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Italian Pages 204 [202] Year 2014
Per Giovanni Pascoli nel primo centenario dalla morte Atti del Convegno di Studi Pascoliani Verona, 21-22 marzo 2012
a cura di Nadia Ebani
Edizioni ETS
www.edizioniets.com
Stampato con il contributo del Dipartimento di filologia, Letteratura e Linguistica dell'Università di Verona
© Copyright 2013 EDIZIONI ETS Piazza Carrara, 16 19, I 56126 Pisa info@ cdizionicts.com www.edizioniets.com
Distribuzione PDE, Via Tevere 54,1-50019 Sesto Fiorentino |Firenze] ISBN 978-884673824-0
Questo volume, come già il convegno, è dedicato alla nobilissima memoria di Guido Capovilla, insigne pascolista e incomparabile collega
Premessa
Il primo centenario della morte di Giovanni Pascoli è stato celebrato a Ve rona da una manifestazione promossa sinergicamente dall’Istituto Internazio nale per l’Opera e la Poesia (HOP), presieduto dal prof. Gianfranco De Bosio, dalla Biblioteca Civica, diretta dal dott. Agostino Contò e dall’Università di Verona. Dal 20 al 23 marzo 2012 si sono susseguite letture, proiezioni, docu mentari, incontri con poeti, un convegno. Di quest’ultimo, tenutosi nei giorni 21 e 22 marzo, si raccolgono ora in volume le relazioni, grazie al supporto eco nomico del Dipartimento di Filologia Letteratura e Linguistica dell’università veronese, cui fino a qualche mese fa afferivo. Dunque, al Dipartimento, all’intero corpo docente, alla segreteria e alle dott.sse Zanardi e Zacco, al direttore, prof. Guglielmo Bottari, va il mio più vivo ringraziamento. E ringrazio veramente di cuore i colleghi e amici, dai patriarchi degli studi pascoliani ai più giovani e valenti specialisti, per la sollecitudine con cui hanno risposto al mio invito, per l’amicizia con cui si sono intrattenuti a Verona nelle giornate del convegno e sopratutto per il portato della loro esperienza. Al dott. Nicola Catelli, che con grande sensibilità e premura mi ha affianca to nell’organizzazione del convegno, va la mia riconoscenza più profonda e amichevole. Nadia Ebani
Mito e inconscio nel Pascoli «conviviale» Giuseppe Nava
Il Mito, inteso come narrazione delle origini dell’umanità, e l’Inconscio, percepito come sedimentazione profonda dell’io, suscettibile di condizionare i comportamenti di tutta una vita, trovano il loro punto d’incontro nel proble ma delle origini, che assilla la fine Ottocento. Intorno a questo problema ruo tano le nuove scienze dell’antropologia e della psicanalisi: il Frazer del Ramo d'oro (1894) e il Freud dell’Interpretazione dei sogni (1898). Si studiano le ori gini della specie e le origini dell’io individuale: i loro incontri e le loro collisio ni. Scrive George Steiner nelle Grammatiche della creazione: «La ricerca [...] delle fonti iniziali della vita organica nella biologia molecolare ha una sua con troparte nell’esplorazione della psiche umana. Freud stesso preferiva il para gone con l’archeologia, con uno scavo metodico attraverso gli strati sovrappo sti della coscienza. Nel programma junghiano la psicologia del profondo cerca di andare ancora più in giù [...] Intuiamo che la preistoria della prima perso na singolare dell’organizzazione dell’ego, sia stata lunga e conflittuale»1. È la fine dell’antropologia poetica e filosofica, da Vico allo Schiller della Poesia ingenua e sentimentale ( 1795), a Hegel, e allo stesso Leopardi, che con cepiva la storia del genere umano come una successione di passaggi di fase ir reversibili e non comunicanti: dall’età degli eroi e dei poeti a quella dei filoso fi, dal bello al vero, dall’immaginazione alla ragione. Agli schemi filosofico-letterari subentrano le scienze: l’archeologia, la linguistica comparata, la storia delle religioni, l’antropologia dei miti e dei riti, la psicologia del profondo, che tutte sembrano concordare sulla sopravvivenza dell’antico nell’uomo moder no: una sopravvivenza che lo condiziona dall’interno nelle pulsioni e nei com portamenti, così come il bambino sopravvive nell’uomo e interferisce con la sua evoluzione adulta sotto forma di disturbi comportamentali, ritardi emotivi e vere e proprie regressioni. Scrive ancora George Steiner in Grammatiche del la creazione·. «L’autismo e la schizofrenia, come li conosciamo adesso, sono forse i vestigi di quell’evoluzione incerta, le tracce d’un inizio complesso - co me le radiazioni di fondo nella cosmologia»2. A un modello formale in sé concluso, proposto all’ammirazione e all’imita zione dei posteri, com’era nella tradizione classicistica fino a Carducci, suben tra nella modernità la centralità del rapporto tra le opere del passato e il sog getto che le interpreta. Quelle opere non sono più valori assoluti e atemporali, ma riacquistano senso in rapporto con i bisogni e i valori del soggetto inter1
Steiner, Grammatiche della creazione y Milano, Garzanti, 2003, p. 17. Ih /d c m .
