» che esprimono il senso di questa «parola». Egli ne individua e ne sviluppa tre: «La liturgia che ci costituisce fraternità; la povertà come garanzia che questa fraternità vive della forza del Vangelo e la misericordia che è il raccordo della fraternità ecclesiale con la fraternità più vasta dell’umanità». Parlando dell’atteggiamento della Chiesa, Ruggieri sottolinea come solo nel concilio, con papa Giovanni, si volle percorrere la strada della misericordia e non della condanna. Concludendo, il teologo presenta una Chiesa unita dalla consapevolezza di essere una comunità di peccatori «graziati» – che si aprono alla «fraternità universale» –, fatta di poveri bisognosi di misericordia: Quando parliamo di misericordia non ci poniamo sul piano delle pie esortazioni morali, ma nella profondità stessa dell’essere di Dio, nelle sue viscere di donna, come dice arditamente la Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento, nella profondità dell’amore del Padre che con le parole di Osea, riprese da Gesù per coloro che lo rimproveravano di sedere a tavola con i peccatori, ci ricorda che «voglio misericordia, non sacrifici». Una Chiesa della fraternità e della sororità rende visibile il volto del Padre solo in questa maniera.31

Questo testo mi avvia alla riflessione conclusiva con la presentazione di alcuni elementi del magistero di papa Francesco. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (EG) – programma per una Chiesa «in uscita» (EG 24) – il papa presenta la dimensione comunitaria della fede come la realizzazione dell’«uscita da se stessi» che manifesta la vera natura della persona. La Chiesa che è il popolo di Dio in movimento perché l’umanità diventi un sol popolo, è un popolo per tutti (EG 112), un popolo dai molti volti (EG 115). Per questo la vita spirituale dei discepoli-missionari non si realizza solo nell’essere con Gesù, ma anche nell’essere popolo (EG 263), cioè con la gente, in particolare con i poveri. Essere in Cristo genera nuove relazioni, che possono essere identificate con la parola «fraternità».32

29  Cf. A. Melloni – G. Ruggieri (a cura di), Il vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della Chiesa italiana, Carocci, Roma 2010. 30   G. Ruggieri, «Per una chiesa della fraternità e della sororità», in Melloni – Ruggieri (a cura di), Il vangelo basta, 31-67. 31   Ivi, 64-65. 32  Cf. C. Theobald, «Mistica della fraternità. Lo stile nuovo della Chiesa e della teo­logia nei documenti programmatici del pontificato», in Il Regno-att (2015)9, 581-588, che utilizzo in questa parte.

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«Il modo di relazionarsi con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare è una fraternità mistica, contemplativa» (EG 92). Oggi […] sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la «mistica» di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio (EG 87).

Papa Francesco sottolinea come nel «banale» convivere ci può essere il cambiamento, la conversione alla fraternità per «un’utopia» universale espressa con le due immagini, una laica, l’altra religiosa. Il papa parla di «mistica» della fraternità. Perché l’autentica spiritualità, sul fondamento dell’incarnazione, non è nella sua «sacralità», ma nella sua «corporalità» (EG 88). Occorre scoprire Cristo nel volto dell’altro (EG 91), cioè scoprire la grandezza sacra del prossimo, scoprire Dio in ogni essere umano. Quindi non c’è mai autentica esperienza di Dio al di fuori di un’esperienza di umanità e di autentica fraternità: essa è già esperienza di Dio. Fraternità in modo concreto è includere i poveri nella società e utilizzare «un’ecologia integrale», una «fraternità universale» (Laudato si’, n. 228). Il teologo C. Theobald così conclude: «L’uscita da sé verso il fratello», che costituisce la fraternità, rappresenta il movimento […] spirituale di base che – «in risposta alla donazione assolutamente gratuita di Dio» (n. 179) – non solo determina essenzialmente la Chiesa e i «discepoli missionari», ma forma anche il nucleo di ogni umanità. Solo se si cerca di viverlo in modo credibile all’interno della Chiesa, esso può venir svelato come già esistente anche all’interno della società ed essere stimolato e recepito come richiesta profetica del cristianesimo e al cristianesimo.33

Il papa, nell’intervento al Convegno ecclesiale di Firenze (10.11.2015), rivolgendo alla Chiesa italiana una vera enciclica, la invita a un cammino sinodale nella linea dell’EG.34 La invita a non essere ossessionata dal potere e a uscire per le strade, a non avere uno stile di durezza, controllo, normatività, per essere vicina alla gente. Egli indica tre direttrici: una Chiesa che includa i poveri, capace di dialogo e che dà un contributo critico alla vita civile. In questo «cambiamento d’epoca» occorre un cambiamento di stile e quindi un mutamento di «forma ecclesiale»: Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta con volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come figlio di

  Ivi, 583.  Cf. Francesco, «Il papa alla Chiesa italiana: in Cristo il nuovo umanesimo», in Il Regno-att (2015)10, 691-694. 33 34

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Chiesa, «mondo riconciliato»: la dimensione comunitaria via e segno di umanizzazione Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura.35

5. Per

continuare il cammino per una fraternità universale

Nella narrazione del cammino della Chiesa dal concilio a oggi è emerso come sia centrale una riflessione filosofica e teo­logica sulla persona umana che metta in evidenza come la «vocazione umana» sia quella di divenire comunità. Il filosofo R. Mancini, nei suoi studi sulla «comunicazione», presenta la «relazione» come centrale per la realizzazione della persona. Egli afferma che «il divenire ontologico del dialogo è la tessitura della persona».36 Per la sua costituzione comunicativa la persona nasce e si sviluppa in realtà comunitarie, che non rappresentano solo strumenti funzionali all’individuo, ma schiudono una vera vocazione all’esistenza comunitaria. Se gli esseri umani continuano, almeno potenzialmente, a completare la loro nascita, il loro divenire sino in fondo se stessi, per tutta la vita, le diverse forme di comunità sono a loro volta chiamate a preparare e favorire questo cammino di inveramento in cui non è in gioco una generica relazionalità, ma la relazione di ciascuno e di tutti con il Bene.37

Come già abbiamo indicato all’inizio di questa relazione, anche l’antropologia teo­logica presenta la medesima «costituzione comunitaria» della persona. Per questo la Chiesa viene vista come un «segno sacramentale» ove si realizza la vocazione comunitaria della persona e del­ l’umanità. Questa riflessione ecclesiologica a partire dal concilio ha guidato il cammino pastorale della Chiesa con accentuazioni diverse nelle varie fasi del post-concilio. Concludo riprendendo le parole del card. Bergoglio, appena nominato vescovo di Roma e quindi papa: «La Chiesa non deve essere una ONG, e questo è possibile solo se sta sotto la croce e guarda il Crocifisso». Una Chiesa che «guarda lo spettacolo» del Crocifisso come le donne (Lc 23,48), che tiene fisso lo sguardo su Gesù «autore e perfezionatore della fede, che di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi si sottopose alla croce» (Eb 12,2), è una Chiesa che si fa povera come il suo «fondatore» Gesù e condivide la vita dei poveri (cf. LG 8), che sempre deve accogliere la misericordia del Padre, perché è fatta di poveri peccatori, e quindi ha sempre bisogno di riforma (cf. LG 8 e 9), in continua «uscita» perché sacramento del regno di Dio, testimone della «rivoluzio-

  Ivi, 694.   R. Mancini, «La comunicazione come responsabilità creaturale», in Vita Monastica 58(2004)226, 16. 37   Ib. 35 36

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ne della tenerezza». Una Chiesa quindi che, tenendo al centro la croce, sorgente della «fraternità universale» (cf. Gv 12,32: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me»), attraverso la sua testimonianza fino al «martirio», apre l’umanità a realizzare la vocazione di essere la «famiglia dei figli di Dio». Rileggendo la grande visione dell’Apocalisse ove si parla dei 144.000 segnati con il Tau e di una moltitudine immensa che è passata attraverso la grande tribolazione (cf. Ap 7), penso che il testo presenti il regno di Dio che comprende tutti i battezzati e tutti coloro che si sono spesi con amore in mezzo a profonde sofferenze: sono in Cristo e fanno parte di quella communio sanctorum che già qui in terra manifesta la grande convocazione escatologica, quando Dio asciugherà le lacrime dei propri figli (cf. Ap 21,4). Con la madre Chiesa proclamo la mia fede nel Dio-Trinità e nel «frutto» della Pasqua di Gesù e del dono dello Spirito, che è la stessa Chiesa: credo la Chiesa popolo di Dio che riconosce Cristo come unico Signore, che vive la comune dignità dei figli di Dio, nella legge dell’amore, a servizio del Regno (LG 9). Credo la Chiesa comunità di fratelli e sorelle che vivono nell’amore reciproco e sono nel mondo inizio delle relazioni nuove tra le persone, ove non conta il denaro, l’onore, il potere, ma la dignità dell’essere tutti figli di Dio (LG 8 e 9). Con santa Teresa del Bambin Gesù anch’io, peccatore «graziato», ho compreso che «l’unica vocazione è l’amore» e che il mio posto nella Chiesa è stare nel suo cuore di madre che mi «prende a cuore» e mi dona la gioia di «prendere a cuore».

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Chiesa, «mondo riconciliato»: la dimensione comunitaria via e segno di umanizzazione

—, «Fraternité», in Dictionnaire de Spiritualité, Beauchesne, Paris 1964, V/3, 1141-1167. —, «Il concetto della Chiesa nel pensiero patristico», in I grandi temi del Concilio, Paoline, Roma 1965, 139-158. —, L’unità delle nazioni. Una visione dei padri della Chiesa, a cura di G.M. Vian, Morcelliana, Brescia 1973. —, Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1977 (orig. ted. 1954). Theobald C., «Mistica della fraternità. Lo stile nuovo della Chiesa e della teo­logia nei documenti programmatici del pontificato», in Il Regno-att (2015)9.

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25)

Maurizio Marcheselli

Il racconto della guarigione del cieco nato (Gv 9,1-41) è uno dei testi giovannei più noti. Dal punto di vista della qualità letteraria è indiscutibilmente uno dei pezzi più riusciti di tutto il NT. Qui lo affrontiamo nella prospettiva di questo convegno di Facoltà,1 che vuole riflettere sul fatto che l’annuncio del vangelo implica sempre farsi carico degli aspetti critici della condizione umana. Non ci aspettiamo certo che il quarto vangelo (QV) ci parli dell’uomo nativo digitale o delle problematiche del lavoro in una società globalizzata; possiamo però supporre che esso sia in grado di dirci qualcosa di sufficientemente basilare sull’essere umano, da risultare significativo anche per il nostro tempo. Il contributo si articola in due parti: quale ritratto di uomo (ferito) emerge da Gv 9 (§ 1.); in che cosa consiste la cura che Gesù gli presta e cioè come viene istituita e quali effetti produce (§ 2.).

1. Chi che

è colui incontra passando

Gesù

L’incontro avviene mentre Gesù si sposta: egli è uscito dal recinto sacro per sottrarsi a un tentativo di lapidazione (8,59) e, mentre si dirige verso una meta non precisata, «passando» (paravgwn) vede un tale (9,1).

1   Ce ne siamo già interessati in M. Marcheselli, «Peccato e peccatori in Gv 9», in S. Grasso – E. Manicardi (a cura di), «Generati da una parola di verità» (Gc 1,18), Fs. R. Fabris (RivBibSupp 47), EDB, Bologna 2006, 141-154.

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Maurizio Marcheselli

Il v. 1 introduce il protagonista del racconto fornendone alcune caratteristiche fondamentali:2 «E, passando, vide un uomo cieco dalla nascita» (9,1). Benché – al di là del c. 9 – a lui si faccia riferimento ancora due volte nel racconto giovanneo (10,21; 11,37), come accade ad altre figure del QV, di questo personaggio non ci è conservato il nome.3 Colui che intercetta lo sguardo di Gesù è presentato nel testo semplicemente come un a[nqrwpo~ (anthro¯pos). Attraverso un vocabolo che prescinde da qualunque connotazione di tipo sessuale, egli compare pertanto sulla scena come un esemplare della specie «uomo». Questo uomo è poi immediatamente descritto come «cieco» (tuflov~). Egli risulta dunque affetto da una grave menomazione e questa ferita lo segna «dalla nascita» (ejk geneth`~): non ha mai conosciuto altra condizione; non ha perduto la vista, semplicemente non ne ha mai goduto.4 È bene osservare che non soltanto in 9,1 tuflov~ è seguito o preceduto dalla radice gen-: in 9,2.19.20.32 troviamo ripetutamente la combinazione del passivo di gennavw («essere generato, nascere») con tuflov~.5 Questo sintagma ribatte insistentemente sul tratto specifico della cecità di quest’uomo: si tratta di una condizione nativa, di un uomo che non ha mai (prima) veduto la luce.

1.1. Figlio di Abramo e figlio di A damo Gv 9 è, per certi tratti, il racconto esemplare di come un giudeo possa arrivare a credere in Gesù;6 ciò tuttavia non ci impedisce di riconoscere

  Il seguito del racconto aggiungerà altri particolari: egli è un mendicante (v. 8); il suo contesto sociale più immediato è costituito da genitori (vv. 18-23), vicini e conoscenti (vv. 8-12). 3   La galleria di questi personaggi anonimi annovera tra gli altri la madre di Gesù e il discepolo che Gesù amava. 4   Il verbo ajnablevpw, che si trova quattro volte in Gv 9 (vv. 11.15.18.18), non significa «tornare a vedere» e non indica un recupero della vista; esso va tradotto semplicemente con «ottenere la vista». In confronto a blevpw, questo verbo composto sottolinea maggiormente l’aspetto del passaggio: si tratta di passare da una precedente condizione di cecità alla capacità di vedere. W. Bauer – W.F. Arndt – F.W. Gingrich – F.W. Danker, A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature, University of Chicago Press, Chicago-London 32000, osservano, a proposito dell’uso di ajnablevpw in Gv 9, come ajna(again) abbia qui perso totalmente la propria forza e, pertanto, il verbo vada tradotto: «receive sight, become able to see». Cf. anche R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni, II (CTNT 4/2), Paideia, Brescia 1973, 417 nota 3: «In ajnablevpein non c’è il minimo accenno ad un “rivedere, vedere di nuovo”; qui esso significa soltanto “acquistare la vista”». Interessanti le considerazioni di J. Knabenbauer, Evangelium secundum Ioannem, Lethielleux, Parisiis 21906, 325: «Fortasse licet illud ajna- negligere, praesertim quia de visu iterum recepto apud profanos quoque dicitur pavlin ajnablevbein (Ar. Plut. 95,117, cf. Pape s.v.); alii tamen monent haud inepte dici eum recipere visum, cui abfuerit vel solum in potentia adfuerit quod communiter naturae actu tribuatur (cf. Schz.)». 5   Gennavw compare poi un’ultima volta in 9,34 dove la condizione di «essere nato cieco» è riformulata nei termini di «essere nato tutto nei peccati». 6   Abbiamo cercato di dimostrarlo in M. Marcheselli, «Il profilo narrativo del personaggio “i giudei” in Gv 1–12», in L.D. Chrupcała (a cura di), Rediscovering John, Fs. F. Manns 2

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che la figura del cieco, per altri aspetti, rappresenti tutti i figli di Adamo.7 Il cieco nato appartiene indiscutibilmente al popolo ebraico – è un giudeo – e, al tempo stesso, è un uomo in senso del tutto generale.8 Oltre che attraverso l’uso di anthro¯pos in 9,1, il narratore ci spinge a riconoscere nel cieco una figura rappresentativa dell’umanità in quanto tale – e non soltanto un giudeo che vive a Gerusalemme – anche mediante la solenne proclamazione che egli colloca sulla bocca di Gesù in avvio del racconto: «Fintanto che sono nel mondo, sono luce del mondo» (v. 5).9 Siamo davanti a un’immagine dai tratti marcatamente universalistici: che Gesù sia luce del mondo significa, infatti, che egli è luce per l’umanità, luce per tutti gli uomini. La luce è tra i simboli preferiti dal quarto evangelista. L’uso giovanneo è fortemente connotato dal precedente impiego dell’immagine nella letteratura biblica e del giudaismo antico.10 La parola di Dio (Sal 119,105: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino») e la sapienza illuminano (Pr 6,23ab: «Perché il comando è una lampada e l’insegnamento una luce»); la Torah è la luce (cf. Test.Lev. 19,1; Meg. 16b). Se,

(SBF Analecta 80), Terra Santa, Milano 2013, 283-302, qui 290-292. Tra gli elementi che inducono a collocare il cieco nato tra coloro che Gv chiama – anche in questo c. 9 – «giudei» (cf. 9,18.22) c’è l’uso della prima persona plurale in 9,31: in questo versetto il cieco dà voce a una convinzione che egli condivide con coloro che lo stanno interrogando. 7  La guarigione raccontata in Gv 9 «deve forse essere riferita dal lettore all’uomo in generale, all’uomo come è “per natura”» (G. Schneider, «tuflov~», in DENT, II, 1676-1678, qui 1678). Con Caurla si può parlare di una «portata universale» del simbolismo veicolato dalla figura del cieco nato: cf. M. Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati. La simbologia visiva in Gv 9 (Tesi Gregoriana – Serie Teologia 215), Pontificia Università Gregoriana, Roma 2015, 281.287-292. Sulla stessa linea sono anche A. Fossion, Lire les Écritures. Théorie et pratique de la lecture structurale (Écritures 2), Lumen vitae, Bruxelles 1980, 106-114, qui 113; J. Painter, «John 9 and the Interpretation of the Fourth Gospel», in JSNT (1986)28, 31-61, qui 42 («The man is everyman»). 8  Lo stesso si deve dire, per esempio, del personaggio di Nicodemo (2,23–3,21). Egli è presentato dal narratore come un giudeo (3,1) ed è qualificato da Gesù come maestro di Israele (3,10); il testo, tuttavia, sembra spingere il lettore anche a un’interpretazione in senso universale: nel corso del dialogo compaiono infatti sulla bocca di Gesù espressioni come «il mondo» (vv. 16.17.19), «gli uomini» (v. 19), nonché formulazioni generalizzanti alla terza persona singolare (dal v. 15 in avanti). Non è affatto necessario concludere da ciò che Nicodemo sbiadisce, diventando tipo dell’umanità in generale; si tratta semplicemente di rilevare che il testo gioca su un doppio registro senza annullare la specificità dei giudei/ israeliti. R. Vignolo, Personaggi del Quarto Vangelo. Figure della fede in San Giovanni, Glossa, Milano 1994, 114 (cf. già ivi, 111) parla di Nicodemo come personaggio doppiamente rappresentativo: corporativamente quale esponente dei giudei benevolmente disposti verso Gesù, a motivo dei segni, e dei capi che faticano a credere pubblicamente; universalmente come figura di identificazione dei lettori del QV in senso lato. 9   Anche quello che diremo più avanti nel § 1.4.1. («In Gv 9 tutti sono ciechi») contribui­ sce a caratterizzare l’uomo cieco come tipo dell’intera umanità. Il fatto che, al termine del racconto giovanneo, tutti i personaggi che hanno interagito con Gesù siano da lui svelati come ciechi conferma che l’anonimo protagonista rappresenta l’umanità in quanto tale. 10   Sulle diverse linee di tradizione, al cui incrocio si trova l’immagine della luce, cf. M. Theobald, Das Evangelium nach Johannes. Kapitel 1–12 (Regensburger Neues Testament), Pustet, Regensburg 2009, 567.

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però, l’immagine della luce risulta particolarmente significativa per Gv è probabilmente perché, già nella tradizione precedente, la si trova impiegata in rapporto alla Legge e alla sapienza per sottolinearne la portata universale. La rilevanza universale della Torah è proclamata mediante il simbolo della luce soprattutto negli scritti giudeo-ellenistici (Sap 18,3-4; Test.Lev. 14,3-4). Nel prolungamento di affermazioni relative alla Torah, la sapienza (cf. Sap 7,26) e il Logos filoniano (Leg.All. 3,171) costituiscono pure esempi rilevanti di un uso universalistico della metafora della luce. Nel QV l’autoidentificazione da parte di Gesù nei termini di luce del mondo è risuonata già in 8,12 («Io sono la luce del mondo»).11 L’espressione che troviamo in 8,12 e 9,5 ha un perfetto riscontro in un passaggio del prologo (1,4b): «e la vita era la luce degli uomini». Non si tratta di due diverse indicazioni: «luce degli uomini» (1,4) è una riformulazione di «luce del mondo» (8,12; 9,5).12 Il tema della luce, in collegamento con una celebrazione escatologica della festa delle Capanne, in cui tutti i popoli sono invitati a salire a Gerusalemme, caratterizza anche gli ultimi capitoli di Zaccaria (Zc 14,6-7). Il «mondo» di cui Gesù parla in 8,12 e 9,5 – nel contesto di una festa delle Capanne – è pertanto da intendersi come «il mondo degli uomini», nella sua globalità (cf. 4,42: «Salvatore del mondo»). Questa specificazione dell’immagine della luce ne indica, pertanto, la destinazione universale: è una luce destinata a illuminare tutte le genti (cf. Lc 2,32). Nonostante il parere contrario di qualche autorevole commentatore,13 si deve ammettere che sullo sfondo della formulazione giovannea «luce del mondo» ci siano anche il primo e secondo canto del servo del Signore (Is 42,6; 49,6) in cui compare l’espressione «luce delle genti».14 Nel Deu-

  Le differenze tra 8,12 e 9,5 sono minime e possono essere trascurare in questa inda-

11

gine. 12   Anche la seconda strofa del prologo usa questa stessa immagine e lo fa in un senso assolutamente universale: «Egli (= il Logos) era la luce vera che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo» (1,9). 13   Theobald ritiene che le due espressioni (luce «delle genti» in Isaia e luce «del mondo» nel QV) non si possano assimilare: la prima deriva dalla contrapposizione storica Israele/ genti; la seconda dal dualismo metastorico luce/tenebre. Per la matrice del detto giovanneo, ciò significa che esso è costruito in analogia alle speculazioni relative alla sapienza e al Logos – o anche alla Torah data da Dio al popolo di Israele –, piuttosto che a partire dall’immagine di un portatore umano di luce, come sarebbe il servo del Signore di Isaia; cf. Theobald, Das Evangelium nach Johannes. Kapitel 1–12, 568. 14   Cf. J.C. Coetzee, «Jesus’ Revelation in the ejgwv eijmi Sayings in John 8 and 9», in J.H. Petzer – P.J. Hartin (a cura di), A South African Perspective on the New Testament, Fs. B.M. Metzger, Brill, Leiden 1986, 170-177. Coetzee ritiene si possa affermare con un certo grado di probabilità che i detti «Io sono la luce» dei cc. 8–9 di Gv (8,12; 9,5) si riferiscano deliberatamente alle profezie di Is 42–43. Per cogliere la rilevanza del motivo della luce in questi due capitoli di Isaia, l’autore rimanda alla missione del servo di YHWH, come viene descritta specialmente in 42,6-7 (ma si veda anche 42,16.18-20; 43,8). I contatti tra Is e Gv si allargano alla presenza in entrambi i testi di una marcata dimensione forense. L’interpretazione di Sabugal va in questa stessa direzione: Gesù, rivelandosi quale luce del mondo, si riallaccia direttamente alla speranza messianica del giudaismo a lui contemporaneo fondata

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tero-Isaia il servo del Signore è chiamato appunto fw'~ ejqnw'n (42,6 e 49,6) e, se un’interpretazione collettiva dei canti identifica il servo con Israele (Is 49,3), in 1En 48,2-4 l’immagine della luce delle genti conosce già un’applicazione individuale, in riferimento a una futura figura salvifica (il Figlio dell’uomo).15 Tra l’altro in Is 42,7 il compito di aprire gli occhi dei ciechi segue immediatamente la presentazione del servo come «luce delle genti»: la somiglianza con Gv 9 è, dunque, molto forte. Il sintagma giovanneo «luce del mondo» si spiega, pertanto, anche in relazione agli oracoli profetici del Deutero-Isaia, in cui la missione del servo è collocata in un orizzonte che – senza mai dimenticare il popolo dell’elezione – oltrepassa i confini di Israele. Possiamo concludere che, in colui che riceve la vista da chi si presenta come «luce del mondo», identità giudaica e appartenenza al genere umano si sommano senza annullarsi; egli è al tempo stesso un figlio di Abramo e un figlio di Adamo, ijoudai`o~ e a[nqrwpo~. Nella figura del cieco sono compresenti entrambi gli aspetti.

1.2. La condizione di cecità in I sraele e nel mondo antico e le sue implicazioni socio - religiose In questo paragrafo ci limitiamo a una sommaria sintesi di dati che altri autori hanno esposto analiticamente nei loro studi, ai quali rimandiamo per ogni indicazione puntuale sulle fonti.16 Il racconto di Gv 9 prende senso anche in relazione al contesto storico in cui è stato scritto. Per quanto riguarda l’AT va anzitutto rilevata la scarsa presenza di personaggi effettivamente ciechi;17 ne sono ricordati soltanto due: il re Sedecia (2Re 25,7) e Tobi (ma solo nella versione del libro di Tobia attestata dal Sinaitico). Il cieco è spesso presentato insieme allo zoppo e questi «due gruppi di malati erano considerati estremamente deboli e miseri».18 A proposito della relazione tra cecità, peccato e punizione si trovano

sugli oracoli del servo di YHWH del Deutero-Isaia; cf. S. Sabugal, La curación del ciego de nacimiento (Jn 9,1-41). Análisis exegético y teológico (Biblioteca Escuela Bíblica 2), Biblia y Fe, Madrid 1977, 67-70; trad. it.: «Tu, che cosa dici di lui?». Commento al Vangelo di Giovanni cap. 9, LEV, Città del Vaticano 2010. 15  Così Theobald, Das Evangelium nach Johannes. Kapitel 1–12, 567, che tuttavia rifiuta il Deutero-Isaia come sfondo giovanneo. 16  Cf. Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 43-75. Caurla riprende in gran parte F.N.W. Just, From Tobit to Bartimaeus, from Qumran to Silòam. The Social Role of Blind People and Attitudes toward the Blind in New Testament Times, Yale University Dissertation, New Haven 1997. 17   Per questa rapida ricognizione sull’AT facciamo riferimento a Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 248-250. Cf. anche S. Fuzinato, Tra fede e incredulità. Studio esegetico-teologico di Gv 5 in chiave comunicativa (Tesi Gregoriana – Serie Teologia 212), Pontificia Università Gregoriana, Roma 2014, 121. 18   Schneider, «tuflov~», 1677.

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posizioni diversificate e soltanto in pochi casi sembra presupposta una qualche connessione: Dt 28,28-29 e Lv 26,14-17; cf. Gen 19,10-11 e Zc 12,4. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, nell’elencare le cause della cecità da cui qualcuno può essere concretamente afflitto l’AT non attribuisce mai una responsabilità diretta a Dio. Ci sono piuttosto vari testi, nei profeti e nei Salmi, in cui si proclama che Dio restituirà la vista ai ciechi (Sal 146,8; Is 29,18; 35,5; 42,7.16; Ger 31,8).19 Si nota complessivamente una mancanza di interesse per gli aspetti più propriamente medici e terapeutici. L’AT attesta una pluralità di attitudini nei confronti dei ciechi come persone concrete, i quali mai sono etichettati come impuri. La condizione menomata in cui versa il cieco è, piuttosto, oggetto di attenzione protettiva da parte della Legge (Lv 19,14; Dt 27,18). Solo raramente essi sono destinatari di una qualche forma di esclusione sociale e comunque, anche in questi casi, si tratta di prescrizioni che non hanno niente a che fare con una sorta di squalifica dal punto di vista umano.20 Quello che non c’è nell’AT si trova invece nei testi di Qumran.21 Qui, nelle norme che regolano la vita della comunità, incontriamo atteggiamenti molto più negativi che in qualunque altro testo giudaico antico.22 In Filone i ciechi in senso fisico sono normalmente presentati con benevolenza e non sono identificati come impuri o peccatori, mentre il riferimento alla cecità in termini figurati è spesso di segno profondamente negativo (essa indica idolatria, incomprensione, incredulità). Lo stesso dicasi di Giuseppe Flavio. Per quanto riguarda la letteratura rabbinica più tardiva si può osservare che, dal punto di vista delle regolamentazioni legislative, è proibito ai ciechi di testimoniare in un processo e di esercitare il ruolo di giudice: due tratti che sembrano invece caratterizzare il cieco di Gv 9. Pochi sono i ciechi dalla nascita ricordati nelle fonti ellenistico-romane,23 la qual cosa si spiega anche con la pratica dell’esposizione e dell’infanticidio per i bambini nati con disabilità fisiche. Per il mondo classico la cecità è la più terribile delle sventure, senza però che ci sia l’implicazione di una responsabilità morale.24 Abbiamo poi numerosi esempi di persone con disabilità visive che rivestono ruoli sociali di primo piano. Nella religiosità popolare ha particolare importanza, per la guarigione dei ciechi,

19   La guarigione di un cieco ha sempre i tratti del miracolo e uno dei segni dell’avvento della salvezza escatologica è precisamente che i ciechi riacquistano la vista (Schneider, «tuflov~», 1677). 20   Secondo Lv 21,16-22 la cecità impedisce di presentare offerte davanti al Signore e preclude l’accesso al sacerdozio. 21  Per il giudaismo extrabiblico, cf. Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 268-270. 22   Cf. 4QMMT (conosciuto anche come 4QLettera halakica); 11QT45 (conosciuto anche come 11QRotolo del tempio). 23   Per il mondo ellenistico-romano, cf. Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 270-273. 24   Cf. W. Schrage, «tuflov~, tuflovw», in GLNT, XIII, 1535-1538.

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il dio Asclepio (cf. le iscrizioni di Epidauro).25 Varie testimonianze attribuiscono a Vespasiano la guarigione di un cieco:26 si tratta di un caso più unico che raro di guarigione non attribuita direttamente all’intervento di una divinità.

1.3. Significato simbolico fondamentale della vista e della sua assenza

Il racconto della guarigione del cieco nato è caratterizzato da un’intensa fisicità. Supponendo che lo scambio dei vv. 2-5 sia circoscritto esclusivamente a Gesù e ai discepoli e che quindi il cieco non abbia udito questa parola iniziale,27 la sua esperienza sensoriale inizia dal contatto con il fango (v. 6) – che contiene lo sputo di Gesù –, prosegue con l’udire una parola (v. 7a) e si chiude con il recupero della vista (v. 7b).28 Il QV è stato definito come «il vangelo dei sensi spirituali» (Donatien Mollat). Questa espressione significa che per Gv l’esperienza spirituale passa attraverso il sensibile; i sensi spirituali sono i cinque sensi ai quali il vangelo riconosce la capacità di condurre l’uomo a esperire il divino. Nell’«estetica giovannea» la vista occupa un ruolo di primo piano. Il QV conosce, in effetti, una nutrita serie di verbi indicanti la visione, con un’incidenza statistica molto alta.29 In Gv 9 il vocabolario relativo al vedere è largamente dominante rispetto agli altri campi lessicali e semantici. Il plusvalore simbolico che l’evangelista attribuisce al senso della vista può essere precisato come segue.

25  Ciò potrebbe rappresentare un punto di convergenza tra Gv 9 e Gv 5: per alcuni studiosi, infatti, la guarigione dell’uomo infermo da trentotto anni sarebbe avvenuta nella cornice di un santuario dedicato agli dèi guaritori. 26   Il fatto è attestato da Tacito, Svetonio e Dione Cassio (cf. Schrage, «tuflov~, tuflovw», 1539). 27   In base ai personaggi attivi sulla scena, si può agevolmente distinguere tra i vv. 1-5, in cui i discepoli interagiscono con Gesù, e i vv. 6-7, in cui Gesù interagisce con il cieco. In 9,1-5 il cieco è presente, ma è completamente passivo e non è coinvolto in nessun modo nel dialogo che si svolge tra Gesù e i suoi. Caurla suddivide ulteriormente 9,1-7 in vv. 1-3, vv. 4-5, vv. 6-7 (Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 124-130); la separazione dei vv. 4-5 dai precedenti non ha una base narrativa, ma lessicale. 28  Questa triplice esperienza sensoriale trova un’eco nell’avvio della grande lettera: anche 1Gv 1,1 menziona l’udito, la vista e il tatto. 29  In Gv ci sono quattro verbi di visione: oJravw, qeavomai, qewrevw, blevpw. Quest’ultimo, però, dà luogo anche a due composti (ajnablevpw ed ejmblevpw) e pertanto il totale sale a sei. Tra gli studi consacrati all’analisi di questo lessico e della sua rilevanza teologica, cf. C. Traets, Voir Jésus et le Père en lui selon l’évangile de Saint Jean (Analecta Gregoriana 159), Libreria Editrice dell’Università Gregoriana, Roma 1967; C. Hergenröder, Wir schauten seine Herrlichkeit. Das johanneischen Sprechen vom Sehen im Horizont von Selbsterschließung Jesu und Antwort des Menschen (Forschung zur Bibel 80), Echter, Würzburg 1996; F. Ramos Pérez, Ver a Jesús y sus signos, y creer en él. Estudio exegético-teológico de la relación «ver y creer» en el evangelio según san Juan (Analecta Gregoriana 292), Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004.

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1.3.1. Simbolismo cognitivo-esperienziale del vedere / non vedere Uno dei significati simbolici più frequentemente associati al vedere è il conoscere:30 vedere è conoscere, nel senso di fare esperienza, entrare in familiarità. Questa isotopia tra vedere e conoscere è particolarmente evidente nel racconto di Gv 9, tanto per i farisei-giudei,31 quanto per il cieco nato.32 In Gv 9 «vedere la luce» è «conoscere la verità» e la verità ha a che fare con una persona precisa, con quel galileo che si chiama Gesù: essa coincide con la scoperta dell’identità personale più profonda dell’altro, che mi si è fatto incontro e mi ha guarito. La simbolica della vista permette al narratore giovanneo di giocare continuamente sulla duplice natura del processo umano del vedere: «La luce che proviene dall’esterno e la vista come capacità interiore del soggetto».33 La conoscenza della verità è al tempo stesso – ma anche subordinatamente – azione di Dio, che si dà a conoscere, e dell’uomo, che ne accoglie l’offerta o la rifiuta. a) In 9,41 Gesù rinfaccia ai farisei la loro pretesa visione: «Se foste ciechi, non avreste peccato; ora, però, voi dite: “Ci vediamo” e il vostro peccato rimane». Stricto sensu, nel corso del racconto essi non hanno mai dichiarato di vedere: cosa hanno invece affermato? Hanno affermato di sapere (cf. il triplice uso di oi[damen in 9,24.29.29). Tutto il loro comportamento è sostenuto da questa pretesa: essi ritengono di sapere perfettamente che Gesù è un aJmartwlov~, che ha agito contro la Legge. Sapere preteso, cioè infondato, perché progressivamente destituito di fondamento nel corso della narrazione:34 dall’incertezza iniziale (9,16) il testo ci conduce progressivamente (il cieco guarito è la guida!) a comprendere che Gesù non può aver commesso un peccato (9,31-33), mentre sull’altro versante i giudei si chiudono progressivamente nella loro ostinazione cieca (è il caso di dirlo!). Queste considerazioni ci permettono di affermare l’equipollenza tra visione e conoscenza in Gv 9,35 per cui potremmo pa-

30   «L’uso traslato di tuflov~ è diffuso anche al di fuori del NT; esso si riferisce – anche al di fuori della Bibbia […] e del giudaismo […] – per lo più al campo della conoscenza (religiosa) o alle funzioni dell’intelletto. Nella gnosi vengono designati come “ciechi” soprattutto i non-gnostici non redenti, accecati dal mondo» (Schneider, «tuflov~», 1677). 31   Chiamiamo in questo modo gli oppositori di Gesù per il fatto che i due gruppi sono praticamente intercambiabili in Gv 9: cf. Marcheselli, «Il profilo narrativo del personaggio “i giudei” in Gv 1–12», 290-292. 32   Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 281-286, distingue i due aspetti del simbolismo visivo nei termini di rivelare e discernere; sono queste le due funzioni della luce cristologicamente intesa in Gv 9: la luce illumina (cieco nato) e acceca (farisei), svela e giudica, rivela e smaschera. 33   Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 286; corsivo nostro. 34  Cf. Marcheselli, «Peccato e peccatori», 142-149. 35  R.E. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, Cittadella, Assisi 1979, 493, descrive il duplice movimento (comico e tragico) della narrazione, in una frase che fonde il piano della visione con quello della conoscenza: «Mentre gli occhi dell’uomo che prima era

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rafrasare così il v. 41: «Se foste ignoranti, non avreste peccato. Ora, però, voi dite: “Noi sappiamo” e il vostro peccato rimane». Non è la non conoscenza il peccato, è pretendere di sapere (= di vedere) quando non si sa (= quando si è ciechi). b) Il cieco vede Gesù non semplicemente nel momento in cui lo incontra (vv. 35-39), ma nella misura in cui cresce la sua conoscenza di lui e della sua identità. Il v. 37 ci riporta questa parola di Gesù rivolta al cieco di un tempo: «Lo hai già veduto (kai; eJwvraka~ aujtovn); chi sta parlando con te è lui». Quando lo ha veduto? Fino a ora il cieco non ha mai visto Gesù con gli occhi del corpo: quando Gesù era presente lui era cieco (vv. 1-7a) e appena lui ha riacquistato la vista (v. 7b) Gesù è sparito (vv. 8-34). Nei vv. 35-39 si chiarisce ciò che è implicato nel vedere, per ciò che riguarda il cieco: il senso esatto della vista da lui ottenuta può, infatti, essere afferrato in modo definitivo solo sulla base delle parole che Gesù gli rivolge in 9,37. Qui Gesù usa una forma del perfetto di oJravw (eJwvraka~) per indicare la visione di lui come Figlio dell’uomo.36 Con oJravw in Gv 9,1 è stato indicato dal narratore il vedere di Gesù: oggetto della sua visione era il cieco. In 9,37 questo verbo, in bocca a Gesù, indica il vedere del cieco guarito, nel momento in cui oggetto della sua visione è lui stesso quale Figlio dell’uomo (9,37).37 La visione a cui allude eJwvraka~ non si oppone alla vista fisica già donata al cieco (espressa normalmente in Gv 9 attraverso blevpw/ajnablevpw);38 essa tuttavia la supera e ne svela il significato più profondo.39 Che dire dell’uso del perfetto? Esso viene a volte inteso

cieco si aprono gradualmente alla verità su Gesù, i farisei o “i giudei” diventano più ostinati nel non voler vedere la verità». Questa del resto è un’interpretazione del tutto tradizionale: cf. per es. Bonaventura, Commentarius in Evangelium S. Ioannis, IX,51: «Et dixerunt: Nunquid et nos caeci sumus? Indijgnabantur verbo Domini, quia credebant, propter se fuisse dictum, quia se sapientes reputabant». 36   Tra i verbi giovannei indicanti visione tuflov~ è il più utilizzato: esso conta 63 occorrenze. 37   Il sostegno esterno per ajnqrwvpou (∏66 ∏75 a B D W al) è così forte e la probabilità che qeou' sia stato alterato in ajnqrwvpou così bassa, che la lezione «Figlio dell’uomo» in 9,35 deve considerarsi virtualmente certa: cf. B.M. Metzger, A Textual Commentary on the Greek New Testament, United Bible Societies, Stuttgart 1971, 228-229. Questo titolo non dice di più di quello che il cieco ha proclamato nel corso dell’ultimo interrogatorio a cui lo hanno sottoposto: nell’uno (v. 33) e nell’altro caso (v. 37) si indica l’origine divina di Gesù. 38   Sono nove gli usi complessivi di blevpw/ajnablevpw per il cieco guarito in Gv 9. 39   La variazione lessicale (non più blevpw o ajnablevpw, ma oJravw) non è qui casuale: essa è voluta, per alludere a un tipo di visione nuovo rispetto a quello che è stato l’oggetto degli interrogatori subiti dal cieco guarito. «Il effectue une sorte de voyage à partir du lieu (indéterminé) où Jésus le “voit” pour la première fois jusqu’à la piscine de Siloé, à l’aller; et, au retour, de la piscine de Siloé jusqu’au lieu (encore indéterminé) où il “voit” Jesus pour la première fois et le reconnaît pour le Fils de l’homme (on notera que le verbe oJravw n’est utilisé qu’en ces deux occurrences dans un récit où le vocabulaire de la vision, sous toutes ses formes, est particulièrement riche)» (J. Calloud – F. Genuyt, L’évangile de Jean (II). Lecture sémiotique des chapitres 7 à 12, Centre Thomas More, L’Arbresle-Lyon 1987, 60).

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semplicemente come un perfetto con valore di presente;40 si tratterebbe, allora, di un riferimento a quello che sta succedendo in quel momento: il cieco «lo ha visto» adesso. Ci pare, però, che si possa sostenere l’ipotesi che esso conservi il valore tipico del perfetto greco, con il suo riferimento a un processo compiutosi nel passato, che prolunga i suoi effetti nel presente:41 in questo contesto, esso ci svela come la progressiva comprensione cristologica del cieco guarito, approfonditasi attraverso gli interrogatori a cui egli è stato sottoposto e culminata nell’affermazione che Gesù «è da Dio» (9,33), sia stata un progressivo vedere, nel senso di un aprire gli occhi sull’identità di Gesù. Il cieco «lo ha visto» nel suo percorso di conoscenza sempre più profonda: interrogato una prima volta lo ha identificato come «un profeta» (9,17b); interrogato per la seconda volta ne ha affermato l’origine divina (9,33).42 Crescendo nella conoscenza di Gesù e della sua identità, l’uomo che era stato cieco ha acquistato progressivamente la vista (vedere // conoscere). In 9,1-7 egli ha acquistato la vista al livello superficiale, materiale (blevpw/ajnablevpw); in 9,8-34 egli ha acquistato la vista al livello profondo (oJravw). Non c’è opposizione tra i due livelli: l’uno è simbolo dell’altro. 1.3.2. Vedere

e vedersi ,

conoscere e conoscersi

La menomazione del non vedere incide profondamente sulla relazione con gli altri e con l’ambiente e sulla percezione di sé. Vedere è conoscere (§ 1.3.1.), ma conoscere è sempre anche conoscersi; non vedere è anche non conoscersi. La vista è il medium privilegiato della relazione. La vista esprime un livello di interazione particolarmente profondo. Dio può essere oggetto di ascolto, ma non di visione: Gv può dire: «Dio nessuno lo ha mai visto» (Gv 1,18; 1Gv 4,20), mentre non potrà mai dire: «Dio nessuno lo ha mai udito». In questo senso, vedere è più che ascoltare. Chi vede può anche riuscire a capire le parole: le può leggere su un foglio, le può leggere sulle labbra. Il reciproco invece non funziona: chi può soltanto ascoltare non riesce a disegnare un ritratto.

40   Sul perfetto con valore di presente cf. F. Blass – A. Debrunner, Grammatica del greco del Nuovo Testamento (GLNTSupp 3), Paideia, Brescia 1982, § 341. 41  Anche Schnackenburg conserva a eJwvraka~ il suo valore di un’esperienza che si prolunga fino al presente, ma lo spiega nei seguenti termini: «In questo incontro il risanato ha già guardato il Figlio dell’uomo e ora lo vede davanti a sé» (Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni, II, 430). L’interpretazione è tradizionale, come si può vedere anche in Knabenbauer, Evangelium secundum Ioannem, 333: «eJwvraka~, ouj provteron, ajlla; nu'n (Euth. sim. Mald. Schz.) est scil. tempus perfectum, quo actio completa perdurans declaratur: modo vidisti et etiam nunc vides (cf. Fil.)». 42  Questo crescendo potrebbe trovare il suo punto di partenza nella formulazione «l’uomo che si chiama Gesù» (9,11a). Una tappa intermedia del percorso è indicata poi dall’apparizione del titolo «cristo» in 9,22: questa designazione non ricorre però sulla bocca del cieco.

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Curare la cecità è, pertanto, dare la possibilità di stabilire una relazione con l’altro/Altro, dentro una migliore comprensione di se stessi. Curare la cecità è aprire una via di conoscenza, che non è mai meramente intellettuale: la visione/conoscenza è, di fatto, esperienza di incontro e scoperta dell’identità dell’altro, che apre a – e va di pari passo con – la possibilità di una migliore conoscenza di sé.

1.4. Cos’è implicato in una cecità nativa

1.4.1. In Gv 9

tutti sono ciechi

Uno degli assi portanti di Gv 9 è la rivelazione che la differenza tra gli uomini non passa tra ciechi e vedenti, ma tra ciechi consapevoli e ciechi che negano la propria condizione. La cecità, infatti, è la situazione di partenza che accomuna tutti.43 Per gli attori dentro il racconto, fino al v. 34, tutto il vocabolario della visione-cecità si riferisce al cieco e alla sua cecità o vista in senso fisico. Esso fa uso di numerosi vocaboli e sintagmi: ajnoivgw tou;~ ojfqalmouv~ («aprire gli occhi»); ejpicrivw («ungere») ed ejpitivqhmi («imporre») in combinazione con tou;~ ojfqalmouv~ («gli occhi»); blevpw («vedere») e ajnablevpw («ottenere la vista»); qewrevw («vedere»); oJravw («vedere»); tuflov~ («cieco») da solo, oppure insieme alla radice gen- («nascere»), o infine accompagnato dall’imperfetto di eijmiv («essere») o da un’espressione temporale che lo riferisce al passato. Nei vv. 35-41 avviene lo svelamento del livello più decisivo a cui va inteso il campo semantico della visione.44 Quando – per la prima volta – il cieco guarito si ritrova davanti a Gesù e dialoga con lui (vv. 35-39), Gesù svela a colui che era stato cieco il livello più profondo del suo vedere e lo fa privilegiando, tra i vari possibili verbi di visione, oJravw (che in precedenza è stato usato soltanto dal narratore in 9,1): «Tu lo hai già veduto e ora sei invitato a credere in lui come Figlio dell’uomo» (9,37). Quando – per l’unica volta nel corso dell’intero racconto – i farisei si trovano faccia a faccia con Gesù (vv. 40-41), egli svela loro il livello più profondo del vedere e della cecità e lo fa cambiando di referente a termini che fino ad allora erano stati impiegati esclusivamente per il cieco nato e per la sfera fisica (tuflov~ e blevpw): «Voi siete i veri ciechi» (cf. 9,41).

43   Si tratta di una visione negativa e pessimistica? Per Gv c’è bisogno che l’uomo sia cieco? La rivelazione ha bisogno di abbassare l’uomo per far risaltare Dio? In verità, la cecità come immagine della condizione umana è semplicemente espressione del limite intrinseco alla dimensione creaturale. 44   Si intende lo svelamento per i personaggi del racconto, al livello intradiegetico. Al livello extradiegetico, il lettore è consapevole di tale plusvalore simbolico fin dal v. 5, dove Gesù ha riferito a se stesso l’immagine della luce.

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Gv 9 descrive un doppio itinerario: un passaggio dalla cecità alla visione e un passaggio da una cecità originaria a un altro tipo di cecità.45 Il cieco nato compie il suo itinerario dalla cecità alla visione tanto al livello fisico-materiale (vv. 1-7), quanto al livello profondo (vv. 8-34). I farisei-giudei compiono il loro itinerario unicamente al livello profondo, spirituale (vv. 13-34): anch’essi sono ciechi dalla nascita, come ogni uomo in assenza della luce; essi però – rifiutando la luce – precipitano alla fine in una cecità che è conseguenza di una scelta ed è perciò colpevole.46 È questo ciò che è veicolato dalle parole di Gesù al v. 39 («Per un giudizio [krivma] io sono venuto in questo mondo: perché quelli che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi»): esse non descrivono un semplice giochetto di inversione dei ruoli. Gesù non vuol dire che l’effetto della sua venuta nel mondo e del krivma che da essa è determinato producono un puro rovesciamento di posizioni: quelli che all’inizio non vedono, in conseguenza del krivma cominciano a vedere, mentre quelli che inizialmente ci vedono finiscono per diventare ciechi. In realtà, le due condizioni di partenza non stanno esattamente sullo stesso piano: «quelli che inizialmente non vedono», infatti, sono coloro che sono consapevoli della propria condizione di non vedenti, mentre «quelli che inizialmente vedono» sono coloro che asseriscono di vedere. Il non vedere e il vedere del v. 39 non indicano lo stato oggettivo in cui versa l’uomo,47 ma la soggettiva percezione del proprio stato, che è nettamente diversificata secondo due tipologie di uomini. Diversificata è la percezione soggettiva (alcuni sanno di non vedere, mentre altri asseriscono di vederci benissimo), ma non la condizione reale: il racconto di Gv 9 mostra chiaramente che la cecità è

45  Su questo punto la nostra interpretazione differisce sensibilmente da quella di Calloud e Genuyt, i quali stabiliscono le seguenti equivalenze: quelli che non vedono sono quelli che, come il cieco, ascoltano e finiscono per recuperare la vista; quelli che vedono sono quelli che, come i farisei, non ascoltano e finiscono per cadere nella cecità, non per essere condannati ma per essere invitati ad ascoltare, cioè, nella lingua del testo: a diventare discepoli. Per questi autori bisogna, dunque, che i farisei diventino da qualche parte ciechi perché le loro orecchie si aprano (Calloud – Genuyt, L’évangile de Jean, 68-69). Ci pare un’interpretazione difficilmente sostenibile. 46   Léon-Dufour evidenzia molto bene la differenza tra la cecità del cieco e quella dei farisei. L’uomo del racconto è cieco dalla nascita e la sua cecità non proviene dal peccato. Egli non può dunque essere una figura della condizione peccatrice dell’umanità; il suo stato simbolizza un’altra tenebra, nativa, quella in cui ogni uomo si trova prima di essere illuminato dalla rivelazione del Figlio (cf. 1,5). Forse è questo il motivo per il quale il cieco nato del racconto, benché mendicante, non formula alcuna preghiera: non può domandare ciò che ignora. Egli non sta per recuperare un bene che possedeva e che ha perduto, sta per nascere a una nuova esistenza. La cecità come metafora dell’accecamento volontario, risultato del peccato, indica in Gv 9 la condizione dei farisei: essa sarà menzionata soltanto in un secondo momento (9,39) allorché la luce manifestata dal segno viene contestata; cf. X. Léon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, San Paolo, Cinisello Balsamo 22007, 626-627. 47   «Oggettivo» non significa «fisico»: significa «reale» al livello in cui il racconto intende propriamente il vedere/non vedere.

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la condizione che accomuna «dalla nascita» tutti coloro che interagiscono con Gesù. Secondo la simbologia e l’immaginario di questo capitolo, infatti, tutti gli uomini giacciono nella tenebra e sono privi della vista: questa è una condizione originaria, a cui nessuno può sfuggire.48 In tale situazione, l’umanità riceve la visita della luce e della vita.49 Questa visita apre una possibilità di scelta, che prima gli uomini non avevano. L’opzione è evidentemente duplice: passare dalla tenebra alla luce (// dalla morte alla vita) o passare dalla tenebra alla tenebra (// dalla morte alla morte). In entrambi i casi avviene un passaggio: la tenebra finale (= la morte finale) è, infatti, completamente diversa da quella iniziale. C’è una tenebra originaria che è neutra e non colpevole: è una situazione nativa a cui nessuno sfugge (si tratta della condizione esemplificata dal cieco nato). C’è, invece, una tenebra finale che consegue al rifiuto della luce e che pertanto si lega a una decisione dell’uomo (si tratta della condizione esemplificata dai farisei-giudei). La tenebra originaria del cieco è non colpevole; la tenebra finale di farisei-giudei lo è. 1.4.2. Menomazione come maledizione? Un clamoroso abbaglio Gesù incontra «l’uomo» e lo trova cieco: l’uomo, secondo Gv 9, è segnato da una ferita, da una mancanza; è un uomo cieco, privo della vista. Questa cecità lo segna dalla nascita: egli viene al mondo come cieco. Questa ferita non è la conseguenza di una colpa; è piuttosto un’assenza, un limite, che può essere vissuto in due modi completamente diversi: come situazione riconosciuta o negata. Il racconto giovanneo mostra come la ferita della cecità sia accresciuta dalla lettura culturale-religiosa che i discepoli – non meno dei farisei – danno di tale condizione; questa lettura deve essere smantellata, non meno della malattia. I discepoli domandano: «Rabbi, chi ha peccato, questi o i suoi genitori, di modo che nascesse cieco?» (9,2); i farisei-giudei dichiarano: «Tu sei nato tutto nei peccati e, tu, cerchi di insegnare a noi?» (9,34). Farisei e discepoli sono sulla stessa posizione: per entrambi la malattia è conseguenza diretta di un peccato ed è espressione di una punizione divina.50

48   Il fatto stesso che si tratti di un uomo cieco dalla nascita «orienta verso un’interpretazione simbolica universale della sua condizione» (Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 287). 49   Gv 9 e Gv 5 sono racconti paralleli. L’immaginario della cecità (c. 9) e quello della morte (c. 5) sono largamente intercambiabili. Nella visione giovannea la condizione umana si può descrivere con questo duplice tipo di lessico e di simbologia: l’uomo è cieco (Gv 9), l’uomo è morto (Gv 5,24-29). In Gv 5 il lessico della morte (vv. 24-29) si sovrappone a quello dell’infermità (vv. 1-16): l’infermo da trentotto anni è presentato da Gesù come un morto. 50   Se alcune situazioni penose possono essere conseguenze di una colpa, questo non è vero di qualunque condizione: nel racconto di Gv 9 c’è una cecità originaria non colpevole

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Così, però, risponde Gesù alla domanda dei discepoli in avvio del racconto: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma [è accaduto] perché fossero manifestate in lui le opere di Dio» (v. 3). La frase introdotta dalla particella hina (ajll∆ i{na fanerwqh'/ ta; e[rga tou' qeou' ejn aujtw'/) indica una finalità voluta da Dio o soltanto una conseguenza? «Ma è così affinché si manifestino le opere di Dio in lui», oppure: «Ma è così di modo che si manifestino le opere di Dio in lui»?51 In questo caso si deve probabilmente preferire una terza possibilità di traduzione, che sottolinei il valore imperativo di hina seguito dal congiuntivo: «Ma si manifestino le opere di Dio in lui».52 In ogni caso è chiaro, al di là del dibattito sulla possibile traduzione delle parole di Gesù in 9,3b, che «la condizione umana rappresentata dal cieco dalla nascita in Gv 9 è un simbolismo esistenziale e non amartiologico».53 La cecità originaria (insieme alla consapevolezza del proprio stato) è solo occasione perché si manifestino le opere di Dio: non viene dal peccato.

e una cecità finale conseguenza di un rifiuto. Gli schemi di intelligibilità teologica del reale vanno applicati con sapienza, altrimenti si condannano uomini senza colpa. 51  In ogni caso la spiegazione di Gesù non va intesa come se la malattia dell’uomo fosse stata programmata per permettergli di manifestare le opere di Dio e nemmeno come l’enunciazione di un principio generale. Si tratta di una pura constatazione sul cieco lì presente (Léon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, 626), di un’interpretazione circoscritta al caso specifico (G. Segalla, Giovanni [NVBTO 36], Paoline, Roma 1976, 292). Ci paiono condivisibili le considerazioni di Marconi sulla diversa funzione delle due costruzioni con hina, quella sulla bocca dei discepoli (v. 2) e quella sulla bocca di Gesù (v. 3); per questo autore si passa da un orientamento archeologico (discepoli) a uno teleologico (Gesù): cf. G. Marconi, «La vista del cieco. Struttura di Gv 9,1-41», in Gregorianum 79(1998), 625-643, qui 628. 52   L’uso assoluto di hina + congiuntivo con valore di imperativo è noto nel NT: cf. M. Zerwick, Il Greco del Nuovo Testamento, traduzione e adattamento alla lingua italiana di G. Boscolo (Subsidia Biblica 38), G&B Press, Roma 2010, 294 (§ 415). Tre esempi comunemente accettati sono Ef 5,33; 2Cor 8,7; Mc 5,23. Lo stesso uso si può rintracciare anche in vari altri casi; per quanto riguarda il QV, Zerwick ricorda soltanto 13,34 («Vi do un comandamento nuovo, amatevi gli uni gli altri»). Anche nella sua Analysis philologica Zerwick non menziona questa possibilità per Gv 9,3 (M. Zerwick, Analysis philologica Novi Testamenti graeci [SPIB 107], PIB, Roma 41984, 229) e tuttavia ci pare che essa possa essere suggerita; Zerwick l’ammette ad esempio anche per 13,18 (ivi, 238). Anche Blass – Debrunner, Grammatica del greco del Nuovo Testamento, § 387.3, ricorda che hina assoluto + congiuntivo si trova occasionalmente al posto dell’imperativo; i passi indicati sono numerosi, ma non ci sono esempi giovannei. Blass – Debrunner, ivi, § 448 nota 8, vorrebbe piuttosto spiegare Gv 9,3 come una costruzione ellittica: «bensì (ma) ciò è accaduto, affinché…», che equivale a dire: «piuttosto si devono». Gli altri passi giovannei interessati da questa costruzione sarebbero 1,8; 1,31; 13,18; 14,31; 15,25. 53   Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 287; cf. anche ivi, 289. Così anche V. Mannucci, Giovanni il Vangelo narrante. Introduzione all’arte narrativa del quarto Vangelo, EDB, Bologna 1993, 106: «Un uomo “cieco dalla nascita” rappresenta la cecità nativa di ogni essere umano […]. Questa cecità non è ancora peccato».

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1.4.3. « La luce brilla (1,5a; cf. 12,46)

nella tenebra »

In 12,46 Gesù proclama: «Io come luce sono venuto nel mondo, affinché chiunque crede in me non rimanga nella tenebra». Queste parole chiariscono definitivamente anche la vicenda del cieco nato: la venuta di Gesù nel mondo quale luce offre la possibilità a quanti si trovano nella tenebra – e l’uomo cieco dalla nascita ne è il prototipo – di uscire da tale condizione. L’uscita si compie mediante la fede: quanto è espressamente affermato in 12,46 è plasticamente mostrato dall’itinerario del cieco nato, culminante con la sua professione di fede nel Figlio dell’uomo (9,38). Sulla base di 12,46 non si può in nessun modo affermare che la condizione di quanti si trovano nella tenebra prima della venuta della luce sia una condizione di peccato. Semmai il peccato, quello che merita la condanna di cui si parla subito dopo (12,47-48), è rifiutare le parole, la rivelazione che Gesù-luce viene a portare nel mondo. Il quadro è perfettamente coerente con quanto si legge in Gv 9: la situazione di chi si trova nella tenebra (= di chi è cieco) prima della venuta della luce non è una condizione di peccato, lo è la condizione di chi rimane nella tenebra dopo la venuta della luce (= dopo la venuta di Gesù quale luce del mondo). Componendo il prologo, dopo aver terminato il suo racconto della vicenda di Gesù, l’evangelista sembra pensare precisamente a Gv 9 quando scrive: «e la luce brilla nella tenebra e la tenebra non l’ha catturata» (1,5). I due stichi di questo v. 5 sono contrassegnati da un diverso significato del termine skotiva («tenebra»): la luce brilla nella tenebra originaria (v. 5a) e la tenebra che la rifiuta non può soffocarla (v. 5b). Questo duplice significato di «tenebra» corrisponde alle due diverse cecità che si trovano in Gv 9. Il v. 5a sembra riferirsi a una tenebra che non ha connotazioni negative e che appare piuttosto come qualcosa di neutro. Questo uso «neutro» dell’immagine della tenebra risente probabilmente del racconto di Gen 1, che costituisce senza dubbio uno sfondo di primaria importanza per i primi versetti del prologo giovanneo. Secondo il racconto di Genesi la tenebra esiste prima della luce, senza che ciò abbia propriamente delle implicazioni metafisiche quanto all’origine del male. In Gen 1,2 si dice che le tenebre ricoprivano l’abisso; dopo di che si racconta la creazione della luce.54 Coerentemente con questo sfondo, Gv 1,5a ricorda che la luce risplende laddove essa era, fino a quel momento, assente. È precisamente la condizione del cieco nato: egli è «ferito» da una cecità neutra, causata dall’assenza della luce. Il v. 5b pare invece usare «tenebra» in un altro senso, come una realtà ostile che vorrebbe arrestare la luce: è quello

54   Il vocabolo impiegato dalla LXX di Gen 1,2 è skovto~, parente stretto di skotiva. La nota della Bibbia di Gerusalemme a Gen 1,4 fa osservare che la luce è una creazione di Dio, le tenebre non lo sono: esse sono semplicemente negazione, assenza. Un altro testo che può essere evocato è 2Cor 4,6: o{ti oJ qeo;~ oJ eijpwvn, ∆Ek skovtou~ fw'~ lavmyei. Anche questo testo, piuttosto intricato, pare doversi intendere in riferimento alla creazione.

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che si propongono di fare i farisei-giudei in Gv 9. Come dice il prologo, la tenebra però non è in grado di soffocare la luce.

2. La

cura

Il verbo qerapeuvw («curare, prendersi cura») nel QV si trova soltanto in 5,10. Più frequente è ijavomai («risanare, guarire»), che conta tre occorrenze (4,47; 5,13; 12,40).55 Il racconto della guarigione dell’infermo alla piscina di Bethzatha (Gv 5,1-16) impiega entrambi i verbi (5,10.13). Il lessico specifico della cura è, invece, assente da Gv 9;56 la sostanza però vi è chiaramente attestata: «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25). Una guarigione di ciechi si trova annunciata in Gv 12,40,57 dove l’evangelista cita Is 6,10.58 In questo passo la cecità, che ha un evidente valore simbolico come immagine dell’incredulità, indica soltanto uno dei due livelli di simbolismo riconoscibili in Gv 9: non è la cecità originaria del cieco nato, quanto piuttosto la chiusura di fronte alla rivelazione dei farisei-giudei. In tal modo Gv 12,40 proclama che c’è una speranza anche per coloro che nel c. 9 si sono rinchiusi, per loro scelta, nel rifiuto della luce. In questo § 2. ci proponiamo di indagare le caratteristiche concrete della terapia messa in atto da Gesù (2.1.) e gli esiti della guarigione che essa produce nell’uomo cieco dalla nascita (2.2.).

2.1. Le caratteristiche della terapia Le caratteristiche della terapia istituita da Gesù si ricavano essenzialmente dalla parte iniziale del racconto (vv. 1-7), ma è indispensabile recuperare anche, dal v. 14, l’informazione relativa al giorno della guarigione. 2.1.1. Un

intervento non richiesto

Come già in occasione della guarigione dell’uomo infermo da trentotto anni (Gv 5) e del dono del pane per i cinquemila (Gv 6), l’intervento di Gesù a favore del cieco in Gv 9 non è motivato da alcuna richiesta, né da

55  «ijavomai viene usato in alternativa al più comune qerapeuvw nel senso di risanare senza differenza di significato» (R. Leivestad, «ijavomai», in DENT, I, 1690-1692, qui 1690). 56   Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 260: nonostante «l’uso della saliva e del fango, elementi non alieni dalla prassi taumaturgica dell’epoca, tuttavia il QV non utilizza un linguaggio prettamente terapeutico». Cf. anche ivi, 272-273: la guarigione attribuita a Vespasiano, di cui abbiamo parlato alla nota 26, avviene con l’impiego della saliva. 57  In Gv 12,40 compare, infatti, sia il lessico della cecità (tetuvflwken aujtw'n tou;~ ojfqalmouv~) che quello della guarigione (kai; ijavsomai aujtouv~). 58   L’interpretazione di Gv 12,40 e del modo in cui evangelista interpreta il testo isaiano da lui citato è estremamente controversa; riteniamo plausibile che si tratti di una promessa.

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25)

parte del beneficiario né da parte di qualcuno tra i presenti.59 La domanda dei discepoli in 9,2 non invoca la guarigione, ma solleva in termini generali la questione dell’origine dell’infermità. Non si può chiedere ciò che non si conosce: l’iniziativa può dunque partire solo da colui che sa bene ciò che sta per dare. Ciò implica che il dono che Gesù si appresta a fare è qualcosa di più grande della vista fisica: la vista in senso materiale lo indica simbolicamente, ma non coincide con esso. Il dono di Gesù non si esaurisce al livello fisico (pur inglobandolo, senza cancellarlo) e quella vista profonda che Gesù ha in serbo per l’uomo cieco esula dalle sue capacità immaginative. Ciò che in definitiva Gesù intende donare è l’esperienza di sé come «luce del mondo» e ciò non può essere oggetto di alcuna richiesta. Possiamo anche dire che il dono (in questo caso, la vista) esprime tutte le caratteristiche del donatore (Gesù): forse che la venuta del Figlio nel mondo come luce (3,19) è stata la conseguenza di una richiesta degli uomini a Dio? Come la luce non è stata chiesta, così neppure la possibilità di vederla. Questo tratto di totale gratuità del dono della luce e della correlativa possibilità di vederla esprime bene il dato teologico che la cura nasce dall’amore di Dio per il mondo (3,16); non da una richiesta dell’uomo, ma da un desiderio di Dio a cui il Figlio «dà corpo» facendosi carne. 2.1.2. Un

avvio singolare

«Dette queste cose, sputò per terra e fece del fango dallo sputo e gli spalmò60 il fango sugli occhi» (v. 6). Ireneo di Lione interpretava il gesto di Gesù in relazione a Gen 2: esso replicherebbe dunque la creazione dell’uomo.61 Agostino di Ippona ci vedeva un’immagine dell’incarnazione del Logos, da cui viene la salvezza: la saliva indica il Verbo divino che scende dal cielo e la terra la natura umana a cui il Verbo si unisce.62 Nell’immediato, il gesto ha essenzialmente l’effetto di accrescere la condizione di cecità dell’uomo; i suoi occhi risultano adesso chiusi due volte:

59   I miracoli di Gesù raccontati per esteso nel QV sono sei: l’acqua mutata in vino (2,111), la guarigione a distanza del figlio di un funzionario regio (4,46-54), la guarigione di un uomo infermo da trentotto anni (c. 5); il dono del pane (6,1-15); la guarigione di un cieco dalla nascita (c. 9); la rianimazione di Lazzaro (11,1-44). Resta fuori da questo conteggio Gv 6,16-21, che ha piuttosto il carattere di un’epifania. In tre casi su sei non c’è nessuna richiesta (2,1-11; c. 5; c. 9); in un paio di casi incontriamo una preghiera indefinita, un’espressione di fiducia profonda che non domanda niente di preciso: la madre a Cana (2,3) e le sorelle di Lazzaro (11,3; cf. 11,21-22.32). Cf. M. Marcheselli, «La fiducia come tratto costitutivo della preghiera nel Vangelo secondo Giovanni», in PSV (2010)62, 157-171, qui 160-164; Id., «Pane donato: il pane e Gesù in Gv 6», in C. Bazzi – R. Amici (a cura di), Donare. Esegesi, teologia e altro, Fs. G. Biguzzi (Studia 63), Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2012, 163-180, qui 167-171. 60   Il verbo indicante «ungere» fu probabilmente sentito inappropriato da alcuni isolati copisti che gli sostituirono «imporre il fango» o «toccare con il fango». 61   Ireneo di Lione, Adv. haereses V,15,2. 62   Agostino d’Ippona, In Iohannis Evangelium Tractatus XLIV,2.

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dalla malattia e dallo strato di fango che Gesù vi ha posto sopra.63 Gesù pertanto comincia la terapia con l’enfatizzare il limite, mettendo fango su occhi che già non vedono. A questo punto la condizione di infermità non può più essere negata. Il punto di partenza di una possibile guarigione è sempre il riconoscimento del limite da cui si è segnati, la presa di coscienza cioè della propria situazione reale. Proprio per la costante compresenza del livello materiale e di quello spirituale in Gv 9, la presa di coscienza della propria condizione di infermità fisica lascia trasparire – al di sotto della «superficie» – la percezione dell’uomo di versare in una condizione di cecità «profonda». Come abbiamo ricordato sopra (§ 1.4.1.), ci sono altri ciechi in questo racconto: i farisei-giudei. La differenza tra essi e l’uomo a cui Gesù spalma il fango sugli occhi consiste nel disconoscimento della mancanza da cui sono contrassegnati. Molti non vogliono la guarigione che Gesù porta proprio perché incapaci di riconoscere la propria condizione e di confessare il proprio limite. 2.1.3. Il

sabato come giorno del trattamento

«Era sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto il fango e aveva aperto i suoi occhi» (9,14). Il fango con cui Gesù spalma gli occhi del cieco ha delle implicazioni che inizialmente il narratore non rivela. Apprendiamo la portata esplosiva del gesto soltanto quando ci viene rivelato che esso è stato compiuto di sabato.64 Nella giurisprudenza giudaica (codificata successivamente nella Mishna) fare del fango con la saliva è equiparato a impastare e l’impastare è uno dei lavori proibiti di sabato.65 Due delle quattro guarigioni raccontate nel QV avvengono in giorno di sabato:66 Gesù ha già in precedenza guarito di sabato un infermo a Gerusalemme (Gv 5). Il giorno in cui viene istituita la terapia e operata la guarigione del cieco non è senza rilievo. La collocazione in giorno di sabato, svelata a scoppio ritardato dal narratore reticente, svolge in effetti un ruolo decisivo nell’economia complessiva di Gv 9. Due aspetti si trovano, infatti, congiunti nell’unico e medesimo gesto compiuto da Gesù a beneficio del cieco (v. 16): quell’avvenimento appare – al tempo stesso e inscindibilmente – infrazione del sabato (v. 16a) e segno (v. 16b). Questi

63  Il carattere di raddoppiamento della cecità veicolato dal gesto di Gesù è rilevato anche da Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 293. Anche Tommaso d’Aquino formula una considerazione di questo tenore: il cieco avrebbe potuto dire a Gesù che il fango serve piuttosto ad accecare; cf. Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo di san Giovanni, II (Fonti cristiane per il terzo millennio 5/2), Città Nuova, Roma 1992, 158. 64  Qualcuno vorrebbe vedere l’infrazione del sabato (anche) nel fatto che si tratta di guarigione non necessaria oppure nel viaggio compiuto dal cieco fino a Siloe, più lungo di quanto permesso di sabato. 65  Cf. mShab 7,2. Impastare è il decimo dei trentanove lavori vietati in giorno di sabato. 66   Non c’è una precisa collocazione cronologica per la guarigione del figlio del funzionario regio (4,46-54) e per la rianimazione di Lazzaro (11,1-44).

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25)

due elementi, che – secondo gli interroganti – non possono stare insieme, sono invece compresenti e gli sforzi dei farisei-giudei sono inizialmente orientati al tentativo di eliminarne uno, di dimostrare cioè che non è avvenuta alcuna guarigione (9,18-22), ma soltanto un’infrazione della Legge. In Gv 9 non troviamo alcuna motivazione esplicita al fatto che Gesù operi di sabato; dai vv. 31-33 possiamo tuttavia dedurre che il suo lavoro non è stato giudicato da Dio alla stregua di un’infrazione della Legge, altrimenti l’Altissimo non gli avrebbe permesso di operare la guarigione.67 Quello che in Gv 9 resta tra le righe è già stato abbondantemente chiarito in Gv 5 nel contesto della controversia originata dalla guarigione dell’infermo.68 La motivazione con cui Gesù ha reso ragione del suo operare di sabato in Gv 5 si inserisce perfettamente in una questione che il mondo giudaico dibatteva: c’è un lavoro di Dio anche in giorno di sabato? Alla domanda se anche Dio osserva il riposo sabbatico, la tradizione giudaica rispondeva che ci sono due opere che non cessano mai, nemmeno di sabato: anche di sabato Dio fa vivere e giudica.69 In Gv 5 Gesù ha motivato il suo operare pretendendo per sé lo statuto che il giudaismo riconosceva a Dio per il giorno di sabato. Gesù si giustifica «facendosi uguale a Dio» (formulazione opaca, ma non totalmente deformante); per quanto riguarda il sabato, egli si colloca sul versante di Dio e non su quello degli uomini. Come il Padre non smette mai – neppure di sabato – di dare la vita, così in Gv 9 Gesù – in giorno di sabato – ha concesso a un uomo cieco dalla nascita la luce della vita (8,12; cf. 1,4). La legge del sabato non è infranta: Gesù fa di sabato quello che a Dio è lecito fare in quel giorno. Il lavoro di Dio che non conosce interruzioni nella visione giovannea consiste esclusivamente nel vivificare; il giudizio non è un lavoro di Dio. Il giudizio, nel QV, è sempre un auto-giudizio dell’uomo su se stesso, che coincide con l’opzione negativa di rifiuto della luce. Dio non giudica: è l’uomo che giudica se stesso. Si tratta di un giudizio di condanna: l’uomo pronuncia questo giudizio nel momento in cui, rifiutando l’offerta di vita che proviene da Dio, si auto-condanna alla morte. In Gv 9, questa è la storia dei farisei: sono essi che rigettano la luce della vita. La dichiarazione di Gesù «Il padre mio opera fino a ora e anch’io opero» (5,17) fornisce una fondamentale chiave ermeneutica del suo agire di sabato, che si basa sulla rivendicazione della sua condizione di Figlio unigenito: alcune

  Cf. più avanti § 2.2.4.   Anche all’interno della lunga sezione giovannea in cui si trova Gv 9 (quella che ha sullo sfondo la festa delle Capanne) è stata evocata – in Gv 7,14-24 – l’opera compiuta da Gesù sull’infermo al c. 5. 69  J. Bernard, «La guérison de Bethesda. Harmoniques judéo-hellénistiques d’un récit de miracle un jour de sabbat», in MScRel 33(1976), 3-34; Id., «La guérison de Bethesda. Harmoniques judéo-hellénistiques d’un récit de miracle un jour de sabbat», in MScRel 34(1977), 13-44; C.H. Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo (Biblioteca teologica 11), Paideia, Brescia 1974, 395-399; M. Nicolaci, Egli diceva loro il Padre. I discorsi con i Giudei a Gerusalemme in Giovanni 5–12 (Studia Biblica 6), Città Nuova, Roma 2007, 113-130; Fuzinato, Tra fede e incredulità, 141-144. 67 68

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opere di Dio non cessano nemmeno di sabato; vivificare è l’opera incessante di Dio. Per comprendere il funzionamento della terapia istituita da Gesù è decisivo riconoscere che la volontà di trasmettere vita non conosce restrizioni e che Dio non rivendica gelosamente degli spazi «per sé», all’interno dei quali non è lecito occuparsi della vita dell’uomo. Il lavoro a cui Dio si dedica incessantemente è la comunicazione della vita: questo tratto può essere reso esplicito solo se la guarigione avviene in giorno di sabato. Cosa poi sia contenuto dentro la categoria di «vita» – e dunque quali siano le opere vivificanti che si possono e si debbono compiere senza interruzione – lo possiamo ricavare dall’insieme del vangelo: questa vita tocca la dimensione dello spirito, ma anche quella fisica e psichica. 2.1.4. Il

ruolo della parola ,

cioè della fiducia

«Gli disse: “Va’ a lavarti alla piscina di Siloam (che si traduce ‘inviato’)”. Allora andò, si lavò e venne che ci vedeva» (v. 7). Per acquistare la vista occorre fidarsi di una parola. La terapia funziona solo dentro una relazione di fiducia e qui siamo davanti a un caso evidente di fiducia… cieca!70 Il cieco si fida della parola di Gesù e va a lavarsi a Siloe, senza che sia ancora accaduto alcunché: al momento egli ha soltanto ricevuto uno strato di fango sugli occhi già chiusi dalla cecità. La fiducia precede la guarigione e crea il contesto in cui essa diventa possibile.71 Non solo, ma è precisamente questa fiducia nella parola di Gesù che metterà il cieco in condizione di leggere il miracolo nella sua qualità di segno. Coloro che tale fiducia non hanno non sono in grado di vedere oltre il miracolo nella sua materialità (di cui peraltro non sanno capacitarsi, essendosi prodotto in concomitanza con un’apparente infrazione della Legge): non lo leggono in ogni caso come evento di rivelazione.

2.2. Gli

effetti della cura

Sul versante degli effetti della terapia, Gv 9 mostra come il dono della guarigione, che conferisce piena dignità al cieco di un tempo, implichi l’acquisizione di capacità critica, la libertà dai condizionamenti sociali, l’uscita da tutti i recinti. Ciò che consegue all’avvenuta guarigione è de-

  Calloud – Genuyt, L’évangile de Jean, 60, sottolineano efficacemente questo aspetto dell’obbedienza del cieco nato alla parola di Gesù: «Il est envoyé pour accomplir une tâche dont il ne connaît pas encore le retentissement qu’elle aura sur son état. C’est son obéissance – obéissance aveugle – qui enclenche la marche». Così anche A.M. Reimer, «The Man Born Blind. True disciple of Jesus», in S.A. Hunt – D.F. Tolmie – R. Zimmermann (a cura di), Character Studies in the Fourth Gospel. Narrative Approaches to Seventy Figures in John (WUNT 314), Mohr Siebeck, Tübingen 2013, 428-438, qui 432 («blindly obedient»). 71   Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 293, vede qui un appello alla libertà dell’uomo; Gesù non chiede immediatamente al cieco la fede, ma la fiducia. 70

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25)

scritto dal narratore attraverso i numerosi dialoghi e interrogatori che si svolgono dopo il ritorno dell’uomo da Siloe e che, senza soluzione di continuità, assumono infine la forma di un discorso imperniato sull’immagine del pastore e delle pecore (9,8–10,18). 2.2.1. Guarigione come liberazione, ovvero « la verità vi farà liberi » Si può affermare che il racconto del cieco rappresenti una ripresa narrativa di quanto è stato da Gesù affermato discorsivamente nell’arco del precedente c. 8: tanto l’autorivelazione in termini di luce del mondo (8,12), quanto la trasformazione promessa a coloro che rimangono nella sua parola (8,31-32) sono riproposti in forma drammatica nell’insieme di Gv 9. In 8,12 Gesù ha presentato se stesso come «luce del mondo» e, dopo aver ripreso quasi alla lettera tale autorivelazione in 9,5, egli compie un segno in cui prende corpo esattamente il suo essere luce: egli dona la vista a uno che era cieco dalla nascita. In 8,31-32 Gesù ha proposto un itinerario di liberazione a quei giudei che gli avevano dato credito:72 la vicenda del cieco guarito è precisamente la trascrizione in forma di dramma di questo cammino.73 In questo paragrafo ci interessa direttamente sottolineare come Gv 9 riproponga nella forma di un racconto il percorso prospettato in Gv 8,3132, dove si riconoscono agevolmente quattro tappe: a) premessa: dare credito alla parola di Gesù (v. 31a); b) condizione: rimanere nella sua parola (v. 31b); c) promessa: essere davvero suoi discepoli, conoscendo la verità (vv. 31c-32a); d) effetto ultimo: essere liberati dalla verità (v. 32b). Questo è precisamente quanto accade all’uomo che era nato cieco: egli aderisce inizialmente alla parola di Gesù; rimane nella sua parola; in tal modo diventa davvero suo discepolo conoscendo la verità; la verità, infine, lo rende libero. La possibilità di compiere questo itinerario di liberazione dipende da una premessa, che 8,31a presenta in termini di fiducia accordata alla parola. Gesù, infatti, rivolge la sua proposta a dei giudei che gli hanno dato un credito iniziale (pro;~ tou;~ pepisteukovta~ aujtw'/ ∆Ioudaivou~). L’uso di «credere» seguito dal dativo indica normalmente, nel lessico giovanneo, il «prestar fede» alla parola, il «dar credito» a una testimonianza. Per poter ascoltare la promessa di Gesù, la premessa indispensabile è un atteggiamento di disponibilità verso la sua parola. A coloro che hanno già mostrato questa positiva disposizione iniziale Gesù presenta poi un’ulterio-

72   Per un’esegesi dettagliata di questi due versetti, cf. M. Marcheselli, «Il riferimento ad Abramo in Gv 8,31-59: funzione retorica in un contesto polemico», in RSB 26(2014), 347-386, qui 357-360.363-364. 73  Abbiamo già suggerito l’esistenza di un nesso organico tra 8,31-32 e il c. 9 in un testo di taglio molto divulgativo: M. Marcheselli, «“Il Figlio vi farà liberi” (Gv 8,36). Da Gesù uomo libero alla libertà del discepolo», in Libertà va cercando (Sussidi biblici 87), San Lorenzo, Reggio Emilia [2005], 85-103.