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pretante. Non si tratta però di una pura soggettivazione dell’antico, ma della consapevolezza della distanza che intercorre ormai tra l’antico e noi: distanza che richiede una forte rimotivazione di quel mondo nella sua fruizione con temporanea. Scrive Renato Serra: «Io non ho il senso schietto, immediato, di retto del greco», e così motiva questa sua affermazione: «Dico che oggi il valo re morale della Grecia nella nostra cultura è profondamente cambiato: e se da qualche anno pare che la Grecia sia tornata di moda, questo non è già un ri torno, e neanche una continuazione: è un fatto nuovo»5. Per Pascoli non si tratta né di fruizione decorativa in senso liberty né di docta aemulatio in senso classicistico. Il mito corrisponde a una struttura archetipica dell’umano, e la sua tecnica narrativa al tempo circolare dell’eterna ripetizione, in sé perfetta e rassicurante, ma sempre più irrecuperabile nella modernità. Nei Poemi conviviali, - ma anche nei Primi poemetti, in particolare nel ciclo di Rigo e Rosa, come risulta evidente dagli abbozzi pubblicati nell’edizione cri tica di Francesca Nassi4, che ricollegano quel ciclo all’immagine omerica di Nausicaa, e al tema giovanile della «Reginella» -, Pascoli mira a rappresentare la fondazione nei classici greci delle strutture portanti della nostra psiche, co me egli la traguarda attraverso la sua esperienza. Le appercezioni originarie del dolore, della morte, dell’eros inibito costituiscono la materia prima di opere come La cetra d ’Achille, Anticlo, i Poemi di Ale e i Poemi di Psyche. Nella Cetra d'Achille l’eroe omerico, spogliato dei suoi tratti epici, è colto nell’«ultima not te», tra sogni e voci di morte, mentre suona la cetra per consolarsi del suo de stino con l’esercizio della poesia. È quell’Achille che Pascoli antologizzerà in Fior da fiore come «l’eroe del dolore», e di cui farà «l’eroe del dovere» nell’o monima poesia di Odi e inni, riprendendo uno spunto platonico: «Così Ome ro, in tempi feroci, a noi presenta nel più feroce degli eroi, cioè nel più vero e poetico, in Achille, un tipo di tal perfezione morale, che potè servire di model lo a Socrate, quando preferiva al male la morte»5. In tal modo Achille diventa nell’immaginario pascoliano una figura di sublimazione, in cui può riconoscer si l’io poetante. In Anticlo l’interdizione dell’eros si rovescia in sete di sangue: il divieto di Ulisse ad Anticlo di rispondere alla voce di Elena, che imita quella della sua donna lontana, scatena in lui una furia crudele: «gli nereggiava di grande ira il cuore; / e per tutto egli uccise, arse, distrusse»6. Quanto ai Poemi di Ate, sono dedicati ai miti morali di delitto e castigo, con i tre personaggi di Mecisteo omicida, della cortigiana infanticida Myrrhine e di Glauco reo di aver fatto morire di dolore la madre: tre luttuose fantasie di colpa e punizione in cui vengono in primo piano non la scelta morale, ma oscure pulsioni di ne gazione della vita fin dentro le sue stesse fonti, il rapporto madrefiglio prima e dopo la nascita. Infine nei Poemi di Psyche l’io poetante tende a risarcire col ' R. Serra, Intorno al modo di leggere i Greci, in Id., Scritti, a cura Ui G. De Robertis e A.Grilli, Firenze, Le Monnier, 1938, II, pp. 468-470. A G. Pascoli. Primi poemetti, a cura di Francesca Nassi, Bologna. Patron. 2011, p. 338 e sgg. 1 G. Pascoli, Il fanaidlinn, XI. in Id., Prose, a cura di Aujiusto Vicinelli, Milano. Mondadori, 1971, I, p. 31. 6 Cì. Pascoli, Anticlo, HI, 45-46, in Id., Poemi conviviali, a cura di Giuseppe Nava, Torino. Einaudi. 2008, p. 78.