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re condizione (8,31b), esplicitata dalla protasi del periodo ipotetico (eja;n uJmei'~ meivnhte ejn tw'/ lovgw/ tw''/ ejmw'/): fare della sua parola l’ambito in cui dimorare, rimanere, restare, abitare. Troviamo qui il verbo mevnw, caratteristico del vocabolario giovanneo; nel QV il sintagma «rimanere nella parola» compare, però, unicamente in questo passaggio. L’apodosi del periodo ipotetico contiene la promessa (8,31c-32a): ajlhqw'~ maqhtaiv mouv ejste kai; gnwvsesqe th;n ajlhvqeian. I verbi ejste kai; gnwvsesqe sono alla seconda persona plurale; segue un terzo verbo che ha invece come soggetto «la verità». Le prime due frasi sono dunque strettamente connesse tra loro e separate dall’ultima:74 «essere davvero discepoli» e «conoscere la verità» formano un’endiadi; l’autentico discepolo non è altri che colui che conosce la verità. Non siamo davanti a due azioni distinte e successive: si è davvero discepoli di Gesù nella misura in cui si fa esperienza della verità. La frase che chiude il v. 32 descrive l’esito ultimo dell’itinerario proposto (v. 32b): il raggiungimento di una condizione di libertà. Attraverso il cambiamento del soggetto grammaticale (non più «voi», ma «la verità») Gesù presenta le estreme conseguenze che la conoscenza della verità produce in colui che la sperimenta: l’uomo che conosce la verità fa l’esperienza di esserne liberato. In 8,36 si trova una riformulazione di questa espressione dove al posto di «la verità» compare «il figlio»: la verità giovannea è connotata in senso cristologico. Quanto raccontato in Gv 9,7 (cf. sopra, § 2.1.4.) corrisponde perfettamente alla premessa indicata in 8,31a: l’itinerario del cieco prende avvio dal credito iniziale concesso alla parola di Gesù. La prima azione da lui compiuta è un atto di fiducia cieca. Lo svilupparsi successivo della vicenda trascrive poi in forma narrativa il rimanere nella parola, cioè la condizione posta da Gesù per diventare davvero suoi discepoli. Il v. 25 è particolarmente espressivo di questo atteggiamento del cieco guarito: «Egli dunque rispose: “Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa sola so: io, che ero cieco, adesso ci vedo”». Interrogato per la seconda volta dai farisei-giudei il cieco guarito «rimane» nella parola di Gesù: egli persevera nel far riferimento al segno di cui è stato destinatario.75 Diventare un autentico discepolo coincide con il conoscere la verità: il c. 9 racconta come il cieco, guarito fisicamente, giunga a vedere in senso profondo, a riconoscere cioè l’identità ultima di Gesù, il quale è la verità. Si compie così in lui la promessa di Gesù. I vv. 27-28 sono particolarmente significativi per poter verificare come il cieco riproduca perfettamente la seconda (condizione) e la terza (promessa) tappa dell’itinerario prospettato da

74   Questa è anche l’impostazione grafica di Nestle-Aland, Novum Testamentum Graece, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 282012, 325, che pone una virgola dopo ejn tw'/ lovgw/ tw'/ ejmw'/ e un’altra dopo th;n ajlhvqeian. 75   Il legame tra segno e parola è indissolubile: il segno è stato generato dalla parola; l’obbedienza alla parola ha donato la guarigione all’uomo nato cieco. Il fatto che egli rimanga fermo a ciò che la parola di Gesù ha generato esprime efficacemente il suo «rimanere» in tale parola, anche in assenza del verbo mevnw.

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25)

Gesù in 8,31-32. In 9,27 il cieco risponde a coloro che lo interrogano: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Forse che anche voi volete diventare suoi discepoli?». Non si potrebbe desiderare un’espressione più chiara del fatto che è precisamente l’ascolto perseverante della Parola (cioè il rimanere in essa) che costituisce discepoli! In 9,28 i farisei-giudei reagiscono insultandolo e dicendo: «Tu sei suo discepolo, noi invece siamo discepoli di Mosè». Secondo la tipica ironia giovannea i farisei-giudei descrivono esattamente la situazione che si è ormai prodotta: il cieco è diventato davvero un discepolo di Gesù. Affermando ironicamente che lui è un discepolo di Gesù essi confermano che egli rimane ostinatamente attaccato alla sua parola. Discepolo di Gesù il cieco lo è diventato precisamente in forza dell’approfondirsi costante della sua conoscenza di lui, cioè della conoscenza sempre più profonda della verità. L’esito ultimo dell’itinerario (la quarta tappa) è anch’esso perfettamente identificabile in Gv 9: il cieco guarito è un uomo liberato e questa libertà è espressione della guarigione che lo ha raggiunto. La verità, cioè Gesù – il Figlio –, lo ha reso libero. Liberi non sono i suoi genitori (cf. 9,2223); liberi non sono gli abitanti di Gerusalemme (cf. 7,25-27): la libertà del cieco guarito si mostra nella sempre più grande autonomia di giudizio e nella capacità di dire senza paure anche ciò che gli risulta socialmente nocivo (cf. sotto i § 2.2.3. e § 2.2.4.). 2.2.2. La

capacità di affrontare i conflitti

La parte centrale di Gv 9 è occupata da scene di tipo forense: i due interrogatori del cieco (vv. 13-17 e 24-34) sono inframmezzati da quello dei suoi genitori (vv. 18-23). Questo punto è di fatto un corollario del precedente: la libertà con cui egli ora si muove non è gradita nel suo contesto sociale. Sappiamo che non di rado una terapia psicologica trascina con sé conseguenze di questo genere: la guarigione dell’interiorità trasforma la persona, ma questo non la rende necessariamente più accettabile a chi la conosceva come era prima; anzi… La cura a cui Gesù sottopone il cieco non produce, in effetti, nell’immediato un esito di pacificazione. Nel giro di poco tempo, anzi, la conflittualità esplode e, al termine del secondo e ultimo interrogatorio, il guarito è cacciato fuori (v. 34). Non si può ricavare da questo testo la necessità di creare dei conflitti o la possibilità di attribuire loro automaticamente il carattere di un sigillo di autenticità. I conflitti non vanno coltivati; nemmeno vanno evitati a qualunque costo. Il racconto della guarigione del cieco nato mostra in ogni caso che essi vanno accettati, quando si rivelano inevitabili, disponendosi a pagarne personalmente il prezzo e non a farlo pagare ad altri. 2.2.3. Un

modo nuovo di rapportarsi

all ’ autorità dei genitori e dei farisei - giudei

Gli effetti dell’avvenuta guarigione si possono misurare in relazione a due personaggi che, in Gv 9, sono costretti – come il cieco – a confrontarsi

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con quello che Gesù ha fatto: il comportamento dei suoi genitori, da un lato, e dei farisei-giudei, dall’altro, è illuminante proprio per la significativa diversità rispetto a quello del protagonista. a) Possiamo anzitutto misurare le conseguenze prodotte dalla cura mettendo a confronto il cieco e i suoi genitori. Questi ultimi restano prigionieri della propria paura (9,22a: ejfobou'nto tou;~ ∆Ioudaivou~): «Infatti, i giudei avevano già disposto che, se uno lo avesse confessato “Cristo”, fosse espulso dalla sinagoga» (9,22b). La paura qui descritta è essenzialmente paura di essere marginalizzati, di perdere le proprie piccole o grandi sicurezze sociali, di finire soggetti a qualche forma di punizione o restrizione (nella fattispecie, l’essere «espulsi dalla sinagoga»). La paura genera atteggiamenti di insincerità e innesca processi di camuffamento. La guarigione ha reso il figlio completamente autonomo dai genitori: il suo comportamento non riproduce il loro.76 Con una dichiarazione profondamente ironica i genitori lo descrivono come un adulto in grado di assumersi le sue responsabilità, cosa che essi evitano accuratamente di fare: «Interrogate lui, ha l’età; lui parlerà di sé» (9,21b). La guarigione ha davvero fatto di questo uomo ferito un adulto pienamente responsabile. Possiamo parlare di un’autonomia completamente acquisita: egli è diventato un adulto; davvero «ha l’età»! b) Sull’atteggiamento assunto da coloro che interrogano il cieco guarito torneremo anche nel paragrafo successivo (§ 2.2.4.). Qui ci preme soprattutto rilevare l’ironia contenuta nella dichiarazione con cui essi ritengono di chiudere definitivamente la questione: «Tu sei nato tutto nei peccati e, tu, cerchi di insegnare (didavskei~) a noi?» (v. 34a). Anche qui riconosciamo la tipica ironia giovannea: il cieco è realmente diventato il loro maestro; essi proclamano inconsapevolmente una verità che rifiutano, ma che al lettore risulta palese. La magistrale argomentazione dei vv. 30-33 (cf. § 2.2.4.) ha dimostrato che il cieco di un tempo è effettivamente capace di insegnare (didavskw); egli è divenuto un maestro (didavskalo~) di Israele (cf. 3,10). 2.2.4. Capacità

di giudizio

Al culmine del secondo interrogatorio a cui è sottoposto (vv. 24-34), prima del passaggio decisivo dischiuso dall’incontro con Gesù (vv. 3539), il cieco mostra un’impressionante capacità di argomentare criticamente sulla base del principio di realtà. Le ultime parole che egli rivolge a coloro che lo interrogano suonano così (vv. 30-33):

76   Cf. M. Labahn, «The Parents of the Man Born Blind: The Reason for Fear without True Reason», in Hunt – Tolmie – Zimmermann, Character Studies in the Fourth Gospel, 446-450. La figura dei genitori fa parte a tutti gli effetti della pragmatica del racconto: essi mostrano al lettore che non si deve agire come loro, ma come il loro figlio. La figura dei genitori invita, per contrasto, a comportarsi senza paura: esattamente come il loro figlio.

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25) Proprio in questo è lo stupefacente, che voi non sapete da dove sia, eppure ha aperto i miei occhi. Sappiamo bene che Dio non ascolta i peccatori, ma, se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, lo ascolta. Da che mondo è mondo non si è mai udito che uno abbia aperto gli occhi di un cieco nato. Se costui non fosse stato da Dio, non avrebbe potuto fare nulla.

In stretta connessione con le considerazioni svolte nel paragrafo precedente rileviamo anzitutto come l’avvenuta guarigione si manifesti in termini di capacità di argomentare criticamente. Abbiamo analiticamente dimostrato altrove come è costruita l’argomentazione del cieco guarito nei vv. 30-33;77 in questa sede ci limitiamo ad alcune osservazioni fondamentali. Il ragionamento del cieco guarito è condotto all’interno di una prospettiva pienamente condivisa da coloro che lo interrogano:78 egli ne adotta integralmente i presupposti e li confuta dall’interno della loro stessa teo­logia. All’argomentazione del cieco soggiace, anzitutto, una premessa che i suoi interlocutori condividono: nella concezione giudaica del miracolo, esso è sempre il frutto dell’esaudimento di una preghiera da parte di Dio.79 Il cieco guarito svolge la sua argomentazione nella forma di un sillogismo.80 L’affermazione conclusiva del v. 33 (eij mh; h\n ou|to~ para; qeou', oujk hjduvnato poiei'n oujdevn) esprime il risultato che si ottiene sommando i due presupposti formulati in 9,31 e 9,32: 1) noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma ascolta uno che sia pio e faccia la sua volontà (v. 31); 2) se qualsiasi miracolo non può venire che da Dio, a maggior ragione questo miracolo dalle caratteristiche assolutamente uniche: nel caso della guarigione di un cieco nato, siamo certamente di fronte a un intervento di Dio, che rende possibile ciò che è di per sé impossibile entro l’orizzonte di questo mondo (v. 32); 3) allora quest’uomo che ha guarito un cieco nato non può che essere un pio, uno che fa la volontà di Dio, uno che è da Dio,

 Cf. Marcheselli, «Peccato e peccatori in Gv 9», 145-148.   Cf. anche le osservazioni formulate al § 1.1. a proposito del significato del plurale «noi» in 9,31. Anche Asiedu-Peprah ritiene giustamente che il «noi» voglia ricordare ai giudei un principio che anch’essi conoscono e riconoscono come vero: cf. M. Asiedu-Peprah, Johannine Sabbath Conflicts as Juridical Controversy (WUNT II 132), Mohr Siebeck, Tübingen 2001, 144. Un po’ genericamente, però, egli afferma che il narratore userebbe questa espressione per veicolare un’idea o un fatto che è universalmente noto e accettato da tutti. 79   Si tratta di un tema che nel QV compare anche altrove (per esempio in Gv 11,2122.41-42); cf. Marcheselli, «La fiducia come tratto costitutivo della preghiera nel Vangelo secondo Giovanni», 163-164. «Secondo il pensiero giudaico, cose straordinarie avvenivano per l’onnipotenza di Dio e grazie all’intercessione di uomini devoti» (Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, II, 563). Theobald lo ritiene un tratto caratteristico non tanto della teologia giovannea, quanto piuttosto della fonte dei segni: Theobald, Das Evangelium nach Johannes. Kapitel 1–12, 631. 80  Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo di san Giovanni, II, 175-178, riconosce la presenza in 9,31-33 di un vero e proprio sillogismo. La maggiore è contenuta al v. 31, la minore al v. 32 e la conclusione in 9,33: Dio ascolta i giusti (9,31), costui è stato ascoltato da Dio (9,32), dunque costui è giusto (9,33). 77

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perché soltanto un tale tipo di uomo viene esaudito; diversamente egli non avrebbe potuto compiere alcun segno (v. 33). I due presupposti su cui si regge il sillogismo hanno un carattere di inoppugnabilità. Primo presupposto: Dio non ascolta i peccatori (v. 31). Questa affermazione ha un significato estremamente preciso nel nostro racconto. Il cieco formula il principio del v. 31 (la minore del sillogismo) avendo di mira non la questione generica dell’esaudimento di un peccatore, ma la questione specifica di un esaudimento che comporti il peccato. Qui non si tratta di due atti o momenti distinti (da un lato, un uomo che infrange la Legge e, dall’altro, Dio che esaudisce o meno una qualsiasi preghiera di quest’uomo empio), ma di esaudire facendo infrangere con ciò stesso la Legge. Un peccatore può chiedere a volte cose buone: perché Dio non dovrebbe esaudirlo? Ma Dio non può aver ascoltato Gesù – concedendogli di compiere questa guarigione – se egli con essa avesse infranto la legge sul sabato. Il principio formulato in 9,31, inteso come un’affermazione di portata generale, conosce molte eccezioni; non così l’applicazione che ne fa il cieco: è impossibile che Dio, esaudendo la richiesta di un uomo, gli conceda con ciò stesso di peccare. Secondo presupposto: costui ha guarito un uomo cieco dalla nascita. L’ultimo argomento rimasto ai giudei, ridotti al silenzio dal cieco guarito sul piano della disputa teologica, suona così: «Tu sei nato tutto intero nei peccati e vuoi insegnare, tu, a noi?» (v. 34). Non potendo controbattere alla logica del suo ragionamento essi tentano di screditare la sua persona. E qui c’è un capolavoro di ironia giovannea. «Sei nato tutto nei peccati» è, infatti, implicitamente – ma chiaramente – un riferimento alla sua condizione di cecità nativa: i capi cercano di screditare il cieco ricordandogli che è nato cieco, affermando cioè quello che precedentemente si sono sforzati di negare (vv. 18-19). Riconoscere che egli è nato tutto nei peccati (cioè che è nato cieco) significa, infatti, ammettere che Gesù ha guarito un uomo cieco dalla nascita.81 È già apparso tra le righe della riflessione che abbiamo condotto fino a questo momento come, nel suo argomentare di fronte a coloro che lo interrogano, il cieco di un tempo faccia funzionare il principio di realtà contro la gabbia dell’ideologia – anche religiosa. Questa gabbia è facilmente riconoscibile nell’enfatica proclamazione dei giudei in 9,24 («Noi sappiamo bene che quest’uomo è un peccatore»), che al lettore appare non suffragata da nulla.82 Di fronte alla sicumera di coloro che lo inter-

81   Anche Bligh osserva come nel v. 34 i farisei riconoscano implicitamente che l’uomo era nato cieco e quindi che è avvenuta una guarigione miracolosa; cf. J. Bligh, «Four Studies in St. John, I», in HeyJ 7(1966), 129-144. Bultmann rileva acutamente la contraddizione in cui cadono i giudei: adesso fa loro comodo accettare quello che poco prima mettevano in dubbio; cf. R. Bultmann, The Gospel of John. A Commentary, Blackwell, Oxford 1971, 337. 82   Il pronome personale hJmei'~ è qui enfatico. In uno studio sui verbi di conoscenza usati nel QV De la Potterie fa notare che quando il verbo oi\da è utilizzato positivamente, con i giudei come soggetto, è sempre sulle loro labbra; essi proclamano con sufficienza ciò che

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25)

rogano («Noi sappiamo bene che…») il cieco guarito si muove dapprima molto cautamente:83 «Se sia un peccatore non lo so» risponde in 9,25, intendendo dire che non gli pare possibile trarre una simile conclusione sulla base di quanto egli conosce.84 E cosa sa questo cieco non più tale? Una sola cosa: che è realmente avvenuto un segno (9,25)!85 Egli ne è ben consapevole: la cosa, infatti, riguarda lui personalmente.86 Le parole del cieco guarito al v. 25 suonano come una dichiarazione che l’unico elemento certo in tutta questa faccenda è il segno/l’opera compiuta da Gesù: ha aperto gli occhi di un cieco. Per lui questo è l’unico punto di partenza ragionevole: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa sola so: io, che ero cieco, adesso ci vedo». Sulla base di questo dato di fatto si potrà eventualmente ragionare se Gesù sia o no un peccatore.87

sanno in materia religiosa. Cf. I. De La Potterie, «Oi\da et ginwvskw. Les deux modes de la connaissance dans le quatrième évangile», in Bib 40(1959), 709-725, qui 717-718 nota 2. Il carattere assoluto della conoscenza designata da oi\da è, in questi casi, chiaramente percepibile. 83   Queste osservazioni non hanno niente a che fare con un’introspezione nell’animo del cieco; si riferiscono alla tecnica narrativa dell’evangelista. «Le récit ne nous renseigne en rien sur les réactions intérieures de l’aveugle; aucune indication psychologique ne nous est fournie. Son itinéraire n’est connu que par les témoignages externes de son comportement» (Calloud – Genuyt, L’évangile de Jean, 63). 84   Affermazione anch’essa profondamente ironica: in realtà, non è possibile concludere che Gesù sia un peccatore neppure sulla base di quanto i giudei conoscono, che non è niente di più di quanto conosce il cieco guarito. C. Burchard, «Eij nach einem Ausdruck des Wissens oder Nichtwissens. Joh 9,25; Act 19,2; 1Cor 1,16; 7,16», in ZNW 52(1961), 73-82, propone di tradurre questo versetto: «Davon, dass er Sünder sein soll, weiss ich nichts»; e non: «Ob er Sünder ist, weiss ich nicht». L’espressione cioè non esprime il dubbio del cieco guarito intorno alla possibilità che Gesù sia un peccatore, quanto piuttosto il suo non sapere proprio nulla intorno a una simile questione. 85   Il cieco sa anche che è avvenuta un’infrazione del riposo sabbatico e lo ha già più volte confermato di fronte a chi lo interrogava, ma ora egli riafferma soltanto l’evidenza del segno avvenuto. Egli ha operato la sua opzione decidendosi per il polo positivo del dilemma enunciato al v. 16. «The man will not however give up the other side of the dilemma stated in v. 16. It is also beyond question that he has received sight at the hands of Jesus» (C.K. Barrett, The Gospel according to St John. An Introduction with Commentary and Notes on the Greek Text, SPCK, London 21978, 362). Nel commentare la risposta del cieco guarito in 9,25, così si esprime M.-J. Lagrange, Évangile selon Saint Jean (Études Bibliques), Gabalda, Paris 71947, 267: «Réponse plus courageuse qu’elle ne paraît, car elle est ironique: vous savez ce que vous savez; je sais ce que je sais. A vous de faire une conciliation, qui a déjà été jugée impossible». 86   De la Potterie, «Oi\da et ginwvskw», 712, dedica una certa attenzione a Gv 9,25 che presenta come uno di quei casi in cui oi\da + o{ti è accompagnato da un’insistenza, che fa risaltare l’evidenza della conoscenza. Così egli traduce il versetto: «Si c’est un pécheur, je ne sais; ce que je sais (e[n oi\da), c’est que j’étais aveugle et que j’y vois». E commenta: «La nuance est ici: “mais il est une chose que je sais fort bien”». 87   Cf. J. Mateos – J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella, Assisi 1982, 420 («L’uomo oppone il fatto alla teoria»); Marconi, «La vista del cieco», 637 («Alla logica deduttiva dei farisei l’uomo preferisce la constatazione dei fatti. Questo permette al narratore di puntare sul contrasto tra i saperi degli uni e dell’altro»); Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 300-301.

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In effetti, l’interrogatorio dei genitori (vv. 18-22) ha mostrato che i termini in cui si poneva il problema in 9,16 restano tali e quali: «Sappiamo che lui è nostro figlio e che è nato cieco» (v. 20b). È vero che Gesù ha lavorato di sabato (v. 16a), ma è ormai indubitabile che sia accaduto un miracolo (v. 16b). Il sapere dei giudei (v. 24), perciò, appare essere soltanto una pretesa infondata. A partire da qualcosa che realmente i giudei sanno (e che il cieco di un tempo sa con loro: cf. oi[damen in 9,31) l’uomo che era stato cieco finirà per dimostrare quanto infondato e pretenzioso sia questo asserito sapere di 9,24. Come abbiamo visto appena sopra il cieco guarito, sulla base di un rigoroso sillogismo, concluderà: «Se costui non fosse da Dio non avrebbe potuto fare nulla». Così in 9,33 viene affermato, e proprio sulla base di conoscenze comuni al cieco e ai giudei, l’esatto contrario di 9,24 («Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore»). Il cieco rovescia ciò che le autorità giudaiche volevano presentare come evidente: il principio di realtà e una griglia teologica usata con sapienza sono lo strumento con cui il guarito rompe la gabbia dell’ideologia religiosa. 2.2.5. Uscire

dai recinti

e mettersi in cammino

Quest’ultimo effetto della cura che ha risanato l’uomo cieco emerge in forza dell’accostamento che il narratore opera tra il racconto del c. 9 e il discorso sul pastore che si trova in Gv 10,1-21: chi è stato guarito non rimane dentro l’ovile. Ci sono chiari elementi di continuità redazionale tra Gv 9 e Gv 10,1-21. Oltre al fatto che Gesù parla senza alcuna interruzione da 9,41 a 10,5, una serie di indicazioni testuali invita a tenere insieme 9,1–10,21.88 Va anzitutto notato che non ci sono variazioni nelle coordinate cronologiche, geografico-spaziali e di composizione del gruppo dei personaggi: la continuità è totale e Gv 10,1-21 non ha autonomia narrativa rispetto al racconto precedente. Il nesso tra le due immagini della luce e della vita è stabilito fin dal prologo (1,4) ed è stato ribadito anche in 8,12. Esso potrebbe aiutare a spiegare l’insieme di Gv 9,1–10,21: se nel c. 9 domina la luce e il lessico a essa collegato, in 10,1-21 compare la vita (10,10; cf. 10,28). L’accostamento dei due passi finisce dunque per ribadire il collegamento tra luce e vita:89 Gesù luce del mondo è il buon pastore che offre la sua esistenza, affinché le pecore abbiano la vita divina.

88  Cf., su questo punto, le osservazioni ancora valide di Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo, 435-438. Cf. anche J.A. Du Rand, «A Syntactical and Narratological Reading of John 10 in Coherence with Chapter 9», in J. Beutler – R.T. Fortna (a cura di), The Shepherd Discourse of John 10 and its Context. Studies by Members of the Johannine Writings Seminar (SNTSMS 67), University Press, Cambridge 1991, 94-115; K.M. Lewis, Rereading the «Shepherd Discourse». Restoring the Integrity of John 9:39 - 10:21, Lang, New York 2008; Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 84-102.229-241. 89  Cf. Léon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, 620-621.

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25)

La conclusione narrativa di 10,19-21 poi è estremamente rilevante per cogliere l’intenzione redazionale.90 L’indicazione di 10,19 che ci fu «di nuovo» (scivsma pavlin ejgevneto ejn toi'~ ∆Ioudaivoi~) una divisione tra i giudei non può che far riferimento a 9,16, dove è stata raccontata una prima divisione (kai; scivsma h\n ejn aujtoi'~). In 10,21 ricompare il gruppo favorevole a Gesù, che aveva preso la parola in 9,16b e che poi era scomparso completamente dalla scena. La loro posizione ha preso corpo nell’argomentazione del cieco guarito in 9,30-33. In 10,21 si dice che, sulla base sia delle parole che del segno, Gesù non può essere un indemoniato: anche questo spiega la funzione di 10,1-21 dopo il c. 9. Al c. 9 abbiamo trovato il segno, in 10,1-18 le parole. Non c’è dubbio, pertanto, che, a livello della redazione finale, l’evangelista abbia voluto stabilire una connessione tra il racconto del cieco guarito e il successivo discorso del pastore. Possiamo cogliere agevolmente il nucleo fondamentale di questa intenzione redazionale: il rapporto che in Gv 9 esiste tra il cieco e Gesù, luce del mondo, è il medesimo che si ritrova poi tra la pecora e il buon pastore; specularmente, la posizione dei farisei ciechi, che credono di vedere, corrisponde a quella dei ladri e briganti (e dei mercenari).91 La prima parte del c. 10 (vv. 1-21) va, pertanto, intesa come una rilettura, secondo categorie nuove, della narrazione precedente.92 Il racconto del c. 9 è reinterpretato in 10,1-21 secondo l’immagine del pastore e del gregge: a) ciò che in 10,1-21 viene detto genericamente a riguardo delle pecore è accaduto in modo paradigmatico all’uomo nato cieco; b) è evidente (anche alla luce dello sfondo veterotestamentario rappresentato da Ez 34) che in Gv 10,1-18 viene pronunciata una condanna sui farisei quali cattivi pastori: il loro comportamento come tali è risultato chiaro dal trattamento riservato al cieco guarito in Gv 9. Sulla base di questa indiscutibile connessione redazionale risulta di primaria importanza per la nostra riflessione quanto dichiarato in 10,16, dove Gesù svela l’esistenza di altre pecore «che non sono di questo recinto». Il termine impiegato qui per «recinto» (aujlhv) proviene dalla similitudine dei vv. 1-5 (cf. v. 1): «Chi non entra nel recinto (aujlhv) delle pecore attraverso la porta». I commentatori riconoscono ormai comunemente che, nell’uso giovanneo, questo termine contiene un riferimento al recinto sacro del tempio.93 Nel contesto della similitudine troviamo, poi, impie-

  Cf. anche Theobald, Das Evangelium nach Johannes. Kapitel 1–12, 624.685-687.   Cf. tra gli altri M.J.J. Menken, Numerical Literary Techniques in John. The Fourth Evangelist’s Use of Numbers of Words and Syllables (Supplements to Novum Testamentum 55), Brill, Leiden 1985, 192. 92   In entrambi i testi c’è anche un intento polemico. 93  L’uso della LXX autorizza questa interpretazione. In 115 casi su 177, con aujlhv la LXX indica il recinto del tempio o della tenda: cf. M. Palinuro, «Tu chi sei?». Le autorivelazioni di Cristo nel Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma 2010, 252 nota 10. In Ap 11,2 il termine aujlhv indica l’atrio del tempio. Un termine più coerente con l’immagine pastorale, 90 91

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gato il verbo ejkbavllw (10,4) che ha ricoperto un certo ruolo a conclusione del secondo interrogatorio del cieco guarito (9,34.35): sulla base di questo contatto lessicale, il legame tra il discorso del pastore e il racconto della guarigione del cieco acquista ulteriore profondità. Il cieco «cacciato fuori» dalle autorità giudaiche (ejkbavllw in 9,34.35) in realtà è stato «spinto fuori» da Gesù (ejkbavllw in 10,4): è precisamente il movimento di uscita del cieco dal gruppo dei farisei-giudei, che viene simbolicamente ripreso dalla parabola di 10,1-5. Il pastore è entrato nel recinto di Israele e adesso coloro che riconoscono la sua voce escono dal recinto sacro del giudaismo (che, secondo 9,22, è costituito non più dal tempio, ma dalla sinagoga).94 L’uscita dal recinto di Israele non comporta, però, l’ingresso in un nuovo recinto: il v. 16 chiarisce magistralmente questo punto cruciale. Con grande coerenza rispetto a quanto detto nella similitudine iniziale, le «altre pecore» menzionate al v. 16 si caratterizzano: a) per l’ascolto della voce del pastore (cf. la presenza della medesima espressione ajkouvein th`~ fwnh`~ in 10,16 e in 10,3 [e anche in 10,27]); b) perché il pastore le conduce (cf. la presenza di ajgagei`n in 10,16 e di ejxagei`n in 10,3). Secondo 10,16, il diventare un solo gregge (kai; genhvsontai miva poivmnh) è in dipendenza, da un lato, dall’unico pastore (ei|~ poimhvn) e, dall’altro, dall’ascolto della sua voce (kai; th'~ fwnh'~ mou ajkouvsousin): «ascoltare la voce», nel lessico giovanneo, significa accogliere la rivelazione. In questo passaggio decisivo il QV parla di un solo gregge, che si costituisce fuori da qualsiasi recinto: il centro di unità è costituito dal pastore. Il v. 16 non parla di ovili, ma la Vulgata di Girolamo (che ha influenzato l’elaborazione teologica e la predicazione in tutto l’Occidente) ha tradotto questo testo reintroducendoveli: «et fiet unum ovile unus pastor». Dalla Vulgata questa idea di un’unità fondata sull’introduzione delle pecore in un solo ovile si è erroneamente diffusa nella predicazione e nella teologia: non è questo, però, il senso del testo giovanneo. Nella visione giovannea le pecore non stanno più dentro un recinto.95 La guarigione operata da Gesù

per indicare il recinto delle pecore, sarebbe stato probabilmente e[pauli~. Nello stesso senso si muove anche Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 89.232, che parla di una «terminologia cultuale». 94   Vari autori leggono così la paroimia: oltre al già citato Palinuro (cf. nota precedente), cf. L. Devillers, La fête de l’envoyé. La section johannique de la fête des tentes (Jean 7,1–10,21) et la christologie (EB 49), Gabalda, Paris 2002, 487-488. Nel suo ragionamento, Devillers parte da un dettaglio tutto sommato marginale: il fatto che il testo non dica esplicitamente che il pastore entra nel recinto. In ogni caso, egli concorda nel vedere nella paroimia un’allusione al fatto che Gesù ha lasciato il recinto sacro portando con sé le sue pecore. Così anche Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati, 91-92. 95   Sulle implicazioni che questo ha relativamente alla teologia giovannea di Israele e del rapporto Israele/Chiesa, cf. M. Marcheselli, «Il motivo del tempio in Gv 2–4. Un sondaggio su un punto sensibile della ipotetica teologia sostitutiva del Quarto Vangelo», in Id. (a cura di), Israele e Chiesa nel Vangelo di Giovanni. Compimento, reinterpretazione, sostituzione? Atti della Giornata di studio sugli scritti giovannei promossa dal gruppo di lavoro Ecclesia-Israel (Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna 29 ottobre 2015), EDB, Bologna 2016, 37-69.

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25)

su colui che era nato cieco comporta una diversa visione della vita: essa non può essere concepita altrimenti che come un cammino, in ascolto della voce di colui che è la verità e in comunione con coloro che pure si dispongono all’ascolto di quella voce, formando così la comunità messianica, fuori da tutti i recinti.

3. Conclusione I tratti della guarigione dell’uomo cieco dalla nascita risultano particolarmente significativi per cogliere la forza terapeutica del vangelo. Colui che Gesù incontra passando, mentre si allontana dal recinto sacro di Israele, è certamente un figlio di Abramo, ma è al tempo stesso un figlio di Adamo. Egli è un essere umano la cui esistenza appare segnata da una grave menomazione: l’impossibilità di vedere. Questa condizione, senza mai perdere la sua iniziale connotazione concreta e fisica, è carica di un valore simbolico: il non vedere è espressione del non sapere. Quest’uomo appare come menomato nella sua capacità di conoscere gli altri, l’ambiente, se stesso. La menomazione di cui egli soffre non è però conseguenza di una colpa: è semplicemente un dato di fatto, un limite intrinseco, strutturale. Ciò che stabilisce una diversità tra gli uomini non è che alcuni vedono mentre altri sono ciechi; la differenza sta piuttosto nel fatto che alcuni sono consapevoli del proprio limite, mentre altri lo negano. La cecità originaria non è la conseguenza di una colpa ed è semplicemente un punto di partenza: quando è riconosciuta, si apre alla possibilità di ricevere la luce. Un secondo livello di differenza tra gli uomini è così stabilito dal fatto che alcuni si aprono a ricevere una luce che li raggiunge dall’esterno, mentre altri si chiudono e rigettano l’offerta. Gesù esprime l’amore di Dio verso il mondo degli uomini quando, senza che gli sia stata rivolta alcuna richiesta, istituisce una terapia tesa a togliere l’uomo dalla sua cecità e a consegnargli una piena capacità relazionale e cognitiva. La terapia è avviata gratuitamente; essa prevede anzitutto che il destinatario prenda piena consapevolezza della propria menomazione ed entri in una relazione di fiducia con il terapeuta – specificamente con la parola che egli rivolge all’uomo ferito. In questa terapia si esprime l’incessante attività di vivificazione che, per il QV, è l’unico lavoro di Dio, da cui egli non desiste mai. Nel caso descritto in Gv 9 la terapia, per la capacità del medico e per le disposizioni del paziente, ottiene uno straordinario successo. Il cieco di un tempo mostra l’avvenuta guarigione nei termini di una libertà pienamente acquisita: libertà dalla paura che spinge a dire le cose a metà e a nascondersi, libertà rispetto a ogni forma di condizionamento sociale. Questa libertà deriva dal fare esperienza della verità, una verità che prende corpo in una persona e che si conosce nella relazione con lei: la conoscenza della verità in Gv 9 coincide con la comprensione dell’identità ultima dell’altro/Altro. Una comprensione non intellettualistica, che matura in mezzo ai conflitti e che ha la forma di una relazione vincolante.

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Maurizio Marcheselli

La guarigione del cieco ha i tratti del raggiungimento di una piena maturità umana: avendo ottenuto la vista, egli appare come un adulto che «ha l’età» per gestirsi autonomamente e per non dipendere passivamente dalla posizione delle autorità; egli diviene anzi il maestro dei farisei-giudei. Questa maturità umana si palesa nella capacità di argomentare in modo coerente, a partire dai dati di fatto e dall’applicazione sapiente di adeguate categorie teologiche. La guarigione implica poi uscire dalla logica degli steccati: non sono le barriere che creano l’unità: l’uomo guarito è tale perché, uscendo dal recinto, si mette in cammino ascoltando la voce del pastore.

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25)

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Parte terza Lo stile e il messaggio

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Segni di speranza nella storia: prospettive offerte dai recenti sinodi sulla famiglia

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In un contesto come l’attuale, pesantemente segnato, almeno qui in Europa, da una profonda crisi di valori, tra le virtù di cui maggiormente si avverte la carenza e insieme la necessità c’è, a mio avviso, la speranza, intesa non solo come virtù teologale, ma anche come puro dato e atteggiamento umano. È esperienza comune l’incontro con persone, anche credenti, che nei confronti del domani, tanto personale quanto collettivo, hanno uno sguardo e un atteggiamento improntati a sostanziale sfiducia e paura, e talora rasentano la disperazione. Ciò, però, è in radicale contrasto con la fede cristiana. Dio, infatti, non viene meno alle sue promesse e al suo amore, e attraverso le vicende storiche, sia intra-ecclesiali che civili, continua a offrire segni e motivi di speranza a coloro che in lui confidano. Tra tali vicende mi pare si possano annoverare anche i due recentissimi sinodi sulla famiglia che papa Francesco ha voluto indire nell’ottobre 2014 e 2015.1

1   Non è possibile, nel contesto di una relazione di convegno, rifare la cronaca del­l’even­ t­ o sinodale in tutti i suoi momenti e sviluppi. Mi limito solo a ricordarne l’origine, in quanto espressione degli intenti che l’hanno generato. La vicenda sinodale inizia ufficialmente l’8.10.2013, quando un comunicato della sala stampa della Santa Sede annuncia che papa Francesco ha indetto un’Assemblea sinodale straordinaria sul tema: «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione». Il comunicato evidenziava due importanti novità. La prima era la scelta del tema. Scelta nient’affatto scontata, visto che il Consiglio ordinario della Segreteria generale del sinodo, costituito dopo la conclusione del precedente sinodo sull’evangelizzazione (2012), e nei cui compiti rientrava anche la proposta del tema per il successivo XIV sinodo ordinario – previsto per l’anno 2015, data la ricorrenza, quell’anno, del 50° anniversario della chiusura del concilio Vaticano II – si era orientato su due argomenti: il tema cristologico e quello antropologico a partire da Gaudium et spes, n.

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Non intendo con ciò dire che quella sinodale è stata un’esperienza idilliaca, dove tutto è andato alla perfezione. Chi ha seguito, anche solo

22. Il 23.8.2013 papa Francesco comunicò invece la sua decisione che il prossimo sinodo fosse incentrato sulla famiglia. Ma c’era una seconda importante novità, inerente la modalità di svolgimento del sinodo. Data l’ampiezza e complessità del tema, ma pure data la sua urgenza, papa Francesco decise infatti di articolarlo in due momenti o tappe: 1) nel 2014, un’Assemblea generale straordinaria (la terza nella storia post-conciliare dei sinodi) avente per tema: «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione» con queste finalità: valutare e approfondire dati, testimonianze e suggerimenti delle Chiese particolari; 2) nel 2015, un’Assemblea generale ordinaria (la quattordicesima nella storia dei sinodi), su «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo» e avente come finalità di compiere una riflessione ulteriore sulle tematiche per individuare linee pastorali operative. L’indizione di un’Assemblea straordinaria non rappresentava di per sé una novità. Ce n’erano già state altre due nei decenni precedenti (la prima, dall’11 al 28 ottobre 1969, sul tema: «La cooperazione tra la Santa Sede e le conferenze episcopali»; la seconda, dal 24 novembre all’8 dicembre 1985, voluta da Giovanni Paolo II per celebrare «Il ventesimo anniversario della conclusione del concilio Vaticano II»). Ma era la prima volta che su un medesimo tema veniva indetta una doppia Assemblea generale: prima un sinodo straordinario e poi uno ordinario. E circa il sinodo straordinario il canone 346 § 2 dell’attuale Codice di diritto canonico stabilisce che il papa può convocarlo qualora ci siano da «trattare affari che richiedono una soluzione sollecita». Questo particolare indica in modo eloquente quanto il tema della famiglia stia a cuore a papa Francesco e come esso, ai suoi occhi, sia urgente. L’anno di tempo che intercorre tra un sinodo e l’altro e cronologicamente li separa, inoltre, non è visto da papa Francesco come un momento di «vacanza» o di «tregua», ma piuttosto come un’occasione data a tutta la Chiesa, e non solo a coloro che hanno partecipato all’Assemblea sinodale, affinché possa discutere sul tema, confrontarsi e fare le sue osservazioni e proposte, da inoltrare ai vertici. In verità un sinodo sul tema della famiglia c’era già stato. Era la quinta Assemblea generale ordinaria svoltasi dal 26 settembre al 25 ottobre 1980, avente per tema appunto «La famiglia cristiana». Relatore scelto da papa Giovanni Paolo II per quell’Assemblea fu l’allora cardinale Joseph Ratzinger e, sulla scia delle discussioni e delle proposte emerse in assemblea, il papa pubblicò l’anno successivo (1981) l’esortazione apostolica Familiaris consortio. Ma da quel sinodo erano ormai trascorsi ben 35 anni, e nel frattempo la situazione delle famiglie era profondamente mutata in varie parti del mondo, e sotto molteplici aspetti (sociale, culturale, legislativo, etico, di promozione della donna e del bambino, ecc.), cambiamenti che, in vaste zone del mondo, a causa anche di un accentuato processo di scristianizzazione e di allontanamento dai valori tradizionali, avevano determinato una situazione che si poteva definire di «grave crisi». L’aveva riconosciuto lo stesso papa Francesco quando, in un passaggio dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013, aveva scritto: «La famiglia attraversa una crisi culturale profonda, come tutte le comunità e i legami sociali. Nel caso della famiglia, la fragilità dei legami diventa particolarmente grave perché si tratta della cellula fondamentale della società, del luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli» (n. 66). Il papa, tuttavia, parlando di crisi, non lo fa in chiave pessimistica o disfattista; al contrario, è convinto che dalla crisi si può e si deve venir fuori con maggiore slancio. La crisi può cioè essere un fattore di crescita, se sappiamo affrontarla e capirla bene e intravedere quelle strade che portano fuori da essa. Da qui la scelta del papa, che non si limitava però a riprendere la tematica del sinodo dell’80, ma la orientava e ricalibrava su «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione». Con una scelta, così, che aveva fin dall’inizio una chiara duplice valenza: da un lato si poneva in continuità col sinodo precedente (2012), incentrato sull’«Evangelizzazione nel mondo contemporaneo», ribadendone e accentuandone in tal modo l’importanza e l’urgenza per l’oggi; dall’altro, declinava ed esaminava secondo tale prospettiva la complessa realtà della famiglia, conferendole così un’ottica decisamente più pastorale e missionaria.

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attraverso i mass-media, l’evento è consapevole che ci sono state tensioni interne, come pure questioni sulle quali non si è riusciti a definire una posizione chiara e condivisa e che sono rimaste aperte.2 Ciò detto, occorre in pari tempo riconoscere che, per vari aspetti, il doppio sinodo si è rivelato anche un momento di grazia, con aperture e stimoli significativi che sarebbe peccato ignorare o lasciar cadere nell’oblio, e che non concernono solo lo specifico ambito coniugale/familiare ma vanno oltre, e investono la vita e lo stile della comunità cristiana tutta. Ecco, in attesa di un documento pontificio (un’esortazione apostolica?) che dia continuità e tragga conseguenze dalle indicazioni del sinodo, con la presente relazione vorrei cercare di cogliere alcuni elementi di rilievo, che denotano e aprono la via a significativi sviluppi e cambi di atteggiamento, senza tuttavia soffermarmi esclusivamente sulla pastorale familiare, ma ricercando invece aspetti dell’esperienza sinodale che valgano a più largo raggio, ossia nei confronti della pastorale in genere, della vita ecclesiale e della testimonianza della Chiesa nel mondo. Novità che, ovviamente, nascono dal sinodo, ma che sono riconducibili innanzitutto al magistero, alla sensibilità e alle modalità d’azione di papa Francesco; tuttavia, in quanto lui ha presenziato, presieduto e stimolato con le sue indicazioni le diverse fasi del lavoro sinodale, hanno certamente investito e influenzato il sinodo stesso, e vi hanno trovato anche un interessante luogo e palestra di esercizio. Scelgo qui di soffermarmi in particolare su due questioni che, a mio avviso, hanno costituito apporti significativi e in certa misura originali delle due assemblee episcopali: la sinodalità e il discernimento. Prima di entrare in argomento, vorrei però fare una breve ma importante premessa. Perché va in primo luogo riconosciuta e apprezzata la volontà e il coraggio del pontefice che, su un tema, come quello del matrimonio e della famiglia, di interesse universale ma al giorno d’oggi estremamente delicato, complesso e controverso, ha scelto di non ignorare la questione. Fattori come l’estrema varietà e complessità delle situazioni socio-culturali e legislative, differenti da Paese a Paese e ancor più da continente a continente, il crescente e diffuso allontanamento dai valori tradizionali, specie nel mondo occidentale, le differenti visioni antropologiche sottese alle varie culture e l’influsso e il dibattito che esse generano nelle Chiese locali esponevano al rischio, che si è in parte effettivamente realizzato, di generare o alimentare tensioni e divisioni interne allo stesso corpo ecclesiale. Ciò poteva consigliare di non toccare la questione, rimandandola a tempi migliori. Papa Francesco, invece, ha voluto lasciarsi interpellare/provocare dagli interrogativi del mondo di oggi e ha invitato la Chiesa universale a misurarsi con le difficoltà, i costumi e la mentalità della nostra epoca. Senza farsi vincere dalle paure. Ma senza nemmeno arroccarsi e chiudersi in atteggiamenti puramente apologetici di fronte alle sfide della post-modernità.

2   Una per tutte: l’annosa questione della comunione ai divorziati risposati o riaccompagnati.

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1. La

sinodalità / collegialità

1.1. Significato e origine Il tema matrimonio/famiglia è stato affrontato e trattato in un clima e con uno stile improntati al principio e al metodo della sinodalità/collegialità. I due termini «sinodalità» e «collegialità» sono spesso considerati e adoperati come sinonimi, anche se c’è chi vi coglie delle differenze. Il primo, «sinodalità», è preferito in Oriente. Deriva da due parole greche: syn che significa «con» e odos che significa «camminare». Quindi in senso letterale sinodo significa «camminare insieme». Un camminare insieme che si riferisce a tutta la Chiesa e ne attesta la profonda natura comunionale, giacché la Chiesa è composta da una molteplicità di esseri umani riuniti dall’unico e indiviso Spirito di Dio. Il termine «collegialità», invece, è più comune in Occidente e ha origine dal diritto romano classico, dove «collegio» indicava una società di eguali. E appunto questo suo originario significato «egualitario» ha fatto sì che, quando durante il concilio Vaticano II si discusse di «collegialità», una minoranza di padri conciliari guardò la cosa con sospetto perché la riteneva una lesione o una minaccia per il primato petrino. In concreto, e come suo primo aspetto, la sinodalità/collegialità significa una modalità di gestione della vita e dell’autorità nella Chiesa dove la suprema autorità all’interno della Chiesa (papato) si pone e si propone, più che come potere decisionale monarchico, come figura di coordinamento e di garanzia rispetto ai contenuti fondamentali della fede cristiana, e grazie alla quale, da un lato, le varie voci e opinioni ecclesiali possono liberamente e schiettamente esprimersi e confrontarsi, dall’altro si compie un forte atto di fede e di speranza nell’azione illuminatrice e comunionale dello Spirito Santo, così che esito e frutto finale del confronto possa essere non uno stravolgimento/rinnegamento della dottrina, ma una sintesi più ampia, che possa raccogliere consensi unanimi o molto larghi, e che al medesimo tempo sia rispondente alle sfide del tempo presente e aperta verso futuri sviluppi. La sinodalità è stata riscoperta e ha ricevuto un autorevolissimo avallo dal concilio Vaticano II, che ne tratta esplicitamente in due testi, la costituzione Lumen gentium e il decreto Christus Dominus,3 e ha ricevuto la

 Ecco i brani: «Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per istituzione del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono congiunti fra di loro» (Lumen gentium, n. 22: EV 1/336); «Una più efficace collaborazione al supremo pastore della Chiesa la possono prestare, nei modi dallo stesso romano pontefice stabiliti o da stabilirsi, i vescovi scelti da diverse regioni del mondo riuniti nel consiglio propriamente chiamato Sinodo dei vescovi; rappresentando tutto l’episcopato cattolico, questo sinodo dimostra che tutti i vescovi sono partecipi, in gerarchica comunione, della sollecitudine della Chiesa universale» (Christus Dominus, n. 5: EV 1/581). 3

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sua istituzionalizzazione con il motu proprio di Paolo VI Apostolica sollicitudo del 15.9.1965 che istituisce il Sinodo dei vescovi. Papa Francesco si muove nel solco di queste indicazioni, quindi nello spirito conciliare. Nella sua mente e nelle sue intenzioni questa dinamica e metodologia sinodale e «aperta» dovrà sempre più caratterizzare e plasmare la vita della Chiesa. «Lo aveva già annunciato chiaramente nell’intervista che ha concesso a La Civiltà cattolica – pubblicata il 19 settembre 2013 – con queste parole: “Si deve camminare insieme: la gente, i vescovi e il papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli”».4 Lo aveva ribadito più volte nell’enciclica Evangelii gaudium del novembre 2013, dove aveva posto tale sinodalità in collegamento con altri due importanti fattori: la decentralizzazione nelle scelte e nelle decisioni e la conversione pastorale della Chiesa intera. Infatti, al n. 16, aveva scritto: «Non è opportuno che il papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere a una salutare “decentralizzazione”». E al n. 32 aveva aggiunto: Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello a una conversione pastorale. Il concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente» [Lumen gentium, n. 23]. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria.5

In una lettera al card. Baldisseri del 1° aprile 2014 papa Bergoglio torna sul tema e scrive: Trascorsi quasi cinquant’anni dall’istituzione del Sinodo dei vescovi, avendo anch’io perscrutato i segni dei tempi e nella consapevolezza che per l’esercizio del mio ministero petrino serve, quanto mai, ravvivare ancor di più lo stretto legame con tutti i pastori della Chiesa, desidero valorizzare questa preziosa eredità conciliare. A tal proposito, non v’è dubbio che il vescovo di Roma abbia bisogno della presenza dei suoi confratelli vescovi, del loro consiglio e della loro prudenza ed esperienza.6

4  A. Spadaro, «Una Chiesa in cammino sinodale. Le sfide pastorali sulla famiglia», in La Civiltà cattolica 165(2014)4, 214. Il testo a cui Spadaro si riferisce è: Id., «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà cattolica 164(2013)3, 466. La medesima frase è citata anche dal card. Baldisseri nella sua Relazione di apertura del sinodo il 6.10.2014 (cf. F. Garelli, Famiglie, I testi principali in versione integrale dei Sinodi dei vescovi 2014 e 2015, EDB, Bologna 2015, 32). 5   Cf. anche i nn. 244.246. 6   Il canonista Ladislas Örsy, per spiegare le origini prossime della sinodalità come istanza dentro la Chiesa, ricorda «un episodio fondamentale accaduto durante la terza sessione del concilio Vaticano II. I padri conciliari avevano ormai concluso il loro lavoro sulla Lumen

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In prospettiva storica, possiamo rilevare che la gestione monarchica dell’autorità e una forte dinamica di centralizzazione è stata la via percorsa dalla Chiesa cattolica lungo tutto il secondo millennio della sua storia. Ma non è stato così per il primo millennio. In questo senso, il concilio Vaticano II, recuperando la dimensione sinodale, non ha assolutamente inventato nulla, ha piuttosto riscoperto una prassi antica. Inoltre, mentre sotto gli ultimi pontificati, pur riconoscendo valore alla sinodalità, l’approccio di governo era ancora prevalentemente di tipo monarchico, papa Francesco a più riprese, in differenti occasioni, ha manifestato la sua opzione preferenziale per le procedure collegiali. Proprio durante l’ultima Assemblea ordinaria, infatti, nel settembre 2015, l’istituzione sinodale ha compiuto cinquant’anni.7 In questo lasso di tempo la prassi sinodale ha certamente conosciuto delle modificazioni. Tuttavia nell’intervista del 2013 a La Civiltà cattolica papa Francesco aveva detto: «Forse è il tempo di mutare la metodologia del sinodo, perché quella attuale mi sembra statica».8 Segno che la metodologia adottata nei sinodi precedenti non era pienamente rispondente alle sue attese. Nella già citata lettera a Baldisseri del 2014 riprende il tema e, pur riconoscendo «l’enorme bene» che i sinodi passati hanno fatto alla Chiesa, cita Giovanni Paolo II che il 29 ottobre 1983, nell’omelia a conclusione della VI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, aveva affermato: «Forse questo strumento [il sinodo] potrà essere ancora migliorato. For-

gentium, la costituzione dogmatica sulla Chiesa, e prima di passare all’approvazione finale e solenne sottoposero il testo all’esame del papa per avere il suo assenso. Paolo VI si mostrò perplesso. Ciò che lo preoccupava era il rapporto tra primato e collegialità. In linea con la tradizione, i vescovi avevano riaffermato la dottrina secondo cui il papa ha una potestà piena, suprema e universale sulla Chiesa ma, nello stesso paragrafo, dichiaravano che il collegio episcopale, «insieme col suo capo il romano pontefice», è «pure soggetto di piena, suprema e universale potestà sulla Chiesa», utilizzando i medesimi termini (cf. n. 22: EV 1/337). Paolo VI, da uomo prudente qual era, intuì il pericolo. Le due espressioni, se non specificate, potevano diventare fonte di fraintendimenti e di conflitti (il ricordo del conciliarismo a Roma era ancora vivo). Alla fine, egli trovò una soluzione. Sotto le sue direttive e autorità, un gruppo di eminenti teologi redasse una Nota esplicativa previa che fu inviata al concilio. In breve, nella Nota si specificava che il papa è il vicario di Cristo e pertanto detiene la potestà di governare la Chiesa in forma monarchica. Tuttavia, egli è anche il capo del collegio episcopale e come tale può scegliere una forma di governo collegiale. Tale scelta rientra nel suo potere discrezionale. Si confermava così il potere assoluto, ma la porta alla collegialità era aperta. Il documento fu inviato al concilio quale guida interpretativa inderogabile e definitiva della costituzione dogmatica sulla Chiesa. I padri conciliari, per rispetto del papa, recepirono la Nota senza alcuna particolare discussione o votazione. A rigore, essa non divenne mai un «atto del concilio» né fu mai considerata parte integrante del testo della costituzione; ma vi fu acclusa come un’appendice al momento della solenne ratifica finale. Solo un piccolo gruppo di padri votò contro il testo nella sua integralità» (L. Örsy, «Lo stile di vita della Chiesa. Radicata nella sinodalità, operante in modo collegiale», in Il Regno-att 59[2014]16, 537). 7  Ricordo qui i numerosi appuntamenti sinodali che hanno contrassegnato i cin­ quant’anni: 13 assemblee generali ordinarie, 3 straordinarie, 10 assemblee speciali. In totale, 26 assemblee. In media, un’assemblea ogni due anni. 8   Spadaro, «Intervista a papa Francesco», 466.

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se la collegiale responsabilità pastorale [dei vescovi] può esprimersi nel sinodo ancor più pienamente». Papa Francesco precisa inoltre che «scopo precipuo del Sinodo dei vescovi» è una «comunione» non solo «affettiva» ma realmente «effettiva».9 E individua a fondamento di tale più piena sinodalità il fatto che mistero e orizzonte della Chiesa di Dio sono la missione e la comunione. Ne consegue, egli scrive, che «si possono e si devono cercare forme sempre più profonde e autentiche dell’esercizio della collegialità sinodale, per meglio realizzare la comunione ecclesiale e per promuovere la sua [della Chiesa] inesauribile missione». E aggiunge: «Il successore di Pietro deve sì proclamare a tutti che è “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, ma in pari tempo deve prestare attenzione a ciò che lo Spirito Santo suscita sulle labbra di quanti […] partecipano a pieno titolo al collegio apostolico». Ma la sinodalità/collegialità non è, da papa Francesco, intesa unicamente come modalità di esercizio dell’autorità magisteriale-pastorale e come corresponsabilità dell’intero episcopato cattolico in vista del bene universale della Chiesa. Si allarga a investire anche i rapporti, all’interno della Chiesa, tra la gerarchia e l’insieme del popolo di Dio. Diventa cioè categoria comprensiva della Chiesa tutta. E postula un coinvolgimento assai maggiore del laicato nella vita e nelle scelte della comunità tutta. Tale convinzione, sempre fondata sulla natura comunionale della Chiesa, ha trovato forte espressione e conferma nella doppia amplissima consultazione che il pontefice ha voluto precedesse le due assemblee sinodali e costituisse pars magna nella costruzione e redazione dell’Instrumentum laboris tanto della prima come della seconda assemblea. Per la prima volta nella storia della Chiesa cattolica, un sinodo è stato preparato tramite una consultazione non solo di vescovi, teologi e «addetti ai lavori», ma rivolta al popolo di Dio nella sua totalità. Questa novità, che comportava un coinvolgimento il più ampio possibile delle varie realtà ecclesiali lo-

9  Circa questa valutazione della prassi sinodale, nei sinodi precedenti, come espressione di una comunione più affettiva che effettiva, possiamo dire che è questione sollevata e discussa anche in sede teologica. Mi limito qui, a titolo esemplificativo, a citare un autore, Maurizio Gronchi, professore ordinario di Teologia dogmatica alla Pontificia Università Urbaniana in Roma, consultore della Congregazione per la dottrina della fede e, in qualità di esperto, membro dei due sinodi sulla famiglia, il quale in un suo libretto a commento della doppia vicenda sinodale così scrive: «Dinanzi a questo lungo e articolato percorso [= i cinquant’anni della istituzione sinodale con le ventisei assemblee che si sono succedute] le valutazioni appaiono alquanto discordanti, soprattutto se si tiene conto che alla lettera della recezione conciliare, attestata dai documenti seguiti ai sinodi, in realtà non sembra aver corrisposto la percezione dell’effettiva collegialità di cui volevano essere espressione. Il sospetto di un centralismo sempre più accentuato sembra aver oscurato, in certo senso, la pretesa di sinodalità rappresentata dal convenire, seppur così frequente, dei vescovi in assemblea». Più avanti aggiunge: «Le maggiori perplessità sulla effettiva corrispondenza del sinodo al suo scopo si concentrano intorno a due principali questioni. In primo luogo, la dottrina conciliare della collegialità riesce ad esprimersi, anche giuridicamente, attraverso lo strumento del sinodo? In secondo luogo, le conclusioni condivise dall’Assemblea sinodale riescono veramente ad incidere sulla prassi ecclesiale?» (M. Gronchi, Chiesa sinodo famiglia, LEV, Città del Vaticano 2016, 27.29-30).

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cali, ha trovato, nell’insieme, un’accoglienza entusiastica e una risposta piuttosto vasta,10 anche se ovviamente vi sono state differenze marcate da zona a zona, e ha suscitato ampio interesse e forti aspettative anche al di fuori della comunità cattolica, nell’intera opinione pubblica nazionale e internazionale. È evidente che la scelta del metodo sinodale sottende una particolare visione ecclesiologica e ne è indice e strumento. Non si tratta, come qualcuno ha detto, di una «democratizzazione» della vita ecclesiale. La Chiesa non ragiona in termini di democrazia, ma di comunione. L’ecclesiologia sottesa alla sinodalità legge la Chiesa soprattutto come realtà comunionale di un popolo, il popolo di Dio, radunato nell’unità/comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e mosso e guidato nella sua vicenda storica dallo Spirito Santo. Ma proprio il richiamo all’azione dello Spirito Santo non nega la diversità dei carismi né svuota il ruolo e il compito specifici della gerarchia e del magistero, ossia la sua particolare funzione e responsabilità di esercitare, nel nome di Gesù Cristo, «per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito» (DV 5), un servizio autoritativo affinché, per un dono speciale dello Spirito, la Chiesa rimanga nei secoli costantemente rivolta e fedele a Cristo e sia sempre capace di orientare a lui l’intera umanità. Il magistero è la condizione carismatica, ma insieme stabile e istituzionale perché necessaria, della fedeltà della Chiesa a Cristo. Anzi si potrebbe dire che «il Magistero apostolico non è altro che la fedeltà del Cristo alla Chiesa che diventa per lo Spirito, per via di un’istituzione coestensiva a tutti i tempi, la fedeltà indefettibile della Chiesa al suo Cristo e per ciò stesso all’uomo».11 Magistero e gerarchia non sono però fuori o al di sopra della Chiesa, ma dentro il popolo di Dio. E non hanno l’esclusiva dello Spirito Santo. Per poter meglio esercitare il suo ruolo, con maggior efficacia e frutto, il magistero deve allora porsi in ascolto del popolo di Dio, nelle sue molteplici e variegate realtà e articolazioni. Così, la communio episcoporum deve collocarsi nel più ampio contesto della communio ecclesiarum e «la dottrina della collegialità non può esaurirsi in una questione interna alla sola gerarchia, perché il suo esercizio non può prescindere dal riferimen-

10   Nella sua Relazione introduttiva all’Assemblea sinodale straordinaria, tenuta il 6 ottobre 2014 (giorno di inizio dei lavori sinodali), il card. Lorenzo Baldisseri, Segretario generale del sinodo, ha fornito i seguenti dati: il Documento preparatorio, con l’accluso Questionario, «ha suscitato grande interesse tra i pastori e i fedeli. Lo dimostra l’alta percentuale delle risposte pervenute, che è dell’83,11% del totale degli aventi diritto (88,59% delle conferenze episcopali; 65,38% dei dicasteri della Curia romana; 76,92% dei sinodi delle Chiese orientali). A queste risposte si aggiungono le numerosissime riflessioni, suggerimenti, istanze, che singoli, gruppi, movimenti e associazioni, sia dentro che fuori la Chiesa, hanno inviato direttamente alla Segreteria generale del sinodo, a Roma. Tutti i contributi sono stati oggetto di attenta considerazione e studio da parte di persone esperte che hanno letto, studiato e riassunto le risposte al Questionario. 11  G. Martelet, «Praxis humaine et magistère apostolique», in Nouvelle Revue Théologique 97(1975), 527.

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to al sensus fidei, quale espressione adeguata della capacità profetica del popolo di Dio».12 Ma la novità rappresentata da questo doppio sinodo sulla famiglia si apre anche al domani. Nell’importante discorso tenuto il 17.10.2015 in occasione della commemorazione del 50° anniversario, papa Francesco ha auspicato un’estensione e un radicamento sempre maggiore della prassi sinodale e ha parlato di una «Chiesa tutta sinodale», che si esprime a tre livelli: ­– nelle Chiese particolari; – nelle regioni ecclesiastiche e nelle conferenze episcopali; – nella Chiesa universale. Si tratta di un disegno ecclesiologico in gran parte ancora da costruire, ma che apre il cuore alla speranza di una comunità cristiana più viva, partecipata e comunionale.

1.2. Postulati

della sinodalità / collegialità : la parresia , l ’ ascolto umile , la fede nell ’ azione dello S pirito S anto

La sinodalità/collegialità, per poter «funzionare» adeguatamente e dare i frutti che da essa ci si attendono e si sperano, necessita però di condizioni previe alla sua applicazione, condizioni che investono sia l’ambito del metodo sia il piano dei contenuti spirituali o meglio degli atteggiamenti interiori personali. Papa Francesco li ha indicati con molta chiarezza e semplicità nel saluto ai padri sinodali all’inizio del primo sinodo, il 6.10.2014, quando li ha esortati a «parlare con parresia e ascoltare con umiltà». Parresia è un vocabolo greco, presente anche nella Bibbia, in particolare nel NT. Qui racchiude una pluralità di significati, che dipendono anzitutto dall’oggetto verso cui è indirizzata. Il Nuovo Testamento conosce infatti due tipi di parresia: verso Dio e verso gli uomini. Della prima si occupa soprattutto il corpus johanneum, della seconda il libro degli Atti. In san Paolo troviamo ambedue le accezioni. Indirizzata verso Dio la parresia è soprattutto la possibilità di accostarsi a Dio, di entrare in relazione con lui, senza essere sopraffatti dalla paura o dalla vergogna per le proprie colpe, ma anzi avvicinandosi a lui con fiducia.13 In 1Gv 3 si aggiunge che questa parresia verso Dio è possibile solo se «osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli

 D. Vitali, Verso la sinodalità, Qiqajon, Magnano 2014, 75.  In Ef 3,12 Paolo accosta il termine parresia al vocabolo prosagogeˉ, che significa «avvicinarsi [a Dio]» e dice che in Cristo Gesù noi «abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia mediante la fede in lui». È quindi la libertà di poter stare al cospetto di Dio senza dover abbassare lo sguardo, di poter sopportare la vicinanza di Dio. 12 13

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è gradito» (v. 22). E al v. 23 si dice: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri». Dunque la parresia nel rapporto con Dio è data dalla fede in Gesù Cristo e dall’amore del prossimo. Questi sono per Giovanni i presupposti della parresia.14 Accanto alla parresia verso Dio, ce n’è però anche una verso gli uomini. E sotto questo profilo la parresia nel NT riguarda soprattutto l’annuncio del vangelo, la proclamazione della buona novella: è cioè il coraggio e la franchezza nel predicare e professare apertamente e pubblicamente la fede anche di fronte a minacce e persecuzioni.15 Questa parresia apostolica non è frutto di coraggio o di sapienza puramente umane, ma è donata agli apostoli dallo stesso Signore tramite l’invio dello Spirito. Infatti in At 14,3 si dice che gli apostoli «parlavano con franchezza in virtù del Signore» e in At 4,31 che «tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza». Nel linguaggio di papa Francesco la parresia assume anche una valenza propriamente intra-ecclesiale: diventa cioè il coraggio, la libertà, la franchezza di dire apertamente e senza timore ciò che si pensa anche all’interno della Chiesa. Tuttavia tale «parresia intra-ecclesiale» è inseparabilmente connessa e unita, nel magistero di Bergoglio, ad altre due cose: la disponibilità ad ascoltare gli altri con uguale attenzione e apertura d’animo e la fiducia che nella Chiesa, per l’azione dello Spirito Santo, questa dinamica a doppio senso di franchezza nel parlare e di prontezza nell’ascoltare non finisce per esacerbare le tensioni e i conflitti, ma invece fa crescere la comunione e induce un progresso nella comprensione della verità. Mirabili, da questo punto di vista, i due discorsi pontifici tenuti in apertura e chiusura del sinodo straordinario. Il primo è il Saluto ai padri sinodali durante la 1a Congregazione generale, il lunedì 6 ottobre 2014, dove papa Francesco, proprio insistendo sul tema della sinodalità, ne precisa una «condizione generale di base»: Parlare chiaro […], perché bisogna dire tutto quello che nel Signore si sente di dover dire: senza rispetto umano, senza pavidità. E, al tempo stesso, si deve ascoltare con umiltà e accogliere con cuore aperto quello che dicono i fratelli. Con questi due atteggiamenti si esercita la sinodalità […]: parlare con parresia e ascoltare con umiltà. E fatelo con tanta tranquillità e pace, perché il sinodo si svolge sempre cum Petro et sub Petro, e la presenza del papa è garanzia per tutti e custodia della fede.

14   Aggiunge ancora Giovanni: «Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (1Gv 3,24). L’osservanza dei comandamenti non è una capacità naturale dell’uomo ma è un dono di Dio nello Spirito. Conseguentemente c’è parresia verso Dio là dove Dio dimora nell’uomo per lo Spirito. Anche la parresia è quindi primariamente un dono di Dio effuso per mezzo dello Spirito (cf. anche 2Cor 3,18 e Fil 1,19-20). 15   Su questo insistono molto gli Atti degli apostoli (cf. At 4,29.31; 9,27-28; 18,25-26) ma il senso si ritrova analogo anche in san Paolo (cf. Ef 6,19-20; 1Ts 2,2).

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Il secondo intervento è il Discorso per la conclusione dell’Assemblea sinodale del 18 ottobre 2014, nel quale, dopo essersi compiaciuto per avere ascoltato interventi «pieni di fede, di zelo pastorale e dottrinale, di saggezza, di franchezza, di coraggio e di parresia» (come aveva chiesto nel discorso d’apertura), rassicura i padri sinodali, invitandoli, anche di fronte a momenti di tensione e a discussioni animate, a «vivere tutto questo con tranquillità, con pace interiore», perché «la Chiesa è sempre guidata dallo Spirito Santo, vero promotore e garante della sua unità e armonia» e perché «il sinodo si svolge cum Petro et sub Petro, e la presenza del papa è garanzia per tutti». Questi due brevi interventi pontifici, gli unici che papa Francesco ha fatto lungo tutta la durata del sinodo straordinario, pur presenziando egli personalmente a tutte le congregazioni sinodali (salvo quelle del mercoledì, perché impegnato nell’udienza generale), attestano, a mio avviso, due cose significative: 1) che il papa ha voluto lui per primo sottostare e rispettare la metodologia sinodale proposta, senza compiere interventi finalizzati a chiudere il dibattito o a «orientarlo» e condizionarlo, in una direzione o nell’altra; 2) questo «silenzio» papale non è però da interpretare come indifferenza del pontefice nei confronti dell’assemblea o della tematica. Né, come paventato da alcune parti, come segno di una barca ecclesiale che va alla deriva «senza timoniere». Perché, come dicevo, i due interventi, in apertura e in chiusura del sinodo straordinario, pur brevi, non sono affatto apparsi come «formali» o «di circostanza»; hanno invece offerto indicazioni e spunti di riflessione davvero importanti, per non dire decisivi. E specie l’ultimo invita a un salto di fede, cioè a non leggere e interpretare il sinodo e il dibattito in esso avvenuto con categorie semplicemente socio-culturali e politiche (come spesso invece ha fatto la stampa, nazionale e internazionale), ossia secondo la corrente e comune distinzione/contrapposizione conservatori/progressisti, destra/sinistra. Queste categorie valgono per l’agone politico, ma non per l’ambito ecclesiale, non perché nella Chiesa vi sia o debba esservi un pensiero unico, ma perché ciò che accomuna tutti i credenti è la fede in Cristo e la ricerca della verità. E la verità non ha colorazione politica, non è né di destra né di sinistra, è verità e viene dallo Spirito Santo. Il quale, a sua volta, conduce e illumina il cammino ecclesiale, sotto la guida dei suoi legittimi pastori e in primo luogo del successore di Pietro, il papa. Per questo la verità non scaturisce dal prevalere di una parte sull’altra, ma piuttosto dalla costante e sincera ricerca, da parte di tutti, dell’unica verità. E il confronto aperto e leale delle varie posizioni, unito alla volontà condivisa di camminare e crescere insieme, come comunità, come Chiesa che è anzitutto «una», apre la Chiesa all’ascolto dello Spirito e alla possibilità di pervenire, come avvenuto al concilio Vaticano II, a scelte e decisioni in ultimo ampiamente condivise.16

16   Scrive Javier Elizari: «Tutti gli osservatori sono rimasti impressionati dalla grandissima libertà di parola, inedita in un contesto simile. La divergenza di opinioni tra vescovi

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I medesimi concetti papa Francesco mi pare li abbia ripresi e ribaditi anche nell’intervento di apertura del sinodo ordinario del 2015, il 5 ottobre.17 Qui, i tre aspetti della parresia, dell’ascolto umile e dell’atteggiamento di fede sono espressi in termini differenti (= coraggio apostolico, umiltà evangelica e orazione fiduciosa), ma sostanzialmente molto simili nel contenuto. Mi sia consentito dire, tentando un’applicazione del discorso di papa Francesco sulla sinodalità e sui suoi «postulati», che non lo tradisce ma lo attualizza, che forse il tutto, rapportato alla vita di ogni giorno del singolo fedele e delle particolari comunità cristiane, potrebbe essere tradotto,

su questioni “spinose” è stata un normale frutto della libertà di espressione dei vescovi. In passato le differenze, eccetto casi molto limitati, rimanevano abbastanza nascoste. Adesso si sono manifestate pubblicamente fuori del sinodo e al suo interno. Non eravamo abituati a questo spettacolo inedito di un dibattito pubblico all’interno della gerarchia. […] il papa ha visto questo fatto come una “normalità” ecclesiale. “Personalmente mi sarei molto preoccupato e rattristato se non ci fossero state […] queste animate discussioni; questo movimento degli spiriti, come lo chiamava sant’Ignazio (Esercizi spirituali, 6), se tutti fossero stati d’accordo o taciturni in una falsa e quietista pace” (Discorso all’ultima Congregazione generale, 18.10.2014). Senza dubbio non pochi media, che spesso non hanno gli strumenti per comprendere eventi ecclesiali, lo hanno interpretato sullo stile delle cronache sportive o politiche» (F.J. Elizari, «La familia. Sinodos con aire nuevo», in Moralia 38[2015], 198). 17   Riporto qui il testo integrale: «Vorrei ricordare che il sinodo non è un convegno o un “parlatorio”, non è un Parlamento o un Senato, dove ci si mette d’accordo. Il sinodo, invece, è un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio; è la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita. Il sinodo si muove necessariamente nel seno della Chiesa e dentro il santo popolo di Dio di cui noi facciamo parte in qualità di pastori, ossia servitori. Il sinodo inoltre è uno spazio protetto ove la Chiesa sperimenta l’azione dello Spirito Santo. Nel sinodo lo Spirito parla attraverso la lingua di tutte le persone che si lasciano guidare dal Dio che sorprende sempre, dal Dio che rivela ai piccoli ciò che nasconde ai sapienti e agli intelligenti, dal Dio che ha creato la Legge e il sabato per l’uomo e non viceversa, dal Dio che lascia le novantanove pecorelle per cercare l’unica pecorella smarrita, dal Dio che è sempre più grande delle nostre logiche e dei nostri calcoli. Ricordiamo però che il sinodo potrà essere uno spazio dell’azione dello Spirito Santo solo se noi partecipanti ci rivestiamo di coraggio apostolico, umiltà evangelica e orazione fiduciosa. Il coraggio apostolico che non si lascia impaurire né di fronte alle seduzioni del mondo, che tendono a spegnere nel cuore degli uomini la luce della verità sostituendola con piccole e temporanee luci, e nemmeno di fronte all’impietrimento di alcuni cuori che – nonostante le buone intenzioni – allontanano le persone da Dio. “Il coraggio apostolico di portare vita e non fare della nostra vita cristiana un museo di ricordi” (Omelia a Santa Marta, 28.4.2015). L’umiltà evangelica che sa svuotarsi dalle proprie convenzioni e pregiudizi per ascoltare i fratelli vescovi e riempirsi di Dio. Umiltà che porta a non puntare il dito contro gli altri per giudicarli, ma a tendere loro la mano per rialzarli senza mai sentirsi superiori ad essi. L’orazione fiduciosa è l’azione del cuore quando si apre a Dio, quando si fanno tacere tutti i nostri rumori per ascoltare la soave voce di Dio che parla nel silenzio. Senza ascoltare Dio tutte le nostre parole saranno soltanto “parole” che non saziano e non servono. Senza lasciarci guidare dallo Spirito tutte le nostre decisioni saranno soltanto delle “decorazioni” che invece di esaltare il vangelo lo ricoprono e lo nascondono».

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ben espresso e compendiato con la parola «dialogo». Perché, come dice ancora papa Francesco nell’enciclica Lumen fidei, la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti (n. 34: EV 29/1000).

Un dialogo, però, che per risultare veramente tale e dare i frutti attesi, esige di essere condotto secondo i tre postulati sopra indicati: parresia, ascolto, fede.

2. Il

discernimento

Occupiamoci ora del tema del discernimento. Il sinodo nella sua totalità e nei suoi due appuntamenti può essere visto come una grande occasione offerta alla Chiesa per operare un discernimento in ordine alla tematica coniugal-familiare. Nella Relazione finale del sinodo del 2015 il discernimento è definito come «principio generale» (n. 51) e come «criterio complessivo» nella pastorale e nella valutazione delle situazioni. Ma tale discernimento esige e si compie tramite un determinato iter metodologico, che comporta una selezione e articolazione di tematiche. Anche i due sinodi hanno proceduto così. Le scelte fatte per organizzare e dare sistematicità al lavoro sinodale si possono vedere riflesse nella struttura e negli indici dei documenti prodotti dai due sinodi. Si tratta di una strutturazione che in sé ricalca e mutua molto da quella già adottata in epoche passate e cara al concilio Vaticano II nella Gaudium et spes incentrata sui tre termini: «vedere, giudicare, agire». Che il sinodo però ha riconiugato e reinterpretato secondo tre termini differenti: ascoltare-accogliere-accompagnare. Consideriamoli uno per uno.

2.1. L’ascolto Primo passo o primo momento è l’ascoltare. Ascolto di che cosa? Degli uomini del nostro tempo e delle loro vicende, perché, come dice la costituzione conciliare Gaudium et spes proprio nel suo incipit, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. […] Perciò essa [la comunità cristiana] si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia (n. 1: EV 1/1319).

Ascolto significa appunto attenzione al presente, alle sue dinamiche ed evoluzioni, e quindi attenzione alla storia, sempre mossi da un unico e

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comune intento e finalità: promuovere e assicurare il bene autentico degli uomini. Il sinodo ha fortemente sottolineato questo aspetto: tutta la prima parte della Relazione finale del sinodo del 2015 (nn. 5-34) si pone come un tentativo di descrivere la realtà della famiglia oggi nel mondo intero, dove da un lato impressiona la lunga lista di situazioni e casi menzionati e dall’altro si mette in luce la differenza di considerazione e trattamento che dette situazioni hanno nelle varie parti e culture del mondo. Accanto alla parola di Dio, che deve rimanere fonte primaria della fede della Chiesa e del lavoro teologico, c’è dunque un altro riferimento molto importante e parimenti necessario: l’attenzione alla storia, alla contemporaneità. Senza di essa, l’annuncio evangelico e la teologia rischiano l’astrattezza, la a-storicità, rischiano cioè di fare un discorso che vale per tutti i tempi, ma alla fin fine non ne intercetta né interpella alcuno, un discorso cioè che, come si dice, vale «per tutte le stagioni» ma dove, in fin dei conti, nessuna situazione storica concreta viene effettivamente inquadrata e interpellata né si sente messa in questione. Ma qual è la finalità, lo scopo di questa attenzione alla storia? Non è soltanto per erudizione o per riuscire accetti ai nostri contemporanei, ma per una ragione e valenza propriamente teologica. Perché la Chiesa, e al suo interno la teologia e in particolare la teologia morale in quanto riflessione critica e scientifica sull’agire cristiano, si trova al punto d’incrocio e di confronto tra la fede cristiana, con la formulazione teorica dei suoi contenuti, e la realtà concreta dell’uomo di oggi e del suo mondo. Si muove così in due direzioni e verso due fuochi tra loro in permanente tensione eppure parimenti essenziali e ineliminabili: da un lato deve annunciare il vangelo all’uomo di oggi, ricercandone ed esplicitandone implicazioni e conseguenze sul piano esistenziale/operativo, senza venir meno o rinunciare al compito profetico di illuminazione e critica che il Signore le affida; dall’altro, deve continuamente ascoltare e confrontarsi anche col mondo, per comprendere e portare al Signore le gioie e i dolori, i problemi e gli interrogativi, le attese e le speranze dell’uomo di oggi affinché possano venire illuminate, valutate e purificate alle fonti della divina rivelazione. Ma per poter adempiere convenientemente questo doppio importante compito, la comunità cristiana e il teologo devono: 1) conoscere e comprendere in profondità e dall’interno il mondo e l’uomo moderno e le linee principali della loro evoluzione dinamica; 2) saper usufruire dell’apporto e dei dati scientificamente attendibili delle moderne scienze antropologiche ed empiriche; 3) essere attenti ai «segni dei tempi» (cf. Mt 16,3), ossia devono riconoscere nella storia, tramite una lettura «sapienziale», illuminata e guidata dallo Spirito, della realtà attuale con le sue esigenze e prospettive, il trapelare dell’amore di Dio, il progressivo realizzarsi del suo disegno di grazia e di salvezza e il risuonare del suo comandamento per l’oggi; 4) impostare e arricchire la loro riflessione morale anche alla luce e sulla base dell’esperienza umana, come propone Gaudium et spes, n. 46;

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5) accogliere e valorizzare tutti i semi di verità (anche parziali e nascosti) contenuti nella riflessione etica umana, tanto dei secoli passati che contemporanea. Questa attenzione alla storia non è certamente una novità o un’invenzione del sinodo.18 Si tratta, come ha insegnato il concilio Vaticano II, di discernere e investigare i segni dei tempi. E i desideri, le ansie e le speranze dei giovani e degli sposi di oggi sono segni dei tempi da decifrare e interpretare, per giungere a un’intelligenza più profonda e «incarnata» del matrimonio e della famiglia.

2.2. L’accoglienza Il secondo aspetto evidenziato al sinodo è stata l’accoglienza. Accoglienza di che cosa? Di ciò che viene ormai comunemente chiamato «il vangelo del matrimonio e della famiglia», ossia il patrimonio di verità di varia natura (biblica, dogmatica, etica, spirituale, pastorale) che la Chiesa ha potuto decifrare e cogliere lungo l’arco di questi due millenni di storia cristiana. Perché se la verità è una ed è immutabile, la comprensione ecclesiale della medesima è invece sempre in divenire, è sempre un work in progress. La teologia della famiglia è dunque innanzitutto una ricerca e uno sforzo costante per capire il disegno di Dio su matrimonio e famiglia, comprenderne il senso e la finalità. Suo punto di riferimento, pertanto, non può essere solo la ragione umana ma la rivelazione divina, ossia la parola di Dio, quella Parola che Dio ha comunicato lungo il corso della storia e da ultimo, in forma definitiva e piena, con Gesù di Nazaret e che è affidata alla Chiesa per una custodia e una comprensione sempre più profonda. Come potrebbe esserci un discorso teologico se si perde di vista la parola di Dio? Come si potrebbe comprendere il disegno di Dio sul matrimonio-famiglia se la fonte primaria non fosse la rivelazione? Nel corso della storia, tuttavia, il rischio di abbandonare, o quanto meno di mettere in secondo piano la parola di Dio per seguire altre strade c’è stato. E anche oggi lo si può correre, quando luci e criteri di valutazione sono desunti più dalla sociologia, dalla cultura o da altre scienze antropologiche che dal vangelo. E non per caso, nel sinodo appena celebrato, ci sono stati momenti forti di tensione, all’interno dell’assemblea si-

18   Proprio in riferimento all’ambito «matrimonio/famiglia», già l’esortazione apostolica Familiaris consortio, a sua volta documento riepilogativo delle riflessioni del primo sinodo sulla famiglia dopo il concilio, nel 1981, esplicitamente diceva: «È alle famiglie del nostro tempo che la Chiesa deve portare l’immutabile e sempre nuovo vangelo di Gesù Cristo, così come sono le famiglie implicate nelle presenti condizioni del mondo che sono chiamate ad accogliere e a vivere il progetto di Dio che le riguarda. Non solo, ma le richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia, e pertanto la Chiesa può essere guidata a un’intelligenza più profonda dell’inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia anche dalle situazioni, domande, ansie e speranze dei giovani, degli sposi e dei genitori di oggi» (n. 4: EV 7/1533).

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nodale, tutte le volte che si è diffusa l’impressione o è nato il sospetto che la rincorsa dietro i temi di attualità e l’istanza, del resto legittima, di dare risposta alle situazioni problematiche e agli interrogativi del momento presente facessero dimenticare o mettere in ombra il vangelo del matrimonio e della famiglia nella sua bellezza e ricchezza e nella pienezza dei suoi contenuti. La riflessione teologica ed ecclesiale deve costantemente tornare alla rivelazione, ossia alla parola di Dio letta alla luce della tradizione sotto la guida del magistero, se vuole non solo perdurare ma consolidarsi e ringiovanire. Perché la Scrittura è veramente, diceva già Pio XII nella Humani generis, un tesoro inesauribile, infinitamente più ricco di qualunque riflessione umana per quanto profonda e articolata, al quale continuamente attingere nuovi temi e nuovi orientamenti per la ricerca teologica. D’altra parte, se la teologia deve tener conto della storia e dei suoi sviluppi, valutandoli però sempre innanzitutto alla luce della parola di Dio, si deve aggiungere che anche la lettura della parola di Dio ha conosciuto delle evoluzioni nel corso dei secoli. E proprio il tema matrimonio/famiglia, con i grandi e decisivi sviluppi che ci sono stati, specialmente in questi ultimi decenni sotto i pontificati di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Francesco, è un caso emblematico di come la teologia non sia un’interpretazione statica e ripetitiva della sacra Scrittura, ma invece cresca, maturi, si approfondisca nel corso della storia, pur guardando e traendo ispirazione sempre dall’unica e medesima fonte. Evoluzione, dinamicità quindi della ricerca teologica, non come totale sovvertimento di quanto detto in precedenza, ma come graduale crescita e approfondimento di un patrimonio di dottrine che, nell’insieme, è coerente e sempre più ricco. Aspetto ulteriore, anche questo sottolineato dai due sinodi: questa riflessione teologica, centrata sulla parola di Dio, deve entrare in dialogo con coloro che cercano ugualmente di capire il significato del matrimonio attraverso la semplice ragione umana. Peculiarità della riflessione teologica, come «intelligenza della fede» o fede che ricerca una comprensione razionale, è infatti che la sua argomentazione è innanzitutto ex revelatione. Ma la rivelazione non è l’unico «libro» dove sia possibile conoscere Dio e apprendere la sua volontà. C’è un’altra fonte che Dio stesso ci ha donato e dalla quale possiamo attingere con abbondanza: è la creazione, investigata dalla ragione che indaga sulla realtà e sull’esperienza umana. Ciò determina di riflesso l’istanza di verificare, alla fine, che cosa di suo la riflessione teologica apporti nei confronti di una riflessione meramente filosofica o nei confronti delle scienze umane.