M ito e inconscio nel Pascali «conviviale
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ricorso al mito la ferita immedicabile della morte: nella favola apuleiana di Amore e Psyche, recuperata nella sua valenza misterica e neoplatonica, e nella scena delle ultime ore di Socrate in carcere, sulla scorta del Fedone e di altri dialoghi platonici, Pascoli s’interroga ansiosamente sulla sorte dell’uomo dopo la morte, in una ricerca mai conclusa. Da un lato infatti il poema di Psyche, ri masto incompiuto il viaggio iniziatico della protagonista per troppa paura della morte, si chiude con l’angosciosa domanda: «O Psyche! O Psyche! Dove sei?», e il prospettarsi della possibilità d’una metamorfosi panteistica. Dall’al tro, nella Civetta, il sollevarsi in cielo, libero, dell’uccello notturno, in concomi tanza con la morte di Socrate - trasparente simbologia della sorte dell’anima in Platone - è accompagnato dal saluto augurale: «Con fortuna buona!». Nel Sonno di Odisseo, in cui Ulisse, immerso nel sonno, non rivede la patria tanto desiderata, che gli passa accanto inosservata, centrale è il tema, moder nissimo, dell’assenza del soggetto da una realtà sentita come da lui inafferrabi le e irreparabilmente «altra», tema reso con lo schema del «falso movimento», dell ’«immoto andare», già sperimentato nel Vischio. Ulisse, «tuffato il cuore [...] nel sonno», non vede i luoghi dell’isola né ode le voci che ne provengo no, come se la sua vita scorresse a lato della realtà senza mai coglierla. Sotto questo aspetto il Sonno di Odisseo richiama Alexandros, il poema della volontà eroica sospinta dal mito, che scopre con doloroso sgomento di affacciarsi sul nulla: «O squillo acuto, o spirito possente, / che passi in alto e gridi, che ti se gua! / ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente... / e il canto passa ed oltre noi dilegua -» 7. Qui il senso di vanità investe non solo la realtà, ma il mito stesso, che il poeta ha cercato come balsamo alla sua ferita: di conseguenza il recupero della Ring-Komposition non restituisce un senso alla realtà, si rivela solo un lenitivo passeggero, come lo è la poesia, e l’arte in genere, rispetto al «male di vivere». Il mito si scopre irrimediabilmente «vuoto». Ancora più mo derno, sempre nella direzione della scoperta del «mito vuoto», è il più lungo e complesso dei Poemi conviviali, l!ultimo viaggio, dove è posta esplicitamente la domanda identitaria che non ottiene risposta, in termini sorprendentemente analoghi al pirandelliano, e coevo, Il fu Mattia Pascal (1904). Alle Sirene, verso le quali è risospinto nel suo ripercorrere all’indietro le tappe della sua vita, e del poema che ne è il doppio narrativo, in un incrocio di racconto e di dimen sione metaletteraria, Odisseo pone ripetutamente la domanda di fondo sulla propria identità, perché accetta come inevitabile la morte ma vuol sapere il senso della propria vita, senza peraltro ricevere una risposta: «‘Solo mi resta un attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi sono io! chi ero!’ // E tra i due sco gli si spezzò la nave»8. Se L’ultimo viaggio sembra anticipare in un certo qual modo Pirandello, I vecchi di Ceo, costruito sul tema della senilità come appres samento alla morte, come metafora dell’impossibilità di un’adesione «natura le» alla vita, consuona con lo Svevo del romanzo omonimo. Se poi dall’incubo ossessivo della fine dell’esistenza individuale passiamo a quello apocalittico della fine del mondo, che turba i sonni della belle Epoque, Ci. Pascoli, Alexandras, IV, 7-10, in Id., Poemi conviviali, cit., pp. 323-324. (ì. Pascoli, llultìmo viaggio, XXIII, 53*55, in Id., Poemi conviviali, cit., p. 173.