2.3. L’accompagnamento Terza e ultima dimensione del discernimento sinodale è l’accompagnamento. E questo terzo passaggio ha acquistato una rilevanza particolare nei due sinodi a motivo del carattere volutamente e primariamente pastorale che gli si è voluto conferire. Fin dall’inizio, infatti, il doppio sinodo era stato pensato e impostato con finalità pastorali, e nei documen-

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ti intersinodali si era parlato di una vera e propria «svolta pastorale».19 Tale svolta era stata coniugata in rapporto soprattutto a due istanze: una pastorale retta dall’«arte dell’accompagnamento»20 e allo stesso tempo arricchita e stimolata dal magistero di papa Francesco, che pone e ripropone incessantemente a tutta la Chiesa universale l’istanza della misericordia. E forse proprio l’insistenza sulla misericordia ha generato qualche difficoltà e timore, perché c’è stato chi, soprattutto fuori dall’assemblea sinodale, ha sollevato il sospetto di un presunto conflitto tra una pastorale della misericordia e la salvaguardia della verità e integrità della dottrina morale cristiana. Ma perché questa accentuazione posta sull’accompagnamento? Al­ l’origine della questione sta un problema serio, specie qui in Occidente: il grave scollamento fra l’insegnamento morale della Chiesa e le scelte e i comportamenti di tanti, anche cattolici praticanti. Nella sensibilità di molti nostri contemporanei, infatti, la dottrina morale cristiana è avvertita come troppo rigida e discriminante. I giudizi morali ivi espressi sono spesso interpretati come arbitraria limitazione della libertà soggettiva e come indebita interferenza negli affari privati; le persone si sentono condannate e rifiutate; e in quanto espressi dalla Chiesa, tali giudizi negativi assumono una valenza ancor più drammatica perché talora interpretati come rifiuto e condanna da parte di Dio stesso; esito di ciò è spesso un allontanamento dalla pratica cristiana e dalla frequentazione ecclesiale e sfocia in un ateismo o agnosticismo pratico o nella costruzione di una religione «fai da te», a propria misura. Tutto questo perché? Perché i nostri contemporanei sono più malvagi degli uomini delle generazioni precedenti? Non penso proprio. Penso invece che la difficoltà si possa ricondurre a una doppia causa. Da un lato un influsso culturale forte e altamente condizionante: fattori come

19   Nel questionario allegato ai Lineamenta in preparazione al sinodo del 2015, nell’Introduzione alla terza parte, si legge: «Nell’approfondire la terza parte della Relatio Synodi, è importante lasciarsi guidare dalla svolta pastorale che il sinodo straordinario ha iniziato a delineare, radicandosi nel Vaticano II e nel magistero di papa Francesco. […] È necessario far di tutto perché non si ricominci da zero, ma si assuma il cammino già fatto nel sinodo straordinario come punto di partenza». All’espressione «svolta pastorale» adoperata in questo testo, se ne aggiungono altre equivalenti leggibili in testi della Relatio Synodi 2014: «dimensione nuova della pastorale familiare» (n. 27), «necessità di un radicale rinnovamento della prassi pastorale» (n. 37), «necessità di scelte pastorali coraggiose» (n. 45). 20   Era quanto emerso nel primo sinodo (quello del 2014) ed esplicitamente sottolineato nei testi che hanno accompagnato e supportato il lavoro delle diocesi nel periodo intersinodale. Infatti, nelle Domande per la recezione e l’approfondimento della Relazione del sinodo (è il questionario allegato alla Relatio Synodi 2014 e parte integrante dei Lineamenta in preparazione al sinodo del 2015), nella breve introduzione alle domande 35-39 si legge: «Nel dibattito sinodale è stata evidenziata la necessità di una pastorale retta dall’arte dell’accompagnamento». E il sostantivo «accompagnamento» e il verbo «accompagnare» tornano numerose volte nella Relatio Synodi 2014 (cf. nn. 12.14.24.27.28.36.40.43.44.46. 47.51).

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l’individualismo imperante, il relativismo etico diffuso, il pesante condizionamento prodotto dai mezzi della comunicazione sociale, assieme allo smarrimento o al forte indebolimento del senso e della pratica della fede (scristianizzazione), influenzano e condizionano enormemente i costumi e la mentalità della gente. Dall’altro lato, però, quello della comunità cristiana e della Chiesa istituzionale, un certo legalismo e moralismo, preoccupato di salvare le norme, ma senza spiegarne il senso e la motivazione, e senza tener debito conto della varietà delle situazioni, contribuisce ad accrescere più che contrastare la difficoltà. Da qui la parola del sinodo, che facendo proprio dell’«accompagnamento» la cifra caratteristica e il contenuto principale della anzidetta «svolta pastorale», prende le mosse e cerca di proporre un’altra prospettiva, più conforme all’atteggiamento che Gesù teneva negli incontri e dialoghi con le persone. Un atteggiamento che anzitutto non ti giudichi, ma al contrario ti aiuti a scoprire, se già non lo sai o lo hai dimenticato, che tu, indipendentemente dal tuo agire e prima di esso, vali molto per Dio, sei stato e sei amato da lui e sei il destinatario e beneficiario di uno splendido progetto divino, incentrato e realizzato in Gesù Cristo. Ma occorre raccogliere qualche indicazione più specifica circa i contenuti di tale accompagnamento. Il sinodo ne offre molte: qui ne riprendo soltanto qualcuna, scegliendo quelle che hanno validità e importanza anche oltre lo specifico ambito della pastorale familiare. 2.3.1. Uno

sguardo più positivo

sulla persona umana e sulle realtà che essa vive

Dice il n. 77 della Relatio Synodi 2015 citando l’Evangelii gaudium, n. 169: La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa «arte dell’accompagnamento», perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cf. Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana.

La prima indicazione per l’accompagnamento è quella di uno sguardo positivo, direi quasi estatico e contemplativo, sulla persona umana e sul mistero che essa è. L’altro, il prossimo, chiunque esso sia e qualunque ne sia la condizione umana e morale, è «terra sacra», perché immagine di Dio e chiamato a un destino di eternità. Questo primo aspetto ne comporta un secondo: la prossimità, vista però non come uno stato ma piuttosto come un cammino. Prossimi lo si diventa, perché è una scelta, non una casualità o una necessità. Prossimità che esige in primo luogo il rispetto e la compassione, due istanze che fondano e danno contenuto alla misericordia. Ma poi implica la scelta coraggiosa, perché inattuale, di uno sguardo positivo e fiducioso, anzi-

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ché scoraggiante e sospettoso, sull’altro e sulle sue possibilità. Così si è espressa la Relatio Synodi 2014 al n. 11: La Chiesa avverte la necessità di dire una parola di verità e di speranza. Occorre muovere dalla convinzione che l’uomo viene da Dio e che, pertanto, una riflessione capace di riproporre le grandi domande sul significato dell’essere uomini, possa trovare un terreno fertile nelle attese più profonde dell’umanità. […] Occorre accogliere le persone con la loro esistenza concreta, saperne sostenere la ricerca, incoraggiare il desiderio di Dio e la volontà di sentirsi pienamente parte della Chiesa anche in chi ha sperimentato il fallimento o si trova nelle situazioni più disparate. Il messaggio cristiano ha sempre in sé la realtà e la dinamica della misericordia e della verità, che in Cristo convergono.

Ecco un elemento che certamente colpisce delle posizioni assunte dal sinodo: la cura a esaminare la realtà coniugale/familiare attuale, anche negli aspetti non conformi alla dottrina cattolica, e oggi sono tanti, con uno sguardo critico ma in pari tempo con un approccio meno legalistico e un’ottica più accogliente. Esempio eloquente di tale taglio nuovo lo si legge nel n. 41 della Relatio Synodi 2014, numero che si occupa di coloro che vivono nel matrimonio civile o in convivenze e dove si legge questa affermazione, a mio parere nuova e rilevante: Mentre continua ad annunciare e promuovere il matrimonio cristiano, il sinodo incoraggia anche il discernimento pastorale delle situazioni di tanti che non vivono più questa realtà. È importante entrare in dialogo pastorale con tali persone al fine di evidenziare gli elementi della loro vita che possono condurre a una maggiore apertura al vangelo del matrimonio nella sua pienezza. I pastori devono identificare elementi che possono favorire l’evangelizzazione e la crescita umana e spirituale. Una sensibilità nuova della pastorale odierna consiste nel cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze. Occorre che nella proposta ecclesiale, pur affermando con chiarezza il messaggio cristiano, indichiamo anche elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più ad esso.

La «sensibilità nuova della pastorale odierna» è dunque ricondotta a un discernimento che sia capace di «indicare anche elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al messaggio cristiano». Ciò equivale a dire che, in rapporto alle situazioni concrete delle persone, la pastorale, in un orizzonte «nuovo», ma anche più in sintonia con l’ideale evangelico, deve considerare non soltanto il bene che manca ma anche il bene che in ogni situazione già c’è, per quanto scarso sia, e, prendendo le mosse da qui, sostenere e incoraggiare ad andare oltre, proseguendo nel cammino.21

21   Tale sensibilità e ottica nuova, applicata nel n. 41 alla situazione degli sposati solo civilmente e, in misura inferiore, dei conviventi, viene in altri numeri della Relatio Synodi 2014 estesa ad altre situazioni. Ad esempio al n. 25, in rapporto ai divorziati risposati (oltre che agli sposati solo civilmente e ai conviventi) si dice che «seguendo lo sguardo di Cristo

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2.3.2. Il

vangelo del matrimonio e della famiglia

e l ’ esperienza della fragilità umana : ricadute etiche e pastorali

Il sinodo, dunque, sembra muoversi tra due istanze fondamentali, compresenti ed egualmente forti: a) da un lato una Chiesa che annuncia con gioia e convinzione la bellezza e sovraeminente ricchezza del «vangelo del matrimonio e della famiglia», mostrando con forza e grande consapevolezza l’altezza e la profondità dell’idea di famiglia di cui è latore il cristianesimo, senza nascondere o sottacere quanto in essa trascende il puramente umano; b) evitando però, al medesimo tempo, che la sua bellissima luce non offra più speranza, o peggio, sia avvertita come motivo di condanna e di emarginazione per molti credenti che vivono condizioni familiari «difficili» o «irregolari». Alla base di tale doppia preoccupazione pastorale, mi pare si possa leggere una comprensione e un apprezzamento differenti e relativamente nuovi (rispetto al modello o alla concezione che ha predominato in morale per secoli) della realtà umana, specie in quella sua componente che oggi chiamiamo «fragilità umana» e che nell’impostazione tradizionale della morale cristiana non trovava grande considerazione oppure era letta solo in chiave negativa, mentre oggi viene sempre più riscoperta nella sua universalità e serietà, nella sua problematicità e talora nella sua drammaticità, ma pure col carico di speranze, potenzialità, interrogativi e sfide esistenziali che si porta dietro. Fragilità che il sinodo ha voluto esplicitamente ricordare mettendola in relazione con la funzione «materna» della Chiesa. Si legge infatti al n. 51 della Relazione finale del 2015: La Chiesa, in quanto maestra sicura e madre premurosa, pur riconoscendo che tra i battezzati non vi è altro vincolo nuziale che quello sacramentale, e che ogni rottura di esso è contro la volontà di Dio, è anche consapevole della fragilità di molti suoi figli che faticano nel cammino della fede. «Pertanto, senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. […] Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di

[…] la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto, riconoscendo che la grazia di Dio opera anche nelle loro vite dando loro il coraggio per compiere il bene, per prendersi cura con amore l’uno dell’altro ed essere a servizio della comunità nella quale vivono e lavorano». Ai nn. 22 e 35 si leggono significativi riconoscimenti e apprezzamenti anche in rapporto alle unioni matrimoniali presenti in altre religioni e/o culture (sono i cosiddetti «matrimoni naturali»), per i quali però il sinodo trova già un precedente di rilievo nelle parole della dichiarazione conciliare Nostra aetate al n. 2, anche se non esplicitamente ed esclusivamente rivolte alla dimensione coniugale/familiare. E anche in ordine a queste situazioni viene ribadito il medesimo criterio e approccio: «In queste diverse realtà religiose e nella grande diversità culturale che caratterizza le nazioni è opportuno apprezzare prima le possibilità positive e alla luce di esse valutare limiti e carenze» (Relatio Synodi, n. 35).

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Segni di speranza nella storia: prospettive offerte dai recenti sinodi sulla famiglia chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (Evangelii gaudium, n. 44).

L’universale esperienza della fragilità, dunque, ricorda e richiama in primo luogo l’universalità, gratuità e sovrabbondanza della misericordia divina. Ma proprio perché ripensata con la chiave di lettura della misericordia, è vista dal sinodo non solo in termini negativi, come peccato, ma pure come «occasione», «tempo propizio», non in sé ma per la provvidenza e misericordia del buon Dio, giacché racchiude e dischiude potenzialità e risorse per «cammini di crescita» forse fino al presente ignoti e insospettati. Le stesse problematiche familiari più gravi vanno considerate come un «segno dei tempi», da discernere alla luce del vangelo. La sfida consiste allora nel non limitarsi semplicemente a enunciare o ribadire la norma morale tradizionale e a stigmatizzare il peccato. Ovvio che, rispetto a una norma considerata nella sua letteralità, il singolo può soltanto essere «o dentro o fuori». Ma il sinodo vede l’osservanza della norma piuttosto come punto di arrivo di un cammino, che può avere tappe e modalità differenti a seconda del variare delle situazioni concrete. I padri sinodali chiedono perciò alle Chiese locali di saper progettare e attuare itinerari pastorali nei quali: – non ci si limiti alla formale condanna del loro stato di «peccatori»; – si sappiano accostare in modo accogliente coloro che vivono situazioni affettive e coniugali tradizionalmente definite «irregolari», e più in generale ogni situazione non conforme alle regole morali; – si mettano in condizione, tramite un’azione di evangelizzazione, comprensiva di annuncio e testimonianza vissuta, di riscoprire e apprezzare la bellezza e ricchezza umana del cosiddetto «vangelo del matrimonio e della famiglia»; – sapendo inoltre individuare e proporre itinerari pastorali, adatti a loro e alle loro esigenze, che, a partire dall’esistente, e secondo tappe di crescita, consentano gradualmente di «recuperare» un rapporto col Cristo Signore e con la comunità cristiana e infondano motivi di speranza e di impegno al loro cammino. Perché nella vita sessuale/familiare, come in ogni altro ambito, non è possibile esigere dalle persone più di quanto esse siano concretamente in grado di fare. La posta in gioco è alta, giacché, in ultima istanza, si tratta di sanare e superare ogni dualismo e falsa contrapposizione tra dottrina e pastorale, evitando il duplice scoglio o pericolo di una dottrina altissima sotto il profilo etico, ma che non si occupa delle persone concrete che la debbono osservare, e di conseguenza è percepita come una mannaia che piomba sulle teste e sulle vite della gente e le giudica e le condanna senza eccezioni e senza misericordia o, viceversa, di una pastorale che, in nome della misericordia, va per conto proprio, completamente ripiegata e misurata sul sentire individuale, ma indifferente o scarsamente interessata

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rispetto al compimento effettivo della volontà di Dio all’interno della storia e dell’oggi. 2.3.3. Due

riflessi pastorali :

discernimento caso per caso e superamento di forme di esclusione o emarginazione nella vita ecclesiale

Concludo limitandomi solo ad accennare a due aspetti qualificanti del citato discernimento/accompagnamento che i documenti sinodali enunciano. Il primo lo troviamo indicato al n. 51 della Relazione finale del 2015: Di fronte a situazioni difficili e a famiglie ferite, occorre sempre ricordare un principio generale: «Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni» (Familiaris consortio, n. 84). Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, e possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione. Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione.

Il sinodo invita a cogliere e apprezzare la varietà e differenza delle situazioni in cui persone, coppie e famiglie possono venire a trovarsi. Il discernimento non rimane quindi a livello astratto, teorico, ma investe il piano individuale e storico-esistenziale. Ciò costituisce un aspetto significativo dell’impostazione sinodale, che ha esercitato un’influenza via via crescente sul sinodo stesso fino a caratterizzarne le conclusioni. Il secondo aspetto è l’integrazione, intesa come l’azione pastorale di una «Chiesa che non solo si preoccupa di insegnare il cammino verso Cristo, ma che si pone al fianco delle persone in questo camminare insieme verso l’incontro con lui».22 Una comunità cristiana, quindi, che si faccia compagna del cammino di ognuno, a immagine e somiglianza di Gesù. E l’obiettivo ultimo qual è? Quello di ricondurre e mantenere tutte le pecorelle di Dio nell’unico gregge del Signore, dentro l’ovile dell’unico autentico e universale pastore che è il Signore Gesù, in attesa del suo ritorno escatologico e del definitivo avvento del regno di Dio. Che il Signore guidi e illumini la Chiesa in questo difficile ma promettente cammino.

22  F.J. Elizari, «Impresiones y reflexiones de un proceso sinodal», in Moralia 39(2016), 66. E aggiunge: «Probabilmente questa nuova accentuazione rivela anche la convinzione che l’accompagnamento delle famiglie, specie nei momenti difficili, è un alleato pastorale molto più efficace nell’animare e aiutare nella sequela di Cristo che qualsiasi documento dottrinale, per quanto buono sia» (ib.).

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Bibliografia 1. Documenti

del sinodo

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Nuovo umanesimo e sfida educativa. Linee per un rinnovato rapporto tra evangelizzazione e educazione

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Premessa Il nostro tema si inquadra nel più ampio rapporto tra evangelizzazione e educazione, anzi può aiutare a coglierne il legame non occasionale, ma strutturale, per cui l’educazione si mostra come una delle prospettive fondamentali dell’evangelizzazione. Il tema dell’educazione è stato posto dai vescovi italiani come centrale negli orientamenti pastorali di questo decennio proposti nel documento Educare alla vita buona del Vangelo.1 Già il Convegno ecclesiale di Verona del 2006, per incentivare la trasformazione della pastorale in senso missionario, aveva invitato a spostare l’attenzione sugli ambiti costitutivi del vissuto umano e tra questi ambiti, accanto a cittadinanza, fragilità, affetti, lavoro e festa, aveva indicato l’ambito della tradizione ossia della trasmissione dei valori e della fede, di cui l’educazione era stata riconosciuta come il vero «filo conduttore».2 I vescovi poi ne hanno fatto il perno del lavoro pastorale di questo decennio 2010-2020, indicando tre obiettivi.

1   CEI, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, EDB, Bologna 2010. 2   Cf. P. Triani, «Impegno educativo della comunità cristiana di fronte alle sfide della cultura contemporanea», in P. Triani – N. Valentini (a cura di), L’arte di educare nella fede. Le sfide culturali del presente, Messaggero, Padova 2008, 24.

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1) Mettere «a disposizione di tutti la buona notizia dell’amore paterno di Dio per ogni uomo»,3 impegnando tutta la Chiesa a interrogarsi «su come aiutare l’uomo a scoprire e portare a compimento la propria “umanità”, accogliendo la Parola buona rivelata in Gesù».4 2) Avviare «un investimento educativo capace di rinnovare gli itinerari formativi, per renderli più adatti al tempo presente e significativi per la vita delle persone, con una nuova attenzione per gli adulti».5 Di fatto, anche di fronte ai segni di crisi nella «trasmissione» della fede, si avverte ormai ineludibile e improrogabile l’esigenza di far passare all’esecuzione le linee di rinnovamento della Chiesa italiana maturate in tutti questi anni del post-concilio: primato dell’evangelizzazione come testimonianza, orizzonte comunionale e missionario, prospettiva del discernimento nel quadro di una conversione missionaria della pastorale. Su questa istanza si inserisce la Evangelii gaudium di papa Francesco e più in generale il suo appello a un nuovo stile di Chiesa «in uscita», povera e per i poveri, presente nelle periferie geografiche ed esistenziali dell’umano, impegnata ad avviare processi di rinnovamento in maniera sinodale. Il tema dell’educazione sta a significare l’esigenza di far diventare vissuto queste linee di rinnovamento, di metterle in circolo, facendo in modo che nascano comunità e credenti in cui tutto ciò si respira e viene attuato. 3) La coscienza che la crisi presente della trasmissione della fede è strettamente legata alla crisi generale della relazione educativa, e quindi ci troviamo di fronte a un problema epocale: chi parla di «sfida educativa», chi addirittura di «emergenza educativa». Di fatto, l’educazione viene colta come uno dei punti di criticità più significativi del nuovo umanesimo, uno dei punti principali di rilevamento della trasformazione culturale in atto, certo da accostare con quello «sguardo critico e fiducioso a un tempo» insegnato dal concilio.6 Nella Chiesa «vi è il timore che l’emergere di stili di comportamento individualistici e il crescere di visioni della vita fortemente “relativistiche” portino a un indebolimento della responsabilità educativa degli adulti verso le nuove generazioni».7 Dunque una «sfida» da affrontare. La nostra riflessione si articolerà in quattro passaggi: mostrare la coscienza diffusa di un’emergenza educativa; tentare di evidenziarne le cause principali; individuare le linee maestre per una ricostruzione della grammatica educativa, necessaria per coniugare in maniera adeguata all’oggi il rapporto tra evangelizzazione e educazione; ultimo passaggio: la questione dello stile educativo.

  CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 4.   Triani, «Impegno educativo della comunità cristiana», 22. 5   CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 4. 6   Atteggiamento sottolineato da L. Bressan, «Da fedeli a testimoni. Una lettura del percorso pastorale della Chiesa italiana», in La Scuola Cattolica 134(2006), 244, atteggiamento che il documento Educare alla vita buona del Vangelo pone nel primo capitolo. 7   Triani, «Impegno educativo della comunità cristiana», 22-23. 3 4

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Nuovo umanesimo e sfida educativa

1. Diffusa coscienza di un ’ emergenza educativa Dentro questa emergenza educativa ci collochiamo nella prospettiva coraggiosa e feconda che papa Francesco ha consegnato con forza alla Chiesa italiana riunita nel Convegno ecclesiale di Firenze del novembre 2015: una Chiesa umile, disinteressata, nello spirito delle beatitudini. «Umile», cioè che non entra nelle situazioni con la pretesa arrogante di avere già una risposta a tutto, ma che sa di essere dentro all’agone, che l’emergenza educativa non riguarda soltanto le realtà educative fuori dal contesto ecclesiale, ma le famiglie praticanti, i percorsi formativi della comunità cristiana, la coscienza di chi svolge compiti educativi, preti inclusi. Un atteggiamento «disinteressato», cioè una Chiesa che testimonia un interessamento sincero e una profonda passione per la vita e il bene di tutti, con gratuità, senza alcun obiettivo di potere.

1.1. Educazione al bivio (1943) di J acques M aritain L’emergenza educativa era già stata segnalata dal filosofo Jacques Maritain nel 1943 nel suo Educazione al bivio, quando poneva il punto decisivo nella visione dell’uomo, visto come l’individuo che emerge in maniera deterministica dall’evoluzione naturale e dallo sviluppo sociale (concezione utilitaristica e mercantile dell’uomo e funzionalistica dell’educazione) oppure visto come «persona» (umanesimo integrale), che si possiede e realizza se stesso «per mezzo dell’intelligenza e della libertà», ponendosi nel mondo come un tutto autonomo e capace di trascendenza piuttosto che come una parte di esso e «mediante l’amore può donarsi liberamente a esseri che sono per lui come degli altri se stessi».8 Questo bivio oggi si è radicalizzato sulla spinta dello sviluppo tecnologico e di un orizzonte prevalentemente economicistico, non di rado giustificato anche in base all’accusa, rivolta alla visione classica dell’educazione, di essere inefficace perché troppo centrata sul fine e sul dover essere. Nei contesti ordinari si preferisce quindi parlare di «formazione», intesa non nel senso tradizionale dell’azione che mira all’educazione integrale della persona, bensì come processo finalizzato all’acquisizione

8  Cf. J. Maritain, L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1981, 20-21. Maritain ha indubbiamente colto il punto centrale della sfida, ma nel formulare la risposta rimane all’interno di una visione sostanzialmente essenzialista dell’educazione: i principi e i valori che debbono ispirare il metodo dell’azione educativa vanno dedotti da una metafisica dell’uomo. Sulla problematica cf. anche R. Guardini, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia 1987.

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di conoscenze, abilità e competenze coerenti con le esigenze del mondo produttivo. È indubbio che così intesa l’educazione sia perfettamente in linea con la concezione «liquida» del nostro tempo e con le esigenze del mondo produttivo e finanziario, assolutizzate queste ultime dal neoliberismo, che finisce per condizionare pesantemente non solo l’economia, ma anche il nostro modo di ragionare e di pensare, spingendo ad adottare, anche senza che ce ne accorgiamo, criteri di valutazione puramente economicistici, che tengono in ostaggio la stessa politica. D’altra parte, le esigenze di efficienza produttiva si accordano bene con un’educazione neutrale, disimpegnata e duttile, che punta a formare persone dotate di competenze, abilità e conoscenze pratiche fruibili sul piano produttivo, ma totalmente neutrali sul piano dei valori e quindi perfettamente piegabili agli scopi utilitaristici del mercato.9 Tutto il contrario dell’educazione cosiddetta classica, che voleva trasmettere il fine della vita, i principi di fondo, il dover essere verso cui tendere con la propria libertà.10

1.2. Il

disagio di adolescenti e giovani : un segnale da non sottovalutare

La gravità dell’emergenza educativa è stata segnalata da due psichiatri francesi, Miguel Benasayag e Gérard Schmit, in L’epoca delle passioni tristi (2003). Partendo dalla propria esperienza professionale così hanno scritto: Nella nostra società, come in tutte le altre, l’educazione, la trasmissione dei valori e dei principi che assicurano la continuità di una cultura si basano sulla riproduzione e sulla trasmissione dei suoi miti fondanti. Così nella cultura occidentale educare significava invitare l’altro, il giovane, a intraprendere con impegno un determinato cammino, quello della promessa che conduceva a quel futuro che attendeva e consentiva di sentirsi parte integrante, ognuno nel suo ambito, di un progetto comune.

Questo era l’orizzonte educativo classico, ormai entrato in crisi:

9  Cf. G. Chiosso, «Emergenza educativa e dibattito pedagogico», in A. Bozzolo – R. Carelli (a cura di), Evangelizzazione e educazione (Nuova Biblioteca Scienze Religiose 32), LAS, Roma 2011, 123. 10   Tutto questo viene da lontano: adozione in Europa della cultura pedagogica americana nelle forme post-deweyane di matrice comportamentista; cultura educativa sviluppata nei grandi centri della vita economica e politica internazionale («teoria del capitale umano» elaborata nella Chicago anni ’50, per cui l’uomo è visto come «risorsa» in senso economicistico, nella cui prospettiva si colloca il cosiddetto «libro bianco» o Rapporto Cresson degli inizi anni ’90); interpretazione individualistica e soggettivistica dell’esperienza umana, che porta a una radicale decostruzione della nozione classica di educazione (cf. ivi, 123-127).

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Nuovo umanesimo e sfida educativa Come è possibile educare ormai oggi? Trasmettere e integrare i giovani in una cultura che non solo ha perduto il proprio fondamento principale – il principio di autorità – ma l’ha vista trasformarsi nel suo contrario nel momento in cui il futuro-promessa è diventato futuro-minaccia?11

In effetti, chi cresce oggi come fa a riconoscere le indicazioni ricevute dalle varie figure educative come valide, se tanto non c’è nessun fondamento a cui fare appello e nessun futuro verso cui dirigersi? Oltretutto, constatano sempre Benasayag e Schmit, su questo vuoto si innesta una «pressione crescente dell’utilitarismo legata all’invasione dell’ideologia neoliberista in tutte le sfere della vita», e anche se il mito del progresso è crollato e il futuro è diventato imprevedibile, l’ideologia scientista è sempre presente nella nostra società: in un certo senso si è resa autonoma, proclamando come un’evidenza incontrovertibile che «tutto è possibile» o che dovrebbe esserlo. Di conseguenza, ogni tentativo di limitazione e orientamento viene tacciato di puro oscurantismo, perché non si capisce in nome di quale principio si dovrebbe sospendere un lavoro di ricerca o vietare una tecnica capace di ampliare l’ambito del possibile. Come ignorare, nella nostra veste di clinici, gli effetti dei messaggi ideologici che parlano ai giovani dell’abolizione di tutti i limiti e di tutti i divieti? Questi messaggi scientisti sono molto più attivi di quanto possiamo pensare. La clonazione, la scelta del sesso del bambino e i mille proclami della tecnica che preconizza un mondo senza frontiere e senza divieti alimentano un immaginario che i giovani oggi non considerano più una promessa, ma un diritto. In un simile contesto le pratiche pedagogiche e terapeutiche sono chiaramente controcorrente, proprio perché cercano di stabilire dei divieti e di risvegliare i giovani dal sogno di onnipotenza.12

Un’altra voce si è levata in ambito italiano, quella di Gustavo Pietropolli Charmet, che ha monitorato per anni il mondo degli adolescenti, quindi proprio quella fascia in cui la problematica educativa è critica di sua natura, e in un libretto dal titolo eloquente, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, dichiara che come psicoterapeuta aveva dovuto cambiare completamente le chiavi di lettura delle problematiche adolescenziali, perché il punto critico oggi non è più costituito dai sensi di colpa dovuti al conflitto con l’autorità parentale, in quanto questi sensi di colpa tendono a scomparire. Il rapporto educativo, infatti, è concepito come immediatamente simmetrico, senza regole e castighi, in una negoziazione continua, sulla base di un modello di «famiglia affettiva» che non pone a suo fondamento un ethos ma semplicemente gli affetti, il compito di rassicurazione affettiva primaria, tradizionalmente compito della madre, idealizzando l’assenza assoluta di tensioni e contrasti familiari. Tutto ciò produce una sorta di «anestesia etica» di stampo narcisista, del tutto speculare all’assenza o afasia educativa delle figure deputate all’educazione.

11 12

 M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004, 40.   Ivi, 91.95.

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Le famiglie finiscono così per mettere in atto una sorta di ricatto affettivo invisibile («Se non mi approvi, non mi vuoi bene», e all’opposto: «Se non mi obbedisci, non mi vuoi bene») e i figli crescono spavaldi ma fragili, non trovando più alcun argine alle loro pulsioni vitali. La loro insoddisfazione e il loro disagio spesso si manifestano cercando altri bersagli, scaricando il proprio bisogno di sentirsi vivi e di mettersi alla prova agendo sul proprio corpo coi piercing e i tatuaggi o sugli altri col bullismo scolastico o le bravate in bande di coetanei. Ciò che teme maggiormente l’adolescente di oggi non sono quindi i rimproveri o i divieti, ma la noia e la vergogna. E questo approccio narcisistico gli rende oltremodo faticoso immedesimarsi nell’altro da sé e nel suo dolore, anche quando è lui stesso a provocarlo.13 In più questa adolescenza minaccia di essere interminabile, dato che «il contesto culturale promuove in molti modi al rango di norma universale gli stili di vita che un tempo apparivano esclusivi dell’adolescente: […] cercare se stessi in tutto ciò che si fa. L’adulto in quel che fa si spende».14

1.3. Un’emergenza

trascurata e molteplici trasformazioni ambivalenti

In conclusione: è come se si stesse «passando a un modello educativo che potremmo definire “fai da te” sul piano delle concezioni del bene e delle idealità in generale e invece rigidamente programmato in termini di apprendimenti e organizzazione», con «esasperazione delle procedure e delle misurazioni per verificare i risultati, in una parola l’ossessione di migliorare le tecniche operative».15 Ciò che però appare più sconcertante è che questo cambiamento, con le pesanti ricadute che constatiamo in ordine all’educazione, passi pressoché inosservato. Le diverse istituzioni deputate a educare agiscono come se non ci fosse nessuna crisi, come se si trattasse solo di una normale manutenzione, risolvibile con piccoli aggiustamenti da operare con l’aiuto della tecnica e un po’ di buona volontà. Anche perché i cultori di scienze dell’educazione in realtà non si occupano di educazione; questa parola suona ai loro orecchi troppo enfatica; parlano invece di formazione, di istruzione, di socializzazione; il rapporto educativo è ridotto al profilo modesto dell’abilitazione sociale. Occorre dare al minore le competenze che servono per sostenere il rapporto sociale; dargli addirittura un senso o una

13   Cf. G. Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, Roma-Bari 82010; Id., I nuovi adolescenti: padri e madri di fronte a una sfida, Fabbri, Milano 2008. 14  G. Angelini, «L’educazione è ancora una questione?», in A. Toniolo (a cura di), Il senso dell’educazione nella luce della fede, Messaggero-Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2011, 67. 15   Chiosso, «Emergenza educativa e dibattito pedagogico», 127.

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Nuovo umanesimo e sfida educativa speranza per la vita pare un compito eccessivo, impossibile, non politicamente corretto.16

Ebbene proprio i due psichiatri francesi sopra citati dichiarano la loro indisponibilità nei confronti di una società che, invece di intervenire sulle cause del malessere sempre più diffuso, voglia utilizzare la professionalità dei clinici solo per cercare di contenere i sintomi che disturbano il quieto vivere sociale, per anestetizzare le persone, normalizzarle etichettandole, piuttosto che mettere mano sul serio alle cause di un tale profondo disagio. Siamo tutti immersi in questa situazione di emergenza educativa, il cui rilievo è accresciuto dalle sfide poste dai molti cambiamenti in atto, a cominciare dalle profonde trasformazioni familiari, dal bisogno di ripensare tempi e spazi sia nel vissuto familiare che in quello collettivo, dalla condizione giovanile schiacciata sul presente, segnata da incertezza e precarietà e considerata spesso in maniera riduttiva. Cambiamenti che toccano anche più da vicino l’educazione alla vita di fede, come un ritorno ambiguo al religioso di tipo privatizzato e/o magico, la banalizzazione del linguaggio cristiano (scontato, irrilevante), il crescente analfabetismo sugli aspetti e fatti essenziali del cristianesimo, la perdita della percezione della decisività di ciò che è essenziale nel cristianesimo, un silenzioso divorzio tra molte persone e le proposte ecclesiali.17 All’interno di queste molteplici trasformazioni riconosciamo anche la presenza di fattori che, pur nella loro ambivalenza, possono provocare un salutare ripensamento delle prospettive e delle dinamiche educative.18 Qualche esempio. – Rispetto alla prassi educativa tradizionale, che tendeva a mettere l’accento sulla piena osservanza dei doveri religiosi e delle regole sociali, tutti riconoscono oggi la necessità di integrare formatività e responsabilità alla luce della centralità della relazione educativa, in cui il formatore stesso si mette in gioco, promuovendo la costruzione di relazioni mature con se stessi, con gli altri, con tutta la realtà, nell’apertura alla relazione con Dio. Anche la centralità della relazione, però, porta con sé un’ambivalenza. Ne sono sintomi la famiglia solo affettiva (l’enfasi sulle buone relazioni – ottenere in famiglia l’obbedienza solo per amore – rinunciando ai contenuti), i gruppi in cui l’importante è stare bene insieme, i cammini di coppia senza obiettivi autotrascendenti. – La prevalenza di una funzione normativa e coercitiva da parte della famiglia nella dinamica educativa è stata ormai superata. Spesso tuttavia si assiste al diffondersi di un atteggiamento di delega nei confronti delle varie agenzie educative, che veicola un’idea specializzata e parcellizzata della formazione (la formazione atletica all’allenatore sportivo, alla scuola

  Angelini, «L’educazione è ancora una questione?», 69.  Cf. Triani, «Impegno educativo della comunità cristiana», 32-50. 18   Ib. 16 17

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le competenze culturali e professionali, allo psicologo gli interventi cosiddetti integrativi e terapeutici, alla parrocchia la formazione religiosa…). Tutto ciò moltiplica da una parte l’ansia di controllo delle situazioni, dei comportamenti, degli apprendimenti, dall’altra il rischio che la cosiddetta educazione «silenziosa» o informale, quella che avviene attraverso ambienti e riti, sia assente o tagliata fuori a causa di un’esposizione senza filtri alle molteplici navigazioni multimediali e digitali. – Si assiste a un’accresciuta sensibilità per la libertà individuale in tutti gli ambiti dell’esistenza e come presupposto indispensabile per la crescita della persona e l’autenticità della stessa relazione educativa. Indubbiamente questo ha favorito una maggiore responsabilizzazione del soggetto nel processo educativo e un più ampio spazio di libertà nelle decisioni. Tuttavia non può passare inosservato che, a fronte di una sorta di rivendicazione insindacabile della libertà individuale, assistiamo «clamorosamente a una diffusa predicazione sul determinismo (neuronale, psichico, sociale), causa di una specie di nevrosi (persegui la libertà che non c’è!), che non può non avere effetti destabilizzanti anzitutto nel vissuto dell’esistenza e nella costituzione dell’identità psicologica dei soggetti».19 – Una visione dinamica della crescita della persona ha fatto sì che sia ormai un dato acquisito che non si impara una volta per tutte e che la formazione deve essere permanente. Tutto ciò porta con sé, tuttavia, un’ambivalenza da osservare con attenzione: il fatto che non si è mai finito di imparare non vuol dire che occorre sentirsi sempre in prova, impossibilitati a prendere qualsiasi decisione e orientamento definitivo, ma che una vera formazione è quella che educa una persona a trasformare ogni incontro e ogni esperienza in occasione per crescere e maturare.20

2. Le

cause principali dell ’ emergenza educativa

Gli psichiatri Benasayag e Schmit, come abbiamo visto, individuano due cause fondamentali dell’emergenza educativa: la crisi del principio di autorità, per cui con l’autorità si instaurano rapporti puramente simmetrici, alla pari, continuamente soggetti a negoziazioni ed esposti a forme di ricatto affettivo, e la perdita del principio di realtà, dal momento che si ritiene che tutto ciò che è tecnicamente possibile sia legittimo, anzi un diritto.21

19   F. Botturi, «Chi è l’uomo perché te ne prenda cura? Riflessioni sulla domanda educativa», in Toniolo (a cura di), Il senso dell’educazione nella luce della fede, 21. 20   «Se uno ha imparato a imparare, – è questo il segreto, imparare ad imparare! – questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà!» (Francesco, Discorso al mondo della scuola italiana, 10.5.2014). 21  Cf. Benasayag – Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 25-30.95-96. I due psicoterapeuti francesi avvertono la problematicità dello stesso meccanismo dei videogiochi, non solo per il fatto che distacca dalla realtà e veicola spesso pericolosi messaggi di violenza, ma perché

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Il documento dei vescovi italiani segnala tra le cause la frantumazione del patto educativo tacito in un contesto multiculturale e plurivaloriale, l’impoverimento e la frammentazione delle relazioni familiari e inter-generazionali, e soprattutto «la separazione tra le dimensioni costitutive della persona, in special modo la razionalità e l’affettività, la corporeità e la spiritualità».22 E afferma: «Si tratta di nodi critici che vanno compresi e affrontati senza paura, accettando la sfida di trasformarli in altrettante opportunità educative».23 In ultima analisi gli orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il decennio riconducono tutto a due cause fondamentali: 1) una falsa concezione di autonomia come sviluppo personale nell’autosufficienza, cioè senza debito con nessuno, nel quadro di un orizzonte immanentistico segnato da tendenze riduzioniste e derive deterministiche che negano la vocazione trascendente dell’uomo, ossia la sua costitutiva e insopprimibile apertura alla trascendenza; 2) lo scetticismo secondo il quale non si può accedere alla verità, per cui non vale neanche la pena tendervi, e il conseguente relativismo, da cui derivano l’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano – la natura e la rivelazione – dando vita a una sorta di «naturalismo antropologico».24 Su questo secondo punto il documento dei vescovi riprende un intervento molto acuto del 2008 di Benedetto XVI alla diocesi di Roma e rilanciato nel discorso all’Assemblea generale dei vescovi italiani del 27 maggio 2010.25 In esso il papa metteva in evidenza che se la natura fosse soltanto macchina che in sé non dice nulla, una sorta di meccanismo manipolabile a piacimento dall’intenzione soggettiva, anche la rivelazione

fa entrare in maniera estremamente seducente in una dinamica di potere illimitato, con sollecitazioni neuronali continue che richiedono risposte rapide. A confronto, la vita reale annoia. Si crea una dipendenza da una soglia elevata di attenzione-eccitazione nervosa, che impedisce di pensare, per cui diventa sempre più difficile ottenere, per esempio, l’attenzione pacata e riflessiva necessaria a un vero processo educativo e si mettono le basi per comportamenti di adesione e dipendenza inquietanti. 22   «La mentalità odierna, segnata dalla dissociazione fra il mondo della conoscenza e quello delle emozioni, tende a relegare gli affetti e le relazioni in un orizzonte privo di ri­ferimenti significativi e dominato dall’impulso momentaneo. Si avverte, amplificato dai pro­cessi della comunicazione, il peso eccessivo dato alla dimensione emozionale, la sollecitazione continua dei sensi, il prevalere dell’eccitazione sull’esigenza della riflessione e della comprensione. Questa separazione tra le dimensioni della persona ha inevitabili ripercussioni anche sui modelli educativi, per cui educare equivale a fornire informazioni funzionali, abilità tecniche, competenze professionali. Non raramente, si arriva a ridurre l’educazione a un processo di socializzazione che induce a conformarsi agli stereotipi culturali dominanti. Il modello della spontaneità porta ad assolutizzare emozioni e pulsioni: tutto ciò che “piace” e si può ottenere diventa buono. Chi educa rinuncia così a trasmettere valori e a promuovere l’apprendimento delle virtù; ogni proposta direttiva viene considerata autoritaria» (CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 13). 23   Ivi, n. 9. 24  Cf. ivi, n. 11. 25   Benedetto XVI, Discorso alla 61a Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana (27.5.2010), riportato in Appendice a CEI, Educare alla vita buona del Vangelo.