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come simbolo di un’inquietudine profonda e diffusa sulla possibilità di durata di quella società di fronte ai conflitti tra imperialismi aU’estemo e all’inasprirsi della lotta di classe all’interno, troviamo Gog e Magog, su cui Pascoli scrive al De Bosis in una lettera dell’l 1 gennaio 1895: «Il titolo è Gog e Magog; il sog getto, due leggende sui Tartari fuse insieme; l’intenzione, un triste presenti mento sull’avvenire dell’umanità»9. E infatti il poema si chiude con la visione delle tribù di Gog e Magog, che s’avventano fameliche e belluine sul mondo civilizzato: dalle angosce della condizione umana in quanto necessariamente finita agli incubi d’un inconscio collettivo, che teme una prossima catastrofe della società circostante. All’interno dell’angoscia esistenziale per la condizio ne umana trova luogo, più specificamente, il destino di solitudine e di erranza del poeta, quale è raffigurato nel Cieco di Chio, in cui si dice, sulla scia di un passo omerico10, che al «cantor» «diede / la Musa un bene e, Deliàs, un ma le»; la gioia del canto e il dolore della solitudine. In questo senso le figure del l’aedo, del pellegrino, del mendico, del cieco, e persino dell’ebreo errante, fre quenti nella poesia e nelle carte del Pascoli, sono tutte proiezioni dell’io poe tante, all’insegna dell’orfanezza, dell’esilio dalla terra natia, del disagio econo mico e psicologico, della deprivazione della bellezza femminile. Non si può non rilevare la singolare convergenza del Pascoli «conviviale» con la visione pessimistica della Grecità di Nietzsche. Scrive Nietzsche nellaNascila della tra gedia (1974): «Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dovè porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dei olimpici»11. Nel complesso, le tre componenti della Grecità per Pascoli sono l’omerica, la platonica e la misterica. La prima, che ingloba anche Esiodo e i poeti lirici, come Saffo e Alceo, è una vera e propria riscoperta dell’arcaico come fonda mento della poesia di tutti i tempi. La seconda, mediata anche dalla lettura del le opere del filosofo spiritualista Francesco Acri, poggia sul dualismo invisibile / visibile, mondo delle essenze / mondo delle cose, dovere / realtà, ed ha una componente metaletteraria, - particolarmente evidente in Sileno, dove Pascoli riprende la concezione platonica dell’arte come forma ideale potenzialmente implicita nella materia, che lo scultore reca in atto -, ed una morale, come in Poemi di Psyche II, dove ci si interroga sulla sorte dell’anima in una specie di mimesi del Fedone platonico. Infine la terza risulta diffusa un po’ in tutti i Poe mi conviviali, con particolare riguardo ai Poemi di Psyche, come suggestione dei riti iniziatici, peraltro presente anche nei Carmina, e predominio dell ’inte resse per l’elemento dionisiaco della grecità rispetto all’apollineo, per seguire la celebre distinzione di Nietzsche: una grecità turbata e inquieta, ormai lonta na dai modelli di serenità, di decoro e di perfezione formale neoclassici.
9 G. Pascoli - A. De Bosis. O ( f g i o , a cura di M.L. Ghelli, Firenze, La Nuova Italia, 1998, p. 29. 10 Odissea, V ili. 62-64: «Intanto l’araldo arrivò guidando il gradito cantore, / che la musa amò molto, ma un bene e un male gli dava: / degli occhi lo fece privo e gli donò il dolce canto» (versione di Rosa Calzecchi Onesti, Torino. Einaudi, 1982). 11 F. Nietzsche, lai nasata della tragedia, Milano, Adelphi, 1978. p. 32.
Pascoli traduttore di Omero (e di altri)* Pier Vincenzo Mengaldo
Mio scopo principale è scorrere - non più di questo - le traduzioni pascoliane da Omero, ai cui exempla aggiungerò in qualche caso specimini del tradut tore da altri testi, non solo narrativi ma anche lirici e ‘comici’: infatti alcune co stanti del Pascoli omerista sono in realtà costanti di tutto il Pascoli traduttore. Incomincio con una specie, come si vedrà, di finzione, raggruppando rozza mente le filze dei miei spogli in due categorie, le soluzioni che ricalcano Ome ro e quelle che se ne staccano più o meno vistosamente. 1. La prima è rappresentata di fatto esclusivamente o quasi dalle formule epiche, che Pascoli in una nota di Sul limitare chiama «aggiunti ornativi». Dunque Achille è sempre «piè-rapido», o «piè-celere», perché - osservazione dello stesso Pascoli in una nota di Sul limitare - se così è in Omero così dev’es sere anche in italiano. Ettore invece ha varie qualificazioni, sempre aderenti mi pare alle omeriche, però talora è detto «Ettore Morte-d’eroi», da un originale che significa ‘massacratore d’uomini’, in una sola parola, dunque spingendo, tramite anche il costrutto ellittico e asindetico (e la lineetta), dall’attributo alla formula. A quelle di Achille se ne possono comunque accostare altre: Agamen none è «il signore» o simili «delle genti» e meglio, «il capo di molto paese»; Apollo è «il Saetta da lungi» o «Saetta-lontano» (ekatébolos), l’Alba ha sempre le dita di rosa, o è vestita di croco, Nettuno è «lo Scuoti-Ia-terra» o Io «Scuotiterra», Circe è «molt’erbe», sempre con accostamento asindetico (polufàrmakon), ecc.; e Carlo Magno nel brano dalla Chanson de Roland ha la barba bianca o fiorita. In questa direzione Pascoli può arrivare a tradurre Hellespónton con «mare di Helle» chiosando poi in nota «mare di stelle» (altrove però «Ellesponto»). E s’intende, per fare un caso, che ópa leirióessan, delle cicale, da altri tradotto con «voce fiorita» in Pascoli è «stridi di giglio». Ma in verità Pascoli in tutto questo è più realista del re. A parte il fatto che Achille figura in genere, tradizionalmente, come «Pelide», ma anche come Peleiade e Peleide, e Posidone può essere anche Posidaone, ecco intanto che mol to spesso Pascoli preferisce alla comoda soluzione «Atride» ecc. la più solen ne, e diciamo pure più epica, «figlio d’Atreo» (o «figlia di Brìseo»); e un ‘cava liere diventa due volte «guerreggiatore del carro», Afrodite aurea o d ’oro, Λ cose fatte leggo l'ottimo articolo di Marco Bianchi, che qualche anno fa sedeva nei banchi da·
' a n t i alla mia cattedra. Oltre il limitare l'Omero ‘adulto' di Giovanni Pascoli..., in «Studi pascoliani». "* 12011). pp. lo. che integra sostanziosamente il mio specie per il rapporto fra versioni e metrica «neoclassica».
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«fulgida d’oro», Hera dalla bianche braccia, «la Braccia di luce», la semplice Briseide dalla bella guancia si trasforma in B. «guancia fiorita» (come poi an che Criseide), soluzione che in una nota Pascoli appoggia significativamente a Boiardo; Ulisse dal grande ingegno diviene due volte «dalle molte accortezze», il piè-rapido Achille non è solo «figlio divino» o «nato da Dio» ma anche «nu trito dal cielo», il mare risonante si muta due volte in mare «dal molto sussur ro» (come anche in una versione da Archiloco); e quanto alla «dea, che ha passi di candida spuma» è Pascoli stesso a segnalarne l’eccezionaiità rispetto all’originale che vale ‘piedi d ’argento’. Siamo con questo esempio ai casi più interessanti. Il primo: in due luoghi le parole pteróenta, cioè ‘alate’ o se si vuo le ‘fugaci’, si trasformano epicamente in «parole che hanno ali / -e d’uccelli»; e qui è interessante osservare che nei Poemi conviviali due volte, una nella Cetra d'Achille e una in Antìclo, Pascoli adopera lo schietto omerismo «parole alate» e «voce alata», ma nel Sonno d'Odisseo ripete in sostanza la formula ampliata delle versioni omeriche: «parole simili ad uccelli» e nell’Ultimo viaggio la va ria, «e non senz’ali era la sua parola». Ancora: due volte l’asta dalla lunga om bra si capovolge, vorremmo dire con enallage simbolistica, in «la