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ne risentirebbe fortemente, perché il Verbo che si è fatto carne avrebbe assunto una realtà priva di qualsiasi intenzionalità e significato. E se diventassero non eloquenti, cioè mute, sia la natura – il libro della vita – sia la rivelazione – se non come affermazione spiritualista –, la storia stessa diventerebbe insignificante. E così concludeva: Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini «senza speranza e senza Dio in questo mondo», come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita.26

Le conseguenze e i sintomi di tutto ciò sono sotto gli occhi di tutti: la tendenza a ridurre il bene all’utile, la verità alla razionalità empirica, la felicità e la bellezza al godimento effimero;27 lo scetticismo riguardo la stessa possibilità di educare, sicché i progetti educativi diventano programmi a breve termine, mentre una corrente fredda scuote gli spazi classici della famiglia e della scuola,28 favorendo una vera e propria afasia educativa, che spinge la scuola a limitarsi a fornire competenze e abilità e la famiglia alla delega sullo sfondo di una società che si vuole neutra rispetto ai valori. La tendenza a rimuovere il profilo etico, ossia la costruzione integrale della persona e la distensione temporale del processo educativo tra promessa e compimento, ha come sintomo più significativo la crisi delle scelte di vita.29 Ne soffrono tutte le esperienze umane fondamentali: il rapporto uomo-donna, la relazione genitori-figli, le pratiche dell’amicizia e della fraternità, il senso del convivere civile, le forme della solidarietà sociale. Se tutto è affidato alla sensazione e al sentimento in un flusso inarrestabile di emozioni e sensazioni, del «prova e riprova», dello sperimentalismo, che non raggiunge mai la forma matura dell’esperienza, ci può essere sempre una nuova emozione che cancella la traccia della prima. Si moltiplicano gli esperimenti, ma viene minata ogni possibilità di scelta di vita e ogni vocazione stabile,30 e il «provare tutto» viene percepito come un must, un’esigenza di autenticità morale. Si finisce cioè per pensare che addirittura non è moralmente sensato e lecito prendere una decisione che ti vincoli per la vita.31

  CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 5.  Cf. ivi, n. 7. 28  Cf. ivi, n. 5. 29   Cf. A. Fumagalli, «La formazione fragile. Ipotesi sull’attuale crisi delle scelte di vita», in La Rivista del Clero italiano 95(2014), 258-275. 30   Cf. F.G. Brambilla, «In Gesù trova luce il mistero dell’uomo. Costruire l’identità della persona come vocazione», in P. Triani (a cura di), Educare, impegno di tutti. Per rileggere insieme gli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana 2010-2020, AVE, Roma 2010, 69. 31  Per un approfondimento di questa cultura dell’indecisione, figlia di una visione di «uomo senza vocazione», cf. L. Luppi, «Le dinamiche della scelta (lettura teologica)», in G.P. 26 27

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Nuovo umanesimo e sfida educativa

3. Ricostruire

grammatiche educative più rispondenti per un rinnovato rapporto tra evangelizzazione e educazione

Il rapporto evangelizzazione/educazione non è stato molto affrontato nel passato. Non si sentiva il bisogno di tematizzare l’argomento, non perché non ci fossero problemi e sfide, ma perché non appariva messa in discussione come oggi la stessa pensabilità e possibilità dell’azione educativa. Oggi invece è indispensabile mettere le basi per un rinnovato rapporto tra evangelizzazione e educazione. Lo sollecita lo stesso documento dei vescovi italiani proponendo chiavi di lettura sul piano fondativo e invitando a progettare itinerari formativi. Si tratta quindi di mettere in atto un profondo ripensamento delle grammatiche educative in modo da rispondere alle sfide dell’emergenza educativa e ricostruire un rapporto più adeguato tra evangelizzazione e educazione, senza cadere nell’ingenua illusione che si possa dedurre tutto dai principi evangelici o viceversa ridurre l’evangelizzazione a una buona prassi educativa che si pretenderebbe razionale e naturale. Evangelizzazione e educazione non vanno separate, né confuse, né riassorbite l’una nell’altra, ma integrate, ristabilendo – per riprendere una feconda intuizione di Benedetto XVI – un corretto rapporto e un dialogo fecondo tra il libro della natura e il libro della rivelazione dentro la storia, quindi tenendo conto delle forme effettive che assume la relazione parentale e educativa nel nostro tempo.

3.1. Riscoprire il

legame con il generare e il carattere testimoniale dell ’ educazione

I vescovi italiani, proprio mettendosi in ascolto di questo «concerto» tra libro della creazione e rivelazione e riprendendo una pista già indicata da Giovanni Paolo II, invitano a riscoprire che «esiste un nesso stretto tra educare e generare: la relazione educativa s’innesta nell’atto generativo e nell’esperienza di essere figli».32

Cassano (a cura di), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, Portalupi, Casale Monferrato 2007, 385-390. 32  Cf. Giovanni Paolo II, lettera alle famiglie Gratissimam sane (2.2.1994), n. 16, citato in CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 27.

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La pedagogia moderna, e seguiamo qui la riflessione proposta dal teo­logo Giuseppe Angelini,33 ha scelto invece, come figura emblematica dell’educazione, il maestro, il precettore e non il genitore, sviluppando una tradizione culturale al di fuori del rapporto di generazione e della famiglia, adottando una concezione illuministico/razionalistica dell’educazione, con una radicale negazione dell’autorità, concepita come necessariamente autoritaria e ipotizzando come ideale una società senza padri. Ne consegue il primato del ragionamento sulla testimonianza e dell’attivismo sperimentalistico sulla relazione educativa. Indubbiamente la reazione a una concezione autoritaria e paternalistica, che ha avuto il suo momento più acuto nell’Ottocento con le tragiche propaggini dei totalitarismi del Novecento, ha generato una visione antiautoritaria e puerocentrica: la formazione della coscienza è diventata questione privata, il bambino/ragazzo deve essere se stesso nel pieno e spontaneo sviluppo delle sue potenzialità, in un rapporto simmetrico ossia alla pari con l’adulto. Dagli ambienti più diversi, tuttavia, si assiste a una messa in discussione di questa visione puerocentrica: Eppure i figli hanno bisogno di qualche cosa come un padre. Hanno bisogno infatti del divieto; soltanto esso consente loro di passare dal regime compulsivo del bisogno al regime spirituale del desiderio […]. Per il bene dei figli occorre dunque che i padri propongano divieti e facciano come se credessero a una Legge sacra, che in realtà non conoscono.34

Certamente, precisa Angelini, al difetto del padre non si può rimediare mediante la raccomandazione di fare come se; occorre invece mostrare come l’eclisse del padre non sia affatto così radicale e inesorabile. […] La figura del padre è indispensabile al processo di identificazione psicologica del figlio; è necessario insieme alla configurazione morale della sua coscienza; è indispensabile alla realizzazione dei processi di tradizione culturale da una generazione all’altra.35

Se questo viene meno si corre il rischio di perdere il figlio, cioè il rischio che la coscienza sia lasciata a se stessa come tabula rasa su cui scrivere continuamente sensazioni passeggere. Per non perderlo, d’altra parte, molte dinamiche familiari finiscono per mettere in atto una forma di

33   Cf. G. Angelini, Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano 1991; Id., Educare si deve, ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002; Id., «L’educazione cristiana. Congiuntura storica e riflessione teorica», in La Rivista del Clero italiano 90(2009), 516-534; Id., «L’educazione è ancora una questione?»; Id., «Per educare un figlio ci vuole un villaggio», in La Rivista del Clero italiano 95(2014), 545-560. 34   Angelini, «Per educare un figlio ci vuole un villaggio», 554. Su questa linea si pongono i discepoli di J. Lacan, che già nel 1968 denunciava l’«evaporazione del padre»; Angelini si riferisce in specie a M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011. 35   Angelini, «Per educare un figlio ci vuole un villaggio», 554.

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ricatto più subdolo di tipo affettivo: è il cosiddetto «figlio del desiderio», costretto a esaudire le attese dei suoi genitori che lo hanno scelto e voluto controllando la sua nascita. Si tratta di riscoprire, invece, che la vita si riceve, per cui generare non è produrre una vita, ma «dare alla luce». Ma di riscoprire anche che non si può «dare alla luce» senza «dare una luce» per vivere: si tratta di un’avventura a tre, in cui padre e madre dispensano la vita per conto di Dio, perché il mistero della vita sia promessa e appello, e ciascuno risponda non alle attese di padre e madre, ma riconosca, nella loro testimonianza, la chiamata alla vita, e la promessa e l’appello alla verità, bontà e bellezza della vita che essi testimoniano.36 Dal di dentro di questo legame generativo e di questa testimonianza si esercita l’autorità parentale e dell’intera società, cui spetta nelle forme della vita comune il compito dell’ethos, cioè di dare forma alla visione del mondo del singolo. L’azione educativa non è quindi riducibile a un generico e retorico appello ai «valori» proposti in termini verbali e didascalici. Solo una testimonianza vissuta all’interno di rapporti umani effettivi permette all’esercizio dell’autorità di mostrare il suo significato originario: l’azione che aiuta a crescere (auget), che mira al pieno sviluppo della persona. Laddove invece si perde questo orizzonte radicale e fondativo dell’azione formativa, la società e le varie figure educative tenderanno inevitabilmente a oscillare tra due tentazioni: quella della coercizione e quella della seduzione.37

3.2. Centralità della relazione «io», «tu», «noi»

educativa

Proprio alla luce e all’interno di questo legame con il generare – e non fuori di esso in maniera astratta – si comprende la dimensione relazionale dell’educazione. Scrivono sempre i vescovi italiani: Il mito dell’uomo «che si fa da sé» finisce con il separare la persona dalle proprie radici e dagli altri, rendendola alla fine poco amante anche di se stessa e della vita. […] Siamo così condotti alle radici dell’«emergenza educativa», il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un «io» completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa «io» nella relazione con il «tu» e con il «noi».

  Così continua il testo CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, al n. 27: «L’uomo non si dà la vita, ma la riceve. Allo stesso modo, il bambino impara a vivere guardando ai genitori e agli adulti. Si inizia da una relazione accogliente, in cui si è generati alla vita affettiva, relazionale e intellettuale. Il legame che si instaura all’interno della famiglia sin dalla nascita lascia un’impronta indelebile. L’apporto di padre e madre, nella loro complementarità, ha un influsso decisivo nella vita dei figli. Spetta ai genitori assicurare loro la cura e l’affetto, l’orizzonte di senso e l’orientamento nel mondo». 37   Qui il pensiero di Angelini converge apertamente con le considerazioni degli psicoterapeuti Benasayag – Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 27. 36

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Sempre il documento CEI ricorda che tale distorsione è stata magistralmente illustrata da papa Benedetto XVI: Una radice essenziale consiste – mi sembra – in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’«io» diventa se stesso solo dal «tu» e dal «noi», è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il «tu» e con il «noi» apre l’«io» a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo «tu» e «noi» nel quale si apre l’«io» a se stesso.38

Emerge così la centralità della relazione educativa nella crescita umana, non solo «io»/«tu», ma anche il «noi» dell’intero tessuto familiare e sociale, nella feconda interazione tra famiglia e società. Come affermava papa Francesco citando un proverbio africano in occasione dell’incontro con il mondo della scuola del 10 maggio 2014: «Per educare un figlio ci vuole un intero villaggio», e dobbiamo aggiungere: «non solo ci vuole tanta gente, ci vuole un’alleanza tra questa gente».39 Tale relazione educativa, infatti, non può ridursi a «interventi puramente funzionali e frammentari», ma «esige un rapporto personale di fedeltà tra soggetti attivi, che sono protagonisti della relazione educativa».40 Si tratta di una relazione che, pur rimanendo asimmetrica, richiede di essere attuata come incontro di libertà, dentro un clima di gratuità e reciprocità: Entrambi sono chiamati a mettersi in gioco, a correggere e a lasciarsi correggere, a modificare e a rivedere le proprie scelte, a vincere la tentazione di dominare l’altro. Il processo educativo è efficace quando due persone si incontrano e si coinvolgono profondamente, quando il rapporto è instaurato e mantenuto in un clima di gratuità oltre la logica della funzionalità, rifuggendo dall’autoritarismo che soffoca la libertà e dal permissivismo che rende insignificante la relazione. È importante sottolineare che ogni itinerario educativo richiede che sia sempre condivisa la meta verso cui procedere.41

Si pone quindi l’esigenza che l’alleanza tra le figure educative si traduca anche in una «condivisione dei significati elementari della vita iscritti nelle forme della vita comune»,42 a cominciare dal confessare che la vita riuscita è quella che, attraverso lo sviluppo armonioso della persona in tutte le sue dimensioni, porta a riconoscere in modo grato il debito

38   Benedetto XVI, Discorso alla 61a Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana; CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 9. 39   Angelini, «Per educare un figlio ci vuole un villaggio», 559. 40  Cf. CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 26. 41   Ivi, n. 29. 42   Ib.

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alla vita che ci è stata trasmessa, per sceglierla come cosa buona per sé e viverla nell’amore come dono di sé.

3.3. Stretta

connessione tra metodo e formazione della coscienza personale 43

Proprio per raggiungere questo sviluppo armonioso di tutta la persona occorre che nella relazione educativa si verifichi una stretta connessione tra il metodo e la formazione della persona, tra la didattica e la fondazione dei concetti e delle operazioni dell’azione formativa. Su questo punto ha offerto un contributo originale e imprescindibile il filosofo Bernard Lonergan. Egli sostiene che il metodo educativo risponde all’esigenza di formare la coscienza umana solo se ne rispetta l’integralità strutturata (sperimentare, comprendere, giudicare, scegliere, amare, creare) e la dinamica verso l’autotrascendenza (ossia la conversione tridimensionale: intellettuale, morale e religiosa).44 L’azione educativa, quindi, deve partire non in maniera deduttiva, ma dall’esperienza concreta della vita quotidiana (sperimentare) e dal linguaggio simbolico che la caratterizza, per poi favorirne l’intelligenza riflessa (comprendere) con la maturazione del giudizio morale (giudicare) che orienta l’agire (scegliere) e che muove nella direzione di un amore creativo (amare e creare).45

  Per le riflessioni che seguono sono debitore a P. Triani, Il dinamismo della coscienza e la formazione. Il contributo di Bernard Lonergan ad una «filosofia» della formazione, Vita e Pensiero, Milano 1998. 44   Bernard J.F. Lonergan, gesuita, teologo dell’Università Gregoriana di Roma, nel 1959 tenne delle lezioni a un seminario organizzato dalla Xavier University di Cincinnati (USA). In esse pose le basi per un ripensamento del modello cattolico di educazione, mettendosi in dialogo con le principali correnti di pensiero del proprio tempo: il pragmatismo (Dewey), la fenomenologia (Husserl), l’esistenzialismo (Heidegger) e il neopositivismo logico (Wittgenstein). Cf. in particolare B.J.F. Lonergan, Sull’educazione. Le lezioni di Cincinnati (1959) sulla «Filosofia dell’Educazione», Città Nuova, Roma 1999; Id., Comprendere ed essere, Città Nuova, Roma 1993; Id., Il metodo in teologia, Queriniana, Brescia 1975. 45   Sottolineando la fecondità di questa prospettiva di Lonergan, che ha come obiettivo la maturazione di una personalità umana integrale, ma che parte dal basso dell’esperienza umana e non in maniera deduttiva, il prof. Boschini afferma: «L’educazione principia dal­ l’esperienza e si concepisce come una costruzione dal basso, che dà valore a tutto ciò che è umano: il senso comune, la mitologia, il pensiero riflesso. […] Siamo già entrati in una fase nuova della cultura e della società in cui i processi di globalizzazione, meticciato e digitalizzazione sconvolgono, disorientano e forse vanificano le nostre buone pratiche educative. Sono convinto – anche per ragioni legate alla mia esperienza educativa – che la valorizzazione del senso comune e l’interpretazione simbolica della vita quotidiana siano al momento l’approccio più efficace. Anche per costruire, intorno a un modello convincente e efficace, luoghi educativi in cui possano realizzarsi relazioni che mirano alla crescita e alla felicità delle persone di qualunque età» (P. Boschini, Persona ed educazione. Il pensiero cristiano contemporaneo tra Maritain e Lonergan [a 50 anni dalla Gravissimum educationis], lezioni tenute all’IRC di Modena il 26.2.2016). 43

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Luciano Luppi L’azione educativa che ha a cuore l’uomo nella sua integralità deve accompagnare il soggetto nella crescita di tutte queste operazioni. Infatti se ci si limita al far fare esperienze si ha l’esperienzialismo; se si sottolinea solo il comprendere si ha l’intellettualismo; se si danno solo giudizi invitando le persone ad assumerli come veri si ha il moralismo; se si insiste solo sulla scelta si ha il volontarismo; se si opera enfatizzando il livello dell’amare, separato dagli altri, si ha il sentimentalismo.46

Le dimensioni dell’educare si tengono dunque tutte insieme, ma non è sufficiente che i dinamismi e i processi coscienziali siano promossi: occorre che la persona se ne appropri. È attraverso un’auto-appropriazione della propria vita coscienziale che il soggetto può conoscere in modo più profondo se stesso e il mondo e così risignificarsi più intensamente; è attraverso questa strada che il soggetto può passare da una formazione subita a una formazione «scelta». L’auto-appropriazione muove il soggetto a una costante tensione formativa; infatti, osserva Lonergan, «il soggetto che si auto-appropria scopre che, oltre all’uomo che egli è, c’è anche l’uomo che egli è impegnato a essere».47

Promuovendo questa auto-appropriazione la persona è aiutata a uscire da se stessa, cioè ad attuare la sua autotrascendenza costitutiva, in quanto l’essere umano tende naturalmente al vero, al buono, all’amabile. Ma il suo cammino è sottoposto a errori, blocchi, deformazioni, perciò, affinché il processo formativo possa attuarsi e consolidarsi, per Lonergan è necessaria una conversione tridimensionale: «È intellettuale in quanto riguarda il nostro orientamento verso l’intelligibile e il vero. È morale in quanto riguarda il nostro orientamento verso il bene. È religiosa in quanto riguarda il nostro orientamento verso Dio». La conversione intellettuale comporta il superamento della confusione tra il «vedere» e il «capire», tra i criteri del mondo dell’immediatezza e i criteri del mondo del significato. La conversione morale si caratterizza per un agire motivato non più dal solo bene individuale, ma dai valori. La conversione religiosa consiste «nell’essere presi da ciò che tocca assolutamente. È innamorarsi in maniera ultramondana. È consegnarsi totalmente e sempre senza condizioni, restrizioni, riserve».48

3.4. Iniziare

alla vita nello

Spirito

Riscoperti questi elementi costitutivi per una grammatica dell’educare – il legame con il generare e il senso originario dell’autorità; la centralità della relazione educativa «io», «tu», «noi»; la stretta connessione tra metodo e formazione della coscienza personale nella sua integralità strutturata e nella sua dinamica autotrascendente – si impone ora una riflessio-

  Triani, «Impegno educativo della comunità cristiana», 52.   Ivi, 52-53. 48   Ivi, 53. 46 47

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ne sulla formazione cristiana che si caratterizza come iniziazione alla vita nello Spirito. Questo compito è ancora più necessario per il fatto che l’intima e positiva connessione tra processi educativi e professione di fede non è scontata nel sentire comune e talvolta nemmeno negli ambiti educativi cattolici. Ne sono un segnale eloquente il fatto che spesso la fede viene esclusa dal dibattito pubblico se non addirittura intesa come ideologia potenzialmente intollerante. Da ciò consegue che un’esistenza posta coerentemente sotto il segno della fede viene stigmatizzata e rimossa, mentre vengono considerate autorevoli figure della coscienza profondamente ambigue: dall’ateismo devoto alla religione civile, dal cristianesimo adulto al bricolage religioso, dalla dipendenza chiromantica alla magia professionale.49 Proprio la prospettiva di un corretto rapporto e un dialogo fecondo tra il libro della natura e il libro della rivelazione ci permette di cogliere come la trasmissione della fede si innesti dentro la dinamica stessa della relazione generativa e educativa genitori/figlio. Tale relazione «mostra un’innegabile consistenza religiosa; nel senso che essa è esperienza che porta alla luce l’origine trascendente della vita umana»50 e dischiude la promessa che fa crescere. Quel che fa crescere – scrive Angelini – è la promessa di Dio; è quindi – in maniera subordinata – tutto ciò che attesta quella promessa. Ora chi attesta questa promessa sono innanzitutto i genitori; essi lo fanno, in prima battuta, in maniera necessaria, sia che lo vogliano sia che non lo vogliano. In seconda battuta tuttavia debbono volerlo. E non possono volerlo se non a questa precisa condizione, che essi confessino quella grazia di Dio che fin dall’inizio ha permesso loro di realizzare efficacemente l’attestazione della promessa grandiosa di Dio ai loro figli.51

Nel costituirsi di una personalità cristiana assumono quindi un’importanza decisiva le relazioni familiari che pongono le prime basi di quel­ l’espe­rienza dell’amore affidabile di Dio che poi i cammini formativi ecclesiali sviluppano, favorendo la crescita di una personalità credente in tutte le sue dimensioni, in un processo che permette di fare propria l’espe­ rienza iniziale di Dio in maniera riflessa e consapevole, e porta a maturare giudizi e scelte credenti nella direzione del dono libero e creativo di sé. Tutto questo avviene nello sviluppo del dinamismo teologale della fede, speranza e carità innestato dallo Spirito e nell’assimilazione progressiva dei movimenti spirituali fondamentali. Innanzitutto lo Spirito grida in noi: «Kyrie» nei confronti di Gesù (cf. 1Cor 12,3), cioè ci fa riconoscere in Gesù il Signore, colui nel quale Dio ci raggiunge, ci interpella e si offre a noi come promessa affidabile di pienezza della nostra vita. Si

49   Cf. P. Zini, «Il divorzio tra fede e cultura», in Bozzolo – Carelli (a cura di), Evangelizzazione e educazione, 317. 50   Angelini, «L’educazione è ancora una questione?», 88. 51   Ivi, 64.

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tratta di una professione di fede (cf. Fil 2,9-11), il riconoscimento che davvero nella persona di Gesù di Nazaret è Dio stesso che risponde alla sete di verità, di bellezza, di bontà, di autenticità che c’è nel cuore umano e vi risponde in una maniera sorprendente, gratuita e sovrabbondante: la promessa della vita buona del vangelo. Lo stesso Spirito, che è appunto lo Spirito del Figlio, grida in noi: «Abbà, Padre» (cf. Rm 8,15-16 e Gal 4,6), cioè ci fa entrare in una dinamica filiale nei confronti di Dio, a partire proprio dalla comunione con Cristo, dinamica filiale che ci fa affrontare la vita dentro un orizzonte di provvidenza e di affidamento, che va al di là dell’evidenza razionale e della verifica sperimentale immediata. Da qui si apre, sempre ad opera dello Spirito e all’interno della comunità credente, un terzo movimento fondamentale: il senso di responsabilità – cioè insieme risposta a un dono e un prendersi cura – nei confronti della propria vita, degli altri riconosciuti non più estranei ma fratelli, della fraternità ecclesiale e della stessa casa comune, che è la vita sociale e l’intera creazione. Educare alla vita nello Spirito è iniziare a vivere questi tre movimenti dello Spirito come esperienza significativa che la Parola insieme innesta e permette di comprendere, e diviene progressivamente capacità di giudizio e di discernimento, per orientare a un agire improntato al dono di sé nell’amore e quindi a un operare creativo nella storia. È l’esperienza cristiana, che progressivamente dà forma e unifica l’esistenza in Cristo, attraverso un’adesione non solo intellettuale e morale, ma anche affettiva.

4. Lo

stile educativo : per un ’ azione ecclesiale che evangelizzando educhi e educando evangelizzi

Il documento Educare alla vita buona del Vangelo invita a verificare gli itinerari formativi – in particolare l’iniziazione cristiana, i percorsi di vita buona secondo i cinque ambiti del Convegno ecclesiale di Verona – e a valorizzare i luoghi/soggetti più significativi, favorendo l’alleanza educativa tra famiglia, comunità ecclesiale e società, e investendo energie nella formazione degli educatori a ogni livello.52 È significativo che invece la traccia preparatoria del Convegno ecclesiale di Firenze, quando tratta dell’educare – uno dei cinque verbi programmatici insieme a uscire, annunciare, abitare e trasfigurare – in realtà invita poi a verificare il concreto stile della Chiesa. In effetti, lo stile è più che gli itinerari formativi, non perché non si debba lavorare a predisporre concreti cammini, ma perché tali itinerari sono autentici e davvero for-

  Cf. CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, nn. 54-55.

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mativi solo se sono espressione di uno stile che accompagna tutto l’agire ecclesiale. Potremmo tradurre così questa preminenza data allo stile ecclesiale: si tratta di fare in modo che la Chiesa, alla scuola di Gesù, evangelizzando educhi e educando evangelizzi. Evangelizzare altro non è che condurre la persona in tutte le sue dimensioni a fare esperienza della verità, della bellezza, della bontà della sua vita e dell’agire creativo che sperimenta quando si apre all’amore di Dio in Cristo. Dunque una Chiesa che evangelizzando educhi, ma anche che educando evangelizzi: l’azione educativa, infatti, va svolta sempre dentro questo orizzonte di una buona notizia sulla vita, e rimanda necessariamente a quella relazione affidabile, e davvero capace di trasfigurare l’esistenza, che si attua nella fede. Su questa linea ci limitiamo qui a richiamare quattro passi a mo’ di abbozzo.

4.1. Primo passo: partire dalla fede nella forza della P arola

Credere nella forza della parola di Dio. Non possiamo negare che il post-concilio ha significato per il popolo di Dio anche la fine dell’«esilio della Parola». Lo attestano la diffusione della lectio divina e delle scuole della Parola, una predicazione più biblica, una maggiore abbondanza di nutrimento delle sacre Scritture nella celebrazione dei sacramenti e attraverso il ciclo triennale delle letture domenicali. Si tratta però di mantenere viva e operante la coscienza della forza della Parola, che cioè le sacre Scritture sono parole ispirate da Dio. Crediamo quindi che lo Spirito Santo abbia assistito tutto il processo con cui la Parola è arrivata fino a noi all’interno del popolo dell’alleanza, e quindi i libri sacri ci consegnino in maniera certa le verità necessarie alla nostra salvezza. Ma affermare che le Scritture sono ispirate vuol dire anche un’altra cosa, quella che noi confessiamo nella liturgia, quando al termine della proclamazione della lettura si acclama: «Parola di Dio!», «Parola del Signore!». Con ciò si intende dire che nella liturgia, quando vengono proclamate le sacre Scritture, è Dio stesso che ci parla e si rivolge oggi a noi, come quando il profeta gridava: «Oracolo del Signore!». Ma credere che la Parola sia ispirata vuol dire anche che quella Parola non solo sia fatta per raggiungere me qui e adesso, come tutti gli uomini e tutta la storia e tutte le culture, ma abbia bisogno di me, di tutti gli uomini, di tutte le culture per svelare e dispiegare fino in fondo tutta la sua ricchezza. Educare a questo rapporto di fede con la Parola significa quindi far incontrare la nostra storia personale con la storia salvifica testimoniata dalle sacre Scritture. È questa storia, che culmina in Gesù Cristo e che si prolunga nel suo corpo che è la Chiesa, il luogo originario, sorgivo e normativo dello stile ecclesiale, luogo di grazia che ci è dato perché le nostre

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storie siano continuamente rivisitate, illuminate, guarite e capaci di generare una storia nuova. E tutto questo può avvenire solo in una piena comunione ecclesiale, perché solo ricevendo la parola di Dio come sulle ginocchia della Chiesa possiamo evitare di cadere in una lettura puramente proiettiva, che ingloberebbe tutto dentro la propria storia, senza lasciarla salvare. Sempre consapevoli che la parola del Signore non smette di incalzarci e continuamente ci trascende, ci supera. D’altra parte «non ci viene chiesto di essere immacolati, ma piuttosto che siamo sempre in crescita, che viviamo il desiderio profondo di progredire nella via del vangelo, e non ci lasciamo cadere le braccia».53

4.2. Secondo passo: iniziare al discernimento

Un secondo tratto che deve caratterizzare lo stile ecclesiale è il discernimento. Sappiamo bene come nel Nuovo Testamento, e in particolare nelle lettere di san Paolo, se ne sottolinei l’importanza. Basti pensare all’invito di Rm 12,1-2, che introduce tutta la parte parenetica della lettera, e a Fil 1,9-10, in cui il discernimento viene indicato come il frutto della carità matura e uno dei segni della sua autenticità. Sappiamo che il cristianesimo non è la religione della Legge e delle osservanze, ma dell’ascolto della voce dello Spirito e dei suoi desideri, che si contrappongono a quelli dell’uomo vecchio che vive secondo la carne, nell’illusione orgogliosa di bastare a se stesso, finendo per vivere egoisticamente solo per se stessi. Ascoltare e riconoscere la voce dello Spirito non solo per distinguere il male dal bene, ma anche discernere all’interno del bene ciò che meglio testimonia la differenza cristiana e che viene riconosciuto come il proprio appello personale o comunitario da parte di Dio. Si tratta di un discernimento di ciò che si muove nel cuore dell’uomo, ma che conduce a imparare a discernere ciò che avviene nella storia, nel concreto delle vicende e delle situazioni personali e comunitarie. Tutto questo credendo nella forza illuminante della Parola, che permette di riconoscere nella storia la presenza operante di Dio e i suoi appelli, e nella viva consapevolezza che la Parola stessa cresce nella sua comprensione proprio a contatto con la vita. Di conseguenza occorrerà mettere in atto dei processi educativi che aiutino a sviluppare la vita interiore e insegnino a pensare criticamente alla luce del vangelo, offrendo percorsi di maturazione di scelte autenticamente cristiane, tutto il contrario di un’educazione che tranquillizzi e trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi.54

53   Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale (24.11.2013), n. 151: EV 29/2257. 54  Cf. Evangelii gaudium, nn. 60.64: EV 29/2166.2170.

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4.3. Terzo passo:

incoraggiare all ’ autenticità come fedeltà creativa

Come già è stato accennato, educare alla vita nello Spirito è educare a riconoscere che c’è una parola e un appello particolare di Dio: in mezzo a realtà e situazioni che sono quelle di tutti, il Signore invita a mettersi in gioco personalmente. Lo attestano le multiformi testimonianze di santità della storia della Chiesa, che come tali non sono deducibili a priori né preventivabili, ma sempre risposte all’insegna di una fedeltà creativa al vangelo. Lo esige anche la cultura contemporanea, segnata da una grande enfasi sull’«autenticità», «che consiste nel desiderio di vivere la propria vita in maniera originale e non convenzionale, di esprimere ed essere sempre se stessi, evitando la pura conformità a un’istituzione o alla tradizione».55 Educare alla vita dello Spirito, infatti, non è costringere a forza le persone a entrare dentro copioni o cliché standard, ma educare a mettersi sinceramente in ascolto di se stessi, della storia e degli altri, soprattutto i poveri, nella docilità alla parola di Dio, che mi raggiunge concretamente dentro una precisa tradizione ecclesiale. E così riconoscere la voce e l’appello personale di Dio.56 Infatti, la Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere. Il vangelo parla di un seme che, una volta seminato, cresce da sé anche quando l’agricoltore dorme (cf. Mc 4,26-29). La Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi.57

4.4. Quarto passo: comunicare la fede in forma narrativa

Alla luce di questi primi tre passi si comprende bene che la trasmissione della fede non può avvenire in maniera puramente nozionistica o devozionale, ma solo per via del contagio testimoniale, ossia attraverso l’incontro con persone che incarnino in un’autentica esistenza credente il vangelo che intendono comunicare. Tutto ciò risulta davvero irrinunciabile soprattutto nel nostro tempo, in cui la progressiva secolarizzazione

55   A. Toniolo, «La questione educativa e la crisi di trasmissione della fede», in Id. (a cura di), Il senso dell’educazione nella luce della fede, 52. 56   Per approfondire questo rapporto tra libertà e verità, tradizione e identità personale, cf. R. Tommasi, «I nodi dell’educazione in prospettiva pastorale», in Toniolo (a cura di), Il senso dell’educazione nella luce della fede, 126-128. 57   Evangelii gaudium, n. 22: EV 29/2128.

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e il crescente pluralismo religioso rendono inadeguato un cristianesimo solo di tradizione. Va ricordato, infatti, secondo A. Toniolo, che «la fede cristiana e la sua comunicazione hanno una modalità unica, propria, originale, uno stile inconfondibile […] non può che riflettere, ricalcare […] lo stile con cui Dio Padre ha rivelato se stesso agli uomini nel Figlio, e grazie allo Spirito li ha resi partecipi della propria vita divina». E precisa: «La Dei Verbum n. 2 tratteggia in maniera esemplare i tratti propri della comunicazione di Dio agli uomini: la gratuità, il dono di sé (non di qualcosa), l’ospitalità (invito a far parte della propria vita), il linguaggio di amicizia, l’intreccio di parola e storia (gestis verbisque), la centralità di Cristo».58 Ritroviamo qui un passo fondamentale della trasmissione della fede, in cui si sperimenta il «concerto» non scontato – e non deducibile senza la rivelazione biblica – tra il libro della creazione e quello delle sacre Scritture. È quanto già aveva sostenuto F.G. Brambilla nella sua relazione al Convegno ecclesiale di Verona del 2006, parlando di «esercizio» – sinonimo di stile – della vita cristiana: La testimonianza come «esercizio» significa che la vita cristiana è un agire che sa assumere le forme della vita umana come un alfabeto in cui dirsi e in cui realizzarsi. Sarebbe un’interpretazione fuorviante immaginare che il «mondo», presente nel motto di Verona, sia solo lo scenario passivo di un’azione di salvezza che il credente opera in favore d’altri. Il «mondo», quando si riferisce ai modi con cui l’uomo d’oggi desidera, soffre, lotta, sogna, ama e spera, è l’alfabeto dell’annuncio del vangelo. Allo stesso modo con cui le parabole hanno offerto una similitudine del Regno di Dio a partire dalle forme dell’umana esperienza. Gesù ha abitato lo scenario di Nazaret e della Galilea per trenta lunghissimi anni, immergendosi nei linguaggi umani, perché in soli tre anni quelle esperienze e quei linguaggi potessero quasi lievitare, anzi esplodere per dire l’evangelo di Dio. In fondo si tratta di ricuperare in modo corretto il rapporto tra creazione e salvezza, tra mondo e Chiesa, non solo come tema teorico, ma come «incontro vitale» tra l’esistenza umana e la sapienza di Dio. Questo incontro è pertanto un esercizio, un mettersi in gioco tra il testimone e il destinatario, perché diventi a sua volta testimone. Il cristianesimo come «esercizio» significa che l’agire del credente non è tanto un «mettere in pratica» ciò che è già saputo nel limbo di una presunta fede disincarnata, ma avviene nello scambio reale delle forme pratiche della vita con il lievito del vangelo di Gesù. Perciò la testimonianza si esprime in un racconto, cioè nella narrazione di un evento che viene trasmesso ad altri attraverso la mediazione del testimone che chiama il destinatario a consegnarsi non al testimone, ma alla verità del Dio di Gesù. Non è un caso che il vangelo di Gesù abbia assunto la forma di un racconto e anche la stessa professione di fede (kérygma) deve sempre mediarsi in un racconto se non vuole decadere in dottrina ideologica.59

Solo un’azione educativa che risponda coerentemente a questo stile narrativo – gestis verbisque – rispetta pienamente la grammatica educati-

58 59

 Toniolo, «La questione educativa e la crisi di trasmissione della fede», 53-54.  F.G. Brambilla, «Per una Chiesa tutta pasquale», in Il Regno-doc 51(2006)19, 616.

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Nuovo umanesimo e sfida educativa

va e permette di coniugare in maniera adeguata evangelizzazione e educazione: uno stile che evangelizzando educhi e educando evangelizzi.

Bibliografia Angelini G., Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano 1991. —, Educare si deve, ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002. —, «L’educazione cristiana. Congiuntura storica e riflessione teorica», in La Rivista del Clero italiano 90(2009), 516-534. —, «Per educare un figlio ci vuole un villaggio», in La Rivista del Clero italiano 95(2014), 545-560. Benasayag M. – Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004. Bozzolo A. – Carelli R. (a cura di), Evangelizzazione e educazione (Nuova Biblioteca Scienze Religiose 32), LAS, Roma 2011. Fumagalli A., «La formazione fragile. Ipotesi sull’attuale crisi delle scelte di vita», in La Rivista del Clero italiano 95(2014), 258-275. Guardini R., Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia 1987. Lonergan B.J.F., Sull’educazione. Le lezioni di Cincinnati (1959) sulla «Filosofia dell’Educazione», Città Nuova, Roma 1999. Luppi L., «Le dinamiche della scelta (lettura teologica)», in G.P. Cassano (a cura di), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, Portalupi, Casale Monferrato 2007, 385-414. Maritain J., L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1981. Pietropolli Charmet G., Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, Roma-Bari 82010. Toniolo A. (a cura di), Il senso dell’educazione nella luce della fede, Messaggero-Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2011, 61-88. Triani P., Il dinamismo della coscienza e la formazione. Il contributo di Bernard Lonergan ad una «filosofia» della formazione, Vita e Pensiero, Milano 1998. —, (a cura di), Educare, impegno di tutti. Per rileggere insieme gli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana 2010-2020, AVE, Roma 2010. Triani P. – Valentini N. (a cura di), L’arte di educare nella fede. Le sfide culturali del presente, Messaggero, Padova 2008.

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«Ecologia umana»: una risorsa per evangelizzare l’umano

Federico Badiali

Passando in rassegna gli ingredienti fondamentali per un’ecologia integrale, papa Francesco, nel quarto capitolo della Laudato si’,1 utilizza a più riprese un’espressione che ha accompagnato, fin dai suoi inizi, il magistero pontificio sulla custodia del creato. Oltre che di ecologia ambientale, economica, sociale e culturale, papa Francesco, in questa sezione della sua enciclica, parla, infatti, anche di ecologia della vita quotidiana e, proprio a questo proposito, introduce la nozione di «ecologia umana», intendendo con essa sia un modo autenticamente umano di abitare (n. 148), sia la relazione che l’uomo è chiamato a intrattenere con la legge morale iscritta nella sua natura (n. 155), sia, infine, il rispetto che egli deve avere nei confronti della propria corporeità (n. 155). I reiterati riferimenti di papa Francesco al tema dell’ecologia umana e la complessa polisemia di questa espressione ci sollecitano, da una parte, a ricostruirne il retroterra magisteriale e, dall’altra, a metterne a fuoco il significato profondo. Con questo contributo ci proponiamo, quindi, prima di tutto, di prendere in esame quanto i singoli pontefici, negli ultimi quarant’anni, hanno insegnato su questa materia, per poi evidenziare i punti di convergenza di questo articolato insegnamento, al di là di quelli che possono risultare semplici dettagli o elementi transitori. Ci chiederemo, infine, se questa ricca riflessione magisteriale sull’ecologia umana possa rappresentare una risorsa per l’oggi, soprattutto in ordine all’evange-

1  Cf. Francesco, lettera enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune (24.5.2015): http: //w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524 _enciclica-laudato-si.html – sito visitato l’8.3.2016.