lunga ombra dell’asta» (ma in Antìclo, più omericamente, «le loro aste stridendo, / rigavano di lunghe ombre le fiamme»); le navi dipinte di rosso sono in Pascoli, antropo morficamente, le navi «dal minio alle guance», per non dire dei Pigmei qualifi cati con interpretatio come «uomini grossi-qual-pugno» (gr. pùgme ’pugno’), mentre l’alto, scosceso Lamo è reso con «Lamo, / Porte-Lontane» (l’attributo formulare è anche nel titolo del brano). Aggiungo qui che le porte Scee non sono mai tali in Pascoli ma sempre, eti mologicamente, «Sinistre», cioè occidentali, e che l’Hade è reso, ancora me diante un’interpretazione, con «lo Scuro», «l’Oscuro», «il Buio», «la casa del Buio», «l’Invisibile», e su ciò cade una nota di Sul limitare; così in una versio ne da Anacreonte «oh! la stanza dell’Oscuro come orrenda!» (da Tàrtaron). Credo che si possa dire tranquillamente che Pascoli, magari attraverso il gusto della precisazione lessicale di cui parleremo, vuol essere più omerico di Ome ro. E qui va menzionato almeno che una doratura di regalità epica viene anche dai tipi ‘toponimo più attributo articolato’, ovviamente assenti dal greco, come «Cilla, la sacra», «a Tebe, alla sacra città», «Ilio la ripida», «Ilio, la ricca di poggi», «Itaca, l’isola illustre», «Itaca, l’aspra di rupi», e soprattutto «Ed un monte vi sorge, / Nerito tremolo d’alberi, il nobile». E così nella Chanson de Roland «Durendal, la spada», antonomasticamente (frane, «r’espée»). Per quanto riguarda le altre filze delle mie schede, queste mostrano indiscu tibilmente che per tutto il resto (o per tutto quello che a me è parso significati vo) lo stile del traduttore si differenzia in modo sensibile da quello omerico. 2. In primo luogo è evidente una forte accentuazione dell’espressività. Le versioni omeriche di Pascoli (e non solo le omeriche, cfr. tra l’altro un brano di Archiloco, due di Fedro e il primo di Marziale, qui con «oh!» raddoppiato) sono invase da una vera scarlattina dell’interiezione «oh!», affiancata da qual che «ah!» e «ahi!», anche al di fuori di necessità veramente drammatiche: ad es. «Oh! rimasto pur fossi là presso i Feaci!»; e l’interiezione può pure essere
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reduplicata nello stesso sintassema: «Oh! me non pigli, oh! non mai», oppure insinuarsi come inciso: «Circe, oh!, m’adempi...». La copia delle interiezioni comporta spesso e volentieri, di seguito, frasi esclamative, che comunque bril lano per la loro frequenza come altrettanti salienti che movimentano la linea rità sintattica. P. es. il brano II dovere dell'eroe à&Wlliade conta 7 esclamative su 31 versi, e si può arrivare nello stesso poema al breve passo intitolato Giu ramento,, con 6 esclamative su soli 5 versi. E naturalmente le esclamative pos sono prender forza dalla loro stessa posizione, nonché funzione sintattica: po niamo «Questo diceva pregando, il bambino oh! bambino! ch’egli era», dopo inciso e prima di reduplicatio (e v. punto 3); «Oh! ch’egli era morto, il valente figliuol di Menetio! l’audace!»; «Senza pietà!» in frase nominale ellittica; «ed al mondo si battono intorno! / nudo!» in frase monorematica a inizio verso e dopo altra esclamativa; «Né mi tenere, per ben che mi vuoi, dal combattere! / Vano!», più o meno nelle condizioni dell’esempio precedente, sorta di epifrasi; «Ora te...un brulichìo mangerà, dopo saturi i cani, di vermi: / nudo!...» (v. appena sopra). E un normale legamento omerico con kai e kai diventa in Pa scoli «Fiumi, voi! Terra, tu!». Si confronti, fuori di Omero, con l’attacco del Prologo di Fedro, «Esempi! E tutto qui d'Esopo il genere!», da un tranquillo «Exemplis continetur Aesopi genus», o in una lassa della Chanson l’inserimen to di un inciso esclamativo, «(biasmo non vuole!)». 3. Un sovraccarico di espressività è procurato anche, secondo il ben ricono scibile stile pascoliano, dal gran numero di ripetizioni di tutti i tipi (cfr. alme no il bel saggio di Stussi). Geminazioni, come «vicino vicino», «davanti, da vanti il venir degli Achei», «piccina piccina», «Subito subito», «l’ultima, l’ulti ma volta» ecc. e perfino «tu, tu», «io, io», e poi «su su», «più, più». Redupli cazioni (spesso con funzione appositiva): «E ne sorrise il padre, e la madre onoranda sorrise», «il bambino, oh! bambino! ch’egli era», «lanciasi, e lanciasi in vano», «ed empì la sua anima d ’ira, / d ’ira selvaggia», «viene a vedere ed a piangere viene il suo figlio defunto», «una vigna, una molto fruttifera vigna», «i compagni... i compagni», con redditio, «un cratere d’argento, tutto d’argen to», «alla nera, alla concava nave» ecc. Chiaro che questa figura, oltre a raffor zare l’espressione e a spezzare o a ondulare la linea sintattica, che è un altro pascolismo firmato, esalta impressionisticamente il qualificante rispetto al qua lificato. Ora un’altro caso di redditio·. «Ma se lo sai! a che mai ragionarti, se lo sai!», e quindi una serie di accusativi dell’oggetto interno, derivationes, poliptoti ecc.: «parlò le parole», «vespe» - «vespaio», «misero misera», «donata di doni», «disserrati i serrami», «un odore odorava soave», «di quanti morti la morte» e tanti altri simili, mentre per le anafore mi accontenterò di segnalare quella triplice di Era a inizio di verso in Alla scoperta dall Odissea. E poi tutte le replicazioni meno strutturate come «gli eroi» «gli eroi», «azzurro» «azzur ro», «come fonte acqua nera, / come una fonte che versa acqua», tuttavia ru bricabile come anafora imperfetta più reduplicatio, «il cuore dolente» «dolen te nel cuore», «fiero dolore»-«fiero dolore», «per sempre»-«per sempre», «Dove» «dove» e cento altri esempi, raramente in corrispondenza di ripetizio01 omeriche. Basteranno pochi riscontri con le altre versioni, tanto il fenome-
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no nelle varie forme è comune al Pascoli ‘originale’: «ridere un riso» da Saffo e «pianti piangendo» da Archiloco, «già già» da Callimaco, «troppi versi fa; troppi!» e «Teseo voleva la morte e un premio di gloria voleva» da Catullo, «qui, qui» da Virgilio, «lo vedo: / quanto è mai che lo vedo» da Orazio satiro («iamdudum video»), due volte prega contro un solo priet dalla Chanson, o an che la formula pseudo-derivativa «si rammarica il mare» da Tennyson, infine da Hugo «Morte! Morte!» e «A morte! a morte», Guerra civile (l’espressione compare una sola volta in entrambi i contesti hugoliani), e nel Rospo «Nel dì che si velava, anche il fringuello / velava il canto», che riformula del tutto l’a lessandrino «L’oiseau baissait la voix dans le jour affaibli». 4. Evidentemente vanno rubricate fra le ripetizioni anche le rime e le epifo re: rare, come ci si attendeva, le prime, benché quando siano non lontane ma baciate e comunque vicine sia lecito sospettare l’intenzionalità (come in Iliade, Il messaggero, cuore : dolore o II dovere dell’eroe, genti: dolenti e ritorno: gior no). Ma molto più importante è il ruolo delle epifore, anche comparativamen te, dato che nelle altre versioni sono rarissime. Talora si assestano in forma ba ciata, oppure sono triplici, o anche possono moltiplicarsi in brani non brevi (ad es. Iliade, Il racconto di Achille-, Odissea, La predizione di Tiresia); e può pure accadere che si ripetano in fine verso interi sintassemi come «anelando le fossi marito» ripetuto a due versi di distanza in Odissea, Il racconto del naviga tore. Ma l’aspetto più interessante delle molte epifore (che raramente ne rical cano di omeriche come in Iliade, L’apparizione), è - a parte la loro funzione costruttiva, a vista - il fatto che per lo più esse concernano non parole qualsia si, ma parole-tema o parole-chiave del brano (che allora tendono a ripetersi anche all’interno). Ecco, limitandomi per ora all’Odissea, le epifore anche re plicate su mare o su compagni, su acqua, su loto, su Scuoti-la-terra, oltre benin teso a cuore. Ne L’erba moly è in epifora la parola-chiave Circe, signora del brano, come, ne 11pianto di morte, Achei. Questo ci riporta all'Iliade, dove la situazione è ancor più notevole. Fra le epifore significative (Saetta-da-lungi, Achei, guerreggiatore del carro, eroe, morte ecc.) spicca quella di Achille, non di rado anche parola-chiave, in tutta una serie di frammenti: I messi, L’urlo di Achille (epifora baciata), L’inseguimento selvaggio (anche Pelide), A fronte a fronte, La ferita mortale, Il sogno, Achille