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lizzazione dell’umano. In altre parole, vorremo verificare, da una parte, se questa categoria può essere d’aiuto all’antropologia teologica nel suo sforzo di comprendere sempre meglio il mistero della persona umana alla luce dell’esperienza e della rivelazione e, dall’altra, se tale riflessione è in grado di offrire qualche indicazione pratica, capace di orientare la nostra missione evangelizzatrice nei confronti dei nostri contemporanei, in modo da far risuonare, in maniera sempre più efficace, quella buona notizia che anche oggi il vangelo vuole proporre all’uomo e sull’uomo.

1. Paolo VI:

ecologia umana come igiene del cuore

Il tema dell’ecologia fa capolino per la prima volta, in maniera esplicita, in un documento pontificio il 16 novembre 1970.2 In quella data Paolo VI fa visita alla FAO, in occasione del venticinquesimo anniversario della sua istituzione. Di fronte all’impegno prodigato da questa organizzazione per combattere la fame nel mondo, il pontefice, da una parte, riconosce che gli interventi umani sull’agricoltura stanno sortendo risultati davvero insperati, quasi messianici, ma, dall’altra, denuncia le loro ripercussioni nefaste – già visibili – sull’ambiente. Tali interventi, infatti, possono condurre a una vera e propria «catastrofe ecologica», dal momento che «tutto è organicamente inglobato». A fronte di ciò, l’unica pista percorribile è quella di «un mutamento radicale nella condotta dell’umanità». Se fino a ora l’uomo ha dominato la terra, «adesso è venuta per lui l’ora di dominare il suo stesso dominio». Il papa, infatti, è convinto del fatto che «i progressi scientifici più straordinari, le prodezze tecniche più strabilianti, la crescita economica più prodigiosa, se non sono congiunti a un autentico progresso sociale e morale, si rivolgono, in definitiva, contro l’uomo». Per evitare che questo avvenga, l’uomo è chiamato a costruire il proprio benessere non contro l’altro uomo, ma con lui e per lui, per il fatto che, di giorno in giorno, diviene sempre più evidente la reciproca interdipendenza tra gli esseri umani. È sorprendente notare che, immediatamente dopo aver fatto il suo ingresso nel lessico magisteriale, il termine «ecologia» sia utilizzato da Pao­ lo VI non solo in senso proprio, in relazione, cioè, a tutti quegli sforzi tesi a salvaguardare l’ambiente naturale, ma anche – anzi soprattutto – in senso traslato. Nell’udienza generale del 31 marzo 1971, ad appena qualche mese dal suo intervento alla FAO, Paolo VI parla, ad esempio, di «ecologia morale»,3 intendendo, con questa espressione, la cura per l’ambiente

2  Cf. Paolo VI, Discorso in occasione del 25° anniversario della FAO (16.11.1970): Insegnamenti [d’ora in poi Ins.] VIII(1970), 1143-1153. 3   Paolo VI, Udienza generale (31.3.1971): Ins. IX(1971), 242. Sul medesimo concetto, cf. anche Id., Regina coeli (18.4.1971): Ins. IX(1971), 309-310.

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«dove l’uomo vive da uomo e da figlio di Dio». Dicendo questo, il papa invita i credenti a guardarsi da tutte quelle sollecitazioni, provenienti dalla società in cui vivono, che li possono ostacolare nel loro cammino di fede. In occasione della festa della Sacra Famiglia del 1971, Paolo VI auspica che vi sia anche per la famiglia una forma di ecologia, che garantisca ai figli il «diritto di vivere in un ambiente sano, non inquinato dalle seduzioni d’una licenziosa immoralità».4 L’8 dicembre 1972 il pontefice parla di «“ecologia” della nostra civiltà»,5 includendo in questa espressione «la verità dell’amore, l’integrità della famiglia, la nobiltà dello spettacolo, la moralità della vita collettiva», tutte dimensioni che corrispondono a quell’ideale di umanità che risplende in Maria Immacolata e che ci incoraggia a non cedere di fronte al nostro ambiente «tanto inquinato di licenzioso costume e di vizio degradante e procace». Preparando i fedeli alla celebrazione dell’Anno santo del 1975, Paolo VI fa riferimento alla necessità di un’«ecologia del costume»,6 intesa, in negativo, come il baluardo da erigere contro quella mentalità relativista che genera la decadenza del senso morale e, in positivo, come lo strumento di cui servirsi per attuare quel rinnovamento cristiano cui mira l’evento giubilare. Infine, sempre in relazione alla realizzazione del programma dell’Anno santo, Paolo VI fa riferimento alla necessità di un’ecologia dei mezzi di comunicazione sociale, per realizzare la quale occorre domandarsi: «Sono mezzi sani, moralmente igienici quelli che circolano nei nostri ambienti? O non sarebbe la diffusione malsana di certe espressioni di questi mezzi stessi che, invece di promuovere la formazione ideale dell’uomo, lo avviliscono e lo guastano?».7 L’introduzione, all’interno del lessico magisteriale, dell’espressione «ecologia umana» si colloca in continuità proprio con questo uso traslato del termine «ecologia», ampiamente attestato nel magistero di Paolo VI. Il contesto all’interno del quale il pontefice utilizza per la prima volta questa espressione è, ancora una volta, quello della preparazione al giubileo del 1975. Nell’udienza del 7 novembre 1973,8 Paolo VI afferma che, per conseguire in maniera autentica quel rinnovamento e quella pacificazione che l’Anno santo propone ai credenti, bisogna riuscire a toccare il loro cuore, ossia «la sorgente degli istinti, dei pensieri, e soprattutto delle azioni dell’uomo». Il papa mostra di essere perfettamente consapevole del fatto che il raggiungimento di tale obiettivo non è per nulla scontato, non solo per la tendenza, piuttosto diffusa nell’uomo contemporaneo, a vivere in maniera superficiale, ma anche a causa di tutti quei condizionamenti esterni che contribuiscono a rendere ancora più ardua l’impresa. Afferma, a questo proposito, Paolo VI:

  Paolo VI, Angelus (26.12.1971): Ins. IX(1971), 1158.   Paolo VI, Angelus (8.12.1972): Ins. X(1972), 1251. 6   Paolo VI, Udienza generale (19.9.1973): Ins. XI(1973), 858. 7   Paolo VI, Regina coeli (26.5.1974): Ins. XII(1974), 507. 8  Cf. Paolo VI, Udienza generale (7.11.1973): Ins. XI(1973), 1054-1056. 4 5

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Federico Badiali Non possiamo tacere il nostro doloroso stupore per l’indulgenza, anzi per la pubblicità e la propaganda, oggi tanto ignobilmente diffusa, per ciò che conturba e contamina gli spiriti, con la pornografia, gli spettacoli immorali e le esibizioni licenziose. Dov’è l’«ecologia» umana?

Letta all’interno del suo contesto, questa espressione vuole indicare quell’igiene del cuore che costituisce il presupposto imprescindibile affinché si possa «portare il rinnovamento e la pacificazione, giù, nel centro della nostra coscienza personale». Sebbene, in tutto il suo magistero, Paolo VI parli solo in questa occasione di «ecologia umana», dobbiamo riconoscere che esiste un profondo legame, non solo dal punto di vista della forma, ma anche del contenuto, tra questa espressione e tutte quelle «ecologie del genitivo» proposte dal pontefice all’interno del suo magistero. Quando parla di ecologia morale, di ecologia della famiglia, di ecologia della civiltà, di ecologia del costume, di ecologia dei mezzi di comunicazione, così come quando parla di ecologia umana, Paolo VI non fa altro che richiamare i credenti all’urgenza di un loro profondo rinnovamento spirituale, per tenere testa alla diffusione di modelli etici fortemente contrastanti con gli ideali evangelici, propagandati dalla società e dai mass media, che mietono vittime soprattutto all’interno della famiglia cristiana. Per contestualizzare ulteriormente l’espressione «ecologia umana» può essere d’aiuto prendere coscienza del fatto che, all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, non è solo Paolo VI a utilizzare in senso traslato il termine «ecologia» e non è solo lui a dar vita a «ecologie del genitivo», ma il suo contributo si inserisce su di un sentiero ampiamente battuto. L’esempio più emblematico è senza dubbio quello rappresentato da Gregory Bateson,9 che nel 1972 pubblica Steps to an Ecology of Mind, tradotto in italiano nel 1977 per i tipi di Adelphi. Con «ecologia della mente» Bateson intende la disciplina che studia le interazioni esistenti tra le idee, le informazioni e i modelli presenti nelle cose, sulla base del presupposto che la mente è un ecosistema, al pari di quelli naturali. Bateson utilizza per la prima volta l’espressione «ecologia della mente» nel gennaio 1970,10 in una conferenza su «Forma, sostanza e differenza», nella quale egli espone l’intuizione su cui si fonda tutto il suo volume. Bateson è convinto che la natura sia un sistema unitario, cibernetico e autocorrettivo, a cui fa capo una «mente» immanente, identificabile con l’insieme degli elementi comuni a cui pervengono le diverse discipline e che, per questo motivo, non può essere oggetto di alcuna disciplina particolare. È evidente che una simile concezione della mente riduce notevolmente l’ambito dell’io conscio, per cui richiede al soggetto una certa dose di umiltà, ma, al tempo stesso, lo inserisce all’interno di un contesto decisamente più

9  Cf. M. Bastianelli, «Bateson, Gregory», in V. Melchiorre (dir.), Enciclopedia filosofica, 12 voll., Bompiani, Milano 2006, II, 1090. 10  Cf. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2013, 502-503.

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esteso della sua semplice soggettività. Chi rivendica per sé «tutta la mente», pensa che il mondo circostante sia «senza mente» e che, sulla base di ciò, possa sfruttare indiscriminatamente tutto ciò che lo circonda. Ma un simile atteggiamento non può che portarlo all’autodistruzione, dal momento che le risorse del nostro pianeta non sono illimitate. Occorre, quindi, un nuovo modo di pensare e di porsi di fronte al mondo. Occorre, in altre parole, un’ecologia della mente, che riconosca un logos anche al di fuori del soggetto e interpreti il logos del soggetto nel contesto più vasto dell’ambiente in cui vive.

2. Giovanni Paolo II:

ecologia umana come qualità della vita sociale

Nel suo magistero, Giovanni Paolo II utilizza l’espressione «ecologia umana» in maniera decisamente più abbondante rispetto a quanto non abbia fatto Paolo VI, in almeno una quindicina di occasioni. La prima ricorrenza compare in un discorso da lui tenuto agli agricoltori e agli artigiani di Martina Franca, il 29 ottobre 1989, nel corso della sua visita pastorale a Taranto.11 Il contesto all’interno del quale il papa impiega per la prima volta, dopo un ampio intervallo, l’espressione che stiamo studiando è dunque quello del suo magistero sociale, un dato che rappresenta una costante nel magistero giovanneo paolino. Facendo riferimento alle sfide con cui sono chiamati a misurarsi l’agricoltura e l’artigianato locali, il papa invita i presenti a «conciliare l’economia dello sviluppo con l’ecologia umana, con la qualità della vita». Dall’accostamento di queste due espressioni possiamo dedurre che, per Giovanni Paolo II, ecologia umana e qualità della vita sono due sinonimi, indicanti il criterio che deve guidare lo sviluppo economico di un popolo. Se, infatti, si vuole che esso sia autentico, non si può assumere come suo unico parametro di riferimento la logica del profitto, ma ci si deve lasciar guidare da un ampio spettro di valori. Proseguendo nel suo intervento, il papa viene quindi a indicare i fattori che possono contribuire alla realizzazione di una sana ecologia umana. Il primo di essi è il rispetto degli equilibri ambientali. Nel dire questo, Giovanni Paolo II mostra di essere persuaso del fatto che la qualità della vita umana richiede innanzitutto un ambiente sano e pulito. Ma, perché si possa parlare di ecologia umana in modo integrale, non basta prendere a cuore l’ecologia ambientale. Occorre anche farsi carico della «promozione globale dei valori economici, culturali e morali di un popolo, […] riproposti, redenti e resi armonici mediante la sapienza evangelica». Per

11  Cf. Giovanni Paolo II, Discorso agli agricoltori e agli artigiani riuniti nella Piazza XX Settembre di Martina Franca (29.10.1989): Ins. XII/2(1989), 1098-1101.

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Giovanni Paolo II, quindi, l’ecologia umana è una realtà complessa, come è complessa la persona umana. Per la sua realizzazione devono interagire fra loro diversi fattori, fra i quali il papa inserisce anche la fede, chiamata ad assumere, purificare e integrare valori umani quali l’economia, la cultura e la morale. Nella conclusione del suo intervento, Giovanni Paolo II indica, in negativo, le realtà che costituiscono un ostacolo alla realizzazione di una sana ecologia umana. A questo proposito, egli fa riferimento al consumismo e al secolarismo, in quanto finiscono per deformare quella che è la visione corretta della qualità della vita umana, appiattendola su di una prospettiva meramente materiale. Leggendo i numerosi testi in cui Giovanni Paolo II sviluppa il tema dell’ecologia umana, si ha l’impressione che, ogni volta, egli voglia definire con maggiore accuratezza i parametri che, a seconda delle sfide provenienti dalla storia e dalla società, possono contribuire a realizzare una qualità di vita che sia il più conforme possibile alla dignità della persona umana. Fra tutti i testi di Giovanni Paolo II nei quali ricorre l’espressione che stiamo studiando, ve n’è uno che si distingue dagli altri, sia dal punto di vista della forma, per la sua autorevolezza magisteriale, sia dal punto di vista dei contenuti, per la profondità e l’ampiezza della sua analisi, sia dal punto di vista dell’intenzione dell’autore, in quanto, nei suoi interventi successivi, Giovanni Paolo II farà costantemente riferimento a questo suo testo. Si tratta della Centesimus annus,12 il secondo documento, in ordine cronologico, in cui Giovanni Paolo II affronta il tema dell’ecologia umana. Il papa lo introduce osservando che, tra le problematiche poste dall’attuale modello di sviluppo, non può essere passata sotto silenzio la crisi ecologica (n. 37). Ma, a questo proposito, egli fa notare che essa non è limitata al solo ambiente naturale, ma si estende anche all’ambiente umano (n. 38). E se l’impegno profuso per tutelare l’ambiente naturale non può dirsi affatto sufficiente, quello volto a «salvaguardare le condizioni morali di un’autentica “ecologia umana”» è praticamente nullo, dal momento che nei più sembra addirittura mancare la percezione del problema. Da questa considerazione di carattere introduttivo possiamo già ricavare una prima indicazione: l’appello alla cura per l’ecologia umana appartiene alla sfera dell’etica. L’uomo, infatti, non è l’autore di se stesso, ma si è ricevuto in dono. E questo fatto gli assegna una responsabilità fondamentale, quella di «rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato». Ecologia umana significa, dunque, prima di tutto, il rispetto dell’uomo nella sua struttura ontologica, in ciò che lo rende persona, ossia nella sua «capacità di trascendere ogni ordinamento della società verso la verità e il bene». Avere cura per l’ecologia umana, quindi, non significa altro che mettere ogni uomo nella condizione di poter perseguire quel vero e quel bene per il quale esiste. Ma, per fare questo, bisogna prendere atto che in ogni società esistono delle strutture che facilitano questo

12  Cf. Giovanni Paolo II, lettera enciclica Centesimus annus nel centenario della Rerum novarum (1.5.1991): Ins. XIV(1991)1, 953-1023.

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obiettivo, come ne esistono altre che lo ostacolano, strutture, queste ultime, che il papa non esita a definire «strutture di peccato», espressione che aveva già utilizzato ai paragrafi 36-37 della Sollicitudo rei socialis. Tra le strutture che ostacolano l’uomo nella sua ricerca del bene e del vero, Giovanni Paolo II ricorda la maniera disumana con cui oggi viene progettata la convivenza urbana e viene organizzato il lavoro. Tra le strutture, invece, che contribuiscono alla realizzazione di una sana ecologia umana, il papa cita al primo posto la famiglia fondata sul matrimonio, il progetto col quale un uomo e una donna decidono di legarsi stabilmente l’uno all’altra, nel reciproco dono di sé, aprendosi al dono della vita. Per Giovanni Paolo II la famiglia è la struttura «in seno alla quale l’uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità e al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona» (n. 39). Dietro all’attuale mentalità ostile al­l’istituzione matrimoniale e favorevole alla contraccezione e all’aborto, Giovanni Paolo II vede l’espressione di un sistema socioculturale che riduce la persona a un oggetto, anche a motivo della completa eliminazione di ogni prospettiva trascendente. In ambito economico, tale mentalità trova la sua concretizzazione nel consumismo, che riduce la persona a un produttore o a un consumatore di beni, condannandola all’alienazione. In conclusione, potremmo dire che, per Giovanni Paolo II, prendersi cura dell’ecologia umana significa garantire all’uomo tutte quelle condizioni che gli permettono di «trascendere se stesso e di vivere l’esperienza del dono di sé e della formazione di un’autentica comunità umana, orientata al suo destino ultimo che è Dio» (n. 41). Nel suo magistero successivo, Giovanni Paolo II richiamerà, a seconda dei contesti, questo o quel fattore che contribuisce alla realizzazione di una sana ecologia umana, così com’è stata tratteggiata in questo passaggio della Centesimus annus. A tal fine, è necessario, innanzitutto, garantire un ambiente sano, dal momento che esiste una profonda relazione tra l’uomo e l’ambiente in cui vive.13 Poi occorre prendersi cura dell’uomo, in tutte le sue dimensioni: in primo luogo, della sua dimensione spirituale, ossia del suo inesauribile anelito ad auto-trascendersi; poi della sua dimensione sociale, ossia delle condizioni nelle quali egli abita, lavora, vive i propri affetti, compie la propria maturazione;14 e, infine, della sua

13   Sul nesso fra ecologia ambientale ed ecologia umana, cf. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti all’incontro nell’Ateneo di Riga (9.9.1993), n. 5: Ins. XVI(1993)2, 716-717; Id., Udienza generale (17.1.2001), nn. 3-4: Ins. XXIV(2001)1, 178-179; Id., esortazione apostolica post-sinodale Pastores gregis sul vescovo servitore del vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo (16.10.2003), n. 70: Ins. XXVI(2003)2, 494-495. 14   Sul nesso fra ecologia umana e urbanizzazione, cf. Giovanni Paolo II, Omelia durante la santa messa per i fedeli dell’arcidiocesi di Cuiabá celebrata sulla spianata del «Bairro Morada do Ouro» (16.10.1991), n. 4: Ins. XIV(1991)2, 881-882. Sul nesso fra ecologia umana e lavoro, cf. Id., Discorso al Presidente della Repubblica del Venezuela (5.5.1995), n. 3: Ins. XVIII(1995)1, 1201-1202. Sul nesso fra ecologia umana e famiglia, cf. Id., Discorso ai leaders dei movimenti internazionali pro-vita (15.11.1991), n. 4: Ins. XIV(1991)2, 1160-1161;

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dimensione fisica, ossia della sua vita biologica, dal suo concepimento, fino al suo decesso, soprattutto nelle fasi in cui essa conosce una maggior vulnerabilità.15

3. Benedetto XVI:

ecologia umana come custodia della natura umana

Possiamo pensare che Caritas in veritate n. 51 rappresenti, all’interno del magistero di Benedetto XVI, l’omologo di Centesimus annus nn. 3839 nel magistero di Giovanni Paolo II: un testo di alto profilo magisteriale, che raccoglie al suo interno buona parte delle intuizioni di papa Benedetto sul tema dell’ecologia umana, da lui citato di frequente nei suoi interventi successivi.16 Il contesto all’interno del quale Benedetto XVI, nella sua enciclica, introduce il tema dell’ecologia umana è, per molti aspetti, simile a quello già incontrato nella Centesimus annus. Emerge anche qui la consapevolezza, da parte del pontefice, del fatto che una riflessione sullo sviluppo non può esimersi dal prendere in considerazione le responsabilità che l’uomo ha nei confronti dell’ambiente in cui vive (nn. 48-50). Ma – osserva papa Benedetto al paragrafo 51 della sua enciclica – l’uomo non si può prendere cura dello stato di salute dell’ambiente se contemporaneamente non si prende cura anche dello stato di salute della società in cui vive. Queste due dimensioni sono fra loro interdipendenti: «Ogni lesione della solidarietà e dell’amicizia civica provoca danni ambientali, così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca insoddisfazione nelle relazioni sociali». Rispetto a ciò, la società civile ha come primo obiettivo da raggiungere la diffusione di nuovi stili di vita, «nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e

Id., Discorso ai vescovi dell’Africa incaricati della pastorale familiare (2.10.1992), n. 3: Ins. XV(1992)2, 232; Id., Discorso ai contadini dinanzi al santuario di Maria Santissima della Lode (19.3.1993), n. 7: Ins. XVI(1993)1, 677-678; Id., Discorso ai partecipanti al IV incontro mondiale delle famiglie (25.1.2003), n. 5: Ins. XXVI(2003)1, 110-111. Sul nesso fra ecologia umana e mezzi di comunicazione sociale: cf. Id., Discorso ai partecipanti al convegno su «I diritti della famiglia e i mezzi di comunicazione sociale» (4.6.1993), n. 2: Ins. XVI(1993)1, 1409-1410. 15   Sul nesso tra ecologia umana e difesa della vita, cf. Giovanni Paolo II, Discorso ai leaders dei movimenti internazionali pro-vita, nn. 1-3: Ins. XIV(1991)2, 1158-1160; Id., Discorso ai partecipanti a un incontro promosso in occasione del XXV anniversario dell’enciclica Humanae vitae (26.11.1993), n. 6: Ins. XVI(1993)2, 1367; Id., lettera enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana (25.3.1995), nn. 42-43: Ins. XVIII(1995)1, 654-655; Id., Discorso ai partecipanti al corso del Centro studi e ricerche per la regolazione naturale della fertilità dell’Università cattolica del Sacro Cuore (7.12.1996), n. 2: Ins. XIX(1996)2, 923. 16  Cf. Benedetto XVI, lettera enciclica Caritas in veritate sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità (29.6.2009): Ins. V(2009)1, 1105-1181.

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degli investimenti». La comunità cristiana, da parte sua, è chiamata a collaborare con tutti gli uomini di buona volontà alla realizzazione di questo progetto, facendo sentire la propria voce all’interno del dibattito pubblico, portando in esso la propria specificità, ossia la sua fede nel Dio creatore. Ma l’appello del papa si concentra soprattutto sul rispetto dell’ecologia umana, da cui dipende, a sua volta, anche l’ecologia ambientale, per il fatto che «quando l’“ecologia umana” è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio». Quando Benedetto XVI parla di «ecologia umana», intende «la complessiva tenuta morale della società»: il rispetto della vita di ogni persona umana, dal suo concepimento fino alla sua morte naturale, il rispetto del matrimonio e della famiglia, la promozione di uno sviluppo umano integrale. È a questi valori, iscritti nell’unico libro della natura, che occorre educare le nuove generazioni, se le si vuole sensibilizzare al tema della custodia del creato. I temi che papa Benedetto tocca in questo paragrafo della Caritas in veritate sono numerosi. Alcuni di essi erano già stati trattati da Giovanni Paolo II: pensiamo alla connessione fra ecologia ambientale ed ecologia umana, oppure alle tematiche legate al matrimonio, alla famiglia e alla promozione di forme di socialità che siano degne della persona umana. Ma, accanto a questi temi cui siamo già avvezzi, ne emergono altri, più originali, che meritano di essere messi in evidenza. Benedetto XVI, ad esempio, accosta di frequente il tema dell’ecologia umana al tema del­ l’educazione. Questa sottolineatura non desta particolare meraviglia, data l’attenzione di questo pontefice alla tematica educativa. Lo dimostrano i suoi tanti interventi sul tema dell’emergenza educativa, inaugurati dal discorso da lui tenuto in occasione dell’apertura del convegno della diocesi di Roma, l’11 giugno 2007.17 In diverse occasioni Benedetto XVI ribadisce che occorre educare le nuove generazioni a una sana ecologia umana. L’espressione assume sfumature diverse a seconda del contesto in cui essa è impiegata. In qualche occasione significa insegnare ai bambini e ai giovani che «non sono al mondo per caso, ma grazie a un dono che è parte del disegno amorevole di Dio», in modo tale che possano «scegliere un progetto di vita orientato alla felicità autentica, in grado di distinguere fra verità e falsità, bene e male, giustizia e ingiustizia, mondo reale e mondo della “realtà virtuale”».18 Qui l’educazione a una sana ecologia umana assume una prospettiva vocazionale, sia per quanto riguarda l’interpretazione della propria origine, sia per quanto riguarda l’orientamento che si vuole imprimere alla propria vita. In altri contesti l’espressione tocca la sfera delle relazioni: educare a una sana ecologia umana significa, infatti, educare al rispetto per l’altro, in tutta la sua diversità, trasmettendo «quelle virtù

17  Cf. Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al convegno della diocesi di Roma nella basilica di San Giovanni in Laterano (11.6.2007): Ins. III(2007)1, 1069-1078. 18   Benedetto XVI, Messaggio ai partecipanti alla XII sessione plenaria della Pontificia accademica delle scienze sociali (27.4.2006): Ins. II(2006)1, 511.

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che promuoveranno lo sviluppo di una cultura veramente umana basata sull’onestà, sulla solidarietà e sulla concordia».19 Altrove, infine, educare a una sana ecologia umana assume una portata più vasta: significa affermare «con rinnovata convinzione l’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione, la dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura». In una parola, significa «salvaguardare il patrimonio umano della società».20 Vale la pena osservare che in questo stesso testo – il messaggio per la Giornata della pace del 2010 – il pontefice osserva che «questo patrimonio di valori ha la sua origine ed è iscritto nella legge morale naturale, che è fondamento del rispetto della persona umana e del creato». Per papa Benedetto esiste, quindi, un nesso profondo fra l’ecologia umana e la legge naturale, quando con ecologia umana si intende quel complesso di valori di cui l’uomo è portatore per il fatto stesso di essere una persona umana. Ed è proprio sulla base di questo collegamento che il tema dell’ecologia umana conosce un altro importante campo di applicazione nel magistero di Benedetto XVI: quello della contrapposizione all’ideologia del gender. Presentando i suoi auguri di Natale alla Curia romana, il 22 dicembre 2008, papa Benedetto colloca in maniera esplicita, all’interno di una corretta ecologia umana, la distinzione tra l’uomo e la donna, in quanto appartenente all’ordine della creazione e, quindi, alla fede nel Dio creatore. La negazione di questa evidenza, propugnata dai fautori dell’ideologia del gender, rappresenta, per papa Benedetto, l’ennesimo tentativo, da parte dell’uomo, di emanciparsi dal creato e dal suo Creatore, tentativo che non può che condurlo all’autodistruzione. Porsi, invece, in ascolto della verità del creato «non significa contraddizione della nostra libertà, ma la sua condizione».21 Ribadendo l’importanza della distinzione sessuale, in un’altra occasione papa Benedetto ricorda il ruolo fondamentale che la donna, indipendentemente dalla sua condizione di vita, è chiamata a svolgere nella promozione di una sana ecologia umana, ossia di «un ambiente in cui i bambini imparino ad amare e ad apprezzare gli altri, a essere onesti e rispettosi verso tutti, a praticare le virtù della misericordia e del perdono».22 La donna, infatti, dispone di carismi e di talenti singolari, di cui il mondo ha urgente bisogno: la tenerezza, l’accoglienza, la delicatezza, la mise-

19   Benedetto XVI, Discorso a Sua Eccellenza il Signor Suhail Khalil Shuhaiber, nuovo ambasciatore del Kuwait (13.12.2007): Ins. III(2007)2, 841. 20   Benedetto XVI, Messaggio per la 43a Giornata mondiale della pace (8.12.2009), n. 12: Ins. V(2009)2, 683. 21   Benedetto XVI, Discorso ai cardinali, agli arcivescovi, ai vescovi e ai prelati della Curia romana per la presentazione degli auguri natalizi (22.12.2008): Ins. IV(2008)2, 916. 22   Benedetto XVI, Omelia durante la celebrazione eucaristica presso il Monte del Precipizio a Nazaret (14.5.2009): Ins. V(2009)1, 829. A questo proposito, cf. anche Id., esortazione apostolica post-sinodale Africae munus sulla Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace (19.11.2011), n. 59: Ins. VII(2011)2, 684.

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ricordia. Parlando ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, papa Benedetto vede nelle leggi che negano la differenza fra i sessi, in nome di una presunta lotta contro la discriminazione, un attacco alla creazione. Rispetto a ciò richiama l’importanza del contributo che la fede può offrire alla società, nel rispetto delle legittime autonomie. Al contrario, «concepire la laicità unicamente in termini di esclusione o, meglio, di rifiuto dell’importanza sociale del fatto religioso […] inquina l’ecologia umana».23 Così dicendo, papa Benedetto inserisce all’interno della nozione di ecologia umana anche il riconoscimento del ruolo pubblico della comunità cristiana. L’ampliamento dell’area semantica dell’ecologia umana, operato da Benedetto XVI, non si limita, infatti, alla dimensione educativa e a quella che potremmo definire ontologica del problema, ma si estende anche alla sua sfera sociale. Nel messaggio per la Giornata della pace del 2007 il pontefice associa, ad esempio, alla tematica dell’ecologia umana quella della pace. Come ribadirà più volte in altri contesti, l’umanità, se ha a cuore la pace, deve «tenere sempre più presenti le connessioni esistenti tra l’ecologia naturale, ossia il rispetto della natura, e l’ecologia umana. L’esperienza dimostra che ogni atteggiamento irrispettoso verso l’ambiente reca danni alla convivenza umana, e viceversa».24 Data la connessione tra ecologia ambientale ed ecologia umana, urge la promozione di un modo di vivere che sia rispettoso dell’ambiente. Emerge così, all’interno del magistero di Benedetto XVI, la tematica degli stili di vita, che il papa intende come un vero e proprio cambiamento di mentalità, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra l’uomo e la tecnica. «È l’uomo che viene per primo. […] Non può essere dominato dalla tecnica».25 Anche questa è ecologia umana. Senza questa attenzione, l’uomo è ridotto a strumento, si vede privato della sua umanità, vive uno smarrimento esistenziale.

4. Francesco:

ecologia umana come lotta alla cultura dello scarto e all ’ individualismo

Papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, mostra un grande interesse per la nozione di ecologia umana. La impiega diffusamente, facendo tesoro di quell’ampiezza semantica che l’espressione ha raggiun-

23   Benedetto XVI, Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11.1.2010): Ins. VI(2010)1, 51. 24   Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2007 (8.12.2006), n. 8: Ins. II(2006)2, 779. 25   Benedetto XVI, Discorso agli ambasciatori in occasione della presentazione collettiva delle lettere credenziali (9.6.2011): Ins. VII(2011)1, 802.

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to nel corso dei pontificati dei suoi predecessori. Sono rappresentativi, da questo punto di vista, alcuni passaggi della Laudato si’, senza dubbio il testo più sistematico e autorevole del magistero di papa Francesco sul tema dell’ecologia umana. Al paragrafo 148 dell’enciclica, il papa, facendo riferimento alle precarie condizioni abitative nelle quali tanti vivono, loda l’ecologia umana messa in atto da alcune persone che, grazie alle relazioni di vicinanza e di calore che instaurano, grazie alle reti di comunione e di appartenenza che intrecciano, sanno sopperire alla miseria dell’ambiente in cui vivono. Accanto a questa accezione che potremmo definire «urbanistica» dell’ecologia umana, già attestata nel pontificato di Giovanni Paolo II, al paragrafo 155 della Laudato si’ ne troviamo un’altra, dal sapore metafisico, che richiama il magistero di Benedetto XVI, esplicitamente citato da papa Francesco. Quest’ultimo connette, infatti, l’ecologia umana alla «necessaria relazione della vita dell’essere umano con la legge morale inscritta nella sua propria natura». In questo stesso contesto, papa Francesco presenta, poi, due applicazioni di questo principio generale: il rispetto che l’uomo deve al proprio corpo e l’apprezzamento della propria mascolinità e femminilità, due prerequisiti indispensabili perché l’uomo possa relazionarsi in maniera positiva col creato, coi suoi simili, con l’altro da sé. Questa concezione fortemente unitaria del modo in cui l’uomo abita il proprio ambiente, il proprio corpo, la propria affettività, rimanda a uno dei principi cardine su cui si basa tutta la sua enciclica sulla cura della casa comune, ossia al fatto che «tutto nel mondo è intimamente connesso» (n. 16). Questa persuasione di fondo porta papa Francesco a dire che, se l’uomo abita il proprio ambiente in maniera scorretta, questo fatto rivela un disequilibrio ancor più grave. «Non è solo una questione di economia, ma di etica e di antropologia»,26 afferma papa Francesco, parlando della crisi che coinvolge l’ambiente e la persona umana, in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, il 5 giugno 2013. Dicendo questo, il papa fa soprattutto riferimento allo svilimento cui è esposta la persona umana, subordinata in tutto alle logiche della finanza, al punto che «uno che muore non è una notizia, ma se si abbassano di dieci punti le borse è una tragedia». È un riflesso di quella che papa Francesco definisce sovente la «cultura dello scarto», una mentalità che, in un modo o in un altro, ha contagiato tutti. Essa porta a pensare la persona come un ingranaggio della macchina tecnocratica, come un bene di consumo, di cui servirsi finché la persona sembra conservare una certa utilità e di cui sbarazzarsi non appena, invece, ha perso la propria funzionalità. In questo modo, la cultura dello scarto viene a negare la dignità della persona umana, fondata sulla sua preziosità, unicità e irripetibilità, e va a ledere i diritti delle persone più vulnerabili: i poveri, i malati, gli anziani, i bambini.

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  Francesco, Udienza generale (5.6.2013): Ins. I(2013)1, 279.

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Papa Francesco è soprattutto preoccupato delle conseguenze che la cultura dello scarto può avere su due ambienti umani di grandissima importanza: il lavoro e la famiglia. «La tecnocrazia porta a distruggere il lavoro»,27 sia perché essa è la causa principale della disoccupazione e di tutto ciò che la disoccupazione porta con sé (la noia, la criminalità, le dipendenze, i suicidi), sia perché fa proliferare il lavoro nero, «il lavoro-schiavo, il lavoro senza la giusta sicurezza, oppure senza il rispetto del creato, o senza rispetto del riposo, della festa e della famiglia».28 La crisi della famiglia, legata alla crisi del matrimonio inteso come impegno pubblico fra un uomo e una donna, dà luogo «a un aumento di povertà e a una serie di numerosi altri problemi sociali che colpiscono in misura sproporzionata le donne, i bambini e gli anziani»,29 ossia le persone più vulnerabili. Il lavoro e la famiglia, invece, sono due ambienti umani da proteggere e da custodire con grande cura, proprio per le loro potenzialità «ecologiche». Il lavoro, infatti, non può essere trattato semplicemente come una merce da sfruttare, sia perché rappresenta la risposta dell’uomo al comando di Dio nel suo rapporto col creato, sia perché esso è capace di restituire dignità all’uomo. La famiglia, per parte sua, «è la prima scuola dove impariamo ad apprezzare i nostri doni e quelli degli altri e dove cominciamo ad apprendere l’arte del vivere insieme; […] il luogo principale in cui incominciamo a “respirare” valori e ideali, come pure a realizzare il nostro potenziale di virtù e di carità»;30 «è scuola privilegiata di generosità, di condivisione, di responsabilità, scuola che educa a superare una certa mentalità individualistica che si è fatta strada nelle nostre società».31 In una parola, potremmo dire che il lavoro e la famiglia rappresentano una risorsa importante per contrastare la cultura dello scarto, diffondendo una cultura della solidarietà e dell’incontro. In quanto tali, il lavoro e la famiglia rappresentano anche due presidi indispensabili per contrastare l’altro grande fattore inquinante del­ l’ecologia umana individuato da papa Francesco: l’individualismo. Sempre più di frequente, oggi, la persona umana è concepita come una monade, svincolata dal contesto sociale in cui vive. Papa Francesco è dell’avviso che questa concezione fortemente riduttiva della persona umana debba essere ricondotta, tra l’altro, alla tendenza, oggi diffusissima, a riven-

27   Francesco, Discorso al workshop «Modern slavery and climate change: the commitment of the cities» (21.7.2015): http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/ july/documents/papa-francesco_20150721_sindaci-grandi-citta.html – sito visitato l’8.3.2016. 28   Ib. 29   Francesco, Discorso ai partecipanti al colloquio internazionale sulla complementarietà tra uomo e donna, promosso dalla Congregazione per la dottrina della fede (17.11.2014), n. 2: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/november/documents/papafrancesco_20141117_congregazione-dottrina-fede.html – sito visitato l’8.3.2016. 30   Francesco, Discorso ai partecipanti al colloquio internazionale sulla complementarietà tra uomo e donna, n. 1. 31   Francesco, Ai partecipanti alla 47.ma Settimana Sociale dei Cattolici Italiani (11.9.2013): Ins. I(2013)2, 234.

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dicare diritti individuali. Per ritessere un tessuto sociale divenuto sempre più logoro, durante la sua visita al Parlamento europeo, il 25 novembre 2014,32 papa Francesco raccomanda di ricollegare la riflessione sui diritti personali a quella relativa al bene comune. Diversamente i diritti, concepiti senza limitazioni, finiscono per diventare fonti di conflittualità e di violenza. Per contrastare questa visione dell’uomo, ridotto a «coscienza isolata»,33 papa Francesco, nel suo magistero, sembra suggerire due possibili piste. La prima è quella offerta dall’ecologia ambientale, in quanto, dal suo punto di vista, essa rappresenta per l’uomo una preziosa opportunità di socializzazione,34 come mostrano le esperienze legate alle tante associazioni che si prendono cura della salvaguardia dell’ambiente. La seconda risorsa che il papa indica per superare l’attuale cultura individualistica sta in quella forma di ecologia umana intesa come custodia della purezza dei cuori e delle relazioni, con la quale l’uomo si pone in ascolto del proprio desiderio d’amore vero, bello, grande, che, soprattutto nella giovinezza, egli può avvertire dentro di sé. Il papa vuole scongiurare che «questo valore prezioso sia falsato, distrutto o deturpato».35 Dicendo questo, papa Francesco fa appello all’uomo nella sua natura più profonda, «alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato»,36 al suo essere costitutivamente un essere relazionale.

5. Verso un bilancio: cos ’ è l ’ ecologia umana ? Al termine di questa rassegna non è da escludere che il lettore avverta un certo disorientamento per il fatto che, pur disponendo di un quadro abbastanza completo sul magistero pontificio relativo all’ecologia umana, tuttavia potrebbe avere l’impressione di non essere ancora in grado di mettere completamente a fuoco il significato preciso di questa espressione. Se, da una parte, bisogna riconoscere che ogni pontefice, con i propri interventi, ha progressivamente contribuito a far giungere a maturazio-

32   Francesco, Discorso al Parlamento europeo (25.11.2014): http://w2.vatican.va/content/ francesco/it/speeches/2014/november/documents/papa-francesco_20141125_strasburgoparlamento-europeo.html – sito visitato l’8.3.2016. 33  Cf. Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium [d’ora in poi EG] sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale (24.11.2013), nn. 2.8.282: EV 29/2105.2112.2389. 34  Cf. Francesco, Discorso al workshop «Modern slavery and climate change: the commitment of the cities». 35   Francesco, Messaggio per la XXX Giornata mondiale della gioventù 2015 (31.1.2015), n. 2: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/youth/documents/papa-francesco_ 20150131_messaggio-giovani_2015.html – sito visitato l’8.3.2016. 36   Francesco, Discorso al Parlamento europeo.