buono, e Pelide ne L'imbandigione, mentre ad es. in La diana d ’Achille alternano in fine verso quest’ultimo e Peli de·. e quando nél'Odissea si rievocheranno i funerali dell’eroe ancora emergerà l’epifora di Achille. Il fatto è che - come è ben noto - trascegliendo frammenti dall'Iliade Pascoli intendeva creare una vera e propria «Achilleide», dedicata aU’«eroe del dolore» (così nel titolo complessivo di Sul limitare), o per prende re titoli di brani singoli v. in particolare 11 dolore dell'eroe o Achille buono. Non solo, ma è utile notare subito che nella Cetra d ’Achille dei Conviviali il nome dell’eroe si situa in fine verso ben sei volte, di cui una in forma baciata a cavallo di lassa. Tuttavia l’esempio più flagrante è in una versione da Callima co, Dictyna: tre volte mirto in chiusa degli ultimi tre versi. Qui accosto, con qualche arbitrio, un’altra scarlattina delle versioni omeri che di Pascoli, quella del deittico ecco (e anche ed ecco, ecco che, e perfino ecco
Pascoli traduttore di Omero (e di altri)
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e(d)), in un caso anche all’inizio di brano che è pure inizio di canto, Iliade, Le due schiere. È come se questo segnale di oralità e di annuncio o prolessi visiva evidenziasse l’azione o un suo dettaglio, rilevandone l’importanza e novità nar rativa e rendendone il lettore, dopo il traduttore stesso, più strettamente par tecipe. S’avverta che il deittico, nelle sue varie posizioni e configurazioni, non è tuttavia meno frequente nelle altre versioni pascoliane. Ad es. nel primo te sto da Saffo «(i passeri)...eccoli! ecco che tu...», in Orazio «Dum loquimur» che diviene «Ecco, parliamo, e...», nella Chanson «Un sarracino ecco lo guar da e guarda» (orig. «ne cesse de le guetter», e v. sopra), in Guerra civile da Hugo «ed una donna, ecco, al colletto / l’afferrò». 5. D’altra parte ecco ha pure un sapore colloquiale, e come tale va assieme a tutti i tratti di colloquialità o senz’altro di parlato che Pascoli, secondo la sua poetica, distribuisce generosamente entro la trama di Omero, attualizzandolo frescamente. Mi sia permessa un’esemplificazione un po’ più ampia del solito, e non strutturata, che sarebbe impossibile: «Ma se lo sai!», «la Briseide» e «la sua madre», «Ma questi è migliore del padre!», «che non avrei, no, deposto la colle ra prima», «sciocchi che sono», «ma sì, la lor forza è bambina», «poi...poi...», «così come viene», «da me lo so io», «e via che...», «su via che...», «Ma via\», «Pensa e ripensa», «no che non andremo», «Sì, ma...», e via dicendo. E si pos sono aggiungere omologamente nel lessico ad es. parare ‘spingere avanti’, cam passimo, tocchi ‘pezzi’, ma’, nella morfosintassi «bimba che corre con mamma», faceva la nanna, gli era, giungevo come apodosi di periodo ipotetico, ‘sarei giun to’. A questi e ad altri esempi vari di stampo analogo si devono però affiancare tre costanti vere e proprie. La prima è il a' personalizzante-attualizzante col ver bo avere', poniamo «Non ci hanno colpa.. .ce n’ho colpa», «le pene che ci ho nel mio cuore», «ce n’ha colpa», e così molte altre volte (e sempre come nelle liri che: cfr. ad es. Canti di Castelvecchio, Casa mia 68 e 74). Quindi l’uso continuo del che ‘polivalente’, come in «e lo depose per terra [l’elmo], che intorno era tutto un barbaglio» oppure in «Non assentii però io, ché.. .che lui vedere io volea». E terzo il pronome anaforico o cataforico ridondante in frasi quali «come le navi e gli Achei tu li possa salvare», «che io Ettore divo lo resi», «tu lo crede vi...d’essere salvo», «Ma...perché stuzzicar/o quell’uomo selvaggio» ecc. E qui metto anche personalizzazioni del verbo come in «per liberar« la figlia» o «mi sperava il mio cuore nel petto». Dalle altre traduzioni cito modicamente anche perché buona parte degli esempi appartengono a versioni da testi, genericamen te parlando, ‘comici’ o realistici: dunque ad es. da Archiloco «un altro...che s ì/ eh era un gigante», da Callimaco sonnellino (come in un titolo dei Canti di Ca stelvecchio), da Orazio quel che vien viene e via!, dalla Batracomiomachia ma VUÌ· ma su..., da Fedro «Io, quanto a me» e «L’è morto il bimbo», da Marziale *