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ne le potenzialità racchiuse in questa categoria, dall’altra dobbiamo pure ammettere che essa ha assunto un’ampiezza semantica tale da risultare, per certi versi, difficilmente dominabile. Le difficoltà riscontrate in ambito magisteriale si ripropongono, con le dovute differenze, anche sul versante accademico. Chi si è occupato di studiare questa espressione37 osserva che, benché di ecologia umana si parli fin dagli anni ’70 del secolo scorso e sebbene non di rado oggi si auspichi la nascita di una nuova ecologia umana, tuttavia essa, di fatto, non è ancora venuta alla luce. Allo stato attuale, infatti, l’ecologia umana si presenta come una semplice branca dell’ecologia generale, la scienza che studia le interazioni tra l’ambiente e gli organismi che lo popolano. Alcuni autori definiscono, quindi, l’ecologia umana come la disciplina che si occupa delle relazioni tra l’uomo e il suo ambiente. In quanto tale, essa condivide con l’ecologia generale sia il medesimo oggetto di studio, l’ambiente, sia le medesime finalità, che non si limitano a essere semplicemente di ordine teorico, ma sono soprattutto di ordine pratico. Entrambe le discipline, infatti, mirano non solo alla conoscenza, ma anche alla salvaguardia dell’ambiente. Se dunque l’ecologia umana si occupa essenzialmente dell’ambiente umano, non ci resta che domandarci cosa rappresenti questo oikos, questo ambiente, del quale l’ecologia umana si prefigge di essere il logos, ossia la riflessione critica. È proprio nel tentativo di rispondere a questo interrogativo che il contributo offerto negli ultimi decenni dal magistero pontificio mostra tutta la sua fecondità e, al tempo stesso, tutta la sua complessità, proprio per il fatto che esso affonda le sue radici in un terreno quanto mai prospero, quello rappresentato dall’antropologia cristiana. Essa insegna innanzitutto che l’oikos dell’uomo è il creato. Senza di esso la persona umana sarebbe addirittura impensabile. Per la Scrittura, infatti, l’ambiente naturale accompagna la vicenda umana dal suo principio fino al suo compimento (cf. Gen 2,8; Ap 22,1-2). Ma l’ambiente umano è anche rappresentato dalla società in cui l’uomo vive, a partire dalla sua cellula più piccola, la famiglia, fino ad arrivare alla sua unità più complessa, la comunità globale, con tutte quelle strutture sulle quali si regge la convivenza umana, ossia il lavoro, la comunicazione… Infine c’è un oikos in cui l’uomo abita in maniera per così dire ontologica. Si tratta del suo corpo, la casa dell’uomo per antonomasia. L’ecologia umana, allora, sarà la disciplina che si occupa di preservare tutti questi «ambienti umani», nel rispetto delle leggi e dei valori sui quali essi si reggono e che, in una prospettiva di fede, devono essere riconosciuti come voluti

37   Sul concetto di ecologia umana, cf. P.C. Beltrão, Ecologia umana e valori etico-religiosi, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1985; G. Crepaldi – P. Togni, Ecologia ambientale ed ecologia umana, Cantagalli, Siena 2007; L. Valera, Ecologia umana, Aracne, Roma 2013; P. Ramellini, «Ecologia umana», in Studia Bioethica (2015)2, 5-15; A. Mariani, «“Ecologia umana” e “bioetica”: centralità dell’uomo e il suo agire nel mondo in cui vive», in Studia Bioethica (2015)2, 53-62; M. Losito, «L’ecologia umana nel Magistero pontificio», in Studia Bioethica (2015)2, 68-75.

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dal Creatore. Sulla base di ciò, bisogna rilevare che la polisemia riscontrata nell’espressione «ecologia umana» non rappresenta affatto qualcosa di bizzarro, quasi l’esito di un’indisciplinata stratificazione di significati, ma piuttosto corrisponde alla complessità della persona umana, un essere che vive nella natura e contemporaneamente nella città; che è il frutto delle relazioni interpersonali che intreccia e, al tempo stesso, è un soggetto individuale, dotato di un corpo, animato dal continuo desiderio di auto-trascendersi. Detto questo, non può non destare una certa sorpresa una dichiarazione di papa Francesco, da lui rilasciata a un gruppo di giornalisti durante il suo viaggio di ritorno dalla Corea, dove si era recato nell’agosto del 2014, in occasione della VI Giornata della gioventù asiatica. Parlando del suo progetto di scrivere un’enciclica sull’ecologia, che poi porterà alla pubblicazione della Laudato si’, il pontefice dichiarò testualmente che di ecologia umana «si può parlare con una certa sicurezza fino a un certo punto».38 Questo suo giudizio sembra, a tutta prima, davvero poco lusinghiero nei confronti di un’espressione che ha accompagnato per oltre quarant’anni il magistero pontificio sull’ambiente umano, certamente in maniera discontinua e assai variegata, ma sempre in contesti decisivi: la difesa dell’ambiente, della vita, della famiglia, del lavoro, della differenza di genere. In realtà, per quanto atipica, questa dichiarazione di papa Francesco è capace di registrare un dato assai significativo: la versatilità e la plasticità della nozione di ecologia umana nei confronti del contesto storico e culturale in cui essa viene impiegata. A partire da questo semplice rilievo, papa Francesco sembra segnalare, almeno a livello implicito, un obiettivo operativo: la necessità di individuare, in relazione alle attuali condizioni di vita dell’uomo, ciò che può meglio contribuire alla custodia della persona umana e del suo ambiente. In altre parole, in un tempo di crisi antropologica che non di rado papa Francesco descrive con una metafora militare, quella della battaglia, al termine della quale i feriti attendono di essere curati sotto la tenda di un ospedale da campo,39 non si può continuare a impiegare il tempo collezionando le nozioni antropologiche che la tradizione ci ha consegnato, mossi quasi da un fine interesse erudito. Occorre, invece, individuare quali siano le priorità che devono presiedere alla nostra ricerca e al nostro intervento. D’altra parte, questa sembra una convinzione costante nel magistero di papa Francesco, non solo per quanto riguarda l’antropologia, ma anche per quanto concerne l’intero deposito della fede. Non a caso, infatti, nella Evangelii gaudium egli richiama l’insegnamento conciliare circa la

38   Francesco, Conferenza stampa durante il volo di ritorno dalla Corea (18.8.2014): http:// w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/august/documents/papa-francesco_ 20140818_corea-conferenza-stampa.html – sito visitato l’8.3.2016. 39  Cf. A. Spadaro, «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà cattolica 164(2013)3, 461.

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gerarchia delle verità.40 Con questi segnali, il papa intende affidare una missione precisa alla Chiesa e, in particolare, alla teologia. Essa è chiamata a cogliere che cosa oggi è assolutamente indispensabile per evangelizzare l’umano, intendendo con «umano» sia il destinatario, sia il contenuto dell’annuncio cristiano. Ci proponiamo qui di cogliere questa sfida lanciata da papa Francesco, cercando di individuare alcune piste che l’ampia riflessione sull’ecologia umana sembra suggerire.

6. Ripensare

il vangelo dell ’ uomo alla luce del magistero sull ’ ecologia umana

La prima sollecitazione che il magistero pontificio sull’ecologia umana lancia all’antropologia teologica contemporanea è la necessità di accentuare maggiormente, nella sua riflessione, la dimensione relazionale della persona umana, riconoscendone il carattere costitutivo. Se sfogliamo un qualunque manuale di antropologia teologica, ci accorgiamo che una delle prime questioni in esso affrontate è la riflessione sui cosiddetti «costitutivi antropologici».41 Di cosa «si compone» l’essere umano? La teo­ logia, a partire dalla testimonianza biblica e dalla successiva riflessione teologica, si interroga sul significato dell’anima e del corpo, per mostrare che l’uomo è sì un’unità, ma un’unità complessa. Da questo punto di vista, negli ultimi decenni la fenomenologia ha reso un servizio quanto mai prezioso all’antropologia teologica, mettendo in luce la significatività di un compagno di viaggio troppo spesso ignorato, il corpo, che, invece, merita di essere considerato, per così dire, un’opacità latrice di senso. Ma questo non basta. Occorre mostrare che quell’uomo, che è in se stesso un’unità complessa, è tale solo all’interno di una rete di relazioni. La buona o la cattiva riuscita della sua vita dipende dalla qualità di questa rete di relazioni. I papi, negli ultimi quarant’anni, parlando di ecologia umana, hanno voluto evidenziare anzitutto questo aspetto. Pensiamo alla nozione di ecologia umana proposta da Paolo VI. Nei suoi interventi, egli mostra di aver ben presente che l’uomo è anzitutto cuore, interiorità. Ma, al tempo stesso, egli è perfettamente consapevole del fatto che, nella realizzazione del suo progetto di vita, la coscienza personale non è l’unica attrice. Molto dipende anche dall’ambiente circostante e dai suoi condizionamenti. Paolo VI, in particolare, dà grande rilievo alla qualità morale dell’ambiente sociale e massmediatico nel quale il soggetto è inserito. Giovanni Paolo II si spinge ancora più lontano. Egli parla, da una parte, di strutture di peccato, che possono inquinare l’ambiente umano, e, dall’altra, di

 Cf. EG 36: EV 29/2142.  Cf. L.F. Ladaria, Antropologia teologica, Piemme, Casale Monferrato 1995, 112-145.

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strutture, che potremmo definire di grazia, che, invece, contribuiscono a costruir­lo e a custodirlo, tra le quali dobbiamo annoverare anzitutto la famiglia e il lavoro. Ma per Giovanni Paolo II anche l’ambiente naturale gioca un ruolo significativo in rapporto all’ecologia umana e alla qualità della nostra vita. Benedetto XVI, al paragrafo 51 della Caritas in veritate, esprime questo stesso concetto in maniera davvero incisiva: «Quando l’“ecologia umana” è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio». Esiste, quindi, una reciprocità tra la salute dell’ambiente umano e la salute dell’ambiente naturale. E, con la sua consueta attenzione alle situazioni di emarginazione, papa Francesco, al paragrafo 148 della Laudato si’, mette in luce come, in alcune circostanze, un tessuto umano fatto di relazioni positive sia capace di conferire dignità a esistenze vissute nella più totale miseria. D’altra parte, papa Francesco è persuaso del fatto che il vero nemico dell’ecologia umana sia l’individualismo, la tendenza a concepire l’uomo indipendentemente dalla rete sociale di cui – che lo voglia o no – egli è parte. Sulla base di ciò, dobbiamo concludere che, negli ultimi quarant’anni, con una certa continuità, i papi, attraverso la categoria di ecologia umana, hanno evidenziato che l’uomo non è una monade isolata, ma un essere in relazione, un essere che non può che vivere all’interno di un ambiente naturale, sociale, affettivo, lavorativo… Questo ci deve spingere a un certo ripensamento della definizione classica di persona, coniata da Boezio, quella di sostanza individuale di natura razionale,42 a favore di una nuova definizione, capace di coglierne la costitutiva dimensione relazionale e, per così dire, «ambientale». D’altra parte, nel momento in cui, sulla scorta dell’antropologia biblica, affermiamo che l’uomo è creato a immagine di Dio e nel momento in cui, alla luce della fede della Chiesa, confessiamo che questo Dio è Trinità, ossia comunione di persone, come non pensare la relazione come la destinazione che l’essere umano ha ricevuto fin dalla sua creazione? Il documento Comunione e servizio della Commissione teologica internazionale ha tentato, tra le altre cose, di approfondire proprio questo aspetto: Quando si parla della persona, ci si riferisce sia alla irriducibile identità e interiorità che costituiscono il singolo individuo, sia al rapporto fondamentale con gli altri che è alla base della comunità umana. Nella prospettiva cristiana, questa identità personale, che è anche un orientamento verso l’altro, si fonda essenzialmente sulla Trinità delle Persone divine. Dio non è un essere solitario, ma una comunione fra tre Persone. Costituito dall’unica natura divina, l’identità del Padre è la sua paternità, la sua relazione al Figlio e allo Spirito; l’identità del Figlio è la sua relazione al Padre e allo Spirito; l’identità dello Spirito è la sua relazione al Padre e al Figlio. La rivelazione cristiana ha condotto all’articolazione del concetto di persona e gli ha attribuito un significato divino, cristologico e trinitario. In effetti nessuna persona in quanto tale è

 Cf. Boezio, Contra Eutychen et Nestorium, c. 3: PL 64/1344.

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«Ecologia umana»: una risorsa per evangelizzare l’umano sola nel­l’uni­verso, ma è sempre costituita con gli altri ed è chiamata a formare con loro una comunità. Ne consegue che gli esseri personali sono anche esseri sociali. L’essere umano è veramente umano nella misura in cui attualizza l’elemento essenzialmente sociale nella sua costituzione in quanto persona all’interno di gruppi familiari, religiosi, civili, professionali e di altro genere, che insieme formano la società circostante alla quale appartiene.43

Il secondo stimolo che può giungere all’antropologia teologica dall’insegnamento dei papi sull’ecologia umana riguarda la necessità di una concezione maggiormente dinamica della persona umana. Negli ultimi decenni l’antropologia cristiana è stata accusata a più riprese di proporre una visione di uomo piuttosto stereotipata, desunta da un’idea di natura ri­tenuta «perenne», definita nelle sue caratteristiche fondamentali una volta per tutte, avulsa da qualsiasi condizionamento temporale, ma, al contrario, a detta dei suoi detrattori, riconducibile a un preciso contesto storico e culturale, risalente alla cosiddetta societas christiana, che certamente non è più quello attuale. L’accusa va a toccare gli aspetti più disparati del vivere umano: la comprensione della propria identità sessuale, le modalità di riproduzione, gli atteggiamenti da assumere di fronte alla malattia e alla morte… Tale dibattito ci riguarda da vicino, dal momento che, non di rado, il magistero pontificio ha affiancato al tema dell’ecologia umana proprio quello della legge naturale. Tale accostamento getta forse una patina di inattualità sulla riflessione antropologica condotta attorno al tema del­ l’ecologia umana? I testi del magistero pontificio appena passati in rassegna consentono, da questo punto di vista, di rimuovere tanti luoghi comuni e, al tempo stesso, obbligano la teologia a superare una certa staticità nelle sue rappresentazioni antropologiche. Al paragrafo 38 della Centesimus annus, Giovanni Paolo II afferma che l’uomo è dotato di una struttura naturale e morale riconducibile, innanzitutto, alla sua apertura al vero e al bene. Farsi promotori di una sana ecologia umana significa, di conseguenza, adoperarsi affinché l’uomo possa realizzare quell’autotrascendimento che egli porta scritto dentro di sé. Ma è soprattutto Benedetto XVI a insistere sul legame che unisce l’eco­ logia umana alla legge naturale. Per lui, ad esempio, educare a una sana ecologia umana significa educare ai valori inscritti nella legge morale naturale, ovvero aiutare la persona a scegliere un progetto di vita orientato verso la sua autentica felicità. Quando, poi, Benedetto XVI impiega la categoria di ecologia umana nel dibattito relativo all’ideologia del gender, egli precisa che porsi in ascolto della verità del creato non rappresenta la negazione della libertà, ma, al contrario, ne è la condizione previa. Anche papa Francesco, al paragrafo 155 della Laudato si’, afferma che l’ecologia umana è collegata al rispetto della legge morale che l’essere umano por-

43   Commissione teologica internazionale, documento Comunione e servizio. La persona umana crea­­ta a immagine di Dio (23.7.2004), nn. 41-42: EV 22/2910s.

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ta inscritta nella propria natura e aggiunge che tale rispetto rappresenta per l’uomo il prerequisito necessario per vivere delle relazioni positive. A ben vedere, in tutti questi casi, la legge naturale non è mai identificata con una formula definita una volta per sempre, ma, al contrario, rappresenta quel criterio in grado di orientare le scelte dell’uomo nelle situazioni concrete della sua vita. Certo, in quest’ottica, la natura umana, da cui l’uomo si deve lasciare ispirare nel suo agire, rappresenta una dotazione che lo accompagna da sempre, ma è altrettanto evidente che egli scopre le potenzialità e le esigenze della sua umanità e di quella dei suoi simili all’interno di un concreto percorso storico. Alla luce di ciò, è possibile cogliere il carattere fortemente significativo di un documento della Commissione teologica internazionale, risalente al 6 dicembre 2008, che, tra le altre cose, tenta proprio un ripensamento della legge naturale in una prospettiva storica, soprattutto in relazione alle sue applicazione concrete. Si legge, ad esempio, in quel documento, che, «a volte, anche l’evoluzione della situazione politica o economica conduce a una nuova valutazione di norme particolari che erano state stabilite precedentemente»,44 come ad esempio quelle relative alla schiavitù, al prestito a interesse, al duello, alla pena di morte. Per la loro attualità, rivestono un particolare interesse le osservazioni della superiora del Carmelo di Montmartre, Cécile Rastoin, nel suo confronto con l’ideologia del gender.45 Questa monaca carmelitana afferma in maniera provocatoria che il matrimonio, la monogamia, la castità, l’eterosessualità non hanno nulla di «naturale», se con «naturale» intendiamo ciò che l’uomo vive spontaneamente fin dall’inizio della sua vicenda storica. Le pagine dell’Antico Testamento lo dimostrano, quando intimano a Israele di non comportarsi come tutti gli altri popoli. Certamente il matrimonio, la monogamia, la castità, l’eterosessualità hanno permesso all’uomo di dare espressione alle sue immense capacità spirituali e chi ne fa l’esperienza può illustrarne tutti i benefici. Ma ciò non toglie che la natura umana, la vera destinazione dell’uomo, non appare all’inizio del suo processo di umanizzazione, ma si presenta come il punto d’arrivo del suo cammino storico e personale, raggiungibile attraverso un lungo ed esigente itinerario educativo. Il terzo contributo che il magistero pontificio sull’ecologia umana può offrire all’antropologia teologica contemporanea è il suo approccio, non solo teorico ma anche pratico, all’umano. A volte si è portati ad accostare lo studio della teologia all’attenzione per il particolare, a questioni spesso d’accademia, a un interesse orientato smaccatamente verso il passato. Ma la teologia, nel senso più nobile del termine, non ha nulla a che fare con tutto questo. È desiderio d’incidere sul mondo in cui si vive. È proget-

44   Commissione teologica internazionale, documento Esistono valori (6.12.2008), n. 53: EV 25/2171. 45  Cf. C. Rastoin, «What’s the trouble? About gender, Judith Butler and Edith Stein…», in Revue d’éthique et de théologie morale (2012)269, 75-108.

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tazione di nuove forme di vita. È squarcio su ampi scenari. La riflessione sull’ecologia umana rappresenta, da questo punto di vita, una palestra quanto mai interessante. Non si tratta, infatti, di condurre una ricerca sulle fonti fine a se stessa. Non si tratta di chiudersi in rassicuranti mondi virtuali. Non si tratta di fuggire il presente. Si tratta, invece, di trarre dalla rivelazione cristiana quella luce necessaria per attivare pratiche umane virtuose, desiderabili, e, proprio per questa ragione, capaci di annunciare il vangelo. Al paragrafo 38 della Centesimus annus, Giovanni Paolo II presenta l’ecologia umana come il tentativo di abbattere le strutture di peccato che inquinano la vita dell’uomo e di sostituirle con più autentiche forme di convivenza. Benedetto XVI, nel suo magistero sull’ecologia umana, parla di frequente della necessità di adottare nuovi stili di vita. Papa Francesco, in più d’una occasione, condanna con forza la cultura dello scarto, oggi dilagante. Sulla base di questi rapidi riferimenti, possiamo comprendere facilmente che la fede cristiana è chiamata ad annunciare il vangelo dell’umano non soltanto a parole, ma anche attraverso scelte concrete, avviando processi virtuosi, mettendo in atto pratiche di cura. Il tema della cura, in particolare, sembra essere oggi quanto mai promettente, soprattutto grazie all’interesse che esso sta riscuotendo in ambito filosofico.46 Anche se oggi non è universalmente riconosciuto, il lessico della cura appartiene costitutivamente al messaggio cristiano. Anzi, appartiene all’atto stesso di evangelizzare. È singolare, ad esempio, che, in uno dei tanti discorsi kerygmatici presenti negli Atti degli apostoli, Pietro, per riassumere il ministero pubblico di Gesù, dica che questi «passò beneficando e risanando tutti» (cf. At 10,38), utilizzando un’immagine che potremmo definire a buon diritto terapeutica. Ed è altrettanto significativo – ma meno sottolineato – che gli autori del Nuovo Testamento utilizzino il lessico della cura anche per presentare la missione evangelizzatrice della Chiesa all’indomani della Pasqua. Oltre al paradigma dell’annuncio, proposto, ad esempio, da Matteo, nella finale del suo Vangelo (cf. Mt 28,19), e oltre al paradigma della testimonianza, attestato, ad esempio, da Giovanni, nei discorsi d’addio di Gesù (cf. Gv 13,15.35), rischiamo spesso di dimenticare il ruolo giocato nel Nuovo Testamento dal paradigma della cura, riscontrabile, ad esempio, nella predicazione di Gesù nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,18-19), o nella parabola del buon samaritano (cf. Lc 10,30-37), se leggiamo questa pagina come una sorta di vangelo nel Vangelo. In un contesto di crisi antropologica, questo paradigma di evangelizzazione può giocare senza dubbio un ruolo davvero significativo, come ci ricorda continuamente papa Francesco. Si tratta concretamente di veicolare il vangelo della misericordia attraverso delle pratiche che sappiano prendersi cura dell’umanità ferita. In passato i discepoli di Gesù, per fare

46  Cf. J.C. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, Diabasis, Reggio Emilia 2006.

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questo, hanno dato vita a opere davvero degne di nota, alcune delle quali sono giunte fino a noi. Si pensi, ad esempio, alle energie spese, nel corso del XIX secolo, nell’ambito dell’educazione e della sanità. Oggi si tratta di esprimere la stessa vitalità e la stessa creatività per rispondere a nuove emergenze: l’accoglienza dello straniero, il sostegno della persona vulnerabile, l’accompagnamento del morente.

Bibliografia Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2013. Beltrão P.C., Ecologia umana e valori etico-religiosi, PUG, Roma 1985. Crepaldi G. – Togni P., Ecologia ambientale ed ecologia umana, Cantagalli, Siena 2007. Derville T., Le temps de l’homme. Pour une révolution de l’écologie humaine, Plon, Paris 2016. Losito M., «L’ecologia umana nel Magistero pontificio», in Studia Bioethi­ ca (2015)2, 68-75. Mariani A., «“Ecologia umana” e “bioetica”: centralità dell’uomo e il suo agire nel mondo in cui vive», in Studia Bioethica (2015)2, 53-62. Ramellini P., «Ecologia umana», in Studia Bioethica (2015)2, 5-15. Rastoin C., «What’s the trouble? About gender, Judith Butler and Edith Stein…», in Revue d’éthique et de théologie morale (2012)269, 75-108. Tronto J.C., Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, Diabasis, Reggio Emilia 2006. Valera L., Ecologia umana, Aracne, Roma 2013.

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Elenco degli autori

Maurizio Ambrosini Docente ordinario di Sociologia presso il Dipartimento di Studi sociali e politici dell’Università degli studi di Milano Federico Badiali Docente invitato di Teologia sistematica presso la FTER Paolo Boschini Docente stabile di Filosofia presso la FTER Pier Luigi Cabri Docente invitato di Teologia fondamentale presso la FTER Enrico Casadei Garofani Docente invitato di Sacra Scrittura presso la FTER Massimo Cassani Docente stabile di Teologia morale presso la FTER Erio Castellucci Arcivescovo di Modena-Nonantola e già docente di Teologia sistematica presso la FTER Mario Fini Docente emerito di Teologia sistematica presso la FTER

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Elenco degli autori

Luciano Luppi Docente incaricato triennale di Teologia spirituale presso la FTER Maurizio Marcheselli Docente stabile di Sacra Scrittura presso la FTER Matteo Prodi Docente invitato di Teologia morale presso la FTER Luca Tentori Giornalista e dottorando FTER Matteo Zuppi Arcivescovo di Bologna e gran Cancelliere della FTER

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Indice dei nomi

Abbatecola E.  91 Abramo  118 160 163 179 189 Adamo  149 160 161 163 189 Agostino di Ippona  26 141 149 151 175 Akerlof G.A.  42 Allegri G.  49 Ambrosini M.  5 7 91 92 96 Amici R.  175 Angelini G.  226 227 232-234 237 Aristotele  25 54 Arndt W.F.  160 Arslan A.  139 Asclepio 165 Asiedu-Peprah 183 Associazione teologica italiana  148 149 Atkinson A.B.  60 61 63 Badiali F.  7 8 245 Baldisseri L.  201 202 204 Baronio L.  149 Barreto J.  185 Barrett C.K.  185 Bastianelli M.  248 Bateson G.  248 Bauer W.  160 Baumann G.  97 Bazzi C.  175 Becchetti L.  53

Beltrão P.C.  259 Benasayag M.  224 225 228 233 Benedetto XVI  29 77 78 142 149-152 198 229 231 234 252-256 262 263 265 Bergoglio J.M.  vedi Francesco Bernard J.  177 235 Beutler J.  186 Beveridge W.  37 Biguzzi G.  175 Blass F.  168 172 Bligh J.  184 Boezio 262 Bonaventura 167 Bonhöffer D.  21 87 Bori P.C.  125 126 Boschini P.  7 67-70 72 74-78 80 82-87 235 Boscolo G.  172 Botturi F.  228 Bozzolo A.  224 237 Brambilla F.G.  144 230 242 Bressan L.  222 Bronzini G.  49 Brown R.E.  166 Bruni L.  87 Brynjofsson E.  60 Bultmann R.  27 184 Burchard C.  185

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Indice dei nomi Cabri P.L.  6 7 125 Calloud J.  167 170 178 185 Camus A.  142 Carelli R.  224 237 Cartesio  70 72 Caruso S.  44 45 51 52 Casadei Garofani E.  6 7 117 Cassani M.  7 8 197 Cassano F.  52 Cassano G.P.  230 Castellucci E.  5 7 17 Caurla M.  161 163-166 171 172 174 176 178 185 186 188 CEI  29 148 221 222 229-231 233 234 238 Chiosso G.  224 226 Chrupcała L.D.  160 Coda P.  148 149 Codeluppi V.  77 Coetzee J.C.  162 Colli G.  129 Commissione teologica internazionale 262-264 Comunità di Sant’Egidio  108 Concilio ecumenico Vaticano II  14 16 19 24 30 31 64 67 141 142 144 145 147-149 153 155 197 198 200-202 207 209 211 222 Congar Y.M.-J.  145 Consiglio permanente della CEI  146 Convegno ecclesiale di Firenze  5 11 21 154 223 238 Convegno ecclesiale di Verona  142 221 238 242 Correggio 127 Crepaldi G.  259 Crowe F.E.  48 Danker F.W.  160 D’Annunzio G.  49 Dardot P.  39 40 61 De Ambris A.  50 Debrunner A.  168 172 De Haas H. 110 De La Potterie I.  184 185 De Luca E.  87 Derrida J.  130 135 136 Devillers L.  188 Diamond D.  74 Dianich S.  148 149 Dione Cassio  165 Dodd C.H.  177 186

Doran R.M.  48 Dossetti G.  82 Dostoevskij F.  127 Du Rand J.A.  186 Dürer A.  127 Dylan B.  24 Elizari J.  207 208 218 Eraclito 70 Erode 59 Fabris R.  118 159 Ferrarotti F.  129 132 Fini M.  7 141 Fiore Q.  79 Fortna R.T.  186 Fossion A.  161 Francesco (papa)  6 8 11-13 16 17 19 29 32 46 57 86 132 152-155 197-199 201-203 205-209 212 213 219 222 223 228 234 240 245 255-258 260263 265 Francesco (san)  15 53 Fumagalli A.  230 Fusaro D.  46 47 Fuzinato S.  163 177 Galbraith J.K.  38 Gallino L.  37 38 40 59 Garelli F.  201 Gehlen A.  68 Genuyt F.  167 170 178 185 Giacobbe  6 117 118 Gingrich F.W.  160 Giotto 127 Giovanni (evangelista)  22 125 127 149 206 265 Giovanni XXIII  14 19 144 153 Giovanni Paolo II  19 24 28 29 31 53 77 81 145-147 198 202 212 231 249-253 256 261-263 265 Giovanni Scoto Eriugena  72 Girlanda A.  56 Girolamo 188 Giuseppe (figlio di Giacobbe)  118 Giuseppe Flavio  164 Gramsci A.  47 Grasso S.  159 Gronchi M.  203 Grotti A.  74 Guardini R.  223

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Indice dei nomi Halevi J.  38 Hamer J.  29 Harnack A. von  82 Hartin P.J.  162 Heidegger M.  52 70 71 131 235 Hergenröder C.  165 Hirschman C.  105 Hunt S.A.  178 182

Marella O.  15 Marguerat D.  55 Maria Maddalena  127 Mariani A.  259 Maritain J.  223 Marraffa M.  52 Martelet G.  204 Martini C.M.  83 Marx K.  18 40 46 60 Massaro D.  74 Massimo il Confessore  142 Mateos J.  185 Mattei U.  61 Matteo (evangelista)  22 54 265 Mazower M.  43 Mcfee A.  60 McLuhan M.  79 Melchiorre V.  248 Melloni A.  153 Menken M.J.J.  187 Metzger B.M.  162 167 Milani L.  15 81 Mill J.S.  62 Mollat D.  165 Montan A.  149 Monti M.  92 Montini G.B.  vedi Paolo VI Morris W.  60 Mosè  118 181

Ireneo di Lione  175 Isacco 118 Isaia  137 162 Just F.N.W.  163 Kant I.  69 71 Karst K.L.  37 Keynes J.M.  39 60 Klein N.  45 54 Knabenbauer J.  160 168 Köder S.  6 Kriesler P.  38 Labahn M.  182 Lacan J.  232 Ladaria L.F.  261 Lagrange M.-J.  185 Las Casas B. de  23 Laval C.  39 40 61 Lawrence F.G.  48 49 Lazzaro  175 176 Lefort C.  43 44 Léon-Dufour X.  170 172 186 Lercaro G.  142 Lévinas E.  130 131 133-139 Lewis K.M.  186 Locke J.  80 Loisy A.  82 Lonergan B.J.F.  48 235 236 Losito M.  259 Luca (evangelista)  22 55 Luppi L.  7 8 221 230

Nancy J.-L.  127 133 Natanaele 120 Nicodemo  119 161 Nicolaci M.  177 Nietzsche F.  129 Nussbaum M.C.  54 62 ONU  37 94 107 Örsy L.  201 202

Maldonado T.  74 Mancini R.  155 Manicardi E.  159 Mannucci V.  172 Marcheselli M.  7 159 160 166 175 179 183 188 Marco (evangelista)  22 Marconi G.  172 185

Pace E.  139 Painter J.  161 Palinuro M.  187 188 Pannenberg W.  142 143 Paolo (apostolo)  22 56 81 149 205 206 230 240 Paolo VI  8 17 19 141 142 144-146 201 202 212 246-249 261 Pascal B.  125 Penn S.  84 85 Pesch R.  55

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Indice dei nomi Petzer J.H.  162 Pietro (apostolo)  28 55 200 203 207 265 Pietropolli Charmet G.  225 226 Piketty T.  42 Pili E.  128 Pio XII  212 Platone  80 128 Poma A.  142 Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali  77 Pontormo 127 Ponzio A.  135 Prodi M.  7 35 40 42 43 45 46 Rachele 118 Ramellini P.  259 Ramos Pérez F.  165 Rastoin C.  264 Ratzinger J.  vedi Benedetto XVI Ravasi G.  56 Rebecca 118 Recalcati M.  232 Reimer A.M.  178 Rembrandt 127 Reuèl  118 119 Revelli M.  38 Ricoeur P.  133 Rifkin J.  51 Rigobello A.  134 Rosanvallon P.  43 44 Rossano P.  56 Rousseau J.-J.  125 Ruggieri G.  153 Sabugal S.  162 163 Scalfari E.  132 Scheler M.  52 Schmit G.  224 225 228 233 Schnackenburg R.  160 168 183 Schneider G.  161 163 164 166 Schrage W.  164 165 Schumpeter J.A.  48 Sedecia 163 Segalla G.  172 Sen A.K.  45 Shiller R.J.  42 Sinodo dei vescovi  145 147 200 201 202 203 Sipporà 118

Ska J.-L.  122 123 Spaccapelo N.A.  48 49 Spadaro A.  67 201 202 260 Staglianò R.  60 Standing G.  35 60-63 Steiner G.  130 Stiglitz J.E.  60 Svetonio 165 Tacito 165 Tentori L.  67-70 72 74-78 80 81 83 8587 Teresa del Bambin Gesù  156 Theobald C.  133 153 154 161-163 183 187 Tiziano 127 Tocqueville A. de  49 75 Togni P.  259 Tolmie D.F.  178 182 Tolstoj L.  125-127 Tomasi M.  48 49 Tommasi R.  241 Tommaso d’Aquino  12 176 183 Toniolo A.  226 241 242 Torvalds L.  74 Trabattoni F.  128 Traets C.  165 Triani P.  221 222 227 230 235 236 Tronto J.C.  265 Turoldo D.M.  81 Valentini N.  221 Valera L.  259 Vespasiano  165 174 Vian G.M.  150 Viganò D.E.  67 Vignolo R.  119 122 161 Vitali D.  205 Walzer M.  100 Wittgenstein L.  235 Zaccaria 162 Zagrebelsky G.  50 Zerwick M.  172 Zimmermann R.  178 182 Zincone G.  95 Zini P.  237 Zuppi M.  7 11

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Presentazione Maurizio Marcheselli....................................................................... p. 5 Sezione introduttiva Evangelizzare nelle criticità dell’umano: teologia e prassi di misericordia. Introduzione al tema del Convegno Matteo Zuppi................................................................................... » 11 La teologia dell’evangelizzazione: traiettorie dalla nascita dello STAB all’oggi della FTER Erio Castellucci................................................................................ » 17 1. La Licenza in Teologia dell’Evangelizzazione a Bologna... » 17 2. Il fondamento cristologico della teologia dell’evangelizzazione..................................... » 20 3. L’orizzonte antropologico della teologia dell’evangelizzazione..................................... » 24 4. Il soggetto ecclesiale della teologia dell’evangelizzazione..................................... » 28 Bibliografia.................................................................................. » 32

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Parte prima Il contesto Una vita degna mediante il lavoro (Laudato si’ 128) Matteo Prodi..................................................................................... » 35 1. Il contesto di oggi: precarietà, disoccupazione, diseguaglianza........................................................................ » 35 1.1. Precarietà........................................................................ » 35 1.2. Disoccupazione............................................................... » 36 1.3. Diseguaglianza............................................................... » 38 2. Cosa ci ha portato a tutto questo........................................... » 39 2.1. Il neoliberismo: la nuova ragione del mondo costruita sulla concorrenza............................................ » 39 2.2. La dinamica perversa tra economia e politica.............. » 40 2.3. L’attuale economia produce solo ulteriori diseguaglianze................................................. » 42 2.4. Il potere e i poteri. La democrazia. A chi appartiene il potere.............................................. » 43 2.5. In economia un’antropologia dominante: l’homo oeconomicus....................................................... » 44 3. Abbiamo delle alternative? Occorre una rivoluzione.......... » 45 3.1. Un ritorno a Marx........................................................... » 46 3.2. Gramsci e il capitalismo americano.............................. » 47 3.3. Lonergan, non solo teologo............................................ » 48 3.4. La Costituzione italiana................................................. » 49 4. Ripartire dall’uomo................................................................. » 51 5. Traiettorie bibliche................................................................. » 54 5.1. Matteo 20........................................................................ » 54 5.2. Atti: i primi due sommari............................................... » 55 5.3. Seconda lettera ai Tessalonicesi 3,10............................ » 56 6. Il magistero di papa Francesco.............................................. » 57 7. Proposte concrete................................................................... » 59 7.1. Una vera riforma del lavoro........................................... » 60 7.2. Una fiscalità maggiormente progressiva...................... » 61 7.3. Una vera scuola, una vera università............................ » 62 7.4. Reddito minimo adeguato a una vita degna. Reddito di cittadinanza.................................................. » 63 8. Conclusione: cosa possiamo sperare..................................... » 63 8.1. Progresso, sviluppo......................................................... » 64 Bibliografia.................................................................................. » 64 Intervista virtuale a un uomo digitale Paolo Boschini con Luca Tentori..................................................... » 67 1. L’uomo digitale....................................................................... » 68 2. Il vangelo nell’era digitale..................................................... » 80 3. Conclusione............................................................................ » 87 Bibliografia.................................................................................. » 88

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Immigrazione e asilo oltre gli stereotipi: i dati contro i luoghi comuni

Maurizio Ambrosini......................................................................... » 91 1. Chi sono gli immigrati?.......................................................... » 93 2. Lo Stato-nazione e i suoi confini............................................ » 95 3. Migranti diversi: una crescente eterogeneità....................... » 100 4. Legami durevoli, appartenenze multiple.............................. » 103 5. Il caso dei rifugiati.................................................................. » 106 6. Oltre le apparenze: le ragioni delle migrazioni.................... » 109 Bibliografia.................................................................................. » 113 Parte seconda Il messaggio e lo stile La verità si trova al pozzo. Gesù e la donna di Samaria Enrico Casadei Garofani.................................................................. 1. Un dialogo tra equivoco e reticenza. La verità di due interlocutori................................................. 2. Un prolungato dialogo intertestuale..................................... 3. Dialogo come coerente strategia divina............................... Bibliografia.................................................................................. Verità e relazione Pier Luigi Cabri................................................................................ 1. Il dialogo al pozzo e l’incontro nel giardino......................... 2. Verità filosofica e verità scientifica....................................... 3. Verità intersoggettiva e verità partecipata........................... 4. Verità come relazione e testimonianza: Emmanuel Lévinas................................................................. 5. La verità del libro.................................................................... Bibliografia..................................................................................

» 117 » 118 » 122 » 123 » 124 » 125 » 126 » 128 » 131 » 133 » 139 » 140

Chiesa, «mondo riconciliato»: la dimensione comunitaria via e segno di umanizzazione

Mario Fini.......................................................................................... 1. Il concilio e il beato Paolo VI................................................. 2. La Chiesa nel pontificato di san Giovanni Paolo II.............. 3. La Chiesa: popolo di fratelli e sorelle nell’amore vicendevole e nel servizio degli ultimi.............. 4. Verso il pontificato di papa Francesco e il suo stile pastorale............................................................. 5. Per continuare il cammino per una fraternità universale.... Bibliografia..................................................................................

» 141 » 142 » 147 » 148 » 152 » 155 » 156

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La cura di un uomo ferito. «Io, che ero cieco, adesso ci vedo» (Gv 9,25) Maurizio Marcheselli....................................................................... 1. Chi è colui che Gesù incontra passando............................... 1.1. Figlio di Abramo e figlio di Adamo............................... 1.2. La condizione di cecità in Israele e nel mondo antico e le sue implicazioni socio-religiose............................. 1.3. Significato simbolico fondamentale della vista e della sua assenza......................................................... 1.4. Cos’è implicato in una cecità nativa............................. 2. La cura..................................................................................... 2.1. Le caratteristiche della terapia...................................... 2.2. Gli effetti della cura........................................................ 3. Conclusione............................................................................ Bibliografia..................................................................................

» 159 » 159 » 160 » 163 » 165 » 169 » 174 » 174 » 178 » 189 » 190

Parte terza Lo stile e il messaggio Segni di speranza nella storia: prospettive offerte dai recenti sinodi sulla famiglia

Massimo Cassani............................................................................. 1. La sinodalità/collegialità........................................................ 1.1. Significato e origine....................................................... 1.2. P  ostulati della sinodalità/collegialità: la parresia, l’ascolto umile, la fede nell’azione dello Spirito Santo....................................... 2. Il discernimento...................................................................... 2.1. L’ascolto.......................................................................... 2.2. L’accoglienza.................................................................. 2.3. L’accompagnamento...................................................... Bibliografia.................................................................................. Nuovo umanesimo e sfida educativa. Linee per un rinnovato rapporto tra evangelizzazione e educazione Luciano Luppi.................................................................................. Premessa..................................................................................... 1. Diffusa coscienza di un’emergenza educativa..................... 1.1. Educazione al bivio (1943) di Jacques Maritain........... 1.2. Il disagio di adolescenti e giovani: un segnale da non sottovalutare................................... 1.3. Un’emergenza trascurata e molteplici trasformazioni ambivalenti....................... 2. Le cause principali dell’emergenza educativa..................... 3. Ricostruire grammatiche educative più rispondenti per un rinnovato rapporto tra evangelizzazione e educazione.......................................

» 197 » 200 » 200 » 205 » 209 » 209 » 211 » 212 » 219

» 221 » 221 » 223 » 223 » 224 » 226 » 228 » 231

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3.1. Riscoprire il legame con il generare e il carattere testimoniale dell’educazione................... 3.2. Centralità della relazione educativa «io», «tu», «noi»............................................................. 3.3. Stretta connessione tra metodo e formazione della coscienza personale.............................................. 3.4. Iniziare alla vita nello Spirito......................................... 4. Lo stile educativo: per un’azione ecclesiale che evangelizzando educhi e educando evangelizzi.......... 4.1. Primo passo: partire dalla fede nella forza della Parola.................................................. 4.2. Secondo passo: iniziare al discernimento..................... 4.3. Terzo passo: incoraggiare all’autenticità come fedeltà creativa..................................................... 4.4. Quarto passo: comunicare la fede in forma narrativa........................................................... Bibliografia.................................................................................. «Ecologia umana»: una risorsa per evangelizzare l’umano Federico Badiali............................................................................... 1. Paolo VI: ecologia umana come igiene del cuore................ 2. Giovanni Paolo II: ecologia umana come qualità della vita sociale.............................................. 3. Benedetto XVI: ecologia umana come custodia della natura umana....................................... 4. Francesco: ecologia umana come lotta alla cultura dello scarto e all’individualismo........................ 5. Verso un bilancio: cos’è l’ecologia umana?.......................... 6. Ripensare il vangelo dell’uomo alla luce del magistero sull’ecologia umana................................................................ Bibliografia..................................................................................

» 231 » 233 » 235 » 236 » 238 » 239 » 240 » 241 » 241 » 243 » 245 » 246 » 249 » 252 » 255 » 258 » 261 » 266

Elenco degli autori.......................................................................... » 267 Indice dei nomi. ................................................................................. » 269

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